Fino alla fine del tempo di shilyss (/viewuser.php?uid=21848)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se solo il veleno del serpente ***
Capitolo 2: *** Com'era bella quella sera ***
Capitolo 1 *** Se solo il veleno del serpente ***
Fino alla fine
del tempo
I
Se solo il
veleno del serpente
Disse Loki:
“Sappi
che se su un picco roccioso,
con le budella gli dèi
del
mio figlio freddo di brina mi legheranno,
che primo ed
ultimo fui io a dar
morte
quando mettemmo
le mani su Thjazi.”
(Edda Poetica,
Lokasenna v. 50)
“Devono
morire come
guerrieri, i feroci Asi. Le porte del Valhalla si spalancheranno solo
per i
fieri eroi che sono caduti in mezzo al fuoco, al sangue, al fango. Le
corazze sono
fatte per frantumarsi sotto i colpi delle armi nemiche, le spade per
spezzarsi,
gli elmi dalle lunghe corna per fracassarsi e rotolare a
terra.”
Lo aveva detto e
ripetuto
come una nenia feroce – o una supplica – mentre
Thor, bestemmiando, lo
riportava ad Asgard sorreggendolo per le spalle, ordinandogli con voce
roca di
tamponarsi quello squarcio orrendo che gli tagliava il fianco prima che. Pensiero tremendo che aveva
fatto tremare le vene dei polsi di entrambi e ora echeggiava nella
grotta squallida
e spoglia dove Loki sussultava scosso dalla febbre, torturato dal
veleno che
gli colava senza pietà sul viso.
Tu
lo sapevi che mi avrebbero fatto questo, Thor, lo sapevi, vigliacco
maledetto: dovevi lasciarmi crepare.
Inghiottì il dolore e l’ira perché,
alla fine, era stato lui, a
tradirlo. Gli era mancato il
coraggio di dargli il colpo di grazia con Mjollnir in nome di quella
parola con
cui si sporcava le labbra: fratello.
La inghiottì, la masticò, la sputò
fuori in un grido mentre la bava acida e
corrosiva dell’impassibile serpente gli scivolava sulla pelle
già ferita
consumandogli gli occhi, togliendogli il respiro. Ogni goccia scavava
la carne
lasciando una scia di dolore che era difficile da sopportare. Si tese
sulla
roccia inarcandosi per evitare il contatto che le sue pupille,
malamente
coperte da una benda, non riuscivano a evitare: muscoli allungati nella
tensione di uno spasmo atroce, incontenibile, respiro affannato nel
tentativo
disperato di smorzare le urla. In mezzo al delirio allucinante in cui
era
precipitato, rivide il se stesso di un altro tempo e un altro luogo
giocare
armato di una spada di legno insieme a quel fratello che era stato
l’alleato
perfetto, l’avversario più odiato. Thor.
Che non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida per
osservare da
vicino gli effetti devastanti della giustizia degli Asi in generale, di
Odino
in particolare. Strinse i denti per inghiottire un’altra
ondata di dolore –
l’ennesima – fece gracchiare i ceppi che gli
segavano i polsi già scorticati
mentre si divincolava e tendeva e scalciava come se potesse evitare la
bava
urticante: il veleno gli scivolò sul collo insinuandosi
sulla spalla, proseguendo
implacabile verso il torace. Invocò e maledisse le Norne,
Odino, suo fratello e
chi lo aveva messo al mondo. Gli risposero la pietra e l’eco
della sua voce e
allora rise, nel delirio della febbre che ormai lo divorava, e
ricordò l’armata
dei Chitauri che aveva perso e la sua disfatta –
l’ennesima, l’ultima – e, di
nuovo, detestò Thor e la sua debolezza. Cadeva sempre nello
stesso tranello;
desiderava disperatamente salvarlo e, così facendo, aveva
finito per
condannarlo alla più atroce delle torture: morire come un
prigioniero, chiuso
in una grotta, incapace di distinguere la luce dal buio, la
realtà dalla
finzione.
Eppure aveva
lottato Loki
di Asgard, figlio di Odino anzi no, di Laufey. Reliquia rubata
ingannata fino
alla fine, principe cadetto costretto a giocare una partita truccata in
partenza, vinta dal vero figlio, dall’erede degno, dal futuro
re di Asgard che,
fino al giorno prima dell’esilio su Midgard, andava a puttane
e beveva idromele
fino a vomitare.
Certo, anche
l’arrogante
Thor era stato punito. Loki ogni tanto lo ricordava e ghignava
soddisfatto, al
ricordo della spedizione su Jotunheim; solo che poi, nella sua mente
che già
iniziava a sfilacciarsi oppressa com’era dal dolore e dalla
solitudine,
s’arrotolava inevitabilmente un pensiero amaro. Il banno di Padre Tutto nei confronti
dell’adorato dio del tuono si
era rivelato una punizione salvifica: il perfetto Thor, il principe
fortunato,
si era dimostrato degno di brandire nuovamente Mjollnir. In
quell’atomo opaco
di male, aveva smesso di essere lo spaccone viziato che prima colpiva e
poi
pensava ed era diventato l’erede designato due volte. E la
sua, di punizione?
Ferito e malmesso, sfuggito per un soffio all’ira tremenda e
funesta del Titano
inferocito, Loki aveva testato, per l’ennesima volta, quanto
fosse parziale il
senso della giustizia del dio delle forche. Non più padre,
né signore, né re,
ma Odino figlio di Bor, pirata e predone che, con l’oro
sottratto ai popoli
sottomessi, aveva ricoperto d’oro ogni guglia di Asgard.
Asgard
distrutta,
bruciata, che non c’è più. Un popolo in
rovina che si è salvato solo perché, sul
tetto dell’inutile Midgard, dopo aver ribattuto a Thor che
era davvero troppo
tardi, per un istante, uno solo, aveva pensato che non fosse
esattamente vero.
E così, nella battaglia contro il Titano aveva usato ogni
fibra del suo essere,
ogni goccia di seiðr e sangue, ogni lama a sua disposizione,
per liberarsi. Il
prezzo che aveva pagato per la sua eroica azione era quella benda
lercia che
ora gli stringeva la testa coprendogli gli occhi, il corpo martoriato e
sconfitto, l’acida bava che gli corrodeva la pelle. Devono
morire come guerrieri,
i feroci Asi. Crepare su un campo di battaglia, soffocare nel proprio
sangue
con il ferro di una spada infilzato nello stomaco fino
all’elsa. Sei un codardo, fratello.
Loki non aveva
smarrito
il suo istinto di conservazione, nient’affatto. La sua non
era che una lucida
analisi, una delle molte. L’ennesimo aggrovigliarsi di
pensieri aguzzi e, allo
stesso tempo, contorti che lo inseguivano nel suo supplizio
probabilmente quasi
eterno, che si sarebbe risolto solamente con l’arrivo del
Crepuscolo degli dèi,
il Ragnarok promesso dalla Voluspa, la profezia che raccontava il modo
e la
maniera in cui gli Asi sarebbero morti. Una fiaba antica e tremenda
che, per
lui, ora aveva quasi i tratti di una promessa consolante.
No, Loki
Laufeyson non
voleva morire: la voglia di vivere era ancora una bestia rabbiosa che
gli
mordeva il cuore impaziente, nonostante Thanos e la sua vendetta
crudele fatta
senza alzare nemmeno un sopracciglio in nome di quello scettro
smarrito,
dell’armata dei Chitauri rovinosamente perduta, del suo
voltafaccia improvviso,
ma certo non sorprendente. Mentre Thor lo trascinava via quasi esanime
dal
campo di battaglia, aveva raccattato le forze necessarie per schiudere
le
labbra riarse e spaccate e cercare gli occhi blu dell’altro.
“Il dio delle
forche non avrà pietà di me, fratello,”
aveva boccheggiato. “Fammi morire come
un Ase.”
Sussurro
mormorato appena
che il tonante era riuscito a udire nonostante il clangore, il fumo, le
fiamme.
Eppure Thor non gli aveva risposto. Si era limitato a stringere con
più forza
la spalla del fratello senza riuscire a smentire quella frase di una
lucidità
disarmante, perché non è vero ciò che
si dice del dio degli inganni: la
menzogna è solo una delle tante abilità messe a
punto dal principe perduto di
Asgard, dal figlio ribelle e reietto che nasconde il suo aspetto sotto
una
maschera diversa. Perché l’inganno sia totale,
completo, assoluto, la vittima
deve convincersi, abbandonarsi a essa. L’abile bugiardo deve
proporre qualcosa
non di assurdo e totalmente falso, no, questo sarebbe da sciocchi
dilettanti,
ma una fiaba verosimile, plausibile, possibile. In ogni inganno
c’è un fondo di
verità che luccica come una moneta perduta dentro a un
pozzo. Così, Loki non
era un Ase d’aspetto – la sua immagine non era che
il trucco di un muta forma –
ma lo era il suo spirito fierissimo e indomito e per questo, alla fine,
l’inganno di Odino si era rivelato perfetto:
perché aveva creato un figlio di
Asgard che era tale in tutto e per tutto.
Loki non aveva
smarrito il
suo istinto di conservazione, affatto, ma non ci teneva a crepare
dentro una
grotta o una cella, come una bestia lasciata a morire in gabbia. I
principi
guerrieri, i re mancati senza corona e senza scorta, dovrebbero
lasciare questo
mondo con onore, trafitti da una lancia, in maniera degna, non
raggomitolati al
buio, bloccati dai ceppi. Questo terrorizzava Lingua
d’Argento: non la tortura
né la solitudine, ma il pensiero raggelante di una morte indegna, quella che, fin da quando erano
bambini, lui e Thor
avevano imparato, allo stesso tempo, a temere e a guardare con il
disgusto
tipico dell’infanzia. Suo fratello non aveva potuto fare a
meno di stringergli
la spalla, di serrare tra la sua mano callosa e forte la manica della
casacca
verde e stropicciata che aveva ancora addosso, ma non era riuscito a
rispondergli perché era incapace, allo stesso tempo, di
mentirgli e di
lasciarlo morire. Una debolezza, quest’ultima, che
condividevano entrambi.
Il veleno
colò ancora sul
suo petto già segnato da grossi solchi rossi, sulla tunica
scura lacerata
dall’acido corrosivo della bestia. Stavolta urlò
– pianse – contorcendosi dal
dolore, perché la saliva del serpente scorreva sulla pelle
già martoriata. Il
dolore era annichilente. Rimase senza fiato mentre la benda attorno
agli occhi
offesi si allentava e già una nuova, terribile, goccia si
apprestava a cadere.
L’accolse con un brivido, mordendosi le labbra. Odino e gli
Asi non avevano
avuto pietà di Loki Lingua d’Argento. Padre Tutto
aveva guardato il figlio
adottivo ribellatosi alla sua volontà con l’occhio
critico di un sovrano
infuriato. Il dio dell’inganno aveva minacciato uno dei mondi
posti sotto la
sua protezione disobbedendo al suo volere, tradendo i principii sotto
cui si
reggevano Asgard e il complesso sistema di alleanze dei Nove Regni.
Loki era
giunto al suo cospetto boccheggiante, trascinando un ginocchio rimesso
solo
parzialmente in sesto dai guaritori del palazzo. Avrebbe dovuto
invocare la
pietà e il perdono, buttarsi a terra sfiorando con la fronte
il pavimento di
legno della sala del trono. Invece era stato, per l’ultima
volta, protervo e
arrogante, beffardo e insolente, fantastico e folle. Ma se si fosse
prostrato
davvero, se avesse chiesto pietà, anziché
mostrarsi sprezzante e irriconoscente,
davvero Odino, il dio delle forche e degli eserciti, lo avrebbe
salvato? Nonostante
fosse rimasto assai turbato dalla pietosa scena, il sovrano aveva
deciso, di
nuovo, che non poteva essere la morte la pena che spettava al figlio
adottivo.
Quella sarebbe stata un privilegio, dopotutto. Con gli occhi lucidi, lo
aveva
condannato a qualcosa di peggiore. L’ennesima goccia gli
cadde addosso
scivolando sulla fronte, raggiungendo la punta del naso, scendendo
sulle
labbra. Di nuovo, i ceppi gemettero assieme a lui e tutto il suo corpo
si tese
sotto quel dolore insopportabile. Da quanto tempo Odino aveva stabilito
la sua
pena, da quanto Thor non aveva il coraggio di scendere in quella grotta
umida?
Ancora scosso com’era, si rese conto di averlo dimenticato,
di aver perso il
senso del tempo. Fu allora che iniziò a ridere. Forse rideva
ancora, quando il
veleno smise di colare.
La riconobbe dal
profumo.
Dal sentore di vaniglia e miele che emanava. Non si era accorto che era
entrata,
e questa consapevolezza lo inchiodò su quella roccia che gli
faceva, allo
stesso tempo, da giaciglio e da prigione. La risata secca che lo
sconquassava
da troppo tempo gli morì in gola mentre, nella sua testa, si
faceva strada la contezza
raggelante di quello che stava accadendo – che era appena
accaduto. Lei no. Qualsiasi cosa, ma lei no,
per le
Norne. Strinse le labbra, quando indovinò che si
stava chinando verso di
lui, strattonò le catene, mentre gli posava con delicatezza
una mano sulla
fronte madida di sudore.
“Cosa
ti hanno fatto, amore mio,”
sussurrò Sigyn, e la sua
voce era dolce e malinconica assieme.
Loki Laufeyson
non
rispose. Avvertì il tocco gentile dei polpastrelli della
donna e tentò di
ritrarsi, di fuggire quel contatto peggiore persino del veleno del
serpente. La
sentì sospirare e armeggiare con quella cosa che impediva al
siero venefico di
gocciargli addosso – un bacile, forse – e
chissà che altri oggetti. Decise di
non parlarle perché non si discorre con uno spettro, con un
miraggio, anche se
il fatto che la bava avesse smesso di colare avrebbe dovuto suggerirgli
come Sigyn
fosse davvero lì, a fissare con uno sguardo pietoso il suo
corpo incatenato e
teso sulla roccia, la pelle consumata dal veleno. Doveva apparirle come
uno
sconfitto. Un prigioniero umiliato e vilipeso, un guerriero che sul
corpo
portava i segni di una tortura orrenda, un re detronizzato senza trono
né
popolo, ma pur sempre un re. S’inorgoglì a quel
pensiero, mentre lei continuava
a carezzargli con dolcezza i capelli neri e scarmigliati leggermente
arricciati, sfilava lentamente la benda senz’altro lercia che
gli copriva gli
occhi.
Sei
un’illusione, Sigyn, sei un’allucinazione provocata
dal
seiðr che non riesco a usare in un modo più
opportuno, sei il segno innegabile
che sono diventato pazzo e confondo la realtà con il delirio. Lo disse a se
stesso, lo pronunciò
a voce così bassa che lei – ma questo Loki non
poteva saperlo – aggrottò le
sopracciglia preoccupata.
“Sono
qui. Sono davvero
qui, Loki.”
“È
la pietà che ti ha spinta
a tornare? Ti ha chiesto Thor di venire?” Lo disse con un
livore gelido che
dovette ferirla; se ne accorse dal sospiro strozzato, dalle dita che
cessarono
la loro lenta carezza. “Sei venuta per quale motivo, dolce
Sigyn?”
Lei
esitò a lungo sulla
risposta da dargli. “Cosa ci siamo fatti,”
soffiò infine.
Sigyn sapeva che
l’animo
del dio degli inganni non era fatto per gli spazi claustrofobici di una
cella o
di una grotta. Ferito orrendamente nelle ambizioni, la sua mente stava
iniziando a vacillare verso un baratro di follia che la giovane donna,
suo
malgrado, riconobbe. Si sarebbe arrovellato fino alla fine dei tempi
sugli
errori commessi, incapace di accettare la sconfitta e andare avanti,
stretto
nell’orgoglio disperato e arrogante che gli aveva impedito di
chiedere perdono
a Odino. Cosa che aveva fatto lei al posto suo. Era tornata ad Asgard
col viso
bagnato dalle lacrime e, per un giorno e una notte, era rimasta
inginocchiata
di fronte al trono di Odino implorando clemenza. E
se le Norne non scioglieranno il vostro cuore e non è ancora
vostra
intenzione concedergli la grazia, mio signore, che almeno possa lenire
i suoi
tormenti. Così aveva detto. Il re degli Asi aveva
assottigliato il suo
occhio azzurrissimo, come per osservarla meglio. Poi, lentamente, si
era deciso
a parlare lisciandosi la barba canuta.
“Mio
figlio è stato molto
crudele con te.”
“È
vero,” aveva ammesso
lei.
“E,
nonostante questo, lo
hai amato?”
Sigyn aveva
sfiorato con
i polpastrelli la bella collana di perle che portava sempre al collo
distogliendo
lo sguardo.
“Cosa
ti hanno fatto,
amore mio?” ripeté.
“Critichi
i modi di
Odino? Il Padre di Tutto mi vuole solo salvare da me stesso,”
disse Loki, e
l’aria parve vibrare di sarcasmo, alle sue parole.
No, Lingua
d’Argento non
era più il principe sveglio e brillante di Asgard, la cui
intelligenza vivace
aveva reso grande il regno degli Asi. Era il dio degli inganni che si
era
perduto e corrotto, ormai, e il suo cuore era così gonfio di
rancore che Sigyn
temette non vi potesse essere più spazio per
nient’altro.
La donna
provò di nuovo a
scostargli dal viso le ciocche scure e Loki, ancora una volta,
allontanò il
volto, quasi il contatto con lei fosse qualcosa di insopportabile e
tremendo,
ma le dita di Sigyn riuscirono comunque a sfiorarlo e il suo tocco
gentile lo
colpì più di tutte le torture passate sotto
Thanos prima, gli Asi poi.
“Solo
cadendo ti passerà
la paura,” mormorò lei. “Così
mi dicevi quando mi portavi a pattinare nel lago
ghiacciato fuori dalle nostre
finestre. Te lo ricordi? E dopo non devi far altro che
rialzarti,” tentò di aggiungere,
ma scoprì che la sua voce era rotta e incrinata dal pianto. Quando sei scomparso nell’abisso sotto al
ponte color dell’arcobaleno, nel momento in cui sei stato tu
cadere, ti sei
scontrato con i tuoi incubi, amore mio?
Una mezza risata
rantolò
dal petto sofferente dell’altro. “La paura
è passata. È il dolore che è
rimasto,” ammise accarezzando le parole tra le labbra
screpolate, ma mentiva,
perché timori e tormenti lo avrebbero perseguitato per
sempre – fino a quando
avesse avuto un alito di vita, fino all’ultimo dei suoi
disperati giorni, fino
al Ragnarok.
Le dita di Sigyn
ripresero
a pulire le ferite ancora aperte, lenirono le parti offese con infinita
premura.
“Sono
ancora belli, i
tuoi occhi,” mormorò con dolcezza, “e
torneranno a vedere.”
Ma Loki lo
sapeva già. Le
sue pupille erano riuscite a registrare un lieve cambiamento, la
tenebra aveva
lasciato il posto a una luce indefinita. Sigyn.
Profumava di miele e di vaniglia, e la sua pelle era morbida seta. Sigyn, che non viveva più ad
Asgard da
tempo, a cui non avrebbe potuto né voluto chiedere perdono.
Lei era reale, dopotutto
– purtroppo.
Quando la sua
voce aveva
riempito la grotta, il dio degli inganni aveva pensato che lei fosse
nient’altro che un’illusione. L’ennesimo
trucco, si era messo a ragionare
mentalmente con la voce grave di Odino che aveva imitato per una vita
intera.
Il tono amaro e sarcastico di Padre Tutto si era tramutato nel
contraltare
beffardo della sua coscienza che gli suggeriva – ricordava
– ogni volta con
amaro disincanto la sua posizione di principe ingannato, di reliquia
rubata e
strappata alla morte solo per diventare la marionetta di un popolo di
conquistatori spietati. Odino lo aveva trovato su un picco di ghiaccio
dove sarebbe
dovuto crepare perché troppo debole per essere il vero
figlio di Laufey; la
morte avrebbe dovuto ghermirlo per fame o assideramento, oppure
perché sbranato
da un lupo in cerca di carni tenere. Eccola, la fine orrenda e
solitaria di un
erede indegno, che solo la pietà condita da interessi dello
spietato Odino
aveva evitato: il prezzo di quella scelta erano state le fiamme che
avevano
corroso Asgard fino alle fondamenta, Midgard assediata dai Chitauri, il
Bifrost
infranto. E tutto questo per cosa? Per morire lentamente come un
prigioniero
sconfitto, non come meritava un re o un guerriero. E ora la voce di
Odino – la
sua, di Loki stesso, solo più amara – gli
suggeriva che era la follia a fargli
immaginare che Sigyn fosse venuta ad alleviare i suoi tormenti. Ma
l’odore di
vaniglia ormai era tutto attorno a lui, le sue mani delicate e lisce
applicavano fasce e unguenti con infinita dolcezza e la sua voce
vellutata,
come una nenia, continuava a mormorare quella frase colma di rammarico
che
bruciava più del veleno del serpente. Cosa
ti hanno fatto, amore mio.
Deglutendo, il
dio degli
inganni si era morso le labbra per non risponderle né
parlarle perché se lei
fosse stata un miraggio, di nuovo,
la
sua mente avrebbe definitivamente perso ogni appiglio con la
realtà già sfumata
e con il tempo che non riusciva più a misurare. Ma Sigyn,
stavolta, forse
davvero era reale perché nemmeno lui, il dio degli inganni
in persona, avrebbe
avuto il coraggio di creare col seiðr una copia e metterle in
bocca quelle due
parole assurde e fuori contesto, amore
mio. No, se Sigyn fosse stata un’allucinazione
crudele gli avrebbe detto
ben altre parole. E così quella frase strana era stata la
spia, l’indizio, che
forse l’incubo si era trasformato in realtà, alla
fine. E poi, c’era il resto:
il tono spezzato con cui lei aveva pronunciato quelle poche sillabe.
Loki aveva
letto pietà nella sua voce, commiserazione.
Si sbagliava.
Sigyn lo
amava da sempre, e la nota incrinata che le era sfuggita dalla gola si
chiamava
dolore.
“Non
dovevi tornare,” mormorò
con voce arrochita.
Lei si
fermò. “Sono tua
moglie.”
“Un
vincolo da cui ti ho
sciolto.”
“Lascia
che sia io a
decidere a quale causa votarmi, a chi donare la mia
fedeltà,” lo redarguì
severa e orgogliosa.
“Fedeltà.”
L’Ase rise,
beffardo. “Non avresti dovuto pronunciarla, quella parola. Il
dio del tuono ti
ha chiesto di venire qui. Ora lo so.”
“Non
hai avuto pietà di
me, dio degli inganni, nemmeno per un giorno,” gli
ricordò lei. “Sei ingiusto e
crudele persino ora, qui, incatenato a una roccia con un serpente
orrendo che
ti sputa addosso il suo veleno.” Seguì il silenzio
rotto solo dal gocciare del
veleno nel bacile mezzo pieno. “Avremmo potuto essere
felici.”
Di fronte a
quelle
parole, l’Ase increspò le labbra in una smorfia.
“Ti avrei spezzato il cuore.”
“Lo
hai fatto comunque.
Possibile che tu non te ne renda conto?”
“Perché
sei tornata,
Sigyn? Non ho bisogno, non voglio la tua pietà né
quella di Thor o di Odino.”
“Tuo
padre ti ha
condannato, Loki, è vero: la giustizia di Asgard non poteva
lasciarti impunito,
lo sai.” La voce della dea della fedeltà era
mesta, mentre raccontava. “Ma ogni
sera,” proseguì, “al banchetto,
c’è un posto, alla sua sinistra, che viene
apparecchiato e nessuno osa occupare. Non fu senza dolore che prese
quella
scelta.”
Loki esplose,
furibondo.
Ricordò l’occhio grave di Odino che mal si
accordava con il suo giudizio
implacabile. “Non è mio padre! Guardami! Chi mi ha
incatenato, chi mi ha
condannato? Considera se debba davvero provare
pietà per il dio delle forche che ha scelto per me un
destino così crudele! E
dov’è Thor, dimmi, dolce Sigyn:
dov’è il campione di Asgard, il figlio degno,
il grande erede al trono? Quello che mi chiama fratello e poi gira la
testa
d’altra parte?”
“Ti ha
salvato la vita,
su Midgard e in mille altre battaglie,” soffiò
Sigyn.
Loki aveva il
fiato
corto. “E io l’ho salvata a lui, su Midgard e in
mille altre battaglie.”
“Sta
raccogliendo prove
affinché Odino possa mutare la sua decisione nei tuoi
confronti. Chiederà un
appello,” aggiunse la donna, a disagio.
“Sta?”
Una pausa.
“Stiamo.”
“Il
nobile Thor e la
devota Sigyn.” Dal petto del dio degli inganni
uscì una risata secca e crudele.
“Una notizia del genere andava annunciata come prima cosa,
non estorta. Potrai
finalmente ammirarlo da vicino. Il paragone mi sarà
sfavorevole anche questa
volta, temo,” aggiunse, e poi si morse le labbra
perché era stato ingiusto e
crudele.
La risposta di
Sigyn
giunse dopo un tempo che gli parve infinito. “Una notizia
incerta, una flebile
speranza che stiamo cercando con tutte le nostre forze di rendere
reale.” Sospirò.
“Sei sempre stato così cieco e crudele, Loki di
Asgard.”
Si
alzò per vuotare il
bacile ormai colmo. Il dio degli inganni colse il timore della giovane
donna
nel togliere il salvifico recipiente da sopra la sua testa e strinse i
denti,
cercando si sfoderare quel coraggio tronfio che gli aveva consentito di
ingannare re e principi, dèi e titani. Persino il grande e
possente Thanos si
era lasciato incantare dal suo sorriso sbieco tanto da cedergli
un’armata gigantesca
e, assieme a lei, lo scettro d’incredibile potenza su cui,
forse, splendeva
addirittura una delle Gemme dell’Infinito. Eppure, nonostante
fosse un
guerriero nato per essere re e un mago d’indicibile
abilità, il dio degli
inganni non riuscì a trattenere un singulto spezzato, quando
il veleno tornò a
colargli sul corpo, sul viso. Il dolce profumo di Sigyn si era
allontanato per
lasciare di nuovo il posto al dolore lacerante, tremendo, assoluto,
annichilente. Pulsante. Capace di annientare i pensieri e sconvolgere
la
ragione, spazzare via il tempo e cancellare il confine sottile tra
ciò che era
reale e ciò che, invece, non lo era. Il liquido venefico
corrose una volta di
più la sua carne aggiungendo dolore a dolore,
perché ogni goccia era come fuoco
che gli scavava sentieri di sangue fino a raggiungere i muscoli, le
vene, i
nervi già provati. Gridò e si
divincolò, sopraffatto da quello strazio
indicibile, tentando, per l’ennesima, disperata e ultima
volta, di fuggire dal
supplizio spietato degli Asi e spezzare i ceppi infrangibili che gli
scorticavano
i polsi. Era uno spettacolo miserabile, quello che stava offrendo a
Sigyn?
L’immagine pietosa di un dio sconfitto, piegato, incatenato?
Cosa vedeva, lei? Se
solo il veleno del serpente non gli avesse ferito orrendamente gli
occhi,
avrebbe potuto leggere, sul viso della donna che aveva sposato, il
disagio e il
rancore, la pietà e l’amore. Invece la
udì corrergli incontro e sistemare
rapida e nervosa il bacile sopra la sua testa, sentì la
propria irriconoscibile
voce bisbigliarle di non andare via, non lasciare mai più
che quella bava
urticante gli bruciasse di nuovo il corpo e la faccia. Di nuovo, le
dita di
Sigyn gli carezzarono con dolcezza infinita la pelle lenendo ogni
ferita con
unguenti e bende – anche se non era giusto, non doveva essere
lì, non c’era più
niente tra loro né ci doveva essere. Il cuore
iniziò lentamente a riprendere il
consueto ritmo e la sofferenza abbandonò il suo corpo ancora
teso sulla roccia.
Si ritrovò fiaccato e ansante e, sforzandosi di recuperare
almeno un barlume di
lucidità, si mise a parlare nonostante avesse la bocca
secca. La sua voce
arrochita gli suonò estranea come mai prima.
“Sigyn,
ho sciolto ogni
legame. Con te, con Odino, con Thor. Torna ad Asgard. Non ho bisogno
della tua
pietà.” Ecco cos’era rimasto della
Lingua d’Argento di Asgard: parole
impastate, dette dopo aver deglutito a lungo.
“Non
è pietà,” lo
corresse la donna con forza. “Non lo è mai stata.
Come puoi non capire neanche
adesso? Come hai potuto non capire allora?
Oggi sei ferito e non puoi vedermi: ma prima, Loki? Il dio
dell’inganno,
l’astuto stratega di Asgard…”
“Sigyn…”
“Ti ho
sempre amato. Nel
mio cuore, ti ho sempre amato. E tu lo sapevi e, nonostante questo, hai
fatto
ogni cosa in tuo potere per distruggere tutto. Avremmo potuti essere
felici,”
ripeté lei convinta.
C’era
una punta di
rabbioso rimpianto, nella voce di Sigyn. L’accusa che gli
muoveva era giusta
come tutte quelle che gli erano state rivolte dacché era
ritornato ad Asgard,
solo che l’ipotesi appena sfiorata dalla sua bionda e perduta
moglie aveva in
sé una nota triste impossibile da ignorare persino per il
fiero ingannatore.
Loki
s’inumidì le labbra
in cerca delle parole giuste da dire. “Non mi pento di quello
che ho fatto. Di
niente. Ci saremmo comunque ritrovati così, alla
fine,” ammise freddamente.
“Nemmeno
della lettera ti
sei pentito, amore mio?”
Loki
s’irrigidì di fronte
a quella battuta uscita dalla bocca di lei che bruciava come il sale su
una
ferita ancora aperta. “Cosa vuoi che ti risponda,
Sigyn?”
Lo disse con
lentezza,
volgendo il capo dalla parte opposta a quella dove intuiva ci fosse la
donna.
Il velo grigio ancora non si era diradato dai suoi occhi.
“Desideri di nuovo essere
ingannata?” La frase venne
pronunciata dalle sue labbra beffarde in maniera più cruda
di quanto forse non
volesse, ma ormai era troppo tardi per ricacciarla indietro.
Sigyn
incassò il colpo,
meditò sulla risposta giusta da dare forse mordendosi le
labbra com’era suo
solito – l’ingannatore si accorse di ricordare
ancora ogni dettaglio e
abitudine della ragazzina che aveva sposato solo grazie a un inganno e
questo
lo infastidì. Se solo avesse potuto vederla.
Infine, lei
rispose. Lo fece
continuando a medicarlo con tocchi sicuri, ma la sua voce altera gli
giunse
alle orecchie appena incrinata. “Sei sicuro che si
è trattato di un inganno? O
non è stato, piuttosto, il tentativo, l’ennesimo,
di distruggere ciò che avevi
di più caro, come hai finito per fare con tuo padre, tuo
fratello, la bella
Asgard?”
Loki
deglutì. “Odino non
è mio padre e Thor non è mio fratello,”
puntualizzò.
“Bugia.
Lo sono, lo sono
sempre stati. Ha ragione Frigga; non sei affatto perspicace quando si
tratta di
te. L’ho scoperto a mie spese.”
Non le rispose.
Non poté,
non volle, non riuscì, ma ripensò a tutto, a ogni
cosa. A quella notte, innanzi
tutto, lontana nel tempo e nello spazio eppure scolpita nella sua mente
in
maniera indelebile, l’ultima che avevano trascorso insieme.
Com’era bella,
quella sera. Adesso Sigyn gli era tanto vicina che Loki riusciva ad
avvertire il
suo lieve profumo di miele, ma il suo viso, per le Norne, gli era
ancora
negato: poteva solo ricostruirlo scavando nei ricordi sbiaditi che
aveva
provato ad affogare nel sangue e nel fango dei campi di battaglia
mentre
guidava le armate di Odino prima, quelle meno gloriose di Thanos, poi.
Era
riuscito a seppellire la sua immagine sotto l’ambizione
oscena che gli aveva
fatto accarezzare con dita avide l’Hlidskjalf, il trono di
Odino, il dio delle
forche bugiardo e ingannatore che lo aveva salvato da una morte orrenda
per il
solo gusto di ammirare l’ennesima delle reliquie che aveva
rubato e che
intendeva usare per rendere Asgard ancora più grande. Sotto
tutto questo, il dio
degli inganni aveva nascosto il ricordo di Sigyn, ma ora lei era
lì, al suo
fianco e non era un fantasma nostalgico e impalpabile che non poteva
nemmeno
sfiorare; era viva, presente, maledettamente reale e gli chiedeva conto
della
notte lontana in cui lui le aveva spezzato il cuore.
Com’era
bella, quella sera.
Se solo fosse stata davvero sua. Se solo Sigyn avesse potuto
sopportare,
intuire il peso di quello che le
aveva
fatto e accettarlo, così come era riuscita a guardare oltre
il sarcasmo spesso
bieco, la crudeltà quasi esibita che sfoggiava con altero
disprezzo. Loki non
desiderava essere perdonato: ognuna
delle sue azioni, anche la più meschina, era scaturita da
una precisa volontà
che ricusare a posteriori sarebbe stato vile, ipocrita e indegno del
principe degli
Asi cui spettava il trono, ma il prezzo da pagare per i suoi inganni e
per le
scelte spietate che aveva fatto a testa alta era stato perderla
inevitabilmente, per sempre. Cosa che, alla fine, era avvenuta comunque
e per
cui non si era stupito – anche se il modo, per le Norne,
quello, era stato straziante.
Il punto era che
Sigyn
non gli era mai appartenuta fino in fondo, così come non era
stato davvero suo il
posto alla sinistra di Odino ai banchetti e sulla scala che conduceva
al trono
d’oro degli Asi: come ogni cosa, anche quella si era rivelata
l’ennesima
illusione. Ma se il fiero dio degli inganni aveva tentato con ogni
fibra del
suo essere di pareggiare i conti con l’astuto genitore
adottivo – prova ne era
quell’inenarrabile supplizio cui era costretto –
con Sigyn non c’era stato mai
alcun chiarimento, e lei era rimasta un discorso sospeso che ora
tornava a
tormentarlo proprio mentre scontava la sua pena. Per un ingiusto
contrappasso,
sua moglie incarnava, allo stesso tempo, la salvezza e la perdizione.
Com’era
bella, quella sera.
Come Asgard ricoperta d’oro che non c’era
più. Cercò in fondo alla sua mente
provata dalla prigionia e dal dolore l’immagine evanescente
di lei e di quell’abito
color tempesta che la avvolgeva come un guanto, rivide splendere la
collana di
perle che le aveva messo al collo con un ghigno mentre era seduta allo
specchio. Nel riflesso, aveva osservato Sigyn arrossire e sfiorare il
gioiello
e si era chinato su di lei per accarezzarle con le labbra
l’orecchio e
sussurrarle che la trovava incantevole. Odino fingeva ancora di non
aver deciso
chi dovesse ereditare Asgard, e Loki Lingua d’Argento viveva
nella menzogna perfetta
che Padre Tutto aveva confezionato per lui e per gli Asi tutti. Si
illudeva che
il dio delle forche avrebbe finito per riconoscere la sua sagacia e il
talento
diplomatico che sempre sfoggiava concedendogli quel trono promesso e
offerto in
cambio di una lealtà assoluta – della vita,
persino.
La notte in cui
perse
Sigyn, Loki si crogiolava ancora in una realtà che, di
lì a poco, si sarebbe
sgretolata con tremenda precisione. Lei fu l’inizio, la
prima, profonda crepa
che avrebbe incrinato ogni sua certezza. Ma davvero era
così? Non aveva sempre
saputo dove lo avrebbero portato i suoi piani scellerati? Era ancora
capace di
mentire a se stesso, Loki di Asgard, o di Jotunheim? Quando aveva osato
rendere
l’inganno reale, non aveva forse ventilato
quell’ipotesi – il disprezzo eterno
dell’irraggiungibile dea della fedeltà?
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Capitolo 2 *** Com'era bella quella sera ***
II
Com’era
bella, quella sera
Tu sei molto,
anche se non sei
abbastanza,
E non vedi la
distanza che è fra i
miei pensieri e i tuoi,
Tu sei tutto, ma
quel tutto è ancora
poco,
Tu sei paga del
tuo gioco ed hai già
quello che vuoi.
Io cerco ancora
e così non
spaventarti
Quando senti
allontanarmi: fugge il
sogno, io resto qua!
[…]
Vedi cara, è difficile a
spiegare,
È
difficile capire se non hai capito
già
(Vedi
cara, Guccini)
Sigyn non era
un’illusione dolorosa, affatto. Era reale, presente, accanto
a lui. Mentre il
veleno del serpente continuava a gocciare senza sosta nel bacile sopra
le loro
teste, lei lo aveva accusato di aver dato il colpo di grazia a
un’unione
complicata, ma non per questo meno intensa, rinfacciandogli
l’esatto momento in
cui aveva tradito la sua fiducia e infranto il fragile equilibrio del
loro
matrimonio. Con amarezza, pensò che sua moglie aveva
frainteso ogni cosa pur
comprendendo tutto. Si era sbilanciata dicendo che lo amava, certo.
Un’ammissione insperata che le era già uscita
fuori dalle labbra in un altro
luogo, in un altro tempo, sostenuta con una forza d’animo che
lo aveva stupito
adesso come allora.
“Ho
deciso che ti
sposerò, Loki.” Lo aveva detto dopo essersi seduta
accanto a lui, un freddo
pomeriggio di fine autunno di molti, troppi anni prima. La dorata
Asgard era
ricoperta di foglie rosse e la notte stava già cedendo il
passo al giorno.
Erano fuori dall’infermeria brulicante di soldati feriti. Il
dio degli inganni,
un braccio fasciato fino alla punta delle dita appeso al collo e uno
zigomo
viola, le rivolse una lunga occhiata sorpresa. Era ancora troppo
intontito
dalle pozioni che era stato costretto a ingurgitare nel tentativo di
lenire il
dolore di quelle ferite, per risponderle con la solita, sferzante
acutezza, ma
nonostante ciò assottigliò le palpebre.
“Da
cosa nasce
quest’improvvisa decisione?”
Un briciolo
della sua tagliente
ironia era rimasto, dopotutto. Di fronte alla proposta ufficiale che le
aveva
fatto giorni addietro, lei aveva glissato imbarazzata e confusa
chiedendogli
tempo e ora, improvvisamente, pareva aver cambiato idea.
Sigyn sorrise
appena.
“Mentre eri in battaglia, non ho smesso un attimo di
pensarti,” gli confessò.
“Ero preoccupata – a ragione, a quanto vedo
– e ho pregato le Norne di farti
tornare da me.”
Il dio degli
inganni incassò
quella dichiarazione d’amore con principesca grazia, senza
alcuno slancio,
limitandosi ad aggrottare appena le sopracciglia, ma non
poté fare a meno di
indagare, di scavare nel cuore e nella testa di quella ragazza dalle
guance
rosse che gli sedeva accanto e si guardava nervosa la punta degli
stivaletti.
“Perché?
Mi chiamano Lingua
d’Argento, il Fabbricante di Bugie: dicono che sono un
truffatore che gode nel
seminare caos e discordia. Mi accusano di essere sleale ed egoista
perché uso e
manipolo il seiðr come forse solo Padre Tutto sa fare. Se non
fossi il principe
di Asgard, il figlio di Odino, probabilmente sarei a marcire in qualche
cella o
a vagare lontano dai Nove Regni. Questo ti spaventava, fino a pochi
giorni fa;
questo e l’amore che dicevi
di
provare per un altro.” L’aveva costretta a
guardarlo sfiorandole il viso con la
mano sana e spingendola a voltarsi.
“Cos’è cambiato?”
A voce non gli
rispose
mai. Lo baciò sulle labbra, però.
Il punto era che
Sigyn
capiva – aveva sempre compreso – la sua natura.
Riconosceva il suo fiero
orgoglio, guardava con un misto di soddisfazione e inquietudine al
seiðr che,
tramite le rune pronunciate con un filo di voce, creava e disfaceva. Ti ho sposato per amore, sosteneva
quando la notte gli cingeva il collo accarezzandogli con dita delicate
i
capelli – le stesse che ora lenivano le sue ferite
– e, di quell’amore perduto
e nostalgico la cui unica traccia era un fascio di lettere, non faceva
mai
parola. Era rimasta colpita dalla sua intelligenza, dal sarcasmo
pungente, dai
modi affascinanti, persino, e tollerava suo malgrado il suo essere
scostante e
inafferrabile, ma nel suo cuore c’era sempre
un’ombra scura. Perché anche lei
mentiva, come tutti. Anche per Sigyn la realtà non era che
la visione parziale
e soggettiva di una serie di frammenti di eventi, il punto di vista
colorato di
speranze e suggestioni che non era meno vero del suo o di quello di
Thor, di
Balder, di Sif o di Padre Tutto in persona. La verità non
esiste come valore
assoluto, è sempre un’interpretazione che parte
dai nostri occhi, e allora, se
niente è reale, tutto è inganno, illusione,
mistificazione. Così, la sua
dea della fedeltà si struggeva
perché credeva di avere il cuore diviso a metà,
senza sapere né immaginare chi
si nascondesse dietro il nome che ad Asgard non aveva mai osato
pronunciare. Per
un amaro contrappasso, era spezzata tra l’amore spirituale
per un uomo che non
aveva mai visto e quello di carne e sangue nato malgrado ogni
previsione per
lui, il dio dell’inganno. Le affinità
intellettuali avute con un fantasma
perduto di cui a lei rimanevano nient’altro che un nome e
qualche sporadico
indizio, si mescolavano con i battiti accelerati del cuore per
l’altro – Loki stesso.
Ruolo che il dio degli
inganni si era ritrovato cucito addosso senza volerlo, regista e attore
com’era
stato dell’intera vicenda, invischiato
nella propria stessa tela. Sigyn amava Loki, eppure, talvolta
si guardava attorno
cercando un paio d’occhi o un volto che riaccendesse la
flebile speranza
rinchiusa dentro a un baule. L’ingannatore era troppo
intelligente e furbo per
non accorgersi del vago disorientamento, della lieve malinconia che
ogni tanto
avvolgeva la sua giovanissima moglie. Avrebbe potuto risparmiarle
quell’ansia,
svelarle l’inganno che all’inizio aveva tessuto per
scherzo, vendetta, gioco e
che, alla fine, gli si era ritorto rovinosamente contro con drammatica
precisione, ma non lo fece per non infrangere la fragile intesa
raggiunta.
L’unica cosa ragionevole da fare, la sola strategia che
avesse senso portare
avanti, suggeriva di limitarsi a osservare gli effetti devastanti del
suo
stesso inganno. In questo, rifletté mentre il veleno
gocciava instancabile nel
bacile e Sigyn provava a idratargli le labbra riarse, la sua storia era
tragicamente simile a quella Odino. Ripercorrerla non rese tutto meno
amaro,
anzi.
Lei quella notte
era
bella, bellissima, con quell’abito color tempesta e la
collana di perle al collo.
L’aveva stretta tra le braccia mentre la faceva volteggiare
al centro della
sala e Sigyn era ancora avvinghiata a lui, quando una frase sbagliata
di Thor
l’aveva fatta impallidire, barcollare. Le quattro parole di
nessun conto
pronunciate con leggerezza dal suo nobile e inscalfibile fratello
avevano
suscitato, nella sua giovane moglie, un’associazione di idee
pericolosa,
nefasta, terribile: l’aveva vista boccheggiare e cercare Thor
con occhi ansiosi
e, di fronte a quella scena che pareva una beffa delle Norne, la
gelosia gli
aveva morso il cuore, avvelenato lo spirito. Sigyn non era che
l’ennesima
partita persa a tavolino contro l’erede perfetto, il figlio
più amato. Anche se
solo per il tempo di un battito di ciglia, lei aveva pensato che quel
corrispondente che era riuscito a farle battere il cuore
quand’era poco più che
una ragazzina fosse nient’altro che il dio del tuono in
persona. L’idea la
spaventò e forse la cacciò immediatamente via
dalla sua mente, ma in fondo Theoric,
il nome di quell’amico divenuto innamorato, non era forse
simile a Thor? Non
poteva essere uno pseudonimo utilizzato ad arte dal primo figlio di
Odino per
corteggiarla senza essere respinto? Loki glielo lesse in faccia, quel
dubbio
improvviso e lacerante che le squarciò il petto, e la
odiò – detestò entrambi,
Thor perché aveva tutto, come sempre, Sigyn
perché si era fatta ingannare
mancando la prova più importante. Fu così che la
perse.
Si
lasciò corrodere da
quella cosa oscura che gli infiammava le vene dei polsi, gli bruciava
il petto,
offuscava i suoi pensieri: com’era
bella,
quella notte. Le candele gettavano una luce soffusa nella loro camera
da letto
e Loki non le lasciò il tempo di spogliarsi, questo lo
ricordava ancora bene;
la ghermì per la vita mentre era di spalle,
scostò le belle ciocche bionde per
scoprirle la pelle sensibile e delicata della nuca, tirò
giù la spallina del
magnifico abito color tempesta mentre, con la mano libera, le cercava
il seno.
La desiderò con la disperazione feroce con cui aveva sempre
voluto tutto, dal
trono alla gloria, la cercò per placare il suo orgoglio
ferito con lei, in lei.
Sigyn forse intuì che qualcosa non andava, ma lo accolse con
la dolcezza
appassionata di sempre, nascondendo appena l’incertezza avuta
poco prima nei
confronti di Thor sotto ai baci lunghi e intensi che riservò
a lui, o forse
abbandonando per sempre l’idea di
quell’innamoramento adolescenziale proprio su
quel letto che era stato loro fino a quella sera e che, poi, non lo
sarebbe
stato mai più.
Come fu intenso,
totale,
straziante, meraviglioso, il loro fondersi e incontrarsi, quel loro
amarsi per
l’ultima volta. Erano ancora avvinghiati l’uno
all’altra esausti e ansanti,
quando Loki decise di spezzare per sempre la loro unione. La
baciò, prima di
farlo. Un assaggio lento, fatto mentre le accarezzava le belle ciocche
bionde sparpagliate
sul letto. Con le labbra ancora sulle sue, le recitò a
memoria un brano che ben
conosceva, che lei riconobbe all’istante.
Mia
Sigyn, ti ho perso, anzi: non ti ho mai avuta. Il pensiero,
nitido e netto, gli
attraversò la testa come una lama congelando il rancore che
animava ogni suo respiro.
La sentì irrigidirsi, vide le sue pupille grigie dilatarsi
dallo stupore, dal
dolore.
“Che
cosa hai fatto,
Loki?”
La domanda le
uscì in un
sussurro, lo sguardo le si velò di terrore: già
altri gli avevano posto quella
domanda e Loki l’avrebbe sentita pronunciare ancora molte
altre volte, ma
quando fu lei, a farlo, provò dolore. Non rimorso, non senso
di colpa – nemmeno
ora che Sigyn leniva in silenzio le ustioni che gli solcavano la pelle
riusciva
a pentirsi davvero – ma quella notte sì,
provò dolore. Disteso sopra di lei,
l’accusò di essere stata cieca e sciocca. Di non
averlo mai amato, non
abbastanza almeno, e di aver confuso e cancellato gli indizi palesi che
lei già
possedeva.
La sua bella
moglie dai
capelli d’oro si divincolò finché non
fu libera, saltò via dal loro letto in
cui non avrebbe mai più dormito rassettandosi come
poté il magnifico vestito
color tempesta.
“L’hai
letta! L’hai
letta mille volte! Come hai osato, come
hai potuto tradire la mia fiducia frugando tra le mie cose? Il mio
passato non
ti appartiene, dio degli inganni: ti ho concesso il presente e il
futuro, ma il
resto no, è mio e basta.”
Loki le
regalò un ghigno
perfido, crudele. “Povera, sciocca ragazzina ti ho vista,
stasera: credi che
Theoric sia Thor,” spiegò con lentezza
avvicinandosi. “Speri ancora che
l’innamorato senza volto con cui hai intrecciato una lunga e
appassionata
corrispondenza ti venga a salvare dal crudele dio degli
inganni.”
“Allontanati.
Sei
ubriaco, o pazzo, o entrambi” disse lei precipitandosi verso
il baule che
conteneva le lettere assicurate insieme da un nastro. Le
trovò ed erano intatte.
“E tu
sei fredda e
bugiarda,” La guardò con rancore e desiderio e
insistette. “Dì che non lo hai
pensato, avanti.”
“L’ossessione
per il
trono sta offuscando la tua mente, Loki.” Com’era
bella, lei. Gli puntò addosso
quei suoi occhi grigi e furibondi e riprese a parlare severa.
“Sapevi. Sapevi
di Theoric da sempre. Perché stanotte hai deciso di farmi
questo? Da quanto
tempo progettavi di tirarmi l’ennesimo dei tuoi orrendi
scherzi? L’hai imparata
a memoria con il solo scopo di ferirmi.”
“Adesso
stai giudicando
il mio operato?”
“Operato?”
Sigyn boccheggiò
sconvolta. “Malefatte, inganni, tradimenti. Questo
è il tuo operato
nient’altro. Hai frugato tra le mie cose per placare la tua
insoddisfazione
perenne,” esplose, ma non pianse, no, resistette
all’impulso.
Il dio degli
inganni
incrociò le mani dietro la schiena con solenne alterigia.
“Accordi, astuzie
atte anche a salvare Asgard. Merito il trono certamente più
di mio fratello,”
le ricordò difendendo il suo operato con la stessa protervia
che, un giorno, lo
avrebbe condotto al cospetto di Thanos.
Sigyn scosse la
chioma
spettinata in cui Loki, fino a pochi minuti prima, aveva affondato con
voluttà
le dita; ora quel passato recentissimo era lontano anni luce, galassie
intere. Pareva
quasi non fosse mai esistito. “Astuzie atte a seminare
dolore,” lo corresse. “Usi
le tue abilità senza cura per il tuo prossimo, Loki di
Asgard. Se tu riuscissi
ad avere la stessa gentilezza di tuo fratello forse
potresti…”
Non
finì mai la frase. Il
dio degli inganni la interruppe dando infine pieno sfogo alla bestia
nera che
gli rodeva il petto da troppo tempo e che, quella notte, si era
liberata
definitivamente.
“Thor!
Il vostro amato Thor! Dovete avere
tutti una
conoscenza davvero distorta del dio del tuono, se pensate che vi si
altro oltre
l’arroganza, la stupidità e l’ambizione,
nel suo petto! Credi davvero che il
mio eccezionale fratello sarebbe stato capace – mi correggo
– avrebbe avuto la
costanza di scriverti, per mesi, anni? Sei davvero così
cieca, Sigyn?”
Lei
sobbalzò coprendosi
la bocca con le mani. Loki era sgarbato, scostante, pungente, crudele
addirittura. Ma aveva sempre avuto nei suoi confronti la stessa premura
che si
ha col cristallo. L’amava. Ne era convinta. Non poteva averlo
fatto, non davvero.
“Vorresti
fosse lui, non
è vero?” Lingua d’Argento
stirò le labbra in un sorriso cattivo, incalzandola con
la spietatezza propria degli Asi. “Mi è riuscito
davvero bene, questo inganno.
Non le ho lette, Sigyn. Le ho scritte.” Si animò,
quasi trovasse la cosa
particolarmente divertente, e iniziò a raccontarle dello
scherzo crudele
architettato per compiacere il fratello. “Per una settimana o
due, Thor ti ha
trovata interessante e sì, l’indizio che stasera
hai colto era esatto, mia
piccola e tenace Sigyn. Theoric è lo pseudonimo che io ho inventato per attirare la tua
attenzione. Se avessi ricevuto
una lettera da parte di uno dei principi di Asgard, fosse pure il
magnifico dio
del tuono, al tempo l’avresti gettata nel fuoco senza neanche
aprirla, dico
bene?”
“Tu
menti.”
“Oh,
vorresti lo facessi,
ne sono certo. La verità spesso è scomoda e
brutta. A Thor interessavi, ma non
abbastanza da sedersi allo scrittoio e perdere tempo a inventarsi frasi
per te.
Così lo chiese a me.”
“Sei
un bugiardo. E sei
crudele.”
“Le ho
scritte io, tutte. In cambio, lui
ha pulito i
finimenti del mio cavallo per mesi. Theoric è
un’ombra, un personaggio che ho
inventato per abbindolarti: credevamo lo avresti capito, e
invece…A difesa del
mio nobile fratello, devo confessarti che si stancò presto
di te, quasi subito.
Dopo l’iniziale divertimento subentrò la vergogna,
credo. Si dedicò a più
facili conquiste.”
“Perché
mi stai facendo
questo?” La voce di Sigyn, pallida in volto, era poco meno
che un sussurro
sottile.
“Lo
cerchi ancora, no?
Cerchi il tuo brillante innamorato ovunque.” Loki
allargò le braccia, deciso a
portare avanti lo spettacolo fino alla sua tragica fine.
“Eccolo, lo hai sempre
avuto davanti. Non ho avuto bisogno di frugare nel tuo baule come una
domestica
di quart’ordine, mogliettina mia: ognuna delle lettere che
proteggi da sempre
con tanto ardore è stata scritta da me. Theoric non
è mai esistito: l’ho
inventato io per corteggiarti, sedurti. Sei sempre stata innamorata di
uno dei
miei inganni, e non hai saputo vedere, riconoscere che ero
io.”
“Non
ti credo. Non posso,”
Sigyn tentò di allontanarsi esasperata dallo scherzo
orrendo, dal peso di una
rivelazione così atroce e sicuramente falsa.
“Esatto,”
proseguì Loki
perfido. “Non puoi, perché, se lo facessi,
dovresti ammettere di aver
consegnato il tuo cuore a me. Sono il ripiego di una creatura che ho
inventato.
È ironico, ti pare?”
Le
impedì di lasciare la
stanza – non era ancora il momento – e lei,
svuotata, raggelata, continuò a
scuotere la testa ricordando quello che era stato, cercando dentro di
sé prove
e incongruenze che smentissero o confermassero quella storia orrenda.
“Non puoi
averlo fatto davvero. Io e Theoric ci siamo scritti per anni.”
“Trovai
l’intera faccenda
sommamente divertente. Ero curioso di vedere fin dove saremmo
arrivati,” ammise
l’ingannatore avvicinandosi, ma lei scattò
fuggendo il suo tocco.
“Non
ti credo. Non
toccarmi, non avvicinarti!”
“Fa
male, non è vero?”
Loki incassò il colpo con bieca soddisfazione.
L’aveva persa. Alzò il mento in
una posa di sfida, serrò le labbra congelandole in una
smorfia tirata. “Ora
pensi che sarebbe meglio se avessi solamente letto le tue preziose
lettere,
dico bene? È così orribile pensare di aver
sposato il loro autore? Avevi gli
indizi per riconoscermi e non l’hai fatto. Il nobile Theoric
poteva essere
chiunque tranne me, doveva esserlo. Non sei esente dalla colpa, Sigyn:
dici di
amarmi, ma non mi hai mai riconosciuto.”
Ecco come
finì la loro
storia: con un’accusa.
Sigyn sostenne
il suo
sguardo, ma dai suoi occhi era scomparsa la dolcezza. La sua voce fu un
sussurro sottile e tremendo. “Quale perverso bisogno hai
soddisfatto?” Si
guardò attorno, scosse la testa. “Non posso
crederti né restare,” soffiò.
Di fronte a
quell’ammissione, Loki irrigidì fino allo spasmo
ogni muscolo del suo corpo
nervoso e scattante. “Lo so.”
Ricordare i
tempi
gloriosi quando si è ridotti nella miseria è
straziante: riempie la bocca e lo
stomaco di fiele, suscita il rimpianto, fa tremare le vene dei polsi.
Loki
Laufeyson non concesse nulla alla moglie perduta che gli chiedeva il
conto
delle sue scelte passate, ma, incatenato com’era su una
roccia aguzza, non poté
fare a meno di percorrere con la memoria ciò che era stato,
dall’inizio. Dal
giorno lontano in cui un ghigno gli aveva increspato le labbra sottili
già
segnate dalla cicatrice ormai bianca che gli tagliava il sorriso e si
era
deciso a rivolgere a suo fratello una delle sue migliori battute salaci
e
argute. “Devi essere davvero disperato, se chiedi aiuto a me.
Chi è lei?” si
era interessato e, di fronte alla risposta, aveva pronunciato un nome
che,
sulle sue labbra, era sembrato quasi la promessa di una primavera
eterna: Sigyn. Com’era
stato tronfio, fiero,
orgoglioso, mentre pronunciava quelle parole. Si accorse di ricordare
con
esatta precisione la smorfia che Thor gli aveva lanciato ascoltandolo.
Fissando
i compassi e le carte fittamente scritte che gli ingombravano il tavolo
e di
cui ignorava totalmente l’importanza, aveva ribattuto che a
lui interessava semplicemente
la ragazza. I doppi fini, i giochi retorici, le trame complesse e la
politica,
li lasciava volentieri a lui, al fratellino che adorava dilettarsi con
mappe e
trattati, che passava serate intere chino sui libri,
all’ombra solerte e svelta
che gli combatteva di fianco. Eccolo, l’ennesimo piano
magnificamente
architettato che gli si era rivoltato contro.
Di fronte al suo
silenzio, Sigyn riprese a parlare, la voce accompagnata dal lento e
inesorabile
gocciare del veleno nel bacile.
“Quella
notte non è
finito tutto, Loki. Non per me, almeno.”
Il veleno
continuava a
cadere inesorabile nel bacile ormai quasi colmo.
“Ti
sei sentita in colpa,
dopo che sono caduto dal Bifrost.” Non era una domanda, ma
una constatazione.
Una delle fredde analisi tanto care a Loki quanto precise e pungenti.
Di nuovo,
lei attese a lungo, prima di rispondergli. Aspettò che il
bacile fosse pieno
per andare a svuotarlo in fretta, scossa dai singulti spezzati del
fiero marito
che aveva amato e odiato. Si morse le labbra e corse da lui,
sistemò di nuovo
il recipiente sotto le fauci orrende di quella bestia immonda che la
fissava
con occhi vitrei, pulì e bendò la pelle offesa
del dio degli inganni soffocando
la sofferenza che la causava quell’immagine tremenda.
L’affascinante Ase era
legato alla roccia come una bestia in cattività, ma pur
scarmigliato, ferito e
con le vesti stracciate com’era, riusciva a sfoggiare una
dignità principesca,
una grazia feroce, una disperazione fiera. Stringeva i denti e soffriva
soffocando le urla perché c’era lei e per non dare
soddisfazione alcuna al
rettile che gli sbavava addosso, a Odino, agli Asi tutti. Mentre
bagnava le sue
labbra aride e riarse e calmava il respiro reso corto dal dolore, Sigyn
pensò
che lo aveva amato sempre, in ogni istante: persino quand’era
fuggita da Asgard
col cuore trafitto la sua anima gli era appartenuta, perché
l’odio non è il
contrario dell’amore, affatto. Il suo contraltare semmai
è l’indifferenza, e
Loki Laufeyson o Odinson non le era stato indifferente mai, neppure un
momento.
“Cos’hai
fatto quando te
l’hanno detto, Sigyn?” L’Ase volse gli
occhi ancora ciechi nel punto in cui
dedusse dovesse esserci il suo viso e la giovane donna esitò
asciugandosi in
fretta una lacrima traditrice. Se lo ricordava bene, quel giorno. Una
contrazione dolorosa le strinse il petto al ricordo del vuoto, del gelo
che le
era strisciato addosso, dentro,
quando un soldato di Asgard le aveva portato la cattiva notizia. Le era
mancato
improvvisamente il respiro, l’equilibrio, il senno.
Rammentò di aver indossato la
bella collana di perle e di averla sfiorata con le dita un istante
prima di
tagliarsi i capelli fino all’ultima ciocca e stringersi in un
lutto che non
aveva più smesso di portare. Di fronte al tumulo vuoto che
aveva finto di
accoglierlo, non aveva versato una sola lacrima, forse
perché consapevole che
quell’inutile simulacro non era la tomba dove avrebbe
riposato per sempre Loki,
ma solo un inganno, l’ennesimo. Si
era
lasciato cadere, per le Norne. No, non pianse Sigyn quando le
fu data la
tremenda notizia né alla solenne cerimonia funebre voluta da
un torvo Odino. Lo
fece dopo, quando si risolse a sciogliere con dita tremanti il nastro
delle
lettere che non aveva più osato leggere per non rischiare di
trovare tracce
della voce di Loki tra le loro righe. Mentre a labbra strette
ripercorreva con
gli occhi i paragrafi che, in un altro tempo, avevano finito per farla
sospirare, si ritrovò a pensare come quel legamento
particolare tra la lettera n e la
lettera t assomigliasse vagamente a
quello tipico della grafia Loki; che
certe espressioni avrebbero potuto davvero
essere sue e la prima missiva, così come la seconda e la
terza e la quarta, non
erano nient’altro che il gioco di cattivo gusto di due
ragazzi viziati e
annoiati, sicuramente egoisti e crudeli.
Così
Sigyn non rispose a
Loki che le chiedeva cos’avesse fatto, dopo che lui era
caduto oltre il ponte
color arcobaleno per diventare il servo di un padrone totalmente folle,
ma
mentre un nodo le stringeva la gola ripensò allo strazio di
quella lettura che
era diventata uno studio attento di ogni sillaba, frase, battuta. Non
gli aveva
creduto, quando Loki aveva ammesso fieramente di essere stato
l’autore delle
lettere ma, rileggendole, il dubbio che lui, per una sola e unica e
tragica
volta, fosse stato totalmente sincero le infettò il cuore.
Scovò il punto
preciso in cui Thor si era stancato di giocare e gli aveva
probabilmente detto
di interrompere il carteggio, riconobbe il guizzo diverso dei paragrafi
ora più
liberi, arditi, acuti, notando un cambiamento nel tono, nelle
informazioni, nei
discorsi. Con le labbra che tremavano, rilesse ancora ogni missiva e
scoprì le
tracce che aveva ignorato fino a quel momento. Sì, a un
certo punto, Loki aveva
smesso di giocare per iniziare non a essere sincero, ma brillante in
quel suo
modo arguto e perfetto, totale. La lettera che le aveva recitato quella
notte
maledetta, l’ultima che avevano trascorso assieme come sposi
e amanti, non
aveva segnato solo la fine del suo matrimonio, ma anche della relazione
epistolare intrattenuta quand’era poco più di una
ragazzina. Conteneva un
commiato appassionato che non era una dichiarazione d’amore
eppure, a suo modo,
lo era. Forse Loki aveva scritto più volte la missiva
con cui si era
deciso, alla fine, a interrompere il carteggio, perché
Lingua d’Argento quella
lettera non l’aveva letta, ma scritta. Una consapevolezza che
non le fece meno
male, anzi: era una coltellata nel petto che giustificava ancora di
più la sua
fuga e congelava il dolore. L’inganno appariva ancora
più terribile e
imperdonabile, e non importava che, forse, a forza di mentire e
raggirarla, forse
si era davvero invaghito di lei.
Passò
notti insonni a
chiedersi se non si stesse auto ingannando. Se la sua esegesi
forsennata delle
missive non nascondesse il desiderio di crederle davvero di Loki
proprio perché
lui ora non c’era più. Se non avesse semplicemente
bisogno di riattaccare i
pezzi del suo cuore infranto fondendo la figura evanescente di Theoric
con
quella, reale e ormai perduta, ma sempre amatissima, del dio degli
inganni. Se
non fosse il senso di colpa per la sua irrisolta relazione con il
marito, a
farle cercare nuovi significati in quelle lettere ormai stropicciate e
sbiadite. Ci pensò e non trovò nessuna risposta
soddisfacente. Finì per rintracciare
in mezzo alle righe scritte in bella grafia la sua arguzia, nuovi
ragionamenti
e altri dettagli che non aveva mai analizzato abbastanza a fondo.
S’innamorò di
nuovo e bruciò ogni cosa.
“Perché
non mi rispondi?”
Il tono della voce di Loki era tornato neutrale, appena raschiato
dall’ambiente
umido della grotta e dalla lunga e sfiancante prigionia.
“Vuoi che lo indovini?
Non riesco a vederti, ma ancora posso sentirti.”
Sigyn
batté le palpebre e
una lacrima le rigò la guancia. Si chinò su di
lui quel tanto che bastava
affinché le sue ciocche bionde, ora cresciute, gli
sfiorassero il viso e l’Ase
provò ad allungare le dita intorpidite verso quel volto che
ricordava quasi con
precisione e ancora non riusciva a mettere a fuoco. Nonostante i ceppi,
riuscì
a sfiorarle la gota umida, la pelle morbida. Una carezza leggera che la
fece
rabbrividire costringendola a rispondere.
“Non
l’hai letta. L’hai scritta,”
mormorò.
“Non ti perdonerò mai per questo.”
“Lo
so.”
Sigyn prese tra
la sua la
mano dell’Ase appesantita dalle catene per prolungare quel
contatto che le era
mancato in maniera totale, assoluta. “Non sono riuscita a
dimenticarti,” ammise
con un soffio di voce.
Loki
increspò le labbra,
parve riflettere su quell’ultima confessione. “Non
hai voluto,” specificò. “Non
mi pento di quello che ho fatto, Sigyn, ma la mia prigionia
è ancora lunga.
Torna a casa, smetti il lutto che senz’altro
porti,” disse, “lascia che i tuoi
capelli ricrescano,” aggiunse scoprendo con le dita che le
sue belle ciocche
bionde ora le sfioravano a malapena le spalle.
La
sentì irrigidirsi. “Non
posso, non voglio.”
C’è
qualcosa di perverso,
nell’incastrarsi nella propria stessa trama. Ingannare ed
essere ingannati fa
parte del gioco, ma ordire un piano e rimanerne invischiati
è un beffardo
scherzo del destino che Loki Laufeyson non poteva fare a meno di
apprezzare,
dopotutto. Lei all’inizio
non era
niente, l’aveva notata appena. Se i suoi occhi verdi e acuti
si erano posati su
Sigyn, era stato solo per seguire lo sguardo interessato del sanguigno
Thor. Folti
capelli biondi che nessuna acconciatura sembrava poter disciplinare,
lineamenti
delicati, grandi occhi grigi rotondi e profondi, vita stretta; non
bella più di
altre, ma interessante questo
sì,
senz’altro. Con tale spirito si era accinto ad assecondare i
capricci del suo
volubile fratello che solo l’esilio su Midgard avrebbe reso
un vero eroe.
Solo che per
ingannare
davvero qualcuno, per convincerlo ad aprirsi e conquistarlo,
è necessario concedere
qualcosa di se stessi sacrificando una scintilla, un frammento della
propria
anima. Perché l’illusione sia davvero efficace,
deve contenere al suo interno
un barlume di inoppugnabile verità. Scriveva Loki, di notte.
Lettere lunghe,
appassionate, in cui ogni arguzia, frase, schermaglia era pensata per
lei, la
ragazza bionda che sedeva in giardino a leggere lettere
d’amore raccogliendo le
gambe al petto. Le sue. All’inizio erano stati il
divertimento e la bieca
curiosità a fargli alzare la penna, ma poi, per le Norne,
qualcosa era
cambiato. Sigyn era intelligente, vivace, acuta. Bella.
Rispondeva a tono alle sue battute, commentava in maniera
brillante i suoi ragionamenti. Intrattenere quella corrispondenza che
Thor
aveva dimenticato da tempo continuò a essere divertente, ma
in maniera diversa.
Quando comprese che per Sigyn il fittizio Theoric stava diventando
troppo
importante, pensò che fosse il caso di smettere, ma non
volle, non riuscì, non
poté. Seduto sul letto con le gambe comodamente allungate e
un libro a
rendergli più agevole la scrittura, la lunga penna di falco
ancora stretta tra
le dita, capì che non voleva privarsi di nulla –
che non era in grado di
rinunciare a niente – nemmeno a lei.
Scriverle spacciandosi per un altro, uno che nemmeno
esisteva, era una
bassezza terrificante, ma non farlo era fuori questione. Incastrato
nella sua
stesse rete, lasciò che l’inganno così
abilmente tessuto la conducesse tra le
sue braccia e nel suo letto solo per perderla. Com’eri
bella, Sigyn, quella notte.
Il lento
gocciare del
veleno nel bacile continuò a scandire il tempo di cui Loki
non riusciva più a
tenere traccia e quella che sarebbe diventata la dea della
fedeltà rimase lì,
accanto a lui, al suo fianco, come aveva promesso quando lo aveva
sposato,
curando con la sua sola presenza il corpo torturato e lo spirito fiero
e mai
piegato dell’altero dio degli inganni in persona. Dopo
avergli applicato sugli
occhi l’ennesimo medicamento, lui registrò una
variazione significativa di
luce, strinse le palpebre, serrò la mascella. Lentamente, le
macchie indistinte
di nero e grigio lasciarono spazio ai colori, a lei.
Loki la
osservò come si
guarda qualcosa che si è avuto e poi perso e sul suo viso
affilato si affacciò
di nuovo il ghigno perenne che gli attraversava le labbra, il sorriso
di lupo
che l’aveva stregata.
“Sei
sempre stato tu,
solo tu, ad avere il mio cuore” mormorò Sigyn
scostandogli una ciocca scura dal
viso. “E l’ho capito troppo tardi. Mi
dispiace.”
“Che
importanza ha,
adesso?” osservò l’Ase distante.
Lei scosse la
testa, e il
dio degli inganni s’incantò un momento osservando
l’oro dei suoi capelli.
“Resterò
qui, Loki, amore
mio. Resterò con te fino a che Thor e Frigga non otterranno
da Odino un appello
e tu sarai graziato, finché queste catene non verranno
spezzate, fino al
Ragnarok, fino alla fine del tempo.”
Lingua
d’Argento forse
avrebbe voluto ribattere qualcosa, ma non ci riuscì: lei lo
baciò sulle labbra.
The
end
Non voglio
rassegnarmi ad essere cattivo,
Tu sola puoi
salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
Dev’esserci,
lo sento, in terra o in cielo un
posto
Dove non
soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti
prego, di queste mie parole,
Io sono solo
un'ombra e tu, Rossana, il sole,
Ma tu, lo so,
non ridi, dolcissima signora
Ed io non mi
nascondo sotto la tua dimora
Perché
oramai lo sento, non ho sofferto
invano,
Se mi ami come
sono, per sempre tuo, per
sempre tuo, per sempre tuo...Cyrano
(Guccini, Cyrano)
Note Autore:
Cari lettori,
Questa
storia nasce per il Contest di Laodamia94
“Cuore d’Ombra II Edizione,”
incentrato, come suggerisce anche il nome, sui villain.
Come potevo non cogliere l’opportunità per parlare
ancora di Loki, il mio villain
preferito
di sempre? ♥ Per l’occasione, ho voluto presentare
il dio dell’inganno in uno
dei momenti fondanti della sua storia mitologica, unendo
la timeline del MCU al mito
scaldico relativo alla punizione di Loki. Secondo
quest’ultimo, il dio degli inganni viene condannato dagli
dèi a una pena
tremenda: incatenato in una grotta sotto la bocca di un serpente la cui
bava urticante
lo strazia, Loki si contorce e si lamenta. Sigyn, la dea della
fedeltà, la
moglie devota, gli resta accanto e raccoglie in un bacile il veleno del
serpente, alleviando in questo modo la pena del marito. La Marvel ha
dedicato
uno spazio molto ristretto a questa figura di donna: ha inserito
però nel
comics il personaggio di Theoric, uno spasimante che lei avrebbe dovuto
sposare, cui Loki si sostituisce con l’inganno. Partendo da
questi spunti, ho
creato una storia che si colloca idealmente tra Avengers
e Thor: The dark
world dato che presuppone un voltafaccia
di Loki nei confronti di Thanos mentre Odino è vivo e una
battaglia che distrugge
Asgard. Le caratteristiche dell’inganno di Loki, il
fatto che inventi il
personaggio di Theoric per sedurre Sigyn, la loro corrispondenza e
l’assonanza
Theoric/Thor sono mie invenzioni/riflessioni
di cui ribadisco la maternità, così
come l’interpretazione e
la caratterizzazione
di questa Sigyn.
I
versi riportati della Lokasenna
nell’incipit appartengono all’edizione Garzanti in
mio possesso (volevo farvi
sentire la vera voce di Loki).
Nel
testo sono presenti citazioni da De André (La canzone di
Marinella), Pascoli (X
Agosto) e altre mie storie. Gli appellativi di Odino e Loki (dio delle
forche e
fabbricante di bugie) vengono dall’Edda.
A fare
da colonna sonora alla stesura della storia sono state le canzoni
citate nel
testo e non solo: Into my arms di
Nick Cave, sulle cui note ho scritto l’epilogo,
Vedi cara cantata da Guccini, e, soprattutto, Cyrano
che, anni fa, ha ispirato il primigenio nucleo della storia.
Come sempre, grazie a chi è arrivato fino a qui e grazie a
chi ha ascoltato le
mie paturnie durante la stesura della storia. ♥
Shilyss
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