Makohon Saga - Eroi ribelli - Volume 11

di KiarettaScrittrice92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La partenza ***
Capitolo 2: *** Il viaggio ***
Capitolo 3: *** Le birre ***
Capitolo 4: *** I kwami ***
Capitolo 5: *** La trasformazione ***
Capitolo 6: *** I principianti ***
Capitolo 7: *** Il notiziario ***



Capitolo 1
*** La partenza ***


La partenza

14 Settembre 1968

Susan aveva sempre amato viaggiare, soprattutto in estate, fin da quando era piccola e i suoi genitori la portavano al mare; adorava osservare l’auto di suo padre macinare chilometri, mentre ascoltava la musica uscire fuori dall’autoradio. E adesso, che si trovava alla guida del suo pulmino rosso, con le mani sul volante e la canzone Connection dei Rolling Stons che suonava inondando l’abitacolo, si sentiva esattamente allo stesso modo di come accadeva allora.
L’unica differenza rispetto a quando andava al mare, era che adesso era da sola. Non c’era nessuno con lei a fare quel viaggio: nessun fratello che la torturava per avere il posto migliore, lontano dal sole; nessun genitore che guidava e che sgridava entrambi per quei battibecchi che provenivano dal sedile posteriore in cui si trovavano loro.
In realtà non sentiva affatto la mancanza dei suoi genitori: dal momento in cui l’avevano cacciata di casa non appena ebbe compiuto diciassette anni, lei aveva imparato a cavarsela da sola e aveva chiuso completamente ogni rapporto con loro. Invece con Michael, suo fratello, aveva ancora un bel legame, sebbene lo sentisse davvero poco, forse perché lui aveva una carriera ben avviata, mentre lei si trovava a fare la cameriera in un Fast Food, come ogni ragazza della sua età.
Il sole, quel giorno, picchiava talmente forte, che riusciva a vedere l’asfalto bagnato in lontananza per via dei miraggi.
Erano due giorni che viaggiava; la notte precedente, si era fermata in una stazione di servizio a Denver, dormendo all’interno del pulmino: d’altronde non poteva fare altrimenti, ci volevano all’incirca trentatré ore da Madison, dove viveva, fino a Hollywood.
Si aggiustò gli occhiali da sole con le lenti gialle sul naso, inclinando un po' il capo in modo da godersi l’aria che le sferzava il viso, passando dal finestrino aperto, su cui teneva il braccio appoggiato.
Da sempre, il viaggio verso Hollywood, era stato visto dalla maggior parte degli americani come la ricerca della possibilità di un lavoro nel mondo del cinema e dello spettacolo: quel classico sogno americano che tutti rincorrevano e che forse tutti avrebbero rincorso anche negli anni a venire.
Non era la fama che cercava, non le importava se la sua vita a Madison faceva schifo, perché faceva davvero schifo, o se i suoi genitori l’avevano praticamente ripudiata, non voleva cambiare lavoro o lasciarsi tutto alle spalle. No, quel suo viaggio dipendeva da altro; quel viaggio l’avrebbe portata dove voleva stare, con le persone con cui voleva stare. 
Non si sarebbe persa quel concerto per nulla al mondo e non perché amasse alla follia Jimi, ma perché adorava la sensazione di libertà ed euforia che si provava ad ogni suo concerto. Era sicura che lì, al Bowl di Hollywood, avrebbe trovato nuovi amici, nuove persone con cui fare conoscenza e con cui condividere quella sua passione sfrenata per la musica, la libertà e la vita senza pensieri o regole, e chissà, magari quel viaggio le avrebbe portato anche l’amore.
Si morse il labbro, immaginando quale ben di dio di fisici perfetti ci sarebbero stati lì, con ogni forma al posto giusto e il sudore dell’eccitazione che li rendeva ancora più invitanti. Scosse la testa, nel tentativo di scacciare quei pensieri, non che se ne vergognasse, ma non le sembrava il caso pensare a cose del genere mentre guidava. 
La radio si zittì per qualche secondo, per poi far partire una nuova canzone: nel sentire cos’era fece un gridolino compiaciuto.
«Oh, quanto adoro questa!» esclamò nel sentire le prime note, ruotando la manopola e alzando il volume.
«Well she's walking through the clouds, with a circus mind, that’s running wild. Butterflies and zebras and moonbeams and fairly tales…» cominciò a cantare, sopra la chitarra, suonata proprio da Jimi Hendrix, auto convincendosi che, sì, quel viaggio sarebbe stato davvero l’inizio di una nuova e indimenticabile avventura, seppur della breve durata di un paio di giorni.

 

«Martha! C’è Clover!» esclamò sua madre, dal piano di sotto.
«Falla salire!» rispose lei, mentre si osservava allo specchio, sistemandosi meglio i capelli biondissimi, sotto la fascia di cuoio che le circondava il capo e inclinava la testa per vedere come le stava il tutto. Poco dopo, dalla porta di camera sua, entrò l’amica.
«Mio dio, tesoro, sei meravigliosa!» fece, con quella sua voce vellutata, osservando il vestito completamente bianco che indossava.
Martha, a quel complimento sorrise allo specchio, voltandosi e valutando anche lei com’era vestita l’amica. Indossava un paio di pantaloni a zampa di elefante color caramello, scamosciati, tenuti da un cinturone in pelle marrone sui bordi, mentre dentro era cucito a mano con una fantasia a fiori. Infine sopra indossava quello che sapeva essere il suo poncho preferito, quello a fantasia rossa e verde, sempre floreale, che aveva le maniche larghissime e che si chiudeva a camicetta appena sotto il collo, mentre per coprirsi il petto aveva optato per un appariscente reggiseno a piastre di metallo che emanava riflessi ovunque.
«Beh, nemmeno tu scherzi. Amo il tuo stile!» si complimentò, sistemandole la frangetta, con un gesto decisamente troppo gentile e delicato.
Clover la guardò con un sorriso.
«Tesoro, ti ricordo che la tua amica qui presente è etero. – la prese in giro, parlando di sé in terza persona – E non vede l’ora di trovare qualche bel manzo al concerto.» concluse, leccandosi le labbra. A quel commento la bionda scoppiò a ridere.
«Come se Cory non fosse mai esistito?» le domandò cercando di riprendere il controllo della sua voce, che per via dell’ilarità di quella frase aveva ottenuto un timbro singhiozzante.
«Cory? Chi è Cory? Ah sì, quell’idiota che se n’è andato con la prima che gli ha offerto un po’ di erba buona… No, non me ne frega nulla di Cory.» rispose lei, scostandosi i capelli di lato con un gesto plateale.
«E allora andiamo, amica mia, Jimi Hendrix ci aspetta!» esclamò lei, afferrando la borsa blu cielo e mettendosela in spalla.
«Hai preso tutto?» domandò Clover, lei rispose solo con un cenno di testa e uno sguardo d’intesa, poi entrambe scesero le scale.
«Mamma, allora me la presti la macchina per andare?»
«Non la mia. – rispose la donna a cui si era rivolta, comparendo dalla cucina – Mi serve per andare a lavoro domani mattina e non credo che voi due tornerete entro stasera. Prendi quella di tua madre, e stai attenta a non rigarla!» aggiunse, raccomandandosi.
«Va bene. – rispose lei, afferrando le chiavi dell’Impala dal mobiletto all’ingresso e uscendo poi di casa – Ci vediamo domani!» salutò e, dopo aver ottenuto la risposta, chiuse la porta alle sue spalle.
«Credo di non avertelo mai chiesto, ma come accidenti fai quando sono tutte e due in casa?» domandò Clover, dirigendosi verso l’auto verde menta che si trovava parcheggiata poco più in là.
«Intendi per chiamarle?» domandò divertita Martha, era una domanda che le avevano fatto spesso molti suoi compagni di classe al liceo.
«Sì, insomma. Se le chiami mamma, non rispondono entrambe?»
«Quasi sempre. Però non è mai stato un grosso problema, insomma non abbiamo segreti tra di noi, quindi posso parlare con entrambe di tutto e anche se parlo con una sola, poi questa va sempre a riferirlo all’altra.» spiegò lei, aprendo la portiera dell’auto e infilandosi nel posto del guidatore.
«Bene ci siamo… – fece Clover, mettendo entrambe le borse nel sedile posteriore – Tra meno di un’ora saremo al Bowl di Hollywood a bere birra ghiacciata e a cantare a squarciagola!»
Un sorriso serafico, quasi malizioso, si dipinse sul volto dolce e innocente di Martha, poi girò la chiave, mettendo in moto la macchina, ingranò la prima e premette l’acceleratore.

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Capitolo 2
*** Il viaggio ***


Il viaggio

14 Settembre 1968

It's not unusual di Tom Jones, suonava dalla radio di camera sua, mentre lei ballava frenetica andando a ritmo. Come vestiti aveva optato per un semplice abito verde acqua e bianco cucito tutto a mano che le arrivava fino a metà delle cosce, sopra vi aveva messo una cintura turchese, intonandosi perfettamente al suo caschetto mosso che aveva il colore del mare limpido. Doveva ancora decidere quali occhiali indossare e soprattutto cosa mettersi in testa.
Nicoletta continuava a muoversi, provando un paio di occhiali dopo l’altro, finché non li scelse, la montatura tonda e le lenti celesti, perfetti. Prese dal cassetto un foulard nero roteandolo sulla testa per poi metterselo, facendolo passare sotto l’attaccatura dei capelli e annodandolo sopra come un fiocco.
Riprese con l’indice e il pollice il mozzicone che ancora le era rimasto portandoselo alle labbra colorate di un blu intenso, aspirò un lungo tiro: percependo il fumo in bocca e l’effetto dell’erba che le inondava il cervello, dandole ancora più allegria.
Mosse la testa ciondolando e guardandosi allo specchio, per poi buttare fuori il fumo. Afferrò il porta sigarette in metallo dentro cui aveva infilato tutto il suo faticoso lavoro della mattina e lo infilò in borsa, per poi uscire dalla camera, mentre faceva un altro tiro, senza accorgersi di aver lasciato la radio accesa.

 

Jack ruotò un po’ la manopola dell’acceleratore della sua Honda CB750, se l’era fatta portare direttamente dal Giappone alla sua uscita e da quel giorno non se ne era più separato; come d’altronde non si separava dalla sua Lucille, che in quel momento aveva alle spalle.
Il loro obbiettivo, arrivare il prima possibile all’Hollywood Bowl per l’ennesimo concerto del suo idolo: era già il terzo che andava a vedere, eppure aveva la stessa adrenalina e la stessa eccitazione che avrebbe avuto fosse stato il primo. Amava quell’uomo di colore con i ricci ribelli tipici della sua gente, ma più di tutto, adorava come riusciva a suonare la chitarra. Nessuno, prima di lui, aveva dimostrato un talento così innato per il rock, nessuno aveva mai avuto un’affinità così incredibile con quello strumento, tanto da fare assoli da paura in cui muoveva le dita a una velocità incredibile.
Jack sperava davvero che un giorno avrebbe avuto la stessa affinità con Lucille, che riuscisse a suonarla a quel modo, nonostante lei fosse una chitarra acustica, mentre quelle di Jimi Hendrix, quelle che solitamente frantumava contro il pavimento a fine concerto, erano tutte elettriche. Quanto avrebbe voluto una chitarra elettrica, certo, non avrebbe potuto suonarla quando era fuori, ma era sicuro che con il suo talento se la sarebbe cavata alla grande.

 

«Ciao ma’… Io esco!» disse il ragazzo, aprendo la porta della roulotte in cui viveva insieme a lei.
«Ciao tesoro, mi raccomando, divertiti.» rispose la madre, praticamente biascicando, mentre prendeva l’ennesimo tiro dalla canna che aveva tra le dita.
Justin scosse la testa e chiuse la porta, infilando entrambe le mani nelle tasche dei suoi jeans neri. Non si portava nulla, in fin dei conti gli bastava avere un pacchetto di sigarette, l’accendino e soprattutto la bandana di suo padre. Quella che si metteva ogni mattina in testa e che ormai da rossa che era una volta, era diventata di uno strano color bordeaux, slavato. Non usciva mai senza e la lavava lui stesso una volta a settimana nei periodi freddi e ogni sera quando faceva troppo caldo.
Si sarebbe piazzato sul ciglio della 101 ad attendere qualcuno a cui chiedere un passaggio; in fin dei conti Hollywood era a solo un’ora e mezza di macchina da Santa Barbara.
Arrivato, attese tranquillamente che qualche auto passasse, tirando fuori una sigaretta e accedendosela. Dovettero passare trenta minuti e almeno una ventina di auto, prima che qualcuno accettasse quel suo pollice alzato e si fermasse, accostando proprio di fianco a lui: era una Dodge Charger rossa, la riconobbe perché un suo amico ne aveva una uguale.
Il ragazzo all’interno abbassò il finestrino girando la manovella.
«Ehilà, hai bisogno di un passaggio amico?» domandò.
Justin lo guardò per un attimo: capelli metà biondi e metà rosa, raccolti in un codino sulla nuca, aria tranquilla. 
«Sì grazie.» rispose appena gli sembrò di potersi fidare.
«Avanti sali!» lo incitò e lui fece il giro dell’auto, passando da davanti e mettendosi dal lato del passeggero.
«Dove vai di bello?» gli domandò, ingranando la marcia e pestando l’acceleratore.
«Hollywood…» rispose appena lui.
«Oh, fantastico, anche io! Non dirmi che anche tu stai per andare al concerto del secolo.» fece il ragazzo eccitato, leccandosi le labbra.
«Ah, ah… – rispose appena lui – Senti posso fumare?» domandò poi, infilando la mano nella tasca del jeans e serrandola sul pacchetto di sigarette.
«Certo!» confermò tranquillamente lui. Il ragazzo allora lo tirò fuori, assieme all’accendino e fece il primo tiro.
«Nazionali eh? – chiese il guidatore, osservando il pacchetto – Io ormai me le giro le sigarette.»
«Nel senso che fumi erba?»
«No, no. Tabacco normale, solo odio il sapore delle sigarette già fatte.»
«Capito.» rispose infine lui, facendo un tiro e soffiando il fumo fuori dal finestrino semi aperto.
«A proposito, io sono Christopher!» disse il mezzo biondo, porgendogli la mano destra e tenendo il volante con l’altra.
«Justin.» rispose lui stringendogliela.

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Capitolo 3
*** Le birre ***


Le birre

14 Settembre 1968

Il Bowl era praticamente pieno, c’erano davvero pochi posti liberi ormai, e il caos regnava sovrano. Eppure a Susan non dispiaceva affatto quell’atmosfera, anzi la elettrizzava ancora di più: vedere migliaia di ragazzi e ragazze, per la maggior parte della sua età, eccitati come lei nel trovarsi lì a quello che sarebbe stato un evento unico. Non era il primo e sicuramente non sarebbe stato nemmeno l’unico concerto di Hendrix, eppure Hollywood aveva attirato persone da ogni dove, lei compresa che, vivendo a Madison, in quel momento era parecchio lontana da casa, ben 1.981 miglia.
I suoi intensi occhi azzurri si guardavano intorno con bramosia, intenti a catturare ogni piccolo dettaglio e imprimerselo nella mente, fino a che non incrociò lo sguardo con una ragazza, che stava scendendo gli scalini della gradinata, avvicinandosi proprio nella sua direzione e in un attimo la sua attenzione si calamitò su di lei. Era una bellissima ragazza, i lunghi capelli biondi, circondati da una coroncina di fiori bianchi che si abbinavano perfettamente al semplice abito che indossava.
Per un caso fortuito o semplicemente per destino, arrivò proprio di fianco a lei.
«Oh bene, ecco i nostri posti. – disse, persino la sua voce era dolce e aggraziata – Clover, muoviti!» continuò, facendo cenno a un’altra ragazza che era rimasta un po’ indietro. Al contrario dell’amica era vestita in modo più eccentrico e vistoso, ma anche lei era particolarmente carina.
«Chissà se riuscirò ad accalappiare qualche bell’imbusto.» disse non appena arrivò, leccandosi le labbra e guardandosi intorno. A Susan scappò un sorriso, che non sfuggì alla ragazza che aveva appena parlato.
«Ehi ciao!» disse subito, rivolgendosi a lei, che sorpresa si voltò nuovamente verso le due ragazze, come non si aspettasse quell’approccio.
«Ciao…» rispose, non sapendo che altro dire.
«Come ti chiami?» domandò nuovamente, facendo voltare verso di lei anche la bionda che si era appena seduta proprio tra loro due.
«Susan.» rispose la rossa, con un leggero sorriso.
«Piacere Susan, noi siamo Clover…»
«…e Martha.» si presentò finalmente la ragazza che aveva attirato la sua attenzione.
«Felice di conoscervi.»
«Wow, è incredibile… Ancora non ci credo che siamo qui. – disse la ragazza guardandosi attorno, per poi rivolgersi alla sua amica – Clover, mi passi una birra? Dobbiamo festeggiare questo momento…»
Lei però non la stava più calcolando, era voltata verso il posto alle sue spalle, con le braccia appoggiate sullo schienale del sedile e stava parlando con un ragazzo di qualche anno più grande di loro, con un fisico ben impostato i capelli scuri in una perfetta permanente e intesi occhi verde scuro.
«Ehi ciao… Sei proprio bravo a suonare la chitarra.» gli disse, interrompendolo nell’atto. Lui alzò lo sguardo dallo strumento, posandolo su di lei.
«Grazie.» le rispose con un sorriso.
«È il tuo primo concerto?» chiese, cercando di attaccare bottone, ma a quella domanda lui scoppiò in una risata divertita.
«No… direi proprio di no. Di Hendrix sarà almeno il decimo. È il mio idolo!» disse, continuando a mantenere quel sorriso.
«Anche a me piace un sacco, però è la prima volta che riesco a venirlo a vedere, abito a solo un ora da qui.»
«Allora sono sicuro ti piacerà. L’atmosfera che si respira ai suoi concerti è unica!»
«Oh, puoi ben dirlo baby, i concerti di Jimi sono i migliori!» cinguettò una ragazza di fianco a lui.
Susan si voltò verso di lei, domandandosi come aveva fatto a non notarla. Aveva degli appariscenti capelli a caschetto color verde acqua e un abbigliamento particolarmente eccentrico, in pendant con la sua capigliatura, certo non eccentrico come l’altra, che imperterrita continuava ad osservare il ragazzo, come non fosse successo nulla.
«Che sciocca, non mi sono presentata. Io sono Clover.»
«Jack» rispose lui.
«Clover, me la vuoi dare questa birra o no?» insistette la bionda, facendola voltare con uno sbuffo.
«Sei noiosa lo sai?» protestò lei.
«Ho anche io delle birre se volete, ne ho portate un bel po’ in prospettiva del concerto, perciò… – fece allora la rossa, alzando le spalle in un gesto innocente – Insomma credo che il modo migliore per farsi buoni amici sia offrendogli una birra.»
«Uh, posso averne una anche io, honey?» domandò con la sua voce acuta e dolce, la ragazza dai capelli turchesi.
«Certo!» rispose con un sorriso lei, aprendo il grosso bauletto che aveva davanti ai piedi e iniziando a tirare fuori le bottiglie di vetro, stappandole una per una con l’apribottiglie e offrendole a tutti.
«Grazie!» le sorrise la bionda, ricevendo la sua e subito Susan di ritrovò a pensare che aveva davvero un bellissimo sorriso.
«Le volete anche voi?» domandò poi la ragazza, tornando in sé e rivolgendosi ai due ragazzi che invece stavano nei posti subito sotto di loro.
«Cosa? Oh no, grazie…» fece uno dei due, che indossava una sgualcita bandana in testa, scuotendo le mani.
«Oh avanti Justin, se una bella ragazza ti offre della birra devi accettarla!» lo incoraggiò quello di fianco a lui, prendendo entrambe le bottiglie e passandogliene una.
«Chissà… Forse questo potrebbe essere l’inizio di un avventura assieme…» commentò Martha, osservando uno ad uno i ragazzi che tenevano in mano la birra e fermandosi poi su colei che l’aveva offerta a tutti, che le sorrideva contenta.
«Al nostro futuro allora!» fece la ragazza coi capelli colorati, alzando la bottiglia al cielo e sospingendola un po’ verso di loro.
«Al nostro futuro!» fecero, uno a uno gli altri, scontrando tra di loro i recipienti di vetro.

 

Fu Miyagi era seduto in una delle tribune laterali.
Quando si rese conto di dover agire, per la prima volta, come vero e proprio custode dei Miraculous si era sentito eccitato e preoccupato allo stesso tempo. Era da appena tre anni che gestiva da solo quella grossa responsabilità, tre anni in cui aveva custodito con cura e dedizione lo scrigno e il libro. 
Ora però una minaccia si avvicinava: non sapeva con esattezza quale, ma come gli aveva insegnato il suo maestro Michelle, a Londra, aveva percepito una grossa presenza malvagia che pian piano si stava accumulando in particolar modo in America. Per questo motivo era partito, imbarcandosi in nave diretto verso quelle che ormai da parecchi anni non erano più definite le nuove terre. 
L’istinto o la curiosità poi, l’avevano portato lì, al Bowl di Hollywood, in cui tra qualche ora si sarebbe tenuto il concerto di Jimi Hendrix. Era sempre stato un giovane amante della vita sfrenata e dell’avventura e nonostante i suoi doveri da custode non aveva mai rinunciato a qualche piacere; per questo motivo aveva deciso di recarsi lì.
Proprio in quel momento, però, nell’attesa che l’immensa folla prendesse posto e che si facesse l’orario dell’inizio del concerto, li notò: qualche tribuna più in là, un anello più sotto, sette ragazzi stavano brindando, sui loro visi vedeva chiara la determinazione di coloro che cercano risposte e forse un nuovo inizio.
Loro sarebbero stati perfetti. Sorrise, accarezzando, quasi con affetto, la borsa che aveva al collo e che conteneva il prezioso scrigno.

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Capitolo 4
*** I kwami ***


I kwami

15 Settembre 1968

A concerto finito i ragazzi si separarono. Ripartire a quell’ora era una pessima idea, non solo per l’ora tarda, ma anche perché sarebbero sicuramente rimasti imbottigliati nel traffico di tutta la gente che abbandonava il Bowl. 
Decisero perciò di passare la notte nei propri mezzi, per poi ritrovarsi la mattina dopo a fare colazione e magari chiacchierare per conoscersi meglio. Non che durante il concerto non avessero già stretto amicizia, dopo quella birra era stato un continuo ridere, scherzare, cantare a squarciagola insieme, rimanere incantati dal giovane uomo di colore che faceva bella mostra di sé sul palco, soprattutto quando si portò la chitarra di fronte al viso e cominciò a suonare con la lingua.
Era quasi incredibile come avessero legato in quelle poche ore, ma forse non così tanto; in concerti del genere era difficile non farsi coinvolgere o non arrivare al punto di uscire completamente di testa dallo sballo. Spesso c’erano ragazzi talmente strafatti che erano capaci di denudarsi e fare sesso durante il concerto con il primo che gli capitava a tiro.
Non era stato il loro caso, ovviamente, anche se Nicoletta, la ragazza coi capelli turchesi, aveva condiviso con l’oro la sua erba, dicendo che dovevano assolutamente provarla. Solo il ragazzo con la bandana si rifiutò categoricamente di provare anche solo un tiro, dicendo che a lui sarebbe bastata la sigaretta.
Fu proprio in quel momento, nel cuore della notte, che il giovane custode agì, lasciando tutti e sette i cofanetti. Tra una canzone e l’altra del concerto li aveva osservati e aveva deciso come disporre le cose. In realtà non era sicuro che le sue scelte fossero giuste, ma poco importava; il pericolo era imminente e l’America, presto, avrebbe avuto bisogno di loro.

 

Il giorno dopo, come si erano promessi, si ritrovarono davanti al furgoncino di Susan, che, essendo parecchio mattiniera, aveva già acceso un piccolo falò in modo da poter scaldare l’aria gelida attorno.
«Wow Su, è fantastico il tuo furgone!» esclamò Martha raggiungendo il gruppo, lei e Clover furono le ultime a svegliarsi e raggiungere il falò.
«Grazie.» sorrise lei.
«Ragazzi non so voi, ma io sto morendo di fame.» brontolò l’altra ragazza, che era vestita in modo leggermente più sobrio della sera prima.
«Facciamo un resoconto di ciò che abbiamo da mangiare.» propose allora Christopher tranquillamente, aprendo il suo zaino.
Fu in quel momento che accadde: ognuno di loro, con un aria un po’ dubbiosa e corrucciata, tirò fuori un piccolo cofanetto nero, dalle rifiniture rosse. Chi dalla tasca, chi dalla borsa, chi dallo zaino.
«Ma che cosa…?»
«Ragazzi, ma che sono?»
«Ah, boh, non ne ho idea.»
«Oh, andiamo – intervenne Clover, a quei commenti stupiti – è sicuro che qualcuno di noi ha voluto fare un regalo a tutti, tipo braccialetto dell’amicizia o una cazzata simile!» subito dopo ci fu un susseguirsi di negazioni, convincendo anche lei sul fatto che nessuno aveva fatto regali a nessuno.
«Beh, che stiamo aspettando? Apriamole, no?» fece Nicoletta raggiante e curiosa.
«Okay, al mio tre le apriamo – suggerì quindi Susan – Uno… due… tre…»

 

A pochi metri di distanza, Fu osservava la scena stupito: sul serio quei sette incoscienti stavano per aprire i cofanetti dei Miraculous tutti assieme. Sorrise, scuotendo la testa, in fin dei conti era una loro decisione, magari sarebbe stato utile per renderli una vera squadra fin da subito. Lui, il suo compito l’aveva fatto, ora spettava solo a loro.

 

I sette ragazzi furono abbagliati, ognuno da una luce diversa che proveniva dai loro cofanetti, alcuni per la paura lasciarono cadere la scatola, da quella luce poi apparvero sette creaturine dai colori e dalle forme strane.
«Ragazzi o la canna di ieri sta facendo ancora effetto oppure sono completamente impazzito…» commentò il motociclista, con gli occhi sgranati.
«Amico, se stai vedendo sette cosi che svolazzano non credo sia la canna, perché li vedo anche io.»
«Coso lo dici a qualcun altro!» fece arrabbiato uno degli esserini.
«Plagg calmati.» lo riproverò un’altra, che sembrava avere la voce più femminile.
«Oh, ragazzi… Ho capito! – esclamò a quel punto la ragazza dai capelli turchesi – È una di quelle allucinazioni di gruppo, stiamo vedendo gli elfi della foresta.»
«Quale foresta Nicky, siamo in città, vicino al Bowl, non c’è nessuna foresta!» protestò il ragazzo con le punte dei capelli dello stesso colore dei suoi, solo più slavati, come se ormai si stessero stingendo.
«Non siamo né così, né elfi, né allucinazioni… – spiegò uno di loro, blu – siamo kwami e siamo qui perché voi siete stati scelti come portatori dei Miraculous!»
«Qua-che e poi cosa sarebbero i Miraculous?!» domandò sconvolta Clover, grattandosi la testa.
«Shhh! – la zittì di nuovo Nicoletta, accompagnando il verso con un gesto del dito indice – Lasciali spiegare.»
«Molte grazie! – fece la creaturina rossa, chinando il capo, per poi cominciare a spiegare – Come ha detto il mio compagno noi siamo kwami, siamo degli spiriti legati ai gioielli che vi sono stati consegnati. Grazie ad essi e al nostro potere voi diventerete più forti e avrete la possibilità di sconfiggere il nemico che molto presto arriverà.»
«Che forza!» esclamò Martha elettrizzata.
«Che forza?! – domandò sconvolto Justin, ripetendo le sue parole – Scherzi vero? Ho già abbastanza problemi di mio senza che mi si aggiunga pure il diventare una specie di giustiziere.»
«Se i Miraculous sono stati consegnati a voi sette vuol dire che siete stati scelti dal custode.» spiegò un’altra creaturina gialla e nera.
«Potete spiegarci un po’ meglio questa cosa dei gioielli?» domandò Susan, prendendo nuovamente il suo cofanetto e vedendo un paio di orecchini rossi, con cinque piccoli puntini neri ciascuno.
«Il tuo è il Miraculous della coccinella, il potere della creazione, ed io sono la tua kwami, Tikki. – si presentò il piccolo essere rosso – Il nostro è il Miraculous più potente assieme a quello del…»
«Del gatto nero, che sarebbe il mio! Che a quanto pare è capitato a questa signorina qua! È la prima volta che mi capita di avere come compagna una femmina. Piacere, io sono Plagg e quello è l’anello della distruzione.» fece invece la creatura nera, che aveva tutta l’aria di essere un piccolo gatto dagli occhi verdi e felini.
«Piacere mio.» sorrise Martha.
«Io sono Holly e sono la kwami dell’illusione, associata al Miraculous della volpe e tu devi essere il mio portatore.» disse un po’ intimidita una piccola volpe arancione che fino a quel momento era stata zitta ad osservare e che ora si stava rivolgendo a Jack che ancora guardava stranito la sua scatoletta con dentro una specie di collana.
«A quanto pare…»
«E tu come ti chiami?» domandò Nicoletta, tirando su gli occhiali e poggiandoli sopra la testa per vedere meglio la piccola creatura gialla che aveva davanti.
«Spott! Kwami dell’ape!» rispose semplicemente lui.
«Piacere di conoscerti Spott!» rispose lei allungando la mano e accarezzandogli il capino.
«Io mi chiamo Penn e sono il kwami del pavone, rappresentante della bellezza.» fece quello che pareva chiaramente un piccolo uccello blu parecchio vanitoso.
«Clover è proprio adatto a te…» la prese in giro Martha ridendo, mentre l’amica continuava a fissare stranita quelle creature.
Anche Justin era preoccupato e quando uno di quei cosi si avvicinò a lui, quasi si ritrasse.
«Piacere, mi chiamo Nooroo, il mio Miraculous è quello della riproduzione, rappresentato dalla farfalla, ti assicuro che non sono così spaventoso.» lo rassicurò con un sorriso.
«Ha ragione sai? – intervenne l’ultima creatura, un’altra che ancora non aveva fiatato – Era peggio se ti capitava Plagg!»
«Ehi!» protestò il piccolo gatto, facendo esplodere l’ilarità dei suoi compagni e di qualcuno dei ragazzi.
«Comunque tu chi sei?» chiese la tartarughina verde, volgendosi all’ultimo ragazzo rimasto.
«Mi chiamo Christopher!» rispose lui tranquillo, poggiando le mani dietro di sé e sentendo l’erba fresca sui palmi.
«È un piacere fare la tua conoscenza Christopher, io sono Wayzz, il kwami della tartaruga e rappresento la saggezza.»

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Capitolo 5
*** La trasformazione ***


La trasformazione

17 Settembre 1968

«I didn't mean to take up all your sweet time… I’ll give it right back one of these days…» cantavano tutti a squarciagola sul furgoncino rosso, sopra la radio che stava trasmettendo proprio quella canzone, che solamente tre giorni prima avevano ascoltato tutti assieme dal vivo, durante il concerto.
Il giorno in cui conobbero i loro kwami e accettarono, chi con un po’ di riluttanza chi con entusiasmo, i loro poteri, si misero d’accordo sul come rimanere insieme. Sarebbero tornati ognuno a casa propria per avvisare i propri genitori e parenti, tranne Susan, ovviamente, visto che era decisamente troppo lontana da casa; lei fu invitata da Clover a casa sua, fino a che non avessero deciso di partire, cioè per sole due notti.
Jack fece un sacrificio enorme nel lasciare la sua moto a casa, con la paura che il suo fratellino più piccolo decidesse di approfittarne e usarla senza il suo permesso, ma era comunque impossibile portarsela dietro, non senza un rimorchio e anche con quello non si fidava affatto.
Stava di fatto che in quel momento erano in viaggio, finalmente, tutti assieme. Non sapevano con esattezza dove andare, né cosa avrebbero dovuto fare; i piccoli spiriti avevano riferito loro che presto se ne sarebbero accorti. In quel momento si stavano dirigendo a Madison, in modo che Susan potesse tornare al suo lavoro e che loro si trasferissero da lei, magari cercando anche loro un’occupazione.
Martha, il giorno prima, aveva insistito sul fatto che si sarebbero potuti trovare tranquillamente un’altra sistemazione, ma la rossa le aveva risposto di non preoccuparsi, visto che il proprietario dell’appartamento era suo fratello e che sebbene non fosse enorme i posti letto si potevano gestire per tutti. L’unica cosa, appunto, erano i viveri: il solo stipendio di Susan non sarebbe bastato per sfamare sette bocche, più quelle degli esserini che a quanto sembrava avevano dei gusti curiosi in fatto di cibo ed ognuno di loro aveva un alimento specifico che prediligeva.
La canzone finì, lasciando il posto al notiziario radiofonico.
«Ci è stato appena riferito dell’ennesima rivolta giovanile scatenatasi nella piccola cittadina di Fruita. A quanto pare, proprio quando questo genere di proteste sembravano finite, qualcuno sembra le abbia riaccese. I ragazzi che ne hanno preso parte sono ancora per le strade e sembrano più violenti di quanto ci si potesse aspettare. L’intervento della polizia è stato immediato, ma ancora sembra non sia riuscito a sedare questa rivolta. Attendiamo ulteriori informazioni.»
«Eccolo!» trillò Tikki, ascoltando la notizia.
«Tu dici?» domandò un’altro degli esserini, quello dell’ape.
«Più che sicura, dobbiamo intervenire.»
Martha si avvicinò allora al posto di guida, rivolgendosi alla nuova amica.
«Su, dove siamo ora?»
«Considerato che abbiamo appena superato l’uscita per Mack, dovremmo essere vicini.» commentò lei, storcendo la bocca e cercando di ricordarsi dove si trovava la città nominata dalla radiocronista.
«Mack si trova a cento miglia da Fruita, ci vogliono all’incirca dodici minuti.» intervenne Justin, rimanendo seduto al suo posto ed osservando i ragazzi che ora lo fissavano tutti a bocca aperta.
«Cavolo, sei bravo! Hai viaggiato spesso?» domandò Jack sorridendogli e mettendosi comodo sul piccolo divanetto che c’era sul retro.
«Veramente no, questo è il primo viaggio che faccio. Da piccolo ho sempre sognato di scappare da dove vivevo, ma non potendolo fare, passavo il tempo a leggermi e studiarmi tutte le cartine degli Stati Uniti che mi ritrovavo tra le mani.» spiegò lui, tirando poi indietro le labbra.
«Beh allora, amico mio, da ora in poi sarai la nostra guida!» scherzò Christopher, battendogli una mano sulla spalla.
«Vedo l’indicazione!» fece a quel punto Susan.
«Che bello, sarà la nostra prima battaglia!» esclamò Nicoletta, saltellando sul posto e battendo le mani, come una bambina che stava per avere il suo gusto di gelato preferito. Quando si erano rivisti quella mattina, l’avevano ritrovata coi capelli giallo canarino, un colore completamente diverso da quello con cui l’avevano conosciuta e al loro stupore di quel cambiamento repentino, lei aveva risposto che l’aveva scelto presa dall’entusiasmo di essere la portatrice dell’ape.
Parcheggiarono il camioncino, al primo spiazzo libero che trovarono, superata la cisterna d’acqua che decretava l’effettivo inizio della cittadina.
«Forse vi conviene trasformarvi qui, nessuno dovrebbe scoprire la vostra identità.» disse la piccola volpe, quando Susan tirò il freno a mano e si alzò dal sedile anteriore della vettura.
«Bene… Che dobbiamo fare?» domandò allora la bionda, guardando il suo piccolo gatto che stava mangiando un pezzo di formaggio e sembrava non calcolarla di striscio.
«Semplicemente dovete dire il nostro nome e aggiungere: trasformami.» rispose al suo posto la tartaruga.
Uno dopo l’altro i ragazzi fecero come era stato loro spiegato, ritrovandosi in degli sgargianti costumi colorati, che più che un’aria da super eroi davano loro quasi un’aria da band di quel periodo, non fosse stato per le maschere o bandane che portavano sul viso per nasconderlo.
Nicoletta lanciò un gridolino eccitato, mentre osservava la sua trasformazione definitiva: una tuta gialla che s’intonava, perfettamente, ai suoi nuovi capelli, con gambali e maniche che si allargavano alle estremità e che, sempre in quei punti avevano due strisce nere ciascuno. Il nero, inoltre veniva ripreso anche dalla cintura che portava all’altezza della vita, che non era altro che un nastro annodato di lato e nella maschera, che era completamente scura tranne qualche accenno di giallo. Infine il collo era coperto da una morbida pelliccia color ambra. Sollevò la manica destra, notando che al polso aveva uno strano congegno che sembrava pieno di quello che pareva miele.
«Non dovremmo darci dei nomi?» domandò Clover, osservando il suo vestito blu accesso, l’unico del gruppo munito di una gonna.
«Ci pensiamo dopo! Ora dobbiamo andare a risolvere la situazione!» decretò la sua migliore amica.
Uscirono tutti e sette dal van, cominciando a percorrere così la statale di corsa e guardandosi intorno per capire dove fosse la rivolta che era stata annunciata alla radio. Dovettero superare tre zone di bassi fabbricati e roulotte, prima di scovare il luogo che stavano cercando: una folla di ragazzi, parecchio arrabbiati, si stava accanendo contro le vetrate di una scuola.
«Okay e adesso…? Che dobbiamo fare?» domandò l’eroe farfalla guardando impaurito quella massa inferocita di loro coetanei, se non anche più piccoli.
«Tikki ieri mi ha spiegato un po’ di cose. – cominciò la ragazza coccinella – Io sono l’unica a poter purificare le persone, usando questo.» disse picchiando con un dito sullo yo-yo che aveva legato alla vita.
«Bene! – intervenne quindi la gatta nera – Allora faremo così: Susan rimane nascosta, in disparte, a fare quello che deve fare, mentre noi usando le nostre armi cercheremo di tenerli a bada fino a che non finisce.» disse con tono autoritario.
«E andiamo!» esclamò allora l’eroe della volpe, nei suoi sgargianti pantaloni di pelle arancione, esattamente come la sua giacca, sopra una maglia bianca. Staccò dalla cintura una frusta dello stesso colore del costume, facendola schioccare sul terreno.
«E andiamo…» dissero gli altri, chi più e chi meno convinto.

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Capitolo 6
*** I principianti ***


I principianti

17 Settembre 1968

Quando tutti si furono decisi ad agire, si separarono, in modo da accerchiare il gruppo di ragazzi inferociti che stava protestando lanciando pietre e altri oggetti contro i vetri degli edifici adiacenti e contro gli agenti di polizia che erano stati chiamati per affrontare il problema.
Solo Susan, o meglio Ladybug, era rimasta indietro, osservando la scena da lontano e cercando di capire dove posizionarsi per avere un quadro generale di ciò che accadeva ai compagni, pur rimanendo nascosta e avendo il giusto raggio d’azione. Alla fine optò per un edificio che i protestanti sembravano ancora non aver preso di mira, troppo intenti a contrastare la polizia con gli scudi.
Il primo ad intervenire nel tentativo di aiutare la polizia con la folla fu Jack. Il suo schiocco di frusta contro l’asfalto, attirò l’attenzione dei ragazzi più vicini. 
«E voi chi diavolo siete?» gridò uno, osservando gli altri eroi raggiungerlo. Il suo sguardo era ironico, come se trovasse ridicoli quei cinque ragazzi agghindati come fossero ad un eccentrico concerto rock, con le maschera sul viso e delle armi fuori dal comune. 
«Siamo… Siamo…» il ragazzo volpe non sapeva che dire, imbarazzato dalla situazione.
«Non importa chi siamo! – la voce di Martha alle sue spalle fece voltare tutti, anche gli altri supereroi – Dovete fermarvi. Protestare in questo modo non serve a nulla, vi farete solo del male.»
Fu un consiglio sprecato perché dalla folla, arrivò una pietra, scagliata a mano o da qualche fionda, che per un pelo non colpì in pieno la fronte della bionda. Aveva provato a scansarla e sopratutto a deviarla col bastone, ma visto che non era ancora abbastanza capace a maneggiarlo, era riuscita solo ad evitarsi una grave ferita, ottenendo un graffio all’attaccatura dei capelli biondi.
«Chi è stato?!» l’eroina pavone era talmente imbestialita da quell’affronto rivolto alla sua migliore amica che sia Nicoletta che Christopher dovettero trattenerla dal lanciarsi in mezzo alla folla e malmenare a suo di specchiate, unica arma in suo possesso, tutti quei ragazzi.
«Sentite ragazzini, andate via. – intervenne un poliziotto – Abbiamo già abbastanza grane con loro, ci manca anche un gruppo da circo che incasina la situazione.»
«Non siamo pagliacci da circo, agente. – la risposta sicura e quasi innocente di Nicoletta, lasciò sbalorditi tutti – Siamo eroi e siamo qui per aiutare.» prima ancora che qualcuno della folla potesse lanciare un’altra pietra anche verso di lei, la ragazza lo aveva bloccato con un colpo preciso della sua arma. La mano dell’aggressore era diventata un tutt’uno con la pietra, in un’agglomerato di denso miele viscoso.
«Ehi ma che caz…» il ragazzo non ebbe il tempo di finire l’imprecazione perché lo scudo di Christopher schizzò nella sua direzione, colpendo alle gambe lui e un’altro paio di compagni davanti, facendoli tutti cadere a terra come birilli.
«Non si dicono le brutte parole, ragazzo.» lo rimproverò l’eroe tartaruga, per poi riafferrare lo scudo, che era tornato a lui e sedersi per terra.
«Senta signorina. – cominciò un agente un po’ più gentile, rivolgendosi a Nicoletta – Vi ringraziamo della vostra disponibilità, ma questo è compito della polizia. Super eroi o no, siete giovani e non potete stare qui.»
«Voi non capite. Noi dobbiamo proprio essere qui.» la risposta della ragazza ape fu chiara e rapida, dopodiché ignorò qualsiasi altra protesta della squadra di agenti e, assieme ai suoi compagni, si buttò nella mischia. Solamente Christopher rimase fermo immobile, osservando la scena.
Martha fu la prima ad attaccare, sentiva un rivoletto di sangue, non troppo copioso, bagnarle la fronte, ma si disse che finché non le sarebbe arrivato all’occhio, impedendole così di vedere, poteva tranquillamente continuare a combattere. Puntava alle gambe anche lei, proprio come aveva fatto il ragazzo in verde poco prima. I rivoltosi si ritrovavano col sedere per terra prima ancora che potessero capire cosa stesse accadendo e subito dopo Nicoletta li appiccicava all’asfalto con la sua arma. 
Clover, invece, lanciava il suo specchio come fosse un boomerang, tentando di colpire le mani di quei ragazzi che tenevano in mano pietre e altre munizioni, oppure colpendo le loro mazze da baseball. Purtroppo però la sua mira era ancora relativamente scarsa e non sempre riusciva a colpire il suo obiettivo. Quando non ce la faceva il suo specchio, c’era la frusta di Jack. Il ragazzo tentava di essere il più delicato possibile coi colpi, sapeva infatti che quell’arma era pericolosa se usata nel modo più brutale e lui non era ancora così esperto da saper gestire la forza. Un paio di ragazzi, infetti si trovarono con la mano sanguinante, ma mentre lui chiedeva sempre scusa quando accadeva, la ragazza pavone dietro di lui, ribadiva che ogni tanto una bella lezione se la meritano anche i bulli.
«Non sono bulli Clo… collega, sono persone che hanno solo bisogno del nostro aiuto per ritornare in loro.» sembrò quasi rimproverarla l’eroe volpe.
«Fa nulla. Hanno fatto male alla mia migliore amica e non gliela perdono.» sbuffò lei, lanciando nuovamente lo specchio e riprendendolo in mano dopo che fece lo scalpo a Justin, facendogli cadere il cappello viola in feltro.
«Ehi! Fa attenzione.» protestò il ragazzo, che aveva anche dovuto parare un colpo di mazza da baseball con il suo bastone pomellato. 
Justin era l’unico che sembrava più un nobiluomo sotto copertura, più che un super eroe. Lui, che aveva sempre vissuto in una roulotte con vestiti stra usati e la sua sgualcita bandana, in quel momento sembrava una specie di gentleman in incognito.
«Scusami…» fece Clover, trattenendo una risata.
Gli agenti guardavano quel caos senza sapere con esattezza come gestire la cosa. Seppure impacciati e inesperti quei giovani colorati stavano riuscendo a tenere a bada la folla urlante che fino a poco prima stava distruggendo l’edificio davanti a loro. Ovviamente non senza fare danni anche loro stessi, come quando la frusta del ragazzo arancione colpì una finestra alle spalle di un ragazzo, mandando in frantumi il vetro.
Christopher continuava a stare seduto, facendo vagare lo sguardo dai suoi compagni intenti a lottare, agli agenti sbigottiti; finché non notò con la coda dell’occhio una sagoma rossa ad est e istintivamente sorrise. Susan stava facendo roteare il suo yo-yo a un’incredibile velocità e questo si stava illudendo creando quindi una specie di cerchio al neon proprio davanti alla sua figura.
Improvvisamente i rivoltosi cominciarono ad arrendersi. Inizialmente si fermarono, come se si fossero accorti di qualcosa; poi, nel momento in cui una nube scura uscì dai loro corpi, attirata dal vortice luminoso dello yo-yo, si afflosciarono, come bambole di pezza. Quella strana reazione attirò l’attenzione di tutti verso Susan che continuava a far girare la sua arma, imperterrita.
Quando anche l’ultimo sbuffo di fumo, fu risucchiato dall’arma della ragazza, anche lei sembrò afflosciarsi. Fu un’attimo. Susan era al bordo dell’edificio e cadendo in avanti precipitò verso il basso. Tutti lanciarono un grido, ma Martha schizzò in avanti e con un paio di balzi felini, la prese al volo, evitandole di schiantarsi al suolo. Non sapeva nemmeno come avesse fatto, forse l’adrenalina, in ogni caso era salva e questo era l’importante, anche se sembrava in qualche modo svenuta; probabilmente aveva usato tutte le sue energie per purificare quei ragazzi.
«Sta bene?» chiese un’agente, accorrendo.
«Sta benissimo. Ora scusate, ma dovremmo andare.» disse la bionda, con un sorriso di circostanza, facendo un cenno agli altri. Aveva notato che l’orecchino di Susan aveva ormai solo due puntini, il che voleva dire che in meno di due minuti si sarebbe ritrasformata e non potevano permettere che dei civili, anche se della polizia, scoprissero le loro identità.


Susan aprì gli occhi, confusa. L’ultima cosa che ricordava era il movimento ipnotico del suo yo-yo che rallentava e un’incredibile stanchezza che prendeva possesso del suo corpo.
«Ehi Cherry, stai bene?» la voce di Nicoletta fu la prima che distinse perfettamente, era sicura che anche le altre persone intorno a lei le avevano parlato appena qualche secondo prima, ma tutto ciò che aveva percepito erano stati brusii indistinti.
«Lasciatela respirare.» brontolò Justin, cercando di allontanare il capanello di gente che le si era formato attorno. Solo in quel momento, si accorse che erano tutti sul suo furgoncino.
«Come… Com’è andata la battaglia?» biascicò, mettendosi seduta e portandosi la mano alla fronte, aveva ancora la testa confusa.
«Oh alla grande! Li hai messi tutti a nanna.» le sorrise Cristopher.
«Te come ti senti?» ribadì Jack, un po’ più distante.
«Bene… Credo… Insomma sono solo un po’ stanca.» biascicò la rossa.
«Tranquilla Susan. – intervenne subito la sua kwami, posandosi sulle sue gambe – Una bella dormita e si sistemerà tutto.»
«Già… – aggiunse anche il kwami nero, quello di Martha che sembrava un gatto – Purtroppo purificare anime è la parte più difficile del lavoro e tocca a te.»
«Mi eserciterò, in modo da non perdere i sensi in futuro.»
«Sì brava, e magari evita anche di appostarti in punti troppo alti. – intervenne Clover – Se non fosse stato per Martha a quest’ora avremmo dovuto cercarci una nuova amica e una nuova portatrice del Miraculous della coccinella.» a quel rimbrotto Susan arrossì, non sapeva bene il motivo, se per la consapevolezza di aver fatto una tavolata, facendo così preoccupare i suoi nuovi amici, oppure semplicemente al pensiero che proprio Martha l’aveva presa.
«Dì un po’ Susan, vuoi darmi le chiavi del furgone? Così tu puoi riposarti ancora un po’?» le domandò Christopher, distogliendola dai suoi pensieri.
«Oh, certo. Grazie Chris.»
Poco dopo la squadra era di nuovo in viaggio. Avevano avuto la loro prima vera battaglia e, anche se non era andata nel migliore dei modi, erano in qualche modo orgogliosi, come se quello fosse stato il primo passo per salvare il mondo. Sebbene non sapessero bene da che cosa, almeno non ancora.

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Capitolo 7
*** Il notiziario ***


Il notiziario

20 Settembre 1968

Un viaggio on the road, questo era. Quando Susan, ormai una settimana prima, era partita da casa per andare al concerto di Jimi Hendrix, non avrebbe mai creduto che non avrebbe smesso di viaggiare, che avrebbe trovato nuovi amici e che sarebbe diventata una specie di eroina. C’erano dei momenti in cui non riusciva a capacitarsi della piega che aveva preso la sua vita, ma poi si guardava intorno e capiva che era tutto vero.
Erano sette ragazzi e sette kwami, senza un vero e proprio obiettivo, che stavano pian piano imparando a conoscersi. Colui che aveva dato loro i miraculous, quello che i kwami chiamavano spesso “il guardiano” non aveva lasciato loro nessuna indicazione su cosa dovevano fare realmente, anzi a dirla tutta non l’avevano proprio mai incontrato. Gli spiriti avevano raccontato loro che in passato si erano ritrovati ad affrontare entità di ogni tipo, alcune volte tutti insieme, come in quell’occasione ed altre volte solo alcuni di loro erano stati attivati, ma nemmeno loro conoscevano la minaccia di quel momento. Il sessantotto si andava a concludere e i ragazzi, comprendevano che forse sarebbero dovuti essere loro a dare un freno alle proteste che ancora impelagavano per gli Stati Uniti d’Amarica, ma come? A parer loro non era andata poi così bene, la loro prima battaglia, anche se i kwami erano di tutt’altro parere. Fino a che non avessero capito come e dove agire, sarebbero tornati a Madison.
Una cosa era certa, avevano bisogno di esercizio e soprattutto d’imparare a lavorare in squadra, sebbene fossero già abbastanza affiatati. Una cosa li accomunava, la musica; in fin dei conti si erano conosciuti al più bel concerto di quell’anno. Susan si fidava di loro, soprattutto dal momento in cui li aveva trovati tutti al suo fianco nel momento in cui aveva perso i sensi durante la battaglia a Fruita. Ogni tanto dava il cambio a Cristopher e a Martha per la guida, così che si potessero riposare a turno. La notte solitamente si fermavano in un parcheggio per camion o, se andava bene in un campeggio che non costasse troppo. Quella sera in particolare, quando furono nei pressi di Crook, seguirono le insegne per una zona di sosta per camper, sebbene il loro fosse appena un furgoncino.
Pagarono l’ingresso e lo stanziamento per la notte e furono indirizzati un una zona ad ovest, dove vi erano diversi spiazzi e parcheggi ancora liberi.
«Che numero ha detto?» domandò Susan, muovendosi tra gli altri veicoli e le zone d’erba che da un certo orario in poi sarebbero state occupate dalle persone che ancora se ne stavano dentro i camper o al bar.
«Centodue, guarda il cartello è là, svolta.» le disse Cristopher, indicando con il dito uno dei cartelli che riportavano i numeri dei posteggi.
Finalmente si fermarono e pian piano scesero tutti, avendo la possibilità di sgranchirsi le gambe. Erano ormai parecchie ore che stavano sul furgoncino, più o meno dall’ora di pranzo, quindi fu un vero sollievo per tutti
«Credo siamo arrivati appena in tempo. – fu il commento di Justin, che si era fermato a vedere il cartello con le regole del campo – Qui dice che l’ingresso chiude alle 19 di sera e riapre alle 6 del mattino, per permettere ai campeggiatori di non essere disturbati durante la cena e per la notte.»
«Beh, considerato che sono le diciannove meno dieci direi di sì, appena in tempo.» fu la conferma di Jack che allungo le braccia verso l’alto nel tentativo di stiracchiarsi.
«Ho visto che c’è un bar dall’altra parte del campo. Clover, vieni con me a comprare qualcosa da mangiare?» fece Nicoletta tutta d’un fiato, sistemandosi gli occhiali da sole; non che ce ne fosse bisogno, visto che tra poco avrebbe tramontato. 
«Va bene. Qualcuno ha preferenze?» chiese l’altra, dopo aver accettato, sistemandosi i capelli su di una spalla sola.
«A me va bene tutto, purché non ci sia il tonno.» fu il commento di Susan. Dopo di lei altri diedero altre direttive, ma nessuno con un’idea precisa
Mentre le due ragazze recuperavano qualcosa da mangiare, il resto dei ragazzi sistemò la loro piccola zona di prato in modo da poter campeggiare comodi. Sicuramente avrebbero dormito dentro al furgoncino; forse sarebbero stati scomodi, seduti sui sedili, ma per lo meno sarebbero stati al caldo sotto le coperte. In ogni caso, al campeggio era permesso accendere un falò e proprio vicino al loro parcheggio, vi era un angolino che forniva legna, fino a esaurimento scorte, probabilmente lo rifornivano ogni mattina.

 

Una mezz’oretta dopo i sette ragazzi erano tutti attorno al fuoco scoppiettante, mentre mangiavano hot dog e alcuni sandwich confezionati, accompagnati da birre e cola. Infilzati al terreno erboso, a pochi centimetri dal fuoco, alcuni lunghi rami con all’estremità dei morbidi e spugnosi marshmallow. 
«Jack, perché non ci suoni qualcosa?» propose Clover, dopo aver finito il suo panino, pulendosi la bocca con uno dei tanti tovaglioli che il bar aveva dato in dotazione a lei e a Nicoletta.
Inizialmente il ragazzo fu un po’ restio a quella richiesta, ma dopo che anche tutti gli altri insistettero, chiedendogli almeno una canzone, accetto. Si alzò e rientrò nel furgoncino, per recuperare la sua Lucille, la chitarra da cui non si separava mai. Solo audo si fu riseduto ed ebbe riaccordato con calma lo strumento, cominciò a strimpellare qualcosa. Prima fu solo un insieme di accordi casuali, accompagnati dal suo fischiettio; poi cominciò una vera e propria melodia e quasi subito i suoi nuovi amici la riconobbero, cominciando a cantare assieme a lui.

Purple haze, all in my brain
Lately things they don't seem the same
Actin' funny, but I don't know why
Excuse me while I kiss the sky

D’altronde, come potevano scordarla, nemmeno cinque giorni prima l’avevano ascoltata dal vivo in concerto, lo stesso concerto in cui si erano conosciuti. Continuarono a cantare una canzone dopo l’altri, alcune un po’ più ritmate, altre più soft, ma sempre con molto entusiasmo. Alcuni campeggiatori delle zone accanto si erano voltati divertiti, vedendo quel gruppetto affiatato che cantava. Anche i kwami dei sette portatori ascoltavano contenti i loro padroni, godendosi la musica dai loro nascondigli.
Erano ormai le nove di sera quando i ragazzi smisero di cantare, tra una risata e l’altra. Jack aveva posato la chitarra nella sua custodia, Cristopher si era gettato all’indietro, col le mani dietro la nuca, sdraiato comodamente sull’erba.
«Allora… – cominciò a parlare Nicoletta, tirando fuori dalla tasca dei jeans quello che aveva tutta l’aria di essere un piccolo portasigarette in metallo – Sappiamo che siamo tutti appassionati di musica, che siamo degli eroi, o almeno che stiamo provando a diventarlo, ma finora abbiamo parlato solo delle nostre passioni.» la ragazza accese uno dei sottilissimi spinelli con il suo zippo rosa shocking.
«Cioè?» domandò Clover, con un tono divertito.
«Sì, insomma… Siamo una squadra no? Eppure ci conosciamo poco. Raccontatemi un po’ di voi.»
«Perché non cominci tu?» fu il commento di Justin, sollevando un sopracciglio in un’espressione diffidente.
«Oh beh… – rispose prontamente lei, sollevando le spalle e sbuffando una voluta di fumo appena aspirato – Io ho un’ossessione per gli occhiali da sole, faccio cocktail niente male… I miei genitori erano figli dei fiori, si sono conosciuti perché mio padre è stato un immigrato che veniva dall’Italia ed ha conosciuto mia madre nel suo primo negozio.»
«Negozio?» questa volta fu Martha a interrompere il racconto, incuriosita.
«Oh sì, mio padre è il proprietario di “American Crew”, ma quando arrivò qui negli Stati Uniti aveva solamente i soldi per aprire un piccolo negozietto e mia madre fu una sua cliente.»
«American Crew… Wow! Anche il padre di Clover è famoso sai?» fu la risposta di Martha, che ricevette una gomitata dall’amica. La conosceva abbastanza bene da sapere che quella gomitata non era tanto per l’imbarazzo di essere presa in causa, ma per l’esatto opposto, non voleva sembrare petulante, ma adorava raccontare di sé e di suo padre.
«Davvero?» questa volta fu Susan a porgere la domanda.
«Non è molto famoso in realtà, insomma forse un po’. Fa l’attore, ma finora ha ricevuto solo ruoli minori. Insomma non è James Fonda.» la sua risatina finale fece intendere che non voleva proseguire, forse perché in quel caso poi qualcuno sarebbe arrivato a chiederle di sua madre e quello per lei era un discorso off-limits, almeno in quel momento. Apprezzava la compagnia di quel gruppo, ma da lì a rivelare loro i disastri della sua famiglia, ne doveva passare di acqua sotto i ponti.
«Io invece sono quasi sua vicina di casa. – s’intromise Martha, evitando così che qualcuno potesse rivolgere qualche altra domanda all’amica – Ci conosciamo dalle elementari e abbiamo fatto sempre tutto assieme. Le mie mamme stravedono per lei e per la sua indipendenza, spesso si lamentano che sono poco estroversa e troppo delicata.»
«Beh, dovrebbero vederti con quel completino da urlo in pelle nera che indossi da trasformata!» scherzò Clover facendole l’occhiolino e provocando in tutti una risata.
«Vivi con due mamme, che forza!» fu il semplice commento di Susan, ma non aggiunse altro. Nemmeno lei voleva parlare della sua famiglia; soprattutto perché non sapeva nemmeno se aveva ancora una famiglia ormai da parecchi anni.
«E voi maschietti?» chiese invece Nicoletta, rivolgendo il suo sguardo a Cristopher che alzò le spalle senza troppi problemi.
«Io sono nato a New York, mia mamma aveva diciassette anni quando mi ha messo al mondo. I miei nonni sia materni che paterni non ne hanno mai voluto sapere nulla di me, ma io e i miei ce la siamo sempre cavata.»
«Sei figlio unico?» fu la domanda spontanea di Jack.
«Già… E da come l’hai chiesto immagino che tu invece non lo sia.»
«Ho due fratelli più piccoli, o meglio una sorella che ora ha 23 anni e un fratello che ne ha 16. Viviamo con mia madre da quando avevo quattordici anni. Purtroppo mio padre se n’é andato per via di un tumore.» Jack fu l’unico a rivelare qualcosa di scomodo, forse perché era il più grande e non aveva nessun problema a relazionarsi con le persone, soprattutto se queste gli spiravano fiducia come i suoi nuovi compagni.
Quella sua ultima frase però, sembrò chiudere il discorso, perché nessuno, tantomeno Justin che era stato l’unico a rimanere zitto, si azzardò più ad accennare qualcosa sulla propria vita privata. I discorsi, invece, dopo un’altra serie di marshmallow arrostiti, tornarono più spensierati, fino a che il sonno non cominciò a fare le sue vittime.

 

Il giorno dopo la prima ad alzarsi fu Susan. Cercando di non fare rumore e di non svegliare nessun altro, zigzagò tra i sacchi a pelo degli amici e si diresse ai bagni pubblici con un cambio pulito. Dopo essersi fatta una bella doccia ed essersi asciugata il più possibile i folti ricci rossi con un asciugamano, andò direttamente verso il chiosco, decisa a comprare qualcosa per preparare la colazione a tutti. Essendo un locale ben fornito per campeggiatori, la ragazza trovò tutto ciò che le occorreva e tornò al loro furgone, notando che qualcun altro, durante la sua assenza, si era svegliato.
«’Giorno…» disse Cristopher, biascicando la parola, ancora alquanto assonnato.
«Buongiorno» rispose lei con un sorriso, per poi sistemarsi vicino al luogo dove il giorno prima avevano accesso il falò e trafficando con un accendino per riaccenderlo. Il ragazzo l’aiutò a ravvivare le fiamme poi, le chiese indicazioni sui bagni e si allontanò.
Dopo una decina di minuti, lo sfrigolare della pancetta, posizionata su di una piccola padella che Susan muoveva sul fuoco, affiancata a quella dove stava cuocendo alcuni pancake, svegliò tutti.
«Mmmh… Bacon e pancake, la colazione dei miei sogni.» disse Martha, prendendosi la libertà di annusare l’ottimo profumo di quella colazione che si stava pian piano preparando.
«Al chiosco ho trovato la pancetta e un impasto già pronto per pancake, spero che sia buono.» fu la risposta della rossa, che suonò leggermente imbarazzata.
Fortunatamente per lei la colazione non solo risultò ottima, ma piacque anche a tutti. Si stavano gustando gli ultimi bocconi, mentre ascoltavano la radio in sottofondo, quando qualcosa attirò l’attenzione di Jack, che allungò la mano verso la manopola del volume e la ruotò, alzandolo.
«…esattamente tre giorni fa. La polizia stava già intervenendo, ma in loro soccorso sembrano essere arrivati alcuni ragazzi che volevano sedare la rivolta senza usare troppo la violenza. La notizia è trapelata solo adesso perché alcuni pubblici ufficiali hanno trovato l’intervento di questi giustizieri poco rispettoso nei loro confronti, definendolo una pagliacciata. Altri però hanno ammirato la determinazione di questi sette ragazzi, parecchio eccentrici. In ogni caso non sappiamo se è stata un’evento casuale o altro, ma molti genitori dei ragazzi rivoltosi di Fruita hanno ringraziato simbolicamente questi eroi appendendo ai loro balconi bandiere arcobaleno ad indicare i colori accessi dei loro costumi.»
Ascoltarono l’intero servizio senza fiatare, completamente scioccati all’idea che al loro primo, e anche parecchio disastroso intervento, erano comunque stati notati. Negli occhi di ognuno traspariva commozione, stupore, soddisfazione e forse anche una vena di gratitudine nei confronti di coloro che li avevano dipinti in modo così eroico.
«Sapete, credo proprio dovremmo trovarci un nome. Sia come gruppo che come eroi singoli. così possiamo chiamarci tra di noi anche in battaglia, no?» fece Nicoletta, rompendo come sempre il ghiaccio, quando la radio aveva passato ormai da un paio di minuti ad altro.
«Io l’ho già deciso alla mia prima trasformazione, tre giorni fa.» fu il commento di Susan, che con aria distratta strappò un paio di fili d’erba dal prato.
«Davvero? E qual è, sweetie?» le chiese la ragazza, curiosa.
«Ladybug.» fece lei alzando le spalle, come fosse ovvio; d’altronde il suo potere era quello della coccinella.
«Carino, allora io sarò Lady Peackok! – s’intromise Clover, scostandosi i capelli con un gesto teatrale – E tu splendore? Che nome daresti al te, eroe?» aggiunse poi, rigirando la domanda a Jack che stava seduto di fianco a lei.
«Non so… Forse Foxer? Visto che stiamo mettendo dei riferimenti agli animali che rappresentiamo.»
«Mi piace!» confermò allora Clover.
«Allora io sarò Turtle, semplice e conciso.» disse Cristopher seguendo la scia dei nomi di animali.
«Non so… A me non è che piaccia molto chiamarmi ape… – fu il commento di Nicoletta, storcendo la bocca – Che ne dite di Honey?»
«Bello! Anche io voglio qualcosa di leggermente più carino – disse Martha – Pensavo a Black Kitty.»
«Tipico di te, raggio di sole.» le sorrise la sua migliore amica.
«E tu Justin? Ti chiamerai Mr. Butterfly?» chiese Cristopher.
«No… Troppo appariscente, troppo tutto… Già ho un costume che è tutto un programma… Penso che opterò per Hawkmoth.»
«Falena? Sul serio? Beh, ok. L’importante è che piaccia a te.» fu l’ultimo commento di Nicoletta, mentre alzava le spalle.
«Beh ragazzi, io direi che ci conviene ripartire. – intervenne Susan, sbattendo le mani sulle gambe e tirandosi su – Vado un attimo in bagno e poi cominciamo a ritirare tutto che dite?»
«Ai tuoi ordini, coccinellina.» la lingua di Martha si mosse prima ancora del cervello facendole uscire quel nomignolo fin troppo affettuoso che attirò l’attenzione di tutti, soprattutto della diretta interessate che arrossì vistosamente e fuggi via verso i bagni.
«Sai dovresti dirglielo chiaro e tondo.» le fece Clover, dandole una gomitata, non appena la rossa fu abbastanza lontana.
«Cosa?!» chiese Martha, decisamente imbarazzata.
«Che sei cotta di lei.»
«Non è assolutamente vero!» fu l’esclamazione della bionda, che sembrò arrossire ancora di più.

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