Io&Sherlock

di hikaru83
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** cap 1. ***
Capitolo 2: *** cap 2. ***
Capitolo 3: *** cap 3. ***
Capitolo 4: *** cap 4. ***



Capitolo 1
*** cap 1. ***


Storia partecipante all’Evento Happy Birthday Martin indetto dal gruppo Facebook Johnlock is the way and Freebacth of course.
Nata per il compleanno di Martin, ho dovuto aspettare fin'ora perchè la mia beta era in vacanza e senza di lei mi sento perduta LOL.
Diciamo quindi tutti grazie a Slanif! Questa ff è tutta per la patata sexy di Martin Freeman e per le mie adoratate anime gemelle del gruppo Johnlock, Chiara, Susanna grazie per creare eventi tanto belli e per riuscire a fingere di tenerci a bada quando in realtà siete le prime a aizzare la nostra pazzia! Pri, Marci, Annina, Bea, gioie mie insomma è per tutte voi.
E si, sono pazza, provo con una storia a capitoli, spero vi piaccia.




Io&Sherlock
 
 

 
Capitolo 1
 

«Afghanistan o Iraq?» è iniziato tutto così, con quella semplice domanda, completamente inattesa, dopo avergli prestato il cellulare. Non un: “Che lavoro fai?”, o: “Come conosci Stamford?”. No. Solo quel: “Afghanistan o Iraq?”, domandato con quella voce profonda che ha fatto vibrare il mio cuore dal primo istante.

Inutile cercare di nascondere il fatto che quel tizio mi interessasse. Però all’epoca non capivo quanto profondo fosse quell’interesse. Del resto, fino a quel momento – a parte rarissimi episodi che preferivo si perdessero nell’oblio – ho sempre trovato molto affascinante il genere femminile. Amavo conquistare le donne, adoravo la parte iniziale del rapporto; peccato solo non riuscire a superare quella e separarmene dopo pochi mesi per cercare la successiva preda. Solo Mary è durata di più, e anche per lei una ragione di tutto il tempo passato insieme è sicuramente stata lui.

Eppure lui, lui è sempre stato diverso. Al nostro primo incontro non pensavo minimamente di doverlo conquistare. Era solo un tizio eccentrico e interessante. Senza rendermi conto che lui, in realtà, aveva già conquistato me senza che nemmeno me ne accorgessi.

Ho provato a chiedergli più di una volta come facesse a sapere che ero stato in Afghanistan, ma ovviamente lui ignorò la mia domanda, elencando prima i suoi difetti, come suona il violino quando riflette o sta spesso in silenzio per giorni (evitando di menzionare parti del corpo conservate nei posti più assurdi della casa... Forse per lui quello non era un difetto); poi dandomi appuntamento alle diciannove senza dirmi dove, menzionando un frustino dimenticato in obitorio (la cosa avrebbe quantomeno dovuto mettermi in allarme, ma niente). E quando cercai di fargli capire che era alquanto strano cercare casa con una persona di cui non sapevo nulla - neanche il nome - e che evidentemente non poteva sapere niente di me, la sua risposta è stata: «Io so che lei è un medico militare che è stato ferito in Afghanistan. So che ha un fratello che si preoccupa di lei, ma non gli chiederà aiuto perché non lo approva; probabilmente perché è un alcolista, o meglio: perché di recente ha lasciato la moglie. E so che la sua analista pensa che il suo zoppicare sia psicosomatico, diagnosi corretta, temo. È sufficiente per frequentarci, non crede?»

Rimasi in silenzio, troppo sorpreso per riuscire a dire anche solo una parola.

«Mi chiamo Sherlock Holmes. L’indirizzo è il 221b di Baker Street. Buonasera.» Un occhiolino nella mia direzione, un saluto verso Stamford alle mie spalle e via, sparito nel nulla.

Mi voltai verso Mike ancora ammutolito. Gli bastò uno sguardo per capire cosa mi frullasse per la testa. «Sì, fa sempre così,» rispose con un sorriso.

Non ho mai capito e non gliel’ho mai chiesto, il motivo per cui Mike ha pensato a me per dividere l’appartamento con Sherlock. Non so se è stato solo perché ero il primo con cui si era trovato a parlare dell’argomento, o se avesse capito che tra noi poteva davvero funzionare senza ucciderci a vicenda.

Mike sembra una persona tranquilla, pacifica, uno di quelli ritenuti non troppo svegli, un po’ fessi - se mi concedete il termine. Questo comporta che in realtà sia molto più di quello che dà a vedere. Quando, appena iniziata l’università, mi sentivo un po’ più intelligente, più furbo di lui e mi ero eretto a suo difensore rispetto ai bulletti che giravano ovunque, ero stato sorpreso dal fatto che mentre noi ragazzi svegli ci preoccupavamo della partita di calcio o rugby e di chi aveva fatto più conquiste, lui parlava già due lingue straniere e ne stava imparando un’altra, senza contare che aveva un sacco di crediti in più grazie a tutte le attività extrascolastiche che frequentava. Da allora ho imparato a non fermarmi a quello che i miei occhi mi facevano vedere, ma a cercare di vedere un po’ più in là. Soprattutto quando si tratta di persone tranquille e dall’apparenza del tutto innocue.

Quante domande mi ha costretto a farmi e a rispondermi, Sherlock!

Non so se lui si sia mai reso conto di come mi rigirava come un calzino l’anima. Di quanto io facessi fatica a non impazzire, dopo aver passato una vita a convincermi di essere ‘normale’, a convincermi e a cercare di convincere mio padre che fossi un comune uomo etero. Un gagliardissimo uomo etero. Tre continenti Watson, Capitano del Quinto Fucilieri di Nothumberland, e che cazzo! Mica una donnicciola qualsiasi.

E sì, è ovvio che questo sia decisamente un punto di vista da coglione, ma non ho mai detto di essere un genio. Soprattutto non lo ero da ragazzo, quando cercavo di mantenere l’equilibrio nella mia famiglia, con un padre militare, una madre medico devota al marito e al suo lavoro, una sorella lesbica che ha sempre trovato molto divertente usare questo dettaglio per far infuriare nostro padre.

Non dico che sia diventata lesbica solo per dargli fastidio - non l’ho mai pensato anche se ero un coglione. So quanto sia impossibile decidere chi amare e lo sapevo fin da ragazzo -, ma di certo ha trovato la cosa divertente, rivelandolo durante la cena di Natale a cui erano invitate anche le famiglie dei militari amici di papà. È questo che le ho sempre rinfacciato: non certo il suo orientamento, quanto il totale disinteresse della sensibilità altrui.

Ed è la stessa cosa che all’inizio rinfacciavo a Sherlock, fino a quando ho capito che lui non lo faceva per disinteresse, non con cattiveria; semplicemente aveva cancellato dal suo modo di vivere le emozioni. È una cosa che mi ha sempre incuriosito, nonché in un certo senso rattristato. Sherlock sembra totalmente incapace di comprendere le emozioni; sa che esistono, riconosce un cambiamento dal normale andamento di una persona, ma non ha idea se quel cambiamento è dettato dalla paura o dall’eccitazione, se è dovuto dall’angoscia o da una gioia incontenibile.

Ha sempre definito i sentimenti come un errore umano, una distrazione, il vero punto debole del genere umano. Eppure per me è così evidente che i sentimenti guidano molte sue azioni. Ho in mente ancora quel dialogo tra Mrs. Hudson e Mycroft, quella sera, quando stavo rischiando di perderlo sul serio...

 
«Lo sa cosa preoccupa Sherlock? È davvero semplicissimo ed evidente a chiunque.» La signora Hudson ha dimostrato più volte di essere più intelligente dei fratelli Holmes su determinati argomenti.

«Conosco i suoi pensieri meglio di ogni altro essere umano. Per favore, signora Hudson... » aveva risposto Mycroft seccato.

Mrs. Hudson aveva riso di cuore. «Non c’entrano i pensieri. Non per Sherlock!»

«Ma certo che sì.»
               
«No, no è più emotivo, vero?» disse, osservandomi e cercando di tirarmi in mezzo al discorso.

Io conoscevo meglio di chiunque altro Sherlock, sapevo perfettamente cosa volesse dire. Forse annuii, ma non ricordo; troppi sentimenti mi si agitavano nel cervello in quel momento, e molti altri mi avrebbero colpito dopo poco, ma ancora non potevo saperlo.

La donna continuò la sua arringa: «Un caso irrisolto? Spara alla parete. Bum! Bum! Colazione non pronta? Colpo di karate al frigo. Domande senza risposte? Beh, che cosa fa con le questioni in sospeso, John, ogni volta?»

«Le trafigge,» risposi meccanicamente con un sorriso. Mi pareva di vederlo di fronte a me mentre infilzava qualche biglietto o ritaglio di giornale proprio su quella mensola. Martha sembrò soddisfatta della mia risposta.

«Ogni volta che lui non trova una risposta... bang lì sopra! Glielo dico sempre che se fosse un bravo detective io non dovrei cambiare la mensola.»...
 

 ...Accarezzo la superficie della mensola in questione, quella del caminetto. Alla fine Mrs. Hudson non l’ha mai cambiata. I solchi di quando Sherlock ci ha infilzato sopra qualcosa sono tantissimi e li sento tutti sotto i polpastrelli. Sorrido ogni volta che ne incontro uno.

«In vena di ricordi?» Sobbalzo leggermente, preso alla sprovvista. Come al solito Sherlock è un dannato gatto che si muove silenzioso per la casa, non preannunciando mai la sua presenza con un qualsivoglia rumore.

«In questa casa è davvero possibile soffermarsi su qualcosa senza essere invaso da ricordi?»

«John, come sai ho sempre sostenuto che i ricordi, se non utilizzati per uno scopo razionale, sono solo una perdita di tempo, un’inutile sentimentalismo dovuto alla debolezza umana chiamata emozione di cui io mi sono sempre vantato di essere esente.»

Scuoto la testa, perché questo è davvero un tipico discorso alla Sherlock. Gliel’ho sentito fare, con parole simili, molto spesso nell’arco degli anni che ho passato con lui.

«Tutto era così semplice e lineare prima che ti permettessi di costringermi a provarle... Con te al mio fianco ho dovuto modificare le mie certezze più radicate.»

«Semplice e lineare, eh? Ti manca quel modo di essere?»

«John, suvvia, non abbassare il tuo quoziente intellettivo. Era semplice e lineare prima, ma anche terribilmente noioso. Lo sai, non permetto ai sentimentalismi di impedire alla razionalità di venir ascoltata. E diciamoci la verità: per me la maggior parte delle emozioni rimane un mistero. Ma tu mi hai fatto vedere la miriade di sfumature che esistono nelle relazioni umane, quando io al massimo riuscivo a intravedere un grigio accennato tra il bianco e il nero. Hai riempito la mia vita di una miriade di colori. Prenditi le tue responsabilità, ora! Devi guidarmi in questo labirinto, ma con te so che non potrò mai perdermi.»

«Signor Holmes, le hanno mai detto che è molto intelligente?» domando, intrecciando la sua grande mano con la mia.

«Giusto un paio di volte, ma nessuno lo dice bene come il mio blogger.» Solleva le nostre mani unite fino alle labbra per depositarvi un bacio.

Rimango a osservare le nostre mani unite con un sorriso ebete prima di rivolgergli la parola. «Hai deciso cosa portare?» chiedo. Questo è un viaggio importante per noi, forse il primo che facciamo non a causa di un caso. Per me solo l’idea è terrificante, ma non è il caso di dirglielo.

«Sei sicuro di voler andare?» mi chiede, scrutandomi intensamente alla ricerca di un qualsiasi indizio che possa fargli capire cosa mi passa per la testa.

«Cos’è, il grande Sherlock Holmes ha paura di affrontare la mia famiglia?» gli rispondo, cercando di scherzarci su per alleggerire la tensione creatasi tra noi.

«Io non ho paura di niente, è solo che non so se tu sei davvero sicuro di... questo» Solleva le nostre mani intrecciate, «da voler mettere in mezzo la tua famiglia.» Mi osserva aspettando una mi risposta. Sospiro sorridendogli dolcemente. La mia mano ancora saldamente nella sua, l’altra la sollevo per accarezzargli il viso.

«Questo è l’unica cosa nella mia vita di cui sono sicuro,» gli dico, stando ben attento a incatenare i miei occhi ai suoi. Probabilmente il silenzio si sarebbe tramutato in un bacio se non fosse per la nostra padrona di casa e il suo tempismo perfetto.

«Tutto molto romantico, signori miei, tutto molto romantico, ma un’altra cosa sicura se non vi sbrigate è che perderete il treno. Per quanto Sherlock abbia molte persone debitrici di un favore, molto probabilmente anche tra i servizi ferroviari, non credo proprio che vi aspetteranno per partire.»

Alle sue parole sobbalziamo entrambi. «Signora Hudson...» le dico portandomi una mano al cuore. Se non mi fa venire un infarto Sherlock lo farà questa donna.

«Beh? Cosa c’è? Se non vi chiamo io, va a finire che state occhi negli occhi per ore e addio!»

«Portiamo giù i borsoni. Può chiamare un taxi?» le domanda Sherlock.

«Già fatto, ovviamente. Sarà qui a minuti.»

Dopo aver portato da basso i borsoni. prendo Rosie in braccio e lei mi si accoccola contro.

«Piccina, i tuoi papà devono andare, ora, e staranno via per qualche giorno. Tu fai la brava con Mrs. Hudson e con zio Mycroft e zio Greg.»
Ovviamente non può capire molto di quello che le dico, ma non importa, non posso partire senza averle assicurato che torneremo presto.

Lei si raggomitola addosso come fa sempre e osservo Sherlock guardarci con tanto di quell’amore negli occhi che dovevo essere cieco per non vederlo prima.

«Signora Hudson, è sicura che non sia un problema...»

«Sciocchezze!» mi interrompe lei. «Io e la bimba ci divertiremo un mondo. E poi l’hai detto anche tu: appena finirà il suo turno, il caro ispettore Lestrade verrà di corsa,» dice, alzando gli occhi al cielo e poi indicando Sherlock. «E suo fratello sarà qui anche prima. Tua figlia li comanda a bacchetta, non essere preoccupato per lei, sono loro due a doverti fare pena.»

Ridacchiamo tutti e tre perché in effetti la mia Rosie ha un caratterino tutto suo, e siamo tutti ai suoi ordini, soprattutto i suoi due zii preferiti.
 

***
 

Un po’ d’agitazione comincia a venirmi dopo aver sistemato i borsoni al loro posto ed esserci sistemati sui sedili del treno. Come detto a Sherlock, non è agitazione per l’insicurezza del nostro rapporto – è davvero l’unica certezza che ho –, ma non rivedo la mia famiglia da talmente tanto tempo che ormai li sento estranei.

So già come la cosa verrà presa da mio padre – quello sguardo di rassegnazione, come se fossi una continua delusione –; oramai lo conosco bene. Immagino che anche per mia madre sarà l’ennesimo boccone amaro da mandar giù. Per mia sorella, invece... Oddio, non so più cosa pensa mia sorella, ormai. Spero solo che abbia smesso di bere, o almeno che si sia data una calmata.

Detta così, in effetti, non si capisce perché ho deciso di intraprendere questo viaggio. Forse volevo solo che le cose tra me e lui fossero chiare per tutti. Oramai la sua famiglia lo sa, la loro reazione alla notizia non è stata nulla di quello che potevo immaginarmi, un semplice: «Ma era evidente, davvero! Io ero sicura che foste una coppia dalla prima volta in cui vi ho incontrati! Mi chiedevo solo perché ci mettevate tanto a dircelo.
Comunque, Sherlock, era ora che trovassi qualcuno che ti stesse vicino. E tu, John caro, vuoi un’altra fetta di dolce?»
Ed è finita lì. Ma il fatto che i miei ignorino l’unica persona che mi abbia mai reso felice, no, questo non posso accettarlo.

Quando mi sono reso conto che era una cosa che non potevo accettare, mi sono anche accorto che invece il fatto che i miei non fossero venuti al mio matrimonio con Mary, e che non l’avessero mai conosciuta, non mi aveva mai turbato. Mi avevano mandato un biglietto alla nascita di Rosy, e forse un telegramma dopo la morte di Mary, ma non sono sicuro su questo punto. Non ero molto in me in quel periodo.

Eppure, la sola idea che Sherlock non esistesse per loro, se non come mio coinquilino, doveva finire.

Inoltre, vorrei davvero che Sherlock vedesse qualcosa del mondo in cui sono cresciuto prima di trasferirmi a Londra. Vorrei che vedesse il mare che amo tanto e le mie scogliere, bianche e quasi magiche.

E poi... Okay... In realtà spero che la mia famiglia mi sorprenda. Non dico che mi aspetto che facciano i salti di gioia, ma che almeno non mi costringano a non averci più a che fare definitivamente.

Mi rendo conto che il paesaggio intorno a noi è cambiato solo quando la voce bassa di Sherlock raggiunge il mio orecchio: «Io non disdegno minimamente un bel viaggio in silenzio, John, ma il fatto che tu te ne stia zitto e buono da più di un’ora inizia a innervosirmi.»

«Un’ora? Stai scherzando? Siamo appena saliti!» Devo avere un’espressione sconvolta perché mi si avvicina, i nostri nasi quasi si sfiorano e i suoi occhi ipnotici mi immobilizzano. Il mio cuore fa un bel tuffo carpiato con avvitamento come ogni volta che si avvicina tanto a me. Le sue lunghe dita mi sfiorano la fronte.

«Eppure non sembri caldo. Non è che stai covando l’influenza?»

«Sherlock, non giocare al dottore. È il mio campo, quello.»

«Sì, e te la cavi molto bene, soprattutto la notte, dottore.»

Lui ha sempre la capacità di farmi rimanere senza parole. Questa volta almeno boccheggio come un pesce rosso fuori dall’acqua per un motivo chiaro e cristallino. «Mio Dio, Sherlock! Prima o poi non mi tratterrò...»

«Non capisco perché ti ostini a trattenerti. Io non ho mai detto di essere contrario a certe rivendicazioni. Ti appartengo, mi appartieni, perché dunque dovremo preoccuparci di trattenerci? Siamo uguali alle altre coppie. Ti sembra che loro si trattengono?» mi dice, indicando una coppietta seduta qualche posto davanti al nostro che è un intreccio di braccia e gambe. «Non amo il contatto con la gente, è vero, ma tu non sei la gente.
Tu sei John, il mio John.» E per rimarcare la cosa intreccia le sue dita con le mie.

Ho scoperto che è una cosa che ama fare. Normalmente cerchiamo di mantenere un profilo basso quando siamo in giro. Soprattutto se lavoriamo a un caso. Questo non perché per Greg ci sarebbero problemi, anzi. Quando ci ha visto insieme per la prima volta dopo che avevamo trovato il coraggio di confessare i nostri sentimenti e avevamo notato quanto stupidi eravamo stati a perdere tutto quel tempo, ci ha riservato un sorriso felice. Ha capito - come non lo so, visto che non ci guardavamo neanche io e Sherlock - cosa fosse successo. Ricordo la sua mano sulla spalla, e quel: «Finalmente, Doc. Sono felice per voi.» Poi aveva ripreso il suo lavoro illustrandoci il crimine che era avvenuto.

Comunque, anche se evitiamo effusioni in pubblico capita che infili la mano nella tasca della mia giacca mentre camminiamo vicini e prenda la mia tra le sue.

Mi domando solo ora se non si trattenga perché ha paura che mi possa dare fastidio. Non voglio che lo pensi, non voglio proprio. Forse anche per questo stringo forte la sua mano e la porto alla mia bocca, sfiorandola con le labbra. Okay, non sto praticando una visita otorinolaringoiatra come i due davanti a noi, ma non lo farei neanche se fosse una donna; non così, almeno.

«John, mi sembri davvero nervoso. Non è il mio campo, lo so. Ma a voler essere razionali, se tu fossi un sospettato da tenere d’occhio, crederei che stessi nascondendo qualcosa, tanto sei agitato.»

«Non torno da troppo tempo. E non voglio che ti trattino male. Ma volevo che sapessero, voglio che sappiano chi sei per me. E poi, volevo farti vedere una parte di me che non hai mai visto.»

«Credi che possa rimanere male per il modo in cui mi tratteranno?»

«Diciamo che non credo che la cosa verrà presa benissimo.»

«Ma tua sorella non è lesbica, scusa? Hanno accettato lei, perché non dovrebbero accettare te?»

«Accettare è un parolone. A malapena tollerato, credo. Del resto, mia sorella è un alcolista. Accettare il suo orientamento sessuale è stato più facile per loro di sapere della sua dipendenza.»

«Non mi hai mai raccontato niente della tua vita prima del nostro incontro.»

«Vita... Non c’è molto da raccontare. Ho semplicemente fatto sempre quello che andava fatto.»

«Tu devi sempre essere un enigma per me, eh, John?»

«Io? Un enigma? Ma se mi hai sempre letto meglio di un libro aperto!»

«Nelle cose evidenti? Certo! Come ti ho detto un sacco di volte, quello che faccio io, con un po’ di pratica, potrebbe farlo chiunque. Se solo la gente osservasse davvero.» Il mio sguardo dev’essere parecchio eloquente, perché aggiunge: «È vero, forse non chiunque, e non come faccio io, ma almeno in parte...»

«No! Sherlock, no. Nessuno, nessuno può fare quello che fai tu, come lo fai tu.»

«Pensi sempre troppo bene di me, John. Mycroft, per quanto mi dia fastidio ammetterlo, non se la cava male.»

«Mycroft ha il suo metodo. E non nego sia molto bravo – è inquietante quanto siate intelligenti in famiglia –  ma non è te. Non lavora come te.» Mi volto verso il finestrino. Il paesaggio mi porta indietro di anni. Ma per la prima volta tornare non è “tornare a casa”, ma è “tornare dai miei genitori”, da mia sorella, alle mie radici. Casa è Sherlock, Famiglia sono Sherlock e Rosie. Sono più famiglia Mycroft, Greg e la signora Hudson che i miei genitori. Ma la cosa non mi provoca dolore o malinconia. È un semplice dato di fatto, come direbbe Sherlock. Del resto, la mia vita a Londra con tutti loro ha portato un senso dove, dopo la guerra, c’era solo confusione, paura, rancore e quella voglia di addormentarmi per smettere di provare quelle emozioni dopo che anche l’alcool non era più sufficiente.

Scesi dal treno, riesco a riconoscere l’aria della mia città. È strano, ma credo che tutte le città abbiano un profumo tutto loro. È qualcosa che riconosci appena vi ritorni. Dover sa di mare e sabbia, profuma di biscotti appena sfornati e pesce al forno, di erba lasciata libera di crescere sulla costa, campi arati e legna bruciata. Avverto la presenza sicura di Sherlock accanto a me.

«Mettiamo prima giù i borsoni al B&B o andiamo direttamente dai tuoi?»

«Preferirei andare prima da loro, se non sei troppo stanco.»

«Via il dente via il dolore?» mi domanda sghignazzando.

«Più o meno. Sono un codardo, eh?» domando mesto.

«John Hamish Watson, non dire assurdità!» mi dice con un tono di voce terribilmente serio.

Prendiamo un taxi che ci porta alla grande casa sulla costa che tanto ricordo. La strada diventa presto di terra battuta, l’erba alta si lascia dondolare delicatamente dalla brezza che arriva dal mare e poi loro. Le mie scogliere. Le mie bianche scogliere fatte di polvere di stelle.

Paghiamo la corsa e scendiamo dal taxi. Faccio un bel respiro assaporando il profumo che per anni ho associato a “casa”.

«Benvenuto nel mio mondo, Sherlock.» Sorrido allungando il braccio in direzione del paesaggio con il quale mi svegliavo tutti i giorni. «Nella parte bella del mio mondo,» aggiungo.

Sherlock mi osserva. Cerca di capire cosa mi passi per la testa, ma è difficile. Non lo so neanche io cosa mi stia frullando nel cervello. Troppi ricordi si mescolano nella mia scatola cranica. Amo questo posto e lo odio con tutto il cuore. Contemporaneamente.

I pochi metri fino alla porta di casa laccata di rosso sembrano eterni. Busso e pochi istanti dopo la porta viene aperta. Davanti a me trovo mia madre. I capelli una volta castani ora hanno al loro interno una marea di fili argentati e c’è qualche ruga in più sulla pelle lattea. Gli occhi blu, però, sono gli stessi di sempre. «John, tesoro, sei tornato davvero.» Le sue braccia esili mi avvolgono. È minuta, la mia mamma. Già a sedici anni la sollevavo come fosse una piuma. Quando si stacca, dice: «Ma che sciocca sentimentale... Entrate, sarete stanchi per il viaggio.»

«Lui è Sherlock, mamma.»

«Oh, devi, scusarmi, non vedo mio figlio da talmente tanto tempo che mi sono scordata le buone maniere.»

«Non si preoccupi, John dice sempre che io non le ho mai possedute.» Mi scappa una risata sia per quello che ha detto Sherlock – cosa del tutto vera, tra le altre cose – sia per l’espressione di mamma. La vedo indecisa sul da farsi, non capisce se è o meno una battuta, ma si riprende subito, voltandosi verso di me con un sorriso.

«Non siete neanche passati al B&B per lasciare le borse,» nota.

«Abbiamo preferito venire subito.»

Entriamo. Il profumo delle rose coltivate da mamma invade le mie narici. Sento la porta chiudersi dietro di me. Il calore di Sherlock al mio fianco.

«Certo, certo. Ma lo sai che se volete potevamo sistemarvi nella tua vecchia stanza.»

«Sì, lo so mamma, è che...»

«Oramai sei un uomo fatto e finito e non vuoi vivere con mamma e papà anche se solo per poche notti, lo so.»

«John non è mica come me.» Riconosco la voce di mia sorella. Sollevo lo sguardo e la vedo. I capelli castani legati in una coda disordinata, un maglione troppo grande per lei, gli occhi castani di papà.

«Harriett, la tua situazione è del tutto differente.»

«Già, sono un alcolista, lesbica e divorziata. In effetti sono molto diversa.»

«Sei sempre melodrammatica, Harry,» le dico con un sorriso.

«Già, ma a te piaccio così.» Un abbraccio veloce. Per il nostro rapporto conflittuale in realtà è un evento anche solo che ci sia stato, seppur breve. Non ce ne siamo scambiati tanti in vita nostra, almeno non da quando papà è tornato dall’ultima missione e tutto è cambiato.

«Papà?» chiedo poi.

«Nel suo studio. Appoggiate i borsoni e le giacche qui, per ora,» risponde mamma.

Facciamo come ci dice e mi dirigo verso lo studio di papà. Le porte di legno scorrevoli che da piccolo erano il mio confine. Non si poteva entrare nello studio, mai, per nessuna ragione. Se quelle porte erano chiuse, e anche le rare volte che erano aperte, erano comunque invalicabili se non era papà a chiamarti. E se ti chiamava nello studio non era quasi mai una bella cosa.

Busso. Non aprirei queste porte senza farlo neanche se stesse andando a fuoco la casa.

«Entra,» mi giunge alle orecchie, attutita dalla porta, la voce autoritaria di papà, facendomi irrigidire impercettibilmente. Ho sempre l’impressione di essere ancora sotto le armi con lui.

Faccio un sospiro, mi volto verso Sherlock cercando la forza in quegli occhi che mai mi abbandonano. Uno sguardo, un lieve sorriso. È tutto quello di cui avevo bisogno. Raddrizzo la schiena  e apro le porte scorrevoli. Questa stanza è identica a quando ero piccolo. Le librerie in legno strapiene di grossi volumi, la scrivania enorme alla quale è seduto mio padre. La vetrata che dà sulle scogliere.

«John, finalmente ti sei degnato a tornare a casa.» La voce sicura di mio padre. I capelli biondi oramai sono del tutto grigi, i suoi occhi marroni sono sempre freddi – così diversi da come erano quando ero un bambino, prima del suo ritorno –, e la sua postura è rigida come se fossimo ancora nell’esercito. Devo trattenermi, come ogni volta, di fargli il saluto militare.

«Londra non è così lontana, sarei stato felice di ospitarvi.» Non è del tutto vero, anche se vederli faccia a faccia con Mrs. Hudson mi sarebbe piaciuto.

«Sai che non amo viaggiare,» è la sua lapidaria risposta.

Faccio un sospiro. La mano di Sherlock sulla mia schiena mi tranquillizza all’istante. «Come stai, papà?»

«Bene.» Sempre di troppe parole, mio padre, ma ci sono abituato.

«Lui è Sherlock...» Cerco di dare spunti di conversazione ma con lui è sempre così difficile.

«Sì sì, immaginavo. Il consulente investigativo,» sputa con disprezzo scacciando con la mano mosche invisibili. «Quando ti deciderai ad avere un lavoro vero e a diventare un adulto responsabile, John?»

Ma bene Si comincia subito! Poi uno si domanda per quale motivo non ho più avuto a che fare con lui. «Io ho un lavoro vero, papà.» Cerco di mantenere la calma, anche se non è facile. Mi conosco abbastanza bene da sapere che sta per svanire come una bolla di sapone nell’aria.

«Non sei più un militare, non sei più neanche un dottore, giochi a fare il detective con il tuo amico. Non mi pare vi comportiate come delle persone adulte. Sei un padre, John. Dovresti essere più responsabile. Che vita credi di dare a tua figlia?»

Non ha aspettato neanche un minuto prima di iniziare a criticarmi per le mie scelte. Neanche un fottutissimo minuto. Tutte le accuse, tutto l’astio della sua voce, tutto mi fa scattare come una molla. «Ho smesso con il lavoro di medico per starle vicino. Sherlock è il miglior detective che possa esistere e lavorare con lui è un onore. E non sono più nell’esercito perché mi hanno sparato, papà, non so se te lo ricordi. Sono stato catturato e sono stato torturato per due settimane. Due settimane, tre giorni e quindici ore, se vogliamo essere precisi. Forse quella è stata l’unica volta in cui sei stato orgoglioso di me. O forse no. Come mi hai detto più volte: se fossi stato davvero bravo, non mi avrebbero catturato. Perché niente è mai abbastanza per te, vero?» Sento quasi l’affanno tanto è difficile per me anche solo rivangare certi ricordi. La mano di Sherlock, che è sempre rimasta attaccata alla mia schiena, si irrigidisce. Non volevo che lo venisse a sapere così. Volevo parlargli, con calma. Ma oramai dovrei sapere che quello che voglio non è sempre quello che ottengo.

«E io che pensavo che prima di vedere i fuochi d’artificio avremmo dovuto aspettare almeno la cena. Sherlock. non so a cosa sei abituato, ma questa è la normalità nella nostra famiglia perfetta.» Harry, rimasta appoggiata allo stipite della porta dietro di noi, entra nella stanza. Lei non ha mai avuto problemi a rispondere per le rime a nostro padre. L’ho sempre invidiata per questo. «Adesso, per favore, non dite altro se non qualcosa di gentile.» Poi, rivolgendosi direttamente a nostro padre, continua: «Se John non si ferma neanche per cena, la mamma non te lo perdonerà, lo sai.» Prende sottobraccio sia me che Sherlock e ci trascina verso le medaglie che papà ha incorniciato. «Guarda un po’, John, quel vecchio brontolone le lucida tutte le settimane.» Indica una cornice nuova.

Le osservo, sono le mie. I miei gradi, le medaglie prese sul campo. Quando sono tornato non le ho più volute vedere. Ho lasciato qui tutto, dalla mia uniforme alle medaglie.

«Lo so, John, non è il modo normale di dimostrare il proprio affetto, ma dovresti esserci abituato con papà. Lo sai com’è fatto.» Harry ci lascia e si avvicina a nostro padre. «Andiamo in cucina, devi scegliere il vino. Lo farei io ma, sai... Mamma non vuole.» Il fatto che riesca a scherzare sulla sua situazione mi fa ben sperare. Tutte le volte in cui aveva provato a rimanere sobria, manteneva comunque l’espressione di chi è convinta che tutti stiano esagerando, di chi non ha nessun problema se non persone vicine troppo insistenti.

«Non mi hai mai detto che ti hanno fatto prigioniero.» La voce di Sherlock è quasi un sussurro. Mi volto verso di lui e lo vedo osservare le medaglie scintillanti prima di guardarmi.

«Non volevo nascondertelo, Sherlock, è solo che...» È così difficile trovare le parole adatte.

«Non mi devi dare spiegazioni. So che me ne avresti parlato, prima o dopo. Il fatto che tu mi abbia portato qui è la prova che non vuoi nascondermi nulla.»

Spero davvero che creda a queste parole. Perché è vero, qui vedrà me nella parte positiva e in quella negativa. «Non vedrai la versione migliore di me in questi giorni, Sherlock.»

«Sei tu John, il mio John. Niente di quello che potrò vedere cambierà questo.» Le sue dita accarezzano il mio viso. Mi sporgo, le mie labbra sfiorano le sue per un istante. Non mi importa di essere a casa dei miei genitori, non mi importa che possano venderci. Sherlock non merita niente di meno che tutto il mio amore.

«Andiamo, o ci verranno a cercare,» gli dico. Mi sorride e mi segue silenzioso in sala.

Dopo il primo scambio di battute al vetriolo, la serata scorre tranquilla. Sembriamo quasi una famiglia come tutte le altre, o comunque qualcosa che le si avvicina. Mio padre non parla molto, ma ci pensano mia madre e mia sorella ad animare la discussione.

Loro e Sherlock.

Sherlock che anima una discussione, non pavoneggiandosi per dimostrare l’attendibilità delle sue tesi ma per un semplice dialogo in famiglia. Devo ammettere che questa cosa che mi fa ridere al solo pensiero.

«Quindi hai davvero lasciato una testa in frigo per giorni?» domanda ad un certo punto mia sorella.

«Solo uno, poi John si è lamentato,» dice, come se fossi io quello strano.

«E gli occhi nel tè?» chiede mia madre.

«Un esperimento sulla conservazione della cornea in liquidi differenti.» La voce sicura, tranquilla, come se parlasse della cosa più normale del mondo.

«Certo che sai come divertirti, Sherlock. I miei studenti non si fanno mai tutte le domande che ti fai tu,» osserva mia madre.

«I tuoi studenti non devono risolvere casi d’omicidio,» le faccio notare.

«Quando studiavi medicina, mi riempivi anche tu di domande simili, John. Era divertente vedere quanto ti impegnavi e come non ti fermavi alla prima risposta.»

«John mi ha detto che la passione per la medicina l’ha ereditata da lei,» si unisce Sherlock.

«Sono stata una delle prime chirurghe donna. Quando mi sono iscritta a medicina eravamo solo in tre. Le mie compagne sono entrambe diventate ginecologhe. Io volevo qualcosa di più. Oh, non fraintendere, non che far nascere bambini non sia una cosa importate, lo è, è vitale. Ma ero convinta che quello non era il mio campo.» Gli occhi di mamma si illuminano sempre quando parla del suo lavoro come chirurga.

«Sembra che amasse il suo lavoro,» osserva Sherlock.

«Oh, sì. Ora insegno a giovani menti. Non è la stessa cosa, ma è importante anche questo.» So che mamma preferirebbe aver continuato a stare in sala operatoria, ma credo che dopo il mio arruolamento si sia sentita in dovere di stare più a casa. «Ma dimmi, Sherlock, non è da tutti ospitare un amico con una figlia piccola a tempo indeterminato. Sei molto generoso.»

«No, per niente. Sono molto egoista. John e Rosie sono parte della mia famiglia.» Sotto il tavolo la mia mano corre a stringere la sua.

«Che bello sentire una cosa del genere. Del resto gli amici sono la famiglia che uno si crea,» dice tutta allegra mia madre.

«Che idiozia! La famiglia è una cosa seria. Gli amici sono amici, e a volte portano sulla brutta strada, invece di aiutare. La sua famiglia era con la sua defunta moglie e la figlia. È meglio mantenere le cose separate.» Immagino sia inutile dire da chi viene una frase simile, giusto?

È possibile che l’uomo che quando ero bambino vedevo come un eroe, sia diventato questo ammasso di rancore?

«Sherlock non è un mio amico, mamma.» Il silenzio gela la stanza mentre mi rivolgo direttamente a lei, ignorando volutamente mio padre. Mia sorella si immobilizza con la forchetta a un millimetro dalla bocca aperta.

«Non credo di aver capito. Non è tuo amico?» Mia madre è confusa. Come darle torto.

«No, cioè, non è solo un amico,» cerco di spiegarmi.

«Oh, Cristo Santo!» La finezza di mia sorella mi farebbe ridere se non fosse che ci troviamo in un momento cruciale come questo.

«John, cosa stai cercando di dirci?» La voce di mio padre è strozzata, come se in cuor suo già sapesse.

«Sherlock è il mio compagno, è la mia vita, è l’unico motivo se ho superato quell’inferno di cui dovrei essere orgoglioso.» Gli occhi fissi in quelli di mio padre, con disprezzo verso di lui e al contempo orgoglio verso quello che io e Sherlock abbiamo costruito insieme.

Il silenzio dura per non so quanto tempo. Il ticchettio della pendola è l’unico rumore che riesco a percepire. Persino il mare sembra silenzioso.

«Credo sia meglio se tu e il tuo amico usciate da questa casa.» La voce di mio padre è calma, ma gelida come poche volte l’ho sentita.

«Sì, lo credo anche io,» concordo. «Staremo in città per tre giorni. Se volete, sapete dove trovarci. Se fra tre giorni non avrò vostre notizie, ce ne torneremo a Londra.» Ci alziamo. «Se succederà, non credo avremo più motivo di incontrarci.» Sherlock non ha aperto bocca, prendiamo le giacche e i borsoni e usciamo dalla casa. Un vento fresco mi colpisce. Faccio un bel respiro e mi sento più leggero.

«Tutto bene?» mi chiede preoccupato.

«Sì, mai stato meglio. Non respiro davvero da troppo tempo. Scusa se ho detto tutto così, senza chiederti niente, ma...»

«Non chiedermi scusa. Sei stato perfetto.»

Chiamiamo un taxi mentre passeggiamo allontanandoci dalla villetta, che arriva poco dopo. Arriviamo al B&B e saliamo in camera. Sono davvero felice di aver detto tutto; ma nello stesso tempo quel silenzio, quell’aria pesante, quel modo di reagire, mi hanno ferito e mi sento senza forze.

Le mani leggere di Sherlock mi tolgono la giacca. Lo lascio fare. A ogni indumento che mi toglie, il mio cuore diventa più leggero. Mi bacia prima di spingermi sul letto. Lo osservo mentre nel buio si spoglia davanti a me. Gattona sopra di me, le sue labbra si fondono con le mie. Lo stringo a me. Ed è solo pelle contro pelle, sospiri su sospiri.

«Sherlock...»

«Meriti un premio, dottore, per la migliore dichiarazione d’amore di tutti i tempi.»

«Un premio? E cosa hai in mente?»

«Beh,» sussurra, mentre le dita leggere accarezzano il mio torace fino ad arrivare tra le mie gambe. «Un’idea l’avrei se mi lasci fare.»

«Se la tua idea ha a che fare con il percorso della tua mano, fai tutto quello che vuoi.»

Sorride e alla luce della luna è ancora più sexy del solito. Scende su di me, la sua bocca sulla mia, poi ancora più giù. La lingua lambisce il lobo, il collo, gioca con il mio capezzolo e continua a scendere mentre il mio battito cardiaco aumenta in maniera esponenziale.

«Sherl...» Non riesco a finire neanche di pronunciare il suo nome mentre le sue labbra si posano sul mio membro teso. Stringo le sbarre di ferro della testiera del letto per sorreggermi, tanto è intensa la sensazione che sto provando.

E mi godo il mio premio.



Continua

Note: ricordatevi sempre che io AMO John, in questa storia dovete tenerlo sempre ben a mente LOL.
Forse Sherlock è un po' più dolce del dovuto, ma davvero John ne ha bisogno, parecchio bisogno.
E nulla ragazze a settimana prossima per il secondo capitolo!

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Capitolo 2
*** cap 2. ***


Eccoci per il secondo capitolo. Spero che anche questo sia di vostro gradimento, ricordate sempre IO AMO JOHN! Meglio ribadirlo qui.




Io&Sherlock



Capitolo 2


 
Quando apro gli occhi mi accorgo che l’alba si sta avvicinando. Sherlock dorme avvinghiato a me come al solito e non posso non sorridere pensando a come questa cosa mi renda felice. Essere amato da lui è un premio che non pensavo di meritare. Se penso a quanto dolore gli ho provocato, mi sento uno schifo. Non merito l’amore di una persona pura come lui.

«John, smettila di arrovellarti il cervello.» La voce strascinata e mezza addormentata di Sherlock mi fa sobbalzare leggermente.

«Ma non stavi dormendo?»

«Lo sai che sono molto sensibile ai pensieri, e so quando cominci a pesare a cose stupide e senza senso. Me ne accorgo.»

«Cos’è, senti le mie celluline grigie lavorare?»

«Dovrebbe essere una battuta?»

«E dai, Sherlock, è una citazione di Poirot. Uno dei migliori detective letterari che...»

«Quell’ovetto belga con i baffi non è il miglior detective, letterario o no.»

«Geloso di un personaggio letterario?»

«Per te io devo essere il miglior detective del mondo. Gli altri, reali o meno, non devono esistere nella tua testa; non dev’esserci spazio per loro.» Sembra terribilmente serio mentre lo afferma.

«Quindi fammi capire: sei seriamente geloso di un personaggio letterario?» sorrido.

«Se si tratta di te? Sì, sono geloso di qualsiasi cosa possa distoglierti da me.»

Il mio cuore si riempie d’orgoglio. Lo guardo intensamente e non posso non pensare al fatto che siamo entrambi nudi sotto queste coperte. L’abbraccio in cui ci stringiamo non mi permette certo di non rendermene conto. E la cosa rende tutto molto più interessante del previsto. «Beh, per ora voglio assicurarti che niente e nessuno può distogliere la mia attenzione da te.» Come potrebbe mai succedere una cosa simile?

«Perché solo “per ora”? Non vuoi rassicurarmi sul “per sempre”?» sussurra, mentre mi libero dal suo abbraccio solo per potermi spostare sopra di lui.

«No, e sai perché?»

Il suo sguardo è incatenato al mio. Scuote la testa senza parlare, mentre io gli faccio allargare le gambe per sistemarmi meglio su di lui.

«Perché adoro vederti geloso. Mi sento amato, e mi viene sempre voglia di rassicurarti,» bacio le sue labbra mentre i nostri corpi si sfiorano sotto le coperte, risvegliando le nostre eccitazioni. «...e di farlo senza le parole.»

Il suo sorriso, le sue mani che stringono la mia schiena e mi obbligano a scendere su di lui. I baci caldi e bagnati. Fare l’amore con lui, lentamente, senza alcuna fretta, baciando ogni centimetro di questo corpo. Fare l’amore con riverenza per questa anima perfetta e pura che ha scelto la mia. Fare l’amore mettendoci tutto il mio cuore nella speranza che possa sentirlo, possa capirlo, che riesca a percepire quanto il suo amore è la mia vita. Lui e Rosie sono tutto ciò che ho al mondo.
 

***
 

Quando ci risvegliamo per la seconda volta, l’alba grigia ha lasciato il posto a una giornata luminosa.

Accarezzo la sua schiena candida mentre dorme accanto a me. Le cicatrici lasciate sulla sua schiena durante i due anni in cui ha finto la sua morte mi stringono il cuore. Quanto dolore hai dovuto affrontare da solo, Sherlock? E quanto per colpa della mia idiozia?

«John, mi dispiace non averti detto niente quella volta.» Di nuovo, la voce di Sherlock mi fa sobbalzare insieme alla consapevolezza che non ho bisogno di parole, quando si tratta di lui. Riesce a leggere il mio cuore anche quando in teoria dovrebbe essere ancora immerso tra le trame del sonno.

Lui mi chiede scusa? Lui? Dopo il dolore che io gli ho provocato, lui mi sta chiedendo scusa?

«Odio queste cicatrici,» aggiunge.

«Io odio chi te le ha procurate. Un odio profondo. Se li avessi tra le mani...»

«Tu... Da quando sapevi che ero stato catturato?»

«Dalla prima volta che abbiamo fatto l’amore.»

«Ma perché non hai mai chiesto nulla?»

«Avrei voluto, avrei davvero voluto chiederti tutto...»

«Ma...?»

«Anche tu hai visto le mie cicatrici. Anche tu sapevi della mia vita come soldato. Non mi hai mai chiesto nulla, né prima, né dopo che siamo diventati una coppia.» Lo stringo nel mio abbraccio. «E non lo hai fatto perché volevi darmi la possibilità di sentirmi pronto a parlartene. Sapevi che l’avrei fatto, avevo solo bisogno di tempo. Ed è per questo che non ti ho chiesto nulla di quei due anni. Perché tu potessi condividere con me quello che ti sentivi di dirmi, rispettando però i tuoi tempi.»

«Tu pensi sempre troppo bene di me, John.»

«Io ho sempre visto il buono che hai nascosto a tutti, anche a te stesso.»

«Inutile se provo a ricordarti di tutto quello che ti ho fatto passare, vero?»                        

«Inutilissimo, fidati. Ricordo ogni minimo dettaglio.»

«E mi ami lo stesso?»

«Ti amo, ovviamente ti amo. Ma ti avviso che se fai risorgere quella suoneria, potrei fartela pagare a vita.»

La sua risata cristallina riempie la stanza. «Eri così bello, John, quando mi arrivava un messaggio, che l’ho messa per il numero di Mycroft e di Lestrade. Senza contare i messaggi che mi mandavo programmati da giorni,» confessa lui, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«Tu COSA?» strillo indignato.

Il suo sorriso si allarga. «Mi ami ancora?»

Lo blocco sotto di me. Questa posizione rischia di far degenerare le cose un’altra volta. «Ti amo, Sherlock,» gli dico. Lui mi sorride e io non posso non baciarlo. Mi allontano prima che il bacio possa diventare qualcosa di più. «Dai, Sherl, alziamoci. Oggi volevo farti vedere uno dei miei posti preferiti della città e se continuiamo così non metteremo il naso fuori da questa stanza per tutti i giorni che passeremo a Dover. Ti va di uscire?»

«Giuro che, se potessi, rimarrei in questo letto tutti i tre giorni di permanenza. Ma voglio vedere il posto in cui sei cresciuto, voglio conoscere tutto di te, John.»

«Allora è meglio che ci alziamo, ci facciamo una bella doccia e andiamo a fare colazione.»

«Insieme?»

«Cosa?»

«La doccia la facciamo insieme?»

«Sherlock, se facciamo insieme la doccia finirà come sappiamo benissimo entrambi.» Mi alzo dal letto mentre lui mi guarda fisso.

«John, ascolta il mio ragionamento: facciamo la doccia insieme e sì, la cosa finirà come sappiamo entrambi, ma se la facessimo separati appena ti vedrò uscire bagnato da quel bagno ti salterò addosso, e mi sentirei molto offeso se non lo facessi anche tu in caso contrario. Quindi dovremmo rifarci un’altra doccia. Andando insieme ridurremmo i tempi.»
Sorrido. «Devo ammettere che come ragionamento non fa una grinza.»

Lui sembra molto soddisfatto di sé. «Ovvio, è un ragionamento mio.»

Mi avvicino alla porta del bagno della stanza. «Signor detective super intelligente ti avviso, se chiudo questa porta, la doccia me la faccio da solo.»

Lo vedo saltare su dal letto, portandosi dietro il lenzuolo e rischiando di rompersi l’osso del collo per raggiungermi. Rido mentre entra in bagno e si chiude la porta dietro.

«Niente scuse, ora,» mi ammonisce.

Lo bacio. Crede davvero che possa voler scuse?
 
***

Quando usciamo dal B&B, troviamo il taxi che ci aspetta.

«Allora, dove mi porti oggi?» mi domanda Sherlock.

«Oggi vedrai una delle costruzioni romane più strabilianti. Unica nel suo genere.»

«Gli italiani non saranno d’accordo.»

«E invece sì. Ma ti spiego tutto appena saremo arrivati.» Prendo la sua mano tra le mie. Sussulta impercettibilmente, sorpreso dalla mia azione, rilassandosi però subito rispondendo alla mia stretta. Sono certo di aver intravisto il suo sorriso prima che cercasse di mascherarlo guardando fuori dal finestrino.

Arriviamo alla chiesa di St. Mary in Castro ed eccolo in tutto il suo splendore. Il Dubris Pharos: l’unico faro romano ancora in piedi.

«Unico nel suo genere davvero. L’unico sopravvissuto,» dice dopo aver letto la spiegazione da internet.

«Quando ero piccolo venivamo qui con mamma. Padre Adams era un suo caro amico, così mentre lui e mamma parlavano in chiesa, io e Harry giocavamo a fare i romani.»

«Giocavate a fare la parte degli invasori?»

«Colpa di papà. Non faceva altro che spiegarci i metodi dell’esercito romano, le tecniche di guerra, quanto fossero i più forti al mondo. E lo sai, Sherlock, i bambini giocano ai supereroi, ai pirati... A tutto ciò che è unico, grande.»

«Giocavo ad essere un pirata anche io, in effetti, ma non ero un semplice pirata: ero il re dei sette mari.»

«È evidente. Come potevi accontentarti di essere meno che il re dei sette mari?» lo prendo bonariamente in giro.

Ride mentre si guarda intorno. Il prato ci circonda, come ricordavo. Il mare danza davanti ai nostri occhi. Se li chiudo potrei avere ancora sette anni.

Poi mi ricordo di una cosa. «Chissà se...»

Sherlock mi guarda curioso. «Cosa?»

Non credo che possa davvero esserci ancora, però...

Lascio il mare alle mie spalle mentre mi avvicino al faro. Raggiungo quella che doveva essere la porta d’ingresso che ora è solo un grande buco nero, ed ecco il punto in cui il faro si fonde con la chiesa. Mi guardo intorno per essere sicuro che nessuno mi stia osservando. Sherlock è ancora più interdetto di prima. Dopo aver costatato che siamo ancora soli, inizio a scavare. Se mi vedessero non oso immaginare che cosa potrebbero pensare. Sarebbe quasi divertente vedere Greg o Mycroft e dover spiegare che non sono un pazzo che inventa scuse per togliersi dai guai. Ridacchio mentre mi aiuto con un bastone trovato lì vicino.

«John, che stai...?» Sherlock non fa in tempo a finire la domanda quando un rumore metallico giunge dal buco poco profondo che ho scavato. Lo allargo ed eccola. Le decorazioni oramai sono quasi tutte sparite lasciando la ruggine e il metallo in vista, ma è senza ombra di dubbio la vecchia scatola di biscotti, il nostro forziere.

«Giocavamo anche ai pirati, e si sa, tutti i pirati hanno un tesoro.» Lo osservo. I miei occhi devono essere molto simili a quando da bambino ho nascosto questa scatola con mia sorella. I suoi assomigliano a quelli che sicuramente doveva avere da bambino mentre giocava sulla spiaggia. Oh, Sherlock, se ci fossimo conosciuti da bambini, quanto mi sarebbe piaciuto vederti prima che iniziassi a credere che le emozioni fossero solo inutili e dannose!

«Dai, apri, voglio vedere che cosa contiene il vostro tesoro.»

Ci spostiamo dal faro e andiamo a sederci sull’erba, davanti a noi il mare, che tranquillo e azzurro borbotta sotto di noi.

«Non riesco davvero a credere di averla ritrovata. L’abbiamo seppellita...»

In un secondo ritorno a quella giornata. Il caldo dell’ultimo fine settimana estivo, io e Harry l’avevamo portata apposta perché volevamo avere anche noi un tesoro da trovare. La mamma ci aveva portati perché aveva bisogno di parlare con Padre Adams. Noi eravamo troppo piccoli per capire, ma mamma stava passando un inferno quell’estate. Papà era stato dato per disperso due settimane prima, e non si sapeva ancora niente. Le uniche notizie erano quelle di un’imboscata. I corpi di molti della sua squadra erano stati trovati nel posto di guardia che avrebbero dovuto controllare, ma di molti erano sparite ogni traccia, tra cui lui. Ovviamente di questo noi non sapevamo nulla, solo che papà era in missione come accadeva spesso.

«Tutto bene, John?»

Mi volto verso Sherlock che mi osserva. «Sì, scusa. Il passato si diverte a tornarmi in mente.»

«Perché non me lo racconti? Oltre i giochi dei pirati con tua sorella, dove ti ha portato questa scatola?»

«Al giorno in cui l’abbiamo nascosta. La mia vita fino a quel giorno è stata talmente diversa da quello che sarebbe accaduto da lì a poco, che sembra quasi la vita di qualcun altro.» Accarezzo il coperchio della scatola con il pollice, togliendo un po’ di terra. Sherlock di fianco a me sta in silenzio. Tutta la sua attenzione è su di me. «L’uomo che hai conosciuto ieri sera, Sherlock, è diversissimo dal papà con cui sono cresciuto fino ai dieci anni. Mio padre era un eroe, e io e mia sorella lo adoravamo. Era spesso via per le missioni, ma quando tornava era sempre una festa. A casa c’erano solo risate, musica e storie fantastiche.» Sposto lo sguardo dalla scatola di latta al mare, cercando la serenità necessaria per far riaffiorare i ricordi. «Quel giorno venimmo qui con mamma. Papà era disperso in non so quale zona desertica, ma a noi mamma non aveva detto nulla. Disperso non significava deceduto, significava solo che momentaneamente non si era in grado di trovarlo. Credo che mamma volesse farci rimanere più sereni possibili e volesse evitarci il dolore se non fosse stato assolutamente necessario.» Ispiro l’aria salmastra e sento la mano di Sherlock poggiarsi alla mia. Non mi volto a cercare i suoi occhi, al contrario di molte altre volte. Non mi ritengo abbastanza forte da farlo senza scoppiare a piangere. «Quel giorno, mentre io e mia sorella giocavamo tranquilli, per mamma l’inferno che aveva vissuto da un paio di settimane si sarebbe trasformato nel purgatorio in cui vive ancora.» Mi volto verso la strada ancora in terra battuta dalla quale vidi arrivare Larry. Il ricordo è tanto vivo che potrei giurare sia qui davanti a me anche ora. «Arrivò da quella parte. Era Larry, un vecchio amico di papà che noi chiamavamo zio. Era stato lasciato a casa perché nell’ultima missione era stato ferito e aveva perso l’uso del braccio destro. I medici gliel’avevano salvato, ma se ne stava immobile senza vita attaccato al corpo. “Certe cose una volta rotte non possono essere aggiustate”, mi aveva detto mamma quando gli avevo chiesto perché non riusciva più ad usarlo.» Il caro zio Larry... Correvo sempre da lui quando le cose a casa si facevano troppo pesanti. «Sembrava avesse fatto la strada di corsa da casa tanto era trafelato. Ricordo che ci chiese della mamma. Noi gli indicammo la chiesa e lui entrò di corsa. Non sapevamo cosa stesse succedendo, avevamo le mani ancora sporche di terra dopo aver seppellito il nostro tesoro. Ci guardammo, e senza dire nulla entrammo anche noi. Era come se ci sentissimo che stava succedendo qualcosa di grosso.» Ricordo ancora il freddo che ci colpì appena entrammo nell’edificio di pietra; la differenza con l’esterno era altissima. «Lo sentimmo parlare con mamma, le parole erano confuse, ma ricordo ancora la parola trovato che rimbombava tra le navate. Mamma era in piedi. Probabilmente si era alzata di scatto quando zio Larry era entrato in chiesa. Ricordo la corsa fino alla macchina dove ci aspettava sua moglie. Arrivammo a casa in poco tempo, o almeno a me sembrò poco.» È così strana la memoria. Non avevo mai pensato a quel giorno e ora tutto mi sembra così vivo, come se non avessi fatto altro in vita mia che ripensarci. «Davanti alla porta di casa c’erano due ufficiali nelle loro uniformi perfette e impeccabili. Uno era stato l’addestratore di papà, l’altro non l’avevo mai visto, doveva essere qualche ufficiale di alto grado. Sai, Sherl, quando tuo padre è nell’esercito, inizi a sudare freddo se due ufficiali in divisa vengono a bussare alla porta di casa tua.» Sento le labbra sollevarsi in un sorriso tirato. «Quella volta la notizia che ci dettero però era positiva: “L’abbiamo trovato, signora. È messo male, ma i dottori hanno detto che è fuori pericolo. Appena potrà affrontare il viaggio, tornerà a casa.” Mamma ci strinse a sé. Sembrava così felice.» Gli occhi di mamma non li scorderò mai. Brillavano come se avesse appena ricevuto il regalo di Natale più bello. «Peccato che al suo ritorno papà non era più lo stesso uomo. Niente più risate, niente più giochi, niente più corse in spiaggia o regali o feste, niente più musica. C’era solo un uomo svuotato da tutto, che passava il suo tempo a bere da solo, al buio, nel suo studio e che pretendeva silenzio e ordine.»

«Sapete cosa gli successe con esattezza?» chiede, dopo avermi ascoltato in silenzio fino a quel momento.

«Un’imboscata. Molti suoi compagni sono stati falciati sul posto; altri, come lui, sono stati portati via come prigionieri. Poi però qualcosa deve essere andato storto e hanno deciso di farli fuori tutti. Lo trovarono sotto i cadaveri dei suoi compagni. Probabilmente era svenuto. Le ferite erano estese e i guerriglieri lo ritenevano morto e non se ne sono accorti.» Sospiro.
«L’ho scoperto origliando le conversazioni di Larry e degli altri ufficiali che sono venuti a casa nostra a cercare di fare forza a mamma e spiegarle perché papà si comportava così. Qualcosa si deve essere rotto in lui in guerra e, come il braccio di zio Larry, non può più essere aggiustato.» Mi appoggio a Sherlock mentre il peso dei ricordi diventa inesorabilmente troppo. Lui mi circonda le spalle con un braccio e mi posa un bacio tra i capelli. Non so come ho fatto a stare senza di lui fino ad ora.

«Adesso però voglio vedere quale tesoro avete nascosto!» cerca di spezzare la tensione lui.

Inizio a ridere. A volte Sherlock è come un bambino!

«Sei un curiosone, lo sai?»

«Dai, dai, fammi vedere.»

Apro la scatola con fatica visto che negli anni e sotto terra e si è un po’ deformata, ma alla fine ci riesco. Ed ecco i nostri tesori. Conchiglie bianche, i vetri colorati arrotondati dall’acqua del mare, quattro soldatini, due biglie colorate, e... «John, ma è una Victoria Cross[1]

«Non ci credo, Sherlock, è una nozione che ritieni utile?» gli dico sorridendo senza però togliere gli occhi dalla medaglia.

«Perché te ne sorprendi?» mi risponde fintamente offeso.

«Forse perché ritieni inutile il sistema solare?» affermo ridendo.

«Uff! Ancora per questa storia? Comunque, cosa ci fa una Victoria Cross all’interno di un tesoro di bambini? Vale un sacco di soldi, lo sai?»

«L’aveva ricevuta nonno. Papà me l’aveva affidata prima di quell’ultima missione. Lo faceva sempre, poco prima di prendere la macchina che lo avrebbe portato con gli altri alla base. Si inginocchiava davanti a me per tenere i nostri sguardi alla stessa altezza, metteva la mano in tasca e me la porgeva dicendo: “È il pezzo più prezioso, John. La affido a te, non mi fiderei di nessun altro. Tienila al sicuro fino al mio ritorno”. Era il nostro piccolo incantesimo di protezione prima di partire, e quando tornava me la faceva mettere a posto. Quando tornò l’ultima volta non me la chiese indietro.»

«Solo quattordici medaglie sono state assegnate dopo la seconda guerra mondiale, John. Lo sai che all’asta può raggiungere...»

«Fino a duecentomila sterline, lo so. Ho fatto delle ricerche quando ero al liceo.»

«E non hai mai pensato di venire a riprenderla?»

«In realtà, dopo l’ultima missione di mio padre credo di aver deciso di dimenticarmi quello che era la mia vita prima. Faceva troppo male pensare a ciò che era evidentemente perso per sempre. Mi comportavo come se i primi dieci anni della mia vita fossero solo il ricordo di un sogno mai vissuto,» rispondo sinceramente. «Anzi, a dirti la verità non ricordavo neanche di questa scatola fino a poco fa.»

«Quanto è stato difficile per te il ritorno di tuo padre?»

«Papà non è mai tornato dalla guerra, Sherlock. A volte lo osservavo di nascosto e riuscivo a vedere la guerra nei suoi occhi. Era lì davanti a me, nitida e spietata. Il suo corpo è tornato, ma la sua anima, la sua mente, sono morte in quel deserto, sotto i corpi dei suoi compagni.»

«John, è per lui che sei diventato un soldato?»

«Volevo che fosse orgoglioso di me, speravo di vedere ancora quello sguardo che mi riservava quando ero piccolo.»

«Ha funzionato?»

«Non lo so, in realtà. Forse il fatto che abbia tenuto le mie medaglie e se ne prenda cura significa di sì. O magari sono solo un illuso. Onestamente non so cosa credere.»

«Io non credo che tu sia un illuso.»

Gli sorrido e mi volto verso il mare. Chiudo gli occhi mentre respiro l’aria salmastra che conosco tanto bene e sento la sua mano appoggiarsi alla mia prima di intrecciare le dita insieme. Rimaniamo così per un po’ di tempo. Io le lui, seduti a terra, con la scatola di latta appoggiata davanti a noi, il suo contenuto che luccica colpito dai raggi solari e le nostre mani in mezzo a noi intrecciate.

«Che ne dici se andiamo a mangiare e poi ti porto a vedere il Castello?»

«Tutto ciò che vuoi.»

Così facciamo. Troviamo un ristorantino senza troppe pretese ma carino, abbastanza vicino alla nostra destinazione, e ordino pesce al forno per entrambi. A Sherlock non importa molto cosa mangia, a parte il dolce, ma almeno mangia. La cosa è quasi miracolosa se consideriamo che i primi anni alla mia domanda su quando avesse mangiato la sua risposta standard era: “Che giorno è?”. Da quando vivo con lui lo obbligo a fare almeno un pasto decente al giorno, e da quando c’è Rosie mangiamo sempre tutti insieme, così sono certo abbia abbastanza energie per affrontare qualsiasi situazione possa capitargli. E le cose che possono capitargli sono tante e abbastanza assurde.

Dopo aver mangiato lo porto a vedere il Castello. Mi è sempre sembrato immenso. Del resto – se la mia memoria non sbaglia – è il castello più grande d’Inghilterra. La sua storia inizia forse con la conquista della Britannia nel ‘43, se non prima. I suoi tunnel sotterranei sono stati utilizzati e ampliati durante la seconda guerra mondiale. Gli faccio visitare anche quelli, o almeno quelli aperti al pubblico raccontandogli tutti gli aneddoti che quando ero piccolo papà mi ha rivelato. Ne sapeva un sacco su questo Castello. Ne sapeva un sacco su un tante cose.

Dopo la visita chiamiamo la signora Hudson per chiederle come sta andando con Rosie e ci sorprende dicendo che i suoi cari zii hanno evidentemente voluto prendere dei giorni di ferie visto che “Stanno sempre in mezzo ai piedi e che l’hanno portata al parco”.

Ci venne da ridere pensando a Mycroft in balia di una bambina e Greg che si gode di sicuro ogni istante.

La ringrazio per l’aiuto che ci sta dando tenendo la bimba in nostra assenza e la sua risposta è una risata e un: «Non essere sciocco, John!»

È quasi sera quando torniamo al B&B e dalla mia famiglia tutto tace. Una parte di me si chiede che cosa potessi davvero sperare. Sapevo che sarebbe andata così, quindi è inutile soffrirne; ma l’altra parte di me continua a guardare lo schermo del telefono sperando di vedere la notifica di un messaggio, o la chiamata, anche solo uno squillo da parte di mia sorella... Un qualcosa, insomma. E invece niente.

«Capiranno, John,» mi dice Sherlock stringendomi una spalla.

Come unica risposta gli offro un debole sorriso. Non ho la forza di parlare.

Ci siamo fatti entrambi la doccia e stiamo riposando nella nostra stanza dopo la giornata da turisti che abbiamo fatto, quando un bussare leggero alla porta ci sorprende. Mi alzo e vado ad aprire.

La proprietaria del B&B, una signora non molto alta, robusta e sempre sorridente, è davanti alla nostra porta. «Scusate il disturbo, ma c’è un signore che vorrebbe vederla,» mi dice. Sussulto leggermente. Forse mio padre ha capito? Ma scuoto la testa impercettibilmente. Non può essere così, inutile sperare.

«Scendo subito,» le dico sorridendo. Lei risponde con un timido sorriso prima di voltarsi e scendere la scala di legno.

«Credi sia lui?»

«No. L’ho sperato, ovviamente, ma so che non può essere lui.»

«Chi credi che sia?»

«Mi toccherà scendere per scoprirlo.» Lo osservo, un po’ imbarazzato a chiedergli di scendere con me. Mi sento davvero stupido, ma non trovo il coraggio di affrontare qualcosa senza di lui, in questo momento.

«Vuoi che scenda con te?» mi chiede sorridendomi. Come capisca sempre quello di cui ho bisogno non lo so, ma ci riesce sempre.

Annuisco e davvero mi sento uno scemo, ma non riesco a fare a meno della sua presenza.

Scendiamo in silenzio, la presenza calma di Sherlock dietro di me mi dà la forza necessaria per affrontare qualsiasi persona sia ad aspettarmi.

La proprietaria del B&B fa un cenno verso uno dei tavoli. Un uomo è seduto dandoci le spalle. Le grandi spalle e la posizione rigida mi fanno capire immediatamente che è, o meglio è stato, un soldato.

«Zio Larry?»

Lo vedo sussultare e voltarsi di scatto. Si alza un po’ troppo violentemente e la sedia cade sbattendo lo schienale a terra. Lui non se ne cura avvicinandosi velocemente a me e abbracciandomi di slancio con l’unico braccio in grado di muoversi. Come un padre che non vede il figlio da tanti anni. Come avrebbe fatto mio padre se fosse tornato davvero da quella missione.

«Il mio ragazzo è davvero tornato,» mi dice, mentre allenta la stretta. Si allontana e mi osserva come per accertarsi che sia davvero tutto intero. «Oramai sei un uomo fatto e finito, altro che ragazzo. Ma devi scusarmi, John. Per me rimarrai sempre quella piccola peste che si arrampicava dappertutto e riusciva a intrufolarsi ovunque, anche dove non avrebbe dovuto. Anzi: soprattutto dove non avrebbe dovuto.»

Rido ripensando a quanti guai ho combinato da ragazzino facendolo impazzire. «Stai davvero bene, zio,» gli dico.

«Oh, beh, sono un vecchio oramai, ma posso ancora sparare tanto lontano e in maniera così precisa che i ragazzini di oggi se lo sognano.»

Sorrido e la presenza di Sherlock torna a farsi sentire. La mia roccia che non si stacca mai da me. «Zio, lui è...»

«Oh, lo so, lo so. Il motivo per cui Londra ti ha fagocitato, eh?» Sorride amabilmente e non vedo niente che mi possa far intuire che sia disgustato o covi rancore nei suoi confronti. «Sherlock Holmes, giusto?» chiede direttamente al mio compagno. «Leggo il blog di John da sempre. Mi sembra quasi di conoscerti,» gli dice porgendogli la mano sinistra, mentre il braccio destro rimane inerte accanto al suo corpo. «Devi scusarmi, ma il signore qui,» dice indicando il braccio immobile, «è un po’ schizzinoso e pigro. Non collabora da anni.»

«John mi ha detto della ferita in guerra,» gli risponde Sherlock stringendogli la mano tesa.

«Già, la guerra... A me ha portato via questo, ma sono fortunato; ad altri ha portato via molto di più,» dice, osservandomi pensieroso. «Ma che ne dite di sederci? Potremmo mangiare qualcosa insieme se vi va.» Nei suoi occhi la speranza di non venir cacciato via.

Vedo Sherlock annuire e avvicinarsi al tavolo. Così raccolgo la sedia su cui era seduto poco fa e ci sediamo al tavolo. La proprietaria ci porta subito da bere e ci comunica che, se vogliamo, la cena è pronta. La ringraziamo e accettiamo volentieri.

La serata scorre abbastanza tranquilla. Devo ammettere che mi era mancato il vecchio zio, e lui non mi ha deluso. Ma del resto, lui, non l’ha mai fatto.

«Ti ha chiamato mamma?» gli domando a un certo punto. Nessuno a parte la mia famiglia sa che sono tornato e se sa di Sherlock, del nostro legame, di certo non l’ha letto nel mio blog.

«Harry voleva venire ieri sera direttamente, ma tuo padre...» ammette Larry.

«Fammi indovinare: ha dato i numeri?»

«Diciamo che non era proprio in sé.»

«Quando mai lo è.»

«John...»

«Lascia perdere, zio, non giustificarlo. Sta bene, oggi?»

«Sì, diciamo che sta bene.»

«Mamma e Harry?»

«Stanno bene. Sono forti, lo sai, e tuo padre non è mai violento con loro. Non fisicamente, almeno.»

«No, con loro non lo è mai stato, lo so. Non me ne sarei mai andato lasciandole qui da sole, altrimenti.»

Sento il corpo di Sherlock sussultare appena capisce le vere implicazioni della mia risposta.

«Mi dispiace, John, non volevo riportare alla memoria brutti ricordi.»

«Non ti preoccupare.» Almeno so che mia sorella è dalla mia parte. Certo, sarebbe stato comico se non lo fosse, ma parlando della mia famiglia sinceramente non so se mi sarei davvero sorpreso.

«Sono sicuro che rinsavirà, John. Ha bisogno di tempo. Forse non lo farà in questi giorni, ma sono certo che capirà di essersi comportato da stupido. E ti cercherà.» Lo sguardo sincero dello zio riesce a dar forza alla speranza che si stava spegnendo in me.

«Non sono famoso per avere pazienza, zio.»

«Certo, molte volte sei anche fin troppo istintivo... ma per le persone giuste,» dice osservando direttamente Sherlock. «Per le persone giuste sai essere la persona più paziente dell’universo.»

A parte lo scambio riguardante mio padre, passiamo una serata piacevole.

«Credo sia ora di tornare a casa. Promettimi che passerai a trovarci prima di partire, o mia moglie mi farà lo scalpo per non averla portata questa sera. Non vede l’ora di abbracciarti e di conoscere il tuo compagno.»

Arrossisco come un ragazzino e lui scoppia a ridere.

Dopo averlo salutato e avergli promesso che non saremmo partiti senza passare da casa sua, ritorniamo nella nostra stanza. Potremmo uscire a fare una passeggiata, è ancora abbastanza presto, ma sento il bisogno di rimanermene tranquillo, questa sera. Sherlock mi segue in silenzio senza chiedermi nulla, ma so cosa gira in quella meravigliosa testa.

Ci sdraiamo sul letto. Mi raggomitolo su un fianco mentre lui si stende accanto a me, avvolgendomi nel suo abbraccio. La mia schiena coincide con il suo petto, le sue gambe si incastrano alle mie, le sue dita intrecciano quelle della mia mano. Mi avvolge e protegge con tutto il suo essere. Non mi chiede nulla, rimane in silenzio pronto a ricevere solo quello che sono pronto a donargli. Sono certo che non avrebbe alcun problema anche se rimanessi in silenzio e basta.

Ma voglio parlare, raccontargli un’altra piccola parte della mia storia.

«Il giorno in cui è tornato, io e Harry avevamo preparato una festa.» La mia voce è bassa, ma lo sento sobbalzare appena. Immagino non si aspettasse che mi decidessi a raccontare qualcosa su mio padre. «Avevamo sistemato i fiori di carta che avevamo fatto per decorare casa, praticamente ovunque, anche in giardino. Lo facevamo sempre, dopo tutte le missioni. Di solito era una grande festa quando tornava. Superava il cancelletto del giardino, ci prendeva in braccio facendoci ridere a crepapelle e poi abbracciava mamma stretta. Mettevamo su la musica e loro due ballavano tutta la sera abbracciati, anche dopo che ci mettevano a letto.» Mi ero davvero scordato di com’era prima. Una parte di me l’aveva cancellato dopo l’ultimo ritorno. «Quella volta scese dalla macchina con le stampelle, a malapena fece un cenno di saluto a mamma ed entrando stracciò le decorazioni dicendo che non c’era niente da festeggiare. Strappò lo stereo su cui c’era il suo cd preferito e lo buttò per terra. Poi salì le scale ed entrò nella sua stanza sbattendo la porta dietro di sé. Io e Harry ci rimanemmo malissimo. Lei si mise a piangere, disperata e spaventata, quando lo stereo è schiantato al suolo. Io... Io rimasi immobile, non capivo cosa fosse successo, in cosa avevamo sbagliato.» I ricordi mi portano lontano, riesco quasi a sentire il pianto di mia sorella e il cuore che mi tamburellava terrorizzato nel petto.

«Se non te la senti di raccontare, John, non c’è fretta, lo sai. Abbiamo tutto il tempo che vuoi,» mi sussurra all’orecchio. Sento la sua agitazione come se stesse vivendo su di sé ciò che sto raccontando.

«No, Sherlock, te lo devo dire oggi o non so quando avrò la forza di parlartene.» Poi aggiungo: «Se tu vuoi.»

Lo sento stringermi un po’ più forte e sorrido pensando a quanto sono fortunato ad avere un uomo come lui accanto. Rimango in silenzio a godermi la sua presenza ancora per qualche minuto prima di ricominciare a parlare: «La prima volta che mio padre alzò le mani su di me è stato quando avevo undici anni, qualche mese dopo essere tornato.» Per un istante mi sento soffocare al pensiero di quel giorno, alla paura che ho avuto. Sherlock intanto si irrigidisce e sento che trattiene il respiro per qualche secondo, probabilmente per trattenere la furia. «Ero tornato a casa di corsa e avevo sbattuto contro delle bottiglie di birra vuote lasciate sul pavimento. Lui non sopportava i rumori dopo che era tornato. Tanto meno quelli bruschi. Era seduto sulla poltrona, quasi sprofondato e circondato da bottiglie e lattine vuote, addormentato. Il rumore lo svegliò e si alzò di soprassalto. Quando capì cos’era successo, corse come una furia verso di me incespicando nei suoi stessi piedi, e mi prese per il collo trascinandomi verso di sé. Ero rimasto immobile, terrorizzato. A malapena riuscivo a respirare, e lui mi strillava addosso. L’odore dell’alcool unito con la mancanza di ossigeno mi stordiva. Riuscii a sussurrare solamente: “Papà”, e all’improvviso lui si fermò lasciandomi andare. Caddi sul pavimento tossendo. Lui si voltò e mi disse solo di salire in camera mia e di non uscirne finché non mi avesse chiamato. Lo feci. Rimasi chiuso nella mia stanza per quattro giorni. Mamma e Harry mi portavano da mangiare, uscivo solo per andare in bagno, e cercavo di farlo quando ero certo che papà non fosse al piano di sopra. Mamma cercò anche di farmi scendere per mangiare con loro, ma io non volevo. Non se non fosse stato papà a permettermelo. Al quarto giorno, la sera, lo sentii salire pesantemente le scale, fermarsi davanti alla mia porta e dirmi di scendere per cena. Solo allora uscii. Ci misi quasi due settimane per avere il coraggio di alzare lo sguardo su di lui un’altra volta e mi accorsi che lui ci mise ancora di più a guardarmi in faccia.»

«Dev’essere stato orrendo.»

«Per niente piacevole, in effetti.»

«Grazie di avermi voluto raccontare questa cosa.»

«Ci sarebbero tante cose, ancora, ma adesso non ce la faccio.»

«Perché non mi racconti qualcosa di bello? Portami in un bel posto, John.»

Mi volto nel suo abbraccio e lo guardo fisso negli occhi. «Non esiste un posto migliore di questo.» Mi stringo nel suo abbraccio mentre lo sento sorridere sulla mia pelle.

Mi tiene stretto fino a quando il sonno non vince su di me.


Continua...


Note: Come per il primo capitolo Sherlock è forse un po' troppo dolce e lo sarà per tutto la storia ma credo che in un certo senso se sentisse che John ne ha davvero bisogno lo sarebbe davvero. E qui John ne ha proprio bisogno. A settimana prossima.
 
[1] Medaglia: la più alta onorificenza britannica assegnata per il coraggio dimostrato di fronte al nemico in battaglia.

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Capitolo 3
*** cap 3. ***


Ed eccomi anche per questo penultimo capitolo, scusate il ritardo ma tutto sotto controllo. Come sempre (spero) buona lettura! 




Io&Sherlock



Capitolo 3

 

Il risveglio tra le sue braccia mi fa iniziare la giornata nel migliore dei modi. Non so cosa avessi nella testa all’inizio per credere davvero alla stronzata del sociopatico. Sherlock potrà non essere la persona più cordiale di questo mondo, ma se si tratta delle persone a cui tiene dà tutto se stesso.

«Buongiorno, John!»

Mi volto nel suo abbraccio per guardarlo negli occhi. «’Giorno, Sherlock. Da quanto sei sveglio?» bofonchio con la voce ancora impastata dal sonno.

«Un po’, ma mi piace guardarti dormire,» rivela innocentemente.

«Ti piace guardarmi dormire?» chiedo tra l’imbarazzato e l’intenerito.

«Sì, quando stai con me gli incubi che avevi quando stavi da solo non arrivano mai,» rivela felice.

Sussulto. Sa degli incubi? «Come fai a sapere degli incubi?» chiedo un po’ nervoso.

«Sei un ex soldato, John, e io non ho mai usato la notte per dormire come gli altri esseri viventi. Anche se avevi la tua stanza al piano di sopra era impossibile non sentirti nel silenzio della notte.»

«Non me l’hai mai detto,» borbotto.

«Non volevo sembrarti troppo invadente, e poi non è più capitato da quando condividiamo lo stesso letto. Al massimo ti stringi più a me, e mi piace. Per una volta sono io quello che sostiene l’altro,» mi risponde con un sorriso dolce sulle labbra.

«Cosa dici, Sherlock? Tu mi sostieni sempre,» replico concitato. Se non fosse per lui sarei crollato appena sceso dal treno! Anzi, sarei crollato molti anni fa.

«Lo fai tu, John, ogni giorno, anche quando mi sembra di annegare in tutti i miei pensieri... So che se solo cerco il tuo sguardo tu sei lì accanto a me, e se non trovo la forza per farlo la tua mano stringe la mia spalla, la tua voce accarezza il mio orecchio e tutto torna al posto giusto. Tu mi salvi ogni giorno, e sapere di riuscirci io la notte con te, mi fa stare bene.»

«Diciamo che ci salviamo a vicenda,» gli concedo, anche se rimango convinto di essere io quello che ci guadagna di più ad averlo al mio fianco.

«In un modo o nell’altro lo abbiamo sempre fatto.»

Lo bacio. Ho bisogno di fare mie quelle labbra. Non riesco a trovare le parole giuste per dirgli quanto l’amore per lui cresca ogni giorno. Una volta avevo letto che più grande è l’amore, meno si è in grado di dirlo. Credo di aver capito solo ora quanto sia vera questa frase.

 
***
 

Scendiamo per la colazione. Dalla mia famiglia ancora nessun segno. Sospiro e prendo la mia decisione. «Sherlock, ti va se torniamo a casa?»

«Perché non gli dai ancora un po’ di tempo?»

«Perché ho paura che se aspetto ancora il mio cuore si sbriciolerà definitivamente.»

«Facciamo così: oggi andiamo a zonzo senza una meta precisa, chiami tuo zio e vediamo se domani in mattinata possiamo passare a trovarli. Dopo prendiamo il treno e torniamo a casa, che ne dici?»

«Un altro giorno?»

«Sì, solo un altro giorno. Ti prometto che non permetterò al tuo cuore di sbriciolarsi.»

Mi trovo ad annuire.

Decido di portarlo a Samphire Hoe, l’area protetta, una riserva naturale dove poter goderci le bellezze del paesaggio e pensare solo a noi. Percorriamo viottoli di terra battuta circondati da erba alta. Davanti a noi il mare, in lontananza le scogliere. Arriviamo a una spiaggia sassosa dove troviamo una zona su cui l’ombra della rupe scoscesa dietro di noi si proietta proteggendoci dai raggi solari. Sistemo una coperta che ho chiesto alla proprietaria del B&B e ci accomodiamo ispirando l’aria calma e profumata.

«Da casa la notte si vedono un sacco di stelle,» gli dico indicando la zona dove so che sorge casa dei miei, anche se da qui non si vede.

«Immagino che tu le sappia riconoscere, al contrario mio.»

«Sono stato in missione in un cazzo di deserto, Sherlock. Se fosse successo anche a te sapresti riconoscere ogni fottutissimo puntino luminoso.»

«Ma le sapevi riconoscere anche prima, vero?»

«Già. Se vuoi, questa sera ti porto in un posto dove ti sembra di essere solo al mondo. Il cielo di notte è così nero che la più minuscola stella risplende con forza.»

«Mi piacerebbe.»

«D’estate tutti passano almeno una notte fuori con il naso all’insù. Ma è l’inverno il momento in cui le stelle risplendono con la loro forza massima.»

«D’inverno però rischi di congelarti se stai fuori a guardare il cielo.»

«Oh, beh, le stelle ti fanno compagnia. Anche se hai un freddo boia, se sei in grado di riconoscerle, ti cantano le loro storie e la notte passa.»

«Sembra che tu l’abbia fatto.»

«Sai com’è stato essere il figlio di un militare tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, Sherlock?» cambio argomento sorprendendolo.

«No, John, com’è stato?»

«Uno schifo, anche se allo schifo ci avevo fatto il callo,» dico mestamente.

«Perché?»

«Perché era uno schifo? Vuoi sapere questo? Perché dopo il racconto di ieri immagino che il motivo per cui allo schifo ci avevo fatto il callo sia evidente.»

Rimane in silenzio osservandomi. Immagino quante domande affollano il suo cervello, e so quanto sia difficile non farmele, avido di conoscenza com’è.

Apprezzando la sua discrezione, decido di spiegarmi meglio: «I ragazzini della scuola erano tutti dei piccoli teppisti. Imitavano i fratelli maggiori punk e ribelli. Questo faceva sì che i i figli dei militari, dei poliziotti o di chiunque indossasse una divisa, erano le vittime che preferivano torturare.»

Ricordo le prese in giro, le spintonate, le risse in cui venivamo messi in mezzo senza che avessimo fatto niente. Ricordo il muoversi sempre in gruppo, perché gli altri lo erano sempre e se ti beccavano solo eri spacciato. Ricordo il sapore della terra e del sangue, le nocche sbucciate e il bruciore delle lacrime e dei disinfettanti quando correvo dallo zio prima di tornare a casa. Perché gli occhi di mio padre quando tornavo dopo una rissa a cui non avrei mai partecipato se avessi potuto evitarla, quegli occhi, mi mettevano paura.

Mi portava a casa lo zio, dopo che mi aveva curato le ferite, fisiche e non, meglio che poteva e rimaneva a casa con noi fino a quando era sicuro che papà non avrebbe aggiunto altra paura nei miei occhi. Lo zio non sapeva che molti di quei lividi, di quelle ferite non me li causavano quei teppistelli. Ancora non avevo trovato il coraggio di parlagli.

«Dove sei, John?»

Sobbalzo. La voce di Sherlock mi riporta sulla spiaggia mentre la mia mente fugge dalla prigionia di un passato a cui non davo ascolto da tanto tempo. «Qui, Sherlock, sono qui.»

«Il tuo corpo è qui, John. Ma la tua mente è da un’altra parte. E io non voglio che sia così lontana da me, lì dove non posso fare niente per farti stare meglio.»

Il mio Sherlock... Lo abbraccio di slancio. Non mi importa un’accidenti se c’è qualcuno in giro che possa avere da ridire.

Lui, preso alla sprovvista, rimane immobile per pochi istanti prima di risponde al mio abbraccio. Le sue braccia mi avvolgono, le sue mani mi accarezzano la schiena. Dio! Come potrei affrontare questa cosa senza di lui?

«Una sera, avevo fatto un po’ più tardi,» riprendo a raccontare con un mormorio. «Dovevo recuperare un compito che a causa dell’influenza non avevo potuto fare. Così quando mi misi in cammino per arrivare a casa, ero solo. Pedalavo sulla vecchia bicicletta un po’ troppo grande per me ma a cui mi ero abituato e pensavo solo a non arrivare tardi a casa. Avevo detto a papà del compito da recuperare e lui mi aveva “concesso” di arrivare a casa un’ora dopo il coprifuoco.» Quando vedo che fa per dire qualcosa, lo anticipo: «Sì, Sherlock, ci aveva messo degli orari a cui dovevamo attenerci rigorosamente: la sveglia la mattina, sia se c’era scuola o meno, l’orario dei pasti, quello in cui dovevamo essere a casa. Era difficile ma il dottore ci aveva spiegato che per lui rispettare degli orari precisi e rigorosi era molto importante. Dopo il trauma subito, il controllo era diventato essenziale per lui. Era l’unico modo in cui ci sapeva al sicuro. Ovviamente poco alla volta si sarebbe dovuto allentare un po’ fino a tornare ad avere una vita normale. Per il momento però dovevamo adattarci. E sinceramente, avere degli orari precisi non è che mi desse particolare fastidio. E sembrava davvero funzionare con papà. Era sempre silenzioso e nervoso, ma riusciva ad ascoltarci parlare della giornata trascorsa e a volte persino a sorridere di qualche battuta. Non beveva neanche più come prima. Non che avesse smesso, ma almeno non lo trovavamo sprofondato nella poltrona circondato da lattine e bottiglie, quasi svenuto per colpa di quello che si era scolato tutto il giorno. Ed era già una cosa bella, Sher.»

«Aveva... Lui... Insomma, ti aveva ancora colpito?» domandò lui circospetto.

«Ogni tanto capitava.» Alzai le spalle quasi indifferente, come se ciò che avevo appena detto fosse una cosa del tutto naturale.

«Perché tua madre o tuo zio non lo fermavano?»

«Perché non lo sapevano.»

«Ma i lividi?»

«Mi picchiavano spesso a scuola, Sherlock, e giocavo anche a rugby. Sarebbe stato strano se non ne avessi avuti.»

«Perché non l’hai detto a nessuno?»

«Perché era mio padre.» Mi appoggio ancora a lui e Sherlock mi accoglie senza dire altro. «Era il mio papà, l’uomo che mi portava sulle spalle, quello che mi aveva insegnato a nuotare, quello che giocava con me sulla spiaggia. Perché ogni volta che con un filo di voce mi chiedeva scusa e mi prometteva che non sarebbe più successo, che non voleva farlo, io gli credevo. Perché medicava ogni ferita con la morte nel cuore. Perché dopo ogni volta piangeva stringendomi forte.»

«Eri solo un bambino, John.»

«Credevo di poterlo salvare. Credevo che sotto sotto ci fosse ancora il mio papà.» Chissà quando ho smesso di crederlo. Quando ho deciso che dovevo andarmene, che non c’era nulla che potessi fare. Chissà quando mi sono arreso e ho gettato la spugna...

Dopo qualche minuto di silenzio decido di continuare il mio racconto: «Sulla via del ritorno, quella sera, venni avvicinato da un gruppo di teppisti della mia scuola. Erano evidentemente sbronzi, convinti di essere dei miti e di avere il potere di decidere della vita degli altri. Mi sbarrarono la strada e mi fecero cadere dalla bici. Cominciarono a picchiarmi, minacciandomi, insultandomi e sputandomi addosso. Cercai di difendermi, ma erano in troppi. Smisero solo quando svenni.» Non avrei mai creduto che avrei raccontato questa storia a qualcuno. E invece eccomi, tra le sue braccia, sulla spiaggia, a raccontare cose che credevo dimenticate per sempre. «Rinvenni dopo non so quanto. Oramai era buio pesto. Mi alzai a fatica. Avevo un dolore sordo all’addome, una spalla probabilmente slogata, lividi e graffi ovunque. Grazie al cielo le gambe mi reggevano e riuscii – anche se – a fatica a trascinarmi verso casa. La bici abbandonata con una ruota storta al limite della strada. Ci misi parecchio tempo ad arrivare davanti alla porta di casa, ma quando bussai nessuno rispose. Sapevo che mi avevano sentito, che mi avevano visto. L’ombra alla finestra era quella di mio padre. Ma non mi aprirono. Io bussavo, piangevo, ma non mi apriva nessuno. A un certo punto sentii mamma implorare mio padre di farmi entrare, ma la risposta di papà era sempre la stessa “Doveva essere qui ore fa. Sapeva a cosa andava incontro se avesse disobbedito”. Mamma gridava, pregava, piangeva... Ma nulla smuoveva papà. Avevo paura che si sarebbe arrabbiato al punto da picchiarla, e allora dissi che capivo, che avevo sbagliato, che sarei rimasto fuori, sul portico, che non faceva tanto freddo. Era gennaio inoltrato, il vento soffiava forte, ma volevo solo che mamma smettesse di piangere. Guardai il cielo ed era limpido e perfetto. Cercai di ricordarmi qualche storia di quegli eroi che erano diventati costellazioni e riuscii persino a non sentire le ore che passavano. Fino a quando la luce di due fari non mi colpì. Erano zio Larry con la moglie. Mi sollevarono, lasciando un biglietto sulla porta di casa, e mi misero in macchina con il riscaldamento al massimo, portandomi a casa loro. La mattina dopo scoprii che mia sorella era riuscita a sgattaiolare di nascosto fino al telefono e li aveva chiamati.»

«Quanto tempo sei stato dai tuoi zii?»

«Un po’. Non ricordo con precisione, in realtà. Ma un giorno mio padre venne a prendermi. So che litigarono tanto lui e lo zio. Non so cosa si dissero, ma alla fine tornai a casa con papà.»

«Tornasti a casa per non lasciare sole tua madre e tua sorella?»

«Forse, ma forse perché sapevo di dover rimanere lì, sentivo che era la cosa giusta. E del resto papà mi ha insegnato un sacco di cose, a modo suo.»

«Davvero? Il vostro rapporto è migliorato, dopo?»

«Lo zio passava parecchio tempo con noi. Veniva a casa e trascinava me e papà in giro a fare “cose da uomini”. Andavamo in campeggio e mi insegnavano i metodi di sopravvivenza. A sedici anni ero in grado di sopravvivere in natura usando uno di quei coltellini multifunzione. A quattordici sapevo già sparare. Quando sono entrato nell’esercito ero già un cecchino.»

«Hai scelto l’esercito per rendere orgoglioso tuo padre, medicina per fare felice tua madre... Ma per te? Hai mai fatto qualcosa solo per te?»

«Ho scelto di essere il dottor John Hamish Watson, Capitano del Quinto Fucilieri, collega, amico e amante dello straordinario – nonché unico – consulente investigativo al mondo Sherlock Holmes.»

«Una scelta piuttosto impegnativa,» ridacchia lui.

«La migliore decisione presa in vita mia.»

La natura intorno a noi ci riempie di calma. Sto raccontando cose di me che non credevo avrei neanche ricordato. E se anche non è facile farlo, so di fare bene a parlare. Non temo che mi giudichi, non mi preoccupo di ferirlo con alcuni dei miei ricordi. Questo non perché non provo dolore a ferirlo, o perché credo che queste cose non lo feriscano, ma solo perché so che per lui non sapere è di quanto più difficile possa esistere. Impazzisce se non ha tutti i riferimenti. E io voglio che mi capisca, non ho paura che possa ferirmi anche se le armi per farlo gliele sto porgendo su un piatto d’argento. So che piuttosto di ferirmi si ucciderebbe, lo ha fatto davvero per proteggermi del resto – o meglio, ha fatto in modo di farlo credere – così come si è letteralmente gettato nel fuoco per salvarmi. Spesso si sentono frasi romantiche di persone che promettono il mondo, che dicono si butterebbero nel fuoco per l’altro, che darebbero la vita. Io ho la certezza che lo farebbe per me, perché lo ha già fatto.

«Il rapporto con tua sorella sembra però che nonostante tutto rimanesse saldo... Cos’è successo per separarvi al punto di non accettare il suo aiuto una volta tornato dalla guerra?» La domanda di Sherlock mi strappa ai miei pensieri.

«L’alcool ha rovinato ogni cosa. Papà, anche se non lo faceva più davanti a noi, beveva tantissimo, e anche io ho avuto i miei problemi. A volte aiuta a non pensare e c’erano un sacco di cose che urlavano nella mia testa, cose che dovevo assolutamente zittire. Ma in un certo senso io e lui riuscivamo a smettere, a fermarci. Dopo l’episodio in cui mi ha preso per il collo non aveva mai bevuto al punto di non rendersi conto di ciò che faceva; non che questo gli abbia impedito di picchiarmi quando perdeva la pazienza, ma almeno si accorgeva quando esagerava. E persino io sapevo quando avevo bevuto a sufficienza. Tra l’altro non era mai il caso di non rendermi conto di quello che mi accadeva. Insomma, era meglio che mi accorgessi di ciò che mi circondava. Ma lei... Per lei è stato diverso. Forse si sentiva esclusa... Non lo so davvero, Sher. So solo che fino al giorno prima era la mia sorellina che cercava di aiutarmi come poteva, il giorno dopo era una donna arrabbiata con il mondo, con seri problemi d’alcool che ci incolpava di ogni cosa. E sai, forse non aveva tutti i torti.»

Lo vedo osservarmi. Strizza un po’ gli occhi, come per mettermi a fuoco. Probabilmente lo fa solo perché è in disaccordo con ciò che ho appena detto e si sta mordendo la lingua per non dirmi quanto sia stupido a pensare una cosa del genere. Ma non dice nulla, sa che sarebbe inutile ora come ora, quindi mi osserva e mi stringe a sé senza dire una parola.
 

*** 

Dopo la mattinata alla riserva e un pranzo in un ristorantino affacciato sul mare, decido che questa sera lo porterò nel mio posto preferito da dove le mie scogliere si vedono ancora meglio. È un po’ vicino a casa dei miei, ma non temo certo di incontrarli. Dopo pranzo però gli faccio fare un mini tour della città, lo porto alla mia vecchia scuola, visitiamo il museo, St. Mary Church e uno dei fari più recenti ma comunque molto caratteristici.

Passiamo una bella giornata, ridendo al telefono ai racconti di Mrs. Hudson sulle avventure di Mycroft e Greg alle prese con Rosie e parlando di cose lievi, felici e divertenti delle nostre infanzie. Ho anche dei ricordi così, ed è strano che mi vengano in mente solo ora, ma forse non dovrei sorprendermi. Forse lasciarmi andare – raccontare momenti cancellati e nascosti – mi ha fatto bene, mi ha permesso di ricordare momenti che altrimenti avrei perso per sempre. Compriamo dei sandwich e delle bibite da mangiare per cena, prendiamo un taxi che ci conduce vicino al belvedere e concordiamo con il tassista di venirci a prendere per le dieci.

Appena il taxi si allontana, prendo Sherlock per mano e lo allontano dal muretto di protezione.

«Vieni con me.»

Lui non domanda nulla, si lascia condurre in totale fiducia.

Prendiamo un piccolo sentiero che scende un po’ verso la costa. Arrivati a un grosso albero cavo volto a sinistra e superiamo un passaggio del tutto invisibile se non sai che esiste. Ed ecco, un piccolo spiazzo, che si affaccia direttamente sul mare, sulle scogliere e, grazie alla luce ancora abbastanza forte, intravedo anche la casa dei miei.

«Ecco il mio posto segreto! Ne avevi uno anche tu da piccolo?»

«Sì, e anche dal mio si vedeva il mare.»

«Non avevo dubbi in proposito.»

«Venivi spesso qui?»

«Quando volevo stare per i fatti miei, sì. Sai, quando dovevo prendere decisioni importanti.»

«Tipo arruolarti?»

«Sì, ma anche quando ho deciso di diventare medico, o quando lasciai il rugby.»

«Come mai lo lasciasti?»

«Per entrare a medicina dovevo studiare un sacco di ore. Certo, mamma mi aiutava, ma avere mamma come insegnante non rendeva le cose più semplici. Pretendeva il massimo, niente di meno. E poi,» aggiunsi cercando di nascondere un sorriso, «sinceramente, resistere al ritmo serrato di tutte quelle ragazze era davvero troppo. Non gli bastava mai! Non trovavo il tempo di studiare, davvero.»

«Il ritmo serrato di tutte quelle ragazze?» domanda, mortalmente serio.

«Già. Una faticaccia.»

«John, ti ho mai detto quanti modi conosco per uccidere un uomo senza lasciare alcun segno evidente?»

«E io ti ho mai detto quanto amo vederti geloso?»

«Sei decisamente molto crudele.»

«Crudele? Non sono io che ho usato quella suoneria più del dovuto solo per vederti impazzire a ogni maledetto messaggio.»

«Non me la farai mai passare liscia per quella storia, vero?»

«No, per nulla,» ribatto deciso, mentre lo vedo scuotere la testa con un mezzo sorriso. «Ma oltre a farti ingelosire, credo che troverò anche altri modi per farti capire quanto tu appartenga esclusivamente a me.»

I suoi occhi improvvisamente attenti si fissano nei miei. «Davvero, caro dottore?»

«Davvero, caro consulente investigativo.» Lo prendo per il bavero e lo trascino verso di me. Il bacio è violento, possessivo. Una rivendicazione urlata a cui risponde nel medesimo modo.

Rimaniamo abbracciati per un po’, poi mangiamo guadando il paesaggio davanti a noi.

«Lo sai che hanno trovato polvere di stelle sulle scogliere? È per questo che sono così bianche che quasi risplendono alla luce della luna.»

«Sul serio?» domanda sorpreso.

Annuisco sorridendogli per poi tornare a osservare le scogliere, il mare e le stelle.

Dopo pochi istanti riesco a riconoscere alcune delle costellazioni. Ecco il triangolo estivo, formato dal Cigno, la Lira e l’Aquila.

«Vedi quella?» dico indicando una stella molto luminosa. Lo vedo annuire accanto a me e quindi continuo: «Quella è Vega. È una delle stelle più luminose del cielo estivo e si pensa che fra dodicimila anni diverrà la prossima stella polare. L’intera costellazione le ruota intorno. Quella è la costellazione della Lira, poi c’è l’Aquila e il Cigno.» Sposto l’indice cercando di fargli identificare le forme.

«Bisogna ammettere che la gente per riconoscere certe forme ha una bella fantasia.»

«Beh, è come quando da piccoli si trova la forma nelle nuvole. Alla fine è la stessa cosa, l’unica differenza è che le costellazioni sembrano immobili ed eterne, anche se non è così. Ma la vita di un uomo non è nulla rispetto ai minimi cambiamenti dell’universo. Il cielo che vediamo oggi non è lo stesso di quello di migliaia di anni fa, così come non lo sarà tra migliaia di anni. La Terra stessa non è la stessa né lo sarà, ma per noi rimane immutabile.»

«Come siamo filosofici, John,» mi prende bonariamente in giro. Gli do una spallata ridendo mentre lui mi chiede: «Come fai a ricordarti delle costellazioni?»

«Ogni costellazione, addirittura ogni stella, ha una storia. Ad esempio la costellazione della Lira ha preso il suo nome dallo strumento musicale costruito dal giovane Mercurio sul monte Cirene, tendendo budella di mucca sopra un guscio di tartaruga attraverso corna di ariete. Il suo suono era talmente dolce che riusciva a calmare chiunque, compreso Apollo al quale Mercurio rubò il bestiame e la cui ira fu placata proprio ricevendo in cambio lo strumento. Le sue corde secondo il mito erano sette, come il numero delle Pleiadi. Apollo a sua volta donò la Lira a suo figlio Orfeo, nato dall' unione con la musa Calliope, con la quale accompagnava il suo splendido canto, in grado di far commuovere anche le pietre. Orfeo discese poi negli Inferi per ritrovare la sua sposa, la ninfa Euridice, uccisa dal morso di una vipera. Plutone, sovrano del mondo sotterraneo e Persefone, sua sposa, si mossero a compassione grazie alla musica di Orfeo e della sua lira, così il sovrano gli restituì l'amata, ma gli intimò di non girarsi indietro a guardarla finché non fossero usciti dagli Inferi. Una volta alla luce del sole Orfeo non resistette più, voleva rivedere la sua amata ed era convinto che oramai fosse il tempo, quindi si voltò verso Euridice. Ma lei era ancora nel passaggio tra Inferi e Terra e per questo la perse per sempre.»

«Beffarda fine.»

«Già, in realtà la fine è ancora peggio. Diciamo solo che alla fine Giove, commosso dall’intera vicenda, decise di creare la costellazione della Lira. La prima volta che sentii la storia di Orfeo e Euridice ci rimasi malissimo, ma del resto molti miti greci sono delle vere e proprie tragedie; quasi a voler affermare che si può combattere quanto si vuole, ma se il Destino è avverso prima o poi pagherai pegno.»

«A volte sarà andata bene però, almeno spero.»

«Sì, a volte è andata bene. Amore e Psiche per esempio.»

«Questa me la dovrai raccontare, prima o poi.»

«Lo farò. Promesso!»

«Queste storie te le ha insegnate tuo padre, vero?»

«Sì. Era un bravo papà prima di perdersi nella guerra.»

«Tu sei andato in guerra, sei stato ferito, sei stato anche...» Prende fiato prima di continuare, come se la cosa gli facesse male: «catturato e torturato. Eppure sei tornato indietro e sei un ottimo papà.»

«A volte ho paura di sbagliare tutto con Rosie. Non so se sarò mai all’altezza di un regalo così grande.»

«Rosie è la bambina più fortunata al mondo ad avere te come papà.»

«È fortunata ad avere noi.» Da quando siamo a Dover il desiderio di poterlo stringere ogni volta che mi pare e piace è aumentato. Non passa un minuto senza che le nostre mani si stringano, i nostri corpi si cerchino, i nostri sguardi si sfiorino. Una danza che ci porta inevitabilmente vicini.

Mangiamo i nostri sandwich mentre gli racconto altri aneddoti divertenti del mio passato, poi telefono a zio Larry chiedendogli se l’indomani possiamo passare a salutarli ricevendo un: «Che domande! Certo! Anzi, vi va di fermavi a pranzo? Ti prego, dimmi di sì... Mia moglie mi sta guardando malissimo.» Ovviamente non ho potuto fare altro che rispondere di sì sghignazzando.

Quando l’ora concordata con il tassista si avvicina, risaliamo il sentiero grazie a una torcia che avevo acquistato in un negozietto nel pomeriggio, e arriviamo alla piazzola pochi istanti prima che i fari del taxi si avvicinino nella notte.

Ci riporta al B&B, avvisiamo la proprietaria che sta guardando la tv nella sala comune che l’indomani saremmo partiti, e lei ci assicura che ci farà trovare il conto pronto. «Spero vi siate trovati bene,» aggiunge alla fine

«Molto bene, sì. Ma Londra ci reclama,» rispondo sorridendole.

Saliamo in camera e una volta chiusa la porta della stanza osservo Sherlock muoversi al buio, illuminato solo dalla luce della luna. La pelle lattea, i ricci morbidi, quelle labbra da baciare. La mia àncora di salvezza, la mia isola dove nulla può ferirmi. È un attimo. Mi avvicino mettendogli la mano su una spalla e facendolo voltare. Lui rimane sorpreso e interrompo ogni sua domanda baciandolo possessivamente. Quest’uomo meraviglioso, che ha scelto me per fidarsi di qualcuno, ha scelto me come compagno, ha scelto me dall’inizio, quando ancora non sapevo, non capivo; ha scelto me aspettando tutto il tempo del mondo per permettermi di accettare. Ha scelto me, e io non capirò mai come posso essere tanto fortunato.
 

...«Tu mi ami?» gli avevo chiesto all’improvviso. Eravamo seduti sulle nostre poltrone dopo un caso piuttosto complicato. Stavamo discutendo su qualcosa, non ricordo più cosa. Rosie si era addormentata da poco e l’avevamo sistemata nel suo lettino. Non so cosa esattamente fosse accaduto, più cerco di ricordarmelo meno ci riesco. Ma all’improvviso ebbi quella consapevolezza e non riuscii a tenermela per me. Lo vidi cambiare espressione, dopo la mia affermazione travestita da domanda. Il suo sguardo addolcirsi, e un sorriso che non gli avevo mai visto prima nacque sulle sue labbra.

«Da una vita, John,» mi rispose solamente.

«Perché non me lo hai mai detto?»

«Dovevi capirlo da solo.»

«Tu... Lo sai che sono lento su certe cose... Su parecchie cose... E non mi hai detto nulla perché io dovevo capirlo da solo?»

«Esatto.»

«Ti dovrei strozzare per questo.»

«Che ne dici di baciarmi, invece?»

«Dico che sono così arrabbiato con te che non te lo meriteresti, ma...»

«Ma?»

«Ti voglio troppo per aspettare un secondo di più.»

Un altro sorriso che dovetti assolutamente divorare con le mie labbra...

 
Assaggiare Sherlock quella volta fu come tornare a casa. La sensazione era quella: tornare a casa ed essere felice dopo un sacco di tempo.

Baciare Sherlock adesso è questo, ed è anche di più.

Trema sotto di me lasciandomi tutte le libertà che voglio. Lecco, mordo, bacio tutto; la pelle, la carne, tutto Sherlock facendolo tremare, ansimare, gemere.
«John... Il mio John...» geme.

Il mio John.

Ogni volta che mi sento chiamare così una parte del mio cuore si accende e riscalda. Ora però, sentire il mio nome sulle sue labbra, l’unica cosa di senso compiuto che riesce a dire, mi riempie di calore anche in altre parti.
Sapere di essere l’unico pensiero che riempie la sua mente è forse una delle cose più erotiche a cui posso pensare. Riempio Sherlock nel cuore, nella mente e fra poco anche nel corpo.



 Continua...


Note: ok giuro il dolore verso John è finito...mi pare... LOL. A settimana prossima per l'ultimo capitolo XD

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Capitolo 4
*** cap 4. ***


Ed eccoci alla fine di questa storia, grazie immensamente per il vostro calore e le vostre recensioni, anche se non ho risposto ancora ad alcune di voi non è per poca voglia ma è per poco tempo al pc. Risponderò a tutte perchè la gioia che mi date ogni volta che ne leggo una nuova è immensa e un grazie è il minimo che vi meritarte.
Ma ora basta ciarlare, ecco a voi l'ultimo capitolo. Bacetti a tutte le mie belle gioie!




Io&Sherlock



Capitolo 4



Le mani di Sherlock accarezzano dolcemente la mia pelle. Sono certo che sia sveglio da un sacco di tempo e sia rimasto a osservarmi fino a ora. Mi sento così sicuro ad averlo accanto, che non posso che sentirmi a casa in ogni luogo. Lo attraggo a me a occhi chiusi cercando le sue labbra. Vengo ricompensato dal sapore della sua bocca. Che meraviglioso risveglio!

Prepariamo i bagagli, dei miei nessuna notizia, ma davvero oramai non mi sorprende, né me lo aspettavo. Paghiamo il conto al B&B e ringraziamo la proprietaria assicurandole che la consiglieremo a chiunque vorrà venire a Dover. Lei ci ringrazia e ci dona un sacchetto con dei biscotti. «Per rendere il viaggio più piacevole,» ci dice.

Chiamiamo un taxi che ci accompagna alla villetta vista mare di zio Larry. La casa, in pietra, simile a quella dei miei genitori ma con la porta laccata di un blu elettrico così come le persiane. L’Iris, il fiore preferito della zia, riempie il giardino e si muove pigramente alla brezza marina.

La porta si spalanca appena il taxi riparte e mi trovo avvolto in due braccia esili ma forti, e da un profumo dolce di lillà.

«Il mio bambino!»

«Zia, ho superato i quarant’anni, non sono un bambino da parecchio tempo,» ridacchio.

«Non dire sciocchezze!» dice quasi scandalizzata, guardandomi come fossi matto. «Tu sarai sempre il mio bambino.» Poi un sorriso le fa illuminare il viso. «Ti ho preparato un sacco di cose buone.»

«Sherlock, lei è zia Sophie, la cuoca migliore di tutta Dover.»

«Oh, scusa, quanto sono sbadata! È un piacere conoscerti, Sherlock,» lo saluta con un sorriso, poi lo lo abbraccia di slancio lasciandolo completamente sbalordito, e io non posso fare a meno di guardarli sorridendo. Si allontana osservandolo per qualche istante. Poi si volta verso di me: «John, tesoro, hai davvero degli ottimi gusti, complimenti! Hai accalappiato un bel bocconcino. Va che occhi, ed è anche ben messo. Alto il giusto per farti sentire al sicuro; e che mani! Posso solo immaginare che cosa riesce a fare con mani così.» Sherlock rimane immobile e un bel colorito rosso pomodoro gli colora le guance. Vorrei poter fermare la zia, ma è decisamente un tornado. Ruota intorno a Sherlock osservandolo da ogni lato.
«Wow! Il miglior lato B che abbia mai visto. Niente da dire, non potevi fare scelta migliore, tesoro. Hai la mia benedizione.»

Lo scoppio di risata dello zio blocca qualsiasi cosa volessi dire – sempre se avessi trovato qualcosa di appropriato da dire....

«Tesoro, non mi spaventare il ragazzo. Non credo sia abituato ad attacchi diretti come il tuo. John, immagino non l’avessi avvertito, vero?»

«E cosa avrei dovuto dire?» domando, ancora sconcertato dall’atteggiamento vulcanico di mia zia. Dovrei conoscerla, ormai, ma non perde occasione di stupirmi comunque.

«In effetti è una bella domanda...» dice lo zio con un’espressione pensierosa. «Che ne dite: entriamo? Prometto che proverò a tenerla a bada, per quanto mi sia possibile.»

«Quanto siete esagerati! Ho solo fatto i complimenti a John per il buon gusto, dicendo cose che probabilmente hanno pensato la maggior parte delle persone che li hanno incontrati. Solo che quelli non avevano il coraggio di essere tanto onesti.» Poi mi osserva e continua: «Naturalmente è fortunatissimo anche lui, John. Sei splendido, ma sei il mio bambino. Non potrei fare osservazioni del genere al mio bambino.»

«Giuro, va benissimo così,» le dico in fretta, sorridendole. Inutile cercare di farle smettere di chiamarmi bambino, non funzionerebbe.

«Ah, Sherlock,» lo richiama lei improvvisamente seria. «Una cosa sola: prova a far soffrire il mio bambino e te ne pentirai, te lo assicuro. Non hai idea di quanto possa essere vendicativa se mi ci metto.»

«Se lo facessi soffrire, signora, meriterei ogni punizione che le possa venire in mente, e probabilmente non sarebbe sufficiente.»

La risposta dev’essere stata soddisfacente per la zia perché annuisce e si volta precedendoci in casa. Io non dico nulla, perché non ho parole per quello che è appena successo.

Quando lasciamo il salotto, un sentimento dolce-amaro mi attanaglia lo stomaco.

Il grande tavolo di legno, su cui ho passato innumerevoli pomeriggi da bambino. Il vecchio divano morbido e perennemente coperto da una trapunta patchwork colorata. Il camino di pietra, acceso tutte le sere. Tutto è immutato, e tutto sa più di casa di quanto non lo faccia casa ormai casa dei miei. Eppure da piccolo amavo casa mia, ogni spazio era perfetto e ricco di bei ricordi e colori. Poi le cose sono cambiate e la casa di zio Larry è diventata il mio luogo di rifugio.

Mi riempiono di domande, gli faccio vedere alcune foto di Rosie e gli racconto qualche nostra avventura che non ho ancora pubblicato sul blog.

Raccontano anche loro. Il problema è che raccontano di me, di quando ero ragazzino e di tutti i guai che ho combinato. E nessuno vorrebbe che il proprio compagno scoprisse certe cose.

Sherlock sembra a suo agio. Gli occhi scintillano di gioia e quando lo vedo scoppiare a ridere non mi importa neanche che è stato per il racconto di come sono rimasto appeso a testa in giù sull’albero in cortile. Per quanto mi riguarda, per vederlo così sereno e così felice, possono raccontargli qualsiasi cosa.

Come immaginavo, il “pranzetto” della zia assomiglia più a un pranzo di Natale. Ma quando tira fuori la Gipsy Tart, signori, non ce n’è per nessuno.

«John, ora sembra davvero che tu sia un poppante! Hai gli occhi che brillano come un bambino in un negozio di giocattoli,» mi prende in giro Sherlock notando la mia espressione.

«Dici così perché non l’hai mai assaggiata. Vedrai che non riuscirai più a farne a meno dopo,» mi difendo.

«John ama questa torta. Una fetta e la giornata più nera diventava molto più leggera,» dice zia Sophie.

Io le sorrido in modo scemo e le allungo il piatto. «Una fetta abbondante, grazie.»

«Ma non ti eri lamentato di essere troppo pieno?» domanda la zia ridendo.

«Non si è mai troppo pieni per la Gipsy Tart! Mai!»

Zia Sophie si mette a ridere mentre taglia una bella fetta di torta e la mette nel mio piatto prima di passarmelo. «Fetta grande anche per te Sherlock?» domanda poi.

«Direi proprio di sì!» esclama, prima di farsi dare la sua porzione. Non appena mette in bocca la prima forchettata, il suo sguardo si illumina. «Dio, John, Mycroft ucciderebbe per questa torta!»

Scoppio a ridere. In effetti, Mycroft potrebbe anche farlo.

«Mycroft?» domanda curioso e perplesso lo zio.

«Sì, è suo fratello maggiore.» Il mio sguardo si posa sulla pendola all’angolo. «Oh! È già tardi. Dovremmo chiamare un taxi o non facciamo in tempo a prendere il treno.»

«È già ora?» mi chiede la zia.

«Su, devono tornare a Londra. Hanno una bambina che li aspetta,» risponde al posto mio lo zio, togliendomi dall’impaccio.
Sono stato bene con loro, ma ho davvero bisogno di tornare a casa. Il silenzio della mia famiglia mi ha ferito più di quello che immaginavo e, anche se sono felice di aver portato qui Sherlock oltre al fatto di aver messo le cose in chiaro, ho davvero bisogno di tornare nella nostra cara Londra.

La zia sparisce in cucina per poi tornare con due pacchetti.

«Ginger Cobnut Cake e Huffkins. E non osare dire che non dovevo. Sai che amo cucinare e così suo fratello non dovrà uccidere nessuno per gustarsi qualche ricetta del Kent.»

Tra i biscotti fatti dalla proprietaria del B&B e le cose date dalla zia, credo che Mycroft mi ci farà tornare con chissà quale scusa, qui a Dover.

«Comunque niente taxi. Vi accompagniamo noi. E niente storie.»

«Grazie, zio.»
 
***
 

La stazione non è particolarmente affollata. Il fatto di essere in mezzo alla settimana probabilmente è una benedizione. Il nostro treno è già al binario, e questo ci permette di sistemare le nostre cose nello scompartimento con calma. Scendiamo per salutare gli zii senza fretta.

«Fate buon viaggio. E John, ricordati di mandarci una foto con la piccola Rosie. Ho giusto una cornice che aspetta di essere riempita.» Il tono di zia Sophie è speranzoso.

Le sorrido e l’abbraccio. Abbraccio anche lo zio e faccio in tempo a vedere Sherlock venire abbracciato con calore dalla zia.
Non credo che a questo si abituerà mai.

Sto per salire sul vagone quando una voce mi ferma sul primo gradino. «John.»

Mi volto lentamente. Mia sorella e a pochi passi da noi. Ha il fiatone, come se avesse fatto la strada di corsa. Poco dietro di lei vedo mamma avvicinarsi.

«Harry, mamma...» bisbiglio annichilito.

«Siamo state delle stupide, John, ma non potevamo farti andare via facendoti credere che... Oddio, non so neanche cosa tu possa aver pensato, ma qualsiasi cosa sia ce lo meritiamo. Solo che, John...» La voce di Harry si spegne.

«Quello che tua sorella cerca di dire è che ti vogliamo bene,» interviene mamma. «Non importa un accidenti se lui è un amico, un fratello, un collega o il tuo compagno. Lo vediamo che ti rende felice ed è l’unica cosa che conta. Anche tuo padre ci arriverà, prima o poi. Spero che per allora vorrai perdonarlo per tutto il male che il suo rifiuto ti ha fatto.» Sposta lo sguardo sul mio compagno. «E tu, Sherlock, ti saremo sembrati senza cuore, come minimo. Ma ti assicuro che siamo state felici di conoscerti, e siamo felicissime che tu ti prendi cura di John. Fa tanto il forte ma anche lui ha bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi, e tu sembri perfetto.»

Il fischio del capo treno ci desta. Abbraccio prima mamma e poi Harry e sorrido agli zii. Scommetto che le hanno chiamate loro.

Una volta sul treno, apro freneticamente il borsone e tiro fuori la scatola di latta che è stata il nostro forziere ancora piena del nostro tesoro. Mi sporgo dal finestrino (ringraziando mentalmente il fatto che sia un vecchio treno. Con i nuovi non sarebbe più possibile farlo) e chiamo mia sorella. Lei si volta, mi guarda sorpresa e prende la scatola che le porgo.

«Tienila per me, Harry!»

Mi sorride e vedo delle lacrime bagnarle le ciglia.

Quando il treno parte mi sento più sereno. Non tutto si è risolto, ma alla fine è andata meglio di quello che credevo.

Mi volto verso Sherlock, accomodato di fianco a me. Gli prendo la mano e gli sorrido. Lui risponde con quel suo lieve sorriso che amo. Dopodiché guardo fuori dal finestrino e, senza abbandonare la sua mano, osservo il paesaggio che si muove veloce, lasciando piano piano Dover alle spalle e portandoci finalmente a casa, a Londra, da Rosie.
 

***
 

Londra ci accoglie con una pioggerellina fina e una luce bianca e delicata. Il traffico è indomabile, come sempre. Tutto sembra esattamente come l’abbiamo lasciato.

«Sembra che anche senza di noi Londra sia sopravvissuta,» commento, guardandomi in giro.

«Mmmh... Non credere, John. Un altro giorno e ci avrebbero richiamati.»

Scendiamo dal taxi e la porta del 221B si apre per accoglierci. Rosie è tra le braccia di Mrs. Hudson e la prendo immediatamente tra le mie. Mi è mancata questa piccola peste.

Anche Mycroft e Greg sono in casa. Saliamo nel nostro appartamento e raccontiamo più o meno la nostra piccola vacanza davanti a un bel tè e alla torta della zia Sophie. Mycroft si prende due belle fette e credo avrebbe fatto il tris se non fosse per le battute poco gentili di Sherlock. Spero non si vendicherà mandandolo in qualche missione suicida per questo... Per evitare ciò, sotto lo sguardo divertito di Greg, gli prometto che gli preparerò un pacchetto con un po’ di torta e di biscotti da portare a casa, e la cosa sembra funzionare.

La notte, dopo aver messo a letto Rosie, mi siedo sulla mia poltrona e sento Sherlock suonare per me. Mi era mancato terribilmente il suono del suo violino.

E mi era mancato terribilmente anche il nostro grande letto, mancanza che mi tolgo buttandoci Sherlock sopra e divorandolo letteralmente.
 
***
 

I giorni passano velocemente. Greg ha trovato un caso piuttosto complicato e Sherlock è finalmente nel suo elemento.
Cercare di scovare i piani assurdi dei criminale lo diverte quanto a un ragazzino diverte un pomeriggio al luna park.
Tutto è tornato alla normalità, tutto come prima. A volte sento gli zii, a cui ho mandato una foto di me, Sherlock e Rosie con lo sfondo del London Bridge che hanno apprezzato tantissimo, e ricevo persino chiamate da mamma e Harry. Anche questo sta diventando parte della normalità.

Di mio padre non so nulla, ma non è che mi aspettassi una sua chiamata.

Questo caso ci sta tenendo parecchio occupati. Una rapina in una nota gioielleria con omicidio annesso. Detta così non sembra una cosa particolarmente difficile, se non fosse che il corpo è stato ritrovato all’interno della stanza blindata della gioielleria dal proprietario – unico ad avere i codici di sicurezza – e che non si è accorto di nulla se non una volta aperta la camera blindata. L’allarme era inserito, il negozio chiuso, nessun segno di scasso e niente dalle telecamere di sicurezza. La sera la stanza blindata era piena, la mattina conteneva solo un cadavere. Niente del resto nel negozio era stato toccato. Sherlock è riuscito ad arrivare a un gruppo di hacker, e stiamo seguendo diverse piste.

«Sono esausto.» La porta d’ingresso finalmente viene chiusa dietro di noi dopo una giornata estenuante. Non ci siamo fermati un secondo.

«Toby ha fatto un buon lavoro. Domani chiamo Gavin per informarlo delle novità,» sciorina Sherlock sbagliando (sono certo di proposito) per l’ennesima volta il nome di Greg. Ridacchio seguendolo su per le scale che portano all’appartamento. Quando entriamo le luci sono spente e un silenzio irreale ci accoglie per qualche istante, finché le luci si accendono e: «Sorpresa!!!»

Per poco non mi prende un colpo.

«John, sappi che io non centro nulla,» cerca di difendersi Sherlock, avvicinandosi al tavolo imbandito. «Ma seriamente, le donne fanno paura. Mi avrebbero ucciso. Persino Mycroft ha dovuto sottostare, figurati un po’.»

Mi guardo intorno. A parte la mia piccola Rosie, Mrs. Hudson, Mycroft, Greg, i signori Holmes, Molly e Mike, sono presenti anche gli zii, mamma, Harry e...

«Papà?» Il silenzio torna a farsi prepotente, o forse sono io a non sentire il chiacchiericcio intorno a me.

«John.»

«Fatico a crederci,» ammetto. «Come mai siete qui?»

«Non possiamo festeggiare il tuo compleanno, John?» chiede mamma.

«Il mio, cosa?» domando confuso.

«Oddio, fratellone, stai cominciando a perdere colpi! Oggi è il tuo compleanno.»

Rimango ad osservare tutti con gli occhi sgranati. E sì, non mi ero accorto fosse il mio compleanno.

Non parlo direttamente a mio padre perché non so davvero cosa dire, ma sono stupidamente felice del fatto che sia qui, che siano tutti qui.

Rosie viene coccolata da tutti, persino papà la prende in braccio. Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi, ma cerco di non darlo a vedere. Sherlock è accanto a me in mezzo secondo per accertarsi che vada tutto bene. Gli faccio un sorriso per tranquillizzarlo e sento la sua mano sulla mia schiena accarezzarmi per calmarmi.

«Sherlock, visto che a mio fratello la mia presenza dovrebbe essere sufficiente come regalo, ho portato qualcosa per te,» gli si rivolge Harry. Lo vedo guardarla sorpreso mentre apre il grosso pacchetto che gli porge e si ritrova in mano un album di foto. «Serve che tu conosca bene mio fratello. Non è possibile che tu non abbia mai visto le sue foto da bambino. Anche se credo che apprezzerai parecchio quelle di dove ti ho messo il segno.»

Vedo Sherlock arrivare al primo segno e i suo occhi si sgranano. Le mie foto dal giorno dell’arruolamento campeggiano.

«Grazie, Harriett!» Sherlock sembra davvero grato. Credo sia la prima volta che lo vedo così.

Mia sorella ride. «Ero certa avresti apprezzato. Magari per Natale ti porto la sua uniforme. Direi che dovrebbe stargli ancora bene.»

Vedo Sherlock arrossire improvvisamente. «Davvero?» le chiede. Se non lo conoscessi, direi che si sia commosso.

«Certo! Del resto, tra cognati dobbiamo andare d’accordo!» esclama mia sorella tutta contenta.

Sorrido felice per questa affermazione.

«John.» La voce di mio padre mi rimette all’erta. Non mi ero accorto si fosse avvicinato.

«Dimmi, papà.» Il mio cuore batte furiosamente nel petto, tanto sono agitato.

«Ha mentito, prima,» dice, abbassando il tono di voce e rivolgendo lo sguardo verso Sherlock. «Ha fatto davvero di tutto per farmi capire quanto fosse importante essere qui oggi.» Lo guardo attento e anche sorpreso. «Ho commesso tanti errori in vita mia, John. Siamo stati lontani per tanto, e so che è tutta colpa mia. Così come sono certo che commetterò ancora tanti errori, e di questo mi scuso in anticipo. Ma non potevo davvero commettere anche questo.» Lo vedo prendere qualcosa dalla tasca. Un pacchetto di velluto. Me lo porge e io lo apro. La Victoria Cross di nonno splende all’interno. «È il pezzo più prezioso, John. La affido a te. Non mi fiderei di nessun altro. Tienila al sicuro fino al mio ritorno,» mi dice, e gli occhi mi si riempiono di lacrime. Le emozioni straripanti che sento nel petto mi riportano all’ultima missione di papà, a quell’ultimo saluto prima di perdersi nella guerra. La mano forte di papà stringe la mia spalla. E davvero mi sento in pace.

 
***
 

È notte. Sono così stanco che non riesco a dormire. Troppe le emozioni in questa giornata.

«Spero ti sia piaciuta la sorpresa.» Sherlock mi abbraccia nel buio. Non ha bisogno di chiedermi se sono o meno sveglio.

«Sì, Sherlock, mi hai regalato il miglior compleanno di sempre.»

«Io non ho fatto nulla, ancora.» Posso sentire il suo sorriso sulla mia pelle, le sue labbra che iniziano a baciarmi dietro l’orecchio mandando migliaia di scariche elettriche per il mio corpo.

«Hai ragione, Sherlock, mi devi ancora dare il mio regalo. Visto che mia sorella il regalo ha deciso di farlo a te.»

«Un signor regalo, seriamente.»

«Bene, allora. Il mio regalo dov’è?» Mi volto nel suo abbraccio e lo guardo in quegli splendidi occhi.

Lui mi sorride, mi trascina su di sé e mi dice. «Vieni a prenderlo, dottore.»

Sorrido mentre mi abbasso sulle sue labbra.

«Buon compleanno, John.»

Questo è davvero il miglior compleanno della mia vita.


Fine


Note: Siamo giunti al termine, spero che questo ultimo capitolo sia stato all'altezza delle vostre aspettative. Io ho amato i miei personaggi, e come sempre mi mancheranno un po', ma il bello delle storie è proprio questo, se mancano qualcosa di buono ho scritto e se la mancanza è tanta si può rileggere tutte le volte che si vuole, basta aprire il file e puff eccoli ricomparire. Comunque non vi abbandono, settimana prossima ci sarà Halloween e credete davvero che non ci sia un evento piccino picciò che vi regali tante belle storie nuove?
Alla prossima dunque, e grazie per essere state qui con me.

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