Si sta come d'autunno sugli alberi

di Nemesis01
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pianoforte ***
Capitolo 2: *** Foglie secche ***
Capitolo 3: *** Nebbia ***
Capitolo 4: *** Vediamoci ***



Capitolo 1
*** Pianoforte ***



Si sta come d’autunno sugli alberi

 

L'armonia vince
di mille secoli
il silenzio

(Ugo Foscolo)

 

01 – Pianoforte

 

- Mi dispiace. Non ce l’ha fatta. –

Quella sera di metà ottobre, il medico di turno all’ospedale “Loreto Mare” di Napoli aveva cercato di essere più garbato possibile nel dare quell’infelice annuncio, così come gli era stato insegnato, eppure Luca era rimasto paralizzato, scosso, turbato. Non era mai stato facile per lui dire “arrivederci” alle persone a cui si era legato, e men che meno lo fu dire “addio” a una persona amata che l’aveva lasciato senza preavviso.
Non aveva avuto modo di prepararsi a quell’evenienza, anzi, aveva dato per scontato che suo nonno sarebbe vissuto per sempre, che avrebbero camminato mano nella mano ogni giorno, ogni passo; invece, suo nonno non l’avrebbe neanche visto da diplomato. Il ragazzo, in quell’istante, avvertì il mondo crollargli addosso.

Un leggero velo di tristezza opacizzò i suoi occhi e si sforzò di non piangere; e mentre i suoi genitori si cingevano in un abbraccio, lui stringeva i pugni saldamente, quasi affondando le unghia nella carne.

Suo nonno, quella volta, non ce l’aveva fatta e l’ultima immagine che aveva di lui era quello di un uomo avvinghiato a un secchio pieno di sangue che gli intimava di chiudere la porta di casa, che non voleva che lui lo vedesse così e che gli voleva bene.

Luca non aveva proferito parola ed era rimasto immobile al centro del corridoio asettico dell’ospedale, e stringeva gli spallacci dello zaino grigio con forza per cercare di non piangere. Aveva addirittura provato a combattere la paura per gli ospedali e per i medici pur di stargli accanto, ma lui non ce l’aveva fatta: suo nonno era deceduto e lui stava per avere una crisi di panico.

 

- Ti senti bene? –

 

La voce del medico era calda e confortevole, sembrava essere dispiaciuto dall’avergli riferito che suo nonno era privo di vita e al contempo preoccupato per la condizione in cui sembrava versare il ragazzo, ma Luca non riusciva a formulare una parola. Se si sentiva bene? Come poteva sentirsi bene? Suo nonno era stato molto più di un nonno; era stato un padre amorevole, un insegnante, un compagno di giochi, una guida. Al solo pensiero che non l’avrebbe più ascoltato cantare “T'aggio vuluto bene a te! Tu mm'hê vuluto bene a me!”, che se avesse poggiato l’orecchio sulla porta di casa non avrebbe più potuto sentire il suono di quel pianoforte che era ora solo una scatola vuota, che “La settimana enigmistica” sarebbe rimasta incompleta, le gambe gli tremavano e lo stomaco si chiudeva.

Luca abbassò lo sguardo sconsolatamente e avvertì gli occhi pizzicargli dal bruciore, aveva un groppo in gola, come un agglomerato di saliva e amarezza che non riusciva a mandar giù, che in qualche modo tornava sempre su. Socchiuse gli occhi e gli venne in mente di quando quella volta, suo nonno gli aveva rimproverato di essere disordinato. Strano come gli fosse sovvenuto quel ricordo specifico, di come gli aveva risposto dicendo che “tanto metti in ordine tu”, e ora come avrebbe fatto? Chi avrebbe messo in ordine quel caos? Chi avrebbe finito quel cruciverba?

 

- Hey, ragazzo… -

 

Luca fece in tempo a sollevare lo sguardo per incrociare quello del medico e, un attimo dopo, confuse suoni e colori, sentendosi come una foglia ingiallita trascinata dal vento. La vista gli si annebbiò tutta d’un tratto e, infine, il buio.

 

   

 

Luca riaprì gli occhi e fu subito preso dal panico: dove si trovava? Il soffitto era troppo bianco per essere quello di casa sua e uno strano “beep” faceva da sfondo.

Dov’erano le note della “Sonata al chiaro di luna”?  
Dov’era finito “Notturno per piano e violino”?

L’ “Inno alla gioia” era stato sostituito da versi lamentosi di persone sconosciute che dormivano nei letti accanto a loro, dai rumori delle apparecchiature elettroniche e dai passi frettolosi di medici e infermieri.

 

- Luca, hey, sei sveglio… - la voce amorevole di sua madre lo riportò alla realtà.

- Dove sono? –

- Sei, ehm, non ti preoccupare, eh, non è successo nulla, sei in ospedale… -

- IN OSPEDALE? – Luca saltò dal letto e l’elettrocardiografo sembrò registrare un aumento del battito cardiaco, - VOGLIO ANDARE A CASA! –

- Luca, tesoro, calmati, - la signora gli accarezzò la testa, in un tentativo di placare la paura del figlio, - Hai avuto un mancamento, e ora ti terranno in osservazione per un po’. Il dottor Salvemini è stato così gentile… -

 

Il ragazzo sembrava respirare in maniera affannosa mentre guardava gli occhi rossi della madre. Poco dopo sospirò e guardò fuori dalla finestra; l’unica cosa bella di quell’ospedale era proprio il panorama, poiché la struttura era stata costruita a ridosso del mare.

- Il nonno è morto. – queste erano le parole che riuscì a pronunciare dopo minuti di profondo silenzio. La signora annuì mestamente.

- Sì, il nonno è morto. –

- E non suonerà più. –

- Non suonerà più. –

 

Luca mosse il capo come per annuire e avvertì il cuore spezzarsi in mille pezzi, eppure l’ECG sembrava comunicare valori ora stabili. Cadde nuovamente il silenzio mentre una lieve pioggerella iniziava a scontrarsi con le vetrate del finestrone.

L’autunno era appena iniziato.

 

   

 

Note a margine

Una piccola storia, spero classificabile come “mini-long” per la challange autunnale indetta dal gruppo “Boys love”. Non so se riuscirò a scrivere tutto come da programma, tuttavia avevo necessità di scrivere di alcuni personaggi che, tempo fa, avevo creato e che erano finiti nel dimenticatoio.

Sarà una storia senza pretese quindi vi prego, siate clementi!

Nel frattempo grazie a tutti per essere passati

 

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Capitolo 2
*** Foglie secche ***



Si sta come d’autunno sugli alberi

Celeste è questa

corrispondenza

d’amorosi sensi.

(Ugo Foscolo)

 

02 – Fogliesecche

 

“È morto PASQUALE CARUSO di anni 78. Ne danno il triste annuncio i figli Giacomo, Tiziano, Valerio e Anna; i nipoti Luca, Chiara, Valentina; gli amici tutti; i colleghi del consorzio.”

 

Vittorio si era fermato a leggere quel manifesto di lutto mentre, proprio fuori la chiesa di San Domenico Maggiore, da lì a poco sarebbero giunti i parenti, gli amici, i conoscenti di quel signore morto qualche giorno prima. Sebbene fosse poco più che un tirocinante, Vittorio aveva avuto la spiacevole sorte di confutare e dichiarare molti decessi, forse troppi; non che non fosse un bravo medico, anzi: era ritenuto brillante per la sua giovane età, sempre in pari con gli esami, presente ad ogni turno, educato, gentile, adorato anche dai pazienti, ma i turni al Pronto Soccorso prevedevano scontri con casi gravi e quasi senza speranza.

Eppure quella volta successe qualcosa di diverso. Il signor Pasquale Caruso era stato portato dall’autombulanza con codice rosso, aveva perso molto sangue, era già reduce da un intervento alle coronarie, con un’anamnesi che indicava diversi interventi e diverse patologie, forse troppe per potersela cavare anche quella volta. Vittorio era stato in sala operatoria con il primario di cardiochirurgia per assisterlo e, secondo il primo chirurgo, avevano fatto il possibile.

Avevano fatto il possibile,” pensò, accendendosi una sigaretta. Chi era a stabilire la linea tra possibile e impossibile? Perché aveva dovuto arrendersi, perché non aveva potuto provare nuovamente ad aspirare il sangue in eccesso?

 

Queste erano le domande che Vittorio si era posto nelle sere successive; si era chiesto se avesse potuto fare qualcosa di più del possibile in maniera tale che il nonno di quel ragazzino potrebbe essere ancora vivo e non ci sarebbe stato quel manifesto incollato su quel muro. Il rimorso di non aver fatto tutto o di non aver potuto fare di meglio l’aveva tenuto in un loop per due giorni e, infine, aveva deciso di prender parte ai funerali contro ogni consiglio dell’etichetta medica.

 

Le esequie erano fissate per quel giorno e Vittorio entrò in chiesa solo quando questa fu piena e il cortile, poco tempo prima pieno di parenti del defunto, sgombro. Riconobbe subito quel ragazzino che gli era svenuto davanti agli occhi: era impossibile non riconoscerlo. Luca era bello, con quei capelli corvini e gli occhi chiari, le labbra carnose e l’aria di chi è lì per caso, distratto da qualche pensiero.

Il prete fece un bel discorso che commosse i figli del signor Pasquale, e, un po’, anche Vittorio.

Durante la celebrazione qualcuno ascoltava il parroco, altri osservavano l’architettura della chiesa, qualcun altro, invece, piagnucolava e poi c’era Luca. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi e le sue ciglia erano inumidite dalle lacrime versate in precedenza; aveva le mani poggiate sul banco e picchiettava con le dita sul legno lucido dei banchi della chiesa. Inizialmente quella sequenza di gesti sembrava puramente casuale mentre, in realtà, Luca ripassava mentalmente quel maledetto spartito che non aveva mai imparato.

 

“Mi, mi bemolle, mi, mi bemolle, mi, mi bemolle, si, re, do, la; do, mi, la, si, mi, la bemolle, si, do, mi…” a questo pensava Luca, mentre il prete chiedeva chi volesse dire due parole. Luca non aveva parole, ma note, per ricordare suo nonno.

Da lontano Vittorio sembrò notare quella strana combinazione e vide le labbra del ragazzo incurvarsi in un sorriso.

 

Quando la funzione fu terminata la chiesa si svuotò in pochi secondi; solo due persone erano rimaste nel grosso androne, seduti sui banchi.

Luca rimase lì adagiato anche quando il prete si fu allontanato e aveva lo sguardo rivolto verso un grosso crocifisso alle spalle dell’altare, sembrava apprezzare la solitudine e il profumo d’incenso; Vittorio, invece, aveva fatto una preghiera per l’anima del defunto ed era rimasto seduto qualche banco più dietro ad osservare il ragazzo. Dava l’impressione di essersi ripreso da quel giorno pur conservando quell’aria malinconica e stanca. Senza nemmeno rendersene conto, Vittorio si scoprì ad osservarlo con più attenzione del previsto, tant’è che seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio anche quando si alzò per lasciare il luogo sacro.

 

Luca si era seduto su una colonna di pietra recisa e guardava la gente entrare e uscire dalle gelaterie; la chiesa era nel pieno centro storico e un viavai di persone sorridenti gli passavano davanti. Cos’avevano da essere tanto allegri tutti quanti?

Aveva bisogno dell’empatia del mondo, Luca, che aveva perso quanto di più caro avesse al mondo e si trovava lì, senza un posto in cui andare, senza nessuno da abbracciare, senza nessuno che potesse dirgli che sarebbe andato tutto bene.

 

- Hey… -

Luca sollevò lo sguardo e fu sorpreso nel ritrovarsi di fronte quella testa riccia. Lo avrebbe riconosciuto tra mille, come poteva dimenticarsene? Gli aveva detto che suo nonno non ce l’aveva fatta, dando vita al proprio trauma. Il ragazzo aveva sognato ogni notte quel dottore venirgli incontro in quel corridoio e dirgli “tuo nonno sta bene, deve riposare un po’”, ma questo non aveva cambiato la realtà dei fatti.

- Ciao. – borbottò stiticamente.

- Mi dispiace per… Sai… Tuo nonno. –

- Mh-h. Anche a me. –

- Sì, lo so. Volevo solo dirti che… Era una brava persona. – Vittorio abbassò gli occhi, giocherellando distrattamente con un sassolino che era finito sotto la scarpa.

- E che ne sai tu, eh? – rispose Luca, in maniera piuttosto irriverente, - Lo conoscevi? Sapevi chi era? Sapevi che non era solo un pezzo di carne su un tavolo? –

- Capisco che tu possa essere arrabbiato, anche io lo sarei al tuo posto, ma non credo che rispondermi male potrà sanare le cose. Vedi, io sicuramente non conoscevo tuo nonno come e quanto te, ma lui è stato il primo signore che ho visitato in reparto, il mio primo giorno in ospedale. Mi ha tanto parlato dei suoi nipoti, della sua vita, era molto carino ed elegante. Mi è dispiaciuto non aver potuto fare qualcosa per tenerlo in vita. –

- Sì, certo, come no. Vorrei poter dire “la prossima volta ci affideremo ad uno più bravo”, peccato che non potrà esserci una prossima volta. – Luca lo fissò ad occhi sottili carichi d’odio e risentimento. Probabilmente una parte remota del suo cervello sapeva che non era stata colpa di Vittorio se suo nonno non ce l’aveva fatta, ma i sentimenti gli avevano tanto offuscato il senno e non riusciva a comportarsi in maniera razionale e obiettiva.

- Io spero che tu non ti debba ritrovare in questa situazione, ma se proprio dovesse capitare, mi auguro che ci sia uno più bravo. –

 

La risposta che il medico gli aveva appena dato spiazzò Luca che abbassò lo sguardo, fissando i lacci colorati che aveva abbinato alle scarpe di tela nere. Il ragazzo arricciò il labbro e, qualche attimo dopo, si rimise in piedi e, per quanto possibile vista la differenza d’altezza, sollevò lo sguardo verso l’altro.

- Senti, mi dispiace. Non volevo risponderti così. –

- Non preoccuparti. È un periodo difficile per te. So com’è perdere qualcuno di prezioso. –

 

Luca sorrise debolmente e annuì; in un secondo momento si voltò verso la madre che, da lontano, lo chiamava a voce alta per dirgli che dovevano andare.

- Io vado allora… Grazie per essere venuto, - farfugliò rapidamente, quasi avesse voglia di scappare.

Vittorio non ebbe neanche il tempo di rispondere a quei saluti, o ad offrirgli il proprio supporto morale che il ragazzo era già scomparso. Non seppe spiegarsene il motivo ma si era convinto che i loro destini dovevano essere collegati. Non si era mai sentito così.

 

   

 

Vittorio era seduto nella stanza degli specializzandi; stanza poi, era uno sgabuzzino con una brandina d’emergenza, un paio d’armadietti e una scrivania. Il ragazzo era seduto proprio sopra quest’ultima mentre mangiava un sandwich rinsecchito farcito con della maionese e una fettina di prosciutto, ossia tutto quello che gli era rimasto in frigo, il che gli aveva ricordato che avrebbe dovuto fare la spesa. Vittorio guardava fuori da quella finestra sporca mentre diede un morso al panino quando si accorse che il cielo si era imbrunito e l’aria raffreddata. Era da qualche giorno che si sentiva così, con il freddo dentro, come cullato da una strana apatia. Forse era vero, pensò, quello che diceva Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi / le foglie”.

 

Nonostante la sicurezza di un lavoro fisso e ben retribuito, un monolocale arredato e la cena sempre servita, Vittorio non riusciva a trovare pace. C’era qualcosa che non andava, si sentiva svuotato da quell’ingenuità che l’aveva sempre caratterizzato, era diventato diffidente e malpensante. Questo l’aveva portato a chiudersi in sé stesso e diventare schivo con gli altri, riducendo le sue interazioni sociali solo ai fini lavorativi almeno fino a quando Luca non gli era svenuto davanti. Quando l’aveva visto perdere i sensi aveva avvertito il bisogno di stargli accanto; Luca aveva risvegliato il lato di sé che aveva sempre apprezzato: quello umano. Quello dove i pazienti “non sono solo carne da macello” ma nonni amorevoli, sorelle simpatiche, cugini collaborativi.

 

La pioggia cadeva sempre più forte, le gocce erano talmente grosse che sembravano sassolini lanciati contro quei vetri tanto spessi e appannati. In quel momento avrebbe voluto avvolgersi in un morbido plaid davanti ad un camino, mangiare un cornetto caldo e bere cioccolata calda quando il proprio cercapersone iniziò a squillare.

Vittorio si ficcò il resto del pranzo in bocca e deglutì neanche fosse una compressa quando lesse sul display del dispositivo “emergenza in pronto soccorso” e, di conseguenza, iniziò a correre fino a raggiungere il piano terra dell’ospedale, saltando qualche gradino di tanto in tanto.

 

- Dottor Salvemini, mi scusi per aver badgato lei, ma gli altri erano in pausa e… -

- Non si preoccupi Leonida, mi dica pure! –

- C’è un ragazzino di diciott’anni, dolore intercostale forte, casi cardiopatici in famiglia, è arrivato qui con un codice giallo! -

- ECG? –

- Irregolare, è così giovane… -

- Dobbiamo muoverci! – Vittorio si catapultò letteralmente di sotto, trovando il ragazzo indicato dall’infermiera. Alzò gli occhi verso di lui quando, con rammarico, scoprì che si trattava proprio di Luca Caruso.

 

   

 

 

Note a margine

Eccomi, con il mio ritardo fisiologico, con il secondo capitolo di questa storia.

Che ne pensate? Io personalmente credo che, impegnandomi, forse potrebbe uscire qualcosa di decente.

Per il resto attendo, come al solito, i vostri pareri!

 

 

 

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Capitolo 3
*** Nebbia ***



Si sta come d’autunno sugli alberi

Amor fra l'ombre inferne

 seguirammi immortale,

onnipotente.

(Ugo Foscolo)

 

03 – Nebbia

 

Il ragazzo sembrava essere in piena crisi respiratoria e ciò gli provocava una tosse strana; quasi come se avesse fame d’aria e al contempo avesse assunto troppo ossigeno. Vittorio lo visitò in silenzio, ascoltando quello che la mamma aveva da dirgli in riferimento alle condizioni del figlio.

- È tornato da scuola, ha mangiato poco… Non lo so, aveva detto di aver mangiato delle castagne d’asporto, ma boh… Non riusciva a respirare e gli si è gonfiato il collo, ma non è allergico… -

- Stia tranquilla, signora Caruso, ora facciamo un po’ di controlli e risolveremo! – la rassicurò il medico, - Vedrà, sarà una cosa da nulla. –

La signora sembrava essere già più calma e gli annuì mestamente.

 

La medicina d’urgenza non era proprio la specialità di Vittorio che, da buon tirocinante di cardiochirurgia, si limitava a quella che era la propria branca di medicina; tuttavia, un buon medico non può non soccorrere una persona in difficoltà e, del resto, aveva anche un giuramento a cui far fede e per fortuna aveva una buona infarinatura di medicina di base. Leonilda era corsa a chiamare il medico di turno, impegnato con un’altra situazione d’emergenza, e nel frattempo Vittorio si era dedicato a dei controlli basici.

- Ora controlliamo la saturazione, - spiegò Vittorio. Luca sembrava essere in preda ad un attacco di panico e lo guardava in assoluto silenzio con occhi sgranati dalla paura. – Stai tranquillo! –

- Ha, ehm, paura dei medici… - spiegò la madre, sorridendo timidamente, quasi impacciata.

- Hai paura dei medici? – chiese il dottore. Luca rispose con uno sguardo quasi omicida che fece ridere l’altro. I ricci ribelli di Vittorio si mossero a ritmo della sua testa e proseguì, - Ma noi siamo buoni, siamo qui per curare le persone, per farle soffrire di meno. –

- Mi… Fanno… Paura… I… Camici… Bianchi… -

 

Il ragazzo parlava con voce flebile e Vittorio gli fece infilare il dito nel saturimetro, una piccola scatoletta elettronica che somigliava ad una molletta tonda e grassoccia. A quelle parole Vittorio si tolse il camice e lo lanciò ai piedi della barella, stringendosi nelle spalle, - Beh, il bianco ingrassa. –

La signora ridacchiò cercando di non farsi beccare; Luca, invece, rimase sorpreso: era in un ospedale e, al di fuori Vittorio, c’erano molti altri medici che indossavano un camice bianco. Il ragazzo, però, rifletté sul fatto che quello fosse un gesto molto premuroso da parte sua: non l’aveva deriso né preso in giro ma si era limitato a togliersi quel camice per farlo sentire a proprio agio.

- Grazie… -

Vittorio sorrise amabilmente per poi dare uno sguardo al saturimetro: 80 %. C’era qualcosa che non andava. Da che era gentile e delicato nei modi, Vittorio sembrò allarmato e, in assoluto silenzio, lo fece girare di spalle e gli sollevò la maglietta, auscultando in corrispondenza del cuore: il suono era aspro. Il giovane medico deglutì e fece dei movimenti scattosi nel prendergli i polsi: il battito sembrava essere flebile ma sincronizzato, allora si concentrò sul colore della sua pelle. I polpastrelli sembravano essere lievemente arrossiti, quindi afferrò il primo sfigmomanometro utile e misurò i livelli di pressione sanguigna, anch’essi alterati.

- Tutto bene dottore…? – chiese la signora, mentre il figlio sembrava agonizzare sempre di più.

- Un attimo solo signora Caruso… Resti qui, non si muova. Resti qui. – il dottore sollevò le mani come a dirle di rimanere calma prima di iniziare letteralmente a correre nervosamente per i corridoi.

- PROFESSOR VELANTA, PROFESSOR VELANTA! – urlò, bussando alla porta dell’ufficio del suo docente. – PROFESSORE!! –

- Un attimo, arrivo… Vitto’, che c’è, che urli? –

- C’è un ragazzino al PS… - disse affannato, poggiando le mani sulle ginocchia. Gli presentò il caso: - Dispnea, gonfiore giugulare, tosse, saturazione bassa, pressione minima alta, soffio olosistolico aspro, presenta tachicardia, polsi flebili ma sincroni, acrocianosi… è la valvola mitrale stenotica congenita, no? L’anamnesi familiare è preoccupante, abbiamo perso suo nonno qualche tempo fa… -

- Prenota subito una sala! Come si chiama? –

- Caruso Luca, 18 anni… -

 

   

 

Vittorio aveva sbuffato e, con un gesto secco, dopo essersi buttato contro il muro del corridoio, si era tolto la cuffia liberando i ricci. Era stata una giornata lunga per lui e ora doveva avvisare la famiglia. Odiava avvisare la famiglia.

Si stropicciò gli occhi, si liberò della copertura chirurgica e, una volta lavatosi le mani, si diresse presso la sala d’attesa. Già se l’immaginava i signori Caruso: l’avrebbero visto arrivare e si sarebbero alzati per andargli incontro, si sarebbero stretti le mani e gli avrebbero chiesto “Allora dottore?”.

 

Così come aveva fantasticato poco prima, i due coniugi Caruso si erano alzati e l’avevano raggiunto mano nella mano.

- Dottore, allora…? –

Vittorio scambiò uno sguardo con i signori e poi sorrise dolcemente.

-  Vostro figlio soffriva di stenosi mitralica. Non è una cosa molto comune in ragazzi giovani come lui, evidentemente era qualcosa di ereditario. Sbaglio o suo padre ha sofferto molto di malattie cardiache? –

- No, non sbaglia dotto’, mio padre ha avuto pure un infarto… Pure mio nonno soffriva col cuore, - aggiunse il signor Caruso.

- Beh, l’abbiamo preso in tempo e gli abbiamo dovuto fare una plastica valvolare. –

- E ora come sta? – chiese la signora.

- È ancora sotto l’anestesia, però l’intervento è andato bene. Tra poco lo porteranno in camera e potrete vederlo. –

I genitori si sciolsero in un sospiro e sorrisero annuendo.

- Grazie dottore, grazie mille. –

Vittorio schiuse le labbra in un sorriso e, dopo essersi congedato, s’incamminò per i corridoi.

- È un bravo ragazzo, questo dottore. –

 

   

 

Quando Luca aprì gli occhi non riuscì a capire che ore fossero. Si sentiva confuso, dolorante e qualcosa in petto gli bruciava e gli arrecava fastidi. Aveva anche uno strano formicolio agli arti, ma forse quello era stesso causato dall’anestesia che stava perdendo il suo effetto. Faceva un po’ freddo in quel posto, però almeno era silenzioso. Nella stanza sembrava esserci solo un altro signore, oltre lui e suo padre che si era addormentato sulla sedia accanto al letto. Luca incurvò le labbra in un sorriso e si limitò a fissare la soluzione fisiologica scendere dal lavaggio, quando avvertì l’eco di alcune voci provenire dal corridoio adiacente alla stanza.

 

“Salvemini, che ci fai ancora qui?”

“Uh? Ah, professore! Sto andando via, ma prima volevo dare un’ultima controllata al ragazzo di oggi…”

“Ma sono le due di notte, saresti dovuto andar via ore fa.”

“Lo so, ma…”

“Veloce, su.”

 

La porta della camera si aprì con un cigolio e Vittorio, in abiti decisamente meno professionali e spaventosi, si avvicinò al letto di Luca. Controllò che ci fosse sufficiente soluzione fisiologica e gli misurò nuovamente la saturazione; nonostante l’operazione subita sembrava stare molto meglio.

- Ciao, - bisbigliò Luca.

Vittorio sorrise dolcemente e un raggio di luce blu filtrata dalla finestra si batté contro il suo viso pallido. – Ciao! Come stai?

- Ho sonno. –

- Dormi, dormi. –

- Va bene, - rispose il ragazzo e, dopo un secondo di pausa, aggiunse - Grazie. –

- Ehm, prego, ma… Per cosa? –

- Per avermi salvato la vita. –

- Beh, - Vittorio ridacchiò, infilando il saturimetro in tasca, - In realtà ti ho solo ricucito. Spero di essere migliorato! –

- Che cosa carina da dire, - ridacchiò il ragazzo, per poi assumere un’espressione sofferente: forse quello sforzo non andava d’accordo con quella ferita fresca.

- Shh, riposa, tranquillo, - il medico lo rassicurò con uno sguardo gentile e il ragazzo annuì.

- Buonanotte. –

- Buonanotte. –

 

Luca osservò l’ombra di Vittorio svanire dietro quella grossa porta bianca e tirò un sospiro. Aveva paura dei medici e degli ospedali, non sopportava la vista dei camici bianchi e quella stanza puzzava di farmaci e pipì.

Il sorriso di Vittorio, però, valeva tutte le pene che stava soffrendo.

 

   

 

 

Note a margine

Eccomi qui, nella speranza di essere ora in pari con la challange.

Volevo ringraziare pubblicamente Abby per le parole bellissime che mi rivolge in ogni recensione.

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Vediamoci ***


Si sta come d’autunno sugli alberi

 

 

 

 Questi è un vile, perché soggiace;

quegli che sopporta, è un eroe?

Mentre l'amore della vita è così imperioso

 che più battaglia avrà fatto il primo per non cedere,

che il secondo per sopportare.

(Ugo Foscolo)

 

04 – Vediamoci

 

Luca sbuffò verso la finestra lasciando intaccato quel piatto di brodo che l’infermiera gli aveva portato. Aveva fame ma voleva del cibo vero, non quella specie di rancio iposodico e povero in carboidrati.

- Hai saltato un altro pasto, - lo rimproverò Vittorio, - Cos’è, vuoi rimanere ospite fisso in questo hotel a cinque stelle? –

- Ci vuole coraggio a definirlo “Hotel”… -

- Beh, rifletti: posto letto, pensione completa, sesto piano, vista sul mare, reception e assistenza ventiquattr’ore, sette giorni su sette… -

Luca rise per quella frase e scosse leggermente la testa, - Se la metti così… -

- Te l’avevo detto io! Bisogna sempre guardare tutto dalla giusta prospettiva.  

- Peccato che come hotel sia una bettola, però. –

- Perché? –

- Perché il cibo fa schifo. –

- Beh, sei qui a titolo gratuito, che ti aspettavi? – rise Vittorio.

Luca l’osservò ridere: aveva il viso illuminato dalla luce della finestra. Era così bello che non poté fare altro che imitarlo, ridendo per quella battuta che, in fin dei conti, non era male.

 

   

 

- Ciao! – la voce di Luca echeggiò nel corridoio stranamente calmo. Lui non avrebbe voluto disturbare Vittorio ma gli aveva promesso che avrebbe provato a rimettersi in piedi e, di conseguenza, voleva dimostrargli di esserci riuscito. Probabilmente a lui non sarebbe interessato, dato che stava parlando con dei colleghi, ma Luca, un paziente come un altro, ci provò ugualmente.

- Hey, ciao! – sorrise Vittorio, - Vedo che finalmente sei in piedi! –

- Sono solo uscito dalla stanza, - sbuffò Luca.

- Va beh, io vado, - parlò il ragazzo accanto a Vittorio, - Se lo semo 'nsaponato e domani se 'o risciacquamo, – concluse, salutando.

- Ce se pija, - rispose l’altro stringendogli la mano, per poi rivolgersi a Luca, - Come ti senti oggi? –

- Che… Che razza di idioma era quello? – domandò il ragazzo, battendo le palpebre perplesso.

- Oh no, nessun idioma, è romanesco. –

- E che significava? –

- Arrivederci, - riassunse Vittorio, - Ma tu non hai risposto alla mia domanda. –

- Meglio, - rispose Luca, confuso, e osservò con attenzione l’altro medico mentre si allontanava, - Quindi… non sei di Napoli? –

- Perché, nun se sente? – ridacchiò il medico.

- Un po’, - rispose Luca, sorridendo. Provò a fare un ulteriore passo ma si sentì venir meno nelle gambe; già vistosi per terra, Luca chiuse gli occhi, sorprendendosi di non aver emesso alcun rumore sordo per la caduta. Quando li riaprì, si accorse che Vittorio l’aveva sorretto e aveva così evitato l’impatto col pavimento.

- Forse dovresti tornare in stanza… Dai, t’accompagno e poi finisco il giro visite. –

 

   

 

Erano passati tre giorni dall’ultima volta che Luca aveva incrociato Vittorio. In tutti quei giorni che aveva passato ricoverato in ospedale l’aveva incontrato circa due volte al giorno e quindi quell’assenza immotivata gli aveva causato una leggera ansia. Luca, però, era anche un ragazzo molto perspicace: sapeva che Vittorio non era un suo amico ma soltanto uno dei medici che l’aveva in cura e, probabilmente, quello che gli aveva salvato la vita. Tuttavia aveva visto in quel medico qualcosa di più di un semplice camice bianco e nozioni varie. Un nuovo medico l’aveva visitato e, dopo aver firmato diversi documenti, Luca era stato dimesso.

- Ma non c’è quel medico tanto caruccio, come si chiama? Salvemini, possibile? –

- No, - rispose secco il figlio, - Non passa da qui da giorni. –

- Ma che peccato, - disse la signora sinceramente dispiaciuta, - Gli avevo preparato un dolcino. –

- Ma’, fammi capire, prepari dolci per lui e non per me? E poi che… NO, mi rifiuto, è una figura di merda. Metti in borsa, - la rimproverò, impegnato nell’atto di chiudere la zip della felpa.

- Aho, ‘nnamo ‘npò!

A quello strano accento Luca allungò l’orecchio e si catapultò letteralmente fuori dalla stanza. Guardò a destra e a sinistra ma non ci fu traccia di Vittorio. Così, sconsolato, si recò verso l’uscita dell’ospedale insieme alla madre.

- Dottor Salvemini! – la signora Caruso sembrò essere raggiante, al contrario del figlio che assunse un’espressione accigliata.

- Signora Caruso, Luca, buongiorno! –

- Dottore, io le avevo portato un pensierino, per ringraziarla… -

- Ma signora lei… -

- No, stia zitto! Niente di che, eh, non si aspetti un Rolex. È un dolce che ho fatto io, una specialità! Non è vero, Luca? –

Il figlio della signora Caruso storse il naso nell’annuire. Era un po’ innervosito, giacché aveva appurato un notevole distacco da parte di Vittorio, ma forse era tutto frutto della propria paranoia.

La signora costrinse Vittorio a prendere un pezzo di dolce al cioccolato che lo specializzando assaporò con gusto.

- Vedo che stai meglio! – farfugliò il medico.

- Sì, mi hanno dimesso. –

- Lo so, ho firmato io quelle cartelle, - sancì Vittorio, poggiandogli una mano sulla spalla.

Luca gli lanciò un’occhiataccia che voleva intendere “perché non sei più venuto a trovarmi?”.

- Ah, non ci ho fatto caso. –

- Questa settimana mi hanno dato ben due turni di notte e quando sono venuto a controllarti dormivi sempre. Va meglio anche con l’insonnia? –

 

Ma come poteva Luca restare arrabbiato con lui?

 

   

 

Vittorio gli aveva lasciato il suo numero.

 

A questo pensava Luca mentre se ne restava steso sul letto in camera sua: Vittorio gli aveva lasciato il numero di cellulare e gli aveva detto “Chiamami se hai bisogno”. Era stato vago e sicuramente si riferiva ad una mera questione medica, qualcosa come “chiamami se si riapre la ferita” piuttosto che “chiamami se ti fa ancora male il cuore”.

 

Luca aveva appena portato a termine l’ennesima lunga giornata, tra la scuola e qualche attività extra, era ora sul letto e fissava lo schermo del proprio smartphone.

 

«Vediamoci» era stato quello l’SMS che Luca aveva inviato. Ma quanto era stato stupido? Una parola messa lì, a caso, senza dire chi fosse. Che diavolo gli era passato nella testa?

 

«E tu saresti?»

«Luca»

«Adesso?»

«Non lo so, vediamoci»

 

Gli SMS di Luca erano sempre brevi e concisi: non amava perdersi in chiacchiere e, in realtà, non sapeva cos’altro dirgli: voleva vederlo, ammirare il suo sorriso e sentire la sua voce. Che altro doveva scrivere?

 

«Ti vengo a prendere»

 

Vittorio aveva sorriso nel ricevere quei messaggi. Non aveva voluto scrivergli per primo da una parte perché non conosceva il numero, dall’altra perché era stato pur sempre il suo medico e non avrebbe voluto farlo sentire sotto pressione per qualcosa. Per cosa poi? Non lo sapeva. Per diventare amici? Insomma, Vittorio era sicuramente omosessuale (era stata una rivelazione in tenera età, quando a Carnevale chiedeva sempre di mascherarsi sempre da Daphne della Scooby gang) ma non aveva idea di che tipo di interessi potesse avere Luca. Fatto sta che, per qualche ragione a lui ignota, desiderava poter passare tempo con il ragazzo.

L’evidenza che fosse così anche per Luca la sancì proprio quel primo messaggio striminzito.

 

«L’indirizzo non ti serve?»

«Seconda stella a destra e poi diritto fino al mattino?»

 

   

 

- Sai, - Luca parlava davanti ad una tazza di tè al sapore di Natale. Non aveva idea di perché avessero optato per un caffè letterario, ma a quell’ora della notte non c’erano molti locali aperti, ad eccezione delle discoteche che erano state ampiamente bocciate da entrambi.

Così, vagabondando su una vecchia Vespa Acquamarina, Luca e Vittorio erano giunti in un caffè letterario alle due di notte. Avevano parlato del più e del meno come due grandi amici, anche se in realtà non si conoscevano affatto, e si erano, infine, soffermati su quel tè al gusto di Natale, - Credo sia la cannella. –

- Secondo me è lo zenzero. –

- Cannella. –

- Zenzero. –

- No, è cannella! –

- Ma dai, lo sanno tutti, il Natale è fatto da biscotti pan di zenzero! –

- In America, forse, qui è fatto di struffoli e pandoro. –

- Che, in ogni caso, non contengono cannella. –

- E neanche lo zenzero. –

- Ma non potevo prendere un tè nero normale come tutti i cristiani, no, eh? –

- No. Il Natale è più buono, - rise Luca.

 

   

 

Era giunta l’alba quando Vittorio aveva accompagnato Luca a casa; la città aveva assunto un fascino particolare senza tutto quel trambusto che, da lì a poco, avrebbe ripreso a sconvolgerne l’equilibrio naturale.

Luca era sceso dalla Vespa e si era tolto il casco rosa che il medico gli aveva prestato, per poi restituirglielo.

- È stato divertente. –

- Mai più tè al Natale. –

- La prossima volta assaggiamo quello alla birra. –

- La prossima volta? –

- Sì, vediamoci ancora. –

- Tè alla birra sia. Che, probabilmente, secondo il tuo bizzarro senso del gusto, avrà il sapore di wasabi, ma ok. –

 

Luca sorrise a quell’appunto e, prima di rientrare nel portone di casa sua, si tuffò ad abbracciare Vittorio. Fu una stretta, durata solo pochi secondi, nella quale avvertì uno strano calore riempirgli il corpo.

In assoluto silenzio Luca rincasò, riflettendo sul fatto che, in un modo completamente assurdo, suo nonno doveva avergli fatto un ultimo regalo: Vittorio Salvemini.

 

   

Note a margine

E così metto fine anche io a questa storia.

Ricordo a tutti che è stata scritta per la challange “Fall into autmn” indetta dal gruppo “Boys love”. È una storia senza pretese, scritta di getto, senza betaggio e sicuramente piena di errori di forma e punteggiatura, ma non importa. Spero che chiunque abbia investito due minuti di tempo per leggerne i capitoli sia rimasto comunque felice di averlo fatto.

Grazie a tutti di cuore

 

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