Abisso di Happy_Pumpkin (/viewuser.php?uid=56910)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Innsmouth ***
Capitolo 2: *** II - Crepe ***
Capitolo 3: *** III - Luce ***
Capitolo 1 *** I - Innsmouth ***
Abisso
I
Innsmouth
Mentre
guidavo, osservai i paesaggi del Massachusset dipingersi davanti ai
miei occhi: pennellate di verde intenso accarezzavano
l’orizzonte nuvolo che si stagliava sulla linea incerta del
tramonto. Il mio collega, Henry Allen, mi guardò un istante
come in cerca di qualcosa, ma sembrò lasciar perdere
perché alla fine scrutò a sua volta il panorama,
tamburellando le dita sul finestrino.
“Quel
posto non mi piace per niente, Shisui. Accadono cose strane,
l’omicidio di quel ragazzino un anno fa sembra avvenuto per
mano dei membri della sua stessa famiglia, tanto per dirne una
– tirò fuori una sigaretta da un contenitore
metallico, se la accese e soffiò una boccata di fumo, mentre
girava la manovella sulla portiera per abbassare il finestrino
– la gente fa schifo.”
Lo sguardo
sembrò distante, come se non volesse incrociarsi con il mio.
In testa, aveva un fedora scuro che gli conferiva un’aria di
classe, nonostante la barba non fatta da qualche giorno e le scarse
rughe di un’anzianità precoce rispetto agli anni
effettivi.
Scrollai le
spalle, grattandomi la tempia con un dito. C’era una
cicatrice in quel punto. Non mi ricordo come me l’ero fatta,
ma ogni tanto prudeva, simile a un insetto microscopico che cercava di
risalire in superficie.
“Su
questo non c’è dubbio, con il nostro lavoro di
gente pessima ne incontriamo tutti i giorni; eh già, non ci
pagano abbastanza.”
Ironizzai, con
una mezza risata. A modo mio, avevo sempre cercato di stemprare i toni
con del sano sarcasmo. Paradossalmente, mi aiutava a rimanere
concentrato, scacciando la paura, il senso di colpa, l’idea
di non aver fatto abbastanza: tutte sensazioni estremamente comuni,
quando si lavora come detective della Omicidi a Boston.
Allen,
però, non rise. Non rideva mai, almeno, da quanto mi
ricordavo. Sospirai, scrollando le spalle, per poi fischiettare un
motivetto in stile charleston. Un tempo mi avevano affascinato i locali
in cui si ballava; mi ripromisi di andarci, una volta risolto il caso
che ci aveva portato fino a lì, in quel posto dimenticato da
Dio e, probabilmente, anche dagli uomini.
“Innsmouth.”
Sussurrò
Allen.
Avvertii un
brivido lungo la pelle. Davanti a noi si stagliavano le porte della
cittadina che sorgeva sul mare: un’area limacciosa, incassata
in una costa dalla sabbia cupa e il mare oscuro che, raramente,
rigettava spuma bianca lungo i bassi declivi rocciosi dove si
incastravano i pali di legno marcescente del porto; presso le banchine
deserte navi colme di ragnatele e vele rammendate galleggiavano
sinistre ancorate ai ponteggi.
Le nuvole
soffocavano i raggi arancioni e rosati del tramonto, riflettendo al
contrario il grigio del mare e il senso opprimente di chiuso, simile a
una bolla fatta di silenzio e luci smorzate.
Parcheggiai la
macchina presso uno degli spiazzi adiacenti, poco distante dal porto.
Le strade erano pressoché deserte, mentre i lampioni a
petrolio erano stati già accesi: la notte sembrava prossima
a calare e il sole faticava a passare in spiragli frammentati
attraverso il cielo nuvolo.
Mi
salì alle narici un rivoltante odore di pesce marcio e di
salsedine, avvertii il gusto del mare sulle labbra secche, come se
qualcuno mi avesse appena spinto la testa sotto l’oceano per
farmi inghiottire con violenza acqua salmastra.
Aprii la
portiera per uscire, mentre Allen schiacciava il mozzicone di sigaretta
gettato per terra. Scorgemmo entrambi un poliziotto poco distante che,
appena ci vide, avanzò verso di noi: era tarchiato, dalla
pancia gonfia che sporgeva oltre le brache tenute su da bretelle di
cuoio consumato, spiegazzando al di sotto una camicia azzurra slavata;
sopra, la giacca della divisa era lasciata sbottonata.
Gli occhi
sembravano acquosi, protrusi come affetti da esoftalmo, le labbra piene
disegnate in una smorfia di fastidio, mentre il collo massiccio
faticava a stare dentro il colletto della camicia.
Mi presentai,
anticipandolo con piglio relativamente cordiale:
“Detective
Shisui Underwood, questo è il mio collega Henry Allen.
Piacere.”
Il poliziotto
mi guardò negli occhi, nella stessa maniera in cui si
potrebbe osservare un vecchio conoscente. Poi abbassò il
volto per contemplare brevemente la mano. La strinse qualche istante
dopo con una presa massiccia, al punto che le dita tozze sembrarono
avvinghiarsi attorno alle mie; notai che aveva la pelle leggermente
traslucida, come di chi fosse appena emerso da un catino
d’acqua senza però essere bagnato.
“Zadok
Marsh.”
La ritrassi
accennando un sorriso, emerso più per un confortante senso
d’abitudine. Allen non tese la mano, limitandosi a guardare
con occhi attenti l’uomo di fronte a noi.
“Se
ci può portare sul luogo del delitto, vorremmo esaminare la
scena. Nel frattempo, ci dia tutti i dettagli che
può.”
Asciutto,
dritto al dunque, sbrigativo. Sospirai, mettendomi le mani in tasca
dopo essermi grattato brevemente la cicatrice. Allen sembrava molto
più capace di me di mostrare freddezza quando serviva; anche
se lo conoscevo da poco, sono sempre stato bravo a capire le persone:
forse era pensando di comprenderle e capire cosa animasse i loro
desideri più oscuri che, in gioventù, mi sono
laureato in parapsicologia alla Miskatonic University. Questo
è un qualcosa che non dimenticherò mai.
Una pretesa un
po’ stupida, quella di capire gli altri, dato che gli unici
posti in cui finivo erano scene del crimine legate a gente fuori di
testa: sette religiose, cultisti di religioni provenienti da angoli
dimenticati del mondo, persone che credevano di essere possedute da
spiriti malvagi o uomini d’intelletto in preda a deliri
d’onnipotenza convinti di avere il dominio sulla natura.
Insomma, un insieme di simpatici disagiati che, un anno anno fa, mi
hanno portato a fare un bel giro di permanenza all’ospedale
psichiatrico di Arkham. Almeno, questo è quanto redatto
sulla cartella clinica letta dopo il rilascio, diversi mesi
più tardi; eccetto questo, la perdita di memoria subita in
seguito al trauma non è stata decisamente mia alleata nel
ricordare chi o cosa avesse contribuito a farmi andare fuori di testa.
“Underwood,
hai dimenticato anche come usare le gambe?”
Mi
richiamò Allen, fermandosi nel mezzo della via che collegava
l’ingresso della città al porto.
Simpatico:
quando si trattava di insultarmi, Henry dimostrava di saper fare delle
battute di spirito quasi intelligenti.
“Ah-ah,
che umorista Allen. Arrivo, arrivo.” Borbottai, per poi
accennare comunque una risata, anche se l’atmosfera
opprimente e quell’odore di marcio non facevano decisamente
propendere verso una conclusione allegra della serata.
Specie per
quello che ci prospettava: un omicidio in piena regola, con
però degli elementi insoliti che avevano attirato il
Dipartimento della Omicidi di Boston, al punto da sguinzagliare due tra
i suoi più efficienti detective esperti nei riguardi delle
sette locali e le loro follie sacrificali; si trattava di una
diramazione della Omicidi sorta da pochi anni in realtà,
quindi bisognosa di buttarsi in mezzo a casi persino nei posti
più sperduti, pur di continuare a guadagnare fondi
governativi.
“Vi
posso portare sulla scena, abbiamo recintato la zona per non attirare i
curiosi.”
Spiegò
Marsh, camminando con andatura un po’ ondeggiante, forse per
via del corpo massiccio e sproporzionato, anche se non potevo
immaginare di che curiosi stesse parlando, dato che le strade
sembravano costantemente deserte.
“Capisco.
L’uomo che ha trovato il cadavere? –
domandò Allen –
Dov’è?”
“Non
lo so. Da qualche parte nella taverna di Bob a ubriacarsi.”
Rispose il poliziotto senza particolare interesse, mentre continuava ad
avanzare.
Bene, tappa al
pub; poteva rivelarsi un momento più piacevole, forse unico,
rispetto alla prospettiva di addentrarsi ancora a lungo tra quelle
strade odorose di pesce marcio; anche se, a ben pensarci,
l’idea di che razza di birra ci fosse dietro al bancone mi
faceva rivoltare lo stomaco.
Allen mi
guardò e io annuii. Ovviamente, dopo l’analisi
della scena del crimine potevamo pensare di dividerci e procedere
rispettivamente verso l’obitorio, oppure a cercare di
svegliare da uno stato di collasso post-ubriachezza il primo e per ora
unico testimone della scena del crimine, eccetto ovviamente la polizia.
Non sapevo cosa fosse più piacevole tra le due opzioni, ma
ritenni che forse un cadavere poteva dare più informazioni
rispetto a un vecchio ubriacone; scrollai le spalle: nemmeno sapevo
perché, ma ritenevo che il nostro uomo fosse decisamente
anziano, consumato sin dentro la pelle dal mare e dalla sua salsedine
che entrava fin dentro i polmoni.
Svoltammo poi
in una delle vie laterali, più oscure, dalla pavimentazione
irregolare e le acque di scolo che gocciolavano in rigagnoli sudici da
oltre le canaline arrugginite. Mi sembrò di vedere occhi
gialli, intensi, intenti a fissarmi dalle ombre vicino a cassonetti
colmi di spazzatura, per poi sparire con un ticchettare ovattato di
zampe. Ratti.
Entrammo in
uno scantinato.
Sentii un
odore di umido, mischiato con quello di acqua stagnante e di muffa,
muffa che sembrava intaccare le pareti di mattoni a vista, con la malta
secca che si sbriciolava passando la mano sulla superficie viscida,
coperta a tratti da uno strato simile a muschio.
Incurante
dell’odore e dell’ambiente soffocante, il
poliziotto estrasse dalla fodera vicino a quella della pistola una
torcia. La accese dopo aver dato qualche lento colpetto con il palmo
della mano; per qualche istante il fascio di luce giallognolo
sfarfallò, poi si stabilizzò, illuminando le
scale.
“Attenzione,
è scivoloso – disse, senza nemmeno guardarci
– nella stanza abbiamo lasciato delle candele per illuminare.
Le scale sono la parte più buia.”
Ci fece
avanzare, illuminandoci le gradinate. Allen mi precedette e io lo
seguii, sentendo sul collo il fiato e la presenza del poliziotto, con
la luce che sembrava tagliare l’oscurità; forse
era solo per colpa di tutti quegli odori nauseanti, ma mi sembrava che
anche l’uomo di Innsmouth puzzasse di pesce.
Quando
completammo la discesa, vidi Allen bloccarsi sulla soglia
d’ingresso della stanza. Si portò una mano sulla
testa, come per trattenere il fedora elegante dal volare a terra.
“Cristo
Santissimo.” Mormorò, con voce resa raschiante
dalle troppe sigarette.
Mi misi al suo
fianco portando una mano sulla bocca, assalito fin dentro
l’encefalo dall’odore di putrefazione.
“Il
corpo – commentai, ricacciando un conato di vomito
– l’avete lasciato qui.”
Non ci
giurerei, ma mi sembrò di sentire il poliziotto sogghignare
e poi rispondere:
“Non
volevamo contaminare la scena del delitto. È tutto come
l’ha trovato Daves quando vi ha chiamati.”
“Curioso:
dopo aver trovato un cadavere, un vecchio ubriacone pensa come prima
cosa di mandare un telegramma urgente proprio alla Polizia di Boston,
pure con le forze dell’ordine qui presenti.”
Commentai d’istinto, con ironia tagliente.
Sentii il
poliziotto ringhiare qualcosa, mentre Allen si limitò a
guardarmi un istante per poi avanzare verso il cadavere, illuminato
dalla luce danzante di numerose candele disposte su mobili piegati
dall’umidità e nicchie, incassate in punti dove i
mattoni mancavano o si erano sbriciolati.
Lo accostai,
per poi osservare il cadavere riverso a terra con una piega innaturale
degli arti, come se fosse stato lanciato da un’altezza di
decisamente troppi metri, per essere uno scantinato sotto al livello
del mare. Attento, aggrottai le sopracciglia quando mi chinai per
scostare una ciocca di capelli scuri dal volto. Nel scorgere i tratti
del viso, deglutii e per qualche istante il cuore mi batté
più forte, fu come provare un’emozione forte,
scaturita da un ricordo antico.
Forse,
perché il volto di quell’uomo morto ai miei piedi
– giovane, era terribilmente giovane – vagamente
assomigliava al mio, anche se gli occhi erano meno grandi, eppure
ugualmente scuri, profondi, come era profondo l’oceano.
Erano vitrei,
gli occhi di chi non aveva più vita, e una mosca solitaria
camminava vicino alle ciglia folte, mentre la pupilla offuscata
guardava nel vuoto. I capelli lunghi, così lontani da ogni
concezione maschile, erano neri, corposi seppure insudiciati dal
pavimento umido e gocciolante i liquidi della terra: gli accarezzavano
il volto dalle forme morbide, toccandogli le labbra sottili come se li
avesse vomitati.
Il resto del
corpo era nudo, le unghie violacee, il pube esposto e i piedi magri
lambiti da una pozza d’acqua fetida. Scorsi dei segni sul
collo, ferite poco al di sotto delle orecchie da dove era colato sangue
ora rappreso e scuro, così scuro da distinguersi a fatica
dai capelli incrostati.
Annaspai un
istante, in cerca d’aria. Mi detti dello stupido.
Avevo visto
tanti cadaveri e orrori, in vita mia. Perché il corpo di
quel giovane uomo, nemmeno eccessivamente devastato dalla morte, doveva
farmi quell’effetto? Avvertii una fitta alla testa.
Maledizione. Sembrava stesse andando meglio in quel periodo, ma ogni
tanto le emicranie ritornavano; ad Arkham mi avevano somministrato
oppiacei, se i dolori avessero continuato avrei dovuto prendere
qualcosa: non potevo lavorare a un caso con la testa spaccata in due
dal male.
Mi rimisi in
piedi, mentre Allen sfiorava con una penna le labbra prive di sangue
del cadavere; scorsi i denti bianchi simili a perle, così
come intravidi da lingua gonfia.
“Si
è conservato bene, per essere in questo posto merdoso
– commentò, grattandosi la barba non fatta
– sapete chi è?”
“Un
Uchiha. Si somigliano tutti, o quasi.” Replicò
asciutto Zadok Marsh.
“Beh,
ci servirà un po’ più di
questo.” Ribatté il mio collega, per poi esaminare
le mani della vittima, curvo su essa.
Scrocchiai
appena il collo, ignorando il borbottio del poliziotto che sembrava
piccato, così come ignorai il campanello d’allarme
nel sentire quel cognome che mi risultava familiare. Effettivamente,
Uchiha era un nome piuttosto frequente dalle parti di Innsmouth, anche
se, a quanto ne sapevo, i primi con quel cognome si erano insediati
nella cittadina molto più tardi rispetto ai ben
più antichi rappresentanti della famiglia Marsh.
Tirai un
sospiro, per poi concentrarmi sui segni della parete. Vidi delle
incisioni nel mattone, scritte in un linguaggio che non comprendevo,
ricche di consonanti capaci di dar vita a suoni gutturali; tali
incisioni erano accompagnate da immagini di creature grottesche con
denti aguzzi e occhi sconosciuti al pari dell’universo.
Alcune parole erano state nuovamente ricalcate con quello che sembrava
sangue, anche se ormai secco, il quale in precedenza era colato oltre
le scanalature scavate nel mattone, fino a venire assorbito e lasciare
una crosta scura.
Capivo
perché eravamo stati chiamati noi e non uno qualsiasi della
Omicidi per quel caso: la posizione innaturale del corpo, i segni e le
immagini erano prova del coinvolgimento di una setta o, se non altro,
di un gruppo di adoratori di una qualche forma di divinità,
forse quella stessa creatura incisa sulla parete che sembrava scrutarci
dall’abisso. Non mi piaceva per nulla, mi trasmetteva un
tremendo senso d’angoscia.
Chiusi gli
occhi, nel tentativo di contenere una nuova fitta di mal di testa.
Non parlai, ma
Allen si era alzato in piedi a sua volta, cominciando a segnare su di
un taccuino le parole incise e, con una rapidità sommaria,
ritrarre la creatura tracciata sul mattone impregnato di muffa. La luce
delle candele ondeggiò un istante, soffocata
dall’oscurità lugubre della stanza, poi riprese a
stabilizzarsi, al pari della torcia del poliziotto ancora puntata sul
cadavere. La mosca era scomparsa. Si sentiva il ticchettio
dell’acqua che colava lenta dai muri e i nostri respiri
ovattati, nient’altro.
In lontananza,
però, a tratti credetti di sentire la risacca del mare, per
quanto Innsmouth fosse caratterizzata da una calma piatta
dell’insenatura che ricordava una palude, piuttosto che una
località marittima.
Henry
segnò altri dati forniti dal poliziotto, poi richiuse il
blocchetto e lo rimise in tasca; nessuna informazione essenziale a dire
il vero, ma probabilmente era inutile pretendere altro, data la scarsa
collaborazione dell’autorità locale.
“Andiamo
a parlare con questo Daves, poi ci cerchiamo un posto in cui dormire
– spostò lo sguardo verso la nostra maleodorante
guida che gli puntò la luce contro – spostate il
cadavere all’obitorio. Domani voglio darci
un’occhiata con un’illuminazione migliore. E, per
Dio, mettetelo in una ghiacciaia prima che marcisca ancora.”
Colsi una vaga
smorfia sul suo volto, con qualche ruga d’espressione
più marcata delle altre e gli occhi grigi, plumbei,
dall’iride contratta per via del fascio luminoso.
“Chiamerò
i miei colleghi. L’obitorio è vicino alla
chiesa.” Rispose la guardia in una sorta di gracidio
cavernoso.
“Daves
è al pub, dicevi?” domandai, dopo aver registrato
mentalmente l’informazione.
L’uomo
mi scrutò un istante con i suoi occhi acquosi, gonfi come
quelli di una ranocchia in procinto di essere schiacciata. Poi
annuì con un cenno, si avvicinò allo stipite
dell’ingresso che dava sulle scale e puntò il
raggio di luce: “Andate. Qui ci penso io.”
Mi
guardò quando lo disse; il tanfo di marcio si fece
più forte. Cominciai a salire le scale senza nemmeno
attendere Allen o ribattere con qualcosa di ironico: volevo solo
prendere aria, smettere di avere davanti agli occhi lo sguardo di
quell’uomo e i disegni di una creatura antica tracciata nel
sangue.
Quando fui
all’aperto, presi grandi boccate di ossigeno, per quanto gli
odori fossero rivoltanti e l’aria come contaminata da
qualcosa di rarefatto, ma già andava meglio rispetto a
quello scantinato soffocante.
“Shisui,
si può sapere che ti è preso?”
domandò Allen, uscendo a sua volta in strada.
“Niente,
è che – mi bloccai un istante per poi ripetere
– niente.”
Mi
lanciò un’occhiata perplessa, ma forse non aveva
intenzione di indagare oltre perché prese a camminare, per
poi esortarmi:
“Andiamo
a trovare questo Daves, vediamo se nel frattempo
c’è qualcun altro che sa qualcosa. Tu non hai
visto com’è morto il ragazzino qui a Innsmouth un
anno fa, vero?”
“No.
In quel periodo non ero esattamente lucido.” Replicai,
infilandomi le mani in tasca mentre raggiungevo il mio collega.
“Il
manicomio ad Arkham?”
“Sì.”
“Capisco
– dopo un istante però si bloccò,
portandosi davanti a me, e mi disse, fissandomi senza battere ciglio
– abbiamo affrontato qualche caso assieme da quando ti sei
ripreso. Non ti conosco, né so perché hanno
voluto darmi qualcuno con cui investigare, però mi sembri
uno in gamba, anche se a volte ti comporti da cazzone. Ma ti avviso:
non dare di matto qui, siamo intesi? Non farlo in generale,
però a Innsmouth in particolar modo… evita. Non
perdona.”
“Lo
so.” Replicai di getto, senza nemmeno rendermene conto.
“So che non perdona.”
Assottigliai
le labbra, sentendomi schiacciare. Non sapevo da cosa, lo avvertivo e
basta.
Allen mi
fissò. Sembrò in procinto di aggiungere altro, ma
alla fine optò per riprendere a camminare e io lo imitai,
artigliando alle cosce le mani tenute in tasca.
Giungemmo in
fretta al pub, l’unico presente nella cittadina,
riconoscibile per via dell’insegna ‘Pub da
Bob’ dipinta con vernice ormai sbiadita in alcune lettere. Un
tizio vestito di stracci era accovacciato a terra in una pozza di
vomito, con il profilo che si intravedeva appena nella penombra del
vicolo. Dopo avermi osservato brevemente, Henry cominciò a
entrare ma io, appena la porta cigolante si richiuse alle sue spalle,
mossi un passo, portandomi di fronte all’uomo a terra.
Non seppi
esattamente perché, eppure mi chinai, ignorando il fetore
che proveniva da quel corpo ripiegato su se stesso. Scorsi la barba
sudicia e il volto scavato da rughe, consumato, i denti saltati della
bocca arida semiaperta e le gote, come il naso, coi capillari
scoppiati: un bello schifo, ma temo di aver sempre avuto una mia
personale propensione all’orrido.
Sembrava
ancora vivo, il respiro era rantolante e incerto.
“Daves.”
Affermai, sicuro, sicurissimo che fosse lui.
Non dovevo
aver mai visto quel volto in vita mia, eppure ero ugualmente certo che
quello fosse il nostro uomo. Mi voltai un istante: nel vicolo non
c’era nessuno, si udiva a malapena un vociare ovattato della
gente all’interno del pub – tranquillo, per essere
il tardo pomeriggio in una comunità così isolata.
Allungai una
mano per provare a scuoterlo. Gli scrollai le spalle, afferrando quello
che sembrava essere un cappotto rattoppato, dalle maniche e cuciture
consunte; avvertii il tessuto liso sotto la mia presa, mai lavato,
impregnato vagamente di salsedine incrostata tra le pieghe
dell’abito.
Ma
l’uomo non si mosse, gli occhi riversi e una leggera bava che
cominciò a colare dalla bocca riarsa.
Merda.
Stava morendo,
soffocato nel suo stesso vomito? Fantastico, risulto sempre essere
l’uomo sbagliato nel posto peggiore di sempre. Pensai di
sollevarmi e chiamare aiuto, anche se non sapevo che generi di tutele
mediche vi fossero in un posto come quello.
Quando mi
alzai in piedi, però, qualcosa mi afferrò una
caviglia. La presa d’acciaio mi artigliò con un
movimento talmente rapido da farmi quasi inciampare; con il cuore in
gola abbassai lo sguardo e vidi Daves, lo stesso vecchio stramazzato al
suolo, che si era rialzato con una piega innaturale del busto, le gambe
ancora accovacciate sul suolo lercio, mentre la mano dalle unghie
sudice, rotte e troppo lunghe, non accennava a lasciarmi andare.
Mi
guardò dritto negli occhi, individuandomi oltre la
semioscurità dopo aver ignorato la mia paura. Erano gli
occhi di un morto, spenti eppure feroci, rancorosi, di chi un giorno
avrebbe perseguitato una vita per saziarsi nella morte.
“Non
fidarti di lui!”
Rantolò,
oltre i pochi denti marci, la lingua gonfia che articolò le
parole senza muoversi, quasi come se esse provenissero
dall’interno della cassa toracica dilatata, quasi avesse
inspirato l’aria necrotica di Innsmouth.
“Lui
chi? Di chi stai parlando?” esclamai, paralizzato. Le unghie
mi scavarono, volevano entrarmi nella pelle per scoperchiarmela come
una vecchia coperta.
Feci per
chinarmi e afferrare l’uomo, ma questi smise di guardarmi.
Rise. Una risata innaturale, grottesca, con gli occhi che si girarono
al contrario fino a mostrare il bianco del bulbo. Altri capillari
scoppiarono, il sangue colò oltre il naso, la bocca
incrostata di vomito e morte.
Poi si
bloccò. Mi lasciò andare la caviglia e la mano
rimase immobile, contorta come una foglia riarsa; un istante dopo,
Daves voltò con un movimento brusco la testa verso
l’alto: sembrò quasi che delle mani invisibili lo
avessero costretto a osservare il cielo, finendo per tendergli il collo
con una violenza che non gli dette tempo di prendere la boccata
d’aria successiva.
Udii uno
scrocchiare brusco di ossa, secco e tremendo. Indietreggiai di un
passo. Daves cadde in avanti, schiantando la testa sul pavimento
sudicio, tra il vomito e i liquami del vicolo ombroso.
“Shisui,
si può sapere che cazzo stai…”
Per un istante
non udii alcuna parola. Le orecchie mi fischiavano, sentii solo il rush
violento del sangue alla testa, della paura, dell’istinto
feroce di sopravvivenza che mi diceva di andarmene, fuggire, prima che
fosse troppo tardi.
Non avevo
sentito nemmeno la porta aprirsi con un cigolio sinistro, i passi, la
sua presenza.
“Underwood!”
Sussultai.
Spostai lo sguardo e vidi Allen che mi guardava, tenendosi il cappello
come faceva sempre in situazioni di crisi improvvisa – ero
sempre stato bravo a capire le persone, le osservavo, giusto?
“Questo
era Daves – ritrovai il controllo sulle parole, anche se
uscirono simili al singhiozzo di un motore – è
soffocato nel suo stesso vomito.”
C’era
altro. Ma quell’altro non mi piaceva: aveva portato un
vecchio ubriacone alla morte prima dell’alcool da cui era
dipendente.
“Fanculo
– ringhiò Henry, dopo aver spostato lo sguardo con
irritazione e un sentimento di remoto disgusto – nessuno
eccetto questo vecchio stronzo sembra sapere nulla degli omicidi che ci
sono stati, né della connessione a una setta. Vado a
chiamare quel coglione di Marsh, tu fai in modo che nessuno si avvicini
al cadavere di Daves: era uno attaccato alla bottiglia, ma ho visto
troppe cose per credere che chi ha trovato il cadavere sia morto per
una bevuta di troppo proprio dopo il nostro arrivo.”
Non mi piaceva
per niente l’idea di fermarmi in quella strada, ma capivo il
ragionamento di Allen e non potevo essere più
d’accordo sulla coincidenza nefasta di eventi.
“Stai
attento.” Gli dissi.
“Già.
Anche tu.” Replicò l’altro, sistemandosi
meglio il cappello.
Uscirono due
uomini dal pub. Avevano i capelli neri, i lineamenti morbidi,
più aggraziati di quelli del poliziotto. Si assomigliavano,
in un certo senso, forse era per il taglio degli occhi scuri, forse per
via dei capelli neri e lisci.
Mi guardarono
un istante, ma nemmeno sembrarono notare il cadavere alle mie spalle:
si limitarono giusto a lanciare un’occhiata ad Allen che li
scrutò, sul chi vive. Passarono oltre, allontanandosi dal
vicolo per entrare nella strada principale.
Espirai, per
poi scuotere la testa:
“Ma
che problemi ha questa gente? Un cadavere! C’era fottutissimo
un cadavere e l’hanno totalmente ignorato!”
Henry li
scrutò un istante prima di vederli sparire e
commentò:
“Non
lo so. Secondo me è l’aria di questa
città che fa andare fuori di testa. Ritorno con Marsh per
portare via il cadavere. Se non mi vedi prima che faccia buio prendi la
macchina e ritorna a Boston, avvisa i capi che mandino qualcuno armato
di tommy gun.”
Sembrò
quasi scherzare, ma l’espressione era seria.
“Non
ti abbandono in mano a psicopatici, Henry. E se lo dico io che sono
stato in un manicomio, sono psicopatici proprio.” Replicai
con aria tranquilla, persino scanzonata. Non so come riuscii a cambiare
tono così bene, quando fino a poco fa credevo di aver
sputato il cuore.
Il mio collega
mi guardò un istante. Non ribatté. Scosse le
spalle, si accese una sigaretta e si allontanò, con le
volute di fumo che lambivano le poche luci dei lampioni dalla fiamma
traballante.
Prima che
facesse effettivamente buio, anche se qualche candela si era spenta e
il pub era silenzioso, vidi rientrare Allen, accompagnato da Marsh e da
un suo collega, almeno a giudicare dalla sua divisa. Come lui, anche
l’altro poliziotto aveva lo stesso aspetto grottesco, gli
occhi sporgenti, gonfi, esattamente come le labbra umide di chi
sembrava essersele appena leccate.
“Cosa
abbiamo qui. Il vecchio Daves non ha passato la sbornia, questa
volta.” Commentò Marsh, senza curarsi di apparire
nemmeno lontanamente dispiaciuto.
Illuminò
il cadavere con la torcia. Il collega si limitò a una mezza
risata gracidante, gutturale, però non parlò,
anzi, spostò gli occhi verso di me, per guardarmi senza
battere ciglio.
“Nessuno
di voi sembra particolarmente affranto.” Replicai a
bruciapelo.
Cercai lo
sguardo di Allen che però, adombrato dal suo cappello,
sembrava essere concentrato sul cadavere.
“Un
ubriacone senza soldi e senza casa. Un problema in meno –
liquidò il poliziotto, facendo ondeggiare appena la luce
– avete ottenuto le informazioni che cercavate?”
Mi chiese.
Sentii una nota di provocazione nella voce, o forse ero io a credere
fosse così.
“L’indagine
proseguirà. Verificheremo anche le cause del decesso di
quest’uomo, domani all’obitorio. Possiamo contare
sulla vostra collaborazione?”
Domandai, con
un sorriso tagliente.
Marsh mi
restituì uno sguardo cattivo e sussurrò con voce
roca: “Certo, detective Underwood.”
“Perfetto.”
Ci osservammo
un istante, poi il poliziotto passò oltre e si
chinò, facendo cenno al collega per prendere il cadavere di
Daves. Sembrò che non provassero nulla all’idea
del sudiciume, del tanfo di morte e marcio che proveniva da quel corpo,
forse dall’intero vicolo. Lo trascinarono via sotto il nostro
sguardo, lasciandoci soli.
Li scrutai un
istante, poi mi voltai verso Allen. Era ancora immobile.
“Henry?”
domandai dopo un istante.
Lui
sembrò riprendere vita, anche se non mi rispose. Prese una
nuova sigaretta, la accese con un gesto quasi meccanico e
aspirò diverse boccate di fumo in rapida sequenza, quasi
avesse dovuto bruciarla prima dello scadere di un cronometro invisibile.
“Vai
all’albergo. Domani procediamo con l’autopsia, poi
ce ne andiamo da questa fottutissima città.”
Inarcai un
sopracciglio. Notai il leggero tremore della mano. Allen non aveva mai
tremato, nemmeno quando aveva assistito a casi di magia nera
giù a Dunwich.
“Cos’è
successo? – gli chiesi d’impulso – Marsh
ti ha detto qualcosa, ti…”
Ma lui mi
afferrò per il bavero della giacca e avvicinò il
mio volto al suo, investendomi di una boccata di nicotina e carta
bruciata. Vidi gli occhi: erano occhi di chi era sopravvissuto a
qualcosa, occhi saggi, eppure spaventati.
“Sentimi
bene, Shisui – dilatò appena le narici, per poi
ribadire, quasi dopo un ripensamento – chiudi a chiave la
camera, questa notte.”
“Cos…”
cercai di dire.
“Tu
fallo e basta.”
Portai una
mano avanti, annuendo: “Ok, ok, lo farò, ma tu
dove hai intenzione di andare?”
Mi
lasciò, si sistemò il cappello e
scrollò la cenere, tenendo un istante la sigaretta tra le
dita ingiallite per il contatto con la sigaretta. Me la
puntò contro quando rispose: “Devo capire alcune
cose. Ti busserò alla porta della stanza quando
rientro.”
Mimò
il colpo, quattro volte.
Annuii, con la
bocca riarsa.
Sembrò
soddisfatto, perché tirò fuori dalla tasca
interna del cappotto un involucro un po’ schiacciato che
afferrai all’ultimo, preso in contropiede.
“Che
roba è?”
“Pasticcio
preso al pub: sono vecchie verdure, forse marce. Meglio di quello di
carne, considerato il posto. Ci vediamo tra un po’
all’albergo.”
Lanciò
il mozzicone di sigaretta a terra, calpestandolo un paio di volte. Poi
cominciò a camminare e io lo seguii fino alla fine del
vicolo; sulla strada principale, ci separammo.
Mi diressi
all’albergo, presi la stanza, provai a mangiare un boccone
della pietanza ma non riuscii a dare che qualche morso; non solo quel
tortino sapeva di muffa e di stantio, ma io stesso avevo un nodo che mi
attorcigliava lo stomaco, torturato dalla consapevolezza di qualcosa
che avrei dovuto sapere eppure non riuscivo a ricordare.
Le fitte alla
testa erano riprese, così abbandonai sulla scarna scrivania
polverosa la mia tremenda cena, mi detti una sciacquata sommaria con
l’acqua disponibile nel catino e mi sdraiai sul letto,
vestito di mutande e canotta. L’altro letto poco distante che
avrebbe dovuto ospitare Allen era logicamente vuoto.
Guardai un
istante il cielo attraverso l’unica finestra presente:
c’era quasi luna piena, si intravedeva oltre la coltre di
nubi, e illuminava di una luce innaturale la stanza che puzzava di
chiuso. Udii qualcosa grattare nel legno vecchio, forse erano tarme.
Lanciai
un’occhiata alla porta. Mi alzai di scatto, ricordandomi che
non l’avevo chiusa a chiave. Quando udii la serratura
scattare sospirai brevemente, per poi tornare nel letto. Mi detti
dell’idiota: avevo sempre affrontato le situazioni con piglio
più energico, eppure in quel luogo mi sentivo inquieto, per
quanto con addosso la sensazione che determinate cose stessero tornando
esattamente come volevo. Non saprei spiegarmi diversamente. Forse,
avrei dovuto riprendere a leggere qualche libro, la dialettica era
sempre stata il mio forte.
Mi
addormentai, cullato dal ticchettio di qualcosa che gocciolava.
*
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Parole. Nomi.
Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità
della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti,
gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela
come per mozzarmela.
Provai a
respirare, a parlare, a muovermi, ma ogni mio muscolo era inchiodato al
letto: qualcosa di oscuro e potente mi schiacciava contro il materasso.
Lo avvertii bagnato, fradicio di acqua gelida, ne percepii
l’odore palustre, di muffa che divorava i mattoni degli
scantinati e penetrava fin nelle ossa, divorandole.
Poi, udii un
ticchettio. Altra acqua. Più veloce, sempre più
veloce. Scorreva, rapida, continua, un flusso veloce quanto la litania
di parole oscure.
Allora,
riuscii a risollevarmi con il torso. Avvertii quasi la pelle della
schiena strapparsi e annaspai, rantolando, come un vecchio che si
aggrappa all’ultima boccata di ossigeno per vivere
ingordamente un giorno in più.
La stanza era
divorata dall’oscurità, eccetto per il fascio
lunare azzurrognolo che tagliava il pavimento, lambendo le assi divelte
e rigonfie d’umidità.
Lanciai
un’occhiata al letto di fianco al mio. Allen. Non era ancora
tornato. Non avevo idea dell’ora, c’era solo la
luna alta nel cielo e nemmeno una stella oltre le nubi grigie.
Mi portai una
mano al petto, come per impedire al cuore che scalciava feroce di
schizzarmi fuori dalla bocca. La sentii asciutta, sembrava mi avessero
tolto la saliva, prosciugandola.
Quando il
cuore si placò, mi coprii un istante il volto, per poi
scuotermi la chioma dei miei capelli già mossi.
Fu allora, in
quel preciso istante di silenzio assoluto, che udii l’acqua,
qualcosa, perché non ero certo fosse acqua, riprendere a
ticchettare. Le orecchie fischiarono, nel teso tentativo di mettere in
allerta tutti i miei sensi, spinto da un istinto primordiale di
sopravvivenza.
Girai il volto
di scatto.
La finestra.
C’era
qualcosa di lucente che stava colando, lento, oltre gli infissi e il
davanzale, picchettando a terra in gocce rese più luminose
dalla luce solare. Ritrassi le gambe pronto a scattare. Non sapevo
nemmeno dove: se verso la finestra, per bloccare il flusso, o la porta,
ricordandomi di averla maledettamente chiusa a chiave.
La finestra si
spalancò. All’improvviso.
Sussultai,
artigliando le mani al letto, senza riuscire a sollevarmi. Non
entrò una folata di vento, nulla, ma l’acqua
riprese a gocciolare più veloce, con un ritmo persino
incalzante.
Un’ombra.
Un’ombra
sembrò strisciare attraverso l’apertura, lenta a
differenza dell’acqua grondante; alle sue spalle la luce
lunare mi impediva di distinguerne il profilo.
Cerca di
rimettermi in piedi, per trovare a tentoni i pantaloni abbandonati poco
più in là e la pistola. Riuscii ad afferrarla e
con un movimento rapido la puntai contro l’essere che
gocciolava a sua volta acqua, con la schiena leggermente curva e una
massa di qualcosa di pesante che pareva costringerlo a chinare il capo,
qualcosa pregno di ulteriore acqua. Mi arrivò alle narici un
odore di mare, di alghe e di salsedine, pareva quasi fresco,
più salubre rispetto all’odore palustre di
Innsmouth, ma ugualmente opprimente.
Non parlai,
cercai di controllare il tremore della mano, perché quando
la creatura prese ad avanzare con passo strascicato tolsi la sicura in
uno scatto secco e sparai. Riecheggiò un colpo, le orecchie
mi fischiarono, eppure riuscii lo stesso a udire il tintinnio del
guscio del proiettile che cadeva a terra.
L’odore
di polvere da sparo per un attimo impregnò l’aria,
ma venne assorbito in fretta dagli umori che infettavano la stanza e
tutta quella dannatissima città.
Non mi resi
conto nemmeno di aver smesso di respirare.
Istanti. Fu
questione di istanti affinché la creatura, immobilizzata dal
colpo, sollevasse gli avambracci. Riuscii a distinguerli e rimasi
sconvolto quando realizzai che c’erano delle scaglie,
infinite e minuscole scaglie che rilucevano sotto i raggi della luna.
Sembrò
portarsi quelle che forse erano mani, palmate, al petto.
Mosse un
passo, poi un altro.
“Indietro!
Dannazione, stai indietro!” esclamai, serrando la presa
sull’arma.
A quel punto,
l’essere si fermò di nuovo. Da quella posizione la
luna lo illuminò meglio e distinsi i contorni di quello che
sembrava un essere umano. Non capivo, avvertivo la testa leggera,
confusa, l’emicrania era sparita, il cuore batteva veloce,
tanto veloce da rimbombarmi nella scatola cranica, quasi fosse stato
lì.
La creatura
sollevò la testa: il manto che la ricopriva, simile a
capelli lunghi, lisci, gocciolanti acqua, ricordava delle alghe, una
massa fitta di alghe scure e pregne d’acqua. Con quel
movimento, rivelò il volto.
Annaspai, in
cerca d’aria, quando lo riconobbi.
“Tu…
tu sei il ragazzo morto nello scantinato.”
Non
riuscii a sparare, il mio corpo intero era come paralizzato.
Gli occhi mi
scrutarono, la pelle ricoperta da scaglie sembrò rilucere
maggiormente, come bagnata. Le mani palmate, dalle dita aggraziate e
diafane, tornarono a posarsi sui fianchi. Gli occhi profondi avevano
ciglia che ricordavano infiniti coralli dalle sfumature bluastre. Era
nudo, bellissimo e letale.
Quando
parlò, attraverso le labbra sottili dal profilo violaceo,
sussurrò parole che ricordarono il suono della risacca del
mare intrappolata in una conchiglia.
“Itachi
Uchiha. Attendevo il tuo arrivo, Shisui.”
Sproloqui
di una zucca
Bene, che ne dite di
questa storia? In prima persona, perché secondo me
è più immersiva dato il genere e la tipologia di
cose che volevo trasmettere; poi dal punto di vista di Shisui, quindi
un esperimento particolare, in quanto rimanere fedeli al suo
pseudo-carattere (pseudo, dato che Kishimoto l'ha giusto abbozzato)
comportava un personaggio abbastanza ironico che ha creato un contrasto
per me affascinante rispetto alle atmosfere cupe.
Ci saranno in totale tre capitoli con vari cambi di scenario, spero che
la narrazione possa acchiappare, per quanto particolare forse; per gli
amanti di Lovecraft, mi auguro possa richiamare almeno un pochino certe
atmosfere alle quali ho voluto rendere omaggio, pur con tutte le
variazioni del caso.
A seguire un po' di info:
l'intera storia è ambientata nel Massachusset, appunto, che
ha come capitale Boston. Stato molto usato da Lovecraft nei suoi
racconti e sede di città inventate quali Innsmouth (popolata
anche da sorta di uomini-pesce fedeli a Dagon), Arkham (da qui il
riferimento al manicomio in cui ha soggiornato Shisui, oppure la
Miskatonic University) o Dunwich (per i casi di magia nera menzionati
da Shisui facevo riferimento a l'Orrore di Dunwich).
Il periodo storico è volutamente non chiaro: volevo dare
cenni di un'ambientazione anni '30 senza però esserne
incatenata, proprio per poterla rendere concreta anche ai giorni
nostri.
Per i nomi: per Shisui è voluto il cognome Underwood,
c'è una ragione ben precisa; Zodak Marsh prende il nome da
Zodak Allen, il marinaio ubriaco che Nella Maschera di Innsmouth da
informazioni al protagonista - ubriaco che io ho omaggiato nella figura
di Daves - lo stesso Allen da il cognome al mio detective Henry Allen,
tra l'altro tantissimi personaggi in Lovecraft hanno il nome Henry
(basti pensare a Henry Armitage, tanto per dirne uno).
La frase Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu
R'lyeh wgah'nagl fhtagn si può tradurre
generalmente come 'In his house at R'lyeh, dead Cthulhu waits dreaming'
(Nella sua dimora di R'lyeh,
il morto Cthulhu
attende sognando). Litania usata nella mitologia di Lovecraft per
riferirsi alla città sommersa di R'lyeh dove appunto dimora il
Grande Antico Cthulhu. Questa
città sarà molto importante, non dimenticatevela
XD
Bene, direi di aver
detto tutto. Al prossimo capitolo :3
Fanart:
http://intheendlessbluewine.tumblr.com/post/159407749759/something-about-tragic-boys-and-drowning-yourself
|
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Capitolo 2 *** II - Crepe ***
Abisso cap 2
Abisso
II
Crepe
Nella vita,
esistono dei
momenti ben precisi in cui bisogna rendersi conto che non sempre la
razionalità è la soluzione per tutto. Forse per
questo
sin da ragazzino sono stato un fiero sostenitore delle scelte
istintive; almeno, suppongo, visto che non ho memoria di chi ero o di
cosa facevo. A giudicare da come sono andati questi mesi, ritengo
comunque di aver aderito a questa tipologia di scelta proponendomi come
un valido esempio di detective dalla testa calda.
Il che ha
fatto esasperare
Allen nelle poche volte in cui abbiamo collaborato a qualche caso. A
mio discapito, però, se nemmeno uno irascibile come lui mi
ha
ancora ucciso vuol dire che qualcosa di buono riesco a combinare, no?
E poi sono
simpatico. Il
genere di persona che riesce a smorzare la tensione con una battuta
carismatica, abilità da non sottovalutare quando le cose
sono
andate oltre il livello di disastro totale.
Ma in quel
momento, in una
notte lunare a Innsmouth passata in una locanda fatiscente, non mi
sentivo per nulla simpatico e, sinceramente, avrei voluto aggrapparmi a
un barlume di razionalità per spiegare come fosse possibile
che
un ragazzo morto da giorni, all’improvviso, mi comparisse
davanti, trasformato come se avesse sempre vissuto in una
realtà
acquatica parallela alla mia noiosa esistenza umana.
“Tu
eri morto – biascicai, incredibilmente a corto di parole
– e come fai a sapere il mio nome?”
Colui che si
era presentato
come Itachi Uchiha era rimasto fermo. Gocciolava acqua solo dai capelli
che ricordavano folte alghe, mentre la pelle a scaglie riluceva umida.
L’espressione
sembrò ammorbidirsi, quasi stesse provando compassione per
la
mia reazione sconvolta, infine replicò con la sua voce che
conteneva in sé l’eco del mare:
“Quindi
hai perso la
memoria – sembrò dispiaciuto, persino
più di quanto
lo fossi io – con il tempo ti spiegherò tutto. Ma
ora… dobbiamo fuggire. Se rimani qui morirai,
Shisui.”
Bene,
fantastico, non solo
il mio collega era scomparso, ora dovevo trovarmi un cadavere
misterioso che mi avvertiva riguardo la mia morte prossima.
“So
che la città fa schifo, ma da qui a
morir…”
“Ascoltami.
Prendi le
tue cose e fuggiamo. Ti guiderò fino al luogo in cui potremo
fermarli: aiutami, prima che sia troppo tardi.”
Lo scrutai,
incurante di mostrare una smorfia perplessa. I suoi occhi scuri
però erano intensi, profondi, così umani da far
spavento.
“Aspetta,
aspetta: sto per morire, ma mi chiedi di venire con te per
tipo… cosa? Salvare il mondo?”
Feci un
sorriso di scherno.
Itachi mi
guardò,
immobile e silenzioso, perdendo quell’aura di affetto che mi
aveva perseguitato in quegli attimi, al punto da desiderare poterla
contemplare ancora, ancora e ancora.
“Per
evitare la fine del mondo come lo conosciamo.”
Bussarono alla
porta.
Sussultai,
sentendo il
cuore schizzarmi in gola. Mi voltai di scatto verso
l’ingresso,
udendo una successione di colpi dal ritmo preciso. Quattro, per la
precisione.
“Henry.”
Mormorai,
sgranando gli
occhi. Scattai ad aprire la porta, ma Itachi mi afferrò.
Avvertii il tocco freddo delle sue mani sulla pelle: non umido come mi
sarei aspettato, ricordava più un oggetto lasciato
all’aperto in una notte gelida.
“No.
Non aprire.”
Lo fissai.
Dall’altra
parte della porta, dopo i quattro colpi era caduto il silenzio. Vidi un
rivolo d’acqua colare oltre i capelli che accarezzavano il
torace
bluastro di Itachi, senza capezzoli o ombelico, un corpo non generato
dalla vita ma da qualcosa di oscuro.
“Lasciami.”
Con un gesto
brusco
allontanai il braccio, anche se sentii qualcosa dentro strapparsi,
quasi fossi stato io a essere ferito da quelle parole. Itachi non
tentò nuovamente di bloccarmi.
Corsi alla
porta e faticai
per qualche istante a girare correttamente la chiave, dandomi
dell’idiota con maggiore frequenza di altre volte, infine la
spalancai.
“Allen!”
esclamai, vedendomi davanti il mio collega. Notai che aveva perso il
cappello, i vestiti erano malconci e non accennava a muoversi; forse
per via di Itachi: anche per lui doveva essere stato un bello shock
notare il nostro oggetto d’indagine tornare in piedi vivo e
vegeto.
Mi girai un
istante verso
di Itachi e mi resi conto che lo sguardo era fisso oltre le mie spalle,
come in attesa di qualcosa. Lo seguii, avvertendo più
distintamente l’odore del mare cercare di coprire un profumo
dolciastro, nauseante. Non un profumo, realizzai, affatto: un olezzo di
morte, di un cadavere in putrefazione che presto avrebbe sperimentato
la lenta decomposizione.
“Itachi…”
mormorai.
No. Itachi era
mare. Era
quella spuma potente delle onde tempestose nascoste da
un’apparente calma piatta. Tornai a guardare il mio collega.
E
prima che potessi dire altro, vidi i suoi occhi vitrei, la bocca
esangue leggermente aperta e il volto terreo che spiccava
più
della barba non fatta da giorni.
Poi,
all’improvviso,
la sua testa scivolò. Lenta, com’era lenta la
putrefazione, e in un suono vischioso si staccò dal collo,
schiantandosi a terra in un tonfo reso ovattato dalle assi marce del
pavimento.
Per una
frazione di secondo
il corpo rimase ancora in piedi, sospinto da qualcosa di più
forte della gravità stessa, e io stentai a credere che
quello
fosse davvero Allen, o che la testa ai suoi piedi gli appartenesse.
Infine, il mio collega, o quanto rimaneva di lui ancora intero,
crollò e probabilmente mi sarebbe venuto addosso se Itachi
non
mi avesse afferrato per la maglia, tirandomi indietro con una forza
spaventosa per quello che credevo essere un corpo asciutto, meno
fisicamente massiccio del mio.
Sentii i miei
stessi passi
sul legno che scricchiolò lamentoso, assieme ai battiti del
cuore che mi rimbombavano nelle orecchie. Merda. Merda. Merdissima.
Henry era
morto,
decapitato, testa tagliata e via. E io ero lì, in mutande,
con
una creatura innaturalmente bella e inquietante, nel peggiore posto di
sempre in cui vivere un’esperienza simile.
Cercai di
ritrovare la
concentrazione, di pensare alle immagini serene come mi avevano
insegnato a fare al manicomio, tra una medicina e una fumata
d’oppio: una valle piena di fiori, una tavola con del buon
cibo,
una scopata. No, quella non era tra le visioni consigliate a degli
internati, ma io ci pensavo lo stesso.
Mi passai una
mano tra i capelli, ma mi voltai comunque verso Itachi quando questi
disse:
“Attento.
Ora è troppo tardi, dovremo percorrere l’altra via.”
“Che
cazzo…”
Udii dei
rumori. Di passi,
pesanti, mal coordinati: sembravano appartenere a più
persone,
di corporatura grossa e sgraziata, probabilmente. Guardando verso
l’entrata scorsi il corridoio buio rischiararsi da un fascio
di
luce, quello di torce.
Ripensai a
Marsh. Quel grasso figlio di puttana.
“Stanno
venendo a
prendermi. Cazzo. Cazzo. E Allen… è stato
decapitato,
però non è schizzato sangue, non c’era
pressione.
Era già morto? Come…”
La mano che
impugnava la
pistola tremò leggermente. Deglutii, i passi si facevano
più vicini e io ero a mia volta prossimo a morire:
perché,
me lo sentivo, chiunque fosse venuto a cercarmi mi voleva morto.
Non pensai a
rivestirmi,
né ad altre cose che in una situazione normale sarebbero
sembrate importanti. Potevo sparare ancora diversi colpi, cinque per la
precisione, senza ricaricare il tamburo: avevo modo di ucciderli,
prima che uccidessero me.
Ma
all’improvviso,
senza parlare, Itachi mi afferrò il polso e io sentii
qualcosa,
dentro di me, entrare dalla pelle: una scarica prima di gelo che
però si trasformò in una sensazione confortante,
come se
il mio corpo potesse venire plasmato e... mi andasse bene.
“Vieni
con me.”
Il suono della
risacca.
Lo ascoltai,
accettando quello che mi diceva.
*
Avete presente
un’allucinazione portata dagli acidi, solo, senza usare
acidi?
Probabilmente no, forse perché siete persone responsabili e
non
avete mai sperimentato nemmeno cosa accada o, forse, perché
sembrerebbe impossibile ottenere un simile effetto senza
l’ausilio di droghe. E, in effetti, fino a quella notte a
Innsmouth avrei concordato con voi: i medicinali che mi davano quando
ero internato sapevano catapultarmi in un mondo tutto mio, fino a farmi
collassare in un sonno profondo, quello che gli infermieri del
Manicomio di Arkham si auguravano per non dover sedare uno
schizofrenico o un suicida durante il loro noiosissimo turno di notte.
Ma, appunto,
Innsmouth ha cambiato moltissime mie percezioni su cosa potesse essere
plausibile e cosa no.
Morti
decapitati che camminano? Possibile.
Io che fluttuo
sui tetti di
Innsmouth trascinato da una creatura acquatica divenuta leggera, come
nebulizzata nell’aria? Possibilissimo.
Perché
è esattamente quello che ho vissuto scappando da quella
claustrofobica camera della locanda.
Itachi mi
sollevò da
terra come se fossi stato un palloncino d’elio e, quasi in
una
forma fluida, con i capelli marittimi che avevano preso a fluttuare
privi di gravità, mi portò con sé
oltre la
finestra da cui prese a grondare una cascata d’acqua. Acqua
che
arrivava dappertutto e, allo stesso tempo, da nessuna parte.
Volammo a
pochi centimetri
dalle tegole rossicce delle case, a tratti coperte di muffa, a tratti
spezzate o mancanti, tra i fumi dei comignoli e le stelle che ci
macchiavano la pelle lunare. Sentii delle urla frustrate e, infine,
rumore di spari: mi voltai, per vedere Marsh, il suo collega e un altro
che non avevo mai visto cercare di arrampicarsi oltre la finestra,
ringhiando, perché i loro corpi rigonfi faticavano a passare
attraverso.
Quando
spararono seguii la
scia dei proiettili che, però, fortunatamente ci mancarono,
anche se alcuni finirono attraverso i capelli di Itachi senza mai farli
smettere di fluttuare; a sua volta, lui non cambiò direzione.
Quando arrivammo alla macchina
parcheggiata all’ingresso della cittadina, la creatura mi
posò a terra e avvertii nuovamente il peso del mio corpo sul
terreno, perdendo per un istante l’equilibrio. Mi appoggiai
all’auto, con in testa mille domande, chiedendomi
perché
non potevamo continuare a elevarci per sempre o in che modo saremmo
riusciti ad andarcene, inseguiti da mezza Innsmouth: udii infatti le
sirene d’allarme che riecheggiarono tra le case decadenti e
le
vie sudice con un lamento stridente.
Ma, prima che
potessi far
presente di non avere nemmeno i pantaloni, figurarsi le chiavi della
macchina, Itachi con uno scatto feroce, cambiando completamente la
compostezza iniziale, tirò un pugno alla portiera e il vetro
andò in frantumi infinitesimali; allo stesso tempo, lo
sportello
si aprì con un clack
sordo.
“Sali,
la macchina partirà. Ho ancora un’energia cinetica
residua per avviare il motore.”
“Ok,
non so
cos’hai detto, non so come hai fatto a fare tutto…
–
gesticolai, correndo verso il posto del guidatore – tutto
questo,
ma va bene lo stesso: l’importante è portare il
culo il
più possibile lontano da qui. Finché non
troverò
il modo di ammazzarli, dar fuoco a loro, alle catapecchie schifose in
cui vivono e riprendermi il corpo di Henry. Merda, l’ho
lasciato
lì. Ma ti riporterò indietro, amico, lo
farò.”
Borbottai
qualcosa, giusto per parlare mentre il motore si avviava, e misi la
retro.
Guardai
Itachi, in piedi
dove ancora c’era lo sportello dal vetro in frantumi, la mano
sanguinante con delle schegge piantate dietro: il sangue era scuro,
simile a melma delle profondità oceaniche prive di luce, ma
lui
non sembrò sentire dolore.
“Sali – lo
esortati – se puoi salire o, non
so, fluttui, quella roba lì.”
Avvertii degli
spari in lontananza, accompagnati da urla che ricordarono
più ringhi.
Itachi
sembrò
esitare un istante, poi aprì del tutto la portiera e si
sedette,
con un movimento meno fluido e più impacciato, quasi il suo
corpo dovesse abituarsi a un simile oggetto umano.
I suoi capelli
d’alga
gocciolavano ancora acqua, impregnando il sedile, al punto che scorsi
una pozza formarsi ai suoi piedi, mentre le dita erano connesse da una
guaina trasparente, come fossero palmate, al pari dei piedi. Era nudo,
ma non aveva genitali.
Curioso
riuscissi a notare
tutti quei dettagli in una situazione simile; allo stesso tempo, seppur
inseguito al punto da sentire il fiato odoroso di pesce marcio di Marsh
e degli altri sul collo, provai una sorta di stupida e adrenalinica
esaltazione.
Anche se
sostanzialmente
mezzo nudo, con solo una pistola che gettai in grembo a Itachi, sentii
finalmente di essere nel mio elemento: in una macchina che conoscevo
come le mie tasche, finalmente fuori da quella camera opprimente e con
la cittadina che presto sarebbe stata alle mie spalle.
Sull’onda
della positività, mi ricordai di avere nel cruscotto qualche
soldo di emergenza che mi portavo sempre dietro, oltre a un distintivo
di riserva, contraffatto da falsari che mi dovevano dei favori: spesso,
il fondo monetario dato dalla Centrale era ridicolmente misero, e
perdere il portafoglio con il distintivo vero nei posti più
impensabili era all’ordine del giorno.
Infine, quegli
stupidi
uomini-pesce non mi avevano nemmeno tagliato le gomme
dell’auto
per rallentarmi la fuga – a Boston mi avrebbero fatto saltare
direttamente la macchina; forse erano convinti di non vedere mai
più il ragazzo morto nello scantinato che, invece, era
riuscito
a portarmi in salvo.
Mi inoltrai a
tutta
velocità nella strada sterrata fuori Innsmouth, scorgendo
attraverso lo specchietto retrovisore le forme sgraziate di Marsh e
degli altri che tentarono, furenti, di spararci contro. Ma ero
già lontano per venire raggiunto dai proiettili che
s’infossarono tra la polvere.
“Grazie.”
Riuscii a
mormorare, ritrovando
il mio piglio socievole. Avevo bisogno di dire qualcosa, qualunque
cosa, meglio se, nel farlo, potevo esprimere la mia gratitudine per
essere sopravvissuto.
Per un attimo
Itachi non mi
rispose, nemmeno mi guardò. Aveva il volto distante, perso a
contemplare forse il cielo notturno e le sue stelle.
“Dirigiamoci
a sud,
verso il promontorio dove c’è l’isola di
Nodens.
Sarà un viaggio lungo; ti chiedo se, nel mezzo, possiamo
fermarci in un motel.”
Istintivamente,
sorrisi nel
sentire quel linguaggio così educato, persino gentile, che
fece
riecheggiare qualcosa nelle mie memorie disastrate. Un senso di calore,
persino d’affetto.
“Sì,
certo.” Replicai senza nemmeno pensarci.
“Grazie.”
Rispose Itachi, riecheggiando la mia stessa parola di prima.
Continuai a
guidare.
*
Il viaggio in macchina era stato rilassante; provai un vago senso di
sonno una volta che la tensione di quella corsa folle scemò,
lasciandomi intontito e meno lucido mentre percorrevo le strade
scarsamente illuminate del Massachusset. Lanciai un’occhiata
a
Itachi che sembrava invece non necessitare di sonno: nella penombra
pareva un essere umano qualsiasi, anche se teneva a distanza la
pistola come se gli desse fastidio; per il resto, quasi non si muoveva.
“Puoi
metterla nel cruscotto, se vuoi.” Gli dissi, riprendendo a
guardare davanti a me.
Sentii la sua
occhiata
addosso, infine la replica apparentemente pacata: “Meglio che
non
tocchi troppo la tua macchina. Credo di avere una buona conduzione e
non vorrei compromettere il sistema di avviamento.”
“Accidenti,
addirittura? C’è qualche altro superpotere di cui
non sono
a conoscenza?” scherzai, stropicciandomi un istante gli occhi
mentre mi toglievo un po’ del torpore di dosso, grazie a un
incipit di una sana conversazione – la mia
specialità.
Avvertii un
accenno di
risata. Forse me l’ero solo immaginata, non potendo vedere
l’espressione della creatura se non di sfuggita.
“Non
è una questione di poteri. Sono solo diverso rispetto a un
essere umano.”
“Quindi…
non
sei umano? Perché quello che credevo fosse il tuo corpo mi
sembrava proprio appartenente a un uomo.”
Replicai, con
istintiva
ironia. Gli lanciai un’occhiata rapida per cogliere
un’espressione ferita e antica, persino saggia; mi pentii di
essere stato così diretto.
“Scusa,
non…” feci per dire, ma lui scosse la testa.
“Avevo
sembianze
umane – sentii che continuava a scandagliarmi, come per
studiarmi
– finché non sono state risvegliate le mie vere
origini.
Dentro di me ho sempre saputo chi ero; ciononostante, mi mancano certe
abitudini.”
Guardai la
strada e il
paesaggio che si stava lentamente rischiarando, presto illuminato dalle
prime luci dell’alba. Non sapevo come Itachi potesse essere
tanto
calmo: era stato presumibilmente ucciso da gente del suo paese
–
e, visto che gli stessi poliziotti non avevano esitato un istante a
spararci addosso, non stentavo a credere che Innsmouth fosse un covo di
fuori di testa – si era trasformato in una strana creatura
dotata
di scaglie e, come me, era fuggito nel cuore della note dopo aver
rischiato nuovamente di rimetterci la vita. Se poteva morire,
beninteso.
Io avrei dato
di testa.
Eppure, mi resi conto che a mia volta accettavo la situazione, quasi
fosse scontata. Mi veniva quasi da ridere, perché non avevo
più preso nulla, tranne tranquillanti di tanto in tanto e
sporadicamente antidolorifici per placare gli attacchi
d’emicrania.
Forse quel
mese di lavoro a
casi comunque particolari, forse quello che dovevo aver passato e non
ricordavo, dovevano avermi segnato più di quanto avessi
creduto
possibile.
“Quindi
sei
così sereno perché in qualche forma sapevi che
non
saresti realmente morto, trasformandoti in quello che sei
ora.”
“Non
è mai una
certezza. Diciamo che come i Marsh hanno caratteristiche simili
geneticamente, la nostra famiglia, sebbene più giovane, ha a
sua
volta tratti peculiari che ci accomuna. Tra i quali la
possibilità di mutare, anche se non accade a tutti:
è una
scommessa.”
Sentii
nuovamente il suo
sguardo su di sé: gli occhi scuri e profondi,
l’espressione attenta eppure distante, appartenente a un
altro
mondo a me sconosciuto. Ritenni di capire quel discorso.
“In
quello scantinato
– feci presente, all’improvviso – ho
visto delle
strane scritte, come in un rituale: cosa hanno a che fare con tutto
questo? E... suvvia, quella gente è pazza: in cosa ci stiamo
andando a cacciare?”
Più
andavo avanti
con le domande, preso da un’ansia improvvisa di sapere
eppure, al
tempo stesso, rimanere all’oscuro, più avvertivo
una fitta
alla testa all’altezza delle tempie, capace di mandarmi lampi
d’oscurità agli occhi.
Itachi mi
toccò, per poi domandarmi a sua volta:
“Stai
ricordando?”
Frenai sul
ciglio, portandomi le mani alla testa mentre chiudevo gli occhi per il
dolore:
“Cosa?
Cosa dovrei ricordare, dannazione? Fa male.”
Avvertii la
sua mano su di
me salire fino alla cervicale. All’improvviso il tocco mi
sembrò più caldo, persino benefico, i miei
muscoli tesi
si rilassarono e il dolore si attenuò, come qualcosa di
sgradevole tenuto nascosto in uno sgabuzzino.
“Scusami.
Voglio che tu stia bene. Ricordare non è importante, non
più.”
Lasciò
la mano
lì, sulla mia testa. Io annuii d’istinto, sentendo
che
quelle parole mi placavano, quella creatura mi faceva bene, simile
a una memoria gradevole di una vita felice, capace di scaldare il
cuore. Eppure, allo stesso tempo c'era qualcosa di insidioso che mi
dava il tormento.
“Quando
te la senti
– aggiunse Itachi – riprendiamo il viaggio.
Fermiamoci al
primo motel, hai bisogno di riposare.”
“Posso
proseguire oltre.”
“Non
ne dubito. Ma io
presto avrò bisogno di reidratarmi e il sole eccessivo non
mi fa
bene; poi, è meglio non dare troppo nell’occhio in
pieno
giorno: non siamo esattamente raccomandabili.”
Mi guardai,
ricordandomi di
essere ancora in mutande, inoltre avevo al mio fianco un uomo coperto
di scaglie coi capelli fatti d’alghe; effettivamente aveva
ragione: non il classico esempio di persone che si vedono passeggiare
per Boston e dintorni.
Finii per
scoppiare a
ridere, ma dentro di me sentivo un vuoto cosmico, l’idea di
qualcosa che dovevo recuperare prima di impazzire.
*
Il motel era
parecchio
dozzinale, tenuto in piedi da qualche sistemazione artigianale qua e
là: le porte con cardini cigolanti avevano il legno esterno
rovinato e la verniciatura un tempo smaltata era sgretolata, mentre
l’intonaco sulle pareti stava cadendo a pezzi, fagocitato da
chiazze di muffa estese e rigonfio d’umidità. Il
parcheggio era desolato, eccetto per due macchine utilitarie vecchio
modello, illuminato dall’insegna ‘aperto’
che ogni tanto tremolava, accompagnata da un ronzio insistente. A
tratti, l’asfalto del parcheggio era rovinato, come se la
terra
fosse stata spinta da qualcosa di oscuro per aprire crepe dove le
erbacce fiorivano selvagge, simili a tentacoli.
L’uomo
che accolse i
due viaggiatori era un ometto dall’aspetto banale, piuttosto
in
carne, con occhiali dalla spessa bordatura nera che cadevano sul naso e
i capelli radi disperatamente raccolti, in un tentativo patetico di
coprire la calvizie. Sollevò gli occhi verso i due uomini,
con
Itachi rimasto nell’ombra rispetto all’unica luce
smorta
sulla testa dell’albergatore, mentre io appoggiai le mani sul
bancone alto, nascondendo il fatto di essere sostanzialmente in mutande
e con una pistola dietro la schiena.
“Vorremmo
fermarci
qui un paio d’ore. E… ha per caso dei vestiti? Di
qualsiasi genere, glieli pago.” Assunsi un’aria
sicura di
me.
“Vestiti,
eh? –
si prese qualche secondo per osservarci e infine dire –
Qualcosa
ho. Fanno duecento bigliettoni, più la camera.”
Mi
guardò con un certo compiacimento accusatorio.
“Duecento?
Sei matto.” Risi.
“Non
sono io quello che ne ha bisogno.” Replicò
l’altro con scherno, per poi sollevarsi gli occhiali.
Feci per
replicare, sempre
per tener fede al mio principio dell’istintività,
ma dalla
penombra Itachi mi bloccò: “Daglieli.”
Parlò
con voce
morbida, ma talmente decisa da farmi venire i brividi, quasi avesse
plasmato parole d’oscurità.
Gli rivolsi
comunque un’occhiata come per dire Hai bevuto troppa acqua salata o
cosa?
ma mi sembrava talmente saggio e a conoscenza di cose a me ignote che
tacqui. Finii dunque per tirare l’elastico della mutanda,
stando
attento a non perdere la pistola, e tirai fuori le banconote,
provenienti dal modesto gruzzoletto extra custodito nel cruscotto.
L’uomo
contò i
soldi, leccandosi la punta delle dita dalle unghie fastidiosamente
troppo lunghe, poi mi guardò e appoggiò i
contanti sulla
superficie usurata, riprendendo a fissarmi.
Vidi che era
in procinto di
dire qualcosa, ma io presi il distintivo falso e glielo mostrai con
sicurezza: “Direi che la camera puoi anche darcela gratis, se
non
vuoi farci un prezzo equo.”
“Duecento
tutto
– sbottò l’uomo dopo essere sbiancato,
infine mi
lanciò le chiavi – la seconda stanza del porticato
a
destra. Fuori massimo alle dieci o vi addebito un giorno intero in
più.”
Non un grande
affare,
considerando che era già l’alba. Gli sorrisi
sornione,
senza rassicurarlo su nulla. L’albergatore
borbottò
qualcosa sull’andare a prendere i vestiti, poi lo vidi
scomparire
dietro il claustrofobico e stipato cabinato in cui era seduto.
Mi girai verso
Itachi e
annuii come per dargli fiducia, anche se sembrava stessi facendolo
più per me stesso, ma lui annuì a sua volta,
accennando
un mezzo sorriso con le labbra bluastre, senza sbattere una sola volta
le strane ciglia coralline.
Quando
l’uomo
rientrò, senza cura appoggiò
sul bancone un sacchetto
della spesa di fortuna con dentro quelli che, effettivamente,
sembravano vestiti; nemmeno mi misi a controllare cosa esattamente ci
fosse, fiducioso che ci saremmo potuti adattare: qualsiasi cosa sarebbe
stata meglio della nuda pelle, anche perché cominciavo a
sentire
freddo.
Quando
entrammo nella
camera, dopo aver fatto scattare più volte la serratura un
po’ rigida, vidi che c’era un letto matrimoniale
con
lenzuola e cuscini dalle federe ingiallite, quasi avessero decisamente
troppi anni, ed erano coperte da un pile color terra che, assieme alla
moquette che ricordava senape, dava un aspetto vecchio alla stanza
odorosa di chiuso. Forse perché effettivamente era vecchia,
esattamente come la carta da parati dalle tinte improbabili che si
stava lentamente staccando, mentre i mobili di legno erano usurati e
scheggiati in più punti.
Mi sedetti sul
letto e le
molle cigolarono; infine, dopo un istante rovesciai il sacchetto,
curioso di
scoprirne un po’ infantilmente il contenuto. Due paia di
pantaloni quasi sicuramente più grandi delle nostre taglie,
camicie a quadri in flanella, un gilet mezzo scucito da cui
fuoriuscì un fazzoletto spiegazzato, due cinture consumate e
un
cappello color grigio topo. Decisamente non il bottino dei sogni, ma
meglio di nulla. Ringraziai in realtà che non ci fossero
delle
mutande.
“Trattamento
extra-lusso!” scherzai, per poi guardare Itachi che era
rimasto in piedi.
Notai che i
capelli non
gocciolavano più: sembravano anzi più corti, come
se si
fossero ritratti. A ben guardarlo anche la pelle era meno lucida e in
alcuni tratti le scaglie erano sollevate, simili a pelle secca.
“Stai
bene? – domandai alzandomi, per andargli vicino –
Ti stai…
seccando.”
Nel
pronunciare quella
parola mi resi conto di quanto fosse ridicola; eppure era proprio
quello che stava accadendo al corpo davanti ai miei occhi.
“Sono
vincolato
all’acqua. E qui non ce n’è abbastanza,
devo
reidratarmi.” Ammise Itachi. Non sembrò allarmato,
solo
triste. A ben pensarci, quella creatura emanava una sorta di malinconia
intrinseca: per quanto oscura e misteriosa, non riusciva a trasmettermi
solo
un’idea di paura, evocava anzi in me una nostalgia capace di
stringermi il cuore in una morsa.
“La
vasca. Siediti e nel frattempo te la riempio. Temperatura?”
Domandai con
quasi fare affabile, incapace di non sorridere, quasi come se fosse un
gioco.
Itachi
accennò a un
sorriso mentre si sedeva sul bordo del letto. Qualche pezzo di pelle
secca, squame leggere che sembravano d’argento, si
staccò
dalle guance asciutte. A un battito di palpebre, polvere di corallo
nero gli cadde sulle gote.
“Fredda.
Ti ringrazio.”
“Figurati,
per
così poco.” Replicai, minimizzando il grande
sforzo di
colmare d’acqua una vasca da bagno.
Armeggiai con
rubinetto,
tappo e getto d’acqua, all’inizio un po’
giallognolo
– come se nessuno si fosse lavato da tempo immemore
– e poi
via via sempre più pulito. Rimasi qualche secondo in piedi a
controllare che la vasca si riempisse, poi tornai da Itachi che,
silenzioso, attendeva con le mani incrociate sulle gambe.
“Ti
aiuto ad andare verso la vasca, sembri debole.” Ammisi,
porgendogli una mano.
Con orgoglio,
la creatura
mi guardò. Non seppi se l’avevo offesa,
però non
riuscii proprio a smentire una cosa ovvia: in quelle ore di viaggio
Itachi era l’ombra dell’essere rifulgente potere di
Innsmouth.
Mormorò
qualcosa,
parole remote e più flebili di un sussurro, però
alla
fine accettò il mio sostegno. Quando si alzò,
parte dei
capelli d’alga rimase sul letto e sulla schiena, simili a
erba
secca; ma Itachi non sembrò prendersela particolarmente e
replicò, guardandomi con occhi d’abisso:
“L’aria
mi uccide, ma posso impedirglielo.”
Fece una sorta
di sorriso
furbetto, al quale replicai increspando le labbra di riflesso.
Proseguimmo fino al piccolo bagno, dalle piastrelle di un azzurro
pastello incrinate in alcuni punti, dove la vasca si era riempita fino
quasi all’orlo di acqua che rifletté lo stesso
colore
ceruleo della stanza. In quei pochi passi, avevo sentito
l’inconsistenza del peso della creatura, fondale
d’oceano
in secca, e il suo odore iodato, quasi come se la spuma e la tempesta
mi si fossero incollati addosso. Solo allora, così vicino a
lui,
notai delle ferite dietro le orecchie: sembravano branchie, esattamente
come quelle dei pesci. Quando fummo
di fronte alla vasca, curioso gliele
sfiorai con un dito e Itachi sussultò, guardandomi
un istante
stranito, ma non disse nulla. Si limitò a portare su di esse
la
mano palmata, dalle venature trasparenti e leggere tra le dita diafane,
come per proteggerle.
“Scusami.”
Bofonchiai, sentendomi infantile.
Lo lasciai per
chiudere il
rubinetto un tempo di metallo scintillante, il cui smalto era saltato
rivelando un’anima arrugginita; infatti quando ruotai la
manopola
essa cigolò triste, ma l’acqua finì
lentamente di
fluire, limitandosi ogni tanto a gocciolare pigra sulla superficie
piatta.
“Ti
aiuto a entrare,
sembri un vecchietto coi reumatismi.” Scherzai, per quanto io
fossi persino meno dignitoso, tra le mutande e la canotta sporca dalle
recenti peripezie.
Itachi
accennò,
sorprendentemente, a una risata. Però non parlò,
limitandosi ad
annuire quasi per dare conferma alle mie stupide parole.
Una volta che
la creatura entrò nel suo elemento, già mi
sembrò di vedere risplendere di una luce nuova le sue
scaglie che si animarono di colori vibranti; quando si immerse
completamente, scorsi mille sfumature di azzurro, blu e verde
pennellarsi sul suo corpo, come se invisibili correnti
d’elettricità si irradiassero sulla sua pelle,
sospinte dall’acqua stessa che le rendeva vive. I capelli
d’alga, tessuto di un verde cupo eppure intenso, si
gonfiarono, fluttuando animati da una corrente impalpabile.
In piedi, lo contemplai e provai l’impulso di raggiungerlo.
Lui aprì gli occhi e, nel silenzio irreale del bagno, mi
guardò da sott’acqua. I coralli, miniature di
perfezione, sembravano ospitare organismi millenari, ultima barriera
prima dell’universo dietro le iridi scure che racchiudevano
misteri. Nella stanza minuscola si diffuse l’odore del mare,
della salsedine, delle onde che schiaffeggiavano gli scogli e le barche
in legno coperte di bitume e vecchi molluschi.
Mi sedetti sul
bordo della
vasca, sfiorando la superficie con le dita per rompere con lievi
increspature una superficie altrimenti piatta. Non vidi bolle provenire
dalle narici di Itachi che continuava a guardarmi e sembrava poter
respirare dalle ferite dietro le orecchie, le stesse che effettivamente
avevo notato sul cadavere.
Lo fissai e,
per un attimo,
credetti volesse trascinarmi giù con sé,
facendomi
sprofondare, quando fino a poco fa pensavo di essere io ad anelare
l’acqua. Mi sentii confuso, disorientato, spaventato eppure
affascinato al tempo stesso.
Per questo
tolsi la mano
con un gesto rapido e mi alzai in piedi; l’asciugai su di un
panno consumato da troppi usi e lavaggi, quindi uscii dal bagno, per
poi sedermi sul letto. Non udii movimento dalla vasca e mi sentii
meschino: forse mi andava bene così, forse desideravo che
Itachi
uscisse. Che tornasse a essere quel cadavere, però vivo,
umano.
Uomo.
Mi grattai la
cicatrice,
nervosamente. Più volte, fino a dover smettere prima di
farmi
realmente male. Che fine aveva fatto tutta quella positività
di
cui mi ero circondato durante il viaggio?
Sollevai lo
sguardo che mi
cadde sul mucchietto di vestiti tolti dal sacchetto. Scorsi qualcosa in
mezzo che prima non avevo notato. Con un gesto lento avvicinai la mano,
tolsi una maglia, poi un pantalone e scoprii di cosa si trattava.
Mi
morì un ultimo respiro in gola.
Feci saettare
gli occhi
verso il bagno e tesi le orecchie, mentre la mano era rimasta immobile;
Itachi era ancora dentro, nella vasca. Poi riportai rapido lo sguardo
verso i vestiti e raccolsi ciò che non mi aspettavo di
trovare
nel mezzo: un blocchetto per gli appunti.
Non uno
qualsiasi. Lo
stesso, identico, usato da Henry Allen. Henry, che io avevo lasciato a
Innsmouth, senza potermi voltare indietro. Lo riconobbi dalla
rilegatura in cuoio, i bordi un po’ usurati, le pagine
ingiallite
e rigonfie di scritte.
Perché
era
lì? Cosa ci faceva? Il tizio del motel? Ma in che maniera
poteva
sapere dove trovarlo o prenderlo, anche solo prevedere che noi saremmo
passati di lì. No, impossibile.
Lo afferrai,
espirando:
avvertii delle fitte alla testa lancinanti capaci di togliermi il
fiato, ma non lo lasciai. Con movimenti convulsi, disperati,
consapevole del frusciare della carta in una stanza immersa nel
silenzio, aprii il blocchetto e cominciai a leggere le note e le
trascrizioni di Allen.
Annotazioni
scritte muri e riflessioni.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn. Indica R'lyeh? Shisui
può leggerlo?
Io?
Perché avrei
dovuto? Le ho sognate quelle parole, le ho sentite. Ero sulla scena del
crimine, d’altronde, ma… quando le ho lette?
Incisioni
cultistiche. Non è opera dei cultisti di Dagon. Legati a
Cthulhu? Uchiha? Da qui la differenza di abitudini e deformazioni
rispetto ai Marsh. Indagare legami setta e Uchiha.
Connessione
a omicidio Sasuke Uchiha?
Rilessi il
nome. Più
e più volte. Sasuke. Tornai a guardare la porta del bagno.
Itachi sarebbe uscito? Mi avrebbe visto? Cosa doveva vedere o capire?
Sasuke.
Chiusi gli
occhi. Sentii il
suo nome, sussurrato dalle onde. Li riaprii, avvertendo la bocca secca,
per poi continuare a leggere. Le mani tremavano ma non ci feci caso e
sfogliai un’altra pagina, l’ultima scritta da Allen.
Ho
chiesto a Zadok Marsh, dopo aver controllato il cadavere
all’obitorio: i segni dietro le orecchie che aveva
l’uomo,
Itachi Uchiha, erano gli stessi del ragazzino morto.
Gli
ho estratto l’informazione, non voleva parlare.
Itachi
e Sasuke erano fratelli.
Non
è possibile.
Perché
però
mi sembrava di saperlo? E non mi piaceva, non mi piaceva affatto
ricordarmene. Grattai la cicatrice alla tempia, sentii
l’unghia
scavare la pelle, consumandola. Faceva male.
Morte
Itachi Uchiha: 10 aprile.
Morte Sasuke Uchiha
… No, no, non dovevo saperlo, dovevo dimenticarlo,
dimenticarlo! 10 aprile.
È
passato un anno. Connessione?
Mi alzai in
piedi,
tenendomi la testa fra le mani dopo aver gettato a terra il blocchetto.
Aprii la bocca e urlai. Cercai di farlo, di gridare, di aprirmi in due
il cranio e tirare fuori il dolore, tutto quel dolore condensato tra le
spire dell’encefalo annidato nella mia scatola cranica,
ma… non uscì un suono.
Tutto quello
che provenne
dalle mie labbra secche fu un vago eco ovattato, bolle indistinte di un
corpo immerso nell’abisso. Ansimai, passandomi le mani sul
volto.
Un anno fa.
Sentii la
voglia di
piangere. Mi toccai la cicatrice. Avvertii qualcosa di caldo macchiarmi
la pelle. Sangue. Non avevo scavato abbastanza, il male era ancora
lì.
Un anno fa ero
stato ricoverato al Manicomio di Arkham.
Non
fidarti di lui!
Le parole
pronunciate da
Daves prima di morire sibilarono attraverso la cicatrice, penetrandomi
fin nel cervello. Puntai lo sguardo sul bagno, ignorando il taccuino
caduto a terra. Il cuore pompò sangue e paura, una paura
arcana.
Itachi. Non
gli uomini di Innsmouth, non divinità occulte. Itachi.
Ne fui certo,
me lo sentii.
Mi avrebbe ucciso. E io gli avevo permesso di toccare
l’acqua, di
rendersi di nuovo forte, potente e terribile. Quant’ero stato
stupido, ammantato da quella gentilezza rarefatta. Mi avrebbe ucciso
come aveva ucciso suo fratello, un anno fa? Perché era stato
lui, doveva essere stato lui. I Marsh non c’entravano nulla,
Allen l’aveva capito, per questo è stato ucciso e
io avrei
fatto la stessa fine.
Perché
ero stato ricoverato? Non aveva importanza, io dovevo vivere. Solo
questo.
Mi portai una
mano alla
tempia, bloccando il flusso del sangue mentre cercavo di riprendere il
controllo del mio respiro. Itachi avrebbe capito, mi avrebbe sentito e
annusato la mia paura. Non doveva sapere o sarei morto.
Quella notte,
nel sonno,
avrei ucciso la creatura. Era bellissima, qualcosa di totalmente
inumano, ma proprio per questo, per questo suo potere e i suoi segreti,
mi avrebbe divorato.
Avrei
aspettato la sua
lontananza dall’acqua, solo questo. Sentii, ancora, la voglia
di
piangere e non seppi il perché: prima, nel viaggio, eravamo
felici. O forse ero solo io a crederlo, stupido, stupido uomo semplice
e sentimentale.
In
quell’istante,
vidi Itachi Uchiha. Era nuovamente forte, portava con sé
l’oceano e i suoi colori, la sua potenza e quel senso di
sconfinata perdizione: le sue scaglie erano metallo fuso dalle ombre
colorate del vetro, i suoi capelli il fondale in cui si intrecciava la
vita e gli occhi mi guardavano solo apparentemente inespressivi.
C’era nei suoi riflessi il grigio dell’orizzonte in
tempesta e l’eco nostalgico di un vecchio pescatore. Ma il
nero
emergeva dalle iridi, mano oscura che trascinava a fondo.
“Stai
sanguinando.” Constatò, fermandosi di fronte a me.
Tolsi la mano
dalla tempia e mi guardai il palmo, instupidito, vedendolo tinto di
rosso.
“Non
è nulla.
Sto bene.” Mentii. E soffocai la mia paura primordiale
nell’avere quella creatura di fronte. Gocciolava acqua, come
io
perdevo sangue.
Allungò
la mano. Rimasi immobile, ma non respirai, soggiogato dai suoi occhi e
dal mio istinto di sopravvivenza.
Mi
toccò la tempia,
come già aveva fatto in macchina ore fa. Espirai, una sola
volta. Non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi.
All’improvviso
il
dolore cessò, le fitte dilanianti alla testa tacquero,
facendo
pace con il mio cervello. Itachi ritrasse la mano e io mi toccai la
cicatrice: aveva smesso di sanguinare.
“Riposati.”
Sussurò la creatura. Il suono della risacca del mare
custodita da una conchiglia.
Non sentii
altro,
perché avvertii il mio corpo farsi pesante e crollare in un
tonfo sordo. Riuscii solo a muovere una volta gli occhi per cercare con
lo sguardo il taccuino ma, mi accorsi, era sparito.
*
In quelle poche ore di sonno prima del sorgere del sole cercai di
svegliarmi, così da tenere fede al mio proposito, ma non ci
riuscii. Fu come se un sonno profondo mi avesse tenuto ancorato al
letto, permettendo alla mia mente d’involarsi altrove: sognai
città immense e diroccate, creature dal capo coperto di
spuma,
sabbie infinite nelle quali si immergeva il cielo.
“Stai
ricordando?”
Avvertii la
bocca essiccarsi
e il mio corpo volare assieme al pensiero, galleggiando nel sogno. Poi,
mi svegliai di soprassalto: era piena mattina, scorsi la luce morbida
del sole filtrare attraverso le imposte e le tende polverose. Vidi
Itachi intento a scrutare attraverso la finestra, negli unici spiragli
che consentivano di guardare verso il parcheggio silenzioso; le sue
scaglie dalle migliaia di sfumature sembrarono più vivide
sotto
i raggi solari.
Mi portai una
mano al
collo, faticando a deglutire, come se qualcosa mi fosse rimasto
incastrato in gola. Avvertii una sete disperata e quando provai ad
aprire la bocca vidi una massa secca e oscura fuoriuscire,
sgretolandosi sul mio grembo.
Itachi si
voltò e io
lo guardai. Ma quando riportai gli occhi su di me, non vidi nulla,
neanche una traccia di ciò che avevo scorto, o forse avevo
creduto di scorgere.
“Cosa
mi hai fatto? – domandai, fissandolo – Sta
succedendo qualcosa e tu...”
Chi
sei veramente? Mi vuoi morto?
Non pronunciai
quelle
domande. Se Itachi mi avesse voluto morto, avrebbe potuto uccidermi in
qualunque momento mentre ero incosciente, ma non l’aveva
fatto.
Questo significava che aveva un altro scopo, era chiaro anche dal mio
salvataggio a Innsmouth.
L’isola
di Nodens.
Era
lì che Itachi
doveva andare e aveva bisogno di me. Mi avrebbe fatto fuori, una volta
arrivato? Che cosa c’era a Nodens che meritava tutta quella
fuga
e quei rischi?
Mi riscossi
quando vidi
Itachi davanti a me con in mano un bicchier d’acqua; me lo
porse
e, dopo un istante, lo presi con una certa diffidenza. Mi sentii
persino in colpa in maniera contraddittoria, quasi come se ci fosse
un’attenzione disinteressata nei suoi gesti.
Finii per
bere; non poteva
farmi dormire, o senza di me non saremmo arrivati da nessuna parte: le
fonti d’acqua erano lontane, fiume Miskatonic compreso, e
Itachi
non poteva certo fluttuare esposto agli sguardi altrui senza rischiare.
Quindi aveva comunque bisogno di me, questo mi rendeva temporaneamente
protetto e mi dava il tempo di agire.
Posai il
bicchiere sul comodino.
Itachi
parlò all’improvviso: “Eri stanco, si
vede che necessitavi di dormire.”
Simulò
bene una
sorta di interesse, ma i suoi occhi mi scrutavano per smascherarmi come
in cerca di un segno rivelatore, di un segno che sapevo.
“Forse.
Sento un
sapore strano in bocca, come di terra.” Ammisi, fissandolo a
mia
volta con una sorta di sorriso, di quelli un po’ accattivanti
che
tiravo fuori quando parlavo con la gente. Itachi non
ricambiò quel
sorriso.
“Bevi
ancora, se hai sete. Forse è solo questo.”
“Già.
Forse è solo questo.” Ripetei.
Ci vestimmo.
Quando
conclusi, mettendomi addosso quello che capitava dal modesto mucchio
pagato una fortuna, mi resi conto che Itachi era stato più
lento. Forse per via delle mani, forse per il fatto che quel corpo non
era pensato per stare avvolto da tessuti umani. Senza rifletterci lo
aiutai ad allacciarsi i bottoni della camicia: un gesto stupido, quasi
affettuoso per chi aveva appena pensato di uccidere ed essere ucciso da
quella stessa persona; però agii come mosso da un riflesso
incondizionato: non posso farci niente, a volte – spesso
–
sono istintivo.
Itachi mi
guardò e,
senza una parola, mi lasciò fare. Solo una volta, una
soltanto,
le sue mani fresche, non gelide, sfiorarono le mie, con una gentilezza
accorta che non mi aspettavo.
“Grazie.”
Replicò
non appena finii di allacciargli la cintura.
Ancora
l’eco del
mare, ipnotico. Cosa stava cercando di fare, Itachi, esattamente? Non
dovevo avvicinarmi ancora, non più. Però
perché
l’idea mi sembrava intollerabile? Era stato questo il
risultato
di quella notte carica di fenomeni inspiegabili?
“Ci
dirigiamo all’isola di Nodens, giusto?” domandai,
cercando di mostrare un tono spensierato.
“Sì.”
Confermò l’altro. Se se la fosse presa per il modo
in cui
avevo ignorato il suo ringraziamento, non lo diede a vedere. Una parte
di me si dispiacque: avrei voluto scorgerlo arrabbiato, per dimostrarmi
che ci teneva. Per credere che non mi volesse davvero morto, che tutta
quella storia di Innsmouth e della sua famiglia, degli omicidi e della
setta non fosse reale. Gli appunti di Allen nient'altro che il delirio
di un uomo
traumatizzato e solo.
Ma Itachi
semplicemente uscì, anticipandomi verso la macchina.
L’odore
del mare e
l’aura abissale della sua presenza diminuirono
all’improvviso. Guardai il bicchiere. Afferrai il lembo del
lenzuolo, me lo avvolsi nella mano e spaccai il contenitore in vetro
contro il comodino. Rapido, presi la scheggia più grande,
capace
di adattarsi perfettamente al mio palmo, buttai il resto e la avvolsi
nel fazzoletto spiegazzato preso dal gilet, infilandomi il tutto nella
tasca dei pantaloni un po’ larghi. Controllai che non si
vedesse
alcun rigonfiamento e, una volta presa anche la pistola, lanciai
un’ultima occhiata alla stanza, aspettandomi
all’improvviso
di vedere ancora il taccuino di Allen ma, ovviamente, non
c’era
traccia.
Per un attimo
dubitai persino di averlo realmente toccato quella notte.
Quando
richiusi la porta
dietro di me per incamminarmi verso l’auto, però,
mi resi
conto di non aver guardato il bagno, né rifatto il letto,
sollevando le coperte; logicamente, non controllai nemmeno il
giardinetto secco sul retro del motel.
Visto tutto
quello che sarebbe accaduto dopo, a posteriori rimpiansi di non averlo
fatto.
Forse, a
quest’ora, sarei ancora vivo.
Sproloqui
di una zucca
Il mistero
s'infittisce, muahahah! Di questo capitolo mi piace il cambio di
percezioni. Se all'inizio Shisui si fida di Itachi, o comunque ne
è affascinato, con il passare delle ore questa sensazione
cambia. Qual è la verità? Cos'è
successo un anno prima?
Un sacco
d'interrogativi che non avranno risposta! Scherzo, scherzo, ci saranno
con il prossimo e ultimo capitolo.
Grazie per aver letto
e alla prossima <3
Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com
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Capitolo 3 *** III - Luce ***
Abisso
III
Luce
Giungemmo presso la zona costiera di fronte a Nodens nel tardo
pomeriggio. Lungo la strada ci eravamo fermati a mangiare qualcosa;
meglio, io avevo mangiato ma Itachi si era limitato a bere,
perché sembrava indifferente al cibo, come se non gli
riguardasse.
Nonostante
l’acqua e il fatto che si fosse bagnato sotto uno dei
lavandini presso le stazioni di servizio, vedevo chiaramente la pelle
seccarsi: le minuscole scaglie che rendevano la superficie simile a un
caleidoscopio di colori erano ora spente, prosciugate dalla luce del
sole e da un’idratazione evidentemente non sufficiente.
Parlammo poco,
anche se io sentii una sorta di fastidio in gola, quasi un raschiare
alla base dell’epiglottide e poi giù, lungo la
trachea, quindi per colpa della mia tosse nervosa il viaggio non era
proseguito nel più completo silenzio.
Fermai la
macchina in un parcheggio poco distante dal mare. Non dovetti nemmeno
faticare per trovare posto perché era totalmente deserto:
sembrava quasi che quella zona costiera fosse nota solo a noi, persino
i cartelli segnaletici posti qualche chilometro più indietro
erano sbiaditi e scavati dalla ruggine, come se a nessuno importasse
mantenere la conoscenza di quei luoghi.
Non appena
uscimmo dall’auto mi sembrò che Itachi, respirando
l’aria odorosa di salsedine, avesse ripreso vita, simile a
una scarica elettrica sparata in pieno petto, capace di far ripartire
un cuore. Provai una fitta al torace, di sollievo misto a disagio, un
disagio che mi lambiva anche la gola come sabbia divorata fino a
soffocarmi. Appoggiai per riflesso il palmo della mano sulla tasca,
dove c’era il leggero rigonfiamento del fazzoletto con
all’interno il frammento di vetro; ovunque fossimo andati,
anche in mezzo all’acqua dove la pistola non poteva sparare,
avrei comunque avuto un’arma per difendermi. Non esattamente
il meglio del meglio, ma dovevo farmelo bastare.
Spostai lo
sguardo verso Nodens: c’era bassa marea, dunque in
realtà l’isola era collegata alla terraferma da
una sottile striscia di terra sabbiosa che si allungava per interi
chilometri, con in lontananza barche da pesca di legno consumato dal
sale arenate in pozze d’acqua. Si intravedevano alghe
rattrappite e molluschi rifugiati nelle loro conchiglie che avanzavano
pigri, in attesa di venire lentamente lambiti dal mare.
Al fondo del
percorso sabbioso si stagliava l’isola che pareva concentrare
su di sé le ombre e le nuvole della sera prossima, regalando
scorci di una notte precoce ed edifici dal profilo aguzzo, frastagliato
come i pendii scoscesi che finivano a strapiombo nelle onde spumose.
Attorno, invece, il sole in procinto di affondare
all’orizzonte regalava ancora raggi dalle sfumature rossastre
e aranciate, portando l’acqua a risplendere simile a un cesto
pieno di cristalli.
Senza dire una
parola Itachi si tolse le scarpe, lasciandole ordinatamente disposte
all’inizio della strada, poi cominciò ad avanzare.
Lo seguii da breve distanza, guardando la sua figura alta e longilinea
stagliarsi su quell’infinito percorso che poche ore prima
apparteneva al mare, circondata dall’ultimo sole capace di
far risplendere ancora le sue scaglie disidratate e i capelli che
raccoglievano in sé vita millenaria.
Dopo qualche
metro, a mia volta senza pensarci particolarmente tolsi le scarpe e le
lasciai indietro; fu liberatorio affondare nella sabbia morbida, coi
granelli umidi che s’infilavano tra le dita. Tra poco quel
sentiero sarebbe stato inghiottito a sua volta dal mare, con la sabbia
e le conchiglie, per poi venire trascinate chissà dove dalla
corrente. Una parte di me riteneva che tanto le scarpe stesse non mi
sarebbero più servite.
A
metà del percorso, però, mi arrestai. Itachi
continuò per un paio di metri, ma più lento,
così io lo chiamai, mentre lenta l’acqua
cominciava a risalire in un lento gorgoglio di risacca che divorava il
terreno, accarezzandolo.
“Dimmelo.”
Lui si
voltò. Il corallo delle ciglia folte sembrò
più rosso, abbandonando l’antracite che la notte
prima gli aveva impolverato le gote.
“Cosa
vuoi sentirti dire, Shisui?”
Mi
sembrò ci fosse una nota di affetto nel pronunciare il mio
nome, il che mi trasmise ancora più dubbi e tristezza.
“Hai
ucciso tu Sasuke Uchiha, un anno fa? Era tuo fratello.”
Sapevo di aver
dato un istintivo tono d’accusa in quell’era tuo fratello.
Non mi
rispose, ma continuò a guardarmi. Sentii uno scroscio
d’acqua più forte, voltai la testa e vidi che il
mare stava avanzando con una velocità del tutto innaturale,
come sospinto da mani invisibili capaci di riversare in un bicchiere la
forza sconfinata dell’oceano: l’alta marea stava
arrivando. Presto, quella striscia di terra sarebbe scomparsa e io con
essa.
“Dobbiamo
andarcene, Shisui.”
Sgranai gli
occhi, furente. Avanzai verso Itachi che non mosse un passo, anche se
l’acqua ormai aveva cominciato a lambire i margini della
sottile strada sabbiosa, con le barche in secca che ora galleggiavano
inquiete:
“Io devo andarmene,
a te cosa importa?! E non hai risposto alla mia domanda! Sasuke era tuo
fratello, vero? L’hai ucciso, tu e quella famiglia di
pazzi!”
Non tirai
fuori il vetro, in quel momento, preso dalla rabbia e dalla paura me ne
dimenticai completamente per scattare di fronte a Itachi e slanciarmi
in modo da spingerlo, come se ci stessi lottando e dovessi sopraffarlo.
Sentii che in quel gesto e da quella scelta sarebbe dipesa la mia
stessa vita, cambiata per sempre.
Ma appena i
miei polpastrelli toccarono i petto squamoso della creatura,
quest’ultima mi afferrò i polsi, con una forza
tale da bloccarmeli.
Non lo spostai
di un millimetro, pareva anzi aver assorbito tutta la violenza del mio
colpo, senza però rispedirmelo indietro. Lo sentii spostare
una gamba e lo guardai negli occhi: il tempo sembrò
fermarsi, un solo istante in cui le sue pupille oscure mi
intrappolarono, con il mare che rispettava quel momento, arrestando la
sua furiosa avanzata.
La creatura
torse il busto e avvertii il mio corpo muoversi con lui, leggero,
fluttuante, capace di elevarsi sopra la spuma e la sabbia.
“Itachi.”
espirai.
Non seppi
perché lo avessi pronunciato, fu un’evocazione.
Con quel nome
che si elevò nell’aria, Itachi mi
lanciò via.
Uno slancio
potente, carico di una forza ancestrale che mi fece saettare
nell’aria, incapace di respirare o aprire gli occhi mentre
sentivo il mio corpo cadere, fendendo il cielo, anche le nuvole e le
stelle stesse, in alto, per sempre, fino al collasso profondo fatto di
vuoto capace di risucchiare le viscere.
Sconquassai la
terra, in un’esplosione di calcinacci, sabbia e resti oscuri
che schizzarono verso altra terra. I miei polmoni già
rarefatti si svuotarono con l’urto e sgranai gli occhi in
maniera tanto improvvisa da pensare che sarebbero saltati fuori, come
la vita e i denti che vibravano. Mi resi conto che ero io a tremare,
per la paura e lo shock, con i muscoli rigidi che tentai di muovere
mentre annaspavo in cerca d’aria, con la vista che tornava
lenta, al pari del calore dopo il gelo della neve.
Mi alzai in
piedi, appoggiandomi a un muro: lo sentii viscido, coperto di alghe
come se fosse stato immerso per anni e le acque si fossero appena
ritirate. Per qualche minuto credetti di essere sott’acqua a
mia volta, incapace di respirare o di avere controllo sul mio corpo, ma
quando cominciai a camminare realizzai di trovarmi su di una
superficie: opprimente, oscura, eppure era pur sempre la terraferma.
“Dove
sono…” mormorai. La mia voce era ridicola, un
suono debole, roco, che si perse tra le strade di quella che sembrava
una cittadina antica. Sollevai lentamente lo sguardo e rischiai di
perdermi ancora, scorgendo edifici dalle guglie aguzze che ricordavano
mani fatte di unghie demoniache capaci di squarciare il cielo,
costruiti nella roccia nera, opaca e contaminata da strati viscidi di
alghe altrettanto oscure. Le poche finestre presenti erano
più fenditure simili a quelle dei bastioni, attraverso le
quali ombre danzavano in attesa che calasse il buio; o forse ero solo
io a credere che ci fosse della vita in quel posto dove
l’unica cosa che avvertii era il mio stesso, rantolante,
respiro.
Per il resto
le strade strette inerpicate in salite ripide erano deserte,
caratterizzate da massi piatti incassati nel terreno, con gli edifici
immensi e oscuri che sembravano volerle inghiottire, cadendo su loro
stessi nell’ambiziosa risalita verso il cielo.
“Questa
è Nodens.”
Mi voltai e
vidi Itachi: il suo corpo gocciolava acqua, le labbra sottili e
violacee sembravano voler parlare ancora, eppure non provenne alcun
suono. I suoi coralli erano sfumature nere ma lucide, vibranti di vita
millenaria al pari dei suoi occhi e i capelli fluttuavano, simili a
radici in cerca di terra, capaci di sfiorare quelle pietre e rivestirle
di nuovo fulgore.
“Mi
hai scaraventato fino a qui.” abbassai gli occhi e con orrore
vidi delle bruciature all’altezza del petto, scavate nella
mia pelle. Schiuma biancastra del mare gorgogliava attraverso,
macchiando i vestiti.
Realizzai di
aver perso la pistola, mentre la camicia era strappata.
Risollevai la
testa e guardai la creatura di fronte a me. Mi toccai la tasca,
sentendo il vetro ancora all’interno; mi ritenni stupido per
aver aspettato tutto quel tempo.
“Riprenderò
il controllo!”
Esclamai e,
quando dissi quelle parole, quando estrassi il frammento di vetro
facendo volare il fazzoletto, mi accorsi di star piangendo.
Parallelamente, realizzai che Itachi era triste, così triste
da bucarmi il petto e farmi venire voglia di ingoiarmi il cuore.
Ma il mio
corpo continuò a muoversi e io non riuscii a fermarlo: la
mia razionalità mi diceva che quella creatura era un
pericolo, sarei morto, per cui doveva andarsene per sempre, anche se
era doloroso e non sapevo perché.
Ti
conosco, Itachi?
Sentii delle
parole scorrere nella mia testa fino a strabordare come acqua.
“Non
preoccuparti, me la caverò. Ma tu sei il prossimo,
è scritto nelle stelle e Idra ci ha parlato: se rimani qui
morirai, Shisui.”
Le aveva
già dette quelle parole, o me le stavo sognando, o la mia
mente… il tempo era confuso, giocava con i miei sentimenti e
i miei ricordi devastati.
La mia mano si
mosse in un gesto rapido, fulmineo, senza quasi ricevere un comando:
affondai la lama di vetro nel collo della creatura, recidendone la
pelle dalle scaglie lucenti fino a vedere sgorgare del sangue; melma
vischiosa, oscura, un fondale marino che si stava riversando al di
fuori della sua gola tranciata. Itachi continuava a guardarmi e
realizzai che non rantolava come mi sarei aspettato, avvertii dei
brividi per la potenza del gesto compiuto, travolto da quella massa
oscura che mi si addossò gelida.
In
quell’istante, la creatura mi afferrò il polso:
avvertii il gelo, la forza d’acciaio della sua presa capace
di stritolare le ossa. Cercai di oppormi ma questi mi piegò
il braccio, fino a costringermi a lasciare la presa dal vetro. Percepii
il bruciore del taglio sui miei palmi, vista la mia presa massiccia e
ostinata, ma provai un senso di panico e allo stesso tempo di vuoto
quando Itachi tenne nelle sue mani il frammento dello stesso bicchiere
che mi aveva portato.
Cercai di
aprire la bocca, di dire qualcosa, ma non feci in tempo: con ancora la
gola dilaniata, la creatura mi afferrò il capo, liberandomi
il polso, e in un gesto altrettanto rapido mi tagliò con il
vetro. Non la gola, né gli occhi, o qualsiasi zona esposta
della mia patetica persona.
Bensì
il punto più nascosto della mia testa: la pelle dietro le
orecchie.
Compì
due tagli veloci eppure precisi, affondando la lama talmente dentro che
sentii le mie vene e le mie arterie spingersi contro fino a venire
recise. Percepii il sangue schizzare, l’aria defluire anche
se non era stata toccata la trachea, il mio ossigeno venire consumato,
mangiato, inglobato da quelle ferite capaci di risucchiarmi anche il
pensiero.
Mi aggrappai a
Itachi e provai rabbia, disperazione, all’idea di essere io a
rantolare in quel momento, con il cuore che batteva feroce fin dentro
la testa, come per illudermi di poter vivere ancora.
La creatura mi
lasciò la testa, afferrandomi la gola sanguinante con una
mano, mentre l’altra era sul mio braccio. Avvertii i suoi
polpastrelli affondare in me, esattamente come lo sguardo abissale, nel
quale ancora cercavo di intravedere un uomo, quando invece scorgevo il
mio riflesso, tragico, sporco di sangue e di melma oscura che lenta
scivolava dalla ferita di Itachi.
Poi,
all’improvviso, senza lasciarmi scaraventò il mio
corpo contro una delle porte di legno scuro, simile a pregiato ebano,
incassata nelle pietre scintillanti nere al pari
dell’inchiostro. Non riuscii neanche a svuotarmi i polmoni:
non avevo aria da espellere con l’urto, anche se faceva male
e i tagli bruciavano, come cosparsi di fuoco e sale.
Avvertii un
rombo distante, il suolo sotto ai miei piedi tremò: scosse
brevi eppure in rapida successione, anche se nessuno degli edifici si
mosse, non perché massicci e imponenti, ma quasi come se
fossero essi stessi la terra.
Itachi
avvicinò le sue labbra alle mie orecchie, mentre io con le
mani tentai di scavare nel suo petto, terrorizzato, con la vista
sfocata e la paura folle, tremenda, di morire. Lì, in quel
posto, senza sapere nulla di me, o di quello che sarebbe stato del
mondo.
Poi, la sua
voce. L’eco del mare gettato nella conchiglia delle mie
orecchie.
“Sasuke
– rabbrividii, quasi fossi anch’io fatto di terra
– in realtà avevi ragione…
l’ho ucciso io. Per
te.”
Sgranai gli
occhi, spalancai la bocca in un rantolo fischiante di dolore e
incredulità. Annaspai.
No.
Non è possibile. Io…
La porta si
aprì e la terra tremò in un rombo che
ricordò l’urlo di un gigante in procinto di
risvegliarsi dall’abisso. Avvertii il mio peso e
l’inclinazione del corpo cambiare, all’improvviso,
fino a sentire la gravità spingermi con una mano invisibile
fin dentro la stanza oltre la porta, nel mezzo
dell’oscurità. Il pavimento, realizzai, si stava
inclinando e Itachi, ancora con le sue mani su di me, aveva cominciato
a scivolare al mio fianco.
“Ti
terrò io – mi disse all’improvviso
– l’aria presto non sarà più
un problema.”
Fu come
un’esplosione. Il pavimento si inclinò sempre di
più e con esso le mura, la porta che cigolò fino
a spalancarsi, i pochi mobili presenti all’interno
scivolarono assieme a noi, gli oggetti più piccoli
slittarono rapidi sul terreno fatto di mattonelle simili a riquadri
d’ombra.
Itachi non
aveva paura. La ferita si stava rimarginando e la sua mano aveva fatto
cadere lentamente il vetro che cadde nel vuoto, fino a schiantarsi
contro la parete dove si stavano accumulando i mobili ribaltati in
scricchiolii sinistri e poi schianti potenti, man mano che
l’inclinazione ci fece cadere a nostra volta.
Finii con la
schiena accanto alla finestra, la cui imposta era stata spalancata e
ora ondeggiava nel vuoto. Con gli occhi incapaci di battere ciglio e il
peso inconsistente di Itachi addosso a me, i suoi capelli che mi
solleticavano le guance gocciolando lentamente acqua, realizzai che da
quel punto potevo vedere la strada in verticale, gli altri edifici
sulla cui muratura erano finiti ciottoli un tempo presenti nel vicolo,
mentre il rombo della terra assordava le orecchie e la risacca del mare
riecheggiava in un ringhio feroce.
Una sedia si
schiantò contro la finestra, spezzandosi; vidi schegge
volare, ma ero talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a chiudere
gli occhi. Il legno cadde oltre l’apertura, continuando a
precipitare, finché non lo sentii impattare contro la roccia
traslucida dell’edificio di fronte.
Avvertii un
senso di nausea allo stomaco, uno dei miei organi ribaltati per via del
cambio d’inclinazione esattamente come i mobili.
“Cosa…
sta… – cercai di dire, rantolando, con gli occhi
che bruciavano e l’odore del mare che mi stordiva –
succedendo…”
“Nodens
è la chiave, te lo avevo detto. R'lyeh aprirà le
sue porte per noi, ma agiremo appena loro ci
vorranno.”
Loro? Rilessi
nella mia mente le scritte sul muro della cantina, il sacrificio... R'lyeh. Allen aveva
ragione, credeva io sapessi cose… come? Come poteva
sospettare di me?
Voltai la
testa di scatto e udii il gorgogliare dell’acqua oltre la
finestra. Ogni cosa stava venendo inondata, lambita da onde feroci che
sembravano crescere di potenza, portando con sé Nodens fino
a farla scomparire.
In
quell’istante, la stanza si ribaltò ancora.
In un rombo
terribile, arrabbiato e sordo, venni bruscamente sbalzato sul soffitto
e Itachi sembrò quasi sospingermi. Evitai un’altra
sedia; in realtà fu Itachi a trascinarmi con sé,
facendomi rotolare sul fianco, mentre in cigolii e schianti secchi ogni
oggetto sopravvissuto si accatastava sul soffitto. Trattenni un conato
di vomito, avvertendo le viscere rimestarsi; in un getto di spuma
grigiastra, simile a pietre liquefatte, l’acqua aveva
cominciato a entrare dalla finestra ormai totalmente al contrario.
“Andiamo,
dobbiamo uscire da qui.”
Annunciò
Itachi. Mi resi conto di non respirare da tempo, tanto tempo. E di non
riuscire a oppormi quando la creatura mi alzò in piedi e
camminammo su quello che prima era il soffitto della stanza, mentre il
pavimento adesso era sopra le nostre teste.
I suoi capelli
cominciarono a fluttuare, resi vivi, meravigliosi, dalla potenza del
mare, la pelle richiamava i colori dell’oceano con le sue
scaglie vibranti di sfumature blu e gli occhi riflettevano
l’intensità delle onde, schiantate contro la
cornea fatta di spuma.
Il corpo si
sollevò nell’aria rarefatta e io con lui; capii
che voleva lanciarsi oltre la finestra, nel turbinio
dell’acqua che stava sgorgando inondandomi i piedi. Fino a
poche ore fa avrei pensato che sarei morto, schiacciato dalla pressione
e soffocato; ma ora… non avevo vie d’uscita e in
un certo senso pensavo che sarebbe stato meglio così,
piuttosto che rantolare ancora. Mi sembrava giusto.
Con un salto
ci fiondammo nel gorgoglio che eruttava dalla finestra e quando misi
una prima parte di me, del mio corpo, a contatto con quello specchio
turbinante, sentii che tutto sarebbe cambiato. Avrei smesso per sempre
di essere Shisui, di toccare ancora la terra o avere preoccupazioni
mortali, perché mi sarei ricongiunto con l’abisso
e l’accettai.
Venni
accarezzato, sballottato, schiaffeggiato dalla spuma fatta di bolle
frenetiche e dalle correnti, fino ad avvertire la presa di Itachi che,
ancora, mi trascinava via. La luce era cambiata: c’era buio e
fiotti azzurrognoli di una luminescenza oscura provenienti dagli
spiragli delle finestre, nient’altro che questo.
Lo realizzai
quando mi ritrovai a galleggiare nell’acqua, acqua del mare.
Attorno a me c’erano gli edifici, le feritoie e le pietre
lucide ma... l’intera città, l’isola con
la sua terra e gli scogli erano stati totalmente ribaltati. Le
guglie e i tetti aguzzi che fino a poco fa avevano cercato di sfondare
il cielo ora erano artigli immersi, le cui estremità
scomparivano nelle oscurità abissali.
L’isola
si era del tutto capovolta.
Provai un
fiotto di terrore all’idea di essere schiacciato da quella
massa di terra, circondato solo dal gelo oscuro del mare rischiarato da
spiragli azzurrognoli, intermittenti come il respiro stanco di una
creatura gigantesca.
Non potevo
più respirare. Le ferite bruciavano e la pressione mi stava
comprimendo, assieme alla paura. Stavo morendo e dovevo concludere i
miei giorni così, dimenticato, anche da me stesso.
Itachi mi
guardò: non sanguinava più, il taglio si era
rimarginato. Poi mi prese per il collo e io non riuscii a fare nulla
eccetto piantargli le mani sulle braccia, con disperato orgoglio. Forse
poteva uccidermi allora, mi avrebbe risparmiato un’agonia
finale.
Ma, in quel
momento di ultima lucidità, di disperazione e vuoto, Itachi
fece tutt’altro: mi baciò.
E io avvertii
il mare nel mio petto, ma anche tutta la vita che lo abitava, la sua
forza, il moto delle onde che sospingeva le barche e gli esseri viventi.
Lui prese qualcosa di me, ma
io entrai nella sua mente.
“Quando
diventiamo Abitatori del Profondo tramite il rituale, Itachi, ci
portano fino a Nodens e ci lasciano sull’Isola,
finché con la marea si ribalta per farci ricongiungere con
coloro che ci hanno preceduto. Sarò io ad aprire il
passaggio: Idra ci è apparsa in sogno, portando angoscia e
richiamo. Ma non la voglio ascoltare, non più.
I
nostri predecessori si connettono alle profondità abissali,
lo so. Però... si nutrono di ciò che siamo,
disprezzando quanto invece ospita gli umani, tenendoli al sicuro.
Posso
contaminarmi una volta trasformato, e portare con me, fino a R'lyeh, la
traccia della mia umanità.
Morirei.
Ma morirebbero anche loro.”
Guardai
Shisui, ascoltando i suoi discorsi pericolosi. L’avevo sempre
reputato una persona capace di farmi stare bene: per questo se ne
doveva andare, altrimenti sarebbe stato più difficile
realizzare quello che avevo in mente; il suo piano era altrettanto
folle, ma non potevo accettarlo.
Lo
pensai nel guardarlo seduto sulla banchina del porto avvolto dalla
nebbia, chiedendomi in che maniera trovasse la forza per sorridermi nel
voltarsi. Sentii una stretta al cuore, mentre le stelle nel cielo ci
comunicavano le variazioni astrali di ogni anno e Idra lo reclamava a
sé.
“Domani
scappa. Fallo.” Gli dissi serio. Quanti sorrisi ero riuscito
a dargli, io, in tutti quegli anni?
“Non
posso, Itachi. Tutto questo finirà – mi prese la
mano, facendomi sussultare – né tu, né
tuo fratello avete buona compatibilità, nemmeno proveranno a
iniziare il rito: ogni cosa sarà distrutta.”
Gli
osservai le dita, leggendovi lo sguardo:
“Ti
perderò, Shisui.”
Dovevo
avere un’espressione dura, forse distante, anche se dentro
sentivo il peso schiacciarmi. La tunica di canapa grezza che aveva
addosso solleticava la pelle: sarebbe svanita, assieme alla sua
umanità.
“Pensi
troppo, Itachi. Non essere arrabbiato con me – mi
mostrò un sacchetto e realizzai che c’era della
terra dentro – nella prossima vita... andrà
meglio.”
“La
contaminazione...”
Ma
cambiò improvvisamente argomento, impedendomi di continuare.
“Dai,
ricordi come faceva quel motivetto in stile charleston? Un giorno
dovrai ballarlo e conquistare qualche bella ragazza giù a
Boston.”
Batté
una mano sulla coscia per tenere il tempo e, dopo qualche istante, lo
seguii, mentre il mare immobile di Innsmouth rifletteva gli spiragli di
luna attraverso le nuvole.
Aprii gli
occhi.
Quello ero io,
a Innsmouth. Confuso, avvertii un calore irradiarsi dal mio petto
mentre Itachi galleggiava di fronte a me, le sue mani su di me.
Abbassai lo sguardo per vederle e realizzai che i miei vestiti erano
scomparsi, mentre la mia pelle... la mia pelle era vernice brillante
che si sgretolava tramite la pennellata dell’acqua, lasciando
dietro di sé scaglie,
scalini rifrangenti metallica luce cobalto, onde marittime che
disegnavano il mio torace e il ventre.
No.
Impossibile.
I miei arti...
le mani velate da un guanto trasparente che si intersecò
alle dita, rendendole palmate, le mie unghie erano andate perse per
sempre, nel cuore del mare. Sollevai lo sguardo e mi portai una mano
tra i capelli: più lunghi, consistenti, li sentii fluttuare
al mio contatto, alghe intrecciate alla mia testa e accarezzate dalla
corrente.
Respiravo il
mare e la sua vita millenaria. Dentro di me. Piansi, le mie lacrime
erano la salsedine racchiusa nel mio petto, resa salata dalla
realizzazione di chi fossi e di quanto avevo amato la vita, al punto da
lasciarla per chi amavo di più: Itachi.
Lo dissi nella
mia testa e lui mi rispose. Lo vidi così umano, con le sue
scaglie e le sue alghe, vestito di stupidi abiti per nascondersi,
quando era così bello da farmi piangere di più.
Perché non saremmo tornati ancora in superficie, su quel
porto con la luna e il charleston da ballare.
“Mi
dispiace – mi disse senza aprire bocca, lo sentii vibrare nel
mio encefalo – tu volevi sacrificarti un anno fa, ma io te
l’ho impedito.”
Luci azzurre
fluttuarono tra le feritoie, mentre io cercavo di ricostruire il
percorso della mia vita, le menzogne e le illusioni.
“Che
cosa hai fatto, Itachi? E io chi sono, adesso? Quelle memorie che mi
hai mostrato: sono reali?”
La mia testa
annaspava, come se dovessi ancora respirare per parlare: avevo paura,
però... volevo sapere e sentivo di non avere più
tempo, circondati da oscurità e la terra di Nodens che
incombeva su di me.
Itachi
allungò una mano e mi sfiorò la tempia. Sentendo
le sue dita, me la toccai a mia volta e realizzai che la cicatrice era
sparita.
“L’anno
scorso sarebbe toccato a te, eri predestinato, ma avevi il tuo piano
per farla finita. Io... non sono stato in grado di accettarlo: ti ho
quasi ucciso, costringendoti a dimenticare. Ti ho portato il
più lontano possibile, ma lui... deve averti trovato,
salvandoti, quando è venuto per mio fratello.”
Quante
immagini avevano preso a scorrere nella mia testa, ricordi, tanti,
così tanti. Mentre la mia identità veniva
plasmata e le ferite dietro le orecchie erano divenute branchie capaci
di farmi vivere.
Il fratello di
Itachi. Non avrebbero dovuto ucciderlo – ricordai le mie
parole dai ricordi trasmessi in un bacio – Sasuke non ha buona
compatibilità.
Senza
rendermene conto nella mia testa gli gridai:
“Io
ero pronto a morire per salvarti! Potevo riuscirci, potevo...
– le parole si accavallarono, ingarbugliate, non riuscivano a
star dietro alla mia mente iperattiva – lui.
Allen!”
Vidi il senso
di colpa, la tristezza, la nostalgia sul volto di Itachi. Quanto
dovevamo somigliarci e quanto mi sentii triste nel realizzarlo.
Le luci si
fecero più intense e mi ricordarono,
all’improvviso, le stelle nel cielo sopra una distesa lontana
dalla civiltà.
Ricordai di
averle guardate, un anno fa, e di essermi meravigliato per quanto
potessero essere intense lontane da Innsmouth. Non mi era venuto in
mente il nome, allora, ma ero certo di aver pensato al luogo della mia
nascita senza altro sentimento eccetto angoscia.
Non
so per quanto tempo avevo continuato a camminare. La macchina rubata
era entrata in panne e avevo temuto che toccandola ancora
l’avrei ulteriormente danneggiata. Avrei voluto non doverci
più avere a che fare.
Mi
sistemai meglio Shisui sulla schiena e ripresi ad avanzare, avvertendo
il sangue proveniente dalla sua tempia gocciolarmi sulle spalle in
ticchettii lenti. Ormai ero al limite delle forze, io non potevo
proseguire oltre: dovevo lasciare Shisui dove qualcuno avrebbe potuto
prendersene cura e rientrare, almeno per Sasuke.
Era
quasi l’alba.
Giunsi
presso un motel, dove pagai per una stanza in cui riposare qualche ora.
Stavo pensando di lasciare Shisui lì dopo avergli curato la
ferita, d’altronde gliel’avevo causata io per
imperdirgli di ricordare: siamo una razza fedele a Idra, manipolare la
mente è un processo invasivo ma fattibile.
Gli
ho lasciato l’occorrente per andarsene, finché nel
parcheggio non ho incontrato un uomo con un fedora in testa e
l’aspetto stanco, persino scavato. Quando mi vide mi
bloccò, fissandomi per poi dire:
“Tu
sei un Uchiha. Stamattina ne ho visti tanti come te. Siete uguali,
uguali e pazzi sanguinari.”
“Vattene
– ribattei, nascondendo la tensione – non so chi
sei, né di cosa stai parlando.”
“Seguo
le vicende di Innsmouth da una vita e non sono mai riuscito a fermarvi,
voi e i Marsh. Sono sicuro che tu sei un Uchiha, così come
sono sicuro che da anni uccidete la vostra stessa progenie, ma questa
è la prima volta che qualcuno chiama il Dipartimento
Omicidi, un vecchio ubriacone per giunta. Perché?
Cos’è andato storto nei loro piani?”
Il
respiro mi si bloccò. Cercai l’aiuto della mia
razionalità, perché non avevo Shisui cosciente in
grado di parlare con disinvoltura. Io non ero bravo con gli esseri
umani.
“Dipartimento
Omicidi?”
“È
da stanotte che sono in viaggio. Ritentro da Innsmouth. Tu ne sai
qualcosa, dell’assassinio di un ragazzino? Era uguale a
te.”
Non
mi mossi. Ma i miei organi, il mio cuore, si schiantarono al suolo,
liquefacendosi. Dovevo decidere in fretta.
“Dentro
la stanza c’è un uomo. Portalo via, rientra a
Boston. Tienilo lontano da Innsmouth o sarà la prossima
vittima.”
Si
tenne il fedora quando gli dissi quelle parole, come se non se le
aspettasse. Lanciò un’occhiata alle mie spalle e
replicò:
“Non
pensare di andartene. Ti prendo in custodia, tu sai troppe
cose.”
Indietreggiai,
lo vidi mettere mano alla pistola:
“Non
tornare più a Innsmouth. Togliti l’ossessione, o
morirai. Salva un essere umano, questo puoi farlo.”
Lo
vidi esitare. Pensai davvero di aver avuto fortuna quel giorno, presso
un motel lungo la statale.
Lui
ti porterà lontano, Shisui, avrai così nuove
memorie, senza essere contaminato dal ricordo di Innsmouth: non ti
troveranno. Per me, invece, non c’è speranza.
Camminerò, anche se cercheranno di riprendermi con loro,
percepisco la rabbia che li anima. Ho perso Sasuke, non mi rimane altro
che tentare.
“Mi
hanno trovato, alla fin fine.”
Mi
guardò nel dirlo e mi allontanai dal suo ricordo. Stavo
perdendo consapevolezza del mio corpo umano, non percepivo
più il freddo e la paura stava diventando un sentimento
distante.
“Allen
mi ha mentito. Tutti quei mesi.”
Era uno attaccato alla bottiglia.
Allora aveva parlato di Daves, come se lo conoscesse. E in effetti era
così: quel vecchio, un anno prima, aveva denunciato
l’omicidio di Sasuke.
“Daves
mi aveva detto di non fidarmi, perché sapeva chi fosse
Allen.” Conclusi.
“Daves
era un codardo figlio di puttana la cui mente è stata
piegata dagli Uchiha per asservire i loro scopi –
ribatté Itachi improvvisamente secco, al punto da farmi
provare ancora stupore – per colpa sua hanno richiamato
Allen, con il pretesto del mio omicidio. Gli Uchiha hanno visto la sua
ossessione e l’hanno sfruttata, sapendo tramite me che tu eri
con lui e non ti avrebbe lasciato andare. Io sono stato ingenuo e
disperato, errando a fidarmi di un poliziotto che ti ha usato con la
speranza che a Innsmouth ricordassi.
Ma nessuno ha
previsto una cosa: che io non ero morto davvero. Anche se tardi, la mia
trasformazione ha funzionato.”
Non ero mai
stato un detective, né avevo frequentato la Miskatonic. Allen si aspettava che io sapessi
leggere quelle righe del rituale. Soprattutto quando ha
capito che Sasuke era il fratello di Itachi.
Lo stesso
Itachi che, a distanza di un anno, aveva cambiato nuovamente le carte
in tavola.
“Ma
allora perché mi hai portato qui? Io cosa volevo fare,
sacrificandomi, come avrei potuto mettere fine a ogni cosa?”
All’improvviso,
la luce azzurrognola delle finestre divenne più intensa,
fino a far rilucere le nostre scaglie. Avevo paura di cos’ero
diventato: quel sentimento, in fondo, ritornava.
Sentii un
richiamo verso l’oscurità, nell’abisso
sotto di noi. Le luci sembrarono vive, forme animate unite per generare
fasci azzurri che iniziarono a tracciare un sentiero.
Ph'nglui
mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Guardai Itachi
e mi ritrovai a pensare, intersecando alle mie parole nella testa le
sue, in perfetta armonia.
“Nella
sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando”
Ai nostri
piedi, c’era...
“L’accesso
a R'lyeh.”
All’improvviso,
dal nero delle profondità, degli occhi: due, quattro, dieci
e infine centinaia, centinaia di occhi azzurri e malati che ci
osservavano divorati dal buio, distanti chilometri di distanza eppure
vicini, addosso, senza pupille o ciglia, incapaci di chiudersi.
Delle voci
cominciarono a parlare, rese vibranti dall’eco
nell’acqua e riecheggianti nelle pietre lucide degli edifici
sopra le nostre teste che ci si addossavano, soffocando
l’accesso al cielo. Mi portai le mani alle orecchie, ma
sentivo comunque quei suoni, mentre Itachi immobile guardava.
Dopo
interminabili momenti d’agonia le voci sembrarono
sintonizzarsi su di un’unica frequenza e parlarono,
entità millenarie che trasmettevano ricordi folli.
È
per Idra che uccidiamo la nostra progenie, così che
abbandonino loro odiose spoglie mortali per diventare puri Abitatori
del Profondo.
I
Marsh sono immondi esseri corrotti. Tramite la nostra perfezione il
passaggio a R'lyeh sarà aperto e Cthulhu, Gran Sacrdote, si
sveglierà destando coloro che come lui sognano.
Noi
siamo voi. Raggiungeteci.
Gli occhi
cominciarono a riverberare di ulteriore luce: sembrò
allungarsi diventando consistente, tentacoli che fendettero il mare
oscuro per risalire e arrivare sino a noi.
Spostai lo
sguardo su Itachi:
“Io...
– le parole uscirono fuori controllo, la mia mente era nel
passato e nel futuro, io ero Shisui Underwood e Shisui Uchiha
– non volevo questo, quando eravamo umani entrambi.
Non dovevi
trasformarti, dovevi andare a Boston, ballare il charleston, trovarti
una famiglia, dei figli...”
Itachi mi
portò le mani sulle guance. Lentamente i suoi vestiti si
stavano digregando e fluttuavano attorno al suo corpo come i capelli.
Avvertii
qualcosa toccarmi i piedi, qualcosa di gelido, capace di bloccare
sangue e respiro: i tentacoli luminescenti, occhi che fendevano il
buio, si avvinghiarono attorno alle mie caviglie fino a cominciare a
risalire. Avevano preso anche Itachi e lentamente ci stavano portando
giù, tra scie di luce e macchie d’ombra.
“Shisui.
Io non potevo restare a guardare mentre ti sacrificavi per farmi vivere
una vita migliore. Non avrei mai voluto che tu tornassi, dopo
quello che ho fatto. Dovevi dimenticare e fuggire lontano –
le sue mani risalirono su di me, tra i miei capelli, e smisi di provare
paura mentre scendevamo nell’abisso – quando invece
mi sono trasformato e ho realizzato di essere ancora vivo, con te di
nuovo a Innsmouth dovevo... dovevo agire per fare qualcosa. Tu non
ricordavi nulla, Shisui, nemmeno me.
Se solo avessi
saputo, se solo non mi fossi fidato di Allen, forse non saremmo
arrivati a tutto questo.”
Gli presi le
mani.
Sopra le
nostre teste, la città di Nodens era scomparsa: attorno
c’era solo più buio totale e silenzio, eccetto i
mormorii delle entità millenarie che, come noi, erano
arrivate fino a lì, in attesa dell’energia e della
concessione di Idra per aprire il varco. I tentacoli erano arrivati
attorno al mio torce e stavano risalendo fino alla gola. Non avevano
consistenza, li avvertivo ma era come se non esistessero, schiarendo le
nostre scaglie e i nostri volti per vederci un’ultima volta
prima di venire avvolti dal buio.
Poi, lessi i
suoi occhi, uno spiraglio nell’oscurità.
“Abbiamo
ancora qualcosa di contaminato dall’umanità,
dentro di noi.”
Venne avvolto
dalla luce. Io lo guardai e nella mia bocca entrò quella
stessa luce, le scie luminose mi si incastrarono in gola, poi negli
occhi. Non lo lasciai, anche se persi consapevolezza del mio corpo e di
quello di Itachi, per vedere buio e luce assieme, gelo e calore,
pressione che schiacciava e sollevava.
Uscii
dalla camera del motel mentre Shisui dormiva. Strascicando
l’acqua e il peso del mio corpo inadatto alla lontananza dal
mare, andai fino al giardino sul retro e con un cucchiaio rimediato di
fortuna scavai. Scavai fino a tenere tra le mie dita palmate un pugno
di terra.
Socchiusi
un istante gli occhi.
Poi
entrai nella stanza dove contemplai Shisui dormire, inconsapevole. Mi
ricordai di quando l’avevo ammirato allo stesso modo un anno
fa.
Mi
sedetti al suo fianco e gli aprii la bocca, avvertendo il suo respiro
contro le mie mani. La memoria sarebbe ritornata dopo tutto quello a
cui aveva assistito e io non potevo più compromettergli la
mente cancellandola ancora. Ormai non potevamo più fuggire.
“Mi
dispiace. Un giorno rinasceremo e saremo più
felici.”
Gli
misi la terra in bocca e lui la divorò, inghiottendola
dentro di sé. Provò a rigettarla, ma glielo
impedii, sigillandogli le labbra con la mano mentre lo stringevo a me.
“Perdonami
e ricorda.” Mormorai.
Ma
almeno sarà davvero finita, avevi ragione tu.
Ci fu solo
oscurità e parole di una litania oscura che richiamava i
Grandi Antichi. Poi un istante di silenzio. Infine bruciore e, ancora,
urla: urla feroci, di rabbia e dolore, un dolore più
profondo perché dimenticato.
Le
entità stavano... morendo.
La terra.
Certo, certo,
che stupido, come avevo fatto a non capire?
La terra
dentro di me, l’ultima traccia di qualcosa che aveva ospitato
l’umanità ora contaminava l’intoccabile
abisso: nel trascinarci con loro, nel portarci fino ai cancelli di
R'lyeh, gli Abitatori del Profondo ci avevano assorbito.
Credetti di
sentire Itachi, la sua mano stretta attorno alla mia. Mi aveva baciato
e io l’ho corrotto: la splendida creatura che era, ridotta
come me a perire nel flusso di coscienze e di rancori, di sacrifici e
di vite spezzate.
Mi sentii
esplodere. Per un attimo fui luce e udii la musica di un locale: scorsi
Itachi accanto, delle donne e degli uomini ballare, mentre attorno la
serata a Boston si animava.
Nodens si
sgretolò, perdendo ogni contatto con la terraferma, e il suo
rumore per me fu il ticchettare delle scarpe durante i balli scatenati
sulle piste di legno, con cravatte allentate e pendenti che
ondeggiavano, fumo sulle teste che copriva il rombo della terra
sprofondante e vino che scorreva nei bicchieri, la spuma gorgheggiante
dell’abisso.
Il sorriso di
Itachi era la mia luce prima di scomparire e... fu come se stessimo
danzando, un’ultima volta.
Sproloqui
di una zucca
Ebbene, dopo settimane
di ritardo infine ce l'ho fatta. Ancora non ci credo, ma pure
quest'avventura è conclusa. Una storia strana,
sostanzialmente un racconto che nulla ha a che fare con una fanfiction,
ma tant'è, la challenge era per il fandom di Naruto XD
Grazie per aver letto
fino a qui, spero che questa storia vi abbia acchiappato.
Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com
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