A Survivor di Cress Morlet (/viewuser.php?uid=918469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nothing ***
Capitolo 2: *** Everything ***
Capitolo 1 *** Nothing ***
Nothing 1
Ciao
a tutti. Vi rubo solo pochi secondi prima dell'inizio della storia.
Questa sarà una mini-long di due soli capitoli ed
è ambientata tra Civil War e Infinity War. Verranno quindi
riportati gli avvenimenti di Civil War per chiunque non abbia visto il
film questa storia è Allerta Spoiler e avverto anche che ci
saranno dei riferimenti ad Infinity War. La prima parte della storia
è in corsivo perchè è un flashback
ambientato subito dopo lo scontro tra le due fazioni ma nella mia
storia Visione non è riuscito ancora a scusarsi con Wanda
come nel film, questo incontro sarà il loro primo incontro
dopo la fuga di Scarlet Witch. Penso di aver detto tutto, le note
finali ci saranno solo alla fine del secondo capitolo. Spero tanto la
storia possa piacervi e che possiate amare Wanda come me,
perchè giuro che ho provato a renderla al meglio delle mie
possibilità.
Buona lettura!
It must be something that we call love
Wherever I go I'm coming back
And time cannot knock me off my track
This resolution is final
It must be something that we call love
It's when you're craving to say her name
And my reality seems to break apart with her arrival
Forever, Alekseev
"Non
ho ancora compreso per quale motivo tu sia qui.”
La
voce suonò roca alle sue
stesse orecchie e lo sforzo di articolare quelle poche parole le
graffiò la gola secca. Il palato asciutto e la lingua
pesante
non la aiutavano a parlare, a sillabare tutta la sua frustrazione e il
desiderio di essere lasciata sola per sempre.
Che
storia triste, non poteva neanche
marcire in pace e nella più completa solitudine. Non le
concedevano neppure di star male senza spettatori, di crogiolarsi e
arrotolarsi nella sua infelicità totale.
Niente,
non meritava niente.
Sai
cosa hai fatto, Wanda?
Le
mani strinsero il lenzuolo del
letto e il materasso, forte, forte, più forte che
poté,
fino a non sentire altro se non dolore alle nocche e ai palmi.
Quasi
potesse arginare, in quel modo, il disastro che di lì a poco
si sarebbe consumato.
Ma
era una patetica illusione, la
speranza di un condannato a morte, perché nulla avrebbe
potuto
salvarla da se stessa e dalla distruzione che lei portava insieme al
suo corpo, quel vuoto insidioso che si creava intorno ai suoi piedi e
inghiottiva ogni persona a cui voleva bene.
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Gocce
di sudore freddo scivolarono
lungo le sue tempie e giù per il collo fino a tracciare la
schiena stretta in un camice bianco. Gli aghi e i tubi erano
attorcigliati come dei tentacoli molesti intorno alle braccia, la
infastidivano e nauseavano, le procuravano lividi violacei e altri
brutti segni da dover nascondere.
"Permettimi
di indovinare. Sei qui
per farmi notare, con la tua fastidiosa intelligenza, che avevi ragione
tu? Che sarei dovuta rimanere segregata in quella casa?
Perché
così, insomma, non sarei a questo punto. Su questo maledetto
letto.”
Aveva
sempre odiato gli ospedali.
Non
poteva accadere nulla di buono in
quei luoghi, non in quelle stanze con l'odore rivoltante di candeggina,
in quei corridoi di un bianco innaturale.
Erano
altre tombe, altre prigioni, altre bugie e false fedi a cui era inutile
aggrapparsi.
Avrebbe
voluto fuggire da
quell'inferno sceso in terra così simile ad una tortura
crudele,
ad un castigo divino scelto appositamente per farla soffrire ogni
maledetto secondo della sua esistenza, mai un’eccezione.
Non
voleva essere lì, ovunque ma non in quella stanza, non su
quel pezzo di mondo, sotto quel cielo coperto da mattoni.
"Sei
qui per portarmi tu stesso nella mia futura cella?"
Accompagnarla
in un ospedale prima di
buttarla in una stanza sporca e claustrofobica era la dimostrazione di
quanta cattiveria erano capaci di covare quei falsi potenti, quegli
stronzi patetici, che credevano di reggere il mondo con le loro ossute
spalle coperte da costose camice di seta.
Quanto
si saranno compiaciuti, quanto
si saranno congratulati con loro stessi perché, ma che
bravi,
erano stati in grado di mostrare un lato misericordioso e di compiere
un atto caritatevole persino nei confronti di una povera criminale.
Lei
era proprio una terribile ingrata, non comprendeva la loro
bontà, l'onore che gentilmente le avevano concesso.
Che
persona crudele era stata.
Non
li aveva ringraziati, non si era prostrata a terra per la gratitudine,
no.
Aveva
scalciato, insultato le guardie
e gli ufficiali, aveva augurato loro di morire tra le più
atroci
sofferenze e di bruciare all'Inferno.
E
glielo aveva detto, lo aveva
urlato, che se davvero volevano portarla in una clinica per curare i
suoi stupidi graffi allora avrebbero dovuto trascinarla,
perché
lei non avrebbe collaborato mai, neanche con una pistola premuta sulla
fronte.
Quindi
loro cosa facevano?
Gli
idioti le chiedevano di mantenere la calma e poi si stupivano di
ottenere come risposta un'intera vetrata distrutta.
Avrebbero
dovuto immaginarlo. Stronzi.
Lei
era rabbia e ogni pezzo della sua pelle era elettricità
pronta ad esplodere, anche a costo di distruggere se stessa.
"Sei
qui per rimproverarmi? Per dirmi quanto sei deluso da me? Vuoi anche
che ti chieda scusa per quello che ho fatto?"
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Lo
so. Non c'era bisogno che me lo dicessi proprio tu, signor Stark.
Fottiti,
Stark.
"Sii
felice. Ora mi aspetta una nuova
prigione e chissà come sarà il cibo. Ti
farò
sapere se hanno la paprika tra le spezie.”
Doveva
essere nata con un difetto
orribile all'interno del cuore e del corpo, tanto da meritare il male,
il peggio, ogni crudeltà.
Lo
sapeva, aveva convissuto con i
mostri da quando aveva compiuto dieci anni e da allora perdere tutto
era diventata la norma e sabotare ogni possibile relazione affettiva
una semplice questione di sopravvivenza.
Perché
tanto muoiono, muoiono tutti.
"Volevo
sapere come stessi. Volevo parlarti di una cosa molto
importante.”
Sai
cosa hai fatto, Wanda?
Ho
fatto l'unica cosa che faccio sempre bene. Distruggere.
Ebbe
una improvvisa fitta alla testa
e fu costretta ad appoggiare il collo contratto sul cuscino, mordendosi
le labbra con i denti a causa dell'emicrania che le stringeva la fronte
in una morsa implacabile.
Si
aggrappò violentemente ai bordi del materasso e volse il
capo verso sinistra, proprio dove si trovava lui.
"Sto
benissimo, una favola. Non lo noti? Non mi guardi più,
Visione?"
Il
suo volto rosso risaltava prepotentemente tra il candore soffocante
delle pareti, dei muri lindi e del soffitto basso.
Era
il primo colore che finalmente vedeva dopo ore e ore di isolamento
forzato, dopo bianco bianco bianco.
Ed
era la prima volta che parlavano
da quando lei era fuggita, da quando il conflitto si era concluso e
tutti avevano perso: in parte loro stessi, in parte altro e in parte
qualcosa su cui era meglio tacere e che lei preferiva dimenticare.
Che
senso aveva ricordare?
Perché
mai parlare ancora?
Meglio
continuare quella farsa, come avevano fatto con la pagliacciata a cui
entrambi si erano aggrappati in quei mesi.
Meglio
rimanere l’uno dinanzi
all'altra, chiusi in una camera d’ospedale, a far finta di
ignorare ciò che lei aveva fatto senza esitazioni.
Preferiva
il niente, come sempre, a qualsiasi costo.
Hai
ferito i suoi sentimenti, Wanda.
Visione
si avvicinò ai piedi
del letto e alzò una mano come per aiutarsi a parlare ma
aveva
uno sguardo confuso, incerto.
Abbassò
distrattamente il braccio e sfiorò la sua gamba fasciata,
solo per un momento, neanche un secondo.
Eppure
lei lo aveva sentito.
Ed
era quello il problema, un
problema stupido da estirpare sul nascere, da far scomparire con uno
schiocco di dita, senza sentimentalismi e dispiacere. Bastava solo
sputare su tutto quello che loro erano stati, rovinare i pochi ricordi,
buttare nella spazzatura qualche oggetto e pile e pile di fogli.
Qualcosa
di semplice, maledettamente semplice, perché tanto loro non
erano mai stati niente.
Niente
di niente.
"Io
ti guardo sempre, Wanda. Lo sai.”
Lo
so. Cazzo, lo so ed è colpa tua. Tutta colpa tua.
Lui
doveva aver fatto di tutto pur di
ottenere il permesso di poter parlare con lei, la ragazzina fuorilegge
rinchiusa in una stanza d'ospedale, emarginata come se si trovasse
già in prigione.
Era
una situazione naturale,
altamente prevedibile e quasi noiosa. Nessun effetto speciale o colpo
di scena improvviso per Wanda Maximoff.
Aveva
imparato bene la lezione, non era una piccola ingenua desiderosa di
affetti, una bambina lamentosa e piagnucolante.
Sapeva
fin dall'infanzia che ogni
luogo in cui lei avrebbe messo piede sarebbe sempre stato un carcere,
fosse esso una stanza, un edificio, una città, una nazione.
Non
esisteva la libertà per
una persona senza nulla, morta dentro, con i sentimenti di carta
stropicciata nell'acqua sporca.
Non
si dispiaceva per questo, non
gliene importava, era una cazzata come un’altra. Aveva smesso
di
dare valore a certe inezie da anni, aveva capito -cadavere dopo
cadavere- che il resto del mondo era una zavorra di cui sbarazzarsi
alla prima buona occasione, senza provare il minimo pentimento.
Niente
era? Niente fosse allora, per tutta la vita e anche oltre.
Andava
bene così, a lei piaceva quel niente.
Nulla
poteva toccarla, ferirla, piegarla. Non esisteva potere più
grande.
"Volevo
metterti al corrente di un
fatto importante e credo sia giusto che tu lo sappia. Non so in
realtà come definirlo ma... proverò ad aggiornare
il mio
vocabolario per potermi spiegare meglio.”
Lei
aprì il palmo della mano
destra e vide i segni di mezzelune storte che aveva lasciato con le sue
unghie. Le scappò una smorfia di scherno e allora anche
Visione
li notò, quei cerchietti profondi e netti, e
serrò le
palpebre come se lei avesse lasciato quegli sfregi sul suo volto.
Come
se provasse dolore e dispiacere.
Come
se soffrisse alla vista di quei miseri graffi.
Come
se gli importasse.
Devi...
smetterla subito. Non siamo niente. Niente di niente.
Lui
non poteva cambiare ogni cosa,
non doveva neanche permettersi di pensarlo, perché non aveva
alcun diritto di gettarla di nuovo tra le rogne dell'esistenza.
Ma
chi si credeva di essere? Eh?
Le
sue emozioni erano morte e sepolte dalla neve sporca di sangue.
Nessuno,
nessuno mai, doveva provare a cambiare nulla.
"Parlami
allora. Ma facciamo presto
perché, certamente saprai, ho talmente tante visite questo
pomeriggio. Ho tutta l'agenda occupata.”
Le
nocche dell'altra mano erano ormai
bianche e le dita le formicolavano fino a tremare. L'ago nel polso si
era mosso troppo, un po' più a fondo e poi fuori, di lato e
dentro, dall'altro lato e fuori.
Sicuramente
le sarebbe rimasta una chiazza rossastra scura per settimane.
Meglio,
meglio così, molto meglio così.
Il
dolore lo conosceva, lo conosceva
benissimo, e sapeva conviverci grazie alla vita che glielo aveva
riservato come ordinaria amministrazione insieme a un senso di
inadeguatezza misto a bile acida.
Era
un caro amico il dolore. Carissimo.
"Il
tempo scorre, Visione.”
Non
guardarmi in quel modo. Non... farlo.
"Oggi
è successa una cosa" le
disse, a voce bassa, e con il capo chino verso il basso. Scorse quello
che stava facendo con la sua mano sinistra, il modo in cui la stava
torturando, e gliela afferrò di scatto, costringendola ad
aprire
le dita chiuse a pugno, intente quasi a scavare nella loro stessa
pelle.
"Oggi
è successa una cosa", ripeté, e le tolse
delicatamente l'ago, accarezzandole il punto martoriato.
"Stai
perdendo colpi, lo sai? Sono capitate tantissime cose oggi. Non certo
una sola."
Sono
morti i Vendicatori. Perché tutti muoiono, tutti.
Visione
guardò il suo viso e a
lei sembrò che lui avesse imparato tanti tratti umani e li
avesse assimilati senza saperlo. Come il deglutire, impercettibilmente,
e l'avvicinarsi piano, quasi fosse vicino ad una bestia feroce e
pericolosa, con una spina tra le zanne.
"Sei
arrabbiata."
Fece
un altro passo e le aggiustò i capelli sudati dietro
l'orecchio, con un tocco impalpabile e delicato.
Lei
aveva imparato, lei sapeva, il
modo in cui lui la toccava: la sfiorava sempre in maniera dolce,
neanche fosse fatta di fragile vetro.
Doveva
fargli davvero pena.
"No.
Sono molto più che arrabbiata."
Ma
se lei era vetro allora era una di
quelle lastre sporche con angoli taglienti. Un piccolo pezzo di
cristallo che non si doveva toccare se non si desiderava avere le mani
intrise di liquido nero.
Nessuno
poteva rimanerle accanto.
"Non
puoi immaginare la mia rabbia, Visione."
Si
scostò dalla sua carezza e
lui sbatté le ciglia, rendendosi conto di aver indugiato
troppo
con le dita nell'angolo tra l'orecchio e il collo.
Trattenne
solo la sua mano.
"È
naturale. Hai avuto paura."
Toccò
i tratti del suo nuovo
livido e lì appoggio la sua fronte, in uno scontro tra della
pelle rovinata e una gemma calda.
I
suoi gesti, dall’inizio,
avevano avuto il potere di far diventare il dolore qualcosa di
più sopportabile, granelli di zucchero in un bicchiere di
acqua
amara.
"Io
non ho mai paura", sussurrò, a denti stretti.
Era
un disastro di cicatrici aperte
da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e
suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di
cosa mai doveva avere paura?
Lei
era più spaventosa.
"La
paura è una sensazione di forte preoccupazione. Provoca
angoscia e può avvertirsi in presenza-"
"Stai
leggendo una definizione da un dizionario davvero scadente, lasciatelo
dire."
Visione
non si scompose, rimase
immobile a stringerle le dita, a premere i palmi contro il dorso della
sua mano ferita, sulla fronte sempre più calda.
Espirò
lentamente e il suo respiro le solleticò la pelle del polso,
provocandole altro che serpeggiò lungo tutto il suo braccio,
in
una specie di scarica elettrica.
Fermati.
"È
una sensazione... che si
avverte in presenza di pericoli reali o immaginari. In questo caso era
reale, ci sono le prove tecniche. Avevi paura di una nuova catastrofe,
prevedibile da uno stato di divisione conflittuale all'interno di un
gruppo instabile. Le catastrofi spaventano perché sono
disastri
di particolare gravità, difficili da arginare e fuori dal
nostro
controllo."
Seguì
con i polpastrelli le
vene del suo avambraccio e si fermò al gomito,
accarezzandole la
pelle morbida e tenera.
Le
dita scivolarono via e deglutì ancora, piano, pianissimo.
Lei
si accorse del tremore dei suoi
pollici solo quando lui smise di toccarla e provò la
sensazione
di un pugno forte tra lo stomaco e la pancia nel momento esatto in cui
Visione cercò i suoi occhi e ricominciò a
parlare.
"Ed
è accaduto che io ho avuto paura e mi sono distratto. Io non
sono programmato per distrarmi, non potrei farlo."
Fermati.
"Wanda,
riuscivo solo a pensare a te."
Fermati,
cazzo. Ti ho detto di fermarti.
"Non
preoccuparti, faccio questo effetto a tutti. Passerà. Passa
sempre."
Non...
Mancava
aria ai suoi polmoni,
ossigeno nella stanza, un sostegno al suo corpo. Nascose entrambe le
mani sotto il lenzuolo, chiuse le palpebre, si abbracciò la
pancia come a difendersi da calci, schiaffi, altri calci. Aveva una
improvvisa voglia di urlare e strappare le garze, gridare e ferire
qualcuno, anche se stessa.
Bastava
non sentirlo più parlare.
Per
favore, per favore, non lo dire. Non farmi questo.
"Non
può passare", le mormorò, a disagio.
"Ti
ho scaraventato metri e metri sotto terra. È normale, avrai
avuto un desiderio di vendetta.”
"Io
mi sono innamorato di te."
No.
Ci
fu uno strappo.
Al
livello del petto sentì
uno strappo che rimbombò nella sua testa, le scosse le
spalle e
rovinò sulle sue labbra aperte.
No.
Una
lacerazione profonda sotto le sue
costole, qualcosa di reciso con delle cesoie imbrattate di terra. Con
le mani strinse forte lo stomaco, la pancia, il petto e aprendo gli
occhi vide il suo camice, macchiato dal sangue gocciolante delle ferite
non rimarginate, di quei graffi che aveva definito stupidi.
Visione
la bloccò, lui che ora si spaventava per qualche innocua
goccia di sangue.
Si
fottessero le garze che dovevano essere cambiate e il casino che aveva
combinato con i suoi palmi, andasse tutto a schifo.
“Wanda,
fermati.”
Lei
non poteva provare quel genere di dolore, non era possibile, non dopo
la morte di Pietro.
Vide
tante macchioline bianche
dinanzi a sé e così si rese conto che aveva di
nuovo
chiuso gli occhi e che stava serrando le palpebre con troppa forza.
Quello
non era dolore, doveva essere qualcosa altro.
Forse
aveva confuso il rumore dello
strappo con lo stridente suono di un oggetto rotto, caduto per terra e
sparso in mille irriconoscibili pezzi.
C’era
un errore, uno sbaglio, era tutto falso, doveva essere qualcosa nella
sua testa.
Non
era reale.
Se
avesse aperto gli occhi lui non
sarebbe stato lì e forse neanche lei, forse aprendo gli
occhi
non ci sarebbe stato nessuno.
Loro
erano niente, niente, niente e ancora niente.
Ma
andava bene così, a lei piaceva il niente, a lei piaceva
tanto.
È
tutta una bugia, vero? Mi sveglierò in questa stanza e
mi ritroverò di nuovo sola e senza nulla da affrontare,
nulla da
distruggere. Tutta una bugia, un’innocente bugia. Vero?
Sbatté
diverse volte le
palpebre e lui, prima sfocato e poi sempre più vivido, le
comparve dinanzi, con il volto preoccupato e le dita sulle sue braccia.
“Stai
meglio? Vuoi che chiami un dottore?”
Tutti
muoiono.
"E
quando ti saresti innamorato di me?", gli chiese, con un astio a stento
trattenuto.
Lui
era lì e lei si sentiva soffocare, in trappola e tradita.
Era
la realtà dei fatti, come vero era quella strana cosa che le
graffiava i polmoni e le scorticava il cuore.
Coriandoli
di ingranaggi e ferri vecchi, tutto ciò che le era rimasto.
Visione
sembrò perdersi ad
osservare un punto imprecisato della federa del suo cuscino, aveva
un’espressione corrucciata e tratteneva il respiro mentre le
sue
labbra erano tese in una linea sottile.
Rifletteva,
pensava, e intanto le aggiustava una manica della veste bianca, scesa a
scoprirle la spalla sinistra.
Il
suo stomaco si attorcigliò
su se stesso e lei provò una rabbia tale da sentire a
distanza
il suo potere crepitare pericolosamente. Rabbia, le serviva solo quella
e ne aveva tanta, per una vita intera.
Cercò
il suo sguardo e lo
sfidò senza tremare, imponendosi di fermare qualsiasi cosa
fosse
quella sensazione che premeva sul suo sterno.
"Ti
ho vista e mi sono innamorato", le rispose, con una voce meno ferma.
Sospirò
e provò a prenderle una mano che lei allontanò,
veloce.
"Vorresti
dire che ti sei innamorato
di me, così? Amore a prima vista? Nel bel mezzo di una
guerra?
No. Questo non è amore."
Non
doveva essere amore.
"Non...
non mi sono spiegato bene. Ti
ho amato appena ti ho vista davvero. Non so quando è
successo,
non so dirtelo, perché nessun mio programma riesce a
rispondere.
Mi prospetta solo fotogrammi."
Sorrise
lentamente e per lei fu la fine.
Aveva
la tentazione di premere forte
le mani sulle orecchie, di spegnersi, di annullarsi, di fare ogni cosa
folle pur di non ascoltarlo più.
Mi
stai facendo male.
"Tutti
i momenti, come pezzi di puzzle di te. Ogni tuo più piccolo
sorriso, ogni tua lacrima. Io... ti sento.”
Visione
abbassò il tono della
voce e senza accorgersene iniziò a tormentare il lenzuolo,
stringendo un lembo e poi lasciandolo come se scottasse.
Guardò
le pieghe e le aggiustò in maniera distratta, con un groppo
in
gola che lei sentiva scorrere nelle sue gambe.
“Io
quando sono con te... mi sento", le disse piano, sottile.
Le
parlava nello stesso modo in cui la sfiorava. Con una
sensibilità che, ora come non mai, odiava.
Che
senso aveva dirle
ciò? Esisteva un motivo per cui riversarle tutte quelle belle parole e
grandi frasi, gettarsi a fare poetiche considerazioni?
Perché
aveva voluto rovinare ogni cosa?
Lo
aveva fatto lui, era sua la colpa.
Andava
bene prima, andava bene il niente, andavano bene il silenzio e le
omissioni di ogni secondo.
Era
stato perfetto ignorare la verità e credere fermamente che
nulla di tutto quello esistesse.
Era
stato il suo ultimo desiderio dopo una vita di schiaffi tra i denti.
Violenza
dopo violenza, morte dopo morte.
Aveva
solo sperato di vivere in quel
loro strano limbo per l’eternità,
perché le cose
non potevano essere dette ad alta voce, non dovevano esserci etichette.
Se
dici ad alta voce che ami qualcosa quella cosa allora ti
verrà strappata via.
Non
avrebbe potuto mai rendere reale
lo strano sentimento di male e piacere che provava solo quando erano
insieme, solo quando erano loro due.
Non
aveva senso, non ci si doveva mai affezionare, si rimaneva solo
fottuti.
Lui
aveva rovinato tutto.
E
allora? E allora che si
distruggesse ciò che era rimasto, morisse anche il niente,
si
sporcasse ogni cosa bella e ridiventasse il mondo nero, la stanza
vuota, lei sola.
Sola,
sola, senza più alcun modo di essere ferita.
Tanto...
tanto muoiono tutti. Uno dopo l’altro.
“Non
è amore. Non lo è.”
Sentì
un dolore al petto e lo ignorò, provando una fitta alla
bocca dello stomaco che gli strinse la mandibola.
Percepì
chiaramente un nodo in
gola e respirò con le labbra schiuse, per grattare via la
sensazione di star soffocando.
Gli
indicò la porta e lui non si mosse di un passo.
Muoiono
tutti e tutti prima di lei.
La
lasciavano sempre sola.
"Non
sono abile a spiegarmi. Se mi concedessi del tempo potrei migliorare."
Sarebbe
già dovuto andarsene,
prendere la via di uscita e dimenticare i mesi passati, ascoltarla e
fuggire, fuggire via prima del disastro, prima che la situazione
degenerasse.
Lei
si schiarì la voce e di
nuovo un eco di rabbia rimbombò nella sua testa, un senso di
insoddisfazione tanto grande da offuscarle la vista, gonfiarle i
polmoni, scombinarle la pancia.
Se
ne andasse, corresse via. Perché odiarla così?
Perché non lasciarla sola, in pace, libera?
Lui
morirà, come tutti, lui si
spegnerà e lei dovrà di nuovo soffrire, con il
cuore
strappato dal petto, a mani nude.
Non
esisteva alcun amore e, Dio, lui doveva uscire via da quella stanza e
dalla sua vita.
Non
lo sapeva, non lo capiva?
I
sentimenti troppo forti sono da spezzare e da schiacciare prima di
ritrovarsi bocconi a terra con il desiderio di morire.
Lei
ci era già passata e mai,
dovevano rompere ogni suo osso, avrebbe permesso a qualcuno di ridurla
di nuovo in quello stato.
Era
una questione di sopravvivenza, la cosa giusta da fare.
"E
come faresti? Scaricheresti nella
tua testa più manuali del linguaggio, qualche saggio
scientifico
o romanzetto rosa? In questo modo hai capito che ti eri innamorato di
me? Lasciami immaginare. Avrai diagnosticato qualche sintomo e avrai
consultato subito una guida medica ma, mi duole informarti, devi aver
navigato sul sito sbagliato, forse uno di quelli per ragazzine,
perché hai sbagliato tutto. Hai sbagliato ogni cosa, tu non
sei
innamorato di niente e nessuno."
Ma
se era la cosa giusta da fare perché allora si sentiva tanto
male?
"Sei
una macchina, un insieme di oggetti sbagliati, un errore.”
Perché
soffriva?
“Non
sei neanche un essere umano!"
No.
Sì.
Sì,
questo era uno strappo.
Mise
una mano davanti alle sue labbra e le sentì tremare contro
il suo palmo sporco.
Non...
non volevo.
Visione
fece due passi indietro e
ingoiò aria, con un’espressione afflitta capace di
dissipare l’odio provato prima.
M-mi...
mi dispiace.
"Confermo.
È tutto esatto e perfettamente esaminato",
sussurrò, atono.
“Sono
un androide fatto di
materiale sintetico e vibranio. Sono nato perché il signor
Tony
Stark ha compiuto un errore di valutazione e questo errore ha portato a
me. Per proprietà transitiva sono un errore.”
Guardò
il suo corpo rosso
coperto da vestiti umani e lei si coprì gli occhi,
soffocando
con i polsi i singhiozzi leggeri che abbandonavano la sua bocca.
“E
no. Non sono umano", lo mormorò come se lo stesse ricordando
a se stesso.
Si
diresse verso l’altro lato
della stanza ma ad un passo dall’uscita si fermò e
la
osservò un’ultima volta, parlando lentamente.
"Io
ti amo davvero."
Impossibile.
"L'amore
è una cazzata. Meglio la libertà", gli disse, con
l'ultimo filo di voce rimanente.
Visione
annuì e aprì la
porta, non guardandola più negli occhi ma concentrandosi
sulla
maniglia a cui sembrò appoggiarsi, a fatica.
"Non
ti preoccupare. Sono sicuro che presto sarai libera di nuovo.
Andrà tutto bene, Wanda."
No.
Non
poteva andare bene, nulla più poteva andare bene.
Aveva
appena distrutto l'unica cosa bella a cui teneva.
Quindi
ora sì.
Ora
sì che conosceva il niente.
*******
Maledetti
ricordi.
Click.
Maledette
gocce di tubature arrugginite.
Click
click.
Odiava
quel suono, odiava quell’astronave rubata.
Click
click click.
Maledetti
rumori che non la facevano dormire la notte, maledetto viaggio e
maledetta missione.
Fanculo
tutti.
Wanda
fece scontrare la matita contro il tavolo e il ticchettio la
innervosì ancora di più, esasperandola. Si prese
la testa
fra le mani, digrignò i denti e scalciò sotto il
tavolo,
e così facendo riuscì solamente a colpire
un’altra
sedia e a farla cadere rovinosamente a terra.
Andasse
a quel paese anche la stanza e ogni oggetto lì dentro.
Borbottò
e aprì le dita a ventaglio, massaggiandosi lenta la cute e
poi più giù fino alle tempie.
Un’altra
terribile emicrania le schiacciava il cranio, pressando come mattoni di
cemento proprio al centro del suo capo.
Abbassò
lo sguardo e ammirò la sua opera interrotta.
Click.
Il
disegno posato sul tavolo mostrava il profilo appena accennato di un
giovane uomo, un ragazzo, il quale aveva da poco perduto i tratti
tipici della prima giovinezza per acquisire invece dei lineamenti duri,
degli zigomi alti ed una leggerissima barba bionda sulle guance.
Gli
occhi parevano luccicare, quasi vivi, anche se la matita aveva solo
iniziato, a poco a poco, a tracciarne il taglio.
Click
click.
Passò
un polpastrello sopra la carta e fu come accarezzargli il
mento, la linea del naso, i dettagli di un viso che aveva sempre
ritratto.
Il
suo amato fratello, il suo gemello.
Pietro.
Click
click click.
E
ora poteva farlo soltanto quando richiamava alla memoria, alla
stregua di fotogrammi in bianco e nero, i momenti passati insieme:
spezzoni della loro infanzia, ogni secondo delle loro mani intrecciate
sotto il cielo plumbeo di Sokovia, i passi lungo le strade polverose
dei vicoli poveri e malfamati, le sue braccia sempre pronte a
proteggerla, -soprattutto da se stessa.
Cercò
di afferrare il suo volto e tra le dita non gli rimase
nulla, perché il destino dei sopravvissuti era la solitudine
e
il rimpianto perenne di non essere sotto terra insieme a tutti gli
altri morti.
E
lei, purtroppo, era una stupida sopravvissuta.
“Rogers
mi ha pregato di parlare con te. Noi due, secondo la sua
assurda mentalità e visione della vita, dovremmo confidarci
perché entrambe appartenenti al genere femminile.
È
così antico.”
Natasha
prese posto dinanzi a lei e incrociò le braccia sotto il
seno, spostando lo sguardo, con una espressione insofferente, da una
parte all’altra della stanza e squadrando i diversi fogli
appallottolati e gettati sul pavimento, a dimostrazione che avrebbe
voluto essere ovunque ma non lì, non a consolare
l’altra
piccola fuggitiva del loro gruppo di ribelli, ovunque ma proprio non
lì, non a interrogare lei.
“Steve
ha delle idee tutte sue, un retaggio della sua epoca. Non
preoccuparti, gli dirò che mi hai parlato. Anche se, ancora,
non
capisco il perché di tutta questa premura. Sto bene, faccio
solo
fatica ad addormentarmi.”
Wanda
riprese la matita e ci giocherellò, acciuffandola tra
l’indice e il medio, mentre si sistemava dietro
l’orecchio
alcune ciocche rossicce dei suoi lunghi capelli fuggiti
dall’alto
chignon.
Un
costante fastidio.
Avrebbe
dovuto tagliarli, un netto colpo di forbici e nessun fastidio.
Avrebbe dovuto farlo e smetterla di tergiversare, scegliere un tipico
taglio maschile e agire.
Sì,
lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto presto.
Nessuno
poteva fermarla, no?
Mi
piacciono i tuoi capelli. Mi ricordano il fuoco, la luce di qualcosa di
bello. Stregano le persone.
“Ti
prego di non dire certe cazzate davanti a me, potrei perdere
la pazienza una volta per tutte. Ed è meglio, per entrambe,
rimanere calme.”
Osservò
Natasha all’altro capo del tavolo e posò la
matita vicino al foglio, fingendo di star cercando di allineare
perfettamente i due oggetti.
Una
rossa scarica elettrica le avvolse la mano, come se fosse un
guanto, e crepitò sulle nocche e sul polso, stringendole le
vene
fino ad annacquarle la vista.
“Io
sono calma. Non ho bisogno di nessuno.”
Come
risposta ottenne una risata squillante, non una tipica reazione di
Nat a dire il vero, almeno non con gli altri. Ma a quanto pareva le
piaceva riservarla a lei sola, anche più volte al giorno, e
poteva dirlo a causa della frequenza di tutte le risate in faccia che
le aveva regalato in quegli ultimi mesi.
Che
ennesimo adorabile privilegio, che detestabile personale tortura.
Si
distrasse e Natasha le afferrò velocemente il foglio
cominciando a osservarlo da ogni angolatura e sorridendo non appena
comprese.
“Continua
a ripetertelo e forse, non ne sono sicura, tra molti
anni potresti anche iniziare a crederci. Ma se pensi di prendere in
giro me...”
“Ti
ho già detto che puoi andartene”, le
ricordò, alzando il tono della voce che rimbombò
in
quella piccola stanza sgangherata.
Ma
l’altra non si scompose e continuò a guardare il
disegno interrotto, la linea delle dita talmente chiara da poter
apparire una sbavatura della matita.
Maneggiava
con poca cura quel foglio, non era attenta alle possibili
pieghe e toccava i tratti grigi con tutti i polpastrelli senza
immaginare così di star rovinando e sbiadendo i contorni del
viso di Pietro.
Odiava
quando qualcuno le sfilava via i suoi disegni e li rovinava con
una tale noncuranza da farle provare biasimo verso se stessa,
perché non era capace di difendere neppure degli oggetti
tanto
stupidi.
Odiava
dover rimanere seduta su una sedia, reprimendo l’istinto
di strappare il foglio a Nat per poi nasconderlo e metterlo in salvo,
insieme a tanti e tanti altri ritratti, sotto il materasso del suo
letto rattoppato.
Detestava
dover fingere di non provare nulla alla vista della
superficialità con cui gli altri si appropriavano di
qualcosa di
suo, di così intimo e chiuso, segreto.
Rimpiangeva
il modo in cui si vergognava costantemente di se stessa.
Wanda,
tu... puoi fare tutto. Tutto.
Sbatté
le palpebre e la pelle della mano cominciò a
essere tesa, tesa fino a darle degli spasimi e tremori lungo il braccio
e lungo la vena blu che raggiungeva il suo gomito.
Sbatté
di nuovo le palpebre e il dolore rimase comunque lì, dove
era sempre stato.
“Cosa
stavi facendo qui? Da sola, di nuovo. Oltre che disegnare.”
Gli
occhi le caddero sull’altro foglio nascosto sotto il primo,
sull’altro volto che lei disegnava ogni giorno insieme a
quello
di suo fratello.
L’unico
altro viso che amava.
“È
ancora più grave di quanto pensassi. Davvero. Molto
più grave.”
Il
tono strascicato della voce, la supponenza con la quale la scherniva
e il sorriso di biasimo e finta comprensione la irritarono talmente
tanto da farle bruciare il palmo dell’altra mano, anche essa
ora
avvolta da scariche rosse poco controllabili.
Come
si permetteva di giudicare, proprio lei, come osava?
"Stavo
solo pensando."
"E
lo sai, vero? Sai che il tuo pensiero sta diventando un'ossessione.
Devi saperlo."
Wanda
prese l’altro foglio tra le dita, lo sollevò
piegando leggermente gli angoli e squadrò, grazie alla fioca
luce presente nella stanza, i lineamenti perfetti che aveva riprodotto
e lo sguardo spento che la tormentava ogni notte, -no, ogni secondo di
ogni giorno-, da ormai più di sei mesi.
Sei
mesi da quel giorno maledetto, sei mesi dall’ultima volta che
aveva incrociato i suoi occhi, sei terribili e interminabili mesi
trascorsi lenti e vuoti, perché aveva scelto il niente al
posto
della certa e assoluta sofferenza.
Sei
mesi di Inferno in cui lei era diventata la carceriera di se stessa
e in cui, pur di sopravvivere, riviveva tutti i loro momenti passati
insieme.
Sentiva
ancora il suo tocco, forse perché stava impazzendo, e a
volte le sembrava che la pelle ricordasse le leggere carezze delle sue
mani nei momenti in cui l’aveva sfiorata, per caso o per
sbaglio,
durante le passeggiate tra i viali alberati della residenza dei
Vendicatori.
Si
era sempre mantenuto ad una rispettosa distanza, sempre, tranne le
rare volte in cui le aveva spostato i capelli dietro le orecchie
dicendole di essere stregato da quel colore strano che non era
né rosso né castano.
Guardo
le tue ciocche, a volte chiare
e a volte scure, e mi sembra di rivedere la tua magia in ogni parte di
te. Ti vedo sempre, ti vedo ovunque. Vorrei che ogni persona al mondo
vedesse quello che vedo io.
La
riverenza delle sue dita,
la
sensazione stupenda della sua pelle contro la sua, per quei momenti
brevi ma eterni.
Le
pochissime volte in cui le aveva accarezzato una guancia.
Wanda,
io ti vedo.
"So
gestirlo."
Si
aggrappava a qualsiasi qualcosa, si aggrappava alla sensazione della
sua voce limpida che le cullava i pensieri e le graffiava il cuore fino
a farlo uscire dal petto.
"Racconta
frottole a lui ma non a me."
Si
accorse di star stringendo troppo forte il disegno e che lo stava
rovinando.
“Cosa
sai?”
Che
ipocrita.
Si
adirava tanto con gli altri, si arrabbiava perché tutti le
rovinavano i suoi pochi averi e poi, come da tutta una vita, era lei la
prima a distruggere ciò a cui teneva tanto.
“Quello
che sanno tutti”, le venne risposto, con un finto
sorriso e le braccia di nuovo contro il petto a coronare il momento. La
sua lenta mossa prima di attaccare, la sua finta dolcezza per ingannare
l’ignara vittima. Romanoff nel corso della sua carriera aveva
usato la sua abilità innumerevoli volte eppure la sua
tecnica
non poteva funzionare con ogni bersaglio, no, perché il
passato
di ognuno è diverso e il futuro designato non può
essere
lo stesso per chiunque e le vittime lo sanno, lo sanno bene, infatti
alcune neppure sperano di averlo quell’altro giorno in
più
da vivere e decidono quindi di consumarsi in un breve presente di
vittoria e risentimento.
Nat
non poteva vincere sempre, semplicemente perché esistevano
pedine disperate, sconfitte già in partenza, sopravvissute a
mali inimmaginabili. Quello che era lei.
Lei
era una sopravvissuta.
“Ovvero?”
Ed
era sopravvissuta alla carneficina di Sokovia ma non a quella
perpetuata da se stessa.
“Che
sei una patetica codarda.”
L’astio
nella sua voce le fece sollevare le ciglia e i suoi occhi
si scontrarono contro il suo viso adirato, stretto in una smorfia di
disappunto e rassegnazione.
Continuava
a osservarla con disprezzo, dall’altro lato del
tavolo, il foglio ora posato, e rimaneva immobile ad aspettare una sua
mossa come il suo antico addestramento le aveva insegnato e come i suoi
più vecchi maestri le avevano inculcato.
Loro
due potevano anche rimanere ferme lì, così, per
anni
e anni. Tanto lei non avrebbe reagito alle sue mirate e attente
provocazioni.
Perché
sprecare tante energie?
Nel
silenzio assoluto di quella stanza piccola e spoglia, con gli
interni freddi e asettici, entrambe si stavano scontrando senza alcun
motivo apparente in una gara di sguardi, di sopportazione della
tensione, di frasi taglienti.
Perché?
Perché prendersi tanto disturbo?
“Nulla
di nuovo, quindi”, le rispose, e tornò ad
osservare il ritratto che ancora aveva tra le mani: le palpebre
socchiuse e la bocca imbronciata gli facevano assumere
un’aria
più triste, desolata, quasi fosse sul punto di piangere e
non
sapesse come fare a fermarsi.
Il
mondo era davvero brutto, cattivo e avido, perché le aveva
portato via tutto senza lasciarle niente.
Niente
di niente.
Wanda,
te lo giuro. Tu non sei sola.
“Se
qui fosse presente anche Clint avresti già preso diversi
calci in culo da parte sua.”
Le
scariche rosse sui dorsi e i palmi erano talmente scure da poter
apparire sangue marcio, strisciavano sul volto catturato e schiacciato
sulla carta e giù sul tavolo, per poi risalire tra i suoi
anelli
e i suoi bracciali.
Era
una magia che le prendeva la pancia e arrotolava lo stomaco,
calpestando polmoni e costole pur di raggiungerle il cervello e
martoriarle la testa con un controllo alla nuca.
Pretendeva
tutto, il suo potere, pretendeva ogni lembo di carne del suo
corpo e le dava altrettanto, secondo la millenaria legge del taglione.
Tutto
per tutto.
Niente
per niente.
Le
strappava ogni resistenza per donarle la possibilità di
poter fare la stessa cosa ai suoi nemici.
E
poi di lei cosa rimaneva?
La
più sorda solitudine, la più cieca rabbia, il
più muto dolore.
Un
fagotto di ragazza di venticinque anni con uno straccio di
esistenza, uno sputo di coscienza e uno straordinario potere che non
era in grado di controllare.
Ecco,
ecco cosa rimaneva di lei, ed era così perché
nessuno scambio è mai equo e perché da quando era
nata le
erano toccate le ossa senza carne, i nervi senza grasso.
Niente
per niente.
“Non
hai una vita, Natasha?”
Strisciò
indietro la sedia e si alzò per raggiungere la
sua borsa buttata in un angolo della stanza, la aprì con uno
scatto rabbioso e lì gettò il foglio, il viso
rovesciato
all’in giù che le rivolgeva un’accusa
negli angoli
delle labbra abbassate in una smorfia di tristezza infinita.
Richiuse
veloce la cerniera e si riprese la testa tra le mani,
pressando forte contro la fronte. Il dolore aumentava e la magia si
rivoltava contro di lei, strapazzandola come un calzino sporco e
spaiato in una lavatrice troppo grande.
Esasperata,
ancora di più e sempre di più, diede un
calcio contro il muro e avvertì la sua energia sfrigolare
contro
il pavimento e gli oggetti vicini. Tentò di massaggiarsi le
tempie ma dovette stringersi il cranio perché le sembrava di
avere milioni di milioni di spilli negli occhi e alla nuca, tra le
sopracciglia e il mento.
Wanda.
Quasi
non respirava.
Wanda,
tu sei più forte. Non devi avere paura.
Inspirare.
Non
te lo ricordi?
Espirare.
Sei
sempre tu.
Inspirare.
Sei
tu.
Espirare.
E
non devi temere te stessa.
L’aria
tornò da lei e la stretta alla testa sembrò
diminuire, alleggerirla di un peso e consentirle di prendere un altro
respiro e un altro più profondo.
Non
avere paura.
“Non
meriti la presenza delle altre persone. All’inizio
tutta questa tua paura fa tenerezza ma poi risulta solo
disturbante.”
Natasha
era ancora seduta e le labbra erano tirate mentre scuoteva il
volto da destra a sinistra da sinistra a destra e sospirava
spazientita, per lo più annoiata.
Lei
raggiunse il tavolo e provò a risponderle decisa ma fu
fermata nuovamente da un’altra fitta al collo che le
raggiunse
subito la testa e le contrasse i muscoli del viso.
Respirò,
lentamente, e raccolse con meticolosità gli
ultimi fogli, formando un magro plico, non molto consistente.
I
pezzi perduti durante la sua vita, il buono che le era stato rubato
senza la possibilità di una vendetta, il bello che lei aveva
calpestato in completa autonomia.
Mamma,
papà, Pietro.
Tutto
l’amore che lei aveva disprezzato nel peggiore dei modi.
Visione.
“È
Steve che ti ha chiesto di insistere così tanto?
Oppure è una tua nuova forma di tortura e io sono la tua
cavia
personale? Cosa vuoi da me, perché sei qui?”
Riaprì
la borsa e gettò anche quei disegni, confondendoli
tra loro, e si voltò verso di lei, consumando il pavimento
con i
suoi passi pesanti mentre stringeva i denti e sopportava quella
violenta emicrania.
“Partecipo
ad ogni missione, completo ogni comando, non compio
errori e nessuna distrazione mi ha mai impedito di portare a termini
gli impegni presi. Sono qui con voi e sono perfetta, ogni lavoro
è pulito e ogni combattimento è compiuto secondo
le
regole. Quindi cosa c’è? Perché tutto
questo,
perché adesso?”
Lui
mi manca tantissimo, mi manca
troppo, mi manca oltre i limiti del possibile, mi manca nello stesso
modo in cui mi manca Pietro.
Ma
sono qui, sono ancora qui, a combattere. Perché farmi anche
questo? Perché?
“Hai
così tanta paura da essere pietrificata nelle tue sciocche
convinzioni. Ci credi davvero.”
Passò
uno stupore genuino nel suo sguardo e per un momento la
sua espressione cambiò, per un solo momento
sembrò
compatirla sul serio, senza alcuna finzione. Fu forse un secondo, un
millesimo di secondo, ma fu in grado di spezzarle qualcosa dentro, di
trovare il punto esatto di pressione, fu abbastanza perché
il
labbro inferiore cominciò a tremare e lei dovette fermarlo
con i
denti, fu troppo perché sentiva gli occhi bruciare e la
tensione
al petto scalciare per uscire.
“In
che cosa? Di non avere un futuro? Ma è vero. Ogni cosa
che tocco muore e tutti... sono morti tutti. Ho pagato e continuo a
pagare ogni singolo secondo bello che ho vissuto o che potrei vivere e
lo faccio con gli interessi. Sono stanca. Io non sono
un’eroina,
sono solo una povera e patetica sopravvissuta che cerca di andare
avanti limitando i danni, eliminando i possibili mali, i sicuri dolori,
gli ennesimi lutti. Perché sono stanca, sono tanto stanca.
Sono
esausta della rabbia del mondo contro di me.”
Tutti
muoiono.
“Io
sono nata per essere sola.”
Muoiono
tutti.
Calò
un nuovo silenzio nella stanza, un silenzio tombale, e
allora lei credette che Natasha si sarebbe semplicemente alzata e si
sarebbe allontanata, chiudendosi la porta alle spalle senza rimpianti e
lasciandola lì da sola, per poi dimenticarsi di quella
assurda
conversazione.
Forse
lo sperò, forse lo temette.
Non
lo sapeva neppure lei.
"Non
gira tutto intorno a te, Wanda. Il mondo se ne frega e
l’universo non sa neanche che esisti."
Una
sedia cadde e una mano si abbatté forte contro il tavolo e
Wanda fu sorpresa di quello scatto veloce e del suo atteggiamento
diverso, della rabbia che le veniva riversata all’improvviso
con
tanta veemenza. Sembrava disgustata, non triste né
compassionevole né derisoria, solo autenticamente schifata.
“Sei...
non so come definirti perché una persona tanto
stupida e ingrata non l’avevo mai incontrata in tutta la mia
vita. Il tuo compiangerti è rivoltante quanto la tua
strascicante apatia. Hai fatto del male a lui, hai fatto del male a
te,
perché credi di essere maledetta? Ti credi così
importante, ti immagini così potente, che il mondo, no,
perdonami, l’intero universo complotta contro di te per
portarti
via tutto ciò che ami? Io non credevo potesse esistere un
ego
tanto smisurato quanto quello di Tony Stark e tu sei riuscita
addirittura a superarlo.”
Essere
paragonata all’uomo che più odiava al mondo le
arrossò le guance di rabbia e arrotolò la lingua
in scuse
affrettate e bugiarde.
“È
lui che ha rovinato tutto. Andava meglio prima, andava tutto bene.
Perché...”
Era
inutile continuare, tanto Nat lo sapeva, lo sapevano tutti cosa fosse
successo e che cosa loro due si erano detti.
Lei
lo sognava ogni notte e spesso lo urlava nel sonno, sperando al
risveglio di aver avuto un vivido incubo e che nulla fosse reale.
Invece
poi apriva gli occhi, sbatteva le palpebre al buio e il suo
dolore era lì, sempre lì, perché lei
si era
costruita il suo personale Inferno e ora non sapeva più come
uscirne.
“Lascia
solo che ti dica questo. Per certe cose ci vuole
maturità e dire certe cose vuol dire fidarsi. Almeno
potresti
avere più rispetto, soprattutto perché tu non hai
mostrato lo stesso coraggio. Sei una codarda spaventata. Risulti
addirittura patetica nella tua ostinata volontà di negare
anche
l’evidenza. Quindi...”
Sembrò
fermarsi, ricordare altro e allontanarlo via chiudendo gli occhi.
“Alza
il culo e cerca di fare qualcosa. Smettila di
autocommiserarti e, prima che sia troppo tardi, dimostra di non essere
una bambina. Sii una donna.”
È
già tardi. Lui non mi perdonerà mai.
E
come potrebbe? Io non mi perdono
per quello che gli ho detto, per quello che gli ho fatto. Mi odio, mi
dispero, piango di nascosto e mi pizzico le braccia per intimarmi di
smetterla, di finirla e di non pensare a quello che ho perso e
distrutto con le mie mani.
Perché
io ho sempre avuto
paura della felicità. Come se fosse qualcosa di troppo
grande e
impossibile da vivere, qualcosa capace di aprirmi il petto per
ricrearsi più spazio, qualcosa di incontenibile in un corpo
umano, troppo piccolo e ricco di ostacoli e sbarre.
Ho
il terrore della felicità, la temo talmente tanto da far del
male agli altri, da aver fatto del male a lui.
Lui
che era tutto, lui che è
tutto, lui che è il mio unico pensiero che mi porta sul
ciglio
della follia e poi mi riprende e mi salva, trovando per me un
nascondiglio da ogni male marcio che infetta il mondo.
Lui
che mi ha salvata, sempre, e che
mi ha amata quando io non potevo neppure avere rispetto per me stessa e
per il mio dolore. Lui, con i suoi sorrisi storti e le frasi
bellissime, lui che mi ha conquistato giorno dopo giorno.
Come
si può non innamorarsi di qualcuno che si prende tra i palmi
tutte le tue ferite e le protegge con la propria vita?
Lui
ha fatto questo, dal primo momento, lui mi ha amata a costo di farsi
male e di sanguinare per me.
Lui
è tutto il mio mondo.
Ed
io non potrò più viverlo, non più, non
ora che non c’è più tempo.
Il
nostro tempo è finito.
“Torna
da lui.”
Durante
qualche notte, qualche notte più buia e spaventosa delle
altre, aveva formulato quel pensiero in silenzio e lo aveva
contemplato, pentendosene tutti i giorni seguenti.
Non
poteva presentarsi da lui, no.
Non
poteva e basta.
“Non
posso.”
Di
nuovo la mano di Nat si abbatté contro il tavolo e lei
sentì le dita pizzicarle e la magia correre a riscaldarle le
vene.
“Muovi
il culo e dà una svolta alla tua vita.”
Risalire
dal dirupo in cui si era buttata e cambiare il suo futuro,
un’idea così lontana da poter essere formulata
soltanto
durante i deliri della febbre e mai da coscienti.
Si
portò le braccia intorno al petto e ignorò il
fastidio
delle scariche rossicce, inclinò il capo di lato e si morse
il
labbro inferiore, mortalmente stanca.
“E
come potrei?”
Combattere
contro se stessa, contro la propria squadra e contro il
mondo intero era qualcosa che avrebbe stancato e sconfitto chiunque.
La
sua pace era lontana, lui era a una distanza incalcolabile di
chilometri e ferite.
Come
l’avrebbe guardata ora? Con risentimento?
Lui
che non era mai stato capace di provare odio, forse adesso lo
avrà imparato a causa sua?
Forse
sarebbe stato indifferente o forse in realtà
l’aveva
già dimenticata, forse aveva superato quel qualcosa che non
era
mai del tutto esistito.
E
lei? Che cosa aveva lei tra i propri palmi? Come poteva pensare di
riaggiustare qualcosa di così rotto e disintegrato in
miliardi
di pezzi?
Lui
cosa avrebbe provato a rivederla?
Tutto
o niente?
"Devi
lasciarti andare. Ma se lui... allora devi lasciarlo andare."
Lasciarsi
andare era come cadere nel vuoto e sapere di non poter essere
mai salvati. Era un suicidio crudele, un volontario farsi del male, una
morte triste e consapevole.
Lasciarsi
andare era contro l’animo umano.
Tutto
o niente?
"Come
Bruce ha fatto con te?”
"Come
Vis ha fatto con te."
Nat
girò su se stessa e si diresse verso la porta,
camminò lenta e strinse un pugno contro la gamba per una
frazione di secondo poi riaprì subito la mano e fu come non
fosse mai accaduto.
Wanda
la fermò non appena la vide abbassare la maniglia.
“Non
vorrà neanche parlarmi né vedermi. Mi
odierà, gli farò schifo.”
Natasha
le rispose rivolgendole le spalle e non si curò neppure
di assistere alla sua espressione dopo l’ultima stoccata che
le
rivolse precisa, come una freccia piantata al centro del suo petto,
dentro il suo cuore, a mani nude.
“In
fondo che cosa hai da perdere?”
La
porta si chiuse e lei si ritrovò di nuovo da sola.
Niente.
Lei non aveva niente.
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Capitolo 2 *** Everything ***
Everything 1
A Jill, Victoria e Mari. Siete davvero
sempre con me.
A Miryel, che è la puffola pigmea del mio cuore.
It must be something that we call dream
When all you told me I know by heart
The type of beauty I call supreme
And how it's driving me crazy
No need to worry, rain falling down
It's our happiest story
And there's no one around
We will go for it and I know
You'll be mine forever
Windows wide open, flying so high
Both of us roaming
Through magnificent sky
Rain keeps on falling and I know
You'll be mine forever
Forever, Alekseev
"Ma
guarda un po' chi si rivede. La figliol prodiga."
Stronzo.
"Lo sai che esiste un mandato di cattura che grava sulla tua testa?
L’ha
redatto una commissione speciale, è stato creato
appositamente per te. Parlava
della meravigliosa prospettiva di te rinchiusa in una prigione di
massima
sicurezza e, mi sembra, venissero citate anche alcune torture, tanto
per
gradire, ma non ne sono sicuro. Perdonami, credo di essermi
addormentato
durante la noiosa riunione e di essermi perso qualche passaggio. In
fondo, non
era così interessante.”
Sei uno stronzo patetico
e insopportabile.
"O forse credevi che saresti semplicemente entrata qui dentro come se
nulla fosse, come se ti spettasse di diritto. Ma, Wanda, devi sapere
che ho
scoperto di recente un segreto. L’immaginazione è
una fonte inesauribile di
delusioni."
Stark le sorrise e i suoi denti bianchi fecero capolino alla luce del
sole, in
una smorfia divertita che strideva tagliente con le parole pronunciate
poco
prima.
Il suo improvviso cambio di atteggiamento e il suo sorriso aperto di
scherno la
infervorarono mentre osservava disgustata la metà del volto
ora scoperta dagli
occhiali da sole e l’aria spavalda ostentata più
del solito.
Scontrò malamente contro la consapevolezza che lui era un
essere orribile, un
terribile uomo, un assassino libero da pesanti catene nonostante il
sangue
scuro che gli sporcava le mani e le anime dei morti legate alle sue
spalle. Un
distruttore peggiore degli altri, un eroe senza coscienza, capace di
amare solo
se stesso: le rovine lasciate dietro ogni suo passo dimostravano che
non era
mai capitato nulla di buono ai poveri sventurati che si erano
avvicinati troppo
a lui, perché era un uomo tra le cui carni esisteva soltanto
venefico orgoglio,
devastazione, morte e infelicità.
Era, in definitiva, un uomo troppo simile a lei.
“Spero che tu sappia che, se sei riuscita a entrare qui
dentro e a superare
ogni guardia e ogni ostacolo, è solo grazie a me. Tu sei
qui, davanti a questa
porta, perché l’ho voluto io. Altrimenti, a
quest’ora, saresti già stata
scaraventata in una prigione costruita nel bel mezzo del nulla. Ti
è chiaro,
Wanda?”
Lei incrociò le braccia sotto al seno e fece schioccare la
lingua, evitando di
ricambiare il suo sorriso falsamente amichevole. Alzò il
mento e assunse un'espressione
annoiata, una maschera sottile che celava a stento il suo nervosismo e
la
tensione che le irrigidiva i muscoli e le chiudeva i polmoni.
“Che strano silenzio. Questi sei mesi da ricercata ti hanno
addomesticata?”
Stronzo.
“Spostati”, sibilò, livida di rabbia.
Aveva poco tempo e non sopportava di dover ascoltare le sue stronzate,
le
cazzate che sicuramente amava ripetersi allo specchio aggiustandosi i
capelli
disordinati. Se ne andasse via e la smettesse di pavoneggiarsi, si
allontanasse
dal suo fottuto orgoglio e dalle sue maledette convinzioni e la
lasciasse
passare.
Lei non era lì per Stark, né per i Vendicatori.
“Oh, allora parli ancora”, la derise, cattivo.
Fulmini rossi scoppiettarono tra le sue mani e salirono a contornarle i
gomiti,
irrigidendole la nuca.
“Stark, non sto scherzando. Non sono affari che ti
riguardano”, sillabò adirata
e compiendo un passo in avanti, verso l’abitazione. Il
passaggio le fu bloccato
dal corpo di Stark che la confinò nello spiazzo del
giardino, lontana dalla porta
a vetri che l’avrebbe condotta dentro gli appartamenti dove
lei stessa aveva
vissuto. Con la coda dell’occhio scorse il proprio riflesso
negli specchi e non
si riconobbe, accorgendosi tardi di essersi spaventata dinanzi
all’immagine di
quello che era diventata, di come era nuovamente cambiata.
La gonna ampia le arrivava a metà ginocchio e mostrava i
lividi che si era
procurata durante le missioni, altre ferite violacee e altre ancora che
dovevano cicatrizzarsi, mentre la maglietta nera le fasciava il corpo
spigoloso, evidenziando le spalle magre e le costole
sporgenti.
Nella sua mente
esplose l’idea che così conciata poteva ricordare
una bambina, con le occhiaie
profonde e il trucco sfatto, le guance tanto magre e le labbra
screpolate.
Pensò che sembrava indifesa, spaventata, con lo stesso
sguardo perso dei volti
terrorizzati delle persone sopravvissute al disastro di Sokovia.
Sokovia, Ultron, una città nel cielo.
Pietro.
Wanda si riscosse e cercò di raggiungere la porta,
mantenendo a stento il controllo
sui propri poteri e sulla propria magia, e Stark non volle
semplificarle la
situazione, a quanto poteva constatare, e ciò le fece
avvertire un inspiegabile
desiderio di ridergli in faccia e di beffarsi di lui che, stronzo
orgoglioso,
non aveva compreso nulla della sua disperazione. Non capiva, non
vedeva, che
lei quel giorno sarebbe stata disposta ad arrampicarsi a mani nude
sulle mura
bianche di quell’immenso edificio, a sacrificare ogni cosa
pur di completare la
sua impresa, la sua missione.
Perché
è una missione questa visita? È una questione di
vita o di morte, è un
piano da realizzare per un bene superiore?
O, forse, è
semplicemente il capriccio della bambina che sono? Il desiderio
irrequieto di vederlo, la necessità paralizzante di
guardarlo, di toccarlo, di
ascoltare la sua voce. E lui è qui e non sa che io lo sto
aspettando.
Lui è qui e
non immagina che io ho bisogno di capire se davvero non esiste
più
nulla per noi, se davvero ho rovinato tutto.
Se davvero ora siamo
niente.
“Permettimi di ricordarti che, mentre tu hai passato gli
ultimi mesi a
scorrazzare da una parte all’altra del pianeta e a giocare a
nascondino con
l’allegra compagnia, io... sono stato qui. Con
lui.”
Stark si staccò dalla porta e lei non si impaurì,
non arretrò di un passo. Lo
fronteggiò, le guance accaldate per l’affronto, un
senso di vertigini
implacabile che la costringevano a non compiere un gesto che poteva
apparire
avventato e ridicolo se visto dall’esterno.
Si costrinse, con forza e determinazione e non senza farsi del male, a
contenere il dolore ai palmi delle mani che la supplicavano di
schiaffeggiarlo.
“Quindi sì, Wanda. È un affare che
riguarda anche me. Io devo assolutamente
accertarmi che il motivo della tua improvvisa comparsa sia giusto e
magari non
potenzialmente distruttivo. Fammi un segno con la testolina, su e
giù, per
farmi intendere se hai compreso le mie parole”, la
sbeffeggiò, le mani nelle
tasche dei pantaloni eleganti, i movimenti lenti e misurati come quelli
di uno
squalo, a mostrarle come lei avrebbe dovuto muovere il capo.
“Sei suo padre?”, ribatté, inclinando a
destra la testa.
“Suo padre, amico, collega di lavoro o compagno di pigiama
party. Scegli tu.”
Piccola fuggitiva
psicopatica.
Non lo disse, eppure lei trovò quell’insulto tra
le righe delle sue frasi, tra
l’inflessione delle lettere e le pause attentamente studiate.
Era il soprannome
che doveva aver sputato, acido, in tutti quei mesi, il soprannome che
le aveva
affibbiato credendo così di denigrarla, di infastidirla.
Non aveva neppure bisogno di leggergli la mente, come aveva fatto tante
volte
in passato, scoprendo così gli appellativi poco lusinghieri
che le aveva sempre
riservato. Sapeva bene cosa lui pensava di lei, perché
odiarsi a vicenda era
l’unico sentimento che avevano il piacere di condividere,
l’unico modo in cui
erano in grado di rapportarsi quando si manifestava il bisogno
imprescindibile
di un dialogo fintamente civile tra loro.
Ma, dopo tutti quei mesi, sopportare la sua alterigia era diventato
qualcosa di ancora più
ingestibile.
“Interessante. Adesso, Stark, ti consiglierei
di...”, venne interrotta, senza
alcun garbo.
“No, adesso parlano gli adulti. Hai capito?”
“E saresti tu l’adulto?”
Stark stava per risponderle con un’altra battuta tagliente e
crudele, un altro
insulto urlato dal suo sorriso obliquo, dal suo atteggiamento sfrontato
e dal
rapido scatto del braccio. Parole eclissate, scomparse, non appena
riecheggiò
il suono di una vocina sottile che squarciò la loro guerra,
congelando entrambi
sul posto.
Oh, io ho paura di
essere scoperta, di dover fuggire ancora, di dovermi
nascondere e proteggere. Tu, invece, perché sei tanto
rigido, stupido uomo di
metallo?
“Signor Stark? Signor Stark è in
giardino?”
Lo vide sgonfiare il petto e passarsi una mano sulla fronte, gli occhi
chiusi e
un sorriso accennato.
“Peter, sono qui.”
Un ragazzino, un adolescente nascosto da una voluminosa felpa rossa e
jeans,
aprì di scatto la porta a vetri e si rivolse subito a Stark,
il volto paonazzo,
i capelli scompigliati e una strana foga nella voce.
“Signor Stark, giuro che non è stata colpa mia!
Gli impianti di sicurezza sono
impazziti da soli, completamente da soli! Io ero persino in
un’altra stanza,
non può assolutamente essere stata colpa mia. Sono
totalmente, lo giuro,
totalmente innocente. Io sono...”, si interruppe non appena
la vide. Fece tre
passi avanti, dimenticando di chiudere la porta, e la
osservò incuriosito, con
gli occhi che studiavano la sua figura come dinanzi ad un insetto da
laboratorio schiacciato su un vetro sottile del microscopio.
Uno sguardo attento, non sfrontato, simile a quello di uno scienziato
nell’attimo esatto in cui riesce a risolvere un enigma
complicato, quasi
impossibile, insieme ad una non poco celata euforia che gli arrossava
ancora di
più le guance.
“Oh. Ma è lei?”, domandò,
gettando un’occhiata a Stark che gli rispose piano e
con le palpebre chiuse, il capo chino a terra e le mani di nuovo
infilate nelle
tasche.
“Sì.”
Il bambino dell’asilo fece allora qualche passo indietro,
continuando a
scrutarla.
“La Strega Rossa.”
Stark sbuffò e lei soffocò il malsano desiderio
di soffocarli entrambi o di
gettarli sull’asfalto facendoli prima cadere da un
grattacielo qualsiasi.
“Lei”, sputò quel viscido, mentre si
massaggiava la fronte con movimenti
circolari.
“Qui?”
“Non la vedi?”, la indicò, stendendo il
braccio destro verso di lei e
sforzandosi di non essere lo stesso stronzo che era stato poco prima.
“Ma come... Ah.”
Il ragazzo nascose le mani nella tasca della felpa e
cominciò ad annuire da
solo come se stesse seguendo un ragionamento che solo loro due potevano
comprendere, in silenzio e senza bisogno di altri sguardi o
parole.
Sembrava
affascinato, ancora più curioso, stranamente felice e
rilassato.
E non era minimamente spaventato.
“Esatto”, esalò Stark, guardandolo con
la coda dell’occhio in un atteggiamento
che non riuscì a definire.
Dunque cosa ti succede?
Cosa è questa strana quiete, cosa è questa calma
mai
mostrata a nessuno, nemmeno a Steve?
“E non dovremmo lasciarli soli? Aiutarli?”
E soprattutto cosa
è questo siparietto?
“Tu chi saresti?”
Wanda decise di intromettersi, dichiarando dentro se stessa che quella
situazione, già altamente ridicola, stava raggiungendo vette
inesplorate. Si
mise di fronte al ragazzino mingherlino e lo guardò
dall’alto verso il basso,
cercando di ricordarsi il motivo per cui aveva un’aria
così familiare.
“Sono Peter. Parker. Peter Parker. Mi ha incontrato in
Germania, io ero nella
squadra del Signor Stark e saltavo da una parte all’altra,
lanciavo ragnatele,
ho persino rubato lo scudo a Captain America. Lei forse non si ricorda
di me,
avevo il volto coperto, ma sono io, sono il bimbo ragno.”
Bimbo ragno.
“Ho capito, finalmente. Sei il nuovo passatempo preferito di
Stark, allora. Li
sceglie sempre più piccoli, non lo avrei mai detto. O forse
sì, quest’uomo è
pieno di sorprese in fondo. A questo punto bisogna solo aspettare e
capire se
tu durerai più degli altri. Facciamo una
scommessa?”, rise a denti stretti e
non smise mai di osservarlo, non si perse nulla del suo volto fin
troppo
giovane che rimase immobile e imperscrutabile, neanche minimamente
scalfito.
Aveva un’espressione triste, una tristezza che aveva
ritrovato spesso sul volto
di suo fratello, come se non fosse triste per se stesso ma avesse
pietà di lei
e delle sue parole talmente velenose da averle reso amare la bocca e la
lingua,
talmente appuntite da essersi ritorte contro la sua stessa gola
malamente
esposta.
Nessuno dei due fece vagare altrove lo sguardo e il ragazzino si
mangiò due
volte le labbra prima di formare una dura linea con la bocca e di
addolcirla
all’ultimo con un mezzo sorriso sdentato.
Stark si era messo alle sue spalle e lei non si era neppure accorta di
quel
movimento spontaneo, di quell’asse di equilibrio spezzato, di
quella strana
pace che uccideva le sue parole furiose, le sue frasi cattive.
“Mi dispiace che sia triste. Visione si trova nella sua
stanza e non si
spaventi, sono sicuro che...”
Si fermò impacciato non appena Tony gli pose le mani sulle
spalle e lo spinse a
dirigersi da un’altra parte, a muoversi a destra per
oltrepassare il giardino e
avvicinarsi al grande cancello che li avrebbe portati fuori da
quell’immenso
edificio, da quel posto di fantasmi e rimpianti.
“Andiamo, Peter. Hai ragione, è meglio lasciarli
soli.”
Notò che aveva stretto più forte le dita contro
la felpa del ragazzo e che poi
lo lasciò andare di scatto, indicandogli di nuovo la strada
con il mento e
rispondendo al suo tacito sguardo con un sorriso aperto e un movimento
d’assenso del capo.
Parker parve convincersi annuendo velocemente e si mosse in avanti
prima di
fermarsi un’ultima volta.
“Mi dispiace davvero”, proferì il
ragazzo con un filo di voce e gli occhi
lucidi.
Poi si avviò verso il giardino e non si voltò
più indietro. Wanda sentì
qualcosa di strano rimescolarle la pancia e, non appena Stark le
passò accanto,
lei non poté trattenersi e lo attaccò duramente.
“Dove hai trovato quel bambino, Stark? All’asilo?
Vuoi distruggere anche lui?
Cosa vuoi fare? Che cosa hai al posto del cuore, dei sentimenti, che
cosa hai
che ti rende così insensibile?”
Sembrava che non le avrebbe risposto e che non si sarebbe mai girato a
guardarla, sembrava che le sue domande non avrebbero mai trovato una
risposta e
che quelle accuse sarebbero rimaste per sempre perse nel vento e nel
silenzio
di quello spiazzo in cui era stata lasciata da sola. Era certa che lui
non
avrebbe mai tradito la sua posa rigida e le spalle sdegnosamente
voltate verso
di lei, ne era veramente certa.
Wanda si appoggiò alla maniglia della porta a vetri e poco
prima di entrare
sentì distintamente l’unica frase sfuggita al suo
patetico orgoglio, l’unica
risposta che le avrebbe mai concesso e che non avrebbe mai
più ripetuto, mai
più ammesso, mai più rivelato a nessuno.
“Lui è il mio ultimo peccato.”
***********
Perduta, amore mio, tu
sei perduta.
Tu cadi cadi
giù
il mondo non ti vuole
più.
Bisbiglia piano piano
non render tutto vano.
Non devi aver paura
tu sai la
verità più pura.
Wanda si fermò dinanzi alla porta socchiusa della camera di
Visione e cominciò
a ripetere queste breve frasi, come una nenia cantilenante nella sua
testa,
come una ninnananna ricordata all’improvviso e da sempre
conservata da qualche
parte dentro i suoi pensieri, dentro le sue paure più
mostruose.
Si fermò
davanti al legno scuro e respirò piano, pianissimo,
tormentandosi la coscia con
una mano e i capelli con l’altra, masticandosi le labbra
già spaccate e
mordendosi la lingua.
Sapeva che lui era lì e, forse, anche lui sapeva che lei era
fuori dalla sua
stanza, ferma come un’idiota, incapace di bussare e di
articolare due stupide
parole, un misero suono di saluto.
Cominciò a tremare, visibilmente, e a sentire la pelle
fremere, prudere, mentre
il Sole già basso non riusciva a stendere i suoi raggi verso
di lei,
all’interno di quel corridoio deserto.
Perduta, amore mio tu
sei perduta.
Ingoiò aria, ingoiò bile, ingoiò il
sapore amaro che le impastava la gola e
chiuse gli occhi, sforzandosi con ogni fibra del suo essere ad aprire
quella
dannata porta.
Si strozzò con la sua stessa saliva e si infilò
un pugno in bocca per soffocare
il suo tossire, ricominciandosi a mordere le nocche escoriate. Una
lancinante
sensazione di panico la strangolò, riducendola in semplice e
stupida polvere.
Pietro, ti prego dammi
la forza, perché non credo di potercela fare, non penso
di essere così forte, mi sento male, ti prego aiutami. Ti
prego, dammi la forza
di essere migliore di quello che sono sempre stata, aiutami a non
scappare via,
dammi la forza per non piangere perché sto già
piangendo, singhiozzo già.
Ti prego, fratello mio,
aiutami.
Ti prego.
“Ciao.”
La voce le era uscita talmente fioca da non averla udita neppure lei,
da averla
appena intuita, un fischio tremulo svanito nel nulla.
Fece un passo nella stanza, con la vista appannata, la voce smorzata e
un
calcio nella pancia che le arrotolava tutto lo stomaco. Un altro passo,
un’altra preghiera, e lei era dentro la camera, poco oltre la
soglia.
Non aveva
più respiro, aria, sangue nelle vene. Era un sacco vuoto che
vedeva tutto
annacquato, un burattino con i fili tagliati, il cuore scappato dalle
costole
fin troppo evidenti.
E lui, lui, lui, lui, lui non era stato nella sua vita se non nella
forma di
un’ombra, un fantasma, un’allucinazione crudele,
per sei stramaledettissimi
mesi.
Doloroso niente, luminosa solitudine della sua mente folle senza
più il suono
della sua voce: creiamo sempre ciò che temiamo di
più e lei questo lo aveva
imparato bruciandosi ogni quadrato di terra che aveva calpestato.
Intuì il suo volto dietro le lacrime e la bocca dello
stomaco cominciò ad
annodarsi, rendendole secca la gola.
“Ciao, Vis. Ciao.”
Tu cadi cadi
giù.
Si pulì velocemente gli occhi per riuscire a vederlo e
mantenne un’espressione
calma, indecifrabile, una sottile carta velina sui suoi tratti tristi,
mentre
un formicolio dietro le ginocchia la spingeva verso il centro della
stanza,
scorrendole languido lungo tutta la sua colonna vertebrale.
Si ferì i palmi con le unghie e serrò i denti
fino a provare un atroce dolore
alla mandibola e a gustare un sapore metallico in bocca,
nell’ansia di
mantenere la calma.
Lui era lì.
Seduto composto dietro una scrivania su cui era posata una scacchiera,
vestito
con alcuni dei suoi semplici abiti umani, la mano ancora immobile, a
mezz’aria,
con un pedone bianco stretto dalle lunghe dita affusolate.
Percepì quella mano
stringerle il cuore, passare attraverso il suo corpo e rendersi carne
tra la
sua carne, il palmo tra il suo sangue e le coronarie, le unghie che le
strappavano via ogni minima resistenza. Una tortura cristallizzata, un
peso
invisibile, un potere crudele.
Lo osservò e si sentì perduta, si
sentì sconfitta, e percepì qualcosa
sgretolarsi in gola e riversarsi sulla sua nuca bagnata e coperta dai
capelli
sudati.
Batté le ciglia una volta e, quando lo ritrovò di
nuovo dinanzi a sé,
capì che non era paura la sensazione spaventosa che stava
vivendo, quel lieve
calore stagnante tra le giunture delle sue ossa, e non era neppure
panico né
tristezza.
Era semplice accettazione.
“Ciao, Vis.”
“Wanda.”
Il mondo non ti vuole
più.
Visione ricambiò il suo sguardo, ma non sembrava turbato o
scosso. Stupito, era
in parte stupito, un po’ pensieroso, attento a immagazzinare
dati e niente
altro. Il suo volto non tradiva alcuna emozione.
Lei pensò di avvicinarsi, ma non appena sollevò
un piede decise di
riabbassarlo, sforzandosi di rimanere al suo posto e di non correre da
lui a
nascondersi sotto il suo maglione, di non chiedergli di smetterla di
fare così
e di ricominciare a guardarla come aveva sempre fatto, di sfiorarla con
i suoi
tocchi gentili, attenti e dolci, di parlare sottovoce e di raccontarle
una delle
tante storie sagge e antiche che lui amava tanto leggere. Si trattenne
dall’urlare mentre lo osservava rimanere lì, in
quella posizione scomoda, in
una maniera innaturale.
Sei diverso, questo non
sei tu.
Si umettò le labbra e si passò una mano contro la
fronte, costringendosi a
controllare il tono della voce e a non biascicare.
Bisbiglia piano piano.
“Come stai?”
“Bene, Wanda. Grazie.”
La sua voce era meccanica, distante. Impersonale.
La agghiacciò e si insinuò tra i suoi incubi
peggiori e li portò alla luce,
quasi a volerle dimostrare che ciò che aveva sempre temuto
si era alla fine
avverato di fronte a lei. Lei che era impotente, vinta, sconfitta.
Perché lui non la voleva più.
Non render tutto vano.
“Sì. Sì, infatti, sì. Ti
trovo bene. Stai bene.”
Sei diverso. Lo sento,
sei diverso.
Sembri tu, ma non lo
sei.
Sei rigido, come una
macchina, proprio tu che una macchina non lo sei mai
stato.
Mi guardi e non sbatti
le ciglia, mi guardi e non mi vedi, sei qui e non lo
sei.
Che cosa è
successo?
Che cosa ti ho fatto?
Non riesco a leggerti la
mente, non sento niente.
Niente.
Niente di niente.
“C’è qualche problema, Wanda?”
Non devi aver paura.
Rimase ferma ad osservarlo e lui posò il pedone vicino al
profilo della
scacchiera e poi si alzò dalla sedia, spostandosi dinanzi
alla scrivania, con
dei movimenti lenti e precisi che le calpestarono il cuore che aveva
dimenticato lì, sul pavimento, da qualche parte. Le era
caduto non appena aveva
messo piede in quella stanza e non poteva adirarsi con nessuno, non ne
aveva il
diritto, perché lei aveva sempre avuto così poco
riguardo nei confronti delle
proprie cose, anche di quelle a cui teneva di più, che non
poteva biasimare gli
altri che seguivano semplicemente il suo esempio, no, non poteva
adirarsi, non
poteva.
“Che cosa hai combinato, Vis?”
Lo osservò ancora e smise di tremare, raddrizzando le spalle
e concedendosi
soltanto di continuare a tormentare le pieghe della gonna.
Inclinò il capo e
notò il modo in cui lui respirava, fin troppo lentamente,
come se quell’alzarsi
e abbassarsi del petto gli provocasse fatica. Quasi non deglutiva e
aveva uno
sguardo lontano, irraggiungibile.
I suoi occhi erano azzurri e senza più il cerchio dorato
intorno alle pupille.
Tu sai la
verità più pura.
Consumò velocemente la loro distanza e pose le mani, aperte
e con le dita
distese al massimo, vicino alle sue tempie, impedendogli anche solo di
capire
che cosa lei aveva intenzione di fare. Lui arretrò,
scostandola, ma lei si
addossò completamente al suo corpo rigido e dai palmi
lasciò fuoriuscire la sua
magia, dei tentacoli rossi che la collegarono ai pensieri della sua
mente e che
le trasmisero immagini spezzate e rovinate, tagliate, in bianco e nero,
di una
serie di codici binari.
La lingua le si attaccò al palato ma lei riuscì a
mormorargli un ‘fidati
di me’
che le costò dei lampi viola dinanzi alle pupille
nere.
Allargò le dita e
digrignò i denti, respirando male, irrigidendo i muscoli.
“Wanda, cosa stai facendo? Dovresti allontanarti, devi
allontanarti.”
Ascoltò la sua voce cambiare, vibrare al pronunciare le
ultime due parole, e
allora chiuse gli occhi e si concentrò, sfogliando i
messaggi cifrati che si
ripetevano sistematicamente nella sua testa. Visione fece un altro
passo
indietro, ma fu fermato dal ripiano della scrivania, ritrovandosi
ingabbiato
tra il legno e lei, le sue gambe, la sua gonna.
Perse, come un oggetto in bilico che crolla, l’aura di
compostezza che lo aveva
cristallizzato fino a quel momento e tentò di allontanarla,
toccandole le
spalle e poi le braccia, senza potersi avvicinare alle mani. Le strinse
i
gomiti e lei ricordò l’incidente in Nigeria,
quando non era stata in grado di
controllare la sua magia, di seguire il flusso dei suoi poteri
distruttori, e
aveva fatto del male, senza volerlo, causando l’ennesima
catastrofe e le
ennesime morti.
Mosse le dita ricoperte di anelli e attenuò il colore
vermiglio
dei lampi che si intrecciavano ai suoi polpastrelli e che scendevano
verso la
testa di Vis. Schiuse la bocca e tentò di calmarlo, mentre il
suo animo tormentato non le dava tregua.
Mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace.
Che cosa hai fatto?
Perché i tuoi
occhi sono diversi, perché? Dimmelo, che cosa è
successo? Che cosa
hai, che cosa posso fare? Parlami, per favore.
“Sei davvero qui”, udì lui sussurrarle,
stanco, affaticato.
Wanda posò i polpastrelli sulla sua fronte e
allentò il nodo dei tentacoli
rossi che le stava legando le vene dei polsi, martellandole il centro
del
cranio. Si sistemò meglio tra le sue gambe, fasciate da dei
pantaloni scuri, e
la sua magia continuò a vagare, strisciando tra delle
stringhe incomprensibili.
Lui sospirò, rumorosamente, e lei catalogò quel
verso come uno di fastidio, di
rabbia, di disappunto. Si odiò, si maledisse, e non resse il
suo sguardo
triste.
Non ti
succederà nulla, non ti farò male, te lo
prometto. Voglio solo aiutarti,
voglio solo capire. Voglio solo ritrovarti.
Io non ti sento
più.
“Sei qui, Wanda. Sei davvero qui.”
Lui strizzò le palpebre e poco dopo la sua voce
tornò asettica, priva di
inflessioni.
Le sue dita, che prima stavano indugiando vicino ai suoi fianchi, si
chiusero a
riccio, scottate. Riprese a respirare normalmente e ad apparire freddo
come
lucido metallo.
Non ti sento.
“Dovresti allontanarti e ripristinare le dovute
distanze.”
Lei strinse le labbra e si avvicinò con le mani alla gemma,
in una lenta
carezza alla radice del naso.
Mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace.
“Vis, te lo giuro. Io non ti farò del male, io non
potrei mai farti del male.”
Bugiarda, non era vero.
Gli aveva già fatto del male e in tanti - troppi - modi in
una volta sola.
“Wanda, tu non dovresti essere qui.”
Le sue unghie incontrarono la superficie calda della gemma e un
pensiero si
impose nella sua mente, pestando i piedi e scuotendole il corpo: lei
aveva
bisogno di toccarlo.
"Hai bloccato una sfera dei sentimenti.”
E aveva bisogno di stringergli la mano e di sentire una connessione,
qualsiasi,
avere la prova che esistesse ancora qualcosa tra di loro, qualcosa di
salvabile. Cercò con la coda dell’occhio i suoi
palmi rossi che stringevano il
bordo del tavolo e volse interamente il capo verso la mano destra.
Settantatré.
Erano state settantatré le notti in cui lei si era
svegliata, urlando in preda
agli incubi, e aveva trovato lui, sdraiato sul pavimento, con le dita
allacciate alle sue.
Lei la conosceva, quella mano, la conosceva bene. C’erano
state delle notti, il
mondo addormentato e silenzioso, in cui lui aveva lasciato aperto un
carillon,
sul comodino accanto al suo letto, la cui dolcissima melodia aveva il
compito
di tranquillizzarla e di concederle il ristoro di poche ore di sonno.
Ma in
diverse e tante notti, più buie e più spaventose,
la lenta musica del carillon
non le aveva impedito di risvegliarsi sudata, con i muscoli tremanti e
la paura
chiusa in gola, fermata a stento dai denti. In notti come quelle lui le
aveva
canticchiato una ninnananna russa, sottovoce, piano piano, cullandola e
rassicurandola.
Era rimasto sempre sdraiato sul pavimento, una mano stretta
alla sua, le dita ben legate fino all'alba.
Aveva sempre fatto così.
Aveva tentato, notte dopo notte, senza che lei gli chiedesse nulla e
senza poi
parlarne durante il giorno, di salvarla da se stessa.
“Hai... inserito un virus e, è impossibile ma, ora
c'è un muro nero che
aggredisce quei sistemi. Come ragnatele.”
Una sola volta era cambiato qualcosa.
In un sogno orribile e malvagio le era apparso Pietro.
Amato fratello mio.
Con il corpo martoriato e un sorriso splendente, il petto ricoperto di
sangue e
gli occhi vitrei, i capelli bagnati dalla polvere e dalla terra.
Sono morta nello stesso
istante in cui tu sei caduto a terra, con le palpebre
spalancate.
Le aveva sorriso sfacciato e le aveva ricordato, con un tono insolente,
di
essere nato dodici minuti prima di lei. Ridendo le aveva sussurrato che
lei, la
sua adorata gemella, la sua Wanda dal broncio facile, doveva smetterla
di
impartirgli ordini, di comandarlo con quel piglio severo. Era lui il
più
grande, il più saggio, il più intelligente. Era
lui a doversi prendere cura
della sorellina minore, non il contrario.
Io sono nato dodici
minuti prima di te. Ricordi?
Si era svegliata sussultando, talmente agitata da esser quasi crollata
sul
pavimento, aveva mosso frenetica le mani e le gambe e aveva serrato la
mandibola non appena un sapore acido era salito a bruciarle il palato e
la
lingua, facendole rischiare di soffocare nel suo stesso vomito.
Lui era sempre stato lì.
Era stata l'unica volta, l’unica, in cui era salito sul letto
e l'aveva
abbracciata, come un cucchiaio, il suo petto duro contro la sua schiena
scossa
dai singhiozzi. Le aveva bloccato le braccia, quasi a volerla inglobare
con il
suo corpo, nel tentativo gentile di prendersi, di assimilare, tutto il
male che
lei non riusciva più a portare dentro di sé.
Tutto il male che il mondo le aveva infilato nel corpo, nello spazio
libero di
ogni cellula e nei percorsi aggrovigliati di tutti i nervi.
Era sempre rimasto
lì, con lei, fino all’arrivo di ogni alba.
Sempre.
E lei, alla fine, come lo aveva ripagato?
Sputandogli in faccia.
“Hai creato un blackout per una parte della tua mente. Un
blackout localizzato
che non interferisce con il tuo lato umano. Ti rende un automa. Buono,
servizievole, ma spento.”
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e
abbassò il capo verso terra,
percependo all’improvviso delle strette allo stomaco e delle
viscere nella
pancia, intente a mangiarle il fegato e a toglierle l’aria.
“Perché non lo elimini?”
Perché lo hai
creato?
"Non voglio sbloccarlo. C’è un messaggio di
notifica che mi avverte delle
controindicazioni. Il dolore è classificato come altamente
intollerabile.”
Wanda sollevò la testa, simile a una molla, e
riposizionò le mani vicino alle
sue tempie.
"Ora sistemiamo ogni cosa."
Le bloccò i polsi, con una presa ferrea e decisa, e la
osservò sconcertato, gli
occhi attraversati da un lieve guizzo che sparì nello stesso
istante in cui era
comparso. Tornò negli abissi, talmente tanto velocemente da
farle credere di
averlo solo immaginato, quel rigurgito di umanità che
zoppicava e si dibatteva
sul fondo di un baule, e la lasciò di nuovo abbandonata a se
stessa. Da sola a
combattere, da sola a sopravvivere, mentre lui la guardava e le parlava
con lo
stesso tono piatto e monocorde dei computer.
Lui non c’era più.
"Il dolore è classificato come altamente intollerabile.
Vorresti davvero
rischiare?"
Sì.
No.
No, non rischierei.
"Forse ora è diverso. Forse adesso sarebbe niente."
Niente. Niente di
niente.
Noi siamo niente, a
causa mia, noi siamo niente. Perché dovrebbe fare male?
"Ne dubito. Già adesso è difficilmente
sopportabile e non voglio
immaginare senza il blocco, non voglio saperlo."
Gli sfiorò le guance, gli angoli della bocca.
"Ti fa male?"
Osservò i suoi occhi spenti e si sentì morire
dentro.
"Mi fai male”, le rispose, e poi volse la testa a sinistra,
confuso.
Sembrava si fosse spezzato qualcosa, dentro di lui, come un vetro
sottoposto
alla continua pressione di una punta di diamante, un vetro destinato a
scomporsi in miliardi di cocci.
"Sai che non ti avrei mai lasciato sola”, gli
scappò dalle labbra, di
getto.
Ma erano istanti che si dissolvevano in fretta, scomparivano nella
nebbia dei suoi occhi.
E lei tentava di aggrapparsi a quegli spiragli, di sfondare i muri
dibattendosi
tra mattoni di fango secco, con le mani scorticate e colanti strisce di
sangue
fresco.
"Tu sai cosa ho provato quando è morto Pietro. Tu c'eri, tu
mi hai vista”,
disse, con veemenza, mangiandosi le parole e cercando il suo
sguardo.
Gli
parlava, arraffazzonava scuse e motivazioni, lo supplicava, eppure
aveva la
sensazione di sbattere la testa contro uno specchio rotto che
rifletteva
soltanto volti spezzati, bellezze rubate.
Non lo sentiva, non lo sentiva e
basta.
Lui non c’era più.
"Ti sto lasciando libera, sto facendo quello che mi hai chiesto. Anche
perché gli algoritmi...”
"Al diavolo gli algoritmi, al diavolo quello che ho detto, al diavolo
tutto!", lo interruppe, illudendo se stessa, illudendo i suoi ricordi
che
ritornavano a piegarle le costole.
"Non funziona così, non possiamo muoverci in base ai
sentimenti.
Catastrofi, nascono solo catastrofi.”
Percepì una straziante nausea ritornare a tormentarle la
gola e la bocca, il
panico colpirle i tratti del viso che non poterono più
rimanere impassibili e
che si sciolsero come neve buttata su una spiaggia rovente. Si morse il
labbro
inferiore, serrò le palpebre, e frenetica tirò
fuori dalla scollatura il
ciondolo che aveva appeso al collo, un semplice cerchio scuro.
Glielo porse e
Vis prese tra le dita la collana, attento a non toccare anche lei.
E il suo respiro non mutò, la sua voce non
cambiò, i suoi occhi rimasero dei
distanti pozzi blu.
Dove sei?
"La indossi ancora."
Che cosa posso fare?
"Non l'ho mai tolta."
Visone giocò con quel ciondolo e lo girò da una
parte e dall’altra,
esaminandolo.
"Pensavo che non ti sarebbe piaciuto, però sapevo che dovevo
farmi perdonare."
No. No, non dovevi.
"Perché eri entrato un'altra volta nella mia stanza, senza
bussare, e mi
hai trovato in accappatoio. Ti sei scusato così tanto ed eri
talmente
dispiaciuto e mortificato che non potevo arrabbiarmi né
infierire”, tentò di
essere leggera, mentre ripercorreva il ricordo, ma un crampo al petto
glielo
impedì.
Perduta, amore mio tu
sei perduta.
Tu cadi cadi
giù.
"Ero molto imbarazzato."
Abbassò il mento e guardarono insieme il pendente che lei
non aveva mai
mostrato a nessuno: un anello di vibranio, all'altezza del cuore.
Affinché quel
grumo scuro potesse essere sempre protetto, nelle battaglie e nella
vita.
Quando glielo aveva regalato lei non lo aveva capito.
Aveva impiegato molto tempo a comprendere, ad accettare, quanto a fondo
lui
l'avesse vista e con quanta intensità desiderasse
proteggerla dal mondo crudele
che le aveva già tolto tanto, - tutto.
Mesi, mesi e mesi: notti di cui aveva perso il conto e mattine
silenziose in
cui si era crogiolata, strafottente, nel suo antico dolore. Non aveva
prestato
attenzione a niente altro se non a se stessa e al suo patetico
compiangersi.
Poi, quando aveva compreso la realtà e la verità,
era già troppo tardi ed era
già finito tutto.
Il mondo non ti vuole
più.
“Perdonami, Vis. Scusami, per favore.”
Si sporse verso il suo viso, ma lui si mostrò insofferente e
sgusciò lontano
dal tavolo,
raggiungendo il centro della stanza, vicino al lato del letto e
all’armadio
addossato alla parete.
Il suo petto sembrava in affanno, i suoi sistemi compromessi.
Le parlò senza guardarla, concentrandosi su un punto
qualsiasi dell’intonaco
bianco del muro.
"Ogni parola porta ad una conseguenza."
“Quindi non mi perdonerai?”
Ascoltò le sue parole che gli uscivano a fatica, elaborate
lentamente, e lei
percepì altri calci colpirle la pancia.
Bisbiglia piano piano.
“Nulla deve essere perdonato, non è stato compiuto
nulla di male”, lo vide
portarsi una mano al petto, in un gesto tanto umano che non
riuscì a
controllare, “Ho sbagliato io.”
Non render tutto vano.
“Ascolta, Vis, è importante. Io provo qualcosa
per-“
“Ti prego, Wanda. Ti prego vattene”,
pronunciò dolorosamente quelle parole,
coprendosi la testa con le mani, così da nasconderle gli
occhi e la fronte.
Si sentì impotente, invischiata in un muco di ragnatele che
aveva creato lei
stessa, in cui, masochista, si era lasciata fagocitare. Una rete di
bugie, di
falsità, di cattiverie, di incubi, di autocommiserazione:
qualcosa che la stava
uccidendo e che coinvolgeva chiunque era sulla sua stessa strada, una
trappola
mortale di cui aveva fatto scattare troppo presto la molla,
ritrovandosi
prigioniera e carnefice allo stesso tempo.
Era stato semplice in passato, quasi
divertente, inveire contro la vita e l’universo e urlare
improperi contro il
destino e contro una fantomatica maledizione pendente sul suo capo. Si
era
appesa alle mani di lui, perché tra loro era sempre stato un
gioco di mani, e
invece di risalire dagli abissi aveva voluto tirarlo a fondo, osservare
quanto
lui avrebbe sopportato per amor suo. Si era incisa sulla fronte la
parola
sopravvissuta e si era immedesimata tanto bene in quella condizione
esistenziale, che non aveva pensato a far sopravvivere qualcun altro
vicino a
lei.
Aveva compiuto una cazzata dopo l’altra, una stronzata dopo
l’altra, in
continuazione, e aveva sbagliato senza fermarsi a riflettere neanche
per un
fottuto secondo, certa di poter essere perdonata ogni volta.
Tronfia aveva
marciato sul suo amore, incurante lo aveva calpestato, denigrato.
Fino a ritrovarsi all’angolo.
Lì, in quella stanza, con lui che la pregava di andarsene.
“Non so come hai fatto a entrare nell’edifico,
immagino solo chi ti abbia
aiutato. Ma ora dovresti andartene, conviene anche a te.”
Visione si rifiutò di girarsi e la voce le giunse ovattata,
ostacolata dalle mani.
Aspettava invano un suo ultimo sguardo, un suo ultimo sorriso, pur
sapendo che
non ci sarebbe stato, non ora che non aveva più
senso.
Gli aveva promesso di
non fargli del male e invece gliene stava facendo, lo stava facendo
ancora,
continuava a farlo, perché non sapeva neanche iniziare un
discorso e
spiegargli, provare a giustificare la sua cattiveria infantile.
Aveva trascurato il suo affetto, aveva compiuto delle ingiustizie
imperdonabili.
Non voglio lasciarti,
non più, non adesso che ho compreso, non adesso che
respiro.
Ma devo. Per te, solo
per te.
“Mi dispiace. Steve mi aveva consigliato di prepararmi un
discorso, Natasha mi
ha riso in faccia e Stark mi ha minacciato sulla porta. Tutti hanno
provato a
farmi capire che avevo oltrepassato il limite e io non ho voluto
ascoltare
nessuno di loro. Nessuno. Ho voluto, poco poco, almeno una volta,
vivere di
speranze. Io ti ho fatto del male e mi dispiace, mi dispiace, non mi
perdonerò
mai per questo, non posso, non ne sono capace. E fai bene anche tu a
non farlo,
non mi merito altro. Avevo tutto e l’ho capito troppo
tardi.”
Riprese a torturarsi l’orlo della gonna e le labbra spaccate,
intimandosi di
non avvicinarsi, di non abbracciarlo un’ultima volta, di non
baciarlo per
soddisfare il desiderio mai sopito di sapere quale sapore avessero le
sue
labbra, di non dirgli che anche lei lo amava, da tempo, da sempre.
Intravide
malamente le sue spalle, - era di nuovo tutto annacquato -, e
accettò di
lasciarlo andare.
Per amore tuo, solo per
amore tuo.
Non voglio
più essere egoista, solo per amore tuo.
“Va bene me ne vado. Sì, vado via. Scusami,
scusami.”
Gli occhi presero a bruciarle e non si accorse del tavolino vicino a
lei contro
cui sbatté le ginocchia ridotte a gelatina, facendo in quel
modo cadere il
carillon posato all’angolo sinistro. Si rovesciò a
terra e si schiuse, lo
specchietto rivolto verso l’alto e la povera ballerina che
non riusciva a
girare contro il parquet. Con i polsi si stropicciò le
palpebre e mise a fuoco
l’oggetto ai suoi piedi.
Il suo carillon.
La musica occupò il silenzio della stanza e lei si
inginocchiò a terra,
scovando un disegno ripiegato e nascosto in uno spazio vuoto, oltre le
molle
della figura della danzatrice con il tutù rosso.
“Non devi aver paura, tu sai la verità
più pura... è la ninnananna. La
ninnananna che mi cantavi quando avevo troppi incubi, quando nulla
riusciva a
calmarmi.”
Pescò il foglio con le unghie e lo aprì, veloce,
anche se non ce ne era
bisogno, non sarebbe stata fermata. Lui non si muoveva e non si
spostava di un
passo.
"Questo disegno l'ho fatto io."
Un disegno semplice, quasi uno schizzo, con i loro contorni abbozzati e
i
tratti del volto rilassati, felici. Perché un giorno,
piegata dai suoi stessi
desideri, aveva iniziato a ritrarre loro due insieme, sereni e
innamorati. Il
suo volto senza più le lacrime agli occhi.
"Sì."
Ma non lo aveva mai terminato e aveva voluto sbarazzarsene, pentita.
Aveva
voluto rinnegare ogni cosa, ogni sua debolezza. Dibattersi in una
guerra persa
in partenza, fermamente convinta di essere immune a qualsiasi emozione.
Che stronza orgogliosa.
"L'ho buttato nella spazzatura tempo fa. Tantissimo tempo fa."
Accarezzò il loro ritratto e delle immagini scoppiarono
nella sua testa: codici
binari che si rompevano a metà e si scioglievano in
coriandoli, stringhe che si
arrotolavano su loro stesse e si disintegravano, spezzoni in bianco e
nero che
cominciavano a colorarsi a macchie, a riprendere vita.
Vis si voltò, le braccia stese lungo il corpo, e
sospirò. Lui sospirò e i suoi
occhi si schiarirono, le pagliuzze dorate tornarono a contornargli le
pupille.
Erano lì i puzzle del loro amore.
Un carillon, una collana, un disegno.
E la fine della ninnananna, le parole che lei aveva sempre trascurato.
Chi è amato
è salvo, ricordalo. Ricordatelo, Wanda, è
fondamentale.
Chi è amato
è salvo.
"Non mi piaceva molto l'idea che noi fossimo... da buttare”,
le disse, e
poi sorrise. Lui sorrise e lei crollò.
Fanculo alle parole di
tutti.
Fanculo al sorriso
compassionevole di Steve, agli scherni di Nat, all’arroganza
di Stark.
Fanculo agli algoritmi e
alla logica.
Fanculo al passato e
agli incubi.
Io mi all'ultimo
spiraglio mi ci aggrappo con le unghie e con i denti.
"A me non piace neanche adesso”, gli rispose, con foga.
Gettò il carillon e il foglio sul tavolino e
eliminò il poco spazio che li
separava.
Le loro braccia si incontrarono a metà strada, si sporsero
entrambe a cercare
l’altro e lei si abbarbicò a lui mentre veniva
sollevata e stretta, fortissimo,
fino a non avere più respiro. Le salirono talmente tanti
gemiti, dalla gola,
che li riversò dentro di lui, bocca contro bocca. Erano
schiocchi, era uno
scontro di labbra su labbra, delle sue mani che vagavano inquiete e che
si
fermavano con i polpastrelli dietro le sue orecchie, solo per poco. Vis
la
baciava gentile e le toccava il corpo con una tale venerazione che le
fece
perdere la testa, la fece impazzire.
Infilò le mani sotto il suo maglione e liberò
alcuni bottoni della camicia.
Toccò la sua pelle, su e giù, in punta di dita,
dagli addominali e poi lungo
tutta la linea alba fino a vezzeggiargli i fianchi, senza mai superare
l'orlo
dei pantaloni.
"Wanda. Wanda."
Lui non riusciva a pronunciare altro se non il suo nome, voleva parlare
e lei
non gli concedeva il tempo, non voleva pensarci, non voleva fermarsi,
non ora,
non più.
Non dopo aver rischiato di perderlo per sempre.
Corse ad aggrapparsi alle sue scapole e immerse la testa nel suo petto,
stringendolo in un abbraccio goffo.
“Perdonami.”
“Wanda.”
Le parole fuggirono via dalla sua gola, uscirono frettolosamente e male.
"Tu sei l'unico uomo di cui io mi sia mai innamorata. Sei il primo e
sarai
anche l'ultimo. E mi dispiace per te perché sono una ragazza
insicura e a cui
la vita fa paura. Tanta paura." Gli baciò tutto il viso. Le
guance, gli
zigomi, il mento, scese giù lungo il collo e poi la
mandibola, gli occhi, il
naso, le tempie, la bocca. Non si concesse di respirare, non gli
permise di
parlare, rimase stretta tra le sue braccia e gli cercò le
labbra, gli parlò
sulla lingua, si rinchiuse tra il suo corpo e niente altro.
"Ma amo solo te. Solo te.”
Lo amava con una disperazione tale da impazzire, da respirare male, da
soffocare a bocca aperta.
Coincideva tutto con lui.
L'unico vero motivo per cui svegliarsi ogni mattina e non sperare di
morire
presto. L'unica ragione per cui tornare a sorridere anche quando i
ricordi la
imprigionavano e gli incubi si insinuavano lenti, inesorabili.
Lo amava davvero.
Di un amore che spaventava e che l'aveva spaventata, troppo potente e
intenso,
un raggio di vita capace di illuminare le ombre del suo passato
costellato da
morti e rovine, un amore bello e dolce nonostante il buio della sua
anima
difettosa.
Lui era vita e speranza e tutto ciò che di più
meraviglioso esistesse al mondo.
E lei lo amava, lo amava con ogni rimasuglio di se stessa e lo avrebbe
amato,
ogni giorno, ogni secondo, fino al suo ultimo respiro.
"Sei mio", gli sfilò il maglione marrone e gli
gettò le braccia al
collo, "Sei completamente mio."
Dal momento in cui lei era diventata sua.
C'era una pioggia di stelle nei suoi occhi, c'era l'universo intero con
la
purezza della sua luce.
Ed era bellissimo.
"Wanda", le sussurrò, come in preghiera.
Posò le labbra sulle sue, lo azzittì, e
intrecciò le dita dietro la sua nuca,
spingendolo contro la sua bocca schiusa, baciandolo come una condannata
a
morte. Sentì le guance umide e poi un sapore salato sulla
lingua e una parte
della sua mente fu cosciente del fatto che lei stava piangendo e che
stava
ingoiando il suo stesso pianto. Si aggrappò alle sue spalle
e baciò la sua
mandibola lasciando schiocchi lungo tutto il suo profilo, risalendo
verso gli
zigomi, le palpebre, la fronte. Strofinò la punta del naso
sulla sua tempia
destra e ingoiò un singhiozzo e poi un altro, un altro e un
altro ancora fino a
interromperne uno sulla sua bocca, di nuovo.
Era per il modo in cui scioglieva ogni muscolo in tensione, leggera tra
le sue
braccia, perdendo ogni difesa e piegando ogni paura che le tormentava
gli
occhi.
L'unico momento in cui dimenticava i suoi muri.
"Wanda, non piangere, non...”
"Fai l'amore con me."
Già prima gli aveva slacciato alcuni bottoni della camicia e
ora gliela stava
sfilando dai pantaloni, in una piena carezza di tutta la base della
schiena.
Lui le alzò il volto coprendole le guance con le mani,
ingabbiando tutto il suo
viso tra i polpastrelli e i palmi.
"Non so neanche se sono in grado di farlo.”
"Scopriamolo insieme”, gli rispose, di getto.
“No. Perché piangi?”
Avevano le labbra talmente vicine che ogni parola era un altro bacio,
ogni movimento
era una bellissima tortura che la faceva respirare, finalmente, la
faceva
respirare dopo sei mesi di apnea. Il sollievo si mescolò ad
un improvviso calo
di adrenalina che le sciolse ancora di più gli occhi e che
le fece comprendere,
realmente, quanto aveva rischiato di rovinarsi la vita.
"Sono proprio diventata quello che ho sempre disprezzato. Una terribile
bambina piagnucolosa e lamentosa. Vero?"
Le aggiustò i capelli che le si erano attaccati alle labbra
e le pulì il viso,
strofinando dolcemente i polpastrelli.
“No. Sei solo un po’ spaventata e mi dispiace,
credo sia colpa mia. Non era mia
intenzione farti piangere.”
Tirò su con il naso e si rifugiò contro il suo
collo, stringendogli fianchi e
sospirando pianissimo ogniqualvolta lui passava le dita, a rastrello,
tra le
sue ciocche rosse.
“Quando ti ho visto in quel modo, spento, io non so
spiegartelo.”
Prese tra i pugni la sua camicia e si fece male alle ossa, a tutti i
muscoli,
pur di ancorarsi a lui, pur di abbracciarlo tanto forte, pur di
accertarsi che
fosse tutto vero.
“Ho creduto di aver distrutto ogni cosa. Io non pensavo
nessuna delle
stupidaggini che ti ho detto in ospedale, e tu mi sei mancato, ogni
giorno, e
io non volevo fare del male a te, mai, mai, mai a te, e invece
l’ho fatto e ho sofferto,
e ti pensavo sempre e ho fatto spaventare Steve e Natasha, un
po’ tutti ho
fatto spaventare, perché io non dormivo, io non... non
riesco a spiegarmi, sono
un’incapace con le parole.”
Tacque e si immerse nel suo petto, con l’orecchio destro
rivolto verso il suo
sterno che si alzava e abbassava accarezzandole la guancia, e che
cominciò a
muoversi un po’ più veloce. Schiacciò
il viso sulla sua camicia sbottonata e
contro porzioni libere delle sua pelle rossa, ascoltando la sua voce
limpida e
chiara.
“Vicino a te, per me, è molto difficile rimanere
una macchina. Rendi vivo
persino un androide, Wanda. Tu pensi di portare morte e distruzione,
insieme ai
tuoi passi, non accorgendoti mai della vita che crei, delle
emozioni”, le cercò
gli occhi tra tutti i suoi capelli aggrovigliati e poi
continuò, “E sono
davvero desolato di averti rattristato, non volevo. Ma dopo la tua
partenza
gestire le sensazioni era diventato stancante, deludente. Nessuna mia
programmazione sapeva come comportarsi, come applicarsi in una
situazione del
genere. Ho pensato fosse la soluzione ideale per tutti. Rincontrarti
non era
assolutamente previsto.”
Leggeva tra le righe, lei lo conosceva, quello che lui ometteva al solo
fine di
proteggerla. Taceva sulla tristezza dei mesi passati, sul dolore
insopportabile
che non era riuscito a fronteggiare a causa dei mancati sistemi di
programmazione, sull’impossibilità di guardare al
futuro con gli occhi di
prima. Sfumava, sorvolava, sulla decisione di spegnersi pur di
dimenticare.
Forse questo l’aveva enormemente spaventata, non appena era
entrata nella
stanza, forse questo era il motivo per cui un’ansia cieca
ancora le solleticava
la pelle, come aghi dritti nelle sue vene. Perché le avevano
insegnato, con
attenzione, e la vita glielo aveva ricordato ogni giorno, che quando il
male
supera l’amore inizia il distacco.
Non l’odio, ma il distacco.
E lui in quel modo le era apparso: distante, perso, lontanissimo dalla
sua
anima difettosa.
Aveva temuto, più di ogni altra cosa, che avessero superato
il punto di non
ritorno.
“Fai l’amore con me.”
E allora la febbre di toccarlo, la febbre di averlo, il tremito di
sentirlo in
ogni modo possibile, il desiderio di viverlo dentro di lei
così da esser certa
che fosse tutto vero.
Così da placare i suoi demoni, così da fermare i
suoi incubi, così da provare
qualcosa di bello in mezzo a tanto male. Così da
sopravvivere insieme in un
oceano di niente.
“Fai l’amore con me, Vis.”
Ma lui scosse la testa e allentò lentamente il loro
abbraccio, sbattendo le
ciglia con poco controllo.
“Wanda, no. Non chiedermelo.”
“Perché?”
“Sai che non posso. Sai che... ti amo e che non posso darti
altro, che vorrei
darti tutto, ma che non ho altro.”
Wanda indietreggiò di un solo passo e si sfilò la
maglietta nera, gettandola a
terra vicino alle loro scarpe. Visione tentò di fermarla, di
chiudersi i
bottoni della camicia, di bloccarla dallo slacciarsi il reggiseno, e
invece
ottenne solo di riavere lei tra le braccia.
La strinse di nuovo a sé e a lei sembrò di
sentire un rumore, distintamente,
nel petto di lui.
“Wanda, fermati. È meglio fermarsi, è
meglio parlare.”
Aveva paura e rischiava di balbettare, contro ogni regola e
programmazione,
rischiava di tremare e di mordersi la lingua e lei non voleva questo,
mai
questo.
Allora lo baciò e si allontanò fino a sfiorare le
lenzuola del letto con i
polpacci.
“Possiamo scoprirlo insieme, possiamo scoprire tutto insieme.
Possiamo, guarda,
non sono spaventata, possiamo affrontare ogni cosa, io e te, insieme. E
se tu
ancora desideri un tempo vissuto con me, io non temerò
più il nostro futuro. Se
tu lo vuoi ancora, io non fuggirò più.”
Lascia che ti mostri
quanto sei umano, quanto sei splendido, quanto sei tutto.
Lascia che io, che ho
sempre vissuto nella paura, ti mostri quanto ti amo e
quanto voglio essere tua. Lascia che io ti ami come non ho potuto mai,
fidati
di me.
Lascia noi due qui,
insieme, in questa stanza, e che l’intero universo rimanga fuori.
“Non posso.”
Lei prese il palmo della sua mano rossa e lo baciò,
stringendogli le dita con
forza.
Sollevò lo sguardo e condusse quelle dita alla gonna, al
tessuto liscio che le
fasciava la pancia, e annuì senza mai smettere di guardarlo.
“Sì. Tu puoi.”
Lo aiutò a slacciarle il bottone e ad abbassarle la cerniera.
Quando la gonna scivolò a terra le sembrò che
anche il cuore fosse caduto ai
suoi piedi. Di nuovo.
“Se mi vuoi, io sono tua. Tutto ciò che rimane di
me, gli avanzi lasciati dopo
le ferite dei lutti e delle calamità, sarà tutto
per te. Non è nulla di
conveniente, non è granché di bello. Ma
ciò che è mio è tuo.”
Si sedette sul materasso e non gli lasciò le dita, non
lasciò i suoi occhi
chiari, la sua bocca sottile.
“Per sempre. Per sempre, Vis.”
Si stese sul letto e trascinò lui sopra di lei.
*********
Voleva rimanere così.
Così, per sempre, per tutta la vita.
Nuda, sopra il suo petto, la bocca premuta contro la sua gola, le mani
e le
gambe intrecciate.
Così, per sempre.
Mosse l’indice in una carezza piena, a partire dal fianco
destro di Visione
fino a risalire verso la spalla, verso l’incavo del collo,
percependo
all’improvviso una strana sensazione al tatto.
Lui, con lei, era pelle.
Era sempre
stato pelle.
Eppure adesso i suoi polpastrelli registravano qualcosa di diverso,
vero calore
di una diversa consistenza, e toccavano un’illusione che non
sarebbe potuta
esistere.
Wanda sollevò il capo e rimase sbigottita alla vista del
volto di un uomo
maturo, con i capelli corti e biondi, gli occhi chiarissimi, il corpo
sano e
perfetto.
Si sentì stranita, un istante, poi scosse la testa e
sorrise,
baciandogli il mento.
“Che cosa fai? Ti nascondi?”
Lui fuggì il suo sguardo e si concentrò a
risponderle, chiudendo le palpebre
stanche e spostando la guancia sul cuscino.
"Ho pensato fosse più umano in questo modo”, le
disse, calmo,
cauto,-tormentato.
"Mi basti tu”, gli confessò, baciandogli il suo
mento e cercando i suoi
tratti in quello strano gioco di apparenze e paure.
"Io non sono umano”, lui le rispose, cingendole i fianchi,
più
disperatamente. Forse perché credeva che quella frase, che
quella realtà,
l’avrebbe fatta scomparire al pari di cenere al vento. Lo
osservò sospirare e
quel gesto sofferente contrasse a pugno gli organi ingabbiati tra le
sue
costole e mangiò la sua serenità.
Lui non lo avrebbe mai detto, no, lui non avrebbe mai ammesso che
l’insicurezza
non cessava di frastornarlo, non un solo istante, e che era triste, era
inquieto, non credendosi degno, e che quindi questi strani pensieri gli
impedivano di rimanere sdraiato con lei nel loro letto
stretto.
E amarlo,
consolarlo, capirlo, accettarlo erano istinti radicati a fondo nel suo
animo e
nel suo corpo, era ciò che la spingeva a diventare una
persona migliore.
"Sei più umano di me”, gli rivelò, a
bassa voce. Si sistemò più
comodamente, stesa sul suo addome, e le loro gambe continuarono a
intrecciarsi,
a giocare, a cercarsi.
“E mi piace il modo in cui mi ami. È
gentile”, continuò a svelargli, bloccando
con le dita e con le labbra ogni sua contestazione, “E mi
piace come mi guardi,
come mi osservi, come ti prendi cura di me. Mi piace come mi abbracci,
come mi
baci, come mi insegni a fare l’amore.”
Lo pregò con ogni gesto di lasciare andare
l’illusione e di ritornare se
stesso, lo pregò con ogni carezza e bacio di abbandonare
certi pensieri e di
crederle, di fidarsi di lei, perché non un solo giorno lui
si era dimostrato un
androide, non una sola volta lui aveva avuto bisogno di fingere certi
sentimenti che invece gli uomini di carne avevano dimenticato da secoli
e
secoli. Ritornò a stringersi al suo corpo e gli
mormorò frasi belle, frasi
proibite, frasi che non avrebbe mai più ripetuto se non
avvolta tra le loro
lenzuola.
Continuò, perseverò, fino a quando non vide di
nuovo il suo volto rosso e fino
a quando non tremò al contatto delle sue mani grandi che
vagavano tra le sue
scapole e poi giù lungo la schiena. Non si fermò
neppure quando le sue ciocche
iniziarono a ostacolare i loro baci e il suo petto non
iniziò a bruciare.
“Come posso lasciarti andare?”
Altri baci, altri movimenti dolci, sottili, che le scombussolarono
calorosamente la pancia.
“Non devi, Vis. Non devi”, affermò, e
sollevò il petto, attirandolo a sé.
“Sì, devo. E tu devi fuggire, non sei al sicuro
qui, noi non possiamo rischiare
oltre.”
Le coprì la bocca con un palmo, le fermò il
bacino con un braccio e,
riservandole un’espressione mortificata, rafforzò
la presa intorno ai suoi
fianchi nel tentativo di allontanarla. Lui le parlava, lui desiderava
proteggerla, e lei non voleva ascoltarlo, non voleva andarsene, non
voleva
fermarsi. Solo immaginarlo, solo tentare di formulare il pensiero nella
sua
mente, la spezzava in più pezzi, la rendeva coriandoli di
polvere e fumo
inconsistente.
Ti amo, ti amo da morire.
Tu mi chiedi, domandi
accorato, come puoi mai lasciarmi andare, ma credi che io
sia capace di fare lo stesso? Pensi che io sia in grado di abbandonarti
qui, in
questo edificio vuoto e morto, e di rassegnarmi a non vederti
più, a non
viverti più?
No, non posso, no, non
possiamo.
Non ora, è
troppo presto.
Non ora che ti ho
ritrovato, non ora che stiamo insieme, non ora che uscire da
questa stanza mi sembra impossibile, se non insieme a te.
“Devi scappare. Sfidare la sorte è avventato e se
loro provassero a farti del
male, se loro ti toccassero, io non riuscirei a trattenermi. Non
potrei.
Nessuno al mondo deve più farti del male.”
Lei gli circondò le spalle larghe e gli
mordicchiò le dita, chiedendogli con
dispetto di liberarle la bocca. Vis l’accontentò,
pregandola con gli occhi di
fuggire, di mettersi in salvo subito. Incredula, - davvero lui credeva
che lei
fosse così forte? Riteneva di ferro il suo cuore? -, si
avvicinò al suo
orecchio.
Temette di non riuscire a contenere se stessa, di precipitare dalla
linea
sottile che le imbavagliava la bocca e di dirgli tutto, di riversargli
i suoi
sentimenti senza alcun freno, limite, in una maniera folle e
sconsiderata.
Temette di sciogliersi e di ridursi a brandelli tra le sue braccia.
“Insieme. Te lo ricordi? Insieme possiamo affrontare ogni
cosa”, si nascose
dietro le ciglia e sorrise imbarazzata, “Allora, allora vieni
via con me. So
che tu hai fatto delle promesse a Stark e che io... io anche ho fatto
delle
promesse agli altri. Ma possiamo creare del tempo per noi, possiamo
rubarlo se
necessario. E possiamo iniziare a farlo adesso.”
Deglutì, sonoramente, e avvertì i muscoli pesanti
e i nervi al di fuori della
propria pelle. Deglutì ancora e riavvertì la
paura, il panico che le offuscava
le idee e i progetti, i sogni, il futuro. Deglutì piano,
rischiando anche così
di strozzarsi, e gettò fuori dai denti le parole rimaste
incastrate.
“Ti piacerebbe visitare Edimburgo? Ho visto tantissime foto
di questa città e
sono tutte belle, tutte bellissime. So che è una
città fredda. Cioè, sì, il
tempo è freddo, tanta tanta neve e pioggia, sai?
Però forse le persone sono
gentili. O forse non lo sono ed è meglio così,
meglio non attirare
l’attenzione, meglio essere invisibili. Ma Edimburgo
è bella, sono certa che le
foto non mentano. Edimburgo sembra speciale, molto speciale.”
Si morse la lingua e bofonchiò qualcosa a cui lei stessa non
prestò attenzione,
che si dimenticò dopo aver pronunciato, ammutolita soltanto
dall’azzurro
cristallino dei suoi occhi, dai filamenti dorati dalle strane forme e
dalle
cangevoli dimensioni intorno alle sue pupille. Represse
l’istinto di fare
qualsiasi cosa sbagliata e attese, attese, attese. Fu solo mezzo
minuto, furono
trenta secondi esatti, e ciononostante lei ebbe la percezione di
galleggiare in
uno spazio di bolle e in un tempo di lancette lentissime e secondi
interminabili, i cui suoni scoppiavano e scomparivano a intermittenza.
Attese, il freddo del vibranio adagiato sul suo seno.
Attese, vivendo un po’, almeno un po’, di speranze.
Attese.
E quando lui le parlò, lei si ritrovò a ridere e
a piangere, a singhiozzare e a
sorridere, senza rendersene conto.
Intuì la verità non appena udì un
lieve balbettio precedere le parole di Vis.
“S-sì, Wanda. Sì, voglio visitare
Edimburgo.”
La felicità era sempre stata dentro di lei.
You'll always sing me
something new
I will always follow
When I first saw you here I knew
That I was blind before you
Forever, Alekseev
Note
Vi lascio qui delle noti veloci che riguardano la storia.
Prima di tutto troverete all'interno del capitolo delle evidenti
riprese di frasi e battute di diversi film Marvel e penso le conosciate
un pò tutti, come quella di Stark "Adesso parlano gli
adulti" ripresa da SpiderMan HomeComing, oppure quella di Pietro "Sono
nato dodici minuti prima di te. Ricordi?" ripresa da Avengers Age of
Ultron e infine qualche frase ripresa da Infinity War che non posso
scrivere ancora perchè altrimenti mi si spezzerà
il cuore.
Questo storia voleva essere un ponte tra Civil War e Infinity War e
spero possa esservi piaciuta, io ci tengo tantissimo.
Spero di tornare prestissimo a scrivere su loro due, mi mancano
già.
E mi dispiace se troverete errori o refusi nella storia, non esitate a
segnalare e perdonatemi se potete ma questa storia ha a sua volta una
storia molto molto tormentata dietro.
Grazie a chi ha recensito e a chi lo farà.
Ringrazio ancora infinitamente Miryel, perchè si
è beccata così tanti messaggi deliranti
nell'ultimo periodo da parte mia e perchè questa storia
è qui specialmente grazie a tutti i suoi consigli e le sue
opinioni, le sue impressioni, i suoi suggerimenti! Ogni cosa bella qui
presente è solo merito suo.
E salutate affettuosamente le comparse di Tony e Peter, completamente
vivi e bellissimi grazie alle sue storie.
Infine grazie ad Alekseev, dalla sua canzone è nata tutta
questa storia, una delle più belle canzoni d'amore che io
abbia mai ascoltato.
A presto :)
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