L'incanto di un sogno di ceramica

di Luxie_Lisbon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** 01 ***
Capitolo 3: *** 02 ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Bene, che dire, ci rivediamo qui su efp con una mia vecchia storia, mai conclusa, che ho dovuto cancellare dal sito per ricominciare tutto da capo. Spero davvero che vi piaccia, che vi piaccia leggere quello che ho voluto creare, e vi dico che purtroppo dovevo cancellare la vecchia bozza, perchè era incompiuta e volevo ricominciare dal principio :) Detto questo, vi lascio al primo capitolo, spero di aggiornare al lunedì all'incirca alle 21 :) 
Luxie

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Capitolo 2
*** 01 ***


Eccoci qui con il capitolo iniziale... è uguale a quello che avete già letto, spero che vi piaccia rileggere la storia, ma cercherò di aggiornare una volta a settimana per darvi nuovi capitoli che non avete mai letto :) Buona lettura
 
..01..
Muse - Isolated System
 
Yuu
(The Psychiatrist)
Che cosa spinge una persona a ricercare il benessere dopo istanti di dolore, in cui tutto quello che vorresti fare è far sparire tutto quello che non ti fa sentire... bene.
Che cosa spinge una persona a chiedere aiuto ad un'altra, senza soffermarsi sul fatto che forse, anche quel confidente scelto in un momento di assoluta debolezza è alla ricerca spasmodica di un paio di ali.
Che cosa spinge una persona a gridare le proprie pene ad un'altra, rivelandosi debole e incapace, nel momento in cui chi ti ascolta vorrebbe soltanto portarsi le mani alle orecchie e non udire.
Mi sono sempre chiesto se tutti gli esseri viventi siano a conoscenza del fatto che esiste la compassione, la sincerità.
Rimango sempre piacevolmente sorpreso difronte al sorriso falso di un'anima che si immobilizza davanti a me, e quando la sfioro e quella indietreggia, vorrei dolcemente assaporare i suoi pensieri, come se fossero di puro piacere.
So che non è così, la maggior parte dei pensieri delle persone sono impuri, nessuno si concede un attimo di purificazione, le menti altrui sono contaminate.
La mia?
La mia è soltanto contraffatta.
Mi alzai dalla sedia di plastica verde dove ho trascorso almeno venti minuti riempiendo i miei polmoni di fumo e quando un piccolo essere scheletrico mi passò affianco fui costretto a spostare lo sguardo alla mia destra.
Ma certo, era quel ragazzo condotto qui dai genitori a causa della sua propensione all'autolesionismo, un autolesionismo radicato e originato dalla scarsa attenzione che gli viene dedicata.
<< Dottore>> sibilò quella creatura, sistemando il piccolo corpo accanto al mio, sollevando lo sguardo e sorridendo con le labbra ma non con gli occhi.
<< Jacob, dimmi>> sussurrai inginocchiandomi difronte a lui, dopo aver spento la sigaretta nel posacenere di vetro.
<< Questa mattina verranno a trovarmi i miei amici, e il mio psichiatra mi ha detto che posso stare un po' fuori prima di vederli. Non voglio che vengano qui, non voglio che mi vedano rinchiuso. Mi capisce vero?>> mi disse dopo aver lanciato uno sguardo alle mie spalle.
<< Certo Jacob, ti capisco eccome. Nemmeno a me piace molto la compagnia, ma rivedere i tuoi amici ti farà bene, ti aiuterà, fidati di me>> cercai di rassicurarlo ma il ragazzo scosse la testa, nascondendo le braccia dietro alla schiena.
<< Dottore, lei mi ha sempre detto che fare quello che ci si sente è la cosa migliore, non è così?>> disse poi, serio.
Annuii.
<< Bene. Allora io non vedrò i miei amici. Preferisco tornare nella mia stanza e dormire. Posso?>>
<< Beh Jacob, io non sono il tuo psichiatra, devi sentire che cosa ne pensa lui prima, poi potrai scegliere. Sei grande, puoi anche non vedere i tuoi amici oggi se non te la senti. Ma è per il tuo bene>> riprovai, guardandolo negli occhi.
Jacob abbassò il suo sguardo poi mosse un braccio e la mano destra sfiorò il mio camice, facendomi indietreggiare.
<< No, io non li rivedrò mai più>> disse poco dopo, a seguito di un lungo e doloroso silenzio, e quando tornò a nascondere le braccia dietro la schiena mi sorrise, dandomi le spalle e allontanandosi da me.
Seguii il movimento del suo esile corpo per pochi secondi poi portai una mano alla tasca dei pantaloni, estraendo una seconda sigaretta e portandola alle labbra.
Jacob mi aveva sempre dato da pensare, era un ragazzo stranamente devoto, attaccato alla religione in modo morboso.
Non riesco a capire perché abbia iniziato ad incidere la pelle delle sue braccia, il suo psichiatra non ha mai rivelato niente ne' a me, ne' agli altri medici, l'unica cosa che so è che ha tentato il suicidio tre volte.
La prima volta all'età di quattordici anni, la seconda a sedici, la terza a diciannove.
Adesso di anni ne ha ventuno.
Li avrà per sempre, perché Jacob morirà dissanguato nella sua vasca da bagno, quel bagno della sua camera, quella sera stessa, dopo essersi svenato con un rasoio rubato al vicino di stanza.
Morire dissanguato è sempre stato il suo più grande sogno, me l'ha rivelato lui stesso il giorno del suo compleanno, almeno quattro o cinque giorni fa.
***
La clinica psichiatrica Empty Soul è la mia seconda casa da quando avevo ventiquattro anni. Mio padre mi ha iscritto ad un corso di medicina e ad uno di psichiatria contro la mia volontà, sostenendo che l'unico modo che avevo di creare un valido futuro che mi trasmettesse qualcosa di reale era quello di intraprendere la strada della cura per le malattie psichiche. Lui mi ha sempre detto che al mondo oramai ci sono sempre più schizzati, testuali parole, depressi e così via, e che dovevo ad ogni costo studiare per riuscire a dare un senso alle loro miserabili vite.
Niente di più vero.
Anche se mi duole ammetterlo, mio padre aveva ragione.
Mi sono laureato almeno mezzo secolo fa, e nonostante la mia scarsa propensione verso l'aiuto al prossimo, sono entrato nella clinica Empty Soul con lo scopo di aiutare le persone.
Sostenere che odio il mio lavoro è fin troppo ironico ed insufficiente, mentirei se vi dicessi che amo quello che faccio. La realtà in cui sono costretto a vivere da cinque anni mi fa pensare che ho sbagliato ogni cosa, che le mie scelte sono state dettate da una scarsa fiducia in me stesso, perché ho sempre fatto quello che hanno voluto i miei genitori.
Mia madre, prima di morire, mi disse che loro avevano agito per il mio bene, rivelando la più falsa delle bugie. Mentiva proprio perché non ha mai agito con un fine onesto, il suo era soltanto un modo per sbarazzarsi di me e trarre beneficio dal mio lavoro e dai soldi che portavo a casa ogni mese, per aiutare lei e mio padre con le spese.
C'è una sola cosa che mi rende davvero felice del mio lavoro, la possibilità di studiare la mente umana e comprendere al meglio se la persona che ho difronte mente o dice il vero, onde evitare spiacevoli incidenti di percorso.
Quando rientrai nella stanza destinata alle pause di noi medici, lanciando uno sguardo all'insieme sbuffai.
L'imponente figura del caposala offuscò per un attimo la luce che proveniva dalla finestra, poi l'uomo mi diede le spalle per prendere una cartella clinica.
<< Shiroyama, eccoti qui. La tua pausa pranzo è finita da almeno cinque minuti, devi tornare a lavoro>> disse sorridendo in modo ironico, facendomi vorticare la testa dal nervoso.
<< Certo>> dissi poco convinto, sistemandomi il camice e incrociando le braccia.
<< Hai la visita al paziente della 107>> disse l'uomo sedendosi alla sua scrivania, iniziando a battere a computer una delle sue tante tesi.
Quando udii quel maledetto numero lanciai la testa all'indietro, socchiudendo gli occhi.
Nella stanza 107 abitava nel vero senso della parola un depresso, un uomo di cinquant'anni che trascorreva la maggior parte delle ore della giornata o disteso a letto o seduto sul pavimento a fissare il muro.
<< Va bene>> dissi muovendomi lungo la stanza, dando le spalle al medico che sollevò la testa dalla tastiera per guardarmi uscire, poi tornò a scrivere una lunga lettera all'amante.
La scusa della tesi fregava sempre gli altri ma non me, un esperto del linguaggio del corpo.
Uscendo dalla 107 provai un crescente senso di sollievo, riflettendo sul fatto che non mi pagavano abbastanza per quel lavoro.
Chi mi assicurava che una volta uscito da lì avrei mantenuto la mia sanità mentale.
Avanti, non prendiamoci in giro, tutti i medici che hanno a che fare con casi psichiatrici alla lunga ne possono risentire, arrivando addirittura ad affezionarsi ad un paziente piuttosto che ad un altro, rivelando una debolezza di fondo, che non dovrebbe mai sorgere, non in circostanze come queste.
Quando superai il primo corridoio, svoltando poi a destra, mi soffermai a pensare che il mio turno non poteva ancora ritenersi concluso, c'era ancora un'ultima cosa da fare prima di staccare.
Dovevo controllare l'epilettico.
I pazienti che avevo in cura personalmente, sostenevano che il ragazzo rinchiuso nella stanza 103 fosse timido, impacciato e poco sicuro di se, e nonostante tutti i tentativi degli altri medici di farlo parlare, di permettergli di aprirsi con le altre persone, lui aveva sempre rifiutato qualsiasi contatto di ogni genere. L'unica persona con cui si confidava ero io, proprio perché dovevo ascoltare i suoi assurdi discorsi, le sue dicerie, le sue chiacchere senza senso, controllare che non avesse alcun attacco epilettico e riferire quello che mi aveva detto al suo psichiatra.
Quel ragazzo disturbava il mio essere, mi obbligava ad avere dei dubbi riguardo alla mia freddezza, al mio distacco, perché anche se faticavo ad ammetterlo a me stesso, quel ragazzo mi interessava.
Quando arrivai davanti alla porta della stanza numero 103, abbassai con decisione la maniglia, spingendo la porta e aprendola, cercandolo con lo sguardo.
Kouyou Takashima era comodamente seduto sul suo letto, le gambe incrociate, un libro tra le mani, un paio di occhiali da lettura. Quando avvertì il movimento distolse lo sguardo dalle pagine per indirizzarlo su di me.
<< Buon pomeriggio Takashima>> dissi senza sorridere, incrociando le braccia e guardando il suo corpo. Quel corpo che veniva sempre attraversato da continue scariche elettriche.
<< Buon pomeriggio dottore>> mi salutò lui tornando a leggere, ma captai, dal movimento del suo corpo un leggero nervosismo.
Quando mi mossi per andare verso di lui, Kouyou rabbrividì, restando per troppo tempo sulla stessa pagina.
<< Mi dispiace interromperti nella lettura, ma devo visitarti>> dissi scostando le tende grigie per far entrare un po' di luce del sole. Kouyou chiuse con uno scatto il libro, adagiandolo tra le lenzuola.
Nel leggere il titolo del volume sorrisi. "Il ritratto di Dorian Gray"
<< Le piace Wilde?>> chiesi senza pensare, portando le mani al collo e sfiorando lo stetoscopio che portavo sempre con me. Il ragazzo annuì, sorridendomi lievemente ma non aggiunse nulla, si limitò a darmi le spalle, sfilarsi la giacca nera per permettermi di visitarlo e tremare.
Nell'udire il battito del suo cuore avvertii una strana sensazione che mi fece provare vergogna nei confronti di me stesso e quando mi scostai da lui per prescrivere il suo abituale farmaco, Kouyou mi guardò a lungo, quasi volesse spogliarmi dei miei abiti con gli occhi.
Ci guardammo a lungo, nessuno dei due distolse lo sguardo, poi lentamente mi mossi lontano da lui, rimettendo lo strumento medico al suo posto, attorno al mio collo. Non so perché il pensiero mi attraversò la mente ma assomigliava un po' troppo ad un cappio.
<< Non ha più avuto attacchi vero signor Takashima?>> gli chiesi dandogli le spalle, scrivendo sul blocco che portavo sulla tasca davanti del camice alcuni appunti riguardo la visita.
<< Non che io ricordi dottore. L'ultimo attacco epilettico è stato quello di settembre>> mi disse Kouyou e avvertii il movimento del suo corpo. Nel voltarmi lo vidi in piedi davanti al letto, le dita intrecciate, gli occhiali adagiati sul naso. Stavano per scivolare così, senza pensare glieli sistemai, sfiorando la sua pelle.
Kouyou rabbrividì, restando immobile davanti a me e guardandomi negli occhi.
<< Molto bene. Dovrà assumere il farmaco che gli ho prescritto soltanto due volte al giorno. In caso di malessere potrà fissare un nuovo appuntamento con me e decideremo se continuare la cura o passare ad un farmaco più leggero>> dissi tornando a non guardarlo, anche se avrei voluto farlo con tutto me stesso.
Kouyou non disse una parola, si limitò ad annuire.
<< Bene signor Takashima. Adesso me ne vado. Sa dove trovarmi se dovesse aver bisogno di me>> dissi, per poi allontanarmi dal suo corpo.
Kouyou mi guardò a lungo, poi tornò a sedere sul letto, riprese il suo libro e tornò a leggere, nascondendo il volto dietro ai capelli castani e continuando a sistemarsi gli occhiali.
Il linguaggio del suo corpo mi dimostrò una teoria che non avrei mai voluto teorizzare.
Era a disagio.
Quel tipo di disagio, il disagio che si viene a creare quando una persona che ha catturato il tuo interesse, si allontana da te dopo averti dato il permesso di invaghirsi di lei.
L'unica cosa da fare in questi casi era stare lontano da quel paziente.
Avrei chiesto al suo psichiatra di occuparsi personalmente delle cure di Kouyou.
Takashima soffriva di epilessia, che l'aveva costretto a trasferirsi nella clinica per poter essere seguito 24h su 24h, 7 giorni su 7, a tempo pieno.
È un ragazzo fragile, ad ogni attacco epilettico il suo corpo si svota, l'anima si disintegra e trascorrere ore ed ore disteso sul pavimento, a fissare il nulla, dondolandosi avanti e indietro.
Lui è in grado di vedere cose che puntualmente racconta al suo psichiatra ma che nessun medico ne famigliare è tenuto a sapere, perché Takashima non vuole far sapere a nessuno che cosa si nasconde nella sua testa.
***
A fine giornata rientrai nel mio appartamento.
Noi medici avevamo la possibilità di abitare negli appartamenti poco lontani dalla clinica, e per comodità aveva scelto di usufruire della loro presenza.
Nel sfilarmi il maglione nero provai un senso di sollievo appagante, che mi fece sospirare con forza.
La mia maledetta giornata in mezzo al dolore altrui era finalmente giunta al termine, la mia piccola oasi di benessere poteva durare si e no qualche ora, dovevo trarne vantaggio.
Dopo una lunga doccia calda mi rifugiai in salotto e mi concessi una lunga sessione di addominali. Concentrato negli esercizi, nell'avvertire i muscoli contrarsi e allungarsi provai un dominante senso di appagamento, che mi permise di concentrarmi su me stesso.
Tutto quello che mi concedevo prima di dormire mi rendeva felice. Una doccia, una serie di addominali steso sul pavimento, una sigaretta seduto sul divano, un momento intimo dedicato alla masturbazione.
Nell'accarezzare il mio corpo la mia mente vagava, ripensando a tutte le donne con cui ero stato, a tutti i ragazzi che avevano gioito nel darmi piacere al tempo delle scuole superiori, ai mille orgasmi che avevo finto di avere per rendere più felice il mio partner di turno.
Per la prima volta, quando le mie dita sfiorarono il mio petto per poi scendere lungo l'inguine pensai al paziente della 103.
Sbattei più volte le palpebre, visualizzando davanti al volto i capelli castani di Kouyou, le sue labbra piene e le mani delicate, quelle mani ancorate ai capelli, le dita piegate in modo innaturale, simili ad artigli sulla schiena.
Non mi resi nemmeno conto del mio respiro, divenuto molto più irregolare, della mia mano che iniziava lentamente a scivolare sempre più in basso. Quando le mie dita indugiarono iniziai a pensare di essere uscito di senno. Non mi ero mai permesso di pensare a nessun'altra persona nella mia vita, non dopo essere stato tradito, ma il solo ripensare al volto di Kouyou distrusse per un attimo i miei ideali.
Decisi di non lasciarmi andare alla lussuria, lasciando ricadere la mano tra le lenzuola e chiudendo gli occhi, cercando in tutti i modi di non pensare.
Fu inutile perché nell'esatto momento in cui iniziai a perdere conoscenza, gli occhi di Takashima presero possesso del mio inconscio e sognai il suo volto per tutta la notte.
***
 
 Blue Foundation - Eyes On Fire

Il giorno dopo...

Akira
(The Unreal)
Dolci delicati istanti di realtà.
Mi mancano terribilmente.
Molti dicono che la mia testa abbia qualcosa di difettoso, qualcosa che mi spinge a considerare le pareti di una stanza inesistenti, o troppo allargate. È come se le persone che mi circondano fossero munite di fili, tanti piccoli fili che permettono loro di muoversi. Tutte le persone sono marionette, gusci vuoti, senza anima ne' cuore.
E tutto questo mi fa terribilmente paura.
Quella Paura, la paura dell'irrealtà.
È tutto così dannatamente ingiusto a questo mondo.
Avevo quattordici anni quando mi accorsi per la prima volta di vedere cose che gli altri ragazzi della mia età non erano in grado di vedere, cose che mi trasmisero un terrore recondito.
Era tutto così dannatamente sbagliato, io non avrei mai dovuto venire al mondo, non per essere poi rinchiuso.
Tracciai una linea netta sul nuovo foglio da disegno, lasciando che le mie gambe scivolassero nel vuoto. Lentamente portai la testa sul tronco dell'albero dove ero seduto, chiudendo gli occhi e cercando di ricordare che cosa fare nei momenti in cui tutto il mondo mi urlava contro la sua Ira.
Avvertivo nel petto la Paura, ma nell'esatto momento in cui ci pensai, provai un desiderio recondito di punirmi, perché il solo essere colpevole di provare paura non era sufficiente.
Provai di nuovo a mettere su carta quello che vedevo nella mia mente ma la graffite era troppo chiara, la luce era abbagliante e le immagini erano fin troppo distorte per essere rappresentate.
<< Akira >>
Qualcuno chiamò il mio nome, facendomi aprire gli occhi lentamente, adagiare il blocco sulle gambe e scendere con un balzo dall'albero.
Due infermieri mi aiutarono a raggiungere la porta d'ingresso, adagiando le dita delle mani sulle mie braccia.
Quando cercai di oppormi, l'infermiere più giovane le fece scivolare lontano da me, e subito dopo il suo collega lo imitò, staccandosi dal mio corpo.
Bastava così poco per porre fine a tutta la mia Paura, ma io non volevo rivivere quei momenti in cui la realtà mi abbagliava per pochi istanti, per poi lasciare spazio di nuovo all'irrealtà.
<< Oh, uno nuovo >> disse il ragazzo accanto a me, e quando non mi mossi, restando immobile a guardare quello che stava indicando sia a me che al collega, lui mi guardò, con attenzione.
Una macchina nera, lucente, quel tipo di luce buona, fece il suo ingresso nel giardino della clinica.
Silenziosa, sicura di se.
Quando accostò a fianco di un'ambulanza trattenni il fiato, cercando di muovermi per poter guardare meglio ma il mio corpo non obbediva alla mia testa, come tutte le volte che provavo a riflettere con la Paura nel petto.
La portiera del passeggero si spalancò e fu allora che una folata di vento gelido che potei avvertire soltanto io mi fece rabbrividire.
Prima che potessi impedirlo i due infermieri mi scortarono dentro alla clinica, non permettendomi di vedere al meglio. Tutto quello che vidi fu soltanto una testa piena di capelli biondi.
Quella testa però non faceva parte del gruppo di marionette manovrato dal Mondo esterno, non faceva parte dell'irrealtà.
Era Reale, reale quasi quanto me e quando mi resi conto dell'esistenza di quel pensiero mi sentii dannatamente colpevole, di nuovo.
Niente poteva annullare il muro d'irrealtà che mi opprimeva, in cui ero rinchiuso da anni, da quando tutto in me aveva subito modifiche, gettandomi in un costante sentimento di paura angosciosa. Una paura di una disgrazia, una disgrazia imminente, che non si era ancora manifestata.
Soltanto io avevo le risposte, cercavo da sempre di rendere partecipi gli altri della mia paura per sentirmi meno solo.
Perché nella mente di uno schizofrenico la non comprensione della paura aumenta la paura.
Nella mia mente di schizofrenico c'era soltanto... vuoto.
 
Bene, il capitolo è finito, abbiamo conosciuto i nostri personaggi principali, ma manca ancora qualcuno, lo so che sapete chi :P Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi era mancato postare le mie storie qui. Sto lavorando ad una storia inedita (anche se per ora è soltanto nella mia testa) che spero di postare molto presto :) Grazie di essere arrivate/i sino a qui, vi voglio bene <3
Vostra Luxie

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Capitolo 3
*** 02 ***


..02..
Akira
(The Unreal)

<< Puoi sederti qui Akira. Fra poco ti chiameranno per il pranzo>> disse uno dei due infermieri, lasciando che il mio corpo scivolasse su una delle sedie poste al centro esatto della sala ricreativa.
Lanciai uno sguardo alla mia destra e notai le altre persone come me sparse per la stanza, due depressi e una ragazza malata di anoressia, che cercava in tutti i modi di fingere di stare male per non dover andare in mensa assieme a tutti gli altri.
<< Mi hai sentito?>> mi chiese di nuovo l'uomo, appoggiando la mano sulla mia spalla e quando lo guardai quello mi sorrise. Annuii lentamente, tornando a guardare gli altri pazienti, e anche se avrei tanto voluto parlare e dirgli che avevo capito, la Paura mi teneva ferma la lingua, inchiodata al palato.
<< Bene, allora adesso noi andiamo. Sai dove trovarci se hai bisogno di noi>> aggiunse il secondo infermiere senza guardarmi, spostando il corpo lontano dal mio e voltandosi, iniziando a camminare lontano da me. Il collega lo imitò, dopo avermi lanciato un ultimo sguardo allarmato.
Ma non c'era niente di cui preoccuparsi, la Paura mi aveva semplicemente inchiodato a terra, metaforicamente, e tutto quello che riuscivo a fare era restare immobile, in balia dell'irrealtà.
Chiusi gli occhi, in preda alle allucinazioni, e quando tornai a vedere notai che tutte quelle persone accanto a me erano prive di cuore, di anima, smembrate, divise in tante piccole parti, e ognuna di quelle parti erano completamente prive di emozioni e sentimenti.
Un depresso mi sorrideva, la sua faccia si stava allargando sotto al mio sguardo.
Un altro piangeva, le sue lacrime assomigliavano ad artigli che stavano scavando nella sua carne, voraci.
L'anoressica urlava, le sue grida potevo udirle soltanto io, il corpo si stava allargando e lei non poteva fare assolutamente niente per impedire che avvenisse, e nemmeno io.
Lentamente cercai di muovermi per porre fine a tutto, desiderando di portarmi una mano gelida alla tempia destra ma non fui in grado di muovermi, nemmeno quando una mano rovente si appoggiò sulla mia spalla.
Alzai lo sguardo un'ulteriore volta, visualizzando un volto immerso nella luce accecante prodotta dall'irrealtà.
<< Akira >>
Quell'essere stava pronunciando il mio nome, ma io non fui in grado di capire se stavo semplicemente avendo un'ulteriore allucinazione uditiva o se era tutto reale.
<< Akira, come ti senti?>>
Ancora quella voce distorta, non riuscivo ad associarla a niente, ma quando quelle dita di quella mano si mossero lungo il mio braccio, l'allucinazione svanì, tutto tornò lentamente al posto giusto e fui in grado di sbattere le palpebre, una, due, tre volte.
<< Ehi, tutto bene?>>
Guardai negli occhi il mio psichiatra, concentrato a sorridermi con sentimento paterno, per poi sedersi accanto a me.
<< Riesci a sentirmi?>> mi chiese poi il dottor Zusak, gli occhi marroni che brillavano di luce propria. Tornai ad annuire.
<< Bene. Volevo scambiare due chiacchere con te prima di pranzo. Che cosa ne dici?>> mi chiese guardandomi negli occhi e la Paura prese nuovamente il possesso di me. Non avevo scampo, per nessun motivo al mondo.
<< Te la senti?>>
Tornai ad annuire, poco sicuro e lui se ne accorse. Adagiò la mano sulla mia, facendomi rabbrividire, poi si alzò.
<< Se te la senti seguimi. Se invece non vuoi non farlo, nel voltarmi capirò>> disse serio, dandomi le spalle e iniziando a camminare a passo svelto.
Decisi di riflettere per un attimo, ad occhi chiusi.
Dovevo seguirlo, ma non volevo. Dovevo "parlare" con lui, ma non volevo. Dovevo alzarmi da quella sedia, ma non volevo.
Era tutto sbagliato.
Poi scelsi la via più dolorosa, il sacrificio, la colpa.
Mi alzai e seguii il mio psichiatra.
<< Siediti>> mi disse il medico, dopo essersi accertato della mia presenza. Feci quello che mi aveva detto e lasciai cadere di nuovo il mio corpo su una sedia, questa volta più comoda della precedente. Avvertii il suono della porta che veniva chiusa e quando il dottor Zusak si sedette alla sua scrivania, difronte a me, fu per sorridermi.
<< Molto bene Akira, sono felice di notare che mi hai seguito. Volevo dirti che ho parlato con tuo padre, e che ha chiesto di poterti vedere il mese prossimo. Che ne pensi?>> mi chiese, lasciando scivolare il corpo in avanti, intrecciando le dita della mano.
Difronte al mio silenzio allungò il suo, guardandomi negli occhi. Io non guardavo lui, la mia attenzione era concentrata sulla minuscola macchia di umidità sul muro, che difronte ai miei occhi stava lentamente aumentando di dimensione, allungandosi. Provai a farla smettere ma era tutto inutile, dovevo continuare ad assistere alla sua crescita.
<< Tuo padre desidera vederti Akira, controllare i tuoi progressi in questa struttura. Io credo che tu possa vederlo, sei d'accordo?>> riprovò lo psichiatra, non trovando accoglimento. Mi sorrise, dopo aver abbassato lo sguardo.
<< Ritengo indispensabile la sua visita, per la tua salute. Quando arriverà ti farò chiamare. Adesso, Akira, se non ti dispiace, ti pregherei di disegnare la tua ultima allucinazione. Tieni>> disse allungandomi un foglio e una matita.
Lo facevamo sempre.
Io disegnavo quello che vedevo nella mia testa, lui analizzava i miei schizzi con la penna stilografica in mano, gli occhiali che gli scivolano sempre sul naso, concentrato e attento. Ci trovava sempre la stessa cosa.
La Paura.
Lentamente spostai la mano sul foglio, stringendo tra le dita la matita ed iniziando a tracciare dei tratti indistinti, che non conducevano a nulla.
Ma non disegnai la Paura questa volta, mi concentrai su qualcosa di nettamente diverso, un qualcosa che la annientava, un qualcosa che mi trasmetteva pace, vita, che mi appariva come un piccolo rifugio.
La massa di capelli biondi.
Il dottore osservava con attenzione il muoversi della mia mano sul foglio, e nel momento in cui lasciai ricadere la matita, portandomi le braccia lungo il corpo, mi guardò a lungo, quindi prese il foglio e senza dire una parola lo ripose dentro ad una cartella bianca, una delle tante che raccoglievano i miei disegni.
<< Bene Akira, adesso puoi anche andare. Infermiera>> chiamò, lanciando uno sguardo alla porta chiusa e subito dopo delle altre mani, più delicate, si adagiarono sulle mie spalle.
Un'infermiera bionda e con un sorriso fasullo sul volto mi scortò fuori dall'ufficio dello psichiatra, dicendomi che era ora di pranzo e che dovevo assolutamente raggiungere tutti gli altri in mensa.
Lasciai che mi guidasse lungo i corridoi della clinica, ad occhi sbarrati e la testa leggera, il cuore fermo ma che riusciva ancora a pompare sangue, ripensando a quei capelli biondi, per tutto il tempo.
Era dolce quel ricordo, per la prima volta avvertii la Paura svanire per pochi minuti, giusto il tempo di farmi riprendere fiato.
Avevo così bisogno di un'oasi di realtà?
***

Kouyou
(Crazy horse)

I suoi occhi, quegli occhi luminosi si posano lentamente sulla mia figura, trasmettendomi una lieve sensazione di gioia, che parte dal cuore, sino ad arrivarmi al cervello.
Chiudo i miei, a contatto con i suoi, timoroso, allungando una mano verso di lui, ma tutto quello che avverto tra le dita è il nulla.
Sto sognando, è evidente, soltanto che nell'esatto momento in cui me ne rendo conto non voglio accettarlo. Non voglio rassegnarmi e pensare che sto soltanto correndo con la fantasia, regalandomi immagini di cui mi pentirò, una volta sveglio.
Apro di nuovo gli occhi e incontro i suoi, mi stanno scrutando con attenzione, come se mi vedessero per la prima volta, e lentamente sorrido, portando di nuovo una mano verso di lui, invano.
Quando mi stacco con prepotenza dalla visione del suo sguardo delicato, indietreggio, rizzandomi a sedere sul letto, portando una mano al volto e nascondendo i miei occhi stanchi dietro il palmo della mano destra.
Sono soltanto uno stupido.
Ho sognato Yuu Shiroyama, uno dei miei medici, ancora una volta.
Il primo sogno era stato fin troppo realistico, e al risveglio mi ero guardato intorno in modo morboso, credendo di trovarlo al mio fianco, ma avevo compreso proprio in quegli istanti che era tutto assolutamente... falso.
Scostai le coperte bianche, facendole cadere sul pavimento e scivolandoci sopra con il cuore in frantumi. Ancora una volta.
Ero uno stupido.
Il mio medico, Yuu, era lontano da me almeno mille miglia, distante, freddo, scostante, professionale e sicuro di se. Fino a prova contraria doveva essere così, io ero soltanto un suo paziente, nulla più, e allora perché stava accadendo tutto questo? Perché mi svegliavo in preda al panico dopo averlo sognato? Perché il mio stupido cuore batteva all'impazzata nel mio petto vuoto al solo pensare al suo volto? Perché mi ero innamorato di lui?
Almeno credevo fosse amore.
Ero così impreparato, poco sicuro di quello che provo in questo momento, magari sto commettendo un errore madornale e la mia mente si sta prendendo gioco di me, come sempre.
Sorrido in preda all'ira più subdola, alzandomi da terra e portando il corpo alla finestra della camera. Nel scostare le tende e nel visualizzare il cielo tremo.
Le nuvole, la luce del sole, il lieve venticello che dona alcuni istanti di benessere non fanno per me, tutto quel benessere non mi si addice, si scontra prepotentemente con il mio essere, e so che tutto questo è dovuto alla mia scarsa capacità di volere bene a qualcuno.
Di assaporare le cose belle della vita.
Con Yuu è diverso, tutto, ed è proprio questo a spaventarmi a morte.
Stringo con morbosa attenzione la tenda tra le mani, avvertendo il corpo vibrare e prima di essere colto da un attacco epilettico mi sposto con passo stanco e malfermo, lasciandomi cadere sul letto.
Quella mattina mi aspettano le analisi del sangue, e alcuni colloqui con lo psicologo riguardo la mia radicata propensione al rifiuto del contatto fisico, di qualsiasi tipo.
Tutto è mutato in me quando, più o meno cinque o sei anni fa, il mio insegnante di danza ha abusato di me, del mio corpo, privandomi della dignità, del rispetto per me stesso, della voglia di vivere.
Le crisi epilettiche ci sono sempre state, un abuso è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Era così bello vedermi volteggiare in quella sala, su quel palco, questo mi ha detto prima di strapparmi i vestiti di dosso, per poi spingere con forza il suo corpo vecchio contro il mio, fin troppo giovane. Ha stretto con rabbia i miei capelli tra le dita, tirandoli e strappandomene qualcuno, digrignando i denti e grugnendo su di me come un animale.
Ho pianto, imprecato, implorato che mi lasciasse andare, ma non è servito a nulla, quel verme è arrivato sino in fondo, sporcandomi con la sua malvagità.
Scuoto la testa, portandomi la testa tra le mani e iniziando a piangere, mentre avverto delle piccole scariche elettriche iniziare a risalirmi lungo tutta la spina dorsale. Devo mantenere la calma, un altro attacco epilettico non posso reggerlo, non adesso, così mi permetto di pensare a Yuu.
Incontrai Yuu quasi per puro caso, una domenica pomeriggio, mentre me ne stavo comodamente immerso nella mia dimensione di dolore. Odio con ogni fibra del mio corpo la domenica, la considero una giornata morta, senza senso, priva di qualsiasi filo logico. Di domenica non combino nulla, sono nell'ozio più completo, quasi un atteggiamento imposto, che se non emerge mi fa seriamente sentire in colpa.
Mi era stato dato il permesso di uscire in cortile, per prendere una boccata d'aria, e nella mia ingenuità credevo in modo radicato di riuscire a trascorrere una domenica come tutte le altre. Mi sbagliavo perché non appena misi piede fuori, accecato dalla luce del sole, capii che sarebbe successo qualcosa di strano, che mi avrebbe portato in un'altra dimensione.
Sedendomi su una delle sedie bianche provai un lieve disagio, e quando spostai lo sguardo alla mia destra lo vidi. Era comodamente seduto sulla sedia accanto alla mia, una sigaretta tra le labbra, un sguardo carico di dolore e di apprensione. Non mi ero nemmeno accorto che ci fosse qualcuno accanto a me quando mi ero lasciato cadere sulla sedia, e nel visualizzare quella figura avvertii nel cuore una profonda gioia.
Le dita della mano destra adagiate sulla gamba snella, l'altra mano sollevata di tanto in tanto per poter fumare.
Lo guardai senza essere in grado di distogliere lo sguardo e quando i miei occhi scesero lungo il resto del suo corpo, notando l'elegante maglione di lana nero provai una fitta di dolore al petto.
Quella creatura spense poco dopo la sigaretta in un posacenere che non avevo notato, adagiato a terra, e alzò lo sguardo, spostandolo subito dopo verso di me. Non appena i suoi occhi si adagiarono su di me il mio cuore prese a battere così forte sino a togliermi il fiato, e quando mi sorrise teneramente, in modo triste e doloroso, ricambiai, poco sicuro di me.
Avrei voluto parlare ma non ci riuscii, il suo sguardo, la sua durezza, la sua sofferenza era troppo anche per me e me ne restai immobile a guardarlo. Il ragazzo smise di sorridere poi si alzò lentamente e fu allora che tremai senza essere in grado di impedirlo.
Si allontanò da me, dopo avermi dato le spalle, portando le mani alle tasche e camminando a passo deciso, freddo, dopo avermi lanciato un ultimo sguardo.
Il suo sorriso, non potrò mai scordarlo.
Inespressivo, freddo, triste, distante anni luce.
Quell'anima stava lentamente morendo dentro e non riusciva a gridare al mondo il suo dolore.
Ripensai a lui per tutto il tempo, quella notte non riuscii a dormire e quando scesi in mensa per la colazione con mia profonda e egoistica sorpresa lo rividi. Era seduto al tavolo dei medici, indossava un camice bianco, di un bianco accecante.
Fu allora che compresi la gravità della situazione in cui mi ero cacciato.
Yuu Shiroyama, il ragazzo che mi aveva rapito il cuore, era un mio medico.
Ed io ero uno dei suoi pazienti.
Quando tornai a vedere la luce del sole fuori dalla finestra della mia camera da letto provai una dolorosa fitta al petto che mi costrinse ad alzarmi, correre al bagno e lasciarmi scivolare sul pavimento. Portai una mano al volto e presi a contare da uno a cento, nel disperato tentativo di calmarmi e di non subire l'aggressione dell'attacco.
Poco a poco tutto il mio corpo smise di tremare e avvertii soltanto il gelido pavimento a contatto con la mia schiena. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare a dei respiri sconnessi, uno, due, tre, finché non ripresi il controllo di me stesso, ancora una volta.
Mi rialzai a fatica, appoggiando il corpo al lavandino e lasciando scorrere l'acqua dal rubinetto.
Sperai di non morire nei prossimi istanti.
Gli istanti che ancora mi separavano dal mio carnefice.

***
Bene, ecco qui il capitolo due. Dovevo aggiornare ieri sera, ma ero troppo stanca xD
Abbiamo conosciuto le parole di Kouyou, i suoi pensieri e quello che prova. Spero davvero che vi sia piaciuto, che vi trasmetta qualcosa, che vi piaccia leggere questa storia <3 Presto faranno il loro ingresso nuovi personaggi, molto importanti per la storia, anche se secondari. Basta, non dico altro, grazie di essere arrivate/i fin qui <3
Vostra Luxie

ps: il dottor Zusak ha il volto di Matthew Bellamy, il cantante dei Muse 

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