Abisso

di Happy_Pumpkin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Innsmouth ***
Capitolo 2: *** II - Crepe ***
Capitolo 3: *** III - Luce ***



Capitolo 1
*** I - Innsmouth ***







Abisso


I
Innsmouth





Mentre guidavo, osservai i paesaggi del Massachusset dipingersi davanti ai miei occhi: pennellate di verde intenso accarezzavano l’orizzonte nuvolo che si stagliava sulla linea incerta del tramonto. Il mio collega, Henry Allen, mi guardò un istante come in cerca di qualcosa, ma sembrò lasciar perdere perché alla fine scrutò a sua volta il panorama, tamburellando le dita sul finestrino.
“Quel posto non mi piace per niente, Shisui. Accadono cose strane, l’omicidio di quel ragazzino un anno fa sembra avvenuto per mano dei membri della sua stessa famiglia, tanto per dirne una – tirò fuori una sigaretta da un contenitore metallico, se la accese e soffiò una boccata di fumo, mentre girava la manovella sulla portiera per abbassare il finestrino – la gente fa schifo.”
Lo sguardo sembrò distante, come se non volesse incrociarsi con il mio. In testa, aveva un fedora scuro che gli conferiva un’aria di classe, nonostante la barba non fatta da qualche giorno e le scarse rughe di un’anzianità precoce rispetto agli anni effettivi.
Scrollai le spalle, grattandomi la tempia con un dito. C’era una cicatrice in quel punto. Non mi ricordo come me l’ero fatta, ma ogni tanto prudeva, simile a un insetto microscopico che cercava di risalire in superficie.
“Su questo non c’è dubbio, con il nostro lavoro di gente pessima ne incontriamo tutti i giorni; eh già, non ci pagano abbastanza.”
Ironizzai, con una mezza risata. A modo mio, avevo sempre cercato di stemprare i toni con del sano sarcasmo. Paradossalmente, mi aiutava a rimanere concentrato, scacciando la paura, il senso di colpa, l’idea di non aver fatto abbastanza: tutte sensazioni estremamente comuni, quando si lavora come detective della Omicidi a Boston.
Allen, però, non rise. Non rideva mai, almeno, da quanto mi ricordavo. Sospirai, scrollando le spalle, per poi fischiettare un motivetto in stile charleston. Un tempo mi avevano affascinato i locali in cui si ballava; mi ripromisi di andarci, una volta risolto il caso che ci aveva portato fino a lì, in quel posto dimenticato da Dio e, probabilmente, anche dagli uomini.
“Innsmouth.”
Sussurrò Allen.
Avvertii un brivido lungo la pelle. Davanti a noi si stagliavano le porte della cittadina che sorgeva sul mare: un’area limacciosa, incassata in una costa dalla sabbia cupa e il mare oscuro che, raramente, rigettava spuma bianca lungo i bassi declivi rocciosi dove si incastravano i pali di legno marcescente del porto; presso le banchine deserte navi colme di ragnatele e vele rammendate galleggiavano sinistre ancorate ai ponteggi.
Le nuvole soffocavano i raggi arancioni e rosati del tramonto, riflettendo al contrario il grigio del mare e il senso opprimente di chiuso, simile a una bolla fatta di silenzio e luci smorzate.
Parcheggiai la macchina presso uno degli spiazzi adiacenti, poco distante dal porto. Le strade erano pressoché deserte, mentre i lampioni a petrolio erano stati già accesi: la notte sembrava prossima a calare e il sole faticava a passare in spiragli frammentati attraverso il cielo nuvolo.
Mi salì alle narici un rivoltante odore di pesce marcio e di salsedine, avvertii il gusto del mare sulle labbra secche, come se qualcuno mi avesse appena spinto la testa sotto l’oceano per farmi inghiottire con violenza acqua salmastra.
Aprii la portiera per uscire, mentre Allen schiacciava il mozzicone di sigaretta gettato per terra. Scorgemmo entrambi un poliziotto poco distante che, appena ci vide, avanzò verso di noi: era tarchiato, dalla pancia gonfia che sporgeva oltre le brache tenute su da bretelle di cuoio consumato, spiegazzando al di sotto una camicia azzurra slavata; sopra, la giacca della divisa era lasciata sbottonata.
Gli occhi sembravano acquosi, protrusi come affetti da esoftalmo, le labbra piene disegnate in una smorfia di fastidio, mentre il collo massiccio faticava a stare dentro il colletto della camicia.
Mi presentai, anticipandolo con piglio relativamente cordiale:
“Detective Shisui Underwood, questo è il mio collega Henry Allen. Piacere.”
Il poliziotto mi guardò negli occhi, nella stessa maniera in cui si potrebbe osservare un vecchio conoscente. Poi abbassò il volto per contemplare brevemente la mano. La strinse qualche istante dopo con una presa massiccia, al punto che le dita tozze sembrarono avvinghiarsi attorno alle mie; notai che aveva la pelle leggermente traslucida, come di chi fosse appena emerso da un catino d’acqua senza però essere bagnato.
“Zadok Marsh.”
La ritrassi accennando un sorriso, emerso più per un confortante senso d’abitudine. Allen non tese la mano, limitandosi a guardare con occhi attenti l’uomo di fronte a noi.
“Se ci può portare sul luogo del delitto, vorremmo esaminare la scena. Nel frattempo, ci dia tutti i dettagli che può.”
Asciutto, dritto al dunque, sbrigativo. Sospirai, mettendomi le mani in tasca dopo essermi grattato brevemente la cicatrice. Allen sembrava molto più capace di me di mostrare freddezza quando serviva; anche se lo conoscevo da poco, sono sempre stato bravo a capire le persone: forse era pensando di comprenderle e capire cosa animasse i loro desideri più oscuri che, in gioventù, mi sono laureato in parapsicologia alla Miskatonic University. Questo è un qualcosa che non dimenticherò mai.
Una pretesa un po’ stupida, quella di capire gli altri, dato che gli unici posti in cui finivo erano scene del crimine legate a gente fuori di testa: sette religiose, cultisti di religioni provenienti da angoli dimenticati del mondo, persone che credevano di essere possedute da spiriti malvagi o uomini d’intelletto in preda a deliri d’onnipotenza convinti di avere il dominio sulla natura. Insomma, un insieme di simpatici disagiati che, un anno anno fa, mi hanno portato a fare un bel giro di permanenza all’ospedale psichiatrico di Arkham. Almeno, questo è quanto redatto sulla cartella clinica letta dopo il rilascio, diversi mesi più tardi; eccetto questo, la perdita di memoria subita in seguito al trauma non è stata decisamente mia alleata nel ricordare chi o cosa avesse contribuito a farmi andare fuori di testa.
“Underwood, hai dimenticato anche come usare le gambe?”
Mi richiamò Allen, fermandosi nel mezzo della via che collegava l’ingresso della città al porto.
Simpatico: quando si trattava di insultarmi, Henry dimostrava di saper fare delle battute di spirito quasi intelligenti.
“Ah-ah, che umorista Allen. Arrivo, arrivo.” Borbottai, per poi accennare comunque una risata, anche se l’atmosfera opprimente e quell’odore di marcio non facevano decisamente propendere verso una conclusione allegra della serata.
Specie per quello che ci prospettava: un omicidio in piena regola, con però degli elementi insoliti che avevano attirato il Dipartimento della Omicidi di Boston, al punto da sguinzagliare due tra i suoi più efficienti detective esperti nei riguardi delle sette locali e le loro follie sacrificali; si trattava di una diramazione della Omicidi sorta da pochi anni in realtà, quindi bisognosa di buttarsi in mezzo a casi persino nei posti più sperduti, pur di continuare a guadagnare fondi governativi.
“Vi posso portare sulla scena, abbiamo recintato la zona per non attirare i curiosi.”
Spiegò Marsh, camminando con andatura un po’ ondeggiante, forse per via del corpo massiccio e sproporzionato, anche se non potevo immaginare di che curiosi stesse parlando, dato che le strade sembravano costantemente deserte.
“Capisco. L’uomo che ha trovato il cadavere? – domandò Allen – Dov’è?”
“Non lo so. Da qualche parte nella taverna di Bob a ubriacarsi.” Rispose il poliziotto senza particolare interesse, mentre continuava ad avanzare.
Bene, tappa al pub; poteva rivelarsi un momento più piacevole, forse unico, rispetto alla prospettiva di addentrarsi ancora a lungo tra quelle strade odorose di pesce marcio; anche se, a ben pensarci, l’idea di che razza di birra ci fosse dietro al bancone mi faceva rivoltare lo stomaco.
Allen mi guardò e io annuii. Ovviamente, dopo l’analisi della scena del crimine potevamo pensare di dividerci e procedere rispettivamente verso l’obitorio, oppure a cercare di svegliare da uno stato di collasso post-ubriachezza il primo e per ora unico testimone della scena del crimine, eccetto ovviamente la polizia. Non sapevo cosa fosse più piacevole tra le due opzioni, ma ritenni che forse un cadavere poteva dare più informazioni rispetto a un vecchio ubriacone; scrollai le spalle: nemmeno sapevo perché, ma ritenevo che il nostro uomo fosse decisamente anziano, consumato sin dentro la pelle dal mare e dalla sua salsedine che entrava fin dentro i polmoni.
Svoltammo poi in una delle vie laterali, più oscure, dalla pavimentazione irregolare e le acque di scolo che gocciolavano in rigagnoli sudici da oltre le canaline arrugginite. Mi sembrò di vedere occhi gialli, intensi, intenti a fissarmi dalle ombre vicino a cassonetti colmi di spazzatura, per poi sparire con un ticchettare ovattato di zampe. Ratti.
Entrammo in uno scantinato.
Sentii un odore di umido, mischiato con quello di acqua stagnante e di muffa, muffa che sembrava intaccare le pareti di mattoni a vista, con la malta secca che si sbriciolava passando la mano sulla superficie viscida, coperta a tratti da uno strato simile a muschio.
Incurante dell’odore e dell’ambiente soffocante, il poliziotto estrasse dalla fodera vicino a quella della pistola una torcia. La accese dopo aver dato qualche lento colpetto con il palmo della mano; per qualche istante il fascio di luce giallognolo sfarfallò, poi si stabilizzò, illuminando le scale.
“Attenzione, è scivoloso – disse, senza nemmeno guardarci – nella stanza abbiamo lasciato delle candele per illuminare. Le scale sono la parte più buia.”
Ci fece avanzare, illuminandoci le gradinate. Allen mi precedette e io lo seguii, sentendo sul collo il fiato e la presenza del poliziotto, con la luce che sembrava tagliare l’oscurità; forse era solo per colpa di tutti quegli odori nauseanti, ma mi sembrava che anche l’uomo di Innsmouth puzzasse di pesce.
Quando completammo la discesa, vidi Allen bloccarsi sulla soglia d’ingresso della stanza. Si portò una mano sulla testa, come per trattenere il fedora elegante dal volare a terra.
“Cristo Santissimo.” Mormorò, con voce resa raschiante dalle troppe sigarette.
Mi misi al suo fianco portando una mano sulla bocca, assalito fin dentro l’encefalo dall’odore di putrefazione.
“Il corpo – commentai, ricacciando un conato di vomito – l’avete lasciato qui.”
Non ci giurerei, ma mi sembrò di sentire il poliziotto sogghignare e poi rispondere:
“Non volevamo contaminare la scena del delitto. È tutto come l’ha trovato Daves quando vi ha chiamati.”
“Curioso: dopo aver trovato un cadavere, un vecchio ubriacone pensa come prima cosa di mandare un telegramma urgente proprio alla Polizia di Boston, pure con le forze dell’ordine qui presenti.” Commentai d’istinto, con ironia tagliente.
Sentii il poliziotto ringhiare qualcosa, mentre Allen si limitò a guardarmi un istante per poi avanzare verso il cadavere, illuminato dalla luce danzante di numerose candele disposte su mobili piegati dall’umidità e nicchie, incassate in punti dove i mattoni mancavano o si erano sbriciolati.
Lo accostai, per poi osservare il cadavere riverso a terra con una piega innaturale degli arti, come se fosse stato lanciato da un’altezza di decisamente troppi metri, per essere uno scantinato sotto al livello del mare. Attento, aggrottai le sopracciglia quando mi chinai per scostare una ciocca di capelli scuri dal volto. Nel scorgere i tratti del viso, deglutii e per qualche istante il cuore mi batté più forte, fu come provare un’emozione forte, scaturita da un ricordo antico.
Forse, perché il volto di quell’uomo morto ai miei piedi – giovane, era terribilmente giovane – vagamente assomigliava al mio, anche se gli occhi erano meno grandi, eppure ugualmente scuri, profondi, come era profondo l’oceano.
Erano vitrei, gli occhi di chi non aveva più vita, e una mosca solitaria camminava vicino alle ciglia folte, mentre la pupilla offuscata guardava nel vuoto. I capelli lunghi, così lontani da ogni concezione maschile, erano neri, corposi seppure insudiciati dal pavimento umido e gocciolante i liquidi della terra: gli accarezzavano il volto dalle forme morbide, toccandogli le labbra sottili come se li avesse vomitati.
Il resto del corpo era nudo, le unghie violacee, il pube esposto e i piedi magri lambiti da una pozza d’acqua fetida. Scorsi dei segni sul collo, ferite poco al di sotto delle orecchie da dove era colato sangue ora rappreso e scuro, così scuro da distinguersi a fatica dai capelli incrostati.
Annaspai un istante, in cerca d’aria. Mi detti dello stupido.
Avevo visto tanti cadaveri e orrori, in vita mia. Perché il corpo di quel giovane uomo, nemmeno eccessivamente devastato dalla morte, doveva farmi quell’effetto? Avvertii una fitta alla testa. Maledizione. Sembrava stesse andando meglio in quel periodo, ma ogni tanto le emicranie ritornavano; ad Arkham mi avevano somministrato oppiacei, se i dolori avessero continuato avrei dovuto prendere qualcosa: non potevo lavorare a un caso con la testa spaccata in due dal male.
Mi rimisi in piedi, mentre Allen sfiorava con una penna le labbra prive di sangue del cadavere; scorsi i denti bianchi simili a perle, così come intravidi da lingua gonfia.
“Si è conservato bene, per essere in questo posto merdoso – commentò, grattandosi la barba non fatta – sapete chi è?”
“Un Uchiha. Si somigliano tutti, o quasi.” Replicò asciutto Zadok Marsh.
“Beh, ci servirà un po’ più di questo.” Ribatté il mio collega, per poi esaminare le mani della vittima, curvo su essa.
Scrocchiai appena il collo, ignorando il borbottio del poliziotto che sembrava piccato, così come ignorai il campanello d’allarme nel sentire quel cognome che mi risultava familiare. Effettivamente, Uchiha era un nome piuttosto frequente dalle parti di Innsmouth, anche se, a quanto ne sapevo, i primi con quel cognome si erano insediati nella cittadina molto più tardi rispetto ai ben più antichi rappresentanti della famiglia Marsh.
Tirai un sospiro, per poi concentrarmi sui segni della parete. Vidi delle incisioni nel mattone, scritte in un linguaggio che non comprendevo, ricche di consonanti capaci di dar vita a suoni gutturali; tali incisioni erano accompagnate da immagini di creature grottesche con denti aguzzi e occhi sconosciuti al pari dell’universo. Alcune parole erano state nuovamente ricalcate con quello che sembrava sangue, anche se ormai secco, il quale in precedenza era colato oltre le scanalature scavate nel mattone, fino a venire assorbito e lasciare una crosta scura.
Capivo perché eravamo stati chiamati noi e non uno qualsiasi della Omicidi per quel caso: la posizione innaturale del corpo, i segni e le immagini erano prova del coinvolgimento di una setta o, se non altro, di un gruppo di adoratori di una qualche forma di divinità, forse quella stessa creatura incisa sulla parete che sembrava scrutarci dall’abisso. Non mi piaceva per nulla, mi trasmetteva un tremendo senso d’angoscia.
Chiusi gli occhi, nel tentativo di contenere una nuova fitta di mal di testa.
Non parlai, ma Allen si era alzato in piedi a sua volta, cominciando a segnare su di un taccuino le parole incise e, con una rapidità sommaria, ritrarre la creatura tracciata sul mattone impregnato di muffa. La luce delle candele ondeggiò un istante, soffocata dall’oscurità lugubre della stanza, poi riprese a stabilizzarsi, al pari della torcia del poliziotto ancora puntata sul cadavere. La mosca era scomparsa. Si sentiva il ticchettio dell’acqua che colava lenta dai muri e i nostri respiri ovattati, nient’altro.
In lontananza, però, a tratti credetti di sentire la risacca del mare, per quanto Innsmouth fosse caratterizzata da una calma piatta dell’insenatura che ricordava una palude, piuttosto che una località marittima.
Henry segnò altri dati forniti dal poliziotto, poi richiuse il blocchetto e lo rimise in tasca; nessuna informazione essenziale a dire il vero, ma probabilmente era inutile pretendere altro, data la scarsa collaborazione dell’autorità locale.
“Andiamo a parlare con questo Daves, poi ci cerchiamo un posto in cui dormire – spostò lo sguardo verso la nostra maleodorante guida che gli puntò la luce contro – spostate il cadavere all’obitorio. Domani voglio darci un’occhiata con un’illuminazione migliore. E, per Dio, mettetelo in una ghiacciaia prima che marcisca ancora.”
Colsi una vaga smorfia sul suo volto, con qualche ruga d’espressione più marcata delle altre e gli occhi grigi, plumbei, dall’iride contratta per via del fascio luminoso.
“Chiamerò i miei colleghi. L’obitorio è vicino alla chiesa.” Rispose la guardia in una sorta di gracidio cavernoso.
“Daves è al pub, dicevi?” domandai, dopo aver registrato mentalmente l’informazione.
L’uomo mi scrutò un istante con i suoi occhi acquosi, gonfi come quelli di una ranocchia in procinto di essere schiacciata. Poi annuì con un cenno, si avvicinò allo stipite dell’ingresso che dava sulle scale e puntò il raggio di luce: “Andate. Qui ci penso io.”
Mi guardò quando lo disse; il tanfo di marcio si fece più forte. Cominciai a salire le scale senza nemmeno attendere Allen o ribattere con qualcosa di ironico: volevo solo prendere aria, smettere di avere davanti agli occhi lo sguardo di quell’uomo e i disegni di una creatura antica tracciata nel sangue.
Quando fui all’aperto, presi grandi boccate di ossigeno, per quanto gli odori fossero rivoltanti e l’aria come contaminata da qualcosa di rarefatto, ma già andava meglio rispetto a quello scantinato soffocante.
“Shisui, si può sapere che ti è preso?” domandò Allen, uscendo a sua volta in strada.
“Niente, è che – mi bloccai un istante per poi ripetere – niente.”
Mi lanciò un’occhiata perplessa, ma forse non aveva intenzione di indagare oltre perché prese a camminare, per poi esortarmi:
“Andiamo a trovare questo Daves, vediamo se nel frattempo c’è qualcun altro che sa qualcosa. Tu non hai visto com’è morto il ragazzino qui a Innsmouth un anno fa, vero?”
“No. In quel periodo non ero esattamente lucido.” Replicai, infilandomi le mani in tasca mentre raggiungevo il mio collega.
“Il manicomio ad Arkham?”
“Sì.”
“Capisco – dopo un istante però si bloccò, portandosi davanti a me, e mi disse, fissandomi senza battere ciglio – abbiamo affrontato qualche caso assieme da quando ti sei ripreso. Non ti conosco, né so perché hanno voluto darmi qualcuno con cui investigare, però mi sembri uno in gamba, anche se a volte ti comporti da cazzone. Ma ti avviso: non dare di matto qui, siamo intesi? Non farlo in generale, però a Innsmouth in particolar modo… evita. Non perdona.”
“Lo so.” Replicai di getto, senza nemmeno rendermene conto. “So che non perdona.”
Assottigliai le labbra, sentendomi schiacciare. Non sapevo da cosa, lo avvertivo e basta.
Allen mi fissò. Sembrò in procinto di aggiungere altro, ma alla fine optò per riprendere a camminare e io lo imitai, artigliando alle cosce le mani tenute in tasca.
Giungemmo in fretta al pub, l’unico presente nella cittadina, riconoscibile per via dell’insegna ‘Pub da Bob’ dipinta con vernice ormai sbiadita in alcune lettere. Un tizio vestito di stracci era accovacciato a terra in una pozza di vomito, con il profilo che si intravedeva appena nella penombra del vicolo. Dopo avermi osservato brevemente, Henry cominciò a entrare ma io, appena la porta cigolante si richiuse alle sue spalle, mossi un passo, portandomi di fronte all’uomo a terra.
Non seppi esattamente perché, eppure mi chinai, ignorando il fetore che proveniva da quel corpo ripiegato su se stesso. Scorsi la barba sudicia e il volto scavato da rughe, consumato, i denti saltati della bocca arida semiaperta e le gote, come il naso, coi capillari scoppiati: un bello schifo, ma temo di aver sempre avuto una mia personale propensione all’orrido.
Sembrava ancora vivo, il respiro era rantolante e incerto.
“Daves.” Affermai, sicuro, sicurissimo che fosse lui.
Non dovevo aver mai visto quel volto in vita mia, eppure ero ugualmente certo che quello fosse il nostro uomo. Mi voltai un istante: nel vicolo non c’era nessuno, si udiva a malapena un vociare ovattato della gente all’interno del pub – tranquillo, per essere il tardo pomeriggio in una comunità così isolata.
Allungai una mano per provare a scuoterlo. Gli scrollai le spalle, afferrando quello che sembrava essere un cappotto rattoppato, dalle maniche e cuciture consunte; avvertii il tessuto liso sotto la mia presa, mai lavato, impregnato vagamente di salsedine incrostata tra le pieghe dell’abito.
Ma l’uomo non si mosse, gli occhi riversi e una leggera bava che cominciò a colare dalla bocca riarsa.
Merda.
Stava morendo, soffocato nel suo stesso vomito? Fantastico, risulto sempre essere l’uomo sbagliato nel posto peggiore di sempre. Pensai di sollevarmi e chiamare aiuto, anche se non sapevo che generi di tutele mediche vi fossero in un posto come quello.
Quando mi alzai in piedi, però, qualcosa mi afferrò una caviglia. La presa d’acciaio mi artigliò con un movimento talmente rapido da farmi quasi inciampare; con il cuore in gola abbassai lo sguardo e vidi Daves, lo stesso vecchio stramazzato al suolo, che si era rialzato con una piega innaturale del busto, le gambe ancora accovacciate sul suolo lercio, mentre la mano dalle unghie sudice, rotte e troppo lunghe, non accennava a lasciarmi andare.
Mi guardò dritto negli occhi, individuandomi oltre la semioscurità dopo aver ignorato la mia paura. Erano gli occhi di un morto, spenti eppure feroci, rancorosi, di chi un giorno avrebbe perseguitato una vita per saziarsi nella morte.
“Non fidarti di lui!”
Rantolò, oltre i pochi denti marci, la lingua gonfia che articolò le parole senza muoversi, quasi come se esse provenissero dall’interno della cassa toracica dilatata, quasi avesse inspirato l’aria necrotica di Innsmouth.
“Lui chi? Di chi stai parlando?” esclamai, paralizzato. Le unghie mi scavarono, volevano entrarmi nella pelle per scoperchiarmela come una vecchia coperta.
Feci per chinarmi e afferrare l’uomo, ma questi smise di guardarmi. Rise. Una risata innaturale, grottesca, con gli occhi che si girarono al contrario fino a mostrare il bianco del bulbo. Altri capillari scoppiarono, il sangue colò oltre il naso, la bocca incrostata di vomito e morte.
Poi si bloccò. Mi lasciò andare la caviglia e la mano rimase immobile, contorta come una foglia riarsa; un istante dopo, Daves voltò con un movimento brusco la testa verso l’alto: sembrò quasi che delle mani invisibili lo avessero costretto a osservare il cielo, finendo per tendergli il collo con una violenza che non gli dette tempo di prendere la boccata d’aria successiva.
Udii uno scrocchiare brusco di ossa, secco e tremendo. Indietreggiai di un passo. Daves cadde in avanti, schiantando la testa sul pavimento sudicio, tra il vomito e i liquami del vicolo ombroso.
“Shisui, si può sapere che cazzo stai…”
Per un istante non udii alcuna parola. Le orecchie mi fischiavano, sentii solo il rush violento del sangue alla testa, della paura, dell’istinto feroce di sopravvivenza che mi diceva di andarmene, fuggire, prima che fosse troppo tardi.
Non avevo sentito nemmeno la porta aprirsi con un cigolio sinistro, i passi, la sua presenza.
“Underwood!”
Sussultai. Spostai lo sguardo e vidi Allen che mi guardava, tenendosi il cappello come faceva sempre in situazioni di crisi improvvisa – ero sempre stato bravo a capire le persone, le osservavo, giusto?
“Questo era Daves – ritrovai il controllo sulle parole, anche se uscirono simili al singhiozzo di un motore – è soffocato nel suo stesso vomito.”
C’era altro. Ma quell’altro non mi piaceva: aveva portato un vecchio ubriacone alla morte prima dell’alcool da cui era dipendente.
“Fanculo – ringhiò Henry, dopo aver spostato lo sguardo con irritazione e un sentimento di remoto disgusto – nessuno eccetto questo vecchio stronzo sembra sapere nulla degli omicidi che ci sono stati, né della connessione a una setta. Vado a chiamare quel coglione di Marsh, tu fai in modo che nessuno si avvicini al cadavere di Daves: era uno attaccato alla bottiglia, ma ho visto troppe cose per credere che chi ha trovato il cadavere sia morto per una bevuta di troppo proprio dopo il nostro arrivo.”
Non mi piaceva per niente l’idea di fermarmi in quella strada, ma capivo il ragionamento di Allen e non potevo essere più d’accordo sulla coincidenza nefasta di eventi.
“Stai attento.” Gli dissi.
“Già. Anche tu.” Replicò l’altro, sistemandosi meglio il cappello.
Uscirono due uomini dal pub. Avevano i capelli neri, i lineamenti morbidi, più aggraziati di quelli del poliziotto. Si assomigliavano, in un certo senso, forse era per il taglio degli occhi scuri, forse per via dei capelli neri e lisci.
Mi guardarono un istante, ma nemmeno sembrarono notare il cadavere alle mie spalle: si limitarono giusto a lanciare un’occhiata ad Allen che li scrutò, sul chi vive. Passarono oltre, allontanandosi dal vicolo per entrare nella strada principale.
Espirai, per poi scuotere la testa:
“Ma che problemi ha questa gente? Un cadavere! C’era fottutissimo un cadavere e l’hanno totalmente ignorato!”
Henry li scrutò un istante prima di vederli sparire e commentò:
“Non lo so. Secondo me è l’aria di questa città che fa andare fuori di testa. Ritorno con Marsh per portare via il cadavere. Se non mi vedi prima che faccia buio prendi la macchina e ritorna a Boston, avvisa i capi che mandino qualcuno armato di tommy gun.”
Sembrò quasi scherzare, ma l’espressione era seria.
“Non ti abbandono in mano a psicopatici, Henry. E se lo dico io che sono stato in un manicomio, sono psicopatici proprio.” Replicai con aria tranquilla, persino scanzonata. Non so come riuscii a cambiare tono così bene, quando fino a poco fa credevo di aver sputato il cuore.
Il mio collega mi guardò un istante. Non ribatté. Scosse le spalle, si accese una sigaretta e si allontanò, con le volute di fumo che lambivano le poche luci dei lampioni dalla fiamma traballante.
Prima che facesse effettivamente buio, anche se qualche candela si era spenta e il pub era silenzioso, vidi rientrare Allen, accompagnato da Marsh e da un suo collega, almeno a giudicare dalla sua divisa. Come lui, anche l’altro poliziotto aveva lo stesso aspetto grottesco, gli occhi sporgenti, gonfi, esattamente come le labbra umide di chi sembrava essersele appena leccate.
“Cosa abbiamo qui. Il vecchio Daves non ha passato la sbornia, questa volta.” Commentò Marsh, senza curarsi di apparire nemmeno lontanamente dispiaciuto.
Illuminò il cadavere con la torcia. Il collega si limitò a una mezza risata gracidante, gutturale, però non parlò, anzi, spostò gli occhi verso di me, per guardarmi senza battere ciglio.
“Nessuno di voi sembra particolarmente affranto.” Replicai a bruciapelo.
Cercai lo sguardo di Allen che però, adombrato dal suo cappello, sembrava essere concentrato sul cadavere.
“Un ubriacone senza soldi e senza casa. Un problema in meno – liquidò il poliziotto, facendo ondeggiare appena la luce – avete ottenuto le informazioni che cercavate?”
Mi chiese. Sentii una nota di provocazione nella voce, o forse ero io a credere fosse così.
“L’indagine proseguirà. Verificheremo anche le cause del decesso di quest’uomo, domani all’obitorio. Possiamo contare sulla vostra collaborazione?”
Domandai, con un sorriso tagliente.
Marsh mi restituì uno sguardo cattivo e sussurrò con voce roca: “Certo, detective Underwood.”
“Perfetto.”
Ci osservammo un istante, poi il poliziotto passò oltre e si chinò, facendo cenno al collega per prendere il cadavere di Daves. Sembrò che non provassero nulla all’idea del sudiciume, del tanfo di morte e marcio che proveniva da quel corpo, forse dall’intero vicolo. Lo trascinarono via sotto il nostro sguardo, lasciandoci soli.
Li scrutai un istante, poi mi voltai verso Allen. Era ancora immobile.
“Henry?” domandai dopo un istante.
Lui sembrò riprendere vita, anche se non mi rispose. Prese una nuova sigaretta, la accese con un gesto quasi meccanico e aspirò diverse boccate di fumo in rapida sequenza, quasi avesse dovuto bruciarla prima dello scadere di un cronometro invisibile.
“Vai all’albergo. Domani procediamo con l’autopsia, poi ce ne andiamo da questa fottutissima città.”
Inarcai un sopracciglio. Notai il leggero tremore della mano. Allen non aveva mai tremato, nemmeno quando aveva assistito a casi di magia nera giù a Dunwich.
“Cos’è successo? – gli chiesi d’impulso – Marsh ti ha detto qualcosa, ti…”
Ma lui mi afferrò per il bavero della giacca e avvicinò il mio volto al suo, investendomi di una boccata di nicotina e carta bruciata. Vidi gli occhi: erano occhi di chi era sopravvissuto a qualcosa, occhi saggi, eppure spaventati.
“Sentimi bene, Shisui – dilatò appena le narici, per poi ribadire, quasi dopo un ripensamento – chiudi a chiave la camera, questa notte.”
“Cos…” cercai di dire.
“Tu fallo e basta.”
Portai una mano avanti, annuendo: “Ok, ok, lo farò, ma tu dove hai intenzione di andare?”
Mi lasciò, si sistemò il cappello e scrollò la cenere, tenendo un istante la sigaretta tra le dita ingiallite per il contatto con la sigaretta. Me la puntò contro quando rispose: “Devo capire alcune cose. Ti busserò alla porta della stanza quando rientro.”
Mimò il colpo, quattro volte.
Annuii, con la bocca riarsa.
Sembrò soddisfatto, perché tirò fuori dalla tasca interna del cappotto un involucro un po’ schiacciato che afferrai all’ultimo, preso in contropiede.
“Che roba è?”
“Pasticcio preso al pub: sono vecchie verdure, forse marce. Meglio di quello di carne, considerato il posto. Ci vediamo tra un po’ all’albergo.”
Lanciò il mozzicone di sigaretta a terra, calpestandolo un paio di volte. Poi cominciò a camminare e io lo seguii fino alla fine del vicolo; sulla strada principale, ci separammo.
Mi diressi all’albergo, presi la stanza, provai a mangiare un boccone della pietanza ma non riuscii a dare che qualche morso; non solo quel tortino sapeva di muffa e di stantio, ma io stesso avevo un nodo che mi attorcigliava lo stomaco, torturato dalla consapevolezza di qualcosa che avrei dovuto sapere eppure non riuscivo a ricordare.
Le fitte alla testa erano riprese, così abbandonai sulla scarna scrivania polverosa la mia tremenda cena, mi detti una sciacquata sommaria con l’acqua disponibile nel catino e mi sdraiai sul letto, vestito di mutande e canotta. L’altro letto poco distante che avrebbe dovuto ospitare Allen era logicamente vuoto.
Guardai un istante il cielo attraverso l’unica finestra presente: c’era quasi luna piena, si intravedeva oltre la coltre di nubi, e illuminava di una luce innaturale la stanza che puzzava di chiuso. Udii qualcosa grattare nel legno vecchio, forse erano tarme.
Lanciai un’occhiata alla porta. Mi alzai di scatto, ricordandomi che non l’avevo chiusa a chiave. Quando udii la serratura scattare sospirai brevemente, per poi tornare nel letto. Mi detti dell’idiota: avevo sempre affrontato le situazioni con piglio più energico, eppure in quel luogo mi sentivo inquieto, per quanto con addosso la sensazione che determinate cose stessero tornando esattamente come volevo. Non saprei spiegarmi diversamente. Forse, avrei dovuto riprendere a leggere qualche libro, la dialettica era sempre stata il mio forte.
Mi addormentai, cullato dal ticchettio di qualcosa che gocciolava.

*

Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.

Parole. Nomi. Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti, gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela come per mozzarmela.
Provai a respirare, a parlare, a muovermi, ma ogni mio muscolo era inchiodato al letto: qualcosa di oscuro e potente mi schiacciava contro il materasso. Lo avvertii bagnato, fradicio di acqua gelida, ne percepii l’odore palustre, di muffa che divorava i mattoni degli scantinati e penetrava fin nelle ossa, divorandole.
Poi, udii un ticchettio. Altra acqua. Più veloce, sempre più veloce. Scorreva, rapida, continua, un flusso veloce quanto la litania di parole oscure.
Allora, riuscii a risollevarmi con il torso. Avvertii quasi la pelle della schiena strapparsi e annaspai, rantolando, come un vecchio che si aggrappa all’ultima boccata di ossigeno per vivere ingordamente un giorno in più.
La stanza era divorata dall’oscurità, eccetto per il fascio lunare azzurrognolo che tagliava il pavimento, lambendo le assi divelte e rigonfie d’umidità.
Lanciai un’occhiata al letto di fianco al mio. Allen. Non era ancora tornato. Non avevo idea dell’ora, c’era solo la luna alta nel cielo e nemmeno una stella oltre le nubi grigie.
Mi portai una mano al petto, come per impedire al cuore che scalciava feroce di schizzarmi fuori dalla bocca. La sentii asciutta, sembrava mi avessero tolto la saliva, prosciugandola.
Quando il cuore si placò, mi coprii un istante il volto, per poi scuotermi la chioma dei miei capelli già mossi.
Fu allora, in quel preciso istante di silenzio assoluto, che udii l’acqua, qualcosa, perché non ero certo fosse acqua, riprendere a ticchettare. Le orecchie fischiarono, nel teso tentativo di mettere in allerta tutti i miei sensi, spinto da un istinto primordiale di sopravvivenza.
Girai il volto di scatto.
La finestra.
C’era qualcosa di lucente che stava colando, lento, oltre gli infissi e il davanzale, picchettando a terra in gocce rese più luminose dalla luce solare. Ritrassi le gambe pronto a scattare. Non sapevo nemmeno dove: se verso la finestra, per bloccare il flusso, o la porta, ricordandomi di averla maledettamente chiusa a chiave.
La finestra si spalancò. All’improvviso.
Sussultai, artigliando le mani al letto, senza riuscire a sollevarmi. Non entrò una folata di vento, nulla, ma l’acqua riprese a gocciolare più veloce, con un ritmo persino incalzante.
Un’ombra.
Un’ombra sembrò strisciare attraverso l’apertura, lenta a differenza dell’acqua grondante; alle sue spalle la luce lunare mi impediva di distinguerne il profilo.
Cerca di rimettermi in piedi, per trovare a tentoni i pantaloni abbandonati poco più in là e la pistola. Riuscii ad afferrarla e con un movimento rapido la puntai contro l’essere che gocciolava a sua volta acqua, con la schiena leggermente curva e una massa di qualcosa di pesante che pareva costringerlo a chinare il capo, qualcosa pregno di ulteriore acqua. Mi arrivò alle narici un odore di mare, di alghe e di salsedine, pareva quasi fresco, più salubre rispetto all’odore palustre di Innsmouth, ma ugualmente opprimente.
Non parlai, cercai di controllare il tremore della mano, perché quando la creatura prese ad avanzare con passo strascicato tolsi la sicura in uno scatto secco e sparai. Riecheggiò un colpo, le orecchie mi fischiarono, eppure riuscii lo stesso a udire il tintinnio del guscio del proiettile che cadeva a terra.
L’odore di polvere da sparo per un attimo impregnò l’aria, ma venne assorbito in fretta dagli umori che infettavano la stanza e tutta quella dannatissima città.
Non mi resi conto nemmeno di aver smesso di respirare.
Istanti. Fu questione di istanti affinché la creatura, immobilizzata dal colpo, sollevasse gli avambracci. Riuscii a distinguerli e rimasi sconvolto quando realizzai che c’erano delle scaglie, infinite e minuscole scaglie che rilucevano sotto i raggi della luna.
Sembrò portarsi quelle che forse erano mani, palmate, al petto.
Mosse un passo, poi un altro.
“Indietro! Dannazione, stai indietro!” esclamai, serrando la presa sull’arma.
A quel punto, l’essere si fermò di nuovo. Da quella posizione la luna lo illuminò meglio e distinsi i contorni di quello che sembrava un essere umano. Non capivo, avvertivo la testa leggera, confusa, l’emicrania era sparita, il cuore batteva veloce, tanto veloce da rimbombarmi nella scatola cranica, quasi fosse stato lì.
La creatura sollevò la testa: il manto che la ricopriva, simile a capelli lunghi, lisci, gocciolanti acqua, ricordava delle alghe, una massa fitta di alghe scure e pregne d’acqua. Con quel movimento, rivelò il volto.
Annaspai, in cerca d’aria, quando lo riconobbi.
“Tu… tu sei il ragazzo morto nello scantinato.”
 Non riuscii a sparare, il mio corpo intero era come paralizzato.
Gli occhi mi scrutarono, la pelle ricoperta da scaglie sembrò rilucere maggiormente, come bagnata. Le mani palmate, dalle dita aggraziate e diafane, tornarono a posarsi sui fianchi. Gli occhi profondi avevano ciglia che ricordavano infiniti coralli dalle sfumature bluastre. Era nudo, bellissimo e letale.
Quando parlò, attraverso le labbra sottili dal profilo violaceo, sussurrò parole che ricordarono il suono della risacca del mare intrappolata in una conchiglia.
“Itachi Uchiha. Attendevo il tuo arrivo, Shisui.”




Sproloqui di una zucca

Bene, che ne dite di questa storia? In prima persona, perché secondo me è più immersiva dato il genere e la tipologia di cose che volevo trasmettere; poi dal punto di vista di Shisui, quindi un esperimento particolare, in quanto rimanere fedeli al suo pseudo-carattere (pseudo, dato che Kishimoto l'ha giusto abbozzato) comportava un personaggio abbastanza ironico che ha creato un contrasto per me affascinante rispetto alle atmosfere cupe.
Ci saranno in totale tre capitoli con vari cambi di scenario, spero che la narrazione possa acchiappare, per quanto particolare forse; per gli amanti di Lovecraft, mi auguro possa richiamare almeno un pochino certe atmosfere alle quali ho voluto rendere omaggio, pur con tutte le variazioni del caso.
A seguire un po' di info:
l'intera storia è ambientata nel Massachusset, appunto, che ha come capitale Boston. Stato molto usato da Lovecraft nei suoi racconti e sede di città inventate quali Innsmouth (popolata anche da sorta di uomini-pesce fedeli a Dagon), Arkham (da qui il riferimento al manicomio in cui ha soggiornato Shisui, oppure la Miskatonic University) o Dunwich (per i casi di magia nera menzionati da Shisui facevo riferimento a l'Orrore di Dunwich).
Il periodo storico è volutamente non chiaro: volevo dare cenni di un'ambientazione anni '30 senza però esserne incatenata, proprio per poterla rendere concreta anche ai giorni nostri.
Per i nomi: per Shisui è voluto il cognome Underwood, c'è una ragione ben precisa; Zodak Marsh prende il nome da Zodak Allen, il marinaio ubriaco che Nella Maschera di Innsmouth da informazioni al protagonista - ubriaco che io ho omaggiato nella figura di Daves - lo stesso Allen da il cognome al mio detective Henry Allen, tra l'altro tantissimi personaggi in Lovecraft hanno il nome Henry (basti pensare a Henry Armitage, tanto per dirne uno).
La frase 
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn si può tradurre generalmente come 'In his house at R'lyeh, dead Cthulhu waits dreaming' (Nella sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando). Litania usata nella mitologia di Lovecraft per riferirsi alla città sommersa di R'lyeh dove appunto dimora il Grande Antico Cthulhu. Questa città sarà molto importante, non dimenticatevela XD

Bene, direi di aver detto tutto. Al prossimo capitolo :3

Fanart: http://intheendlessbluewine.tumblr.com/post/159407749759/something-about-tragic-boys-and-drowning-yourself

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Capitolo 2
*** II - Crepe ***


Abisso cap 2




Abisso


II
Crepe



Nella vita, esistono dei momenti ben precisi in cui bisogna rendersi conto che non sempre la razionalità è la soluzione per tutto. Forse per questo sin da ragazzino sono stato un fiero sostenitore delle scelte istintive; almeno, suppongo, visto che non ho memoria di chi ero o di cosa facevo. A giudicare da come sono andati questi mesi, ritengo comunque di aver aderito a questa tipologia di scelta proponendomi come un valido esempio di detective dalla testa calda.
Il che ha fatto esasperare Allen nelle poche volte in cui abbiamo collaborato a qualche caso. A mio discapito, però, se nemmeno uno irascibile come lui mi ha ancora ucciso vuol dire che qualcosa di buono riesco a combinare, no?
E poi sono simpatico. Il genere di persona che riesce a smorzare la tensione con una battuta carismatica, abilità da non sottovalutare quando le cose sono andate oltre il livello di disastro totale.
Ma in quel momento, in una notte lunare a Innsmouth passata in una locanda fatiscente, non mi sentivo per nulla simpatico e, sinceramente, avrei voluto aggrapparmi a un barlume di razionalità per spiegare come fosse possibile che un ragazzo morto da giorni, all’improvviso, mi comparisse davanti, trasformato come se avesse sempre vissuto in una realtà acquatica parallela alla mia noiosa esistenza umana.
“Tu eri morto – biascicai, incredibilmente a corto di parole – e come fai a sapere il mio nome?”
Colui che si era presentato come Itachi Uchiha era rimasto fermo. Gocciolava acqua solo dai capelli che ricordavano folte alghe, mentre la pelle a scaglie riluceva umida.
L’espressione sembrò ammorbidirsi, quasi stesse provando compassione per la mia reazione sconvolta, infine replicò con la sua voce che conteneva in sé l’eco del mare:
“Quindi hai perso la memoria – sembrò dispiaciuto, persino più di quanto lo fossi io – con il tempo ti spiegherò tutto. Ma ora… dobbiamo fuggire. Se rimani qui morirai, Shisui.”
Bene, fantastico, non solo il mio collega era scomparso, ora dovevo trovarmi un cadavere misterioso che mi avvertiva riguardo la mia morte prossima.
“So che la città fa schifo, ma da qui a morir…”
“Ascoltami. Prendi le tue cose e fuggiamo. Ti guiderò fino al luogo in cui potremo fermarli: aiutami, prima che sia troppo tardi.”
Lo scrutai, incurante di mostrare una smorfia perplessa. I suoi occhi scuri però erano intensi, profondi, così umani da far spavento.
“Aspetta, aspetta: sto per morire, ma mi chiedi di venire con te per tipo… cosa? Salvare il mondo?”
Feci un sorriso di scherno.
Itachi mi guardò, immobile e silenzioso, perdendo quell’aura di affetto che mi aveva perseguitato in quegli attimi, al punto da desiderare poterla contemplare ancora, ancora e ancora.
“Per evitare la fine del mondo come lo conosciamo.”
Bussarono alla porta.
Sussultai, sentendo il cuore schizzarmi in gola. Mi voltai di scatto verso l’ingresso, udendo una successione di colpi dal ritmo preciso. Quattro, per la precisione.
“Henry.”
Mormorai, sgranando gli occhi. Scattai ad aprire la porta, ma Itachi mi afferrò. Avvertii il tocco freddo delle sue mani sulla pelle: non umido come mi sarei aspettato, ricordava più un oggetto lasciato all’aperto in una notte gelida.
“No. Non aprire.”
Lo fissai. Dall’altra parte della porta, dopo i quattro colpi era caduto il silenzio. Vidi un rivolo d’acqua colare oltre i capelli che accarezzavano il torace bluastro di Itachi, senza capezzoli o ombelico, un corpo non generato dalla vita ma da qualcosa di oscuro.
“Lasciami.”
Con un gesto brusco allontanai il braccio, anche se sentii qualcosa dentro strapparsi, quasi fossi stato io a essere ferito da quelle parole. Itachi non tentò nuovamente di bloccarmi.
Corsi alla porta e faticai per qualche istante a girare correttamente la chiave, dandomi dell’idiota con maggiore frequenza di altre volte, infine la spalancai.
“Allen!” esclamai, vedendomi davanti il mio collega. Notai che aveva perso il cappello, i vestiti erano malconci e non accennava a muoversi; forse per via di Itachi: anche per lui doveva essere stato un bello shock notare il nostro oggetto d’indagine tornare in piedi vivo e vegeto.
Mi girai un istante verso di Itachi e mi resi conto che lo sguardo era fisso oltre le mie spalle, come in attesa di qualcosa. Lo seguii, avvertendo più distintamente l’odore del mare cercare di coprire un profumo dolciastro, nauseante. Non un profumo, realizzai, affatto: un olezzo di morte, di un cadavere in putrefazione che presto avrebbe sperimentato la lenta decomposizione.
“Itachi…” mormorai.
No. Itachi era mare. Era quella spuma potente delle onde tempestose nascoste da un’apparente calma piatta. Tornai a guardare il mio collega. E prima che potessi dire altro, vidi i suoi occhi vitrei, la bocca esangue leggermente aperta e il volto terreo che spiccava più della barba non fatta da giorni.
Poi, all’improvviso, la sua testa scivolò. Lenta, com’era lenta la putrefazione, e in un suono vischioso si staccò dal collo, schiantandosi a terra in un tonfo reso ovattato dalle assi marce del pavimento.
Per una frazione di secondo il corpo rimase ancora in piedi, sospinto da qualcosa di più forte della gravità stessa, e io stentai a credere che quello fosse davvero Allen, o che la testa ai suoi piedi gli appartenesse. Infine, il mio collega, o quanto rimaneva di lui ancora intero, crollò e probabilmente mi sarebbe venuto addosso se Itachi non mi avesse afferrato per la maglia, tirandomi indietro con una forza spaventosa per quello che credevo essere un corpo asciutto, meno fisicamente massiccio del mio.
Sentii i miei stessi passi sul legno che scricchiolò lamentoso, assieme ai battiti del cuore che mi rimbombavano nelle orecchie. Merda. Merda. Merdissima.
Henry era morto, decapitato, testa tagliata e via. E io ero lì, in mutande, con una creatura innaturalmente bella e inquietante, nel peggiore posto di sempre in cui vivere un’esperienza simile.
Cercai di ritrovare la concentrazione, di pensare alle immagini serene come mi avevano insegnato a fare al manicomio, tra una medicina e una fumata d’oppio: una valle piena di fiori, una tavola con del buon cibo, una scopata. No, quella non era tra le visioni consigliate a degli internati, ma io ci pensavo lo stesso.
Mi passai una mano tra i capelli, ma mi voltai comunque verso Itachi quando questi disse:
“Attento. Ora è troppo tardi, dovremo percorrere l’altra via.”
“Che cazzo…”
Udii dei rumori. Di passi, pesanti, mal coordinati: sembravano appartenere a più persone, di corporatura grossa e sgraziata, probabilmente. Guardando verso l’entrata scorsi il corridoio buio rischiararsi da un fascio di luce, quello di torce.
Ripensai a Marsh. Quel grasso figlio di puttana.
“Stanno venendo a prendermi. Cazzo. Cazzo. E Allen… è stato decapitato, però non è schizzato sangue, non c’era pressione. Era già morto? Come…”
La mano che impugnava la pistola tremò leggermente. Deglutii, i passi si facevano più vicini e io ero a mia volta prossimo a morire: perché, me lo sentivo, chiunque fosse venuto a cercarmi mi voleva morto.
Non pensai a rivestirmi, né ad altre cose che in una situazione normale sarebbero sembrate importanti. Potevo sparare ancora diversi colpi, cinque per la precisione, senza ricaricare il tamburo: avevo modo di ucciderli, prima che uccidessero me.
Ma all’improvviso, senza parlare, Itachi mi afferrò il polso e io sentii qualcosa, dentro di me, entrare dalla pelle: una scarica prima di gelo che però si trasformò in una sensazione confortante, come se il mio corpo potesse venire plasmato e... mi andasse bene.
“Vieni con me.”
Il suono della risacca.
Lo ascoltai, accettando quello che mi diceva.

*

Avete presente un’allucinazione portata dagli acidi, solo, senza usare acidi? Probabilmente no, forse perché siete persone responsabili e non avete mai sperimentato nemmeno cosa accada o, forse, perché sembrerebbe impossibile ottenere un simile effetto senza l’ausilio di droghe. E, in effetti, fino a quella notte a Innsmouth avrei concordato con voi: i medicinali che mi davano quando ero internato sapevano catapultarmi in un mondo tutto mio, fino a farmi collassare in un sonno profondo, quello che gli infermieri del Manicomio di Arkham si auguravano per non dover sedare uno schizofrenico o un suicida durante il loro noiosissimo turno di notte.
Ma, appunto, Innsmouth ha cambiato moltissime mie percezioni su cosa potesse essere plausibile e cosa no.
Morti decapitati che camminano? Possibile.
Io che fluttuo sui tetti di Innsmouth trascinato da una creatura acquatica divenuta leggera, come nebulizzata nell’aria? Possibilissimo.
Perché è esattamente quello che ho vissuto scappando da quella claustrofobica camera della locanda.
Itachi mi sollevò da terra come se fossi stato un palloncino d’elio e, quasi in una forma fluida, con i capelli marittimi che avevano preso a fluttuare privi di gravità, mi portò con sé oltre la finestra da cui prese a grondare una cascata d’acqua. Acqua che arrivava dappertutto e, allo stesso tempo, da nessuna parte.
Volammo a pochi centimetri dalle tegole rossicce delle case, a tratti coperte di muffa, a tratti spezzate o mancanti, tra i fumi dei comignoli e le stelle che ci macchiavano la pelle lunare. Sentii delle urla frustrate e, infine, rumore di spari: mi voltai, per vedere Marsh, il suo collega e un altro che non avevo mai visto cercare di arrampicarsi oltre la finestra, ringhiando, perché i loro corpi rigonfi faticavano a passare attraverso.
Quando spararono seguii la scia dei proiettili che, però, fortunatamente ci mancarono, anche se alcuni finirono attraverso i capelli di Itachi senza mai farli smettere di fluttuare; a sua volta, lui non cambiò direzione.
Quando arrivammo alla macchina parcheggiata all’ingresso della cittadina, la creatura mi posò a terra e avvertii nuovamente il peso del mio corpo sul terreno, perdendo per un istante l’equilibrio. Mi appoggiai all’auto, con in testa mille domande, chiedendomi perché non potevamo continuare a elevarci per sempre o in che modo saremmo riusciti ad andarcene, inseguiti da mezza Innsmouth: udii infatti le sirene d’allarme che riecheggiarono tra le case decadenti e le vie sudice con un lamento stridente.
Ma, prima che potessi far presente di non avere nemmeno i pantaloni, figurarsi le chiavi della macchina, Itachi con uno scatto feroce, cambiando completamente la compostezza iniziale, tirò un pugno alla portiera e il vetro andò in frantumi infinitesimali; allo stesso tempo, lo sportello si aprì con un clack sordo.
“Sali, la macchina partirà. Ho ancora un’energia cinetica residua per avviare il motore.”
 “Ok, non so cos’hai detto, non so come hai fatto a fare tutto… – gesticolai, correndo verso il posto del guidatore – tutto questo, ma va bene lo stesso: l’importante è portare il culo il più possibile lontano da qui. Finché non troverò il modo di ammazzarli, dar fuoco a loro, alle catapecchie schifose in cui vivono e riprendermi il corpo di Henry. Merda, l’ho lasciato lì. Ma ti riporterò indietro, amico, lo farò.”
Borbottai qualcosa, giusto per parlare mentre il motore si avviava, e misi la retro.
Guardai Itachi, in piedi dove ancora c’era lo sportello dal vetro in frantumi, la mano sanguinante con delle schegge piantate dietro: il sangue era scuro, simile a melma delle profondità oceaniche prive di luce, ma lui non sembrò sentire dolore.
“Sali 
 lo esortati – se puoi salire o, non so, fluttui, quella roba lì.”
Avvertii degli spari in lontananza, accompagnati da urla che ricordarono più ringhi.
Itachi sembrò esitare un istante, poi aprì del tutto la portiera e si sedette, con un movimento meno fluido e più impacciato, quasi il suo corpo dovesse abituarsi a un simile oggetto umano.
I suoi capelli d’alga gocciolavano ancora acqua, impregnando il sedile, al punto che scorsi una pozza formarsi ai suoi piedi, mentre le dita erano connesse da una guaina trasparente, come fossero palmate, al pari dei piedi. Era nudo, ma non aveva genitali.
Curioso riuscissi a notare tutti quei dettagli in una situazione simile; allo stesso tempo, seppur inseguito al punto da sentire il fiato odoroso di pesce marcio di Marsh e degli altri sul collo, provai una sorta di stupida e adrenalinica esaltazione.
Anche se sostanzialmente mezzo nudo, con solo una pistola che gettai in grembo a Itachi, sentii finalmente di essere nel mio elemento: in una macchina che conoscevo come le mie tasche, finalmente fuori da quella camera opprimente e con la cittadina che presto sarebbe stata alle mie spalle. Sull’onda della positività, mi ricordai di avere nel cruscotto qualche soldo di emergenza che mi portavo sempre dietro, oltre a un distintivo di riserva, contraffatto da falsari che mi dovevano dei favori: spesso, il fondo monetario dato dalla Centrale era ridicolmente misero, e perdere il portafoglio con il distintivo vero nei posti più impensabili era all’ordine del giorno.
Infine, quegli stupidi uomini-pesce non mi avevano nemmeno tagliato le gomme dell’auto per rallentarmi la fuga – a Boston mi avrebbero fatto saltare direttamente la macchina; forse erano convinti di non vedere mai più il ragazzo morto nello scantinato che, invece, era riuscito a portarmi in salvo.
Mi inoltrai a tutta velocità nella strada sterrata fuori Innsmouth, scorgendo attraverso lo specchietto retrovisore le forme sgraziate di Marsh e degli altri che tentarono, furenti, di spararci contro. Ma ero già lontano per venire raggiunto dai proiettili che s’infossarono tra la polvere.
“Grazie.”
Riuscii a mormorare, ritrovando il mio piglio socievole. Avevo bisogno di dire qualcosa, qualunque cosa, meglio se, nel farlo, potevo esprimere la mia gratitudine per essere sopravvissuto.
Per un attimo Itachi non mi rispose, nemmeno mi guardò. Aveva il volto distante, perso a contemplare forse il cielo notturno e le sue stelle.
“Dirigiamoci a sud, verso il promontorio dove c’è l’isola di Nodens. Sarà un viaggio lungo; ti chiedo se, nel mezzo, possiamo fermarci in un motel.”
Istintivamente, sorrisi nel sentire quel linguaggio così educato, persino gentile, che fece riecheggiare qualcosa nelle mie memorie disastrate. Un senso di calore, persino d’affetto.
“Sì, certo.” Replicai senza nemmeno pensarci.
“Grazie.” Rispose Itachi, riecheggiando la mia stessa parola di prima.
Continuai a guidare.

*


Il viaggio in macchina era stato rilassante; provai un vago senso di sonno una volta che la tensione di quella corsa folle scemò, lasciandomi intontito e meno lucido mentre percorrevo le strade scarsamente illuminate del Massachusset. Lanciai un’occhiata a Itachi che sembrava invece non necessitare di sonno: nella penombra pareva un essere umano qualsiasi, anche se teneva a distanza la pistola come se gli desse fastidio; per il resto, quasi non si muoveva.

“Puoi metterla nel cruscotto, se vuoi.” Gli dissi, riprendendo a guardare davanti a me.
Sentii la sua occhiata addosso, infine la replica apparentemente pacata: “Meglio che non tocchi troppo la tua macchina. Credo di avere una buona conduzione e non vorrei compromettere il sistema di avviamento.”
“Accidenti, addirittura? C’è qualche altro superpotere di cui non sono a conoscenza?” scherzai, stropicciandomi un istante gli occhi mentre mi toglievo un po’ del torpore di dosso, grazie a un incipit di una sana conversazione – la mia specialità.
Avvertii un accenno di risata. Forse me l’ero solo immaginata, non potendo vedere l’espressione della creatura se non di sfuggita.
“Non è una questione di poteri. Sono solo diverso rispetto a un essere umano.”
“Quindi… non sei umano? Perché quello che credevo fosse il tuo corpo mi sembrava proprio appartenente a un uomo.”
Replicai, con istintiva ironia. Gli lanciai un’occhiata rapida per cogliere un’espressione ferita e antica, persino saggia; mi pentii di essere stato così diretto.
“Scusa, non…” feci per dire, ma lui scosse la testa.
“Avevo sembianze umane – sentii che continuava a scandagliarmi, come per studiarmi – finché non sono state risvegliate le mie vere origini. Dentro di me ho sempre saputo chi ero; ciononostante, mi mancano certe abitudini.”
Guardai la strada e il paesaggio che si stava lentamente rischiarando, presto illuminato dalle prime luci dell’alba. Non sapevo come Itachi potesse essere tanto calmo: era stato presumibilmente ucciso da gente del suo paese – e, visto che gli stessi poliziotti non avevano esitato un istante a spararci addosso, non stentavo a credere che Innsmouth fosse un covo di fuori di testa – si era trasformato in una strana creatura dotata di scaglie e, come me, era fuggito nel cuore della note dopo aver rischiato nuovamente di rimetterci la vita. Se poteva morire, beninteso.
Io avrei dato di testa. Eppure, mi resi conto che a mia volta accettavo la situazione, quasi fosse scontata. Mi veniva quasi da ridere, perché non avevo più preso nulla, tranne tranquillanti di tanto in tanto e sporadicamente antidolorifici per placare gli attacchi d’emicrania.
Forse quel mese di lavoro a casi comunque particolari, forse quello che dovevo aver passato e non ricordavo, dovevano avermi segnato più di quanto avessi creduto possibile.
“Quindi sei così sereno perché in qualche forma sapevi che non saresti realmente morto, trasformandoti in quello che sei ora.”
“Non è mai una certezza. Diciamo che come i Marsh hanno caratteristiche simili geneticamente, la nostra famiglia, sebbene più giovane, ha a sua volta tratti peculiari che ci accomuna. Tra i quali la possibilità di mutare, anche se non accade a tutti: è una scommessa.”
Sentii nuovamente il suo sguardo su di sé: gli occhi scuri e profondi, l’espressione attenta eppure distante, appartenente a un altro mondo a me sconosciuto. Ritenni di capire quel discorso.
“In quello scantinato – feci presente, all’improvviso – ho visto delle strane scritte, come in un rituale: cosa hanno a che fare con tutto questo? E... suvvia, quella gente è pazza: in cosa ci stiamo andando a cacciare?”
Più andavo avanti con le domande, preso da un’ansia improvvisa di sapere eppure, al tempo stesso, rimanere all’oscuro, più avvertivo una fitta alla testa all’altezza delle tempie, capace di mandarmi lampi d’oscurità agli occhi.
Itachi mi toccò, per poi domandarmi a sua volta:
“Stai ricordando?”
Frenai sul ciglio, portandomi le mani alla testa mentre chiudevo gli occhi per il dolore:
“Cosa? Cosa dovrei ricordare, dannazione? Fa male.”
Avvertii la sua mano su di me salire fino alla cervicale. All’improvviso il tocco mi sembrò più caldo, persino benefico, i miei muscoli tesi si rilassarono e il dolore si attenuò, come qualcosa di sgradevole tenuto nascosto in uno sgabuzzino.
“Scusami. Voglio che tu stia bene. Ricordare non è importante, non più.”
Lasciò la mano lì, sulla mia testa. Io annuii d’istinto, sentendo che quelle parole mi placavano, quella creatura mi faceva bene, simile a una memoria gradevole di una vita felice, capace di scaldare il cuore. Eppure, allo stesso tempo c'era qualcosa di insidioso che mi dava il tormento.
“Quando te la senti – aggiunse Itachi – riprendiamo il viaggio. Fermiamoci al primo motel, hai bisogno di riposare.”
“Posso proseguire oltre.”
“Non ne dubito. Ma io presto avrò bisogno di reidratarmi e il sole eccessivo non mi fa bene; poi, è meglio non dare troppo nell’occhio in pieno giorno: non siamo esattamente raccomandabili.”
Mi guardai, ricordandomi di essere ancora in mutande, inoltre avevo al mio fianco un uomo coperto di scaglie coi capelli fatti d’alghe; effettivamente aveva ragione: non il classico esempio di persone che si vedono passeggiare per Boston e dintorni.
Finii per scoppiare a ridere, ma dentro di me sentivo un vuoto cosmico, l’idea di qualcosa che dovevo recuperare prima di impazzire.

*

Il motel era parecchio dozzinale, tenuto in piedi da qualche sistemazione artigianale qua e là: le porte con cardini cigolanti avevano il legno esterno rovinato e la verniciatura un tempo smaltata era sgretolata, mentre l’intonaco sulle pareti stava cadendo a pezzi, fagocitato da chiazze di muffa estese e rigonfio d’umidità. Il parcheggio era desolato, eccetto per due macchine utilitarie vecchio modello, illuminato dall’insegna ‘aperto’ che ogni tanto tremolava, accompagnata da un ronzio insistente. A tratti, l’asfalto del parcheggio era rovinato, come se la terra fosse stata spinta da qualcosa di oscuro per aprire crepe dove le erbacce fiorivano selvagge, simili a tentacoli.
L’uomo che accolse i due viaggiatori era un ometto dall’aspetto banale, piuttosto in carne, con occhiali dalla spessa bordatura nera che cadevano sul naso e i capelli radi disperatamente raccolti, in un tentativo patetico di coprire la calvizie. Sollevò gli occhi verso i due uomini, con Itachi rimasto nell’ombra rispetto all’unica luce smorta sulla testa dell’albergatore, mentre io appoggiai le mani sul bancone alto, nascondendo il fatto di essere sostanzialmente in mutande e con una pistola dietro la schiena.
“Vorremmo fermarci qui un paio d’ore. E… ha per caso dei vestiti? Di qualsiasi genere, glieli pago.” Assunsi un’aria sicura di me.
“Vestiti, eh? – si prese qualche secondo per osservarci e infine dire – Qualcosa ho. Fanno duecento bigliettoni, più la camera.”
Mi guardò con un certo compiacimento accusatorio.
“Duecento? Sei matto.” Risi.
“Non sono io quello che ne ha bisogno.” Replicò l’altro con scherno, per poi sollevarsi gli occhiali.
Feci per replicare, sempre per tener fede al mio principio dell’istintività, ma dalla penombra Itachi mi bloccò: “Daglieli.”
Parlò con voce morbida, ma talmente decisa da farmi venire i brividi, quasi avesse plasmato parole d’oscurità.
Gli rivolsi comunque un’occhiata come per dire Hai bevuto troppa acqua salata o cosa? ma mi sembrava talmente saggio e a conoscenza di cose a me ignote che tacqui. Finii dunque per tirare l’elastico della mutanda, stando attento a non perdere la pistola, e tirai fuori le banconote, provenienti dal modesto gruzzoletto extra custodito nel cruscotto.
L’uomo contò i soldi, leccandosi la punta delle dita dalle unghie fastidiosamente troppo lunghe, poi mi guardò e appoggiò i contanti sulla superficie usurata, riprendendo a fissarmi.
Vidi che era in procinto di dire qualcosa, ma io presi il distintivo falso e glielo mostrai con sicurezza: “Direi che la camera puoi anche darcela gratis, se non vuoi farci un prezzo equo.”
“Duecento tutto – sbottò l’uomo dopo essere sbiancato, infine mi lanciò le chiavi – la seconda stanza del porticato a destra. Fuori massimo alle dieci o vi addebito un giorno intero in più.”
Non un grande affare, considerando che era già l’alba. Gli sorrisi sornione, senza rassicurarlo su nulla. L’albergatore borbottò qualcosa sull’andare a prendere i vestiti, poi lo vidi scomparire dietro il claustrofobico e stipato cabinato in cui era seduto.
Mi girai verso Itachi e annuii come per dargli fiducia, anche se sembrava stessi facendolo più per me stesso, ma lui annuì a sua volta, accennando un mezzo sorriso con le labbra bluastre, senza sbattere una sola volta le strane ciglia coralline.
Quando l’uomo rientrò,
senza cura appoggiò sul bancone un sacchetto della spesa di fortuna con dentro quelli che, effettivamente, sembravano vestiti; nemmeno mi misi a controllare cosa esattamente ci fosse, fiducioso che ci saremmo potuti adattare: qualsiasi cosa sarebbe stata meglio della nuda pelle, anche perché cominciavo a sentire freddo.
Quando entrammo nella camera, dopo aver fatto scattare più volte la serratura un po’ rigida, vidi che c’era un letto matrimoniale con lenzuola e cuscini dalle federe ingiallite, quasi avessero decisamente troppi anni, ed erano coperte da un pile color terra che, assieme alla moquette che ricordava senape, dava un aspetto vecchio alla stanza odorosa di chiuso. Forse perché effettivamente era vecchia, esattamente come la carta da parati dalle tinte improbabili che si stava lentamente staccando, mentre i mobili di legno erano usurati e scheggiati in più punti.
Mi sedetti sul letto e le molle cigolarono; infine, dopo un istante rovesciai il sacchetto, curioso di scoprirne un po’ infantilmente il contenuto. Due paia di pantaloni quasi sicuramente più grandi delle nostre taglie, camicie a quadri in flanella, un gilet mezzo scucito da cui fuoriuscì un fazzoletto spiegazzato, due cinture consumate e un cappello color grigio topo. Decisamente non il bottino dei sogni, ma meglio di nulla. Ringraziai in realtà che non ci fossero delle mutande.
“Trattamento extra-lusso!” scherzai, per poi guardare Itachi che era rimasto in piedi.
Notai che i capelli non gocciolavano più: sembravano anzi più corti, come se si fossero ritratti. A ben guardarlo anche la pelle era meno lucida e in alcuni tratti le scaglie erano sollevate, simili a pelle secca.
“Stai bene? – domandai alzandomi, per andargli vicino – Ti stai… seccando.”
Nel pronunciare quella parola mi resi conto di quanto fosse ridicola; eppure era proprio quello che stava accadendo al corpo davanti ai miei occhi.
“Sono vincolato all’acqua. E qui non ce n’è abbastanza, devo reidratarmi.” Ammise Itachi. Non sembrò allarmato, solo triste. A ben pensarci, quella creatura emanava una sorta di malinconia intrinseca: per quanto oscura e misteriosa, non riusciva a trasmettermi solo un’idea di paura, evocava anzi in me una nostalgia capace di stringermi il cuore in una morsa.
“La vasca. Siediti e nel frattempo te la riempio. Temperatura?”
Domandai con quasi fare affabile, incapace di non sorridere, quasi come se fosse un gioco.
Itachi accennò a un sorriso mentre si sedeva sul bordo del letto. Qualche pezzo di pelle secca, squame leggere che sembravano d’argento, si staccò dalle guance asciutte. A un battito di palpebre, polvere di corallo nero gli cadde sulle gote.
“Fredda. Ti ringrazio.”
“Figurati, per così poco.” Replicai, minimizzando il grande sforzo di colmare d’acqua una vasca da bagno.
Armeggiai con rubinetto, tappo e getto d’acqua, all’inizio un po’ giallognolo – come se nessuno si fosse lavato da tempo immemore – e poi via via sempre più pulito. Rimasi qualche secondo in piedi a controllare che la vasca si riempisse, poi tornai da Itachi che, silenzioso, attendeva con le mani incrociate sulle gambe.
“Ti aiuto ad andare verso la vasca, sembri debole.” Ammisi, porgendogli una mano.
Con orgoglio, la creatura mi guardò. Non seppi se l’avevo offesa, però non riuscii proprio a smentire una cosa ovvia: in quelle ore di viaggio Itachi era l’ombra dell’essere rifulgente potere di Innsmouth.
Mormorò qualcosa, parole remote e più flebili di un sussurro, però alla fine accettò il mio sostegno. Quando si alzò, parte dei capelli d’alga rimase sul letto e sulla schiena, simili a erba secca; ma Itachi non sembrò prendersela particolarmente e replicò, guardandomi con occhi d’abisso:
“L’aria mi uccide, ma posso impedirglielo.”
Fece una sorta di sorriso furbetto, al quale replicai increspando le labbra di riflesso. Proseguimmo fino al piccolo bagno, dalle piastrelle di un azzurro pastello incrinate in alcuni punti, dove la vasca si era riempita fino quasi all’orlo di acqua che rifletté lo stesso colore ceruleo della stanza. In quei pochi passi, avevo sentito l’inconsistenza del peso della creatura, fondale d’oceano in secca, e il suo odore iodato, quasi come se la spuma e la tempesta mi si fossero incollati addosso. Solo allora, così vicino a lui, notai delle ferite dietro le orecchie: sembravano branchie, esattamente come quelle dei pesci.
Quando fummo di fronte alla vasca, curioso gliele sfiorai  con un dito e Itachi sussultò, guardandomi un istante stranito, ma non disse nulla. Si limitò a portare su di esse la mano palmata, dalle venature trasparenti e leggere tra le dita diafane, come per proteggerle.
“Scusami.” Bofonchiai, sentendomi infantile.
Lo lasciai per chiudere il rubinetto un tempo di metallo scintillante, il cui smalto era saltato rivelando un’anima arrugginita; infatti quando ruotai la manopola essa cigolò triste, ma l’acqua finì lentamente di fluire, limitandosi ogni tanto a gocciolare pigra sulla superficie piatta.
“Ti aiuto a entrare, sembri un vecchietto coi reumatismi.” Scherzai, per quanto io fossi persino meno dignitoso, tra le mutande e la canotta sporca dalle recenti peripezie.
Itachi accennò, sorprendentemente, a una risata. Però non parlò, limitandosi ad annuire quasi per dare conferma alle mie stupide parole.
Una volta che la creatura entrò nel suo elemento, già mi sembrò di vedere risplendere di una luce nuova le sue scaglie che si animarono di colori vibranti; quando si immerse completamente, scorsi mille sfumature di azzurro, blu e verde pennellarsi sul suo corpo, come se invisibili correnti d’elettricità si irradiassero sulla sua pelle, sospinte dall’acqua stessa che le rendeva vive. I capelli d’alga, tessuto di un verde cupo eppure intenso, si gonfiarono, fluttuando animati da una corrente impalpabile.
In piedi, lo contemplai e provai l’impulso di raggiungerlo. Lui aprì gli occhi e, nel silenzio irreale del bagno, mi guardò da sott’acqua. I coralli, miniature di perfezione, sembravano ospitare organismi millenari, ultima barriera prima dell’universo dietro le iridi scure che racchiudevano misteri. Nella stanza minuscola si diffuse l’odore del mare, della salsedine, delle onde che schiaffeggiavano gli scogli e le barche in legno coperte di bitume e vecchi molluschi.

Mi sedetti sul bordo della vasca, sfiorando la superficie con le dita per rompere con lievi increspature una superficie altrimenti piatta. Non vidi bolle provenire dalle narici di Itachi che continuava a guardarmi e sembrava poter respirare dalle ferite dietro le orecchie, le stesse che effettivamente avevo notato sul cadavere.
Lo fissai e, per un attimo, credetti volesse trascinarmi giù con sé, facendomi sprofondare, quando fino a poco fa pensavo di essere io ad anelare l’acqua. Mi sentii confuso, disorientato, spaventato eppure affascinato al tempo stesso.
Per questo tolsi la mano con un gesto rapido e mi alzai in piedi; l’asciugai su di un panno consumato da troppi usi e lavaggi, quindi uscii dal bagno, per poi sedermi sul letto. Non udii movimento dalla vasca e mi sentii meschino: forse mi andava bene così, forse desideravo che Itachi uscisse. Che tornasse a essere quel cadavere, però vivo, umano. Uomo.
Mi grattai la cicatrice, nervosamente. Più volte, fino a dover smettere prima di farmi realmente male. Che fine aveva fatto tutta quella positività di cui mi ero circondato durante il viaggio?
Sollevai lo sguardo che mi cadde sul mucchietto di vestiti tolti dal sacchetto. Scorsi qualcosa in mezzo che prima non avevo notato. Con un gesto lento avvicinai la mano, tolsi una maglia, poi un pantalone e scoprii di cosa si trattava.
Mi morì un ultimo respiro in gola.
Feci saettare gli occhi verso il bagno e tesi le orecchie, mentre la mano era rimasta immobile; Itachi era ancora dentro, nella vasca. Poi riportai rapido lo sguardo verso i vestiti e raccolsi ciò che non mi aspettavo di trovare nel mezzo: un blocchetto per gli appunti.
Non uno qualsiasi. Lo stesso, identico, usato da Henry Allen. Henry, che io avevo lasciato a Innsmouth, senza potermi voltare indietro. Lo riconobbi dalla rilegatura in cuoio, i bordi un po’ usurati, le pagine ingiallite e rigonfie di scritte.
Perché era lì? Cosa ci faceva? Il tizio del motel? Ma in che maniera poteva sapere dove trovarlo o prenderlo, anche solo prevedere che noi saremmo passati di lì. No, impossibile.
Lo afferrai, espirando: avvertii delle fitte alla testa lancinanti capaci di togliermi il fiato, ma non lo lasciai. Con movimenti convulsi, disperati, consapevole del frusciare della carta in una stanza immersa nel silenzio, aprii il blocchetto e cominciai a leggere le note e le trascrizioni di Allen.

Annotazioni scritte muri e riflessioni.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Indica R'lyeh? Shisui può leggerlo?

Io? Perché avrei dovuto? Le ho sognate quelle parole, le ho sentite. Ero sulla scena del crimine, d’altronde, ma… quando le ho lette?

Incisioni cultistiche. Non è opera dei cultisti di Dagon. Legati a Cthulhu? Uchiha? Da qui la differenza di abitudini e deformazioni rispetto ai Marsh. Indagare legami setta e Uchiha.
Connessione a omicidio Sasuke Uchiha?

Rilessi il nome. Più e più volte. Sasuke. Tornai a guardare la porta del bagno. Itachi sarebbe uscito? Mi avrebbe visto? Cosa doveva vedere o capire?

Sasuke.

Chiusi gli occhi. Sentii il suo nome, sussurrato dalle onde. Li riaprii, avvertendo la bocca secca, per poi continuare a leggere. Le mani tremavano ma non ci feci caso e sfogliai un’altra pagina, l’ultima scritta da Allen.

Ho chiesto a Zadok Marsh, dopo aver controllato il cadavere all’obitorio: i segni dietro le orecchie che aveva l’uomo, Itachi Uchiha, erano gli stessi del ragazzino morto.
Gli ho estratto l’informazione, non voleva parlare.
Itachi e Sasuke erano fratelli.

Non è possibile.
Perché però mi sembrava di saperlo? E non mi piaceva, non mi piaceva affatto ricordarmene. Grattai la cicatrice alla tempia, sentii l’unghia scavare la pelle, consumandola. Faceva male.

Morte Itachi Uchiha: 10 aprile.
Morte Sasuke Uchiha …  No, no, non dovevo saperlo, dovevo dimenticarlo, dimenticarlo! 10 aprile.
È passato un anno. Connessione?

Mi alzai in piedi, tenendomi la testa fra le mani dopo aver gettato a terra il blocchetto. Aprii la bocca e urlai. Cercai di farlo, di gridare, di aprirmi in due il cranio e tirare fuori il dolore, tutto quel dolore condensato tra le spire dell’encefalo annidato nella mia scatola cranica, ma… non uscì un suono.
Tutto quello che provenne dalle mie labbra secche fu un vago eco ovattato, bolle indistinte di un corpo immerso nell’abisso. Ansimai, passandomi le mani sul volto.

Un anno fa.

Sentii la voglia di piangere. Mi toccai la cicatrice. Avvertii qualcosa di caldo macchiarmi la pelle. Sangue. Non avevo scavato abbastanza, il male era ancora lì.

Un anno fa ero stato ricoverato al Manicomio di Arkham.

Non fidarti di lui!

Le parole pronunciate da Daves prima di morire sibilarono attraverso la cicatrice, penetrandomi fin nel cervello. Puntai lo sguardo sul bagno, ignorando il taccuino caduto a terra. Il cuore pompò sangue e paura, una paura arcana.
Itachi. Non gli uomini di Innsmouth, non divinità occulte. Itachi.
Ne fui certo, me lo sentii. Mi avrebbe ucciso. E io gli avevo permesso di toccare l’acqua, di rendersi di nuovo forte, potente e terribile. Quant’ero stato stupido, ammantato da quella gentilezza rarefatta. Mi avrebbe ucciso come aveva ucciso suo fratello, un anno fa? Perché era stato lui, doveva essere stato lui. I Marsh non c’entravano nulla, Allen l’aveva capito, per questo è stato ucciso e io avrei fatto la stessa fine.
Perché ero stato ricoverato? Non aveva importanza, io dovevo vivere. Solo questo.
Mi portai una mano alla tempia, bloccando il flusso del sangue mentre cercavo di riprendere il controllo del mio respiro. Itachi avrebbe capito, mi avrebbe sentito e annusato la mia paura. Non doveva sapere o sarei morto.
Quella notte, nel sonno, avrei ucciso la creatura. Era bellissima, qualcosa di totalmente inumano, ma proprio per questo, per questo suo potere e i suoi segreti, mi avrebbe divorato.
Avrei aspettato la sua lontananza dall’acqua, solo questo. Sentii, ancora, la voglia di piangere e non seppi il perché: prima, nel viaggio, eravamo felici. O forse ero solo io a crederlo, stupido, stupido uomo semplice e sentimentale.
In quell’istante, vidi Itachi Uchiha. Era nuovamente forte, portava con sé l’oceano e i suoi colori, la sua potenza e quel senso di sconfinata perdizione: le sue scaglie erano metallo fuso dalle ombre colorate del vetro, i suoi capelli il fondale in cui si intrecciava la vita e gli occhi mi guardavano solo apparentemente inespressivi. C’era nei suoi riflessi il grigio dell’orizzonte in tempesta e l’eco nostalgico di un vecchio pescatore. Ma il nero emergeva dalle iridi, mano oscura che trascinava a fondo.
“Stai sanguinando.” Constatò, fermandosi di fronte a me.
Tolsi la mano dalla tempia e mi guardai il palmo, instupidito, vedendolo tinto di rosso.
“Non è nulla. Sto bene.” Mentii. E soffocai la mia paura primordiale nell’avere quella creatura di fronte. Gocciolava acqua, come io perdevo sangue.
Allungò la mano. Rimasi immobile, ma non respirai, soggiogato dai suoi occhi e dal mio istinto di sopravvivenza.
Mi toccò la tempia, come già aveva fatto in macchina ore fa. Espirai, una sola volta. Non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi.
All’improvviso il dolore cessò, le fitte dilanianti alla testa tacquero, facendo pace con il mio cervello. Itachi ritrasse la mano e io mi toccai la cicatrice: aveva smesso di sanguinare.
“Riposati.” Sussurò la creatura. Il suono della risacca del mare custodita da una conchiglia.
Non sentii altro, perché avvertii il mio corpo farsi pesante e crollare in un tonfo sordo. Riuscii solo a muovere una volta gli occhi per cercare con lo sguardo il taccuino ma, mi accorsi, era sparito.

*


In quelle poche ore di sonno prima del sorgere del sole cercai di svegliarmi, così da tenere fede al mio proposito, ma non ci riuscii. Fu come se un sonno profondo mi avesse tenuto ancorato al letto, permettendo alla mia mente d’involarsi altrove: sognai città immense e diroccate, creature dal capo coperto di spuma, sabbie infinite nelle quali si immergeva il cielo.


“Stai ricordando?”

Avvertii la bocca essiccarsi e il mio corpo volare assieme al pensiero, galleggiando nel sogno. Poi, mi svegliai di soprassalto: era piena mattina, scorsi la luce morbida del sole filtrare attraverso le imposte e le tende polverose. Vidi Itachi intento a scrutare attraverso la finestra, negli unici spiragli che consentivano di guardare verso il parcheggio silenzioso; le sue scaglie dalle migliaia di sfumature sembrarono più vivide sotto i raggi solari.
Mi portai una mano al collo, faticando a deglutire, come se qualcosa mi fosse rimasto incastrato in gola. Avvertii una sete disperata e quando provai ad aprire la bocca vidi una massa secca e oscura fuoriuscire, sgretolandosi sul mio grembo.
Itachi si voltò e io lo guardai. Ma quando riportai gli occhi su di me, non vidi nulla, neanche una traccia di ciò che avevo scorto, o forse avevo creduto di scorgere.
“Cosa mi hai fatto? – domandai, fissandolo – Sta succedendo qualcosa e tu...”
Chi sei veramente? Mi vuoi morto?
Non pronunciai quelle domande. Se Itachi mi avesse voluto morto, avrebbe potuto uccidermi in qualunque momento mentre ero incosciente, ma non l’aveva fatto. Questo significava che aveva un altro scopo, era chiaro anche dal mio salvataggio a Innsmouth.
L’isola di Nodens.
Era lì che Itachi doveva andare e aveva bisogno di me. Mi avrebbe fatto fuori, una volta arrivato? Che cosa c’era a Nodens che meritava tutta quella fuga e quei rischi?
Mi riscossi quando vidi Itachi davanti a me con in mano un bicchier d’acqua; me lo porse e, dopo un istante, lo presi con una certa diffidenza. Mi sentii persino in colpa in maniera contraddittoria, quasi come se ci fosse un’attenzione disinteressata nei suoi gesti.
Finii per bere; non poteva farmi dormire, o senza di me non saremmo arrivati da nessuna parte: le fonti d’acqua erano lontane, fiume Miskatonic compreso, e Itachi non poteva certo fluttuare esposto agli sguardi altrui senza rischiare. Quindi aveva comunque bisogno di me, questo mi rendeva temporaneamente protetto e mi dava il tempo di agire.
Posai il bicchiere sul comodino.
Itachi parlò all’improvviso: “Eri stanco, si vede che necessitavi di dormire.”
Simulò bene una sorta di interesse, ma i suoi occhi mi scrutavano per smascherarmi come in cerca di un segno rivelatore, di un segno che sapevo.
“Forse. Sento un sapore strano in bocca, come di terra.” Ammisi, fissandolo a mia volta con una sorta di sorriso, di quelli un po’ accattivanti che tiravo fuori quando parlavo con la gente. Itachi non ricambiò quel sorriso.
“Bevi ancora, se hai sete. Forse è solo questo.”
“Già. Forse è solo questo.” Ripetei.
Ci vestimmo. Quando conclusi, mettendomi addosso quello che capitava dal modesto mucchio pagato una fortuna, mi resi conto che Itachi era stato più lento. Forse per via delle mani, forse per il fatto che quel corpo non era pensato per stare avvolto da tessuti umani. Senza rifletterci lo aiutai ad allacciarsi i bottoni della camicia: un gesto stupido, quasi affettuoso per chi aveva appena pensato di uccidere ed essere ucciso da quella stessa persona; però agii come mosso da un riflesso incondizionato: non posso farci niente, a volte – spesso – sono istintivo.
Itachi mi guardò e, senza una parola, mi lasciò fare. Solo una volta, una soltanto, le sue mani fresche, non gelide, sfiorarono le mie, con una gentilezza accorta che non mi aspettavo.
“Grazie.”
Replicò non appena finii di allacciargli la cintura.
Ancora l’eco del mare, ipnotico. Cosa stava cercando di fare, Itachi, esattamente? Non dovevo avvicinarmi ancora, non più. Però perché l’idea mi sembrava intollerabile? Era stato questo il risultato di quella notte carica di fenomeni inspiegabili?
“Ci dirigiamo all’isola di Nodens, giusto?” domandai, cercando di mostrare un tono spensierato.
“Sì.” Confermò l’altro. Se se la fosse presa per il modo in cui avevo ignorato il suo ringraziamento, non lo diede a vedere. Una parte di me si dispiacque: avrei voluto scorgerlo arrabbiato, per dimostrarmi che ci teneva. Per credere che non mi volesse davvero morto, che tutta quella storia di Innsmouth e della sua famiglia, degli omicidi e della setta non fosse reale. Gli appunti di Allen nient'altro che il delirio di un uomo traumatizzato e solo.
Ma Itachi semplicemente uscì, anticipandomi verso la macchina.
L’odore del mare e l’aura abissale della sua presenza diminuirono all’improvviso. Guardai il bicchiere. Afferrai il lembo del lenzuolo, me lo avvolsi nella mano e spaccai il contenitore in vetro contro il comodino. Rapido, presi la scheggia più grande, capace di adattarsi perfettamente al mio palmo, buttai il resto e la avvolsi nel fazzoletto spiegazzato preso dal gilet, infilandomi il tutto nella tasca dei pantaloni un po’ larghi. Controllai che non si vedesse alcun rigonfiamento e, una volta presa anche la pistola, lanciai un’ultima occhiata alla stanza, aspettandomi all’improvviso di vedere ancora il taccuino di Allen ma, ovviamente, non c’era traccia.
Per un attimo dubitai persino di averlo realmente toccato quella notte.
Quando richiusi la porta dietro di me per incamminarmi verso l’auto, però, mi resi conto di non aver guardato il bagno, né rifatto il letto, sollevando le coperte; logicamente, non controllai nemmeno il giardinetto secco sul retro del motel.
Visto tutto quello che sarebbe accaduto dopo, a posteriori rimpiansi di non averlo fatto.
Forse, a quest’ora, sarei ancora vivo.



Sproloqui di una zucca

Il mistero s'infittisce, muahahah! Di questo capitolo mi piace il cambio di percezioni. Se all'inizio Shisui si fida di Itachi, o comunque ne è affascinato, con il passare delle ore questa sensazione cambia. Qual è la verità? Cos'è successo un anno prima?
Un sacco d'interrogativi che non avranno risposta! Scherzo, scherzo, ci saranno con il prossimo e ultimo capitolo.
Grazie per aver letto e alla prossima <3

Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com



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Capitolo 3
*** III - Luce ***










Abisso


III
Luce




Giungemmo presso la zona costiera di fronte a Nodens nel tardo pomeriggio. Lungo la strada ci eravamo fermati a mangiare qualcosa; meglio, io avevo mangiato ma Itachi si era limitato a bere, perché sembrava indifferente al cibo, come se non gli riguardasse.

Nonostante l’acqua e il fatto che si fosse bagnato sotto uno dei lavandini presso le stazioni di servizio, vedevo chiaramente la pelle seccarsi: le minuscole scaglie che rendevano la superficie simile a un caleidoscopio di colori erano ora spente, prosciugate dalla luce del sole e da un’idratazione evidentemente non sufficiente.
Parlammo poco, anche se io sentii una sorta di fastidio in gola, quasi un raschiare alla base dell’epiglottide e poi giù, lungo la trachea, quindi per colpa della mia tosse nervosa il viaggio non era proseguito nel più completo silenzio.
Fermai la macchina in un parcheggio poco distante dal mare. Non dovetti nemmeno faticare per trovare posto perché era totalmente deserto: sembrava quasi che quella zona costiera fosse nota solo a noi, persino i cartelli segnaletici posti qualche chilometro più indietro erano sbiaditi e scavati dalla ruggine, come se a nessuno importasse mantenere la conoscenza di quei luoghi.
Non appena uscimmo dall’auto mi sembrò che Itachi, respirando l’aria odorosa di salsedine, avesse ripreso vita, simile a una scarica elettrica sparata in pieno petto, capace di far ripartire un cuore. Provai una fitta al torace, di sollievo misto a disagio, un disagio che mi lambiva anche la gola come sabbia divorata fino a soffocarmi. Appoggiai per riflesso il palmo della mano sulla tasca, dove c’era il leggero rigonfiamento del fazzoletto con all’interno il frammento di vetro; ovunque fossimo andati, anche in mezzo all’acqua dove la pistola non poteva sparare, avrei comunque avuto un’arma per difendermi. Non esattamente il meglio del meglio, ma dovevo farmelo bastare.
Spostai lo sguardo verso Nodens: c’era bassa marea, dunque in realtà l’isola era collegata alla terraferma da una sottile striscia di terra sabbiosa che si allungava per interi chilometri, con in lontananza barche da pesca di legno consumato dal sale arenate in pozze d’acqua. Si intravedevano alghe rattrappite e molluschi rifugiati nelle loro conchiglie che avanzavano pigri, in attesa di venire lentamente lambiti dal mare.
Al fondo del percorso sabbioso si stagliava l’isola che pareva concentrare su di sé le ombre e le nuvole della sera prossima, regalando scorci di una notte precoce ed edifici dal profilo aguzzo, frastagliato come i pendii scoscesi che finivano a strapiombo nelle onde spumose. Attorno, invece, il sole in procinto di affondare all’orizzonte regalava ancora raggi dalle sfumature rossastre e aranciate, portando l’acqua a risplendere simile a un cesto pieno di cristalli.
Senza dire una parola Itachi si tolse le scarpe, lasciandole ordinatamente disposte all’inizio della strada, poi cominciò ad avanzare. Lo seguii da breve distanza, guardando la sua figura alta e longilinea stagliarsi su quell’infinito percorso che poche ore prima apparteneva al mare, circondata dall’ultimo sole capace di far risplendere ancora le sue scaglie disidratate e i capelli che raccoglievano in sé vita millenaria.
Dopo qualche metro, a mia volta senza pensarci particolarmente tolsi le scarpe e le lasciai indietro; fu liberatorio affondare nella sabbia morbida, coi granelli umidi che s’infilavano tra le dita. Tra poco quel sentiero sarebbe stato inghiottito a sua volta dal mare, con la sabbia e le conchiglie, per poi venire trascinate chissà dove dalla corrente. Una parte di me riteneva che tanto le scarpe stesse non mi sarebbero più servite.
A metà del percorso, però, mi arrestai. Itachi continuò per un paio di metri, ma più lento, così io lo chiamai, mentre lenta l’acqua cominciava a risalire in un lento gorgoglio di risacca che divorava il terreno, accarezzandolo.
“Dimmelo.”
Lui si voltò. Il corallo delle ciglia folte sembrò più rosso, abbandonando l’antracite che la notte prima gli aveva impolverato le gote.
“Cosa vuoi sentirti dire, Shisui?”
Mi sembrò ci fosse una nota di affetto nel pronunciare il mio nome, il che mi trasmise ancora più dubbi e tristezza.
“Hai ucciso tu Sasuke Uchiha, un anno fa? Era tuo fratello.”
Sapevo di aver dato un istintivo tono d’accusa in quell’era tuo fratello.
Non mi rispose, ma continuò a guardarmi. Sentii uno scroscio d’acqua più forte, voltai la testa e vidi che il mare stava avanzando con una velocità del tutto innaturale, come sospinto da mani invisibili capaci di riversare in un bicchiere la forza sconfinata dell’oceano: l’alta marea stava arrivando. Presto, quella striscia di terra sarebbe scomparsa e io con essa.
“Dobbiamo andarcene, Shisui.”
Sgranai gli occhi, furente. Avanzai verso Itachi che non mosse un passo, anche se l’acqua ormai aveva cominciato a lambire i margini della sottile strada sabbiosa, con le barche in secca che ora galleggiavano inquiete:
Io devo andarmene, a te cosa importa?! E non hai risposto alla mia domanda! Sasuke era tuo fratello, vero? L’hai ucciso, tu e quella famiglia di pazzi!”
Non tirai fuori il vetro, in quel momento, preso dalla rabbia e dalla paura me ne dimenticai completamente per scattare di fronte a Itachi e slanciarmi in modo da spingerlo, come se ci stessi lottando e dovessi sopraffarlo. Sentii che in quel gesto e da quella scelta sarebbe dipesa la mia stessa vita, cambiata per sempre.
Ma appena i miei polpastrelli toccarono i petto squamoso della creatura, quest’ultima mi afferrò i polsi, con una forza tale da bloccarmeli.
Non lo spostai di un millimetro, pareva anzi aver assorbito tutta la violenza del mio colpo, senza però rispedirmelo indietro. Lo sentii spostare una gamba e lo guardai negli occhi: il tempo sembrò fermarsi, un solo istante in cui le sue pupille oscure mi intrappolarono, con il mare che rispettava quel momento, arrestando la sua furiosa avanzata.
La creatura torse il busto e avvertii il mio corpo muoversi con lui, leggero, fluttuante, capace di elevarsi sopra la spuma e la sabbia.
“Itachi.” espirai.
Non seppi perché lo avessi pronunciato, fu un’evocazione.
Con quel nome che si elevò nell’aria, Itachi mi lanciò via.
Uno slancio potente, carico di una forza ancestrale che mi fece saettare nell’aria, incapace di respirare o aprire gli occhi mentre sentivo il mio corpo cadere, fendendo il cielo, anche le nuvole e le stelle stesse, in alto, per sempre, fino al collasso profondo fatto di vuoto capace di risucchiare le viscere.
Sconquassai la terra, in un’esplosione di calcinacci, sabbia e resti oscuri che schizzarono verso altra terra. I miei polmoni già rarefatti si svuotarono con l’urto e sgranai gli occhi in maniera tanto improvvisa da pensare che sarebbero saltati fuori, come la vita e i denti che vibravano. Mi resi conto che ero io a tremare, per la paura e lo shock, con i muscoli rigidi che tentai di muovere mentre annaspavo in cerca d’aria, con la vista che tornava lenta, al pari del calore dopo il gelo della neve.
Mi alzai in piedi, appoggiandomi a un muro: lo sentii viscido, coperto di alghe come se fosse stato immerso per anni e le acque si fossero appena ritirate. Per qualche minuto credetti di essere sott’acqua a mia volta, incapace di respirare o di avere controllo sul mio corpo, ma quando cominciai a camminare realizzai di trovarmi su di una superficie: opprimente, oscura, eppure era pur sempre la terraferma.
“Dove sono…” mormorai. La mia voce era ridicola, un suono debole, roco, che si perse tra le strade di quella che sembrava una cittadina antica. Sollevai lentamente lo sguardo e rischiai di perdermi ancora, scorgendo edifici dalle guglie aguzze che ricordavano mani fatte di unghie demoniache capaci di squarciare il cielo, costruiti nella roccia nera, opaca e contaminata da strati viscidi di alghe altrettanto oscure. Le poche finestre presenti erano più fenditure simili a quelle dei bastioni, attraverso le quali ombre danzavano in attesa che calasse il buio; o forse ero solo io a credere che ci fosse della vita in quel posto dove l’unica cosa che avvertii era il mio stesso, rantolante, respiro.
Per il resto le strade strette inerpicate in salite ripide erano deserte, caratterizzate da massi piatti incassati nel terreno, con gli edifici immensi e oscuri che sembravano volerle inghiottire, cadendo su loro stessi nell’ambiziosa risalita verso il cielo.
“Questa è Nodens.”
Mi voltai e vidi Itachi: il suo corpo gocciolava acqua, le labbra sottili e violacee sembravano voler parlare ancora, eppure non provenne alcun suono. I suoi coralli erano sfumature nere ma lucide, vibranti di vita millenaria al pari dei suoi occhi e i capelli fluttuavano, simili a radici in cerca di terra, capaci di sfiorare quelle pietre e rivestirle di nuovo fulgore.
“Mi hai scaraventato fino a qui.” abbassai gli occhi e con orrore vidi delle bruciature all’altezza del petto, scavate nella mia pelle. Schiuma biancastra del mare gorgogliava attraverso, macchiando i vestiti.
Realizzai di aver perso la pistola, mentre la camicia era strappata.
Risollevai la testa e guardai la creatura di fronte a me. Mi toccai la tasca, sentendo il vetro ancora all’interno; mi ritenni stupido per aver aspettato tutto quel tempo.
“Riprenderò il controllo!”
Esclamai e, quando dissi quelle parole, quando estrassi il frammento di vetro facendo volare il fazzoletto, mi accorsi di star piangendo. Parallelamente, realizzai che Itachi era triste, così triste da bucarmi il petto e farmi venire voglia di ingoiarmi il cuore.
Ma il mio corpo continuò a muoversi e io non riuscii a fermarlo: la mia razionalità mi diceva che quella creatura era un pericolo, sarei morto, per cui doveva andarsene per sempre, anche se era doloroso e non sapevo perché.
Ti conosco, Itachi?
Sentii delle parole scorrere nella mia testa fino a strabordare come acqua.
“Non preoccuparti, me la caverò. Ma tu sei il prossimo, è scritto nelle stelle e Idra ci ha parlato: se rimani qui morirai, Shisui.”
Le aveva già dette quelle parole, o me le stavo sognando, o la mia mente… il tempo era confuso, giocava con i miei sentimenti e i miei ricordi devastati.
La mia mano si mosse in un gesto rapido, fulmineo, senza quasi ricevere un comando: affondai la lama di vetro nel collo della creatura, recidendone la pelle dalle scaglie lucenti fino a vedere sgorgare del sangue; melma vischiosa, oscura, un fondale marino che si stava riversando al di fuori della sua gola tranciata. Itachi continuava a guardarmi e realizzai che non rantolava come mi sarei aspettato, avvertii dei brividi per la potenza del gesto compiuto, travolto da quella massa oscura che mi si addossò gelida.
In quell’istante, la creatura mi afferrò il polso: avvertii il gelo, la forza d’acciaio della sua presa capace di stritolare le ossa. Cercai di oppormi ma questi mi piegò il braccio, fino a costringermi a lasciare la presa dal vetro. Percepii il bruciore del taglio sui miei palmi, vista la mia presa massiccia e ostinata, ma provai un senso di panico e allo stesso tempo di vuoto quando Itachi tenne nelle sue mani il frammento dello stesso bicchiere che mi aveva portato.
Cercai di aprire la bocca, di dire qualcosa, ma non feci in tempo: con ancora la gola dilaniata, la creatura mi afferrò il capo, liberandomi il polso, e in un gesto altrettanto rapido mi tagliò con il vetro. Non la gola, né gli occhi, o qualsiasi zona esposta della mia patetica persona.
Bensì il punto più nascosto della mia testa: la pelle dietro le orecchie.
Compì due tagli veloci eppure precisi, affondando la lama talmente dentro che sentii le mie vene e le mie arterie spingersi contro fino a venire recise. Percepii il sangue schizzare, l’aria defluire anche se non era stata toccata la trachea, il mio ossigeno venire consumato, mangiato, inglobato da quelle ferite capaci di risucchiarmi anche il pensiero.
Mi aggrappai a Itachi e provai rabbia, disperazione, all’idea di essere io a rantolare in quel momento, con il cuore che batteva feroce fin dentro la testa, come per illudermi di poter vivere ancora.
La creatura mi lasciò la testa, afferrandomi la gola sanguinante con una mano, mentre l’altra era sul mio braccio. Avvertii i suoi polpastrelli affondare in me, esattamente come lo sguardo abissale, nel quale ancora cercavo di intravedere un uomo, quando invece scorgevo il mio riflesso, tragico, sporco di sangue e di melma oscura che lenta scivolava dalla ferita di Itachi.
Poi, all’improvviso, senza lasciarmi scaraventò il mio corpo contro una delle porte di legno scuro, simile a pregiato ebano, incassata nelle pietre scintillanti nere al pari dell’inchiostro. Non riuscii neanche a svuotarmi i polmoni: non avevo aria da espellere con l’urto, anche se faceva male e i tagli bruciavano, come cosparsi di fuoco e sale.
Avvertii un rombo distante, il suolo sotto ai miei piedi tremò: scosse brevi eppure in rapida successione, anche se nessuno degli edifici si mosse, non perché massicci e imponenti, ma quasi come se fossero essi stessi la terra.
Itachi avvicinò le sue labbra alle mie orecchie, mentre io con le mani tentai di scavare nel suo petto, terrorizzato, con la vista sfocata e la paura folle, tremenda, di morire. Lì, in quel posto, senza sapere nulla di me, o di quello che sarebbe stato del mondo.
Poi, la sua voce. L’eco del mare gettato nella conchiglia delle mie orecchie.
“Sasuke – rabbrividii, quasi fossi anch’io fatto di terra – in realtà avevi ragione… l’ho ucciso io. Per te.”
Sgranai gli occhi, spalancai la bocca in un rantolo fischiante di dolore e incredulità. Annaspai.
No. Non è possibile. Io…
La porta si aprì e la terra tremò in un rombo che ricordò l’urlo di un gigante in procinto di risvegliarsi dall’abisso. Avvertii il mio peso e l’inclinazione del corpo cambiare, all’improvviso, fino a sentire la gravità spingermi con una mano invisibile fin dentro la stanza oltre la porta, nel mezzo dell’oscurità. Il pavimento, realizzai, si stava inclinando e Itachi, ancora con le sue mani su di me, aveva cominciato a scivolare al mio fianco.
“Ti terrò io – mi disse all’improvviso – l’aria presto non sarà più un problema.”
Fu come un’esplosione. Il pavimento si inclinò sempre di più e con esso le mura, la porta che cigolò fino a spalancarsi, i pochi mobili presenti all’interno scivolarono assieme a noi, gli oggetti più piccoli slittarono rapidi sul terreno fatto di mattonelle simili a riquadri d’ombra.
Itachi non aveva paura. La ferita si stava rimarginando e la sua mano aveva fatto cadere lentamente il vetro che cadde nel vuoto, fino a schiantarsi contro la parete dove si stavano accumulando i mobili ribaltati in scricchiolii sinistri e poi schianti potenti, man mano che l’inclinazione ci fece cadere a nostra volta.
Finii con la schiena accanto alla finestra, la cui imposta era stata spalancata e ora ondeggiava nel vuoto. Con gli occhi incapaci di battere ciglio e il peso inconsistente di Itachi addosso a me, i suoi capelli che mi solleticavano le guance gocciolando lentamente acqua, realizzai che da quel punto potevo vedere la strada in verticale, gli altri edifici sulla cui muratura erano finiti ciottoli un tempo presenti nel vicolo, mentre il rombo della terra assordava le orecchie e la risacca del mare riecheggiava in un ringhio feroce.
Una sedia si schiantò contro la finestra, spezzandosi; vidi schegge volare, ma ero talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a chiudere gli occhi. Il legno cadde oltre l’apertura, continuando a precipitare, finché non lo sentii impattare contro la roccia traslucida dell’edificio di fronte.
Avvertii un senso di nausea allo stomaco, uno dei miei organi ribaltati per via del cambio d’inclinazione esattamente come i mobili.
“Cosa… sta… – cercai di dire, rantolando, con gli occhi che bruciavano e l’odore del mare che mi stordiva – succedendo…”
“Nodens è la chiave, te lo avevo detto. R'lyeh aprirà le sue porte per noi, ma agiremo appena loro ci vorranno.”
Loro? Rilessi nella mia mente le scritte sul muro della cantina, il sacrificio... R'lyeh. Allen aveva ragione, credeva io sapessi cose… come? Come poteva sospettare di me?
Voltai la testa di scatto e udii il gorgogliare dell’acqua oltre la finestra. Ogni cosa stava venendo inondata, lambita da onde feroci che sembravano crescere di potenza, portando con sé Nodens fino a farla scomparire.
In quell’istante, la stanza si ribaltò ancora.
In un rombo terribile, arrabbiato e sordo, venni bruscamente sbalzato sul soffitto e Itachi sembrò quasi sospingermi. Evitai un’altra sedia; in realtà fu Itachi a trascinarmi con sé, facendomi rotolare sul fianco, mentre in cigolii e schianti secchi ogni oggetto sopravvissuto si accatastava sul soffitto. Trattenni un conato di vomito, avvertendo le viscere rimestarsi; in un getto di spuma grigiastra, simile a pietre liquefatte, l’acqua aveva cominciato a entrare dalla finestra ormai totalmente al contrario.
“Andiamo, dobbiamo uscire da qui.”
Annunciò Itachi. Mi resi conto di non respirare da tempo, tanto tempo. E di non riuscire a oppormi quando la creatura mi alzò in piedi e camminammo su quello che prima era il soffitto della stanza, mentre il pavimento adesso era sopra le nostre teste.
I suoi capelli cominciarono a fluttuare, resi vivi, meravigliosi, dalla potenza del mare, la pelle richiamava i colori dell’oceano con le sue scaglie vibranti di sfumature blu e gli occhi riflettevano l’intensità delle onde, schiantate contro la cornea fatta di spuma.
Il corpo si sollevò nell’aria rarefatta e io con lui; capii che voleva lanciarsi oltre la finestra, nel turbinio dell’acqua che stava sgorgando inondandomi i piedi. Fino a poche ore fa avrei pensato che sarei morto, schiacciato dalla pressione e soffocato; ma ora… non avevo vie d’uscita e in un certo senso pensavo che sarebbe stato meglio così, piuttosto che rantolare ancora. Mi sembrava giusto.
Con un salto ci fiondammo nel gorgoglio che eruttava dalla finestra e quando misi una prima parte di me, del mio corpo, a contatto con quello specchio turbinante, sentii che tutto sarebbe cambiato. Avrei smesso per sempre di essere Shisui, di toccare ancora la terra o avere preoccupazioni mortali, perché mi sarei ricongiunto con l’abisso e l’accettai.
Venni accarezzato, sballottato, schiaffeggiato dalla spuma fatta di bolle frenetiche e dalle correnti, fino ad avvertire la presa di Itachi che, ancora, mi trascinava via. La luce era cambiata: c’era buio e fiotti azzurrognoli di una luminescenza oscura provenienti dagli spiragli delle finestre, nient’altro che questo.
Lo realizzai quando mi ritrovai a galleggiare nell’acqua, acqua del mare. Attorno a me c’erano gli edifici, le feritoie e le pietre lucide ma... l’intera città, l’isola con la sua terra e gli scogli erano stati totalmente ribaltati. Le guglie e i tetti aguzzi che fino a poco fa avevano cercato di sfondare il cielo ora erano artigli immersi, le cui estremità scomparivano nelle oscurità abissali.
L’isola si era del tutto capovolta.
Provai un fiotto di terrore all’idea di essere schiacciato da quella massa di terra, circondato solo dal gelo oscuro del mare rischiarato da spiragli azzurrognoli, intermittenti come il respiro stanco di una creatura gigantesca.
Non potevo più respirare. Le ferite bruciavano e la pressione mi stava comprimendo, assieme alla paura. Stavo morendo e dovevo concludere i miei giorni così, dimenticato, anche da me stesso.
Itachi mi guardò: non sanguinava più, il taglio si era rimarginato. Poi mi prese per il collo e io non riuscii a fare nulla eccetto piantargli le mani sulle braccia, con disperato orgoglio. Forse poteva uccidermi allora, mi avrebbe risparmiato un’agonia finale.
Ma, in quel momento di ultima lucidità, di disperazione e vuoto, Itachi fece tutt’altro: mi baciò.
E io avvertii il mare nel mio petto, ma anche tutta la vita che lo abitava, la sua forza, il moto delle onde che sospingeva le barche e gli esseri viventi.
Lui prese qualcosa di me, ma io entrai nella sua mente.

“Quando diventiamo Abitatori del Profondo tramite il rituale, Itachi, ci portano fino a Nodens e ci lasciano sull’Isola, finché con la marea si ribalta per farci ricongiungere con coloro che ci hanno preceduto. Sarò io ad aprire il passaggio: Idra ci è apparsa in sogno, portando angoscia e richiamo. Ma non la voglio ascoltare, non più.
I nostri predecessori si connettono alle profondità abissali, lo so. Però... si nutrono di ciò che siamo, disprezzando quanto invece ospita gli umani, tenendoli al sicuro.
Posso contaminarmi una volta trasformato, e portare con me, fino a R'lyeh, la traccia della mia umanità.
Morirei. Ma morirebbero anche loro.”
Guardai Shisui, ascoltando i suoi discorsi pericolosi. L’avevo sempre reputato una persona capace di farmi stare bene: per questo se ne doveva andare, altrimenti sarebbe stato più difficile realizzare quello che avevo in mente; il suo piano era altrettanto folle, ma non potevo accettarlo.
Lo pensai nel guardarlo seduto sulla banchina del porto avvolto dalla nebbia, chiedendomi in che maniera trovasse la forza per sorridermi nel voltarsi. Sentii una stretta al cuore, mentre le stelle nel cielo ci comunicavano le variazioni astrali di ogni anno e Idra lo reclamava a sé.
“Domani scappa. Fallo.” Gli dissi serio. Quanti sorrisi ero riuscito a dargli, io, in tutti quegli anni?
“Non posso, Itachi. Tutto questo finirà – mi prese la mano, facendomi sussultare – né tu, né tuo fratello avete buona compatibilità, nemmeno proveranno a iniziare il rito: ogni cosa sarà distrutta.”
Gli osservai le dita, leggendovi lo sguardo:
“Ti perderò, Shisui.”
Dovevo avere un’espressione dura, forse distante, anche se dentro sentivo il peso schiacciarmi. La tunica di canapa grezza che aveva addosso solleticava la pelle: sarebbe svanita, assieme alla sua umanità.
“Pensi troppo, Itachi. Non essere arrabbiato con me – mi mostrò un sacchetto e realizzai che c’era della terra dentro – nella prossima vita... andrà meglio.”
“La contaminazione...”
Ma cambiò improvvisamente argomento, impedendomi di continuare.
“Dai, ricordi come faceva quel motivetto in stile charleston? Un giorno dovrai ballarlo e conquistare qualche bella ragazza giù a Boston.”
Batté una mano sulla coscia per tenere il tempo e, dopo qualche istante, lo seguii, mentre il mare immobile di Innsmouth rifletteva gli spiragli di luna attraverso le nuvole.

Aprii gli occhi.
Quello ero io, a Innsmouth. Confuso, avvertii un calore irradiarsi dal mio petto mentre Itachi galleggiava di fronte a me, le sue mani su di me. Abbassai lo sguardo per vederle e realizzai che i miei vestiti erano scomparsi, mentre la mia pelle... la mia pelle era vernice brillante che si sgretolava tramite la pennellata dell’acqua, lasciando dietro di sé scaglie, scalini rifrangenti metallica luce cobalto, onde marittime che disegnavano il mio torace e il ventre.
No. Impossibile.
I miei arti... le mani velate da un guanto trasparente che si intersecò alle dita, rendendole palmate, le mie unghie erano andate perse per sempre, nel cuore del mare. Sollevai lo sguardo e mi portai una mano tra i capelli: più lunghi, consistenti, li sentii fluttuare al mio contatto, alghe intrecciate alla mia testa e accarezzate dalla corrente.
Respiravo il mare e la sua vita millenaria. Dentro di me. Piansi, le mie lacrime erano la salsedine racchiusa nel mio petto, resa salata dalla realizzazione di chi fossi e di quanto avevo amato la vita, al punto da lasciarla per chi amavo di più: Itachi.
Lo dissi nella mia testa e lui mi rispose. Lo vidi così umano, con le sue scaglie e le sue alghe, vestito di stupidi abiti per nascondersi, quando era così bello da farmi piangere di più. Perché non saremmo tornati ancora in superficie, su quel porto con la luna e il charleston da ballare.
“Mi dispiace – mi disse senza aprire bocca, lo sentii vibrare nel mio encefalo – tu volevi sacrificarti un anno fa, ma io te l’ho impedito.”
Luci azzurre fluttuarono tra le feritoie, mentre io cercavo di ricostruire il percorso della mia vita, le menzogne e le illusioni.
“Che cosa hai fatto, Itachi? E io chi sono, adesso? Quelle memorie che mi hai mostrato: sono reali?”
La mia testa annaspava, come se dovessi ancora respirare per parlare: avevo paura, però... volevo sapere e sentivo di non avere più tempo, circondati da oscurità e la terra di Nodens che incombeva su di me.
Itachi allungò una mano e mi sfiorò la tempia. Sentendo le sue dita, me la toccai a mia volta e realizzai che la cicatrice era sparita.
“L’anno scorso sarebbe toccato a te, eri predestinato, ma avevi il tuo piano per farla finita. Io... non sono stato in grado di accettarlo: ti ho quasi ucciso, costringendoti a dimenticare. Ti ho portato il più lontano possibile, ma lui... deve averti trovato, salvandoti, quando è venuto per mio fratello.”
Quante immagini avevano preso a scorrere nella mia testa, ricordi, tanti, così tanti. Mentre la mia identità veniva plasmata e le ferite dietro le orecchie erano divenute branchie capaci di farmi vivere.
Il fratello di Itachi. Non avrebbero dovuto ucciderlo – ricordai le mie parole dai ricordi trasmessi in un bacio –  Sasuke non ha buona compatibilità.
Senza rendermene conto nella mia testa gli gridai:
“Io ero pronto a morire per salvarti! Potevo riuscirci, potevo... – le parole si accavallarono, ingarbugliate, non riuscivano a star dietro alla mia mente iperattiva – lui. Allen!”
Vidi il senso di colpa, la tristezza, la nostalgia sul volto di Itachi. Quanto dovevamo somigliarci e quanto mi sentii triste nel realizzarlo.
Le luci si fecero più intense e mi ricordarono, all’improvviso, le stelle nel cielo sopra una distesa lontana dalla civiltà.
Ricordai di averle guardate, un anno fa, e di essermi meravigliato per quanto potessero essere intense lontane da Innsmouth. Non mi era venuto in mente il nome, allora, ma ero certo di aver pensato al luogo della mia nascita senza altro sentimento eccetto angoscia.

Non so per quanto tempo avevo continuato a camminare. La macchina rubata era entrata in panne e avevo temuto che toccandola ancora l’avrei ulteriormente danneggiata. Avrei voluto non doverci più avere a che fare.
Mi sistemai meglio Shisui sulla schiena e ripresi ad avanzare, avvertendo il sangue proveniente dalla sua tempia gocciolarmi sulle spalle in ticchettii lenti. Ormai ero al limite delle forze, io non potevo proseguire oltre: dovevo lasciare Shisui dove qualcuno avrebbe potuto prendersene cura e rientrare, almeno per Sasuke.
Era quasi l’alba.
Giunsi presso un motel, dove pagai per una stanza in cui riposare qualche ora. Stavo pensando di lasciare Shisui lì dopo avergli curato la ferita, d’altronde gliel’avevo causata io per imperdirgli di ricordare: siamo una razza fedele a Idra, manipolare la mente è un processo invasivo ma fattibile.
Gli ho lasciato l’occorrente per andarsene, finché nel parcheggio non ho incontrato un uomo con un fedora in testa e l’aspetto stanco, persino scavato. Quando mi vide mi bloccò, fissandomi per poi dire:
“Tu sei un Uchiha. Stamattina ne ho visti tanti come te. Siete uguali, uguali e pazzi sanguinari.”
“Vattene – ribattei, nascondendo la tensione – non so chi sei, né di cosa stai parlando.”
“Seguo le vicende di Innsmouth da una vita e non sono mai riuscito a fermarvi, voi e i Marsh. Sono sicuro che tu sei un Uchiha, così come sono sicuro che da anni uccidete la vostra stessa progenie, ma questa è la prima volta che qualcuno chiama il Dipartimento Omicidi, un vecchio ubriacone per giunta. Perché? Cos’è andato storto nei loro piani?”
Il respiro mi si bloccò. Cercai l’aiuto della mia razionalità, perché non avevo Shisui cosciente in grado di parlare con disinvoltura. Io non ero bravo con gli esseri umani.
“Dipartimento Omicidi?”
“È da stanotte che sono in viaggio. Ritentro da Innsmouth. Tu ne sai qualcosa, dell’assassinio di un ragazzino? Era uguale a te.”
Non mi mossi. Ma i miei organi, il mio cuore, si schiantarono al suolo, liquefacendosi. Dovevo decidere in fretta.
“Dentro la stanza c’è un uomo. Portalo via, rientra a Boston. Tienilo lontano da Innsmouth o sarà la prossima vittima.”
Si tenne il fedora quando gli dissi quelle parole, come se non se le aspettasse. Lanciò un’occhiata alle mie spalle e replicò:
“Non pensare di andartene. Ti prendo in custodia, tu sai troppe cose.”
Indietreggiai, lo vidi mettere mano alla pistola:
“Non tornare più a Innsmouth. Togliti l’ossessione, o morirai. Salva un essere umano, questo puoi farlo.”
Lo vidi esitare. Pensai davvero di aver avuto fortuna quel giorno, presso un motel lungo la statale.

Lui ti porterà lontano, Shisui, avrai così nuove memorie, senza essere contaminato dal ricordo di Innsmouth: non ti troveranno. Per me, invece, non c’è speranza. Camminerò, anche se cercheranno di riprendermi con loro, percepisco la rabbia che li anima. Ho perso Sasuke, non mi rimane altro che tentare.

“Mi hanno trovato, alla fin fine.”
Mi guardò nel dirlo e mi allontanai dal suo ricordo. Stavo perdendo consapevolezza del mio corpo umano, non percepivo più il freddo e la paura stava diventando un sentimento distante.
“Allen mi ha mentito. Tutti quei mesi.”
Era uno attaccato alla bottiglia. Allora aveva parlato di Daves, come se lo conoscesse. E in effetti era così: quel vecchio, un anno prima, aveva denunciato l’omicidio di Sasuke.
“Daves mi aveva detto di non fidarmi, perché sapeva chi fosse Allen.” Conclusi.
“Daves era un codardo figlio di puttana la cui mente è stata piegata dagli Uchiha per asservire i loro scopi – ribatté Itachi improvvisamente secco, al punto da farmi provare ancora stupore – per colpa sua hanno richiamato Allen, con il pretesto del mio omicidio. Gli Uchiha hanno visto la sua ossessione e l’hanno sfruttata, sapendo tramite me che tu eri con lui e non ti avrebbe lasciato andare. Io sono stato ingenuo e disperato, errando a fidarmi di un poliziotto che ti ha usato con la speranza che a Innsmouth ricordassi.
Ma nessuno ha previsto una cosa: che io non ero morto davvero. Anche se tardi, la mia trasformazione ha funzionato.”
Non ero mai stato un detective, né avevo frequentato la Miskatonic. Allen si aspettava che io sapessi leggere quelle righe del rituale. Soprattutto quando ha capito che Sasuke era il fratello di Itachi.
Lo stesso Itachi che, a distanza di un anno, aveva cambiato nuovamente le carte in tavola.
“Ma allora perché mi hai portato qui? Io cosa volevo fare, sacrificandomi, come avrei potuto mettere fine a ogni cosa?”
All’improvviso, la luce azzurrognola delle finestre divenne più intensa, fino a far rilucere le nostre scaglie. Avevo paura di cos’ero diventato: quel sentimento, in fondo, ritornava.
Sentii un richiamo verso l’oscurità, nell’abisso sotto di noi. Le luci sembrarono vive, forme animate unite per generare fasci azzurri che iniziarono a tracciare un sentiero.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Guardai Itachi e mi ritrovai a pensare, intersecando alle mie parole nella testa le sue, in perfetta armonia.
“Nella sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando”
Ai nostri piedi, c’era...
“L’accesso a R'lyeh.”
All’improvviso, dal nero delle profondità, degli occhi: due, quattro, dieci e infine centinaia, centinaia di occhi azzurri e malati che ci osservavano divorati dal buio, distanti chilometri di distanza eppure vicini, addosso, senza pupille o ciglia, incapaci di chiudersi.
Delle voci cominciarono a parlare, rese vibranti dall’eco nell’acqua e riecheggianti nelle pietre lucide degli edifici sopra le nostre teste che ci si addossavano, soffocando l’accesso al cielo. Mi portai le mani alle orecchie, ma sentivo comunque quei suoni, mentre Itachi immobile guardava.
Dopo interminabili momenti d’agonia le voci sembrarono sintonizzarsi su di un’unica frequenza e parlarono, entità millenarie che trasmettevano ricordi folli.
È per Idra che uccidiamo la nostra progenie, così che abbandonino loro odiose spoglie mortali per diventare puri Abitatori del Profondo.
I Marsh sono immondi esseri corrotti. Tramite la nostra perfezione il passaggio a R'lyeh sarà aperto e Cthulhu, Gran Sacrdote, si sveglierà destando coloro che come lui sognano.
Noi siamo voi. Raggiungeteci.
Gli occhi cominciarono a riverberare di ulteriore luce: sembrò allungarsi diventando consistente, tentacoli che fendettero il mare oscuro per risalire e arrivare sino a noi.
Spostai lo sguardo su Itachi:
“Io... – le parole uscirono fuori controllo, la mia mente era nel passato e nel futuro, io ero Shisui Underwood e Shisui Uchiha – non volevo questo, quando eravamo umani entrambi.
Non dovevi trasformarti, dovevi andare a Boston, ballare il charleston, trovarti una famiglia, dei figli...”
Itachi mi portò le mani sulle guance. Lentamente i suoi vestiti si stavano digregando e fluttuavano attorno al suo corpo come i capelli.
Avvertii qualcosa toccarmi i piedi, qualcosa di gelido, capace di bloccare sangue e respiro: i tentacoli luminescenti, occhi che fendevano il buio, si avvinghiarono attorno alle mie caviglie fino a cominciare a risalire. Avevano preso anche Itachi e lentamente ci stavano portando giù, tra scie di luce e macchie d’ombra.
“Shisui. Io non potevo restare a guardare mentre ti sacrificavi per farmi vivere una vita migliore.  Non avrei mai voluto che tu tornassi, dopo quello che ho fatto. Dovevi dimenticare e fuggire lontano – le sue mani risalirono su di me, tra i miei capelli, e smisi di provare paura mentre scendevamo nell’abisso – quando invece mi sono trasformato e ho realizzato di essere ancora vivo, con te di nuovo a Innsmouth dovevo... dovevo agire per fare qualcosa. Tu non ricordavi nulla, Shisui, nemmeno me.
Se solo avessi saputo, se solo non mi fossi fidato di Allen, forse non saremmo arrivati a tutto questo.”
Gli presi le mani.
Sopra le nostre teste, la città di Nodens era scomparsa: attorno c’era solo più buio totale e silenzio, eccetto i mormorii delle entità millenarie che, come noi, erano arrivate fino a lì, in attesa dell’energia e della concessione di Idra per aprire il varco. I tentacoli erano arrivati attorno al mio torce e stavano risalendo fino alla gola. Non avevano consistenza, li avvertivo ma era come se non esistessero, schiarendo le nostre scaglie e i nostri volti per vederci un’ultima volta prima di venire avvolti dal buio.
Poi, lessi i suoi occhi, uno spiraglio nell’oscurità.
“Abbiamo ancora qualcosa di contaminato dall’umanità, dentro di noi.”
Venne avvolto dalla luce. Io lo guardai e nella mia bocca entrò quella stessa luce, le scie luminose mi si incastrarono in gola, poi negli occhi. Non lo lasciai, anche se persi consapevolezza del mio corpo e di quello di Itachi, per vedere buio e luce assieme, gelo e calore, pressione che schiacciava e sollevava.

Uscii dalla camera del motel mentre Shisui dormiva. Strascicando l’acqua e il peso del mio corpo inadatto alla lontananza dal mare, andai fino al giardino sul retro e con un cucchiaio rimediato di fortuna scavai. Scavai fino a tenere tra le mie dita palmate un pugno di terra.
Socchiusi un istante gli occhi.
Poi entrai nella stanza dove contemplai Shisui dormire, inconsapevole. Mi ricordai di quando l’avevo ammirato allo stesso modo un anno fa.
Mi sedetti al suo fianco e gli aprii la bocca, avvertendo il suo respiro contro le mie mani. La memoria sarebbe ritornata dopo tutto quello a cui aveva assistito e io non potevo più compromettergli la mente cancellandola ancora. Ormai non potevamo più fuggire.
“Mi dispiace. Un giorno rinasceremo e saremo più felici.”
Gli misi la terra in bocca e lui la divorò, inghiottendola dentro di sé. Provò a rigettarla, ma glielo impedii, sigillandogli le labbra con la mano mentre lo stringevo a me.
“Perdonami e ricorda.” Mormorai.
Ma almeno sarà davvero finita, avevi ragione tu.

Ci fu solo oscurità e parole di una litania oscura che richiamava i Grandi Antichi. Poi un istante di silenzio. Infine bruciore e, ancora, urla: urla feroci, di rabbia e dolore, un dolore più profondo perché dimenticato.
Le entità stavano... morendo.
La terra.
Certo, certo, che stupido, come avevo fatto a non capire?
La terra dentro di me, l’ultima traccia di qualcosa che aveva ospitato l’umanità ora contaminava l’intoccabile abisso: nel trascinarci con loro, nel portarci fino ai cancelli di R'lyeh, gli Abitatori del Profondo ci avevano assorbito.
Credetti di sentire Itachi, la sua mano stretta attorno alla mia. Mi aveva baciato e io l’ho corrotto: la splendida creatura che era, ridotta come me a perire nel flusso di coscienze e di rancori, di sacrifici e di vite spezzate.
Mi sentii esplodere. Per un attimo fui luce e udii la musica di un locale: scorsi Itachi accanto, delle donne e degli uomini ballare, mentre attorno la serata a Boston si animava.
Nodens si sgretolò, perdendo ogni contatto con la terraferma, e il suo rumore per me fu il ticchettare delle scarpe durante i balli scatenati sulle piste di legno, con cravatte allentate e pendenti che ondeggiavano, fumo sulle teste che copriva il rombo della terra sprofondante e vino che scorreva nei bicchieri, la spuma gorgheggiante dell’abisso.
Il sorriso di Itachi era la mia luce prima di scomparire e... fu come se stessimo danzando, un’ultima volta.



Sproloqui di una zucca

Ebbene, dopo settimane di ritardo infine ce l'ho fatta. Ancora non ci credo, ma pure quest'avventura è conclusa. Una storia strana, sostanzialmente un racconto che nulla ha a che fare con una fanfiction, ma tant'è, la challenge era per il fandom di Naruto XD
Grazie per aver letto fino a qui, spero che questa storia vi abbia acchiappato.

Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com

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