Come back in time [CLEXA]

di MarySF88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1, Risveglio ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2, Una mutevole verità ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3, Labirinti interni ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4, Lo specchio ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5, Nulla due volte ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6, Squarci ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7, Passaggi ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8, Non ancora ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9, Strade ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1, Risveglio ***


Come back in time

 

Capitolo 1, Nascita

 

Spalancò gli occhi. Sentì i sensi e la coscienza scorrere come una scossa in tutto il corpo. I polmoni si espansero improvvisamente e la bocca tirò l'aria dentro di sé con la forza primordiale di tutti i muscoli del suo corpo. Seguirono molti altri respiri affannati e incerti, come se dovesse padroneggiare un meccanismo sconosciuto. Le pareva di aver già vissuto qualcosa di simile, ma non ricordava quando.

Lentamente cominciarono a riaffiorare i ricordi. Si portò istintivamente una mano allo stomaco, cercando di tamponare un dolore che non c'era ma che era fin troppo ben impresso nei suoi circuiti neuronali. Si guardò intorno incerta, cercandola. Non la vide. Non c'era nemmeno Titus, né quel Murphy.

“La morte non è la fine.” pensò. Era sicura di essere morta per mano di un arma che fino a pochi mesi prima non avrebbe mai pensato di lasciar entrare nel suo palazzo. Un colpo sparato dalla persona che era stata più di un padre per lei.

Si guardò intorno, era nella sua stanza distesa sul letto: che fosse stato tutto un sogno? Intorno a lei un sacco di candele profumavano l'aria. Notò solo una cosa fuori posto: accanto al suo letto troneggiava un grande specchio che rifletteva i raggi del sole in un modo che non le sembrava naturale ma che non avrebbe saputo descrivere. La attraeva e la atterriva allo stesso tempo. Con la sua consueta decisione e facendo leva sul suo autocontrollo distolse lo sguardo da esso e si mise a sedere sul letto.

Se era stato tutto un sogno era sicuramente stato il più vivido che avesse mai vissuto. Poteva essere un messaggio inviatole dai suoi antenati per ammonirla? In effetti, erano tutti stranamente silenziosi e anche frugando nelle pieghe della sua mente non riusciva a risvegliarli. Decise di alzarsi e andare a cercare Clarke, forse era già partita? Forse non l'aveva mai baciata? Forse non aveva mai fatto l'amore con lei? Rabbrividì al pensiero che anche tutto ciò fosse soltanto frutto della sua dimensione onirica. Avrebbe di gran lunga preferito essere morta ma aver davvero vissuto tutto ciò piuttosto che doversi rendere conto di... “Basta, Lexa! Cosa stai pensando? Cosa accadrebbe al tuo popolo se tu morissi? A Clarke stessa, al suo popolo?” eppure lei era morta, in qualche modo ne conservava la certezza, ma com'era possibile?

Fu in quel momento che incominciò a sentire i lamenti. Erano simili ai rantoli dei feriti di guerra ma più fievoli e prolungati. Riconobbe subito la direzione da cui provenivano, la sala del trono. Lasciò perdere l'idea di continuare a cercare Clarke e afferrò il lungo bastone di un candelabro nel corridoio, determinata a scoprire quanto prima cosa fosse successo.

Non trovò guardie sul suo cammino e il consueto brivido le percorse la schiena per allertarla quando vide che anche la sala del trono non era sorvegliata. I lamenti si sentivano adesso più distinti e le provocarono un forte disagio. Sentì una parte molto remota della sua coscienza attivarsi come se volesse dirle qualcosa, come se volesse dirle qualcosa a proposito di quei gemiti, ma la sensazione subito scomparve senza lasciare traccia.

Allora con determinazione spalancò le grandi porte di ingresso. Quella che le si parò davanti fu una scena a cui non era assolutamente preparata. Decine di persone erano sdraiate a terra sopra a dei giacigli improvvisati, coperti con stracci e lenzuola, in preda al tormento dell'agonia che precede la morte. Non vide sangue sui loro corpi che erano invece madidi di sudore. Non era quindi frutto di una battaglia quella visione. Il trono si stagliava ricoperto di polvere sullo sfondo di quella scena infernale, come un inutile vessillo di un tempo lontanissimo.

“Quindi sono morta davvero e questo è ciò che mi spetta per scontare tutti i miei peccati...” pensò con sconforto.

Si riprese subito e dopo aver accuratamente ispezionato con lo sguardo la stanza decise che non c'era motivo di continuare a tenere un'arma in mano. Appoggiò il bastone contro un muro e cominciò a girare in mezzo a quel lazzareto in cerca di un volto conosciuto. In realtà li conosceva tutti: membri del consiglio, guardie della torre, la guardavano con sorpresa e disperazione, qualcuno mormorava “Uccidimi...”. Non trovava il coraggio di chiedere loro cosa diavolo fosse successo e tanto meno poteva esprimere loro i suoi dubbi sulla possibilità che tutto ciò fosse reale.

Improvvisamente tra i corpi scorse quello di Indra, si affrettò ad accovacciarsi al suo fianco.

“Indra!”

“Heda” le sussurrò con gli occhi spalancati per lo stupore “Titus ha detto che eri morta.”

Lexa dilatò leggermente le pupille a quella notizia, trattenendosi come consueto dall'esternare il turbinio di emozioni e pensieri che aveva dentro.

“Dov'è Titus?” chiese pratica.

Indra alzò un bracciò tremante e indicò in un angolo, poi cominciò a tossire come se stesse per soffocare.

Lexa la osservò per qualche istante con preoccupazione poi fece per alzarsi ma la donna l'afferrò saldamente per un braccio.

“Heda, la nostra battaglia è finita. Spetta a te mettere fine alle nostre sofferenze.” le disse fissandola dritta negli occhi con lo sguardo combattivo di un tempo. Il labbro inferiore sporto in avanti che le conferiva un'espressione minacciosa.

“Non prima che io abbia parlato con Titus, Indra.” le replicò con un tono che non ammetteva discussioni e con uno strattone si divincolò dalla sua presa. Il suo cuore soffriva terribilmente per quella durezza che aveva dovuto esibire, ma era dominata da due pensieri: che tutto ciò non fosse reale e che Clarke potesse essere lì da qualche parte, buttata a morire come un sacco di immondizia in una discarica di corpi umani. Se così era doveva trovarla e subito. Eppure quella vocina in fondo alla sua coscienza, del tutto nuova per lei che pure con le voci aveva una certa dimestichezza, le diceva che era poco ma sicuro che Clarke non fosse lì in mezzo.

Titus se ne stava accasciato contro un muro privo del giaciglio e della coperta che avevano gli altri, con accanto alcune ciotole rovesciate e contenenti una serie di strani liquidi. Non gemeva e non si lamentava, borbottava con voce flebile cose incomprensibili mentre con lo sguardo fissava il vuoto al suo fianco. Gli si avvicinò con cautela e gli si inginocchiò davanti atterrita da quella visione.

“Titus...” mormorò indecisa su come continuare. Lo sguardo trasmetteva più preoccupazione di quanto non avesse voluto mostrarne. Dunque era davvero morta? E questa era stata un'astuta macchinazione del popolo del ghiaccio? E lei era tornata in vita grazie al potere della fiamma? Ma come era successo che Titus non l'avesse estratta subito dopo la sua morte? Istintivamente si toccò la nuca alla ricerca della consueta sporgenza. Non sentì niente. Si spaventò, molto più di quanto non si fosse mai spaventata in precedenza pensando a sé stessa.

“Titus!” ripeté scrollandolo visto che quello non si muoveva.

Allora l'uomo girò lo sguardo vuoto verso di lei.

“Heda...” sgranò gli occhi come se avesse visto un fantasma e probabilmente non doveva avere tutti i torti. “Tu sei morta! Sto davvero delirando dunque..”

“Non sono morta Titus, o per lo meno non lo sono più. Ricordo di essere morta per mano tua ma...”

“Per mano mia? È questa dunque la punizione che mi attende nell'aldilà? No, no, io non ti ho uccisa!” prese a lamentarsi con voce stridula mentre con gli occhi vagava nello spazio intorno a sé come se fosse cieco.

“Titus, ascoltami! Devi dirmi cosa è successo! Io non ho ricordi affidabili della mia morte e tanto meno di ciò che è successo dopo. E devo sapere!” gli ordinò prendendo il suo viso tra le mani e concentrando il suo sguardo nei suoi occhi.

Il sacerdote esitò come se stesse combattendo una battaglia contro qualcosa di terribile che gli ottenebrava la mente. Poi il suo viso si rischiarò e i suoi occhi brillarono.

“Sei davvero viva...” disse rivolto a sé stesso. “Eppure io ti ho vista in preda alla febbre, ho visto il tuo petto esalare l'ultimo esausto respiro, ho estratto io stesso la fiamma...” continuò a borbottare.

“Lo so, Titus, ma adesso devi dirmi cosa è successo qui, subito.”

“Non ricordi... Sì, forse senza la fiamma i tuoi ricordi sono rimasti in essa...”

“Titus!” lo incalzò con impazienza.

“Ci siamo ammalati tutti, uno dopo l'altro. Tu sei stata una delle prime, Heda, e una delle prime a morire...”

“Continua.” una sensazione familiare di freddo cominciò a farsi strada dentro di lei a quelle parole. Gli occhi di Clarke che la supplicavano, il dolore al petto, la tristezza e la volontà di non farla trapelare per poterle fare coraggio, la consapevolezza che non l'avrebbe rivista mai più...

“I nostri guaritori non avevano cure per questa malattia, ho provato a fare di tutto. Il popolo ha cominciato a decimarsi. Ho dovuto accettare l'offerta di medicine degli Skaikru in cambio di una resa. Stavano, stanno, venendo qui, ma è troppo tardi, la malattia procede troppo in fretta, prima del loro arrivo saremo tutti morti...” Titus era evidentemente distrutto per non essere stato capace di salvare la sua gente.

“E Clarke?” chiese istintivamente Lexa, anche se sapeva che il suo mentore non avrebbe approvato quella eccessiva preoccupazione per un'unica persona quando tutto il suo popolo stava morendo.

Anziché arrabbiarsi l'uomo la guardò con una certa sorpresa.

“Wanheda guida la delegazione che porta la cura.” disse.

“Ma sta bene?” non poté trattenersi dal chiedere.

“Tutti gli Skaikru sono immuni alla malattia, loro l'hanno chiamato “vaccino”, non sappiamo se siano stati loro a mandarla.” Titus appariva ancora più sorpreso ed era diventato molto serio mentre la scrutava attentamente.

“Clarke non l'avrebbe mai fatto.” gli disse lei chiedendosi se fosse troppo debole per affrontare un duello verbale.

L'uomo la fissò torvo. Sembrava non capire quel suo atteggiamento ed esserne molto preoccupato.

“È a capo del Popolo del cielo ed è Wanheda, non c'è niente di cui non sarebbe capace.” sentenziò infine.

Lexa si rese conto che qualcosa non andava o meglio non tornava. Provò ad indagare.

“Quanto è passato da quando se ne è andata?”

“Chi?” il sacerdote era evidentemente confuso dalle sue domande.

“Clarke!”

“Se intendi dire quando è partita con la delegazione dal loro acc...”

“No Titus, quando se ne è andata da qua?” lo incalzò colta da un'improvvisa ansia di sapere e dalla precisa sensazione che i suoi timori si stavano improvvisamente rivelando più reali che mai.

“Heda, forse non state ancora bene...” rispose per essere poi colto da un accesso di tosse che lo stava quasi soffocando.

Lexa lo sorresse disperatamente per aiutarlo a respirare ma quando si fu un po' ripreso fu impietosa.

“Titus, io devo sapere quando Clarke del Popolo del cielo è partita per andarsene da Polis!”

Lui sembrò volerle sondare l'anima con lo sguardo. “Heda, Wanheda non è MAI stata qui.”

Lexa scivolò a sedere e si accasciò contro il muro accanto all'uomo che le chiedeva preoccupato se si sentisse bene, ma lei non lo sentiva. Le lacrime scendevano silenziose e calde sulle sue guance. I rumori intorno a lei erano improvvisamente diventati ovattati e lontani, mentre nella sua mente riviveva con accanimento disperato ogni attimo della, sera prima? I baci, la pelle nuda, il calore, il piacere, la pace... Poi il dolore della perdita, della morte, dell'addio. Niente di tutto ciò era davvero successo dunque? Roan non era neppure mai riuscito a catturarla? Era stato tutto frutto dei deliri di quella misteriosa malattia? Scene su scene, emozioni, attimi, le scivolavano via dalle dita come un lenzuolo di seta, bellissimo e profumato, ma troppo prezioso per le sue mani sudicie di sangue.

Eppure... no. Non era così. In qualche modo sapeva che quelle cose erano successe. Sentiva che la spiegazione era un'altra. Ma quale? Titus era troppo debole per aiutarla e non sembrava capirci niente proprio tanto quanto lei.

“Titus, devo andare loro incontro. Subito. Devo fare in modo che arrivino qui in tempo.” disse risoluta alzandosi.

“Aspetta, Heda!” disse l'uomo afferrandole una gamba. “Non ti accoglieranno a braccia aperte. Pensano che tu sia morta, crederanno che sia stato tutto un inganno e Wanheda tenterà di ucciderti non appena ti vedrà.”

Una morsa le strinse il cuore a quelle parole. Dunque erano tornate, o rimaste? O... Erano bloccate a quel punto. In ogni caso c'era poco da fare, per il bene del suo popolo doveva farlo e per il bene del suo animo doveva rivederla.

“Allora farò in modo che non mi veda.” disse mentre si allontanava scavalcando i corpi morenti della sua gente e mentre usciva dalla sua sala del trono pensò:

“Sto arrivando, Clarke.”

 

 

Non pensava, allora, che la sua corsa avrebbe richiesto molto più tempo del previsto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2, Una mutevole verità ***


Capitolo 2, Una mutevole verità

 

Il comandante dei 13 clan, (in realtà probabilmente erano 12), cavalcava come una valchiria solitaria in mezzo alla desolazione. Dopo aver velocemente indossato la sua armatura ed aver preso la sua spada era corsa all'esterno della torre. Non aveva nemmeno potuto ricorrere alla comodità rappresentata dall'ascensore perché non era rimasto nessuno abbastanza in forze da azionarlo. Aveva perciò dovuto calarsi con estrema lentezza e cura lungo le corde che lo sorreggevano, per poi aprire con la forza le porte del primo piano, dal quale si era calata fino a terra. Aveva perso una quantità di tempo interminabile in questa trafila e per quel che ne sapeva centinaia di persone potevano essere morte nel frattempo.

I numerosi cadaveri all'esterno non facevano che accrescere i suoi sospetti. Alcuni sembravano addirittura appartenere a uomini e donne buttatisi giù dalla torre. In ogni caso i loro corpi erano ormai irriconoscibili.

Si muoveva tra di essi con rapidità ma cercando anche di non scoprirsi troppo nella direzione di eventuali attacchi. Non sapeva se gli Skaikru erano già arrivati a Polis, ma era abbastanza certa che in ogni caso non avrebbero apprezzato la sua presenza. Arrivata alle stalle si era accorta che erano state lasciate aperte e che i cavalli giravano liberamente nelle sue vicinanze.

“Bene, qualcuno ha avuto l'astuzia di liberarli perché non morissero a causa delle mancate cure.” aveva pensato compiacendosi dell'addestramento e della taratura dei suoi uomini.

Si era affrettata ad afferrare il primo animale alla sua portata, lo aveva bardato ed era partita verso il limitare della città. Una città fantasma, ecco cosa era diventata. Il suo popolo non era particolarmente animista e la sua cultura non la portava certo in quella direzione, ma aveva cominciato a pensare che Polis ne avesse passate decisamente troppe e che i muri fossero intrisi del dolore di tutte le disgrazie che l'avevano colpita. Stava diventando un luogo maledetto.

Attraversò cavalcando le strade deserte e giunse al limitare dell'area boschiva circostante. Si chiese come avrebbe fatto a convincere Clarke anche solo a prestarle attenzione per il tempo necessario a giustificare la sua presenza. Avrebbe veramente cercato di ucciderla? Se, come aveva detto Titus, Wanheda non era mai stata a Polis allora non aveva mai avuto occasione di sfogare la sua rabbia nei suoi confronti e lei non aveva mai avuto modo di farsi perdonare e di farle capire cosa provava per lei. Certo coglierla di sorpresa forse non era proprio la strategia migliore per farsi ben volere e per dimostrare di non avere cattive intenzioni.

Si mosse su percorsi laterali in mezzo al bosco, che ormai conosceva alla perfezione, per non incrociare la delegazione direttamente. Era certa che ci sarebbero stati anche Bellamy ed Octavia. Il primo avrebbe reso sicuramente i suoi tentativi di convinzione più difficili. Su Octavia invece forse poteva contare: era la compagna di un terrestre e per certi versi si riteneva anche lei in parte tale.

Dopo mezz'ora di viaggio scorse in lontananza i segnali della presenza di un gruppo di persone in movimento. Decise perciò di smontare da cavallo e avvicinarsi cautamente a loro. Arrivata a 600 metri di distanza si acquattò nella boscaglia e cercò di osservarli con molta attenzione. Erano una decina. In testa al gruppo procedevano a cavallo Clarke, Bellamy e Octavia, armati con fucili, pistole e probabilmente anche con coltelli o pugnali. Li seguivano 8 soldati armati anche loro con dei fucili. I cavalli erano caricati con delle sacche da cui proveniva uno strano tintinnio. Tutto abbastanza prevedibile, bastava decidere in fretta come procedere. Peccato che alla vista di Clarke il freddo impianto calcolatore da perfetta guerriera si era incantato. Negli ultimi istanti prima di morire aveva pensato che non l'avrebbe più rivista, mai. I suoi occhi avevano speso i pochi momenti che le restavano a guardarla, nel disperato tentativo di imprimere ogni dettaglio del suo viso direttamente nella sua anima, per poterselo portare con sé.

Ed eccola adesso, Clarke-Wanheda. Cavalcava vestita come una Heda di straordinaria potenza e bellezza. I lunghi capelli biondi finemente intrecciati come un tessuto dorato con riflessi color rame. L'armatura della sua gente decorata da un fine mantello blu notte con delle sottili decorazioni argentate. Addosso aveva anche qualcosa che luccicava sotto i colpi dei potenti raggi di mezzogiorno. La testa alta, lo sguardo fiero di chi va a riprendersi la sua vendetta.

“Jus drain, jus daun.” pensò Lexa con un misto di ammirazione e paura. Non paura di essere sconfitta, ma paura di essere respinta. Non riusciva a capacitarsi di come era stata in grado di conquistare il suo cuore una volta, figuriamoci due. Ma erano veramente due, se tutto ciò che ricordava non era in realtà mai accaduto?

Si ridestò da quel sogno ad occhi aperti. Doveva cercare di salvare ciò che era rimasto del suo popolo. L'amore si stava rivelando nuovamente una debolezza capace solo di intralciarla. Fatto sta che ancora non aveva idea di come fare ad avvicinarsi senza farsi vedere e il gruppo si stava allontanando.

Una voce dal fondo della sua mente si insinuò tra le pieghe della sua coscienza. Avrebbe potuto essere quella di uno dei comandanti del passato che le davano consigli da quando era diventata Heda, ma sembrava qualcosa di diverso.

“Fai il verso dell'allodola.” le disse. Non capiva a cosa sarebbe servito. Era un codice certo, un codice che utilizzava quando si addestrava tra i boschi con i suoi compagni prima del conclave, ma era certa che nessuno Skaikru fosse presente all'epoca.

Decise comunque che non c'era niente da perdere nel provare. Rimanendo ben celata nel suo nascondiglio riprodusse, fischiando, il verso del volatile. Vide subito Clarke immobilizzarsi e fermare il cavallo nel bel mezzo della strada.

“Che succede?” chiese Octavia allarmata fermandosi a sua volta.

Bellamy aveva già imbracciato il fucile ed esaminava da dietro il suo mirino l'area circostante. Possibile che quella nuova voce nella sua testa non cercasse affatto di aiutarla come facevano le altre?

“Fidati.” le sussurrò ed era come se avesse parlato a sé stessa.

“Niente. Voi proseguite, io rimarrò indietro.” sentì distintamente la voce di Clarke mentre già voltava il cavallo per tornare indietro.

Notò un moto di esitazione tra i presenti.

“Per..” iniziò Bellamy che aveva abbandonato la posizione di guardia.

“Vi ho detto di proseguire!” tuonò perentoria quella che a quanto pareva era diventata a tutti gli effetti la loro Heda.

I membri del gruppo si guardarono tra loro e poi proseguirono senza proferire parola.

Una punta di orgoglio pervase l'animo di Lexa: la sua Clarke era diventata ciò che era sempre stata destinata ad essere.

L'orgoglio fu subito sostituito da agitazione quando la vide smontare da cavallo al limitare del bosco e proseguire a piedi con decisione e con sguardo truce. Aveva una spada di ottima fattura impugnata con la sinistra ma non la teneva in posizione di difesa o di attacco, lasciava che fosse una naturale prosecuzione del suo braccio. Il suo viso era pesantemente truccato ma non alla maniera di nessuno dei clan. Si avvicinava sempre di più addentrandosi nel bosco. Che cosa le avrebbe detto una volta che fossero state faccia a faccia? Sembrava così diversa dalla Clarke che albergava nella sua testa...

“Chi sei? Fatti vedere! Come conosci il...” la Skaikru iniziò a tuonare rivolgendosi al bosco come un antico druido. Lexa, istintivamente, si fece avanti avanti interrompendola. Da questo momento sarebbe stata tutta questione di intuito e istinto.

“Tu!” l'accolse Clarke sibilando tra i denti, un'espressione di rabbia e di odio dipinta sul volto mentre faceva sibilare la spada nell'aria in direzione del suo petto.

La Heda alzò le mani in segno di resa e l'arma mutò forza e direzione appoggiandosi contro la sua parete addominale. La punta andò a far forza proprio là dove le era sembrato che il proiettile l'avesse colpita. La sua avversaria sembrava usare l'arma per tenerla il più possibile a distanza. I loro sguardi si incrociarono incagliandosi l'uno nell'altro come tante volte era successo. Lexa non poté fare a meno di dipingersi un'espressione di supplica sul viso. Non era la spada a farle male, ma quello spazio forzato tra i loro corpi proprio ora che, oltre il limite del possibile, l'aveva ritrovata.

“Titus ha detto che eri morta. Che gran parte della tua gente lo era. Che stavano morendo tutti per il morbillo e se non ci fossimo affrettati non sarebbe rimasto più un solo terrestre. Ho visto i villaggi distrutti e dati alle fiamme insieme alle pile di cadaveri, ma era solo il tuo ennesimo inganno.” Clarke premeva sempre di più la spada verso la carne ad ogni parola costringendo Lexa a indietreggiare.

“Non è un inganno, Clarke. Stanno davvero morendo tutti e...”

“Tutti tranne te.” Un ghigno cattivo accompagnò quelle parole mentre il sopracciglio destro le faceva un guizzo verso l'alto e il corpo del comandante frenava la sua ritirata contro un tronco d'albero. Come spesso le era accaduto in passato Lexa accolse quella trappola con una seria espressione di fierezza alzando lievemente il mento e intensificando il suo sguardo. Adesso poteva notare chiaramente che il colore del trucco che l'altra aveva sugli occhi era verde.

“Non è stata una mossa alla tua altezza venire fino a qui da sola, Lexa.”

“Era l'unico modo per salvare il mio popolo.”

“Il tuo popolo. È sempre in cima alla lista delle tue priorità, non è vero?”

La Heda tacque sostenendo il suo sguardo in silenzio.

“Ho imparato molto bene la tua lezione. E adesso hai un problema perché i miei sentimenti non offuscheranno il mio giudizio.”

Mentre sorrideva truce affondava la lama nel primo strato della pelle provocando nella sua vittima un tenue bruciore accompagnato dalla sensazione calda del sangue che gocciolava sul suo ventre. A fare male erano però quelle parole tormentate. Nel suo sogno era stata Clarke a convincere lei ad accettare i sentimenti, non il contrario.

“Prenditi pure la tua vendetta se vuoi, ma poi affrettati verso Polis. Gli ultimi sopravvissuti si trovano nella torre, nella sala del trono. Se due uomini azionano l'ascensore...”

Clarke rise chinando la testa all'indietro e scoprendo il collo e Lexa non poté fare a meno di notare quanto fosse sensuale.

“Affrettarmi? Verso la trappola che i tuoi uomini mi stanno tendendo? Davvero non mi crederai così sprovveduta!” esclamò.

A quel punto Lexa fece qualcosa che sorprese anche sé stessa. Afferrò saldamente la lama della spada con entrambe le mani fino a conficcarsela nella carne. Divenendone tuttavia padrona e ignorando il dolore che le provocava quel gesto, la strappò dalla presa di Clarke e la gettò con tutte le sue forze il più lontano possibile da loro. Poi, replicando un gesto che, (ricordava?), aveva compiuto in passato, si gettò in ginocchio di fronte alla Skaikru mentre le mani le grondavano sangue lungo i fianchi.

“Clarke del Popolo del cielo. Wanheda. Il mio popolo si arrende di fronte a te e al tuo popolo. E io mi arrendo a te. Fa di me ciò che vuoi. Uccidimi e prendi il mio posto o risparmiami e sarò fedele a te sola. Ma ti prego affrettati o non ci sarà più nessuna resa possibile per noi, se non quella che dovremo alla morte.”

Clarke la guardò con stupore, sgranando gli occhi ma senza scomporsi. Per un attimo una sua mano guizzò con delicatezza verso il suo viso poi si riprese, la fermò a mezz'aria e, mentre assumeva un'espressione di infinita tristezza, le disse:

“IO sono la morte. Io sono Wanheda, il comandante della morte. E TU mi hai costretta a diventarlo. Non cambia poi molto che tu ti arrenda a me o alla Dama con la Falce.”

Poi distolse lo sguardo portandolo verso l'orizzonte, pensierosa.

“Accetterò la tua resa e quella di coloro che rimangono. Regnare sugli inferi sembra essere davvero il mio destino.”

Detto ciò si voltò, raccolse la spada insanguinata e la rinfoderò senza nemmeno pulirla poi si mosse in direzione del cavallo.

“Andiamo.” le ordinò secca.

Lexa si alzò senza ribattere e la seguì riassumendo una posizione fiera. Dentro di lei covava una profonda tristezza. A questa Clarke aveva fatto molto più male che a quella dei suoi sogni o ricordi che fossero. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo negli ultimi giorni o mesi, ma sentiva che c'era qualcosa di importante, qualcosa che le sfuggiva e che apparteneva alla dimensione di quel mondo che non trovava spazio nella sua memoria per quanto lo cercasse.

E desiderava toccarla, rassicurarla, calmarla, farla sorridere. Non c'era spazio per niente di tutto ciò in questa realtà. Per un piccolo, microscopico istante, le venne il desiderio di tornare nel sonno in cui la morte l'aveva avvolta e in cui i sogni avevano creato un destino più felice per loro. Forse, però, c'era ancora qualcosa che poteva fare, una via con cui poteva essere d'aiuto a Clarke.

 

Wanheda montò a cavallo, con la fierezza di una vera leader. Poi sembrò rendersi conto che non poteva lasciarla lì e che farla proseguire a piedi le avrebbe rallentate.

“Non sarai arrivata a piedi fin qui.” sentenziò senza guardarla.

“Ho un cavallo nascosto nel bosco.”

“Bene. Recuperalo, ti attendo più avanti con gli altri, poi partiremo al galoppo per cercare di salvare più persone possibile.”

“Come hai intenzione di spiegare la mia presenza agli altri?”

Clarke inclinò la testa di lato e finalmente la squadrò dall'alto in basso.

“Non ho bisogno di spiegare niente. Adesso mi temono, faranno quello che gli dico e basta.” disse sprezzante. Diede un colpetto nelle reni del cavallo e partì a gran velocità in direzione dei suoi compagni.

 

Quando Lexa, di malavoglia, raggiunse il gruppo, trovò tutti in sua attesa in un muto silenzio e in atteggiamento ostile, ma nessuno le puntò contro un'arma.

“Tieni.” Octavia le lanciò uno zaino appena le fu accanto mentre la studiava attentamente con lo sguardo. “Contiene alcuni medicinali che...”

“Lexa non necessita di alcuna spiegazione, Octavia. Adesso lei e il suo popolo faranno ciò che noi gli diciamo, non è vero?” intervenne Clarke altera, di nuovo senza degnarla di un'occhiata.

Un moto d'orgoglio si fece strada nella Heda destituita. La rabbia la attraversò come una scossa di calore e le tese i muscoli mentre stringeva i denti e dilatava gli occhi. Per quanto fosse la scelta più sensata da fare per il bene della sua gente, non era stata abituata a subire in silenzio certe umiliazioni.

Si costrinse a fare un timido cenno di assenso con la testa, fremendo perché si dessero una mossa affinché tutto ciò non fosse perfettamente inutile.

“Visto?” ghignò Wanheda rivolta al gruppo. Poi, senza dire una parola, spronò il cavallo e si avviò al galoppo verso la città. Bellamy e Octavia le lanciarono un'ultima occhiata ostile e partirono al seguito della loro guida. Con crescente disappunto, a Lexa non resto che fare lo stesso.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3, Labirinti interni ***


Capitolo 3, Labirinti interni

 

La desolazione e la morte in cui si imbatterono durante il viaggio lasciarono tutti totalmente indifferenti. Concentrati com'erano nel tentativo di tener dietro a Clarke si risparmiavano di dover indugiare in quella visione.

Il viaggio, benché breve, aveva permesso alla rabbia di Lexa di sbollire, ma le aveva anche ridonato maggiore lucidità. Quell'ansia, quel bisogno quasi ossessivo di Clarke si era attenuato, lasciando spazio ad altri pensieri. Non sapeva quanti del suo popolo sarebbero sopravvissuti ma era certa che quelli che si fossero ripresi non sarebbero stati poi così disposti a sottomettersi agli Skaikru e tanto meno a Wanheda a cui riconoscevano un grande potere, certo, ma un potere troppo oscuro. Per non parlare del fatto che non possedeva la fiamma e non avrebbe mai potuto averla. Sottomettersi a lei avrebbe significato per la sua gente rinunciare alle sue usanze, alla sua religione e alle sue credenze. Forse adesso li stava salvando da una morte che molti di loro avrebbero sicuramente preferito. Una volta ripresi, molti guerrieri avrebbero organizzato una resistenza e si sarebbero opposti con le unghie e con i denti a quell'accordo. Avrebbero usato ogni mezzo per uccidere Clarke e lei non avrebbe potuto farci niente. Non avrebbero mai ascoltato colei che li aveva venduti. Doveva trovare un modo per cambiare le cose...

“Mi hai parlato di un ascensore.” le si rivolse Wanheda.

Questo suo nuovo modo di parlare senza mai chiedere niente ma lasciando che fossero gli altri a darle le risposte che le servivano, irritava non poco Lexa che si trovava a dover assumere un ruolo a lei decisamente poco congeniale.

“Sì, d...”

“Bene, fammi strada.” le ordinò secca.

Lexa ingoiò l'ennesimo rospo e si diresse verso l'ascensore.

“Servono due persone...” cominciò a dire una volta arrivati, mostrandoglielo.

“Tu e Bellamy lo azionerete mentre io e Octavia saliamo e prestiamo i primi soccorsi. Appena arrivano gli altri, salirete anche voi.” e con un gesto deciso aprì le porte e si fiondò dentro.

Così era sfumata anche la possibilità di poter restare da sola con lei per un tempo sufficiente ad avere l'occasione di parlarle.

“Non sapete dove si trova la sala del trono e...”

“Diccelo tu, allora.” Sembrava che Clarke non avesse alcuna intenzione di lasciarla parlare e, le sembrava, tanto meno di rimanere da sola con lei. Strinse i denti.

“Si trova subito di fronte all'ascensore. Cercate Titus, era tra coloro che stavano meglio e sicuramente potrà aiutarvi. Lo riconoscerete...”

Clarke rise e gli altri due con lei.

“Sappiamo chi è Titus, è lui che è venuto a trattare con noi alla tua morte.” le disse divertita.

Octavia prese lo zaino di Bellamy e altre sacche e le posizionò all'interno dell'ascensore poi si avvicinò a lei e senza troppi preamboli le sfilò anche il suo dalle spalle. A differenza di quel che aveva pensato non sembrava poi così ben disposta nei suoi confronti. Una volta che anche la Skairipa fu nell'abitacolo chiuse rapidamente la porta. Bellamy era già in posizione pronto ad azionare le catene. La guardò senza troppa ostilità e questo le parve già un passo avanti.

Appena anche Lexa fu pronta disse:

“Uno, due... Tre!”

E così, per alcuni minuti che sembrarono interminabili, issarono su quella minuta squadra di salvataggio. Poi Lexa annunciò che era arrivato il momento di fermarsi, sentendo la resistenza del meccanismo. Calarono nuovamente giù la cabina, bloccarono l'ingranaggio e si misero in attesa.

Lexa non sapeva se era il caso o meno di cercare di parlare con Bellamy, cogliere da lui qualche informazione, anche attraversò qualche discorso che passasse per vie laterali.

“È strano che tutti pensassero che tu fossi morta mentre a quanto pare non lo sei.” Ci pensò lui a toglierla dall'impiccio e a quanto pare fare domande senza porle era diventata una moda piuttosto diffusa. Decise di provare ad assecondarlo.

“Non so nemmeno io come sia possibile. Non ho alcun ricordo di cosa sia successo né degli avvenimenti dell'ultimo mese.” Era meglio celare ciò che in realtà credeva di ricordare.

“Mh. Mi pare piuttosto comoda come cosa. È questa la versione che hai dato a Clarke?” adesso era chiaro che anche lui non si fidasse affatto di lei, ma almeno era stato diretto e la stava guardando in volto.

“Non me ne ha dato il tempo.” rispose sostenendo il suo sguardo e aggiunse:

“Non pare molto predisposta all'ascolto ultimamente.”

Bellamy ridacchio e si mise a sedere contro il muro, pareva non avere alcun timore che lei o altri potessero attaccarlo.

“Questo è anche merito tuo. Adesso sente tutto su di sé il peso del comando e non ammette che siano altri a portarlo o che possano offuscare il suo giudizio, intorbidendo le sue certezze.” notò che sembrava sinceramente preoccupato da tutto ciò.

Era meglio svicolare da quel particolare argomento, era meglio indagare su altro.

“Come ha iniziato a diffondersi la malattia? Clarke l'ha chiamata “morbillo”.”

“Davvero non ricordi, allora?” la guardò alzando un sopracciglio con un misto di stupore e indecisione. Era chiaro che non riusciva a decidersi se crederle o meno.

“Per quello che ne sappiamo noi” continuò passando a fissare la parete di fronte a lui, “i primi ad ammalarsi sono stati gli Azgeda. La loro regina ha richiesto il tuo intervento e sei voluta andare a controllare di persona, ritenendolo un inganno. Quando sei tornata tu e gli uomini che erano con te eravate già ammalati. I vostri guaritori non erano in grado di arrestare la malattia e tanto meno di curarla e intanto si diffondeva a macchia d'olio tra la popolazione, mentre voi peggioravate in fretta. Hai ordinato un incontro con Wanheda, al quale però si è presentato Titus...”

“Siete stati voi a contagiarci?” volle essere diretta.

“Di questo dovrai discutere direttamente con Wanheda.” il suo tono era tornato rude e duro.

Lexa annuì a sua volta con durezza. Possibile che Clarke fosse stata così spietata da contagiare e condannare a morte tutta la sua gente? Che fosse diventata tanto crudele da lasciare che persino lei venisse contagiata e morisse? Lexa era stata una Heda capace di gesti difficili e anche terribili, ma aveva sempre cercato di proteggerla.

“La notizia della tua morte l'ha molto turbata. Da allora è diventata ancora più chiusa e inflessibile.” Bellamy interruppe il flusso dei suoi pensieri. La stava fissando con gli occhi stretti mentre giocherellava con un pezzo di legno raccolto chissà dove. Lexa si sedette di fronte a lui.

“Però non sembrava particolarmente felice di rivedermi.”

“Credo che abbia sentimenti ambivalenti a riguardo.” le disse sorridendo.

“Forse hai fatto ciò che dovevi per il bene del tuo popolo ma...”

Il discorso fu interrotto dal rumore di passi che si avvicinavano spediti. Si alzarono immediatamente e assunsero istintivamente una posizione di difesa.

Quando videro che si trattava dei restanti 8 uomini del gruppo si rilassarono.

“Jackson!” salutò Bellamy mentre i due si afferravano il braccio. A Lexa non sfuggì che nessuno mancò di guardarla con ostilità e sospetto. Non era sicura che questa missione incontrasse il favore di tutti gli Skaikru.

“Presto, non perdiamo tempo. Miller, Jackson, Luther fate un giro nelle vicinanze e vedete se riuscite a trovare qualcuno ancora vivo a Polis. Tyler, Brennan sistematevi alle corde e azionate l'ascensore. Tirateci su.” finito di dare gli ordini Bellamy si fiondò nella cabina facendole cenno col capo di entrare.

 

La salita fu più lenta del previsto, forse perché all'interno c'erano più persone, e Lexa passò tutto il tempo in un angolo ad osservarli. Nessuno aveva aperto bocca mantenendo un perfetto clima glaciale del tutto fuori stagione. Se ne restavano in posizione con gli occhi rivolti alla porta e dandole le spalle, ma era certa che più di uno stesse allerta pronto a difendersi a ogni suo minimo movimento sospetto.

Quando l'ascensore si fermò scattarono subito tutti fuori e si diressero verso Wanheda, che si trovava chinata accanto a un corpo in fondo alla stanza, senza nemmeno badare all'orrore di tutti quei corpi sofferenti. Lexa notò che i lamenti erano considerevolmente diminuiti sostituiti da un odore nauseabondo di morte ed effluvi umani. Entrò nella sala del trono cercando di non pensare al numero di cadaveri che dovevano essersi accumulati in sua assenza, era contenta di trovare almeno qualcuno vivo.

Non aveva fatto che pochi passi quando lo vide, Aden. Era bianchissimo in volto, sudato e sembrava aver perso conoscenza. Forse era...

“Aden!” urlò buttandosi al suo fianco. Per qualche strana ragione la sua mente aveva completamente oscurato il pensiero di cosa potesse essergli accaduto. Era come se fosse ricomparso soltanto in quel momento.

Gli toccò il viso, era bollente.

“È ancora vivo.” le disse Octavia che si trovava pochi metri più in là accanto a Gaia, intenta a somministrarle una strana medicina nel braccio.

“Ma lo stesso non si può dire degli altri del suo gruppo.” continuò indicandole gli altri ragazzini che giacevano bianchi e rigidi come statue di marmo. Si vedeva chiaramente che la Skairipa disapprovava tutto ciò e in qualche modo, inspiegabilmente, la incolpava.

“No.” sussurrò Lexa presa dallo sconforto. Con gli occhi lucidi percorreva i corpi dei suoi piccoli mentre con la mano carezzava i capelli di Aden. Sapeva che era il più forte e che quello sarebbe stato il destino degli altri, ma non doveva andare in quel modo.

“Dammi una mano con chi ancora può farcela. Quando la febbre scenderà potrai stare col bambino.” le disse Octavia dopo un po' di tempo senza mostrare alcuna emozione ma evidentemente impietosita.

“Controlla quelli che sono vivi. Prendi una di queste e fai in questo modo.” Le mostrò come preparare ed effettuare un'iniezione nel braccio dei malati.

“Indra è viva?” le chiese Lexa dopo alcuni minuti mentre pungeva con quello strano aggeggio il braccio di un omone grande e grosso che non faceva che invocare la morte a gran voce.

Octavia non la guardò, stava facendo una fasciatura, ma fece cenno di sì con la testa.

“Titus?”

“Sta bene, anche se Wanheda ha dovuto sedarlo perché continuava a delirare, urlando di averti uccisa.” disse concludendo con una strana risatina sotto i baffi.

 

Dopo circa un'ora, sentì Clarke proferire ad alta voce.

“Bene, così dovrebbe bastare per il momento. Finché non arriveranno gli altri, non possiamo far altro che aspettare.”

“Gli altri?” chiese Lexa alzandosi istintivamente di scatto.

“Non vorrai che queste persone muoiano di fame e di sete. Altri porteranno rifornimenti e aiuteranno a curare quelli rimasti fuori da questa torre.” le ripose Clarke ossequiosa.

Le venne il sospetto che si trattasse di una mossa studiata per portare i suoi uomini all'interno di Polis al fine di assicurarsene il dominio.

Quando vide che Clarke si avvicinava a Bellamy ed Octavia e ascoltava annuendo quello che le stavano dicendo sotto voce, i suoi sospetti si intensificarono.

“Dove potremmo sistemarci io e i miei uomini?” le chiese Wanheda. Finalmente una domanda diretta.

“Lungo il corridoio ci sono molte stanze. Te le mostro...”

“Grazie, le troveremo da soli.” tagliò corto Clarke.

Parlottò ancora a lungo con gli altri due e poi fece per dirigersi verso l'uscita.

“Clarke, vorrei parlarti in privato.” Si decise infine a dirle Lexa accostandosi a lei.

La ragazza si volse verso di lei approfittando del cambio di posizione per allungare nuovamente le distanze tra loro ma non così tanto da non potersi imporre su di lei con la sua presenza.

“Qualsiasi cosa tu voglia dire puoi dirla qui davanti a tutti.” ribatté impietosa.

“Né sono certa ma pref...” provò a replicare ostentando una sicurezza che non riusciva più ad avere.

“Ciò che preferisci non ha più alcuna rilevanza.”

Clarke aveva fatto presto a far sua la politica del distacco dai sentimenti così come lei aveva provato a insegnarle tante volte.

Non le restava che parlarle apertamente.

“Non è mia intenzione venir meno al patto che abbiamo stabilito, ma temo che la mia gente non prenderà bene questi cambiamenti una volta che si sarà ripresa. Tenteranno di...”

“Tu rimarrai la Heda dei terrestri, non preoccuparti.” disse Clarke con un tenue sorriso che tuttavia non prometteva niente di buono.

“Gli antichi romani lasciavano sempre ampie libertà ai locali quando sottomettevano una nuova provincia. In questo modo sono riusciti a mantenere il controllo sul più grande impero della storia per decine di anni.” disse Bellamy con decisione.

“Come vedi Bellamy è un ottimo consigliere. Sa battersi con onore ma è anche uno stratega di primo piano.” Il grande sorriso che Clarke regalò al ragazzo agitò il sangue nelle vene di Lexa che non poté fare a meno di serrare la mascella e i pugni. A quanto pareva avevano avuto l'occasione di parlare mentre lei recuperava la sua cavalcatura per raggiungerli.

“Quindi, i terrestri risponderanno a te e TU risponderai a me. Fa in modo che loro ti seguano e io non sarò costretta a rimpiazzarti.” le disse concedendo anche a lei un largo sorriso ma ben diverso da quello di poco prima. Si vedeva che godeva nel farle subire quell'umiliazione.

 

 

Furono così gentili da lasciarle le sue stanze, facendole per altro chiaramente capire che sarebbe stato preferibile che vi restasse all'interno.

“Ti chiameremo quando gli altri si riprenderanno e potranno parlare con te.” le aveva annunciato Octavia con una certa gentilezza. Clarke era sparita subito dopo essere uscita dalla sala del trono e non l'aveva più rivista. Alcuni uomini le avevano portato cibo e acqua in camera e lei aveva passato la giornata a pensare e osservare fuori dalla finestra l'imponente manipolo di persone che stava arrivando in città e che ne stava praticamente prendendo possesso. Molti stavano costruendo accampamenti improvvisati nelle sue strade.

Detestava sentirsi così inutile e impotente. Bruciava di rabbia nel vedersi così destituita di tutto il suo potere ed estromessa da qualsiasi decisione. Non sopportava l'idea di vedere la sua città e la sua torre in mano ad altri. Ma soprattutto si tormentava all'idea di avere Clarke così vicina e non poterle nemmeno parlare. La ferivano la sua freddezza e la sua distanza, anche avendola a pochi centimetri da sé sarebbe comunque stata lontana mille miglia.

Era ormai notte fonda e osservava dalla finestra le fiaccole e i fuochi accesi negli accampamenti. Aveva preso una decisione. Avrebbe rischiato il tutto per tutto, sarebbe uscita dalla sua stanza e avrebbe neutralizzato le guardie che sicuramente vigilavano alla sua porta. Avrebbe cercato gli alloggi di Clarke e avrebbe affrontato chiunque gli si fosse parato davanti per cercare di fermarla. Doveva parlarle, doveva capire quali erano le sue intenzioni e sapere cosa era veramente successo in quei giorni di cui non aveva memoria. Doveva avere delle risposte. Avrebbe aspettato ancora un paio d'ore, quando le guardie sarebbero state più indebolite dal sonno, poi avrebbe finto di avere una ricaduta e di essere in preda alla febbre, attirandole nella stanza. Una volta dentro avrebbe...

Toc, toc, toc. Sentì bussare alla porta. Balzò in piedi correndo istintivamente con la mano destra al fodero della spada che, incautamente, le avevano lasciato.

“Avanti!” tuonò con il tono imperioso che aveva imparato ad assumere negli anni.

La porta si aprì ed entrò Clarke. Ed era sola. Questa proprio non se l'aspettava. Dopo che aveva passato tutto il giorno ad evitarla e a rivolgerle a mala pena la parola.

“Vedo che sei ancora sveglia. Come mi aspettavo.” Evidentemente questa Clarke era diventata molto più abile a leggerla di quanto non fosse lei a fare il contrario.

“Una volta mi hai detto che quando non c'è niente che si possa fare è meglio riposarsi che rimanere svegli a cercare risposte che si hanno già.” disse Wanheda con noncuranza mentre camminava per la stanza sfiorando gli oggetti che incontrava con una mano. Lexa cominciò a sentire caldo e tanta, tanta confusione.

“Evidentemente io quelle risposte non le ho affatto.” mantenne la calma.

Clarke ridacchio, fermandosi a percorrere i contorni di un candelabro acceso e giochicchiando con la fiammella di una candela.

“Bene, sono qui ora. Siamo sole come avevi chiesto. Chiedi.” disse melliflua dopo un po' di tempo continuando a dare attenzioni voluttuose alle candele.

Di cose da chiedere Lexa ne avrebbe avute tante. Le venivano in mente giusto poche domande: perché diavolo sei qui? A che gioco stai giocando? Cosa è successo dopo Mount Weather? Che intenzioni hai con me? Vuoi distruggere me e il mio popolo? O vuoi soltanto umiliarci?

Decise che era l'ora di cambiare gioco. Si sedette tranquilla sul divano e le disse:

“Non ricordo più nulla di quello che è successo da Mount Weather.” Wanheda in tutta la sua maestosità si era voltata verso di lei piena di scherno e rabbia e stava per interromperla nuovamente, ma Lexa si alzò e stavolta non le permise di prendere il sopravvento.

“Puoi credermi o meno ma mi lascerai parlare. E mi ascolterai, poi starà a te decidere. Siamo solo noi due e non c'è nessuno a cui tu debba dimostrare la tua forza e la tua mancanza di esitazione.”

Clarke mise il broncio ma le fece cenno di continuare.

“Bene.” riprese Lexa facendole un gesto di ringraziamento con la testa.

“Mi sono svegliata questa mattina e l'ultima cosa che ricordavo era di essere morta. Ma non qui, altrove e non per il morbillo ma per un colpo di pistola sparato da Titus. Ricordo di averti fatta portare qui, di averti affrontata. Ricordo che hai tentato di uccidermi puntandomi un coltello alla gola ma poi mi hai perdonata e abbiamo formato insieme un'alleanza tra i nostri popoli rendendo gli Skaikru il tredicesimo clan.”

“Tsè!” la interruppe Clarke, ma Lexa la ignorò e proseguì.

“Ricordo che gli Azgeda minacciavano questo patto e che il tuo popolo era in pericolo a causa di una minaccia esterna. Ricordo che...” si interruppe indecisa se continuare. Riprese fiato mentre la tristezza e la malinconia crescevano in lei.

“...che ci siamo amate, qui in questa stanza.” indicò il letto mentre Clarke la guardava stringendo gli occhi, la rabbia sembrava montarle sempre di più.

“Tu dovevi partire per salvare il tuo popolo, non potevi restare. Io sono venuta a salutarti, Titus ti stava minacciando con una pistola. È partito un colpo. Sono morta tra le tue braccia. Io di quest'altro mondo fuori da quel sogno, in cui tu sei questo, non ricordo niente.” guardava in basso quando fu colpita dalla furia della Skaikru.

“Non ricordi niente, eh? Ci penso io. Ecco cosa è essenziale che tu ricordi! Mi hai lasciata lì, dopo tutto quello che c'era stato tra di noi. Sapevi che non mi sarei fermata, che non avrei mai lasciato a morire i miei amici in quella montagna senza tentare di tutto. Eppure non hai avuto scrupoli ad abbandonarmi lì a morire! O peggio, a trasformarmi in un mostro! Quando ho ucciso Finn hai detto a tutti che ci sono pene peggiori della morte e non hai esitato a lasciare che andassi incontro a una di esse! Tu mi hai fatta diventare questo! E se adesso non ti piace quello che sono, beh, peggio per te.” urlò. Poi afferrò l'intero candelabro e lo scaraventò contro il muro alle sue spalle.

“L'unica ragione per cui non ti uccido...” sibilò tra i denti senza guardarla. “...è che mi servi!”

Quelle parole la ferirono profondamente. Il suo sguardo diventò triste e perse improvvisamente ogni energia. Quando aveva riaperto gli occhi, quando Titus le aveva detto di andarla a cercare, quando l'aveva rivista, ogni istante nelle ultime ventiquattr'ore aveva pensato di essere incredibilmente fortunata. Adesso tutta la miseria di quella situazione le piombava addosso. Si sentiva scivolare verso il basso e l'unica cosa che voleva era che Clarke se ne andasse. Come se l'avesse ascoltata quella si diresse come una furia verso la porta. Lexa guardò verso lo specchio per non vederla andar via e per un istante scorse il riflesso della ragazza, ma non sembrava quella di adesso ma quella dei suoi sogni.

Poi sentì un improvviso singhiozzare. Si voltò e vide Clarke accasciarsi contro la porta mentre piangeva disperatamente. La vide raggomitolarsi ed appoggiare la fronte allo stipite in preda al pianto più disperato. Non sapeva cosa fare, il suo istinto le diceva di avvicinarsi ma la minaccia di morte di poco prima non la rendeva particolarmente propensa a credere che desiderasse essere consolata da lei.

Alla fine cedette e le si avvicinò lentamente.

“Clarke...” le disse dolcemente come a chiederle il permesso.

A parte i singhiozzi non si mosse e non disse niente. “Silenzio assenso.” pensò Lexa.

Si chinò accanto a lei e cominciò ad accarezzarle i capelli delicatamente con la punta delle dita, rimettendoglieli in ordine. Attese che si calmasse. Ci vollero un paio di minuti poi lentamente il pianto si attenuò, Clarke tirò su la testa, si girò e si mise seduta con la schiena al muro. Lexa fece altrettanto mettendosi accanto a lei in silenzio. Le loro mani si toccavano, una accanto all'altra appoggiate sul pavimento.

“Quando ci incontravamo nel bosco mi dicevi che potevo fidarmi di te. Che quello che provavi per me ti aveva fatto capire che la vita era più che senso del dovere e sopravvivenza. Dimmi la verità. Dimmi la verità ti prego, Lexa. Mentivi?”

Nel bosco? Lei le aveva detto quelle cose? Ma quando? Non era proprio la migliore delle idee dirle che non aveva idea di che cosa stesse parlando, ma di fatto era proprio quello che stava succedendo.

“No.” le disse, il che non era propriamente né la verità né una menzogna.

“E allora perché l'hai fatto?”

Con la coda dell'occhio notò che Clarke la stava guardando disperata, gli occhi ancora gonfi e lucidi. E adesso cosa poteva dirle?

“Quando siamo messi con le spalle al muro tutti noi dobbiamo prendere decisioni difficili. Chi come noi ha la responsabilità di molte altre vite, più di altri.” tentò di giustificarsi intuendo che qualcosa le sfuggiva.

“Tu non eri con le spalle al muro! Potevi combattere con noi, è ciò che sapete fare meglio!” si arrabbiò Clarke continuando a fissarla.

“In quel modo avrei sacrificato molte vite della mia gente...”

“Quindi hai deciso di sacrificare la mia e quelle del mio popolo.” le lacrime ricominciarono a scendere dai suoi bellissimi occhi blu e siccome faceva terribilmente male guardarle, Lexa continuò a scrutare nel buio oltre la finestra.

“Sapevo che in qualche modo te la saresti cavata e così è stato.” tagliò corto in preda al più completo disagio.

“Ma hai rischiato! E poi a che prezzo mi sono salvata?”

“Tutto ha un prezzo...”

“Anche l'amore? Che prezzo dai all'amore? Lexa! Guardami! Ho bisogno che tu mi dica che prezzo dai a noi due!” le intimò mettendosi quasi in ginocchio rivolta verso di lei.

Facendo appello a tutto il suo autocontrollo Lexa girò la testa e guardò Clarke negli occhi. Ecco annientate in un istante tutte le sue difese, la sua mente, il suo corpo, tutta sé stessa non volevano altro che lei, baciarla, toccarla, tutto.

“Non lo so, Clarke. Non potrei mai sacrificare le vite di decine di persone, per una soltanto.”

“Non ti ho mai chiesto questo.”

“E allora cosa vuoi sapere?”

“Se mi abbandonerai ancora.”

Il cuore le fece un tuffo nel petto. Non aveva detto “abbandoneresti” o “tradirai”. Quella frase voleva forse dirle che era disposta a perdonarla? Che la voleva ancora?

“No. Non posso prometterti altro, ma ti prometto che non ti abbandonerò mai più.” le disse con sincerità e dolcezza.

Clarke sorrise leggermente.

“Per il momento voglio crederti, ma passerà un po' di tempo prima che le cose tornino come ai tempi dei nostri incontri nei boschi...”

Ancora con questi boschi...

“... e non pensare che lascerò che questo offuschi il mio giudizio.” I loro sguardi si perdevano l'uno dentro l'altro facendo sentire Lexa più immensa di quanto avesse mai pensato di potersi sentire. Avrebbe voluto di più, anche più di un bacio. Avrebbe voluto afferrare Clarke per un braccio e costringerla ad affogare con lei in quell'immensità, in quell'intensità che era l'amore che sentiva per lei.

La Skaikru si alzò delicatamente e, le sembrò, sensualmente e si diresse verso lo specchio. La osservò rimettersi a posto il trucco alla bel e meglio: il pianto l'aveva completamente distrutto. Poi si girò sorridendole, ma senza alcuna pietà per il suo sguardo da cucciolo bastonato. Si avvicinò e le tese una mano. La aiutò a tirarsi su e i loro corpi furono a contatto uno di fronte all'altro. Un fuoco percorse tutto il corpo di Lexa ed era certa che lo stesso stesse accadendo a quello di Clarke. Si guardarono a lungo negli occhi come due magneti che combattono tra due forze opposte, una che li attira e una che li respinge. Alla fine Wanheda ebbe il sopravvento.

“Mi staranno aspettando. Non posso trattenermi troppo a lungo.” frantumò tutte le sue speranze. Si scostò sfiorandole le mani con le sue ed uscì lasciandola impalata a due passi dalla porta. Per l'ennesima volta Lexa si trovò a sospirare e dover guardare il soffitto per calmarsi. Alla fine era andata meglio del previsto.

 

Appena si fu ripresa si diresse verso lo specchio che fino a pochi minuti prima aveva contenuto così bene il riflesso di Clarke che, pensò, doveva averne conservata l'immagine. Proprio mentre pensava una sciocchezza simile, fissandolo intensamente, vide che in esso effettivamente spariva Lexa e compariva l'immagine di Clarke, ma non era la Wanheda che fino a pochi istanti prima era stata nella sua stanza. Era quella del sogno o del ricordo e piangeva accanto a quella che doveva essere la sua pira.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4, Lo specchio ***


Mi scuso con chi segue la storia per la lunga attesa. Una serie di eventi (belli tanto per cambiare) mi ha molto impegnata.  


Capitolo 4, Lo specchio

 

Uno specchio riflette fedelmente ciò che vede? Se chiedete a chi li fabbrica vi risponderà che due specchi diversi non riflettono mai allo stesso modo. E allora cos'è quel riflesso? Siamo noi? È qualcun altro? Se siamo noi, quale versione di noi finisce nello specchio? Se è qualcun altro, chi è?

 

Lexa passò il resto della notte a fissare il suo riflesso nello specchio. L'immagine di Clarke era svanita pochi istanti dopo essere comparsa e per quanto si fosse accanita nel suo compito di sorveglianza la Heda non era riuscita a scorgere più altro se non sé stessa. Verso l'alba cominciò a credere di essersi immaginata ogni cosa. Che il suo sguardo fosse labile esattamente come la sua mente. Ricordava cose mai accadute e non conservava memoria di quelle realmente successe, vedeva cose impossibili che poi svanivano poco dopo. L'estrazione della fiamma aveva danneggiato il suo cervello? O era forse colpa della morte con annessa resurrezione? In ogni caso queste visioni la turbavano assai meno della sensazione che le lasciavano addosso, la sensazione che fossero reali, per lei molto più reali di ciò che la circondava. Non era abituata a indulgere nelle fantasie e si sentiva frustrata da quell'improvvisa incapacità di farne a meno.

 

Mezz'ora dopo quando Octavia bussò alla porta ed entrò, la trovò con le gambe incrociate di fronte allo specchio, ancora intenta a fissarlo. La vide distintamente avvicinarsi a lei e fermarsi incerta a pochi centimetri, probabilmente convinta che stesse meditando e dissuasa dal disturbarla. Finalmente si schiarì la voce e le disse:

“Lexa, Indra sta meglio. Potresti parlarle, ma ti avverto che non è di umore particolarmente accomodante.” le comunicò incerta.

“Non approva quello che sta succedendo.” commentò cupa Lexa senza smettere di fissarsi, irrequieta al pensiero che qualcosa avrebbe potuto comparire nell'istante esatto in cui si fosse voltata.

“Decisamente, no.” nella voce di Octavia c'era una punta di rammarico.

“Non sta dimostrando apprezzamento per la tua rinnovata condizione di comando delle file nemiche.” Lexa era divertita. Lo era a sufficienza da avere la forza di spostare finalmente la testa in direzione di Octavia. La colse fare una smorfia di disappunto.

La Heda si alzò e si avviò verso la sala del trono. Con una certa sorpresa notò che la Skairipa la stava seguendo. Appena entrata nella sala si accorse che molte persone erano state spostate: erano morte? Erano guarite e quindi erano state spostate in luoghi dove fossero più controllabili. Vagò con lo sguardo nella stanza memorizzandone la configurazione: una decina di guaritori Skaikru, otto delle loro guardie armate, i suoi erano stati suddivisi in quattro settori, probabilmente in base alle loro condizioni di salute. In tutto i terrestri saranno stati una quarantina. Nel settore in alto a destra riconobbe Indra, seduta contro la parete fissava con ostinazione uno spicchio di luce sul muro di fianco a lei. Le si avvicinò con passo deciso mentre il resto dei presenti, quelli che erano coscienti almeno, la osservavano con sorpresa, ma anche con risentimento.

“Oso gomplei don odon. Yu ouyon klin kom osir.” fu accolta da questa frase sibilata tra i denti. “La nostra battaglia era finita. Tu ce lo dovevi.”

“Octavia capisce ciò che dici Indra, non è necessario parlare nella nostra lingua.” la ragazza le stava ancora appiccicata e Lexa ebbe la netta sensazione che la stesse sorvegliando, alimentata dalla reazione di agitazione che aveva avuto appena l'aveva sentita pronunciare quella frase.

Indra continuò imperterrita parlando nella lingua dei terrestri, con un tono ancor più aspro.

“Capisce ciò che dico ma non parla la nostra lingua, parla solo la lingua del suo popolo di traditori.” ringhiò.

Lexa tacque e attese. Passarono alcuni minuti prima che Indra si decidesse a puntare su di lei i suoi occhi acquosi.

“Ci hai venduto agli Skaikru come bestiame. Hai venduto la libertà e la potenza del nostro popolo alle stesse persone che ci hanno avvelenato! Dovevi lasciarci morire con onore...”

“Non sono stati gli Skaikru a contagiarci e non vedo onore nel morire senza combattere.”

“Come puoi dire che non sono stati loro a farci questo?” quasi l'accusò Indra.

“Perché Wanheda stessa me l'ha assicurato personalmente questa notte.” non era vero, ma ottenne la reazione che aveva sperato. Vide Octavia sussultare nervosa, colta da un improvviso impulso di scattare altrove.

“Gli Skaikru hanno soltanto approfittato con arguzia di questa situazione, ma sono certa che io e Clarke troveremo un accordo soddisfacente anche a questo proposito.” si affrettò a dire ad Indra la cui furia stava visibilmente montando.

Stava per insistere su quella strada di provocazione nell'intento di causare un piccolo tafferuglio o di convincere Octavia a correre da Clarke a chiedere spiegazioni, ma ebbe inaspettatamente fortuna.

“Lincoln!” la sentì esclamare. Si voltò giusto in tempo per vederla mentre correva tra le possenti braccia dell'uomo e lo baciava con trasporto.

“Sei troppo debole! Non dovresti essere qui!” gli disse a voce alta.

La Heda approfittò subito della situazione per avvicinarsi a Indra e sussurrarle furtivamente:

“La nostra battaglia era finita, ma non la nostra guerra. Era forse meglio concludere entrambe o lasciar vivere i miei guerrieri per combattere ancora in futuro?”

Indra la fissava combattuta.

“Wanheda mi lascerà al comando del nostro popolo.” continuò, “Saremo un clan indipendente e potremo continuare a vivere liberamente anche se risponderemo agli Skaikru. Potremo crescere e fortificarci, riprenderci da questa tragedia e rinegoziare in futuro la nostra indipendenza come popolo più forte.”

Il suo discorso fu interrotto dai passi di qualcuno che entrava con impeto nella stanza. Era Clarke-Wanheda, seguita da Bellamy e tre guardie. Appena la vide non la degnò di attenzioni, ma lanciò subito uno sguardo di rimprovero ad Octavia, evidentemente le aveva ordinato di non lasciarla mai sola e tanto meno con qualcuno dei suoi. Non si fidava di lei dunque?

La Skairipa sostenne il suo sguardo evidentemente ancora poco propensa a farsi comandare in quel modo. Fu Bellamy ad avvicinarsi a lei allarmato e con un atteggiamento decisamente più ostile del giorno prima.

“Indra deve certo riposare e voi, Heda, dovete aiutarci con alcune questioni relative all'ordine pubblico.”

La rassicurò il fatto che l'avesse chiamata Heda, ma non le sfuggì che le aveva di fatto dato un ordine di fronte a tutti.

Serrò lievemente la mano intorno all'impugnatura della sua spada e alzò leggermente il mento. Poi annuì piano inclinando la testa di lato e accettò il suo invito a seguirlo. Passando accanto a Clarke, che a quanto pareva non sarebbe andata con loro, le sorrise. Wanheda non solo la ignorò completamente ma la vide anche stringere gli occhi e serrare la mascella.

Qualcosa non andava nuovamente.

Mentre usciva dalla stanza la vide con la coda dell'occhio prendere possesso, trionfale, del suo stesso trono.

 

Le questioni relative all'ordine pubblico di cui parlava Bellamy non erano altro che ispezioni di ogni singola stanza della torre con relativo inventario dei materiali e degli spazi utilizzabili. Tutto ciò servì a tenerla occupata per l'intera giornata, sotto l'attenta e tesa sorveglianza del “sergente Blake”, come tutti lo chiamavano. Era chiaro che quel compito avrebbero potuto benissimo svolgerlo da soli.

Quanto meno questo lavoro le aveva permesso di osservare che diversi dei suoi uomini e donne, parzialmente rimessisi dalla malattia, erano stati trasferiti in altri piani del palazzo, sempre strettamente sorvegliati.

Per tutto il giorno si era chiesta cosa avesse nuovamente provocato quel cambiamento in Clarke. Certo non poteva aspettarsi che davanti a tutti si comportasse con lei come la sera precedente, ma il modo in cui aveva serrato la mascella...

“Bene, se adesso abbiamo finito, prima di cena gradirei avere un'udienza con Wanheda.” si rivolse a Bellamy che chiaramente era l'unico in grado di esaudirla, una volta che le fu annunciato che sarebbe potuta tornare nelle sue stanze.

“Wanheda al momento è molto occupata. Deve occuparsi di importanti questioni.” le rispose secco.

“Sono sicura che anche la definizione degli accordi tra i nostri due popoli è una questione di grande importanza.” ribatté. Cominciava ad essere decisamente irritata da quella situazione.

“Di questo parlerete di fronte all'intero consiglio e alla presenza di tutti i vostri rappresentanti non appena si saranno rimessi.”

Nonostante la rabbia che stava cominciando a montare in Lexa, Bellamy si voltò e se ne andò, ordinando alle guardie che erano con lui di scortare la Heda nella sua stanza.

 

Per quanto sperasse ardentemente il contrario quella notte Clarke non si fece vedere. Persino lo specchio nonostante il suo sguardo insistente era rimasto muto e a lei non era restato altro da fare che andarsene a letto.

Con sua crescente frustrazione, anche il giorno seguente la impegnarono in una serie di inutili ispezioni della città e del suo stato. Era costantemente sorvegliata e quando incontrava qualche malconcio membro del suo popolo si sentiva ogni volta chiedere:

“Heda! Sei viva! Cosa sta succedendo?”

Domande a cui le era concesso di rispondere a mala pena con qualche frase sbrigativa prima di essere trascinata altrove. Intanto osservava come almeno un centinaio di Skaikru, se non di più, si fosse trasferito all'interno della città e ne stesse prendendo tranquillamente possesso.

Le avevano comunicato che Titus stava meglio e che Aden si stava decisamente riprendendo ma che per il momento non poteva ancora vederli, “Per non turbare il loro stato di salute”.

Quando verso il tramonto incontrò nuovamente Bellamy, che probabilmente era venuto a controllare come stessero andando le cose, la sua irritazione aveva raggiunto livelli che la rendevano difficilmente controllabile.

Decise di ripetere con decisione la sua richiesta.

“Bellamy, voglio vedere Wanheda.” gli disse fredda e decisa.

“Wanheda è m...” cominciò lui inespressivo.

“Adesso ascoltami molto bene.” gli si parò davanti decisamente furente.

“Non ho intenzione di continuare a farvi da guida nell'esplorazione di quella che fino all'altro ieri era la MIA città. Non ho intenzione di venire ancora umiliata mentre prendo ordini da voi di fronte al mio popolo ignaro. Non passerò un'altra giornata prestandomi a questo teatrino e non aspetterò questo famigerato consiglio in cui sarà decisa ogni cosa, se prima non avrò parlato con Clarke. Perciò, poiché vi servo molto più viva che morta e avendo già fatto esperienza della seconda posso assicurarti che non ho nulla da perdere, portami immediatamente da lei o ti conficcherò la mia spada nella gola o, cosa assai più improbabile, morirò provandoci.” Il suo linguaggio del corpo era anche più chiaro delle sue parole. Non aspettava altro che un tentativo da parte dei presenti di fermarla per scaricare su di loro la sua rabbia. I verdi occhi fiammeggianti non scorsero paura in quelli di Bellamy ma si scostò e tra i denti gli sibilò “Seguimi.” mentre con una mano faceva cenno ai soldati di riporre le armi che avevano estratto alla vista di quanto stava succedendo.

 

La scortò di fronte alla stanza di Clarke senza mai dire una parola mentre entrambi si lanciavano occhiate scontente. La camera era la stessa di quando la Skaikru aveva alloggiato lì prima che lei morisse, ma era successo davvero? Se così non era stato sicuramente si trattava di una bella coincidenza.

“Aspetta qui.” le intimò Bellamy con decisione. Entrò nella stanza e per un po' non si sentì niente.

Il silenzio fu interrotto da un urlo rabbioso.

“Questo non ti riguarda!” la grande Wanheda si era chiaramente spazientita.

Lexa non poté fare a meno di correre con la mente alle sue discussioni con Titus per Clarke e sperò che qualcosa di simile si stesse svolgendo là dentro.

“Lexa!” sentì distintamente la voce della Skaikru chiamarla con decisione e capì che era il segnale che poteva entrare.

Wanheda stava in piedi di fianco a un grande tavolo completamente ricoperto da mappe e strani strumenti. Dava l'impressione di essere un tavolo di guerra ma in quei fogli non riconosceva territori a lei familiari.

Avanzò nella stanza ed attese. Clarke la fissava intensamente con durezza.

“Puoi lasciarci, Bellamy.” disse Wanheda mentre continuava a fissarla.

Lui esitava evidentemente contrariato.

A quel punto Clarke si voltò furente verso di lui e gli ordinò tra i denti.

“Ho detto esci!”

A quel punto il ragazzo strinse i pugni e si girò dirigendosi verso la porta. Non mancò di lanciare uno sguardo cattivo a Lexa non appena le passò accanto.

“Cosa vuoi, Lexa?” tagliò corto la ragazza.

“Sono giorni che mi eviti mandandomi in giro a svolgere compiti inutili sorvegliata dai tuoi uomini. Cosa sta succedendo, Clarke?” la sua voce si era inavvertitamente addolcita sul finale.

“Non ti sto evitando, semplicemente non ho nulla da dirti.”

Il gelo nella sua voce si propagò al corpo di Lexa.

“Non vuoi discutere nemmeno di quello che sta accadendo qui? Di come gestire la ripresa della città e...”

“Non è con te che devo discutere di queste cose.”

“Clarke!” la Heda si stava decisamente spazientendo, la situazione degli ultimi giorni cominciava seriamente a pesarle e non riuscì a mantenere la calma. “Mi dici cosa diavolo è successo dopo che te ne sei andata dalla mia stanza due notti fa?” il suo tono di voce era decisamente alto.

Wanheda inaspettatamente si mise a ridere, una risata dura e spietata. Si appoggiò con le natiche e i palmi al tavolo.

“Sono tornata qui e ho trovato Bellamy che mi ha fatta ragionare!”

“Bellamy era nella tua stanza?” in un attimo la gelosia aveva preso il sopravvento deformandole il volto e la voce. Cosa cazzo ci faceva quell'imbecille nella sua camera? Cosa le aveva detto per farle cambiare idea? Si chiese anche se quel suo intervento fosse veramente soltanto volto al bene di Clarke e del loro popolo o se non ci fosse in realtà qualche altro interesse sotto.

“Perché, non avrebbe dovuto?” un sorrisetto malizioso increspò le labbra di Wanheda mentre si avvicinava a lei costeggiando il tavolo.

Decise di non cedere a quella provocazione, visto che già aveva ceduto troppo, e rimase immobile, in silenzio.

Clarke le si avvicinò fino ad arrivare a pochi centimetri da lei che faticava a mantenere la posizione. Mentre si guardavano così vicine, il cuore di Lexa cominciò a battere all'impazzata e la sua pelle veniva percorsa da piccole scosse elettriche.

Lo sguardo della Skaikru ritornò improvvisamente duro.

“Bellamy, mi ha fatta ragionare. Ho ceduto troppo dopo tutto quello che mi hai fatto.” il suo tono era monocorde.

“Ti ho chiesto scusa. Ti ho giurato che non ti avrei mai più tradita. Cosa altro devo fare?” non avrebbe voluto ma finì col supplicarla.

“Niente, per il momento. Tu pensa a non abbandonarmi e a non tradirmi mai più e io vedrò se meriti di nuovo la mia fiducia.” la sentenza era emessa e quei meravigliosi occhi blu non ammettevano appello.

Lexa annuì tristemente guardando il pavimento mentre gli occhi le diventavano sempre più lucidi. Si scostò da Clarke dirigendosi lentamente verso la porta. Sperava segretamente che la fermasse e le dicesse qualcosa, ma ciò non avvenne.

Percorse furiosa il corridoio fino alla sua stanza e una volta entrata si sbatté la porta alle spalle. Afferrò l'elsa della spada pronta a menare fendenti in aria per sfogarsi quando notò che lo specchio non stava nuovamente riflettendo ciò che lo circondava. E ciò che vide non le piacque. Non le piacque per niente.

Vide il suo trono occupato da Ontari che sventolava trionfante la testa di Aden di fronte a Titus e ad altre persone.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. La rabbia le accecò la ragione e scagliò con tutte le sue forze un colpo contro il vetro dello specchio.

La sua sorpresa fu tale, quando invece di infrangersi la superficie lasciò passare la sua mano attraverso di essa, che terrorizzata ritrasse immediatamente il braccio convinta che non le sarebbe rimasto che un povero moncone.

Il braccio tornò intatto mentre le teste dei suoi piccoli Natblida rotolavano sugli scalini della sala del trono e sul volto di Titus scendeva una lacrima silenziosa. Quello che vedeva, quello che ricordava, non era un sogno, era soltanto qualcosa che non riusciva a capire.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5, Nulla due volte ***


Capitolo 5, Nulla due volte

 

 

NULLA DUE VOLTE

 

Nulla due volte accade

né accadrà. Per tal ragione

si nasce senza esperienza

si muore senza assuefazione.

 

Anche agli alunni più ottusi

della scuola del pianeta

di ripeter non è dato

le stagioni del passato.

 

Non c'è giorno che ritorni,

non due notti uguali uguali,

né due baci somiglianti,

né due sguardi tali e quali.

 

Ieri, quando il tuo nome

qualcuno ha pronunciato,

mi è parso che una rosa

sbocciasse sul selciato.

 

Oggi, che stiamo insieme,

ho rivolto gli occhi altrove.

Una rosa? Ma che cos'è?

Forse pietra, o forse fiore?

 

Perché tu, malvagia ora,

dai paura ed incertezza?

Ci sei – perciò devi passare.

Passerai – e qui sta la bellezza.

 

Cercheremo un'armonia,

sorridenti, fra le braccia,

anche se siamo diversi

come due gocce d'acqua.

 

Wistawa Szymborska

 

 

“May we meet again.” una preghiera, un miracolo. Aveva incontrato di nuovo Clarke, ma ne era certa?

 

Le immagini comparse nelle specchio erano sparite così come erano apparse e Lexa aveva passato la successiva mezz'ora a camminare compulsivamente avanti e indietro per la stanza buttando occhiate di sfuggita alla superficie riflettente, di nuovo solida.

La sua mente stava assimilando le nuove informazioni, adattava i circuiti neuronali per far loro spazio ed esaminava tutte le possibilità che adesso le si presentavano davanti. In sostanza, era andata in confusione.

Adesso la sensazione, che aveva avuto fin dall'inizio, di non appartenere a quel mondo si era fatta più netta ed evidente. In qualche modo, da qualche parte, c'era il luogo dove aveva sempre vissuto e decisamente non era quello. Non era pazza, non aveva dimenticato, semplicemente lei non c'era mai stata. Non prima di morire almeno. Ma che cos'era ? Un altro mondo? Un sogno? L'aldilà? Forse si trovava dentro la Fiamma! Sì, certo! Probabilmente quella non era altro che una realtà alternativa proiettata dalla sua coscienza una volta che era morta e si era trovata a dover esistere all'interno di quel potente oggetto. Tanto potente che poteva persino mostrarle le immagini di quanto stava succedendo al di là!

Decise che era giunto il momento di mettersi a meditare per connettersi con gli altri che abitavano quell'illusione. Sedette, rigorosamente di fronte allo specchio, non voleva perdersi gli aggiornamenti dal “mondo reale”.

Incrociò le gambe, chiuse gli occhi e si concentrò sul punto in cui il respiro incontra la pelle, così come aveva sempre fatto.

Le stanze della sua mente erano spaventosamente vuote. Per quanto si sforzasse di comunicare con qualcuno, nel modo che le era naturale, nessuno rispondeva.

Aprì un occhio e si guardò intorno. Tutto era come prima, davanti a lei l'immagine di una ragazza un po' stupida con un occhio aperto e uno chiuso che scrutava sospettosamente sé stessa. La realtà intorno a lei non era cambiata di un soffio e la sua tangibilità non sembrava essersi scalfita nemmeno un po'.

Richiuse l'occhio. Continuò a frugarsi nella testa. Stava per gettare la spugna, forse gli altri comandanti erano anche loro imprigionati in qualche mondo simile a quello in cui avevano vissuto. Forse era da lì che ogni volta le parlavano. Magari si piazzavano davanti al loro specchio, osservavano la situazione e quando il nuovo comandante dormiva o meditava erano in grado di comunicare con lui. Avrebbe dovuto adattarsi a passare il resto del... diciamo, dell'eternità, lì dentro? Aveva senso a quel punto preoccuparsi del “morbillo”, della sottomissione del suo popolo, di Wanheda? Quel mondo che la Fiamma le creava era un dono? Un modo per mantenerla allenata con ciò che occupava la sua mente nel mondo reale?

Una voce improvvisa si fece strada dentro di lei.

“Ti sbagli, questo mondo non è meno reale di quello in cui tu hai vissuto.”

La stranezza era che la voce era la sua.

“Chi sei?” chiese a voce alta spalancando gli occhi e muovendo freneticamente le pupille in cerca di qualcosa intorno a lei. Si aspettava che lo specchio si animasse e la Lexa che aveva di fronte cominciasse d'improvviso a muoversi e parlarle godendo di vita propria.

La voce, la sua voce, riprese a parlarle con il tono di chi sta facendo una riflessione tra sé e sé. Il che non era del tutto falso. La differenza è che quando hai un dialogo con te stesso solitamente hai la sensazione di poterlo controllare, di poterlo interrompere, ad esempio. Questa sensazione Lexa non ce l'aveva. Sentiva quella presenza come un corpo estraneo dentro di sé, ma con qualcosa di familiare.

“Chi sono... Sono te... Credo... Ma non proprio come te. Sono Lexa Kom Trikru, Heda dei dodici clan. Questo è certo. Anche tu lo sei, o lo eri... Forse siamo partite dalla domanda meno facile di tutte.”

“La domanda meno facile di tutte...” pensò, “E qual era la più facile allora?”

Subito l'altra le rispose.

“A ben pensarci non credo ce ne siano di semplici in questo caso. Chi sono? Cosa ci faccio qui? Cosa sta succedendo? Sono domande che mi faccio da giorni senza arrivare a una risposta definitiva.”

Lexa cominciava lentamente a sentire la tensione nel suo corpo allentarsi. L'assurdità di quanto stava succedendo la rendeva ancora molto confusa, ma non era la prima volta che si confrontava con delle voci nella sua testa e cominciò a pensare che si trattasse solo di abituarsi e aprirsi alla comprensione di quanto stava accadendo, proprio come era stato quando aveva preso la Fiamma.

“Anch'io mi chiedo le stesse cose.” pensò e quindi disse all'Altra.

“Lo so. Sono qui da quando ci siamo risvegliate.”

Siamo..”

“O meglio, Tu sei qui da allora, prima ero io a comandare questo corpo...”

Ora cominciava a capire. Qualcosa.

“Ricordo solo le febbre, il delirio, Titus al mio fianco. Poi tutto si è spento. Pensavo di essere morta. Penso che in effetti sia proprio ciò che è accaduto. Quando ho cominciato a risvegliarmi vedevo e facevo delle cose che non riuscivo a controllare. Ero come in un sogno e per un po' ho creduto che lo fosse. Poi lentamente ho iniziato a sentire i tuoi pensieri. Quando hai rivisto Clarke, allora ho capito che dovevo, Dovevo parlarti, dovevo aiutarti. È stato uno sforzo colossale ma ci sono riuscita. Dopo di che sono ripiombata in qualche angolo di questa mente. E solo adesso sono riuscita...”

“Mi hai detto che questo mondo è reale, come fai ad esserne sicura?”

“Perché fino a qualche giorno fa questo era il mio mondo ed era reale. Terribilmente. Come le mie scelte e le loro conseguenze. Pensavo di salvare il mio popolo e invece l'ho distrutto.”

“Sei Tu allora che hai contagiato la mia.. La nostra gente?” il pensiero di essere stata lei, o comunque una qualche versione di sé stessa, a causare una simile pandemia l'atterriva.

“No, non proprio. Sono state le mie scelte...” la voce pareva adesso permeata da un'immensa tristezza, la Sua tristezza, che per questo era ancora più spaventosa.

“Non capisco...” pensò Lexa sempre più confusa. Quel poco di chiarezza che sembrava lentamente conquistare veniva ogni volta rimescolata dalle ombre di nuovi dubbi e paure.

“Entrambe abbiamo fatto una scelta, non è vero, Lexa? Una scelta di cui ci siamo pentite e di cui ci pentiremo per il resto dei nostri giorni.”

“Io, non...”

“Sai di cosa sto parlando. Mount Weather.”

Una fitta di dolore al petto le chiarì fin troppo bene la situazione.

“Tu pensi che...”

“Io penso che sia stata Clarke a contagiarci con questa malattia che solo lei può curare. E so che in parte lo pensi anche tu. Nel tuo mondo le cose sono andate diversamente. Clarke ti ha perdonata. Non so perché qui non sia accaduto. Forse perché è stata diversa l'entità del tradimento...” il pensiero si era spento in una sorta di tenue lamento onirico.

“Non ne sarebbe mai stata capace.” sentenziò. Non poteva immaginare la sua Clarke uccidere centinaia di persone soltanto per vendetta. Non la poteva immaginare uccidere lei.

“Forse non la Clarke che conosci tu. Avrei detto lo stesso della Clarke che conoscevo io. Ma questa Clarke...”

“Cosa può averla cambiata così tanto?” adesso era la sua paura a far risuonare i suoi pensieri come un lamento.

“Il tradimento?”

“Anche io l'ho tradita.” anche solo pensarlo le faceva male.

“Ma, a quello che ho potuto vedere, tu non avevi condiviso con lei quanto avevo condiviso io.”

“...”

“Ho scavato nelle nostre memorie. Nelle tue, più che altro. Quando tu l'hai baciata, quel giorno nella tenda, Clarke si è scostata, non è vero?”

“Sì...” rispose mestamente ripensando alla delusione e all'angoscia in cui quel gesto l'aveva gettata. Delusione e angoscia che pochi giorni dopo l'avevano portata a decidere di sacrificare i sentimenti per il bene del suo popolo.

“La Clarke che ricordo io non l'ha fatto. Ci siamo amate, quella notte e molte altre notti dopo di quella. Nei boschi intorno all'accampamento, per non farci scoprire dai nostri popoli.”

“Il verso dell'allodola.”

“Era il nostro richiamo...”

“Non ci credo. Io non avrei MAI tradito Clarke se avessimo condiviso così tanto!” urlò dentro di sé rifiutando con tutta sé stessa quel pensiero.

“E invece sì. L'avresti fatto comunque. L'hai fatto, o almeno io, che sono te, l'ho fatto.”

“Tu non sei come me.”

“Sono in tutto e per tutto come te. Ho ripercorso ogni angolo dei tuoi ricordi e sono identici ai miei fino a quel momento nella tenda. Ogni scelta, ogni sofferenza, ogni pensiero. Nostra madre, l'addestramento. Il conclave, Luna, Costia, Gustus, Clarke...”

“No. NO, NO, NO. Non avrei potuto... Non avrei mai...” si reggeva la testa tra le mani scuotendola e cercando di scrollare via quei pensieri e quella terribile presenza dalla sua mente.

“Credi ciò che vuoi, ma...”

Quello strano soliloquio fu interrotto dal sordo rumore di qualcuno che bussava alla porta.

Lexa riaprì gli occhi. Non ricordava nemmeno di averli chiusi.

“Comandante, il Sergente Bellamy richiede la sua presenza per importanti soprall...”

La Heda si alzò di scatto. La voce dell'Altra sembrava essere scomparsa, ricacciata in qualche angolo della sua mente.

Spalancò la porta e si ritrovò davanti il solito soldato mandato per impegnarla in qualche noioso compito da svolgere sotto stretta sorveglianza.

“Dì al Sergente Bellamy, che la Heda del Popolo dei Terrestri, non ha alcuna intenzione di muoversi dalla sua stanza. Né oggi, né domani, né un altro giorno, fino a che non le sarà permesso di vedere i suoi uomini e di parlare con loro o fino a che non si svolgerà questo benedetto consiglio. Può provarci con la forza, se lo ritiene necessario, ma dovrà essere ben più agguerrito dell'ultima volta che ci ha pensato.”

Sbatté la porta in faccia al soldato e tornò a posizionarsi davanti allo specchio fissandolo ancor più intensamente, guardandosi bene dal tornare a meditare. Per quanto adesso le facesse ribrezzo l'immagine che rifletteva, era determinata a non farsi sfuggire il ben che minimo dettaglio.

Se davvero quello era un mondo reale tanto quanto il suo era più che mai decisa a lasciarlo quanto prima per tornare dall'altra parte. Per tornare dalla sua Clarke e, in ultima analisi, da sé stessa.

 

 

I giorni passarono senza che nulla degno di nota accadesse. Lo specchio rimaneva immobile, solido e piatto come la più crudele delle realtà. La voce dell'Altra rimaneva seccamente confinata là dove l'aveva tempestivamente rinchiusa. Tornarono a tentare di convincerla ad uscire dalla stanza, ma rispose sempre con la stessa decisione. Una volta venne anche Bellamy, a cui sbatté la porta in faccia senza nemmeno rivolgere la parola. Clarke non venne mai. La sua pazienza cominciava ad avere un limite.

 

Il limite nella sua vita era sempre stato una linea d'ombra fragile da attraversare. Il sole non girava mai quel tanto nel cielo che bastasse a rischiarare quel che c'era dall'altra parte.

 

“Dalle ceneri risorgeremo.” Sentiva una gran voglia di bruciare tutto, forse perché la rabbia le ardeva dentro. Era stata e probabilmente era, la Heda più paziente che il suo popolo avesse mai avuto. Anche se quella non era una virtù molto apprezzata.

 

Chi era l'Altra che aveva nella testa? Lei, un'altra versione di sé. Questa domanda la costringeva a porsene una più ardua. Chi era lei stessa?

 

E se quella Clarke, non era la Sua Clarke, cosa stava succedendo alla sua Wanheda ora che Ontari aveva preso il suo posto? E, cosa più importante, chi stava diventando Clarke? Sarebbe stata sempre Sua? Sarebbe stata la persona che amava?

 

Passarono così cinque interminabili giorni, finché le porte della sua stanza si spalancarono mentre lei si stava esercitando con la spada: per non perdere prestanza fisica, ma soprattutto per non perdersi in quei pensieri.

Entrarono concitati Bellamy e tre guardie. Finalmente quell'imbecille si era deciso ad affrontarla. Lexa si spostò lateralmente impugnò le spade saldamente e le incrociò di fronte a sé, pronta a colpire.

Le guardie misero mano alle loro armi, ma Bellamy fece loro segno di restare dov'erano.

Le si avvicinò fino a toccare con il ventre la punta delle spade.

“Devi venire con noi immediatamente.” le disse con sguardo truce e deciso.

“Non verrò senza...”

“Alcuni dei tuoi sono nella sala del trono, si stanno ribellando a Wanheda.”

“Che sorpresa..” pensò Lexa sarcastica mentre per qualche istante le sue pupille percorsero freneticamente il volto del ragazzo per vedere se mentiva. Scorse solo una profonda e sincera preoccupazione.

Si spostò e ripose le spade nel fodero, dicendo con scherno:

“I vostri uomini e le vostre armi non sono in grado di occuparsene?”

“Wanheda preferirebbe risolvere le cose senza spargimenti di sangue.”

Lexa alzò le sopracciglia e chiese con disprezzo al suo interlocutore:

“E tu, Bellamy? Non preferiresti “risolvere le cose” in modo diverso?”

Si fissarono, sfidandosi, dritti negli occhi per qualche tempo. Poi la Heda distolse lo sguardo e proseguì oltre di lui facendo sbattere la sua spalla contro quella del Sergente che non reagì alla provocazione ma si limitò a seguirla probabilmente maledicendola.

Sentì le urla già a metri di distanza. Nonostante la confusione, tra tutte distingueva chiaramente quella di Clarke, per uno strano istinto che imprime saldamente nelle nostre menti l'impronta della voce delle persone amate.

Era prevedibile che sarebbe successo qualcosa del genere e le avevano impedito di fare qualsiasi cosa che avrebbe potuto evitarlo o quantomeno mitigare la situazione. Onestamente, alla luce di ciò che aveva scoperto, le importava poco di tutta quella situazione. Non era il suo mondo in fin dei conti, non era un suo problema.

Quando entrò nella sala un folto gruppo di persone, tra cui riconobbe Indra e Aden, se ne stava davanti al trono sul quale sedeva trionfante in tutta la sua crudele bellezza, Wanheda. L'irritazione che provava nel vedere il suo posto usurpato era contaminata dai sentimenti che non poteva evitare di provare nel vedere Clarke così regale in quell'armatura, con il mantello blu che le scendeva su un fianco e la luce del sole che, nonostante il trucco, rendeva i suoi occhi di un azzurro impalpabile e intenso.

In quel momento un uomo le urlò:

“Per noi non sei nessuno, Wanheda! Non hai alcun diritto di ordinarci cosa fare!”

“Porti solo morte! Non sei la nostra Heda!” continuò un altro accrescendo il tumulto di tutti.

“Già, dov'è la nostra Heda? Sappiamo che è viva! Vogliamo la vera Heda!” riprese l'altro.

Wanheda si alzò.

“La vostra Heda sta arrivando, ma ciò non cambierà la mia posizione rispetto alle vostre richieste.” Non aveva alzato la voce, si era limitata a guardare dritto negli occhi il suo interlocutore trasmettendo tutto il suo disprezzo nel tono della voce e nello sguardo.

Quando Wanheda alzò la testa la vide. Si avvicinò ulteriormente alla folla e si profuse in un inchino che per quanto accennato risultò teatrale. Con la mano sinistra protesa verso il centro della stanza le faceva segno di avvicinarsi. Subito la folla di persone si girò e vedendola cominciò a diffondersi un mormorio: “Heda. Heda. Heda.” A Lexa non sfuggì che non tutti mostravano felicità nel vederla e molti mostravano apertamente una certa ostilità. Per fortuna tra questi non c'erano Aden e Indra, il cui sguardo aveva intercettato appena possibile. Il ragazzino la fissava con la solita ammirazione mentre la fedeltà di Indra non sembrava essere stata scalfita dalle sue decisioni.

In ogni caso il gruppo si divise in due parti per farla passare. Riconobbe quelli che avevano parlato, erano due ambasciatori. Conosceva le abilità in combattimento di questi ultimi e giudicò immediatamente una pessima idea quella di Clarke di avvicinarsi così tanto a loro.

“La vostra Heda è qui. È lei che ha contratto questa alleanza con noi. Potete chiedere a lei adesso.” il tono canzonatorio di Clarke non le piacque per niente. Non era la maniera giusta per porsi davanti a quelle persone.

“Veramente è stato Titus...” borbottò tra sé Lexa.

Wanheda la guardò interrogativa, inclinando leggermente la testa e arricciando le labbra in quel suo gesto involontario che Lexa adorava.

La Heda si girò verso i suoi uomini assumendo un portamento fiero.

“Heda, è vero quello che dice Wanheda? Hai veramente venduto la nostra libertà al loro popolo?” le chiese uno degli ambasciatori con evidente disprezzo.

“Non c'è ancora stata la riunione con il Consiglio...” disse guardando con la coda dell'occhio Clarke e mandando una fugace occhiataccia a Bellamy.

“...ma mi è stato chiesto di continuare a guidare il nostro popolo come Heda sotto il comando del Popolo del Cielo.”

Appena ebbe finito un brusio scontento si levò dalla sua gente.

“Sapete anche voi” proseguì “che è stato il Popolo del Cielo a curarci, nonostante il nostro tradimento a Mount Weather...”

“Un tradimento di cui tu sei responsabile.” urlò qualcuno dalla folla. Clarke si mosse nervosamente vicino a lei che non si lasciò interrompere.

“...quando avrebbe potuto schiacciarci tutti. Tutto ciò richiede un prezzo.” concluse.

Un coro di “Avrei preferito morire.” e “È un prezzo troppo alto da pagare.” si levò tra la gente.

“Non spetta a voi deciderlo!” tuonò Wanheda. “Potremmo imporvi condizioni ben peggiori! Vi lasceremo le vostre terre e la vostra indipendenza in cambio della vostra fedeltà e...”

“IO NON VENDERO' MAI LA MIA LIBERTA' A QUESTA GENTE!” improvvisamente un uomo tra la folla si staccò dagli altri e urlando queste parole estrasse la spada e si gettò su Wanheda con uno slancio così improvviso da non lasciare a nessuno il tempo di agire.

Qualcosa dentro Lexa scattò in un istante e senza che lei potesse davvero controllarsi si gettò su Clarke giusto in tempo per parare con il braccio il colpo della spada che si conficcò dolorosamente nella carne offuscandole la vista.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6, Squarci ***


Capitolo 5, Squarci

 

Il dolore che la attanagliò era annichilente e la costrinse a cadere in ginocchio trascinando con sé Clarke, a cui si era appoggiata per farle scudo. Percepiva a mala pena il tumulto scoppiare intorno a sé, la vista e l'udito si erano ovattati.

L'istinto la spinse ad agire slanciando colui che l'aveva colpita lontano da sé facendo leva su tutte le sue forze. Ignorò il dolore ed estraendo una sua spada con il braccio sano si rialzò abbastanza in fretta da riuscire a parare a mezz'aria il colpo successivo. Per qualche istante i due si fronteggiarono, si rendeva conto che intorno a lei stava scoppiando il fini mondo e se non si fosse sbrigata tutto sarebbe finito in un bagno di sangue. Raccolse tutte le sue energie e utilizzò il peso del suo stesso corpo trasferendolo all'arma che teneva in pugno. Riuscì a vincere la prova di forza con l'avversario, che cadde a terra. In un lampo, sapeva che difficilmente avrebbe avuto altre occasioni, si rigirò la spada nella mano per poter scagliare meglio il colpo, poi infilò la lama dritta nel cuore dell'uomo.

La estrasse e la ripose rapidamente nel fodero. Gettò una veloce occhiata a Clarke, la quale scansava le sue guardie, sopraggiunte per aiutarla a rialzarsi. Stava bene.

“SE QUALCUN ALTRO...” tuonò Lexa mentre ancora gli uomini di entrambe le fazioni si fronteggiavano armi in pugno “...CREDE ANCORA CHE LE DECISIONI CHE HO PRESO SIANO SBAGLIATE...” squadrò uno per uno tutti i presenti prima di proseguire.

“...PUO' ANCORA FARSI AVANTI E RAGGIUNGERE LA MORTE CHE STATE RECLAMANDO A GRAN VOCE!”

Poi abbassò il tono mantenendolo sicuro e deciso:

“Per parte mia sono già morta una volta e non ho intenzione di permettere che accada di nuovo.”

Si scostò di lato in modo da rendere nuovamente Wanheda, che nel frattempo si era rialzata, visibile a tutti.

“Nei prossimi giorni discuterò con gli Skaikru i termini della nostra alleanza e, come ho sempre fatto, farò in modo di perseguire prima di tutto il bene del nostro popolo. Nel frattempo, chi oserà nuovamente attaccare Wanheda o uno qualsiasi degli Skaikru che ci hanno salvato, dovrà vedersela con me.” il suo volto si contrasse in una smorfia di rabbia e ferocia quando aggiunse “E allora potrà esser certo che la morte sarà veramente il miglior destino che lo possa attendere.”

Gettò un'ultima occhiata a Clarke che cercò di sostenere il suo sguardo alzando leggermente il mento con fierezza, ma notò che si stava mordendo l'interno delle labbra.

Reggendosi il braccio, il cui dolore era tornato a esserle presente, si diresse allora verso l'uscita della sala facendosi strada a spintoni tra la gente. Nessuno osò fermarla.

 

Arrivò nella sua stanza e si rese conto che aveva probabilmente lasciato una scia di sangue dietro di sé. Afferrò una tenda e ne stralciò un pezzo con la mano. Era furiosa. Quegli idioti non solo avevano fatto entrare degli uomini armati nella sala ma non erano nemmeno stati capaci di reagire tempestivamente a una minaccia proteggendo la loro Heda! Per non parlare di Clarke! Aveva agito come se non si aspettasse una possibile ribellione da parte del popolo dei terrestri o, ancora peggio, come se pensasse che il suo volere e la sua autorità potessero imporsi semplicemente facendo la voce grossa. Probabilmente non aveva con sé nemmeno una spada o una delle loro pistole. E se le aveva non aveva ancora imparato a usarle come si deve.

Si stava fasciando rabbiosamente il braccio quando vide un paio di mani bianche e delicate posarsi sulla sua ferita. Risalì lentamente con lo sguardo fino alla loro proprietaria, anche se sapeva fin dal primo istante della loro comparsa a chi appartenessero. Nella furia della corsa verso le sue stanze non si era premurata di osservare se qualcuno la stesse seguendo. Evidentemente Clarke l'aveva seguita subito, lasciando ai suoi uomini il compito di riappacificare del tutto la situazione.

“Faccio io.” la sua voce dolce agì subito da calmante per i nervi tesissimi di Lexa che scostò la sua mano lasciandola penzolare lungo il fianco.

La guardava srotolare lo straccio e rifare da capo la fasciatura, così come l'aveva guardata medicarle la ferita alla mano dopo lo scontro con Roan. Ma quella era un'altra Clarke.

“Mi sono spaventata quando ho visto che ti avevano colpita.” disse Wanheda senza guardarla e continuando ad avvolgerle il tessuto intorno al braccio.

“Ah sì?” chiese Lexa. Un po' di ostilità le era rimasta addosso e non poteva fare a meno di farla trapelare con le sue parole.

“Sì... Per un attimo ho pensato che tu fossi...”

“Morta. Era a questo a cui pensavi quando mi hai chiesto di fare in modo che il mio popolo mi seguisse così che tu non fossi costretta a rimpiazzarmi?”

“Lexa, ti prego... Non adesso...” il tono di Clarke era supplichevole. Le strinse le bende come poté e continuò ad evitare di guardarla in viso appigliandosi agli oggetti intorno a sé.

“Mi hai confinata qua dentro impedendomi di parlare con la mia gente...”

“Non è vero, sei tu che ti ci sei confinata, io...” tentò di intervenire. Lo sguardo di Wanheda vagava, vagava, vagava senza meta rimbalzando da una superficie all'altra come un esule senza patria.

“Che alternative avevo? Avrei dovuto continuare per giorni a fare il cagnolino di Bellamy?” ribatté Lexa secca mentre muovendosi cercava di sciogliere la tensione accumulata nei muscoli della spalla. La ferita pulsava e le faceva sempre più male, l'effetto dell'adrenalina stava scemando.

“Avresti mostrato al tuo popolo di fidarti di noi e che stavi collaborando...”

“E sarei riuscita tempestivamente a farmi odiare dalla mia gente. Così più nessuno mi avrebbe seguita.”

Clarke si mantenne in silenzio per un tempo che le sembrò interminabile. Lexa non le toglieva gli occhi di dosso e sperava di poter in qualche modo scalfire quella corazza che aveva indossato sopra i sentimenti per trovarci la prova che quella era la Sua Clarke, che ogni altra ricerca era vana perché era già approdata là dove voleva arrivare.

“Hai ragione... Ho sbagliato.” e finalmente la guardò. Ed era Clarke, e non Wanheda, quella che la stava guardando. Gli occhi lucidi ingrandivano le iridi fino a darle la sensazione di un cielo limpido e sereno. Quello in cui si era persa tante volte guardando dalle terrazze della sua torre. Quello che sembrava sfumarsi nell'orizzonte come creandolo e ricreandolo all'infinito.

Era lei. Erano i suoi occhi che la ammaliavano, rendendo vano ogni tentativo di resisterle.

Lexa si avvicinò lentamente a Clarke che non si mosse, l'aspettava.

Erano a pochi centimetri l'una dall'altra, i loro sguardi unica strada che tracciava il percorso tra di loro. Era una strada a senso unico e senza uscita. La Heda si fermò, voleva che fosse l'altra ad azzerare l'esile distanza che le separava.

Il tempo di un respiro, un passo di Clarke, e i loro corpi furono a contatto. Sapeva che si erano già baciate molte e molte volte, ma non loro, non quella Clarke e quella Lexa e tutto, in effetti, aveva il sapore e le incertezze di una prima volta.

Inclinarono leggermente il viso in due direzioni opposte pronte per consumarsi in quell'incastro perfetto. Fu allora che Lexa esitò. Si chiese se quella che stava per baciare era la donna che amava. Ma fu solo un pensiero fugace perché il respiro di Clarke sulla sua pelle, il calore che emanava e l'intensità del suo profumo erano una combinazione a cui, ne era certa, neppure la migliore delle versioni di sé stessa avrebbe saputo resistere.

Così il loro primo bacio ebbe inizio. Prima assaggiandosi morbidamente le labbra, poi accompagnando con la lingua l'esplorazione di quel gusto eccitante. Infine, lasciando che le lingue stesse si abbracciassero languidamente mentre le mani giungevano in aiuto di quel bisogno di contatto tra i loro visi che non poteva più essere saziato dal semplice scambio tra le loro bocche.

Il corpo di Lexa venne scosso da continue fiammate di calore per tutti quegli interminabili minuti che segnarono il loro baciarsi. Non avrebbe potuto sperare, morendo, che avrebbe avuto l'occasione di sentire quelle sensazioni di nuovo.

Ci mise , perciò, un po' ad accorgersi che quello che inumidiva le sue mani non era sudore ma lacrime. Appena se ne accorse si scostò leggermente interrompendo di mala voglia il bacio. Guardò gli occhi di Clarke, stava piangendo silenziosamente.

“Sei già morta una volta, Lexa Kom Trikru, non farlo mai più.” le sussurrò con voce tremante, per poi stringerla a sé in un tenero abbraccio e incastonare la sua testa nell'incavo della sua spalla, facendole sentire una piccola fitta di dolore al braccio.

Mentre accarezzava i soffici capelli di Clarke, che si abbandonava al pianto, non poté trattenersi dal chiedersi:

“Chissà se Clarke, l'altra Clarke, la Mia Clarke, avrebbe detto lo stesso?”

E dopo un simile pensiero fu altrettanto impossibile impedirsi di chiedere, stavolta a voce alta:

“Clarke... Sei stata tu a contagiarci con il Morbillo?”

 

Clarke si scostò di scatto. Il suo sguardo era cambiato, tornando quello fiero e rabbioso di Wanheda.

“Mi stai davvero chiedendo questo? Adesso?” era chiaro che si era arrabbiata.

“Ho bisogno di saperlo.” rispose. “Ho bisogno di sapere chi sei...” pensò Lexa.

“Certo! Il tuo primo pensiero va sempre al tuo popolo!” sibilò sarcastica Wanheda.

La Heda tacque: ora che i giochi erano fatti era meglio non peggiorare le cose con inutili marce indietro.

“Se l'avessi fatto? Se l'avessi fatto penseresti di me che sono un mostro?”

Lexa non rispose limitandosi a guardarla con paura. L'ansia cresceva al pensiero che quella mancanza di una risposta diretta potesse voler dire solo una cosa.

“Ma certo. Non c'è bisogno che tu dica niente. Te lo leggo negli occhi.” la voce di Clarke si incrinò per un istante. Poi divenne crudele, nel tono e nello sguardo.

“È questo che fate voi terrestri, no? Trasformate le persone in mostri. Una volta pensavo che la vita fosse qualcosa di più che semplice sopravvivenza, ma tu mi hai fatta ricredere. Quello che conta è solo la vita. Del mio o del tuo popolo, poco importa, vero? Ma voi, non meritate di vivere.”

Il suo tono si abbassò diventando ancora più terribile, “No, Lexa, vorrei tanto essere stata io, ma no. Vi siete ammalati entrando in contatto con noi, questo è vero, ma perché non siete vaccinati e siete vulnerabili alle malattie di cui noi siamo portatori sani e inconsapevoli.”

Clarke fissò Lexa per un'ultima volta negli occhi poi si voltò e si diresse con decisione verso l'esterno. Prima di chiudersi la porta alle spalle esitò e disse:

“Addio Lexa. Come sempre, è stato uno sbaglio.”

 

 

A Lexa quelle parole arrivarono attutite. Nella sua mente si era già scatenata una guerra il cui esito non poteva che essere marginalmente influenzato dal rinnovato disprezzo di Wanheda.

 

Chi era quella? Era la sua Clarke? No, non era lei. Quella discussione... La Sua... L'Altra... Non avrebbe mai detto certe cose. No. E allora... Qualsiasi Clarke le andava bene? Qualsiasi Clarke era accettabile? Dove stava il limite tra lei e un'altra persona? Cosa le diceva che non fossero due creature completamente distinte accomunate dallo stesso nome e, in parte, dallo stesso aspetto? Chi era quella che voleva lei? Chi?

 

Nell'infinità di tempo che passò a camminare avanti e indietro per la stanza si convinse solo di una cosa: se c'era un modo per tornare da dove era venuta doveva trovarlo e subito. Si mise ad ispezionare ogni millimetro dello specchio. Lo spostò, lo tastò, lo rigirò in ogni direzione. Provò a concentrarvi contro i raggi del sole, con l'unico risultato di rischiare la cecità. Appena il sole tramontò provò anche con i raggi lunari. Dalla memoria erano riemerse alcune vecchie storie che sua madre le raccontava da piccola, in cui i raggi del sole e della luna potevano far accadere cose strane.

In ogni caso il risultato, ovviamente, fu una gran perdita di tempo.

Ripristinò la posizione originale dello specchio e tornò a posizionarsi di fronte a esso. Non le restava altro che aspettare... E sperare.

 

Ci volle poco perché si addormentasse, del resto era esausta dopo il combattimento e tutte quelle emozioni, ma il riposo durò poco. Non appena la sua coscienza iniziò a svaporare, l'Altra si fece avanti.

“Non starai pensando di andartene, vero?” la fulminò rabbiosa.

“Non appartengo a questo mondo e devo tornare nel mio.” rispose Lexa.

“Lo dici soltanto per quanto è appena successo con Clarke.”

“Lei non è Clarke. O almeno non è quella che io ho conosciuto.”

“È vero. Non è proprio la stessa che hai incontrato nel tuo mondo così come io non sono proprio te. Ma tu hai comunque rischiato la tua vita per lei e non hai resistito all'impulso di baciarla. La ami tanto quanto ami l'altra.”

Quelle parole la sconcertarono. Sentiva di essere sul punto di sprofondare nella pazzia se ancora avesse indugiato in quelle domande impossibili su cui aveva riflettuto per ore. Così fece ricorso all'istinto di conservazione.

“Voglio andarmene e basta.” disse.

“E non pensi a Clarke? Le hai promesso che non l'avresti lasciata mai più.”

sentiva nella voce dell'Altra un'impazienza in cui riconosceva la sua quando era costretta all'inazione.

“Non mi sembra che a lei importi molto. Non so se sei stata attenta durante la nostra ultima conversazione. Potrebbero esserti sfuggite frasi come “Tu il popolo non meritate di vivere” e “Vorrei essere stata io a contagiarvi con il Morbillo.” si sentiva giudicata dal peggior giudice di ognuno, sé stessa. Era pronta per l'arringa finale.

“Non sono le sue esatte parole.” puntualizzò la voce interiore.

“Perché non ti confronti tu con lei allora? Se io me ne vado farai tu i conti con questa Wanheda che ti sei andata a cercare!” reagì con stizza Lexa.

“Ho paura che se tu te ne vai portando via il mio corpo sarò costretta a venire via con te o a scomparire...”

“Che gioia...” pensò la Heda.

“Ti prego, Lexa. Non lasciare Clarke. Non costringermi ad abbandonarla di nuovo. Lei ha bisogno di me.”

Ah, questa era bella, adesso avrebbe dovuto restare con una Clarke che non era la Sua, per far contenta una Lexa che non era lei. Sentì montarle dentro antichi rancori e le tornò alla mente Titus e i suoi consigli non richiesti. Comunque andassero le cose tutti sembravano chiederle di rinunciare a colei che amava! Per contrasto in quel momento il da farsi le sembrò più chiaro che mai. Voleva la Sua Skaikru e se quel maledetto specchio non avesse ricominciato a “funzionare” l'avrebbe frantumato in mille pezzi.

“Clarke tornerò da te. Te lo giuro. E questa è l'unica promessa che voglio mantenere.”

Spalancò gli occhi che stava già albeggiando, ci mise un po' a mettere a fuoco la stanza intorno a lei.

“Lexa!” le urlava in testa l'Altra che stavolta era riuscita a non farsi ricacciare indietro.

Si accorse immediatamente che qualcosa era cambiato. La camera sembrava essere molto più grande. Forse perché al di là dello specchio si estendeva un'altra stanza e più precisamente la sua sala del trono. Vide Ontari sdraiata priva di sensi su di un tavolo mentre Abby trafficava con il suo braccio impedendole di vedere ciò che le stava dentro. Provò sollievo nel notare che colei che avrebbe dovuto succederle era già morta, ma non comprese per quale ragione Abby si trovasse lì e temette che in tutto ciò avesse parte il Popolo del Cielo e quindi anche Clarke. I suoi sospetti furono presto confermati quando la dottoressa si spostò verso il trono. Su di esso sedeva proprio la sua amata Skaikru con uno strano tubo infilato nel braccio. La dottoressa Griffin le collegò un altro tubo al precedente e vide il sangue nero di Ontari iniziare a scorrere fino ad entrare dentro al corpo di Clarke stessa.

Cosa diavolo era successo? Cosa diavolo stava succedendo? Provò a toccare la superficie dello specchio con la punta delle dita. Niente, era solida come ci si sarebbe aspettati che fosse. Provò a forzarla premendovi contro il palmo della mano ma ottenne come unico risultato quello di impiastricciarne il vetro.

Fu allora che vide Murphy estrarre la Fiamma, per poi attivarla blaterando qualcosa.

“NO!” urlò con tutto il fiato che aveva in gola sperando che qualcuno potesse ascoltarla.

Fu tutto inutile, pochi istanti e Clarke era svenuta con la Fiamma saldamente incastonata nel suo collo.

Gli occhi di Lexa si muovevano freneticamente percorrendo i contorni della scena che stava seguendo. Si sentiva come un animale in gabbia e mai prima d'ora aveva provato un'apprensione così grande. Sentiva che c'era qualcosa che non andava, perché Clarke non si svegliava? Appena Abby si mosse preoccupata verso di lei temette il peggio e per un lungo istante le mancò il fiato. Poi vide la sua Wanheda risvegliarsi con uno sguardo terribilmente determinato.

“Ma non crudele come quello che ho visto su volto dell'Altra Wanheda.” pensò e percepì come un corpo estraneo arrivarle addosso tutto il disappunto dell'Altra sé stessa.

Ci fu una breve discussione, poi qualcuno portò a Clarke qualcosa di piccolo. Lei, stentava a crederci, lo mangiò. Poi svenne.

C'era qualcosa che non andava e Lexa lo sentiva. Sentiva il bisogno, l'impulso di intervenire: c'era bisogno di lei.

Il suo cuore stava accelerando e i suoi muscoli erano in tensione, pronti a scattare. Una terribile e indomabile agitazione iniziò a dominare il suo corpo. Proprio mentre stava per alzarsi in piedi incapace di rimanere ferma di fronte a quella scena scorse Clarke agitarsi sul trono: era in preda alle convulsioni. Abby intervenne immediatamente ma potè percepirne lo sconforto. Un rivolo di sangue scese dal naso della ragazza.

Allora Lexa non ce la fece più. Tutta quella tensione che stava accumulando si trasformò in un dolore sordo e in una furia cieca. Afferrò lo specchio pronta a scagliarlo chissà dove quando si accorse che spostandolo la sua superficie si muoveva, come quella di un liquido denso.

“Le buone maniere funzionano sempre.” si disse poggiandolo a terra.

“Non commettere quest'errore un'altra volta. Non abbandonare Clarke di nuovo.” la supplicò l'Altra.

“È precisamente ciò che non ho intenzione di fare.” sussurrò a fior di labbra mentre, anche se con timore, si alzava in piedi e sfiorava con la punta delle dita quello strano fluido.

Vi passò una mano attraverso e la sentì muoversi dall'altra parte. Non era affatto certa che quell'espediente avrebbe funzionato. Poteva morire o disintegrarsi o annullarsi o svegliarsi la mattina seguente e scoprire che era stato tutto un sogno. Ma, sentiva che doveva farlo.

“Clarke, sto arrivando da te.” disse.

“Vedi? Avevo ragione io. Non importa cosa accade o come vanno le cose. Tu la abbandonerai sempre.” le giunse, distante, il commento dell'altra.

E Lexa entrò nello specchio.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7, Passaggi ***


Capitolo 7, Passaggi

 

Fu come chiudere gli occhi per un istante e riaprirli in un altro mondo. Non sapeva cosa diavolo fosse quel posto ma Lexa fu subito certa che non si trattasse di qualcosa di reale. Poteva sentirlo nell'aria, perfettamente immobile, quasi inconsistente e illusoria nonostante la pioggia che stava cadendole addosso. Anche l'acqua era strana, inumidiva i vestiti, i capelli, la pelle, ma non lo faceva nello stesso modo a cui era abituata. Il paesaggio intorno a lei era opprimente e sconfortante, fatto di imponenti costruzioni, alcune sembravano alte almeno quanto la torre di Polis, che impedivano la vista dell'orizzonte e lasciavano una visione obbligata del cielo. Ebbe subito la sensazione di trovarsi in una sorta di prigione dorata e scintillante. Sapeva, da alcuni dei libri che erano stati ritrovati intatti o pressoché tali, che quello doveva essere l'aspetto delle grandi città prima del Praimfaya e per la prima volta si rallegrò di non aver vissuto in quell'epoca. Tutto sembrava molto più opprimente e molto meno affascinante di quanto avesse immaginato nei suoi sogni di bambina e poi di ragazzina. Ma, forse, era colpa di quell'atmosfera irreale che la circondava.

Questa rapida carrellata di pensieri le aveva attraversato la mente come un lampo di consapevolezza mentre si guardava intorno in cerca di qualche punto di riferimento. Non ci fu bisogno di particolari ricerche perché nell'esatto momento in cui la sua mente si poggiò sul pensiero di Clarke, la sentì. La sua presenza era come un oggetto concreto appoggiato in qualche angolo di quella realtà e lei sapeva esattamente dove si trovava.

L'istante successivo scoprì che sapeva tutto ciò che era successo dall'altra parte dello specchio mentre lei era stata, come dire, assente. Non solo ciò che aveva intravisto nelle sue fugaci visioni, ma anche il resto. I chip, A.L.I.E., la Città della Luce. Era lì che era, dunque. Un'onda informe di emozioni stava per travolgerla ma decise di cavalcarla anziché farsene sommergere. Doveva fare in fretta, non era molto il tempo che avevano a disposizione.

Sguainò entrambe le spade e cominciò a correre a perdifiato per quelle strade ordinate, sentiva che Clarke era in pericolo e non c'era tempo da perdere. A quanto pareva sapeva esattamente quale direzione prendere.

Appena vide un paio di persone in lontananza prendere a calci e pugni qualcosa in cima a una scalinata, la rabbia si impossessò di lei e la guerriera che aveva dentro prese il sopravvento su ogni suo gesto.

Poteva scorgere altre persone in arrivo, così decise per un approccio dirompente. Arrivò senza rallentare al bordo del primo gradino poi con uno slancio si buttò in avanti mentre con le spade falciava i due che stavano colpendo Clarke. Un urlo di guerra le uscì istintivamente dalla gola mentre atterrava in fondo alla prima rampa e sciogliendo l'incrocio delle spade dovuto al colpo precedente, squarciava il ventre di altre due persone che stavano sopraggiungendo.

Poi, nonostante la folla in arrivo, suo malgrado, Lexa non riuscì a trattenersi e si voltò verso Clarke che ansimava a terra, il naso gocciolante di sangue e lo sguardo impaurito e sorpreso allo stesso tempo. Quando la Skaikru, in preda allo sconcerto disse incerta, “Lexa?”, il cuore della Heda scoppiò di gioia e un sorriso di pura felicità le si allargò sul volto perché in quel preciso istante fu assolutamente certa che quella era la SUA Clarke. Aveva appena imparato una cosa che non avrebbe più scordato: non aveva senso passare le ore a chiedersi o a cercare le prove di quale versione di Clarke Griffin fosse quella giusta, sarebbe bastato vederla e l'avrebbe saputo e basta.

Per fortuna, nonostante la distrazione, aveva mantenuto la posizione di combattimento e quando arrivarono gli altri assalitori era pronta. A mani nude contro le sue spade non ebbero scampo e furono mortalmente trafitti dalla sua furia, uno dopo l'altro. Si prese il tempo di riprendere fiato e di osservare attentamente la situazione intorno a sé in cerca di eventuali altre minacce, prima di far nuovamente ricadere la sua attenzione su Clarke: il terrore dipinto sui suoi occhi era magnetico e trascinò Lexa verso il suo corpo dandole a malapena il tempo di riporre le spade nel fodero. Il braccio teso della sua amata verso di lei le trasmise un'urgenza quasi viscerale di afferrarla. Appena la prese la sentì aggrapparsi per tirarsi su e la aiutò fornendole come supporto anche l'altro braccio. Le avrebbe donato tutto il suo corpo per sorreggerla, per stringerla, per fondersi a lei. Era internamente combattuta tra due desideri opposti: uno possessivo, feroce, che le comandava di consumarla come il fuoco con lo stoppino di una candela; l'altra che aveva quasi paura di toccarla, di vederla svanire, di sentirla inconsistente al tocco come un ologramma. Vinse la seconda, la voglia di guardarla negli occhi prima di ogni altra cosa, per perdersi dentro di lei e così non essere mai più costretta a separarsene.

Clarke doveva avere la sua stessa urgenza di toccarla, di sincerarsi che la sua presenza fosse reale e non un brutto scherzo dell'immaginazione, perché le toccò il viso delicatamente prima con una mano e poi con l'altra.

Quel tocco, quegli occhi, Lexa non riusciva nemmeno a sorridere, la felicità aveva intasato ogni brandello della sua mente tanto che non riusciva nemmeno del tutto a farla uscire.

“Oh mio Dio” sussurrò Clarke a fior di labbra. Nessuno sguardo severo, nessuna titubanza o ostilità, nessuna traccia di Wanheda in questa splendida creatura che Lexa si trovava davanti. Non riuscì più a resistere e l'abbracciò cercando di far aderire più pezzi possibile dei loro corpi l'uno con l'altro. Stava prevalendo in entrambe, lo sentiva, il desiderio di consumarsi a vicenda in quell'abbraccio a cui erano aggrappate ferocemente.

Ma i sensi di Lexa erano ancora all'erta e con la coda dell'occhio notò un innumerevole folla di persone avvicinarsi a rotta di collo: dovevano andarsene e anche in fretta.

La Heda sciolse l'abbraccio e fissò con decisione i suoi occhi in quelli di Clarke. Sapeva di doverle infondere coraggio e la forza necessaria a tentare quell'impresa disperata. Così le disse l'unica cosa che avevano sempre detto a lei per incoraggiarla.

“La nostra battaglia non è finita.”

Fece appello a tutte le sue energie e si caricò il più possibile il peso della sua Clarke addosso. Percepì immediatamente che le sue condizioni non erano le più favorevoli a una fuga rapida e tanto meno indolore così le fece mettere il braccio intorno alle sue spalle. Un grido di dolore, non appena cercarono di incamminarsi, confermò a Lexa ciò che sospettava.

Così, ricorrendo a tutte le loro forze si diressero verso quella che era la direzione che entrambe percepivano di dover prendere.

 

Erano riuscite a frapporre, chissà come vista la loro andatura rallentata, una certa distanza tra loro e il passo, invece, deciso dei loro inseguitori, quando scendendo un'altra scalinata, Lexa percepì che Clarke era diventata improvvisamente molto più pesante, il suo fiato più corto e affannato.

“Qualcosa non va.” le disse la piccola Skaikru mentre emetteva gemiti di dolore sempre più forti e tentava di afferrare l'aria per ficcarsela nei polmoni diventati improvvisamente ostili.

“Non ce la faccio.” esalò mentre si accasciava tra le braccia di Lexa che non poté far altro che accoglierla e cercare di adagiarla a terra più dolcemente che poteva mentre, allarmata, le sorreggeva la testa. Da quando era giunta in quella realtà ogni cosa le era parsa chiara: vedeva, sentiva, percepiva, sapeva, come mai prima di allora. Nonostante ciò, quello che stava succedendo a Clarke doveva riguardare il suo corpo al di fuori della Città della Luce, perché lei non ne coglieva nessuna causa plausibile nelle condizioni attuali della ragazza che teneva tra le braccia.

Le afferrò il viso puntandole gli occhi nei suoi, tentando di tranquillizzarla. Tra una pena d'aria e la successiva, Clarke aveva urgenza di dirle qualcosa.

“Credevo che non ti avrei più rivista.” disse la Skaikru ansimante.

Quanto avrebbe voluto dirle, Lexa, di tutto quello che aveva vissuto, di come avesse pensato la stessa identica cosa risvegliandosi al di là dello specchio, di come aveva recuperato la speranza quando l'Altro Titus le aveva parlato di lei o di come si era sentita quando aveva visto l'Altra, Wanheda, in lontananza. Dello sconcerto nello scoprirla diversa da colei che cercava, del dolore che le aveva causato la sua ostilità, di come aveva quasi sfiorato la pazzia non appena l'aveva vista comparire nel riflesso immateriale dello specchio...

Ma non era quello il momento per simili rivelazioni, leggeva ancora negli occhi di Clarke la sorpresa e l'incredulità di vederla ancora al suo fianco. Così optò per un tentativo di sdrammatizzare e sorridendo dolcemente le disse:

“Te l'avevo detto che il mio spirito avrebbe scelto saggiamente.”

Aveva funzionato e la sua piccola Skaikru stava annuendo mentre cercava di controllare meglio la respirazione e il dolore che la attanagliava quando improvvisamente il cielo cominciò a muoversi vorticosamente passando dal giorno alla notte in pochi istanti. Le luci dei palazzi si erano accese in ogni stanza di ogni piano, creando uno spettacolo luminoso inaspettato. Per un momento Lexa si chiese quante candele dovevano essere state accese a quello scopo.

“Che succede?” chiese Clarke, se possibile ancora più preoccupata.

Un lampo di consapevolezza attraversò la mente di Lexa.

“A.L.I.E. Sa che sei qui.” disse ad alta voce la Heda guardandosi intorno con apprensione. “Sta caricando la Fiamma dalla tua mente. E la tua mente sta cambiando le cose. Il giorno è diventato notte. Piove.” poi guardando Clarke negli occhi aggiunse: “Dobbiamo muoverci.”

Visto che la piccola Griffin acconsentiva, si caricò nuovamente il suo peso addosso pronta a ripartire, ma il corpo di Clarke cedette.

“Clarke?” la supplicò Lexa mentre la avvolgeva in un abbraccio tentando di sorreggerla. Ma la ragazza cominciò a scuotersi in preda alle convulsioni. Qualcosa di decisamente brutto stava accadendole al di fuori di quel mondo digitalizzato. Tentò di trattenerla, di calmarla, di placare la sofferenza che provava, capì improvvisamente cosa doveva aver provato la ragazza mentre lei le moriva tra le braccia senza che potesse far nulla e una sensazione di panico, come non aveva mai provato prima, nonostante i molti pericoli cui era andata incontro, si impossessò di lei.

“Clarke? Clarke?” continuò a chiamarla sperando che il suono della sua voce la guidasse nelle tenebre in cui stava piombando.

“Clarke! Torna indietro. Abbiamo bisogno di te!” la disperazione cominciava a farsi strada nella sua voce e non voleva perché doveva essere forte per entrambe.

Miracolosamente le convulsioni si arrestarono e Lexa accarezzò dolcemente quel volto pallido, ma sereno. Per un attimo temette che fosse la serenità della morte quella che scorgeva, ma la sensazione calda di un tenue respiro si infranse sulla pelle della sua mano mentre ricorreva al tatto per sincerarsi delle

sue condizioni.

In quel momento Clarke riaprì gli occhi iniziando a guardarsi intorno smarrita. Il panico dentro Lexa cominciò ad attenuarsi e cercando di non mostrare quanto tutto ciò l'avesse allarmata ripeté per un'ultima volta un tenue: “Clarke...”

La Skaikru si tirò su improvvisamente rianimata e la guardò senza più alcuna traccia di sofferenza ma con quello che Lexa sentiva essere desiderio. Si fissarono negli occhi per qualche istante, stordite da ciò che provavano e da quanto era appena successo. La Heda non riuscì a impedire al suo sguardo di ricadere per una frazione di secondo sulle labbra piccole e chiare della donna che dopo tanto cercare aveva finalmente ritrovato e che allo stesso tempo rischiava di perdere a ogni momento un poco di più.

Fu, tuttavia, Clarke ad azzerare impaziente la distanza, afferrandola in un bacio che sapeva di urgenza, di disperazione, di qualcosa di insaziabile che però bisognava comunque provare ad appagare.

Anche se non avrebbe mai voluto, Lexa staccò le sue labbra e si concesse solo un breve attimo per osservare ancora una volta il viso angosciato di Clarke. Le carezzò i capelli, ravviandoli dietro l'orecchio mentre tentava di sfoderare la voce più rassicurante di cui era capace, nonostante il turbinio di emozioni che le si agitavano dentro.

“Ora che il caricamento ha avuto inizio, gli uomini di A.L.I.E. Sono in grado di vederci.” la risposta fluì dalla sua mente alla sua bocca senza che lei sapesse veramente da dove proveniva. Strinse istintivamente la mano della sua piccola Skaikru quando cominciò a guardarsi intorno spaventata e aggiunse, “Dobbiamo essere più attente.”

“Perché non sono già qui?” le chiese Clarke.

“La Fiamma ci da un po' di protezione, ma sempre meno di momento in momento.” le rispose Lexa. “Capisci?”

“Sì.” la giovane Griffin aveva riacquistato il dominio di sé e uno sguardo deciso aveva preso il posto della paura.

Entrambe si erano alzate senza che la Heda riuscisse a staccarle gli occhi di dosso, ancora incerta sulle sue condizioni, per quanto sembrasse essersi ripresa completamente. Fu allora che Clarke si accorse di avere indosso un orologio, “L'orologio di mio padre, funziona.”

“Va all'indietro.” osservò Lexa.

“Abbiamo 10 minuti per trovare quell'interruttore di arresto.” constatò Clarke.

Fu allora che sentirono il rumore del campanello di una bicicletta. Lexa ne aveva vista una, una volta, al mercato di Polis, ma era molto mal ridotta. Quella invece era rosa e scintillante e la bambina che la guidava aveva uno strano giubbotto con il simbolo della Fiamma impresso sopra.

“Grazie, Becca.” disse la Heda sicura che quello fosse un segnale inviatole dal primo comandante.

Senza interrompere il contatto tra di loro, si misero a correre giù per le scale inseguendo la bici. Ora che si erano ritrovate non riuscivano più a lasciarsi.

 

Senza nemmeno accorgersene entrarono in quello che doveva essere il parcheggio sotterraneo di un'alta torre. Ma si trovarono davanti un cancello chiuso da un lucchetto che gli impedì di proseguire.

Lexa premeva impaziente contro il cancello, “È un Firewall!”, sentiva che il loro tempo era vicino a scadere.

“Non capisco...” Clarke si guardava intorno incerta.

Una voce alle loro spalle interruppe il silenzio, “Non arriverete all'interruttore di arresto in tempo.”. Lexa estrasse istantaneamente le spade e si avviò verso il ragazzino che con calma, mani in tasca, si avviava verso di loro. Non avrebbe permesso che qualcuno le fermasse e soprattutto che facesse del male alla sua Clarke. Esitò qualche secondo, non capiva perché fosse così sicuro di sé e per niente intimorito. Si aspettava un qualche asso nella manica. Prima che potesse decidere cosa fare la sua amata Griffin la fermò.

“No, è tutto ok. Jasper, cosa ci fai qui?”

Il ragazzo non tardò a rispondere a quell'invocazione.

“Sto cercando di fermarti. Hai visto la Città della Luce, ora. C'è pace, felicità, sicurezza. Perché vorresti negarlo a qualcuno?”

“Lei sta torturando le persone per portarle qui, Jasper, prende i loro ricordi, li controlla. Non sei nemmeno tu, è A.L.I.E”

Lexa si mantenne a distanza controllando ogni mossa del ragazzo che Clarke sembrava conoscere molto bene. Le era chiaro tuttavia che quel tentativo di convincerlo non stava funzionando, perciò stava pronta ad intervenire.

“Sta facendo ciò che deve esser fatto.” ribatté inflessibile Jasper.

“Ci toglie la possibilità di scegliere! Gli esseri umani hanno il libero arbitrio. Dobbiamo decidere il modo in cui vogliamo vivere!” continuò Clarke. Era incredibile come cercasse sempre di risvegliare il meglio dentro alle persone, come provasse sempre a fare la cosa giusta, quella che avrebbe causato meno sofferenza. Era qualcosa che Lexa aveva riscontrato solo in lei.

“Gli esseri umani sono l'unica specie che agisce contro il proprio stesso interesse.” nonostante la nobiltà del tentativo il ragazzo era certamente sotto il controllo della I. A.

“Ci torturiamo a vicenda, ci combattiamo, ci feriamo, ci spezziamo il cuore l'un l'altro.” aveva pronunciato quelle ultime parole guardando Lexa negli occhi, il che le aveva causato un tuffo al cuore. Sapeva a cosa si riferiva: il suo tradimento, il suo più grande rimpianto. Inoltre, si stava avvicinando decisamente troppo a Clarke.

“Niente di tutto questo esiste qui. A.L.I.E., ci sta proteggendo da noi stessi.”

Lexa cominciava a sentirsi decisamente a disagio, percepiva che qualcosa non andava.

“Clarke, c'è ancora tempo. Troveremo un altro segnale. Andiamo.” la esortò impaziente avviandosi nella direzione da cui erano venute.

“Non possiamo lasciartelo fare.” la minacciò il ragazzo parandosi davanti a lei.

Fu allora che comparve Jaha, seguito da una moltitudine di persone.

Lexa pensò che avrebbe dovuto ucciderlo quando ne aveva avuto l'occasione.

“Clarke, non c'è alcun posto dove andare.” disse l'ex cancelliere. “È finita. La seconda I. A. non può proteggerti ancora.”

La Skaikru si voltò verso Lexa e le chiese incerta: “Se io rimuovo la Fiamma, il caricamento si fermerà?”

“Sì, ma nessuno l'ha mai fatto prima volontariamente. E comunque tu saresti una di loro. A.L.I.E., avrà la fiamma in altro modo.” non sapeva da dove diavolo le giungessero quelle conoscenze ma la Heda non aveva alcun dubbio su ciò.

“Smettete di combattere.” insisté Jasper, pericolosamente vicino a loro.

Lexa osservò i presenti soppesandone le forze, non sarebbe riuscita ad eliminarli tutti da sola. Notò allora qualcosa che stava comparendo come per magia sul muro alla loro destra. “Clarke.” la avvisò attirando la sua attenzione.

Si materializzò allora una strana porta circolare e pochi secondi dopo su di essa si impresse il bianco simbolo di un uccello.

“Raven...” sussurrò Clarke come se fosse qualcosa di positivo, ma prima che potessero fare qualsiasi cosa il ragazzo si parò davanti alla porta impedendo loro di avvicinarsi.

“Jasper, levati di mezzo.” la ragazza fece appena in tempo a pronunciare quelle parole che Lexa lo aveva già steso con un pugno ben assestato sul viso.

Appena il ragazzo cadde a terrà la folla si scatenò nella loro direzione. Spettava alla Heda agire e proteggere Clarke, era il momento di combattere quella battaglia disperata. La sua forza di guerriera si era già risvegliata e Lexa si apprestava a combattere. “Non possiamo lasciare che ti seguano. Vai, io li bloccherò.” disse, quando si sentì afferrare per un braccio.

“No, Lexa.” la voce disperata di Clarke le si conficcò nel cervello. Sapeva che il loro tempo era scaduto, ne avevano rubato già fin troppo al destino. Forse tutto ciò che era accaduto era servito a far si che lei fosse lì in quel momento, per salvarla ancora una volta.

“Ti amo...” quasi la supplicò la giovane Skaikru che aveva cambiato la sua vita. Forse sperava veramente che quelle parole avrebbero cambiato tutto, come le formulette magiche delle favole.

Lexa le sorrise, il suo primo pensiero era rassicurarla, in quell'addio, come in quello che l'aveva preceduto. “Sarò sempre con te.” le disse. Poi, senza indugiare nel dolore che quella separazione le procurava, si voltò e con tutta la furia che provava per tutto ciò che era successo fino a quel giorno, si scagliò verso i suoi nemici, incerta su quale destino l'avrebbe attesa.

 

 

 

Una luce accecante avvolse ogni cosa mentre Lexa ancora menava fendenti a destra e a manca, alla cieca. Quando la luce si attenuò tutti i presenti erano a terra, alcuni in una pozza di sangue a causa delle ferite che lei gli aveva inferto.

Si voltò in cerca di Clarke, la porta era sparita. Era scomparso anche il cancello e al di là di esso si estendeva un lunghissimo corridoio perfettamente illuminato. Ad ogni lato di esso poteva scorgere una moltitudine di porte, ciascuna con una luce sopra ad illuminarne l'ingresso. Accertatasi dell'effettivo stato di incoscienza dei suoi inseguitori, ripose le spade nel fodero e cominciò a correre verso le porte. Forse faceva ancora in tempo a raggiungere Clarke?

Arrivò alla prima porta e la spalancò.

“Clarke?” chiese incerta, ma nella stanza al di là dell'ingresso non c'era nessuno, solo... uno specchio. Frantumato in mille pezzi. Non si fermò a pensare su cosa stesse succedendo, non voleva pensarci. Corse alla porta successiva.

“Clarke?”, un altro specchio, integro in cui strane immagini scorrevano senza che lei capisse cosa mostrassero.

Corse di nuovo al successivo ingresso.

“Clarke?”, uno specchio.

“Clarke?” due specchi.

“Clarke?” decine di specchi.

“Clarke?”, buio e frantumi.

Correva disperatamente da una porta all'altra, trovando sempre lo stesso contenuto. Non riusciva a capire. Che senso poteva avere tutto ciò? Cosa stava succedendo?

All'improvviso la terra cominciò a tremare e fu presa da una strana urgenza come se il tempo stesse per scadere e lei dovesse muoversi a prendere una decisione. Per di più le luci si stavano spegnendo sia all'inizio, ancora visibile, del corridoio che in direzione di quella che sembrava essere la sua interminabile fine.

Qualcosa dentro di lei le diceva, “Muoviti Lexa, vai, prendi una strada. Non c'è più tempo!”

Così, mentre un buio che sapeva di nulla le si faceva sempre più intorno, entrò in una stanza qualsiasi e si chiuse la porta alle spalle. Non sapeva cosa fare, aveva il fiatone. Le luci, intensissime nella stanza cominciarono a tremare.

Si sentì improvvisamente terribilmente attratta dallo specchio, come se fosse l'unica cosa capace di attenuare il terrore di essere ingoiata dal nulla che si stava facendo strada in lei.

Lentamente gli si avvicinò, al di là vedeva solo una stanza sconosciuta illuminata da alcune torce. La vedeva dall'alto, il che non fece che accrescere la sua preoccupazione. Sfiorò la superficie dello specchio, si formarono delle piccole onde, come se fosse stata liquida. Riconobbe la sensazione di inconsistenza che aveva provato già l'altra volta, mentre intorno a lei le pareti cominciavano a svanire. Non c'era più tempo, prendere o lasciare.

Così Lexa Kom Trikru, senza prendere la rincorsa, si lascio cadere verso quello spazio liquido e attraversò nuovamente lo specchio.

 

 

 

 

 

Inspirò con tutta la forza che aveva in corpo come se fino a pochi secondi prima avesse rischiato di soffocare. Aprì gli occhi tirandosi su di scatto, ma un dolore lancinante a una caviglia le impedì di alzarsi. Respirò affannosamente mentre si guardava la gamba. Era fasciata e gonfia, sentiva che probabilmente era rotta. Passò ad esaminare il resto del suo corpo, aveva indosso alcuni vestiti logori e strappati. Si toccò la testa, aveva un cencio a coprirle i capelli. Si osservò le mani e le braccia, erano piene di tagli e ricoperte di sporco e fuliggine. Si tastò il volto, sembrava essere a posto, eccezion fatta per un taglio sul labbro.

Allora si guardò intorno, era tutto buio e lei era adagiata su una specie di giaciglio di paglia. Alla sua sinistra c'era, molto in alto, una piccola fessura chiusa da tre sbarre. Alla sua destra il muro era interrotto soltanto da una spessa porta di legno, circa a metà della quale c'era una feritoia chiusa da un elemento in legno che sembrava essere scorrevole.

“Sono in una cella.” sussurrò e fu colta da un terribile mal di testa. Evidentemente doveva aver battuto anche quella.

Fu allora che una figura si mosse nell'ombra al lato opposto al suo. Lexa cercò a tentoni le sue spade o qualsiasi altra arma, ma non c'era niente a parte l'umido pavimento e la paglia.

“Temo di sì...” sentì una voce femminile, tenue e dolce, sussurrarle.

La figura si avvicinò ancora un po' porgendole qualcosa e alla tenue luce della luna, che filtrava a mala pena dalla finestra, le sembrò di scorgere una ragazza bionda.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8, Non ancora ***


Capitolo 8, Non ancora

 

“Dammi una casa

che non sia mia,

dove possa entrare e uscire dalle stanze

senza lasciare traccia.

Una casa come questo corpo,

così aliena quando provo a farne parte,

così ospitale

quando decido che sono solo in visita.”

Arundhathi Subramaniam

 

Per un tempo, che soltanto uno stato incipiente di pazzia poteva aver tanto allungato, Lexa pensò che quella ragazza potesse essere Clarke. Non la voce, più tenue e più fruttata di quella della sua amata. Non il colore dei capelli, biondi ma molto più chiari di quelli della Skaikru. Neppure l'assenza di quella certezza, che aveva fatto sua solo poche ore prima: le sarebbe bastato uno sguardo per capire se era lei, ma... Aveva bisogno che lo fosse.

“Melanippe di Era.” si presentò la ragazza porgendole una ciotola d'acqua e un tozzo di pane. “Sì, lo so. La città del tempo, eccetera, eccetera. Ma non chiedermi niente perché, che tu ci creda o no, sono la persona meno indicata per raccontare le sue meraviglie.” la ragazzina sorrise scherzosamente roteando teatralmente gli occhi e agitando leggermente le mani, cosa che causò la fuoriuscita di qualche goccia d'acqua dalla ciotola. Lei, del resto, non sembrò notarlo.

Non doveva avere più di diciannove anni, era molto bella e, fatto che finì di sconcertare Lexa, aveva gli occhi di due colori diversi: uno verde e uno azzurro. Non aveva mai visto nulla di simile in vita sua. Decisamente non era Clarke. Uno strano vuoto si fece largo dentro di lei. Qualche argine aveva ceduto e adesso i suoi muscoli si rilassavano come fango inzuppato dalla piena che lentamente lo scioglie.

Solo allora Melanippe sembrò notare che l'altra la stava fissando con una strana espressione a metà tra lo spavento e la sorpresa.

“Oh...” sospirò la strana ragazzina distogliendo lo sguardo e morsicandosi un labbro. “Immagino che tu non abbia mai visto... questo.” fece roteare un dito per aria all'altezza degli occhi e proseguì. “Eterocromia... A quanto pare non si adatta particolarmente a chi non ama attirare l'attenzione. Ma la cosa ha anche i suoi vantaggi...”. Sembrò perdersi nei suoi pensieri per qualche istante poi si chinò cercando di mettersi all'altezza di Lexa e tornò a guardarla negli occhi accennando un timido mezzo sorriso. Le porse nuovamente la ciotola e il pane.

“Tieni, ti conviene mangiare. Hai una pessima cera...”

Lexa sembrò finalmente scuotersi dal suo torpore riprendendo possesso di sé quel tanto che bastava a farle afferrare il pane e la ciotola mormorando un triste “Grazie...” e mettendosi a sbocconcellare la pagnotta contro voglia.

Melanippe si sedette a terra di fronte a lei mentre la osservava con preoccupazione. “Ti fa ancora male?” le chiese indicando la caviglia.

“Abbastanza da non poterci camminare.” rispose Lexa senza però farci troppo caso. Erano altre le parti che le facevano veramente male. Dove era finita? Come c'era finita? Chi era veramente quella ragazza? Una strana versione di qualcuno che aveva conosciuto? Dove era finita Clarke? Stava bene? Era riuscita a distruggere A.L.I.E.? Era stanca... Stanca di tutte quelle domande. Nemmeno la morte le poteva concedere un po' di riposo?

“Non mi hai ancora detto il tuo nome.” il flusso dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto dalla voce tenue della ragazza.

“Pensavo non parlassi la nostra lingua, poi mi hai risposto...” aggiunse quella titubante.

“Lexa...” intervenne la Heda, poi vedendo che la ragazza si aspettava altro, “... Kom Trikru.”

Melanippe sgranò gli occhi per lo stupore. “Non sei di queste parti, vero?” le chiese.

Lexa scosse la testa e bevve l'acqua della ciotola mentre la scrutava da dietro di essa: non aveva ancora capito se poteva fidarsi di lei o meno.

La ragazzina incrociò distrattamente il suo sguardo, distogliendolo subito per andarlo a fissare su un angolo buio della cella mentre un tenue rossore le tingeva le guance puntellate da qualche lentiggine.

“Come sono finita qui?” tagliò corto Lexa.

“Non ricordi niente?” domandò Melanippe tornando a guardarla in viso ma evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi.

La Heda non disse niente, continuando a scrutarla con diffidenza.

“Evidentemente no...” si rispose da sola l'altra che cominciava a mostrare i segni di un certo nervosismo. “Non so cosa sia successo di preciso. Ho solo sentito le guardie commentare tra di loro... A quanto pare sei piombata giù dal soffitto nella Sala dei Rituali e i Sacerdoti di Ira hanno pensato si trattasse di un maleficio o roba del genere. Hanno provato a risvegliarti ma non facevi altro che borbottare qualcosa come “Clork, Clork”. Sembrava un'invocazione a qualche strano Dio e hanno pensato bene di sbatterti quaggiù, per sicurezza.”

Quindi la vista dall'alto corrispondeva effettivamente a un ingresso dall'alto in quel... posto. Per quanto si sentisse veramente, visceralmente stanca, tutte le domande che le vorticavano in testa necessitavano di una risposta, ma doveva cercare un modo per farle apparire meno strane.

“In che anno siamo?” chiese Lexa e sì, in effetti sarebbe suonato strano comunque.

Melanippe le rivolse uno sguardo preoccupato, percorrendo con esso la superficie della sua testa, probabilmente sospettando che avesse preso qualche botta nella caduta.

“Ventisettesimo della quinta era.” si decise infine a risponderle.

“Perfetto.” pensò Lexa, “Non ho la più pallida idea di cosa diavolo voglia dire. O meglio, sicuramente significa che non siamo a Polis. La Polis che conosco io, almeno.” Si strinse la testa tra le mani, guadagnandosi un'ulteriore occhiata preoccupata della ragazzina. Tutte le altre domande che sarebbe stato opportuno fare non avrebbero fatto altro che peggiorare la sua posizione e non sapeva fino a che punto fosse al sicuro. Tale pensiero le suscitò immediatamente una domanda che poteva fare.

“Dove sono le mie spade?” sperò che la risposta non fosse qualcosa del tipo che era piombata in quel posto senza di esse e vestita in quello stato.

“Sequestrate. Sai com'è in prigione non si fidano a lasciarti quel genere di cose.” spiegò Melanippe come se parlasse a una bambina. La cosa irritò considerevolmente Lexa che si spostò mettendosi a sedere con la schiena contro il muro per mascherare la sua impazienza.

“E i miei vestiti? Non ricordo di essere arrivata in città vestita in questo modo.” mentì la Heda, cercando di carpire qualche informazione anche dalla reazione della ragazza.

Inaspettatamente Melanippe abbassò lo sguardo diventando rossa e cominciò a torturarsi le mani. Poi farfugliò:

“Tu eri incosciente... Non riuscivano a risvegliarti... Così hanno chiesto a me di farlo...”

Lexa guardò la ragazzina con curiosità. Era evidentemente in difficoltà e in imbarazzo ma non riusciva a capire perché.

La sua compagna di cella si sistemò dietro l'orecchio un ciuffo di cappelli che le era ricaduto davanti agli occhi quando aveva abbassato la testa, poi prese un'ampia boccata d'aria ed espirando confessò quanto era successo.

“Hanno chiesto a me di metterti addosso quei vestiti. Non potevano lasciarti l'armatura... E i Sacerdoti di Ira sono un culto piuttosto tradizionale perciò ci ritroviamo vestite con questa roba...”

A Lexa veniva quasi da ridere: quindi era questo che metteva tanto a disagio la ragazzina. Appoggiò la testa contro il muro e fissò il soffitto. Umido, pieno di ragnatele, spesso: se il semplice fatto di trovarsi in una cella non fosse di per sé bastato a chiarire l'impossibilità di una fuga ci aveva pensato la visione dell'insondabilità di quelle mura.

“Perché ti hanno rinchiusa qui dentro?” la Heda tornò a guardare la sua compagna di prigionia: la visione di quegli strani occhi aveva qualcosa di ammaliante.

Se possibile Melanippe diventò ancora più rossa.

“Fondamentalmente si tratta di un equivoco...” si affrettò a giustificarsi nascondendosi le mani sotto le cosce.

“Faccio parte di un gruppo di combattenti. Dovevamo recuperare un oggetto per una personalità importante e sono stata accusata di furto...”

“Sei una guerriera?” le chiese Lexa, con più stupore di quanto non avrebbe voluto far trapelare.

Melanippe rise, aveva una risata fresca e controllata che le ricordava qualcosa.

“Quaggiù e vestita in questo modo, nemmeno tu sembri una guerriera!” aveva esclamato la ragazzina ritrovando sicurezza. Era anche tornata finalmente a guardarla. “Certo non sono proprio il tipo da spada, o da spade, come nel tuo caso. La mia specialità è il tiro con l'arco. Questi due occhi, per quanto strani, mi conferiscono una vista invidiabile e una mira eccezionale.” le disse alzando orgogliosamente il mento e assumendo un'espressione fiera che sapeva di nobili origini. Poi aveva sorriso di nuovo e aveva recuperato una postura più rilassata.

“Sono anche piuttosto brava con il pugnale, ma l'altra mia specialità, a dire il vero, è aprire le cose molto ben chiuse...” aveva concluso morsicandosi l'interno della guancia sinistra.

“Scassinare... Quindi è vero che sei una ladra.” aveva ribattuto Lexa incrociando le braccia sul petto. Non aveva mai amato i ladruncoli che infestavano i territori tra un villaggio e l'altro. “Dalle mie parti ti avrei esiliata.” le disse con disprezzo, immobilizzandosi non appena si rese conto di aver detto troppo.

Melanippe la guardò seria e una strana luce le attraverso per un attimo gli iridi multicolore.

“Non sono una ladra. Sì, scassino porte e serrature, ma io e i miei compagni non siamo criminali. Talvolta recuperiamo cose che sono state rubate ad altre persone, altre volte liberiamo coloro che sono stati imprigionati ingiustamente. Dimmi un po', da dov'è che vieni di preciso?”

Quell'ultima frase di Lexa era evidentemente riuscita a suscitare l'ostilità o quantomeno la diffidenza, della ragazza. Adesso come avrebbe fatto a uscire dall'impiccio in cui quella domanda la ficcava? Era il caso di dirle la verità facendosi prendere per matta? Quella ragazzina non sapeva veramente niente di lei e del luogo da dove proveniva? Chi le diceva che non fosse tutto un trucco di A.L.I.E?

“Vengo da Polis.” provò a testare la reazione della sua interlocutrice che smise di studiarla e la guardò con sincero stupore.

“Non ho mai sentito di un luogo con quel nome...” borbottò pensierosa Melanippe riducendo gli occhi a delle sottili fessure.

Le peggiori paure di Lexa erano state confermate. Ovunque si trovasse, in quel luogo o in quel tempo, era terribilmente lontana da Polis... e da Clarke.

“Sì trova a est? A sud?” incalzò l'altra prigioniera.

“Dipende da dove siamo adesso.” si lasciò andare scoraggiata Lexa tornando a guardare il soffitto.

Melanippe spostò il peso del proprio corpo all'indietro allungando, se pur di pochi centimetri la distanza tra lei e la sua interlocutrice.

“Non sai dove siamo.” sentenziò, come assaporando il significato mentale di quelle parole.

La Heda annuì lentamente soppesando la reazione dell'altra.

La ragazzina si guardò intorno. Stava combattendo internamente con qualche pensiero che la rendeva indecisa su quale strada intraprendere.

Alla fine sbottò:

“E come te lo spieghi?”

“Non me lo spiego... Non ricordo niente di come sono arrivata qui...” mentì Lexa mantenendo perfettamente impassibile la sua espressione. Solo il respiro si era fatto leggermente più pesante.

Melanippe inclinò la testa di lato, le pupille si dilatarono rendendo dolorosamente più accennata la differenza di colore tra gli occhi, le labbra tese in una specie di incredulo sorriso. Adesso era chiaro che ognuna delle due stava studiando l'altra per valutare fino a che punto poteva fidarsi e fino a che punto valesse la pena avere a che fare l'una con l'altra.

“Sembri piuttosto tranquilla per una che si ritrova improvvisamente in una cella, con una completa sconosciuta, in un luogo completamente diverso da quello in cui era fino a... Prima.” la provocò la ragazzina.

“Ho passato momenti peggiori.” “Tipo quando sono morta.” pensò Lexa e mantenne il contatto oculare senza esitazione.

L'altra accentuò l'espressione di incredulità sfottente del volto. “Però... Devi averne di storie interessanti da raccontare allora.” esitò un attimo poi proseguì. “E qual è l'ultima cosa che ricordi?”

Un'ombra si posò sul viso di Lexa. Nei suoi occhi rivedeva le immagini di quel mondo che crollava e andava in pezzi. Delle stanze, degli specchi, del buio che inghiottiva famelico ogni cosa. L'immagine, sfuggente, quasi mossa, dell'ultimo sguardo che aveva dato a Clarke prima di voltarsi per sempre. Era stato troppo rapido.

“Stavo combattendo. Mi sono rifugiata in una stanza per sfuggire ai miei nemici. Poi tutto è diventato nero e mi sono risvegliata qui.” mentì nuovamente, cosa altro poteva fare?

La ragazza di fronte a lei afferrò sovrappensiero alcuni fili di paglia dal giaciglio della Heda e cominciò a intrecciarli con le dita sottili, senza smettere di guardarla.

“Perché combattevi?” chiese Melanippe.

Lexa rise amaramente aggiustando la propria posizione contro il muro con impazienza. “Sarebbe una storia troppo lunga e troppo complicata da raccontare.”

“Sto cercando di capire se posso fidarmi di te, Lexa.” si scoprì la ragazzina.

“Io non ti ho chiesto di fidarti di me.” sbottò la Heda che non era abituata a quel genere di interrogatorio: di solito era lei a fare le domande ed erano gli altri a doversi conquistare la sua fiducia. “Io non ti ho chiesto niente.”

Melanippe accusò il colpo come se fosse stata una freccia a colpirla nello stomaco. Si scostò, si alzò lentamente in piedi, si scosse i vestiti con le mani e fece per tornarsene dall'altra parte della cella, quando si sentirono dei rumori provenire dall'esterno. Una porta si apriva e un vociare di uomini tra di loro era accompagnato da un concitato scalpiccio. La ragazzina completò il suo percorso e andò a sedersi in un angolo.

Da fuori la porta si sentì una voce profonda intimare.

“La porta si apre. Prigionieri a distanza.”

Seguì un rumore di chiavistelli e di chiavi, poi la porta si aprì lentamente.

La luce, per quanto fioca, delle fiaccole colpì dolorosamente gli occhi di Lexa che sentì una nuova fitta alla testa. Melanippe invece sembrò quasi non percepire la variazione di luminosità.

Appena la vista si fu assestata e il dolore al capo si fu attenuato, la Heda notò che si trovava davanti tre guardie ben armate e quello che sembrava essere una sorta di sacerdote. Assomigliava un po' a Titus, ma non era Titus... Una nuova ondata di nostalgia increspò il mare delle sue emozioni, già piuttosto agitato.

“Ehi, tu! Alzati in piedi! Sei al cospetto del Custode di Ira!” le urlò una guardia.

Lexa valutò che avrebbe potuto facilmente impossessarsi di una spada di quelle guardie incaute e trafiggere tutti i presenti nel giro di pochi secondi. Ma a che pro? Dove sarebbe andata poi? Quanta strada avrebbe fatto? E in che direzione? Per quanto ne sapeva in quel mondo lei era sola, completamente sola.

Optò per un altro approccio. Assunse un'aria spaventata, si accostò al muro cercando di issarsi su per poi scivolare a terra rovinosamente accentuando il gridò e l'espressione di dolore dovuto alla caviglia malandata, sulla quale, per altro, non aveva nemmeno messo il peso.

Notò subito che Melanippe la osservava dal lato opposto della stanza e ridacchiava in silenzio.

“Non vedi che è ferita, Antiloco? Non può alzarsi in piedi.” era stato il sacerdote a parlare: la sua voce era incredibilmente calma e assomigliava a un'incessante litania.

“Come ti chiami, figliola?” le chiese squadrandola. Nonostante il tono di voce calmo, si notava che era un uomo abituato a veder esaudite le sue richieste.

“L-Lexa, signore...” rispose la Heda con voce tremante e facendosi ancora più piccola contro il muro.

Allora accadde qualcosa di inaspettato. Melanippe si tirò su di scatto, per un attimo Lexa temette che volesse attaccare le guardie. Poi la ragazzina urlò:

“LEXA? LEXA!” e si avvicinò al gruppo dei soldati guardandola come se l'avesse vista per la prima volta. Il suo viso si illuminò di sincero entusiasmo.

“Voi conoscete questa fanciulla?” le si rivolse il sacerdote dubbioso.

“Sì, incredibile che siamo state in cella tutto questo tempo e...”

La ragazza vide che l'uomo la guardava con impazienza aspettandosi una spiegazione, così cominciò:

“È una...” poi esitò come incerta sul termine più appropriato da usare o sulla balla da inventare. “...giocoliera! Lavorava con un gruppo di circensi che abbiamo incontrato qualche giorno fa. Stavano...” esitò di nuovo. “...provando una nuova catapulta! Per uno spettacolo, vedete... Credo proprio che qualcosa sia andato storto.” assunse un'espressione di sincero rammarico osservando la caviglia e poi lo stato in cui Lexa riversava. “Chi l'avrebbe mai detto che poteva sparar così lontano...”

Il Custode di Ira la fissava con poca convinzione mentre le guardie si guardavano l'un l'altra con stupore.

Lexa, dal canto suo, aveva mantenuto l'espressione di spavento e sofferenza di poco prima, ma con i suoi profondi occhi verdi la scrutava attentamente pronta a cogliere ogni minimo segnale dell'altra.

“Credo bene che la botta l'abbia confusa e non ricordi più nulla!” esclamò, infine, Melanippe.

Tutti guardarono in direzione della giovane con la caviglia rotta.

“Non ricordate niente?” le chiese il sacerdote riducendo gli occhi a due piccole e subdole fessure. Lexa scosse la testa guardandosi intorno smarrita. Non era certa di capire a che gioco stessero giocando ma non le conveniva smascherare quella che in quel momento era la sua migliore, e unica, alleata.

“E come mai, di grazia, ella invocava C-L-O-R-K?” insistette l'uomo guardandola ancora più intensamente. Per un attimo la Heda temette che fosse in grado di leggerle nel pensiero, come tante volte aveva pensato di Titus quando era ancora una bambina.

“Oh, Clorky! Il buon vecchio Clorky!” esclamò energicamente Melanippe attirando nuovamente tutta l'attenzione su di sé. “È il giullare. Un simpatico gobbo con idee strampalate... È lui che ha avuto l'idea della catapulta. Probabilmente lo stava maledicendo... Vero, Lexa?”

Gli sguardi erano di nuovo puntati sulla ragazza a terra, i cui occhi si erano di nuovo adombrati di un fitto velo di tristezza. “Mh...” mugugnò distogliendo il viso e mettendosi a fissare un punto indefinito alle spalle dei presenti.

“È ancora confusa...” commentò Melanippe con mestizia. “Cara, dovresti valutare l'idea di cambiare mestiere e unirti piuttosto al nostro gruppo!” aveva rivolto a Lexa quell'invocazione sperando che lei in questo caso intervenisse, ma si accorse presto che si era persa in pensieri suoi insondabili.

“E, sempre di grazia, per quale ragione aveva spade e armatura?” insistette il sacerdote.

“Fa parte dello spettacolo. Ma con quella caviglia dubito che potrà fare alcunché...” la ragazzina aveva accentuato quelle ultime parole, portando di nuovo l'attenzione sullo stato innocuo di Lexa. Le guardie tornarono a scrutare la Heda, inconsapevoli di chi avevano di fronte e sicuramente incapaci di soppesare l'entità reale del pericolo che poteva costituire.

“Del resto,” proseguì Melanippe dando alla voce una cadenza particolarmente melliflua. “Archiloco, non appena confermerà la mia versione, vi sarà particolarmente riconoscente se non ostacolerete la nostra missione e ci darete anzi una mano a procurarci un aiutante in più.”

Il sacerdote, che aveva colto il senso di quelle parole la incalzò. “Quindi... garantirete voi per.. Lei?” disse indicando Lexa.

La giovane dagli occhi multicolore la guardò per qualche secondo come soppesando attentamente ciò che stava per fare.

“Sì...” cedette.

“Risponderete voi per lei?” insistette l'uomo.

Lo sguardo di Melanippe si incrociò con quello di Lexa. Le due strinsero impercettibilmente gli occhi come a sugellare un'intesa.

“Sì, verrà con noi. Penseremo noi a lei.”

“Bene.. In tal caso domani all'alba vi verranno portate le vostre cose e potrete andare. Archiloco ha mandato un messo a confermare la vostra versione.” disse rivolto alla bionda fanciulla. Poi, si produsse in un piccolo inchino, si voltò e se ne andò seguito dalle guardie ancora sorprese dall'esito della visita.

Quando anche gli ultimi rumori si furono spenti in lontananza Melanippe lanciò un'ultima occhiata a Lexa e si andò a distendere sopra al suo giaciglio, dall'altra parte della cella, avvolta nella piena oscurità.

Solo dopo quasi mezz'ora, tempo che la Heda aveva passato a rimuginare angosciosamente su quanto era successo, senza riuscire in alcun modo a prendere sonno, la ragazzina parlò ancora con la sua voce fruttata.

“Sai.. Puoi davvero venire con noi... Se vuoi...”

Lexa mantenne il silenzio per un bel po'.

“Buonanotte, Melanippe.” disse infine.

“Buonanotte, Lexa.” rispose l'altra.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9, Strade ***


Capitolo 9, Strade

 

La notte era passata, attraversata da incubi inconsistenti e bruschi risvegli. Le luci dell'alba avevano accarezzato le palpebre di Lexa che non si sentiva affatto riposata. La consapevolezza di quanto era successo l'aspettava pronta a torturarle l'animo. Il dolore alla caviglia si presentò subito come una valida distrazione dalla pena della sua situazione. Tentando di mettersi faticosamente a sedere, si guardò intorno. Adesso riusciva a vedere bene ciò che la circondava. La cella era piuttosto grande, probabilmente sei metri per cinque. A parte lei e Melanippe, che osservava il cielo al di là della piccola feritoia, nella stanza c'era solo un po' di paglia e la ciotola che la ragazza le aveva offerto la sera prima. Nonostante si fosse certamente accorta del suo risveglio, la sua inquilina non le parlò e non distolse il suo sguardo, ricoperta come un manto dai suoi pensieri.

 

Dopo poco, si sentì nuovamente una porta che si apriva in lontananza e il passo solitario di qualcuno che si avvicinava.

La cella si aprì, stavolta senza alcun avvertimento. La guardia che entrò si rivolse a Melanippe, lanciandole ai piedi un'armatura di cuoio, dei calzari, un arco, una faretra e un fagotto.

Poi recuperò una sacca dall'esterno della cella e la gettò accanto a Lexa.

“Vogliate scusarci se non vi offriamo la colazione ma siamo certi che i vostri compagni provvederanno a rifocillarvi. Vi aspettano qua fuori. Torno tra 10 minuti. Muovetevi a vestirvi, non abbiamo tempo da perdere.” l'uomo rivolse loro uno sguardo malizioso. Era evidente che non gli sarebbe dispiaciuto rimanere mentre loro si cambiavano, ma uscì comunque chiudendosi la porta alle spalle.

 

Melanippe sospirò. Accarezzò il suo arco con voluttà poi prese a infilarsi i calzari. Indossava quella sorta di sandali con cura, come fossero oggetti preziosi. Si alzò in piedi con una certa soddisfazione. Stava per togliersi il vestito di dosso quando si bloccò come improvvisamente colta dal ricordo della sua presenza. Arrossì.

“Ti serve una mano per vestirti?” le chiese indicando incerta la sacca.

“Ce la faccio da sola.” rispose secca Lexa a cui non andava proprio di farsi spogliare e vestire da un'altra.

La ragazza annuì poi si voltò di spalle e si tolse il vestito, non con una certa insicurezza impacciata. La sua schiena dritta e muscolosa era puntellata qua e là da piccoli nei e numerose lentiggini. Usò gli stracci per coprirsi il seno, mentre, ancora rivolta al muro, si chinava aggraziata a raccogliere l'armatura con una mano. Nonostante fosse certamente molto pesante la alzò senza alcuno sforzo. Era chiaramente meno gracile di quanto non potesse sembrare a prima vista.

Lexa prese a spogliarsi a sua volta. Poi estrasse la propria armatura dalla sacca, che apprese con soddisfazione contenere anche le proprie spade.

Le costò molta fatica non chiedere aiuto in quell'operazione, ma appoggiandosi al muro riuscì a non sforzare troppo la caviglia. Quando ebbe finito di sistemarsi tornò a guardare Melanippe: si stagliava fiera contro la sudicia parete della cella, l'arco in spalla e il fagotto in mano. Aveva un aspetto completamente diverso rispetto a poco prima. L'armatura le conferiva una nuova sicurezza e non si poteva dubitare che fosse una guerriera. La stava osservando divertita, mentre Lexa con fatica si infilava le spade nel fodero.

“Non vorrai uscire con quello?” le disse indicandole la testa.

La Heda aveva dimenticato di togliersi lo straccio dalla testa. Con un gesto impaziente se lo tolse e lo gettò sprezzante a terra. I capelli si sciolsero da quell'abbraccio ricadendole scomposti sulle spalle.

Melanippe le lanciò uno sguardo intenso mentre arrossiva di nuovo leggermente. Poi prese a scuotersi la polvere dall'armatura concentrando tutta la sua attenzione su quell'operazione.

Lexa notò allora che intorno a lei il suo giaciglio era cosparso di fili di paglia intrecciati. Era decisamente una ragazza strana. Dubitava potesse essere veramente un'abile guerriera, al di là dell'aspetto che l'armatura le conferiva.

Aveva un che di delicato che le ricordava più un nobile cerbiatto.

 

La porta si aprì. Subito Melanippe le si fece incontro.

“Avrai bisogno di una mano per camminare.” le disse porgendole il braccio.

La cosa non le piaceva per niente ma Lexa dubitava di riuscire effettivamente a uscire di lì sulle proprie gambe. Stava per prenderle il braccio quando la guardia le porse un bastone.

“Tieni.” le disse bruscamente. “Per gentile concessione del Culto.”

Lexa non se lo fece ripetere due volte e afferrò l'oggetto usandolo per puntellarsi e avviarsi claudicante verso l'uscita. Notò un'espressione di disappunto sul volto di Melanippe che la seguì, però, senza dire niente.

 

Attraversarono, seguendo la guardia, il lungo corridoio che portava all'esterno delle prigioni. Non sembrava provenire alcun rumore dalle altre celle.

La ragazza dagli occhi di due colori diversi la seguiva senza incalzarla, lasciando che fosse Lexa a stabilire l'andatura: ebbe la netta sensazione che non volesse farla sentire a disagio per quella condizione di vulnerabilità in cui si trovava.

Una volta giunti all'esterno l'intensità della luce del giorno la abbagliò. Ci vollero alcuni istanti perché i suoi occhi si abituassero. Quel che scorsero era un piazzale circondato da un boschetto placido e tranquillo. Voltandosi vide un'alta costruzione contornata da colonne di cui le prigioni sembravano essere solo un piccolo annesso. La colpirono gli ornamenti che abbellivano l'edificio. Non aveva visto mai niente di simile prima e per qualche istante ne rimase incantata.

“Chissà cosa penserebbe Clarke di fronte a una vista come questa...” pensò amaramente.

Una voce la riscosse dai suoi pensieri.

“Mel!” ad aver gridato era un uomo che se ne stava con le braccia incrociate dall'altra parte del piazzale. Era alto e prestante, chiaramente un guerriero ed aveva una folta barba rossa. Accanto a lui altri due uomini, entrambi avevano l'aspetto di combattenti, ma uno dei due era decisamente più muscoloso dell'altro.

“Deve essere un avversario temibile” pensò soppesando la sua forza. La barba nera non faceva che accrescere la sua maestosità.

L'altro, alto e mingherlino, completamente senza barba, non faceva che balzare con lo sguardo da lei a Melanippe, visibilmente inquieto.

Lexa si sentì scalzare da Melanippe che la sorpassò con decisione. Il suo aspetto sembrava mutato. Alta, fiera, camminava sicura di sé, il volto serio e un po' altezzoso.

Raggiunse il gruppetto in pochi rapidi passi. Si muoveva con agilità e sorprendente leggerezza.

“Allora come è stata la vacanza?” la canzonò ridendo l'uomo con la barba rossa mentre la colpiva “affettuosamente” su una spalla con una poderosa manata. La ragazza sembrò quasi non accorgersi del colpo. Posò lo sguardo con sufficienza su quel corpo estraneo che la stava toccando e si scostò con un rapido movimento del corpo che aveva la stessa decisione e accuratezza di un passo di danza.

“Elleo, quante volte ti ho detto che non devi toccarmi?” la voce di Melanippe aveva smesso di essere fruttata ed era diventata forte e inflessibile.

“Anche per me è un piacere rivederti!” aveva ribadito l'altro gioviale senza dar ad intendere di essersela presa per quel gesto.

Il possente compagno alla sua destra l'aveva salutata con un cenno del capo al quale Melanippe aveva risposto allo stesso modo. Il ragazzo al suo fianco invece le si era fatto incontro e con un gesto improvviso l'aveva abbracciata stringendola a sé. Soltanto allora lei si era sciolta ricambiandolo affettuosamente e regalandogli un tenue sorriso che ricordava a Lexa la ragazza che aveva conosciuto nella cella.

Allo stesso modo con cui le si era accostato il ragazzino si scostò da Melanippe e incominciò a indicarle nervosamente Lexa.

“Lexa viene con noi.” disse quella per tutta risposta fulminando i suoi compagni con uno sguardo truce che non ammetteva repliche.

Questi la squadrarono per qualche istante, poi Elleo si diresse con passo elegante verso la Heda.

“Amabile fanciulla! Sono lieto di offrirti il mio aiuto! Vedo che qualche ignobile circostanza ha intaccato lo splendore della tua magnifica figura!” l'uomo aveva esercitato tutto il suo charme mentre con lo sguardo la scrutava da cima a fondo con evidente interesse.

“Grazie ma sono perfettamente in grado di muovermi da sola.” lo scostò Lexa senza degnarlo di attenzioni mentre si dirigeva rapida verso gli altri.

Melanippe aveva seguito la scena e li osservava evidentemente soddisfatta e anche un po' sollevata. Un tenue sorriso le increspava le labbra.

Elleo fece una piroetta su sé stesso e sospirò: “Mel, non le avrai mica parlato male di me, non è vero?” disse fintamente afflitto mentre anche lui si apprestava a raggiungerli.

“Potrà sorprenderti, Elleo, ma il mondo non gira intorno a te e non tutti sono vulnerabili al tuo fascino da strapazzo.” aveva ribattuto divertita la ragazza.

 

La guardia li osservava tutti con palese disprezzo.

“Portate i miei saluti al saggio Archiloco.” disse prima di voltarsi e scomparire all'interno dell'edificio alle sue spalle.

 

 

Appena si furono allontanati a sufficienza Elleo, che era passato in testa al gruppo, seguito come un cagnolino dal ragazzino biondo e senza barba, si voltò e porgendo la mano si rivolse a Lexa:

“Elleo di Neto, ex generale delle guarnigioni del Peloponneso!” esordì sicuro di sé gonfiando il petto.

Lexa si appoggiò al bastone e gli strinse la mano.

“Lexa Kom Trikru.” rispose asciutta.

“Che nome esotico e affascinante per una fanciulla dall'aspetto tanto forte quanto affascinante! Non siete di questi luoghi immagino.” la incalzò.

La Heda non rispose.

“In ogni caso...” continuò l'uomo senza farsi intimidire “Questo è Eracle di Trano.” disse indicando il possente guerriero alle sue spalle che le porse il braccio afferrando il suo in una stretta decisa.

“E questo simpatico sbarbatello è Timmi, anche lui di Neto. Può sembrare un buon a nulla ma gli devo la vita...”

Il ragazzino le strinse con timore una mano.

“Il povero Timmi ha perso la lingua anni or sono perciò non potrà allietarti con i racconti di tutte le mie coraggiose gesta...”

“Oh, puoi star certa che ci penserà lui stesso a rimediare al problema!” interruppe sarcastica Melanippe causando in Elleo una risata piena di sé.

“Ma dimmi un po', bella fanciulla, la nostra Melanippe è riuscita a non dare nell'occhio?” le si fece accanto Elleo ridendo compiaciuto per la propria battuta.

Gli occhi multicolore della ragazza furono attraversati da un lampo mentre li osservava a braccia incrociate.

Lexa non era estranea agli scherzi tra compagni d'arme ma era passato molto tempo da quando le era ancora concesso di lasciarsi andare in simili giochi e si sentiva a disagio di fronte a quel cameratismo.

“Lascialo perdere.” intervenne Eracle con voce possente. “Piuttosto, Mel, hai con te quello che Archiloco ci ha chiesto?”

Per tutta risposta Melanippe aprì il fagotto che teneva in mano mostrando una specie di cofanetto di legno.

“Ben fatto.” si complimentò il guerriero. “E adesso se vuoi spiegarci chi è questa ragazza e per quale ragione si è unita al nostro gruppo...”

“Non mi sono unita al vostro gruppo. Ringrazio Melanippe per avermi aiutata ad uscire, ma è mia intenzione proseguire il mio cammino da sola.” intervenne Lexa con decisione. Doveva assolutamente trovare un modo per tornare il più presto possibile da Clarke o almeno per mettersi in contatto con lei. Era sicura che avesse bisogno di lei perché, anche se fosse riuscita a distruggere A. L. I. E., era certa che le minacce per il loro mondo fossero tutt'altro che finite. Se solo fosse riuscita a trovare un altro specchio. Ormai era sicura che avessero un ruolo importante negli spostamenti tra una realtà e l'altra.

“E dove hai intenzione di andare?” era intervenuta Melanippe con un tono di voce leggermente alto che le aveva fatto abbandonare il suo atteggiamento da dura.

Questo suo intervento improvviso e concitato aveva attirato l'attenzione di tutti i suoi compagni che adesso la stavano studiando con attenzione. Ciò le provocò un leggero rossore sul volto, a cui ormai Lexa era abituata.

“Non lo so ancora.” rispose la Heda con sincerità.

“Se veramente non ricordi cosa è successo e non sai dove ci troviamo, come farai? E poi con una caviglia rotta! Resta con noi almeno finché non ti sarai rimessa.” insisté Melanippe ignorando gli altri.

Lexa esitò, ciò che aveva detto la ragazza era vero. Non sapeva se e quanto quel mondo fosse pericoloso ma la presenza di guerrieri non faceva ben sperare. Inoltre, non aveva idea di quale fosse la direzione da intraprendere. Forse l'unica soluzione poteva essere davvero quella di unirsi a quel gruppo cercando di raccogliere le informazioni che le servivano. Ma...

“Io devo tornare subito indietro...” sussurrò come una supplica rivolta al destino.

“Dove devi tornare?” intervenne Elleo con un tono meno giocoso.

“Nel luogo da cui provengo...” sarebbe stato complicato, anche se si fosse fidata completamente di loro.

“E sarebbe?”

“Polis, la mia città.”

“Mai sentito di una città con quel nome.”

“È molto lontana da qui.”

Elleo guardò Timmi che annuì e fece alcuni strani segni con le mani.

“Sembri sincera anche se è chiaro che non ci stai dicendo tutta la verità. Lo capisco, non ci conosci e non sai se puoi fidarti completamente di noi. Spero solo che non avremo di che pentirci...”

“Se Melanippe si fida a sufficienza di lei da invitarla ad unirsi a noi, allora anche noi dobbiamo fidarci di lei, Elleo.” intervenne con decisione Eracle. “In ogni caso, Lexa, se questo luogo è lontano come dici non puoi giungerci da sola con una caviglia in quello stato.” aggiunse indicandole il piede.

Mel lo guardava con ammirazione e gratitudine. Poi tutti si voltarono verso Lexa in attesa.

Un turbinio di pensieri le attraversava la mente. Fece appello a tutto ciò che aveva imparato durante il suo addestramento e gli anni di comando. Non aveva altra scelta.

“D'accordo. Ma appena mi sarò rimessa e avrò raccolto le informazioni che mi servono, proseguirò da sola.” sentenziò Lexa.

Lo sguardo di Melanippe si illuminò all'istante.

Fu allora che si accorsero di un rumore di cavalli al galoppo che giungeva da sud nella loro direzione.

Immediatamente ciascuno estrasse la propria arma e i tre uomini si posero in posizione d'attacco davanti a loro. Melanippe incoccò una freccia e si collocò in modo da avere un'ottima linea di tiro. Il suo sguardo era diventato feroce e implacabile, quello di una vera guerriera.

Lexa impugnò una spada e caricò tutto il suo peso sulla gamba sana facendo leva sul bastone. Si rese immediatamente conto che sarebbe stato molto difficile combattere in quello stato.

“Spero che tu sia una valorosa combattente Lexa, di questi tempi non si sa mai cosa può attenderci dietro l'angolo.” le disse cupo Elleo. La Heda si vide confermata la sua impressione che quei luoghi fossero decisamente pericolosi.

Dopo pochi istanti comparvero di fronte a loro due cavalli lanciati al galoppo. A cavalcarli, tuttavia, non sembravano essere dei guerrieri ma degli uomini vestiti con lunghe e variopinte tuniche. Lexa notò Melanippe allentare la presa sulla corda ma nessuno abbandonò la posizione di difesa.

Giunti a una decina di metri da loro i cavalli inchiodarono e uno dei due uomini scese al volo dalla propria cavalcatura. Alzò le mani mostrando di essere disarmato.

“Non attaccate! Mi manda Archiloco!” disse e lentamente infilò una mano sotto la propria veste mostrando l'altra in segno di pace. Estrasse con cautela una specie di cerchio di legno con su inciso un simbolo che la Heda non riconobbe ma che rassicurò gli altri a tal punto da far loro rinfoderare le armi. Allora anche lei abbassò la sua ma attese prima di riporla nel fodero.

“Che succede?” chiese Elleo.

“Dovete correre a palazzo, Re Mida vi manda a chiamare con urgenza! È successo un disastro, una vera tragedia! Il Re ha bisogno di voi e subito!” rispose l'uomo con il fiatone e un tono di voce colmo di disperazione.

Gli uomini si guardarono a vicenda poi, come al solito, fu Elleo a parlare.

“Archiloco ci ha affidato una missione e dobbiamo portarla a termine prima...”

“Oh, quasi dimenticavo! L'urgenza della situazione mi ha offuscato la mente.” disse il messo ed estrasse da una sacca che teneva legata a un fianco un foglio di pergamena arrotolato. L'altro uomo, in groppa al proprio cavallo li osservava senza intervenire ma sembrava non perdersi neppure un cenno.

Elleo afferrò la pergamena e la srotolò, poi lesse a voce alta.

Ho fornito al Re le vostre credenziali per l'ottimo servigio che mi avete svolto. Consegnate lo scrigno a Menelao e recatevi immediatamente dal sovrano. La missione che ha da affidarvi è della massima importanza. Il sigillo in cera lacca sembra quello di Archiloco.” concluse Elleo rigirandosi il messaggio tra le mani.

Il messaggero annuì.

Eracle guardò Timmi che nuovamente si produsse in strani gesti con le mani.

Allora i tre si fecero di lato per lasciare il passo a Melanippe che aveva seguito lo svolgersi degli eventi alle loro spalle. La ragazza si avvicinò a quello che doveva essere Menelao e gli consegnò con il fagotto che fino a quel momento aveva conservato con cura nella sua sacca. L'uomo lo prese e lo ripose al sicuro nella propria.

“Presto adesso recatevi a palazzo. A mezzo miglio da qui troverete quattro cavalli ad attendervi.”

“Temo che non ci siano più sufficienti.” intervenne Elleo indicando Lexa.

“Chi è costei?” chiese allarmato Menelao che sembrò accorgersi solo allora della sua presenza.

“La nostra nuova compagna.” sentenziò Melanippe con un tono che non ammetteva repliche da parte di nessuno, Lexa compresa.

Il messaggero sembrò esitare, incerto sul da farsi. Poi annuì dicendo:

“D'accordo, allora prendete il mio cavallo.”

“Non ci serve. Dubito che Lexa sia in grado di cavalcare da sola, per il momento. Salirà con me...” azzardò Melanippe.

“O con me.” intervenne Elleo facendole l'occhiolino.

Mel lo fulminò con lo sguardo. “Piantala, Elleo, tu non...”

Mentre i due si fronteggiavano Lexa sorpassò entrambi zoppicando e si affiancò al cavallo. Facendo forza sulla gamba sana si issò sulla bestia. Era forte e possente come raramente ne aveva viste a Polis e il suo manto era nero e lucido.

Lo sforzo le aveva fatto venire il fiatone e la caviglia sana cominciava a subire gli effetti del carico che le era imposto, ma si erse comunque con portamento fiero in groppa all'animale.

“Sono perfettamente in grado di cavalcare da sola. E ora andiamo.” non era affatto certa che questa così detta missione l'avrebbe avvicinata a quello che era il suo obiettivo, ma la situazione le era piuttosto chiara. Se voleva restare con quella compagnia non poteva imporre loro i suoi obiettivi a tal punto da far loro disobbedire a un ordine del Re.

Tutti i presenti la guardavano piuttosto impressionati, solo Eracle era particolarmente scuro in volto.

 

Si avviarono a piedi seguendo la strada fino a che non trovarono un piccolo edificio al cui esterno erano legati quattro magnifici destrieri, tutti di colore bianco, tranne uno che era pezzato di marrone.

Elleo slegò gli animali e si issò su uno di quelli bianchi.

“Quello di due colori va a Melanippe!” disse gioviale. Anche gli altri due uomini risero impossessandosi rapidamente degli altri due cavalli monocolore.

Melanippe non sembrava essere molto contenta di quella scelta obbligata e lanciò occhiatacce rabbiose

A Lexa sembrò che osservasse di sottecchi anche la sua reazione. Anche se aveva trovato lo scherzo divertente, la Heda non aveva mutato minimamente la sua severa espressione del volto, il che parve rinfrancare non poco l'altra ragazza.

“Dove dobbiamo recarci?” chiese Eracle.

“Al palazzo. Vi prego fate presto, la regina sta impazzendo di dolore!” si lasciò sfuggire Menelao.

I compagni si guardarono tra di loro con crescente preoccupazione. Cosa poteva essere accaduto di tanto grave?

“Bene, in tal caso, procederemo al galoppo. Lexa, stacci dietro. Immagino tu non conosca la strada.” ordinò Eracle.

Lexa annuì e il gruppo parti a gran velocità sul selciato.

 

 

I luoghi che attraversarono erano meravigliosi. Un paesaggio collinare percorso da boschi di querce, pini e faggi. Di tanto in tanto si vedevano porzioni di terreno coltivate in un modo che Lexa non riconosceva. Si scorgevano anche alcune capanne e dei pastori che li osservavano allarmati tenendo i loro greggi a distanza.

Dopo circa un'ora scorsero in lontananza un palazzo in cima a una collina circondato da un gran numero di edifici sparsi sulle sue pendici. Se fino a quel momento i luoghi che aveva attraversato potevano averle ricordato la sua terra d'origine, adesso Lexa rimaneva a bocca aperta perché non aveva mai visto niente che potesse anche solo vagamente assomigliare all'architettura di quella città. I rossi tetti spioventi, la bianca lucentezza dei muri e la ricchezza dei colonnati la incantavano.

Via via che si avvicinavano alla città incontrarono sempre più gente che andava o tornava dalla capitale trasportando a mano merci o trainando qualche carretto. Appena li sentivano arrivare si facevano da parte lasciando loro libero il passo.

Nessuno li ostacolò neppure in città dove furono, però, costretti a rallentare a causa del maggior affollamento di persone. Anche le guardie li lasciavano passare e anzi, trattenevano la popolazione ai lati delle strade: evidentemente qualcuno aveva provveduto ad avvisarli del loro arrivo.

Arrivarono in cima alla collina, di fronte al palazzo, che era ormai mezzogiorno. Lexa si sentiva debole, affaticata per la lunga cavalcata in cui di certo i colpi alle reni del cavallo non avevano favorito la ripresa della sua caviglia. Inoltre non mangiava dalla sera precedente, in cui, per altro, aveva a mala pena sbocconcellato la pagnotta offertale.

Appena smontarono da cavallo le guardie si fecero loro incontro guidate da un uomo con un'armatura più appariscente delle altre che doveva essere il loro comandante. Melanippe ed Elleo le si fecero contemporaneamente incontro per aiutarla a smontare, ma ignorò le mani protese di entrambi e si calò da sola a terra, cercando di celare la fitta di dolore che l'atterraggio le aveva causato. Notò Elleo ridacchiare mentre invece Melanippe si incupiva.

“Presto! Seguitemi!” intimò senza troppi preamboli il capitano delle guardie.

La maestosità del palazzo, il cui soffitto era altissimo e i cui pavimenti rilucevano come specchi, fece pensare a Lexa che mai in vita sua avrebbe immaginato niente di simile. Questo mondo era sicuramente molto più ricco del suo e temette al pensiero di quanto potesse essere potente il suo re.

Non le lasciarono il tempo di soffermarsi ad osservare ciò che la circondava per quanto la sua andatura claudicante la avvantaggiasse in quell'operazione. Notò anche che le guardie erano in subbuglio e sembravano accorse in gran numero al palazzo.

Due soldati spalancarono due immense porte che si stagliavano maestose davanti a loro e si trovarono in una stanza ancora più grande e riccamente decorata. Al termine di una breve scalinata, proprio di fronte a loro si ergevano due troni in legno. Lexa osservò compiaciuta che questi erano invece molto meno imponenti del suo nella torre di Polis. Sopra vi sedevano un uomo e una donna. L'uomo sembrava anziano, il suo corpo flaccido era ornato da ricche vesti e al fianco aveva una spada ma non le sembrò affatto un avversario temibile. La testa canuta era ornata da una luccicante corona e l'ispida barba bianca contribuiva a mala pena a celare il gran numero di rughe che gli solcavano il volto. Gli occhi acquosi sembravano pieni di un'incolmabile pena. La regina, invece, appariva molto più giovane e i capelli corvini erano intrecciati in una ricca acconciatura ornata di perle e altri gioielli. Le piccole labbra rosse spiccavano ancora di più su di un volto pallidissimo e l'espressione altera che aveva assunto mal si conciliava con i neri occhi pieni di lacrime.

Elleo, Eracle, Timmi e Melanippe si avvicinarono al trono e si inchinarono di fronte al Re. A Lexa si gelò il sangue nelle vene. Avrebbe dovuto inchinarsi anche lei, onore che fino a quel momento aveva riservato solo al comandante che l'aveva preceduta e a Clarke. Clarke, la vedeva adesso di fronte a lei, maestosa Wanheda, la più bella di tutte le regine.

Facendo appello a tutta la sua diplomazia, cominciò a spostare il peso sulla gamba sana tentando di non sbilanciarsi mentre si inginocchiava. Fu interrotta dal Re che fece loro un cenno sbrigativo della mano ordinando loro di alzarsi.

“Lasciate perdere questi convenevoli. Siete qui perché Archiloco mi ha parlato del vostro valore e soprattutto della vostra capacità di agire nell'ombra.” la voce del sovrano era cupa, anche se possente. Sembrava provenire dall'oltretomba.

“Questa notte i miei due figli gemelli sono stati rapiti.” esalò con una gran pena.

Tutti i presenti si scossero e la regina fece un piccolo sobbalzo mentre una lacrima silenziosa si faceva strada fino al suo petto, come il primo rivoletto d'acqua che la primavera fa scendere dai ghiacciai a valle.

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