Mala tempora currunt

di swimmila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un rituale nascosto ***
Capitolo 2: *** Una cosa inaudita ***



Capitolo 1
*** Un rituale nascosto ***


Un rituale nascosto

Un chiacchiericcio sommesso. Una danza in parole che in punta di piedi rimbalza compita da bargigliuto sussiego a contegnoso piacere. Un fluire pacato di suoni ammorzati in velluto cremisi e in ori setosi. Farisaiche movenze ammantate di sobrio e irrigidite d’assisa.

Un trotto tranquillo. Una guida guardinga. La carrozza sussurra sul viale sterrato. Il canale scivola, come immobile nastro tirato.

Un percorso studiato. Una scelta snodata fra siepi compatte e un naviglio sodale. Un’attesa acquattata, un ruggito che attende impaziente il segnale.

Azzurra, la luce del sole. Bambagia, l’umore del cielo. Di altri il futuro, in ovattate parole. Di loro la morte, nella follia criminale.

Immobile, l’aria candita. Trainato, l’immobilismo in carrozza. Una foglia di insania nel vento della rivoluzione. Una mano innalzata. E a cassetta due figure accasciate.

Il trotto tranquillo. Ad un’insaputa deriva. Un proseguire cieco, sul cammino intrapreso. Una furia inconsulta e un balzo preciso.

Uno scatto imprevisto, un’intrusione improvvisa a fermare il volteggio. Un ghigno satanico riflesso nel vetro. Una gibigiana di fuoco. E nel vetro di nuovo il vuoto.

Un salto fulmineo, un segaligno boccone nelle acque propizie. A scorrere sangue, fra dita istintive. A bucare l’oscuro, con lo sguardo sgranato.

Un categorico nome, un futuro avvertito. Una qualunquistica mira, nella tramestata follia dell’agito.

§§§§§§

Il Generale Jarjayes giaceva irruente nel suo letto, attorniato da un corteggio di variegati affetti. Il dottore gli aveva fasciato ferite e favella ed era ormai prossimo al congedo. L’anziana governante inumidiva con stille di consolazione la batista merlettata del fazzoletto. André si muoveva solerte e impeccabile fra premura padronale e amore parentale. L’agitazione che gli sfarfallava nello stomaco, invece, era abituato a intabarrarla in una prossemica liturgia agli altri sconosciuta.

Quando aveva visto il Generale entrare sanguinolento a palazzo Jarjayes, sorretto per le braccia da puntelli in livrea, il suo respiro si era perso nella sincope e nei pensieri aveva trovato Oscar. In una frazione di secondo se l’era figurato morto, il Generale. In un brivido di orrore aveva immaginato Oscar condannata alla tantalizzante croce del rimorso per non essere stata presente nel momento del bisogno dell’uomo più determinante della sua vita. Questo, André, aveva pensato, mentre le nocche si contraevano a pugno e le unghie gli entravano nella carne. Mentre con voce artatamente pacata e appena percettibile impartiva lo stesso messaggio a galoppini diversi: uno per il Comandante della caserma dei soldati della Guardia Metropolitana, a Parigi; l’altro per la dama di compagnia di Sua Maestà la regina, a Versailles. Mentre il suo viso perfetto diventava vetroso per non sciogliersi di ansia; la mascella contratta graffiava l’aria; l’addome muscoloso si stazzonava di angoscia. Era rientrato prima di Oscar, quel pomeriggio, sospinto fuori dalla caserma da un turno di riposo. Avrebbe preferito aspettarla e tornare a casa insieme. Avrebbe voluto affrontare un nuovo tormentoso tramonto con lei silenziosa al suo fianco, spina lancinante di amore e dolore, mentre dalle froge dei cavalli usciva vapore di intima intesa. Invece era da solo ad impartire gli ordini affinché il Generale fosse condotto nel letto. Il dottore fosse mandato a chiamare. La servitù si sperticasse operosa a preparare acqua pulita e bende nettate. Era rimasto solo. Mentre le costole gli dolevano ancora per il pestaggio subito in caserma e il cuore sputava sangue raggrumato in una fricassea di raccapriccio e disperazione. Mentre indossava i paramenti del suo rituale tenuto agli altri nascosto.

In silenzio, il Generale lasciava che la competenza serafica del medico attorno alla sua ferita lo rimpannucciasse come una taumaturgica panacea. I pensieri, invece, gli esplodevano nella testa come la canna due volte derisa della pistola che lo aveva colpito di striscio. Aveva escluso di essere lui il vero obiettivo dell’attentato, che la morte del Generale Jarjayes non avrebbe arrecato vantaggio ad alcuna causa; ma i mandanti avevano frettolosamente affidato l’esecuzione a uno scalzacane che non si era preso la briga di mandare a memoria le fattezze della sua vittima, né si era riscattato come tiratore: che il proiettile lo aveva colpito in un punto ben lontano dalla morte. Si reputava un uomo fortunato, il Generale. Per essere ancora miracolosamente vivo. Per non essere ancora sua la testa ascritta nelle cospirazioni politiche che turbavano il Paese. Ma non si sentiva tranquillo. Seppure indossava altre mostrine che quelle del Generale supremo dell’esercito. Seppure era certamente stato scambiato per il Generale Bouillé che gli sedeva accanto. Lo ricordava bene lo sguardo allucinato di quel giovane assassino. Erano occhi, quelli, di chi non sottilizza fra connotati e gradi militari. Quel lampo era la luce esaltata di un millantato giustiziere che pesca nel mazzo di una classe sociale. Gli venne improvvisa la voglia di fumare la pipa, di aspirare fino al fondo dell’anima l’aroma sedativo e inebriante del suo tabacco preferito. Ma tutto quel solenne daffare attorno e su di sé lo aveva precipitato in un desueto abisso di peritanza che lo fece proseguire nel silenzio e nei pensieri.

Ripulita del sangue ingannevole, la ferita si era rivelata in tutta la sua sterile superficialità. André accompagnò il dottore alla porta, facendo ad ogni passo uscire dai polmoni l’aria stagnante che gli si era fermata nel petto. Sentì il Generale impartire imperioso l’ordine di preparargli qualcosa di caldo da bere; udì la propria voce indugiare con suoni sincopati in una impeccabile educazione. Oscar. Le sentiva infuriare sul proprio viso le sferzate di vento che smuoveva sul cavallo lanciato in corsa. Gli echeggiavano nelle orecchie le incitazioni furenti con cui patteggiava con César un galoppo furioso. Gli asciugava la gola l’aria che non le risaliva dal torace. Li sedava nella testa i pensieri che le polarizzavano la mente. Oscar. La sapeva arrivare. La sentiva gridare. La sudava sulla pelle. Gli batteva nel petto. Mentre il suo unico occhio risucchiava una luce che non traduceva in immagini e i suoi passi appaiati risuonavano nell’eco di una pacatezza speciosa. Oscar. Mentre risentiva il tacco dello stivale arrivargli nello stomaco bloccato da due paia di braccia da cui sapeva difendersi. Spappolato in un attimo dalle maramalde parole di sua nonna, che nel cortile della caserma lo aveva lasciato privo di vita. Mentre si ammantava degli ornamenti del suo cerimoniale agli altri sconosciuto.

Il Generale sprofondò nei cuscini e nell’inquietudine. Si era già arrivati a quel punto. Non era bastato quello scalcinato Robin Hood che rubava ai ricchi per distribuire ai poveri, oltre che agli sgherri al soldo di camarille rivoltose; ora bisognava pure temere di uscire per strada, che si stava diventando tutti bersagli mobili di effervescenti follie. Una cosa inaudita. Da Versailles giungeva una mollezza reale che stava rapidamente trascinando il Paese nel caos strisciante. Da palazzo Jarjayes si approntava la difesa di una figlia esposta ad inopinati pericoli dalla derisione degli eventi. Stava giusto parlando di Oscar con il Generale Bouillé, mentre insieme tornavano dalla reggia in carrozza. Mentre quel pazzo aspettava il momento per colpire. Organizzavano il matrimonio con cui il Generale aveva pensato di sottrarre sua figlia ai rischi ormai inaccettabili della vita militare. Alla pazzia del colpo di testa col quale lei aveva vanificato tutti i suoi sforzi e lasciato la Guardia Reale. Una cosa inaudita. Un divellere le radici della loro prestigiosa schiatta a cui lui non aveva potuto che assistere impotente. Un’arma a doppio taglio, quella figlia inedita. Un soldato impeccabile in autonomo pensiero. Inaudito. Aveva bisogno del suo sigaro, il Generale. Che quell’impiccione del medico era ormai andato via.

La porta si spalancò di orripilata irruenza. Apparve, Oscar, trafelata e ansimante, sudata e sconvolta, congelata in un’incredulità che non sapeva ancora se sciogliersi di sollievo o creparsi di dolore. Fu Marie ad indicarle la via. Quella stessa voce che pochi giorni prima aveva fermato il cuore del nipote nel loggiato nel cortile, accordava adesso nuova vita a quello della padrona, la sua bambina.

“La sua vita non è in pericolo, Oscar. Il proiettile non ha causato una ferita molto grave”. Le mani congiunte in deferenza ieratica, un pallido sorriso ad asciugare lacrime disperse in una timida gioia: una dispensatrice di vita e di morte, l’anziana governante.

E fu vita. A fuggire respinta dal respiro ansante di Oscar per tornare affannata nella liberazione di un pianto. Si accasciò a terra, sotto un peso sgravato, a sgorgare sollievo nell’incavo clemente di un palmo pietoso.

Toccò ad André, un morto in vita, allungare silenzioso un passo dietro l’altro. Offrirle l’anima in quella seta protesa. Sporgeva caldo l’amore dal suo sguardo calmo dietro una tempesta. Toccò al suo cuore, un’ostinazione pulsante in uno spirito estinto, raccogliere dolore da un viso affranto.

In ginocchio, Oscar sfogava per terra un’alleggerita paura. Poi. Una sensazione di ombra, un calore diffuso; dapprima un istinto e poi la certezza, nel suo campo visivo. Alzò lo sguardo, a cercare quegli occhi. Ci si tuffò dentro. Annegò di lacrime e di un doloroso tormento. Che dell’amore di André ne aveva ormai bisogno. Le attraversò l’anima, la sua dolcezza infinita adombrata di tristezza. Persino al di qua delle lacrime lo distingueva profondo e paziente e incrollabile l’amore su quel viso di cui non voleva più fare a meno. Che quell’uomo le era entrato nel sangue. Quei pensieri le erano usciti dal cuore. Quell’amore le era rimasto incastrato in gola.

André le stava davanti, in piedi, alla distanza sufficiente a una mano a sfiorare la sua. Nel tratto necessario a un fazzoletto per sciogliersi nel petto. Poche volte aveva visto Oscar singhiozzare a quel modo, senza inibizioni, sotto la sola urgenza della sincerità. Una di queste era stato a causa sua. Ma era passato. Una ferita ormai chiusa. Anche quelle del Generale si sarebbero presto fatte dimenticare. Si erano presi tutti un terribile spavento. Che da quando aveva memoria André non aveva mai visto quell’uomo malato, tantomeno ferito. Da quando aveva memoria, poche volte aveva visto Oscar sconvolta a quel modo. Ne aveva il cuore invaso dell’amore per il padre, André ne era certo. Anche se lei era abituata a tenerlo chiuso, il suo cuore. Agli altri nascosto. Non a lui. Che sapeva aprirglielo senza che lei se ne accorgesse. Come un ladro. Sapeva riempirglielo senza che lei lo sapesse. Come un dono.

Si aggrappò, Oscar, alla ferma pacatezza del viso di André per ricomporre il pianto in un sembiante disteso. Strinse il fazzoletto che lui le tendeva, fra dita mute di riconoscenza e inconfessabili pensieri. Le brillavano gli occhi. Di lacrime copiose e amore sfuggito. Mentre puliva la macchia della morte nella polla del sollievo. Mentre lasciava lo sguardo sul volto dell’uomo che voleva.

“Grazie, André. Ti ringrazio” Mentre dilavava nelle parole un impeto del cuore.
 

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Capitolo 2
*** Una cosa inaudita ***


Una cosa inaudita      

Il Generale sorrideva, dissimulando nella piega benevola delle labbra il turbamento che lo attanagliava. Oscar, ritrovata la sua silenziosa compostezza, si attardava al fianco del padre, restia ad uscire da quella stanza tappezzata di una prognosi rosea. Come se al di fuori, negli antri del palazzo, la attendessero le brume appiccicose dell’incertezza. Come se la certezza, lì fuori, avesse il volto della tragedia.

E poi, erano rari i momenti in cui i toni del Generale apparivano così rilassati, quasi stessero discorrendo di leziose vacuità. Nessuno, osservandoli senza udirli, avrebbe indovinato dalla distensione dei loro visi che le parole, invece, si attardavano attorno ad intenti assassini. Che pur tale rimaneva, quel gaglioffo incapace di uccidere un uomo a distanza ravvicinata. Pur criminale restava, una libera scelta in un’augusta prigione.

Giurava vendetta, Oscar, assicurandogli che avrebbe braccato il suo attentatore fino a fargli rimpiangere il suo imperdonabile ardire. Il Generale rispondeva affossando il suo fervore nell’incrollabile intento di saperla maritata e in un’alcova sicura. Della sua vita non gli importava, che ormai da un pezzo aveva superato la cima della gibba. Oscar, invece, era troppo giovane per scivolare giù dal crinale. Avrebbe voluto abbandonarsi a malinconiche nostalgie, quell’uomo scosso dal boato della paura. Cullarsi nel ricordo vibrante dell’eco sicura dei suoi tacchi graduati sul sontuoso impiantito di marmo venato; della rassicurante familiarità di tortuosi corridoi, dello scintillio affrescato di dorati salotti; del suono di un minuetto di Lully strimpellato incerto su un clavicembalo annoiato; del mormorio incessante del gioco perpetuo di pettegole fontane; della variopinta vividezza delle aiuole svelata da un sole spigoloso come le geometrie dei giardini. Ma indole e urgenza spazzarono incertezza e indugi da voce e pensieri: questo matrimonio il Generale doveva combinarlo al più presto. Che la Francia non era più la stessa.

Oscar non voleva contraddire suo padre, cagionandogli turbamenti non raccomandabili nel suo stato di salute. Asseriva convinto che non era lui l’obiettivo da colpire. Rideva leggero sorvolando su un episodio di gravità inaudita. Dal letto convalescente pensava al matrimonio della figlia, piuttosto che alle sue ferite. Avrebbe scomodato le Erinni per lui, quella figlia guerriera. Si accontentava di un’ara sacra e di un abito bianco, il padre stratega. Alla fine Oscar capì che il silenzio si sarebbe dimostrato più resiliente di qualunque diversiva esternazione. E tacque. Sull’inedita dolcezza del sorriso del Generale; sul suo sguardo errante in uno scorcio sponsale. Scese un oblio armato sul suo cuore di donna. Pianse nell’anima il suo amore sciupato da un tempo sbagliato.

Assorti ognuno nella propria disperazione, non si accorsero dell’arrivo di André. Oscar volgeva le spalle alla porta della stanza e il passo di André sapeva essere impercettibile sul pavimento. Un tocco leggiadro con cui avanzava, invisibile, senza che nessuno se ne accorgesse. Per poi d’improvviso ritrovarselo nel cuore, nelle vene, nella testa, nelle lacrime.

“Domani sera ci sarà quel ballo di cui ti ho parlato. Voglio che tu vi prenda parte.” Stava dicendo il Generale.

Sostava sotto l’uscio, fermo di morte vivente. Il vassoio in mano, la tisana fumante.

“Certo.” Assentì Oscar.

Gli implose dentro il petto, il cuore straziato da quella risposta bruciante.

André avrebbe voluto gettare per terra in un renitente fragore la porcellana di Sèvres in cui Marie aveva versato la sua obbedienza. Invece avanzò nella stanza, facendo tintinnare lievemente il coperchio della teiera. Depose tutto sul ripiano del mobile di legno lucido, sotto il quadro dai colori pastello che interrompeva l’azzurro della parete. Mentre i suoi gesti esplodevano di calma rabbiosa. Mentre i suoi pensieri articolavano epiteti irriguardosi. Che non gli sarebbe mai stato possibile opporsi con le parole a quell’idea balzana. Neanche Oscar aveva osato. Raccolse i cocci, dentro di sé, e si apprestò a fuggire da quella camera urente.

Il richiamo del Generale lo costrinse a voltarsi. Lo obbligò a sorridere. Gli piegò la voce in un risvolto di arrendevole subordinazione.

“André, devi assolutamente accompagnarla al ballo che sarà dato in suo onore, domani. Tutti i nobili di Versailles dovranno ammirare la nostra bellissima Madamigella Oscar”.

Suo padre si era sollevato sui cuscini, puntellando sui gomiti e sulle gambe l’impeto del suo ordine. Oscar non si era accorta della presenza di André. Lo aveva sentito nella voce del Generale. Lo aveva visto brillare negli occhi del padre. Si voltò di scatto, di nuovo col cuore a un galoppo furioso. E la vide, a pochi passi da lei. La distanza infinita che li separava. Sentì espandersi nel cuore uno sconfinato amore per l’uomo che il padre voleva l’accompagnasse a scegliersi il marito.

André la guardava. Per un attimo il suo occhio si dilatò in un guizzo. S’incontrarono nel dolore. Si rincorsero nel cuore. Si strozzarono di inebetite parole.

Lo vide morire, in quel bagliore disperato e composto. Si sentì mancare, nel suo cuore di moglie persino a lui nascosto. Che quel sentimento l’aveva sorpresa come pioggia al risveglio. Non gli aveva ancora trovato di che parole vestirlo. Era solo rimasta ad ascoltare, arresa, il suo discreto bisbiglio.

Una contrazione nella mascella. Un lampo negli occhi. Poi la resa obbediente. Il suo cuore avvezzo a vivere di niente. Nella voce una nota stanca, di sofferenza trita, di malinconia profonda, di assuefazione ribelle a un intimo dolore.

“Agli ordini, signore”.

Mentre si calava nei costumi nel suo rituale a tutti nascosto.

§§§§§§

Il valletto richiuse l’uscio sulla camera e sulle lacrime che incontenibili solcavano il volto del padrone.

Il Generale Jarjayes appariva minato nella sua determinazione, sfibrato nella sua energia, piegato nella volontà. Allungò una mano sul comodino accanto al letto, alla ricerca della sua tabacchiera. Iniziò il suo rituale. Accarezzò il legno laccato di rosso inciso con lo stemma del suo casato. Aprì lento il coperchio come su un disvelante segreto. Con mano tremante caricò la pipa in schiuma; pressò esperto il tabacco; tirò dalla cannella nivea; ne fu soddisfatto. Tirò ancora con ansia. Si calmò nella testa agitata. Le ferite si indignarono per tutta l’operazione di caricamento. Se lo sentiva addosso come una mignatta da salasso quel dannato buono a nulla che non sapeva uccidere ad un palmo di distanza, ch’eppure si arrogava la presunzione di manovrare le armi della ribellione.

Marguerite era già tornata a Versailles. Era giunta a palazzo Jarjayes a notte fonda. Il Generale dormiva già sulla sua inaudita giornata. Al risveglio, quella mattina, aveva trovato un premuroso biglietto con cui la consorte lo informava di averlo vegliato quasi tutta la notte. Poi, continuava nella vergatura, dopo un breve riposo era tornata ad intrattenere gli umori della sovrana, l’animo rinfrancato dalle sue non gravi condizioni. Sarebbe tornata a palazzo Jarjayes non appena i suoi impegni glielo avessero consentito, assicurava con la sua minuta e nervosa grafia, incaricando frattanto un corriere di tenerla quotidianamente al corrente sul suo stato di salute. Infine, gli lasciava un bacio e un paio di libri per scacciare la noia della convalescenza. Per rialzarsi dal suo stato ozioso come un Don Chisciotte della Francia.

Sul comodino lastronato in legno di palissandro intarsiato la tisana lasciata dal servitore aveva smesso di alitare aulenti sospiri. Con nuova irritazione delle sue ferite, il Generale si protese a prendere la tazza. Il fumo gli aveva seccato la gola. Il pianto gli aveva infiammato i polmoni. Gli avvenimenti delle ultime ore gli avevano incenerito lo spirito. Sorbì con raffinata bramosia il liquido ambrato, odoroso di more, maculato di malva. Quasi si strozzò nel trattenersi dallo sputarlo con disgustata violenza, che quella brodaglia era un imbevibile giulebbe. Quante volte doveva ricordarlo, a Marie, che tutto quello zucchero lui non lo voleva! Che tutto quello zucchero costava un sogno nella testa. E in quella Francia che correva, la testa pencolava e il sogno svaniva.

Oscar, gli era appena stato riportato, si era presentata in uniforme al ballo organizzato in suo onore. Aveva disatteso davanti a tutti un ordine di suo padre. Aveva imposto la sua volontà in aperta sfida con quella del Generale Jarjayes. Una cosa inaudita. Quasi quanto il suo starsene ferito nel letto a grondare un pianto sottomesso. Che non c’era altra definizione per quel suo giacere lì come un vigliacco accidioso invece di precipitarsi giù in salotto ad attendere quella figlia sventata. Che non c’era ragione alcuna per tremare al ricordo fremente del lampo che per un attimo aveva visto brillare nello sguardo di André. Non fu un brivido ad attraversagli la schiena. Ma il sussulto improvviso con cui Oscar si era voltata a guardarlo, quell’uomo tranquillo dagli occhi infuocati. Quell’uomo a cui, in un silenzio assordante, aveva detto qualcosa. Si era sentito rintronare, il Generale, in quel vuoto di parole. Per poi affrettarsi a darsi dello stupido, dopo quel sissignore.

Dello stupido. Sissignore. Qualche giorno prima, nel suo studio, Oscar gli aveva confessato in un soffio profumato di rosa che il suo cuore di donna si era innamorato. Lo aveva spiazzato, figlia imprevedibile, con quell’inattesa confessione; ma il Generale non aveva ritenuto necessario chiederle chi fosse quell’uomo. Che le regole del lignaggio sua figlia le conosceva bene. La sua uniforme, al ballo di questa sera, era solo apparente insubordinazione in un granitico senso del dovere. Senza dubbio eccezionale doveva essere l’uomo che era riuscito ad arrivare al cuore di sua figlia. Forse un impedimento lo aveva tenuto lontano dal ballo, questa sera. Forse per questo. Forse, Oscar. In quell’uniforme.
Un tremolio piegò la scia lineare del fumo della pipa in un mostro gibboso. La mano del Generale traballava di ferma illusione. Posò sul comodino la tazza con la stucchevole tisana quasi intatta e nel frettoloso impatto qualche goccia traboccò dal bordo per bagnare la carta profumata con cui Marguerite aveva preso congedo dalle sue coniugali apprensioni.

Mala tempora.

Negli occhi della mente gli balenò improvviso il lampo assatanato di un folle. Il barbaglio disperato di una follia.

Mala tempora currunt.

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