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di wolfymozart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lettera di presentazione ***
Capitolo 2: *** L'ospite ***
Capitolo 3: *** Ricordi di gioventù ***
Capitolo 4: *** Inaspettata proposta ***
Capitolo 5: *** Apprensione ***
Capitolo 6: *** Distanze ***
Capitolo 7: *** Doveri e piaceri dell'ospitalità ***
Capitolo 8: *** Fiera delle vanità ***
Capitolo 9: *** Insofferenza ***
Capitolo 10: *** Effimera dolcezza ***
Capitolo 11: *** Trasgressione ***
Capitolo 12: *** Castigo ***
Capitolo 13: *** 4 agosto ***
Capitolo 14: *** Vita nuova ***
Capitolo 15: *** Vita parigina: dai salotti ai fauborugs ***
Capitolo 16: *** Audacia ***
Capitolo 17: *** Spiraglio ***
Capitolo 18: *** Straniera ***
Capitolo 19: *** Filo rosso ***
Capitolo 20: *** Disgelo ***
Capitolo 21: *** Diffidenza ***
Capitolo 22: *** Contagio ***
Capitolo 23: *** Rimorsi ***
Capitolo 24: *** Al posto suo ***
Capitolo 25: *** Un lungo viaggio ***



Capitolo 1
*** Lettera di presentazione ***


Qualche anno dopo…
Il cielo iniziava ormai a schiarirsi, a oriente nuvole rosa preannunciavano il sorgere del sole ormai prossimo, un venticello frizzante scuoteva le fronde degli alberi risvegliando il canto mattutino degli uccelli, la rugiada bagnava i prati verdeggianti dell’erba novella di primavera. Tutto intorno il silenzio e la pace notturna non avevano ancora lasciato il posto al fervore diurno, benché nelle cucine e nelle stalle la servitù si stesse già mettendo al lavoro, solerte e silenziosa per non disturbare il sonno dei padroni.
Un timido raggio di sole si insinuò tra le persiane socchiuse, che tutt’un tratto il vento del mattino fece sbattere fra loro, riscuotendo Anna dal sonno. Si voltò istintivamente alla sua destra.
-Antonio…- mormorò con gli occhi ancora semichiusi. Ma nessuno rispose. A tastoni avvertì le lenzuola fredde, prive del tepore del corpo che doveva averle lasciate già da tempo.
- Antonio! – chiamò allora allarmata, spalancando gli occhi e mettendosi a sedere, i capelli sciolti, la veste da notte leggermente discinta. – Dove se ne sarà andato anche stanotte? – bofonchiò a denti stretti, alzandosi. Non si era accorta di nulla, ricordava soltanto di essersi addormentata fra le sue braccia dopo aver fatto l’amore. Doveva essere stato molto silenzioso, era diventando abile a sgusciar fuori dal letto senza svegliarla. Troppo, sentenziò fra sé, con la fronte corrugata e una smorfia di disappunto. – Bianca! Bianca! – chiamò poi indispettita – La toeletta! –
 
-Buongiorno, Titta! – salutò affabile, sollevando la mano libera dalla borsa mentre attraversava con passo brioso il piazzale sul retro del palazzo. Il sole era ormai sorto e il cielo terso del mattino preannunciava una mite giornata primaverile.
- Buongiorno, dottor Ceppi! – rispose al saluto il giovane, impegnato a sellare un cavallo. - Già al lavoro di prima mattina? – chiese poi.
- Ce l’ha fatta, è fuori pericolo! – esclamò per tutta risposta Antonio con un sorriso raggiante, alludendo al ragazzino per il quale era stato chiamato quella notte.
- Oh, sono molto contento. Tutto merito vostro, dottore! –
- Ma no, ma no, quale merito mio! Si trattava di una ferita non troppo grave. La febbre è subito scesa. – si affrettò a spiegare, modesto come al solito, senza perdere quell’allegro sorriso che aveva sulle labbra. Fece quindi per entrare.
- Dottore! – sentì chiamare sulla porta. – Dottore, poco fa è arrivata questa per voi. – disse Amelia trafelata porgendogli una lettera. – Mi han detto che si tratta di un affare importante, gente che conta… -  aggiunse con un gesto allusivo della mano.
Ceppi s’arresto immediatamente. Si voltò. - Grazie, Amelia. – rispose scrutando incuriosito la busta, cercando di indovinarne la provenienza dal sigillo.
 
-Avanti! – esclamò con una certa stizza Anna, invitando ad entrare chi aveva bussato, mentre se ne stava intenta a pettinarsi di fronte al grande specchio della sua stanza, quello specchio che era stato testimone di così tanta parte della sua vita, fin da quand’era ragazzina. La luce del sole aveva ormai invaso la stanza e si rifletteva sulla cornice dorata dello specchio.
La maniglia si abbassò ed Antonio fece il suo ingresso, sorridendo con le labbra e con gli occhi alla vista della donna amata.
-Ah, sei tu. E dove sei stato questa notte, si può sapere? – lo accolse lei aggredendolo, senza distogliere lo sguardo dalla propria immagine riflessa nello specchio, armeggiando con pettine e spazzola per rendere ancor più lucenti i suoi boccoli castani.
- Sono stato chiamato per un’urgenza dalla campagna. Ma ce l’ha fatta! Il ragazzino è fuori pericolo, grazie a Dio! – rispose pacato, di buon umore il medico, appoggiando la borsa coi ferri su di una sedia. Fece poi per avvicinarsi ad Anna ed abbracciarla, ma lei si scostò, abbandonando quello che stava facendo e sedendosi sulla sponda del letto, in silenzio, con l’aria scocciata.
- Guarda, mi è arrivata questa lettera, me l’ha consegnata Amelia prima. Sembra importante. Non l’ho ancora aperta, volevo leggerla insieme a te. – disse Antonio, prendo posto accanto a lei.  
- E’ la terza volta in meno di un mese. Ti alzi nel cuore della notte e te ne vai in giro chissà dove. E mi fai stare in pensiero fin quando non torni. Si può sapere, dico io, si può sapere, che diamine te ne vai in giro a fare? – riprese Anna, evidentemente non soddisfatta dalla risposta di lui, mostrando disinteresse per qualsiasi altra cosa Antonio avesse da dirle. Puntò quindi due occhi interrogativi e profondi nei suoi. Ferma, implacabile, in attesa di una spiegazione, abilissima nel nascondere dentro di sé il tremore e l’angoscia per la risposta che temeva di udire.
- Te l’ho detto. C’era bisogno di me, un ragazzino s’è fatto male lavorando nei campi e così mi han mandato a chiamare – Antonio non perse la calma e seguitò a guardarla con sguardo bonario.
- Proprio di notte s’è fatto male lavorando nei campi questo ragazzino? E la polmonite di quella donna? E la terzana di quell’anziano? Possibile che accadano sempre di notte tutte queste disgrazie?- insistette lei, alterata.
- Anna, tutte queste cose succedono anche di giorno, ma non ci fai caso perché sono sempre fuori per il giro di visite. Non c’è nulla di strano, nulla di anomalo. Capita. Ed io non mi posso sottrarre, devo essere disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte, in caso di necessità. – spiegò comprensivo per l’ennesima volta, scuotendo il capo quasi rassegnato. Possibile che dovesse sempre finire così? Possibile che non capisse che cosa comportava il suo lavoro? Nessun orario, chiamate notturne, emergenze, visite spesso nemmeno retribuite: del resto come si può chiedere del denaro a chi non ne ha nemmeno per mangiare? Ma lei no, tutte queste cose sembrava proprio non capirle. Lei, cresciuta negli agi e nelle comodità, ignara delle condizioni di vita dei suoi dipendenti, viziata, capricciosa, abituata a stare sempre al centro delle attenzioni, come avrebbe mai potuto concepire una cosa simile? Eppure, ne era convinto, non si trattava solo di questo, non si trattava solo di egoismo. C’era dell’altro, la conosceva bene. Paura, insicurezza, ecco che cosa si celava dietro il suo atteggiamento scontroso.
- E a me, che mi preoccupo perché non so dove sei, non ci pensi? Non ci pensi a quanto mi fai stare in pensiero? – rincarò la dose, mentre nei suoi occhi scuri iniziava a lampeggiare una luce, diversa, la luce della gelosia. – E poi chi me lo dice che tu vada davvero a visitare i tuoi pazienti o piuttosto non ti intrattenga in altro modo? – lo sfidò alla fine, gli occhi quasi lucidi di rabbia e di pianto.
- Anna, ragiona…- controbatté lui, prendendole delicatamente una mano e cercando di spiegarsi. Ma Anna liberò rapidamente la mano dalla sua stretta e gli voltò le spalle. Era abituato a questo tipo di scene, ma ogni volta restava profondamente ferito, deluso.
- Che c’è? Non ti fidi di me? Eppure mi sembra di averti sempre dato prova del contrario in questi anni…- le chiese a mezza voce, con uno sguardo mesto. Il buonumore di poco prima era del tutto svanito dal suo volto. Si sentiva sempre sotto accusa: non aveva ancora finito di espiare la sua antica colpa e questo lo prostrava assai. Quando sarebbe riuscito a conquistarsi la piena fiducia di lei?
Abbassò il capo sconsolato, appoggiò le mani sulle ginocchia e fece per alzarsi. Era inutile accanirsi in quella discussione, se la controparte non aveva la minima intenzione di ascoltare le sue ragioni. Ma Anna, che aveva seguitato ad osservarlo con la coda dell’occhio, a quel suo gesto lo bloccò afferrandogli una mano.
-Aspetta! Non te ne andare. – lo supplicò con la voce e con lo sguardo. Antonio si rimise seduto, fissandola con i suoi limpidi occhi celesti, in fiduciosa attesa di quanto avesse da dirgli.
- Io mi fido di te. Ho piena fiducia. La colpa è mia, quando di notte non ti ritrovo accanto…è più forte di me. Perdonami. – gli confessò apertamente, senza riuscire a terminare la frase guardandolo negli occhi. Se ne stava seduta sul bordo del letto, composta, le mani in grembo, lo sguardo basso. Modestia, eleganza e sussiego, le tre qualità quasi opposte che s’addicevano alle fanciulle dell’alta nobiltà. Antonio sorrise tra sé, riconoscendo in questo suo contegno la fanciulla che era stata. No, non si era dimenticata i rigidi precetti della sua educazione.
- Non devi chiedermi perdono. Devi solo smetterla di tormentarti, di angosciarti per un nonnulla. – fece lui accarezzandole i boccoli lucenti appena pettinati e baciandole una guancia.
- Non è facile come credi. Da quando Emilia è partita poi…tutto è così difficile! Sono settimane che non ricevo sue notizie… – sospirò.
- Basta, basta con questa insicurezza, amore mio. Non ne hai motivo. – la rassicurò prendendole il viso tra le mani. Lei gli sorrise dolcemente, rincuorata, e lui di rimando fece lo stesso, sfiorandole le labbra con le sue. Anna lo strinse forte a sé, baciandolo con passione, come aggrappandosi a lui.
 - E adesso la vogliamo leggere questa benedetta lettera? – chiese poi Antonio con il sorriso, dopo essersi sciolto dal suo abbraccio, raccogliendo la busta che nel frattempo era scivolata dimenticata ai loro piedi. Anna annuì schioccandogli un bacio sulla guancia e appoggiando la tempia e quella di lui, poi, non senza una certa curiosità, si preparò alla lettura di quella misteriosa missiva. Antonio ruppe impaziente il sigillo e spiegò il foglio davanti ai loro occhi. Campeggiava in altro a sinistra lo stemma dell’Università.
- Al dottor Antonio Ceppi, l’esimio Professor Guglielmo Alberico Gerardi de Carolis – lesse Anna – E chi sarebbe costui? – domandò poi incuriosita da quel nome altisonante.
- Si tratta di un emerito professore della facoltà di medicina. Fu rettore, ma venne poco dopo destituito per le sue idee poco ortodosse…ora dev’essere molto anziano, mi stupisce anzi che sia ancora vivo. – spiegò brevemente Antonio corrugando la fronte impensierito – Ma perché si ricorda proprio ora di me? Che cosa vorrà? – si domandò insospettito a voce alta.
- Continuiamo a leggere. – disse Anna.
Stettero per qualche istante in silenzio, assorti ciascuno nella lettura silenziosa di quella lettera, fino al congedo: Superga, addì XIV del mese di maggio A.D. 1789.
-Insomma non dice nulla di che. Tranne l’annunciare la visita di un comune conoscente et egregio studente  ai più onorevoli incarichi innalzato, a servizio indefesso del popolo in questa hora di periglio ma di summa gloria et di speme in una nova epocha liberata dalla barbarie e invitarmi ad accogliere calorosamente quest’hospite che si attende molto da me in virtù degli antiqui comuni studii e degli excelsi principi condivisi nell’etade di gioventù. – chiosò ironicamente Antonio, imitando nella pronuncia dei latinismi l’ampolloso tono cattedratico del professore.
- E chi sarebbe quest’ospite? E poi che cosa vuole da te? – domandò con voce leggermente allarmata Anna, insospettita dal contenuto criptico di quell’epistola e soprattutto dai confusi accenni al popolo, ad un’epoca nuova liberata dalla barbarie, che le suonavano come troppo audaci e rivoluzionari.
- Non sono sicuro, ma un’idea su chi possa essere questo egregio studente ce l’avrei… - rispose Antonio guardandosi attorno soprappensiero. – Ad ogni modo ho grande stima di questo professore, non potrà che mandarmi qualche valido collega.  – concluse rassicurando Anna con una carezza e un fugace bacio sulle labbra.

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Capitolo 2
*** L'ospite ***


-Signor conte, c’è un tale che chiede di essere ricevuto da voi. Dice di essere ospite del dottor Ceppi, di avere una lettera di presentazione. – spiegò Bianca informando Fabrizio dell’arrivo di un ospite sconosciuto, la cui carrozza sostava tuttora sul piazzale in attesa.
- Ah sì? – fece sorpreso Fabrizio accostandosi alla finestra per scrutare quanto avveniva di sotto. Un uomo dall’aspetto molto distinto, la veste curata, il portamento elegante, camminava nervosamente avanti e indietro, scambiando di quando in quando qualche battuta coi garzoni che attorniavano la sua carrozza. – Di chi si tratta? – chiese infine senza distogliere lo sguardo.
- Non lo so, non si è presentato. – si scusò la serva. – Anzi, per la verità, cercava il dottor Ceppi, è rimasto sorpreso quando gli abbiamo spiegato che doveva prima rivolgersi a voi, che siete il padrone. –
- Ah! Benissimo. Vedo che il mio amico Ceppi è tenuto in grande considerazione, molto più di me! – esclamò ridendo scherzoso. – Ebbene, andrò a riceverlo. –
Alla vista del conte che scendeva con passo sicuro la scalinata, la servitù si fece in disparte, inchinandosi, mentre l’ospite mosse qualche passo verso le scale.
-Siate il benvenuto. – lo accolse Fabrizio e gli porse con sguardo franco la mano destra. – Conte Fabrizio Ristori – si presentò poi. – In che cosa posso servirvi? – domandò infine scrutando lo sconosciuto.
- Conte Ristori, è un piacere per me fare la vostra conoscenza. Ho sentito molto parlare di voi. – cominciò – Avvocato Jerome LeBlanc, per servirvi. – rispose accompagnando la stretta vigorosa con un inchino. Parlava con accento francese, scandendo con precisione metodica ogni sillaba, come se stesse cercando di rispolverare un’antica dimestichezza con la lingua.
-  Ebbene, a che cosa dobbiamo l’onore della vostra visita, avvocato? – lo incalzò Fabrizio, visto che l’uomo non aveva risposto alla sua precedente domanda.
- Mi manda l’emerito professor Gerardi de Carolis, ho una sua lettera. – rispose estraendo dalla giacca una busta che porse a Fabrizio. – Sono qui per incontrare un mio antico compagno di studi, Antonio Ceppi, per discutere alcune faccende universitarie. – concluse, mentre Fabrizio era assorto nella lettura del messaggio del professore.
Finito che ebbe di leggere, sollevò il capo e, con un cenno di assenso, disse: - Capisco. Avrete molte cose di cui discutere, immagino. Per il momento vogliate accomodarvi, il dottor Ceppi è fuori per il consueto giro di visite, potrete attenderlo di sopra. – E, così dicendo, fece strada all’ospite guidandolo ai piani superiori. 
 
La sala dei ricevimenti riverberava della luce meridiana che si insinuava prepotente dai finestroni che davano sul giardino; tutto intorno la servitù si agitava per l’allestimento del pranzo in onore dell’ospite, tuttavia nella sala, che dopo gli eccessi di Alvise aveva ritrovato il consueto decoro, regnava la calma più completa. Elisa se ne stava seduta su di una delle ampie poltrone leggendo un libro di fiabe alla piccola Agnese, in abito da ricevimento, in attesa dell’ospite che le era stato annunciato dal marito. Non senza un velo di agitazione, che le restava sempre di fronte agli sconosciuti per via delle sue origini popolari, scorreva rapidamente gli occhi sulla pagina, cantilenando con voce nervosa rivolta alla figlioletta.
Finalmente l’attesa si concluse con all’apparire sulla soglia della sala di Fabrizio seguito da un uomo alto, elegante, dall’aria cordiale e dai modi disinvolti di uno che conosce il mondo. E, non poté impedirsi di osservare, dall’aspetto piacente.
-Vi presento mia moglie, la contessa Elisa Ristori e mia figlia Agnese – fece Fabrizio, indicando con un ampio gesto Elisa, che si alzò e accennò un inchino all’ospite porgendogli la mano per il bacio di rito. -
- Jerome LeBlanc – si presentò lui –  Enchanté – aggiunse poi galante fissandola con i suoi occhi verdi e penetranti. – Una delle giovani contesse più affascinanti che abbia mai incontrato – concluse infine sotto lo sguardo irritato di Fabrizio.
- A cosa dobbiamo l’onore di ospitarvi qui a Rivombrosa, signore? – domandò Elisa per stornare l’attenzione da lei.
- Sono venuto a trovare un mio vecchio compagno di studi, Antonio Ceppi.-
- Quindi siete medico anche voi? – lo interruppe la giovane.
- Avvocato. Abbandonai gli studi medici, non facevano per me. Non ero certo brillante come il nostro comune amico Antonio. -
- Quindi vi conoscete bene voi e il dottor Ceppi? –
- Abbiamo condiviso gli studi per qualche anno, a Torino, prima che me ne tornassi in Francia, nella mia città, Tolosa. Ai tempi avevamo una certa familiarità, ma non posso dire di conoscerlo bene. Per esempio, non mi sarei mai aspettato di ritrovarlo qui, in questo sontuoso palazzo, fra gente altolocata come voi.  Sapete, non amava molto i nobili suoi pari, frequentava gente borghese, come me, allora…- aggiunse infine, come esitante, guardando di sottecchi Fabrizio per studiarne la reazione.
- Se è per questo, allora, non è molto cambiato. – rispose Elisa in difesa dell’amico, poiché aveva percepito nelle parole dell’uomo una vena di critica. – Nemmeno io provengo da una famiglia aristocratica, avvocato. Le mie origini sono umili, ma ne vado fiera. Come vado fiera dall’amicizia del dottor Ceppi, un uomo che è sempre rimasto fedele ai suoi principi. –
- Oh, non volevo certo dire questo, mi avete frainteso, contessa! Ho sempre considerato il mio amico Ceppi un uomo assolutamente integro. E non ho nulla in contrario rispetto alla sua attuale sistemazione, anzi direi che lo invidio, una dimora magnifica…- chiarì vagando con lo sguardo per la sala. – Quella consolle, per esempio, dev’essere un pezzo di pregio, opera di un abilissimo ebanista…- disse e mostrò in tal modo una conoscenza ad ampio spettro di tutto ciò che riguarda gli arredi. Fabrizio, che se n’era stato tutto il tempo in piedi, con le mani appoggiate alla spalliera della poltrona su cui stava seduta Elisa studiando attento la conversazione tra i due, allentò la tensione, lusingato da quel complimento al suo mobilio e, con fierezza, spiegò: - Sì, apparteneva a mia madre. Opera di uno dei più famosi ebanisti di Torino. –
- Per non parlare di quel lampadario, notevole, assolutamente notevole…- soggiunse col naso all’insù.
- Vedo che siete un intenditore. – lo compiacque Fabrizio.
- Non esagerate, conte. Soltanto apprezzo chi sta circondarsi di cose belle…- rispose con un rapido sguardo ammiccante ad Elisa. Sguardo che fece schermire la giovane, ma che sfuggì a Fabrizio, impegnato a giocherellare con la piccola Agnese.
- Vogliate scusarmi, signori, il pranzo è servito. – comunicò Bianca deferente, con un inchino.
- Grazie, Bianca. – rispose Elisa, sollevata all’idea di spezzare quell’atmosfera equivoca che si andava creando.
- Bianca, il dottor Ceppi è rientrato? – s’informò Fabrizio.
- Sì, signor conte, è da poco rientrato. Scenderà a breve insieme alla marchesa. -
- Bene. Accomodiamoci, dunque, in sala da pranzo. Prego, avvocato, seguitemi. – disse Fabrizio, rivolgendo un ampio gesto di invito all’avvocato LeBlanc.
La tavola, riccamente imbandita per onorare l’ospite, era apparecchiata con il servizio più pregiato della famiglia per cinque persone. A capotavola sedeva Fabrizio, da buon padrone di casa; Elisa aveva preso posto accanto a lui, mentre LeBlanc le si era seduto di fronte e seguitava a fissarla in un modo che alla giovane appariva per certi versi quasi impertinente. A sollevare Elisa da un certo imbarazzo fu l’ingresso nella sala pochi minuti dopo di Anna e Antonio. I due comparvero a braccetto, sorridendosi assorti in un loro discorso, quando si accorsero della presenza dell’ospite. Si arrestarono un poco stupiti e, dopo qualche istante di silenzio, Antonio esclamò con un ampio sorriso:
-Jerome LeBlanc! Il mio vecchio compagno Jerome LeBlanc! Uno dei più squinternati tra gli studenti di medicina e uno dei i migliori tra i miei amici! – Jerome si alzò dunque prontamente da tavola e, dopo un ossequioso – Vogliate scusarmi, signor conte – , si avvicinò a braccia spalancate al vecchio amico, il quale non mancò di rispondere prontamente all’abbraccio, accompagnando il gesto con una fraterna e vigorosa pacca sulla spalla.
Anna restò per un momento a studiare quell’uomo, sforzandosi di ricordare se, ai tempi, Antonio, nelle sue lunghe e appassionate lettere, gliene avesse parlato. Quel nome, tuttavia, proprio non le sovveniva. Un francese, a quanto pare; un uomo certamente elegante nel vestire, ma non troppo ligio all’etichetta. Lei, che al galateo teneva fin quasi al fanatismo a causa della sua rigida educazione, non poté fare a meno di notarlo: alzarsi da tavola senza quasi chiedere il permesso, abbracciare in tal modo un amico che non vedeva da anni, senza nemmeno prenderla in considerazione: un modo di fare, si direbbe, quasi plebeo! Eppure nell’aspetto aveva una certa distinzione signorile, i tratti fini del viso, le guance lisce perfettamente rasate, i capelli biondo cenere impeccabilmente raccolti, gli occhi color verde acqua vivaci e intelligenti, il corpo alto, snello, ben proporzionato. Si sarebbe detto un uomo piacente, se soltanto avesse posseduto quel poco di garbo che conveniva ad un uomo di mondo! Lo sguardo le corse poi alle mani: mani tozze, sgraziate, più simili a quelle di un popolano che a quelle di un signore. Quest’ultimo dettaglio la confermò nella prima impressione avuta: quell’uomo non era certo un aristocratico, non era degno di essere annoverato tra gli amici dei Ristori. Eppure si trattava di un amico di Antonio, l’avrebbe comunque accolto nel modo più onorevole.
Da queste riflessioni la distolse lo stesso LeBlanc, il quale, dopo essersi sciolo dall’abbraccio del vecchio amico, si rivolse a lei con un:
-Comprendo quanto la mia scortesia sia imperdonabile, non è da me mancare di onorare una dama del vostro valore, elegante e raffinata come voi, ma tanta è stata la gioia di rivedere un vecchio amico di gioventù! Vogliate perdonare la mia esecrabile indelicatezza, signora…- e, aspettando che Anna si presentasse, le fece un galante inchino, come a coronare le sue parole di scusa.
- Marchesa Anna Ristori Radicati di Rivombrosa, sorella del conte Fabrizio- si presentò lei altezzosa, porgendogli la mano con uno sguardo severo e giudicante: in fondo si trattava pur sempre di un avvocatucolo, che per giunta le aveva poc’anzi mancato di rispetto davanti a tutta la famiglia. Gli avrebbe dato, sì, una seconda possibilità, ma avrebbe dovuto prima scontare quella sua iniziale villania.
- Enchanté – ripeté lui, posandole un delicato bacio sulla mano e tenendo i suoi occhi verdi e ossequiosi, a mo’ di scusa, fissi in quelli di Anna. Uno sguardo che si protrasse troppo a lungo, secondo i canoni della marchesa, che prontamente distolse gli occhi e invitò l’ospite a riprendere il suo posto a tavola.

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Capitolo 3
*** Ricordi di gioventù ***


-E’ sempre così solerte e ligio al dovere il mio amico Antonio? – domandò LeBlanc passeggiando nei giardini di Rivombrosa in compagnia di Anna. Il dopopranzo si preannunciava gradevole, la giornata primaverile mite e assolata aveva fatto propendere i Ristori per una sortita all’aperto. Sotto il gazebo Elisa e Fabrizio si intrattenevano con la piccola Agnese, mentre Anna si era assunta il compito di intrattenere l’ospite, con cui in quel momento stava percorrendo i vialetti fioriti proteggendosi con l’ombrellino dal sole di maggio. Ospite che, tuttavia, non accennava a distogliere lo sguardo da Elisa.
- Dovreste conoscerlo, avvocato. – rispose elusiva a quella domanda. Antonio, infatti, aveva dovuto abbandonare il pranzo, alla chiamata di Amelia, allarmata per l’ennesimo incidente occorso ad alcuni braccianti nei campi.  Il medico si era prontamente scusato per l’inconveniente e la scortesia nei confronti dell’ospite ed aveva preso senz’altro indugio la via della porta, sotto lo sguardo contrariato di Anna: occhiata di biasimo che non era certo sfuggita ad un osservatore attento qual era l’avvocato Jerome LeBlanc.
- Oh, certo, ma mai quanto voi…ce n’è pas?- riprese, rallentando il passo e scrutandola con il sorrisetto sardonico di chi sa più di quanto voglia far credere. Anna si arrestò per un istante, sorpresa sgradevolmente da quell’allusione, poiché si era sentita in qualche modo toccata nel proprio privato da un estraneo che non aveva mai visto prima. Il rumore dei passi sulla ghiaia del vialetto tacque per un istante.
- A che cosa volete alludere, signore? – lo interrogò indispettita, guardandolo in tralice. Cercò di nascondere il proprio disagio dietro ad un fare scontroso, come del resto era suo solito.
Ma Jerome LeBlanc, ben avvezzo a trattare cause spinose nei tribunali di mezza Francia, non era certo tipo da farsi intimorire o surclassare da un’elegante quanto annoiata dama dell’antica e presuntuosa aristocrazia: sapeva sempre sfoderare le parole giuste per stemperare una situazione di imbarazzo. Pertanto, ripigliando il cammino interrotto e conducendo con sé a braccetto la marchesa riluttante, abbassò la voce e assunse un tono confidenziale:
-Marchesa, non mi è certo sfuggita la vostra dimestichezza. – rispose sorridendo placidamente, come si limitasse ad attestare un qualcosa di universalmente noto e riconosciuto. Anna, tuttavia, continuava a fissarlo sbalordita da tanta sfacciataggine. – E poi, il vostro nom11e non mi suonava certo nuovo. O credete forse che Antonio non mi abbia mai parlato di voi? A me, uno dei suoi più cari amici? – rincarò sorridendo nuovamente. Anche il bel viso di Anna a quelle parole si aprì in un radioso sorriso, che la marchesa però, si affrettò prontamente a nascondere dallo sguardo dell’uomo. Non conosceva granché della vita condotta da Antonio nella capitale durante gli studi, fatta eccezione delle notizie spicciole che le forniva lui nelle sue lettere, il cui contenuto era tuttavia di tutt’altro tenore. Provò quindi un immenso piacere nello scoprire che Antonio aveva parlato di lei ai suoi più cari colleghi di studio: non seppe nemmeno lei per quale ragione, essendo ormai passati quasi vent’anni, ma la cosa la lusingò molto più di quanto avesse creduto ed incominciò ad essere immensamente grata a quell’uomo che le aveva permesso di fare questa piacevole scoperta.  
Mentre Anna era intenta in queste gradevoli riflessioni, LeBlanc, senza curarsi particolarmente di lei, seguitava a lanciare occhiate ad Elisa, che in quel momento, allontanatosi Fabrizio, era restata sola sotto il gazebo in compagnia della figlioletta. LeBlanc, incuriosito da quei giochi infantili e come soggiogato dalla vista di lei, quasi non si accorse delle domande che Anna gli aveva infine rivolto. Desiderosa di sapere sempre di più sui pensieri, sugli amici, sugli studi, sull’esistenza condotta da Antonio nella capitale, smaniosa di appropriarsi di ogni attimo della vita di lui che ancora non conosceva, aveva scoperto in LeBlanc un valido confidente e perciò non si tratteneva dal subissarlo di domande.
-Antonio vi aveva, dunque, parlato di me? E, se lecito, che vi diceva? Gradirei davvero tanto saperlo! Che tenerezza mi ispira riandare col pensiero a quegli anni felici! E, dite, com’era Antonio come compagno di studi? Quali erano le vostre occupazioni, quali gli svaghi nella capitale? Io conosco poco di quella parte della sua vita, sapete, la nostra corrispondenza ai tempi era di tutt’altra sorta…-
Ormai era un fiume in piena: entusiasta e curiosa di una curiosità insaziabile, sulla spinta dell’amore sconfinato che da sempre provava per Antonio, non lesinava domande, voleva a tutti i costi saperne di più. L’avvocato LeBlanc sembrava aver conquistato con un semplice accenno a quell’Antonio a lei sconosciuto la sua fiducia. Tuttavia egli in quel momento era poco incline a proseguire la conversazione; assorto com’era nella visione di Elisa, stringeva gli occhi per eludere il sole battente che gli ostacolava la vista della giovane. Era restato profondamente colpito dalla sua bellezza, ma soprattutto dalla sua forza d’animo: una serva che era riuscita ad assurgere al rango dei signori e che pareva, anzi, dominarli. Un esempio del genere non poteva certo restare indifferente al rampante avvocato, che, di origini borghesi, guardava con profonda ammirazione e un pizzico di invidia ai salotti della migliore società. Quanto più valeva ai suoi occhi quella giovane, piuttosto che la donna che in quel momento gli stava al fianco e gli riempiva le orecchie di domande! La prima, giovane, bella, determinata, risplendeva di luce propria, del proprio valore, della propria grazia e intelligenza; la seconda, una nobildonna, bella sì, ma annoiata, scialba, rigidamente legata all’etichetta, splendeva soltanto della luce che le conferiva il suo rango. E dell’amore più che palese, benché lei tentasse di nasconderlo, per il suo amico Antonio. Nulla di più. Nessuna smania di riscatto sociale, nessun fervore idealistico, nessuna brama di libertà e di giustizia. Che cosa poi ci trovasse di tanto interessante in quella donna il suo vecchio compagno di studi proprio non riusciva ad immaginarselo.
Tutt’un altro si riscosse e, per non dare prova di scortesia alla sua interlocutrice, ma in fondo in fondo anche lusingato nel suo amor proprio da tutta questa attenzione, essendo di natura un amabile narratore di aneddoti, non si sottrasse alle domande della marchesa. Anzi, infarcì le rispose ripescando nella memoria episodi che avevano per protagonista Antonio.
-Naturalmente mi parlò di voi. Come potete ben immaginare, non era certo tipo da – come dite voi nella vostra lingua? - sbandierare a quattro venti le sue faccende private, tuttavia, ad un amico come me qualche confidenza la faceva. Non temete, era uno studente modello. Solo due cose aveva per la testa: la medicina e, ovviamente, voi. – accompagnò queste parole con un sorriso compiacente rivolto ad Anna, la quale, oltremodo lusingata, ma nello stesso tempo imbarazzata, volse con studiata distrazione lo sguardo verso i cespugli di rose che crescevano ai bordi del sentiero.
- Non mi credete, signora marchesa? – chiese con un risolino ironico, visto il silenzio di Anna. – Allora vi racconterò un episodio per rendere giustizia al mio amico Antonio. – proseguì sorridendo e catturò in tal modo l’attenzione di Anna, che prontamente si voltò e si dispose a seguire il racconto.
 
Dei colpi secchi sulle imposte già socchiuse. Colpi ripetuti ad intervalli regolari, alternati poi a richiami a mezza voce -Ehi! Ehi! - All’imbrunire, in una via del centro, un giovanotto se ne stava acquattato sotto al muro esterno di uno dei più esclusivi convitti della città, riservato ai rampolli delle più nobili casate. Il giovanotto, con una folta e scarmigliata chioma bionda e una vecchia marsina blu ormai logora sui gomiti e corta sui polsi, si alzava di tanto in tanto in piedi per tirare sassate contro le ante della terza finestra del primo piano. La finestra del suo fraterno amico. Il lume era acceso, l’amico si trovava certamente nella sua stanza. A studiare, come al solito, pensava lo scapestrato giovane di sotto. Uno studente esemplare, non c’era che dire. Tanto diverso da tutti gli altri coetanei del suo rango, che, infischiandosene degli studi, si godevano la vita mondana della capitale, largheggiando tra salotti, sale da gioco e bordelli. Jerome, il ragazzo povero che la famiglia aveva potuto far studiare soltanto grazie all’appoggio del curato del paese, aveva subito stretto amicizia sugli scranni dell’università con questo strano esemplare di aristocratico. Non gli era mai capitato, in Francia, di conoscere coetanei nobili che non lo guardassero dall’alto in basso storcendo il naso e, anche nel regno di Piemonte, si era presto accorto che accedeva la stessa cosa. L’unica eccezione era quel giovanotto bruno, dai modi cortesi, un poco timido e solitario. Parlando, avevano subito condiviso le stesse opinioni riguardo alle ingiustizie sociali e all’ipocrisia fatua della nobiltà. Con la differenza che Jerome, borghese, si faceva portavoce delle recriminazioni, del malcontento della propria classe e su di lui erano riposte tutte le speranze di riscatto della sua famiglia; Antonio, al contrario, si poneva in contrasto con il mondo a cui apparteneva e in aspro dissidio con il suo stesso padre. Un’audacia certo encomiabile, asseriva il giovane francese, tanto più che l’amico sembrava un tipo genuino, candido e forse un po’ ingenuo, certamente convito delle sue idee. Concordi nelle idee politiche, i due erano però discordi nella condotta: Jerome, dopo una vita di stenti, non stava più nella pelle nella capitale e si dava perciò ai divertimenti tanto sognati: divertimenti consoni ad uno studentello un poco spiantato, non certo ad un signor contino, che includevano abbondanti bevute nelle stamberghe più misere del quartiere, sollazzi con popolane dai facili costumi, nottate goliardiche in compagnia di giovanotti della sua stessa risma. Antonio, invece, pareva devoto unicamente ai libri, da cui neppure i continui inviti dell’amico riuscivano a distogliere. Anche quella sera Jerome ci aveva provato:
-Ehi, asinaccio che non sei altro, vuoi proprio fare la vita del monaco lassù? Ehi, dico a te, Antonio! –
Le imposte si aprirono; al sentire gridato a quel modo il suo nome, Antonio si affacciò prudente:
-Shht! La vuoi smettere? Ti cacceranno via se continui a fare questo chiasso!-
- Allora per non farmi cacciare, scendi tu. Andiamo alla locanda, ho da presentarti una di quelle giovincelle…-sghignazzò divertito.
- Non è cosa. Ho da fare. – tagliò corto.
- Che devi fare? Studiare? Bè, l’allievo prediletto del professor de Carolis, scusa, dimenticavo! Ma ci marcirai su quei libri, se non scendi. –
- Ho altro da fare, non si tratta di studio. -
- E di che allora? – Jerome non fece in tempo a terminare la domanda che con un agile balzo si era già aggrappato con le mani all’inferriata della finestra. – Forza, apri queste sbarre e fammi entrare. Voglio vedere se dici la verità. – rise divertito.
- Ma che diamine di scherzo è questo! – esclamò Antonio al vedere l’amico balzare nella stanza e dirigersi senza indugio verso la scrivania dove ardeva una candela ormai quasi del tutto squagliata. Già Jerome si rivolgeva a lui, brandendo un foglio in mezzo ad un mucchio di altre carte appallottolate.
- Ah, ah! E questa cos’è? – domandò Jerome ridendo incuriosito.
- Ma che fai? Lascia immediatamente quel foglio! – ingiunse Antonio insolitamente alterato.
- Eh no, mon cher. Prima voglio leggere quel che c’è scritto. – seguitò a scherzare.
-  Lascialo giù, ti ho detto, o ti farò buttare fuori! – ripeté Antonio cercando di strappare il foglio delle mani dell’amico, il quale, però, più lesto di lui, era salito in piedi sulla sedia e già declamava con accento straniero:
- Mia diletta Anna, il mio cuore arde dal desiderio di rivederVi, starVi lontano è una lunga agonia…  - e qui si fermò scoppiando in una fragorosa e irriverente risata.
- Che c’è da ridere? Ridammi la lettera! –
- Allora si spiega tutto! Il nostro amico è innamorato! – concluse Jerome senza smettere di tenersi la pancia dalle risa – Adesso però voglio sapere chi è questa misteriosa Anna, me lo dirai o pagherai pegno! -
 
-Di che cosa state confabulando voi due? – domandò sorridendo Antonio sopraggiungendo alle spalle di Anna e Jerome i quali non avevano nemmeno sentito i suoi passi risuonare sulla ghiaia del vialetto. Si voltarono simultaneamente. 
- Allora, non me lo volete proprio dire? – rincarò appoggiando una mano sulla spalla dell’amico. Anna non faceva altro che sorridere: alla vista del medico il suo volto, già radioso, edificato dai racconti di gioventù che stava ascoltando, si era illuminato ancor di più. Senza dar troppo a vedere il suo coinvolgimento davanti a quell’ospite, non mancava tuttavia di ricercare con insistenza lo sguardo di Antonio. Jerome, dal canto suo, a perfetto agio e di buon umore, ricambiava con vigore la pacca sulle spalle all’amico.
- Si parlava della tua vita da studente. Scapestrato e dissoluto. Un vero enfant terrible! Stavo giusto raccontando alcuni episodi alla marchesa– gli rispose in tono scherzoso.
- Forse ti stai confondendo: lo scavezzacollo eri tu, non io! Ti devo rinfrescare la memoria? – controbatté Antonio, stando al gioco.
- Suvvia, non rovinarmi la reputazione di fronte alla marchesa! – esclamò divertito. – Marchesa, non lo state a sentire, ero uno studente esemplare, ve l’assicuro. – proseguì rivolgendosi ad Anna, la quale a dir il vero aveva seguito senza troppa attenzione quello scambio di battute, intenta com’era nello studiare il comportamento di Antonio. Possibile che fosse già rientrato dalla visita? Non aveva forse detto Amelia che si trattava di un grave incidente, che più braccianti erano stati coinvolti? Allora perché quel fare rilassato e giocoso che raramente gli aveva visto? Forse era lei ad esagerare, forse era la presenza di quel vecchio amico a mettergli tanta allegria e voglia di scherzare.
- Hai finito per oggi di lavorare? Ci degnerai quindi della tua presenza almeno per pochi minuti o dovrai accorrere di nuovo al capezzale di qualche moribondo? – lo canzonò Jerome, fissandogli in viso i suoi occhi verdi e ironici.
- No, temo che dovrai accontentarti della conversazione della marchesa, caro Jerome. Sono rientrato solo per prendere alcuni sali che avevo dimenticato. Debbo immediatamente ripartire, c’è bisogno di me. Vogliate scusarmi…- e così, dopo un buffetto sulla spalla dell’amico e un pudico, ma tuttavia per lei sconveniente, bacio sulla guancia ad Anna, si allontanò a larghe falcate.
- Che peccato, con una giornata così bella! – esclamò dispiaciuto Jerome, volgendo lo sguardo al cielo terso. – Avremmo potuto fare una bella passeggiata in carrozza, tutti e tre! –
Anna non gli rispose. Dopo quel fugace bacio si era ancor più rabbuiata. Anzitutto perché quell’effusione non le era sembrata opportuna di fronte a un estraneo; in secondo luogo perché ancora una volta Antonio non aveva avuto alcun riguardo a lasciare il campo, delegando a lei gli oneri dell’ospitalità. Ma il suo vero cruccio era un altro: il lavoro non era forse un pretesto che adduceva per prendersi altre libertà? Per frequentare – il solo pensiero la faceva rabbrividire – altre donne?
-Antonio è sempre molto occupato. Il lavoro gli assorbe tutte le energie. – cercò di giustificarlo, più a propri occhi che a quelli dell’amico, il cui ben addestrato acume aveva colto il turbamento avvenuto in lei.
- Il lavoro, il lavoro…ah, quanti sacrifici il nome di quella mission sacreè, nevvero? – domandò Jerome con una vena ironica neanche troppo dissimulata. Che fosse egli al corrente di quello che Antonio nascondeva dietro alla scusa del lavoro? Che si stesse prendendo gioco della sua ingenuità? Questi erano i dubbi che tormentavano Anna, la quale restò quindi in silenzio, invertendo il senso di marcia della passeggiata. LeBlanc, senza sciogliere il suo braccio da quello di lei, subito l’assecondò.
- Io non ci riuscirei, lo confesso. Del resto alla medicina non ero proprio portato, se dopo due anni ho lasciato gli studi per seguire la carriera di avvocato. Mentre Antonio, bè, lui ci è nato per aiutare il prossimo! –
- Lo pensate anche voi? – domandò Anna, rinfrancata da quell’ultima affermazione. Allora anche Jerome lo conosceva in quel modo! Niente sotterfugi, niente pretesti, solo una grande dedizione al prossimo spingeva Antonio a comportarsi così.
- Certamente. Un uomo dedito al sacrificio, fin dalla gioventù. Il professore lo diceva sempre che avrebbe fatto strada…A proposito, spero che questa sera trovi il tempo di darmi udienza. Sapete, devo parlargli di alcune faccende universitarie…sono stato giusto giusto incaricato dal professore…Bè, son certo che Antonio ne sarà entusiasta! – concluse senza entrare più di tanto nel merito della questione.
- Non dubitate. Il tempo, per voi, questa sera lo troverà.- disse Anna, ormai rasserenata.

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Capitolo 4
*** Inaspettata proposta ***


 
-Antonio, finalmente! Sembra che sia più facile ottenere udienza da Sua Santità che da te! – Jerome stava comodamente seduto su di una poltrona nella sala della biblioteca, un bicchiere di amaro in mano, un libro nell’altra, lo sguardo ironico, divertito e per nulla scocciato rivolto all’amico che aveva appena fatto il suo ingresso nella stanza. Era ormai calato il buio, le candele illuminavano fiocamente quell’immensa raccolta di libri che costituiva la biblioteca dei Ristori, volumi e volumi accumulati in decenni, secoli di storia di quella famiglia. Jerome aveva deciso di attendere l’amico proprio in quella stanza, prendendosi nell’attesa la libertà di curiosare tra i diversi testi presenti, giusto per farsi un’idea di quali fossero gli interessi, le opinioni, i gusti della famiglia Ristori. Come si era immaginato, non v’era traccia di modernità in quella biblioteca: alla filosofia e alla scienza si preferivano poemi cavallereschi, tragedie vecchio stile, raccolte di poesie, antiche edizioni di Dante e Petrarca, testi sacri, agiografie, insomma tutto ciò che lui considerava inutile anticaglia. Si era, infine, deciso a scegliere un’edizione pregiata della Divina Commedia per ammazzare il tempo in attesa di Antonio.
- Chiedo venia, sono stato trattenuto in campagna. Un brutto affare, brutto davvero. Non so se quell’uomo supererà la notte…- rispose, scusandosi, il medico e scosse il capo sconsolato prima di sedersi sulla poltrona di fronte a quella dell’amico.
Amor ch’a nullo amato amar perdona…- declamò Jerome fissandolo con quel suo sguardo obliquo, tra il sardonico e il compassionevole, sguardo che Antonio conosceva bene. Jerome trattenne a stento un sorrisetto e si limitò ad aspettare una reazione dell’amico che stava seduto tenendosi la fronte con una mano, stanco dalla lunga giornata di lavoro e decisamente poco incline ai soliti motteggi di LeBlanc. – Che vuoi dire? Non sono molto in vena di scherzi questa sera. – si limitò a domandare Antonio.
- Come, non conosci il sommo Dante, le maître de tous les poètes! Sto solamente leggendo a voce alta questi bellissimi versi…Non ho trovato di meglio in questa biblioteca…- alluse non troppo copertamente al fatto che i volumi contenuti non fossero proprio di suo gradimento.
- Veniamo al dunque, Jerome. Perché sei venuto qui? In che cosa ti posso essere utile? – tagliò corto Antonio, raddrizzandosi e puntando i suoi occhi profondamente celesti in quelli verdi e sfuggenti dell’amico.
- No, no, Antonio. Torniamo prima a quei versi…sembrano scritti per te, non credi? – domandò a bruciapelo Jerome. Sapeva abilmente riportare il discorso laddove voleva lui. Era un avvocato molto scaltro, del resto.
- Che significa? – chiese spaesato Antonio.
- Significa che non ti riconosco più, mon ami!– sorrise sarcastico Jerome. Si alzò soffocando una risata e sbatté con foga il libro sullo scrittoio. Il candeliere lì appoggiato accusò il colpo e tutta la stanza fluttuò nella luce incerta.
Antonio lo imitò scattando anch’egli in piedi. – Che diamine vuoi dire? – gli si avvicinò stizzito. Gli occhi dell’amico brillarono per un breve istante per quel piccolo successo. Era finalmente riuscito a coglierlo sul vivo.
-Voglio dire che ti ricordavo come un giovane idealista, pronto a rinunciare a titolo e terre per i suoi ideali. Ti ricordavo come un uomo tutto d’un pezzo, uno che non scendeva mai a compromessi, che disprezzava quel mondo di nobili corrotti da cui proveniva. Ti ricordavo come quello che decise di sposare una serva mettendosi contro tutto e tutti! Ou je me trompe? – lo provocò Jerome.
- Che cosa c’entra tutto questo con quello che hai da dirmi? – s’infuriò Antonio. Dove voleva arrivare Jerome? Che diritto aveva di piombare dopo anni nella sua vita e rinfacciargli tutte quelle cose? Che cosa ne sapeva lui delle sue scelte, di quello che aveva passato?
- C’entra eccome, mon ami. Antonio, non ti vedi? Vivi come un pari di Francia, perdio! Ti ritrovo qui, in questo splendido palazzo, con uno stuolo di servi a tuoi piedi, imparentato con l’alta nobiltà, tra la braccia di una bella marchesa, totalmente soggiogato dal suo fascino…Non è così?- concluse ridendo forte e rivolgendo uno sguardo indagatore all’amico, dopo aver trangugiato l’ultimo sorso di amaro.
- Ma…Sì, è vero, io…Anna…- balbettò confuso e imbarazzato Antonio.
- Siete felici e innamorati, ho indovinato? – il tono di scherno si faceva ad ogni battuta più pesante. Antonio abbassò lo sguardo, sentendosi quasi in colpa. Ma qual era la sua colpa, se non quella di amare quella donna stupenda che era Anna? Era da imputarsi come colpa il fatto che lei fosse nobile? Questo significava forse tradire gli ideali di gioventù?
- Sì, è così. Tu non conosci molte cose della mia vita, non sai che Lucia…- incominciò titubante.
- Non mi importa ora di sapere queste cose. Io sono qui per un motivo ben preciso. Voglio farti una proposta. – lo interruppe bruscamente. 
- Non credo di essere in grado di sostenere una collaborazione con l’università, non è quello il mio mondo, il mio mondo è nelle campagne, in mezzo alla gente bisognosa. –
- Università? Da dove ti viene questa idea? – rise di gusto Le Blanc, poi facendosi serio: - Non si tratta di università. –
Quest’ultima affermazione, categorica e inaspettata, sorprese Antonio: - E di che si tratta allora? Ho ricevuto una lettera dal professore riguardo alla tua visita. –
- Antonio, mentre tu te ne stai beato fra le braccia della tua bella marchesa, il mondo si evolve! Tu non sai quello che sta succedendo a Parigi! Si sta preparando qualcosa di grandioso! E io vi parteciperò! Sono mesi, anni che ci sto lavorando, a questo progetto…Deputato, Antonio, deputato, capisci? – LeBlanc aveva fatto un passo colmando la distanza fra loro e l’aveva agguantato per le spalle centrandogli gli occhi con i suoi.
- Deputato? – Antonio abbassò il viso: era completamente smarrito, trascinato sul terreno politico, un terreno che non era mai stato il suo.
- Già, proprio così. Deputato agli Stati Generali di Francia! Dopo più di un secolo e mezzo Sua Maestà si è degnato di convocarli: gli è scappata la situazione di mano, a quel buono a nulla di Luigi XVI! Ma le cose si stanno mettendo male! Male, per la nobiltà, il clero…si sta preparando qualcosa di grandioso, di grandioso! Una svolta epocale! – i suoi occhi verdi erano sempre più accesi, l’espressione del volto, di solito impenetrabile, lasciava scorgere un entusiasmo quasi infantile. – Ho raccolto centinaia di voti e ora sono lì, seduto sugli scranni…ma non basta, non basta! Non possiamo accettare di votare per Stato, non dopo che siamo riusciti ad ottenere un numero doppio di deputati! Si deve votare per testa, o non se ne farà nulla. Abbiamo dalla nostra anche alcuni nobili, gente colta, illuminata e pure qualche pretonzolo all’avanguardia. Ma ci vuole un’azione di forza, non si può continuare a subire certi soprusi. Sono sicuro che avremo la meglio. –
- Ciò che tu mi dici mi rende orgoglioso dei miei ideali, in cui non ho mai smesso di credere. Forse è finalmente arrivato il momento della giustizia. Ma una cosa non capisco, perché ti rivolgi a me? Che cosa posso fare io? E poi che voleva dire il professore? –
- Il professor De Carolis mi ha fatto il tuo nome. Ho bisogno di un braccio destro, di un uomo fidato. E chi meglio di te? Di te che ai tempi eri il più studioso, il più intelligente, il più idealista di tutti noi? E se non ricordo male, un tempo conoscevi molto bene il francese… – Antonio seguitava a fissarlo sbalordito. Che cosa gli stesse chiedendo, non gli era per nulla chiaro. – Antonio, tu faresti strada a Parigi. La tua storia parla per te. Saresti accolto da trionfatore tra i deputati del Terzo Stato. C’è bisogno di gente valida, di spiriti liberi, di persone capaci. Ti sto chiedendo di seguirmi a Parigi, di sostenermi nel mio lavoro di deputato, di farmi propaganda, stare a contatto con il popolo…con il tuo lavoro di medico potresti entrare laddove agli uomini politici non è concesso. Suvvia, sappiamo tutti e due quali sono le cause in cui hai sempre creduto, sappiamo benissimo quanto tu disprezzi la nobiltà, i suoi privilegi, la sua ipocrisia…Ora è giunto il momento di far valere i diritti del popolo! Non ti vorrai tirare indietro proprio adesso! -
Antonio si dovette sedere. Gli sembrava di vivere in un sogno. Con che diamine di proposta se n’era uscito Jerome LeBlanc? Tutto si sarebbe aspettato da lui, ma non questo. E poi, suo segretario? Lui? Immischiato in faccende politiche? No, non ci si vedeva affatto: non era quello il suo mondo, avrebbe lottato per la causa del popolo prendendosi cura di chi aveva bisogno, come aveva del resto sempre fatto, ma non gli si poteva chiedere di mettersi a fare politica, intrufolarsi nei circoli, stendere discorsi al suo amico avvocato che in queste cose se la sarebbe cavata sicuramente meglio da solo. Poi a Parigi? Quella città gli era sempre parsa tanto remota da sembrare irraggiungibile: lui, totalmente assorbito dal suo lavoro nelle campagne di quella remota contea del Piemonte, dedito unicamente ai suoi popolani, coinvolto nelle loro difficoltà quotidiane che cercava come di alleviare poteva, non aveva mai nemmeno lontanamente immaginato che in un Paese straniero, in una città lontana come Parigi si stesse muovendo qualcosa di così imponente, si stesse cercando di realizzare quell’ideale di società scevra da privilegi di classe che lui, forse ingenuamente, aveva sempre sognato. Era forse quella l’occasione per prendere parte in prima persona al cambiamento? Per smetterla di indignarsi e di sognare un mondo più giusto durante le visite nei tuguri in cui vivevano i suoi pazienti e passare all’azione diretta? No, non era fattibile, era qualcosa ben al di sopra delle sue facoltà e pure della sua immaginazione.
Dopo aver riflettuto per lunghi minuti, si alzò in piedi e si risolse a rispondere all’amico, che non gli aveva tolto gli occhi di dosso per tutto il tempo. Alzò lo sguardo con risolutezza, quasi con fierezza, come se non sentisse il bisogno di giustificare una decisione che doveva apparire ovvia.
-Non posso venire con te a Parigi. Questo è fuori discussione. I miei pazienti hanno bisogno di me. È il solo modo che conosco per servire il popolo: la politica non fa per me, non so fingere. – Soppesò queste ultime parole cercando di figurarsi la reazione dell’amico. Ma si trattava di quello che aveva sempre pensato, nulla di provocatorio.
Jerome lo fissò per un breve istante stringendo gli occhi, poi scoppiò in una lunga e fragorosa risata che indispose Antonio. Si sarebbe aspettato da lui una risposta mordace, una battuta tagliente di quelle che avrebbe usato per zittire la controparte in tribunale, ma non in uno scoppio di risa che lo relegava sul piano del ridicolo.
-Non sai fingere? – si risolse poi a controbattere Jerome, Antonio lo guardava piccato. – Sai fingere benissimo, invece. Non portare scuse ridicole. È per la tua cara marchesa che non vuoi partire, credi che non l’abbia capito? Ma guardati, Antonio! Completamente succube di una donna. Nobile, per giunta! –
La tensione era ormai palpabile: i due vecchi amici erano ormai sul piede di guerra, ma Jerome, abile com’era, infiacchiva i tentativi di reazione dell’amico attraverso l’arma dell’ironia e della derisione, mirando con precisione infallibile al suo amor proprio, sollecitandone l’orgoglio.
-Non c’entra nulla Anna, adesso. Le mie ragioni sono altre. – rispose Antonio, sforzandosi di mantenere un tono pacato.
- Ma, dimmi un po’ piuttosto...Visto che siete così innamorati da essere ormai inseparabili, perché non vi siete ancora sposati? –
- Ripeto, Anna non ha nulla a che fare con questa mia decisione. –
- Te lo dico io, il perché. – proseguì ignorando deliberatamente le parole dell’amico: - Perché la tua cara Anna non ha alcuna intenzione di degradarsi sposando un uomo che ha rinunciato al suo titolo. Per sposare un’altra poi! – Lo sguardo di Antonio aveva assunto una sfumatura tra l’incollerito e il mortificato, Jerome rincarò: - Si vergogna di te, Antonio. Oh sì, certo, ti ama, ti ama alla follia, ma non è tanto folle da screditarsi a tal punto agli occhi del suo mondo. Preferisce tenerti come amante e salvare la facciata. Del resto lo fanno tutti, no? Solo tu hai avuto la sciagurata idea di buttare tutto all’aria per sposare quella Lucia! Solo tu, idealista illuso che non sei altro! Apri gli occhi, Antonio! Io ti voglio aiutare! -
Il medico restò pietrificato a quelle parole che gli si conficcavano nell’animo come schegge appuntite. Gettò di sotto in su uno sguardo iroso all’amico, si rabbuiò in volto, aggrottò le sopracciglia e rispose:
-Il tuo veleno è del tutto inutile, non mi fa alcun effetto. Non hai ancora capito che se non vengo a Parigi è perché non ho voglia di immischiarmi in affari politici? Perché non me ne è mai importato nulla, perché credo che il mondo non si cambi dagli scranni di un parlamento ma sporcandosi le mani ogni giorno a servizio dei più poveri. In tutto questo, nelle mie personali convinzioni, Anna non c’entra. E ti pregherei di tenere per te il tuo astio nei suoi confronti, astio dovuto al suo titolo, non ad altro. –
Il tono posato ma fermo con cui aveva parlato sorprese per primo lui stesso. Era stato sul punto di scoppiare, di mettere le mani addosso a LeBlanc nel momento in cui si era permesso di fare certe illazioni sul conto di Anna, ma, ancora una volta, il suo buon senso aveva avuto la meglio.
-Très bien.  Tutto chiaro ora. Se è così, tolgo il disturbo e me ne vado a dormire, con permesso…- si congedò Jerome accingendosi ad uscire dalla stanza. Giunto all’altezza della porta a vetri si arrestò: - La mia proposta è sempre valida, ripensaci. Come si dice da voi, la notte porta consiglio. Qualcosa mi dice che non ti farai sfuggire questa occasione. Senza rancore, buonanotte. – concluse e girò sui tacchi.
- Ad ogni modo, se io e Anna non ci siamo ancora sposati è solo perché io non gliel’ho ancora chiesto. La colpa è solo mia. – chiarì Antonio a mezza voce, mentre l’amico si era già allontanato, forse senza nemmeno sentirlo.
Il vento tiepido di fine maggio scuoteva le cime degli alberi del giardino; la luna, sorta ormai da tempo, proiettava con la sua luce argentata ombre scure degli oggetti sulle pareti della stanza, fiocamente illuminata dal candeliere sullo scrittoio che ormai si accingeva a spegnersi; il silenzio era interrotto solamente dai dodici rintocchi del grande pendolo a muro. Antonio se ne stava seduto con la testa tra le mani, gettando di tanto in tanto uno sguardo fuori dalla finestra alla notte che avvolgeva il giardino. A poca distanza, al piano di sopra, chiusa nelle sue stanze, dormiva Anna, nel suo letto sfarzoso, tra lenzuola di seta pregiata e i drappi rifiniti in oro. Erano quelli gli oggetti di cui si circondava, quello lo stile di vita che conduceva fin dall’infanzia. Erano parte di lei il suo orgoglio di classe, la vita a cui era avvezza. Ma lui, cresciuto in quello stesso mondo, da cui si era allontanato in modo burrascoso, abituato poi alla frugalità, alla vita semplice, alla fatica del lavoro, ne era stato in qualche modo intaccato? Vivere con Anna l’aveva davvero cambiato, come gli rinfacciava Jerome? Era forse tornato alle origini, alla vita da nobile di campagna a cui era destinato per nascita e di cui ora godeva i benefici senza peraltro averne più il titolo?
Antonio scosse la testa, si alzò e andò ad osservare le cime dei grandi platani che danzavano nel vento della notte. No, non era cambiato. I suoi principi erano rimasti intonsi, lui stesso si era conservato puro. Non aveva indugiato in una vita di sfarzo e lusso, semplicemente aveva deciso di condividere la sua esistenza con la donna che amava, con tutto quello che quella scelta poteva comportava. Non gli parvero giuste le accuse rivolte da Jerome ad Anna. Lei non aveva colpa in tutto questo. E lui la amava così com’era, non avrebbe mai potuto pensarla diversa, la amava non per il suo titolo, ma per il suo modo d’essere; e, sì, amava anche il suo orgoglio, la sua ritrosia, la superbia che riaffiorava di tanto in tanto. Amava i suoi pregi e i suoi difetti, non il suo nome o la sua posizione sociale. Ma anche questi ultimi aspetti facevano parte di lei, e lui, di Anna, non avrebbe più potuto fare a meno.
Era così assorto in questi pensieri, la fronte appoggiata al vetro freddo della finestra, quando nella penombra della stanza, ormai rischiarata da un solo mozzicone di candela, fece la sua apparizione qualcuno che a tutta prima gli sembrò avere l’apparenza di un fantasma. Veste bianca fino a piedi, capelli bianchi un poco arruffati. Ma la voce chiarì subito l’equivoco: si trattava di Amelia.
-Dottore, finalmente vi ho trovato. Vi mandano a chiamare. Dalla campagna, quell’uomo…- disse tutto d’un fiato, con la voce arrochita di chi è stato svegliato da poco dal sonno.
- Ho capito, è come temevo... Manda qualcuno a sellarmi un cavallo, parto subito. -

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Capitolo 5
*** Apprensione ***


 

 Un cielo plumbeo, che non ne voleva sapere di far spazio alla luce del nuovo giorno, si presentò ad Anna quando si affacciò all’ampio finestrone del corridoio del secondo piano. Il cielo era scuro come i suoi pensieri, quella mattina. Appena alzata, si era immediatamente rivolta ad Amelia per sapere se fosse arrivata della posta da Parigi: erano settimane che non aveva più notizie di Emilia. Inizialmente non aveva dato gran peso alla cosa, benché fosse abitudine della ragazzina inviarle ogni settimana una lettera per tenerla aggiornata sui suoi studi presso il collegio delle suore del Sacro Cuore. Anna aveva pensato che fosse presa dagli esami di fine corso; che fosse impegnata negli esercizi spirituali che si tenevano periodicamente al convento o che la lettera si fosse smarrita. Ma ormai le settimane di silenzio iniziavano ad essere troppe. L’apprensione di Anna cresceva di giorno in giorno. Si era risolta infine a scrivere a suor Margherita per sapere qualcosa in più, ma anche questo tentativo era andato a vuoto: la suora non ne sapeva nulla, non riceveva notizie dalle consorelle da svariati giorni, le aveva tuttavia promesso di darsi da fare per farle avere qualche informazione più precisa. Così da qualche giorno era iniziata per lei l’attesa spasmodica della posta del mattino: la servitù veniva immediatamente sottoposta ad una sorta di interrogatorio, nessuno si poteva sottrarre, non Amelia, incaricata di recapitare le lettere nella stanza della marchesa, non Bianca che era solita ricevere per prima la corrispondenza dalle scuderie, non Angelo e nemmeno Titta. Tutti venivano interpellati nel giro quotidiano di Anna. L’arrivo dell’ospite aveva per un poco distolto la marchesa dal pensiero della figlia, ma non era riuscito del tutto a sopire la sua ansia. Quella mattina in particolare si era svegliata con l’immagine di Emilia davanti agli occhi, non c’era verso di distrarla da quella sua grande preoccupazione. Nemmeno l’assenza di Antonio dalla sala da pranzo l’aveva più di tanto toccata: del resto aveva fatto l’abitudine alla vita frenetica che lui conduceva. Tuttavia ci pensò Jerome LeBlanc a sottolineare la mancanza dell’amico.

-Buongiorno, marchesa. Avete trascorso una notte serena? – chiese galante e proseguì: - Il nostro comune amico Antonio invece non si è visto. Nottata di lavoro, ahimè! Pare non si ancora rientrato…-

- Avvocato, buongiorno a voi. Vi ringrazio per esservi dato il disturbo di informarmi, ma lo sapevo già.- controbatté lei lievemente seccata. Passava nervosamente con lo sguardo da una parte altra della sala, in attesa dell’ingresso di qualcuno della servitù con la corrispondenza fra le mani.

- Un uomo infaticabile! Encomiabile, non c’è che dire…- seguitò LeBlanc con un tono indecifrabile fra l’ironico e l’ammirato, mentre se ne stava comodamente seduto su un divanetto sorseggiando una tazza di cioccolata.  – Veramente squisita! Mi trattate meglio di un pascià, qui! – scherzò poi sollevando la tazza e sorridendo. I suoi occhi verdi e penetranti erano difficili da evitare. Da essi si sprigionava una forza magnetica assai strana, che suscitava curiosità in chiunque ne incrociasse lo sguardo. Acume, sarcasmo e un briciolo di spavalderia: si sarebbe detto lo sguardo di un dongiovanni impenitente o di abile truffatore. Ma LeBlanc non era nulla di tutto ciò: ormai non aveva più tempo da perdere dietro alle donne e truffatore non lo era mai stato, sempre se si escludono da questa categoria coloro che si occupano di politica. Era semmai un irriverente burlone, lo era stato fin dalla gioventù.

- Che avete, marchesa? Qualcosa vi turba? – domandò poi accorgendosi dell’atteggiamento distratto di Anna, la quale non la smetteva di tormentarsi le mani e di vagare con lo sguardo in cerca di qualcosa a cui ancorarsi.

- Non è nulla. Solo, sto aspettando da giorni una lettera da mia figlia...- rispose poi, fuggendo accuratamente gli occhi indagatori dell’avvocato.  Non dovette fare molta fatica perché lo sguardo di Jerome fu istantaneamente catturato dalla figura che in quel momento aveva fatto il suo ingresso nella sala.

- Contessa Ristori, che piacere vedervi! Stamattina sembrate più splendida del solito, se possibile! – esclamò alzandosi di scatto e avvicinandosi a Elisa, che gli porse la mano perché gliela baciasse. Con un inchino riverente la invitò a sedersi con loro e a prendere parte alla conversazione, senza neppure considerare Anna, la quale, alquanto indispettita dalla mancanza di tatto di quell’avvocatuccio di provincia, si alzò in piedi e, adducendo come scusa l’urgenza di doversi recare nelle scuderie per verificare l’arrivo della posta, si avviò con passo svelto verso la porta. Elisa la seguì con lo sguardo, invitandola a trattenersi con loro, mentre Jerome sembrava essersi dimenticato perfino della sua esistenza, assorto com’era nella contemplazione della giovane contessa.

 

Appena raggiunto il corridoio incontrò Bianca, che le veniva incontro reggendo una brocca di acqua.

-Bianca, ci sono novità? – domandò ansiosa, senza nemmeno precisare ciò che era ormai noto a tutti.

– No, marchesa, purtroppo non è ancora arrivato alcun dispaccio da Parigi. – le rispose con un filo di sconforto nella voce, poi, come a disagio di fronte allo sguardo deluso di Anna, abbassò il viso e mormorò – Con permesso…- per incamminarsi a passo rapido verso le scale. La marchesa, in preda allo sconforto, prese a misurare a passo nervoso il corridoio, avanti e indietro, senza requie, senza sapere come impiegare quel tempo dannato che la separava dall’arrivo della lettera della figlia. Dove si era cacciato Antonio? Si domandava, esasperata dalle sue frequenti sparizioni. Di giorno, di notte: non aveva orari, non si negava mai quando qualcuno lo mandava a chiamare, non c’era ragione che potesse trattenerlo. Ma dov’era finito quella mattina, proprio nel momento in cui aveva bisogno di lui? Non c’era mai, ogni volta che lo cercava.

Presa da queste riflessioni, si era sporta nel suo ansioso peregrinare fino alla soglia della sala dal pranzo. Non aveva alcun interesse ad ascoltare la conversazione tra Elisa e LeBlanc, benché provasse un certo fastidio nel vedere le continue galanterie in cui si prodigava l’ospite per ricevere l’attenzione della giovane cognata. Tuttavia lo considerava soltanto un innocente gioco di società, uno di quei giochi tanto frequenti nel mondo che lei frequentava da passare inosservati: non avrebbe mai minimamente dubitato che si potesse spingere oltre. Pertanto non prestava orecchio alle loro chiacchiere, assorta in pensieri che di frivolo avevano ben poco. La sua attenzione venne però risvegliata da queste parole, pronunciate con sussiego da LeBlanc per darsi pregio agli occhi di Elisa:

- Mia cara contessa, voi non avete idea di cosa si sta muovendo a Parigi! Vi farò una confessione: non sono qui in veste di semplice avvocato o emissario dell’università, come ebbi a farvi credere. No, sono qui in veste di deputato, deputato del Terzo Stato agli Stati Generali di Francia! Capite, ora, quel che voglio dire? –

- Capisco soltanto che avete qualcosa da nascondere, avvocato LeBlanc, se non avete dichiarato subito qual era la veste in cui venivate a farci visita. E che cosa sarebbe dunque? – controbatté schietta Elisa, per nulla incantata dalle parole di lui.

- Vi sbagliate, contessa Ristori. Non ho nulla da nascondere, anzi, ho molto di cui andare fiero. Parigi è in subbuglio, presto la situazione potrebbe esplodere e allora…bè allora, ci prenderemo quel che ci spetta di diritto! Del resto sarete d’accordo con me, voi che condividete la mia stessa origine popolare…- continuò Jerome.

All’udire la frase “Parigi è in subbuglio” ad Anna si fermò il cuore. L’angoscia per le sorti di Emilia la faceva sragionare. Si avvicinò quindi ancor più alla grande porta a vetri e si mise ad origliare dietro lo stipite: non osava domandare apertamente a LeBlanc a quale situazione alludesse, voleva prima accertarsi di aver capito bene cosa stesse dicendo.

-Che intendete, avvocato? Sta per scoppiare una guerra? – ebbe invece il coraggio di chiedere Elisa.

- Oh no, contessa, nulla di tutto questo. Non una guerra con armi e cannoni, se questo che intendete. Una guerra di idee, di opinioni, combattuta sui banchi del parlamento e dalle colonne dei giornali. Una guerra a cui io sono orgoglioso di prendere parte! – sorrise infine malizioso.

-Questo vi fa onore. Tuttavia non capisco che cosa siate venuto a cercare qui a Rivombrosa, visti i vostri impegni politici.-

Anna poté trarre un sospiro di sollievo: dunque la vita di Emilia non sarebbe stata messa in pericolo. Il fermento di cui parlava LeBlanc poteva invece giustificare il mancato arrivo della corrispondenza, ma tutto si sarebbe risolto, finché non si trattava di cannonate e schioppettate. Stava per lasciare rincuorata la sua postazione, quando un altro scampolo di conversazione la tenne incollata allo stipite della porta.

-Son venuto a cercare alleanze, mia cara Elisa, come ogni buon politico fa. Non ho la presunzione di fare tutto da me. Cerco appoggi, cerco un braccio destro. E chi meglio del mio vecchio amico Antonio Ceppi, che ha dichiarato per primo la guerra ai privilegi di classe? –

- Volete, dunque, che Antonio vi segua a Parigi? – domandò sorpresa Elisa.

Anna sussultò nuovamente: era questo che stava tramando Jerome LeBlanc? Voleva portarle via Antonio? Coinvolgerlo in questi assurdi disegni di sommosse e ribellioni? Una nuova preoccupazione invase i suoi pensieri: doveva fare di tutto pur di dissuadere Antonio dall’assecondare i piani dell’amico.

-Certamente. Anche se non sarà facile convincerlo, penso proprio che alla fine ci riuscirò. In lui vive uno spirito ribelle mai sopito, nonostante le sue belle maniere e il suo animo mite. Credetemi, lo conosco bene e conosco gli argomenti giusti per farlo cedere…-

Anna si rifiutò di ascoltare oltre. Confusa, spaesata, indispettita e preoccupata, si precipitò a rotta di collo nelle sue stanze per non dover vedere nessuno e studiare con calma la situazione di cui solo in quel momento si era resa conto.

Il pomeriggio fu lungo, piovoso, uggioso. Nessuna novità interruppe lo scorrere lento delle ore: non l’arrivo della tanto sospirata lettera da Parigi, non il ritorno di Antonio dal lavoro, non una visita di Fabrizio o di Elisa. Nulla. Un tempo completamente vuoto che le diede modo di pensare. Di pensare alle parole di quell’ambiguo personaggio che ormai da giorni ospitavano nella tenuta. Avrebbero dovuto cacciarlo, dopo quello che aveva ascoltato. Un sovversivo, un accanito detrattore della classe aristocratica, un politico in cerca di facile fortuna: bastavano queste prerogative? Non l’aveva mai del tutto convinta, fin dal primo momento in cui aveva messo piede a Rivombrosa, ma lo considerava soltanto un presuntuoso avvocato di provincia, un seccatore un po’ invadente, al più, ma innocuo. E invece si trovava lì per scopi che di innocente avevano ben poco! E per di più voleva coinvolgere Antonio, far leva sul suo spirito egalitario e trascinarlo con sé nei tumulti di Parigi. Questo era veramente troppo: fino a quel momento ne aveva tollerato la presenza, nonostante non approvasse certi atteggiamenti troppo disinibiti nei confronti della cognata, ma era giunta l’ora di metterlo alla porta. E soprattutto era giunta l’ora di affrontare l’argomento con Antonio. Perché l’aveva tenuta all’oscuro di tutto? Aveva forse già deciso di andarsene a Parigi e temeva la sua reazione? L’avrebbe affrontato e avrebbe preteso una spiegazione.

In tutto ciò  Anna non si dava pace neppure per un istante. Nervosamente si alzava dallo scrittoio per sporgersi dalla finestra e ritornare poi nella posizione iniziale. Un continuo movimento tanto frenetico quanto dispersivo, ma non poteva fare altrimenti: non riusciva minimamente a concentrarsi, a leggere, ricamare o qualsiasi altra azione che non fosse scervellarsi sulle reali intenzioni di Jerome LeBlanc e, cosa ancor più angosciante, sulla risposta che gli avrebbe dato Antonio.

Finalmente smise di piovere e le nubi, da grigie, presero la coloritura rosea del tramonto. Dalla finestra spalancata riuscì a scorgere in lontananza il calesse di Antonio. Si riassettò in fretta, si sistemò i capelli scarmigliati e, preso un mantello, si affrettò verso il cortile.

-Antonio, dobbiamo parlare. – esclamò perentoria non appena lo vide smontare dal calesse con un agile balzo e afferrare la borsa per avviarsi in casa. Gli si parò dinnanzi. – Adesso. – precisò risoluta.

- Anna, che succede? – chiese con un sorriso, quasi divertito dall’atteggiamento di Anna, di cui non riusciva a intuire la motivazione. – Possiamo anche parlare dentro: sono ancora fradicio di pioggia. Tu che ne dici? – propose in tono affabile. 

- Succede che dobbiamo parlare. Che tu mi devi parlare, anzi. –

- Che io ti devo parlare? E di cosa, di grazia? Che avrei combinato? – domandò oscurandosi in volto e perdendo quel sorriso svagato di poco prima. Le fissò gli occhi negli occhi. Cercava di indagare, di scrutare, di comprendere quale assillo si nascondesse in quegli occhi tanto profondi. Iniziava ad essere preoccupato, notava l’inquietudine di lei, la sua aria di rimprovero e non capiva a che cosa alludesse.

- Andiamo – disse, o meglio, ordinò Anna, accingendosi a salire sul calesse ed offrendo la mano ad Antonio per farsi aiutare. Lui la guardava incredulo.

- Ma che hai intenzione di fare? Ha appena smesso di piovere, potrebbe ricominciare da un momento all’altro, e poi è ormai tardi…Non mi sembra il caso di uscire in calesse…- tentò di obiettare.

- Se non mi vuoi aiutare, vorrà dire che farò da sola. – concluse issandosi a cassetta, sollevando con fatica le pesanti gonne. – E ora partiamo. –

- Ma mi vuoi dire che cos’hai? Che cos’è tutta questa smania di parlarmi? È successo qualcosa durante la mia assenza? – domandò inquieto.

- Antonio, ho bisogno di parlare con te. Da soli. Lontani dalle orecchie indiscrete che si aggirano in questo palazzo. – spiegò infine.

- E va bene. – acconsentì lui – Ma non allontaniamoci troppo: il tempo potrebbe guastarsi e il buio calerà presto.-

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Capitolo 6
*** Distanze ***


Non si dissero una parola. Non avevano deciso una meta, un luogo preciso in cui fermarsi, il cavallo andava avanti da sé, imboccando la strada che si inoltrava nel fitto del bosco. Il tempo era ancora instabile, qualche goccia filtrava dai rami, il vento faceva stormire le fronde e scompigliava loro i capelli. Di tanto in tanto Antonio, tenendo distrattamente le redini del cavallo, si voltava verso Anna, di cui poteva scorgere soltanto il profilo: lei infatti non distoglieva lo sguardo dal sentiero, pur accorgendosi degli occhi di Antonio su di lei. Un’espressione dura, risentita e insieme angosciata le si era dipinta in viso fin dal momento in cui gli era corsa incontro in cortile. Antonio non riusciva a comprendere a che cosa fosse dovuta, non aveva nulla di cui rimproverarsi, tranne forse le sue continue assenze dovute al suo lavoro: ma come poteva Anna considerarle come un torto fatto a lei? Sarebbe stata ingiusta, egoista, ottusa. Non era per quello, lo escludeva categoricamente. Ma allora perché si mostrava così risentita, così corrucciata? Tutt’a un tratto si accorse delle lacrime che le rigavano le guance. Era l’effetto del vento? Dell’aria fredda che le sferzava il viso? No, capì che si trattava di un vero e proprio pianto, trattenuto, soffocato, ma non per questo meno sincero.

-Insomma, Anna, mi vuoi dire che hai? – domandò preoccupato, fermando il cavallo. Ormai si apriva davanti a loro la vista del lago, le cui acque apparivano di un grigio cupo poco rassicurante, riflettendo gli altrettanto poco rassicuranti nuvoloni che si addensavano sopra le loro teste. Alla domanda di Antonio seguì un istante di silenzio, un silenzio carico di tensione, come il cielo scuro. Le si avvicinò cauto, allungò una mano e fece per accarezzarle il mento e voltarle il viso verso di lui, ma Anna lo scacciò con gesto stizzito. Poi si voltò e lo squadrò inquisitoria.

- Hai già accettato, non è così? – gli rinfacciò aspramente, fissandolo intensamente con occhi carichi di rabbia e disperazione.

- Accettato che cosa? Che cosa dovrei avere accettato? Non capisco…non capisco a cosa ti riferisca...Vorrei aiutarti, ma non so che cosa ti faccia stare così male…- ribatté lui, sinceramente costernato. Non si immaginava di certo che Anna avesse appreso della proposta di LeBlanc, proposta che lui non aveva preso nemmeno in considerazione.

- Te ne andrai a Parigi, mi lascerai anche tu, come Emilia. In mezzo a quei tumulti…Dio, perché l’ho lasciata andare, perché? Che ne sarà di lei ora? – sospirò angosciata, fissando lo specchio del lago increspato dal vento. – E tu vuoi andarti a cacciare in qualche guaio, seguendo quello sconsiderato del tuo amico LeBlanc! Cospirare contro la nobiltà! Intrufolarsi nelle rivolte! Che abominio! Che vergogna! È questo quello che vuoi, non è vero? E di me non ti importa nulla! Non ti importa di quanto stia soffrendo per Emilia, non ti importa di quanto soffrirò per te! – il tono acceso della voce, il gesticolare nervoso, l’espressione infuriata e insieme sofferente del volto accentuavano la tensione di quelle parole, scagliate come pietre addosso ad Antonio.

- Scendiamo, facciamo quattro passi sulla battigia. – propose lui, balzando giù dal calesse, porgendo, con uno sguardo quasi supplichevole, la mano ad Anna, in un primo momento renitente. Alla fine si risolse ad accettare l’aiuto di Antonio e a scendere agevolmente dal calesse, sempre tacendo, sempre evitando lo sguardo di lui. Si incamminarono verso la riva del lago, senza guardarsi, senza sfiorarsi, avanzando separati di qualche metro. Fu Antonio a infrangere quella tensione, rispondendo solo in quel momento alle parole di Anna.

- Io non andrò da nessuna parte. Io voglio stare dove stai tu e in nessun altro luogo. È vero, ho ricevuto da Jerome la proposta di seguirlo a Parigi…-

- E perché non me l’hai detto subito? Perché non ne hai parlato con me? – rintuzzò la discussione Anna.

- Anna, ascolta, te ne avrei parlato, ma non c’è stato modo di affrontare il discorso…e poi hai già così tanti pensieri che non volevo angosciarti ulteriormente con cose che non hanno alcuna importanza. – cercò di blandirla lui, con voce carezzevole e sguardo dolcemente compassionevole.

- Ah sì? Non mi dire che l’hai fatto per me…che premura! – ribatté sarcastica e sprezzante. – Ho visto quanto mi sei stato vicino, quanto hai avuto a cuore i miei pensieri! Non ci sei mai, sei sempre chissà dove a soccorrere quei pezzenti! Contano più loro di me! Di me che sto impazzendo senza notizie di mia figlia da settimane!-

- E’ il mio lavoro, Anna, ho giurato di soccorrere chiunque avesse bisogno. – cercò di mantenere un tono conciliante. – E poi, non stare in pensiero per Emilia, vedrai che presto avremo sue notizie…-

- Smettila! A te importa soltanto dei tuoi poveracci, della tua “giustizia”, della tua “uguaglianza”! Che ne vuoi sapere tu di quanto si soffra per un figlio? Certo: Emilia non è tua figlia!- gli rinfacciò violentemente. Quelle parole pesavano come macigni, andavano a toccare un nervo scoperto, lo disarmavano completamente. Era del tutto vero. Non era il padre di Emilia, non aveva figli, non sapeva che cosa si provasse in quella situazione. Eppure voleva bene ad Emilia, eppure anch’egli era in pensiero per lei. Perché, dunque, sottolineare quasi con compiaciuta crudeltà questa scomoda verità? Perché rinfacciargli di non essere lui il padre di Emilia? Sapeva bene Anna quanto tutto questo lo angustiasse e per questo aveva deciso di rimestare con cura il coltello nella piaga.

- Adesso sei ingiusta, Anna. Parli accecata dal rancore, ma sai che le cose non stanno così .- si limitò a ribattere mortificato, ma allo stesso tempo offeso, indignato.

- Non stanno così? I fatti parlano, Antonio! Hai già deciso, lo so, te ne andrai a Parigi. Io per te non conto nulla. Non ha senso continuare questa inutile conversazione che rischia solo di degenerare. Torniamo a Rivombrosa. – e detto questo, gli voltò le spalle e si mise a correre, poco agevolmente per via della veste, verso il calesse.

- No! Non mi puoi trattare in questo modo! Adesso torni indietro e mi stai ad ascoltare! –

Ma Anna pareva non sentirlo nemmeno, seguitava a correre senza mai voltarsi, mentre gocce sempre più fitte di pioggia avevano incominciato a cadere dal cielo plumbeo di quella sera di maggio.

-Anna! Anna! – la chiamava a gran voce aspettandola fermo sulla riva del lago – Torna indietro! –

I lampi iniziavano squarciare il cielo, il vento ululava fra le cime degli alberi, la pioggia cominciava a scrociare. Ma Anna non si fermava, anzi, superato il calesse, sembrava puntare verso il fitto del bosco, come se avesse la malaugurata intenzione di intraprendere a piedi la strada per Rivombrosa. Antonio si mosse per inseguirla. Era inutile aspettare che tornasse sui suoi passi: testarda com’era, avrebbe preferito inzupparsi di pioggia o essere colta da un fulmine nel bosco, piuttosto che ammettere che la sua reazione fosse stata spropositata e impulsiva.

-Aspetta, Anna! Sta diluviando! Fermiamoci qui, a casa mia, finché spiove, non ha senso mettersi in cammino adesso! – doveva urlare per farsi sentire in mezzo allo scroscio assordante.

Anna si voltò: - Non intendo restare qui un minuto di più a sentire le tue belle parole. Troppo tardi, Antonio, è troppo tardi! – la pioggia le inzuppava ormai le vesti che le rendevano perciò assai difficoltoso ogni movimento. Nonostante questo, all’avvicinarsi di Antonio, ormai a soli pochi passi da lei, fece per voltarsi e riprendere la fuga; ma lui stavolta fu più lesto: l’afferrò con forza per la vita e la strinse a sé con un gesto virile e inaspettato che la colse di sorpresa, tanto da spogliarla di tutte le difese, travolta da una forza a lei superiore. I loro volti grondanti di pioggia si vennero a trovare molto vicini.

-Anna, ma che ti prende? Che ti sta succedendo? – riuscì a sussurrarle tra la pioggia, la fronte incollata alla sua, gli occhi che cercavano ansiosamente di catturarne lo sguardo inquieto.

- Sto impazzendo. Ti amo troppo ed è l’amore per te che mi rende folle. – gli rispose sollevando gli occhi, le ciglia bagnate di pioggia.

- Ma io non voglio renderti folle, io voglio renderti felice! – controbatté Antonio con un sorriso, accarezzandole una guancia. Ormai completamente in balia di lui, soggiogata dal suo sguardo celeste, Anna gli gettò le braccia al collo e avvicinò lentamente le labbra alle sue: gli occhi chiusi, ogni fibra del suo corpo tesa verso quel dolce momento di riconciliazione, verso quel fugace sorso di felicità che solo dopo una tempesta si può gustare appieno. Bastò un attimo: un tuono rimbombò nella vallata e li fece sobbalzare. Antonio in quel momento si accorse di quanto stava accadendo intorno a loro, della pioggia, del temporale, di quel trambusto della natura di cui fino a un istante prima sembravano quasi del tutto ignari, persi negli occhi l’uno dell’altra. Distolse, perciò, bruscamente il viso dal suo, le passò convulsamente un braccio intorno alle spalle e la trascinò a forza verso un riparo. Il primo che si offriva loro era quello fornito dalla tettoia dalla casa al lago un tempo abitata da Antonio, che si stagliava fra la pioggia a qualche centinaio di metri di distanza. Ed è lì che rifugiarono, ansanti per la corsa, fradici, turbati. Non fecero nemmeno in tempo a riprender fiato che Anna gettò di scatto le braccia attorno al collo di Antonio, lo strinse a sé con ardore, cercandogli nell’abbraccio le labbra, in un impeto di passione a lungo trattenuta. La risposta di lui fu pronta, ricambiò il bacio, passandole le mani sulla schiena, sciogliendole del tutto i capelli già scompigliati dal vento. Dalla bocca scese al collo, scostandole i boccoli ribelli che si ostinavano a ricoprirlo, mentre Anna a sua volta gli sfilò la giacca madida di pioggia che ricadde con un tonfo sordo e prese ad armeggiare con i bottoni della camicia che si ostinavano a non sgusciare fuori dall’asola, cercando con le labbra la sua pelle sotto la tela.

- Mi sei mancata, Anna. – farfugliò Antonio riprendendo fiato tra un bacio e l’altro, prima di passare le dita tremanti e ansiose tra i lacci del corpetto.

- Anche tu. – gli sussurrò lei all’orecchio, abbandonandosi completamente tra le sue braccia. Dalla grondaia l’acqua si riversava a secchiate e la pioggia spostata dal vento arrivava a lambire anche loro, riparati soltanto da quella stretta tettoia. Ma non parevano accorgersene, allacciati com’erano, in un altrove accessibile a loro soltanto in cui la pioggia, il temporale, il lavoro, Parigi e tutto il resto non erano che dettagli sfocati sullo sfondo. Accecati dalla passione, assordati dallo scrosciare della pioggia, storditi dai baci, incapaci di percepire quanto avveniva attorno a loro, si ritrovarono avvinti in un vortice di emozioni che da troppo tempo non si concedevano: avvertivano in quei momenti quanto poco contassero tutte quelle inezie quotidiane che li avevano di giorno in giorno fatti allontanare, quanto poco importassero le opinioni divergenti, i diversi stili di vita e punti di vista e quanto invece contasse e fosse solido l’amore che li univa, il comune sentire, l’affinità profonda e reciproca di cui entrambi non avrebbero mai potuto fare a meno.

- Ti chiedo perdono, ho pensato soltanto a me stesso. – le confessò Antonio all’orecchio, senza riuscire a  staccarsi da lei, mentre sotto le sue mani scivolava lentamente l’elegante veste, che opponeva una strenua resistenza.

- Antonio, promettimi che non partirai. – disse Anna, interrompendo quella sequenza travolgente di baci e  prendendogli il volto tra le mani. Il suo sguardo si fece serio, altero e sostenuto, ma presto i suoi occhi si tradirono mostrandosi imploranti e disarmati.

- Che ti viene in mente? No, non partirò. Non voglio lasciarti. Per nulla al mondo. – rispose Antonio stringendola, se possibile, ancor più a sé. Non aveva mai considerato l’ipotesi di partire al seguito dell’amico Jerome, ma mai come in quel momento quell’idea gli era parsa tanto assurda e infondata: rinunciare ad Anna in nome dell’uguaglianza delle classi, in nome di astratti principi di giustizia sociale? Era già caduto in quell’errore e se n’era dovuto pentire. Anna non aveva rivali, avrebbe vinto su tutto ormai.

In preda alla passione di quegli istanti, completamente avulso da ogni altro pensiero che non fosse quello di lei, Antonio si mise ad armeggiare col chiavistello della porta della sua vecchia casa, nella speranza di riuscire a forzarlo per entrare. Non lasciava però la presa, con un braccio lambiva la vita di Anna, la testa appoggiata nell’incavo delle sue spalle, l’altro braccio dietro la schiena a trafficare con la porta. Anna sembrava assecondare l’urgenza del desiderio e invitarlo a non fermarsi. Ma quando la porta finalmente s’aprì dietro di loro, si irrigidì d’uno colpo, si staccò da Antonio, si riassettò la veste che ormai le scopriva tutte le spalle, fermandosi per qualche istante a fissarlo turbata, incredula, irresoluta. La pioggia che aveva fatto da sottofondo alle loro effusioni aveva smesso di scrosciare.

- Andiamo, Antonio, ha smesso di piovere. Possiamo tornare. – riuscì a pronunciare sommessamente.

Antonio rimase di gesso. Le braccia lungo i fianchi, lo sguardo fisso, la bocca semiaperta. Che diavolo le era preso? Che cosa aveva detto o fatto di sbagliato quella volta? Perché lo respingeva in quel modo? Non riuscì a controbattere alcunché, solo la fissò frastornato per qualche istante, mentre lei con passo incerto e voltandosi più volte indietro, aveva già raggiunto il calesse. Il cielo si sgombrava, il rosa del tramonto si stagliava più intenso lungo la linea dell’orizzonte, colorando il lago. La natura sembrava essersi riappacificata, ma nel cuore di Antonio restava un tumulto inestricabile di emozioni.

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Capitolo 7
*** Doveri e piaceri dell'ospitalità ***


Il fuoco crepitava nel grande camino della sala dei ricevimenti in quella serata particolarmente fredda per il mese di maggio. I temporali di qualche ora prima avevano portato con sé un’aria gelida, umida, da cui ci si riparava alla meglio al calore del fuoco. Antonio, al ritorno da quella strana passeggiata in calesse con Anna, indossato un abito asciutto, senza nemmeno aver cenato, fece una brusca irruzione nella stanza, dove Fabrizio s’intratteneva piacevolmente con l’ospite LeBlanc proseguendo amenamente la conversazione iniziata durante la cena. Con l’aria rilassata di chi si sta godendo un momento di svago dopo gli impegni della giornata, Fabrizio salutò Antonio e lo invitò con un gesto a sedersi in loro compagnia per gustarsi un sorso di buon vino davanti al fuoco.

-Buonasera, Antonio. Non vi abbiamo visto rientrare per cena. Dove siete stati tu ed Anna? – domandò Fabrizio placido, quasi più per cortesia che non per reale preoccupazione.

- Non ti preoccupare, nulla di che. Ci siamo concessi una passeggiata in calesse. Tutto qui. – tagliò corto il medico, leggermente a disagio, evitando lo sguardo del suo interlocutore e posando invece gli occhi su LeBlanc, il quale sorrideva con un’aria di superiorità quasi impenetrabile.

- In cucina sicuramente vi avranno tenuto in caldo qualcosa. Manderò a chiamare Bianca per servirvi la cena.- si offrì Fabrizio.

- No, Fabrizio, non ce n’e bisogno. Va bene così. –

- Come “va bene così”? E Anna dov’è adesso? Non si sente bene? – il conte incominciava ad impensierirsi di fronte allo strano atteggiamento, elusivo e svagato, di Antonio.

- Anna è nelle sue stanze. Sta benissimo, non ti preoccupare. Son certo che avrà già provveduto lei stessa a farsi servire la cena. – lo rassicurò, senza distogliere gli occhi da Jerome, che si mesceva compiaciuto del vino nel calice, lisciandosi con studiata noncuranza i biondi basettoni.

- Se è così, perché non ti siedi con noi a bere del buon vino e a discorrere un po’ di quel che accade in città? Mi stava giusto dicendo Jerome che è passato da Torino la scorsa settimana e…-

- Scusa, Fabrizio, ma non mi sembra il caso: sono molto stanco. Piuttosto vorrei scambiare due parole con Jerome, se non vi dispiace. – si scansò Antonio.

Gli occhi verdi di Jerome brillarono di una strana luce di vittoria, quando li sollevò dal calice per puntarli trionfanti in quelli dell’amico. Si era forse deciso a dargli ascolto?  A seguirlo a Parigi?

-Jerome, perdonami, queste parole potrebbero suonare come inopportune, meschine e forse anche villane. Ma credo che sia giunto per te il momento di lasciare Rivombrosa. Quello che ci dovevamo dire, ce lo siamo detti, ormai son quasi due settimane che sei qui. Non vedo il motivo di prolungare la tua permanenza. – disse tutto d’un fiato Antonio, senza imbarazzo, ma con un leggero senso di rimorso.

Scacciare un amico non era da lui, mai si sarebbe permesso di tenergli un simile discorso, ma la situazione che si era venuta a creare era certamente spiacevole: era convinto che dietro all’atteggiamento scontroso ed angosciato di Anna si nascondesse il disagio dovuto alla presenza di Jerome. E, posto di fronte alla scelta se dare il benservito a un amico o angustiare la donna che amava, non ebbe dubbi su quale fosse la cosa giusta da fare. Jerome se ne sarebbe fatto una ragione, dopotutto si era presentato senza nemmeno essere stato invitato, non avrebbe potuto pretendere da loro una migliore ospitalità.

Jerome non rispose, fissò per un istante Antonio con un’aria stupefatta e meravigliata più che risentita. Ma l’imbarazzo del momento venne spezzato da Fabrizio che con la sua voce stentorea e gioviale ribatté:

-Ma come, Antonio, ho appena invitato Jerome a trattenersi con noi almeno fino alla prossima domenica, quando terremo un ballo per la festa di compleanno di Elisa. Non te ne ricordi? E poi, suvvia, la presenza di Jerome allieta le mie serate, non c’è gusto a discutere con te delle cose del mondo: sei sempre impegnato con i tuoi pazienti o a correre dietro alle bizze di mia sorella! –

Il tono conciliante e divertito di Fabrizio non ammetteva repliche, in fondo era lui il padrone di casa. Sul volto di Jerome si dipinse un compiaciuto sorriso di vittoria. Antonio osò replicare:

-Apprezzo molto la tua ospitalità nei confronti di un vecchio amico, ma avresti potuto consultare anche me e Anna…-

- Anna?! E per quale motivo pensi che avrei dovuto discuterne con mia sorella? Di certo non avrà nulla in contrario, anzi, non vedo per quale motivo tu ti ponga tutte queste remore. Elisa ne sarà contenta, voglio che la sua festa sia un evento speciale, che tutti possano ricordare e Jerome si è già detto entusiasta. –

- Non ti preoccupare, Antonio. Sarà solo per qualche giorno, poi toglierò il disturbo. Del resto, gli impegni politici mi richiamano al più presto a Parigi, manco già da troppo tempo. - si intromise conciliate Jerome.

Di fronte a tali argomenti sarebbe stato vano opporre resistenza, avrebbe significato schierarsi apertamente contro un amico. Antonio cautamente lasciò cadere la questione, salutò con evidente imbarazzo i due e si allontanò dalla stanza.

-Che gli prende? – domandò Fabrizio, insospettito da quell’insolito modo di fare.

- Mio caro Fabrizio, voi sottovalutate il potere delle donne! – ridacchiò per tutta risposta Jerome, avvicinando il suo calice a quello del conte per un brindisi.

Antonio, rabbuiato in volto, sdegnato per l’ingerenza di Fabrizio nei rapporti tra lui e l’amico, si incamminò a passo nervoso lungo gli oscuri corridoi del palazzo per raggiungere le sue stanze, tra le mani un solo mozzicone di candela a fare luce, quasi volesse nascondersi per lo sdegno e l’onta subita. Arrivò sulla soglia della stanza di Anna e si fermò bruscamente, come per un riflesso inconscio. Restò in piedi davanti alla porta per qualche istante, la mano tremante che faceva ondeggiare la luce della candela tutto attorno. Allungò l’altro braccio verso la maniglia. Bussare. Sarebbe stato certo più opportuno, più cortese che non piombarle nella stanza. Ma era proprio quello che voleva fare, sorprenderla, quasi spaventarla, ma solo per farle capire che si meritava una spiegazione, che lui non avrebbe mai rinunciato a lei, tantomeno per seguire le balzane idee del suo amico di gioventù. Che l’amava, perdio, e se avesse voluto un’ulteriore prova del suo amore, avrebbe fatto cacciare Jerome all’istante, nonostante l’invito di Fabrizio. Non gli importava nulla di Parigi, delle rivolte e di tutto il resto: il suo unico desiderio era di poterla di nuovo stringere fra le braccia, come quella sera, avvertendone la piena fiducia, l’amore che provava per lui. Ma temeva che non gli avrebbe aperto, che l’avrebbe scacciato un’altra volta. E allora cercò di raccogliere tutto il coraggio che aveva in corpo. Ma non servì a nulla. Con un gesto meccanico lasciò scivolare il braccio lungo il fianco, e umiliato, mortificato, attanagliato da un senso di esclusione, da quel tanto temuto rifiuto, riprese il cammino lungo il corridoio, la testa bassa, lo sguardo a terra.

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Capitolo 8
*** Fiera delle vanità ***


Centinaia e centinaia di candele illuminavano a giorno l’enorme salone da ballo della tenuta, dove aveva già preso posto l’orchestra da camera, venuta appositamente da Moncalieri. Il salone era stato addobbato con notevole sfarzo fin dal giorno precedente. Drappi, gale, trine, festoni dalle tinte azzurre, oro e rosse, che riprendevano i colori dello stemma della famiglia Ristori, campeggiavano lungo i corridoi e nelle sale del palazzo. Un lusso particolare era riservato alla sala da ballo dove tutto era stato predisposto da giorni affinché rifulgesse nel suo massimo splendore per quell’occasione. Le candele sfavillavano, facendo rifulgere gli ori, gli specchi, le ampie vetrate dell’enorme sala. Fin dal tardo pomeriggio frotte di ospiti si erano riversati nelle sale del palazzo dei Ristori, si trattava per lo più di vecchi amici di Fabrizio e Anna, nobili di provincia, proprietari di terreni confinanti al loro, ma non mancavano anche gli amici di città, che da tanto tempo non mettevano più piede a Rivombrosa, almeno da quando Alvise aveva iniziato a spadroneggiare indegnamente. Non soltanto nobili amici erano stati invitati per festeggiare il compleanno di Elisa: più tardi, verso sera, terminati i lavori nei campi, avevano timidamente iniziato a comparire sulla soglia anche i popolani, gli amici di Elisa, la gente del borgo tanto devota al conte Ristori, quanto amica della sua consorte. La servitù non aveva un attimo di respiro, impegnata com’era a rifornire il banchetto lì allestito di portate prelibate servite sui vassoi d’argento del servizio della contessa Agnese. Tutti i domestici erano in subbuglio per dar lustro alla casata Ristori ed onorarla al meglio: per tutti loro era un punto d’onore la buona riuscita della festa, poiché brillavano della luce riflessa dei Ristori e pertanto desideravano che la notizia dello sfarzo di questo evento si spargesse il più lontano possibile.

Anna aveva nervosamente seguito tutte le fasi dell’allestimento fin dal giorno precedente. Un incessante andirivieni di servi ai suoi ordini l’aveva per qualche ora distolta dai suoi pensieri, l’aveva svegliata da quel torpore angoscioso che l’attanagliava. E quella mattina, mentre impartiva a Bianca ordini sull’argenteria di famiglia da rispolverare e rimproverava Giannina per essersi attardata nell’allestire le decorazioni, giunse persino la tanto attesa e sospirata lettera di Emilia. Giusto poche righe per rassicurare la madre che tutto andava per il meglio e spiegarle per sommi capi quello che stava accadendo a Parigi. Una lettera molto scarna, asciutta, quasi fredda, dissimile dalle solite lettere di Emilia piene di entusiasmo e di affetto. Ma ad Anna bastò riconoscere la grafia elegante e ordinata della figlia per sentirsi sollevata. Non chiedeva altro, solo sapere che lei stesse bene. Questo le aveva permesso di dedicarsi ai preparativi con maggiore serenità, tuttavia non era del tutto sgombra la sua mente, un pensiero la incupiva: il pensiero del mancato chiarimento con Antonio. Nei giorni successivi a quella strana sera non erano certo mancate le occasioni per parlarsi, per spiegarsi, ma sembrava proprio che entrambi avessero fatto accuratamente in modo di scansarle. Evitavano ogni discorso che andasse oltre la spicciola conversazione quotidiana, le interazioni più banali riguardo alle faccende domestiche. Non sapeva neppure lei il perché, ma viveva con malessere e disagio ogni incontro fortuito con Antonio nei corridoi, nel giardino della tenuta, nelle stanze del palazzo: per non parlare dei pasti, durante i quali tuttavia suo fratello e Jerome erano abili a sdrammatizzare e rasserenare con le loro battute il clima della conversazione. Eppure ne soffriva, soffriva tantissimo il fatto di non riuscire a parlare liberamente ad Antonio come al solito, di non riuscire ad abbracciarlo quando la sera rincasava dopo una giornata di lavoro, di non riuscire quasi più a guardarlo negli occhi. Che le era preso quella sera? Perché l’aveva respinto in quel modo? Perché gli aveva inferto quell’umiliazione? E soprattutto perché continuava a schivarlo? Aveva una vaga percezione riguardo a tutto questo, un misto di senso di colpa per come si era comportata, sfiducia nei suoi confronti, angoscia e paura di perderlo a causa dei suoi ideali, delle scelte di vita che avrebbero potuto portarglielo via. Non sapeva fare a meno di lui e tuttavia lo fuggiva, avrebbe fatto di tutto per sentirne la voce pronunciare il suo nome eppure evitava persino di parlargli, avrebbe desiderato con tutta se stessa perdersi nei suoi occhi, ma non riusciva più nemmeno a guardarlo in faccia. Si trascinava da giorni in questo stato d’animo e nel frattempo Antonio si era fatto sempre più distante, sempre più assente, in giro per la contea al capezzale dei suoi pazienti, impegnato anima e corpo nella sua missione di medico. Così non si poteva andare avanti, si imponeva una risoluzione, un confronto, magari anche drammatico, ma che ponesse fine allo stato di inquietudine in cui entrambi vivevano. Prese una decisione: quella sera, approfittando di un momento di pausa tra le danze e i festeggiamenti, l’avrebbe preso in disparte e l’avrebbe affrontato. Si sarebbe scusata per il suo comportamento sfuggente e ambiguo, gli avrebbe chiesto perdono per tutte le accuse, in gran parte infondate, che gli aveva rivolto, l’avrebbe pregato una volta ancora di non partire, perché lei lo amava, lo amava con tutta se stessa e non avrebbe potuto vivere senza di lui, sapendolo lontano ed esposto ai pericoli in mezzo alle sommosse. Lo amava, Dio quanto lo amava, ma, non sapeva nemmeno lei perché, le era mancato in quei giorni il coraggio di dimostrarglielo, di fargli capire che tra loro non era cambiato nulla e nulla sarebbe mai cambiato. L’avrebbe amato comunque, anche se fosse partito, anche se questo le avrebbe straziato il cuore.

Era assorta in questi struggenti pensieri quando un fragore la riscosse. – Bianca, per l’amor del Cielo! Il vassoio d’argento di mia madre! Che diavolo hai fatto? Sciagurata che non sei altro! Guarda, guarda che disastro! Dico io: chi vi ha insegnato a lavorare in questo modo penoso? – inveì contro la povera serva che non sapeva più come scusarsi. In quel mentre sopraggiunse Fabrizio, concitato ma allegro allo stesso tempo.

-Mia cara sorella! È tutto pronto? Ormai gli invitati stanno arrivando…Non riuscirò ad intrattenerli ancora a lungo da solo: ho bisogno del tuo aiuto. –

- Del mio aiuto? Oh, Fabrizio! Chiedi piuttosto ad Elisa, io devo ancora cambiarmi d’abito, provare l’acconciatura. Non mi posso presentare in queste condizioni di fronte ai nostri ospiti! –

- Suvvia, Anna! Sbrigati! Ormai è ora di aprire i festeggiamenti! – la sollecitò Fabrizio.

- E’ già così tardi? – si riscosse

- Direi di sì. È quasi ora di servire la cena, il sole sta per tramontare e quasi tutti gli amici sono ormai qui. –

- Non me ne sono nemmeno accorta, ero così presa dai preparativi che… - si interruppe: un pensiero si insinuò nella sua mente, facendole perdere la lucidità per qualche istante. – Ma Antonio? Dov’è? È già rincasato? –

- A dir il vero io non l’ho ancora visto rientrare dal suo giro di visite. Ma d’altronde è da un bel po’ che sono impegnato a fare gli onori di casa Ristori, da solo…- alluse scherzosamente alle mancanze della sorella nelle vesti di padrona di casa, ma Anna, in pensiero, non lo seguì.

- Come? Non è ancora rientrato? – domandò allarmata.

- Non agitarti, Anna. Sarà stato trattenuto da qualche paziente, arriverà, non temere. Intanto va’ a prepararti, non resisterò ancora a lungo in balìa degli ospiti! -.

 

Un vestito di seta azzurra, elegante, di ottimo taglio, senza tuttavia essere troppo appariscente, classico e raffinato, che metteva in risalto i suoi occhi chiari. Così fece la sua apparizione nella sala adornata Elisa, la festeggiata, leggermente intimorita dalla presenza di tutti quegli occhi su di lei, ma al contempo raggiante e sorridente. La nobiltà lì radunata si era già abbastanza prodigata in chiacchiere e commenti taglienti sulla serva diventata contessa e ora pareva aver perso interesse nei confronti di questa disdicevole quanto intrigante vicenda, inoltre erano stati invitati dal caro Fabrizio, non potevano certo fargli un tale torto criticando o sbeffeggiando apertamente la sua giovane sposa. Le nobildonne si limitarono dunque a qualche risatina nascosta, qualche sorrisetto ammiccante e quelle più audaci espressero alle vicine aperti apprezzamenti, che nel loro codice ipocrita e falso, equivalevano a mordaci critiche. I loro cavalieri, invece, non nascosero la loro ammirazione verso la giovane e non trattennero battute di invidia nei confronti del conte Ristori. L’ingresso della festeggiata trovò certamente una più calorosa accoglienza presso la gente del popolo, chi le si avvicinò per stringerle la mano, chi per schioccarle un bacio, chi per lodarla per la sua grazia e la sua bellezza.

La musica, che si era arrestata per qualche istante per dar modo a Elisa di fare il suo ingresso trionfale, riprese squillante e briosa, spandendosi nel vasto salone sfavillante. Le ampie vetrate riverberavano le luci delle mille candele accese e gli ampi tendaggi ondeggiavano al tiepido venticello di quella sera di maggio. Tutto intorno un via vai di camerieri e inservienti che si prodigavano a servire da bere nel servizio pregiato di calici fatto arrivare dalla Borgogna dagli antenati dei conti Ristori; un frusciare di vesti pregiate; un chiacchiericcio allegro e scanzonato. Al ritmo di un vivace minuetto, alcuni tra i popolani accennarono un ballo, ma vennero prontamente freddati da Elisa con lo sguardo.

Capannelli di nobili discutevano tra loro di politica, polemizzando con le nuove e spregiudicate idee che giungevano da oltralpe, a voce alta, talvolta con toni accesi. Inaccettabile, ripetevano, inaccettabile che la nobiltà rinunci ai suoi privilegi per far contenti quattro intellettuali annoiati e perdigiorno che propugnano le loro idee bislacche brandendo tazzine da caffè nei locali alla moda di Parigi. In mezzo a loro, scantonando quando la discussione si infervorava, gestendo la situazione con abilità e grande diplomazia, Jerome LeBlanc origliava i discorsi dei nobili, glissando su possibili domande indiscrete sul suo conto, senza rivelare nulla della sua posizione a Parigi né del motivo della sua permanenza a Rivombrosa. Come sempre a suo agio in ogni situazione, giostrava tra gli invitati, sperticandosi a volte in elogi troppo vistosi per non sembrare ipocriti.

Le dame, invece, cinguettavano compiaciute dei loro abiti sfarzosi, commentavano sibilline il contegno della contessa Ristori e, d’altro canto, malignavano sulla vedovanza della marchesa Radicati: le più audaci e ben informate scommettevano che si sarebbe risposata entro l’anno con quello strano personaggio del medico Antonio Ceppi; altre più maliziosamente sostenevano al contrario che gli avrebbe riservato la parte di amante per non compromettere la famiglia Ristori con un ennesimo scandalo, considerato il poco ortodosso matrimonio del fratello Fabrizio. Le chiacchiere si spensero all’istante quando la diretta interessata fece il suo ingresso, leggermente tardivo, nel salone. Tra saluti, inchini e baciamano, avanzava composta e austera tra la folla riunita nella sala da ballo, facendo gli onori di casa da buona padrona, ma con la dovuta delicatezza ovvero senza offuscare la presenza della giovane cognata. Impeccabilmente avvolta in una veste rossa orlata d’oro, i boccoli castani che le ricadevano morbidi sulle spalle nude, gli ori che rifulgevano alla luce delle candele della sala, lo sguardo compito, si avvicinò con grazia disinvolta ad un crocchio di nobildonne particolarmente ciarliere, in gioventù assidue frequentatrici dei ricevimenti della famiglia Ristori e tutte più o meno infatuate dell’aitante Fabrizio.

-Cara, cara, carissima Anna! – esclamò in tono frivolo all’istante una bionda contessa in abito blu accostandosi all’amica.

-Matilde, che piacere rivederti dopo così tanto tempo. – rispose Anna, accennando un sorriso di circostanza che però non valse ad illuminarle gli occhi scuri, concentrati a scrutare nervosamente la sala, come in cerca di qualcuno.

- Che splendida festa! Vi siete davvero prodigati tu e Fabrizio: sembra di essere ritornati ai tempi del conte Giacomo e della contessa Agnese! – subentrò un’altra dama, ingioiellata in modo più che vistoso, sfoggiando un sorriso smagliante e facendo tintinnare i suoi pendagli.

- Oh, suvvia, mia cara Ludovica, adesso stai esagerando. Abbiamo soltanto fatto del nostro meglio per onorare la mia cara cognata…- all’accenno alla serva diventata contessa le signore si scambiarono un fugace sguardo di intesa, accompagnato ad un sorrisetto di biasimo che non passò certo inosservato da parte di Anna. Tuttavia proseguì fingendo di nulla: - Ma, sapete, ormai quei tempi sono passati, ora ci sono nuove incombenze, altre esigenze da tenere in considerazione, è finito il tempo delle feste!-

- Perdonami, tesoro, non era mia intenzione quella di toccare un argomento così delicato: sappiamo bene quel che è successo al vostro povero marito Alvise…Quei maledetti miserabili! Ma tu pensa quali tempi si preparano! Non possiamo più nemmeno vivere tranquilli nelle nostre dimore che qualche pazzo si permette di aizzare i nostri servi contro di noi, contro quelli che danno loro il pane! In Francia poi si vocifera che dei pazzi sanguinari vogliano mozzare la testa a tutta l’aristocrazia. Sarà mai possibile? – si scusò Ludovica, lanciandosi in una filippica contro la corruzione dei tempi, requisitoria che aveva sentito più e più volte pronunciare da suo marito, il marchese di Cellamonte, durante le loro frequenti sortite in società.

- Ludovica, succederà davvero se concediamo a quei petulanti tutto quel che ci chiedono…Ci sono alcuni di noi, mia cara, che amoreggiano con la plebe, te lo dico io! Sono loro la nostra rovina! – si intromise nel discorso la bionda Matilde, accorgendosi solo troppo tardi della gaffe appena commessa. – Amoreggiano…bè volevo dire se la intendono…in senso figurato, ovviamente! – si corresse, quando ormai tutte avevano colto un poco garbato e peraltro non voluto riferimento al matrimonio del conte Ristori con la sua serva. Anna, però, interpretò la frase a suo modo e abbassò lo sguardo costernata: nonostante fossero passati anni, lo smacco che Antonio le aveva procurato sposando quella serva bruciava ancora; ancor di più al cospetto di quelle stesse dame che al tempo si erano prodigate in fiumi di chiacchiere e pettegolezzi malevoli sull’argomento.

- Vogliate scusarmi, signore, ma la mia veste di padrona di casa mi impone di lasciarvi per andare a salutare gli altri ospiti…- si congedò nel modo più educato ma allo stesso tempo sbrigativo possibile.

Quella serata aveva preso una brutta piega: Antonio non era ancora comparso. Dove poteva mai essersi cacciato? E poi i convenevoli, i pettegolezzi, le maldicenze, i sorrisetti ironici: non era più abituata a condurre una vita di società.  Tutto questo le pesava terribilmente, la soffocava dentro le rigide regole dell’etichetta che non si sarebbe mai concessa di trasgredire, nemmeno per un istante. Eppure, quanto volentieri avrebbe fatto a meno di questo bailamme, di questa girandola di strette di mano, baci, saluti, vesti pregiate, parrucche, ori…Quanto avrebbe preferito godersi la pace della sera di maggio passeggiando nei giardini con Antonio, loro due soli, lontani dal chiasso e dall’ostilità del mondo! Stava forse diventando come lui? Stava incominciando anche lei ad odiare i suoi pari? O forse l’aveva sempre odiata, questa vita di società, ma se l’era imposta, come tante altre cose, per dovere di etichetta, per non venir meno alle regole della famiglia? Forse era proprio così, lei era diversa dalle altre dame, lei non si perdeva in certi discorsi frivoli, lei avrebbe desiderato solo la serenità domestica con il suo Antonio. Persa in questi pensieri, lo sguardo fisso a terra e seguire i passi nervosi, finì per impattare contro la sagoma di un uomo.

-Marchesa! Non vi sentite bene? – si sentì domandare all’istante, prima ancora di aver avuto il tempo di sollevare gli occhi e posarli sul volto tra il fintamente angosciato e il leggermente divertito di Jerome, il quale fu pronto ad offrirle il braccio come sostegno.

- Oh, perdonatemi, avvocato! Non so che mi è preso…forse…forse non vi avevo visto! – si giustificò.

- Non mi avete visto? Un po’ difficile, credo: sono grande e grosso! – ridacchiò Jerome per smorzare la tensione – Ma forse è qualcun altro che non avete visto…- alluse infine sfoggiando un sorriso dei suoi. Anna in evidente imbarazzo si guardò attorno spaesata per sfuggire al suo sguardo indagatore. LeBlanc riprese con disinvoltura: - A proposito, Antonio non è ancora apparso o mi sbaglio?- e la squadrò impietosamente.

- Non vi sbagliate. Non è ancora arrivato. – rispose lei a mezza voce, nascondendo il disagio che tutta quella conversazione le procurava.

- Arriverà a breve, ne sono sicuro! – tagliò corto infine Jerome, attratto da ben altre prospettive: in quel momento Elisa si stava avvicinando ai due, sorridente e leggiadra come non mai.

- Contessa Ristori, siete semplicemente splendida! – la elogiò, baciandole garbatamente la mano che gli aveva posto.

- Suvvia, avvocato, così mi fate arrossire…- si schermì lei, in tono però compiaciuto, quasi civettuolo. Anna le lanciò un’occhiata rovente. Era un comportamento degno di una Ristori quello? Lei aveva una concezione fin troppo rigida e severa della rispettabilità e del decoro, tuttavia in quel momento non si era certo sbagliata su quello che stava accadendo proprio davanti ai suoi occhi: Jerome LeBlanc, l’avvocato di provincia, l’ospite poco gradito, stava palesemente corteggiando la moglie di suo fratello, davanti a tutta la nobiltà della regione lì riunita. Che scandalo per i Ristori! Un’ennesima faccenda che avrebbe fornito materiale di chiacchiere per i mesi a venire alle nobildonne annoiate. Anna ne soffriva molto, si doleva ogni volta che il nome della sua famiglia finiva sulla bocca di tutti, ogni volta che veniva calpestato distrattamente, oltraggiato con leggerezza nei salotti mondani: lei, così pudica, non poteva tollerarlo, sarebbe stata come un’offesa rivolta a lei stessa. Elisa, tuttavia, forse perché giovane e ingenua, forse perché non nelle sue vene non scorreva sangue della famiglia Ristori, pareva non accorgersi o quantomeno non scandalizzarsi delle sottili avances di LeBlanc, anzi ne pareva quasi lusingata.

- Me ne compiaccio. Un tocco di rosso non potrebbe che rendere ancora più graziose le vostre gote. – controbatté lui, fissando i suoi occhi verdi ammiccanti in quelli di lei. Elisa non rispose, si limitò a un sorrisetto imbarazzato e stornò gli occhi da lui. Allora Jerome, accorgendosi del fatto che la preda stesse per fuggirli, rincarò: - Quindi vorrete farmi l’onore di concedermi un ballo? – le chiese con voce suadente.

Proprio in quel momento Fabrizio batté le mani per attirare l’attenzione degli invitati ed annunciare l’apertura delle danze. – In onore della mia cara Elisa. – specificò e si prodigò in una dichiarazione d’amore nei confronti della giovane, tanto appassionata e sincera da zittire tutti i commenti malevoli che si erano aggirati per la sala fino a quel momento. Nessuno si sarebbe più azzardato a fare allusioni pesanti sul conto della servetta che era riuscita nell’intento di sposare il padrone. Nessuno, almeno per quella sera.

-Perdonatemi, ora non è possibile, ma non mancherà certo occasione nel corso della serata. Vogliate scusarmi…- Elisa si congedò da Anna e Jerome per avviarsi con passo leggero e brioso verso Fabrizio che l’attendeva al centro del salone.

- Me lo concederete voi, quest’onore? – si rivolse allora LeBlanc ad Anna, mettendo in mostra i suoi denti perfetti con un largo sorriso. Anna venne colta di sorpresa e non poté rifiutare. L’etichetta così imponeva: rifiutare senza motivo un ballo non era certo cortese, tanto più che in quel momento si trovava senza cavaliere. Accettò, pertanto, riluttante e, in men che non si dica, si ritrovò tra le braccia di Jerome. Una presa salda attorno alla sua vita, la mano destra che le stringeva vigorosamente la sua, trascinandola nel ritmo della musica. Un abile ballerino, non c’è che dire, pensava nel vortice della danza.

La stanza sfavillava di luci e di colori e la musica ritmata di quel minuetto contagiava d’allegria tutti i presenti, impegnati chi nelle danze, chi nel gustare del vino, chi nelle chiacchiere mondane, chi nel servire ai signori cibi delicati e liquori pregiati a volontà. Ma, in tutto quel trambusto, all’occhio sempre vigile di Anna non poté sfuggire l’ingresso di una persona. Una persona che per lei contava più di tutte quelle lì riunite messe insieme. Anche LeBlanc se ne accorse prontamente, notando in Anna un subitaneo irrigidimento.

-Marchesa, che fate? Questo è un minuetto, battuto in tre: state perdendo il tempo! – la rimproverò bonariamente Jerome, seguendo il suo sguardo dall’altra parte della sala.

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Capitolo 9
*** Insofferenza ***


Anna restò sulla terrazza ancora per un po’ a smaltire l’irritazione e il risentimento. Non si sarebbe mai presentata nel salone in quelle condizioni, aveva bisogno di un momento per riacquistare la calma e sfoggiare il migliore, o almeno il più plausibile, dei sorrisi ai vari conti, baroni, duchesse e marchese, popolani e contadine invitati da suo fratello. Passato un lasso di tempo indefinibile, ravviati i capelli e aggiustatasi il vestito, prese il coraggio e ritornò la solita Anna Ristori: impassibile, formale, cortese, pronta ad intrattenere con nonchalance gli ospiti e a fare onore al nome della sua famiglia. Rientrò nella luce sfolgorante della sala da ballo stringendo gli occhi, ormai abituati al buio, e si mise a ricercare con lo sguardo il fratello. Se ne stava a chiacchierare amenamente con un giovane ufficiale della guardia reale, amico di famiglia; Anna si stupì di non scorgere al suo fianco Elisa. Si guardò intorno, ma non la vide nemmeno impegnata a intrattenere i suoi ospiti, la gente del borgo. Che strano, pensò Anna. Che sgarbataggine abbandonare la propria festa! Questo fatto dava ragione a lei, che aveva sempre pensato che una misera serva non sarebbe mai riuscita ad imparare il comportamento degno di una contessa!  Un lampo di gelosia le balenò allora per la mente: che se ne fosse andata insieme ad Antonio?
 
-Siete stanca della festa, contessa? – una voce maschile, dall’inconfondibile accento francese, si udì alle sue spalle. Elisa si girò d’istinto e inquadro la sagoma di Jerome in controluce. Si era rifugiata in una delle stanze vuote della casa per rilassarsi dalle chiacchiere, dalle danze, dal chiasso, dopo aver fatto visita alla piccola Agnese che dormiva serenamente al piano di sopra. Era stata una giornata lunga e faticosa per lei, non abituata a sostenere eventi mondani, in cui per di più si trovava al centro dell’attenzione. La pace che si era concessa per un breve istante venne però squarciata dall’ingresso di quell’uomo. Con un cenno del capo Elisa lo invitò cortesemente a non fermarsi sulla soglia, ad entrare, domandandosi in cuor suo come facesse a trovarsi lì anche lui in quel momento: l’aveva forse seguita?
- No, non vi preoccupate, Jerome. Si tratta solo di una breve pausa, sto bene. Ho fatto visita a mia figlia e ora sono pronta per ritornare ai festeggiamenti. – rispose con un sorriso garbato e rassicurante.
- Fossi in vostro marito, non avrei abbandonato una donna di straordinaria bellezza come voi in balìa di tutti quegli ospiti per chiacchierare tutta la sera con un soldatino…- alluse ironico. Si era fatto più vicino, Elisa poteva distinguere chiaramente il verde penetrante dei suoi occhi, le labbra leggermente increspate in un sorrisetto, i capelli biondi ordinati e raccolti. Si trovò istintivamente ad indietreggiare, di fronte all’imponente figura del francese. Jerome notò il suo turbamento e si affrettò a dire: - Non era mia intenzione mettervi a disagio con le mie chiacchiere. Vostro marito ha organizzato una festa grandiosa, e questo per voi, solo per voi. Deve amarvi molto…-
Elisa ritornò padrona di sé e rispose:
-Se desiderate non mettermi a disagio, vi pregherei di evitare di entrare in questioni private che non vi riguardano. –
- Pardon!- esclamò sollevando teatralmente i palmi delle mani. – Me ne andrò, visto che date segno di non gradire la mia presenza…-
Elisa cercò quindi di scusarsi a sua volta:
-Mi avete fraintesa, non volevo cacciarvi. Ma se è così, verrò con voi: ritorniamo alla festa.-
Jerome fece il gesto di offrirle il braccio e lei prontamente accettò: fu questo il segnale che stava aspettando. Fermi sulla soglia, al confine tra la luce e l’oscurità, Jerome si voltò brusco verso di lei e le piantò gli occhi negli occhi. Elisa sussultò, ma si lasciò condurre. E quanto lui le passò senza alcuna discrezione una mano sulla guancia, lo lasciò fare, come ammaliata dai suoi modi galanti e sensuali.
-Io non vi avrei certo lasciata sola: siete troppo bella perché un qualsiasi uomo possa resistere al desiderio di baciarvi…- pronunciò tutto d’un fiato avvicinando le labbra a quelle di lei.
Fu un moto improvviso, inaspettato; uno schiocco infranse il silenzio carico di tensione di quei momenti. Uno schiaffo ben assestato, a mano aperta, che non lasciava spazio a fraintendimenti tuonò sulla guancia sinistra di LeBlanc che rimase impietrito a massaggiarsi il viso per lungo tempo.
 
Le mani nervosamente aggrappate alla spalliera del divanetto, gli occhi fissi sulla folla multicolore che si agitava leggiadra a suon di musica, le labbra serrate in una smorfia di disappunto. Così se ne stava Anna, discosta da tutto e da tutti, scura in volto e poco incline alle chiacchiere. E così la vide LeBlanc rientrando in sala con la guancia arrossata, ma senza aver perso il suo solito sorriso galante. Non gli ci volle molto per capire che il suo amico Antonio era stato chiamato un’altra volta per via del suo lavoro, abbandonando anzitempo la festa e facendo irritare ancor di più la marchesa. Constatò che si trovavano in uno stato d’animo simile: a quella festa entrambi non si sentivano di partecipare, entrambi erano delusi, arrabbiati per essere stati lasciati con un palmo di naso. Pertanto le si avvicinò cautamente e, sopraggiungendo alle sue spalle, le sussurrò all’orecchio:
-Qualcosa non va, marchesa? Avete una faccia…-
Anna, soprappensiero, sobbalzò e voltandosi si trovò faccia a faccia con Jerome. Notò immediatamente quel rossore sulla guancia sinistra, ma non le riuscì di indovinarne la causa. Non le riuscì nemmeno di sfuggire a quegli occhi penetranti che sembravano leggerle la mente.
-Che cosa ve lo fa pensare, avvocato? Sto soltanto riposandomi dalle danze, sapete, per me che non sono abituata, può diventare faticoso. – si affrettò ad accampare come scusa.
- Suvvia, marchesa, non offendete in tal modo la mia e la vostra intelligenza! So bene che dopo aver ballato con me all’apertura delle danze, più nessuno ha avuto l’onore di un ballo insieme a voi. Perciò sono più che sicuro che ci sia dell’altro. - insinuò, ma sempre con fare cortese.
Anna, messa alle strette, prese a giocherellare nervosa con il crocifisso che portava al collo e a vagare con lo sguardo per la sala alla ricerca di una scusa che potesse sollevarla dall’imbarazzo di quella conversazione.
-Vi ho importunato con le mie domande? Perdonate, non era questa la mia intenzione!- si scusò prontamente appoggiandole amichevolmente una mano sull’avambraccio nudo. Anna istintivamente si scostò facendo un passo indietro.
- Vedo che la mia presenza vi infastidisce. Tolgo il disturbo, marchesa. Godetevi la festa, senza rimuginare troppo sul nostro comune amico…- alluse facendo per allontanarsi.
- No, aspettate, avete frainteso. Non è la vostra presenza che mi crea disturbo: è questa festa che mi è venuta a noia. – pronunciò tutto d’un fiato, mentre Jerome si era già voltato per metà.
- Mia cara marchesa, vedete? Avevo ragione io! E, se non sono indiscreto, ditemi cos’è allora che vi turba a tal punto? – domandò fingendo di essere totalmente ignaro.
- Molte cose, ma non mi va di parlarne ora. –
- Marchesa Radicati (o forse dovrei chiamarvi Anna?), voi siete troppo riservata. Certo, capisco che questo sia un atteggiamento che si confà al vostro rango, però, vedete, tenersi tutto dentro alla fine può distruggervi. Non credete che fareste meglio a parlarne con un amico? – chiese ammiccando.
La situazione si faceva sempre più imbarazzante per Anna, che non sapeva dove guardare, cosa fare, come muoversi per trarsi d’impaccio senza offendere le regole del bon ton. Finalmente riacquistò il suo coraggio, fissò con fare sprezzante LeBlanc e rispose:
-Certamente, concordo con voi, ma, ecco, vedete, voi non siete propriamente un amico. –
- E sia. Perdonate se ho tentato di risollevarvi il morale. Ma forse…avete bisogno di qualcosa di più convincente…-
- Che intendete dire? –
- Nulla, marchesa, continuate a godervi la festa. Au revoir. – e, detto questo, si allontanò sul serio, avvicinandosi ad un crocchio di eleganti signori imparruccati che fino a un momento prima si scagliavano contro le insane mode francesi, foriere di idee astruse e pericolose per l’ordine costituito. Prontamente, però, all’arrivo di LeBlanc, voltarono il discorso sul clima inusualmente freddo per il mese di maggio. Cosa su cui LeBlanc convenne senza obiezione alcuna.
Anna restò dov’era, apparentemente immobile, ma la sua mente era tutto un ribollire di pensieri, di rancori, di angosce e di idee di rivalsa. Non riusciva a focalizzare l’attenzione su nient’altro che non fossero le parole che LeBlanc le aveva rivolto durante quel breve scampolo di conversazione: la sorprendeva l’acutezza con cui era stato in grado di leggere nella sua mente. Questo l’affascinava e la spaventava al tempo stesso: che lui sapesse di più di quello che le aveva detto? Che conoscesse i reali motivi delle sparizioni di Antonio? Non la smetteva di tormentarsi con queste domande. Liquidava con brevi frasi di circostanza le dame che le si avvicinavano per attaccare discorso, rinfocolando vecchi e nuovi pettegolezzi sull’alta società piemontese; declinava con affettata cortesia gli inviti al ballo che le rivolgevano numerosi i gentiluomini presenti; allontanava con varie scuse il fratello che più volte venne a domandarle come stesse; restava immobile come una statua a fissare l’andirivieni della gente per il salone, i saluti, i baci di circostanza al momento del congedo. Si era fatto ormai molto tardi, le due, le tre di notte, non sapeva dirlo con esattezza. Antonio non era ancora tornato, di questo era certa. Ed era certa anche del fatto che le sue gambe non avrebbero retto ancora, dopo ore passate in piedi. Era sfinita dalla stanchezza, vuoi per l’ora tarda, vuoi per l’autocontrollo che si era imposta di mantenere per tutta la durata della festa, ma era altrettanto sicura che non sarebbe riuscita ad addormentarsi tanto presto, turbata da quei pensieri che non le avevano lasciato un attimo di requie. Ad un tratto prese la decisione, avrebbe fatto uno strappo all’etichetta, avrebbe abdicato ai suoi doveri di padrona di casa Ristori, ma non riusciva più a reggere.
-Fabrizio, mi vorrai scusare se mi ritiro nelle mie stanze? – domandò avvicinandosi al fratello che aveva da poco smesso la lunga conversazione con l’ufficiale ed era intento a intrattenere un gruppo di attempate nobildonne. Si voltò di scatto e la squadrò con aria preoccupata:
- Anna, non ti devi scusare. Va’ pure a riposare. Ma, piuttosto, ti è successo qualcosa? Hai una faccia…-
-Anche tu! Allora devo avere proprio un pessimo aspetto, non sei il primo che me lo dice stasera…-
- E chi te l’avrebbe detto?- chiese incuriosito.
- Lasciamo stare. Farò un giro di saluto agli ospiti rimasti e mi ritirerò. Porgi i miei omaggi a coloro che non riuscirò a salutare di persona. –
- Sta’ tranquilla, Anna, ci penso io. – la rassicurò baciandola amorevolmente su una guancia.
Dopo un veloce giro del salone, saluti, baci, promesse di rivedersi ad un prossimo evento mondano, finalmente Anna riuscì a guadagnare il corridoio e a dirigersi verso la scalinata che portava ai piani superiori.
Nella semioscurità del corridoio che conduceva alle stanze, illuminato fiocamente da infrequenti candele, sentì qualcuno afferrale un braccio.

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Capitolo 10
*** Effimera dolcezza ***


Si era attardato davanti all’ingresso del salone a salutare affabile un crocchio di popolani, suoi pazienti, che l’avevano accolto tanto calorosamente da costringerlo a trattenersi con loro per qualche istante, nonostante i suoi occhi vagassero ansiosi per la sala alla ricerca di Anna. Aveva smesso per l’occasione quel suo pastrano sgualcito, il tricorno e quei rustici stivali di cuoio che costituivano il suo abbigliamento abituale, tanto da lei biasimato, per indossare un’elegante marsina sul blu scuro con panciotto chiaro, calze bianche e scarpe da cerimonia. Quando lo notò, Anna si sentì orgogliosa: era come se avesse testato il potere che aveva su di lui, il potere di renderlo, anche solo per una sera, simile a lei, conforme al suo mondo, alle sue regole. Sarebbe valso questo a perdonargli il ritardo?
-Ah, j’ai compris, tout est clair. Il vostro cavaliere è arrivato. Ma non credo che se ne avrà a male se mi concederete anche il prossimo ballo. Se ricordo bene, non amava ballare ed era piuttosto goffo…- esclamò scherzoso Jerome.
- Ricordate male, avvocato. Antonio, quando vuole, è un provetto ballerino. Ha solo il vizio di ritenere la danza una faccenda da nobili annoiati, una cosa insomma non degna di lui e dei suoi alti ideali…- rispose acida di rimando, sfogando per un istante il suo risentimento verso Antonio per il fatto che si fosse presentato solo a danze già iniziate, senza quindi chiedere formalmente di aprire le danze insieme a lei, la sua dama. Ma fu questione di un attimo. – Stasera, tuttavia, credo proprio che farà un’eccezione. Quindi, se volete scusarmi, il prossimo ballo sarà per lui.- concluse leggermente piccata.
- Come desiderate, marchesa. Non è il caso di scaldarsi tanto…- la blandì Jerome, cogliendo il tono risentito delle sue parole. – Sono sicuro che il mio caro amico Antonio saprà rimediare e farsi perdonare per le sue mancanze verso le usanze dell’alta società. Non redarguitelo troppo, pover’uomo! – e scoppiò in una delle sue risatine.
Le ultime note del minuetto risuonarono per la sala, poi la musica finì, i violini tacquero e i danzatori poterono riposarsi per qualche istante in attesa del prossimo ballo. L’ambiente si riempì nuovamente di chiacchiere e risate. Anna, con un inchino più che formale, si congedò da Jerome con l’intenzione di precipitarsi da Antonio. Doveva tenergli un discorso, doveva parlargli al più presto, prima che la musica ricominciasse. Ma un’anziana contessa dall’aria spiritosa le si parò davanti:
-Mia carissima Anna! Quanto tempo è passato! – attaccò il discorso la contessa Antici. – Sembra di essere ritornati ai tempi della cara Agnese! Vostra madre, che donna eccezionale…-
- Non siete la prima, contessa, a dirmi queste cose, stasera. Ciò mi lusinga molto, significa che Fabrizio ed io stiamo rendendo onore alla famiglia Ristori, così come conviene. – la ringraziò Anna, tradendo una leggera impazienza. Impazienza non colta, forse volutamente, dalla contessa la quale, presa Anna sottobraccio, la trascinò verso un divanetto per continuare la conversazione sui tempi andati; ed Anna non poté sottrarvisi in alcun modo. Porgeva le orecchie ai fatui discorsi della contessa, ma i suoi occhi scrutavano nervosamente tra la folla. Non lo vedeva. Dove si era cacciato? Se n’era andato di nuovo?
Eppure pochi istanti prima era lì, ne era certo: l’aveva ben vista danzare insieme a Jerome, non poteva essersi sbagliato. Ma non c’era più. Per quanto si sforzasse non riusciva ad intravederla in mezzo a tutti quei pizzi, quelle trine, quelle gale. Voleva parlarle, voleva quantomeno salutarla degnamente e scusarsi per la sua ennesima mancanza: non era stata colpa sua, si era dovuto trattenere per lavoro…Insomma era sempre la stessa storia: Anna aveva ragione e non l’avrebbe perdonato anche questa volta. Ma lui doveva almeno tentare, erano giorni che non si parlavano, che sembravano ignorarsi: non potevano continuare così ancora a lungo. 
-Antonio! Qual buon vento…- si sentì chiamare da una voce alle sue spalle. Si voltò prontamente. Redingote giallo senape, panciotto azzurro, capelli biondi perfettamente curati. Il suo amico Jerome sapeva certamente come apparire in società. Borghesuccio di provincia d’origine, ma ormai assiduo frequentatore dei salotti parigini più alla moda. Sfoderò il suo migliore sorriso prima di aggiungere: - La tua dama ti stava giusto aspettando…-
-  Infatti. Ed è per questo che andrò subito da lei. Perdonami, Jerome, ho fretta. – cercò di divincolarsi, ma l’amico l’afferrò per il braccio.
- Non avrei mai immaginato, vent’anni fa, che ci saremmo rincontrati qui, in una festa da ballo di aristocratici, in mezzo a tutto questo sfarzo, questi ori...- gli sibilò all’orecchio LeBlanc.
- Scusami, Anna mi starà cercando, continueremo dopo questo discorso. – ribadì, ma senza successo.
- Io te l’ho detto, da un bel po’. Prima ho ascoltato i discorsi che si facevano in questa sala: discorsi ottusi, ipocriti, di gente arroccata a difendere i propri privilegi, gente che disprezza il popolo, che disprezza chiunque sia diverso da lei. Antonio, sei proprio sicuro che sia questo il tuo posto? –
- No che non lo è. Si tratta solo di una sera, ti posso assicurare che non è questo il modo di pensare dei Ristori: loro sono diversi. –
- Antonio, Antonio, guardati! Tu non sei che un agnellino in mezzo ad un branco di lupi. Ti do solo un consiglio: fa’ attenzione. In particolare alla tua bella marchesa. Non la pensa esattamente come credi in fatto di privilegi e parità delle classi. Ci tiene al suo rango, lei, checché tu ne dica…- poi, voltandosi con noncuranza – E ci tiene più che a te. –
- Che cosa vorresti insinuare? – replicò Antonio alquanto irritato dalle malevole allusioni dell’amico.
Ma LeBlanc si era già intrufolato in mezzo alla folla ed inseguirlo sgomitando tra gli invitati non sarebbe stato un gesto elegante, né tantomeno sarebbe passato inosservato. Scuotendo la testa in dissenso con le ultime parole che gli erano state rivolte, Antonio restò fermo dov’era, il calice in mano, lo sguardo perso a studiare il pavimento. Rimase così per un lungo momento, non si accorse nemmeno che l’orchestra da camera aveva attaccato un nuovo motivo e le danze erano riprese. La serata stava declinando verso la mezzanotte ma l’euforia collettiva che aleggiava lasciava presagire che i festeggiamenti si sarebbero protratti fino alle prime luci dell’alba. Chi si dava ai balli, chi alle chiacchiere, chi al vino, tutti erano occupati a godersi la festa. Tutti tranne Anna, l’unica che non sembrava affatto divertirsi dall’espressione ansiosa che le si era dipinta in volto. Dopo essersi liberata dalla petulante contessa Antici, si era messa nuovamente a scrutare la sala e finalmente l’aveva scorto. Anche lui se ne stava in disparte, anche lui pareva sperso, pareva non prendere parte ai festeggiamenti, all’allegria, alla spensieratezza: tutt’altro che spensierato, sembrava assorto in pensieri cupi, pensieri che gli pesavano addosso come macigni costringendolo a tener lo sguardo basso.
Anna non perse tempo e si diresse con passo deciso verso di lui, lo colse alle spalle, chiamando per nome, scandendo quelle sillabe con una voce tra l’aggressivo e il supplichevole, come se da un lato lo volesse bastonare, dall’altro ne implorasse l’attenzione, l’affetto, l’amore. Antonio si voltò di scatto a quella voce, sussultando. Non le rispose, si limitò a fissarla per qualche fugace istante, con la bocca dischiusa, incantato, come se non l’avesse mai vista prima d’allora. Era stupenda quella sera, più del solito, pensò. Vuoi per l’abito di gala che le cadeva a pennello, vuoi per quei boccoli ribelli che tanto amava, vuoi per gli occhi più lucenti e profondi che mai. Non si capacitò fino in fondo del motivo per cui ne era rimasto abbagliato: si limitò a constatare il potere che aveva su di lui come una verità incontrovertibile, contro la quale nulla si poteva. Fu lei, infine, a rompere l’imbarazzo di quegli istanti sospesi.
-Penso che sia giunto il momento di parlare. – pronunciò sommessamente ma in un tono assertivo che non ammetteva repliche. Antonio annuì, abbassando il capo. Anna lo prese per un braccio e lo trascinò lontano dalle luci e dal frastuono della musica verso l’ampia balconata che dava sul giardino e lui si lasciò docilmente condurre. Il vento fresco della sera faceva tremolare le foglie dei grandi platani del giardino, gonfiava le tende che si sporgevano verso la terrazza. La notte era serena, si udiva soltanto il frinire dei grilli e il richiamo degli uccelli notturni che giungeva dal bosco: la musica e le voci della festa giungevano ovattate, restando sullo sfondo come un rumorio costante ma indistinto. Era quello il loro momento: nessuno li avrebbe cercati lì, nessuno li avrebbe disturbati. Anna si sporse appoggiando i gomiti alla balaustra e, mentre il suo sguardo si perdeva lontano nel buio della notte di maggio, cominciò:
- Se ti ho chiesto di seguirmi fin qui è per una ragione ben precisa. Un tormento che non mi fa più dormire la notte e non mi lascia pace nemmeno durante la giornata. Che ci sta succedendo, Antonio? – si voltò a guardarlo nella penombra illuminata soltanto dal chiarore della luna e dal riverbero delle luci lontane delle candele all’interno della sala. Gli occhi di Antonio scintillarono un istante prima che prendesse a parlare, poi si spensero, desolati.
- Non lo so. Me lo sono chiesto anch’io, più volte. Ma non ho saputo darmi una risposta. O forse una risposta c’è, ma non ci piacerebbe ascoltarla. – e tacque per un istante, guardandola mesto e rassegnato.
-Tu non ti fidi di me. Non ti fidi di quello che dico, di quello che faccio. Mi rifiuti, mi eviti. E a questo io non so porre alcun rimedio. – concluse poi.
Fu Anna qui ad abbassare lo sguardo, ferita, messa di fronte a quell’evidenza che aveva sempre cercato di negare a se stessa. Provò a discolparsi.
-Sì, forse è così, forse io non mi fido. Ma non di te, Antonio, no. Delle persone che ci stanno attorno, di quell’individuo losco e manipolatore del tuo amico LeBlanc. Non mi fido di lui. E temo che tu possa cadere nelle sue trame. Ma non ho mai messo in discussione la tua buona fede, la tua sincerità.-
- E allora perché continui a fuggirmi? Perché quella sera mi ha respinto, non hai voluto fare l’amore con me?-
- Quella sera ho sbagliato. È stato un mio errore, lo ammetto. Ma questo non cambia nulla. Finché quell’uomo starà sotto il nostro stesso tetto io non avrò pace: avrò sempre timore che ti persuada a partire, che ti porti via da me. Ed è per questa immensa paura che ti sfuggo. Per la paura che tutto sia già finito senza saperlo, che tu abbia già deciso di lasciarmi. Un’altra volta. –
- Ma che dici? Ti ho già ripetuto mille volte che non ho alcuna intenzione di partire per Parigi e sappi che se Jerome è ancora qui è solo perché tuo fratello l’ha invitato a fermarsi fino al giorno della festa. – ribatté Antonio, infervorandosi.
- Giuramelo. – esigette lei. – Giurami, Antonio, che non partirai, che resterai con me. –
- Quante volte te lo giurato? E quante mi hai creduto? – domandò di rimando. – Non serve a nulla, più a nulla: la mia parola per te non vale niente. – concluse amaramente Antonio, ritrovandosi a fissare il cielo scuro con sguardo desolato.
Quest’ultima frase restò per lunghi istanti sospesa nel buio della sera, nel silenzio della notte di maggio. Nessuno dei due era in grado di sostenere quel discorso che pareva logorarli. Si sentivano ormai ad un bivio che non contemplava la possibilità di ritornare indietro. Ogni parola fuori posto poteva pesare come un macigno sul piatto della bilancia: la paura di perdersi era troppo forte per rompere quel silenzio, in cui tutto era sospeso, tutto era, forse solo per poco, ancora intatto. Muti, immobili, con lo sguardo fisso davanti a loro verso il buio della notte, non osavano il benché minimo movimento, sembravano quasi trattenere anche il respiro. Quest’atmosfera d’attesa venne rotta da un soffio di vento, più forte e freddo degli altri, che scosse le cime degli alberi e fece rabbrividire Anna. Era quello il momento che Antonio aspettava per rompere gli indugi: istintivamente le si avvicinò e fece il gesto di aggiustarle sulle spalle lo scialle che portava appoggiato all’incavo delle braccia. Fu un gesto fulmineo, forse insignificante, sicuramente non smaccato; ma venne compiuto con quella premura e quella tenerezza che solo chi ama possiede e sa usare nei confronti dell’oggetto del proprio amore. Gesti semplici, ma inconfondibili che parlano di attenzioni, di cura, di dolcezza. A quel leggero contatto Anna si voltò, giusto in tempo per cogliere lo sguardo quasi sorpreso di Antonio, dolce e apprensivo, spaventato ma nello stesso tempo fiducioso. Furono certi, in quell’istante, che qualche piccola incomprensione non sarebbe valsa a separarli, che quello che provavano l’uno per l’altra, quell’amore sopravvissuto a lunghi anni di separazione, non poteva essere certo spento così, senza un motivo, solo per orgoglio, per paura. Si scrutarono negli occhi per qualche istante, senza aver il coraggio di infrangere quel meraviglioso silenzio che la natura quella sera donava loro. Poi, senza parlare, Anna passò delicatamente una mano sul volto di lui, accarezzandogli le guance, i capelli, per poi avvicinare le labbra alle sue in un bacio tenero, appena accennato, a mo’ di scusa, quasi non ardisse spingersi troppo oltre. Ma Antonio fu pronto ad accoglierlo con calore, mettendo da parte tutte le accuse, le recriminazioni, i malintesi di quei giorni. Del resto non aspettava altro che un suo gesto o una sua parola per poter riversare su di lei tutto il suo affetto e la sua tenerezza: le era mancata molto e non faticava ad ammetterlo. Stringendola fra le braccia, non poté pensare più a nulla, se non a quanto fosse stato stupido rischiare di perdersi per una questione di puntiglio, per non averle fatto sentire la sua presenza in modo più chiaro e per tante altre inezie che in quel momento non avevano alcun significato.
Mentre stavano ancora abbracciati, persi nella passione di quegli istanti, qualcuno scostò le pesanti tende e sopraggiunse alle loro spalle sulla terrazza.
-Dottore! – chiamò la voce di Amelia.
Antonio sussultò e Anna fece lo stesso. Entrambi, imbarazzati e confusi, si voltarono per mettere a fuoco nell’oscurità la figura della serva.
-Ehm…Amelia, che succede? – riuscì a balbettare Antonio, rassettandosi i capelli e cercando di nascondere il disagio per quell’irruzione intempestiva. Anna abbassò lo sguardo e si voltò verso il giardino: l’oscurità le permise di celare il rossore. Pudica qual era, non avrebbe mai sopportato di essere sorpresa da uno dei suoi servi mentre si prodigava in tenere effusioni. Tanto più a disagio si sentiva di fronte ad Amelia, che pure l’aveva allevata come una figlia: ma, forse, era proprio per questo che provava ancor più vergogna. Antonio, pur mostrandosi più spigliato, era anch’egli tipo piuttosto schivo e al cospetto dell’anziana serva si sentiva quasi sotto giudizio.
- Oh, marchesa, non pensavo che ci foste anche voi…Forse vi ho disturbato in un momento poco indicato…ma vi pregano di accorrere in fretta, quel paziente sta di nuovo male! – balbettò confusamente Amelia, rendendosi conto in quel momento che il dottore era impegnato in una conversazione riappacificante con la sua amata e che non sarebbe stato opportuno interromperli, visto il clima di tensione che negli ultimi giorni si era creato fra i due.
- Non vi preoccupate, avete fatto bene, Amelia. Vengo subito. Dite ad Angelo di sellarmi un cavallo: fra qualche minuto sarò pronto. – rispose garbatamente Antonio, nascondendo abilmente il disappunto per quest’ennesima emergenza che capitava proprio nel momento sbagliato. L’anziana governante salutò i due con un inchino goffo e sparì dietro i tendaggi.
- E così te ne vai di nuovo. – concluse amaramente Anna, senza distogliere lo sguardo dagli zampilli della grande fontana in mezzo al giardino.
- Credi che mi faccia piacere? –
- Non lo credo, ne sono certa. Sono certa che tu preferisca il tuo lavoro a queste stupide festicciole mondane, come le chiami tu. Non mi stupisco più, sai?-
- E’ così, mi conosci bene, non amo queste feste: non parlavo di questo, infatti. Avrei preferito restare qui fuori tutta la notte con te. Ma devo andare, qualcuno ha bisogno di me. –
- Ed io? Non pensi che anch’io abbia bisogno di te? –
- Almeno tanto quanto io ne ho di te. – concluse, avvicinandosi ad Anna per un bacio sulle labbra, ma lei fu pronta a scansarlo.
- Buon divertimento.- gli augurò sarcastica, in tono di scherno, mentre lui stava scostando i tendaggi per rientrare. Rimase un attimo sospeso a guardarla, distinguendo la luce amara dei suoi occhi nell’oscurità. Abbassò il capo e promise: - Farò il prima possibile. -

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Capitolo 11
*** Trasgressione ***


-Chi è? – gridò sussultando. Sentì il cuore batterle a mille, la gola chiudersi in un moto subitaneo di angoscia.

- Shh! – si sentì rispondere. Venne trascinata alla luce della candela più vicina e lì poté scorgere gli occhi verdi di Jerome.

- Non spaventatevi, marchesa! Sono io! – cercò di tranquillizzarla.

- Voi? E…e che ci fate qui? Mi stavate forse seguendo? – domandò irritata, senza essersi ancora del tutto ripresa dallo spavento di poco prima.

- Mi stavo ritirando anch’io, sapete, sono molto stanco. Ma non credo che riuscirò a prendere sonno rapidamente…-

- Sono molto stanca anch’io, ma temo di avere il vostro stesso problema. Tuttavia ora vogliate scusarmi, ma debbo congedarmi. Buona notte. – augurò poi svicolando e sottraendosi alla sua stretta.

- Siete proprio sicura di rifiutare il mio aiuto? Non vorrei che ve ne pentiste poi. – la blandì.

- Il vostro aiuto? Che intendete? Spiegatevi meglio! – incominciò ad incuriosirsi.

- Un piccolo rimedio per chi soffre d’insonnia…- svelò – Potrebbe esservi molto utile. Come lo è a me, del resto. – così dicendo estrasse una boccetta dal taschino della marsina. Anna la guardò incuriosita.

- Che sarebbe? – domandò.

- Laudano. – rispose Jerome con un sorriso.

- Non faccio uso di queste sostanze. – tagliò corto senza però accennare ad andarsene.

- Dovreste. Preso a piccole dosi è un rimedio miracoloso. Quante notti insonni mi ha risparmiato! Solo qualche goccia e tutto prende un aspetto diverso. Ve l’assicuro. Soffro spesso di crisi d’ansia e non conosco miglior toccasana. –

Anna squadrò il liquido contenuto nella boccetta, attratta. Ma poi scosse la testa: - No, non credo sia una buona idea. –

-Suvvia, marchesa, non vi fidate di me che sono quasi un medico? –  domandò in tono persuasivo.

Il liquido luccicava nella boccetta alla luce fioca delle candele, invitante, suadente. Quel che ci voleva. Un rimedio efficace che le avrebbe concesso quel riposo che da giorni stentava a trovare, che avrebbe cancellato in un istante tutti i suoi tormenti concedendole un sonno senza sogni. Senza l’immagine costante di Antonio davanti agli occhi. Cos’avrebbe dato per una cura del genere? Cos’avrebbe pagato per spazzar via dalla sua mente quei fantasmi? Oro. Avrebbe pagato oro. Invece le veniva offerto, anzi quasi la si supplicava di accettare questo dono. Nessuno sforzo, bastava un cenno di assenso e la soluzione ai suoi mali sarebbe stata a portata di mano. Che aspettava ad accettare l’aiuto che Jerome le porgeva?  Fissò ancora per qualche istante la boccetta, quasi ipnotizzata, poi domandò appena sussurrando:

-Quanto ne serve per un sonno senza sogni? –

- Qualche goccia basta. Vi preparo io la dose giusta. Solo servirebbe un bicchiere d’acqua in cui diluirlo.-

Allettata dalla possibilità di un facile rimedio, irretita dalle parole di Jerome, come in stato di incoscienza, propose:

-Nella mia stanza. –

Jerome la seguì sorridendo e stringendo soddisfatto la boccetta nella destra. Percorsero silenziosi i corridoi bui e solitari finché giunsero davanti alla porta della stanza della marchesa. Anna abbassò la maniglia e, dopo una lieve esitazione, fece il suo ingresso nella camera semibuia. Jerome attese educatamente sulla soglia, studiando con occhio attento la disposizione degli oggetti, l’arredamento raffinato, il mobilio sfarzoso, la seta color porpora del baldacchino. Anna si diresse con passo felpato verso il tavolino vicino alla finestra. Su di esso una brocca di porcellana e un bicchiere. Jerome, nel buio, sentì il rumore dell’acqua versata e udì la voce della marchesa chiamarlo:

-LeBlanc, entrate, di grazia, non restate sulla soglia. –

Con fare discreto e riguardoso, fingendo ritrosia, Jerome tentennò per qualche istante sulla porta, fin quando Anna non lo incoraggiò con sguardo eloquente. Entrò quindi richiudendo la porta dietro di sé.

-Date a me. Ci penso io a prepararvi la razione. Poche gocce, niente di più. Fidatevi! – disse prendendo delicatamente il bicchiere dalle mani di lei. Si voltò per ricevere la fioca luce della candela a muro, facendosi scudo con il corpo versò metà del contenuto, sciogliendolo nell’acqua. Si rivoltò. Con un sorriso rassicurante le porse il bicchiere. Anna lo ringraziò con lo sguardo, mostrandogli gratitudine coi suoi splendidi occhi, vagamente malinconici. LeBlanc sorrise abbassando il viso. Senza tradire la minima smorfia per il sapore amaro, Anna trangugiò d’un fiato il contenuto del bicchiere. Jerome s’intrattenne ancora per un po’ a magnificarle i benefici del laudano, da lui più volte sperimentati. Anna sembrava seguirne i gesti eloquenti con sguardo sempre più offuscato e sorriso incosciente. Non riusciva più a mettere a fuoco dove si trovasse, se fosse giorno, sera, notte, che cosa stesse facendo e pensando. Un grande languore si impadronì delle sue membra, una spossatezza mista, però, ad una strana eccitazione dei sensi. Vedeva e non vedeva, sentiva e non sentiva. Tratti di coscienza intermittenti. Fece per accasciarsi a terra, in preda a un mancamento, ma venne prontamente sorretta dalle braccia di Jerome. Gli si avvinghiò al collo, incurante del suo gesto; si strinse a lui come ad uno scoglio in un mare in tempesta. Solo allora si accorse delle sue labbra sul proprio collo, delle mani che le accarezzavano la schiena provocandole brividi di piacere. Che stava succedendo? Non riusciva in quel momento a darsi una spiegazione razionale. Ma la sensazione le piaceva. Le piaceva anche troppo. Trascinata da una forza irresistibile, si trovò a baciare avidamente le labbra di Jerome, accarezzargli i capelli quasi a volerglieli strappare, con una passione inconsueta, disinibita, senza alcun freno. Non passò molto che si ritrovò spogliata dalla veste di gala, con indosso soltanto una leggera sottoveste di pizzo. Ma il calore che provava dentro di sé le impose di levarsi anche quella con uno scatto improvviso, che stupì per la sua foga lo stesso Jerome, che se la ritrovò completamente nuda fra le braccia. Non ci pensò due volte a trascinarla su letto, spogliandosi a sua volta degli abiti eleganti di quella sera. Non le permise altra reazione se non quella di ghermirgli con le mani la schiena nuda e incollargli le labbra tra il collo e il petto. Rotolarono tra i cuscini, pervasi da un impeto quasi selvaggio, una smania di possesso e avidità ad Anna sconosciuta. Non la violenza di Alvise, non la dolcezza di Antonio: un’accensione dei sensi, un desiderio cieco e folle che non riusciva, obnubilata, a dominare.

Nella passione del momento nessuno dei due sembrò accorgersi di quello che stava realmente succedendo: si trovavano entrambi a soddisfare un desiderio deluso da un’altra persona. O forse se ne accorgevano e cercano consapevolmente una rivalsa? Anna non si diede alcuna spiegazione, si limitò a farsi trasportare dal turbinio della passione, soffocando tra i baci di Jerome tutto il risentimento, l’angoscia e la frustrazione di quei giorni.

 

Dei passi risuonarono nel corridoio nella luce livida dell’ultimo scampolo di notte che precede l’alba. Poi un bussare sommesso alla porta, le nocche che con esitazione colpivano ripetutamente il legno, prima leggermente poi con maggior decisione.

Aprì gli occhi di scatto. La candela a muro, ormai consunta, spandeva gli ultimi bagliori, disegnando ombre sinistre sulla parete, mentre fuori il cielo si stava ormai spogliando del nero della notte. Una leggera brezza si insinuò dalla finestra socchiusa e tutta la stanza fluttuò nella luce incerta. Ma tanto le bastò per accorgersi di quel che era successo: il torace glabro, le sue braccia attorno ai suoi fianchi, i capelli biondi disciolti sui cuscini. No, non era Antonio l’uomo che le dormiva accanto. Sussultò all’ennesimo colpo battuto alla porta. Si portò le mani agli occhi, turbata, sconvolta, disperata. Che aveva fatto? Come era stato possibile arrivare a tanto? Non riusciva a rievocare ricordi nitidi di quella notte, solo una gran confusione. E un feroce senso di colpa. Trattenne il fiato e finse di non sentire quel bussare discreto, di chi sa chiedere permesso, di chi non conosce prevaricazione. Trattenne il fiato e insieme le lacrime. Finché il rumore cessò.

 

Era stata una notte concitata, più del previsto. Non era riuscito a rientrare per tempo e di questo non si perdonava. Questo pensava mentre spronava con vigore il cavallo attraverso la campagna, mentre la notte cedeva il passo ai bagliori dell’alba. Era tardi, molto tardi, quasi giorno, eppure non resistette e si diresse verso la stanza di lei: voleva farsi perdonare, voleva parlarle prima di abbandonarsi al meritato riposo. Sperava di trovarla sveglia, appena ritiratasi dai festeggiamenti: aveva infatti incontrato gli ultimi ospiti che salivano sulle carrozze nel piazzale. Ma non se la sentì di abbassare la maniglia e irrompere senza preavviso, spaventandola. Bussò. Bussò più volte, chiamando il suo nome a mezza voce. Niente. Dormiva.

-Buonanotte, amore mio – sussurrò, la fronte appoggiata allo stipite. Poi riecheggiarono i suoi passi lungo il corridoio, mentre la luce dell’alba si faceva gradualmente strada.

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Capitolo 12
*** Castigo ***


Un sobbalzo della carrozza postale lo svegliò dal torpore: il sole era sorto da un pezzo e dal finestrino si accorse che erano ormai giunti ai sobborghi di Parigi. Una strana sensazione lo assalì: rabbia, impotenza, delusione o forse no, disperazione. Immagini di edifici, carrozze, cavalli, pedoni gli scorrevano davanti agli occhi, ma lui non vedeva nulla di tutto ciò: nella sua mente un’immagine sola, fissa, indelebile. E dolorosa. L’immagine di Anna, in lacrime, che gli confessava quell’assurdo tradimento. Assurdo, impensabile, irragionevole. Non se lo sapeva spiegare, ma del resto nemmeno lei sembrava essere in grado di dare una spiegazione razionale di quello che aveva fatto. Meno se ne capacitava e meno riusciva a perdonarla. E non perdonava nemmeno il suo amico Jerome, colui che aveva cercato in ogni modo di metterlo contro di lei, colui che la odiava per la sua alterigia aristocratica, colui che non aveva fatto altro che evidenziarne i difetti. Come aveva potuto arrivare a tanto? Portarsi a letto la donna dell’amico che lo stava ospitando, solo per un capriccio, solo per una stupida ripicca?
L’aveva davanti agli occhi la scena che si era svolta quella mattina sul piazzale davanti alla residenza.
-Mio caro amico, credo che sia giunto il momento dei saluti. – Jerome se ne stava con un piede sul predellino della carrozza, le mani sullo sportello pronto a issarsi a bordo. Un sorriso beffardo gli si era dipinto in viso al momento dei saluti con Antonio. Anna non c’era: quella mattina non era ancora uscita dalle sue stanze, aveva dato ordine alla servitù di non essere disturbata, terribile mal di testa, aveva detto.
- Arrivederci, Jerome. Fa’ buon viaggio. Forse ci rincontreremo, prima o poi. –  lo salutò Antonio, con una vigorosa stretta di mano.
- Più prima che poi, Antonio, ne son convinto. – ribatté Jerome sempre sorridente, ammiccando.
- Se intendi a Parigi, sai bene che cosa ne penso. Non verrò, come ti ho già spiegato. -
- Non ne sono tanto sicuro. La tua Anna potrebbe convincerti…In ogni caso, conosci il mio indirizzo.-
- Addio, Jerome. –
- Arrivederci, Antonio. -
Tutta quella baldanza, tutta quella convinzione gli veniva dalla certezza che Anna non avrebbe retto, che avrebbe confessato il tradimento di quella notte. Era un fine conoscitore dell’animo umano: se ne serviva spesso in tribunale per far leva sui giurati, per scandagliare la psiche dei suoi avversari, per comprendere i segreti nascosti dei suoi clienti. Abile manipolatore, aveva intuito la fragilità di Anna dietro alla sua apparente superbia, aveva compreso che la sua coscienza era sensibile al peccato, incapace di perdonarsi, di fingere noncuranza. E aveva ben capito che il suo punto debole era un solo: Antonio. Per lui avrebbe lottato con tutte le sue forze: avrebbe lottato per impedirgli di partire, per sottrarlo ai suoi ideali, per strapparlo all’influenza dell’amico. Che squallore! Quanto era stata ignobile la mossa che Jerome aveva cavato dal cilindro! Antonio non riusciva nemmeno a figurarsi l’immagine di Anna fra le braccia dell’amico, un dolore cieco glielo impediva. Ma come aveva fatto lui stesso a non accorgersi delle trame del suo vecchio amico? Come aveva potuto lasciare Anna in balìa di lui? Anna che sapeva in quei giorni fragile e turbata per le sorti di Emilia, per la paura che lui stesso partisse, per l’apprensione per le sue continue assenze a causa del lavoro?
Un altro scossone lo ridestò completamente. E fu allora che più bruciante di un ferro arroventato, più tagliente della lama di una spada, più doloroso di una morsa mise a fuoco il ricordo straziante della confessione di Anna di qualche giorno prima.
Se ne stava da due giorni chiusa nella sua stanza, accampando scuse sempre meno plausibili: mal di testa, acciacchi di vario tipo, spossatezza, desiderio di riposo e altri fastidi di cui si limitava ad accennare vagamente. La servitù che le portava i pasti veniva scacciata a male parole ogni volte che osava domandarle delle sue condizioni di salute. Non accettava nemmeno le visite del fratello o di Elisa, a quali rispondeva, con toni leggermente meno scortesi, di voler essere lasciata sola per qualche tempo. Antonio tra tutti era il più instancabile, non si rassegnava a questo strano atteggiamento e provava più volte al giorno a bussare a quella maledetta porta, con tanta foga quasi a volerla sfondare. La implorava di aprirgli, di permettergli di vederla, era un medico del resto, almeno in questa veste sarebbe potuto esserle d’aiuto. Ma non c’era nulla da fare: da dietro la porta silenzio o sommessi singhiozzi. Che le stava succedendo? Nessuno riusciva a darsi una spiegazione. Avevano pensato alla mancanza di Emilia, all’angoscia di sapere la figlia in mezzo ai tumulti di Parigi, ma le lettere avevano ripreso ad arrivare con cadenza regolare e la ragazza tranquillizzava tutti circa la sua permanenza al collegio. E allora perché? Per quale assurdo motivo rifiutava la compagnia dei familiari, le attenzioni di Antonio?
 
La sera del secondo giorno, mentre se ne stavano riuniti nel salone a congetturare su quale potesse essere il male di lei, Fabrizio scrutando le faville nel camino, Elisa dondolando nervosamente la piccola Agnese fra le braccia, Antonio fissando con sguardo cupo il buio fuori dall’ampia finestra, Anna si presentò sulla soglia, perfettamente pettinata e vestita come se si fosse dovuta recare ad una festa di gala. Non aveva l’aria d’esser malata, solo un diffuso pallore le segnava il viso, non traspariva un dolore fisico, ma un intenso travaglio interiore si intuiva dallo sguardo lucido e profondo più del solito. Fabrizio scattò in piedi; ma Antonio fu più svelto di lui e le corse incontro apprensivo.
-Anna, stai meglio? – le domandò prendendole le mani fra le sue e accarezzandola con sguardo attento.
- Sto bene, sto bene. – rispose abbassando il capo per evitare i suoi occhi.
- Anna, ma che t’è successo? – la raggiunse Fabrizio.
- Nulla, Fabrizio, nulla. – cercò di negare.
Anche Elisa si era avvicinata, tenendo in braccio Agnese. Tutti e quattro la fissavano interrogativi, ma sollevati dalla sua decisione di uscire dalle proprie stanze e interagire con il mondo esterno.
-Antonio, ho bisogno di parlarti. Da soli. – si risolse a dire dopo lunghi istanti di silenzio.
- V-va bene. – balbettò lui per tutta risposta. Non si spiegava il motivo di quel colloquio privato. Che cos’altro stava nascondendo? Che le era successo in quei giorni?
Ansioso e anzi leggermente spaventato, Antonio la seguì nella biblioteca, lasciando Fabrizio ed Elisa perplessi a confabulare su quello strano atteggiamento di Anna.
La biblioteca, inutilizzata quella sera, era scarsamente illuminata: un candelabro appoggiato al tavolo e qualche rara candela a muro erano le uniche fonti di luce. Intorno a loro un silenzio carico di tensione, rotto dopo alcuni minuti da Antonio che propose di accendere altre candele per dare alla stanza un aspetto meno tetro.
-No! Non farlo! – gli intimò Anna con uno scatto nervoso che lo spaventò. Che le prendeva? Si voltò lentamente verso di lei, gli occhi negli occhi attraverso la semioscurità. Quante domande avrebbe voluto farle, senza riuscirci, quanti interrogativi sospesi fra loro! Anna interruppe quel contatto abbassando gli occhi: non era in grado di sostenere a lungo lo sguardo di lui pieno di apprensione e di immutato affetto, ancora ignaro di tutto.
- Va bene. Scusami, volevo solo far luce…- si scusò Antonio alzando le mani in segno di resa.
- Preferisco il buio.-  Quello che stava per dirgli non meritava la luce. Preferiva che lo nascondesse il buio perché non avrebbe mai sopportato di guardarlo negli occhi in piena luce, scorgendovi la delusione, la rabbia, lo sconforto.
- Come vuoi. – La fissava a qualche passo di distanza, senza sapere se avvicinarsi a lei, abbracciala o anche soltanto prenderla per mano, oppure restare fermo in attesa che lei parlasse. Optò per la seconda: le braccia distese lungo fianchi, il viso in ascolto, lo sguardo ansioso fisso su di lei.
Anna si torceva le mani nervosamente, toccava convulsamente il crocefisso appeso al collo, voltava da una parte all’altra la testa in cerca di una via d’uscita che non riusciva a trovare. Ripeté questi gesti in maniera compulsiva per qualche minuto, senza decidersi a prendere la parola. Antonio seguitava a guardarla smarrito, confuso.  Alla fine si fece forza, strizzò gli occhi come per allontanare quel pensiero che continuava a farle male, strinse i pugni e parlò.
-Ti ho tradito, Antonio. È successo una volta sola, ma è successo. È stato solo un attimo di debolezza. Non mi perdono, non riesco a perdonarmi, e non oso chiedere il tuo perdono. Mi disprezzo per quello che ho fatto. – pronunciò con un filo di voce, tutto d’un fiato, lo sguardo fisso a terra.
 
Il vetturino con un richiamo fermò i cavalli, balzò giù da cassetta e bussò al finestrino.
-Siamo arrivati, signore. Faubourg Saint-Antoine.- lo informò, senza accorgersi dell’espressione assente di Antonio.
- Porta i miei bagagli a questo indirizzo. – rispose lui, ancora sovrappensiero, consegnando al cocchiere un biglietto.
Scese dalla carrozza. Fece quattro passi per sgranchirsi le gambe e si ritrovò immerso nella frizzante aria del mattino parigino. - Tanto meglio- si disse sollevandosi il bavero della giacca-  il fresco mi aiuterà a riordinare i pensieri.-
Non aveva una precisa idea di cosa fare, di cosa dire, di come comportarsi al cospetto di Jerome. Sapeva solo che doveva parlargli. Doveva avere anche la sua versione dei fatti, doveva capire. Vagabondò per circa un’ora per le strade della città che si stava risvegliando. Donne che spalancavano le finestre e si davano il saluto, uomini che si accingevano a riprendere il lavoro, ragazzini di strada che si aggiravano alla ricerca di qualche gentile passante che facesse loro l’elemosina o di qualche ignaro viandante che si lasciasse facilmente rapinare. In tutto questo brulichio di vita mattutina, Antonio non riusciva a pensare a quell’ultima sera che aveva trascorso a Rivombrosa, a quella surreale, assurda conversazione con Anna. 
-        Ti ho tradito -
Antonio non realizzò subito quello che gli aveva detto. Le chiese di ripetere. Glielo chiese due, tre volte. Glielo chiese con il tono neutro, calmo, di chi veramente non ha inteso quello che gli è stato detto. Era il suo modo di rifiutarsi di credere a quelle parole: gli sembrava troppo assurdo. Lei non ripeté. Le era costato già troppo pronunciarle una volta, quelle maledette parole. Alla fine Antonio si arrese all’evidenza di quello che aveva sentito. Gli ci volle un po’ per assorbire il colpo, ma soprattutto per capacitarsene. Non avrebbe mai creduto che Anna lo potesse tradire, non per supponenza, né per leggerezza, semplicemente non aveva mai preso in considerazione questa evenienza. Dopo quello che avevano passato, anni di ostilità a parte di Anna, di frasi non dette, di sensi di colpa, anni di prove dolorose che avevano alfine superato insieme, uniti, nonostante tutto, da un amore che pareva indissolubile, era inimmaginabile quello che Anna gli aveva confessato qualche istante prima. Assurdo. Impossibile. La sua prima reazione non fu di collera, nemmeno di delusione: fu di amaro stupore, lo stupore di chi scopre che una cosa impensabile è invece già divenuta realtà.
Si passò una mano sul viso, senza tradire la minima espressione di disappunto. Raccolse a sé tutte le forze, tutta la pazienza di cui era capace. Represse lo sdegno, la collera, la furia cieca e con un tono di voce fermo e controllato chiese soltanto:
-Con chi? –
Anna si sarebbe aspettata una tempesta. Insulti, parole rabbiose, velenose, improperi. Ciò non avvenne, tuttavia il tono pacifico ma freddo di quella domanda la ferì più che una violenta sfuriata. Era il tono di chi sanguina dentro. Di chi non aggredisce, non rinfaccia, non si infuria. Ma nemmeno perdona. Antonio era così: incapace di violenza, incapace di farle del male anche solo a parole, ma, se ferito, capace infliggerle la più dolorosa delle punizioni, la sua assenza. Raggelata, tra le lacrime cominciò a narrargli quello che era accaduto, senza omettere niente. La chiamata di lui per un paziente, il disagio provato alla festa, i suoi tormenti, l’arrivo di Jerome e quella proposta seducente ma in apparenza innocente, il laudano e tutto ciò che ne era derivato ovvero l’incoscienza e, da ultimo, il tradimento. Tacque soltanto un particolare, al solo scopo di evitargli un’altra sofferenza: non gli disse di averlo sentito bussare e chiamarla mentre si trovava fra le braccia di Jerome. Non lo disse per lui, non per scusare se stessa.  Dal volto, dallo sguardo, dai gesti di Antonio non traspariva alcun’emozione. Immobile, pietrificato, distrutto dentro ma fuori impassibile. Era sempre stato molto abile a mantenere la padronanza di sé, a reprimere la rabbia. Deglutì e, incurante delle lacrime di lei, domandò soltanto:
-Perché? –
Non ottenne risposta. Anna singhiozzava con il viso fra le mani, senza riuscire a smettere. Antonio la osservava con freddezza, come se l’affezione che da sempre provava per lei si fosse d’un tratto raggelata. Domandò, quindi, a bruciapelo la cosa che gli stava più a cuore:
- E’ per questo che mi hai respinto quella sera al lago, perché sei innamorata di lui? – lo domandò con voce tremante, quasi temesse la risposta.
- No! Certo che no! Io amo solo te, Antonio! Ho sempre amato solo e soltanto te! –
Anna finalmente sembrava aver ritrovato la parola. E queste erano proprio le parole che lui anelava sentirsi dire, le parole che avrebbero potuto placare la sua sofferenza, almeno in parte. Dentro di sé si sentì sollevato, gli si allargò il cuore. Ma solo per un istante. Doveva capire. Doveva chiarire il perché, la ragione per cui gli aveva fatto una cosa simile. Niente avviene per caso, a tutto deve essere trovata una spiegazione.
-E allora spiegami perché. Proprio con lui! Con lui che tanto disprezzavi! –
- Non è dipeso da me! Tornassi indietro non gli darei ascolto, non asseconderei le sue proposte. Ma ero sola, te n’eri andato un’altra volta dai tuoi pazienti, avevo bisogno di qualcosa che mi scacciasse quei pensieri…-
- E così ci sei andata a letto. E lui, lui che si è sempre detto mio amico! Ma ti rendi conto di quello che mi avete fatto? –
- Ora sì. Allora non me ne resi conto. Non ero in me. Non ti chiedo di perdonarmi, ti chiedo soltanto di capire. Di capire che non l’ho voluto, nemmeno lontanamente, che sono state le circostanze…-
- Basta. – la interruppe con un tono brusco che non gli si addiceva. – Basta.- ripeté passandosi una mano sulla fronte. – Avrei dovuto capirlo, avrei dovuto immaginarlo quando mi hai respinto, quando per giorni non mi hai rivolto la parola…ma mai avrei pensato a lui, proprio a lui! Non voglio sentire più nulla. Partirò domattina per Parigi.-
- Per Parigi? Dio mio, Antonio, che ti salta in mente? Che vuol dire questo? Che cosa hai intenzione di fare a Parigi? – gli si aggrappò alla giacca, disperata, implorandolo di non partire, perché quel viaggio non aveva alcun senso, perché poteva anzi essere rischioso, perché scappare non sarebbe servito a nulla a nessuno dei due. Ma lui restò freddo, in apparenza insensibile ai pianti di lei, che dentro gli straziavano il cuore: avrebbe voluto stringerla fra le braccia, consolarla, concederle quel perdono che lei non osava chiedere. L’avrebbe voluto fare, ma il dolore era troppo forte: sarebbe partito, era l’unica soluzione per porre fine alla loro sofferenza.
- Anna, l’hai voluto tu. Me ne vado, qui non posso restare oltre. –
- Mi vuoi punire, lo so, e ne hai tutte le ragioni. Ma prova a capirmi…-
- A capire cosa, Anna? Che te ne sei andata a letto con il mio amico? E pensare che mi sentivo in colpa quando ti lasciavo per il mio lavoro: pensavo a te ogni istante, mi affrettavo per tornare al più presto a casa e tu intanto…tu te ne stavi fra le braccia di un altro!-
- Ma te l’ho spiegato, io non ho voluto…-
- Non voglio sentire nient’altro. Per me è tutto chiaro, ormai. Hai tradito la mia fiducia. Forse Jerome aveva ragione su di te: tu non mi ami. Dici di amarmi, ma non sopporti il mio lavoro, i miei ideali, il fatto che non sia come te, che non sia ormai più nobile quanto te…-
- Eh no, Antonio, questo no! Non ammetto che mi rinfacci questo! E quello che tu hai fatto a me? Tu mi hai abbandonato. E per cosa poi? Per sposare una serva! Una stupida, insignificante serva!- gridò con voce alterata.
- Questo non avresti dovuto dirlo.- mormorò Antonio a mezza voce indietreggiando verso la porta della stanza. -  Non ti permettere nemmeno di nominarla! Questo non avresti dovuto dirlo!-
 
Nel suo vagabondare si ritrovò infine davanti al portone del palazzo all’indirizzo che gli aveva fornito Jerome salendo in carrozza. Sembrava uno stabile popolare ma dignitoso, con un ampio portone che immetteva in un cortile interno, non era certo un palazzo signorile, di quelli che si trovano nel cuore di Parigi, ma ad aprire giunse un domestico in livrea.

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Capitolo 13
*** 4 agosto ***


I finestroni dell’ampia sala erano spalancati in quell’afosa notte d’agosto, all’interno non girava un filo d’aria. Gente pigiata in ogni angolo: popolani che avevano preso parte all’insurrezione; mastri di bottega ancora in tenuta da lavoro; qualche contadino con il cappellaccio sgualcito e l’abito liso giunto in città dalle campagne per seguire l’evolversi della situazione in quei giorni di fuoco; un paio di giovani giornalisti improvvisati che ambivano a mettere nero su bianco le gioie e i dolori del popolo; infine, si distinguevano tra tutti alcuni eleganti borghesi, avvocati forse o medici, che sedevano composti sugli scranni davanti alla tribuna da cui, di volta in volta, i capi della sommossa tenevano le loro agguerrite arringhe in attesa che giungessero notizie più certe dall’Assemblea Nazionale.
Erano stati giorni concitati quelli. Da tre settimane le campagne di Francia erano messe a ferro e fuoco da contadini inferociti e spaventati che temevano rappresaglie da parte dei loro padroni. Dopo i fatti del 14 luglio, la presa della Bastiglia e il linciaggio dell’Intendente di Parigi, si era sparsa la notizia che gli aristocratici, nel tentativo di sedare gli animi e difendere i loro privilegi in pericolo, avessero assoldato orde di briganti per intimidire, mettere a tacere, assalire, trucidare i contadini che avessero osato ribellarsi. La voce si era sparsa in men che non si dica e la Grande Paura aveva invaso le campagne di tutta la Francia. La risposta dei contadini non aveva tardato: riuniti in bande a loro volta, prendevano d’assedio i castelli dei loro antichi padroni, li saccheggiavano, rubavano le provviste lì conservate, davano fuoco ai documenti d’archivio che attestavano i loro doveri e i privilegi secolari dei signori. Il caos sembrava farla da padrone in tutto il regno, urgeva una risposta da parte dell’Assemblea Nazionale.
-Amici, compagni, fratelli! – chiamò un capopopolo dell’Artois, dall’abito logoro e dallo sguardo acceso, salito in quel momento sulla tribuna – Non ci dobbiamo vergognare di quello che sta succedendo nelle province di tutta la Francia. Anzi, dobbiamo essere orgogliosi dei nostri fratelli! Si tratta dei roghi funebri della cremazione del privilegio!-
La folla lì riunita applaudì fragorosamente al grido di -A morte i nobili! A morte l’aristocrazia! –
L’uomo scese dalla pedana e venne prontamente sostituito da un altro, un intellettuale borghese a tutta prima, ben vestito e pettinato con cura. Dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio con un cenno della mano, proseguì il discorso del compagno:
-L’ira del popolo è più che giustificata da secoli di abusi e sfruttamento. È necessaria l’abolizione immediata di quegli odiosi diritti acquisiti dall’aristocrazia nei secoli soltanto grazie all’ignoranza in cui il popolo è stato tenuto dagli stessi nobili e dal clero compiacente! –  seguì un altro scroscio di applausi e di grida entusiaste di approvazione. – Dunque, se si vuol riportare la pace nelle campagne, bisogna prima di tutto riportare la giustizia ed eliminare il sopruso che vi regna indisturbato da secoli! Abbasso l’aristocrazia e viva il popolo!-
Le grida di giubilo riempirono la sala gremita di gente, tra il fumo delle candele, quello acre dei sigari, il caldo asfissiante della notte d’estate. Era la notte del 4 agosto del 1789.
Antonio se ne stava in disparte ad osservare la scena. Aspettava l’arrivo di Jerome con le notizie di quanto deciso dall’Assemblea: era il deputato più acclamato in quel faubourg. La gente del popolo credeva in lui, si fidava di quell’avvocato dalla parlantina facile e dall’intelligenza lungimirante: in vari contesti aveva preso le difese dei popolani contro i soprusi degli aristocratici e di questo non si erano certo scordati. LeBlanc aveva ottenuto il numero maggiore di voti in quel faubourg, era amato, venerato quasi. Ma il suo assistente, quel medico che da più di un mese si portava appresso alle assemblee, era ancora guardato con diffidenza. Anzitutto perché straniero, italiano per giunta! E poi perché correva voce che fosse in realtà un nobile, un nobile decaduto, ma pur sempre di sangue blu, di sangue diverso dal loro. E, si sa, è sempre bene essere un poco diffidenti con chi è un po’ differente. Non che questa antipatia spontanea fosse evidente: nessuno si era mai permesso di fare alcuna affermazione sull’amico del deputato LeBlanc, tuttavia gli sguardi dicevano tutto. E Antonio, dal canto suo, se ne stava in disparte. Non era mai stato un suo interesse quello di prendere parte alla vita politica, non sapeva nemmeno lui come ci fosse cascato: aveva soltanto voglia di dare uno scossone alla sua vita e i frenetici avvenimenti che si erano susseguiti senza tregua in quel mese di permanenza a Parigi, l’avevano assorbito, aiutandolo a non pensare a quel che si era lasciato alle spalle. Il pensiero di Anna era sempre costante, ma gli incarichi che Jerome gli aveva affidato lo tenevano occupato per la maggior parte della giornata: si trattava di ricevere i popolani, stendere un elenco delle loro necessità, individuare quelle che consideravano le priorità, ascoltare i loro problemi e le loro richieste, promettere loro miglioramenti in cambio dell’appoggio politico e della partecipazione alle assemblee. Un lavoro d’ufficio, un intessere pubbliche relazioni, un mettere insieme discorsi persuasivi. Non era questo che lo soddisfaceva, non era questo il mestiere per cui era nato. Lo sapeva molto bene e perciò oltre a questi impegni politici trovava il tempo e il modo per esercitare la sua professione di medico, soccorrendo chi aveva bisogno, visitando e fornendo consulenze per lo più gratuite ai popolani del quartiere. Questo però non era bastato a garantirgli del tutto la fiducia e il diritto di parola in assemblea. Antonio non pareva prendersela poi molto: non aveva mai amato tenere discorsi in pubblico, in questo era sempre stato più bravo Jerome, pertanto si limitava a vivere nell’ombra dell’amico durante questi ritrovi politici.
Quella notte, però, Jerome tardava a farsi vedere. Probabilmente i lavori all’Assemblea duravano più a lungo del previsto: del resto il dibattito era più che mai acceso in quei giorni. Antonio si guardava intorno nervoso, non si sentiva a suo agio in quel contesto, non era quello il suo mondo. Finalmente, a notte fonda, ecco spuntare Jerome a toglierlo dall’imbarazzo. Avanzava seguito da altri due deputati, elegante, disinvolto, stringeva le mani alla folla che gli si era fatta da lato per farlo passare. Tutti gli sorridevano, si complimentavano, gli facevano domande su quel che si era deciso durante quella lunghissima riunione dell’Assemblea Nazionale. Con fare compiaciuto e spavaldo, pavoneggiandosi per le attestazioni di fiducia ricevute in quei pochi istanti da quando aveva messo piede nella sala, si avvicinò ad Antonio e assetandogli una fraterna pacca sulla spalla:
-Caro amico, stanotte abbiamo fatto la storia! – gli disse ammiccando e sfoderando un ampio e luminoso sorriso. Antonio notò con stupore che nonostante le lunghe ore di discussioni, nonostante la stanchezza, nonostante il sonno, Jerome conservava un viso fresco, uno sguardo vivace, un aspetto impeccabile. Lo seguì con lo sguardo quando, con estrema disinvoltura, guadagnò la pedana e prese a parlare alla folla che lo ascoltava adorante. Antonio in quel momento lo ammirò e lo invidiò allo stesso tempo: ne apprezzò la disinvoltura, la noncuranza dei suoi gesti, la capacità di tener testa ad un pubblico e di farsi amare incondizionatamente soltanto grazie alla propria arte oratoria, spiegando al pubblico quel che era stato deciso dall’Assemblea.
- L’Assemblea Nazionale, questa notte, in poco più di cinque ore, ha smantellato un sistema iniquo che vigeva da novecento anni nel regno di Francia. I privilegi nobiliari sono del tutto aboliti! Avete inteso bene, signori! Aboliti! Non esistono più, nessuno mai potrà d’ora in poi arrogarsi il diritto di rendere schiavi i suoi dipendenti, di sfruttarli, di usar loro prepotenze di ogni genere! È finita l’epoca in cui ai nobili era permesso di spadroneggiare indegnamente, di disporre della vita e della morte dei loro servi. Le nostre proposte non sono rimaste inascoltate! Abbiamo vinto! Il popolo ha vinto! Abbiamo fatto la storia della Francia, stanotte, signori! – questa fu la conclusione della sua accorata orazione. Le grida di festa del pubblico lì riunito risuonarono per un pezzo nella sala e poi nelle vie di Parigi, la loro eco si unì all’eco di tutte quelle voci di giubilo del popolo di Francia, finalmente libero dall’assurdo giogo dei privilegi nobiliari. La sala si svuotò a poco a poco, la gente si riversava nelle strade, rientrava trionfante alle proprie case, convinta di aver preso parte anche solo indirettamente ad un cambiamento epocale.
Restarono soltanto Jerome, gli altri due deputati, Antonio e quelli che a tutta prima gli erano sembrati dei borghesi annoiati che si erano intrufolati per capriccio in un’assemblea di popolani. Uscendo in strada, mentre il chiarore dell’alba si era già impadronito del cielo, Jerome cianciava allegramente coi due colleghi quando uno di quei soggetti esotici gli si avvicinò con una domanda:
-Allora, LeBlanc, congratulazioni! Siete riusciti a mettere un freno a quelle orde barbariche nelle campagne. E non è cosa da poco! Ma, dimmi, come pensate di aggiustar adesso la faccenda…?-
Il sottinteso non sfuggì a LeBlanc che, al solito, ridacchiò per qualche istante accarezzandosi compiaciuto il mento. L’interlocutore lo fissava spazientito, per cui si risolse a rispondergli:
-Ebbene, amici miei, pensate davvero che siamo così sprovveduti? Credete davvero che daremo tutto in mano a quei quattro pezzenti? Da domani l’Assemblea si riunirà di nuovo e “aggiusteremo” la faccenda, come dici tu. I diritti sulla rendita della terra continueranno a essere riscattati ovviamente, non possiamo colpire i proprietari terrieri! –
- Oh, che sollievo! Menomale! Durante il tuo discorso temevo che…-
- Ma smettila, Gerard! Non dirmi che pensavi davvero che avremmo compromesso così gli interessi dei proprietari come te? Non si tratta solo di parrucconi aristocratici, ma anche di borghesi come me e te! I proprietari continueranno a ricevere un’indennità, ci mancherebbe altro! Pensavi davvero che avremmo lasciato mano libera alle bande dei contadini? E vada bene la rivoluzione, ma cum iudicio, senza che vengano danneggiati gli interessi dei cittadini onesti. –
- Ben detto, Jerome, ben detto. Farai strada nell’Assemblea, te lo dico io. Avrai certamente i nostri voti.-
Mentre i due si scambiavano gli ultimi convenevoli prima di congedarsi, Antonio restò in disparte ad osservarli perplesso. Aveva creduto a Jerome, alle sue parole durante l’orazione di poco prima, si era entusiasmato all’idea che si stesse vivendo un cambiamento epocale, che finalmente gli sfruttati avrebbero avuto libertà e giustizia dopo secoli di soprusi. E invece nulla era cambiato, o meglio era cambiato il nome di quelli che potevano essere i padroni, non più conti, duchi e marchesi, ma banchieri, notai, avvocati, pur sempre padroni, pur sempre sfruttatori. Era profondamente deluso. Per la seconda volta il suo amico Jerome aveva tradito la sua ingenua fiducia.
-Che significa tutto questo? I diritti feudali sono stati aboliti, allora perché ancora quelle tasse?- domandò infervorato a Jerome, afferrandolo con decisione per un braccio non appena si fu liberato dell’interlocutore.
- Antonio, non essere ingenuo. Il popolo va blandito, ma mai del tutto accontentato. La classe dirigente deve tenere salde le redini, altrimenti è l’anarchia. Compromesso, mediazione, e perché no, anche menzogne, quando servono!- gli rispose machiavellico con uno dei suoi sorrisi.
- Ma questa è ipocrisia! – obiettò indignato Antonio.
- Sei tu un idealista illuso. Questa è la politica, mio caro! -
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non le riusciva proprio di prender sonno, quella notte: sarà stato per l’afa agostana che non lasciava traspirare un filo d’aria, sarà per i pensieri che da mesi ormai continuavano a tormentarla, sarà stato per la sua solita insonnia, ormai compagna fedele delle sue notti. Anna si girava e rigirava nel letto senza trovare pace. Da quando Antonio era partito, senza far più avere sue notizie, era caduta in uno stato di prostrazione tale che le aveva completamente tolto la voglia di vivere. Nei primi giorni era addirittura caduta malata, dopo una settimana trascorsa senza mangiare né dormire, il suo fisico aveva iniziato a dare segnali di cedimento. Una forte febbre aveva fatto preoccupare non poco Fabrizio, il quale aveva mandato a chiamare uno dei medici più valenti della contea perché visitasse la sorella, che tuttavia rifiutò le cure e si barricò nelle sue stanze. Restò a letto, febbricitante e totalmente priva di forze, per quasi tre settimane. Rifiutava la luce del sole, rifiutava il cielo terso d’estate, rifiutava la compagnia di Elisa, la vista della piccola Agnese, le visite di Fabrizio, le lettere di Emilia. A Fabrizio non riusciva proprio di farla ragionare, non riusciva a infonderle quella forza che le avrebbe permesso di riprendere in mano la sua vita. Sapeva benissimo quanto Antonio contasse per lei, sapeva anche che senza di lui avrebbe perso il sorriso, lo slancio vitale, sarebbe ripiombata nell’esistenza grigia e frustrante che conduceva durante il matrimonio con Alvise; ma era anche convinto che non tutto fosse perduto, che avrebbe anzi dovuto continuare a lottare per se stessa, per Emilia, per lui, suo fratello e anche per Antonio stesso. Fabrizio era sicuro che un amore come il loro non poteva essere spento dall’errore di una notte, da un insignificante momento di debolezza: era certo che, smaltita la rabbia, la delusione, lo sconforto, Antonio sarebbe ritornato da lei. Ne era certo. E glielo ripeteva costantemente.
E a queste parole del fratello lei pensava giorno e notte da più di un mese. Aveva voluto crederci all’inizio, aveva voluto sperare di veder comparire Antonio sulla soglia della sua stanza, pronto a perdonarla, ad abbracciarla, a stringerla a sé per farle dimenticare quel brutto incubo. Ma i giorni passavano e questo non succedeva. Pian piano era guarita dalla febbre, aveva ripreso a mangiare e perciò anche un po’ di forze, ora si alzava, passeggiava nel giardino, scriveva ad Emilia, conversava con Fabrizio ed Elisa, insomma aveva ripreso la sua vita quotidiana. Ma sotto quest’apparente calma, un’angoscia inesprimibile l’attanagliava di giorno in giorno sempre più. Quella notte d’agosto, quella in cui a Parigi si scriveva la storia, fu per lei la più lunga di tutta la sua vita. Non chiuse occhio nemmeno per un istante da quando si era congedata da Fabrizio ed Elisa che la guardavano con occhi allo stesso tempo preoccupati e compassionevoli. Si cambiò, si mise a letto, tentò invano di leggere un libro ma ogni storia che vi trovava scritta la disgustava, pertanto restò a fissare il soffitto finemente decorato fin quando la luce della candela sul comodino glielo permise. Quelle decorazioni le richiamavano il tempo della sua infanzia, quando, non riuscendo a dormire, si ritrovava a fissarle allo stesso modo in cui faceva in quella notte d’agosto. Pensava ai giochi infantili con suo fratello, alle fiabe che le leggeva Amelia la sera, ai sogni, alle speranze, alla splendida visione della vita che le si parava dinnanzi fra le rose curate del giardino e gli zampilli della fontana. Pensava a sua madre, ai suoi consigli, ai suoi rimproveri, alla sua capacità di intuire sempre quello che lei tentava ad ogni costo di nascondere. La madre conosceva da sempre i suoi sentimenti per Antonio e la metteva di fronte a quella realtà anche nel momento in cui lei si ostinava tenacemente a negarla. Quanto avrebbe avuto bisogno di lei in questi momenti! Anche le sue parole a volte taglienti sarebbero state per lei ristoratrici. E invece si ritrovava sola in balìa dei suoi dubbi, dei suoi rimorsi, dei suoi timori.
Si alzò dal letto e si avvicinò con passo felpato alla finestra che dava sul cortile. In quella notte d’agosto ogni cosa era al suo posto, ogni cosa rifletteva la serenità della notte estiva. Eppure, in quella pace, la mancanza di lui si faceva sentire più forte che mai, tanto da toglierle il fiato. Restò affacciata a respirare l’aria notturna per più di un’ora, smarrita lungo le tortuose vie dei suoi pensieri che la conducevano alla sua giovinezza.
 Poi, allo spuntare del giorno, quando i primi raggi del sole avevano iniziato a illuminare le cime degli alberi a oriente, prese quella inoppugnabile decisione. Sarebbe partita.
I Farnese possedevano un palazzo a Parigi, dove le sorelle del duca erano solite trascorrere gran parte dell’anno, per poter così prendere parte alla rutilante vita mondana della capitale francese, essere aggiornate sulle ultime mode, discorrere con artisti e pensatori: che vita più entusiasmante rispetto a quella che avrebbero potuto trascorrere tra le nebbie della pianura padana!
Anna si ricordò di loro, durante quella notte. Ricordò Teresa, alta e slanciata, dai capelli dorati e dall’aria cordiale, che non si perdeva mai un ballo, ricordò Sofia, la minore, civettuola e ciarliera, dalla risata argentina. Le aveva incontrate più volte durante i ricevimenti e le feste da ballo a cui la famiglia Ristori era solita prendere parte, al tempo della sua giovinezza. Per la verità, nonostante le insistenze di sua madre, non aveva mantenuto vivi i contatti con le duchesse, perché, interamente presa dall’amore per Antonio, aveva ben presto perso interesse ai balli e alle occasioni mondane, salvo pentirsene dopo il cocente rifiuto che lui le inflisse. Si rese conto però che era giunto il momento per chiedere l’aiuto delle vecchie amicizie. Le era tutt’un tratto tornata la voglia e la forza di lottare, di gettarsi a capofitto nella vita pur di ottenere quello che più le stava a cuore. Fino a qualche giorno prima le sarebbe parsa impensabile l’idea di partire per Parigi, così senza nemmeno conoscere l’indirizzo di Antonio, alla cieca ricerca di lui in mezzo ai tumulti della rivoluzione; invece quella notte niente le pareva impossibile, niente doveva essere lasciato intentato.
Architettò in men che non si dica un piano. Non poteva certo rivelare alle duchesse il reale motivo del suo viaggio a Parigi: inseguire un uomo, di cui peraltro non era neppure la moglie, compromesso con i rivoluzionari, che era fuggito da lei a causa del suo tradimento. Sarebbe stato poco dignitoso. Avrebbe invece potuto far leva sul fatto che Emilia si trovasse nella capitale a studiare, e che lei fosse in pensiero per le sorti della figlia in quel momento concitato. Non era questa del tutto una scusa, era davvero in ansia per Emilia e l’avrebbe riportata al più presto a Rivombrosa; quel viaggio avrebbe avuto il duplice scopo di riportare a casa le due persone che amava di più al mondo. Tutto sembrava plausibile, l’unico ostacolo poteva essere la disapprovazione di Fabrizio, preoccupato per il lungo viaggio che avrebbe dovuto sostenere e per i pericoli a cui sarebbe stata esposta a Parigi. Ma a questo avrebbe pensato in seguito. Chiuse la finestra, si mise allo scrittoio, intinse la penna nel calamaio e, alla luce dei primi raggi di sole, cominciò a stendere la lettera.

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Capitolo 14
*** Vita nuova ***


-Chi cercate, monsieur?- domandò in francese. Antonio restò perplesso. A servizio di chi era quest’uomo? Abitavano qui famiglie dell’alta borghesia? Non sembrava certo un quartiere nobiliare, ma nemmeno degno dei borghesi più opulenti. Tuttavia cercò di dissimulare la sua perplessità e rispose, rispolverando il suo traballante francese:
- Cerco l’avvocato Jerome LeBlanc. Sono un vecchio amico italiano. Voi lo conoscete? –
- Oui, certamente. È il mio padrone. Al vostro servizio, monsieur. – si inchinò. – Il padrone è nel suo studio: è molto impegnato questa mattina, non so se potrà ricevervi. Potete attendere al piano di sopra.–
E così dicendo gli fece strada e lo accompagnò su per le scale, varcarono una porta e si trovarono in una stanza che aveva tutta l’aria di essere un’anticamera. Una stanza ben arredata, ordinata, lustra, mobilio di pregevole fattura, candelabri d’oro, chincaglierie orientali. Non si faceva mancare niente, Jerome! Antonio per la seconda volta in pochi minuti restò stupito: un domestico, arredamento di lusso, ori…Che diavolo faceva Jerome a Parigi? Come riusciva a procurarsi tutte quelle ricchezze?
Attese lunghi istanti, girandosi nervosamente il cappello fra le mani e vagando con lo sguardo per le pareti della stanza. Sentiva il disagio crescere dentro di lui più il tempo passava: incominciava a dubitare di aver fatto la scelta giusta partendo alla volta di Parigi, si chiedeva che senso avesse avuto voler incontrare Jerome, che cosa avrebbe potuto ricavare da quel confronto, quale fosse l’utilità della sua permanenza nella capitale.
-Spiacente, monsieur. L’avvocato non può ricevere. Non vuole essere disturbato, ha urgenti affari politici da sbrigare. – comunicò cordiale ma fermo il domestico, di ritorno nell’anticamera.
- Ma io devo parlargli con urgenza! Sono venuto apposta dal Piemonte. Gli avete detto che lo cerca il suo amico Antonio Ceppi?! – perse la pazienza: quella situazione assurda lo stava estenuando.
- Non mi avete fatto il vostro nome. Come avrei potuto? – si giustificò il servo. – Comunque non è possibile. Ripassate nell’apres-midi. – concluse, irremovibile.
Antonio con un gesto stizzoso e per lui inconsueto scostò bruscamente il domestico, che protestò vivacemente, per farsi largo. A passo deciso percorse il corridoio, bussò ad alcune porte prima di trovare quella giusta.
-Avanti! – rispose Jerome con tono scocciato.
Antonio restò qualche istante in attesa. Le mani gli sudavano, rivoli di sudore freddo gli scorrevano lungo la schiena, gli occhi stralunati, le labbra tremanti: stava facendo un immenso sforzo per contenersi, per trattenere la rabbia covata in quei giorni.
-Avanti!- ripeté dall’interno Jerome. – Suvvia, Edmond, si può sapere chi…- domandò innervosito aprendo la porta con il fare brusco e spazientito di chi viene interrotto mentre sta portando a termine un lavoro importante. Convinto di aprire al suo domestico, si trovò di fronte Antonio con lo sguardo torvo, le labbra serrate, il viso provato da un sentimento che Jerome non riusciva lì per lì a decifrare.
– Ah, Antonio! Eri tu allora che mi cercavi!- esclamò sorpreso, passando agevolmente all’italiano. Non aveva perso il suo sorriso sardonico, né quel lampo di scaltrezza negli occhi verdi. - Te l’avevo detto che ci saremmo rivisti pres…-
Non riuscì a terminare la frase. Un pugno. Un pugno diretto in pieno viso. Un pugno scagliato con tutta la rabbia, la violenza di cui era capace. Un pugno che gli sarebbe servito, forse, per placare il dolore, l’onta, l’amarezza per quel duplice tradimento. Non ne era mai stato capace, prima di allora in vita sua, mai si era trovato a colpire qualcuno e mai si sarebbe aspettato di picchiare un amico. Ma, per una volta, il suo ferreo autocontrollo aveva ceduto sotto la spinta della gelosia, dell’orgoglio ferito, della disperazione di chi si vede tutt’un tratto mancare il terreno sotto ai piedi.
-Ma che diamine stai facen…- tentò di obiettare Jerome, tenendosi una mano sul naso dolorante, quando un nuovo colpo gli fece perdere l’equilibrio e lo fece ribaltare all’indietro. Cadde di schiena contro la scrivania, mentre i fogli su cui stava lavorando svolazzarono per la stanza, atterrando sparsi qua e là sul pavimento. Anche il calamaio si rovesciò, l’inchiostrò gocciolò dalla scrivania sul pavimento lindo.
Antonio fissava senza fiatare i rivoli scuri che rigavano il legno e si disperdevano a terra, incredulo. Non si rendeva conto di quel che aveva appena fatto. Vide le mani di Jerome imbrattarsi di sangue. Sanguinava dal naso o dalla bocca? Non riusciva a capirlo, né aveva troppa voglia di indagare. Non si sentiva chiamato a soccorrerlo: per una volta aveva messo a tacere la sua vocazione di medico per lasciare spazio ad una rabbia tanto più umana.
Passarono alcuni istanti di freddo silenzio. Tutto sembrava sospeso in quella stanza, luminosa e chiassosa per via dell’ampie finestre che davano su di una affollata strada parigina. Nella tranquilla routine di quella mattina di lavoro, uguale a tante altre, sembrava essere passata una tempesta, capace di stravolgere tutti i piani di Jerome. Infine, appoggiandosi faticosamente con la mano destra sulla scrivania, si rialzò in piedi. Si deterse con un fazzoletto il sangue, si sprimacciò il vestito e, cosa inaspettata, scoppiò in una fragorosa risata.
-Mio caro amico, finalmente! – esclamò poi fra le risa, volgendo il suo sguardo su Antonio, il quale non capiva e seguitava a guardarlo spaesato. Non si capacitava del gesto che aveva compiuto, meno ancora della reazione dell’amico. Le sue risa, ancora una volta, lo indisponevano: ogni volta pareva mettere in ridicolo i suoi gesti, le sue parole, pareva annientarli con l’ironia, con quel sorriso obliquo e sprezzante, con quella fastidiosa risata.
-Finalmente mi dimostri che sei un uomo anche tu! – si spiegò, tornando d’un tratto serio e invitando Antonio ad accomodarsi su di una poltroncina, quella su cui usavano sedersi ansiosi i suoi clienti. Antonio rifiutò scuotendo leggermente il capo, fu l’unico movimento che riuscì a fare. Jerome raccolse i fogli sparsi, raddrizzò il calamaio e aggirò con fare disinvolto la scrivania. Si sedette comodamente sulla sedia, tenendosi un fazzoletto sul naso ancora sanguinante, senza smettere fissare negli occhi l’amico che si ostinava a rimanere in piedi.  Nessuno dei due parlò per qualche istante. Poi fu Jerome a rompere il silenzio, parlando con il tono di chi la sa lunga:
- Tutto è andato come pensavo. Sono riuscito a farti aprire gli occhi sulla tua bella marchesa e anche se ho rimediato un pugno sul naso, poco male. Ciò che mi premeva era che ti accorgessi del fatto che lei non è diversa dalle altre. Non è altro che una nobildonna annoiata che non trova di meglio da fare che andare a letto con il primo che ospita nel suo palazzo, così per capriccio, per svago. Come per svago si tiene come amante il medico del borgo... Eh, Antonio, son tutte così queste aristocratiche viziate in cerca di emozioni forti. Io le conosco bene! –
Il medico lo fissava sdegnato e insieme deluso, conficcando gli occhi tersi e amareggiati in quelli sfuggenti dell’amico, che riprese la sua filippica:  - Mentre, invece, debbo tessere le lodi della tua graziosa cognata: una vera figlia del popolo, di sani principi, incrollabili. Come ho sempre sostenuto, il popolo è incorrotto e incorruttibile e la dolce Elisa ne è l’emblema; lo stesso non posso dire della classe aristocratica, viziata e viziosa, come la tua adorata Anna. – concluse con un sorriso beffardo la sua tesi, sperimentata a danno del suo amico di gioventù. Ad Antonio bruciava il fatto che gli venisse rinfacciato un suo presunto tradimento degli ideali di un tempo, il suo lassismo; ma soprattutto gli doleva ammettere che l’amico avesse espresso né più né meno quello che lui in astratto aveva sempre pensato riguardo all’anima pura del popolo e a quella corrotta della nobiltà. Ma quanto quei principi astratti si discostavano dai sentimenti, dalle passioni profonde della vita reale! Come conciliare questa dicotomia insanabile?
Antonio, colto sul vivo, passò al contrattacco: - Sei stato tu. Sei stato tu a irretirla, tu con il tuo maledetto laudano! L’hai ingannata, l’hai drogata, le hai fatto perdere la ragione. E per cosa poi? Per colpire me? Per vendicarti del fatto che non volessi partire con te? –
- Amico mio! Povero illuso! Questo è quello che ti ha raccontato la tua Anna? Ti ha detto così? – gli chiese con quell’irritante sorriso stampato in faccia. Antonio taceva, con espressione corrucciata non distoglieva lo sguardo da quello dell’amico. – Bene, sappi che c’è voluto pochissimo a convincere la tua cara, carissima marchesa degli effetti benefici del laudano, che era perfettamente cosciente e consenziente, che addirittura è stata lei a invitarmi ad entrare nella sua stanza, io me ne sarei ben guardato dal violare la sua intimità. Sono un galantuomo, dopotutto! Ma tant’è…- e prese a guardarsi intorno con aria indifferente, come se non stesse dicendo nulla di rilevante, come se dalle sue parole, dal suo racconto non dipendesse la sofferenza profonda del suo amico. Si mise a passeggiare per la stanza con le mani dietro la schiena, girando attorno ad Antonio, sempre ritto in piedi, di pietra.
- Ah, forse non te la spiegata in questo modo la marchesa? – finse di meravigliarsi dopo un lungo silenzio.
- Sei un bugiardo! Che gusto ci provi a gettare fango su di lei? Dimmelo! – ribatté sempre più scuro in volto Antonio.
-Antonio, – lo blandì, infine, Jerome col tono di un maestro che si rivolge ad uno sprovveduto allievo. – non te la prendere, non getto fango su di lei: le donne sono tutte così. Infide. E la gran dame sono le peggiori. Tu non hai mai voluto capire questo semplice concetto. Guarda me. Mai nessuna donna è durata più di una notte con me. E sono felice, estremamente felice così! Niente struggimenti inutili, niente promesse vane, niente patemi d’animo, gelosie, ripicche. Niente di niente, solo una gran pace. Ma tu sei sempre stato un idealista, amico mio, un gran sentimentale e queste sono le conseguenze. Guarda come ti sei ridotto per una nobildonna capricciosa e dai facili costumi come tante altre…-
- Non ti permettere di parlare di Anna. – lo interruppe bruscamente.
- Ma ancora con questa Anna, ma non hai capito quello che…-
- T’ho detto di non parlare di lei. Tu non la conosci.- ribatté a denti stretti.
- Bè, forse no, ma almeno in senso biblico posso dire di averla conosciuta…ed è stata una piacevole conoscenza!- obiettò con un sorrisetto compiaciuto. Il suo umorismo non l’abbandonava mai, gli serviva per stemperare le situazioni, sminuire l’interlocutore.
Antonio questa volta riuscì a trattenersi: pur fremendo di sdegno, aveva riacquistato il suo ben noto autocontrollo. Tuttavia i suoi occhi celesti, di solito limpidi e tersi, mandavano lampi d’ira, lampi di una furia sprezzante e profonda. Jerome non ne pareva spaventato, semmai quasi divertito. Conosceva bene il suo amico, sapeva che quel pugno gli sarebbe pesato sulla coscienza e l’avrebbe fatto rimuginare per giorni, ed era, perciò, certo che non si sarebbe azzardato a ripeterlo una seconda volta. Antonio strinse con forza la spalliera della seggiola, soffiò rabbiosamente l’aria dalle narici, e infine, dopo essersi ricomposto, disse:
-Non son qui per discutere con te di Anna. Questo discorso l’ho affrontato appena entrato. Per me è già chiuso. Sono qui per parlare di quell’incarico che mi proponesti. –
Jerome si arrestò di colpo, stupefatto da quanto aveva appena udito. Si portò una mano alla tempia e chiese con aria sinceramente sorpresa:
-Ho sentito bene? Mi stai dicendo che vuoi accettare l’incarico?-
- Non lo faccio per te, sia chiaro. Ma nulla ha più senso, ormai: mi restano soltanto i miei ideali. E io voglio fare della mia vita un servizio reso al popolo. – rispose mesto, abbassando lo sguardo.
- Oh, molto bene, Antonio! Vedo che cominci a ragionare, sei tornato quello di una volta! Non perdiamo un minuto di tempo, siediti, ti spiegherò tutti i dettagli del caso. –
- Solo una cosa ti chiedo, Jerome. Non nominare mai più Rivombrosa: non ne voglio sentir parlare mai più.-

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Capitolo 15
*** Vita parigina: dai salotti ai fauborugs ***


-Che piacere rivedervi, mia cara Anna! Quanto tempo è passato e quante volte ci siamo ripromesse di scrivervi, io e mia sorella Sofia, potete vedere la vita frenetica che conduciamo qui a Parigi. Abbiamo pochissimo tempo, ma non significa che ci siamo dimenticate degli amici di gioventù! – Teresa Farnese, in uno splendido abito in taffetà blu scuro, si faceva incontro ad Anna, appena scesa dalla carrozza nel cortile interno del palazzo. Un palazzo pregevole, nel centro di Parigi, con un ampio giardino interno all’italiana, scaloni di marmo, ampie sale da ricevimento; apparteneva al defunto marito di Sofia, il duca di Martignac, che l’aveva poi lasciato in eredità alla giovane sposa. Le due sorelle trascorrevano lì la maggior parte dell’anno, circondate dai numerosi amici parigini, dai vari amanti e cicisbei dell’alta nobiltà francese. Quasi ogni sera, estate o inverno che fosse, tenevano ricevimenti e balli, a cui prendevano parte oltre ad aristocratici di mezza Europa, ufficiali dell’esercito, arcipreti, ricchi banchieri, magistrati, funzionari del regno e, per aggiungere una nota di cultura, anche intellettuali illuministi, maîtres à penser ansiosi di diffondere le proprie idee tra le madame annoiate e i loro mariti distratti. Si respirava un clima decisamente diverso rispetto a quello del regno di Piemonte, in cui la nobiltà del luogo si mostrava molto chiusa e diffidente rispetto alle nuove filosofie. Nelle ultime settimane, però, le cose erano cambiate. I tumulti che avevano messo a ferro e fuoco la città nel mese di luglio e gli echi delle sommosse che si compivano nelle campagne avevano messo in allarme la nobiltà cittadina. Balli e ricevimenti si tenevano lo stesso, ma erano meno frequenti, meno affollati, meno spensierati: i portoni venivano immediatamente serrati dalla servitù all’ingresso di ogni carrozza, gli invitati non scendevano fin quando non veniva dato loro il benestare di mettere piedi fuori dall’abitacolo, il tragitto per giungere al palazzo dalle loro residenze era ricco di imprevisti e insidie, i discorsi che si tenevano non erano più leggeri e divertenti, ma vi si insinuava la paura che tutto un mondo stesse per crollare sotto i colpi dei forconi e delle spranghe del popolo parigino. In questa temperie, tesa e desolata, Anna fece il suo arrivo a palazzo dei Farnese.
- Mi vogliate perdonare, Teresa, ma non ho avuto una vita tranquilla negli ultimi anni. Ah, se ripenso alle nostre chiacchiere di gioventù! Quanto è stato tutto poi diverso! – si scusò Anna, facendo eco alle parole di scusa della duchessa.
- Abbiamo saputo, cara, di vostro marito, della sua terribile sorte. Quanto ci è dispiaciuto! –
- Non è stato un periodo facile, quello…- si limitò a rispondere, in grande imbarazzo.
- Oh, Anna, come sono contenta che siate qui! – esclamò sopraggiungendo Sofia in quel momento, in un vestito di chiffon bianco di pregevole fattura. Lo sfarzo certamente non mancava loro.
La conversazione continuò nella sala da tè. Comodamente sedute su un divanetto di raso color senape, in mano tazze di porcellana di pregiata fattura giapponese, le duchesse intrattenevano l’ospite appena arrivata cianciando delle novità della vita parigina. Ci si sarebbe aspettati racconti delle sommosse del mese di luglio, del caos che regnava in tutta la Francia in quelle settimane, del Terzo Stato che voleva usurpare il potere del re, dei popolani che rialzavano la cresta e avanzavano assurde pretese, insomma ci si sarebbe aspettati un quadro più o meno parziale della situazione che vigeva allora in città. In realtà le notizie, di cui Teresa e Sofia si compiacevano, vertevano sulle nuove mode, sulle acconciature più in voga nelle feste da ballo a Versailles, sulle tresche vere o presunte tra nobildonne e ufficiali o tra ambasciatori e mogli di banchieri, sulle vicissitudini della casa reale e su quanto di più banale si potesse immaginare. Anna ascoltava distrattamente questi discorsi, sorseggiando con eleganza il bollente tè nero: non era questo che le interessava, avrebbe voluto saperne di più sulle rivolte in atto, sui deputati del Terzo Stato, sugli avvocati più in mostra nell’agone politico…Per farla breve, avrebbe voluto chiedere loro di Jerome LeBlanc. Sapeva quanto fosse contesa la sua presenza nei salotti parigini: tutti facevano a gara per invitarlo, vista la sua eleganza, la sua disinvoltura, la sua arguzia nell’intavolare una conversazione su qualsiasi tipo di argomento, fossero facezie o scottanti questioni politiche, e non da ultimo, le dame parigine non disdegnavano nemmeno la sua bella presenza. Era perciò convinta che le duchesse Farnese lo conoscessero, anche solo di nome, e potessero darle qualche informazione su di lui, sulla sua residenza, sul suo lavoro in Assemblea. Doveva rintracciarlo a tutti i costi: solo Jerome le avrebbe potuto dire dove si trovasse Antonio. Non era, però, così facile portare il discorso su di lui: le Farnese si sarebbero certamente insospettite, le avrebbero fatto domande su come l’avesse conosciuto, su quali legami intercorressero tra una marchesa del regno di Piemonte e un rampante avvocato della provincia francese. Le eventuali domande sarebbero state difficili da gestire, meglio aspettare che fossero loro ad intavolare il discorso, o meglio ancora cercare di carpire qualche informazione dagli ospiti invitati durante i loro frequenti ricevimenti.
-E come sta vostro fratello Fabrizio? Perché non è venuto con voi? Ci avrebbe fatto così piacere…- domandò con fare civettuolo Sofia, risvegliando Anna dalle sue congetture.
Fabrizio. Il nome di suo fratello le riportò alla mente la loro ultima discussione, prima che lei partisse.  Non era stato per nulla facile convincerlo a lasciarla andare. Da sola. Aveva avanzato diversi pretesti, scuse, suppliche affinché non partisse per Parigi. Diceva che sarebbe stato pericoloso, che sarebbe stato, anzi, inutilmente rischioso perché Antonio sarebbe a breve tornato spontaneamente, che non avrebbe avuto senso rischiare, che avrebbe mandato lui stesso Angelo a prendere Emilia al convento e a portarla in salvo a casa.
-Ho deciso, ormai, Fabrizio. Devo partire. Devo farlo. O vuoi che continui a logorarmi in questo modo qui a Rivombrosa? – ribatté stizzita alle sue rimostranze.
- Non ho detto questo. Non voglio assolutamente vederti nello stato in cui eri nelle ultime settimane. Dico solo che…-
- Che cosa, Fabrizio? Che Antonio tornerà? Abbiamo visto che non è stato così. Devo parlargli, solo parlandogli guardandolo negli occhi, potrà convincersi che il mio pentimento è sincero. Restare qui è solo tempo sprecato. E poi devo riportare a casa Emilia. Non voglio che resti in quell’anarchia un giorno di più. –
-Anna, ragiona! Questa è una follia! Manderò Angelo a prendere Emilia, la riporterà a casa immediatamente. Ma tu non puoi partire per Parigi così, senza sapere nemmeno dove sia Antonio, senza avere alcun appoggio…-
- Ti sbagli: le duchesse Farnese mi ospiteranno con gran piacere, si sono dette anzi onorate del fatto che ci siamo ricordati di loro. Partirò la prossima settimana. –
- Allora verrò con te. Ti accompagno.-
- Fabrizio, questo è fuori discussione. Andrò da sola. Si insospettirebbero ancor di più se andassimo in due. Non dovranno sapere nulla di Antonio, di LeBlanc e di tutta questa storia. Non possiamo rischiare.-
- Io continuo a non seguirti. A che scopo cacciarsi nei guai, in una situazione instabile e pericolosa come quella di Parigi di questi ultimi tempi? È assurdo! –
- Assurdo? Parli proprio tu? Tu che per amore hai sfidato le convenzioni, ti sei messo contro la tua famiglia, me compresa? Tu parli di assurdità? Io amo Antonio. E per lui sono disposta a tutto. Ricordatelo. -
 
Da quella notte d’agosto non aveva più voluto saperne di comizi, assemblee e riunioni politiche. E nemmeno del suo amico Jerome. Era disgustato, nauseato, deluso e arrabbiato. Arrabbiato soprattutto con se stesso, per essere stato tanto ingenuo da credere per un momento che si potesse, attraverso la partecipazione alla vita politica, cambiare lo stato di cose, ribaltare l’ordine iniquo che vigeva da secoli, concedere finalmente la dovuta dignità agli sfruttati e agli oppressi. Invece tutto si era rivelato un inganno, teso soltanto a rafforzare il potere dei padroni, che forse non sarebbero più stati aristocratici dal sangue blu, ma ricchi borghesi ugualmente privi di scrupoli e acciecati per di più dallo spirito di rivalsa sociale. A farne le spese sarebbero stati ancora una volta i più deboli, i contadini, i popolani, i derelitti che vivevano al margine della società: per loro il momento del riscatto non sarebbe mai arrivato. Si era quindi defilato, ritirato in disparte nel suo modesto appartamento di rue de Saint Martin, lontano dai richiami di guerra e di rivolta, ma soprattutto lontano dalle vibranti arringhe di Jerome, che ormai lo disgustavano, dopo averne conosciuto l’ipocrisia. Il suo era un alloggio spoglio e disadorno, al primo piano di un palazzo di periferia che dalla facciata si sarebbe detto squallido, ma nella sua abitazione Antonio, che pure non aveva mai indugiato nel lusso e nello sfarzo, non rinunciava all’ordine e alla pulizia a cui era sempre stato avvezzo. Quattro stanze, un mobilio semplice e austero, uno studio doveva teneva gli strumenti del mestiere e dove di quando in quando riceveva i suoi miseri pazienti. Aveva ripreso la sua attività di medico a tempo pieno e ne era felice. Era molto più felice di quando si perdeva dietro alle spregiudicate idee di Jerome, quando doveva carpire il volere del popolo perché fosse trasformato in consenso elettorale, quando doveva convincere, vendere fumo, e, alla luce dei fatti successivi, ingannare. Finalmente, dopo mesi, era di nuovo in pace con se stesso, con la sua coscienza: aveva ripreso a esercitare la professione che tanto amava; si era fatto benvolere dalla gente del quartiere, nonostante l’iniziale diffidenza dovuta soprattutto alle sue origini italiane; viveva dignitosamente, per quanto spesso i suoi pazienti più poveri non fossero in grado di pagarlo e in città fosse più difficile che potessero ricompensarlo con prodotti della terra o animali, come avveniva in campagna. Tuttavia non aveva di che lamentarsi, riusciva a pagarsi vitto e alloggio e a mantenere anche un giovane garzone, che provvedeva alla casa e lo accompagnava di quando in quando nel giro di visite quotidiano.
Dalla metà di settembre, su insistenza del suo garzone, acceso sostenitore delle idee rivoluzionarie e suo grande estimatore, aveva ricominciato a frequentare circoli politici. Ma questa volta era diverso. Era entrato a far parte di uno dei più integralisti dei club che si stavano allora formando, frequentato quasi esclusivamente da sanculotti, popolani, attivisti rivoluzionari dei più estremi: ricchi borghesi annoiati e ipocriti avvocati di grido non erano ammessi. Antonio vi aveva aderito più per solidarietà nei confronti di quelli che erano i suoi pazienti, che per reale convinzione: con la sua breve esperienza politica aveva chiuso e infatti rifiutò deciso quando gli offrirono la possibilità di candidarlo quale loro rappresentante alle future elezioni della Costituente. Lui, italiano, non avrebbe potuto accedervi in ogni caso, ma la proposta lo lusingò alquanto. Era amato e stimato dalla gente del popolo, come lo era sempre stato dai contadini a Rivombrosa. Rivombrosa. Ogni tanto gli ritornava alla mente. Ripensava alla sua gente, a Fabrizio, a Elisa. Ad Anna, no: quella era un pensiero fisso, costante, incrollabile. Un pensiero che a seconda dei momenti si tingeva di delusione, di rabbia, di tenerezza, di apprensione: un inestricabile insieme di sentimenti, difficili da riordinare, ancor più difficili da accettare. Spesso era stato sul punto di mollare tutto e ritornare, soprattutto dopo la delusione inflittagli per la seconda volta all’amico Jerome, ma non ne aveva poi mai avuto il coraggio. Non sapeva che cosa l’avrebbe atteso, al suo ritorno, aveva paura che le cose fossero cambiate durante la sua assenza, aveva paura del confronto con lei, aveva paura di non essere in grado di perdonarla o di non essere perdonato da lei. Perciò puntualmente rimuoveva il problema, la notte, a letto, si limitava a fantasticare su un suo possibile arrivo a Rivombrosa, sulle reazioni degli amici, dei domestici, ma non gli riusciva, o meglio si negava, di immaginare quello che avrebbe detto o fatto Anna. Ancora bruciavano le ultime parole che si erano scambiati, ancora era troppo forte la sofferenza, ma ogni giorno di più aumentava la paura di essersi irrimediabilmente persi.

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Capitolo 16
*** Audacia ***


 
Non c’era più tempo da perdere, si era detta. Era ormai un mese che si trovava ospite delle duchesse Farnese e non era ancora riuscita ad ottenere le informazioni che le interessavano. Aveva però fatto visita ad Emila al convento del Sacro Cuore, nel centro di Parigi. Le aveva parlato e si era sentita molto orgogliosa dei progressi della figlia, che prometteva di diventare una delle più brillanti allieve del collegio. Ormai parlava francese molto più fluentemente di sua madre, conosceva il latino, leggeva moltissimo e si dimostrava sempre più una ragazzina giudiziosa, seria e, cosa che più confortava la madre, serena. Passava regolarmente una volta a settimana a trovarla, passeggiava nel cortile interno con lei per circa un’ora, ascoltava le lezioni che le ripeteva, le consegnava la corrispondenza dello zio e di Elisa, conversavano del più e del meno. Quanto le era di conforto quell’ora settimanale! Si diceva che, comunque fosse andata, anche se non fosse riuscita a rintracciare Antonio, quel viaggio a Parigi sarebbe stato lo stesso provvidenziale. La vicinanza della figlia, la possibilità di vederla così di frequente, di starle vicino, le faceva dimenticare ogni altra preoccupazione. Ed era sempre più convinta della necessità di riportarla con sé a Rivomborsa quando fosse partita. Forse per i suoi studi sarebbe stato meglio restare lì, ma i venti di ribellione che si facevano di giorno in giorno più feroci  la facevano temere per la sua incolumità e il bisogno, per quanto egoistico, di averla accanto, la facevano propendere per questa decisione. Ad Emilia non ne aveva ancora parlato, avrebbe affrontato il discorso più avanti, ma era sicura che, avendole mostrato il quadro della situazione, i rischi a cui sarebbe andata incontro restando a Parigi, la figlia non avrebbe opposto resistenza.
Ora era invece giunto il momento di agire. Non aveva idea di dove cercare Antonio, non sapeva nemmeno  dove si trovasse Jerome. Tutto era un’incognita. Avrebbe dovuto intavolare il discorso al prossimo ricevimento a Palazzo Farnese, avvicinarsi a quelli che sapeva essere i personaggi politici più in vista e chiedere di un certo deputato del Terzo Stato, un rampante avvocato della provincia di nome Jerome LeBlanc. Lì per lì poteva sembrare un gioco da ragazzi. Ma così non era. Avrebbe dovuto agire con cautela e circospezione perché nessuno si insospettisse di questo suo interesse, perché nessuno dubitasse di lei.
L’occasione di presentò in una serata d’ottobre. Era ancora vivo lo sdegno per i fatti di Versailles di qualche settimana prima, quando una folla di contadini aveva fatto irruzione nella residenza reale e aveva costretto i sovrani a trasferirsi alle Tuileries, a Parigi.
-Abominevole! – tuonava il marchese de Coligny. – Ci vogliono ammazzare tutti, questi popolani ignoranti. E Luigi non è in grado di opporsi, anzi, obbedisce come un cagnolino! –
- Avete ragione da vendere, caro marchese! – fece eco una nobildonna ingioiellata. – Ma anche Maria Antonietta ha fatto la sua parte. Non avrebbero dovuto cedere! –
- Anarchia! Ecco che cosa sta succedendo in Francia! – si intromise un barone.
Anna ascoltava distrattamente questi discorsi. Mentre un’orchestra da camera suonava musica d’accompagnamento, mentre gli ospiti delle duchesse chiacchieravano fitto fitto sorbendo dello champagne d’annata dai loro calici, mentre Sofia si intratteneva piacevolmente con un visconte di bell’aspetto che si vociferava essere un suo amante, Anna se ne stava leggermente in disparte, studiando la scena, cercando di farsi coraggio per decidersi a fare quella dannata domanda. Il fuoco crepitava nel grande camino della sala e lei vi si accostò silenziosa. Ripensava alle serate d’inverno passate davanti al fuoco a fissare le faville che salivano al cielo, senza parlare o chiacchierando distrattamente di inezie, rassicurati dal sentire il suono della voce l’uno dell’altra, felici di tenersi compagnia nel buio della notte, abbracciati o anche solo tenendosi per mano, mentre fuori infuriava la tramontana, scrosciava la pioggia. Provò un’acuta nostalgia per quei momenti, per quella che era stata la vita che aveva sempre sognato e che era poi divenuta realtà. Ma per quanto? Per troppo poco tempo. Le lacrime le salirono agli occhi, ma si trattenne: non sarebbe stato conveniente, in un’occasione come quella in cui ci si doveva mantenere sorridenti e spensierati. Stornò lo sguardo dal fuoco, riprese il suo abituale contegno e si voltò di nuovo verso la sala sfavillante di luci. Alle sue orecchie giunse uno stralcio di conversazione, in francese, che la fece sussultare.
-Se il conte non fosse un caro amico, della cui sincerità non ho mai avuto modo di dubitare, non ci avrei mai creduto. Arrivare a questo punto…mai l’avrei pensato! – vociava un nobilotto canuto dall’aria saccente rivolto ad alcuni suoi pari che l’ascoltavano indignati. – Un medico, italiano, per di più! Stirpe infame, quella. –  I presenti convennero con lui circa l’ignobiltà degli italiani e lo spronarono a continuare, ad entrare ancor più nei dettagli di quel fatto increscioso.
Anna si fece più vicina: la storia incominciava a incuriosirla. Non era soltanto curiosità quella che si faceva strada in lei, ma era una storta di indefinibile angoscia, un cattivo presagio che ne accresceva l’ansia. Cautamente si inserì nel crocchio di ospiti che si era radunato attorno all’anziano per ascoltare quelle che ritenevano essere divertenti facezie da salotto.
-Brissac, spiegate meglio anche a noi, che ci siamo persi l’inizio del racconto. Pare una cosa strabiliante, rendete partecipi anche noi! – lo esortò ridacchiando una dama piuttosto in carne appena sopraggiunta.
-Mia cara contessa, non c’è nulla di divertente in quello che sto raccontando. C’è da preoccuparsi, invece, dell’insolenza di certi pezzenti che pretendono di sovvertire le gerarchie. – rispose piccato l’anziano che si rivelò essere il duca di Brissac, discendente da una delle famiglie più potenti di Francia, si ricordò Anna.
- Suvvia, non ci tenete sulle spine! – lo spronò un giovanotto impomatato dall’aria di essere uno tra i più accaniti esponenti di quella jeunesse doré, dedita al lusso, ai festini sfrenati e pronta a dar la caccia ai sanculotti.
- E sia. Racconterò tutto daccapo, se vi fa piacere, marchese. – concesse.
Anna, cercando di non far trasparire alcuna emozione seguì per filo e per segno il racconto, rabbrividendo dentro di sé di quando in quando nell’ascoltare le reazioni dei presenti.
La vicenda che tanto aveva fatto indignare il duca di Brissac, e con lui quasi tutti gli ospiti delle duchesse Farnese che l’avevano pregato di raccontarla, era pressappoco questa. Una decina di giorni prima, un suo vecchio amico, il conte di Blois, appartenente ad un’antica famiglia nobile, aveva ricevuto un affronto che a tutti pareva intollerabile. Un irriverente quanto temerario medico di origini italiane gli era piombato in casa in modo insolente, nonostante i divieti che i domestici avevano tentato invano di opporgli, e l’aveva accusato davanti alla servitù per aver lasciato sulla strada una domestica malata con il figlioletto anch’egli malato di tisi. Il conte si era prontamente infuriato: la domestica non era altro che una fannullona con la testa piena di balzane idee rivoluzionarie e la coccarda tricolore che portava ne era la prova. Quella sgualdrina sfacciata aveva perso il lavoro non solo per la sua inefficienza che da tempo irritava tutti i membri della servitù, ma soprattutto per aver mancato di rispetto in modo indegno alla contessa di Blois e alla sua dama di compagnia. Ma ciò che mandava in fibrillazione di più il conte era il fatto che ormai, nel clima scellerato che quei rivoluzionari avevano creato a Parigi, un medico qualunque potesse essere ammesso al suo cospetto e rivolgergli quelle infamanti accuse, potesse dirgli quel che doveva o non doveva fare con i suoi servi, a lui, a lui in persona, il conte di Blois!
-Inaccettabile! – avevano esclamato in coro gli astanti, stupefatti da tanta insolenza, da tanta scellerata audacia. Solidarizzavano con il conte e si infervoravano vicendevolmente con discorsi di rivalsa, di vendetta contro quel popolino che stava alzando troppo la cresta. Alcune nobildonne ridacchiavano immaginando la scena e simpatizzavano invece per quel dottore tanto coraggioso da spingersi a tanto. Ridacchiavano e malignavano sui reali motivi dell’attenzione verso quella serva.
Alla fine del racconto Anna era sbiancata in viso. Sempre più si andava convincendo che quel “pazzo scellerato” non fosse altri che Antonio. Chi altri poteva essere? Era da lui non tollerare i soprusi ed era da lui anche non tacere di fronte a chi li commetteva. In quale altro guaio si era cacciato! Oltre alla solita intransigenza nei confronti delle malefatte della nobiltà, sembrava aver acquisito anche un’audacia incosciente che prima, così pacato e a modo, non possedeva. Prese a incolparsi lei stessa per questo repentino cambiamento: se non fosse stato per lei, tutto questo non sarebbe successo, non se ne sarebbe andato a Parigi, non si sarebbe cacciato nei tumulti, sarebbe restato il tranquillo medico del borgo, forse un po’ anticonvenzionale, certamente non agli ordini della nobiltà, ma nemmeno così apertamente in guerra contro il mondo. Dovette sedersi, le gambe non le reggevano. Quale altra sciagura si era abbattuta su di loro! Era dunque più che mai indispensabile agire in fretta, rintracciare al più presto Jerome e fermare Antonio prima che commettesse altre sciocchezze.

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Capitolo 17
*** Spiraglio ***


-Avvocato, scusate se interrompo il vostro lavoro, mai mi sarei permesso, ma, sapete…- esordì titubante il domestico, affacciandosi guardingo alla porta dello studio dell’avvocato, o forse meglio dire deputato, LeBlanc. Jerome se ne stava comodamente seduto sul suo scranno dall’imbottitura color senape, ordinato apposta per ornare il suo studio da quando era stato eletto nella Costituente: gli era parso opportuno rimarcare la sua nuova posizione sociale con una poltrona degna della sua carica, vistosa ed elegante al tempo stesso. Rigirava fra le dita con aria assorta una penna d’oca, fissando la parete di fronte illuminata dal sole mattutino. Si riscosse all’improvviso all’ingresso del domestico, scattò sulla sedia e assunse una posizione composta, come imponeva il suo ruolo.
- Che c’è, Edmond? Non vedi quante cose ho da sbrigare? Sto lavorando per la Francia! – rispose di rimando, cercando di darsi un contegno. Il domestico balbettò qualcosa, mortificato. Non avendo ottenuto una risposta esauriente, Jerome posò la penna nel calamaio, si alzò in piedi e, lisciandosi distrattamente i capelli biondi, si avvicinò alla porta, davanti alla quale Edmond si torceva nervosamente le mani.
- Si può sapere che cosa c’è di così urgente, quando avevo detto che non volevo essere disturbato fino a questa sera?! – domandò con un tono di rimprovero tuttavia bonario, leggermente paternalistico. Non era sua abitudine maltrattare la servitù, usava piuttosto toni melliflui, sottilmente recriminatori, senza mai scadere in poco eleganti sceneggiate.
Edmond, vedendosi gli occhi indagatori del padrone puntati nei suoi, trovò il coraggio per trarsi d’impaccio e spiegare il motivo di quell’interruzione. 
-Ecco, ci sarebbe una signora…- esordì cauto aspettando una reazione del deputato LeBlanc.
- Una signora? – chiese Jerome sinceramente sorpreso. Passò in rassegna le varie dame dell’alta società che aveva sedotto e abbandonato in quelle settimane, facendo leva sul suo irresistibile fascino di rivoluzionario, al quale le aristocratiche parigine non riuscivano a resistere, allettate dal gusto del proibito. Ma non gli sovveniva in quel momento nessuna a cui avesse dato adito all’idea di un secondo incontro. Aggrottò le sopracciglia perplesso e domandò:
- Come si è presentata? – sperando in tal modo di dare un volto a questa inaspettata visitatrice. Non era sicuro però di riuscire a ricordare il nome di tutte le sue recenti conquiste.
- All’inizio non me l’ha voluto dire, ma poi ho insistito…si è presentata come la marchesa Anna Ristori Radicati di Rivombrosa, signore, ospite a Parigi delle duchesse Farnese. – rispose Edmond, soddisfatto della sua efficienza nell’estorcere il nome a quella misteriosa dama italiana.
- Delle duchesse Farnese?! Che diamine! – esclamò stupefatto Jerome. Anna Ristori? Se n’era quasi dimenticato. Di lei, di Antonio, di tutta quell’assurda vicenda in cui lui aveva ricoperto un ruolo certamente non secondario. Eppure gli avvenimenti recenti, l’impegno politico e tutto il resto, avevano fatto sì che dei giorni trascorsi a Rivombrosa rimanesse solo un vago ricordo. Che diavolo voleva da lui? Perché riapparire proprio ora? Che non riuscisse a resistere al suo fascino nemmeno lei? Suppose senza alcuna modestia, accennando un sorrisetto compiaciuto. Del resto di quella notte aveva un ottimo ricordo, perché non concedersi una replica?
- Devo mandarla via, signore? – s’informò il domestico notando la reazione del padrone.
- Che vuole? – domandò di rimando Jerome.
-Non ne ho idea, signore. Ha solo detto che deve parlarvi con urgenza. Sembra molto agitata. Che debbo fare?- disse tutto d’un fiato.
- Falla entrare. – concesse, infine, LeBlanc, accompagnando le parole con un cenno di assenso.
Lo studio era invaso dalla luce novembrina, una luce obliqua ma ancora tiepida che stampava le ombre lunghe dei soprammobili sulle pareti. Quando il domestico le aprì la porta, fu proprio questa luce ambigua a colpirla prima di ogni altra cosa. Notò poi l’arredamento austero ed elegante con cui era arredata la stanza, quasi ad incutere timore reverenziale in chi vi mettesse piede. I verdi tendaggi pesanti erano discosti e arrotolati ai lati delle finestre che davano sulla strada rumorosa. Jerome stava seduto a braccia conserte, in atteggiamento dominante, sulla nuova poltrona, oggetto di cui andava particolarmente fiero.
-Prego, madame. – pronunciò deferente Edmond cedendole il passo. Anna fece il suo ingresso ad occhi bassi, composta e seriosa, avvolta in un vestito di pesante seta blu scuro. Tutta quella luce la stordiva. Aveva passato una notte insonne. La sera precedente, ad un ricevimento, era riuscita finalmente ad estorcere l’indirizzo del deputato LeBlanc con la scusa di alcuni affari che suo fratello aveva in sospeso con l’esercito francese in cui aveva per anni militato. Non era sicura che il gentiluomo, deputato anch’egli del Terzo Stato, avesse creduto alle sue parole, ma non le importava affatto. Ritornata a palazzo Farnese, non aveva chiuso occhio e, di prima mattina, si era fatta preparare una carrozza per dirigersi all’abitazione del famoso avvocato, del cui parere legale aveva tanto bisogno. E ora tutta quella luce…
- Signore, la marchesa Radicati. – annunciò il domestico.
- Entrate pure, marchesa. – fece Jerome con un ampio sorriso, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi con disinvoltura per accogliere degnamente l’ospite con un baciamano.
- Non sono forse demodé queste usanze aristocratiche? – domandò sarcastica Anna, sollevando il viso, negli occhi un bagliore sprezzante di sfida.
- Mai nei confronti di una bella donna come voi! – rispose Jerome incrociando i suoi brillanti occhi verdi con quelli di Anna. Non aveva perso l’abitudine di prodigarsi in galanterie, cosa che lo divertiva parecchio. Anna restò interdetta di fronte a quella risposta spiazzante, era quasi impossibile far perdere le staffe all’enigmatico Jerome, il suo savoir faire era ineccepibile.
- Edmond, per favore, lasciaci soli. – intimò al domestico e invitò Anna a sedersi sulla poltrona dall’altro lato della scrivania; poi si sistemò al suo posto, richiuse il faldone su cui stava lavorando e, intrecciate le mani sotto il mento, chiese:
- Mai mi sarei aspettato di vedervi qui, a Parigi. A che cosa devo l’onore della vostra visita, marchesa? -  domandò scrutando gli occhi sfuggenti della sua interlocutrice. Era sinceramente sorpreso e non sapeva davvero quale risposta aspettarsi.
Anna, sulle spine, si tormentava le mani, volgeva lo sguardo per la stanza, evitando accuratamente di posarlo sul viso di Jerome: il ricordo di quella notte la imbarazzava notevolmente. Non disse nulla per qualche minuto. Jerome attese paziente, sempre più incuriosito, giocherellando con i fogli sparsi sul tavolo. Poi, finalmente, tratto un profondo sospiro, Anna si decise a parlare. Aveva lo sguardo stanco, un’aria angustiata, le labbra secche e tremanti.
-Potete benissimo immaginare il motivo che mi spinge a parlare con voi. Si tratta di Antonio. –
Calò il silenzio. Sì, Jerome se l’era immaginato fin dal primo momento che fosse il suo vecchio amico il motivo di quella visita, eppure il suo orgoglio di seduttore rimase leggermente ferito.
- Ah, il nostro Antonio…Dunque vi ha perdonato?[CF1] [CF2] - insinuò Jerome, ignaro di quali fossero i loro rapporti.
- No. E nemmeno io riesco a farlo. Ma devo trovarlo. Solo voi potete aiutarmi. Dov’è? – domandò a bruciapelo, gli occhi ardenti di inquietudine e speranza insieme, le mani ansiose aggrappate alla scrivania. Fu Jerome allora a far attendere la sua risposta, volendo godersi lo spettacolo di quella donna così ingenuamente innamorata, così in pena, così angosciata. E così bella, con i boccoli castani che ricadevano sulla pelle candida del collo, quegli occhi grandi e luminosi.
- Siete seriamente venuta fin da me per chiedermi questo?  - chiese, infine, con un’espressione divertita che innervosì oltremodo la marchesa. Si stava prendendo gioco di lei quell’impostore? Già una volta era riuscito nell’intento lo scaltro avvocato LeBlanc: non gli avrebbe concesso una seconda opportunità. Con un cenno del capo gli rispose di sì, senza mai distogliere gli occhi dai suoi. Se avesse mentito, non le sarebbe sfuggito.
- Ed io che credevo che foste venuta per me…Del resto son sicuro che quella notte non sia dispiaciuta nemmeno a voi. O mi sbaglio? – insinuò sempre più insolente, sfoggiando un largo e sfavillante sorriso per mettere in mostra i suoi denti perfetti.
- Vi sbagliate. Me ne sono immediatamente pentita. Ma siete stato voi ad ingannarmi! –
- A proposito, vedo che siete troppo nervosa, volete favorire qualche goccia di laudano? Sapete, fa miracoli per l’ansia…- scherzò Jerome fingendo di cercare la boccetta in un cassetto.
- Risparmiatevi queste sceneggiate! – esclamò spazientita – E rispondete alla mia domanda. Dov’è Antonio? –
- Cara Anna, vi state scaldando troppo. E mi chiedete cose che non so. – le rispose lui allargando le braccia in segno di innocenza.
- Voi lo sapete benissimo. Antonio collabora con voi. È per seguire voi che è venuto a Parigi. – ormai aveva perso ogni nozione di buone maniere, la rabbia e l’agitazione avevano preso il sopravvento sul bon ton, si ritrovò ad alzare la voce, a gesticolare in modo convulso, levando gesti minacciosi contro Jerome.
- O piuttosto per fuggire da voi?- ribatté Jerome, serio. Il gioco non lo divertiva più, anzi quella reazione smodata lo infastidiva.
- Smettetela! Vi state prendendo gioco di me, avvocato? Non vi basta la sofferenza che avete causato a me, ma soprattutto ad Antonio, che considerate vostro amico? –
- Avvocato? Deputato, ormai, mia cara Anna! Avreste dovuto aggiornarvi sugli ultimi avvenimenti. Avreste così saputo che non collaboro più con certa gente. I club estremisti si sono staccati, fanno parte a sé. E non vi dovreste stupire se il nostro Antonio ha preso quella deriva. Lo conoscete meglio di me, non è uno che ama scendere a compromessi, anche quando sarebbero necessari…- rispose finalmente Jerome.
- Che cosa state dicendo? Antonio non è più con voi? – il tono era stranito e insieme spaventato. L’unica certezza che aveva, ovvero il fatto che Antonio fosse in qualche modo legato a Jerome, si stava sgretolando alle parole dell’avvocato.
- No. Sono mesi ormai che non lo vedo. Frequenta popolani, sovversivi di bassa lega. Fauborug saint Antoine, mi pare. Fareste bene a farvi accompagnare, non è bene che una nobildonna come voi si aggiri da sola per quei quartieri.-
Jerome si sentì di essere stato troppo indulgente, troppo accondiscendente con quella donna: dopotutto non era altro che una marchesa annoiata e, per giunta, a differenza delle nobildonne parigine, dava segno di non gradire nemmeno le sue avances. Per cui aggiunse per una sorta di vendetta che doveva al suo orgoglio:
- Dicono che viva con una serva, una donna che ha raccolto per strada o qualcosa di simile. A quanto pare non ha perso il vizio…-
- Non capisco che cosa vogliate insinuare. – domandò lei arrossendo violentemente, la voce rotta dal pianto, che ormai a stento tratteneva.
- Non sto insinuando niente, signora. Sto solo riportando quello che mi è stato riferito. Vive con una serva che ha raccolto dalla strada. E questo è tutto quello che so. Da mesi non mi ha più rivolto la parola. Ora, se volete scusarmi, devo riprendere il mio lavoro al servizio della Francia. – controbatté secco, quasi indignato dal fatto che lei avesse messo in dubbio le sue affermazioni.
Anna non si mosse. Abbassò il capo e iniziò sommessamente a singhiozzare. Il pudore le impediva di sollevare il viso, salutare e andarsene. Non avrebbe retto all’umiliazione di piangere davanti a lui. Faceva ogni sforzo per calmarsi, per riprendere il controllo di sé. Ma non ci riusciva.
Jerome se ne accorse. Sul suo viso l’espressione piccata di poco prima lasciò il posto ad una sbigottita, sorpresa. Si sporse in avanti per accertarsi che il suo fosse davvero un pianto e non una delle tante sceneggiate a cui le donne lo avevano abituato. No, erano lacrime sincere, vere, che scaturivano da un dolore altrettanto genuino. Forse per la prima volta Jerome capì che cosa significasse davvero amare qualcuno: non era l’ipocrisia femminile che aveva conosciuto, non era un capriccio, un vezzo quello che la portava a singhiozzare indifesa davanti ad un uomo che aveva fatto di tutto per metterla in difficoltà. Si trattava di qualcosa di diverso, di profondo, di sincero che lui non aveva mai provato in tutta la sua vita. Nella sua boria di deputato e avvocato affermato si sentì tutt’un tratto mancante, avvertì la sua inferiorità nei confronti della donna che gli stava davanti. Preso da una premura a lui sconosciuta, si alzò, estrasse dalla tasca il suo fazzoletto di batista e, senza dire una parola, glielo porse con una delicatezza che lei di certo non si aspettava. Ci vollero alcuni minuti prima che lei si ricomponesse; Jerome attese paziente, guardando distrattamente la strada fuori dalla finestra.
-Scusatemi, avvocato, non so che cosa mi sia preso. Tolgo il disturbo. – si alzò ritrovando il solito contegno e si avvicinò più velocemente possibile alla porta: il suo orgoglio non avrebbe tollerato di restare davanti a quell’uomo un istante di più.
- Aspettate, marchesa. – la richiamò Jerome.
Anna si voltò di scatto, gli occhi ancora arrossati, un’espressione supplichevole negli occhi. Perché le prolungava quel supplizio?
Jerome le si avvicinò fino a fissare i suoi occhi in quelli di lei. Forse, si disse, l’avrebbe potuta amare. Forse sarebbe stata l’unica donna che avrebbe potuto amare di un amore sincero. Ma la certezza di non essere corrisposto spense sul nascere ogni possibile fantasticheria. Tuttavia si sentì in dovere di aiutarla, di proteggerla, quasi.
-Vostra figlia si trova ancora al collegio del Sacro Cuore? –
Anna fece cenno di sì col capo: ogni parola le sarebbe costata uno sforzo sovraumano. Aveva giurato a se stessa di non lasciarsi sfuggire più nemmeno una lacrima davanti a lui.
- Per far sì che non venga meno la fiducia del popolo nello Stato, stiamo lavorando allo smantellamento dei beni ecclesiastici per risanare il nostro disastrato debito pubblico. Situazione davvero pesante, vi confesso. Perciò immobili e rendite dovranno essere messe a disposizione della Nazione, pronti ad essere messi in vendita. Vi assicuro che non sarà un’operazione facile. Il popolo ce l’ha a morte con preti, monache e tutto il resto. Non escludo che, in caso di resistenza da parte del clero, si possa arrivare all’espropriazione armata o qualcosa di simile. Non vi garantisco che saremo in grado di trattenere il popolo da gesti anche efferati, dopo secoli di soprusi. Il consiglio che vi do è quello di riportare al più presto vostra figlia a Rivombrosa, il suo collegio sarà uno dei primi ad essere requisito. –
- Vi ringrazio. – rispose con una certa fierezza, dissimulando abilmente l’angoscia che questa nuova notizia le causava.
Jerome si limitò a sorriderle, un sorriso per una volta non ironico o sbeffeggiante, un sorriso benevolo e quasi rassicurante. Anna stava avviandosi verso la porta, senza voltarsi, quando si sentì nuovamente chiamare:
-Anna! – le si rivolse con un tono strano, quasi dolce, inusuale per lui. - Fate presto. Le trattative sono già in corso da alcuni giorni senza risultati, fra poco saremo costretti ad usare la forza. -
Lei annuì e, con un lieve inchino, si congedò, sparendo dietro la porta che lui continuava a fissare pensieroso.
-Il mio amico Antonio è un uomo fortunato. – mormorò fra sé, rimettendosi al lavoro.

 [CF1]dd

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Capitolo 18
*** Straniera ***


 
Era soltanto il primo pomeriggio di una fredda giornata autunnale, ma il cielo plumbeo e cupo rabbuiava il giardino interno del palazzo Farnese come al crepuscolo; il vento turbinava le foglie secche, sollevandole e facendole ricadere a intervalli regolari. C’era voluta quasi un’ora per riuscire ad essere ammesso: non aveva alcuna lettera di presentazione, alcuna referenza e nemmeno un titolo nobiliare di cui fregiarsi. Era soltanto un misero medico di provincia, come avrebbe potuto pretendere d’essere immediatamente ricevuto dalle duchesse? Aveva tanto insistito con il portiere, con i servi che andavano e venivano dal portone: aveva una grande urgenza di parlare con le duchesse, stava cercando una persona che era ospite a palazzo, una dama italiana, Anna Ristori, la conoscevano per caso? Ma i servitori continuavano imperterriti il loro cammino, senza prestare orecchio alle implorazioni, alle domande, alle suppliche di quello strano individuo che attendeva da tempo fuori dal portone. Tremava dal freddo, era scosso da continui colpi di tosse, ma non demorse, non gli passò per la mente nemmeno per un istante l’idea di andarsene, di tornarsene a casa senza di lei. Finalmente gli si offrì l’occasione: una carrozza si apprestava a fare il suo ingresso. Venne dunque spalancato il portone per lasciare libero il passaggio. Antonio ne approfittò e si insinuò lesto all’interno del cortile.
-Chi è quell’uomo? – chiese guardinga Sofia, mentre scendeva l’ampio scalone in marmo del palazzo a braccetto della sorella. Teresa si voltò immediatamente nella direzione verso cui guardava la sorella e notò in effetti un uomo dal volto smunto, vestito con un’ampia giacca scura di fustagno, rustici stivali e tricorno sgualcito in mano. Istintivamente fece per fermare il passo e chiamare in aiuto la servitù, ma Sofia la strattonò, invitandola ad avvicinarsi allo strano individuo. Non fecero in tempo a terminare gli ultimi gradini che quello si parò loro davanti. Teresa ne ebbe timore, risalì uno scalino; Sofia, invece, ne fu incuriosita e si diede a scrutarne il volto per decifrarne le intenzioni; ma fu lui per primo a rompere il silenzio. Con una voce supplichevole e allo stesso tempo angosciata esordì dicendo:
- Signore duchesse, se mi sono permesso di venire fin qui, di entrare nel vostro palazzo è per…- esordì incerto.
- C’è un intruso, mio Dio! Prendetelo e portatelo fuori! Di questi tempi non si può mai stare sicuri…- sbraitò Teresa allarmata, chiamando a raccolta la servitù.
- Teresa, di grazia, manteniamo la calma! Non ha un aspetto da criminale, sentiamo almeno che cosa vuole!- la blandì Sofia.
- Ebbene, so che vi sembrerà bizzarro, ma io sono venuto a conoscenza del fatto che la contessa Ristori è vostra ospite. –  pronunciò tutto d’un fiato, rigirandosi nervosamente il tricorno tra le mani, in evidente imbarazzo, tra un colpo di tosse e l’altro.
- La contessa Ristori? E perché mai la conoscete? Mi volete dire chi siete? – si meravigliò Sofia, fissandolo con aria quasi spavalda, scrutando i suoi occhi celesti. 
Antonio continuava giocherellare con il cappello, gettava lo sguardo ora al cielo scuro, ora al bianco del marmo, ora ai volti stupiti e incuriositi delle due donne. Come avrebbe potuto giustificare il suo interesse per la loro ospite? Avrebbero mai creduto alla verità?
Restò in silenzio per un tempo indefinito, non riusciva a trovare le parole giuste, a spiegare quale fosse il motivo della sua visita. Aveva paura. Aveva paura di giocarsi quell’unica possibilità di ritrovare Anna, di parlarle prima che fosse troppo tardi. Aveva paura che le duchesse gli dessero il benservito, lo cacciassero, lo bandissero per sempre da quel palazzo, impedendogli così quell’unico contatto che potesse avere con lei.
-Venite forse da Rivombrosa? – lo cavò d’impaccio Sofia ad un certo punto: non sopportava quel silenzio imbarazzato, doveva riempirlo necessariamente con qualche battuta.
-Sì, ecco…Io sono il dottor Antonio Ceppi, medico di Rivombrosa. – a queste parole le duchesse sussultarono, preoccupate per la salute della loro ospite. Che Anna fosse malata e non avesse detto loro nulla? Che fosse quello il motivo per cui… Non fecero in tempo a fare altre congetture perché Antonio riprese la parola: - Ho urgenza di parlare con la marchesa. Si tratta di una questione importante, molto importante. Fatemi entrare, ve ne supplico! –
-Oh Cielo! Sofia, l’abbiamo lasciata andare così…Ed è malata! Che sconsiderate siamo state! Non abbiamo tentato abbastanza di trattenerla, avremmo dovuto convincerla, almeno fino all’arrivo del suo medico di fiducia. Ma chi l’avrebbe mai immaginato? Eppure era così pallida, aveva un’aria così triste! Ce ne saremmo dovute accorgere prima! – si disperò Teresa.
- Non saremmo riuscite in nessun caso a trattenerla, cara sorella! Non ci ha lasciato altra scelta. Hai visto anche tu il suo sguardo questa mattina? Del resto è una Ristori, testarda come suo fratello! -
- Che cos’è successo? Dov’è Anna ora? – si intromise allora Antonio, scordandosi della formalità, pronunciando senza tanti giri di parole quel nome. Al diavolo l’etichetta! Si trattava di Anna. Della sua Anna, non della marchesa Radicati o della contessa Ristori.
Le duchesse sentendolo chiamarla per nome si guardarono sbalordite. Un misero dottorucolo dall’aspetto dimesso osava chiamare per nome la contessa Ristori? 
Antonio s’accorse immediatamente della loro reazione e prevenne ogni loro domanda. – Ho bisogno di parlare con lei, subito. Si tratta…si tratta di una malattia piuttosto seria, da cui temo che nemmeno l’aria parigina sia riuscita a guarirla…- mentì. O meglio, parlò attraverso metafore che le due duchesse certamente non sarebbero mai riuscite a decifrare.
 
La sera calava rapida alla fine di novembre. Il buio si impadroniva con veemenza di ogni angolo di strada, di ogni finestra, di ogni tratto di selciato. Il vento soffiava impetuoso, insinuandosi nei vicoli, facendo sbattere gli usci, volare i cappelli ai passanti, scompigliando il bucato steso dalle massaie di quel sobborgo povero e fatiscente. Non aveva mai smesso di camminare: da ore percorreva senza sosta le strade di quella città che le era estranea, ostile, straniera. Una smania che non riusciva a spiegarsi si era impossessata di lei dalla sera precedente: doveva capire. Doveva parlargli, chiedere e ascoltare le sue spiegazioni, invocare il suo perdono e concedergli il proprio, oppure mandarlo al diavolo, aggredirlo, accusarlo. Si sarebbe potuta aspettare qualsiasi cosa, qualsiasi reazione. Ma doveva vederlo. Doveva conficcare gli occhi nei suoi per un’ultima volta. Non sarebbe più riuscita a vivere se prima non avesse tentato il tutto per tutto. Non poteva arrendersi così, dopo essere giunta fino a Parigi. Eppure non era semplice. Nessuno, tranne Jerome, avrebbe potuto aiutarla, nessuno lo conosceva, nessuno le avrebbe potuto dire dove si trovasse. Era come cercare un ago in un pagliaio. Faubourg Saint Antoine. Questa era l’unica informazione che aveva saputo fornire al cocchiere delle duchesse Farnese dal quale si era fatta accompagnare.  
 
La neve aveva incominciato a cadere a larghi fiocchi, l’aria si era fatta ancora più fredda. Di quando in quando il riverbero di un fuoco acceso al pianterreno di una casa dava una parvenza di calore, riscaldando di luce il manto bianco della strada. Quasi nessuno si aggirava per le strade, in una serata del genere. Nessuno a cui domandare, nessuno a cui chiedere aiuto. E nessun posto in cui rifugiarsi. Lei, una nobildonna straniera, avvezza al lusso, alle comodità, ad una vita agiata, catapultata in una realtà lontanissima, di miseria, di stenti e di rabbia, per giunta in un momento in cui il rancore covato per secoli nei confronti della nobiltà aveva finalmente trovato uno sfogo. A chi rivolgersi? Presso chi cercare aiuto? Girava a vuoto per le strade, come le banderuole sopra i tetti squassate dal vento impetuoso foriero di neve. Il buio, il silenzio infranto solo dal frusciare del vento, i suoi passi attutiti dal manto bianco che ricopriva il selciato, il vuoto davanti a lei e nel suo cuore. Dove sei, Antonio? Ti troverò, costi quel che costi. Arriverò a casa tua, busserò alla tua porta e ti sorprenderò, ti coglierò sul fatto con quella serva. Mi farò del male, certo, ma ti costringerò a fare i conti con il tuo passato, a fare i conti con me. È troppo facile scappare, sei stato un vigliacco: avresti potuto urlarmi contro il tuo risentimento, punirmi, umiliarmi, tutto avrei sopportato, ma non questo. Hai preferito sparire, andartene, senza affrontarmi, senza affrontare il tuo dolore, non ti permetterò di sfuggirmi di nuovo. Non senza aver prima udito dalle tue labbra che non mi ami più, che hai cominciato una nuova vita, che di me, forse, mai te n’è importato nulla. Devo capire, devo vedere con i miei occhi, anche a costo di cavarmeli, poi, per il dolore.
 
Quando aveva congedato in malo modo il cocchiere che l’aveva portata fin lì e che, apprensivo, si era offerto di aspettarla fin quando avesse voluto per poi condurla prima di sera alla stazione di posta, non aveva prestato fede alle sue parole. Non l’aveva ascoltato quando lui le aveva spiegato come quel quartiere fosse tra i più disagiati e inferociti della città. Non aveva voluto dargli retta quando le aveva consigliato di fare attenzione, di non intrattenersi con la gente, di non prestare orecchio alle loro parole ingiuriose. Non l’aveva nemmeno ringraziato per essersi offerto di star lì, al freddo, ad attendere per ore il suo ritorno, ad aspettare che lei ritrovasse in quell’oscuro e disadorno angolo di Parigi l’uomo che da mesi la stava fuggendo. Non l’aveva fatto ed ora se ne pentiva amaramente. Ora era completamente sola. Lontana dai salotti sfavillanti del centro, lontana dall’ospitale palazzo delle sorelle Farnese, lontana da casa sua, Rivombrosa, lontana dal suo mondo, dalla sua fierezza, forse ostentata, di aristocratica, lontana dalle sue certezze, lontana, temeva, anche dall’unica ragione che l’aveva spinta fin lì: Antonio. Era dal tramonto che stava vagando senza meta nelle vie fredde e sempre più buie del quartiere, incontrando solo sporadicamente qualche presenza umana, per lo più uomini incattiviti dalla bruttura del luogo ed esagitati a causa dei tempi. La fissavano con aria insieme truce e meravigliata: che ci faceva una dama ben curata, dagli abiti sontuosi e pregiati, dallo sguardo fiero e sperduto in quel quartiere di disgraziati? Se lo chiedevano e in un batter d’occhio se ne andavano via, senza osare rivolgerle la parola, voltandosi a volte a rimirarla al suo passaggio. E lei non si abbassava certo a domandare alcunché a quei popolani, la ripugnava la sola idea di chiedere loro aiuto.
 
Ma le ore passavano, il tempo si era guastato, la neve continuava a cadere copiosa, il vento a sibilare impetuoso. Era sola, infreddolita, affamata e, non avrebbe mai osato ammetterlo, spaventata. Ciò che la tormentava di più, tuttavia, era l’affievolirsi di minuto in minuto della speranza di trovare Antonio. Non aveva un riferimento, se non il circolo politico dal quale l’aveva visto uscire. Girava a vuoto, a zonzo tra i quartieri fatiscenti, ad ogni crocicchio che incontrava, alzava lo sguardo al cielo, sempre più scuro, sempre più denso di nubi nevose. La sua orgogliosa resistenza era messa a dura prova, stava per essere piegata. Era ormai calata la notte quando, passando per una via, intravide una figura umana uscire da un portone scalcinato. Era un uomo di mezza età, dall’aspetto dimesso, radi capelli scuri sul cranio, mani grosse e nodose di lavoratore. Gli si avvicinò, ostentando un dominio di sé che non aveva e che poteva facilmente essere frainteso per alterigia.
-Brav’uomo, ascoltatemi. Sto cercando un medico, dottor Antonio Ceppi, lo conoscete? – domandò cogliendolo alle spalle. L’uomo si voltò sorpreso e chiese di riflesso, accigliato.
-Chi siete voi, piuttosto? Non lo sapete che questo non è un luogo adatto ad una gran dama? A quest’ora di notte poi! –
- Non sono cose che vi riguardano queste, fareste bene a stare al vostro posto quando vi rivolgete a me. – scattò sulla difensiva, accentuando il suo francese libresco, che rischiava di renderla ancora più invisa ai popolani.
- Ohoh! Altezza, fareste meglio ad abbassare la cresta! Avete finito di darci ordini! – rispose sprezzante. – In ogni caso, mai sentito prima quel nome. Spiacente, madame! – aggiunse in tono irrisorio, accennando ad un ostentato inchino.
- Farabutto! – sibilò Anna fra i denti, indignata per essere stata trattata a quel modo da un misero lustrascarpe di periferia. In quel momento s’avvide di una luce che filtrava dall’imposte al primo piano, dischiusa. Apparve una donna, corpulenta, dalla cuffia sudicia, che teneva aperte le imposte con le grosse e tozze braccia.
- Che succede? Che vuole questa donna? – sbraitò in tono poco amichevole rivolta al marito.
- Cerca un medico. – rispose lui.
 -Che se ne vada via! Ne abbiamo abbastanza di queste gran signore! Toccherà anche a voi prendere in mano la ramazza, prima o poi!  Verrà un giorno in cui la pagherete cara, sanguisughe che non siete altro! – imprecò fissando feroce la contessa, in piedi davanti a lei. Anna mantenne il suo sussiego, il portamento fiero e lo sguardo sprezzante. Fissò la massaia dall’alto in basso, con fare sdegnoso e proseguì per la sua strada senza degnarla di una parola. I due erano probabilmente rimasti a fissarla interdetti, colti alla sprovvista dall’atteggiamento indifferente di lei alle loro offese; Anna non se ne curò, sentì soltanto dopo qualche istante che sbarravano l’uscio, quasi avessero timore di una sua del tutto impensabile irruzione. Anche questa luce si offuscò nel momento in cui l’imposta venne richiusa e la via rimpiombò nel buio, rischiarata soltanto dal manto bianco che ormai ricopriva la strada.
 
Anna riprese il suo cammino, sempre più esausta e intirizzita. Si calò il cappuccio del mantello sul viso, per ripararsi dal freddo e dalla neve e a passo deciso ricominciò a perlustrare il sobborgo. I suoi passi risuonavano ovattati, le voci giungevano lontane e indistinte. Era una follia continuare a percorrere in lungo e in largo quella contrada, era una follia attardarsi a notte ormai inoltrata in strada, soprattutto per una nobildonna, era una follia restare esposti al gelo, senza cibo e senza dormire. Eppure non aveva molte altre scelte. Lo sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stato facile, ma non si era voluta tirare indietro, perché altrimenti il suo viaggio a Parigi non avrebbe avuto alcun senso. Nonostante la sua folle caparbietà, nonostante la sua ferrea determinazione e il suo orgoglio, tuttavia le forze la stavano abbandonando. Di quando in quando intravedeva un lume a una finestra che infrangeva l’oscurità della notte. Anziché rallegrarla, quella luce faceva crescere dentro di lei un’angoscia indistinta, un senso di esclusione, di cupa solitudine che soltanto chi cammina di notte, da solo, in una città sconosciuta può provare scorgendo le luci accese nelle case degli altri. Il calore di un fuoco vivo, l’allegria delle fiamme crepitanti, l’affetto di visi amici: tutte queste cose si nascondono dietro una semplice finestra illuminata che si affaccia sul buio del mondo. E al passante solitario si stringe il cuore dalla malinconia.  
Infine si rassegnò. Non avrebbe potuto continuare le sue ricerche per quella sera, le avrebbe riprese il giorno seguente. Adocchiò l’insegna di una locanda: una bettola, certamente, un luogo sudicio e immorale, frequentato da straccioni, ubriaconi e donne di malaffare. Ma dove altro andare? Si avvicinò, dunque, con finta noncuranza, alla soglia. I vetri appannati e sporchi lasciavano intravedere ben poco di quello che avveniva all’interno. Anna si fece forza. Vincendo la ripugnanza e dominando la paura, abbassò la maniglia della porta. Proprio in quel momento degli uomini, sbronzi fino al midollo, stavano per uscire. Se li ritrovò di fronte. Indietreggiò d’istinto al cospetto della loro stazza e dei loro sguardi torvi e avvinazzati.
-Guardate, amici! – esclamò il primo puntando l’indice su Anna. – Da dove spunta questa? –
- Fa’ vedere un po’! –
- Ah però! Che spettacolo! Ci ha abituati male il vecchio Claude, e adesso se ne vien fuori con questo bocconcino pregiato!-
- Ehilà, tesoro, quanto vuoi per una notte?-
- Ti stai sbagliando, non è certo una delle donne di Claude, troppo elegante, troppo fine. Non hai visto che stoffe, che abito che ha? –
- Ma a noi che ci importa? Ti vogliamo lo stesso con noi, bellezza! Suvvia, non aver timore, non ti vogliamo mica fare del male! Vogliamo solo un po’ divertici insieme, tutto qua! –
- Giusto, giusto! Per passare qualche ora piacevole in una notte del genere!-
- Ehi, ma che fai? Dove vai? Chi ti ha insegnato l’educazione, sgualdrina? –
Il suo francese libresco la salvò dal comprendere il resto di quegli insolenti e turpi discorsi, le parole oscene che le rivolgevano e tutto il resto. Ormai Anna aveva iniziato a correre. A correre a perdifiato come mai aveva fatto in vita sua. Le sue eleganti scarpe da salotto la facevano scivolare sulla neve fresca, le vesti pesanti e il mantello le intralciavano i movimenti. Eppure correva. In preda ad un’agitazione che le offuscava la mente, le toglieva ogni facoltà se non quella di muovere i piedi il più rapidamente possibile. Non aveva meta, non aveva nemmeno più un disegno, un programma per la notte, solo correva, soffiando dai polmoni l’aria gelata che inspirava, il cuore che le rimbombava nelle orecchie seguendo un ritmo impazzito, completamente stravolto. Correva e non pensava, correva e non ricordava, correva e non ragionava, non sentiva, non capiva.
 
Ma tutt’un tratto dovette tornare bruscamente in sé. Una stretta vigorosa alla sua spalla la costrinse a fermarsi. E a voltarsi.
 Fu un gesto meccanico, istintivo. Si voltò con la paura negli occhi, con il cuore in gola, senza sapere che cosa l’avrebbe attesa, quale sorte le sarebbe toccata, come avrebbe concluso quella corsa.

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Capitolo 19
*** Filo rosso ***


Una sala affollata. Uno stanzone disadorno, con grezze cassepanche accatastate contro le pareti assiepate di povera gente, operai, pescivendoli, ambulanti, straccioni. Le finestre erano appannate, tanto era il contrasto tra il calore umano dell’interno e il freddo della sera autunnale fuori. Un sovrapporsi di voci concitate, di arringhe, di proteste convulse rendeva quasi impossibile tenere il filo della discussione. Sulla pedana si avvicendavano personaggi singolari, accomunati dall’aspetto dimesso e dall’eloquenza rude e vivace dei popolani parigini. Antonio, seduto tra la folla, ascoltava distratto: quella sera per giunta non si sentiva bene, aveva quasi la sensazione di avere la febbre, ma non era potuto mancare all’assemblea. Era stato Dominique, il suo garzone, a trascinarlo in quel circolo di indemoniati. Eppure gli piaceva, gli piaceva ascoltare le rivendicazioni di quei miserabili, gli piacevano i loro modi schietti e sinceri, l’accoglienza calorosa che gli avevano riservato, nella veste di medico valente e difensore degli oppressi. Quelle adunanze non avevano nulla a che vedere con i circoli ipocriti e borghesi che frequentava ai tempi del suo sodalizio con Jerome. Aveva trovato la sua dimensione. Forse.
Si era giunti quasi alla fine della seduta quando una donna gli si sedette accanto, si sciolse il laccio della cuffia permettendo ad Antonio di riconoscerla.
-Christine! Come sono contento di rivederti! Stai bene? – le domandò con un sorriso cordiale.
La giovane donna abbassò lo sguardo, poi si voltò verso di lui e rispondendo con un sorriso mesto a quello di lui disse:
-Per quanto è possibile, sì. La tosse non mi dà tregua, dottore. Farò la fine del mio piccolo Philippe? – pronunciò sull’orlo del pianto.
- No, non pensarlo nemmeno! – la rassicurò lui prendendole le mani. Mani magre, quasi scheletriche. La osservò meglio: il viso smunto, emaciato, di un colorito pallido, gli occhi cerchiati e arrossati, il petto scavato tradivano i segni della malattia. Tisi. Forse, però, avrebbe potuto resistere, il suo corpo giovane avrebbe potuto far fronte alla consunzione. Una flebile speranza. A Christine non sfuggì la muta riflessione che gli attraversò lo sguardo. Avvertì la sua angoscia dietro a quegli occhi celesti e bonari, un po’ spenti quella sera.
- Dimmi, invece, come ti sei sistemata?-
- Sono tornata a Nogent, dalla mia famiglia. Mi hanno riaccolto, nonostante tutto. – rispose con un velo di tristezza nella voce. Antonio seguiva attento ogni sua parola. – In campagna si sta meglio, l’aria è più buona. – concluse accennando un sorriso forzato.
- Vedrai che ti rimetterai presto. -  
- Ma che mi importa, ormai? Il mio Philippe, il mio piccolo Philippe…Tutta colpa di quell’infame di Brissac! Cacciare via in quel modo me e suo…suo nipote!- strinse i denti dalla rabbia, dall’umiliazione che tutta quella situazione le aveva causato. Philippe era figlio illegittimo del duca Henry, figlio di Brissac, ma questo non gli aveva impedito di gettarlo in mezzo alla strada insieme alla madre, entrambi malati.- La pagherà quel bastardo! Se esiste in cielo o in terra una Giustizia, la pagherà!- proseguì trattenendo a stento quell’ira selvaggia di madre.
- Avrà quel che si merita, vedrai. Ora calmati, non ti fa bene agitarti. – cercò di blandirla Antonio.
- Perdonatemi, dottore, perdonatemi davvero. Ora sì, mi calmerò. – promise e aggiunse: - Non vi ho nemmeno chiesto come state voi. Vi trovo strano. –
- Ti ringrazio, Christine, io sto bene, ma fa un tale caldo qui dentro: con tutta questa gente manca l’aria. – si giustificò, passandosi il fazzoletto sulla fronte sudata. -  Vieni, usciamo. – concluse poi.
Appena fuori sulla strada, Antonio scorse un cestino che Christine portava al braccio.
-Tenete: è per voi. – gli disse porgendoglielo. Lui sollevò il panno che lo copriva e scorse uova, polli, un barattolo di latte, castagne e altre primizie.
- I miei genitori ci tenevano tanto a ringraziarvi per quello che avete fatto per me. Lo so, non è nulla, ma è quel poco che possiamo offrire. Vengono dalla nostra fattoria.- spiegò lei.
- Christine, ti ringrazio ma non c’era bisogno. Io non ho fatto nulla di straordinario, solo il mio dovere- si schermì il medico.
- Non è vero, voi avete fatto moltissimo per me. Mi avete accolta in casa vostra, mettendo a rischio la vostra posizione, il vostro buon nome; avete sfidato Brissac; vi siete preso cura di me e di Philippe. Siete un uomo buono, dottore. Il più buono che abbia mai conosciuto. –
 
Aveva atteso per quasi un’ora, al freddo, in mezzo a quella strada lurida, addossata a quel muro fatiscente, umido e freddo. Più volte aveva sfidato l’innata diffidenza per i popolani e l’altrettanto innato timore e si era sporta per occhieggiare da uno dei finestroni quel che accadeva all’interno. Le sembrava di averlo scorto, seduto su una panca, l’aria distratta, le braccia conserte. Ma subito un uomo dalla stazza imponente si era interposto tra loro e non le era più riuscito di vedere nulla. Si era ritratta dietro l’angolo di una via non appena aveva udito le formule di saluto e aveva intravisto quella gente cenciosa uscire alla spicciolata dal portone. Il cappuccio del mantello calato sulla testa, un pesante scialle avvolto attorno alle spalle, aveva sfidato ancora per qualche tempo la pioggerellina autunnale che cadeva rada e il freddo che le si insinuava nelle ossa. Aveva atteso paziente, seminascosta da un muro scalcinato sul quale avevano preso a spuntare ciuffi d’erba. Nei suoi occhi stanchi si leggeva la prostrazione per quell’attesa, l’angoscia, ma anche l’ardente desiderio di rivederlo. Dopo mesi. Dopo un viaggio azzardato. Dopo lunghe settimane di chiacchiere inutili nei salotti parigini. Dopo numerose notti insonni. Dopo pentimenti a non finire, pianti, preghiere. Dopo che di lui le era rimasto solo il ricordo e una vivida immagine stampata nella mente. Ed ora era lì a pochi passi da lui. Distanze enormi, però, li dividevano. Ogni suo nervo era teso nello spasimo di quei momenti, ogni sua fibra anelava e al contempo temeva quell’incontro. Le dita nervose scorrevano sulla pietra fredda, gli occhi lucidi scrutavano ogni crocchio che usciva cianciando dalla riunione.
 
Per tutto il giorno aveva avvertito una strana inquietudine, un vago senso di colpa. Non era riuscito a dedicarsi con la dovuta concentrazione allo studio delle carte che avrebbe dovuto discutere in assemblea e questo era il risultato: a sera inoltrata se ne stava ancora chino sulla scrivania, smoccolando di tanto in tanto il lume, consumando alla bell’e meglio il pasto serale che il domestico gli aveva recapitato in studio. Eppure qualcosa non tornava…Come mai, si chiedeva, quella giornata era stata così infruttuosa? Che cosa l’aveva tanto turbato durante l’incontro di quella mattina? L’immagine di Anna era sempre davanti a suoi occhi, quel suo pianto trattenuto a stento, quel contegno dignitoso pur nella pena, quegli occhi scuri tanto profondi da perdercisi dentro. Un pensiero costante che non gli lasciava tregua. Vagava con lo sguardo per la stanza, spostandosi dai ritratti appesi alle pareti, ai soprammobili orientali, ai vari gingilli sparsi qua e là. Poi ritornava a fissare il fuoco tremolante della candela, ci giocava distrattamente passandoci in mezzo il tagliacarte, mentre i documenti ufficiali languivano nella cartelletta di pelle davanti a lui. Quella donna aveva un potere magnetico: non avrebbe saputo esattamente dire in che cosa consistesse, una combinazione di fierezza e fragilità, di determinazione e dolcezza, di bellezza e orgoglio.  Ne aveva conosciute di donne, anche bellissime, donne nobili, altolocate, di potenti famiglie, ma mai gli era capitato di soffermarsi a pensare così intensamente a una di loro, mai aveva provato quello strano sentimento a cui non riusciva ancora a dare un nome. Forse incominciava a capire il suo amico Antonio: per uno come lui, poi, dall’animo così romantico e sentimentale, non era affatto strano perdere la testa per una donna del genere. Non gli era mai capitato di innamorarsi: tra tutte le molteplici esperienze che aveva sperimentato nella sua vita tumultuosa e rutilante, tra assemblee politiche, scranni di tribunale, ricevimenti e camere da letto di gran dame o cameriere, mai questa misteriosa esperienza gli era toccata in sorte. Non che se ne crucciasse, anzi, riteneva di essere fortunato per essersi risparmiato molte cose inutili, per non aver perso nemmeno un briciolo del suo tempo da dedicare alla costruzione della sua sfavillante carriera. Eppure, fissando le ombre proiettate nella stanza dalla luce flebile della consunta candela, un tarlo si era insinuato nella sua mente: la triste percezione di non avere vissuto mai appieno la vita, di essersi sorbito soltanto alcuni sorsi di gloria inebriante, ma di non averne gustato l’essenza. Vivere solo per sé rende a lungo andare aridi, tanto da allontanare anche gli amici più cari, e così Jerome si sentiva in quella fredda sera autunnale, mentre, in preda chissà quali rimorsi o rimpianti, cercava nel cassetto della scrivania della carta da lettera e intingeva la penna nel calamaio.
 
Ecco, era lui. La figura slanciata, gli scuri capelli crespi ordinatamente raccolti, quel profilo regolare, il portamento elegante pur nella sobrietà del vestito, i gesti cordiali con cui prendeva congedo dai compagni. Era lui. Non poteva essere altri che lui. Il cuore le si allargò, diede un profondo sospiro di sollievo, di gioia. Il tremore che già la invadeva si fece più forte. Finalmente si decise a lasciare la sua postazione ed uscire allo scoperto per correre da lui, ma si fermò dopo pochi passi. Una donna. Una donna dall’aspetto dimesso, dalla veste gualcita, con una cuffia bianca da contadina e nasconderle i capelli. Il profilo aguzzo, smunto, il passo incerto. Camminava al suo fianco. Lui le prendeva le mani, anzi, ancor peggio, le passava un braccio attorno alle spalle. Le accarezzava la testa. Quella serva! Quell’ignobile serva di cui le aveva accennato Jerome. Non mentiva l’avvocato: si era proprio invaghito di una serva, un’altra volta. Come diamine aveva potuto? Come aveva potuto dimenticarla tanto in fretta? Ci mancò poco che si accasciasse lì, sul marciapiede, su quel selciato dissestato, davanti a quella gente di infimo ordine. Quale vergogna, per lei! Trovò nell’orgoglio di nobildonna la forza per non cedere, per non ricoprirsi di ridicolo. Si aggrappò con mani convulse alla parete e fece segno al cocchiere, che l’aveva attesa fino a quel momento all’angolo della strada, di avvicinarsi.
-Mia cara Christine, la tua riconoscenza mi commuove, non penso di aver fatto nulla che un essere umano non avrebbe dovuto fare. – la ringraziò Antonio prendendole il cestino dalle mani e passandole il braccio sinistro intorno alle spalle. Voleva bene a quella ragazza. Non poteva non volergliene. Era sperduta, malata, gli era da poco morto il figlio: una creatura che non poteva non suscitare in lui una tenerezza infinita. Sentendola tremare nella veste leggera che indossava, l’aveva stretta ancor più al suo fianco. Camminavano a testa bassa, parlando sommessamente. Poi ad un tratto, del tutto casualmente, Antonio sollevò per un istante lo sguardo, volgendolo dall’altro lato della strada. E la vide. Non ne fu certo. Si fermò di scatto. Una carrozza in quell’istante gli oscurò la visuale. Era lei? No, non era possibile, era tutto frutto della sua immaginazione. Eppure…lasciò bruscamente il braccio di Christine e si precipitò dal lato opposto. Un’aggraziata sagoma che monta agilmente sul predellino della carrozza fu tutto quel che vide.
- Anna! Anna! – urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma la vettura si allontanò incurante. Si portò le mani al viso, sconvolto. – Dio! Dio mio! – esclamò turbato – Sto impazzendo! –
Quindi estrasse di tasca un fazzoletto per detergersi la fronte; le ginocchia non gli ressero e si accasciò a terra, provato dalla febbre, ma ancor più da quell’improvvisa e violenta emozione che quella fugace apparizione gli aveva procurato.
- Che succede, dottore? Non vi sentite bene? – gli si avvicinò Christine apprensiva, posandogli una mano sull’avanbraccio e tentando di aiutarlo a rialzarsi.
- Era lei, ne sono certo…era lei…-farfugliava senza dar segno di accorgersi della presenza della giovane, la testa fra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia.
- Lei chi? – chiese l’altra ingenuamente, mentre si abbassava per scrutarne gli occhi sfuggenti e stralunati.
- No, non è possibile che fosse lei. È stata solo un’allucinazione, solo una maledetta allucinazione. Ho la febbre, sarà forse per quello. Ma la vedo ovunque, ormai. La sogno ogni notte.– blaterava convulsamente, contraddicendosi senza ritegno.
- Si tratta di quella donna di cui mi avete parlato, non è così?- domandò Christine, avendo ormai capito che cosa stesse succedendo. – Quella marchesa che vi ha spezzato il cuore? – rimarcò, dimostrando perlomeno scarsa delicatezza.
Antonio annuì ancora smarrito, col respiro corto, spezzato da un accesso di tosse, e gli occhi sbarrati. – Era lei e me la son lasciata sfuggire ancora una volta! – non riusciva a darsi pace, non riusciva calmarsi, ad essere ragionevole. La febbre inoltre gli giocava brutti scherzi, gli annebbiava la mente, gli confondeva le idee.
-Dovete amarla molto. – constatò la giovane.
Si rialzò a fatica, poi, rivolgendosi a lei, i capelli scomposti, gli occhi stravolti, rispose sommesso: - Molto. Forse più della mia stessa vita.-
 
La fronte appoggiata al vetro freddo, osservava insonne il silenzio della città. La notte era chiara e gelida; il vento aveva spazzato via le nubi dal cielo e dalle strade ogni presenza umana; la luna, ormai alta, rischiarava con la sua luce argentata i tetti. Solo il fruscio costante del vento e il ticchettio della pendola scandivano le ore che passavano lente, interminabili. Non si dava pace, non riusciva a smettere di pensare. Averla a pochi passi e non essere riuscito a fermarla, a parlarle, a farsi riconoscere. Questo più di tutto lo tormentava. L’incomunicabilità. Il silenzio che era calato fra loro. Ed ora dove si trovava? Ospite in qualche palazzo della nobiltà parigina? O di passaggio in una qualsiasi bettola dei sobborghi? Era venuta a Parigi per lui? Ma forse non si trattava nemmeno di Anna, forse si era sbagliato, aveva preso lucciole per lanterne. Chi poteva dirlo? Era stata una questione di attimi, una breve e folgorante apparizione. Sarebbe potuta essere un’altra persona, una donna particolarmente a lei somigliante: forse veramente non era più in grado di distinguere il sogno dalla realtà. Ovunque fosse, qualsiasi cosa facesse, ne avvertiva la presenza, era come se lei fosse lì con lui, sempre. Abbacinato da questo pensiero costante, era dunque molto plausibile che si fosse ingannato. Eppure qualcosa in fondo all’anima gli diceva che no, non si era sbagliato, non avrebbe mai potuto sbagliarsi, perché c’era un sottile filo rosso che legava le loro anime e che avrebbe permesso loro di riconoscersi in qualsiasi luogo, in qualunque circostanza.
La bruma mattutina già si levava in mezzo alla via, saliva alle finestre del primo piano, avvolgeva tutto in una nube lattiginosa. Intirizzito, si accorse di aver passato la notte in bianco, lì, di guardia alla finestra, senza la benché minima cognizione del tempo trascorso. La luce livida di novembre faticava a farsi strada tra la nebbia, filtrava timidamente dalla finestra, senza scaldare né illuminare alcunché, dando solo la parvenza del mattino incipiente. Si stropicciò gli occhi assonnati, quasi febbricitanti, e si gettò vestito sul letto. Non gli riusciva di concentrarsi su altro che quella breve e incerta visione, che aveva ridato colore alla sua vita. Ma a patto che si trattasse davvero di lei, come rintracciarla? Domanda a cui, senza aver chiuso occhio per tutta la notte, gli sarebbe stato difficile trovare una risposta.
Il cigolio della porta lo fece destare di soprassalto.
-Chi è? – gridò quasi spaventato nel dormiveglia.
- Dottore, sono io, Dominique. – rispose la giovane e spensierata voce del garzone. – Mi dispiace avervi svegliato! Avete lavorato molto questa notte? – si informò.
Antonio, colto alla sprovvista, vergognandosi quasi delle sue inutili elucubrazioni, rispose di sì, che era stato chiamato per un’urgenza in casa di un sarto, che la visita si era protratta e che era rientrato solo a giorno fatto. Una menzogna fine a se stessa, forse anche meschina, certamente istintiva. Voleva in qualche modo proteggere quel pensiero che tanto gli stava a cuore?
-Siete sicuro di stare bene, dottore? Avete una faccia…fareste meglio a riposarvi ancora un po’!-
- Sto benissimo, Dominique, non c’è bisogno che mi riposi. -
Scattò a sedere sul letto, si sfilò il panciotto, si alzò in piedi, si levò la camicia e si passò sul busto l’acqua fresca della brocca. Si stava asciugando quando Dominique lo interruppe:
-Dottore, prima, qui sotto, ho incontrato un uomo che mi ha dato questa per voi. Ha detto che ha speso l’intera mattinata per trovare il vostro indirizzo. Si tratterà certamente di qualcosa di importante! – E, così dicendo, estrasse dalla tasca interna della giacca una busta.
Antonio la prese, incuriosito. Nessun sigillo, nessun’intestazione, solo un biglietto ripiegato in quattro. Chi mai poteva essere? Un tuffo al cuore gli rivelò subito quale fosse la sua inconscia speranza, ma, distendendo il foglio, notò subito che non si trattava della grafia di Anna. Era una grafia nota, però. Molto sontuosa, piena di svolazzi e ricami, la grafia smaccata di chi si ritiene una persona importante.
 
Sai bene anche tu che non meriteresti queste righe, dopo che te ne sei andato a quel modo, abbandonando un amico che tanto aveva fatto per te. Tralasciamo i convenevoli: quel cinico spietato del tuo amico ti dimostrerà che anche lui ha un cuore. La tua Anna è a Parigi, ti sta cercando disperatamente, è venuta da me per avere tue nuove. Se non vai immediatamente da lei a Palazzo Farnese, sei un pazzo. Non condannare all’infelicità sia lei che te.
Tuo J.

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Capitolo 20
*** Disgelo ***


-Anna! Non volevo spaventarti. – si sentì dire.

Non riuscì a rispondere alcunché. Respirava affannosamente, vuoi per la corsa, vuoi per quell’improvvisa emozione così forte da stravolgerla.

-Ti sto cercando da ore. Le duchesse mi hanno riferito che te n’eri andata all’improvviso. Ho immaginato che fossi venuta a cercarmi e allora…-

Non ascoltò più le sue parole. Scorgeva a malapena il suo volto, grazie al riverbero della neve che rischiarava l’oscurità e alle rare luci delle torce di un vicino caseggiato, ma poteva intuirne perfettamente l’espressione dalla voce ansiosa ma insieme sollevata, dal tono carezzevole, scevro da ogni rancore, da ogni rivalsa. Pur di fronte a tutto questo, dopo lunghi mesi di separazione, il fantasma di quella serva di cui Jerome le aveva accennato, le balenò per la mente. Ma, guardandolo negli occhi vividi e lucenti di immutata devozione, ebbe da sola la risposta che con tanta pena cercava.

-Perdonami! – ruppe dopo qualche istante il silenzio gettandogli le braccia al collo e stringendolo con tutte le forze che le restavano. – Perdonami! – ripeteva tra le lacrime, accarezzandogli i capelli.

- Ti ho già perdonato. Ora sei tu che devi perdonare me. Ho sbagliato a fuggire da te. Non ti lascerò più, mai più! – le rispose Antonio, prendendole il viso tra le mani, asciugandole le lacrime, anch’egli sull’orlo del pianto. -Se penso ai rischi che hai corso per arrivare da me, in questo quartiere, ringrazio il Cielo che non ti sia accaduto nulla di male! – le sussurrò ad un orecchio mentre la cullava fra le braccia, nascondendo il viso nelle pieghe del suo mantello. Aveva passato momenti angoscianti da quando aveva lasciato il palazzo e non gli sembrava vero, dopo tanto vagare, di averla ritrovata sana e salva e di poterla di nuovo riabbracciare.

Poi, dopo averle scoperto il capo, con delicatezza e non senza esitazione le sfiorò le labbra con le sue, aspettando un suo cenno d’assenso a quella riappacificazione. Anna chinò la testa. Assorta, sembrò titubare; Antonio trattenne il fiato per qualche istante. Che cosa le passava per la mente? Aveva detto o fatto qualcosa di sbagliato? C’era dell’altro che lei ancora non gli aveva detto? Temette irrazionalmente un suo diniego: la fissò con sguardo trepido e interrogativo, in attesa. Anna, dopo istanti che sembrarono eterni, rialzò il viso, gli accarezzò dolcemente le guance e infine lo baciò con ardore, con trasporto, con assoluta dedizione. Si erano fatti del male, ma quel bacio li ripagò di tutte le amarezze, di tutti i rimorsi di tutte le bassezze a cui avevano assistito e di cui si erano resi complici. La neve che cadeva sempre più abbondante li proteggeva, trasportandoli in una dimensione altra, cui loro due soli avevano accesso e dove i rumori del mondo e le sue malignità giungevano ovattati, senza nemmeno lambirli.

Tutto assunse un’altra colorazione, nuovi contorni. Quel bugigattolo, umido e freddo, invaso dagli spifferi, in cui sei era ritirato da mesi, gli parve in quel momento più accogliente di una reggia. Anche il fuoco, acceso dopo alcuni tentativi, gli sembrò più caldo, più vivo, più allegro che mai. Si fermò per qualche momento a contemplarne le faville che salivano gioiose fin al cielo, rincuorando la notte nevosa con il loro scintillio. Era sommamente felice. Sospirava, sorridendo di un sorriso aperto e sincero: dal petto gli si era levato un macigno, il cuore si era spalancato a una gioia da tempo dimenticata e ora finalmente ritrovata. Infine Anna lo distolse dalla contemplazione rapita del fuoco richiamandolo a sé. E lui la raggiunse immediatamente, le si abbandonò fra le braccia ricoprendola di baci e ricevendone altrettanti. Di come fossero giunti a casa di Antonio avevano ricordi vaghi e confusi: stretti l’un l’altra, avvolti nei mantelli, avevano percorso le vie del quartiere, deserte e bianche, segnando la neve con le orme dei loro passi impazienti. Ma poco importava, in fondo.

-Avresti potuto riscaldare queste tre misere stanze, si muore dal freddo! – bofonchiò in tono di finto rimprovero Anna, mentre lui le sfilava l’abito lasciandole nude le spalle. Rabbrividiva dal freddo e dall’emozione, mentre liberava anche Antonio dai vestiti e se lo trascinava a sé, sotto le pesanti coperte; il fuoco unico testimone muto del loro ritrovato amore.

-Mi sei mancato, Antonio. – gli sussurrò a mezza voce, accarezzandolo, sopraffatta dai suoi baci sul collo, sul viso, sul petto, che non le davano un attimo di tregua. Un desiderio incoercibile di averla sua e sua soltanto, si era impadronito di Antonio che non lesinava baci e carezze, che la stringeva disperatamente a sé, come se qualcuno, da un momento all’altro, gliela potesse portare via di nuovo. Quest’impeto sorprese piacevolmente Anna, la quale si lasciò trasportare dal momento in un turbine di emozioni mai provate prima d’allora con tale intensità. La paura di perdersi aveva accesso il fuoco della passione che aveva preso il posto della consueta tenerezza, tiepida e rassicurante, che colorava da sempre i loro incontri. Quella notte non c’era posto per consuetudini e tepidezze: la bruciante passione era l’unico mezzo che potesse rassicurarli e riscaldare i loro cuori, dopo il gelo profondo che vi si era insidiato per lungo tempo, per poter lenire quelle ferite lancinanti che si erano procurati l’un l’altra. Tutto perdeva significato, tutto si scoloriva nel grigio indistinto dei ricordi, tutto diventava innocuo, inoffensivo, insignificante: il resto del mondo non contava più nulla, non contavano le ribellioni, non contavano i soprusi, non contavano le ipocrisie e gli intrighi, non contavano le parole taglienti del rampante avvocato ora deputato; Parigi svaniva e con lei la Storia, il tempo che i grandi uomini riempiono delle loro imprese. E di tutto questo restarono loro due soli, sfiniti, sconvolti, turbati ma felici, abbracciati tanto stretti da non potersi separare mai più.

- Avevo pochissime speranze, ma non mi rassegnavo all’idea di averti perso per sempre. Non sarei stata in grado di vivere senza di te. – disse lei, quando l’impeto della passione si fu un po’ acquietato, quando i loro sensi appagati permisero loro di ritornare al pensiero, alla ragione, alla parola. Antonio seguitava a stringerla a sé, cingendole la vita, appoggiandole la testa su di una spalla nuda, che di tanto in tanto ricopriva di baci.  

- Anche tu mi sei mancata, non immagini nemmeno quanto. Eri nei miei pensieri ogni giorno, ogni notte. Ho creduto di impazzire. – le rispose, infine, senza smettere di abbracciarla. Una strana inquietudine gli impediva di allontanarsi anche per un solo attimo da lei, tutto il suo corpo era teso a restarle ancorato, come presagisse chissà quali altre dolorose separazioni.

- Ti chiedo perdono, Antonio. – proseguì lei e pronunciò quel nome con tutto il pentimento e la dolcezza che possedeva.

- Shht. – la zittì dolcemente lui, baciandole i capelli sciolti, sfiorandole delicatamente le spalle.

- Se solo potessi tornare indietro, cancellerei quella notte... –

- Basta, Anna, basta tormentarci con quello che è successo. – la fermò Antonio, mentre le dita sul collo, sulle spalle. – Non si può tornare indietro, ma non mi importa più nulla, ormai. Conta solo averti ritrovata, sapere  che sei venuta fin qui a cercarmi,  che non ti sei dimenticata di me. –

- Come avrei potuto? Come avrei potuto dimenticarmi di te? Di te che amo più di me stessa? – ribatté lei, come offesa dalla presunta dimenticanza che le veniva attribuita. Si voltò lentamente verso di lui, fissandolo con occhi lucidi attraverso la penombra a cui il fuoco, affievolendosi a poco a poco, li stava abbandonando.

- Ripetilo. – le chiese con un sorriso.

- Che cosa, amore mio? –

- Che non ti sei scordata di me, che mi ami. –

- Ti amo, Antonio, mi è insopportabile la vita senza te. – lo accontentò lei, prendendogli il viso fra le mani e baciandolo lentamente, con dolcezza. – E tu? Tu ami me?-

- Anna, unica ragione della mia vita, ti amo come non mai amato nessun’altra cosa al mondo. – le rispose sorridendo e strappando un sorriso anche a lei, che gli si accasciò sul petto per farsi abbracciare.

Si persero per qualche istante a fissare fuori dal vetro della finestra la neve che scendeva silenziosa e leggera, rivestendo la città del suo manto. Tutto intorno taceva, nella stanza fredda, solo la legna novella scoppiettava di quando in quando, sempre più debolmente man mano che il fuoco andava spegnendosi.

- Prima, là fuori, ho avuto paura. Hanno tentato di inseguirmi, dei popolani sguaiati e ubriachi; non so che intenzioni avessero, ma ho temuto il peggio. È un quartiere pericoloso, tutta la città di Parigi è pericolosa di questi tempi: il mondo sta cambiando, il popolo è fuori controllo. Vogliono la testa dell’aristocrazia e non si fermeranno di fronte a niente. Ti confesso che temo per le nostre sorti. – gli confidò Anna, infrangendo quell’atmosfera ovattata.

- Per l’amor del Cielo, Anna, che ti hanno fatto? Perché non me l’hai detto prima? – si spaventò Antonio sollevandosi di scatto sui gomiti: gli si poteva leggere l’angoscia nello sguardo. Le cercò la mano.

- Non è successo nulla, sta’ tranquillo, nessuno mi ha fatto nulla. Per fortuna eri tu quello che mi ha afferrato la spalla. Sei arrivato in tempo. – lo rassicurò lei con una carezza; si accorse dei suoi occhi turbati, quasi febbrili.

- Se ti fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonato. – le rispose con un profondo sospiro. – Non riesco nemmeno io a comprendere questi tempi. Non so più dove sia il giusto, dove arrivi il bene e dove incominci il male. È tutto così maledettamente confuso. Ho sempre pensato che il popolo dovesse reclamare i suoi diritti. Ma fino a che punto è lecito spingersi, Anna, fino a che punto? Non lo so più…- constatò amaramente lasciandosi ricadere sul cuscino, desolato e pensieroso.

- Torniamo a casa, Antonio. – disse lei, abbracciandolo nuovamente. – Ne ho abbastanza di questa città, dei pericoli, delle sommosse, di questa gente arrabbiata e violenta. Torniamo a Rivombrosa, tutti e tre, io, te ed Emilia. –

- Come vuoi, Anna, io andrò dove tu vorrai. – la baciò in fronte.

- Solo una cosa mi preoccupa: Emilia. Come posso portarla via così dal collegio, senza preavviso, senza un motivo apparente? Credi che mi faranno impedimenti? –

- No, non penso che opporranno resistenza. Che diritto avrebbero? –

- Ma lei? Lei di certo non vorrà ritornare a casa…come convincerla? Come fare? – si domandava ansiosa.

- La convincerai, non temere. – la rassicurò Antonio, accarezzandole i capelli.

- Tu non la conosci…E’ una tale testarda…-

-Da qualcuno avrà pur preso... – la provocò scherzando Antonio. Entrambi ne sorrisero.

- Che stai insinuando? – continuò il gioco, sollevandosi sui gomiti e fissandolo dall’alto in basso con aria fintamente minacciosa.

- Assolutamente nulla! – rispose lui alzando le mani in segno di resa. Per tutta risposta si guadagnò un bacio.

- Per fortuna non ha preso da quell’essere immondo di suo padre. – sospirò amaramente Anna, lo sguardo fisso davanti a sé.

- Non ci pensare, non pensare più a lui. – la blandì Antonio con una carezza. Lei si voltò e, guardandolo negli occhi con un velo di amarezza, gli confessò:

- Hai ragione. Ma quando penso a come tutto sarebbe stato diverso se fosse stata figlia tua…-

- Per me è come se lo fosse. È tua figlia e io le voglio bene come se fosse anche mia. – ribatté con un sorriso.

- Non stavo dicendo questo, non l’ho mai messo in discussione. Pensavo solo a come sarebbe stato. Avrei tanto desiderato avere dei figli da te, una nostra famiglia; è questo il mio più grande rimpianto.- gli confidò con gli occhi lucidi, mentre nella sua memoria ripercorreva tutti i momenti dolorosi che li avevano separati per anni, mentre nella sua mente si ribellava all’ingiustizia della sorte che non le aveva permesso il coronamento di quel suo grande amore giovanile. Antonio percepì tutto questo come se glielo stesse esprimendo a parole, tanta era la sintonia tra di loro. Percepì anche l’amarezza, la delusione, il muto rimprovero che gli muoveva con quello sguardo mesto. Non se ne adontò, anzi sentì un’immensa tenerezza invadergli il cuore a ripensare a quei ragazzi che erano stati e a cui non avevano saputo tenere fede.

- Non pensiamo a quello che è stato il passato, pensiamo piuttosto a quanti momenti felici ci attendono. – rispose. Poi la baciò con trasporto: voleva mettere a tacere la voce dei ricordi giovanili che li stavano tormentando. E ci riuscì. Dopo tutte le violente emozioni di quell’infinita giornata, si addormentarono felici, vincendo finalmente l’insonnia che aveva costretto entrambi a lunghe e angosciose veglie finché erano stati separati.

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Capitolo 21
*** Diffidenza ***


Un bussare convulso al portone lo svegliò di soprassalto, quella candida e gelida mattina. Colpi frenetici, quasi indispettiti dal non essere stati ascoltati e subitamente soddisfatti.

-Antonio! Antonio! Aprimi! – si sentì, poi, chiamare a gran voce. Antonio abbandonò a fatica il tepore delle coperte, scostandosi dolcemente da Anna che gli dormiva abbracciata. Si diresse assonnato verso la finestra, spannò con la mano il vetro e poté riconoscere in mezzo alla neve che gli lambiva i polpacci la figura dell’uomo che lo reclamava con tanta impazienza.

- Finalmente! Che diavolo stavi facendo? – domandò Jerome nell’anticamera semibuia, scrollandosi la neve di dosso e spogliandosi del pesante mantello guarnito di pelliccia. - Non mi dire che stavi ancora dormendo a quest’ora…Ha un’aria così sbattuta! – proseguì. Poi si fermò per un istante a osservare l’amico: notò la camicia indossata alla bell’e meglio e ancora aperta sotto il panciotto, i capelli arruffati, lo sguardo trasognato. In quel mentre Anna fece la sua comparsa nell’anticamera, stringendosi nel mantello per coprirsi a qualche modo la sottoveste.

- Che succede? Chi era…- domandava - Ah, siete voi! – esclamò sorpresa non appena vide Jerome e abbassò lo sguardo in evidente imbarazzo.

- Proprio come pensavo, allora! – ribatté con una certa amara soddisfazione Jerome: da quando aveva fatto recapitare quel biglietto ad Antonio, non aveva avuto dubbi sul corso che avrebbero preso gli eventi. – Benissimo, allora parlerò direttamente a voi, marchesa. –

Sentendosi chiamare in causa, Anna rialzò gli occhi e fissò con aria interrogativa Jerome che si sistemava il mantello ripiegato sul braccio, attendendo che lo facessero accomodare. Lui si accorse dello sguardo di cui era oggetto e ci tenne a precisare: - Ero sicuro che vi avrei trovata qui, da Antonio. In fondo è anche merito mio se vi ha ritrovata. –

- Che intendete dire? – domandò accigliata passando lo sguardo da lui ad Antonio.

- Ah pensavo sapeste, pensavo che Antonio ve l’avesse detto…-si meraviglio, o, forse, finse meraviglia.

- No, ecco, vedi, Jerome, non ce n’è stato il tempo…- intervenne Antonio come per giustificarsi di qualcosa di cui non si sarebbe certo dovuto scusare.

- Posso capire, non importa. Non mi fate accomodare? – si risolse infine a domandare, ponendo fine a quell’imbarazzante conversazione che non avrebbe portato a nulla: vi erano altre cose più urgenti da trattare. Antonio gli fece strada nella stanza che avrebbe dovuto fungere da salotto, per quanto spoglio e poco ospitale; Anna attese nell’anticamera ancora per qualche istante, pensierosa, tormentandosi le mani in cerca di una risposta, poi li seguì corrucciata e insospettita dalle parole appena ascoltate che accennavano ad un presunto ruolo di LeBlanc nella loro riappacificazione. Che cosa voleva ancora quell’uomo da loro? Che era venuto a fare? A mettere nuovamente zizzania?

Mentre Antonio gli porgeva una rozza sedia di paglia, Jerome vagava con lo sguardo per la stanza e osservava le pareti spoglie, scrostate in più punti e macchiate dall’umidità, il pavimento in terra battuta, il mobilio frusto tra il quale, era certo, si dovevano annidare i topi.

-Sapevo che avevi preso la decisione di condividere in tutto e per tutto le sorti del popolo, ma mai avrei immaginato che ti fossi ridotto in queste condizioni! – esclamò, infine, con aria schifata, sedendosi sulla sedia, non senza averne prima spazzato la polvere dal sedile con la mano per non rovinarsi i calzoni scuri di pregevole fattura.

- E’ quello che sono riuscito a trovare. Senza dover chiedere favori a nessuno. – ribatté con un certo orgoglio Antonio dopo che ebbe fatto accomodare Anna su di una sorta di poltrona scalcinata.

- E così costringerai anche la marchesa a stare in questo buco squallido e malsano? Si merita certamente di meglio!–

- Non vi preoccupate, avvocato, io ci sto benissimo, e poi si tratta solo di qualche giorno. – intervenne Anna in difesa di Antonio, che era rimasto in piedi, appoggiato allo stipite della porta.

- Bene. Vi starete chiedendo il motivo della mia visita. Ecco, marchesa, è a voi che mi preme fare sapere una notizia. – esordì con tono saccente, tenendo i due volutamente sulle spine.

- Non mi fate preoccupare. Dite! – lo spronò Anna, dai suoi occhi trapelava l’ansia.

- Sta’ tranquilla, Anna. – la rincuorò Antonio prendendole premurosamente la mano.

- Ricordate quel che vi ho raccomandato quando siete venuta nel mio studio? – domandò.

- Non capisco a che cosa…- cercò di raccapezzarsi Anna.

- Mi riferisco a vostra figlia. O per meglio dire al collegio del Sacro Cuore. Come vi dissi, per giorni abbiamo tentato di venire ad un accordo con le monache, ma non ne hanno voluto sapere di sgomberare l’edificio. Hanno messo in mezzo anche il priore, minacciano di ricorrere al re, a Sua Santità...Insomma, le monachelle non ci hanno lasciato altra soluzione. Il collegio verrà sgomberato con la forza. Domani o al massimo fra due giorni la Guardia Nazionale farà irruzione. Quel che si teme è che le spose di Cristo, tanto pie e devote, pur di non cedere alla volontà empia del popolo bue, si mettano a fare barricate. Ne sarebbero capaci, ve lo dico io! Sono capaci di tutto queste invasate. –

- Ma che dite?! Vergognatevi dei termini che utilizzate a proposito di donne consacrate! – lo interruppe   indignata Anna, facendosi un rapido e nervoso segno di croce e baciando il crocefisso che teneva appeso al collo.

- Allora non volete capire! Vi sto dicendo che vostra figlia è in pericolo! Dovete portarla via al più presto, perché noi non abbiamo intenzione di lasciarla vinta alle monache: verranno sfrattate e l’edificio verrà messo sotto sigillo. Con o senza il loro consenso. –

- Credi che sia davvero il caso di usare la forza, di far del male a delle innocenti, di mettere in pericolo le ragazzine che lì studiano? – domandò perplesso Antonio, con una vena polemica nei confronti dei metodi della Costituente.

- Non lo so, Antonio. – rispose Jerome lasciando ricadere pesantemente il pugno sul rustico tavolo.  – Ma una cosa è certa: se si arriverà a questo punto, non saremo stati certamente noi a volerlo. – concluse puntando l’indice contro di lui.

- Devo portare via Emilia al più presto, non c’è tempo da perdere, Antonio! – gli rivolse uno sguardo angosciato.

- Tutto si risolverà, non ti preoccupare. Andrai a parlare con la direttrice ed Emilia potrà partire al più presto. – le fece coraggio, avvicinandosi a lei, le mani sulle sue. Tutt’un tratto ebbe una sorta di mancamento, si dovette sedere su bracciolo della poltrona; ma né Anna né Jerome si accorsero di nulla, troppo presi dalla tesissima conversazione che avevano intavolato.

- Non sarei dovuto venire qui a dirvelo. Fate come se non vi avessi detto nulla, sono informazioni riservate. Ma con una scusa o con l’altra, portate via vostra figlia prima della sera di domani. – la esortò Jerome, alzandosi in piedi per congedarsi, senza curarsi del fatto che, incalzandola in tal modo, non faceva altro che accrescerne la già grande inquietudine.

Anna era ancora molto scossa quando si alzò per salutarlo.

-Arrivederci , Jerome. – concluse Antonio rialzatosi a fatica, gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte.

Con un mezzo inchino Jerome si congedò da Anna e si vestì del mantello ma, proprio mentre stava indossato il tricorno, la donna esclamò:

-Non ti preoccupare, Antonio, lo accompagno io alla porta. –

Antonio, disorientato da questo gesto, acconsentì annuendo in silenzio, ma nei suoi occhi spaesati si poteva leggere il disappunto e forse una punta di gelosia. Si lasciò cadere sulla sedia. Ma non solo lui parve sorpreso. Jerome, sbalordito, fissava ora l’uno ora l’altra, chiedendosi in cuor suo dove volesse andare a parare la marchesa: era certo che dietro a quell’affermazione si celasse il desiderio di un colloquio privato. Tuttavia l’avvocato non disse nulla, si limitò a salutare Antonio con un cenno del capo e a seguire Anna giù per le scale.

Il portone spalancato fece entrare nell’atrio buio il candore luminoso della neve insieme ad una sferzata di aria gelida. Anna si strinse nel mantello rabbrividendo; Jerome si attardava sulla soglia, come attendendo che lei gli svelasse la ragione di quella mossa.

-Vi avverto, LeBlanc: se questa è un’altra delle vostre trovate per mettervi in mezzo tra me e Antonio, la pagherete a caro prezzo. Ho conosciuto diversi notabili in questi mesi e mi basterebbe una sola parola per mettervi fuori dai giochi. State lontano da noi. – lo ammonì Anna, fissandolo con sguardo severo: i suoi occhi scuri si erano rianimati e brillavano di una luce di sfida, parevano essere disposti a tutto pur di difendere quel ritrovato amore. Jerome si incantò per qualche istante a contemplarne il viso dall’incarnato pallido, aggraziato e dolce, in netto contrasto con quanto esprimevano le sue parole e la sua voce, ferma, severa.

- Vi assicuro, marchesa, che non è così. Non ho secondi fini. – si difese dalle insinuazioni di lei dopo qualche istante di silenzio. Si calò sul capo il tricorno e fece un passo fuori dal portone, ma la voce di Anna lo fece arrestare:

- Non mi fido di voi. In passato l’ho fatto, ora non ci ricadrò più. – gli rinfacciò seguitando a fissarlo dritto negli occhi, senza imbarazzo alcuno, uscendo anche lei dalla porta. Il vento le scompigliò i capelli, facendole ricadere una ciocca sul viso.

- La vostra diffidenza non mi rende giustizia. Ero venuto qui soltanto per aiutarvi, mettendo a rischio la mia reputazione di deputato, per giunta. Pensatela come volete, ma fate quel che vi ho consigliato. – ribatté.

Poi fece un passo verso di lei, fissò gli occhi nei suoi e aggiunse: - Arrivedervi, Anna. – scostandole con una carezza i boccoli che le ricadevano sul viso. Immediatamente si voltò e si allontanò a passo svelto in mezzo alla bufera di neve, lasciandola sbalordita e confusa sulla soglia.

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Capitolo 22
*** Contagio ***


 
-Avevi ragione tu, non hanno fatto obiezioni. La madre superiora è stata molto accondiscendente, Emilia potrà partire domani stesso. Del resto, esporre le allieve a un tale pericolo sarebbe da pazzi…Ahimè! Che tempi! –
Anna si stava preparando per la notte; mentre cercava di pettinarsi alla bell’e meglio i boccoli guardandosi riflessa su di vecchissimo specchio opaco e appannato, faceva ad Antonio, appena rientrato, un resoconto della giornata. – Pensa che tante famiglie vogliono portar via le figlie dal collegio: c’erano tutta la nobiltà parigina nella sala di ricevimento. Si preparano giorni bui…Per fortuna che ce ne andremo presto. Ma ti par giusto che siamo costretti a scappare a nasconderci perché questi zotici non solo ci vogliono portar via quel che è nostro, ma addirittura vorrebbero mozzarci la testa? – inveì voltandosi per guardare Antonio alla luce tremolante dell’unico candelabro che avevano in casa.
Antonio non si era nemmeno levato il mantello, stava seduto accanto al camino acceso, distratto, sfregando le mani vicino al fuoco. Era appena rientrato da un giro di visite ai suoi pazienti: la sera era gelida, anche se la neve aveva smesso di cadere, e quella stamberga era, se possibile, ancor più fredda delle vie parigine. Il camino della camera da letto non valeva a riscaldare quei quattro miseri ambienti, umidi, bui, esposti a nord.  Le pareti erano rovinate dalle macchie di umidità, il pavimento era gelido, l’insieme era spoglio e malsano. Non riusciva nemmeno lui a capacitarsi del fatto che Anna non gli avesse ancora fatto notare lo squallore dell’abitazione dove si era ridotto a vivere: gli rincresceva di averla trascinata lì, ma si trattava pur sempre di pochi giorni. Come Jerome gli aveva rimproverato quella mattina, non era certo una sistemazione degna di lei, ma che cos’altro avrebbe potuto offrirle in quel momento? Si era ridotto in quelle condizioni perché non aveva voluto accettare compromessi con la sua coscienza, perché aveva rifiutato quel mondo, falso anch’esso, forse ancor più ipocrita di quello precedente, che si stava delineando dopo i primi bagliori della rivoluzione. Eppure Anna si meritava il meglio, non le avrebbe dovuto chiedere questo sacrificio che per lei, orgogliosa com’era, sarebbe potuto risultare umiliante.
-Antonio, mi stai ascoltando? – gli domandò ad un certo punto, avendo notato la sua distrazione. Antonio distolse lentamente lo sguardo dalle faville, uno sguardo mesto, quasi colpevole, e lo portò su di lei. Sorrise sollevando a fatica gli angoli della bocca. Quant’era bella! Così in deshabillé, con i capelli sciolti che le ricadevano ribelli sulle spalle, ricoperte soltanto dalla candida sottoveste che lasciava trasparire le sue forme aggraziate. Abbassò lo sguardo e scosse il capo, con un sorriso quasi ironico o, forse, desolato.
-Che ti succede? - gli chiese avvicinandosi, con una punta di preoccupazione nella voce. Si acquattò accanto a lui per scrutarne lo sguardo.
- Nulla, Anna. Stavo soltanto pensando al fatto che…- e si interruppe, come per pudore, scuotendo la testa.
- Parla. Non ti capisco. – lo esortò, apprensiva.
- Al fatto che tu sei troppo bella per restare in questa topaia con me. – le disse infine con un sorriso, sfiorandole la guancia.
- Ma che dici! Antonio, così mi farai arrossire, lo sai. – gli rispose, schioccandogli un bacio a fior di labbra, per nascondere in tal modo l’imbarazzo. Lui le prese una mano e gliela baciò, poi chiese:
- E’ tutto pronto per la partenza? –
- Sì. Una carrozza ci attende alla stazione di posta vicino al collegio, domani nel pomeriggio, due ore prima del tramonto. Se tutto va bene, dovremmo arrivare a Evry prima che cali la notte.-
- Molto bene. Ora è meglio se ci riposiamo, domani ci attende una giornata impegnativa. – concluse Antonio, alzandosi e invitando al contempo anche lei ad alzarsi, tendendole le mani. Non accennava a spogliarsi del mantello e la cosa cominciò ad insospettire Anna.
- Perché non ti levi il mantello? Hai così freddo? – domandò seguendone i movimenti per la stanza.
- No…ma questa casa è talmente umida, non te ne accorgi? – ribatté – Ecco, ora mi spoglio. Non c’è nulla che non vada. – cercò di rassicurarla come giustificandosi. Quindi appese il mantello all’appendiabiti e iniziò a prepararsi anch’egli per la notte sotto gli occhi dubbiosi di Anna, che lo attendeva a letto.
 
Non sapeva che ore fossero, supponeva che si fosse nel cuore della notte, che l’alba livida dell’autunno avanzato fosse ancora di là da venire, ma non ne era certo. Squassato dai colpi di tosse, si allontanò dalla stanza più presto che poté: non voleva in nessun modo svegliarla. Barcollò per le stanze buie, infine si lasciò cadere sulla poltrona della sala, avvolgendosi nel pesante mantello. Si accorse di avere la febbre quando si passò una mano sulla fronte rovente. La tosse non accennava a smettere, nonostante i suoi tentativi di reprimerla per non destare Anna che dormiva ignara. Era da qualche giorno che gli era sorto il sospetto, ma aveva sempre voluto allontanarlo. Poi, travolto dagli eventi, dall’angoscia alla gioia immensa di aver finalmente ritrovato la donna che amava, aveva trascurato questi sintomi che, tuttavia, avevano continuato a tormentarlo. Ora, però, non gli era più consentito mentire a se stesso: avrebbe dovuto fare i conti con la realtà, era un medico dopotutto, non poteva chiudere gli occhi. Con terrore osservò nell’oscurità il fazzoletto tingersi di sangue. Non ne era certo, il barlume che filtrava dalla finestra non gli consentiva di mettere a fuoco alcunché. Ma il suo cuore iniziò a battere a mille e gocciole di sudore a impregnargli la fronte. Consunzione, mal sottile, in termini medici tisi. Vari dei suoi pazienti, tra cui Christine e suo figlio, ne erano afflitti, alcuni erano deceduti, altri la combattevano come combattevano la miseria e, secondo le sue previsioni, erano destinati a soccombervi. Ma lui? Lui si era sempre sentito invulnerabile, robusto, sano, mai aveva preso in considerazione l’ipotesi di poter essere anch’egli contagiato. In quel momento pensò alle terribili condizioni in cui viveva da mesi, l’abitazione fredda e malsana, il lavoro sfiancante, i pasti regolarmente saltati, le angosce e lo sconforto che lo avevano attanagliato fino a quando non aveva potuto riavere Anna fra le braccia. Tutto questo avrebbe provato anche un fisico di costituzione forte e sana come il suo.
Si prese la testa fra le mani, affondando le dita nei capelli scomposti, mentre brividi continui gli percorrevano il corpo, brividi dettati dal freddo, dalla febbre o, forse chissà, dalla paura, che per la prima volta in vita sua provava nei confronti della sua salute. Si alzò e andò ad appoggiare la fronte al vetro della finestra. La notte era serena, nessuno là fuori sembrava condividere le sue ambasce, le vie di Parigi dormivano quiete, la luna si era fatta strada fra le nubi e rischiarava il manto di neve. Gli pareva assurdo, uno scherzo atroce del destino, quella sorte. Proprio quando pensava di avere in mano la sua vita, la sua felicità, proprio allora che gli si srotolava davanti una serie infinita di giorni da condividere con la donna che amava, senza più ombre, senza più rancori o rimorsi. Era come se nel mezzogiorno di una splendida giornata estiva, nuvoloni neri si addensassero all’improvviso ad oscurare il sole, impedendo anche al più tenue raggio di filtrare al di là della cortina scura. Non era tanto per sé che si disperava, della sua sorte poco gli sarebbe importato fino a due giorni prima, era per la sua vita insieme ad Anna che non si dava pace. Come dirlo a lei? Come spigarle che da quella terribile malattia era quasi impossibile la guarigione? Che in un mese, o forse due gli avrebbe tolto le forze, l’avrebbe consunto? Che un viaggio così lungo in quelle condizioni non sarebbe stato in grado di affrontarlo?
In quel momento non gli riusciva di pensare: la febbre gli offuscava la mente, la disperazione gli annebbiava le idee. Cercò di calmare la tosse bevendo dell’acqua dalla brocca, poi, si avviò verso la stanza in cui Anna continuava a dormire all'oscuro di tutto. I capelli sciolti che si spandevano morbidi sul guanciale, le braccia raccolte davanti al viso, il respiro leggero e regolare, le ciglia perfette sulle palpebre chiuse. Si fermò per qualche tempo a contemplarla, mentre la visione placida e rasserenante di lei gli scioglieva in parte il peso che portava sul cuore. Si sedette sul letto, delicatamente le accarezzò i capelli, le guance, su cui impresse un bacio leggero; poi, si scostò da lei, si allontanò, per evitare ogni possibile rischio di contagio, e, rannicchiato sulla logora poltrona del salotto, trascorse quel che restava della notte fra cupe elucubrazioni e violenti accessi di tosse.
 
-Ebbene? Perché mi hai mandato a chiamare con tanta urgenza? – domandò Jerome appena entrato in casa, battendo i piedi per scrollarsi la neve dagli stivali, senza nemmeno essersi tolto mantello e tricorno, con il tono spazientito di chi è stato distolto da faccende considerate decisamente più importanti.
Antonio si limitò a fissarlo con uno sguardo che avrebbe mosso a pietà chiunque, anche il cinico avvocato LeBlanc. Era uno sguardo di supplica, ma nello stesso tempo orgoglioso; uno sguardo amareggiato dal fatto di dover chiedere aiuto, e nello stesso tempo costretto dalle circostanze a farlo. Anna era uscita presto quella mattina, diretta al collegio dove avrebbe atteso alla pratica di congedo di Emilia, nel pomeriggio una carrozza le avrebbe aspettate alla vicina stazione di posta, dove Antonio le avrebbe raggiunte. Tutto era ormai stabilito, quel giorno stesso avrebbero lasciato Parigi.
Non aveva avuto il coraggio di dirle nulla, aveva finto noncuranza, le aveva rinnovato la promessa che si sarebbe fatto trovare puntale nel luogo convenuto, che avrebbe sbrigato in mattinata tutte le commissioni del caso. Aveva annuito alle raccomandazioni di lei, non aveva osato contraddirla, nemmeno per un istante. Che sarebbe successo, se le avesse svelato il suo malessere? Quale sarebbe stata la sua reazione? Non se lo poteva immaginare, non ci voleva pensare. La più nera disperazione gli gravava sul cuore, ma in quel momento avrebbe dovuto innanzitutto provvedere a lei ed Emilia.
-Mio Dio, Antonio! Che faccia hai? Ti ha tenuto sveglio stanotte la marchesa? – insinuò scherzoso Jerome, con un sorrisetto allusivo e amaro. Poi si avvicinò all’amico sprofondato nella poltrona. – Che diamine! Tu non stai bene, Antonio? Che ti succede? – si allarmò notando il volto pallido, gli occhi arrossati e lo sguardo sofferente di Antonio.
Rimase a scrutarlo per qualche istante, prima di avere una risposta.
- Mal sottile. – rispose laconico, gli occhi di un azzurro spento fissi in quelli vividi dell’amico, poi si chiuse in un cupo silenzio.
- Che significa? Che vuoi dire? – gli domandò Jerome di rimando, senza battere ciglio, la tensione nella voce.
- Tisi, Jerome. Ne hai mai sentito parlare? – domanda più che mai retorica a cui il ciarliero avvocato, principe del foro parigino, non riuscì a trovare una risposta degna di essere chiamata tale. Restò senza parole, sbigottito, mortificato. Per qualche istante si limitò a deglutire nervosamente, studiando di sottecchi il volto emaciato dell’amico. Che fosse malato, non gli pareva possibile: lui, il medico più valente che conosceva, caduto vittima di una di quelle malattie che era solito diagnosticare e curare nei suoi pazienti. Più che il dispiacere era l’incredulità ad invadere la sua mente in quel frangente.
- Il n’est pas possible…ne sei certo? – balbettò infine sconcertato e in evidente imbarazzo.
- No. Non ne sono certo, ma sono ancora in grado di riconoscere i sintomi. Ho visto tanti di quei pazienti malati di tisi che ho pochi dubbi su quale sia il decorso della malattia. – constatò amaro, con un sospiro si prese la testa fra le mani.
Jerome taceva, passeggiava nervosamente per la stanza, il tricorno in mano, il mantello indosso, le mani dietro la schiena, gli occhi fissi al pavimento. Evitava ogni contatto oculare con Antonio, prostrato da quella conversazione e da frequenti colpi di tosse.
- Antonio, parla chiaro. Che cosa ti potrebbe accadere? Come hai intenzione di curarti? Se vuoi io posso…- si risolse infine a parlare, dopo essersi fermato di fronte all’amico.
- Non lo so, Jerome. – lo fermò, spegnendo sul nascere ogni possibile offerta di aiuto. – Che cosa mi potrebbe accadere? Potrei cavarmela per qualche mese oppure andare all’altro mondo in un paio di settimane. Non lo so, non so dirtelo. Dipende dallo stadio della malattia. So solo che non posso partire, non sopporterei le fatiche di un viaggio così lungo. – esclamò passandosi le mani sulle guance ispide. Tenne lo sguardo fissò davanti a sé poi lo spostò sull’amico che se ne stava ancora in piedi davanti a lui, pensieroso.
- Ma non ti sei accorto di nulla? Eppure avresti dovuto, sei stato a contatto con pazienti malati…Avresti dovuto fare attenzione ad evitare il contagio, prendere precauzioni! – sembrò quasi rimproverarlo, con tono stizzito, per la sua negligenza che ora gli stava costando tanto cara. Antonio gli mostrò un sorriso riconoscente: aveva intuito il cordoglio di Jerome e ne provava una sorta di tenerezza quasi. Mai aveva pensato che potesse provare una tale angoscia per la sua sorte o per la sorte di qualsiasi altro essere umano.
- Non credere che non abbia fatto il possibile per evitare di essere contagiato dai pazienti. Sono un medico scrupoloso, lo sai. Ma non sempre si può avere il controllo su tutto. E poi, queste stanze umide, malsane, le fatiche del lavoro…-
- Non hai risposto ad una mia domanda, però. Come hai intenzione di curarti? Ti posso aiutare, conosco alcuni tra i più capaci medici della città: senza nulla togliere alla tua perizia, ti potrebbero assistere…-
- Non è questo che ti chiedo, Jerome. Tu puoi aiutarmi, ma in un modo diverso. –
 
E lo fissò negli occhi, come a strappargli una promessa.
 

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Capitolo 23
*** Rimorsi ***


Le faceva quasi pena la costanza con cui le faceva recapitare lettere e biglietti da Parigi, nonostante i suoi dinieghi, le sue laconiche risposte. Possedeva una tenacia invidiabile, quell’uomo: non c’era da stupirsi che avesse intrapreso quella brillante carriera. Tuttavia gli mancava quel tatto, quella delicatezza, quello slancio del cuore che l’avrebbero potuto rendere amabile. Troppo insistente, ingombrante, pieno di sé. Pensava Anna accingendosi a leggere il contenuto di quell’ennesima lettera. Nonostante tutto, solleticavano il suo amor proprio quei profusi complimenti che le elargiva. La sua attenzione tuttavia ricadde su di una parola, un nome. Antonio. Da giorni Jerome non ne faceva menzione nelle sue lettere e da quella notte lei non aveva più avuto il coraggio di entrare nell’argomento. Ma quelle sette lettere che si stagliavano al centro del foglio le procurarono un intenso batticuore. Saltò i convenevoli, ignorò i commenti sulle sue brevi risposte, saltò immediatamente al corpo centrale, in cui, finalmente, le forniva informazioni sulle sorti di Antonio. Una combinazione di stizza, risentimento e preoccupazione si impadronì di lei: non gli perdonava quell’abbandono, quel biglietto scarno in cui si congedava da lei, affidandola a Jerome; non gli perdonava di non aver più cercato di mettersi in contatto con lei, di non averla raggiunta in seguito a Rivombrosa. Qual era il motivo che lo tratteneva a Parigi? La folle gelosia le offuscava la mente ogni volta che ci rifletteva. Quella serva, che cos’altro se no? Non sapeva darsi altre risposte e Jerome era su questo molto elusivo: che cos’aveva anch’egli da nasconderle? Non gli sarebbe convenuto svelare per intero l’infedeltà dell’amico nella speranza di conquistare il suo cuore infranto? Molti aspetti di quella storia le sfuggivano e da giorni non si dava pace.
Gli occhi scorrevano veloci sulla carta, nervosi, poi increduli, angosciati, disperati. Il foglio le cadde di mano, le labbra le tremarono. Chiuse gli occhi e passò qualche minuto in silenzio, mentre dal corridoio giungevano come ovattate le voci concitate della servitù e quella allegra di Elisa, i pianti della bambina, mentre il resto del mondo proseguiva per la sua strada, preso dai preparativi per il Natale, dal calore della festa, dalla promessa di una giornata felice. Riprese per un attimo lucidità, si chinò ad afferrare la lettera che era scivolata ai suoi piedi e la rilesse. Daccapo. Tutta.
 
- Gli mancano dignità ed amor proprio, dal momento che pone tale domanda ad una donna che sa già appartenere ad un altro.
-Un altro che vi ha lasciato, un altro che non avete idea se ritornerà o meno, un altro che non ha avuto il coraggio di dirvi in faccia la verità. È questo che volete? – reagì insolitamente scomposto a quella sua risposta tagliente.
- Non vi permettete, avvocato. Non avete alcun diritto di parlare di lui, nemmeno di nominarlo. – sibilò lei fra i denti, cercando di abbassare i toni per non destare dal sonno Emilia.
- Vi meritate di meglio, marchesa. – replicò, stavolta con il solito garbo. – Vi meritate qualcuno che vi renda felice. –
 - E voi avete la presunzione di poterlo fare? – domandò in atteggiamento di sfida.
- Pensatela come volete. Fra poco ci fermeremo a Nemours, poi proseguirete da sole. La mia presenza non è più necessaria. –
- No. Tornerò a Parigi con voi. – ribatté innervosita dal tono placido di lui.
- Questo è fuori discussione. Pensate a Emilia. Non sareste sicure a Parigi di questi tempi! – cercò di dissuaderla Jerome.
- Non mi importa, non mi importa…voglio sapere perché. – si ostinava Anna, le labbra serrate in un’espressione di rabbia trattenuta, mentre deglutiva amaramente le lacrime.
- Perché…che domanda stupida chiedere perché. Voi non lo farete. Non tornerete a Parigi perché non mettereste mai a repentaglio la vita di vostra figlia. E perché quello che scoprireste sul conto di Antonio vi farebbe solo del male. – provò ad essere convincente, accompagnando queste parole con un’espressione accorata che non gli si addiceva.
- LeBlanc, ve lo chiedo per l’ultima volta, c’è di mezzo un’altra donna? C’è di mezzo quella dannata serva di cui mi avevate parlato? Mi ha tradita, non è così? - sibilò a mezza voce, come avesse lei stessa paura della conferma che stava chiedendo circa le sue supposizioni.
- Ve l’ho detto, Anna, quello che scoprireste vi farebbe soltanto soffrire. A che serve farsi queste domande?-
I cavalli stavano rallentando la loro corsa, schizzando l’acqua delle pozzanghere, nell’oscurità della campagna si intravedevano le luci della stazione di posta.  
-Io voglio la verità. A qualunque costo. Sono disposta a tornare a Parigi questa notte stessa. –
Jerome, messo alle strette, sembrava aver perso quella prontezza di spirito che lo contraddistingueva. Non sapeva come cavarsi d’impaccio in quell’assurda situazione in cui il suo amico l’aveva cacciato.
-Christine. È questo il suo nome, di più non so. – confessò, infine, mentre il cocchiere fermava la carrozza davanti alla stazione di posta di Nemours. Jerome saltò giù di scatto, senza lasciare ad Anna il tempo per ulteriori spiegazioni.
 
 Fuori dal vetro appannato della finestra la luna riluceva contornata da un gelido alone, presago di imminenti nevicate; il tempo era scandito dalle folate di vento che sibilavano tra gli infissi e dai pigri rintocchi della vecchia pendola usurata che tuttavia non la smetteva di fare il suo dovere, là dal salotto. Un tempo vuoto, un tempo inutile, ormai, un lento disgregarsi di attimi di cui non aveva più senso tenere il conto. Scosso da brividi, tremava sotto le pesanti coperte sgualcite, mentre rivoli di sudore freddo gli solcavano la fronte. La febbre gli offuscava la mente, gli impediva di formulare un qualsiasi ragionamento di senso compiuto. Forse non era nemmeno in sé, mentre seguiva il corso della luna, figurandosi il viaggio attraverso la campagna francese che Anna in quel momento stava compiendo. In quel momento sarebbero giunti ormai nei pressi di Nemours, in salvo, se Jerome avesse seguito alla lettera le indicazioni che gli aveva dato. Se non avesse avuto qualche cedimento, se non si fosse lasciato impietosire da lei: ma il suo amico non era tipo capace di impietosirsi davanti ad una donna, su questo sarebbe potuto stare tranquillo, Jerome non avrebbe fallito. Ma lei? Lei che cosa avrebbe pensato? Stava soffrendo? L’avrebbe maledetto, l’avrebbe odiato per il resto dei suoi giorni? In quel momento, mentre spiava dal suo letto sudato il corso delle stelle, non gli importava nulla dell’odio di lei, temeva soltanto una cosa: che stesse soffrendo a causa sua. Eppure sarebbe stata una sofferenza inevitabile, necessaria, la doveva proteggere da rischi ben peggiori, accettava il disprezzo di lei, il suo biasimo, pur di saperla al sicuro insieme ad Emilia. – Mi perdonerai mai, Anna? – mormorava tra sé, dibattendosi nel tremore della febbre. Il suo unico pensiero, la sua unica angoscia.
 
- Dominique! – chiamava con voce strozzata il garzone, che, viste le condizioni del padrone, si era deciso a non lasciarlo solo la notte.
- Dominique! – ripeteva quasi disperato, ma la voce non gli usciva potente come avrebbe voluto.
Il ragazzo, tuttavia, sentì e si affacciò alla porta. – Che succede signore? Avete bisogno di me? – domandò impensierito, con la voce ancora impastata dal sonno e i capelli arruffati.
-Sì, ho bisogno di un favore. Una lettera. Io te la detterò e tu devi farla recapitare al più presto all’indirizzo che ti dirò. Sai scrivere, giusto? –
- Ma, dottore, non conosco la vostra lingua. E poi ora è notte fonda. Dovreste riposare. –  cercò di svicolare, titubando un po’.
- Carta e penna. Va’ a prendere carta e penna, svelto. – ordinò concitato, tossendo senza requie.
-Domattina. La scriveremo domattina questa lettera. Ora riposate, dottore. – ribatté il ragazzo. – Vi porto dell’acqua? –
- Portami carta e penna! –
Il giovane obbedì, ritornò dopo pochi istanti con una brocca di acqua e carta e penna nell’altra mano, poi uscì dalla stanza, richiudendo silenziosamente la porta.
-Mia cara Anna, non riesco a fare a meno di pensare a te, questa notte…- esordì con grafia tremolante.
Le parole non gli uscivano dalla penna come avrebbe desiderato. Che cosa le avrebbe dovuto dire? Qual era la cosa giusta per lei? Lasciarla andare o richiamarla a sé, gettandole addosso tutta la sua sofferenza? Troppo difficile decidere, per lui, quella notte. Era certo soltanto di una cosa, di avvertire la mancanza di lei in modo straziante, fisico.
 Quanto avrebbe voluto incrociare di nuovo il suo sguardo, fosse pure per un’ultima volta, quanto avrebbe voluto congedarsi dalla vita stringendole la mano o sotto il tocco delle sue carezze. Quanto avrebbe desiderato averla accanto quella notte, mentre la paura di morire lo assaliva, strozzandogli il respiro in gola.
 
Come aveva potuto Jerome tenerle nascosto per settimane quel segreto? Perché aveva retto il gioco in modo così egoistico al suo amico? Se solo l’avesse saputo, sarebbe accorsa da Antonio, non l’avrebbe mai lasciato solo in quelle condizioni, gli sarebbe stata accanto, avrebbe fatto di tutto per la sua guarigione. Atroci sensi di colpa le invasero irrazionalmente l’animo. Era stata lei ad abbandonarlo, non il contrario; lei a lasciarlo solo, malato, per salvare se stessa da pericoli infondati; lei ad aver creduto alle parole di quell’impostore di Jerome, lei ad essersi lasciata abbindolare dalle sue spire, lei a cedere nuovamente ad un suo bacio.
Ormai era troppo tardi per qualsiasi cosa, tutto era perduto. Immobile sul divanetto, la sua mente ordiva a velocità incessante idee di viaggi, tentativi disperati di ricerche. La notizia che Jerome le portava era tremenda, ma non sicura, lasciava adito a flebili speranze. Le aveva comunicato che da cinque giorni non aveva alcuna notizia di Antonio, che dall’interno della sua abitazione non rispondeva nessuno e questo lo preoccupava notevolmente, date le condizioni di salute in cui versava l’amico. Le raccontò della malattia, del silenzio che gli aveva imposto per amore di lei, perché non avrebbe mai voluto costringerla a restare in una città in preda ai tumulti. Le descrisse il suo deperimento, che aveva notato durante le brevi visite che gli aveva fatto; le parlò di quando si era deciso infine a scriverle la verità, ma Antonio vi si era opposto con forza, non volendo che le fosse dato questo dispiacere.
Davvero Antonio pensava che lei, tenuta all’oscuro di tutto, non soffrisse? Davvero pensava che di lui si fosse dimenticata in un batter d’occhio, magari consolandosi con il suo amico Jerome? La faceva così volubile, così fatua e superficiale? Lei non avrebbe mai smesso di amarlo, non ha mai smesso di amarlo. Ed era pronta a partire immediatamente per raggiungerlo, anche solo raccogliere il suo ultimo respiro, per un’ultima parola, per un ultimo bacio.
Si alzò dal divano ancora scossa, ripiegò la lettera e si avviò verso la porta. Buio e poi solo il rumore di cocci in frantumi.
 
Una notte insonne, buttata su quel pagliericcio umido, scomodo, di certo poco adatto ad una marchesa avvezza al lusso. Emilia continuava a dormire profondamente, mentre la pioggia cadeva leggera tamburellando sulle finestre. Se lo sarebbe dovuta immaginare, eppure…Molte cose continuavano a non esserle chiare. Che le avesse mentito così spudoratamente? Che quei due giorni passati insieme non fossero stati altro che una farsa? L’aveva già fatto una volta, del resto. Già una volta le aveva promesso fedeltà, già una volta le aveva giurato amore eterno per poi abbandonarla. E per giunta, in quest’occasione, era stata lei a spingerlo tra le braccia di un’altra, lei a tradirlo per prima. Mille pensieri le affollavano la mente, mille dubbi, rimorsi, recriminazioni. Ma un pensiero predominò su tutti. Quello di Emilia. In fondo si era decisa per quella partenza repentina in virtù del fatto che la città di Parigi nel giro di poco sarebbe stata nuovamente messa a ferro e fuoco e che, dunque, Emilia, oltre che lei stessa, fosse in pericolo. Andarsene, fuggire da quel guazzabuglio prima che fosse troppo tardi, così avevano stabilito lei ed Antonio. L’incolumità di Emilia prima di tutto, prima delle sue gelosie, prima dei suoi avventati tentativi di conoscere la verità, prima di Antonio, prima di lei stessa. Avrebbe riportato Emilia a Rivombrosa, al sicuro. Questa era la cosa giusta da fare in quel frangente: una scelta differente non se la sarebbe mai perdonata.
Senza aver ottenuto una risposta al suo bussare, spalancò la porta, facendo entrare con sé una folata di aria gelida che rischiò di spegnere il mozzicone di candela che continuava ad ardere flebilmente sulla scrivania, in mezzo alle carte disordinate a cui Jerome stava lavorando. Lui sussultò destandosi di soprassalto. Sollevò il capo dai fogli sparpagliati sopra i quali si era addormentato poco prima, si passò una mano sulla faccia stropicciandosi gli occhi ed esclamò sorpreso:
- Ah siete voi! – Non riusciva a mettere a fuoco il motivo per cui la marchesa si fosse introdotta nella sua stanza a notte fonda, dopo che qualche ora prima l’aveva respinto in malo modo. Per un istante si illuse che avesse cambiato idea su di lui, ma lei prevenne ogni falsa aspettativa.
- Sapete benissimo perché sono qui. Voglio la verità. – esclamò a bruciapelo, senza lasciare al suo interlocutore il tempo di riemergere del tutto dal dormiveglia.
- Anna, vedete, vi ho già detto quello che so. Sono desolato di non potervi aiutare. – rispose, sforzandosi di trovare il sorriso adatto, che, in quel frangente, chissà come, non gli usciva spontaneo.
Non gli diede il tempo di mettere insieme altre parole, gli si parò davanti con aria ostile, imbronciata. Gli occhi scuri scintillavano di indignazione mentre lo fissava a meno di un metro da lui. Jerome ritenne opportuno alzarsi in piedi e piantarle in viso il suo sguardo più convincente.
-Non mi immischio nelle faccende private dei miei amici, se permettete. So soltanto quello che Antonio mi ha riferito. – si giustificò.
- Avete un bel modo di non immischiarvi nelle faccende private dei vostri amici…- alludendo non troppo velatamente al modo in cui si era insinuato fra lei ed Antonio.
- In questo sono stato aiutato da voi. – disse lui avvicinandosi fino a pochi centimetri dal suo viso.
- LeBlanc, che intenzioni avete? Quando la smetterete con questa farsa? – lo minacciò, portando le mani avanti, sulla difensiva.
- Farsa? Quella che ha inscenato il vostro Antonio, forse. Io non fingo con voi. – rispose, indignato, ferito nel suo amor proprio.
-Voglio, dunque, che mi sveliate quale sia questa farsa. Anzi, lo pretendo. – rinfocolò lei la discussione, voltandogli le spalle come per dargli il tempo di riflettere.
- Non lo so che cos’abbia in mente Antonio, non capisco il motivo per cui voglia rinunciare a una donna come voi. – le rispose francamente, appoggiandosi alla scrivania a braccia conserte, intenzionato a non proseguire oltre quel discorso.
Anna si voltò per scrutarne lo sguardo, mentre la candela, ridotta ormai ai minimi termini, stava esalando gli ultimi bagliori e la stanza stava precipitando sempre più nell’oscurità, nonostante fuori cominciasse ad albeggiare. Le stava tenendo nascosto qualcosa, era più che evidente. Ma che cosa? E soprattutto, quale ruolo aveva Antonio in tutto questo?
- Vedete, – fu costretto ad aggiungere per spezzare quel silenzio che si era fatto troppo greve, carico di parole non dette, di rimproveri muti, di congetture senza riscontro – abituato come sono a passare la giornata fra queste carte, ho perso dimestichezza con i sentimenti, ammesso che io l’abbia mai avuta. Dunque non riesco a comprendere il mio amico Antonio e non so spiegare a voi il motivo del suo comportamento. –
Anna lo studiava, guardinga, sospettosa, mentre le si accostava nuovamente, cercando il suo sguardo quasi con impertinenza.
- Di una cosa, però, sono certo: al suo posto non vi avrei mai lasciato andare, non avrei mai accettato di perdere una donna straordinaria come voi. Per niente al mondo. Una parola, Anna, una sola parola e farò quello che vorrete, verrò con voi a Rivombrosa. – Ogni parola venne pronunciata con tono sommesso, quasi bisbigliata nell’oscurità, come se gli mancasse il coraggio di sentirle risuonare. La guardava, ormai, da molto vicino.
Anna si irrigidì, arretrò e, voltandosi di scatto, afferrò la maniglia della porta.
- Tornerò a Parigi. – dichiarò sulla soglia.
- Ma come…- tentò di obiettare Jerome.
- Non ora. Il bene di Emilia prima di tutto. La accompagnerò a Rivombrosa. Ma appena mi sarà possibile tornerò. Voglio che Antonio mi dica in faccia come stanno le cose, visto che voi vi rifiutate di dirmelo. – concluse abbassando lo sguardo stizzita. Poi, sollevando gli occhi su Jerome. – Avete detto che esaudirete quello che vorrò. Mi dovete promettere una cosa: mi terrete al corrente di tutto quello che succederà a Parigi, di tutto quello che saprete sul conto di Antonio. È l’unico favore che vi chiedo. – e si congedò con un cenno del capo, richiudendo la porta dietro di sé, mentre l’alba plumbea d’inverno si insinua tra le imposte, rischiarando il viso contrito di Jerome.
 
-Arrivederci, marchesa, arrivederci Emilia. – si congedò nella bruma di un mattino grigio e freddo, in piedi sul predellino della carrozza, sporgendosi per qualche istante all’interno. – Fate buon viaggio. – concluse senza aver ottenuto alcuna risposta.
- Arrivedervi, Jerome. – lo salutò infine Emilia, con un sorriso riconoscente per averle accompagnate. Anna, invece, si chiuse nel suo silenzio, osservando la sagoma scura, avvolta in un pesante mantello di pelliccia, allontanarsi sempre più nella campagna nebbiosa.
 

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Capitolo 24
*** Al posto suo ***


-Tu sei pazzo, Antonio, tu sragioni! – sbottò dopo aver ascoltato la richiesta dell’amico, alzandosi in piedi e spalancando platealmente le braccia per poi abbandonarle lungo i fianchi. Come poteva pensare a una cosa del genere? Non riusciva proprio a comprenderlo, non riusciva a immaginare nemmeno lontanamente quali fossero le ragioni profonde che lo muovessero verso una tale decisione. Per lui, era soltanto un pazzo.

- Non mi vuoi aiutare, ho capito. Mi rivolgerò a qualcun altro, non voglio tediarti oltre. Va’ pure, torna alle tue carte, certamente sono più importanti di queste mie miserie. – lo invitò ad andarsene Antonio, finito che ebbe di tossire.

- Non si tratta di questo, lo sai benissimo. Ma non riesco a capire che cosa tu abbia in mente. Non ha alcun senso quello che hai intenzione di fare, te ne rendi conto? – scosse la testa spazientito e allo stesso tempo sorpreso da tanta ostinata determinazione.

- Sei tu che non ti rendi conto. E’ l’unica cosa che posso fare in questo momento, invece. – ribatté Antonio, lanciandogli uno sguardo perentorio da sotto in su.

- Ma, perdio, Antonio! Non puoi pensare di tenerle nascosto tutto, non puoi credere che sia disposta a partire senza di te! –

- Infatti ho bisogno del tuo aiuto, come ti ho spiegato. –

-Stai commettendo un grosso sbaglio, amico mio, non te lo perdonerà. Io, come ben sai, ho conosciuto moltissime donne, ma, ti giuro, nessuna mai è stata capace di amarmi come lei ama te. Lo ammetto, mi sono sbagliato sul suo conto, non è la nobildonna viziata che pensavo. Lei…lei non è come le altre. Ma, che stupido, non è certo a te che devo farlo notare. Quando è venuta a chiedermi tue notizie, gliel’ho letta negli occhi la disperazione per averti perso. Ho pensato che tu fossi un uomo molto fortunato di quanto non sia io, nonostante possa dire di essere arrivato dove volevo. Ti ho invidiato. –

- Ed è per questo che te la sei portata a letto? Per invidia? – obiettò amaro.

- Sì, forse anche per questo, non te lo nascondo. E anche se fosse? È successo ormai mesi fa, sembrano passati secoli, quante cose sono cambiate nel frattempo! –

Jerome afferrò con disinvoltura una vecchia sedia spagliata, la sistemò di fronte alla poltrona dove sedeva Antonio e ci si sedette, fissando l’amico negli occhi con quel suo sguardo pungente.

 - Forse sei tu che non l’hai ancora perdonata, nonostante sia giunta fin qui, si sia umiliata di fronte a me e si sia esposta a vari rischi per venirti a cercare. Ammettilo, non hai perdonato né lei né me. – lo provocò.

- Ti sbagli, io l’ho perdonata dal primo istante e non ho mai smesso di amarla. Quanto a te…-

- E allora perché te ne sei scappato? Non dirmi che l’hai fatto per la causa del popolo, non ci ho mai creduto, Antonio. –

- Nemmeno io ho mai creduto che tu lavorassi per la causa del popolo, se per questo. – ribatté, levandosi infine la soddisfazione di rinfacciargli la sua ipocrisia.  Poi proseguì: - L’ho fatto per non soffrire, perché la delusione che entrambi mi avete dato è stata enorme, non ero in grado di reggere la sua vista, il suo sguardo, come se fosse stata colpa mia poi...- concluse desolato: - Ma vi ho perdonato entrambi, come vedi.  –

Jerome non demordeva, non riusciva a concepire la logica dei pensieri dell’amico, gli era totalmente estranea.

-E allora perché? Perché vuoi soffrire da solo, senza il suo conforto, e nello stesso tempo far soffrire anche lei? – domandò sinceramente confuso.

- Non capisci proprio. E non capirai mai. Certe cose non si possono spiegare, se non le si prova. – scosse rassegnato la testa Antonio.

- Non c’è nulla che non possa essere spiegato in modo razionale, il fatto è che tu non sei razionale in questo momento. Sei troppo turbato, non puoi prendere una decisione ora. – L’irrazionalità della decisione dell’amico era lampante e la logica razionale era l’unico linguaggio che Jerome era in grado di comprendere e accettare.

- Non c’è nessuna decisione che possa essere rimandata. Anna non deve sapere nulla. Lei ed Emilia devono lasciare la città oggi stesso, non mi posso permettere che corrano altri rischi. –

- Ma tu l’ami! - esclamò Jerome infine, quasi stizzito di fronte a quel rifiuto dell’evidenza.

- Ed è proprio perché l’amo che devo lasciarla andare. E al più presto. – concluse Antonio, disarmante.

 

 

 

Il cielo si tingeva di arancione in quel freddo pomeriggio di primo inverno, mentre bianchi nuvoloni densi di neve si addensavano sopra la linea di fuoco dell’orizzonte; le ombre viola si facevano sempre più lunghe, cupe e quasi inquietanti, mentre un vento sottile e gelido spazzava le strade. Una donna e una ragazzina attendevano in piedi, avvolte dai loro mantelli, davanti alla stazione di posta, un solo baule di modeste dimensioni accanto a loro. Chi le avesse scorte passando avrebbe supposto che stessero scappando, che fossero esuli in cammino verso lidi più accoglienti, e forse in un qualche modo lo erano davvero. Aspettavano qualcuno. I loro sguardi si facevano più acuti all’apparire di una qualche sagoma in fondo alla via, i loro gesti diventavano sempre più nervosi man mano che il tempo passava e il cielo imbruniva senza che riuscissero a scorgere nemmeno l’ombra di chi stavano attendendo. La donna si torceva le mani convulsamente, sillabava qualche parola a fior di labbra – imprecazioni, preghiere, timori esposti a mezza voce? -; la ragazzina pareva contrariata, si intuiva dall’espressione corrucciata che non avesse alcun piacere a starsene lì, in piedi, al freddo, pronta a partire per un viaggio rispetto al quale, forse, non le era stata lasciata alcuna scelta alternativa.

- E’ quasi un’ora che stiamo aspettando. Fa freddo, tira vento. Perché non entriamo nella stazione?- fece la ragazzina, rivolgendo alla madre uno sguardo tra il supplichevole e l’indispettito.

-Emilia, per favore, non ti ci mettere pure tu. Un po’ di contegno, non sei più una bambina! Antonio non tarderà ancora molto.-

- E poi perché partire proprio oggi, con tutta questa fretta? Mi sembra di aver lasciato un discorso a metà, non ho avuto il tempo di salutare le compagne, le suore, la madre superiora…-

- Le tue compagne se ne saranno andate tutte, ormai. Le famiglie aristocratiche non lasceranno un giorno di più le loro figlie in questo guazzabuglio! Anche volendo, non saresti riuscita a congedarti da loro. E’ una situazione delicata, Emilia, dobbiamo metterci al sicuro il prima possibile. Tu non hai ancora compreso il pericolo che incombe su di noi, sul nostro sangue, sui nostri diritti! Il popolo è una belva affamata, figlia mia, non avrà misericordia per nessuno di noi. –

- Non è come dite voi, madre. Non ci accadrà niente: persone come Elisa, Angelo, Amelia, Bianca, non sarebbero mai capaci di farci del male, il popolo non è cattivo! –

- Quanto sei ingenua! Quanto poco conosci il mondo, bambina mia! Non si sta parlando della nostra servitù qui, ma di gente senza scrupoli. E poi…- Anna venne interrotta nella sua invettiva contro i popolani dall’apparire di una figura che si faceva strada nella penombra del crepuscolo. Tese la vista, fece qualche passo in avanti verso l’uomo che stava giungendo da un crocicchio.

La figura alta, elegante, agile, si fece sempre più nitida man mano che si avvicinava. Un mantello di pelliccia scuro di pregevole fattura, una ciocca di capelli biondo cenere che faceva capolino da sotto il tricorno, un lampo verde negli occhi identificarono lo sconosciuto come Jerome LeBlanc.

-Voi? – esclamò con la sorpresa nello sguardo Anna. – Che cosa ci fate voi qui? – domandò con una certa preoccupazione. Lui fece ancora qualche passo verso di lei prima di farsi riconoscere. Passi svelti, nervosi, quasi isterici, che risuonarono nel silenzio di ghiaccio che era calato dopo quell’ansiosa domanda.

- Buonasera, marchesa. Buonasera, marchesina Emilia. – esordì con un inchino, levandosi il cappello con deferenza.

- Buonasera a voi, signore. – rispose con garbo la ragazzina che per la prima volta si trovava quell’uomo di fronte.

Anna non ricambiò il saluto e chiese a bruciapelo: - Antonio dov’è?-

Jerome si rimise il cappello, indugiò per qualche istante con lo sguardo a terra e infine annunciò con un velo di impazienza nella voce, che tuttavia Anna percepì: - Mi ha incaricato di dirvi che stasera non verrà. Ha mandato me al posto suo.-

-Come sarebbe a dire “non verrà”? Che sta succedendo, LeBlanc? Fatemi comprendere, di grazia! – lo implorò aggredendolo con uno sguardo iroso e sperso al tempo stesso. Nei suoi occhi scuri si rifletteva una strana luce d’angoscia che all’avvocato non era nuova, gliel’aveva letta anche il giorno in cui era venuta a parlargli nel suo studio.

- Non verrà. È stato trattenuto per un’urgenza, in casa del sarto del quartiere. Sapete la figlia sta molto male…-abbozzò inspiegabilmente titubante, lui che con estrema disinvoltura costruiva castelli accusatori o erigeva argini difensivi nelle aule di tribunale.

- Che volete che mi importi di queste cose! Noi dobbiamo partire, dobbiamo ritornare al più presto a Rivombrosa, lo capite questo? Abbiamo una carrozza che ci attende da tempo ormai. Mandatelo a chiamare, questa volta non gli perdonerò alcun ritardo per i suoi pazienti!-

-Vedete, non mi è possibile. –

- Come non vi è possibile? Voi lo farete. E subito. Manderete a chiamare Antonio o andrete voi stesso in casa di questo sarto. – gli ordinò sempre più incollerita.

- Voi non mi darete ordini, madame. – ribatté lui con certo orgoglio di classe, fissandola dritto negli occhi e sostenendone per qualche istante lo sguardo con spavalderia. Poi aggiunse: - Antonio ci raggiungerà domattina. –

Ciò detto, mandò a chiamare la carrozza che le attendeva nella stazione, senza curarsi delle continue lagnanze di Anna, delle incessanti domande che gli rivolgeva sul conto di Antonio. Non appena il cocchiere gli fece un cenno, prendendo per una mano Emilia e per l’altra Anna le condusse entrambe, una rassegnata, l’altra riluttante, verso il mezzo; con piglio risoluto diede ordine di caricare i loro bagagli e, con un gesto deciso al limite della sgarbataggine, trascinò Anna per un braccio all’interno dell’abitacolo. Emilia si era già accomodata tra i cuscini e guardò con espressione sorpresa, la reazione isterica della madre. Jerome fece un cenno al cocchiere che si era voltato in attesa di ordini: i cavalli si misero in marcia scalpicciando sulla ghiaia.

-Come vi permette di trattarmi in questo modo? Chi vi dà licenza di strattonare in malo modo una nobildonna, forse la vostra Costituente? Non la passerete liscia, signor LeBlanc, mi appellerò a chi di dovere! E ora fatemi scendere da questo trabiccolo! Io ed Emilia non partiremo se non con Antonio. Lasciateci scendere! – strillava indispettita cercando in malo modo di divincolarsi e scendere dalla carrozza. – Emilia, muoviti, scendi subito! -

Che cosa diamine stava succedendo? Dove le stava portando LeBlanc? Si trattava forse di un rapimento? E Antonio dove si trovava? L’aveva forse segregato da qualche parte? L’aveva fatto arrestare? Non riusciva a raccapezzarsi in quell’assurda circostanza: l’unica cosa che voleva era scendere al più presto da quella carrozza. Cercava di forzare lo sportello, batteva i pugni sul finestrino.

- E’ inutile che vi affanniate tanto. Ormai siamo partiti e ci fermeremo soltanto a notte inoltrata a Nemours. – cerco di calmarla Jerome, con voce piatta, insensibile alle sue isteriche sceneggiate, mentre il cocchiere spronava i cavalli e la carrozza si metteva in moto.

- Come sarebbe a dire Nemours? Si era stabilita la prima tappa a Evry. Nemours è troppo lontano, vi arriveremo a notte fonda, come farà Antonio a raggiugerci in tempo? – ribatté lei in preda all’ansia.

- Nemours. Così è stato stabilito da me e Antonio. – tagliò corto l’avvocato. – Ed ora calmatevi, non gioverà a nessuno di noi tre un viaggio in tali condizioni. Dico bene, Emilia? – si rivolse sorridendo alla ragazzina.

- Dite bene, signore. Mamma, per favore, smettetela. Ve lo chiedo per favore, non rendete questo viaggio ancora più penoso. – la supplico Emilia.

- Avete sentito vostra figlia? Mettetevi l’anima in pace, marchesa. – rincarò la dose LeBlanc, abbandonandosi al morbido schienale e sistemandosi nella posizione più comoda. Poi senza più degnare di uno sguardo Anna, prese ad osservare il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.

Prima i sobborghi cittadini, poi distese di campi, dolci colline, vigneti e ancora campi a non finire. Di tanto in tanto qualche stazione di posta si stagliava al chiarore freddo della luna ormai sorta. I paesaggi cambiavano, si avvicendavano, senza che una parola risuonasse nell’abitacolo a rompere quel silenzio spettrale. Emilia si era addormentata, la testa appoggiata al vetro freddo; mentre Anna fissava con espressione imperscrutabile ora il paesaggio, ora la figlia, stando ben attenta a non sfiorare nemmeno per sbaglio con lo sguardo l’uomo impassibile e silenzioso che le sedeva di fronte. La luce della luna che filtrava dal finestrino ne illuminava il volto disteso, il sorriso appena accennato con cui le si rivolse non appena Anna abbozzò, dopo ore, un tentativo di discorso:

-Quanto manca alla fermata? Sono ore che stiamo viaggiando, la luna è ormai alta. Vorrei riposare. – il tono era piatto, distaccato, come avesse perso il piglio combattivo, sfinita dalla stanchezza.

- Non temete, tra poco saremo arrivati a Nemours. – le rispose cordiale, fissandola con quel suo strano sorriso.

- Io ed Emilia ci fermeremo lì fin quando non sarà arrivato Antonio. Ripartiremo con lui. – sentenziò assertiva, senza lasciare spazio a repliche. Gli occhi scuri decisi piantati in quelli di LeBlanc con aria di sfida. Per la prima volta in tutto il viaggio l’espressione di Jerome lasciò trasparire un lieve imbarazzo. Distolse lo sguardo da lei, abbassò il capo e lo rialzò.

- Ecco, vedete…Antonio non verrà. – le comunicò non senza esitazione nella voce. Temeva fortemente una sua reazione scomposta, temeva di non saperla gestire. Si accorgeva di essere per certi versi in balia di lei, cosa che mai gli era successa nei confronti di nessun’altra donna.

Anna chiuse gli occhi, trasse un profondo sospiro, poi, dominandosi:

-Che diavolo state dicendo? Mi avete ingannata? Mi avete trascinato con la forza chissà dove? – il panico crescente si faceva strada nella sua voce.

- Calmatevi, marchesa, calmatevi, vi supplico. – tentava di blandirla lui, prendendole una mano. Mano che immediatamente lei ritrasse.

- No che non mi calmo! Dove mi state conducendo, avvocato? Che cos’è tutta questa messinscena? E Antonio dov’è? – domandò a raffica, sottovoce per non svegliare Emilia, ma con eguale impeto.

- Vi sto riportando a casa, marchesa. Al sicuro. –

- Non vi credo. Che storia è mai questa? Ditemi immediatamente dove si trova Antonio! –

Per tutta risposta, Jerome estrasse dal taschino della giacca un biglietto ripiegato, poche righe, di pungo di Antonio. Lo aprì e glielo porse, senza aggiungere una parola.

 

 

 

Accanto al crepitante fuoco acceso nel grande camino della biblioteca, mentre si accingeva ad aprire l’ennesima lettera dalla calligrafia sontuosa, ingombra di promesse e buoni propositi giunta da Parigi, la mente le ritornò a quello scarno biglietto, appena due righe, che Jerome quella notte le porse, con delicatezza, quasi imbarazzato. Quanto avrebbe desiderato scorgere quella grafia sottile e ordinata tra l’incessante corrispondenza che le toccava smistare ogni giorno. E fra tutte quelle infinite lettere che non sapeva più dove conservare. Anzi aveva dato ordine che fossero bruciate, a lei erano soltanto di ingombro. La neve cadeva fitta in quella vigilia natalizia, mentre il palazzo, addobbato a festa, riluceva di colori e fasti, in attesa del Natale ormai prossimo. Un clima di allegria e spensieratezza aleggiava tra la servitù, che correva indaffarata da una stanza all’altra portando festoni, addobbi, vassoi ricolmi di ogni delizia, come aveva fatto predisporre suo fratello. Quella sera si sarebbe infatti dovuto tenere il cenone natalizio, sfarzoso come non se ne tenevano più dai tempi dei loro genitori. Fabrizio non aveva voluto badare a spese: il primo Natale di sua figlia a Rivombrosa sarebbe dovuto essere ricordato negli annali.

Questo entusiasmo palpabile ovunque, quest’aria di festa, non erano riusciti a contagiare Anna. Il suo umore rifletteva piuttosto il cielo grigio e foriero di neve di quel pomeriggio avanzato di uno dei giorni più corti dell’anno. Da quando, qualche settimana prima, era rientrata da Parigi, con Emilia ma senza Antonio, si era chiusa in un mutismo estenuante. Di umore cupo, scontroso, vagava dalla sua stanza alla biblioteca, al salone, meditando tra sé l’opportunità di un nuovo viaggio a Parigi, in attesa spasmodica di notizie, dell’arrivo della corrispondenza. Quando poi le venivano recapitate le missive indirizzate a lei, si chiudeva in biblioteca, adagiata sul divano, con le dita tremanti, iniziava a rompere i sigilli, scartare le buste, aprire le lettere, con una lentezza spasmodica, carica di attese ogni volta disilluse. Decine di lettere a firma di Jerome LeBlanc. Tutte molto simili, tanto che poteva recitare come una cantilena i suoi esordi ampollosi, le sue rassicurazioni, le sue promesse di giungere presto di persona per aggiornarla sui fatti parigini. Mentre gli elogi e le lusinghe che le rivolgeva, quelli no, non li avrebbe saputi ripetere come una filastrocca, perché ne inventava ogni volta di nuovi, sembrava che la sua fantasia da provetto oratore non avesse limiti. Lodava la sua forza, la sua pazienza, il suo contegno, la sua bellezza. Prometteva di giungere presto a Rivombrosa per farle visita. Non si stancava mai di chiudere le sue lettere con qualche dolce parola per lei, nonostante il più delle volte non ottenesse risposta, se non qualche riga scarna in cui lo ringraziava freddamente e gli chiedeva di tenerla costantemente al corrente su quanto avvenisse oltralpe. Di Antonio, al contrario, non giungeva nulla. Le ultime sue parole erano richiuse in quel biglietto logoro che ancora conservava tra le pagine del libro che teneva sulla propria scrivania e che le straziavano ogni volta il cuore. Parole scarne, distanti, fredde. Parole che sapevano di commiato definitivo.

 

 

 

-Che significano queste righe? Che significa che ha deciso di restare a Parigi? Perché, Dio mio, perché? – domandava mente brandiva convulsamente il biglietto davanti agli occhi di Jerome, aggredendolo con sguardi e gesti alterati, quasi fosse lui la causa di quanto fosse scritto in quel foglio.

- Calmatevi, Anna, vi prego! Sveglierete vostra figlia! – continuava a ripetere invano LeBlanc.

- Non posso capire. Questo è troppo! Quella serva…Dev’esserci di mezzo lei! È per questo che non è voluto partire? È per lei che mi ha congedato in questo modo, senza nemmeno una parola? – non trovava pace, si dimenava in preda all’angoscia nello spazio angusto dell’abitacolo, gli occhi lucidi di un pianto che si sforzava a tutti i costi di trattenere, davanti a quell’uomo.

Jerome la guardava impotente, ma gli si poteva leggere un vivo dispiacere negli occhi verdi. Un dispiacere che sentiva tuttavia come inutile. Le cercò la mano nel buio e gliela strinse con vigore. Anna si arrestò di colpo, si irrigidì fissandolo con espressione interrogativa.

-Vi fa male agitarvi in questo modo. – le raccomandò per tutta risposta, a sua volta incrociandone lo sguardo: il verde dei suoi occhi si fece più vivo in quegli istanti, perse quasi la solita malizia per acquistare sfumature più morbide.

-Da quando vi preoccupate per la mia salute? – ironizzò con voce rotta Anna per cavarsi da quell’imbarazzante frangente. Ma non le riuscì di distogliere lo sguardo da quello di lui, restò immobile quando Jerome fece scorrere le mani sulle guance, accarezzandola.

- Da quando ho letto dentro di voi, mentre voi avete capito ben poco di me. – le sussurrò a fior di labbra, il suo viso tra le mani.

Anna non ebbe la forza di reagire; era debole, confusa, avvilita, sola e il calore di un abbraccio le si presentava come un farmaco per il suo animo ferito. In preda ad una strana emozione che mescolava in sé l’angoscia e il desiderio di conforto, gettò le braccia al collo di Jerome e gli si accasciò sul petto, liberando sommessi singhiozzi. Lui le baciava i capelli, la fronte, la stringeva a sé, pervaso da un sentimento nuovo, sconosciuto, che solo in quella gelida notte di luna piena, su di una carrozza in corsa in mezzo alla campagna, sembrava dischiudersi a lui. Dopo essersi lasciata cullare per qualche minuto dal movimento della carrozza fra le braccia di Jerome, Anna fece per sollevare timidamente il capo, ancora incapace di realizzare quanto le fosse successo. E fu proprio allora che Jerome colse l’occasione per sfiorarle le labbra con le sue. Fu questione di attimi. Con estrema delicatezza le dischiuse le labbra con un bacio diverso da quelli che si erano scambiati in quella notte fatale. Un bacio timido, che chiedeva permesso, tenero e quasi incerto. Un bacio che le ricordava prepotentemente quelli di Antonio. Tratta in quest’inganno dalla sua mente confusa e snervata dalle emozioni di quella giornata, non le fu difficile ricambiare con trasporto quel bacio. Ma non appena riaprì gli occhi non si trovò di fronte il limpido celeste che si aspettava, bensì un verde vivace e penetrante, solo appena un po’ screziato dal turbamento di quegli attimi. Improvvisamente tornò in sé, maledicendosi per quella nuova debolezza che si era concessa, dopo che aveva giurato a sé stessa di non ricaderci più. Si riscosse, si staccò con foga dalle braccia di Jerome, respingendolo sgarbatamente, e si lasciò cadere stranita e silente sul sedile.

LeBlanc restò interdetto. Mormorava sconnesse sillabe nella sua lingua, senza dare un senso compiuto ai suoi pensieri. Supplicarla? No, non l’avrebbe mai fatto. Mai si sarebbe umiliato a tal punto per una donna, nemmeno per lei. Si nascose il viso fra le mani, i gomiti sulle ginocchia, il busto sporto in avanti verso di lei. Anna si stupì nel vederlo sotto quell’aspetto, amareggiato, forse, offeso dal suo rifiuto. Non sapeva come si sarebbe dovuta comportare, certo non le sarebbe parso il caso di consolarlo- proprio lei, dopo tutto quello che le aveva fatto passare- così se ne stette immobile, il collo rigido e lo sguardo fisso oltre le spalle chine di Jerome. Fu lui a rompere il silenzio, ricomponendosi, mostrando di aver ritrovato il suo piglio usuale tra l’ironico, il malizioso e il divertito.

-Ditemi, marchesa, aiutatemi a capire. – la pregò con quel suo solito sorriso brillante stampato in volto, che contrastava però con il verde cupo dello sguardo. Anna si mise in ascolto, incapace di immaginare dove l’avrebbe condotta quel discorso.

- Che cosa trovate in me che non va? Non ho forse un aspetto piacente, modi eleganti e garbati? Guardatemi! Forse mi trovate sgraziato? Sono brutto, ripugnante ai vostri occhi? Eppure non mi pare, anzi, ho un viso attraente, un corpo ben proporzionato. Possiedo quel tanto di arguzia che serve per intrattenere una dama sui più disparati argomenti, e poi, non ho forse una voce gradevole, ben modulata?  Non vi sembra? – domandò a conclusione di quell’elogio di se stesso, più sbandierato che veramente sentito. Pareva chiederle conferme con quel sorriso spavaldo e quel piglio sarcastico che aveva messo in ogni singola parola; pareva pendere totalmente dalle sue labbra, mentre si faceva gioco di lei con quelle stupide domande. Anna taceva e lui riprese. – Non rispondete? Avete perso la parola? Allora, ditemi, una volta per tutte, che cosa manca a Jerome LeBlanc per piacere a una donna? –

Anna attese qualche istante, sostenendo altezzosamente lo sguardo di lui, poi, con tono inappellabile, sentenziò:

- Gli mancano dignità ed amor proprio, dal momento che pone tale domanda ad una donna che sa già appartenere ad un altro. –

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Capitolo 25
*** Un lungo viaggio ***


-Bianca, assicurati che mia sorella abbia mangiato qualcosa. – si premurò Fabrizio, estraniandosi per un momento dai festeggiamenti e rivolgendosi con aria preoccupata alla serva.
- Signor Conte, abbiamo fatto il possibile, non ne vuole sapere. Non tocca cibo da stamattina. – rispose lei, abbassando il capo mortificata.
- E’ per quello che non si regge in piedi…Sono molto preoccupato, Bianca. – le confidò nel corridoio, mentre giungevano da salone le voci festose degli invitati. Era ormai sera inoltrata, il cenone era iniziato già da un po’, dalle ampie finestre si poteva scorgere la neve cadere copiosa nel buio della notte. Quel pomeriggio Fabrizio aveva ritrovato la sorella a terra, l’aveva sollevata fra le braccia e portata nelle sue stanze, esanime, pallida in volto. Qualche istante dopo era tornata in sé, ma non aveva voluto dare alcuna spiegazione al fratello e anzi si era risolutamente opposta all’idea che fosse mandato a chiamare un medico. – Non ce n’è alcun bisogno: sto benissimo. – gli aveva assicurato con le labbra tremanti. – Benissimo. –
Fabrizio non le aveva creduto, ma che altro avrebbe potuto fare? Gli ospiti stavano per arrivare, avrebbe dovuto riceverli degnamente, Elisa lo stava cercando, la festa stava per aver inizio. La affidò alle cure di Bianca e Amelia, raccomandandosi più e più volte che le fosse portato da mangiare e che le fosse fornita ogni assistenza. Di quando in quando lasciava il compito di intrattenere gli invitati ad Elisa e si andava ad informare circa le condizioni di Anna. Nessuna novità, si sentiva dire, la marchesa sta bene, ma non vuole mangiare, non vuole alzarsi, appare molto sconfortata, inconsolabile.
-Che diavolo è andata a fare a Parigi? Lo sapevo fin dall’inizio che si trattava di un’idea balzana, avrei dovuto impedirglielo…- imprecava Fabrizio tra sé.
- Signor Conte, non ci sareste riuscito: sapete benissimo che quando vostra sorella Anna si mette in testa una cosa…- si intromise Amelia, sopraggiunta in quel preciso istante dalla camera della marchesa.
- Amelia, l’hai vista? Come sta? Posso andare da lei? – domandò concitato avvicinandosi a lei.
- Per ora è meglio che torniate alla festa. Non vuole vedere nessuno. Nemmeno sua figlia. – rispose l’anziana domestica.
- Per la miseria! Che le sta succedendo? –
- Eh, signor Conte, un amore infelice può straziare il cuore.- concluse Amelia.
- Hai ragione. Sempre Antonio, sempre lui dev’esserci di mezzo, fin da quando eravamo ragazzi. Ne ha fatto una malattia.- disse, spalancando le braccia rassegnato.
- Una malattia da cui è molto difficile guarire.- convenne la serva.
- Ora devo tornare dai miei ospiti, ma Amelia, mi raccomando a te. Stalle dietro!- si fece promettere Fabrizio congedandosi da lei.
 
Sembrava di cera. Immobile, pallida, silenziosa, ma pur sempre estremamente bella. Come una statua neoclassica. Così se ne stava da ore, distesa fra i cuscini e i pesanti tendaggi del suo letto, senza voler vedere nessuno, senza voler essere disturbata. Completamente sola, la vigilia di Natale, mentre la sua residenza era invasa da ospiti festosi e musiche allegre. La neve cadeva soffice e silenziosa, il fuoco ardeva nel camino, le candele erano accese e riverberavano la loro luce sul vetro delle finestre, la stanza era avvolta da un piacevole tepore, la musica e l’aria di festa giungevano ovattate. Ma lei non aveva alcuna percezione di ciò che la circondava: col pensiero vagava verso quell’alloggio squallido, freddo, buio in cui in quel momento Antonio giaceva malato, forse moribondo, senza nessuno accanto, senza il conforto di un volto amico, senza di lei. Non riusciva a perdonarsi di essere lì, al sicuro, al caldo nella sua casa, in mezzo ai suoi affetti più cari, suo fratello e sua figlia, circondata da amici festanti, da servi premurosi, mentre lui si trovava in tale affanno. O forse era addirittura morto. Jerome non aveva più sue notizie da tre giorni, temeva il peggio. Ma no, non era possibile che fosse morto, lei l’avrebbe avvertito: non era possibile che quella connessione fra le loro anime, quel filo rosso si fosse spezzato senza che le se ne accorgesse. Antonio era ancora vivo, ne era certa. Ma non poteva pensare in quali condizioni. Che fare? Sarebbe partita al più presto, non appena si fosse ristabilita. Sapeva che Fabrizio avrebbe tentato di opporsi a questa decisione con ogni mezzo, ma non glielo avrebbe permesso; come non avrebbe permesso a Jerome di intromettersi, nemmeno per aiutarla. Questa volta non avrebbe chiesto l’aiuto di nessuno, toccava a lei e a lei soltanto questo compito.
Si alzò sui gomiti non appena udì un nitrito provenire dal piazzale, un cigolio di ruote che si arrestavano. Chi poteva mai essere a quell’ora la vigilia di Natale? Gli ospiti erano già arrivati da un pezzo… Un capogiro vinse la tentazione di alzarsi ed affacciarsi alla finestra. Si riadagiò sui cuscini, in attesa, con l’orecchio teso.
-La marchesa sta riposando, non disturbarla! – intimò Amelia ad Angelo che si incamminava a passo veloce per il corridoio. – Chiama piuttosto il signor Conte, ci penserà lui ad accogliere questo corriere.- suggerì.
- Ma, Amelia, mi ha chiesto di mandare a chiamare la marchesa, proprio lei in persona e nessun altro! – insistette il ragazzo, scrollandosi dal mantello i fiocchi di neve.
- Te l’ho già detto, sta riposando e non vuol vedere nessuno. Ha passato una brutta giornata. E poi fa’ un po’ di attenzione anche tu! Guarda, stai imbrattando il pavimento di neve sciolta! – lo rimproverò a voce forse troppo alta.
- Che succede? –
A quella domanda entrambi si voltarono di scatto. Nella penombra del corridoio, avvolta in uno scialle di lana pesante, si faceva avanti a passo incerto Anna, in veste da camera, pallida e scarmigliata. Quel vociare l’aveva insospettita. Angelo e Amelia restarono interdetti, blaterando lì per lì qualche parola di scusa per il baccano che stavano facendo. Poi il ragazzo prese la parola:
-Marchesa, c’è un corriere che chiede di voi, vuole parlarvi con urgenza. – comunicò tutto d’un fiato.
 
 
- Un corriere che chiede di me? A quest’ora? La vigilia di Natale? -  domandò incuriosita, non senza una nota di ansia nella voce. Che le venissero a comunicare qualcosa di tragico sul conto di Antonio? Cercò di mantenere il controllo. Serrò le labbra e si strinse nello scialle per vincere i brividi che a quelle parole avevano iniziato a scuoterla.
- Sì. Dice di venire da Parigi. – specificò Angelo, ignaro di quanto quest’ultima affermazione potesse essere fatale per la marchesa.
Anna barcollò per un istante, fece per appoggiarsi al muro, ma Angelo fu più svelto e la sorresse.
-Non vi sentite bene, marchesa? – domandò preoccupato.
-Io che cosa ti avevo detto? Dovevi lasciarla in pace, la marchesa! Queste faccende le si poteva sbrigare anche domani! – lo redarguì stizzita Amelia.
- No, Amelia, Angelo ha fatto bene ad avvisarmi. Fatemi parlare con questo corriere. Ora. Immediatamente!- ordinò con una voce flebile, ma che non ammetteva repliche o tentennamenti.
A quelle parole Angelo si mosse senza aspettare altro. – E non dire nulla a Fabrizio, per il momento. – si raccomandò la marchesa.
 Qualche minuto dopo fece la sua comparsa a piedi della scalinata un uomo alto, vestito di scuro. Anna, affiancata soltanto da Amelia, lo attendeva nell’androne d’ingresso in cima alle scale. La semioscurità impediva da lontano di distinguerne con precisione il volto, ma ugualmente trasalì dentro di sé a quella vista: un uomo con un tale tetro aspetto non poteva portare buone notizie. Via via che saliva le scale, il suo volto si faceva sempre più riconoscibile grazie alla luce delle torce poste all’ingresso.
-Ho il piacere di parlare con la Marchesa Radicati? – esordì con spiccato accento francese, scoprendosi il capo.
-Sono io. –
L’uomo abbozzò un inchino poco convincente.
-Vengo da Parigi, il viaggio è stato lungo e faticoso per il freddo, il ghiaccio, la neve…- spiegò in un italiano stentato.
- Venite al dunque, signore: che volete da me? – tagliò corto Anna, l’angoscia sempre più palpabile nella sua voce. Il freddo si faceva sentire, il marmo della scalinata rendeva ancor più gelido quell’atrio, il fiato si condensava ad ogni parola, la fiamma delle candele ai lati dei graditi minacciava di spegnersi sotto ai soffi di vento gelido.  Anna tremava in veste da camera, con indosso solo un misero scialle a ripararla. In altre occasioni avrebbe provato vergogna nel ricevere in quella mise poco conveniente uno sconosciuto, ma in quella notte disperata nemmeno se ne accorse. L’uomo, al contrario di lei, non sembrava patire il freddo, o, forse, ne aveva patito talmente tanto durante il viaggio che se n’era abituato.
- Il passeggero che accompagno vuole vedervi. È venuto fin qui apposta da Parigi. Chiede di essere ricevuto. – le comunicò in tono piatto, burocratico.
Jerome. In quel momento ne fu certa. Aveva mantenuto fede alle promesse che le aveva fatto, era giunto da lei per “rallegrarle il Natale”. Credeva, forse, che l’avrebbe consolata? Era a tal punto presuntuoso da pensare che la sua presenza avrebbe potuto colmare il vuoto di quell’assenza che le dilaniava il cuore? Per un istante fu tentata di opporre un rifiuto. Non erano quelli i modi né i tempi: giungere, così, senza preavviso, durante i festeggiamenti per il Natale! Il suo orgoglio di nobildonna e il suo riguardo verso i dettami dell’etichetta le suggerivano di lasciare Jerome al freddo e al gelo fino all’indomani per fargli scontare quella visita inopinata; ma l’ansia di avere qualche notizia su Antonio ebbe la meglio.
-Ebbene, mandatelo a chiamare. – concesse, infine, fissando quei suoi occhi scuri e profondi in quelli dell’uomo che, con un inchino, prese congedo e si avviò giù per le scale, mentre i suoi passi rimbombavano nell’atrio semibuio.
-Marchesa, mando a chiamare il padrone? Non mi piace quest’uomo, non mi fido mica…- le sussurrò all’orecchio Amelia, lanciando sguardi diffidenti alla sagoma che si allontanava fino a scomparire nel buio in fondo alle scale.
Anna non la stette nemmeno a sentire. E alle sue insistenze rispose con tono seccato:
-Non c’è alcun motivo di scomodare il Conte. Ma se hai paura, Amelia, puoi anche rientrare in casa. –
- Non mi sognerei mai di lasciarvi da sola, signora marchesa!- assicurò l’anziana, sempre più dubbiosa. Quanto avrebbe preferito essere seduta a tavola, nel salone della servitù, a gustare insieme agli altri una succulenta coscia di tacchino in quel momento! Ma mai avrebbe abbandonato Anna, la sua padrona, o meglio la bambina che aveva allevato insieme al fratello, a cui voleva bene come a una figlia.
Il silenzio dell’attesa si fece spettrale, solo il vento risuonava nell’androne, minacciando di spegnere le grandi torce ai lati del portone di ingresso alle loro spalle e disegnando giochi d’ombra sulle pareti. Anna stava diventando impaziente: si torceva le mani, si chiudeva il mantello sul petto, sillabava qualche sommessa parola che Amelia non riusciva a cogliere. Erano per lo più rimproveri nei confronti di Jerome e della sua pessima idea di farle quella sortita. Non aveva alcuna voglia di rivederlo dopo quei momenti imbarazzanti in carrozza, l’unico motivo che la spingeva a riceverlo era l’ansia di avere al più presto notizie sul conto di Antonio. L’attesa la stava stremando, dopo quella giornata faticosa e densa di emozioni.
Finalmente una sagoma si stagliò nel chiarore delle torce, uscendo dal cono d’ombra in fondo alla scalinata. Un uomo avvolto in un mantello scuro, un tricorno sul capo chino. Procedeva lento, come se ogni passo gli costasse uno sforzo.
- Ebbene, che cosa vi conduce qui? Non vi sono bastate le mie parole? Avete commesso un errore a venire fin qui da Parigi, non ho nessun’intenzione di intrattenermi con voi più del necessario che conviene ad un ospite – proruppe con voce ferma, risoluta, nonostante un lieve tremore di rabbia, o forse di freddo.
L'uomo seguitava a salire la scalinata, la testa bassa, i passi cadenzati, senza pronunciare una sola parola, senza ribattere, senza reagire.
- Non mi avete sentito? Io non voglio nulla da voi, LeBlanc, non voglio la vostra compassione, non voglio il vostro conforto né, tantomeno, so che farmene del vostro amore. Avete inteso? – tuonò, infine, mentre la tensione cresceva ad ogni passo che risuonava sul marmo dei gradini. - Io non potrò mai amarvi. Mai. Mi avete inteso? – concluse in tono quasi rabbioso.
L’uomo si arrestò di colpo a quelle parole, si levò il cappello, scoprendo non una chioma biondo cenere, ma crespi capelli scuri. Alzò il viso verso di lei. Uno sguardo quasi di scusa, pieno di commozione e di parole non dette.
 
-Antonio! – fu il grido che risuonò nell’androne, quando già l’aveva raggiunto a metà scala, gettandosi d’impeto fra le sue braccia. Lui barcollò sotto il suo peso, ancora debole per la convalescenza, spossato dal viaggio. Una stretta forte, quasi disperata: più lo stringeva e meno si capacitava di quello che le stava succedendo. Le sembrava di aver ricevuto la visita di un fantasma dall’oltretomba e la penombra silenziosa e spettrale di quella scalinata non faceva che avvallare questa supposizione. Ma Antonio non giungeva dal mondo dei morti, era vivo. Debilitato, smagrito, pallido, ma vivo. E guarito.
Per lunghi istanti, che parvero destinati a durare in eterno, rimasero così, stretti in un abbraccio a metà di una scalinata semibuia, senza fiato per pronunciare alcuna parola. La testa di lei nascosta nelle pieghe del mantello, le mani di lui tra i suoi boccoli castani. Lei tremante dal freddo in veste da camera, lui con indosso un logoro pastrano da viaggio coperto di neve. Scossi, increduli, felici.
-Antonio. – ripeté lei staccandosi, infine, da quell’abbraccio, le guance ispide pizzicarono le sue mentre indugiava con il viso incollato a quello di lui. – Sei proprio tu? Vivo, in carne ed ossa?- gli domandò prendendogli tra le mani il volto scarno e pallido in cui tuttavia l’azzurro dei suoi occhi brillava di luce gioiosa. Una luce che raccontava di paure, dolori, abbandoni passati, ma al contempo assicurava le più fulgide promesse future. Un futuro limpido e lucente, quello che, nel buio di quell’androne, si poteva leggere nella luce dei loro sguardi. 
 
 

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