Fino alla fine del tempo

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se solo il veleno del serpente ***
Capitolo 2: *** Com'era bella quella sera ***



Capitolo 1
*** Se solo il veleno del serpente ***


Fino alla fine del tempo

 

 

 

I

 

Se solo il veleno del serpente

 

Disse Loki:

“Sappi che se su un picco roccioso, con le budella gli dèi

 del mio figlio freddo di brina mi legheranno,

che primo ed ultimo fui io a dar morte

quando mettemmo le mani su Thjazi.”

(Edda Poetica, Lokasenna v. 50)

 

 

 

 

 

 

 

“Devono morire come guerrieri, i feroci Asi. Le porte del Valhalla si spalancheranno solo per i fieri eroi che sono caduti in mezzo al fuoco, al sangue, al fango. Le corazze sono fatte per frantumarsi sotto i colpi delle armi nemiche, le spade per spezzarsi, gli elmi dalle lunghe corna per fracassarsi e rotolare a terra.”

Lo aveva detto e ripetuto come una nenia feroce – o una supplica – mentre Thor, bestemmiando, lo riportava ad Asgard sorreggendolo per le spalle, ordinandogli con voce roca di tamponarsi quello squarcio orrendo che gli tagliava il fianco prima che. Pensiero tremendo che aveva fatto tremare le vene dei polsi di entrambi e ora echeggiava nella grotta squallida e spoglia dove Loki sussultava scosso dalla febbre, torturato dal veleno che gli colava senza pietà sul viso.

 

Tu lo sapevi che mi avrebbero fatto questo, Thor, lo sapevi, vigliacco maledetto: dovevi lasciarmi crepare. Inghiottì il dolore e l’ira perché, alla fine, era stato lui, a tradirlo. Gli era mancato il coraggio di dargli il colpo di grazia con Mjollnir in nome di quella parola con cui si sporcava le labbra: fratello. La inghiottì, la masticò, la sputò fuori in un grido mentre la bava acida e corrosiva dell’impassibile serpente gli scivolava sulla pelle già ferita consumandogli gli occhi, togliendogli il respiro. Ogni goccia scavava la carne lasciando una scia di dolore che era difficile da sopportare. Si tese sulla roccia inarcandosi per evitare il contatto che le sue pupille, malamente coperte da una benda, non riuscivano a evitare: muscoli allungati nella tensione di uno spasmo atroce, incontenibile, respiro affannato nel tentativo disperato di smorzare le urla. In mezzo al delirio allucinante in cui era precipitato, rivide il se stesso di un altro tempo e un altro luogo giocare armato di una spada di legno insieme a quel fratello che era stato l’alleato perfetto, l’avversario più odiato. Thor. Che non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida per osservare da vicino gli effetti devastanti della giustizia degli Asi in generale, di Odino in particolare. Strinse i denti per inghiottire un’altra ondata di dolore – l’ennesima – fece gracchiare i ceppi che gli segavano i polsi già scorticati mentre si divincolava e tendeva e scalciava come se potesse evitare la bava urticante: il veleno gli scivolò sul collo insinuandosi sulla spalla, proseguendo implacabile verso il torace. Invocò e maledisse le Norne, Odino, suo fratello e chi lo aveva messo al mondo. Gli risposero la pietra e l’eco della sua voce e allora rise, nel delirio della febbre che ormai lo divorava, e ricordò l’armata dei Chitauri che aveva perso e la sua disfatta – l’ennesima, l’ultima – e, di nuovo, detestò Thor e la sua debolezza. Cadeva sempre nello stesso tranello; desiderava disperatamente salvarlo e, così facendo, aveva finito per condannarlo alla più atroce delle torture: morire come un prigioniero, chiuso in una grotta, incapace di distinguere la luce dal buio, la realtà dalla finzione.

 

Eppure aveva lottato Loki di Asgard, figlio di Odino anzi no, di Laufey. Reliquia rubata ingannata fino alla fine, principe cadetto costretto a giocare una partita truccata in partenza, vinta dal vero figlio, dall’erede degno, dal futuro re di Asgard che, fino al giorno prima dell’esilio su Midgard, andava a puttane e beveva idromele fino a vomitare.

Certo, anche l’arrogante Thor era stato punito. Loki ogni tanto lo ricordava e ghignava soddisfatto, al ricordo della spedizione su Jotunheim; solo che poi, nella sua mente che già iniziava a sfilacciarsi oppressa com’era dal dolore e dalla solitudine, s’arrotolava inevitabilmente un pensiero amaro. Il banno di Padre Tutto nei confronti dell’adorato dio del tuono si era rivelato una punizione salvifica: il perfetto Thor, il principe fortunato, si era dimostrato degno di brandire nuovamente Mjollnir. In quell’atomo opaco di male, aveva smesso di essere lo spaccone viziato che prima colpiva e poi pensava ed era diventato l’erede designato due volte. E la sua, di punizione? Ferito e malmesso, sfuggito per un soffio all’ira tremenda e funesta del Titano inferocito, Loki aveva testato, per l’ennesima volta, quanto fosse parziale il senso della giustizia del dio delle forche. Non più padre, né signore, né re, ma Odino figlio di Bor, pirata e predone che, con l’oro sottratto ai popoli sottomessi, aveva ricoperto d’oro ogni guglia di Asgard.

 

Asgard distrutta, bruciata, che non c’è più. Un popolo in rovina che si è salvato solo perché, sul tetto dell’inutile Midgard, dopo aver ribattuto a Thor che era davvero troppo tardi, per un istante, uno solo, aveva pensato che non fosse esattamente vero. E così, nella battaglia contro il Titano aveva usato ogni fibra del suo essere, ogni goccia di seiðr e sangue, ogni lama a sua disposizione, per liberarsi. Il prezzo che aveva pagato per la sua eroica azione era quella benda lercia che ora gli stringeva la testa coprendogli gli occhi, il corpo martoriato e sconfitto, l’acida bava che gli corrodeva la pelle. Devono morire come guerrieri, i feroci Asi. Crepare su un campo di battaglia, soffocare nel proprio sangue con il ferro di una spada infilzato nello stomaco fino all’elsa. Sei un codardo, fratello.

 

Loki non aveva smarrito il suo istinto di conservazione, nient’affatto. La sua non era che una lucida analisi, una delle molte. L’ennesimo aggrovigliarsi di pensieri aguzzi e, allo stesso tempo, contorti che lo inseguivano nel suo supplizio probabilmente quasi eterno, che si sarebbe risolto solamente con l’arrivo del Crepuscolo degli dèi, il Ragnarok promesso dalla Voluspa, la profezia che raccontava il modo e la maniera in cui gli Asi sarebbero morti. Una fiaba antica e tremenda che, per lui, ora aveva quasi i tratti di una promessa consolante.

 

No, Loki Laufeyson non voleva morire: la voglia di vivere era ancora una bestia rabbiosa che gli mordeva il cuore impaziente, nonostante Thanos e la sua vendetta crudele fatta senza alzare nemmeno un sopracciglio in nome di quello scettro smarrito, dell’armata dei Chitauri rovinosamente perduta, del suo voltafaccia improvviso, ma certo non sorprendente. Mentre Thor lo trascinava via quasi esanime dal campo di battaglia, aveva raccattato le forze necessarie per schiudere le labbra riarse e spaccate e cercare gli occhi blu dell’altro. “Il dio delle forche non avrà pietà di me, fratello,” aveva boccheggiato. “Fammi morire come un Ase.”

Sussurro mormorato appena che il tonante era riuscito a udire nonostante il clangore, il fumo, le fiamme. Eppure Thor non gli aveva risposto. Si era limitato a stringere con più forza la spalla del fratello senza riuscire a smentire quella frase di una lucidità disarmante, perché non è vero ciò che si dice del dio degli inganni: la menzogna è solo una delle tante abilità messe a punto dal principe perduto di Asgard, dal figlio ribelle e reietto che nasconde il suo aspetto sotto una maschera diversa. Perché l’inganno sia totale, completo, assoluto, la vittima deve convincersi, abbandonarsi a essa. L’abile bugiardo deve proporre qualcosa non di assurdo e totalmente falso, no, questo sarebbe da sciocchi dilettanti, ma una fiaba verosimile, plausibile, possibile. In ogni inganno c’è un fondo di verità che luccica come una moneta perduta dentro a un pozzo. Così, Loki non era un Ase d’aspetto – la sua immagine non era che il trucco di un muta forma – ma lo era il suo spirito fierissimo e indomito e per questo, alla fine, l’inganno di Odino si era rivelato perfetto: perché aveva creato un figlio di Asgard che era tale in tutto e per tutto.

 

Loki non aveva smarrito il suo istinto di conservazione, affatto, ma non ci teneva a crepare dentro una grotta o una cella, come una bestia lasciata a morire in gabbia. I principi guerrieri, i re mancati senza corona e senza scorta, dovrebbero lasciare questo mondo con onore, trafitti da una lancia, in maniera degna, non raggomitolati al buio, bloccati dai ceppi. Questo terrorizzava Lingua d’Argento: non la tortura né la solitudine, ma il pensiero raggelante di una morte indegna, quella che, fin da quando erano bambini, lui e Thor avevano imparato, allo stesso tempo, a temere e a guardare con il disgusto tipico dell’infanzia. Suo fratello non aveva potuto fare a meno di stringergli la spalla, di serrare tra la sua mano callosa e forte la manica della casacca verde e stropicciata che aveva ancora addosso, ma non era riuscito a rispondergli perché era incapace, allo stesso tempo, di mentirgli e di lasciarlo morire. Una debolezza, quest’ultima, che condividevano entrambi.

 

 

Il veleno colò ancora sul suo petto già segnato da grossi solchi rossi, sulla tunica scura lacerata dall’acido corrosivo della bestia. Stavolta urlò – pianse – contorcendosi dal dolore, perché la saliva del serpente scorreva sulla pelle già martoriata. Il dolore era annichilente. Rimase senza fiato mentre la benda attorno agli occhi offesi si allentava e già una nuova, terribile, goccia si apprestava a cadere. L’accolse con un brivido, mordendosi le labbra. Odino e gli Asi non avevano avuto pietà di Loki Lingua d’Argento. Padre Tutto aveva guardato il figlio adottivo ribellatosi alla sua volontà con l’occhio critico di un sovrano infuriato. Il dio dell’inganno aveva minacciato uno dei mondi posti sotto la sua protezione disobbedendo al suo volere, tradendo i principii sotto cui si reggevano Asgard e il complesso sistema di alleanze dei Nove Regni. Loki era giunto al suo cospetto boccheggiante, trascinando un ginocchio rimesso solo parzialmente in sesto dai guaritori del palazzo. Avrebbe dovuto invocare la pietà e il perdono, buttarsi a terra sfiorando con la fronte il pavimento di legno della sala del trono. Invece era stato, per l’ultima volta, protervo e arrogante, beffardo e insolente, fantastico e folle. Ma se si fosse prostrato davvero, se avesse chiesto pietà, anziché mostrarsi sprezzante e irriconoscente, davvero Odino, il dio delle forche e degli eserciti, lo avrebbe salvato? Nonostante fosse rimasto assai turbato dalla pietosa scena, il sovrano aveva deciso, di nuovo, che non poteva essere la morte la pena che spettava al figlio adottivo. Quella sarebbe stata un privilegio, dopotutto. Con gli occhi lucidi, lo aveva condannato a qualcosa di peggiore. L’ennesima goccia gli cadde addosso scivolando sulla fronte, raggiungendo la punta del naso, scendendo sulle labbra. Di nuovo, i ceppi gemettero assieme a lui e tutto il suo corpo si tese sotto quel dolore insopportabile. Da quanto tempo Odino aveva stabilito la sua pena, da quanto Thor non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida? Ancora scosso com’era, si rese conto di averlo dimenticato, di aver perso il senso del tempo. Fu allora che iniziò a ridere. Forse rideva ancora, quando il veleno smise di colare.

 

 

 

La riconobbe dal profumo. Dal sentore di vaniglia e miele che emanava. Non si era accorto che era entrata, e questa consapevolezza lo inchiodò su quella roccia che gli faceva, allo stesso tempo, da giaciglio e da prigione. La risata secca che lo sconquassava da troppo tempo gli morì in gola mentre, nella sua testa, si faceva strada la contezza raggelante di quello che stava accadendo – che era appena accaduto. Lei no. Qualsiasi cosa, ma lei no, per le Norne. Strinse le labbra, quando indovinò che si stava chinando verso di lui, strattonò le catene, mentre gli posava con delicatezza una mano sulla fronte madida di sudore.

“Cosa ti hanno fatto, amore mio,” sussurrò Sigyn, e la sua voce era dolce e malinconica assieme.

 

Loki Laufeyson non rispose. Avvertì il tocco gentile dei polpastrelli della donna e tentò di ritrarsi, di fuggire quel contatto peggiore persino del veleno del serpente. La sentì sospirare e armeggiare con quella cosa che impediva al siero venefico di gocciargli addosso – un bacile, forse – e chissà che altri oggetti. Decise di non parlarle perché non si discorre con uno spettro, con un miraggio, anche se il fatto che la bava avesse smesso di colare avrebbe dovuto suggerirgli come Sigyn fosse davvero lì, a fissare con uno sguardo pietoso il suo corpo incatenato e teso sulla roccia, la pelle consumata dal veleno. Doveva apparirle come uno sconfitto. Un prigioniero umiliato e vilipeso, un guerriero che sul corpo portava i segni di una tortura orrenda, un re detronizzato senza trono né popolo, ma pur sempre un re. S’inorgoglì a quel pensiero, mentre lei continuava a carezzargli con dolcezza i capelli neri e scarmigliati leggermente arricciati, sfilava lentamente la benda senz’altro lercia che gli copriva gli occhi.

 

Sei un’illusione, Sigyn, sei un’allucinazione provocata dal seiðr che non riesco a usare in un modo più opportuno, sei il segno innegabile che sono diventato pazzo e confondo la realtà con il delirio. Lo disse a se stesso, lo pronunciò a voce così bassa che lei – ma questo Loki non poteva saperlo – aggrottò le sopracciglia preoccupata.

“Sono qui. Sono davvero qui, Loki.”

“È la pietà che ti ha spinta a tornare? Ti ha chiesto Thor di venire?” Lo disse con un livore gelido che dovette ferirla; se ne accorse dal sospiro strozzato, dalle dita che cessarono la loro lenta carezza. “Sei venuta per quale motivo, dolce Sigyn?”

Lei esitò a lungo sulla risposta da dargli. “Cosa ci siamo fatti,” soffiò infine.

 

 

Sigyn sapeva che l’animo del dio degli inganni non era fatto per gli spazi claustrofobici di una cella o di una grotta. Ferito orrendamente nelle ambizioni, la sua mente stava iniziando a vacillare verso un baratro di follia che la giovane donna, suo malgrado, riconobbe. Si sarebbe arrovellato fino alla fine dei tempi sugli errori commessi, incapace di accettare la sconfitta e andare avanti, stretto nell’orgoglio disperato e arrogante che gli aveva impedito di chiedere perdono a Odino. Cosa che aveva fatto lei al posto suo. Era tornata ad Asgard col viso bagnato dalle lacrime e, per un giorno e una notte, era rimasta inginocchiata di fronte al trono di Odino implorando clemenza. E se le Norne non scioglieranno il vostro cuore e non è ancora vostra intenzione concedergli la grazia, mio signore, che almeno possa lenire i suoi tormenti. Così aveva detto. Il re degli Asi aveva assottigliato il suo occhio azzurrissimo, come per osservarla meglio. Poi, lentamente, si era deciso a parlare lisciandosi la barba canuta.

“Mio figlio è stato molto crudele con te.”

“È vero,” aveva ammesso lei.

“E, nonostante questo, lo hai amato?”

Sigyn aveva sfiorato con i polpastrelli la bella collana di perle che portava sempre al collo distogliendo lo sguardo.

 

 

“Cosa ti hanno fatto, amore mio?” ripeté.

“Critichi i modi di Odino? Il Padre di Tutto mi vuole solo salvare da me stesso,” disse Loki, e l’aria parve vibrare di sarcasmo, alle sue parole.

No, Lingua d’Argento non era più il principe sveglio e brillante di Asgard, la cui intelligenza vivace aveva reso grande il regno degli Asi. Era il dio degli inganni che si era perduto e corrotto, ormai, e il suo cuore era così gonfio di rancore che Sigyn temette non vi potesse essere più spazio per nient’altro.

La donna provò di nuovo a scostargli dal viso le ciocche scure e Loki, ancora una volta, allontanò il volto, quasi il contatto con lei fosse qualcosa di insopportabile e tremendo, ma le dita di Sigyn riuscirono comunque a sfiorarlo e il suo tocco gentile lo colpì più di tutte le torture passate sotto Thanos prima, gli Asi poi.

“Solo cadendo ti passerà la paura,” mormorò lei. “Così mi dicevi quando mi portavi a pattinare nel lago ghiacciato fuori dalle nostre finestre. Te lo ricordi? E dopo non devi far altro che rialzarti,” tentò di aggiungere, ma scoprì che la sua voce era rotta e incrinata dal pianto. Quando sei scomparso nell’abisso sotto al ponte color dell’arcobaleno, nel momento in cui sei stato tu cadere, ti sei scontrato con i tuoi incubi, amore mio?

 

Una mezza risata rantolò dal petto sofferente dell’altro. “La paura è passata. È il dolore che è rimasto,” ammise accarezzando le parole tra le labbra screpolate, ma mentiva, perché timori e tormenti lo avrebbero perseguitato per sempre – fino a quando avesse avuto un alito di vita, fino all’ultimo dei suoi disperati giorni, fino al Ragnarok.

Le dita di Sigyn ripresero a pulire le ferite ancora aperte, lenirono le parti offese con infinita premura.

“Sono ancora belli, i tuoi occhi,” mormorò con dolcezza, “e torneranno a vedere.”

Ma Loki lo sapeva già. Le sue pupille erano riuscite a registrare un lieve cambiamento, la tenebra aveva lasciato il posto a una luce indefinita. Sigyn. Profumava di miele e di vaniglia, e la sua pelle era morbida seta. Sigyn, che non viveva più ad Asgard da tempo, a cui non avrebbe potuto né voluto chiedere perdono. Lei era reale, dopotutto – purtroppo.

 

Quando la sua voce aveva riempito la grotta, il dio degli inganni aveva pensato che lei fosse nient’altro che un’illusione. L’ennesimo trucco, si era messo a ragionare mentalmente con la voce grave di Odino che aveva imitato per una vita intera. Il tono amaro e sarcastico di Padre Tutto si era tramutato nel contraltare beffardo della sua coscienza che gli suggeriva – ricordava – ogni volta con amaro disincanto la sua posizione di principe ingannato, di reliquia rubata e strappata alla morte solo per diventare la marionetta di un popolo di conquistatori spietati. Odino lo aveva trovato su un picco di ghiaccio dove sarebbe dovuto crepare perché troppo debole per essere il vero figlio di Laufey; la morte avrebbe dovuto ghermirlo per fame o assideramento, oppure perché sbranato da un lupo in cerca di carni tenere. Eccola, la fine orrenda e solitaria di un erede indegno, che solo la pietà condita da interessi dello spietato Odino aveva evitato: il prezzo di quella scelta erano state le fiamme che avevano corroso Asgard fino alle fondamenta, Midgard assediata dai Chitauri, il Bifrost infranto. E tutto questo per cosa? Per morire lentamente come un prigioniero sconfitto, non come meritava un re o un guerriero. E ora la voce di Odino – la sua, di Loki stesso, solo più amara – gli suggeriva che era la follia a fargli immaginare che Sigyn fosse venuta ad alleviare i suoi tormenti. Ma l’odore di vaniglia ormai era tutto attorno a lui, le sue mani delicate e lisce applicavano fasce e unguenti con infinita dolcezza e la sua voce vellutata, come una nenia, continuava a mormorare quella frase colma di rammarico che bruciava più del veleno del serpente. Cosa ti hanno fatto, amore mio.

Deglutendo, il dio degli inganni si era morso le labbra per non risponderle né parlarle perché se lei fosse stata un miraggio, di nuovo, la sua mente avrebbe definitivamente perso ogni appiglio con la realtà già sfumata e con il tempo che non riusciva più a misurare. Ma Sigyn, stavolta, forse davvero era reale perché nemmeno lui, il dio degli inganni in persona, avrebbe avuto il coraggio di creare col seiðr una copia e metterle in bocca quelle due parole assurde e fuori contesto, amore mio. No, se Sigyn fosse stata un’allucinazione crudele gli avrebbe detto ben altre parole. E così quella frase strana era stata la spia, l’indizio, che forse l’incubo si era trasformato in realtà, alla fine. E poi, c’era il resto: il tono spezzato con cui lei aveva pronunciato quelle poche sillabe. Loki aveva letto pietà nella sua voce, commiserazione.

Si sbagliava. Sigyn lo amava da sempre, e la nota incrinata che le era sfuggita dalla gola si chiamava dolore.

“Non dovevi tornare,” mormorò con voce arrochita.

Lei si fermò. “Sono tua moglie.”

“Un vincolo da cui ti ho sciolto.”

“Lascia che sia io a decidere a quale causa votarmi, a chi donare la mia fedeltà,” lo redarguì severa e orgogliosa.

“Fedeltà.” L’Ase rise, beffardo. “Non avresti dovuto pronunciarla, quella parola. Il dio del tuono ti ha chiesto di venire qui. Ora lo so.”

“Non hai avuto pietà di me, dio degli inganni, nemmeno per un giorno,” gli ricordò lei. “Sei ingiusto e crudele persino ora, qui, incatenato a una roccia con un serpente orrendo che ti sputa addosso il suo veleno.” Seguì il silenzio rotto solo dal gocciare del veleno nel bacile mezzo pieno. “Avremmo potuto essere felici.”

Di fronte a quelle parole, l’Ase increspò le labbra in una smorfia. “Ti avrei spezzato il cuore.”

“Lo hai fatto comunque. Possibile che tu non te ne renda conto?”

“Perché sei tornata, Sigyn? Non ho bisogno, non voglio la tua pietà né quella di Thor o di Odino.”

“Tuo padre ti ha condannato, Loki, è vero: la giustizia di Asgard non poteva lasciarti impunito, lo sai.” La voce della dea della fedeltà era mesta, mentre raccontava. “Ma ogni sera,” proseguì, “al banchetto, c’è un posto, alla sua sinistra, che viene apparecchiato e nessuno osa occupare. Non fu senza dolore che prese quella scelta.”

Loki esplose, furibondo. Ricordò l’occhio grave di Odino che mal si accordava con il suo giudizio implacabile. “Non è mio padre! Guardami! Chi mi ha incatenato, chi mi ha condannato? Considera se debba davvero provare pietà per il dio delle forche che ha scelto per me un destino così crudele! E dov’è Thor, dimmi, dolce Sigyn: dov’è il campione di Asgard, il figlio degno, il grande erede al trono? Quello che mi chiama fratello e poi gira la testa d’altra parte?”

“Ti ha salvato la vita, su Midgard e in mille altre battaglie,” soffiò Sigyn.

Loki aveva il fiato corto. “E io l’ho salvata a lui, su Midgard e in mille altre battaglie.”

“Sta raccogliendo prove affinché Odino possa mutare la sua decisione nei tuoi confronti. Chiederà un appello,” aggiunse la donna, a disagio.

“Sta?”

Una pausa. “Stiamo.”

“Il nobile Thor e la devota Sigyn.” Dal petto del dio degli inganni uscì una risata secca e crudele. “Una notizia del genere andava annunciata come prima cosa, non estorta. Potrai finalmente ammirarlo da vicino. Il paragone mi sarà sfavorevole anche questa volta, temo,” aggiunse, e poi si morse le labbra perché era stato ingiusto e crudele.

La risposta di Sigyn giunse dopo un tempo che gli parve infinito. “Una notizia incerta, una flebile speranza che stiamo cercando con tutte le nostre forze di rendere reale.” Sospirò. “Sei sempre stato così cieco e crudele, Loki di Asgard.”

 

Si alzò per vuotare il bacile ormai colmo. Il dio degli inganni colse il timore della giovane donna nel togliere il salvifico recipiente da sopra la sua testa e strinse i denti, cercando si sfoderare quel coraggio tronfio che gli aveva consentito di ingannare re e principi, dèi e titani. Persino il grande e possente Thanos si era lasciato incantare dal suo sorriso sbieco tanto da cedergli un’armata gigantesca e, assieme a lei, lo scettro d’incredibile potenza su cui, forse, splendeva addirittura una delle Gemme dell’Infinito. Eppure, nonostante fosse un guerriero nato per essere re e un mago d’indicibile abilità, il dio degli inganni non riuscì a trattenere un singulto spezzato, quando il veleno tornò a colargli sul corpo, sul viso. Il dolce profumo di Sigyn si era allontanato per lasciare di nuovo il posto al dolore lacerante, tremendo, assoluto, annichilente. Pulsante. Capace di annientare i pensieri e sconvolgere la ragione, spazzare via il tempo e cancellare il confine sottile tra ciò che era reale e ciò che, invece, non lo era. Il liquido venefico corrose una volta di più la sua carne aggiungendo dolore a dolore, perché ogni goccia era come fuoco che gli scavava sentieri di sangue fino a raggiungere i muscoli, le vene, i nervi già provati. Gridò e si divincolò, sopraffatto da quello strazio indicibile, tentando, per l’ennesima, disperata e ultima volta, di fuggire dal supplizio spietato degli Asi e spezzare i ceppi infrangibili che gli scorticavano i polsi. Era uno spettacolo miserabile, quello che stava offrendo a Sigyn? L’immagine pietosa di un dio sconfitto, piegato, incatenato? Cosa vedeva, lei? Se solo il veleno del serpente non gli avesse ferito orrendamente gli occhi, avrebbe potuto leggere, sul viso della donna che aveva sposato, il disagio e il rancore, la pietà e l’amore. Invece la udì corrergli incontro e sistemare rapida e nervosa il bacile sopra la sua testa, sentì la propria irriconoscibile voce bisbigliarle di non andare via, non lasciare mai più che quella bava urticante gli bruciasse di nuovo il corpo e la faccia. Di nuovo, le dita di Sigyn gli carezzarono con dolcezza infinita la pelle lenendo ogni ferita con unguenti e bende – anche se non era giusto, non doveva essere lì, non c’era più niente tra loro né ci doveva essere. Il cuore iniziò lentamente a riprendere il consueto ritmo e la sofferenza abbandonò il suo corpo ancora teso sulla roccia. Si ritrovò fiaccato e ansante e, sforzandosi di recuperare almeno un barlume di lucidità, si mise a parlare nonostante avesse la bocca secca. La sua voce arrochita gli suonò estranea come mai prima.

 

“Sigyn, ho sciolto ogni legame. Con te, con Odino, con Thor. Torna ad Asgard. Non ho bisogno della tua pietà.” Ecco cos’era rimasto della Lingua d’Argento di Asgard: parole impastate, dette dopo aver deglutito a lungo.

“Non è pietà,” lo corresse la donna con forza. “Non lo è mai stata. Come puoi non capire neanche adesso? Come hai potuto non capire allora? Oggi sei ferito e non puoi vedermi: ma prima, Loki? Il dio dell’inganno, l’astuto stratega di Asgard…”

“Sigyn…”

“Ti ho sempre amato. Nel mio cuore, ti ho sempre amato. E tu lo sapevi e, nonostante questo, hai fatto ogni cosa in tuo potere per distruggere tutto. Avremmo potuti essere felici,” ripeté lei convinta.

C’era una punta di rabbioso rimpianto, nella voce di Sigyn. L’accusa che gli muoveva era giusta come tutte quelle che gli erano state rivolte dacché era ritornato ad Asgard, solo che l’ipotesi appena sfiorata dalla sua bionda e perduta moglie aveva in sé una nota triste impossibile da ignorare persino per il fiero ingannatore.

Loki s’inumidì le labbra in cerca delle parole giuste da dire. “Non mi pento di quello che ho fatto. Di niente. Ci saremmo comunque ritrovati così, alla fine,” ammise freddamente.

“Nemmeno della lettera ti sei pentito, amore mio?”

Loki s’irrigidì di fronte a quella battuta uscita dalla bocca di lei che bruciava come il sale su una ferita ancora aperta. “Cosa vuoi che ti risponda, Sigyn?”

Lo disse con lentezza, volgendo il capo dalla parte opposta a quella dove intuiva ci fosse la donna. Il velo grigio ancora non si era diradato dai suoi occhi. “Desideri di nuovo essere ingannata?” La frase venne pronunciata dalle sue labbra beffarde in maniera più cruda di quanto forse non volesse, ma ormai era troppo tardi per ricacciarla indietro.

Sigyn incassò il colpo, meditò sulla risposta giusta da dare forse mordendosi le labbra com’era suo solito – l’ingannatore si accorse di ricordare ancora ogni dettaglio e abitudine della ragazzina che aveva sposato solo grazie a un inganno e questo lo infastidì. Se solo avesse potuto vederla.

Infine, lei rispose. Lo fece continuando a medicarlo con tocchi sicuri, ma la sua voce altera gli giunse alle orecchie appena incrinata. “Sei sicuro che si è trattato di un inganno? O non è stato, piuttosto, il tentativo, l’ennesimo, di distruggere ciò che avevi di più caro, come hai finito per fare con tuo padre, tuo fratello, la bella Asgard?”

Loki deglutì. “Odino non è mio padre e Thor non è mio fratello,” puntualizzò.

“Bugia. Lo sono, lo sono sempre stati. Ha ragione Frigga; non sei affatto perspicace quando si tratta di te. L’ho scoperto a mie spese.”

 

Non le rispose. Non poté, non volle, non riuscì, ma ripensò a tutto, a ogni cosa. A quella notte, innanzi tutto, lontana nel tempo e nello spazio eppure scolpita nella sua mente in maniera indelebile, l’ultima che avevano trascorso insieme. Com’era bella, quella sera. Adesso Sigyn gli era tanto vicina che Loki riusciva ad avvertire il suo lieve profumo di miele, ma il suo viso, per le Norne, gli era ancora negato: poteva solo ricostruirlo scavando nei ricordi sbiaditi che aveva provato ad affogare nel sangue e nel fango dei campi di battaglia mentre guidava le armate di Odino prima, quelle meno gloriose di Thanos, poi. Era riuscito a seppellire la sua immagine sotto l’ambizione oscena che gli aveva fatto accarezzare con dita avide l’Hlidskjalf, il trono di Odino, il dio delle forche bugiardo e ingannatore che lo aveva salvato da una morte orrenda per il solo gusto di ammirare l’ennesima delle reliquie che aveva rubato e che intendeva usare per rendere Asgard ancora più grande. Sotto tutto questo, il dio degli inganni aveva nascosto il ricordo di Sigyn, ma ora lei era lì, al suo fianco e non era un fantasma nostalgico e impalpabile che non poteva nemmeno sfiorare; era viva, presente, maledettamente reale e gli chiedeva conto della notte lontana in cui lui le aveva spezzato il cuore.

Com’era bella, quella sera. Se solo fosse stata davvero sua. Se solo Sigyn avesse potuto sopportare, intuire il peso di quello che le aveva fatto e accettarlo, così come era riuscita a guardare oltre il sarcasmo spesso bieco, la crudeltà quasi esibita che sfoggiava con altero disprezzo.  Loki non desiderava essere perdonato: ognuna delle sue azioni, anche la più meschina, era scaturita da una precisa volontà che ricusare a posteriori sarebbe stato vile, ipocrita e indegno del principe degli Asi cui spettava il trono, ma il prezzo da pagare per i suoi inganni e per le scelte spietate che aveva fatto a testa alta era stato perderla inevitabilmente, per sempre. Cosa che, alla fine, era avvenuta comunque e per cui non si era stupito – anche se il modo, per le Norne, quello, era stato straziante.

Il punto era che Sigyn non gli era mai appartenuta fino in fondo, così come non era stato davvero suo il posto alla sinistra di Odino ai banchetti e sulla scala che conduceva al trono d’oro degli Asi: come ogni cosa, anche quella si era rivelata l’ennesima illusione. Ma se il fiero dio degli inganni aveva tentato con ogni fibra del suo essere di pareggiare i conti con l’astuto genitore adottivo – prova ne era quell’inenarrabile supplizio cui era costretto – con Sigyn non c’era stato mai alcun chiarimento, e lei era rimasta un discorso sospeso che ora tornava a tormentarlo proprio mentre scontava la sua pena. Per un ingiusto contrappasso, sua moglie incarnava, allo stesso tempo, la salvezza e la perdizione.

 

Com’era bella, quella sera. Come Asgard ricoperta d’oro che non c’era più. Cercò in fondo alla sua mente provata dalla prigionia e dal dolore l’immagine evanescente di lei e di quell’abito color tempesta che la avvolgeva come un guanto, rivide splendere la collana di perle che le aveva messo al collo con un ghigno mentre era seduta allo specchio. Nel riflesso, aveva osservato Sigyn arrossire e sfiorare il gioiello e si era chinato su di lei per accarezzarle con le labbra l’orecchio e sussurrarle che la trovava incantevole. Odino fingeva ancora di non aver deciso chi dovesse ereditare Asgard, e Loki Lingua d’Argento viveva nella menzogna perfetta che Padre Tutto aveva confezionato per lui e per gli Asi tutti. Si illudeva che il dio delle forche avrebbe finito per riconoscere la sua sagacia e il talento diplomatico che sempre sfoggiava concedendogli quel trono promesso e offerto in cambio di una lealtà assoluta – della vita, persino.

La notte in cui perse Sigyn, Loki si crogiolava ancora in una realtà che, di lì a poco, si sarebbe sgretolata con tremenda precisione. Lei fu l’inizio, la prima, profonda crepa che avrebbe incrinato ogni sua certezza. Ma davvero era così? Non aveva sempre saputo dove lo avrebbero portato i suoi piani scellerati? Era ancora capace di mentire a se stesso, Loki di Asgard, o di Jotunheim? Quando aveva osato rendere l’inganno reale, non aveva forse ventilato quell’ipotesi – il disprezzo eterno dell’irraggiungibile dea della fedeltà?

 

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Capitolo 2
*** Com'era bella quella sera ***


 

II

Com’era bella, quella sera

 

 

 

Tu sei molto, anche se non sei abbastanza,

E non vedi la distanza che è fra i miei pensieri e i tuoi,

Tu sei tutto, ma quel tutto è ancora poco,

Tu sei paga del tuo gioco ed hai già quello che vuoi.

Io cerco ancora e così non spaventarti

Quando senti allontanarmi: fugge il sogno, io resto qua!

[…] Vedi cara, è difficile a spiegare,

È difficile capire se non hai capito già

 (Vedi cara, Guccini)

 

 

Sigyn non era un’illusione dolorosa, affatto. Era reale, presente, accanto a lui. Mentre il veleno del serpente continuava a gocciare senza sosta nel bacile sopra le loro teste, lei lo aveva accusato di aver dato il colpo di grazia a un’unione complicata, ma non per questo meno intensa, rinfacciandogli l’esatto momento in cui aveva tradito la sua fiducia e infranto il fragile equilibrio del loro matrimonio. Con amarezza, pensò che sua moglie aveva frainteso ogni cosa pur comprendendo tutto. Si era sbilanciata dicendo che lo amava, certo. Un’ammissione insperata che le era già uscita fuori dalle labbra in un altro luogo, in un altro tempo, sostenuta con una forza d’animo che lo aveva stupito adesso come allora.

 

“Ho deciso che ti sposerò, Loki.” Lo aveva detto dopo essersi seduta accanto a lui, un freddo pomeriggio di fine autunno di molti, troppi anni prima. La dorata Asgard era ricoperta di foglie rosse e la notte stava già cedendo il passo al giorno. Erano fuori dall’infermeria brulicante di soldati feriti. Il dio degli inganni, un braccio fasciato fino alla punta delle dita appeso al collo e uno zigomo viola, le rivolse una lunga occhiata sorpresa. Era ancora troppo intontito dalle pozioni che era stato costretto a ingurgitare nel tentativo di lenire il dolore di quelle ferite, per risponderle con la solita, sferzante acutezza, ma nonostante ciò assottigliò le palpebre.

“Da cosa nasce quest’improvvisa decisione?”

Un briciolo della sua tagliente ironia era rimasto, dopotutto. Di fronte alla proposta ufficiale che le aveva fatto giorni addietro, lei aveva glissato imbarazzata e confusa chiedendogli tempo e ora, improvvisamente, pareva aver cambiato idea.

Sigyn sorrise appena. “Mentre eri in battaglia, non ho smesso un attimo di pensarti,” gli confessò. “Ero preoccupata – a ragione, a quanto vedo – e ho pregato le Norne di farti tornare da me.”

Il dio degli inganni incassò quella dichiarazione d’amore con principesca grazia, senza alcuno slancio, limitandosi ad aggrottare appena le sopracciglia, ma non poté fare a meno di indagare, di scavare nel cuore e nella testa di quella ragazza dalle guance rosse che gli sedeva accanto e si guardava nervosa la punta degli stivaletti.

“Perché? Mi chiamano Lingua d’Argento, il Fabbricante di Bugie: dicono che sono un truffatore che gode nel seminare caos e discordia. Mi accusano di essere sleale ed egoista perché uso e manipolo il seiðr come forse solo Padre Tutto sa fare. Se non fossi il principe di Asgard, il figlio di Odino, probabilmente sarei a marcire in qualche cella o a vagare lontano dai Nove Regni. Questo ti spaventava, fino a pochi giorni fa; questo e l’amore che dicevi di provare per un altro.” L’aveva costretta a guardarlo sfiorandole il viso con la mano sana e spingendola a voltarsi. “Cos’è cambiato?”

A voce non gli rispose mai. Lo baciò sulle labbra, però.

 

Il punto era che Sigyn capiva – aveva sempre compreso – la sua natura. Riconosceva il suo fiero orgoglio, guardava con un misto di soddisfazione e inquietudine al seiðr che, tramite le rune pronunciate con un filo di voce, creava e disfaceva. Ti ho sposato per amore, sosteneva quando la notte gli cingeva il collo accarezzandogli con dita delicate i capelli – le stesse che ora lenivano le sue ferite – e, di quell’amore perduto e nostalgico la cui unica traccia era un fascio di lettere, non faceva mai parola. Era rimasta colpita dalla sua intelligenza, dal sarcasmo pungente, dai modi affascinanti, persino, e tollerava suo malgrado il suo essere scostante e inafferrabile, ma nel suo cuore c’era sempre un’ombra scura. Perché anche lei mentiva, come tutti. Anche per Sigyn la realtà non era che la visione parziale e soggettiva di una serie di frammenti di eventi, il punto di vista colorato di speranze e suggestioni che non era meno vero del suo o di quello di Thor, di Balder, di Sif o di Padre Tutto in persona. La verità non esiste come valore assoluto, è sempre un’interpretazione che parte dai nostri occhi, e allora, se niente è reale, tutto è inganno, illusione, mistificazione. Così, la sua dea della fedeltà si struggeva perché credeva di avere il cuore diviso a metà, senza sapere né immaginare chi si nascondesse dietro il nome che ad Asgard non aveva mai osato pronunciare. Per un amaro contrappasso, era spezzata tra l’amore spirituale per un uomo che non aveva mai visto e quello di carne e sangue nato malgrado ogni previsione per lui, il dio dell’inganno. Le affinità intellettuali avute con un fantasma perduto di cui a lei rimanevano nient’altro che un nome e qualche sporadico indizio, si mescolavano con i battiti accelerati del cuore per l’altro – Loki stesso. Ruolo che il dio degli inganni si era ritrovato cucito addosso senza volerlo, regista e attore com’era stato dell’intera vicenda, invischiato nella propria stessa tela. Sigyn amava Loki, eppure, talvolta si guardava attorno cercando un paio d’occhi o un volto che riaccendesse la flebile speranza rinchiusa dentro a un baule. L’ingannatore era troppo intelligente e furbo per non accorgersi del vago disorientamento, della lieve malinconia che ogni tanto avvolgeva la sua giovanissima moglie. Avrebbe potuto risparmiarle quell’ansia, svelarle l’inganno che all’inizio aveva tessuto per scherzo, vendetta, gioco e che, alla fine, gli si era ritorto rovinosamente contro con drammatica precisione, ma non lo fece per non infrangere la fragile intesa raggiunta. L’unica cosa ragionevole da fare, la sola strategia che avesse senso portare avanti, suggeriva di limitarsi a osservare gli effetti devastanti del suo stesso inganno. In questo, rifletté mentre il veleno gocciava instancabile nel bacile e Sigyn provava a idratargli le labbra riarse, la sua storia era tragicamente simile a quella Odino. Ripercorrerla non rese tutto meno amaro, anzi.

 

 

Lei quella notte era bella, bellissima, con quell’abito color tempesta e la collana di perle al collo. L’aveva stretta tra le braccia mentre la faceva volteggiare al centro della sala e Sigyn era ancora avvinghiata a lui, quando una frase sbagliata di Thor l’aveva fatta impallidire, barcollare. Le quattro parole di nessun conto pronunciate con leggerezza dal suo nobile e inscalfibile fratello avevano suscitato, nella sua giovane moglie, un’associazione di idee pericolosa, nefasta, terribile: l’aveva vista boccheggiare e cercare Thor con occhi ansiosi e, di fronte a quella scena che pareva una beffa delle Norne, la gelosia gli aveva morso il cuore, avvelenato lo spirito. Sigyn non era che l’ennesima partita persa a tavolino contro l’erede perfetto, il figlio più amato. Anche se solo per il tempo di un battito di ciglia, lei aveva pensato che quel corrispondente che era riuscito a farle battere il cuore quand’era poco più che una ragazzina fosse nient’altro che il dio del tuono in persona. L’idea la spaventò e forse la cacciò immediatamente via dalla sua mente, ma in fondo Theoric, il nome di quell’amico divenuto innamorato, non era forse simile a Thor? Non poteva essere uno pseudonimo utilizzato ad arte dal primo figlio di Odino per corteggiarla senza essere respinto? Loki glielo lesse in faccia, quel dubbio improvviso e lacerante che le squarciò il petto, e la odiò – detestò entrambi, Thor perché aveva tutto, come sempre, Sigyn perché si era fatta ingannare mancando la prova più importante. Fu così che la perse.

 

Si lasciò corrodere da quella cosa oscura che gli infiammava le vene dei polsi, gli bruciava il petto, offuscava i suoi pensieri: com’era bella, quella notte. Le candele gettavano una luce soffusa nella loro camera da letto e Loki non le lasciò il tempo di spogliarsi, questo lo ricordava ancora bene; la ghermì per la vita mentre era di spalle, scostò le belle ciocche bionde per scoprirle la pelle sensibile e delicata della nuca, tirò giù la spallina del magnifico abito color tempesta mentre, con la mano libera, le cercava il seno. La desiderò con la disperazione feroce con cui aveva sempre voluto tutto, dal trono alla gloria, la cercò per placare il suo orgoglio ferito con lei, in lei. Sigyn forse intuì che qualcosa non andava, ma lo accolse con la dolcezza appassionata di sempre, nascondendo appena l’incertezza avuta poco prima nei confronti di Thor sotto ai baci lunghi e intensi che riservò a lui, o forse abbandonando per sempre l’idea di quell’innamoramento adolescenziale proprio su quel letto che era stato loro fino a quella sera e che, poi, non lo sarebbe stato mai più.

Come fu intenso, totale, straziante, meraviglioso, il loro fondersi e incontrarsi, quel loro amarsi per l’ultima volta. Erano ancora avvinghiati l’uno all’altra esausti e ansanti, quando Loki decise di spezzare per sempre la loro unione. La baciò, prima di farlo. Un assaggio lento, fatto mentre le accarezzava le belle ciocche bionde sparpagliate sul letto. Con le labbra ancora sulle sue, le recitò a memoria un brano che ben conosceva, che lei riconobbe all’istante.

Mia Sigyn, ti ho perso, anzi: non ti ho mai avuta. Il pensiero, nitido e netto, gli attraversò la testa come una lama congelando il rancore che animava ogni suo respiro. La sentì irrigidirsi, vide le sue pupille grigie dilatarsi dallo stupore, dal dolore.

“Che cosa hai fatto, Loki?”

La domanda le uscì in un sussurro, lo sguardo le si velò di terrore: già altri gli avevano posto quella domanda e Loki l’avrebbe sentita pronunciare ancora molte altre volte, ma quando fu lei, a farlo, provò dolore. Non rimorso, non senso di colpa – nemmeno ora che Sigyn leniva in silenzio le ustioni che gli solcavano la pelle riusciva a pentirsi davvero – ma quella notte sì, provò dolore. Disteso sopra di lei, l’accusò di essere stata cieca e sciocca. Di non averlo mai amato, non abbastanza almeno, e di aver confuso e cancellato gli indizi palesi che lei già possedeva.

La sua bella moglie dai capelli d’oro si divincolò finché non fu libera, saltò via dal loro letto in cui non avrebbe mai più dormito rassettandosi come poté il magnifico vestito color tempesta.

“L’hai letta!  L’hai letta mille volte! Come hai osato, come hai potuto tradire la mia fiducia frugando tra le mie cose? Il mio passato non ti appartiene, dio degli inganni: ti ho concesso il presente e il futuro, ma il resto no, è mio e basta.”

Loki le regalò un ghigno perfido, crudele. “Povera, sciocca ragazzina ti ho vista, stasera: credi che Theoric sia Thor,” spiegò con lentezza avvicinandosi. “Speri ancora che l’innamorato senza volto con cui hai intrecciato una lunga e appassionata corrispondenza ti venga a salvare dal crudele dio degli inganni.”

“Allontanati. Sei ubriaco, o pazzo, o entrambi” disse lei precipitandosi verso il baule che conteneva le lettere assicurate insieme da un nastro. Le trovò ed erano intatte.

“E tu sei fredda e bugiarda,” La guardò con rancore e desiderio e insistette. “Dì che non lo hai pensato, avanti.”

“L’ossessione per il trono sta offuscando la tua mente, Loki.” Com’era bella, lei. Gli puntò addosso quei suoi occhi grigi e furibondi e riprese a parlare severa. “Sapevi. Sapevi di Theoric da sempre. Perché stanotte hai deciso di farmi questo? Da quanto tempo progettavi di tirarmi l’ennesimo dei tuoi orrendi scherzi? L’hai imparata a memoria con il solo scopo di ferirmi.”

“Adesso stai giudicando il mio operato?”

“Operato?” Sigyn boccheggiò sconvolta. “Malefatte, inganni, tradimenti. Questo è il tuo operato nient’altro. Hai frugato tra le mie cose per placare la tua insoddisfazione perenne,” esplose, ma non pianse, no, resistette all’impulso.

Il dio degli inganni incrociò le mani dietro la schiena con solenne alterigia. “Accordi, astuzie atte anche a salvare Asgard. Merito il trono certamente più di mio fratello,” le ricordò difendendo il suo operato con la stessa protervia che, un giorno, lo avrebbe condotto al cospetto di Thanos.

Sigyn scosse la chioma spettinata in cui Loki, fino a pochi minuti prima, aveva affondato con voluttà le dita; ora quel passato recentissimo era lontano anni luce, galassie intere. Pareva quasi non fosse mai esistito. “Astuzie atte a seminare dolore,” lo corresse. “Usi le tue abilità senza cura per il tuo prossimo, Loki di Asgard. Se tu riuscissi ad avere la stessa gentilezza di tuo fratello forse potresti…”

Non finì mai la frase. Il dio degli inganni la interruppe dando infine pieno sfogo alla bestia nera che gli rodeva il petto da troppo tempo e che, quella notte, si era liberata definitivamente.

“Thor! Il vostro amato Thor! Dovete avere tutti una conoscenza davvero distorta del dio del tuono, se pensate che vi si altro oltre l’arroganza, la stupidità e l’ambizione, nel suo petto! Credi davvero che il mio eccezionale fratello sarebbe stato capace – mi correggo – avrebbe avuto la costanza di scriverti, per mesi, anni? Sei davvero così cieca, Sigyn?”

Lei sobbalzò coprendosi la bocca con le mani. Loki era sgarbato, scostante, pungente, crudele addirittura. Ma aveva sempre avuto nei suoi confronti la stessa premura che si ha col cristallo. L’amava. Ne era convinta. Non poteva averlo fatto, non davvero.

“Vorresti fosse lui, non è vero?” Lingua d’Argento stirò le labbra in un sorriso cattivo, incalzandola con la spietatezza propria degli Asi. “Mi è riuscito davvero bene, questo inganno. Non le ho lette, Sigyn. Le ho scritte.” Si animò, quasi trovasse la cosa particolarmente divertente, e iniziò a raccontarle dello scherzo crudele architettato per compiacere il fratello. “Per una settimana o due, Thor ti ha trovata interessante e sì, l’indizio che stasera hai colto era esatto, mia piccola e tenace Sigyn. Theoric è lo pseudonimo che io ho inventato per attirare la tua attenzione. Se avessi ricevuto una lettera da parte di uno dei principi di Asgard, fosse pure il magnifico dio del tuono, al tempo l’avresti gettata nel fuoco senza neanche aprirla, dico bene?”

“Tu menti.”

“Oh, vorresti lo facessi, ne sono certo. La verità spesso è scomoda e brutta. A Thor interessavi, ma non abbastanza da sedersi allo scrittoio e perdere tempo a inventarsi frasi per te. Così lo chiese a me.”

“Sei un bugiardo. E sei crudele.”

“Le ho scritte io, tutte. In cambio, lui ha pulito i finimenti del mio cavallo per mesi. Theoric è un’ombra, un personaggio che ho inventato per abbindolarti: credevamo lo avresti capito, e invece…A difesa del mio nobile fratello, devo confessarti che si stancò presto di te, quasi subito. Dopo l’iniziale divertimento subentrò la vergogna, credo. Si dedicò a più facili conquiste.”

“Perché mi stai facendo questo?” La voce di Sigyn, pallida in volto, era poco meno che un sussurro sottile.

“Lo cerchi ancora, no? Cerchi il tuo brillante innamorato ovunque.” Loki allargò le braccia, deciso a portare avanti lo spettacolo fino alla sua tragica fine. “Eccolo, lo hai sempre avuto davanti. Non ho avuto bisogno di frugare nel tuo baule come una domestica di quart’ordine, mogliettina mia: ognuna delle lettere che proteggi da sempre con tanto ardore è stata scritta da me. Theoric non è mai esistito: l’ho inventato io per corteggiarti, sedurti. Sei sempre stata innamorata di uno dei miei inganni, e non hai saputo vedere, riconoscere che ero io.”

“Non ti credo. Non posso,” Sigyn tentò di allontanarsi esasperata dallo scherzo orrendo, dal peso di una rivelazione così atroce e sicuramente falsa.

“Esatto,” proseguì Loki perfido. “Non puoi, perché, se lo facessi, dovresti ammettere di aver consegnato il tuo cuore a me. Sono il ripiego di una creatura che ho inventato. È ironico, ti pare?”

Le impedì di lasciare la stanza – non era ancora il momento – e lei, svuotata, raggelata, continuò a scuotere la testa ricordando quello che era stato, cercando dentro di sé prove e incongruenze che smentissero o confermassero quella storia orrenda. “Non puoi averlo fatto davvero. Io e Theoric ci siamo scritti per anni.”

“Trovai l’intera faccenda sommamente divertente. Ero curioso di vedere fin dove saremmo arrivati,” ammise l’ingannatore avvicinandosi, ma lei scattò fuggendo il suo tocco.

“Non ti credo. Non toccarmi, non avvicinarti!”

“Fa male, non è vero?” Loki incassò il colpo con bieca soddisfazione. L’aveva persa. Alzò il mento in una posa di sfida, serrò le labbra congelandole in una smorfia tirata. “Ora pensi che sarebbe meglio se avessi solamente letto le tue preziose lettere, dico bene? È così orribile pensare di aver sposato il loro autore? Avevi gli indizi per riconoscermi e non l’hai fatto. Il nobile Theoric poteva essere chiunque tranne me, doveva esserlo. Non sei esente dalla colpa, Sigyn: dici di amarmi, ma non mi hai mai riconosciuto.”

Ecco come finì la loro storia: con un’accusa.

Sigyn sostenne il suo sguardo, ma dai suoi occhi era scomparsa la dolcezza. La sua voce fu un sussurro sottile e tremendo. “Quale perverso bisogno hai soddisfatto?” Si guardò attorno, scosse la testa. “Non posso crederti né restare,” soffiò.

Di fronte a quell’ammissione, Loki irrigidì fino allo spasmo ogni muscolo del suo corpo nervoso e scattante. “Lo so.”

 

 

Ricordare i tempi gloriosi quando si è ridotti nella miseria è straziante: riempie la bocca e lo stomaco di fiele, suscita il rimpianto, fa tremare le vene dei polsi. Loki Laufeyson non concesse nulla alla moglie perduta che gli chiedeva il conto delle sue scelte passate, ma, incatenato com’era su una roccia aguzza, non poté fare a meno di percorrere con la memoria ciò che era stato, dall’inizio. Dal giorno lontano in cui un ghigno gli aveva increspato le labbra sottili già segnate dalla cicatrice ormai bianca che gli tagliava il sorriso e si era deciso a rivolgere a suo fratello una delle sue migliori battute salaci e argute. “Devi essere davvero disperato, se chiedi aiuto a me. Chi è lei?” si era interessato e, di fronte alla risposta, aveva pronunciato un nome che, sulle sue labbra, era sembrato quasi la promessa di una primavera eterna: Sigyn. Com’era stato tronfio, fiero, orgoglioso, mentre pronunciava quelle parole. Si accorse di ricordare con esatta precisione la smorfia che Thor gli aveva lanciato ascoltandolo. Fissando i compassi e le carte fittamente scritte che gli ingombravano il tavolo e di cui ignorava totalmente l’importanza, aveva ribattuto che a lui interessava semplicemente la ragazza. I doppi fini, i giochi retorici, le trame complesse e la politica, li lasciava volentieri a lui, al fratellino che adorava dilettarsi con mappe e trattati, che passava serate intere chino sui libri, all’ombra solerte e svelta che gli combatteva di fianco. Eccolo, l’ennesimo piano magnificamente architettato che gli si era rivoltato contro.

 

 

Di fronte al suo silenzio, Sigyn riprese a parlare, la voce accompagnata dal lento e inesorabile gocciare del veleno nel bacile.

“Quella notte non è finito tutto, Loki. Non per me, almeno.”

Il veleno continuava a cadere inesorabile nel bacile ormai quasi colmo.

“Ti sei sentita in colpa, dopo che sono caduto dal Bifrost.” Non era una domanda, ma una constatazione. Una delle fredde analisi tanto care a Loki quanto precise e pungenti. Di nuovo, lei attese a lungo, prima di rispondergli. Aspettò che il bacile fosse pieno per andare a svuotarlo in fretta, scossa dai singulti spezzati del fiero marito che aveva amato e odiato. Si morse le labbra e corse da lui, sistemò di nuovo il recipiente sotto le fauci orrende di quella bestia immonda che la fissava con occhi vitrei, pulì e bendò la pelle offesa del dio degli inganni soffocando la sofferenza che la causava quell’immagine tremenda. L’affascinante Ase era legato alla roccia come una bestia in cattività, ma pur scarmigliato, ferito e con le vesti stracciate com’era, riusciva a sfoggiare una dignità principesca, una grazia feroce, una disperazione fiera. Stringeva i denti e soffriva soffocando le urla perché c’era lei e per non dare soddisfazione alcuna al rettile che gli sbavava addosso, a Odino, agli Asi tutti. Mentre bagnava le sue labbra aride e riarse e calmava il respiro reso corto dal dolore, Sigyn pensò che lo aveva amato sempre, in ogni istante: persino quand’era fuggita da Asgard col cuore trafitto la sua anima gli era appartenuta, perché l’odio non è il contrario dell’amore, affatto. Il suo contraltare semmai è l’indifferenza, e Loki Laufeyson o Odinson non le era stato indifferente mai, neppure un momento.

 

“Cos’hai fatto quando te l’hanno detto, Sigyn?” L’Ase volse gli occhi ancora ciechi nel punto in cui dedusse dovesse esserci il suo viso e la giovane donna esitò asciugandosi in fretta una lacrima traditrice. Se lo ricordava bene, quel giorno. Una contrazione dolorosa le strinse il petto al ricordo del vuoto, del gelo che le era strisciato addosso, dentro, quando un soldato di Asgard le aveva portato la cattiva notizia. Le era mancato improvvisamente il respiro, l’equilibrio, il senno. Rammentò di aver indossato la bella collana di perle e di averla sfiorata con le dita un istante prima di tagliarsi i capelli fino all’ultima ciocca e stringersi in un lutto che non aveva più smesso di portare. Di fronte al tumulo vuoto che aveva finto di accoglierlo, non aveva versato una sola lacrima, forse perché consapevole che quell’inutile simulacro non era la tomba dove avrebbe riposato per sempre Loki, ma solo un inganno, l’ennesimo. Si era lasciato cadere, per le Norne. No, non pianse Sigyn quando le fu data la tremenda notizia né alla solenne cerimonia funebre voluta da un torvo Odino. Lo fece dopo, quando si risolse a sciogliere con dita tremanti il nastro delle lettere che non aveva più osato leggere per non rischiare di trovare tracce della voce di Loki tra le loro righe. Mentre a labbra strette ripercorreva con gli occhi i paragrafi che, in un altro tempo, avevano finito per farla sospirare, si ritrovò a pensare come quel legamento particolare tra la lettera n e la lettera t assomigliasse vagamente a quello tipico della grafia Loki; che certe espressioni avrebbero potuto davvero essere sue e la prima missiva, così come la seconda e la terza e la quarta, non erano nient’altro che il gioco di cattivo gusto di due ragazzi viziati e annoiati, sicuramente egoisti e crudeli.

 

Così Sigyn non rispose a Loki che le chiedeva cos’avesse fatto, dopo che lui era caduto oltre il ponte color arcobaleno per diventare il servo di un padrone totalmente folle, ma mentre un nodo le stringeva la gola ripensò allo strazio di quella lettura che era diventata uno studio attento di ogni sillaba, frase, battuta. Non gli aveva creduto, quando Loki aveva ammesso fieramente di essere stato l’autore delle lettere ma, rileggendole, il dubbio che lui, per una sola e unica e tragica volta, fosse stato totalmente sincero le infettò il cuore. Scovò il punto preciso in cui Thor si era stancato di giocare e gli aveva probabilmente detto di interrompere il carteggio, riconobbe il guizzo diverso dei paragrafi ora più liberi, arditi, acuti, notando un cambiamento nel tono, nelle informazioni, nei discorsi. Con le labbra che tremavano, rilesse ancora ogni missiva e scoprì le tracce che aveva ignorato fino a quel momento. Sì, a un certo punto, Loki aveva smesso di giocare per iniziare non a essere sincero, ma brillante in quel suo modo arguto e perfetto, totale. La lettera che le aveva recitato quella notte maledetta, l’ultima che avevano trascorso assieme come sposi e amanti, non aveva segnato solo la fine del suo matrimonio, ma anche della relazione epistolare intrattenuta quand’era poco più di una ragazzina. Conteneva un commiato appassionato che non era una dichiarazione d’amore eppure, a suo modo, lo era. Forse Loki aveva scritto più volte la missiva con cui si era deciso, alla fine, a interrompere il carteggio, perché Lingua d’Argento quella lettera non l’aveva letta, ma scritta. Una consapevolezza che non le fece meno male, anzi: era una coltellata nel petto che giustificava ancora di più la sua fuga e congelava il dolore. L’inganno appariva ancora più terribile e imperdonabile, e non importava che, forse, a forza di mentire e raggirarla, forse si era davvero invaghito di lei.

Passò notti insonni a chiedersi se non si stesse auto ingannando. Se la sua esegesi forsennata delle missive non nascondesse il desiderio di crederle davvero di Loki proprio perché lui ora non c’era più. Se non avesse semplicemente bisogno di riattaccare i pezzi del suo cuore infranto fondendo la figura evanescente di Theoric con quella, reale e ormai perduta, ma sempre amatissima, del dio degli inganni. Se non fosse il senso di colpa per la sua irrisolta relazione con il marito, a farle cercare nuovi significati in quelle lettere ormai stropicciate e sbiadite. Ci pensò e non trovò nessuna risposta soddisfacente. Finì per rintracciare in mezzo alle righe scritte in bella grafia la sua arguzia, nuovi ragionamenti e altri dettagli che non aveva mai analizzato abbastanza a fondo. S’innamorò di nuovo e bruciò ogni cosa.

 

 

“Perché non mi rispondi?” Il tono della voce di Loki era tornato neutrale, appena raschiato dall’ambiente umido della grotta e dalla lunga e sfiancante prigionia. “Vuoi che lo indovini? Non riesco a vederti, ma ancora posso sentirti.”

Sigyn batté le palpebre e una lacrima le rigò la guancia. Si chinò su di lui quel tanto che bastava affinché le sue ciocche bionde, ora cresciute, gli sfiorassero il viso e l’Ase provò ad allungare le dita intorpidite verso quel volto che ricordava quasi con precisione e ancora non riusciva a mettere a fuoco. Nonostante i ceppi, riuscì a sfiorarle la gota umida, la pelle morbida. Una carezza leggera che la fece rabbrividire costringendola a rispondere.

 “Non l’hai letta. L’hai scritta,” mormorò. “Non ti perdonerò mai per questo.”

“Lo so.”

Sigyn prese tra la sua la mano dell’Ase appesantita dalle catene per prolungare quel contatto che le era mancato in maniera totale, assoluta. “Non sono riuscita a dimenticarti,” ammise con un soffio di voce.

Loki increspò le labbra, parve riflettere su quell’ultima confessione. “Non hai voluto,” specificò. “Non mi pento di quello che ho fatto, Sigyn, ma la mia prigionia è ancora lunga. Torna a casa, smetti il lutto che senz’altro porti,” disse, “lascia che i tuoi capelli ricrescano,” aggiunse scoprendo con le dita che le sue belle ciocche bionde ora le sfioravano a malapena le spalle.

La sentì irrigidirsi. “Non posso, non voglio.”

 

 

C’è qualcosa di perverso, nell’incastrarsi nella propria stessa trama. Ingannare ed essere ingannati fa parte del gioco, ma ordire un piano e rimanerne invischiati è un beffardo scherzo del destino che Loki Laufeyson non poteva fare a meno di apprezzare, dopotutto. Lei all’inizio non era niente, l’aveva notata appena. Se i suoi occhi verdi e acuti si erano posati su Sigyn, era stato solo per seguire lo sguardo interessato del sanguigno Thor. Folti capelli biondi che nessuna acconciatura sembrava poter disciplinare, lineamenti delicati, grandi occhi grigi rotondi e profondi, vita stretta; non bella più di altre, ma interessante questo sì, senz’altro. Con tale spirito si era accinto ad assecondare i capricci del suo volubile fratello che solo l’esilio su Midgard avrebbe reso un vero eroe.

Solo che per ingannare davvero qualcuno, per convincerlo ad aprirsi e conquistarlo, è necessario concedere qualcosa di se stessi sacrificando una scintilla, un frammento della propria anima. Perché l’illusione sia davvero efficace, deve contenere al suo interno un barlume di inoppugnabile verità. Scriveva Loki, di notte. Lettere lunghe, appassionate, in cui ogni arguzia, frase, schermaglia era pensata per lei, la ragazza bionda che sedeva in giardino a leggere lettere d’amore raccogliendo le gambe al petto. Le sue. All’inizio erano stati il divertimento e la bieca curiosità a fargli alzare la penna, ma poi, per le Norne, qualcosa era cambiato. Sigyn era intelligente, vivace, acuta. Bella. Rispondeva a tono alle sue battute, commentava in maniera brillante i suoi ragionamenti. Intrattenere quella corrispondenza che Thor aveva dimenticato da tempo continuò a essere divertente, ma in maniera diversa. Quando comprese che per Sigyn il fittizio Theoric stava diventando troppo importante, pensò che fosse il caso di smettere, ma non volle, non riuscì, non poté. Seduto sul letto con le gambe comodamente allungate e un libro a rendergli più agevole la scrittura, la lunga penna di falco ancora stretta tra le dita, capì che non voleva privarsi di nulla – che non era in grado di rinunciare a niente – nemmeno a lei.  Scriverle spacciandosi per un altro, uno che nemmeno esisteva, era una bassezza terrificante, ma non farlo era fuori questione. Incastrato nella sua stesse rete, lasciò che l’inganno così abilmente tessuto la conducesse tra le sue braccia e nel suo letto solo per perderla. Com’eri bella, Sigyn, quella notte.

 

Il lento gocciare del veleno nel bacile continuò a scandire il tempo di cui Loki non riusciva più a tenere traccia e quella che sarebbe diventata la dea della fedeltà rimase lì, accanto a lui, al suo fianco, come aveva promesso quando lo aveva sposato, curando con la sua sola presenza il corpo torturato e lo spirito fiero e mai piegato dell’altero dio degli inganni in persona. Dopo avergli applicato sugli occhi l’ennesimo medicamento, lui registrò una variazione significativa di luce, strinse le palpebre, serrò la mascella. Lentamente, le macchie indistinte di nero e grigio lasciarono spazio ai colori, a lei.

Loki la osservò come si guarda qualcosa che si è avuto e poi perso e sul suo viso affilato si affacciò di nuovo il ghigno perenne che gli attraversava le labbra, il sorriso di lupo che l’aveva stregata.

“Sei sempre stato tu, solo tu, ad avere il mio cuore” mormorò Sigyn scostandogli una ciocca scura dal viso. “E l’ho capito troppo tardi. Mi dispiace.”

“Che importanza ha, adesso?” osservò l’Ase distante.

Lei scosse la testa, e il dio degli inganni s’incantò un momento osservando l’oro dei suoi capelli.

“Resterò qui, Loki, amore mio. Resterò con te fino a che Thor e Frigga non otterranno da Odino un appello e tu sarai graziato, finché queste catene non verranno spezzate, fino al Ragnarok, fino alla fine del tempo.”

Lingua d’Argento forse avrebbe voluto ribattere qualcosa, ma non ci riuscì: lei lo baciò sulle labbra.

 

 

The end

 

 

 

Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,

Tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:

Dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto

Dove non soffriremo e tutto sarà giusto.

Non ridere, ti prego, di queste mie parole,

Io sono solo un'ombra e tu, Rossana, il sole,

Ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora

Ed io non mi nascondo sotto la tua dimora

Perché oramai lo sento, non ho sofferto invano,

Se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo...Cyrano

(Guccini, Cyrano)

 

 

 

 

Note Autore:

 

Cari lettori,

Questa storia nasce per il Contest di Laodamia94 “Cuore d’Ombra II Edizione, incentrato, come suggerisce anche il nome, sui villain. Come potevo non cogliere l’opportunità per parlare ancora di Loki, il mio villain preferito di sempre? ♥ Per l’occasione, ho voluto presentare il dio dell’inganno in uno dei momenti fondanti della sua storia mitologica, unendo la timeline del MCU al mito scaldico relativo alla punizione di Loki. Secondo quest’ultimo, il dio degli inganni viene condannato dagli dèi a una pena tremenda: incatenato in una grotta sotto la bocca di un serpente la cui bava urticante lo strazia, Loki si contorce e si lamenta. Sigyn, la dea della fedeltà, la moglie devota, gli resta accanto e raccoglie in un bacile il veleno del serpente, alleviando in questo modo la pena del marito. La Marvel ha dedicato uno spazio molto ristretto a questa figura di donna: ha inserito però nel comics il personaggio di Theoric, uno spasimante che lei avrebbe dovuto sposare, cui Loki si sostituisce con l’inganno. Partendo da questi spunti, ho creato una storia che si colloca idealmente tra Avengers e Thor: The dark world dato che presuppone un voltafaccia di Loki nei confronti di Thanos mentre Odino è vivo e una battaglia che distrugge Asgard. Le caratteristiche dell’inganno di Loki, il fatto che inventi il personaggio di Theoric per sedurre Sigyn, la loro corrispondenza e l’assonanza Theoric/Thor sono mie invenzioni/riflessioni di cui ribadisco la maternità, così come l’interpretazione e la caratterizzazione di questa Sigyn.

I versi riportati della Lokasenna nell’incipit appartengono all’edizione Garzanti in mio possesso (volevo farvi sentire la vera voce di Loki).

Nel testo sono presenti citazioni da De André (La canzone di Marinella), Pascoli (X Agosto) e altre mie storie. Gli appellativi di Odino e Loki (dio delle forche e fabbricante di bugie) vengono dall’Edda.

A fare da colonna sonora alla stesura della storia sono state le canzoni citate nel testo e non solo: Into my arms di Nick Cave, sulle cui note ho scritto l’epilogo, Vedi cara cantata da Guccini, e, soprattutto, Cyrano che, anni fa, ha ispirato il primigenio nucleo della storia. Come sempre, grazie a chi è arrivato fino a qui e grazie a chi ha ascoltato le mie paturnie durante la stesura della storia. ♥

 

Shilyss

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