If you come on to me di koan_abyss (/viewuser.php?uid=1023690)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** CApitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
If You come on to me
Capitolo 1
Lestrade potrebbe dirsi che c’è qualcosa di ipnotico nel movimento
delle dita di Mycroft mentre si riabbottona la camicia, ma Mycroft gli
dà le spalle quasi subito, e lui ammette con se stesso che concentrarsi
sui movimenti dell’altro uomo è molto più facile che pensare a quello
che è appena successo e a quale dovrebbe essere la sua reazione.
E mentre Lestrade è ancora sdraiato tra le lenzuola sfatte a pensare (a
non pensare) alla propria reazione, Mycroft sta abbottonando polsini e
gemelli della camicia, già proiettato verso quello che sarà il suo
prossimo passo. Lestrade non ha il minimo indizio di quale possa
essere. Pensa che dovrebbe indagare e si schiarisce la gola prima di
parlare, pensando magari di chiedere “stai andando?”, ma quella sarebbe
una domanda oltremodo stupida, perché Mycroft sta chiudendo l’ultimo
bottone del suo colletto e ci fa scorrere sotto la cravatta per
annodarla (e l’immagine di quelle lunghe dita che costruiscono il
complicato nodo sarebbe sicuramente ipnotica, ma è completamente
nascosta alla sua vista), e in fin dei conti, che cosa si aspetta,
Lestrade? Che Mycroft Holmes resti nel suo appartamento dopo che hanno
fatto sesso? Che si attardi anche solo il tempo necessario per bere una
tazza di tè? L’idea è totalmente assurda, ridicola, ma lo è anche il
fatto che Mycroft sia a casa sua in primo luogo.
Lestrade non è sicuro di come si è ritrovato in quella situazione.
I fatti nudi e crudi sono che si è ritrovato Mycroft davanti in
Tribunale, dopo aver deposto per un caso a cui ha collaborato con
Dimmock, con la prospettiva di un pomeriggio libero, perché si era
preso qualche ora di permesso (teoricamente per guardare con calma le
carte del divorzio, ma sapeva che con tutta probabilità avrebbe finito
per restarsene buttato sul divano a bere, con il calcio di sottofondo
alla sua depressione. Ogni tanto ci vuole, un pomeriggio così, no?); il
che significava che Donovan era allo Yard, e Lestrade era solo, quando
aveva incontrato Mycroft Holmes casualmente per la prima volta in
cinque? sei? anni che si conoscevano. Il che era più che normale, visto
che di sicuro non c’è il rischio che si incontrino al supermercato il
sabato pomeriggio. Inoltre Lestrade ha il sospetto che nessun incontro
nella vita di Mycroft sia davvero casuale.
Ma il maggiore degli Holmes non era certamente in Tribunale per vedere
Lestrade, e Lestrade era abbastanza sollevato all’idea di vedere un
volto conosciuto ma inusuale, qualcuno che non fosse un collega, un
superiore o Sherlock con John, e abbastanza atterrito di fronte alla
prospettiva del pomeriggio che lo attendeva da invitarlo per un caffè.
Quindi Lestrade ha sicuramente le sue colpe, ma Mycroft non è da meno.
“Sarebbe un piacere, Ispettore, in cui avrei tutto l’interesse ad
indulgere, visto che ne abbiamo l’occasione,” aveva risposto Mycroft e
Lestrade era sì abituato all’eloquio altisonante di Mycroft Holmes, ma
non è né sordo né cieco, e il tono di Mycroft era inequivocabilmente
provocante e il piccolo sorriso che lo accompagnava quasi malizioso.
Quale uomo nel bel mezzo di un divorzio rinuncerebbe a una mezz’ora di
flirt innocente? Chi rifiuterebbe un passaggio a casa, dopo? E quale
uomo avrebbe rifiutato l’invito di Lestrade a salire da lui,
palesemente sfacciato, senza neanche il contorno di una buona scusa?
A Lestrade era balenata in mente la scena di Quantum of Solace in cui
Daniel Craig invita Gemma Artenton in camera sua perché “non riesco a
trovare…la carta da lettere…”: gli viene facile associare Mycroft a
James Bond, nonostante la scarsa somiglianza con Daniel Craig.
In ogni caso, l’altro uomo è quasi completamente vestito ormai, e
Lestrade deve
dire qualcosa.
“Hai…hai tutto quello che ti serve?”
Mycroft si gira con un sorrisetto divertito, ma si ricompone in fretta.
“Ho tutto quello che mi serve, Ispettore, grazie. Non occorre che si
alzi per accompagnarmi alla porta,” risponde e prende il suo cellulare
per richiamare l’autista, forse.
O la macchina è rimasta ad aspettarlo? Lestrade si sente avvampare al
pensiero. Ma almeno la bellissima assistente di Mycroft non c’era.
Lestrade dubita che avrebbe osato invitare Mycroft nel suo appartamento
se la donna fosse stata in macchina con loro: non avrebbe sopportato
uno dei suoi sguardi disinteressati al di sopra dello schermo del black
berry.
Il pensiero dello sguardo di Anthea richiama quello di occhi ancora più
penetranti e Lestrade si copre la faccia con un gemito sonoro.
“Oh, mio dio. Sherlock…” spiega futilmente a Mycroft.
Sherlock lo farà a pezzi. Gli darà un’occhiata e saprà quello che è
successo, dedurrà esattamente ogni cosa: che Lestrade ha invitato
Mycroft per scopare, che gli ha infilato la lingua in bocca appena
chiusa la porta (in parte anche per evitare che Mycroft facesse troppo
caso al disastro che è casa sua…), che nel giro di cinque minuti era
nudo come un verme e sbavava vergognosamente alla vista di Mycroft che
si spogliava meticolosamente. Lestrade può già quasi sentire il tono di
oltraggiato disgusto con cui Sherlock gli chiederà se è così debole e
patetico da non saper resistere alla minima manifestazione di
attenzione nei suoi confronti, se il fallimento di una vuota
istituzione, di una convenzione sociale illogica e incomprensibile come
il matrimonio può renderlo ancora più idiota, se la solitudine lo ha
già trasformato in una meretrice schiava dei propri istinti. E
ovviamente Sherlock lo farà davanti a John, e…
Mycroft scuote la testa, interrompendo i suoi pensieri orripilati:
“Sherlock e il Dottor Watson sono fuori Londra per le prossime 72 ore.
Abbastanza perché qualunque indizio di questo incontro, come segni,
profumi, bruciature da barba e quant’altro svanisca. E tra quattro
giorno confido che riuscirà a guardare mio fratello senza che il panico
e il senso di colpa siano troppo evidenti sulla sua faccia, Ispettore.”
Il tono è pratico, e Lestrade lo trova quasi rassicurante. Quasi.
Ovviamente Mycroft ha calcolato conseguenze e variabili, probabilmente
dal momento stesso in cui Lestrade gli ha proposto una tazza di caffè:
non è uomo da indulgere in ispirazioni o impulsi improvvisi, al
contrario di Lestrade.
“Ok. Be’. È bello sapere che almeno uno di noi due ci ha pensato su un
minimo.” Si rende conto che non suona molto gentile da dire. “Scusa.
Volevo solo dire che…non avevo pensato a Sherlock. Forse avrei dovuto.”
Mycroft alza un sopracciglio: “Per fortuna-o sfortuna-sembra che invece
io sia del tutto incapace di escludere Sherlock da qualunque equazione.
Ma non si preoccupi, Ispettore. Non c’è niente di questo piccolo
arrangiamento di oggi a cui lei debba pensare, se non vuole. Buona
serata,” lo saluta poi uscendo dalla camera da letto.
Nonostante l’appartamento abbia le dimensioni di una scatola da scarpe,
Lestrade non sente chiudersi la porta d’ingresso. Sente però da lì a
poco un rombo di motore che mormora ‘auto di lusso’ e sa che Mycroft se
n’è andato davvero.
Lestrade, che era rimasto all’erta e contratto fino a quel momento, si
abbandona di nuovo sul materasso, lasciandosi andare a un altro verso
di autocommiserazione.
Anche se Sherlock non lo farà allo spiedo, si è comportato da sciocco:
avrebbe dovuto riflettere un minimo sulle conseguenze. Non ha certo
bisogno di sperimentare con Mycroft l’imbarazzo che talvolta causa il
sesso occasionale, visto che sono costretti a frequentarsi, oltre che a
Baker Street, anche per lavoro, di tanto in tanto. Questo non sembra il
caso, per fortuna, perché soprattutto ora Lestrade non ha bisogno di
quel genere di complicazioni, non quando le sue ore di permesso
andrebbero dedicate a documenti e telefonate all’avvocato.
Lestrade pensa di alzarsi, stringere i denti e mettersi sotto con la
sgradevole incombenza, ma si ritrova a sonnecchiare distratto: il suo
corpo è rilassato, anche se la sua mente si oppone ancora. Ma non per
molto. In fin dei conti è il suo pomeriggio libero, e non c’è niente di
male a passare un apio d’ore sonnecchiando, prima di dedicarsi alle
responsabilità della vita adulta…
Lo sveglia il trillo insistente del suo cellulare, alle 19:47, dice il
display quando lo recupera con un mare di imprecazioni dalla tasca dei
suoi pantaloni sul pavimento accanto al letto. Ma che cavolo…?
“Lestrade,” biascica.
“Mi spiace, boss. Brutte notizie,” dice Donovan nel suo orecchio,
mentre i ricordi del pomeriggio inondano la mente di Lestrade.
Donovan scambia il suo gemito per un rimprovero.
“Non chiamerei se non fosse importante! Abbiamo due corpi, a Fulham,
nel parco Parsons Green. Devi venire.”
Il primo pensiero di Lestrade è di sollievo. Lavoro. Bene. Qualcosa che
lo tenga impegnato, fuori da quell’appartamento arrangiato alla bell’è
meglio, lontano dai resti della sua vita passata e già che ci siamo
anche dal pensiero di Mycroft Holmes che lo guarda soddisfatto mentre
Lestrade lo spinge sul letto…cosa che gli ricorda all’improvviso perché
le sue lenzuola sono così poco piacevoli, sotto di lui.
“Ok, ok, Sally. Arrivo. Dammi un quarto d’ora per farmi una doccia.”
Non appena arriva segue Donovan oltre i nastri e gli agenti che
bloccano l’accesso alla scena, fino alle due tende impermeabili montate
in fretta e furia per proteggere le prove dalla pioggia, nella speranza
che non siano già state lavate via dal diluvio che Lestrade ha
attraversato per raggiungere Fulham e lo squallido prato incolto tra un
parchetto e un gruppo di case.
Il primo corpo appartiene a un uomo sulla quarantina, lo informa
Donovan.
“Niente portafogli o telefono, ma ha dieci sterline e degli spiccioli
in tasca…”
“È uscito solo per una commissione veloce? Per fare un salto al
negozio, tagliando dal parco?” ipotizza Lestrade avvicinandosi.
Se si fosse trattato di una rapina, il responsabile avrebbe preso il
denaro, almeno la banconota.
“Può darsi. È stato colpito al viso, più volte, con forza, e
accoltellato quattro volte,” continua Donovan.
“Due volte poco sopra i reni e poi altre due al ventre,” interviene
Anderson, salutando con un cenno Lestrade.
“Una stima dell’ora della morte?” domanda Lestrade.
“Direi due ore.”
“Difficile che siano più di tre. Prima delle 17.30 questa zona
dev’essere movimentata…l’orario di rientro, il parco…” precisa Donovan.
“Uhmm…”
I vestiti dell’uomo sono stropicciati e zuppi di pioggia, il sangue
attorno alle ferite ha lasciato enormi aloni rosati sulla stoffa. Il
viso è tumefatto, quasi irriconoscibile.
Lestrade non può credere di essere stato così bastardo da provare
sollievo alla notizia del ritrovamento del cadavere di quel poveraccio.
Aveva davvero bisogno della morte di quell’uomo, del dolore di chi lo
aspetta a casa, se c’è, per non pensare al fallimento del suo
matrimonio e al casino che è la sua vita? Il pensiero gli gela i
polmoni peggio dell’aria umida che li avvolge.
“Puoi dirmi che cos’è successo, Anderson?”
“Non aspetti lo strambo, questa volta?” chiede Donovan incrociando le
braccia.
“Sherlock è fuori città,” rispose Lestrade prima di pensare.
L’espressione di Anderson si inacidisce subito, all’implicita
ammissione che Lestrade lo avrebbe chiamato sulla scena, altrimenti: “È
una fortuna che il lavoro non si debba fermare per attendere Sherlock
Holmes.”
Lestrade reprime un sospiro.
“Che è successo a quest’uomo, Anderson?” chiede di nuovo. “L’assassino
l’ha colpito al volto, al ventre e poi alla schiena quando ha provato a
fuggire?” Magari ha perso il telefono fuggendo.
“No, no. L’opposto, probabilmente, o non sarebbe caduto di schiena, no?
Non ha tracce di fango sul petto,” risponde Anderson. “Deve averlo
accoltellato mentre fuggiva. L’ha raggiunto, l’ha afferrato e zack,”
mima. “Poi l’ha girato, o la vittima ha cercato di difendersi come
poteva-ha un taglio su una mano, anche-ed è caduto a terra. Ma le
ferite al volto…sulle mani non ho trovato segni di difesa compatibili
con quelle,” aggiunge. “È difficile dirlo, con queste luci e la
pioggia…sarò più preciso nel rapporto…ma forse queste sono state
provocate post mortem.”
Lestrade si rialza: “Quindi l’assassino si è accanito su di lui, dopo
averlo ucciso.”
“Personale. Rabbia, vendetta,” fa Donovan, pensierosa. Poi gli regala
un ghigno cinico: “Vedi? Non ci serve, lo strambo.”
Ma non appena mette piede nella seconda tenda, Lestrade desidera con
tutto il cuore che Sherlock appaia, contro ogni logica, a dare a tutti
degli idioti e a risolvere il caso con un’occhiata, perché l’altra
vittima è una ragazza che non può avere più di 22 o 23 anni, e ogni
secondo che passa buttata in terra nell’erba fangosa senza che il suo
assassino paghi è un oltraggio.
Anche lei è adagiata sulla schiena, ma non in modo scomposto come
l’uomo: ha le braccia distese lungo i fianchi, i piedi uniti. La gola
tagliata.
“Un affondo, non un taglio,” gli spiega Anderson. “E a giudicare dalla
posizione del corpo, dalla quantità di sangue sui vestiti e sul
terreno…”
“È stata spostata,” lo anticipa Lestrade, sforzandosi di studiare il
viso della ragazza, le sue mani, i suoi vestiti. “Quanto è distante
dall’uomo?”
Donovan risponde che sono 40 metri. A Lestrade sembrava di più, ma il
breve tratto tra gli alberi che hanno dovuto percorrere e le luci delle
lampade d’emergenza che appiattiscono tutto forse la hanno confuso.
“Chi è? L’uomo è probabilmente di queste parti, forse anche lei,” dice.
Donovan scuote la testa: “E qui si fa strano: lei non ha borsa, né
portafogli, niente cellulare, niente abbonamenti della metro, niente di
niente.”
Lestrade la guarda: “Niente che ci permetta di identificarla? Questo si
direbbe intenzionale…”
“Già. Un lavoro meticoloso, oltretutto…”
Lestrade si rimette a studiare la ragazza, rimpiangendo ancora di più
l’assenza di Sherlock. Un paio di minuti al massimo, e Sherlock
saprebbe dire che lavoro faceva o cosa studiava, dove abitava e con
chi, se praticava sport e cosa diavolo ci faceva a Parsons Green tra le
17:30 e le 18:00, l’ora del decesso, tutto guardandole la cerniera del
giubbotto, le suole delle scarpe, i capelli…
Lestrade nota un particolare e indica a Donovan: “È un hijab, quello
che indossa?”
Donovan e Anderson guardano entrambi.
“Mi sembra solo una sciarpa, boss.”
È una sciarpa: l’aveva attorno al collo, quando è stata accoltellata.
Guardi le macchie di sangue, Ispettore,” fa Anderson con sufficienza.
“Allora perché le copre i capelli, ora? Non mi sembra sia finita lì per
caso, mentre l’assassino trascinava il corpo, vero?”
La stoffa è sistemata con cura, Lestrade ne è certo, per nascondere i
capelli della ragazza. E il corpo è stato composto.
Anderson osserva con attenzione: “Non può essere finita lì per caso. Ma
cosa significa?”
“Non lo so,” ammette Lestrade.
Esce dalla tenda sotto l’acquerugiola insistente che continua a cadere.
Non ha bisogno di far cenno a Donovan di seguirlo.
“La nostra mossa?” chiede lei.
Lestrade inspira: “Chi ha trovato i corpi?”
Donovan legge sul suo taccuino: “Peter Wald. Ha fatto gli straordinari
al lavoro ed è passato per il parco. Ha visto il cadavere dell’uomo e
ci ha chiamati. Siamo stati noi a trovare la ragazza.”
“È ancora qui?”
“Sì. L’ho lasciato con un paio di agenti e una tazza di tè. Era un po’
scosso.”
“Andiamo a parlarci.”
Peter Wald e i due agenti hanno trovato riparo sotto a una pensilina
del pullman. Wald sta fumando assieme all’autista dell’ambulanza che
sta aspettando l’ordine di rimuovere i corpi.
“Buonasera, signor Wald, sono l’Ispettore Greg Lestrade. Mi spiace
incontrarla in queste circostanze. Le prometto che faremo il possibile
per permetterle di tornare a casa presto.”
Wald mormora un ‘buonasera’ e si aggrappa alla sua sigaretta come se ne
andasse della sua vita. Fa il gesto di allungare il pacchetto verso
Lestrade, ma lui lo blocca con una mano. L’autista dell’ambulanza, che
lo conosce, invece, si affretta a levargli la tentazione da sotto gli
occhi dandogli le spalle e spostandosi all’estremità della pensilina.
Peccato che non sia neanche lontanamente sufficiente.
“Signor Wald, può ripetere anche a me di come ha trovato il corpo?”
Wald racconta a Lestrade quello che Donovan gli ha già anticipato sugli
straordinari (“Il mio capo, sa, ha avuto un infarto l’anno scorso, e
ora deve prendersela più calma…così si accumula un po’ di lavoro per
noialtri, a volte…”) e sul percorso attraverso il parco.
“Se l’è ritrovato proprio davanti?” chiede Lestrade. “Era vicino al
sentiero?”
“Il…il corpo? No, in effetti, no,” risponde Wald. “Non sono
passato vicino al sentiero, ho tagliato per quel prato. Ma lui
era…vicino al passaggio. Voglio dire, il prato non è proprio piano, e
viene spontaneo passare dove c’è una leggera pendenza…Lui era più in
là, dopo una specie di dosso e non si vedeva bene. Ho pensato che fosse
un ubriaco o un senzatetto, e con questo freddo…poteva essere
pericoloso.” Wald si interrompe e sbatte gli occhi in modo gufesco.
“Così sono andato a vedere. È strano? Che sia andato a curiosare?
Insomma, non mi fa apparire…vero, Ispettore?”
“No, no, tutt’altro,” lo rassicura Lestrade con un sorriso stanco.
“Voleva aiutare. E ha fatto bene a chiamare la polizia.”
Wald annuisce e si aggrappa ancora alla sua nicotina. Lestrade si sente
prudere le mani.
“Vedrò di farla accompagnare a casa, signor Wald. Grazie per la
collaborazione.”
Quando Wald e gli agenti sono lontani, l’autista è risalito sul suo
mezzo, Lestrade e Donovan hanno la pensilina tutta per loro. Si godono
gli ultimi momenti all’asciutto.
“Che ne pensi?” chiede Donovan.
Lestrade inspira a fondo: “O l’uomo si è allontanato dal passaggio più
ovvio fuggendo all’assassino, o…”
“O anche lui è stato spostato,” conclude Donovan.
Lestrade annuisce e occhieggia il parchetto e poi le case.
“Quindi, con ordine: recintiamo e battiamo il perimetro del parco, e a
seguire le vie circostanti per trovare il luogo del delitto. E dei
delitti. Se siamo fortunati, salta fuori almeno il cellulare dell’uomo.
Magari anche il coltello.”
Donovan comincia ad organizzare tutto mentalmente, Lestrade può dirlo
dal modo in cui si guarda attorno e annuisce tra sé e sé.
Lui si gira di nuovo a osservare le case dietro di loro: molte finestre
accese, ma poche sagome affacciate sul trambusto della polizia. L’unico
vantaggio di quella pioggia, quella notte: tiene lontani i curiosi. Ma
se da una di quelle case mancasse qualcuno, da ore, ormai, qualcuno che
era uscito solo per pochi minuti, i lampeggianti blu e bianchi
avrebbero certamente richiamato qualcuno. Quindi probabilmente il loro
uomo abitava vicino, ma non così vicino.
“Troviamo due agenti per fare il giro delle case, sentiamo se qualcuno
ha notato qualcosa o sentito urlare. Magari qualcuno ha incrociato
l’uomo o la ragazza.”
Donovan fa un cenno d’assenso.
“Io e te ci spostiamo ancora un po’ e cerchiamo da quale casa è uscito
quel povero diavolo.”
Per la ragazza non c’è altro che possono fare, nell’immediato: forse
qualcuno la aspetta per cena, o resterà sveglio per controllare che non
sfori l’orario del suo coprifuoco…no, è troppo grande per un
coprifuoco, Lestrade, dannazione; ma non vuol dire che non ci siano
genitori preoccupati ad aspettarla. Domattina controlleranno tra le
persone scomparse, ma è più urgente capire dove è morta, ora, prima che
sia troppo tardi. Ma dopo ore di pioggia gelata…
Lestrade scuote la testa: “Andiamo.”
“Sì, boss.”
Note:
Grazie per aver letto questo primo capitolo!
La storia è già terminata e posterò i successivi capitoli a cadenza
settimanale, salvo imprevisti.
Ogni commento è ben accetto, specie sulle questioni poliziesche;)
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
Lestrade rientra nel suo appartamento che sono quasi le quattro, ma la
nottata, per quanto difficile e provante, è stata fruttuosa.
Lestrade e Donovan hanno passato un’ora a bussare casa per casa per
raccogliere deposizioni e cercare di scoprire l’identità del morto,
quando dallo Yard arriva una segnalazione: Margareth Clarke, in Irene
Road, aveva denunciato il mancato rientro del marito, che non
rispondeva alle sue chiamate, neppure. La casa è a un quartiere di
distanza, e senza la chiamata dalla centrale Lestrade e Donovan
avrebbero continuato a cercare per almeno altre due ore.
Mentre sono in compagnia della donna, l’agente Davies chiama per
riferire che hanno trovato un cellulare: reso inservibile dall’acqua,
almeno finché i tecnici non vi avranno messo mano, ma che corrisponde
al modello che appartiene a James Clarke, assente da casa dalle sei del
pomeriggio. Assieme a una descrizione sommaria dell’uomo e degli abiti
che indossava quand’era uscito, è sufficiente ad identificarlo senza
ulteriori dubbi.
Vedere una donna ricevere conferma a mezzanotte della cosa di cui ha
avuto più paura al mondo nelle ultime ore non è mai facile, e Lestrade
preferirebbe non lasciarla fino all’arrivo dei parenti, ma poco dopo
arriva un’altra chiamata dal team che procede con le ricerche, e non
appena due agenti possono dare loro il cambio nell’attesa di qualcuno
che possa condividere con Margareth Clarke il suo shock e il suo
dolore, Lestrade e Donovan lasciano Irene Road per tornare la parco e
addentrarsi questa volta ancora di più tra gli alberi, fino a una pozza
di sangue ed erba smossa.
Cento metri più avanti, verso il luogo del ritrovamento dei corpi, gli
agenti ormai fradici e Lestrade (che non sente più le mani e sta
morendo di fame) trovano altre tracce di sangue e segni di
trascinamento.
I due siti vengono recintati e fotografati, ma che ci sia qualcosa di
utile per l’indagine, lì, oltre a uno spunto per ricostruire la
dinamica dell’azione, è piuttosto dubbio.
“Va a casa, boss. Abbiamo tutto sotto controllo,” gli dice Donovan dopo
che hanno guardato portare via i corpi.
Attorno a loro, il turno è già cambiato una volta: gli uomini arrivati
a mezzanotte resteranno fino alle sette, la squadra della scientifica
sta impacchettando tutto. Lestrade è certo che Donovan non se ne andrà
finché non saranno davvero tutti ai loro posti, diretti a casa o pronti
a presidiare la scena e a difenderla da eventuali intrusi.
Scuote la testa: “Non ti lascio, Sally.”
Donovan è il suo Sergente da quasi due anni ormai, ma Lestrade non ama
quando lei lo fa sentire vecchio. Anche se lo è. È antico, in confronto
a lei.
“Andiamo. Ti eri preso il pomeriggio, e io te l’ho rovinato,” insiste
Donovan, e Lestrade cede.
“Difficilmente potrei dare la colpa a te, per due omicidi. Ma domattina
controllo il tuo alibi. Grazie, Sally.”
Donovan sorride appena e Lestrade torna a casa.
Nel frigo non ha niente di sano che sia commestibile nei successivi
quaranta secondi, così apre un pacchetto di patatine e della birra che
aveva preparato per una serata di programmi sportivi e che avrebbe con
tutta probabilità ingollato già quel pomeriggio leggendo i documenti
che gli ha inviato l’avvocato di Becky, se la giornata non avesse preso
una piega inaspettata in Tribunale.
Se fosse rientrato a casa alle quattro del mattino quattro mesi prima o
appena prima di Natale, quando lui e Becky avevano deciso di
riprovarci, nonostante i tradimenti, Lestrade avrebbe trovato in frigo
gli avanzi della cena, e avrebbe fatto i salti mortali per non
svegliare Becky e le bambine.
Ma Natale era arrivato, Sherlock gli aveva svelato (di nuovo) che sua
moglie lo tradiva e Lestrade rientra in un piccolo e squallido
appartamento vuoto ormai da metà gennaio (aveva fatto finta di niente
ancora per tutte le feste, perché le bambine potessero godersi un
Natale relativamente tranquillo). Quella notte per la prima volta lo
colpisce il pensiero che sia una fortuna, vivere solo: se gli
succedesse qualcosa, Becky e le bambine non rischierebbero di scoprirlo
in piena notte, non c’è nessuno che possa svegliarsi e rendersi conto
che Lestrade non c’è, non è rientrato e non risponde al telefono. Se
gli succedesse qualcosa, loro avrebbero ancora qualche ora di
tranquillità, perché con gli orari assurdi di Lestrade hanno deciso che
sia lui a farsi sentire e a chiamare quando ne ha il tempo, e Lestrade
non chiama spesso quanto dovrebbe perché è ancora arrabbiato e poco
lucido, e se non vuole dire cose di cui potrebbe pentirsi è il caso di
limitare le opportunità di farlo.
Dopo mangiato si spoglia del resto dei suoi abiti fradici e si butta
sotto la doccia, calcolando che potrebbe riuscire a dormire addirittura
tre ore, se si sbriga. Il getto d’aria calda è paradisiaco e Lestrade
si lascia andare a un sospiro che è quasi un gemito, mentre lo scroscio
ritmico sulle piastrelle e il vapore rallentano i suoi pensieri,
smussano gli angoli della sua ansia.
L’inaspettato sollievo dell’appartamento vuoto perde il suo contorno di
paura e la sua mente gli ricorda che quel pomeriggio non lo era
affatto: c’era Mycroft Holmes, con lui. Dio, ha invitato Mycroft da
lui. Si è fatto una sveltina con Mycroft.
Il concetto è piacevole ed esilarante, ora, complice la stanchezza,
probabilmente.
Il concetto gli manda anche una scarica di eccitazione dallo stomaco
dritto fino all’inguine. È stato un incontro breve e frettoloso, tra
due uomini che non hanno alcuna confidenza dal punto di vista fisico:
Lestrade non si è preso del tempo per toccare, stringere, accarezzare,
non ha lasciato succhiotti, crede di non averlo baciato neanche più
dello stretto necessario, e Mycroft a sua volta non è stato
particolarmente espansivo, ma al ricordo del pomeriggio Lestrade si
ritrova improvvisamente duro.
Il fascino sta nel fatto che è stato veloce, soddisfacente e senza
conseguenze: “Non c’è niente di questo piccolo arrangiamento di oggi a
cui lei debba pensare, se non vuole,” ha detto Mycroft.
Ma se Lestrade vuole può ripensarci, decide, appoggiando una mano alle
piastrelle del muro della doccia e prendendosi il pene con l’altra,
mentre il getto d’acqua lo colpisce tra le scapole. Può ripensare a
come Mycroft si è aggrappato alle sue spalle mentre Lestrade incombeva
su di lui, sfregando il suo cazzo contro quello di Mycroft, mentre li
stringeva e masturbava entrambi, inchiodando l’altro al letto col suo
peso e con la mano che gli affondava nel fianco…Nella doccia, Lestrade
affonda nel suo pugno ripensando a com’è venuto sul petto di Mycroft, a
come la sua presa si è fatta più scivolosa e veloce, quando Mycroft ha
posato la sua mano su quella di Lestrade per chiedergli di accelerare e
finire a sua volta.
L’orgasmo gli strappa un grugnito soffocato. Il suo sperma macchia le
piastrelle, ma è un disastro a cui è facile porre rimedio.
Quel pomeriggio, dopo essere venuto, Mycroft si è districato da
Lestrade, e si è chiuso in bagno per ripulirsi. Ne è emerso in meno di
cinque minuti e si è rivestito con cura.
Tutto lì. Pulito e senza pensieri.
Lestrade si lava in fretta, esce dalla doccia e barcolla a letto.
Niente potrebbe tenerlo ancora sveglio.
Mentre entra allo Yard con due enormi tazze di caffè in mano, Lestrade
riflette che è allo stesso tempo come se non ci mettesse piede da
giorni e come se ne fosse appena uscito: il caos controllato alle
scrivanie, il continuo andirivieni di agenti e civili sono immutati, ma
Lestrade non mette effettivamente piede nel suo ufficio da più di 24
ore, e di quei tempi è un evento raro come vedere Sherlock senza John.
Manca ancora qualche minuto alle 8, ma Donovan è già alla sua
scrivania.
Lestrade scuote la testa, allungandole il suo caffè: “Perché non sono
sorpreso di trovarti?”
Donovan lo afferra continuando a battere sulla testiera con una mano
sola: “Perché sai che fantastico poliziotto sono e quanto sei fortunato
ad avermi.”
“Giusto. Ti apprezzo quanto meriti?”
“Neanche lontanamente. Ma ci arriveremo,” risponde Donovan, e fa
finalmente una pausa per prendere un sorso di caffè.
“Novità?” domanda Lestrade, appoggiandosi alla scrivania e sbirciando
lo schermo del computer.
Donovan scuote la testa: “Niente di rilevante. La scientifica vuole
tornare sulla scena più tardi, e penso che dovremmo aggregarci. Vedere
se con la luce salta all’occhio qualcosa di nuovo…”
“Buona idea. Le autopsie?”
“Nel tardo pomeriggio, si spera. Non prima.”
Lestrade sospira: non sono i soli ad essere sovraccarichi di lavoro, e
al St. Bart si fanno sempre in quattro per la loro divisione
(soprattutto Molly. Soprattutto per via di Sherlock), quindi non hanno
davvero di che lamentarsi.
“Chi sta lavorando al cellulare di James Clarke?”
“Jeff, ma solo da stamattina. E con da stamattina intendo dalle
11...aveva la faccia da torneo online,” fa Donovan con espressione
eloquente.
Lestrade trattiene un ghigno.
“Tu invece che fai qui dall’alba?” domanda poi, accennando allo
schermo, anche se se ne già fatto un’idea.
“Controllo le denunce di persone scomparse, per vedere se la ragazza
salta fuori. Nessun risultato, finora.”
Lestrade si stringe nelle spalle: “Nessuno di noi si aspettava che
fosse facile, giusto? Può essere troppo presto perché qualcuno abbia
notato la sua scomparsa, specie se viveva da sola.” Non è affatto
inaspettato, che non siano ancora riusciti a scoprire nulla sulla
ragazza ma il pensiero brucia sgradevolmente nella mente di Lestrade.
“Controlleremo di nuovo più tardi. Niente di utile dalle deposizioni di
ieri sera? Nessuno che l’ha incrociata? Chi se n’è occupato?”
“Davies e Tennyson. Ma siamo solo all’inizio,” risponde Donovan.
Lestrade annuisce: “Certo. Fatti mandare dal Bart una foto della
ragazza da far vedere in giro e rimandali a Fulham.” Sospira e finisce
il suo caffè. “Procurane una anche a noi.”
“Sicuro.”
Un’ora dopo, di nuovo a Parsons Green, Lestrade guarda Anderson e gli
altri della squadra e si domanda se il loro zelo sia del tutto slegato
dalla necessità di riuscire a risolvere il caso senza Sherlock, per una
volta che il consulente investigativo non è coinvolto; se il caso non
sia diventato un punto d’orgoglio; o se invece la moglie di Anderson
sia di nuovo fuori città e lui stia cercando di far colpo su Donovan
dimostrandosi stakanovista quanto lei.
Il pensiero ne richiama un altro e poi un altro ancora, e in un attimo
Lestrade sta ripensando a tutte le volte che lui era fuori
città, o bloccato allo Yard o in qualche appostamento interminabile
mentre Becky…
Per fortuna Donovan lo costringe a concentrarsi sul lavoro: “Sappiamo
che entrambi i corpi son ostai spostati. Nel quadrante 4H c’è la
macchia di sangue più grande, che corrisponde a dove è morta la
ragazza.” Donovan indica i cartellini gialli e i fili che sezionano il
parchetto. Alla luce del giorno sembra ancora più piccolo e spoglio.
“In 12C invece abbiamo tracce di sangue di James Clarke, fango smosso e
segni più profondi di trascinamento.”
“James Clarke era più pesante, l’assassino l’ha trascinato per un
tratto più breve,” commenta Lestrade.
“Lei invece era ben nascosta, anche se le distanze non sono poi
granché,” aggiunge Donovan.
All’assassino, sotto la pioggia, al buio, con il terrore di essere
scoperto devono essere sembrate interminabili, invece.
“Ok. Quindi l’assassino accoltella lei alla gola, James Clarke fugge.
Viene inseguito e ucciso qui.” Lestrade si sposta veloce verso il punto
che Donovan ha indicato. “L’assassino si accanisce sul corpo, poi lo
posta dietro il dosso.”
“Poi sposta anche lei, le svuota le tasche, prende la borsa…”
“Compone il cadavere e le copre i capelli,” finisce Lestrade. Fissa
Donovan: “L’assassino la conosceva, Sally. Ne sono certo.”
“Dici che è venuto per lei, e James Clarke ha assistito per caso? Non
spiega, boss: questo tizio ha infierito sulla faccia di Clarke.”
Donovan scuote la testa. “E la ragazza non è dei dintorni, che ci
faceva qui?”
Lestrade, che si è accosciato per studiare l’erba rovinata, si rialza:
“Senti qui: entrambi i delitti presentano dettagli che li fanno
sembrare passionali, no? Una cosa personale. E se lo fossero entrambi?
Se Clarke e la ragazza si conoscessero?”
“Credi che avessero una relazione?” chiede Donovan.
“Non lo so. Credo che dovremmo parlare ancora con Margareth Clarke,”
risponde Lestrade, senza guardare il suo sergente.
Fa una smorfia mentre lo dice, e una parte di lui non vorrebbe nemmeno
dirlo, come se evitare di menzionale l’adulterio altrui potesse portare
del buono a lui. Oh, dio, e se non riuscisse più a pensare ad altro? Se
il modo in cui Becky ha distrutto la sua fiducia l’avesse reso
paranoico e fissato? Solo due minuti fa adocchiava Anderson con
sospetto…
“Possiamo provare a indagare in quella direzione,” replica Donovan
piano, sbirciandolo.
“Che c’è?”
“Mi sembra solo strano che tu proponga di chiederlo alla moglie di
Clarke. Un po’ brutale. Molto poco da te. Molto da Sherlock.”
“Non intendo entrare in casa della vedova come una furia sventolando la
foto di un cadavere strillare ‘suo marito la tradiva con una ragazza
con la metà dei suoi anni e forse è morto per questo!’ Pensi che io tra
tutti non capisca la necessità di un po’ di tatto riguardo
l’infedeltà?” sbraita quasi Lestrade.
Serra gli occhi, si stringe la base del naso tra le dita. Dov’è finita
tutta la rilassatezza di quella mattina?
“È un tentativo di identificare la ragazza,” riprende, con tono
forzatamente calmo. “L’unica cosa che abbiamo chiesto alla signora
Clarke è se il marito aveva appuntamento con qualcuno, ieri notte.
Dobbiamo andare più a fondo, su di lui.”
“Anche se quei due avevano una relazione, la moglie potrebbe non
saperne niente,” obbietta Donovan.
“Cominciamo da qui,” fa Lestrade, “e quando avremo accesso al cellulare
di James Clarke vedremo se c’è dell’altro.”
“D’accordo, boss. Anche se non capisco che hai da strillare, ti ho dato
ragione,” risponde Donovan avviandosi alla macchina scuotendo la testa.”
“Scusa, Sally.”
“Hai dormito poco,” fa lei con fare conciliante.
“Sono state 48 ore strane,” corregge Lestrade. “Andiamo.”
Margareth Clarke sembra a malapena padrona di sé, e Lestrade si
ripromette di ritardare il più possibile il momento in cui le
permetteranno di vedere i resti del marito: faranno l’identificazione
ufficiale tramite le cartelle mediche, se sarà necessario.
Ma almeno la donna non è da sola, oggi. L’hanno raggiunta la sorella e
il cognato e nel pomeriggio arriverà il resto della famiglia, spiega a
lui e Donovan la sorella stessa, che ha un figlio adolescente e una
piccola a scuola, in questo momento. Lestrade le assicura che faranno
il possibile per fare in fretta e non turbare Margareth Clarke più del
necessario, e lui e Donovan sono ammessi al cospetto della donna nel
soggiorno.
Margareth Clarke tiene una tazza di tè tra le mani malferme e ha lo
sguardo perso. Il cognato sembra molto sollevato che qualcuno li abbia
raggiunti: il pover’uomo non ha probabilmente idea di cosa dire. E che
l’avrebbe, si dice Lestrade. Non è che capiti spesso di dover
affrontare una morte violenta, grazie a dio. La maggior parte delle
persone non è mai neppure sfiorata, da un evento così inconcepibile.
Poi ci sono le persone come lui e Donovan, che ormai potrebbero
scrivere uno di quei pamphlet della divisione Risorse Umane su come
approcciare le vittime e le loro famiglie. Ci sono le persone come
Lestrade, a cui sembra sempre che finisca per importare un po’ troppo.
“Signora Clarke, sono l’Ispettore Lestrade, si ricorda di me? Questo è
il Sergente Donovan…”
Margareth Clarke alza uno sguardo liquido e vuoto su di lui, poi
annuisce.
“Siamo immensamente spiacenti per la sua perdita…e le assicuro che
faremo tutto quanto è in nostro potere per scoprire chi fatto del male
a suo marito. So che il pensiero è inconcepibile, che non sembra reale
e che quando lo sarà sembrerà impossibile da affrontare, ma non sarà
lasciata sola.”
“Un assistente sociale vi contatterà al più presto, per aiutarvi a
gestire questo difficile momento e per fare da collegamento tra voi e
l’Ispettore Lestrade,” interviene Donovan.
“Ma ci sono cose che abbiamo bisogno di sapere al più presto, per
cominciare l’indagine,” riprende Lestrade scivolando in avanti sul
divano che gli hanno offerto, piegandosi verso Margareth Clarke. “Può
rispondere a qualche domanda per me? Se la sente?”
Margareth Clarke chiude gli occhi brevemente.
“Sì…sì, Ispettore. Qualunque cosa,” risponde dopo un attimo, con voce
flebile e roca. “Tutto quello che vi serve sapere.”
“Grazie, signora Clarke. Ci sta già aiutando molto,” le dice Lestrade,
poi scambia una breve occhiata con Donovan. “Ci ha detto che suo marito
era proprietario di un locale, una caffetteria Chelsea, in Dovehouse
Street. Ieri non è andato al lavoro?” domanda lei.
Margareth Clarke scuote la testa: “No, il mercoledì è giorno di
chiusura. Di solito James si occupa dei contatti con i fornitori, ma
ieri non…non aveva impegni.”
“Dovehouse Street è in una bella zona. Gli affari andavano bene?”
chiede Lestrade.
“Oh, be’, potremmo dire di sì. Pensavamo di…” Margareth Clarke si
interrompe e sopprime un singhiozzo per pura forza di volontà. Chiudi
di nuovo gli occhi a raccoglie le forze, prima di continuare:
“Pensavamo di comprare un’altra casa, più vicina al locale.”
“In effetti Chelsea non è vicinissima…”
“Prima la caffetteria era da queste parti. James ha aperto quella in
Dovehouse Street un anno e mezzo fa. Un posto nuovo, un nuovo nome,
nuovo personale. Tranne David, lui si è spostato con James.”
Lestrade continua a prendere appunti: “David? David e di cognome?”
“Oh…io…in questo momento non riesco…”
La donna scuote la testa e pare davvero angosciata e Lestrade allunga
un braccio per farle cenno che va tutto bene: “Non si preoccupi. Appena
le verrà in mente lo appunterà da qualche parte e mi farà sapere.”
“Ci servirebbe in ogni caso una lista dei dipendenti della caffetteria,
signora Clarke, anche di quelli del vecchio locale,” interviene
Donovan. “Pensa che li troveremo nei documenti di suo marito?”
Margareth Clarke annuisce: “Sì, sì, certamente. James…era molto
ordinato. Ma gli altri due dipendenti del vecchio locale erano solo
due, Clive e Angelica, il figlio di mia cugina e la sua fidanzata.
Clive ha cominciato a lavorare con James già ai tempi della scuola,”
sorride timidamente.
Lestrade si muove sul divano, ignorando lo sguardo significativo del
suo Sergente. Un dipendente fedele lasciato a casa quando gli affari si
sono ingranditi?
“Perché il figlio di sua cugina e la sua fidanzata non lavorano più per
suo marito?”
Due membri della famiglia che si vedono preferire un terzo collega, un
estraneo?
Margareth Clarke si stringe nelle spalle: “Solo la vita, sa, Ispettore?
Ora sono sposati, volevano trasferirsi. Vivono nel Dorset.”
“Arriveranno stasera,” annuncia la sorella di Margareth Clarke entrando
con un vassoio e del tè per Lestrade e Donovan. “Clive ha appena
chiamato, Maggie. Stanno volando qui.”
“Davvero?” chiede Margareth Clarke, coprendosi la bocca con una mano, e
stavolta comincia a piangere.
“Sshht,” fa la sorella, togliendole di mano la tazza.
“Credete che potremmo parlare con loro?” domanda Lestrade. “Forse
potrebbero aiutarci meglio di altri, riguardo i contatti lavorativi di
suo marito, signora Clarke…”
Quando Margareth Clarke si ricompone e risponde con uno sforzo che non
vede problemi (la sorella aggiunge che hanno preso entrambi dei giorni
di permesso e intendono fermarsi almeno fino a sabato), Lestrade si
schiarisce la gola e si prepara.
Donovan gli passa discretamente la foto della ragazza scattata su un
tavolo del Bart, e Lestrade comincia a parlare con cautela: “So che
glielo hanno già accennato…c’è stata un’altra vittima, oltre a suo
marito. É sicura che lui non avesse appuntamento con qualcuno?”
Margareth Clarke scuote il capo. “Ok. Stiamo avendo un po’ di
difficoltà ad identificare l’altra vittima. Sarebbe disposta a dirmi se
la conosce, se io le mostrassi una sua foto?
Margareth Clarke pare per un attimo atterrita dalla proposta, poi
intreccia strettamente le dita e annuisce: “Se c’è un pazzo che se ne
va in giro ad ammazzare la gente in un parco…qualunque cosa, Ispettore”
Lestrade annuisce a sua volta e la ringrazia. Gira la foto, le dice di
non avere fretta, di pensare con calma.
Margareth Clarke prende la fotto dalle sue mani e impallidisce: “Dio.
É…fatta in un obitorio. Anche James…quando credete che potrò…”
“È troppo presto, temo,” le risponde Lestrade. “So che è difficile, ma
le chiedo di avere pazienza.”
“Riconosce la persona nella foto?” chiede Donovan.
Margareth Clarke abbassa di nuovo gli occhi, strappandoli dal viso di
Lestrade.
“È così giovane,” commenta. “Mio dio. No…no, scusate, non la conosco.
Non posso aiutarvi,” risponde alla fine.
“Ci sta aiutando,” le ripete Lestrade.
Quando sono fuori dalla casa scrolla le spalle, non appena avverte lo
sguardo di Donovan sulla schiena: “Era un tentativo. Aspetteremo il
cellulare di James Clarke dai tecnici.”
“Però sono venute fuori cose interessanti,” risponde Donovan,
affiancandolo verso la macchina. “Il figlio della cugina. Magari
nonostante il trasferimento covava rancore, per essere stato licenziato
quando Clarke ha deciso di aprire un locale più fighetto.”
“E decide di ucciderlo dopo più di un anno e mezzo?” replica Lestrade,
dubbioso. “Poi stanno nel Dorset…Controlleremo i loro alibi,
ovviamente, ma qualcosa mi dice che resteremo delusi.”
Ma almeno Margareth Clarke non perderà un altro pezzo di famiglia.
“Torniamo allo Yard?” chiede Donovan.
“Ci fermiamo per il pranzo?” propone Lestrade.
Il suo ultimo pasto completo (si fa per dire) sono state le patatine e
la birra della notte precedente. Avrebbe bisogno di un pranzo vero, un
riposino e una sigaretta. Sospira. Si farà andar bene uno su tre.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Si fermano a mangiare in un ristorante etnico abbastanza vicino allo
Yard da incrociare un paio di colleghi di altre divisioni, con cui
scambiano un rapido cenno. Lestrade annuncia che ordinerà un kebab e
Donovan alza appena le sopracciglia senza distogliere lo sguardo dal
menù, strappandogli un verso esasperato.
“Che succede adesso?”
“Niente che mi riguardi,” risponde Donovan.
Lestrade alza gli occhi al soffitto sospirando rumorosamente, ma cambia
la sua ordinazione con un cous cous di pollo. Almeno è carne bianca, e
potrebbe non essere un’idea così malvagia fare attenzione a cosa
mangia, visto che non c’è più nessuno a farlo per lui, a casa (in giro
può sempre contare su Sally, a quanto pare).
Pranzano con calma ma non restano con le mani in mano, preparando una
dichiarazione preliminare per la stampa. Quando sono soddisfatti del
risultato (non che voglia dire niente: per quanto caute e scarne le
loro parole, i media trovano sempre il modo di ricamarci sopra
l’inverosimile, soprattutto da quando hanno imparato ad associare il
nome del Detective Ispettore Lestrade a quello di Sherlock Holmes),
Donovan telefona alla divisione Tecnologia i Informatica dello Yard per
sollecitare il lavoro sul cellulare di James Clarke. Riattacca in meno
di un minuto con un ringhio frustrato.
“Jeff?”
“Quell’idiota saccente, sì,” conferma.
“Sii professionale, Donovan,” la rimprovera Lestrade.
Lo fa anche tutte le volte che il suo Sergente se la prende con
Sherlock, ma in quei casi le sue parole non fanno mai presa.
“Non lo sopporto…‘Non lavoriamo solo per voi dei Crimini Gravi,
Donovan!’ Se lavorasse, invece di passare la notte a giocare a poker…”
“Ci parlo io appena arriviamo,” risponde Lestrade, ripensando a quando
Sherlock ha dedotto della passione, e finora della fortuna, di Jeff di
Tecnologia e Informatica per i tornei di poker online (“Non è evidente?
L’aria di generale stanchezza di chi è stato sveglio tutta la notte, ma
senza sintomi di consumo di alcolici, o di caffè o altre bevande
eccitanti che potrebbero provocare tremori o tic rivelatori…i segni di
un indosso prolungato di auricolari e occhiali da sole: potrebbe essere
per fare sport all’aperto, ma andiamo, con quell’aspetto flaccido e il
pallore malsano? No, vive di notte, gli occhiali servono per coprire
parzialmente il viso e la musica negli auricolari per concentrarsi…”
“Occhiali e cuffiette per giocare online? Non si vedono solo le carte,
sullo schermo?” “Alcuni siti offrono delle vere e proprie sale a cui ci
si connette via webcam…ma non è il caso del vostro tecnico: lui lo fa
per allenarsi. Alcuni tornei online, i cosiddetti tornei satellite,
mettono in palio l’accesso a tornei giocati di persona. Il che ci fa
capire che il soggetto è fiducioso nelle sue capacità e ottiene buoni
risultati, nel suo hobby. Peccato che la cosa faccia precipitare
drasticamente le possibilità che svolga il suo lavoro con un minimo di
competenza. Per dio, Lestrade, è davvero a questi soggetti che vi
affidate per…”).
“Posso gestirlo da sola,” ribatte Donovan.
“Sei già dovuta andare da lui di persona, oggi. Non voglio costringerti
di nuovo a stare nella stessa stanza di uno che si è addormentato alle
5 del mattino e quando si è accorto che avrebbe fatto tardi al lavoro
ha trovato il tempo solo per il deodorante e non per la doccia,” le
risponde lui con un mezzo ghigno. “Lo so che sapresti gestirlo. So che
fantastico poliziotto sei,” aggiunge facendole l’occhiolino.
Donovan sbuffa, ma fa cenno di sì con il capo.
Rientrano allo Yard alle 14 e mentre Donovan si occupa di inviare la
dichiarazione per i media all’Ufficio Stampa, Lestrade scende alla
divisione Tecnologia e Informatica.
L’età media non è tanto bassa (Jeff è più vecchio di Donovan, di questo
Lestrade è certo), ma l’ambiente è tanto informale quanto il
regolamento di condotta permette, e a volte anche qualcosa di più, il
che è grandioso quando tutti sono in buoni rapporti, e rende le cose
innecessariamente complicate quando non è così.
“Lestrade, l’ho appena detto a Donovan al telefono: non ho solo le
vostre prove da analizzare. Ho un portatile per Dimmock che appartiene
a un paranoico complottista e due hard disk per una frode bancaria da
passare al setaccio, e il solito contorno di phishing e furti
d’identità…” esclama Jeff non appena Lestrade gli chiede dei progressi.
“Sai che i casi di omicidio passano davanti a tutti, Jeff, e non è
neanche una faccenda complicata,” ribatte Lestrade. “Donovan te l’ha
chiesto all’inizio del turno, e io ho bisogno di identificare la
vittima possibilmente prima della conferenza stampa.”
Il suo cellulare manda un bip e Lestrade lo prende. Cazzo. Fantastico.
“Prima della conferenza stampa di venerdì
mattina, cioè domani. Fammi il favore di mollare tutto il
resto e di metterti al lavoro sul cellulare di James Clarke.”
Jeff alza le mani, sbuffando: “Se lei mi fa il favore di levarmi di
dosso Donovan…”
“Preferisci che sia io a starti addosso?!” abbaia Lestrade. “Avrei cose
più importanti da fare, come il mio lavoro, ma se devo restare qui a
controllare che tu faccia il tuo, allora mi metto comodo! Mi porto giù
un po’ di scartoffie e il tuo report di rendimento annuale da
compilare, che ne dici?”
Jeff sgrana gli occhi, sorpreso, e Lestrade si domanda fugacemente
perché: non è un segreto per nessuno che lui prenda fuoco facilmente, e
davvero, che cosa si aspetta questa gente da un uomo cornuto, in pieno
divorzio, e sempre nell’atto di smettere di fumare?
“Voglio la lista contatti e chiamate di James Clarke, i messaggi e le
foto, prima delle 17, perché devo andare al Bart. Siamo d’accordo?”
“Sì, Ispettore Lestrade.”
“Grazie tante.”
Il resto del pomeriggio si perde in burocrazia e deposizioni per altri
casi, telefonate ai Clarke per avvertirli della conferenza stampa del
giorno dopo e sentire se hanno avuto notizie dell’assistente sociale e
Lestrade comincia a sentire acutamente il costo che tre ore scarse di
sonno esigono dal suo cervello. Anche Donovan comincia ad avvertire la
stanchezza e verso le quattro e mezza, quando Jeff arriva con il
contenuto del telefono di James Clarke, non gli rivolge più di un
grugnito.
Lestrade recupera dell’altro caffè e cominciano a spulciare i dati
seduti ai lati opposti della sua scrivania. Si scambiano un’occhiata
ogni tanto, sempre più nervosi, finché Lestrade non perde la pazienza e
butta la sua penna sul ripiano.
“Niente,” mugola premendosi i palmi delle mani sugli occhi,
abbandonandosi all’indietro contro lo schienale della sedia. “Un
fottuto niente che possa collegare James Clarke alla ragazza.”
“Dobbiamo ancora controllare quei numeri privati, boss,” risponde
Donovan, ma con scarsa convinzione.
Nessuna di quelle chiamate ha l’aria di essere fatta a un’amante:
sporadiche, in orari diversi, troppo lunghe o troppo corte, molte fatte
di mercoledì, il giorno che secondo Margareth Clarke il marito dedicava
ai fornitori della caffetteria: più probabile che siano numeri privati
di contatti di lavoro, di quelli che generalmente non si mettono sul
sito o sui biglietti da visita.
“Troveremo qualcosa,” fa Lestrade, sforzandosi di alzarsi in piedi.
“Andiamo a sentire il medico legale.”
Chiamano quando sono a metà strada, e Molly Hooper li accoglie con due
caffè giganti presi da un chiosco invece che dalla caffetteria
dell’ospedale.
“Dio, Molly, sei un dono del cielo,” le dice Lestrade.
“Oh, figurati, ho fatto una pausa anch’io, così,” risponde lei con il
solito sorriso nervoso.
Il cellulare di Donovan squilla e lei esce a rispondere con il suo
caffè e Molly guarda Lestrade un po’ preoccupata.
“Come…vanno le cose?” chiede impacciata.
“Sto bene,” risponde lui di slancio, in effetti troppo in fretta, senza
crederci.
L’ultima volta che ha fatto l’errore di crederci Sherlock l’ha
sconfessato davanti a tutti, e poco dopo ha fatto lo stesso con Molly.
Lestrade a volte pensa che lui e Molly dovrebbero crearsi un gruppo di
sostegno per superare le stoccate di Sherlock. Forse lo fanno già, in
qualche modo forse tutti loro-lui, Molly, Mrs Hudson, John- sono una
rete di supporto, non solo per Sherlock e la droga, ma gli uni per gli
altri, a causa di Sherlock. Lestrade si chiede fugacemente se
dovrebbero includere anche Mycroft.
Sospira stanco, lasciando intravedere a Molly come stanno realmente le
cose.
“Tu, invece?” domanda poi.
“Il solito. Non mi lamento. Mi concentro sul lavoro. Non…quello per
Sherlock, intendo, in generale,” risponde lei, tormentando la sua coda
di cavallo. “Possiamo entrare?” fa poi, quando Donovan ritorna.
Molly fa strada nell’obitorio e fino al primo tavolo.
“James Clarke, 42 anni, raggiunto da quattro coltellate, due alla
schiena, una delle quali ha reciso un’arteria addominale, probabilmente
la causa della morte, e due al ventre, che hanno perforato fegato e
stomaco. Dev’essere morto dissanguato in pochi secondi.”
“Povero bastardo,” si lascia scappare Lestrade.
Molly annuisce: “Le ferite sulla schiena sono profonde…le arterie
addominali sono vicine alla colonna vertebrale, dev’esserci voluta una
lama pesante e una certa forza.”
“Se l’assassino inseguiva la vittima può averla colpita di slancio, in
corsa,” osserva Lestrade. “È possibile?”
“Oh, certo, Ispettore. Però, se guardiamo il volto…” comincia Molly,
spostandosi lungo il tavolo.
“Anderson dice che quelle sono state fatte dopo la morte,” interviene
Donovan.
“Sì. E dal contorno della frattura del cranio, io direi pestando…con
violenza…con degli scarponi, forse.”
Donovan fa una smorfia e Lestrade si trattiene solo con grande sforzo.
Stringe le labbra e guarda da più vicino dove Molly indica. Sherlock
sarebbe praticamente coricato sul corpo, con la sua lente
d’ingrandimento.
“Qui, vedete? La coltellata che ha reciso fino alla colonna può essere
stata fatta sfruttando lo slancio, ma questo ha richiesto forza…il
piede è calato dall’alto, quasi perpendicolare, vedete questo segno?”
“Ho visto anche troppo,” fa Lestrade secco, allontanandosi. “Scusa.” Si
schiarisce la gola. “Ok, coraggio. Un uomo, allora, che indossa
scarponi. Doveva essere coperto di sangue,” commenta rivolto a Donovan.
“Forse in giro non c’era nessuno perché era una serata piovosa e James
Clarke è uscito durante una tregua improbabile, ma di sicuro
l’assassino non si è allontanato in metro o in bus. Aveva parcheggiato
lì vicino?”
“Non tanto vicino, a quanto pare…le CCTV che riprendono il parco sono
state inutili: nessuno ha parcheggiato e poi è entrato dall’ingresso
principale o dalla strada dietro il prato,” risponde lei. “Potremmo
controllare le riprese delle altre telecamere in un raggio più ampio,
ma col buio e la pioggia battente, anche se il nostro uomo fosse stato
coperto di sangue non è detto che riusciremmo a capirlo, dai video.”
Lestrade scuote la testa: “Farò comunque richiesta per le
registrazioni. Potremmo essere fortunati.”
“Volete vedere la ragazza?” chiede Molly. “Jane Doe. Afrolondinese. Età
stimata tra i 21 e 24 anni. Una frattura al polso che risale a circa 5
anni fa, generalmente in perfetta salute. Morta per asfissia quando la
lama ha reciso l’arteria carotidea e perforato la trachea.”
Lestrade sospira: “Non puoi dirci nient’altro, Molly? Non riusciamo a
identificarla…”
“Oh, non saprei…potrei azzardare che faceva sport regolarmente o quanto
meno aveva uno stile di vita sano. I vestiti che indossava non sembrano
costosi, né tanto ricercati. Scarpe comode. Non so,” Molly stringe le
spalle con un sorriso esitante. “Davvero, non sono Sherlock. Avete
provato a chiedere a lui?”
Donovan sbuffa e si allontana dal tavolo.
“Sherlock è fuori città,” spiega Lestrade.
“Ah, lo avevi cercato?”
“Me l’ha detto Mycroft, in realtà.”
“Hai visto il fratello dello strambo?” chiede Donovan girandosi
nuovamente verso di loro.
“Quindi Sherlock è via per conto di suo fratello?” chiede Molly a bassa
voce. “È un po’ inquietante, lui, vero?”
Lestrade non può negarlo, ma detto da Molly, sapendo che è abituata
agli standard di Sherlock (di Sherlock accanto a cadaveri. Brrr), suona
un po’ ingiusto.
“L’ho incontrato per caso in Tribunale, prima che si aprisse il caso. E
non ho chiesto dove fosse Sherlock perché all’epoca mi è sembrato un
regalo inaspettato, non averlo tra i piedi. A caval donato…” risponde a
entrambe.
In effetti, Sherlock potrebbe essere in missione per conto di Mycroft e
qualche assurda faccenda di spionaggio, supercriminali e assassini in
casinò di lusso. Cavolo, perché pesare a Mycroft gli fa sempre venire
in mente 007? Deve concentrarsi.
Si costringe a pensare e a guardare la ragazza con occhio critico. È
giovane, carina, con una cascata di capelli nerissimi e folti, in
salute, sportiva, magari solare e alla mano. Perché nessuno ne ha
denunciato la scomparsa? Forse è a Londra per lavoro, e la famiglia è
lontana, abituata a sentirla solo ogni tanto. Possibile che non conosca
nessuno, in città? Niente amici, niente fidanzato o fidanzata…
Lestrade quasi si strozza con la sua saliva mentre inspira di scatto.
“Boss?”
“Greg? Cioè, Ispettore?”
“I capelli,” tossisce lui. “L’assassino le ha coperto i capelli perché non sopportava di
guardarli. Cerchiamo un fidanzato o ex fidanzato.”
Non è certo la prima volta che lo sente: uomini fissati con un
dettaglio del corpo delle donne che dicevano di amare, che non
sopportano di vedere dopo averle uccise.
Donovan fa il collegamento con i casi da manuale che ha studiato come
Lestrade, poi va oltre: “Nessuno denuncia la sua scomparsa perché chi
dovrebbe farlo sa perfettamente che è morta, e non vuole attirare
l’attenzione.”
“E lei deve avere qualcosa a che fare con James Clarke,” dice Lestrade.
“Perché lei in zona non abita, nessuno la conosce, ma era nello stesso
parco alla stessa ora…deve esserci un collegamento.”
Come dice Sherlock, le coincidenze non esistono.
Escono dal Bart con Molly che li saluta speranzosa, risollevati
dall’adrenalina e dall’ondata di comprensione, anche se all’atto
pratico non è che abbiano fatto chissà che passi avanti.
“Continuiamo con quello che abbiamo,” fa Lestrade in macchina. “James
Clarke, il suo lavoro. Voglio la lista dei suoi fornitori e dei
dipendenti, e voglio parlare con il nipote di Margareth Clarke e sua
moglie.”
“Figlio della cugina,” corregge Donovan. “Posso convocarli allo Yard
domani, all’una? Dopo la conferenza stampa…”
“Cazzo. La conferenza stampa.”
“Eh, già.”
“Dobbiamo prepararci, per quella.”
“Devi fare bella figura, boss. Per una volta che Sherlock non è tra i
piedi…”
Lestrade grugnisce: “Proprio una bella figura: due vittime accoltellate
in un luogo frequentato da famiglie…”
“…e piccoli spacciatori…”
“…e di una non sappiamo ancora neppure il nome! Sarò fortunato se i
giornalisti non monteranno un caso stile Jack lo Squartatore,” conclude
esasperato solo al pensiero dell’indomani.
Lui e Donovan si richiudono in ufficio a ripassare le mosse fatte
finora in vista della conferenza stampa, prevista per le 11:00
dell’indomani, ma alle 20:00 ogni facoltà mentale abbandona Lestrade.
“Donovan, vattene a casa. È un ordine,” dice stropicciandosi a faccia
con le mani. “Io devo andare a morire sul divano.”
“Cena e vattene a letto, invece,” risponde lei alzandosi. “Domattina
rivediamo ancora una volta tutto. Notte, boss.”
“Notte, Sally.”
Lestrade riesce a mettere assieme gli ultimi neuroni per guidare fino a
casa, e nonostante il consiglio di Donovan, una volta entrato l’unica
cosa che riesce a fare è sedersi sul divano, svuotato. Quando si
riscuote sono passati almeno dieci minuti e sa che se aspetta di cenare
si farà troppo tardi, quindi prende il cellulare e chiama prima di
pensarci troppo.
“Ehi, sono io…volevo parlare un po’ con le bambine…”
Il giorno dopo Lestrade si sente meglio fisicamente, e uno straccio dal
punto di vista emotivo.
Ha preparato la cena (pasta al pomodoro e piselli in scatola) con un
groppo in gola, all’idea di Grace che si preparava per andare a letto e
Vicky che studiava ascoltando musica. La promessa che ha strappato alla
sua futura ex-moglie di passare il sabato sera con le bambine è l’unico
pensiero che gli ha permesso di addormentarsi.
“Hai guardato i documenti?” gli ha chiesto Becky, e ha ragione, è ora
che Lestrade li guardi.
“No. Lo farò. Mi ero addirittura preso…non importa.”
Meglio non ripensare al suo pomeriggio libero.
“Non ha senso rimandare, Greg. Prima sistemiamo le cose, prima possiamo
fare piani definitivi per le bambine. Ti interessa, questo?”
“Oh, dio, Becky, come puoi chiedere a me…Li guardo, i
documenti, ok? Ho promesso e lo farò.”
Quindi deve sopravvivere al venerdì con la prospettiva di una serata da
passare sulle carte del divorzio e spera con tutto il cuore che le cose
vadano lisce, quel giorno. Ma contando che la mattinata ha in serbo per
lui una conferenza stampa, e contando che solo Sherlock lo fa sentire
più stupido di una stanza piena di giornalisti (poi ci sono le volte
che Sherlock lo fa sentire stupido in una stanza piena di giornalisti,
ma Sherlock dovrebbe essere ancora via…), forse sono tutte vane
speranze.
Lui e Donovan entrano allo Yard nello stesso momento, ciascuno con due
caffè COSTA.
Donovan scuote la testa: “Non mi lasci mai fare niente di carino, boss.”
“Tu non sei carina, Donovan. Sei il mio sbirro cattivo,” le risponde
lui, cedendo i suoi caffè a due agenti della loro squadra. “Offre
Donovan!”
In un minuto sono al lavoro. Donovan convoca i parenti di James Clarke
per le 12:30, sistemano un paio di questioni burocratiche urgenti, e si
mettono di nuovo al lavoro sulle dichiarazioni da rilasciare alle 11:00.
“Dobbiamo assolutamente chiarire che non si tratta di aggressioni
casuali o che potrebbero ripetersi in un qualunque altro parco,” ripete
Lestrade per l’ennesima volta. “Non vogliamo rischiare un’ondata di
panico e le seguenti polemiche sull’incapacità di Scotland Yard di
mantenere la sicurezza avendo uomini e pattuglie sulle strade.”
“Lo so,” risponde Donovan per l’ennesima volta, con infinita pazienza.
Stanno migliorando, a gestire il nervosismo causato dai rapporti con la
stampa.
“Chiederanno dello strambo,” butta lì Donovan.
Lestrade geme: “Perché questa gente non concepisce che io faccia il mio
lavoro anche da solo, ogni tanto?”
È ovvio il motivo, in realtà, e lui e Donovan lo sanno benissimo:
Sherlock è sempre coinvolto nei casi di alto profilo, e sono i casi di
alto profilo che la stampa segue, senza eccezioni.
Alle 11 meno un quarto, Davies li avvisa che la sala stampa è pronta, e
Donovan lo spinge fuori dal suo ufficio: “Vatti a dare una sistemata,
boss.”
Lestrade brontola qualcosa, ma raggiunge il bagno degli uomini per
provare a pettinarsi con le dita (un taglio più corto. È l’unica) e
sistemare la sua camicia (cravatta? Al diavolo, mica vuole dare
l’impressione di tenere di più al suo aspetto che al caso), poi
riattraversa il piano per prendere dell’acqua.
Sta seriamente valutando l’idea di fare una scappata fuori per una
boccata d’aria e un po’ di fumo passivo, quando Mycroft Holmes appare
davanti a lui, in un completo spigato color sabbia e camicia azzurra,
una cartellina di pelle sotto il braccio destro e l’onnipresente
ombrello appeso all’altro.
Note:
Mi sento un po' in colpa, a tagliare qui il capitolo. Ma non abbastanza
da cambiare ideaXD
Le CCTV sono le telecamere a circuito chiuso, ma ci eravate arrivati
anche senza di me, immagino.
Non sono proprio sicura che anche in Inghilterra si usi chiamare 'John
Doe' o 'Jane Doe' le vittime non ancora identificate...forse è
tipicamente americano. Nel caso, scusate l'imprecisione.
Grazie di aver letto!:)
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Capitolo 4 *** CApitolo 4 ***
Capitolo 4
Cazzo, pensa Lestrade. Cazzo. Cazzo. Ha il cervello vuoto e le orecchie
che rimbombano.
Mycroft lo vede, ovviamente
lo vede, e nota sicuramente la sua espressione fissa, perché si limita
ad un cenno del capo.
Sono abbastanza lontani, Lestrade potrebbe limitarsi a ricambiare il
gesto senza che la cosa sembri scortese: sono alle due estremità della
stanza, una stanza affollata e rumorosa, ed entrambi sono palesemente
occupati, e di sicuro Lestrade non si aspettava di vedere Mycroft così
presto dopo…be’.
Davvero, Lestrade potrebbe tornarsene in ufficio col suo bicchiere di
carta, invece raggiunge Mycroft dribblando agenti e impiegati,
guardando brevemente nella direzione da cui lo ha visto arrivare.
“Ispettore Lestrade,” lo saluta Mycroft, fermandosi ad aspettarlo.
Niente traspare dal suo sorriso freddo.
“Mycroft.”
Lestrade non vuole che sia strano, tra loro. Può comportarsi
gentilmente, no? Gentile non è strano, giusto?
“Posso aiutarti in qualche modo?” chiede, accennando alla cartellina di
pelle.
Mycroft la scuote con un gesto noncurante: “L’offerta è molto
apprezzata, ma il vice-Commissario è stato più che disponibile ad
accogliere le mie richieste.”
“Oh? Hai domato il drago, allora?” ghigna Lestrade.
Mycroft solleva un angolo delle labbra.
“Direi di più l’orso…” replica a bassa voce.
Lestrade si copre la bocca con una mano: “Giusto. Ah, ma io parlo per
sentito dire: il vice-Commissario si occupa di faccende troppo in alto
per me.”
“Mere questioni burocratiche, le assicuro,” risponde Mycroft.
“Mmh…” fa Lestrade, studiandolo. “Prima in Tribunale, ora qui…Sherlock
è all’estero…mi viene da pensare che tu abbia inviato tuo fratello ad
ottenere l’estradizione per qualcuno. E che ora ti stia muovendo perché
la tua gente possa arrestare quel qualcuno qui, in Inghilterra.”
In Tribunale per il mandato, dal vice-Commissario per comunicargli
l’avocazione della competenza per l’arresto…è possibile. Ma magari
Lestrade sta di nuovo pensando troppo a 007.
Mycroft non sorride, ma quello nei suoi occhi è indubbiamente uno
scintillio divertito: “Il Ministero dei Trasporti non può effettuare
arresti, Ispettore.”
“Lo scordo sempre,” fa Lestrade alzando gli occhi al cielo. “Quindi,”
continua, dopo una pausa per un sorso d’acqua, “stai tornando in
ufficio?”
Mycroft sospira, ed è come se si rimettesse in moto, abbandonando
l’immobilità che caratterizza la sua piena attenzione verso qualcosa:
“In un attimo. Temo che la mia presenza sia richiesta al più presto per
una serie di riunioni che mi assicurano improrogabili. Lei,” e i suoi
occhi grigio-blu trafiggono Lestrade, “ha una conferenza stampa, se non
erro.”
Lestrade sobbalza e controlla l’ora: ha ancora cinque minuti.
“Sì, sì…tra poco.”
È un congedo, quello?
Mycroft apre la bocca, ed esita appena: “È opportuno che io vada: mi
trovo nella delicata situazione di…evitare il più possibile i contatti
con la stampa.”
“Oh, i giornalisti diventano avvoltoi, quando vedono un dipendente del Ministero dei Trasporti,”
ghigna Lestrade.
Mycroft solleva un sopracciglio: “È più il fatto che la mia immagina
pubblica è non avere
un’immagine pubblica.”
Lestrade annuisce: “Capisco. Ma in questo caso, devi sparire di qui.
Tra un minuto questo posto sarà un circo di fotografi e reporter.” Si
fa più vicino e indica una direzione: “Da questa parte.”
Mycroft lo affianca senza protestare.
Lestrade lo guida fino a una scala di servizio e non appena nessuno
bada a loro, apre la porta antincendio e sospinge Mycroft sulle scale.
“Un ingresso discreto collegato al parcheggio per i testimoni a rischio
e i bambini. O anche solo per evitare i giornalisti all’entrata
principale,” spiega. “Sulle scale non ci sono telecamere e…” Si
interrompe perché si sente scaldare un po’ la faccia. Si schiarisce la
gola: “Be’, immagino che non faccia molta impressione a un uomo che può
costringere tutte le telecamere di Londra a fissare un muro, se vuole.”
Senza contare che Mycroft conosce probabilmente a menadito la pianta di
tutto l’edificio. Non è stata una grande idea, forse. Ma il pensiero di
avere Mycroft Holmes in un luogo appartato…
Lestrade si riscuote per scoprire che Mycroft lo sta fissando.
“Questi piccoli segreti hanno sempre una loro attrattiva,” gli dice
Mycroft.
Scendono un paio di rampe e poi entrano in un ascensore di servizio
(Lestrade immagina che l’altro uomo non gradirebbe fare altri otto
piani a piedi).
“Quale sarebbe?” domanda in un mormorio.
Mycroft sorride appena: “Anche se non sono informazioni nuove, di per
sé, ne contengono sempre altre: su chi li custodisce, sul perché
vengono condivisi…”
Raggiungono il parcheggio sotterraneo e Mycroft esce dall’ascensore a
passo deciso: “Arrivederci, Ispettore Lestrade. E grazie per la via di
fuga.”
Ha già il telefono in mano.
Mentre le porte si richiudono, Lestrade vede una macchina scura
avvicinarsi silenziosa.
Ha appena il tempo di tornare all’undicesimo piano e di farsi sibilare
in faccia “Dove diavolo ti eri cacciato?!” da un’esasperata Donovan,
che viene dato in pasto a una stanza piena di giornalisti. Un incubo.
Donovan lo perdona quando è tutto finito, e lui non ha detto
stupidaggini troppo grosse (“Ispettore Lestrade, Sherlock Holmes sta
lavorando al caso?” “La polizia per ora non si è per ora avvalsa di
alcuna consulenza esterna…” “Per ora?”).
Stanno divorando un paio di sandwich che ha portato Davies prima che
Clive Riggs e Margareth Clarke arrivino: i due hanno preferito non
assistere alla conferenza stampa, e d’altronde Lestrade lo aveva
caldamente sconsigliato.
“Tutto sommato è andata bene,” concede Donovan, con tono cauto.
Lestrade annuisce pulendosi la bocca: “Già. Ora speriamo che la scelta
non si ritorca contro di noi.”
Donovan si stringe nelle spalle: “Nah. Mi fido del tuo istinto.”
“Davvero?”
“Be, solo quando coincide col mio.”
Lestrade sbuffa divertito.
Avevano sperato di scoprire l’identità della ragazza prima di
affrontare i media, ma dato che non ci erano riusciti, due erano le
soluzioni praticabili: ammettere che non sapevano chi fosse la ragazza,
e usare la stampa per lanciare un appello sperando che qualcuno si
facesse avanti con qualche informazione per loro; oppure restare il più
possibile sul vago e sottintendere di avere una pista che non potevano
rischiare di compromettere rilasciando troppo informazioni ai
giornalisti.
“Se non avessimo proprio nessuna idea di come muoverci, l’aiuto del
pubblico potrebbe farci comodo,” aveva detto Lestrade, la sera prima.
“Ma siamo d’accordo che l’assassino potrebbe essere qualcuno nella
sfera di James Clarke, giusto?” Donovan aveva annuito. “E noi stiamo
per andare a ficcare il naso nella sua sfera lavorativa…facciamo
credere di avere qualcosa. Rendiamo qualcuno nervoso…”
“E teniamo gli occhi ben aperti per vedere chi si comporta in modo
strano.”
Clive Riggs, cugino della moglie e che aveva lavorato con James Clarke,
era il loro primo tentativo, ma il fatto che l’uomo non avesse
insistito per avere dettagli e avesse preferito evitare la conferenza
stampa non lo faceva sembrare un assassino preoccupato di scoprire fino
a che punto la polizia fosse sulle sue tracce.
Angelica Riggs, la moglie di Clive, alla fine non ha potuto lasciare il
Dorset per problemi di lavoro. A Donovan la cosa non è piaciuta, ma
dato che l’assassino a quanto pare è un uomo, il suo Sergente si è
limitata a controllare l’alibi della donna e si è rassegnata.
Certo, se non avessero fatto progressi o scoperto qualcosa muovendosi
in quella direzione, avrebbero sempre potuto fare un appello ai
cittadini…facendo la figura degli idioti.
Lestrade e Donovan sospirarono all’unisono, formulando probabilmente lo
stesso pensiero.
Si girano quando Tennyson bussa alla porta dell’ufficio: “La signora
Clarke e il signor Riggs…”
“Falli entrare,” ordina Lestrade, mentre fa sparire i resti del loro
spuntino veloce e Donovan si posiziona, discreta e silenziosa, per ora,
alla finestra.
“Signora Clarke, grazie di essere venuta…signor Riggs, sono l’Ispettore
Lestrade, a capo dell’indagine, e il questa è Sergente Donovan.
Accomodatevi.”
Clive Riggs ha 29 anni e l’aria gioviale di chi è abituato a lavorare
col pubblico, ma come Margareth Clarke sembra esausto e appena meno
inconsolabile.
“Ispettore…”
È più basso di Lestrade, più alto di James Clarke di un paio di
centimetri al massimo, ritiene Lestrade, sottile e slanciato. Donovan
gli guarda discretamente le scarpe mentre si siede.
“Ispettore, ho le carte del lavoro di James,” comincia Margareth
Clarke. “Clive mi ha dato una mano…sarei stata persa senza di lui,”
aggiunge.
Clive Riggs le stringe la mano e fa un piccolo sorriso triste.
“Bene. Speravamo potesse aiutarci a fare luce sul lavoro e sui contatti
di James Clarke, signor Riggs,” dice Lestrade. “So che ha lavorato con
lui sin da ragazzo…”
Clive Riggs si schiarisce la gola: “Oh, sì. Ero un idiota, all’epoca.
Sempre in giro. James mi ha rimesso in riga, tenuto occupato. Dopo un
annetto che lavoravo con lui ha assunto Angie e nessuno è più riuscito
a schiodarmi dalla caffetteria. Mia moglie,” aggiunge.
Lestrade annuisce: “Che lavoro fa adesso?”
“Sono manager regionale di una piccola catena di ristorazione nel
Dorset.”
“Ha messo a frutto quello che ha imparato dal signor Clarke,” osserva
Donovan.
Riggs annuisce: “Angie e io studiavamo e lavoravamo, negli ultimi
tempi…”
“È stato allora che James ha assunto David,” interviene Margareth
Clarke. “David Bolton. Aveva ragione, Ispettore, mi è venuto in mente,”
sorride appena.
Lestrade ricambia e accetta il plico di documenti che la donna gli
porge: contatti e fornitori, contratti di apprendistato dei vecchi
dipendenti e di quelli del nuovo locale, a Chelsea. Con l’aiuto di
Clive Riggs Lestrade e Donovan passano in rassegna nomi e numeri di
telefono e tra lui e la vedova assegnano un nome e un indirizzo a ogni
numero sul cellulare di Clarke.
Dopo un’ora, Margareth Clarke chiede una pausa per chiamare la sorella
e farle sapere che sta bene.
“Posso accompagnarla a prendere un caffè, nel mentre,” si offre Donovan.
“Noi possiamo sbrigare le ultime questioni,” fa Lestrade, accennando a
sé e a Riggs. “Così poi possiamo lasciarvi tornare a casa.”
Margareth Clarke lo guarda con gratitudine prima di uscire.
“È gentile, Ispettore. In effetti abbiamo molto da fare,” dice Riggs,
scuotendo la testa. “Tra il funerale, quando ci verrà…dato il via, e
tutte le questioni economiche…dopo aver riaccompagnato Margareth a casa
andrò fino al locale. Non abbiamo ancora chiuso per lutto, ed è
irrispettoso. I dipendenti sanno a malapena quello che è successo, devo
parlare con loro. Rassicurarli che verranno pagati anche se chiudiamo,
e poi…dovremo decidere cosa fare, della caffetteria.”
Lestrade annuisce comprensivo: “Immagino che per lei sarebbe
impossibile gestire il locale…”
“Oh, no, dal Dorset? Come?” ride amaramente Riggs. “Il mio è un buon
posto, e Angie si trova bene nello studio in cui è stata assunta. Non
abbiamo alcun desiderio di tornare a Londra, anche se non sappiamo come
Margareth potrebbe cavarsela. Forse sarà costretta a chiudere e a
vendere.”
“Che mi dice di David Bolton? Gli altri dipendenti lavoravano per il
signor Clarke da poco, mentre lui l’ha seguito da Fulham,” domanda
Lestrade appoggiandosi contro lo schienale della sedia. “Non potrebbe
subentrare lui?”
Riggs sospira: “Be’, forse. Credo sia un po’ giovane: ora avrà 24 o 25
anni. Sono anni che non parlo con David, e magari le cose sono
cambiate, ma non mi è mai sembrato che avesse la stoffa del manager…”
“Non è affidabile?”
“No, non è quello. É…era, non saprei, lo scoprirò oggi,
credo…litigioso, direi. Lui e io non andavamo d’accordo.”
“Mh. E con James Clarke andava d’accordo?” fa Lestrade, giocando con la
sua penna.
Riggs annuisce con enfasi: “Molto. Avevano molta confidenza. James
apprezzava le persone senza peli sulla lingua, e David non si faceva
mai problemi. Ci sono cose che uno non osa dire al proprio capo…be’,
non David. Direi che erano amici, in un certo senso.”
Lestrade riflette: lui e Donovan non sono molto diversi. Possono
definirsi amici, nonostante tutti i paletti del lavoro e le divergenze
di opinioni (Sherlock) e recentemente il terrore irrazionale di fidarsi
di qualcun altro che Lestrade sta sviluppando e combattendo
strenuamente da quando ha scoperto (di nuovo, cazzo) che Becky lo
tradiva.
Ritorna in sé e lui e Riggs si concentrano nuovamente sulla deposizione
sua e Margareth Clarke.
“Dovremo prima o poi parlare con i dipendenti della caffetteria,” gli
dice Lestrade. “Tanto vale che sia oggi che possiamo trovarli tutti al
lavoro in un colpo solo. Crede sarebbe un problema?”
“Oh…non credo. Devo avvertirli?” chiede Riggs, dubbioso.
Lestrade scuote la testa con il suo miglior sorriso rassicurante:
“Accompagni a casa la signora Clarke. Quando arriverà al locale per
parlare con i dipendenti, ci troverà lì.”
“Vi offrirò un caffè,” sorride debolmente Riggs.
Una mezz’ora dopo, quando Donovan rientra dopo aver accompagnato fuori
Margareth Clarke e Clive Riggs, Lestrade si alza e prende il suo
soprabito: “Ti va un bel caffè costoso?”
“A Chelsea?”
“Certo. Gli hai guardato le scarpe?”
“Derby di camoscio blu. Non mi sembra il tipo che indossa scarponi o
stivali.”
“Già.”
Scendono al parcheggio e raggiungono Chelsea che sono circa le 15,
schivando il traffico dell’ora di pranzo, sicuri di avere parecchio
vantaggio su Riggs.
Lestrade parcheggia non troppo vicino al locale e lui e Donovan si
avvicinano passeggiando con calma, riparandosi dall’acquerugiola
insistente che ha preso a scendere sotto le tende dei negozi e i
balconi della via. La zona è frequentata, nonostante il brutto tempo:
gruppi di adolescenti e madri con passeggini li schivano sul
marciapiede. Riconoscono il locale da lontano dal nome sulla struttura
di un dehors di metallo e vetro dipinto di verde: il Coffe Department.
Lestrade e Donovan, dall’altra parte della strada rallentano e fingono
di esaminare la vetrina accanto a loro, studiando il posto nel riflesso
sul vetro. La caffetteria è carina; moderna, ma non hipster, o almeno
non troppo, e ben frequentata: nonostante la temperatura, nel dehors ci
sono tre tavoli occupati, e un paio di camerieri fanno avanti e
indietro ogni pochi minuti.
“James Clarke deve averci investito parecchio…” commenta Donovan.
Lestrade annuisce: “Tutti i risparmi che aveva messo da parte col
vecchio locale, e trentamila sterline di un finanziamento con la sua
banca, che secondo Clive Riggs aveva ripagato entro il primo anno di
apertura. Il dehors è stato aggiunto di recente, in vista della
primavera.”
“La vedremo mai, di questo passo?” sospira Donovan. “Andiamo, boss, mi
hai promesso un caffè.”
Entrano nella caffetteria sfuggendo con sollievo all’umidità grigia
della strada.
Donovan sceglie un tavolo non lontano dal bancone e Lestrade va a
ordinare.
Quando la sorridente barista gli serve due cappuccini (uno alla
cannella con zucchero di canna per Donovan), Lestrade le sorride a sua
volta: “Grazie. Stiamo cercando il signor Riggs per scambiare due
parole. Lo state aspettando, non è vero?”
“Ehm, sì, in effetti,” risponde la ragazza, cauta. “Posso avvertirlo
che lo aspettate quando arriverà…voi siete?” domanda, scrutando
Lestrade.
Lui estrae il tesserino: “Ispettore Lestrade. Non siamo giornalisti, e
il signor Riggs sa che saremmo passati.”
La barista annuisce: “Ok, d’accordo. É…per il signor Clarke?”
“Temo di sì. Lavorava per lui da molto, signorina…?”
“Banks. Eve Banks.” La ragazza scuote la testa: “Affatto, no. Sei mesi,
più o meno. È davvero una tragedia, il signor Clarke sembrava proprio
una brava persona.”
“Ne sono certo. Passava molto tempo, qui?”
Eve Banks sorride: “Oh, sì. Era qui tutto il tempo, sempre dietro il
bancone, mica in ufficio. A volte serviva anche ai tavoli.”
“Quindi l’ultima volta che lo avete visto al locale…” inizia Lestrade.
“Martedì. Il mercoledì il locale è chiuso e io e gli altri abbiamo il
giorno libero. A volte il signor Clarke veniva lo stesso per lavorare,
sa, la contabilità e il resto, o per sistemare il magazzino con David…”
La ragazza si guarda attorno e Lestrade segue il suo sguardo: quindi
David Bolton è il ragazzo che dà loro ostentatamente le spalle mente
pulisce la macchina del caffè.
Lestrade annuisce e ringrazia ancora la barista per le loro
ordinazioni, poi raggiunge Donovan al tavolo.
“Allora?”
“Tutti i dipendenti ti fissano. Un cameriere è quasi inciampato, per
tenerti d’occhio mentre tornavi qui.”
“Curiosi? O nervosi?”
Donovan si stringe nelle spalle: “Entrambe le cose, direi. Non è tutti
i giorni, che il tuo capo viene assassinato.”
“Ti piacerebbe, eh?” le chiede Lestrade prendendo un sorso del suo
cappuccino.
“Se qualcuno ti facesse fuori lo inchioderei, boss. Sarebbe il mio
primo caso risolto da Ispettore!”
“Spero di non dover morire, per vederti fare carriera!” grugnisce
Lestrade.
Donovan fa una smorfia: “È più probabile che tu ci rimetta la pelle in
una di quelle trovate assurde di Sherlock, e io non avrò neanche la
soddisfazione di fargliela pagare, perché suo fratello gli parerà il
culo ancora una volta…”
Clive Riggs arriva quando ormai hanno finito di bere. L’uomo compare
dietro il bancone, invece che dalla porta del locale. Deve aver
parcheggiato nel cortile interno.
La barista, Eve, gli indica subito Lestrade e Donovan. Se l’uomo si
sente preso in giro dalla loro presenza e dal fatto che non lo hanno
aspettato per iniziare a fare domande, non lo dà a vedere.
“Ispettore, Sergente,” li saluta avvicinandosi. “Ho fatto prima che ho
potuto…datemi qualche minuto per avvertire i ragazzi e le ragazze, e
per dare il tempo ai clienti già serviti di finire le loro ordinazioni,
e saremo pronti per voi.”
Riggs li abbandona con un cenno, ma uno dei camerieri ritorna
immediatamente con altre due tazze di cappuccino, poi gira il cartello
sulla porta su ‘chiuso’.
“Un tipo efficiente, il nostro Riggs,” fa Lestrade, mentre tutti i
dipendenti lo raggiungono dietro il bancone per capire cosa sta
succedendo.
“Non si fa scrupoli a comandare,” commenta invece Donovan, mentre Riggs
risponde con tono rassicurante alle occhiate preoccupate e scontente
dei camerieri e dei baristi.
“Be’, dev’essere abituato a farlo. Manager in una catena, eccetra…”
replica Lestrade.
“Non puoi venire qui e chiudere il locale! Chi credi di essere? Sono
anni che non lavori più per James!”
Lestrade e Donovan inchiodano gli occhi all’unisono sul barista, David
Bolton, che fronteggia Riggs a braccia conserte.
“Lo so, David, ma non possiamo tenere aperto come se niente fosse, te
ne rendi conto?” risponde l’altro con calma forzata tenendo la voce
bassa e dando un’occhiata veloce agli ultimi clienti che ancora si
attardano. “Mi assicurerò che siate tutti pagati per le prossime
settimane, nel frattempo vedremo di trovare una soluzione.”
“Ti assicurerai? Non spetta a te!” insorge ancora Bolton. “Possiamo
andare avanti senza problemi, gestire il posto: chi sei tu per
decidere…”
“Margareth
ha deciso,” lo interrompe Riggs, freddo. “Vuole chiudere, perché ha
perso suo marito e ha altro a cui pensare, adesso. La cosa non dovrebbe
colpire anche te, visto che conoscevi James da quasi otto anni?”
Gli altri dipendenti li fissano imbarazzati e anche Bolton sembra preso
alla sprovvista, ma si riprende in fretta.
“James non avrebbe voluto chiudere il locale,” dice con un sorriso
storto.
“Ora devo preoccuparmi di quello che vuole Margareth…”
“Ah, e credi di farle un favore, chiudendo la sua unica fonte di
reddito? Sai quanti soldi perderà in due settimane?”
“Ora basta!” esplode Riggs. “Dio, David, perché deve sempre essere
così, con te? Il locale chiude, e noi risponderemo alle domande della
polizia. Se ci tieni tanto a riaprire presto, dammi una mano, invece di
far polemica!”
“No, decisamente le cose non sono migliorate, tra loro, negli ultimi
anni,” fa Lestrade e con un cenno invita Donovan ad alzarsi.
“Questo è l’Ispettore Lestrade, di New Scotland Yard,” lo presenta
Riggs, “e il Sergente Donovan,” aggiunge, con appena un attimo di
esitazione sul nome. “L’ufficio sul retro è il posto migliore, credo,
Ispettore, per sistemarvi…”
Lestrade annuisce: “A te l’ufficio, Donovan?”
“Sì, boss,” risponde lei facendosi avanti e facendo cenno al primo dei
camerieri di seguirla.
“Ora che la caffetteria è vuota possiamo anche parlare qui,” spiega
Lestrade a Riggs con un sorriso rassicurante.
L’ufficio del loro capo deceduto è il posto migliore dove Donovan possa
giocare al poliziotto cattivo e spaventare tutti come si deve. Il
locale accogliente è perfetto per Lestrade e la sua aria amichevole.
Ormai lui e Donovan sono una squadra ben collaudata: così dimezzano i
tempi, e se è il caso, basta loro un’occhiata per comunicare all’altro
che devono scambiarsi di posto alle costole di qualcuno.
Lestrade chiama l’altra cameriera.
“Mentre parliamo, signor Riggs, può farmi fare un giro del locale,”
suggerisce Lestrade.
Lui darà un’occhiata intorno, e la presenza di Riggs metterà a suo agio
la ragazzina. Lui e Donovan non hanno avuto bisogno neanche di un gesto
per concordare di lasciare Bolton per ultimo: i tipi collerici e
sanguigni non gestiscono bene le attese, di solito, e quando si
scaldano tengono meno a freno la lingua.
La deposizione della prima ragazza è priva di intoppi e completamente
inutile, Lestrade può dirlo dopo le prime domande. No, non conosceva
bene James Clarke. L’ultima volta che l’ha vista è stato lunedì,
martedì lei non lavorava, e no, non aveva mai pensato che potesse avere
dei nemici.
Lestrade passa al secondo cameriere mentre Donovan chiama la barista
che ha già parlato con lui e mentre il ragazzo (Tom qualcosa, meno male
che l’ha appuntato da qualche parte) risponde in maniera ancora più
irrilevante alle sue domande, Lestrade chiede a Riggs se possono vedere
l’entrata sul retro e la zona di carico del magazzino. Riggs li
accompagna fino al magazzino, poi Eve Banks viene a comunicargli che
Donovan vorrebbe chiarire qualcosa con lui e l’uomo rivolge uno sguardo
esitante a Lestrade.
“Nessun problema,” lo rassicura lui. “Io e Tom abbiamo quasi finito.”
Il cameriere lo fissa circospetto appena restano soli.
“La tua collega, Eve, mi ha accennato che il magazzino era affare del
signor Clarke e di David, al massimo…”
“Be’, sì. Riordinare il magazzino è lavoro extra, e di solito uno non
muore dalla voglia di farlo. Noioso e…faticoso. Una grana,” risponde
Tom Qualcosa, stringendosi nelle spalle.
“A David non dispiaceva, invece?” fa Lestrade, studiando il piccolo
locale dalla porta.
“Oh, si lamentava sempre, ma il signor Clarke non si faceva commuovere.
David si lamenta sempre di tutto,” aggiunge, scrollando di nuovo le
spalle.
“Ho visto,” mormora Lestrade. “Non si prende bene con Riggs, eh?”
Tom sbuffa divertito: “David non si prende bene quasi con nessuno.
Anche se non ha tutti i torti, stavolta: questa storia di chiudere il
locale…”
Lestrade sta valutando l’informazione, quando proprio David Bolton
passa dietro di loro diretto alla zona carico e scarico. Lestrade tende
l’orecchio e sente il beep-beep di un camion o di un furgone in
retromarcia.
“Uh, è arrivato Pete Latimer. Meglio che avverta il signor Riggs,” fa
Tom e al cenno affermativo di Lestrade torna alla caffetteria.
Lui invece si fa avanti discretamente, affacciandosi appena dalla
saracinesca.
Bolton e Latimer stanno discutendo animatamente ma a bassa voce.
“Cosa diavolo vuol dire, chiuso? La polizia ha chiuso il locale?” sente
Lestrade e vede Bolton scuotere la testa freneticamente: “Clive.”
“Ma che ci fa qui la polizia?!” insiste Latimer con rabbia.
“Io mi chiederei perché Clive ti ha chiesto di venire proprio quando ci
sono i detective…” ritorce Bolton.
Latimer ammutolisce e Lestrade è certo che Bolton prenderà un pugno, ma
l’uomo si volta e fa per risalire sul suo furgone, senza neanche aver
aperto il cassone. Riggs arriva in quel momento e si scusa ad alta voce
con Lestrade per essersi dovuto allontanare.
Lestrade impreca mentalmente e si ritira dalla saracinesca appena prima
che Bolton e Latimer si voltino di scatto in quella direzione. Fa un
paio di passi rapidi e silenziosi verso Riggs prima di rispondere ‘non
c’è problema’ con voce normale, per far credere ai due uomini nel
cortile interno di non essere stato così vicino da origliare, poi segue
Riggs e si palesa.
Latimer sembra paralizzato, e molto contrariato.
“Ispettore Lestrade, questo è Peter Latimer, uno dei nostri fornitori
storici,” lo presenta Riggs. “Scusa se ho insistito perché venissi,
Pete, ma dobbiamo parlare del futuro del locale.”
Latimer ha l’aria di chi preferirebbe essere a mille miglia di distanza
mentre borbotta un saluto. Anche Bolton fissa Lestrade con astio e
Lestrade decide che è il momento di parlare con lui.
Bolton lo segue senza proteste e mentre rientrano alla caffetteria, lui
tende ancora l’orecchio e si gira un istante a sbirciare Riggs e
Latimer. Il secondo uomo risponde a monosillabi al fiume di parole di
Riggs e ancora è palese che non vede l’ora di sparire.
Lestrade rallenta un poco, con la scusa di frugarsi le tasche alla
ricerca del cellulare, e lo studia ancora.
Ai piedi, Latimer calza pesanti scarponi antinfortunistici.
Note:
Un capitolo leggermente più lungo, con un sacco di personaggi buttati lì,
spero non sia stato troppo noioso!
Latimer è un nome che ho preso da Broadchurch (se non lo avevte visto
ve lo consiglio vivamente!) perchè ho scarsa fantasia: disturba che sia
un po' simile a Lestrade? Ci si confonde?
Ah, oggi al lavoro ho avuto il piacere di avere a che fare brevemente
con un bambino che poteva essere Rupert Graves a 11 anni!
Splendidi occhioni e capelli castani, carnagione dorata e dentoni per
un sorriso da folletto:) Lo condivido con voi, Mystrade shippers,
perchè so che capite quanto la cosa mi abbia messo di buon umore!XD
A presto!
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
“Guarda un po’, boss. Pare che Latimer abbia dei precedenti,” fa
Donovan, un paio di ore dopo allo Yard.
Lestrade alza la testa dai movimenti del conto corrente di James
Clarke, interessato: “Per?”
“Rissa aggravata,” risponde Donovan sollevando le sopracciglia con
significato, “e resistenza a pubblico ufficiale.”
Lestrade fischia piano: “quando?”
“Dodici anni fa. Neanche Bolton è un santo, però. Un paio di richiami
per disturbo della quiete pubblica. È stato fermato fuori da una
discoteca dopo dei disordini, qualche anno fa…” continua Donovan.
Lestrade riflette: dalla conversazione con Bolton non è emerso nulla
oltre una certa insofferenza per l’autorità, ma Lestrade deve ammettere
che Sherlock anche nei giorni migliori si comporta molto peggio.
“Due
persone potenzialmente violente nella sfera lavorativa di James
Clarke,” insiste Donovan, visto che Lestrade non risponde.
Lui si riscuote: “Anche Riggs era uno scapestrato. Magari a Clarke
piaceva dare seconde possibilità a soggetti a rischio. Dovremmo
parlarne con la moglie.” Aggrotta le sopracciglia: “C’è anche da dire,
però, che Clarke doveva parecchi soldi a Latimer…”
Donovan solleva di scatto lo sguardo dallo schermo del pc: “E che
aspettavi a dirlo?!”
Lestrade solleva una mano: “Temevo partissi in quarta come stai
facendo. Non siamo sicuri sia un movente: perché uccidere Clarke, e
rischiare che il locale chiudesse, se gli affari andavano bene?”
“Ah, ma era davvero così? Perché il prestito, allora?” persevera
Donovan.
“Quattro dipendenti, l’ampliamento della caffetteria…molte spese,”
replica Lestrade, mordendo la sua penna.
“Precedenti e un movente, boss. Che altro vuoi? Cos’è fuori posto,
ancora?”
“La ragazza,” risponde Lestrade senza esitare.
La ragazza è ancora un vicolo cieco che non sanno come inquadrare nella
faccenda. Ancora nessuna denuncia di scomparsa che sembri ricollegabile
a lei, nessuno dei dipendenti di Clarke ha dichiarato di riconoscerla
dalle foto.
Donovan sospira. “Hai le bambine, stasera?” domanda poi. “Bambine…”
ripete a mezza voce subito dopo, per sottolineare che non è più il
termine adatto.
Lestrade si sente improvvisamente vecchio di 1000 anni ed esausto.
“No, domani sera.” Dà un’occhiata all’ora e sospira frustrato: “Mi
aspetta una serata di scartoffie, a casa. Come se non fosse sufficiente
il lavoro d’ufficio.”
Come sia riuscito a mantenere il tono fermo parlando delle carte del
divorzio è un mistero anche per lui.
“Non mi dispiacerebbe andarmene a dormire a un’ora decente, stasera,”
fa Donovan senza commentare.
Lestrade ne è molto grato: “Possiamo anche andare, per me.”
“Posso prima organizzare la sorveglianza per Peter Latimer?” chiede
Donovan.
Lestrade manda un gemito tra il divertito e l’esasperato: “Ok. Come
vuoi.”
“Grazie.”
“Grazie a te, Sally.”
Lestrade firma tutte le autorizzazioni del caso e il suo Sergente si
prepara a rovinare la serata a un paio di agenti. La cosa lo fa sentire
solo marginalmente in colpa: ha perso il conto delle volte che il
lavoro ha rovinato i suoi piani per la serata; l’ultima è stata solo
mercoledì di quella settimana.
Lestrade rientra ancora una volta nel suo minuscolo appartamento vuoto,
la testa ancora piena del caso.
Il pensiero della ragazza lo tormenta. Tre giorni e neppure un nome. Ma
il giorno dopo è sabato, e Sherlock e John saranno tornati a Baker
Street, giusto? Non ha senso ignorare l’aiuto che può venire dal
consulente investigativo. E se pure il caso non fosse sufficientemente
interessante per gli standard di Sherlock, Lestrade è fiducioso di
riuscire almeno a strappargli qualche deduzione sulla ragazza: un po’
perché come
sia arrivata lì e perché l’assassino si sia preso il disturbo di
vuotarle le tasche (o meglio: cosa
di preciso aveva addosso che avrebbe potuto ricondurre a lui) è a tutti
gli effetti un puzzle di quelli che riescono a smuovere Sherlock; un
po’ perché nonostante tutti i suoi proclami di indifferenza verso gli
altri esseri umani, Sherlock prova compassione per il prossimo e l’idea
di un assassino a piede libero lo infastidisce tanto quanto ripugna
Lestrade; e infine, se davvero Lestrade ha visto giusto e Sherlock era
all’estero per conto di Mycroft, il più giovane degli Holmes potrebbe
essere propenso ad aiutare la Met anche solo per irritare il fratello
maggiore, facendolo aspettare senza motivo prima di rendere conto del
lavoro svolto (da quel che Lestrade ha capito negli ultimi anni,
Mycroft è tanto appassionato di debriefing quanto Sherlock sembra
offeso e oltraggiato alla prospettiva di soffermarsi su qualcosa che il
suo brillante cervello reputa concluso).
L’idea di poter contare sull’aiuto di Sherlock, o quantomeno di avere
ancora qualche carta da giocare, aiuta Lestrade a rilassarsi un poco.
Ride un po’ di se stesso al pensiero di aspettare con trepidazione un
viaggio a Baker Street: la dice lunga sulla sua rete di amicizie e
frequentazioni degli ultimi mesi.
Potrebbe persino incontrare Mycroft, a Baker Street, gli suggerisce
d’un tratto il suo cervello mentre mette il cellulare in carica sul
comodino della camera da letto. Il pensiero gli annoda lo stomaco e
immagini e ricordi di quel mercoledì pomeriggio gli affollano la mente,
mentre se ne sta seduto proprio dove ha spinto Mycroft sulla schiena e…
Le sue dita si contraggono senza pace sulla stoffa del suo completo da
lavoro e quel vago senso di trepidazione non si calma neppure quando si
cambia, indossando dei pantaloni di felpa e una maglietta. È eccitato e
imbarazzato allo stesso tempo: l’idea di masturbarsi ancora ripensando
a mercoledì pomeriggio gli appare un po’ patetica. Ma mai come il suo
comportamento quel giorno, appena prima della conferenza stampa,
precisa crudelmente la sua testa.
Lestrade chiude gli occhi arrossendo al pensiero.
“Cazzo,” gli sfugge di nuovo, a bassa voce.
Non ha resistito alla tentazione di raggiungere Mycroft, di parlare con
lui. E se quel mattino si è convinto (quasi) che è stato solo per
sincerarsi che le cose tra loro non fossero improvvisamente diventate
strane, ora la sua immaginazione gli offre frammenti di scenari
alternativi di lui e Mycroft sulle scale di servizio: Mycroft contro il
muro e Lestrade premuto su di lui, cartellina e ombrello in terra,
privi di importanza; la testa di Mycroft rivolta verso il basso perché
Lestrade possa baciarlo, le sue mani sulle sue spalle, e quelle di
Lestrade nella sua giacca, sotto il panciotto, a sentire il calore
della pelle attraverso la camicia azzurra.
Lestrade si alza di scatto scuotendo la testa e scuotendosi via da
dietro le palpebre chiuse quella ridicola fantasia. Torna in soggiorno
e accende la televisione per avere del rumore di sottofondo
nell’appartamento vuoto.
Che diavolo gli prende? Quello che più aveva apprezzato dell’incontro
con Mycroft (oltre al sesso, ovvio) era che non ci sarebbero state
conseguenze. E così era stato, no? Si erano visti quel mattino e
Mycroft era stato cortese, snob e inarrivabile come ogni altra volta
negli ultimi 5 (6?) anni.
Lestrade aveva apprezzato il principio di un incontro casuale destinato
a non ripetersi.
Tranne che…forse non avrebbe detto di no, a un’altra performance.
Non era poi tanto strano, no? È il problema del sesso: il corpo ne ha
bisogno regolarmente, quando si incomincia (o ricomincia, nel suo caso)
a farlo. E Lestrade è…be’, è solo, dannazione, e da mesi non dorme
accanto a qualcuno, dopo 15 anni di matrimonio. Davvero si è aspettato
che qualche scampolo di calore e attenzione non sottolineassero tutto
quello che ora manca nella sua vita? Che patetico idiota bastardo.
E se pure fosse in grado di avere una relazione sessuale senza
sviluppare una certa forma di attaccamento (come Becky. Ah, ah), dubita
che Mycroft sarebbe interessato. Lui sembra proprio il tipo che riesce
a mantenere il distacco necessario, e che non torna mai sui suoi passi.
Come probabilmente è giusto che sia.
È di Lestrade, il problema: è il divorzio che lo rende così emotivo,
avido di contatto e incapace di fiducia allo stesso tempo. Deve
prendersela comoda, lasciar passare le settimane e i mesi e affrontare
al meglio la cosa, per il bene delle bambine.
Sospirando, Lestrade si trascina in cucina. Pesca dal frigo una birra e
le carte dell’avvocato dal cassetto in cui le ha relegate da due
settimane. Stringe i denti e si mette al lavoro.
Ancora una volta l’universo ride delle speranze di Lestrade.
Ha osato avere delle aspettative sull’incontro con Sherlock a Baker
Street? Eppure avrebbe dovuto imparare, ormai.
“Non fa che deluderti,” lamenta sempre Donovan, ma la realtà è che
Sherlock ricorda a Lestrade quanto poco controllo lui abbia sul mondo:
la sua autorità, la sua responsabilità e il suo impegno non fanno presa
su Sherlock come sui membri della sua squadra, non più di quanto
farebbero presa sul temporale, non più di quanto impressionerebbero le
stagioni.
Lestrade ha aspettato che fossero le 10 passate, prima di bussare al
221b, immaginando che i due coinquilini potessero essere fuori gioco
per la stanchezza, prima. E John ha davvero l’aria di chi è sveglio da
poco e dopo una tazza di tè se ne tornerebbe volentieri a letto; mentre
Sherlock, Lestrade può dirlo subito, è di umore velenoso.
Se ne sta sulla sua poltrona in vestaglia, pizzicando con grazia le
corde del suo violino.
Mentre John gli augura il buongiorno e gli offre una tazza di tè,
Sherlock lo fulmina: “Sapevi che saremmo rientrati oggi.” Stringe gli
occhi, intento: “Sei preoccupato e non hai dormito a sufficienza negli
ultimi giorni: oltre alle solite noiose questioni personali che ti
spingono all’autocommiserazione, sei nel mezzo di un caso. Ma sono
giorni, come ho detto, e anche se non ne capisci nulla, vieni a
cercarmi solo oggi. Dopo le 10, per non svegliare John. Sapevi che eravamo
via.”
Lestrade stringe le labbra e inghiotte le prime parole che gli
affiorano dal cuore. Cosa non darebbe per una sigaretta, ora.
“Sì, lo sapevo.”
È anche arrivato sul tardi per avere il tempo di passare allo Yard,
spulciare le ultime denunce di scomparsa (inutilmente), recuperare le
foto e il fascicolo del caso per Sherlock e sopportare Donovan che lo
fissava scuotendo la testa con rimprovero, all’annuncio che sarebbe
venuto a Baker Street.
“Come
lo…oh, certo!” esclama Sherlock balzando via dalla poltrona a andando a
posare il violino.
Lestrade sorride appena della sua irritazione.
“Me l’ha detto Mycroft,” conferma. John gli allunga il suo tè. “Grazie,
amico.”
“E perché hai incontrato mio fratello, Lestrade?” lo interroga Sherlock
e Lestrade si blocca per una frazione di secondo, ricordando il panico
che lo aveva sopraffatto al pensiero che Sherlock scoprisse di lui e
Mycroft.
Come aveva detto, Mycroft? Che dopo quattro giorni il panico e il senso
di colpa non sarebbero stati così evidenti sulla sua faccia? Lestrade
può solo sperarlo.
“Sherlock, sei scortese e innecessariamente rumoroso,” lo rimprovera
John.
“John, devo sapere in che modo Mycroft si intromette nella mia vita!”
ribatte Sherlock e John sbuffa.
Sherlock torna alla carica: “Allora, Lestrade, dove vi siete visti? Ah,
ovviamente. In Tribunale,” si risponde da solo subito dopo.
John sospira: “Fa così perché Mycroft lo ha costretto ad accettare un
caso da lui, e poi è venuto a recuperarci all’aeroporto, così Sherlock
non ha potuto fare giochetti…Dio, Greg, non immagini cosa sono quei due
assieme, dopo un volo di 11 ore,” spiega e Lestrade si lascia sfuggire
un ghigno.
“Ne ho una vaga idea,” risponde a bassa voce.
Una volta si è ritrovato ad accettare un passaggio a casa da Mycroft
dopo che Sherlock era stato dimesso da due estenuanti giorni in
ospedale.
Sherlock fissa oltraggiato il suo coinquilino e Lestrade si concentra:
“Hai ragione, comunque. Ho un caso.”
Sherlock fa un gesto spazientito con la mano: “Certamente noioso. Lo
risolverai con un po’ di sano lavoro di polizia alla vecchia maniera.
Continua con l’ottimo lavoro,” conclude con indifferenza, afferrando il
laptop di John dal pavimento accanto alla poltrona.
Lestrade trattiene un ringhio spazientito.
“C’è un dettaglio che potrebbe interessarti, e non mi sembra che tu sia
occupato. Non stai neanche litigando con tuo fratello: stai solo
tenendo il broncio perchè stavolta ti ha fregato.”
Gli occhi di Sherlock lampeggiano pericolosamente, poi il consulente
investigativo ricompone una maschera di dignitosa indifferenza: “Non si
scaccia la noia con la noia, Lestrade.”
“Ma ti piace sempre dar sfogo alla noia sottolineando quanto sono
idiota e quanto sono fuori strada,” ribatte Lestrade buttandogli in
grembo le foto della scena del delitto.
Le dita di Sherlock fremono impercettibilmente sui tasti del laptop e i
suoi occhi abbandonano per una frazione di secondo lo schermo ancora
buio.
John fa un cenno discreto a Lestrade e si sposta verso la cucina.
Lestrade lo segue buttando un occhio a Sherlock.
“Dagli un minuto,” sussurra John. “Appena risolto un caso non c’è
niente di cui abbia più bisogno di un altro mistero…”
Lestrade scuote la testa: “Già. E, credici o no, ma è migliorato, da
quando ti conosce.”
John sorride: “Lo so.” Si tiene un attimo occupato col suo tè, poi
scruta Lestrade con attenzione: “E, a parte il caso…come vanno le cose,
Greg?”
Lestrade inspira a fondo, studiando il soffitto: “Bene, John.
Io…ovviamente è dura, ma…va bene. Stasera vedo le bambine.”
“Oh, grandioso.”
“Sì, non vedo l’ora.”
“Se una di queste sere ti va una pinta, fammi uno squillo, ok?”
“Ok, John. Grazie, ma non ti devi preoccupare, d’accordo?”
L’idea di avere il supporto e l’amicizia di John è piacevole, sulla
carta, ma il buon dottore (come lo chiama Mycroft) è davvero troppo
vicino a Sherlock, e aprirsi con lui a Lestrade sembra pericolosamente
simile ad offrire il fianco alle stoccate noncuranti di uno Sherlock
annoiato, e non è sicuro di poterlo sopportare, in questo momento.
Preferisce la presenza nervosa e poco pressante di Molly, se deve
scegliere, ma in realtà crede che la cosa migliore sarebbe cavarsela da
solo, farsi bastare la possibilità
dell’appoggio degli amici.
Fa un cenno del capo a John e beve il suo tè. Rientra in soggiorno e
cerca di non apparire troppo soddisfatto (o sollevato?) alla vista di
Sherlock che esamina le foto di James Clarke e della ragazza sulla
scena del delitto.
“Allora?” chiede ad alta voce.
Sherlock sbuffa, gettando le foto nel fascicolo e chiudendolo: “Come
dicevo. Noioso. Dovrebbe essere ovvio persino per voi.”
“Illuminami. Cosa puoi dirmi di loro?”
Sherlock unisce la punta delle dita e lo guarda. I suoi occhi
scintillano brevemente: “L’uomo ha più di 40 anni, 42 probabilmente, ma
ne dimostra qualcuno di più. Lavoro stressante, ma remunerativo…un
piccolo imprenditore. Indugiava col cibo ma non aveva altri vizi, non
fumava, nonostante il lavoro lo rendesse nervoso: guardate le unghie.
Forse il lavoro aveva a che fare col gusto, ma non ha le mani di un
cuoco…proprietario di una torrefazione, o di una caffetteria. Sposato
da tempo, niente figli, abitava a meno di un chilometro dal luogo in
cui è stato ucciso.” Sherlock scaglia un’occhiata penetrante a Lestrade.
“Sappiamo che è stato spostato,” lo anticipa lui.
“Meno male. Anche un incompetente come Anderson non avrebbe potuto
sbagliare, su questo…”
“Senti, Sherlock, sappiamo abbastanza di James Clarke. Pensiamo che
l’assassino sia qualcuno che lo conosceva per lavoro.”
“Ovviamente. Chi altro dovrebbe essere? Non aveva tresche.”
“Sul serio?” chiede Lestrade, con foga. “E la ragazza? Che puoi dirmi
della ragazza?”
“Che vuoi sapere?” fa Sherlock, con compiacenza.
“Tutto. Non riusciamo ad identificarla e a capire che legame avesse con
Clarke…”
Sherlock lo fissa con divertito disprezzo: “Davvero? Perché non provi a
dirmi quali sono le vostre ipotesi, Lestrade?”
Lestrade ringhia a bassa voce, prima di sputare fuori tutto quello che
sanno: “Afrolondinese, tra i 21 e i 24 anni, in salute a parte una
vecchia frattura al polso destro, sportiva.” Fa una piccola pausa.
Sherlock lo guarda, per niente impressionato.
“Conosceva l’assassino. Si è trattato di un delitto passionale: il
fidanzato, o il convivente…” continua con enfasi.
Sherlock non cambia espressione.
“Allora, Sherlock!”
Sherlock ha il coraggio di mandare un verso esasperato: “Sono tutte
cose che avreste dovuto capire alla prima occhiata! Dall’istante in cui
è risultato evidente che era un delitto passionale, cioè da subito,
anzi, da prima di subito: andiamo, l’assassino ha composto il corpo, le
ha coperto i capelli! Devi andare oltre, Lestrade, che altro?”
Lestrade alza le braccia al cielo, frustrato: “Non lo so!
L’assassino…non vuole che la identifichiamo perché ci ricondurrebbe a
lui…ma che ci faceva lei vicino a casa di Clarke? Come ci è arrivata?”
Sherlock sorride: “Ma noi sappiamo come ci è arrivata, Lestrade.”
“Cosa? No.”
“Hai detto che era sportiva.”
Lestrade ci pensa: “Molly. Ha detto che era in salute, e praticava
attività fisica regolarmente…”
“Che genere di attività fisica?” domanda Sherlock con tono
canzonatorio. “Molly Hooper non è senza speranza come Scotland Yard, ma
non è stata abbastanza precisa.”
“Cazzo, Sherlock, non lo so!” esplode Lestrade. “Nuoto? Zumba? Corsa?
Ci è arrivata di corsa, a…”
Si blocca nell’istante in cui capisce, ma Sherlock gli sta già
sventolando sotto gli occhi le foto fatte al Bart: un particolare dei
palmi delle mani.
“Vedi questo principio di calli? Portava i guanti, di solito, ma chi
usa la bicicletta come mezzo di trasporto abituale finisce sempre per
averli. Assieme alla frattura del polso…”
“È arrivata in bici,” constata Lestrade a bassa voce.
“Finalmente,” borbotta Sherlock.
“Non abbiamo trovato bici abbandonate,” continua Lestrade. “Qualcuno
può averla rubata, o…” Sherlock lo fissa come se fosse cretino. “…l’ha
presa l’assassino perché aveva qualcosa di riconoscibile, che ci
avrebbe aiutato a identificare la ragazza,” conclude lui, ignorandolo.
“Come può una bicicletta essere riconoscibile?” domanda John. “Credete
avesse il nome aerografato sulla canna?”
“Magari qualche adesivo…” gli risponde Lestrade soprappensiero.
Sta pensando alle riprese delle CCTV che hanno visto negli scorsi
giorni: si vedeva nessuno allontanarsi con una bicicletta?
“Grazie, Sherlock. Devo andare, adesso,” dice, avviandosi alla porta.
Passa la sua tazza a John con un mezzo sorriso e si blocca sulla soglia
del soggiorno: “Nessuna ipotesi sul perché fosse con James Clarke? Hai
detto che lui non aveva tresche…”
“Forse doveva parlare con lui,” replica Sherlock, il suo interesse già
evaporato.
“E di cosa?”
Sherlock lo guarda in tralice: “Lei conosceva l’assassino, Lestrade.
Forse sapeva quello che lui aveva in mente di fare. Dovrei vedere la
casa di Clarke per essere sicuro, e non voglia di farlo, ma c’è un 72%
di possibilità che sia andata a casa sua a cercarlo, e l’abbia seguito
al parco per avere l’occasione di parlargli. L’assassino non si
aspettava la sua presenza: l’ha uccisa, ma non era previsto. Se n’è
pentito, o vergognato. Ma ha comunque coperto le proprie tracce.”
“E tu sei d’accordo che l’assassino sia collegato alla sfera lavorativa
di Clarke…”
Sherlock fa una smorfia di dolore: “Non chiedermi anche di ripetermi,
Lestrade!”
“Ma nessuno dei dipendenti di Clarke ha dichiarato di conoscerla…”
Stavolta il tono di Sherlock è di incredulo sarcasmo: “E non è
possibile che qualcuno ti abbia mentito, Ispettore?”
Lestrade cerca di ripensare alle deposizioni prese alla caffetteria.
All’appello mancano ancora i vari fornitori di Clarke. Deve tornare in
ufficio.
Con un ultimo saluto e un ringraziamento agli inquilini di Baker
Street, Lestrade si congeda.
È al telefono con Donovan prima di arrivare in fondo alle scale:
“Prendi Davies e Tennyson, spulciate le deposizioni dei vicini di
Clarke, e controllate se qualcuno ha fatto cenno di un ciclista, uomo o
donna…la ragazza aveva una bicicletta. Quando arrivo ci piazziamo
davanti alle registrazioni delle CCTV e scopriamo se qualcuna ha
ripreso l’assassino che se la portava via…”
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
Quando Lestrade arriva allo Yard, Davies gli va incontro nel parcheggio.
“Ispettore, Tennyson e io stiamo tornando a Fulham. Pensavamo di rifare
il giro chiedendo espressamente di tutti i ciclisti che si sono mossi
quella sera, visto che dalle deposizioni non è saltato fuori un
granché.”
“È un’ottima idea, Davies,” gli risponde Lestrade colpito.
Il lavoro di polizia è così: si chiede e si fanno domande, e quando si
scopre quali sono le domande giuste si ricomincia da capo a chiedere. A
quanto pare la sua squadra ha afferrato il concetto e non si tira
indietro, davanti alla fatica e alle grane che questo comporta. Una
parte di lui osa sperare che sia grazie alla sua guida e al suo buon
esempio. Pessimo marito, ma buon capo? Può farselo bastare.
“Mi raccomando, cominciate dai vicini di casa di Clarke: pensiamo che
la ragazza l’avesse cercato per parlargli, forse qualcuno l’ha notata.
Donovan è avvertita? Chi sta dietro a Latimer, oggi?”
“Certo, signore. Weston e Bronson,” risponde Davies, “ma Donovan ha
detto che sareste passati voi due, da Latimer, anche…”
Lestrade annuisce: era in programma interrogare i fornitori di Clarke,
quel pomeriggio. Tanto vale cominciare dal cavallo favorito.
Appena è comodo nel suo ufficio, Donovan lo raggiunge con del caffè.
“Volevo prenderci del popcorn, anche, ma non fa bene a nessuno dei
due,” gli dice scrollando una spalla.
Passano il resto della mattinata a rivedere riprese sgranate di strade
uggiose e Lestrade viene di nuovo assalito prepotentemente dal
desiderio di fumare. È e sarà sempre frustrante: scoprire un frammento
del mosaico, lasciarsi prendere dall’eccitazione e poi non vedere
subito risultati o il collegamento successivo.
Dopo pranzo, Donovan spegne il video: “Questo è tutto, per ora.”
“Come, tutto? Non abbiamo richiesto le registrazioni delle vie
adiacenti il parco?”
“Sì, boss, ma lo abbiamo fatto giovedì dopo le 18, dopo essere tornati
dal Bart…non sono ancora disponibili. Oggi è sabato,” gli ricorda il
suo Sergente.
“Devo sollecitarli?”
Donovan ridacchia: “Li strapazzerai come Jeff?”
“Se serve…” brontola lui.
“Proviamo. Potremmo averle per quando torniamo dalle chiacchierate di
oggi,” replica Donovan, alzandosi e prendendo il suo soprabito come
Lestrade.
Lui si blocca: “Uh…se arrivassero per stasera…”
“Hai le bambine, è vero,” capisce al volo Donovan. “Be’, vorrà dire che
faremo una matinée.”
“Ti stai impegnando per venire domenica mattina?” le chiede Lestrade
con un mezzo sorriso.
Donovan si stringe nelle spalle: “Chissà, magari siamo fortunati:
Latimer si spaventa e stanotte Weston e Bronson lo beccano mentre cerca
di gettare una bici nel fiume.”
“Speriamo lo faccia dopo che avrò riaccompagnato a casa Vicky e Grace…”
Peter Latimer abita a una ventina di minuti dalla casa di Clarke e
Lestrade sa da Margareth Clarke che lui e James si conoscevano da una
vita (“Andavano al pub ogni tanto, dopo il lavoro…Pete è un vecchio
amico.”), ma il sabato, come molti altri contatti lavorativi di Clarke,
Latimer è impegnato, e Lestrade e Donovan lo raggiungono in un
magazzino alla periferia di Fulham.
L’uomo è impegnato a dare indicazioni a un paio di autisti con due
furgoncini come quello con cui lui si è presentato alla caffetteria.
Lestrade si guarda discretamente attorno. Nota Weston e Bronson nel
parcheggio del concessionario di fronte solo perché sa che ci sono (o
almeno lo spera) e si fa avanti estraendo il tesserino.
“Signor Latimer! Si ricorda di me?” lo saluta da lontano.
Peter Latimer si gira verso di loro e Lestrade aspetta l’ombra scura
nei suoi occhi o la contrazione delle spalle che gli diranno se Latimer
scatterà per fuggire. Ma la bocca dell’uomo si riduce a una linea
sottile ed è con cupa rassegnazione che fa entrare lui e Donovan in un
ufficetto con le pareti di vetro in un angolo del magazzino, facendo
sloggiare una segretaria.
“Sapevo che sareste venuti da me,” fa, sedendosi alla scrivania e
fissandoli con risentimento.
“Stiamo parlando con tutti quelli che lavoravano con James Clarke,”
risponde Lestrade educatamente.
“Ah, ma scommetto che io sono il primo, giusto? Vi ho sempre addosso,”
replica l’altro, incrociando le braccia.
“Siamo stati prima alla caffetteria, e il primo con cui abbiamo parlato
è stato Riggs,” interviene Donovan con un sorriso freddo.
“Perché pensava che le saremmo stati addosso, signor Latimer?” chiede
Lestrade.
“Per quella vecchia storia,” risponde Latimer. “Stockwell.”
“Si riferisce all’occasione in cui è stato arrestato e poi accusato di
rissa aggravata e resistenza a pubblico ufficiale?” domanda Donovan,
controllando il suo taccuino.
“Be’, sì. Viene sempre fuori, appena qualcosa è fuori posto.”
“Noi stiamo indagando sull’omicidio di James Clarke,” fa Donovan. “C’è
parecchio di ‘fuori posto’, a riguardo…”
Latimer si muove a disagio: “Certo…è…”
“Ci sono altri motivi per cui si aspettava che venissimo a parlarle,
signor Latimer?” chiede Lestrade quando l’uomo non continua.
Latimer sospira: “I soldi, immagino. Avevo prestato dei soldi a James
per ampliare il locale…preferiva non mettersi più, con le banche…e li
stavo ancora aspettando. Ma non è passato così tanto, so che per queste
cose ci va del tempo.”
“Quindi i rapporti tra lei e Clark non erano tesi…”
“No! No, sentite, non l’ho ucciso, se è questo che pensate, ok? Non
sono un santo, ma non ho mai ammazzato nessuno e James era un amico! E
perché avrei dovuto ucciderlo? Così la caffetteria è chiusa e io ci
rimetterò!”
“Ah, ma la decisione di chiudere il locale ha colto tutti di sorpresa,
non è vero?” incalza Lestrade. “Di sicuro i dipendenti non se lo
aspettavano…”
“Sono ragazzini, loro, che ne sanno. Io lavoro da una vita: ho già
visto posti di successo chiudere all’improvviso perché i proprietari si
ammalano, o hanno problemi di famiglia e non riescono più a gestire
consegne, pagamenti e il pubblico.” L’uomo scuote la testa: “Non avrei
avuto interesse, a uccidere James, ve lo giuro. Mi sarebbe piaciuto
diventare soci. Pensavo, se questo prestito si ripaga in tempi
ragionevoli, si potrebbe fare. James e io ne avevamo parlato, ma non
troppo sul serio, ancora. Non l’ho neanche detto a Clive Riggs.”
“Lo sapeva qualcuno?” domanda Lestrade prendendo appunti.
Latimer allarga le braccia: “Margareth, forse. James le diceva tutto.
Tranne quello che pensava l’avrebbe fatta preoccupare.”
“Dov’era mercoledì pomeriggio, dalle 17 alle 19?” butta lì Donovan.
Latimer la fissa e stringe le labbra: “Sono stato qui a lavorare fino
alle 18 circa…poi sono andato a casa. Chiedete a mia moglie.”
“Lo faremo,” sorride di nuovo Donovan.
“Le dispiace se diamo un’occhiata in giro, signor Latimer?” fa Lestrade.
“Se dico di no mi ritroverò l’ispettorato del lavoro e quelli della
sicurezza antincendio dietro la porta per un controllo a sorpresa?”
risponde l’uomo, secco.
“Facciamo il nostro lavoro, signor Latimer. Non siamo qui per
intimidirla,” replica Lestrade.
“Al diavolo. Fate come vi pare. Io torno a lavorare.”
Lestrade e Donovan procedono a una rapida ispezione del magazzino,
ancora una volta sotto gli occhi curiosi e apprensivi dei dipendenti.
Se ne vanno poco dopo senza aver trovato tracce di una bicicletta o di
scarponi insanguinati.
“Al prossimo della lista?”
“Pronti.”
“Weston e Bronson restano?”
“Eccome.”
“Papà!”
Lestrade si abbassa e si lascia stritolare dalle braccia di Grace,
mentre i suoi occhiali da vista viola gli affondano nella guancia.
Grace gli si appende al collo e strofina il naso contro il suo: “Mi sei
mancato tantissimo…”
“Lo so, topolino, mi dispiace,” mormora lui, vergognandosi come un
ladro. “Anche voi mi siete mancate.”
Vicky è più composta, e il piccolo bacio sulla guancia che Lestrade
riceve sa di concessione, ma Vicky ha dodici anni, ha il viso sottile
di sua madre e comincia ad avere un proprio stile nel vestire, e suo
padre non è più autorizzato a tenerla per mano per la strada già da
tempo.
Lei è anche più silenziosa, quella sera, mentre Grace non smette un
attimo di chiacchierare, delle compagne di scuola, della gita del
giorno prima, del corso di pattinaggio, la mano paffuta stretta in
quella di Lestrade.
Grace ha nove anni ed è troppo grande per stare in braccio, ma la metro
è affollata a quando la sua bambina lo spinge a sedere e gli si
arrampica sulle ginocchia, Lestrade la lascia fare, felice, sollevato e
confortato dall’avere le sue bambine vicine e di buon umore.
Vicky è in piedi davanti a loro e prende blandamente in giro la
sorella: “Sei appiccicosa!”
“Non è vero!”
“Papà, ammettilo, è appiccicosa.”
“A papà non dà fastidio!”
Continuano a battibeccare mentre scendono alla fermata di Waterloo.
“È vero, perché dovrebbe darmi fastidio? Anche io sono appiccicoso,”
replica Lestrade. “Facciamo vedere a tua sorella quanto possiamo essere
appiccicosi in due?” chiede a Grace strizzando un occhio, e in un
attimo avviluppano Vicky tra le braccia, blaterando melensaggini.
Vicky protesta che la faranno vergognare a morte e li respinge cercando
di non ridere.
Hanno in programma di cenare in centro con cibo spazzatura e bibite
giganti e poi di andare al cinema. Non ha senso portare le bambine (o
ha ragione Donovan e dovrebbe chiamarle ragazze, ormai?) da lui, nel
suo minuscolo appartamento, quando non possono fermarsi a dormire
perché lui il giorno dopo deve andare a lavorare e Grace ha il suo
torneo.
E in ogni caso, Lestrade non è per niente convinto che il suo
appartamento sia adatto a Vicky e Grace: è grigio, triste e troppo
piccolo per tre persone. Lestrade sa che trasuda disperazione e
solitudine, e ha il terrore che Vicky sia già abbastanza grande da
percepirlo. Grace non ha afferrato del tutto quello che è successo tra
lui e sua madre, ma Vicky…diverse sue amiche e amici hanno genitori
divorziati e probabilmente ha idea che il futuro davanti a loro non è
proprio roseo. Lestrade vuole evitare qualunque situazione che glielo
possa confermare, tanto a lungo quanto potrà.
Quindi cenano in un rumoroso ristorante affollato di ragazzini, e
guardano un film fantasy che ha messo d’accordo sia Vicky che Grace, e
cercano di passare quattro ore senza pensieri.
Una volta usciti dal cinema è ora di incamminarsi verso casa. Ha
piovuto, nel corso della serata, e strade, insegne e semafori sono
luccicanti d’acqua.
Il film ha entusiasmato Grace che cammina spedita, quasi saltellando,
parlando a macchinetta, due passi avanti a suo padre e a sua sorella;
ogni pochi secondi si volta verso di loro, camminando all’indietro, per
essere sicura che la ascoltino. La sua smania di contatto si è placata,
nel corso della serata, e non cerca più la mano di Lestrade.
In compenso, Vicky si è fatta ancora più silenziosa e durante l’ultimo
tratto a piedi prima di arrivare a casa prende Lestrade a braccetto.
Lui teme che al momento di salutarsi ci saranno lacrime. Teme ancora di
più che non poche saranno sue.
“Entrerai in casa, stavolta?” gli chiede Vicky, guardando avanti.
Lestrade inspira: “Meglio di no, tesoro.”
Non sopporta l’idea di entrare in quella che era casa sua. Il pensiero
non lo rende malinconico, non lo colma di rimpianto: lo fa ribollire di
rabbia. Becky lo sa, ed è più che d’accordo a mantenere rapporti civili
con un po’ di distanza, tra loro. Su questo, Lestrade non crede si
troveranno mai in disaccordo.
Saluta le bambine dopo aver suonato il citofono e in effetti Grace
piange un poco (lui si trattiene con uno sforzo), finché Vicky le
promette di prestarle un qualche oggetto sacro e intoccabile che le
appartiene, e che su sua sorella esercita lo stesso fascino del Sacro
Graal.
Mentre loro entrano in casa, Becky si affaccia alla porta: “Ciao, Greg.”
Lestrade fa un rigido cenno col mento: “Ciao…”
Becky si guarda alle spalle, controllando le ragazze, poi lo fissa:
“Hai…”
“Ho letto i documenti,” la anticipa lui.
Becky stringe le labbra e annuisce: “Ok. Bene. C’è qualcosa che non ti
sta bene, o…”
“In generale direi che può andare. Ma lunedì vado dall’avvocato, e ti
farà avere notizie lui,” risponde Lestrade.
Gira sui tacchi e se ne va.
Non appena Donovan entra nel suo ufficio e posa il caffè, Lestrade le
lancia un pacchetto di popcorn dolce.
Lei sbuffa dal naso, divertita: “Siete stati al cinema?”
“Già. Le…ragazze ti salutano.”
“Solo per me? E tu, boss?” chiede Donovan accomodandosi, mentre
Lestrade si prepara a far partire le registrazioni delle CCTV.
Lui fa un verso disgustato: “Il mio stomaco è ancora in rivolta dalla
cena di ieri sera.”
E probabilmente dai quattro cerotti alla nicotina che ha usato nelle
ultime dodici ore. Il suo cervello gli ricorda la breve conversazione
con Becky e che ora deve trovarsi un avvocato, ma Lestrade soffoca il
pensiero.
Osserva con terrorizzato disgusto Donovan che effettivamente apre i
popcorn e comincia a mangiare.
“Che c’è? Ho saltato la colazione, va bene?” fa lei con la bocca piena.
Lestrade rabbrividisce nel suo caffè: “E hai il coraggio di dire a me
che dovrei mangiare più sano…”
Sono a metà del secondo caffè e delle registrazioni, quando Donovan lo
indica.
Lestrade lo ha già notato, un microsecondo prima che lei si muovesse:
“Sì.”
Si sporgono entrambi verso lo schermo e osservano la figura che spinge
una bicicletta nell’angolo delle riprese.
È scura e massiccia e sembra infagottata dalla testa ai piedi in un
mantello nero.
“Cosa cavolo ha addosso?” esclama Donovan mettendo in pausa.
“Un impermeabile?” suggerisce Lestrade. “Quelle mantelle antipioggia…”
A Donovan suona un campanello: “Tennyson e Davies…” comincia, frugando
tra le deposizioni raccolte il giorno prima: “Hanno detto che nessuno
ha visto bici, ma una dei vicini dei Clarke ha parlato di qualcuno con
uno di quei k-way per i motorini o le biciclette…”
“La mantella è della ragazza…il bastardo è stato anche fortunato, ha
trovato il modo di coprire il sangue sui vestiti…” commenta Lestrade,
leggendo il paragrafo che Donovan gli indica.
“Già. Ma guarda: gli scopre i piedi,” indica lei. “Ti sembrano
scarponi?”
Lestrade osserva con attenzione: “Mi sembrano scarpe
antinfortunistiche…”
“Potrebbe essere Latimer?”
“Nah, non so dirlo.”
La figura è curva sul manubrio della bicicletta e la mantella
antipioggia rende impossibile farsi un’idea della sua corporatura.
“Vediamo dov’è andato,” propone Lestrade.
Se sono fortunati, vedranno la figura caricare la bicicletta nel
bagagliaio di un’auto, e con modello e numero di targa arresteranno il
bastardo prima di pranzo. Ma non sono fortunati: la figura, un uomo, su
quello non c’è dubbio, si infila in un’area residenziale mentre la
pioggia si intensifica.
“Niente telecamere, in quella via,” controlla Donovan. “Dannazione!”
“Diamo un’occhiata alla bici,” ordina Lestrade. “Se Sherlock ha
ragione, l’assassino l’ha presa perché ci avrebbe portati alla ragazza.”
La marca è ben visibile, ma una rapida ricerca su internet rivela che è
un modello di fascia medio-bassa, e parecchio diffuso. Anche se la
usava tutti i giorni, la ragazza non era così fissata con i modelli
professionali, o non poteva permettersi di meglio.
“Hai notato quell’adesivo sulle borse?”
La bici ha un paio di bisacce impermeabili appese alla canna, comode
per metterci la spesa o dei libri, se la ragazza frequentava
l’università. Se fosse l’adesivo di un campus, o di un community
college…se si potesse scorrere un elenco degli studenti…
Lestrade si fa quasi cadere gli occhi, poi geme frustrato: “Riesci a
distinguere qualcosa?”
Donovan, nonostante gli occhi buoni, non ha molta più fortuna: “La
prima lettera sembra una I…Ic? E nella seconda parola c’è una doppia O…”
“Uhm…’Look’?” suggerisce Lestrade. “‘Cook’? Forse faceva consegne per
un ristorante, o…”
“Se non si fosse presentata al lavoro, qualcuno avrebbe contattato la
polizia. Sono passati quattro giorni, ormai,” gli ricorda Donovan.
Riflette ancora, fissando l’adesivo indecifrabile. “‘Books’?” prova poi.
Lestrade sospira: “Fai qualche ricerca, vediamo se salta fuori
qualcosa. Chi c’è con Latimer?”
“Due uomini di Dimmock. Weston e Bronson erano stremati, e Davies e
Tennyson ho pensato potessero servirci qui.”
Lestrade fa una smorfia al pensiero del favore che dovrà a Dimmock.
Quasi certamente però lo dovrà ripagare aiutando l’altro Ispettore a
gestire Sherlock, e quella è una cosa che gli riesce bene. Ok, gli
riesce. Quasi sempre.
Ritorna al pensiero che lo ha spinto a chiedere di Latimer: “Ha detto
che nessuno sapeva che era interessato a diventare socio di Clarke, che
non lo sapeva neppure Riggs…”
“Quindi?”
“Mi domando se sia vero,” continua Lestrade.
“Vuoi chiederlo a Riggs?”
“Perché no?” risponde Lestrade, prendendo il telefono.
“Lo fai venire qui?” domanda Donovan e lui scuote la testa: “Nah.
Preferirei andare a casa dei Clarke, forse mi verrà in mente qualcosa
da chiedere anche alla signora Clarke.”
Riggs risponde dopo diversi squilli, ed è alla caffetteria.
“Stiamo sistemando un po’ di cose, controllando che in magazzino non ci
sia niente di deperibile aperto, preparando un inventario…” L’uomo
sospira: “Credo che Margareth deciderà di vendere.”
“C’è una cosa che vorrei chiederle, signor Riggs,” fa Lestrade. Meglio
ancora se Riggs è alla caffetteria: magari tra i documenti di Clarke
c’è qualche appunto su Latimer che è sfuggito ai primi controlli.
“Posso raggiungerla?”
“Naturalmente, Ispettore.”
“Potrei farcela in una ventina di minuti,” gli comunica Lestrade e
attacca. “Io vado, Donovan.” Si alza e recupera il soprabito. “Come
procede?”
Donovan scrolla le spalle: “Una miriade di esercizi commerciali con la
parola ‘cook’ nel nome, ovviamente. Un ‘Icarus Look’, che è un negozio
di costumi…ma sono solo all’inizio.”
“Le borse sulla bici sono bordeaux, la scritta bianca,” le fa notare
Lestrade, sistemandosi il colletto. “Guarda i loghi con gli stessi
colori, anche.”
“Ok, boss. Ti porti qualcuno?”
“Perché no? Magari Tennyson. Davies può aiutarti nelle ricerche…”
Lestrade e Tennyson lasciano lo Yard cinque minuti dopo, mentre
l’agente gli riassume i risultati dei loro sforzi il giorno prima con i
vicini di Clarke, anche se lui ha già scorso le deposizioni. Risentirle
e permettere a Tennyson di ragionare ad alta voce magari aiuterà uno di
loro a notare qualcosa o a fare un collegamento, ma se anche non fosse
così è un buon esercizio per Tennyson: può aiutarlo a distinguere
particolari importanti e dati irrilevanti (nonostante Sherlock sostenga
che non esiste niente di irrilevante, le persona dotate di capacità di
concentrazione nella media hanno necessità di filtrare le
informazioni), ed è sempre un buon allenamento, ripassare i
procedimenti di acquisizione delle prove di cui si dovrà rendere conto
davanti a una corte, forse.
Lestrade coglie anche l’occasione per dire a Tennyson (e poi lo dirà al
resto della squadra) quanto il loro impegno degli ultimi giorni sia
apprezzato. Sa quanto sia importante il morale della squadra, e sa di
essere stato pesante, negli ultimi meni. Ha perso la pazienza per
nulla, ha costretto tutti ad orari massacranti perché lui avrebbe dato
qualunque cosa per non dover andare a casa o per avere una scusa per
non rispondere al telefono e parlare con Becky.
Di sicuro non può promettere che non succederà ancora, perché Lestrade
non sta notando grandi miglioramenti nel suo umore (anche se si sforza.
Parecchio. Come dicono? ‘Fingi finché non diventa vero’?), ma il fatto
che i suoi colleghi siano venuti in massa al lavoro nel weekend senza
poteste lo riempie di soddisfazione, ed è giusto che loro lo sappiano.
Lestrade non arriverà a scusarsi
del suo comportamento, del fatto che è ferito e umiliato e solo, non
intende scusarsi per essere in difficoltà a gestire la propria vita.
Certo, se fosse un uomo migliore o più capace di mantenere il distacco,
non farebbe scontare i suoi problemi ai suoi sottoposti, ma il cielo sa
che non è perfetto, e non ha mai cercato di farlo credere a nessuno.
‘Al contrario di qualcun altro’, sorride tra sé quando la sua mente gli
propone un’immagine di Mycroft, del suo aspetto immacolato e freddo,
delle sue comparsate accuratamente orchestrate.
Non che neppure Mycroft sia perfetto: fa scontare la sua preoccupazione
per Sherlock a diversi malcapitati, che prima o poi finiscono rapiti da
qualche macchina scura.
“Grazie, Ispettore,” risponde Tennyson, e strappa Lestrade alla
tangente dei suoi pensieri.
“Era una cosa da dire,” replica lui, scrollando le spalle.
Donovan gli telefona mentre scendono dalla macchina.
“Una cosa promettente, boss,” comincia, la voce soffocata da un fruscio
di stoffa. Si sta probabilmente infilando il soprabito. “Un negozio di
libri, vicino a Beaufort Street, che si chiama Ichabod Books. Sul sito
c’è una foto della facciata e l’insegna è bordeaux…”
“Vale la pena controllare,” concorda Lestrade, facendo cenno a Tennyson
di seguirlo, e si incammina verso la caffetteria.
“E non hai sentito il meglio: l’anno scorso, per un breve periodo sotto
le feste, hanno avuto un sistema di consegne in bicicletta,” continua
Donovan. Lestrade sente i suoi tacchi mentre si affretta al garage.
“Stiamo andando a controllare.”
“È fantastico, Donovan! Tienimi informato, vuoi? Noi siamo appena
arrivati alla caffetteria.”
“Appena ho novità chiamo.”
Lestrade attacca e informa brevemente il suo agente, a cui brillano gli
occhi: “Non dovremmo raggiungere Donovan e Davies?”
Lestrade ci pensa un istante.
“Meglio di no. Non ha senso andarci in quattro. Concentriamoci su
Riggs, Latimer e un possibile movente per l’omicidio Clarke, e lasciamo
che Donovan e Davies identifichino la ragazza, se ci riescono.”
E in ogni caso, se Donovan pensasse che Lestrade non si fida di lei per
fare domande e mostrare la foto della ragazza, il loro rapporto
lavorativo avrebbe vita breve.
Visto che Riggs ha detto di trovarsi in magazzino, e visto che Lestrade
non ancora avuto modo di esaminare l’entrata posteriore del locale, lui
e Tennyson fanno il giro lungo e raggiungono la zona di carico e
scarico. Lestrade nota la macchina di Riggs e sente delle voci.
“Lì, sulla destra…fa attenzione, per favore…”
Avvicinandosi, lui e Tennyson riescono a vedere Riggs che si china a
richiudere uno scatolone scuotendo la testa, mentre dall’interno arriva
qualche parola aspra.
“Oh, Ispettore…avete fatto in fretta,” li saluta Riggs raddrizzandosi.
“Signor Riggs…si ricorda l’agente Tennyson?” domanda Lestrade.
La persona con cui Riggs parlava è David Bolton, che si immobilizza
alla loro vista.
“Signor Bolton,” continua Lestrade.
“Che ci fate, qui?” domanda Bolton.
“Ah, mi è passato di mente…ero al telefono con l’Ispettore, prima,”
interviene Riggs con un’occhiataccia all’altro uomo e un nuovo
scuotimento della testa rivolto a Lestrade. “Accomodatevi, prego.
Vogliamo andare in ufficio?”
“No, non è necessario,” lo frena Lestrade con un sorriso. “Devo solo
farle qualche altra domanda. Non è male che ci sia anche il signor
Bolton: forse potrà esserci utile.”
Riggs aveva parlato al plurale e aveva nominato Margareth Clarke, al
telefono, poco prima, e Lestrade aveva dato per scontato che avrebbe
trovato lei, alla caffetteria. Non Bolton. Lestrade lo studia con
attenzione: il ragazzo sembra non poco contrariato di vederli lì.
“Sicuro. Di cosa voleva parlare, Ispettore?” chiede Riggs.
“Riguarda Peter Latimer,” comincia Lestrade, mentre Tennyson tira fuori
il bloc notes.
Bolton stringe le labbra e poi dà di nuovo le spalle a tutti: “Fatemi
mettere giù s’sta roba. Pesa un quintale.”
“Ti do una mano…”
“Ce la faccio.”
“Be’, fai attenzione!” ripete Riggs. “E devi ancora spiegarmi dove sono
finite le tue scarpe da lavoro: James sarebbe impazzito a sapere che
sei venuto a lavorare in magazzino con le scarpe da ginnastica.”
Tennyson ha un’infinitesimale esitazione: si irrigidisce accanto a
Lestrade e lo sbircia con la coda dell’occhio.
“Il signor Clarke era molto attento alla sicurezza?” domanda Lestrade,
soave.
Muove qualche passo all’interno del magazzino.
“James? Fissato: tutti i dipendenti dovevano indossare calzature e
abbigliamento idonei,” sorride Riggs. “Ma non sapete quanto sono felice
di aver preso le buone abitudini da lui.” Abbassa lo sguardo sui suoi
piedi: “Questi sono i suoi scarponi, in effetti. Margareth mi ha
giurato che non le dispiaceva prestarmeli, oggi, ma…Oh, scusate, avete
chiesto di Pete?”
Lestrade annuisce: “Latimer ci ha detto di aver parlato al signor
Clarke della possibilità di diventare soci…Qualcuno ne sapeva qualcosa?”
Riggs sbatte le palpebre: “Cavolo, no. Era da un paio di mesi che non
parlavo con James, prima di…be’…e Pete non mi ha detto niente negli
scorsi giorni.”
“Mmh. E lei, signor Bolton? Aveva sentito qualcosa, di questa storia?”
chiede Lestrade.
Bolton scuote la testa, rigido.
“Per come conoscevate il signor Clarke-James-vi sembra possibile, che
volesse lavorare ancora più a stretto contatto con Latimer?” continua
Lestrade.
Riggs comincia a parlare e a metà della sua risposta il cellulare di
Lestrade suona di nuovo. Gesticola a Tennyson di continuare e si sposta
verso la porta che conduce alla caffetteria. È Donovan.
“Lestrade.”
“La ragazza si chiamava Kala Jawanda, ha lavorato per la Ichabod Books
per circa sei mesi, da settembre a gennaio. Le hanno lasciato tenere le
borse per la bici perché era una ragazza amabile, e faceva pubblicità
alla libreria,” dice Donovan senza quasi prendere fiato.
Lestrade avverte un fiotto di eccitazione inondargli il petto. Vorrebbe
gridare ‘l’hai trovata, cristo, l’hai trovata!’, invece dà una vaga
occhiata verso Tennyson, che sta continuando a interrogare Riggs e
borbotta un ‘mhmm’ poco convinto.
Bolton si è un po’ allontanato dagli altri due uomini e Lestrade d’un
tratto è certo che stia origliando la sua conversazione.
“Ben fatto, Donovan. Che altro?” aggiunge.
“Stiamo tornando allo Yard,” continua lei. “La proprietaria della
libreria non ricorda molto di più-sta cercando di rintracciare una
ragazza che ha lavorato lì gomito a gomito con Kala che ci possa dire
altro-ma si ricorda che Kala aveva un fidanzato. Appena un po’ più
grande.”
“Si ricorda il nome?” le chiede Lestrade con calma, senza staccare gli
occhi da Bolton.
Il ragazzo lo guarda a sua volta.
“Le sembra fosse David,” ansima Donovan, accelerando il passo.
“Muoviti, Davies!”
“Perché non ci raggiungete qui?” fa Lestrade e Bolton sbarra gli occhi
e si lecca le labbra.
Donovan resta un attimo in silenzio. “Ricevuto, boss,” risponde poi, e
attacca.
Lestrade sorride.
“Scusate,” dice, ma si rivolge solo a Bolton. “Di che parlavamo? Ah,
sì: del fatto che Clarke stava pensando di prendersi Latimer, come
socio, e di come tu non ne sapessi niente, David-posso chiamarti David,
vero? - nonostante lavorassi con lui da più tempo di tutti gli altri,
almeno da tanto quanto Latimer…e nonostante passassi un sacco di tempo
qui alla caffetteria.” Lestrade sorride ancora, avvicinandosi a Bolton.
“I tuoi colleghi mi hanno detto che venivi quasi sempre tu, a dare una
mano a Clarke col magazzino, quindi è un po’ strano che tu abbia
dimenticato le scarpe antinfortunistiche…”
“Le…le ho perse,” risponde Bolton, rigido.
Riggs e Tennyson li fissano.
“Le hai perse? O le hai buttate?” incalza Lestrade. “Chissà se hai
provato a lavarle, prima…”
“Ispettore? Che succede?” domanda Riggs.
“Temo che dovremo spostare la conversazione altrove, signor Riggs” gli
risponde Lestrade.
“Non so di cosa cazzo parli,” ringhia Bolton.
Occhieggia la porta alle spalle di Lestrade.
“È una pessima idea, amico.”
Bolton scatta nella direzione opposta, verso la saracinesca del
magazzino. Spintona via Riggs e cerca di guadagnare il cortile
posteriore, e di lì la strada.
Ma Tennyson appare sulla sua traiettoria e lo placca come un
professionista.
Lestrade decide che alla prossima partita di rugby in cui lo
incastrano, si porterà Tennyson. Poi anche lui si abbatte su di loro, e
Bolton è immobilizzato a terra.
Note:
Un capitolo bello lungo! Ma è perchè siamo in dirittura d'arrivo, il
prossimo sarà l'ultimo capitolo della storia, in cui si tirano un po' i
fili di tutta la faccenda...
Per ora qualcuno ha domande o è tutto comprensibile?
A presto!
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7
“Naturalmente non siete riusciti ad aspettarci, o ad arrestare il
sospetto senza scenate,” fa Donovan roteando gli occhi, mentre Lestrade
si massaggia il collo e butta giù in fretta un po’ d’acqua.
“Ha provato a fuggire, Donovan. Lo avresti atterrato anche tu.”
“Umph! Pronto?”
Lestrade annuisce deciso: “Pronto.”
“Cosa vogliamo?”
“Tutto.”
Entrano nella stanza degli interrogatori.
Bolton e l’avvocato d’ufficio smettono di parlare. L’uomo non ha l’aria
soddisfatta dall’atteggiamento del suo cliente, quando Lestrade lo
saluta e sbrigano le formalità necessarie. Donovan fa partire la
registrazione dell’interrogatorio.
“Ok, cominciamo. Conosci i tuoi diritti, David, e il tuo avvocato ti ha
sicuramente ribadito che non sei obbligato a rispondere alle nostre
domande, ma se vuoi un consiglio spassionato, io credo proprio che ti
convenga farlo,” comincia Lestrade. “Perché abbiamo richiesto un
mandato per perquisire il tuo appartamento e la tua macchina, e se
anche ti sei sbarazzato della bici e degli scarponi che indossavi
mercoledì sera, quelli che avevi ai piedi mentre infierivi sul viso di
James Clarke, sfondandogli il cranio, be’, sono sicuro che qualche
traccia di sangue sui tappetini o nel bagagliaio della tua macchina è
rimasta di sicuro. Se non ne troveremo lì, forse saremo più fortunati
col filtro della tua lavatrice, che ne pensi?”
“Non so di che cazzo parli, te l’ho già detto,” risponde Bolton a denti
stretti.
“Ispettore, credo che dovremmo fare un passo indietro, prima di parlare
di macchie di sangue ancora da rinvenire,” interviene l’avvocato.
“Molto bene. Allora, dall’inizio: signor Bolton, conosceva Kala
Jawanda?” domanda Lestrade scrollando le spalle.
Lui non ha altri impegni o altri pensieri, e se preferiscono fargli
fare il Tenente Colombo, facendogli fare domande di cui conosce già la
risposta, allora starà al gioco. Lui e Donovan avranno una confessione.
Ci vogliono ore.
Bolton non ammette di conoscere Kala Jawanda prima che Tennyson e
Davies portino una deposizione raccolta a tempo di record da
un’ex-collega della ragazza alla libreria: contiene il nome proprio di
Bolton e una sua descrizione piuttosto fedele.
“‘Non so da quanto si conoscessero, ma vivevano assieme. Kala diceva
sempre cose come ‘vado a casa da Dave’ o quando lui chiamava gli
chiedeva a che ora sarebbe tornato a casa, quindi…’” legge ad alta voce
Donovan.
Sul movente non riescono a smuoverlo, nonostante Lestrade e Donovan si
alternino alla ricostruzione dei fatti ancora e ancora.
“Quindi Clarke e Latimer volevano diventare soci…ma non hanno chiesto a
te di essere il terzo. Ingiusto, vero? Io sarei stato furioso…”
“Eri geloso di Latimer come eri geloso di Riggs, ai tempi del vecchio
locale. Poi finalmente Riggs si toglie dai piedi, Clarke apre la nuova
caffetteria, e ti preferisce ancora qualcun altro!”
“Dopo tutto quello che facevi per lui…lavoravi col pubblico, gestivi il
magazzino…eri l’unico a dirgli le cose in faccia, l’unico che non si
nascondeva dietro un dito…e lui…”
Non vanno da nessuna parte.
Lestrade e Donovan si scambiano un’occhiata fosca e Lestrade fa portare
dell’acqua per tutti.
Donovan esce un minuto e Lestrade lascia che Bolton e il suo avvocato
si godano qualche secondo di silenzio.
“Non ti importava niente di James Clarke,” fa, alla fine, appoggiato
allo schienale della scomoda sedia di metallo. Fissa il soffitto.
“Riggs dice che eravate amici, o comunque vicini, ma non è vero,
giusto? Era il tuo capo e basta, non andavate d’accordo, ti faceva
infuriare la maggior parte del tempo e quando c’è stata l’occasione di
dimostrarti un po’ di apprezzamento, niente. Preferiva Latimer.”
“Ispettore…” sospira stancamente l’avvocato, ma Lestrade lo ignora.
“Lo capisco. Che fossi così arrabbiato da volergli fare del male, che
tu sia andato da lui per affrontarlo e l’abbia ucciso.”
“Non l’ho ucciso io,” risponde Bolton, pronto.
Donovan rientra e si siede senza una parola. Lestrade fa un gesto con
la mano, alle parole di Bolton, come a dire che non è importante.
“Davvero, chiunque nelle giuste condizioni potrebbe pensare di uccidere
il proprio capo,” continua. “Ma Kala?
Perché uccidere Kala?”
Allarga le braccia e guarda Bolton, perso. A Bolton tremano le labbra.
“Perché lo hai dovuto fare, David?”
“Non le avrei mai fatto del male,” mormora Bolton, abbassando lo
sguardo. “Io l’amavo.”
“Lo so. Lo so che l’amavi. So che le dicevi tutto, so che sapeva quanto
Clarke ti facesse impazzire, e cercava lo stesso di calmarti, vero? Ed
era preoccupata: era troppo buona e si preoccupava anche per quello
stronzo di Clarke. Per questo era andata da lui, la sera che tu volevi
affrontarlo. Magari non voleva che tu facessi stupidaggini. Lo so che
l’amavi,” ripete Lestrade. “Come so che ti senti in colpa per averle
fatto del male. Hai perso il controllo, non sapevi quello che facevi.
Sei quasi impazzito dal dolore, quando te ne sei reso conto…”
“Io…io…” Bolton deglutisce e non continua.
“L’amavi e non volevi lasciarla lì, sdraiata nel fango. I suoi
bellissimi capelli sporchi di fango…”
“Basta…” sussurra Bolton. “Non volevo farle del male…”
“Se l’amavi e non volevi farle del male, perché è morta, David?”
“Non è stata colpa mia!”
“Di chi è stata?”
“Clarke!” strilla Bolton, con voce rotta. “Di Clarke, dannazione, di
Clarke!” Picchia il pugno sul tavolo con forza.
“Cos’ha fatto Clarke?”
“Ha lasciato che lei lo difendesse!” grida Bolton. “Quel verme ha
lasciato che lei lo difendesse da me! Ha lasciato che colpissi lei…”
Bolton deglutisce a vuoto e ansima pesantemente. “E poi è scappato,”
aggiunge.
“Tu l’hai inseguito.”
Bolton sbatte le palpebre. Pare rendersi conto di quello che ha appena
ammesso. Alza gli occhi al soffitto.
“Sì,” risponde.
“L’hai raggiunto e l’hai pugnalato. Poi hai infierito sul cadavere,
perché ti aveva fatto colpire Kala.”
“Sì.”
“Hai spostato i corpi, perché volevi ritardare il momento in cui li
avrebbero scoperti. Hai preso i documenti di Kala, e la sua bicicletta,
perché sapevi ci avrebbero portato a te. L’unico che conosceva entrambe
le vittime.”
“Non rispondere,” ordina l’avvocato e Bolton scrolla le spalle, ma non
conferma né smentisce le ultime parole di Lestrade.
Lestrade sbuffa dalle narici e scuote la testa.
“D’accordo, non importa.” Alza le mani e poi si alza a sua volta.
“Continueremo dopo. Donovan.”
“David Bolton, è formalmente accusato dell’omicidio di Kala Jawanda e
James Clarke,” dice Donovan e non riesce a trattenere un sorriso.
“Donovan,” la riprende Lestrade a bassa voce, appena escono dalla
stanza per gli interrogatori, “è pur sempre della morte di due persone,
che si parla…”
“Lo so, boss. Ma è stato fantastico,” sorride ancora lei.
Davies e Tennyson fanno partire un applauso e Lestrade si concede
un’espressione soddisfatta: quella mattina non sapevano neppure il nome
della ragazza, ora hanno arrestato il suo assassino.
Non lascia che tutti si perdano nel giubilo: “Ok, d’accordo, bene. Un
lavoro fantastico, tutti quanti. Sul serio. Ma abbiamo appena iniziato.
Dobbiamo chiarire un sacco di questioni, ci sono ancora un sacco di
buchi.”
Ed è vero: bisogna rintracciare la famiglia di Kala Jawanda; perquisire
casa di Bolton; trovare la bici e gli scarponi, magari (ma Lestrade ci
spera poco) l’arma del delitto; qualcuno dovrebbe aggiornare Riggs e
Margareth Clarke; Latimer deve venire a deporre…
Donovan annuisce, come se avesse sentito i pensieri di Lestrade
riordinarsi: “Ci mettiamo al lavoro.”
La domenica si trasforma in lunedì.
Nell’appartamento di Bolton trovano la bicicletta di Kala Jawanda,
troppo voluminosa per disfarsene discretamente, a quanto pare. Trovano
anche due computer portatili, che vengono impacchettati e spediti a
Tecnologia e Informatica all’istante. Lestrade si prende due minuti,
alle otto in punto di lunedì, per chiamare Jeff e ricordargli che la
faccenda è urgente; così per le 11.30 sanno che uno appartiene a Bolton
e uno a Jawanda: Bolton ha usato quello della ragazza per scrivere alla
famiglia di lei a Manchester, negli ultimi giorni, ed ecco perché
nessuno si è accorto della sua scomparsa.
Lestrade ha un collega a Manchester che gli deve un favore; lo prega di
avvertire i genitori della ragazza, dopo averlo istruito sul caso.
Lascia anche il suo numero, nel caso i genitori vogliano parlare con
lui di persona, prima di dover venire a Londra.
“Dio, povera gente…” sospira con Donovan. “Come si fa ad accettare una
notizia del genere?”
“Almeno sanno da subito che il responsabile pagherà,” risponde lei.
“Non hanno dovuto passare l’inferno di Margareth Clarke.”
“Mh, non so. Margareth Clarke ha vissuto il peggio e ora avrà almeno
questo conforto, ma i Jawanda non sapranno mai che il dolore potrebbe
essere anche peggio.”
“Il dolore è dolore. Li tormenterà comunque, boss. Non ci pensare: noi
abbiamo fatto tutto quello che potevamo.”
“Hai ragione.”
Che idiozia mettersi a questionare una cosa del genere, ma il pensiero
di una famiglia che scopre la morte della figlia dopo quasi una
settimana lo riempie di tristezza.
È una buona cosa che aver risolto il caso abbia dato una scossa a
tutti, li abbia riforniti di nuove energie: nonostante i pensieri,
riescono a sistemare tutte le questioni urgenti, interrogatori e
deposizioni e acquisizioni delle prove, incidenti probatori e perizie.
Il caso è sicuro e solido, anche se il lavoro non è finito (non lo sarà
fino alla sentenza), e il lunedì sera Lestrade può congedare tutta la
squadra con l’ordine di non farsi vedere il giorno dopo.
Lui ha ancora una faccenda da sistemare prima di andarsene a casa, e
sale fino alla divisione Risorse Umane.
“Ispettore Lestrade!” lo saluta con calore Khaty Wilkies.
La donna si sta preparando ad andarsene e una collega dell’Ufficio
Legale la aspetta vicino alla porta.
“Abbiamo sentito dell’arresto per il caso di Parsons Green,” fa Khaty.
“Bel lavoro,” offre l’altra donna. “Chi è l’avvocato d’ufficio?”
“Uh…Wood?” risponde Lestrade scrollando una spalla. “Non voglio
trattenerti, Khaty, ma mi servirebbe un consiglio.”
“Ma certo,” risponde Khaty.
“Mi servirebbe un avvocato.”
La donna dell’Ufficio Legale sgrana gli occhi: “Riguarda il caso?
C’entra il tuo strano investigatore?”
“Cosa? No!” risponde Lestrade. Si schiarisce la gola: “Mi servirebbe un
avvocato divorzista,”
precisa. “È una cosa personale, ovviamente, e non mi andava di
discuterne davanti a una pinta con uno dei ragazzi…”
Lestrade non è certo il primo poliziotto a divorziare, ma ha già
sopportato la sua dose di chiacchiere e pettegolezzi quando se n’è
andato di casa la prima volta e poi è tornato, solo per andarsene
definitivamente dopo le feste natalizie. Khaty Wilkies è una consulente
psicologa e ogni conversazione con lei è protetta dal segreto
professionale. Vale lo stesso per la sua collega.
Khaty annuisce: “Ho qualche nome da consigliare. Posso inviarle una
mail domattina per prima cosa, Ispettore.”
“Lo apprezzerei molto.”
Lestrade vuole mandare avanti la faccenda, e tanto vale sfruttare la
botta d’adrenalina che gli ha procurato chiudere il caso. Una volta
fatto il primo passo si è instradati, e se dovesse perdersi di nuovo ci
penserà l’avvocato a pungolarlo a dovere.
Augura una buona serata alle due donne e se ne torna finalmente a casa
dopo trenta ore di lavoro quasi ininterrotto. Dorme non appena spenta
la luce, distrutto, soddisfatto e malinconico: è il primo caso grave
che risolve da quando è solo. È troppo stanco per rendersi conto si
tratta in effetti dell’unico caso che abbia mai risolto senza tornare a
casa e trovarsi sotto gli occhi il meraviglioso promemoria vivente che
il suo lavoro ha uno scopo, ma si sveglia comunque con l’insopprimibile
desiderio di vedere le ragazze.
Si fa bastare una telefonata estemporanea che manda in visibilio Vicky
e Grace e fa imbestialire Becky, perché ora sono tutti e quattro in
ritardo per la scuola e il lavoro, ma Lestrade deve pur sopravvivere a
un altro giorno, là fuori.
E sopravvive, pur se provato, a una giornata allo Yard solitaria,
passata a occuparsi di burocrazia a report sulle spese che si sono
accumulati durante la settimana precedente. Prepara una bozza sulla
chiusura del caso per i giornalisti consultandosi brevemente al
telefono con Donovan, e alle 17:30 è pronto ad andarsene, il peggio
delle pratiche sistemato.
Ha una mezza idea di passare da Baker Street, per dire a Sherlock che
il caso è risolto, ma dubita che a Sherlock interessi davvero e teme
che non riuscirebbe a dribblare un invito al pub da parte di John, e
non si sente ancora pronto a dire a qualcuno che ora ha un avvocato, e
un primo incontro proprio il girono successivo durante la pausa pranzo
(Donovan farà commenti? Certo che sì, dannazione).
Lestrade non ha ancora preso una decisione definitiva sulla sua
destinazione, quando esce dal suo ufficio e attraversa il piano.
Un’improvvisa cacofonia di strilli e una generale commozione lo
risvegliano dalle sue elucubrazioni: Sherlock gli sfila davanti
sbraitando in faccia a un furioso Ispettore Capo Hillerton. Un paio di
agenti sembrano indecisi se agguantare Sherlock o trattenere Hillerton
e John segue il gruppo con passo baldanzoso.
Lestrade si copre la faccia con le mani e geme disperato: “Perché,
Sherlock, cazzo, perché…John!” strilla poi. “Che succede, si può
sapere?!”
John allarga le braccia, l’espressione che dice ‘scusa, amico’ e
Lestrade sospira esasperato e si accoda al gruppo per salvare il
salvabile.
Due ore dopo, Sherlock non ha ancora finito di fare i capricci, ma ora
bisticcia con suo fratello nell’ufficio di Lestrade. John è seduto in
un angolo e si lascia sfuggire un sorrisetto ogni tanto e quando
Sherlock esce come una furia dalla stanza lasciando la porta
spalancata, si alza per seguirlo.
“Credo che prenderemo un taxi,” butta lì a Mycroft, che fissa suo
fratello con le labbra ridotte a una linea sottile. “Ciao, Greg. Scusa
il disturbo,” fa invece a Lestrade, passandogli davanti sulla via per
l’ascensore.
Lestrade scuote la testa, poi si affaccia nel suo ufficio.
“Ispettore,” lo saluta Mycroft, l’irritazione ancora percepibile nella
sua voce. Ma le successive parole non ne recano traccia: “Grazie per
averci offerto la privacy del suo ufficio. Non che a Sherlock importi
granché, della privacy o della discrezione,” termina con un sorriso
asciutto.
“Già,” sorride Lestrade. “Senti, io…stavo andando a casa, quando
Sherlock e John sono piombati qui a mettere le mani nel sangue a
Hillerton, e…”
“Certamente,” risponde Mycroft annuendo e uscendo dall’ufficio. “Non è
mia intenzione farle perdere ulteriore tempo, Ispettore, dopo questa
settimana così impegnativa. Le mie congratulazioni per aver risolto il
caso, e di nuovo, le mie scuse più sentite per il comportamento di
Sherlock. Anche se non posso accompagnarle alla promessa che niente del
genere si ripeterà,” aggiunge scuotendo la testa.
“Nah, ci sono abituato,” risponde Lestrade scrollando le spalle. “Ti
accompagno giù.”
Si affianca a Mycroft e l’altro uomo sorride appena quando Lestrade si
dirige alle scale di servizio da cui lo ha fatto uscire quel venerdì,
prima della conferenza stampa.
“In ogni caso, non era necessario che venissi di persona, per sistemare
i casini di Sherlock. Potevi telefonarmi,” mormora Lestrade quando sono
a metà della prima rampa.
“Sì,” ammette Mycroft.
“E sapevi che Sherlock era ancora arrabbiato perché lo hai prelevato
all’aeroporto, l’altro giorno, e cercava un pretesto per fartela
pagare,” continua Lestrade.
“Sherlock…ha indubbiamente colto l’occasione per sfogare un po’ di
scorno su di me, nel più infantile dei modi,” conferma Mycroft.
Lestrade raggiunge il pianerottolo e si gira a guardare l’altro qualche
gradino più indietro. Mycroft torreggia su di lui, l’espressione
volutamente neutra.
“Sei venuto lo stesso fino a Scotland Yard…”
Nel corso della giornata, visto che suo cervello non era più
concentrato sul caso Clarke, Lestrade ha pensato parecchio a Mycroft, a
partire dal loro incontro di quasi una settimana prima.
Mycroft è stato rapido ad accettare i suoi inviti, espliciti e non
espliciti, in quell’occasione, e le sue parole erano state “Non c’è
niente di questo piccolo arrangiamento a cui lei debba pensare, se non
vuole.”
Ma poi era comparso allo Yard venerdì mattina, sapendo che Lestrade
aveva una conferenza stampa, e se davvero i giornalisti fossero stati
un problema, si sarebbe presentato in un altro orario, per parlare con
il vice-Commissario. Sempre che si trattasse di un compito che la sua
assistente, Anthea, non poteva sbrigare da sola.
Mycroft sostiene il suo sguardo e sul suo volto si disegna un
sorrisetto compiaciuto.
“Tutto questo è perché speravi che…accadesse di nuovo. Tra noi dico,”
fa Lestrade, dopo essersi schiarito la gola.
“Speravo che lei realizzasse che non sarei avverso all’opportunità,
Ispettore, sì,” sorride Mycroft.
“Ci sarei dovuto arrivare prima,” recrimina sottovoce Lestrade
sentendosi scaldare la faccia.
Sherlock avrebbe detto che guardava ma non osservava (ma meno Sherlock
sapeva di quella storia, meglio era per tutti).
“Era preso dal suo caso, Ispettore,” lo scusa Mycroft, con aria
magnanima.
“Puoi darmi del tu?” ridacchia Lestrade, sopraffatto dall’assurdità
della conversazione.
“Eri…distratto,” si corregge Mycroft.
“Ho dato per scontato che si trattasse di…una botta e via,” dice
Lestrade, in imbarazzo.
“Non deve essere niente, se non…” comincia Mycroft, irrigidendosi
appena.
“No, no! Cioè…non lo so cosa può essere. Non è un gran periodo, per me.
In Tribunale…ho avuto l’impressione che tu fossi…e il cielo sa se non
mi serviva un po’ di apprezzamento…”
“Nutro la più profonda ammirazione, per te, e questo sentimento non è
scevro da una certa attrazione fisica,” risponde Mycroft, sorridendo di
nuovo. “Devo confessare che mercoledì non ho saputo resistere
all’offerta.”
Lestrade ride e si pasa una mano sul viso: “Oh, dio. Chissà cos’hai
pensato di me!” Si schiarisce ancora la gola. “Io…uh…ce l’avevo scritto
in faccia? L’hai dedotto già in Tribunale che pensavo a noi due che
scopavamo?”
Si può morire di vergogna all’età di Lestrade?
“Non l’ho dedotto in Tribunale,” risponde Mycroft gentilmente,
scendendo un gradino verso Lestrade, “né al caffè. Ma ricordo il
momento in macchina in cui hai deciso che mi avresti invitato a salire.
Conto di ricordarmelo a lungo,” aggiunge a mezza voce.
Lestrade non può impedire a uno stupido ghigno di aprirsi sulla sua
faccia. Sale un gradino verso Mycroft.
“Forse vuoi tenere a mente anche il prossimo momento,” suggerisce.
“Mh?”
“Vieni da me,” sussurra.
Mycroft chiude gli occhi per un istante, come se davvero stesse
salvando quel ricordo nella sua memoria sterminata, poi li riapre e
annuisce: “Andiamo, allora?”
“Solo un attimo.”
Lestrade sale l’ultimo gradino che li separa e addossa Mycroft al muro,
una mano sul fianco e una che scorre lungo il braccio di Mycroft fino
alla spalla e da lì alla nuca, per fargli piegare il collo e poterlo
baciare.
Mycroft sussulta e si aggrappa alle sue spalle, preso di sorpresa.
Lestrade lo bacia con foga, schiudendogli le labbra, cercandogli la
lingua e succhiandola piano, mentre il suo pollice traccia piccoli
cerchi sul fianco di Mycroft, sfortunatamente sopra il tessuto della
sua giacca.
Poi Lestrade si ritrae piano e prima di staccarsi da Mycroft sfrega le
labbra su quelle socchiuse dell’altro, sospirando ad occhi chiusi.
Quando li riapre, Mycroft lo sta fissando con vago rimprovero.
“Scusa. Ci pensavo da venerdì,” sorride Lestrade.
Mycroft sbuffa piano. Non ha lasciato cadere l’ombrello, ma Lestrade è
certo che sia solo perché lui non ha insistito a dovere: per quanto
sprovviste di telecamere, le scale sono pur sempre un luogo pubblico.
Lascia andare Mycroft e lui si riassetta gli abiti senza commenti, ma
con un curioso sorriso soddisfatto. Lestrade è certo che il suo ghigno
non sia da meno.
“Andiamo?” ripete Mycroft e Lestrade annuisce e lo segue.
Note:
E siamo arrivati alla fine:) Grazie per aver letto fin qui, grazie per
le recensioni e il supporto!
Finalmente è tornato Mycroft. Mi spiace si sia visto così poco.
Nelle mie intenzioni questa storia dovrebbe far parte di una serie,
quindi potrebbe esserci qualche aggiornamento in futuro, ma non
garantisco sui tempiXD
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