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Quella sera di metà ottobre, il
medico di turno all’ospedale “Loreto Mare” di Napoli aveva cercato di essere
più garbato possibile nel dare quell’infelice annuncio, così come gli era stato
insegnato, eppure Luca era rimasto paralizzato, scosso, turbato. Non era mai
stato facile per lui dire “arrivederci” alle persone a cui si era legato, e men
che meno lo fu dire “addio” a una persona amata che l’aveva lasciato senza
preavviso.
Non aveva avuto modo di prepararsi a quell’evenienza, anzi, aveva dato per
scontato che suo nonno sarebbe vissuto per sempre, che avrebbero camminato mano
nella mano ogni giorno, ogni passo; invece, suo nonno non l’avrebbe neanche
visto da diplomato. Il ragazzo, in quell’istante, avvertì il mondo crollargli
addosso.
Un leggero velo di tristezza opacizzò
i suoi occhi e si sforzò di non piangere; e mentre i suoi genitori si cingevano
in un abbraccio, lui stringeva i pugni saldamente, quasi affondando le unghia nella carne.
Suo nonno, quella volta, non ce l’aveva
fatta e l’ultima immagine che aveva di lui era quello
di un uomo avvinghiato a un secchio pieno di sangue che gli intimava di
chiudere la porta di casa, che non voleva che lui lo vedesse così e che gli
voleva bene.
Luca non aveva proferito parola ed
era rimasto immobile al centro del corridoio asettico dell’ospedale, e
stringeva gli spallacci dello zaino grigio con forza per cercare di non piangere.
Aveva addirittura provato a combattere la paura per gli ospedali e per i medici
pur di stargli accanto, ma lui non ce l’aveva fatta: suo nonno era deceduto e
lui stava per avere una crisi di panico.
- Ti senti bene? –
La voce del medico era calda e
confortevole, sembrava essere dispiaciuto dall’avergli riferito che suo nonno
era privo di vita e al contempo preoccupato per la condizione in cui sembrava
versare il ragazzo, ma Luca non riusciva a formulare una parola. Se si sentiva
bene? Come poteva sentirsi bene? Suo nonno era stato molto più di un nonno; era
stato un padre amorevole, un insegnante, un compagno di giochi, una guida. Al
solo pensiero che non l’avrebbe più ascoltato cantare “T'aggio vuluto bene a te! Tu mm'hêvuluto bene a me!”, che
se avesse poggiato l’orecchio sulla porta di casa non avrebbe più potuto
sentire il suono di quel pianoforte che era ora solo una scatola vuota, che “La settimana enigmistica” sarebbe
rimasta incompleta, le gambe gli tremavano e lo stomaco si chiudeva.
Luca abbassò lo sguardo sconsolatamente
e avvertì gli occhi pizzicargli dal bruciore, aveva un groppo in gola, come un agglomerato
di saliva e amarezza che non riusciva a mandar giù, che in qualche modo tornava
sempre su. Socchiuse gli occhi e gli venne in mente di quando quella volta, suo
nonno gli aveva rimproverato di essere disordinato. Strano come gli fosse
sovvenuto quel ricordo specifico, di come gli aveva risposto dicendo che “tanto
metti in ordine tu”, e ora come avrebbe fatto? Chi avrebbe messo in ordine quel
caos? Chi avrebbe finito quel cruciverba?
- Hey,
ragazzo… -
Luca fece in tempo a sollevare lo
sguardo per incrociare quello del medico e, un attimo dopo, confuse suoni e
colori, sentendosi come una foglia ingiallita trascinata dal vento. La vista
gli si annebbiò tutta d’un tratto e, infine, il buio.
•• •
Luca riaprì gli occhi e fu subito
preso dal panico: dove si trovava? Il soffitto era troppo bianco per essere
quello di casa sua e uno strano “beep” faceva da sfondo.
Dov’erano le note della “Sonata al
chiaro di luna”?
Dov’era finito “Notturno per piano e violino”?
L’ “Inno alla gioia” era stato
sostituito da versi lamentosi di persone sconosciute che dormivano nei letti
accanto a loro, dai rumori delle apparecchiature elettroniche e dai passi
frettolosi di medici e infermieri.
- Luca, hey,
sei sveglio… - la voce amorevole di sua madre lo riportò alla realtà.
- Dove sono? –
- Sei, ehm, non ti preoccupare,
eh, non è successo nulla, sei in ospedale… -
- IN OSPEDALE? – Luca saltò dal
letto e l’elettrocardiografo sembrò registrare un aumento del battito cardiaco,
- VOGLIO ANDARE A CASA! –
- Luca, tesoro, calmati, - la
signora gli accarezzò la testa, in un tentativo di placare la paura del figlio,
- Hai avuto un mancamento, e ora ti terranno in osservazione per un po’. Il
dottor Salvemini è stato così gentile… -
Il ragazzo sembrava respirare in
maniera affannosa mentre guardava gli occhi rossi della madre. Poco dopo sospirò
e guardò fuori dalla finestra; l’unica cosa bella di quell’ospedale era proprio
il panorama, poiché la struttura era stata costruita a ridosso del mare.
- Il nonno è morto. – queste erano
le parole che riuscì a pronunciare dopo minuti di profondo silenzio. La signora
annuì mestamente.
- Sì, il nonno è morto. –
- E non suonerà più. –
- Non suonerà più. –
Luca mosse il capo come per
annuire e avvertì il cuore spezzarsi in mille pezzi, eppure l’ECG sembrava
comunicare valori ora stabili. Cadde nuovamente il silenzio mentre una lieve pioggerella
iniziava a scontrarsi con le vetrate del finestrone.
L’autunno era appena iniziato.
•• •
Note a margine
Una piccola storia, spero classificabile come “mini-long” per la challange autunnale indetta dal gruppo “Boys love”. Non so
se riuscirò a scrivere tutto come da programma, tuttavia avevo necessità di
scrivere di alcuni personaggi che, tempo fa, avevo creato e che erano finiti
nel dimenticatoio.
Sarà una storia senza pretese quindi vi prego, siate clementi!
“È morto PASQUALE CARUSO di anni 78. Ne danno il triste annuncio i
figli Giacomo, Tiziano, Valerio e Anna; i nipoti Luca, Chiara, Valentina; gli
amici tutti; i colleghi del consorzio.”
Vittorio si era fermato a leggere
quel manifesto di lutto mentre, proprio fuori la chiesa di San Domenico
Maggiore, da lì a poco sarebbero giunti i parenti, gli amici, i conoscenti di
quel signore morto qualche giorno prima. Sebbene fosse poco più che un
tirocinante, Vittorio aveva avuto la spiacevole sorte di confutare e dichiarare
molti decessi, forse troppi; non che non fosse un bravo medico, anzi: era
ritenuto brillante per la sua giovane
età, sempre in pari con gli esami, presente ad ogni turno, educato, gentile,
adorato anche dai pazienti, ma i turni al Pronto Soccorso prevedevano scontri
con casi gravi e quasi senza speranza.
Eppure quella volta successe
qualcosa di diverso. Il signor Pasquale Caruso era stato portato
dall’autombulanza con codice rosso, aveva perso molto sangue, era già reduce da
un intervento alle coronarie, con un’anamnesi che indicava diversi interventi e
diverse patologie, forse troppe per potersela cavare anche quella volta.
Vittorio era stato in sala operatoria con il primario di cardiochirurgia per
assisterlo e, secondo il primo chirurgo, avevano fatto il possibile.
“Avevano fatto il possibile,” pensò, accendendosi una sigaretta. Chi
era a stabilire la linea tra possibile e impossibile?
Perché aveva dovuto arrendersi, perché non aveva potuto provare nuovamente ad
aspirare il sangue in eccesso?
Queste erano le domande che
Vittorio si era posto nelle sere successive; si era chiesto se avesse potuto
fare qualcosa di più del possibile in
maniera tale che il nonno di quel ragazzino potrebbe essere ancora vivo e non
ci sarebbe stato quel manifesto incollato su quel muro. Il rimorso di non aver
fatto tutto o di non aver potuto fare di meglio l’aveva tenuto in un loop per due
giorni e, infine, aveva deciso di prender parte ai funerali contro ogni
consiglio dell’etichetta medica.
Le esequie erano fissate per quel
giorno e Vittorio entrò in chiesa solo quando questa fu piena e il cortile,
poco tempo prima pieno di parenti del defunto, sgombro. Riconobbe subito quel
ragazzino che gli era svenuto davanti agli occhi: era impossibile non
riconoscerlo. Luca era bello, con quei capelli corvini e gli occhi chiari, le
labbra carnose e l’aria di chi è lì per caso, distratto da qualche pensiero.
Il prete fece un bel discorso che
commosse i figli del signor Pasquale, e, un po’, anche Vittorio.
Durante la celebrazione qualcuno
ascoltava il parroco, altri osservavano l’architettura della chiesa, qualcun
altro, invece, piagnucolava e poi c’era Luca. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi
e le sue ciglia erano inumidite dalle lacrime versate in precedenza; aveva le
mani poggiate sul banco e picchiettava con le dita sul legno lucido dei banchi
della chiesa. Inizialmente quella sequenza di gesti sembrava puramente casuale
mentre, in realtà, Luca ripassava mentalmente quel maledetto spartito che non
aveva mai imparato.
“Mi,
mi bemolle, mi, mi bemolle, mi, mi bemolle, si, re, do, la; do, mi, la, si, mi,
la bemolle, si, do, mi…” a questo pensava Luca, mentre il prete chiedeva chi volesse dire
due parole. Luca non aveva parole, ma note, per ricordare suo nonno.
Da lontano Vittorio sembrò notare
quella strana combinazione e vide le labbra del ragazzo incurvarsi in un
sorriso.
Quando la funzione fu terminata la
chiesa si svuotò in pochi secondi; solo due persone erano rimaste nel grosso
androne, seduti sui banchi.
Luca rimase lì adagiato anche quando
il prete si fu allontanato e aveva lo sguardo rivolto verso un grosso crocifisso
alle spalle dell’altare, sembrava apprezzare la solitudine e il profumo
d’incenso; Vittorio, invece, aveva fatto una preghiera per l’anima del defunto
ed era rimasto seduto qualche banco più dietro ad osservare il ragazzo. Dava l’impressione
di essersi ripreso da quel giorno pur conservando quell’aria malinconica e
stanca. Senza nemmeno rendersene conto, Vittorio si scoprì ad osservarlo con
più attenzione del previsto, tant’è che seguì i suoi movimenti con la coda
dell’occhio anche quando si alzò per lasciare il luogo sacro.
Luca si era seduto su una colonna
di pietra recisa e guardava la gente entrare e uscire dalle gelaterie; la
chiesa era nel pieno centro storico e un viavai di persone sorridenti gli
passavano davanti. Cos’avevano da essere tanto allegri tutti quanti?
Aveva bisogno dell’empatia del
mondo, Luca, che aveva perso quanto di più caro avesse al mondo e si trovava
lì, senza un posto in cui andare, senza nessuno da abbracciare, senza nessuno
che potesse dirgli che sarebbe andato tutto bene.
- Hey… -
Luca sollevò lo sguardo e fu
sorpreso nel ritrovarsi di fronte quella testa riccia. Lo avrebbe riconosciuto
tra mille, come poteva dimenticarsene? Gli aveva detto che suo nonno non ce
l’aveva fatta, dando vita al proprio trauma. Il ragazzo aveva sognato ogni
notte quel dottore venirgli incontro in quel corridoio e dirgli “tuo nonno sta
bene, deve riposare un po’”, ma questo non aveva cambiato la realtà dei fatti.
- Ciao. – borbottò stiticamente.
- Mi dispiace per… Sai… Tuo nonno.
–
- Mh-h.
Anche a me. –
- Sì, lo so. Volevo solo dirti
che… Era una brava persona. – Vittorio abbassò gli occhi, giocherellando
distrattamente con un sassolino che era finito sotto la scarpa.
- E che ne sai tu, eh? – rispose
Luca, in maniera piuttosto irriverente, - Lo conoscevi? Sapevi chi era? Sapevi
che non era solo un pezzo di carne su un tavolo? –
- Capisco che tu possa essere
arrabbiato, anche io lo sarei al tuo posto, ma non credo che rispondermi male
potrà sanare le cose. Vedi, io sicuramente non conoscevo tuo nonno come e
quanto te, ma lui è stato il primo signore che ho visitato in reparto, il mio
primo giorno in ospedale. Mi ha tanto parlato dei suoi nipoti, della sua vita,
era molto carino ed elegante. Mi è dispiaciuto non aver potuto fare qualcosa
per tenerlo in vita. –
- Sì, certo, come no. Vorrei poter
dire “la prossima volta ci affideremo ad uno più bravo”, peccato che non potrà
esserci una prossima volta. – Luca lo fissò ad occhi sottili carichi d’odio e
risentimento. Probabilmente una parte remota del suo cervello sapeva che non
era stata colpa di Vittorio se suo nonno non ce l’aveva fatta, ma i sentimenti
gli avevano tanto offuscato il senno e non riusciva a comportarsi in maniera
razionale e obiettiva.
- Io spero che tu non ti debba
ritrovare in questa situazione, ma se proprio dovesse capitare, mi auguro che
ci sia uno più bravo. –
La risposta che il medico gli
aveva appena dato spiazzò Luca che abbassò lo sguardo, fissando i lacci
colorati che aveva abbinato alle scarpe di tela nere. Il ragazzo arricciò il
labbro e, qualche attimo dopo, si rimise in piedi e, per quanto possibile vista
la differenza d’altezza, sollevò lo sguardo verso l’altro.
- Senti, mi dispiace. Non volevo
risponderti così. –
- Non preoccuparti. È un periodo
difficile per te. So com’è perdere qualcuno di prezioso. –
Luca sorrise debolmente e annuì;
in un secondo momento si voltò verso la madre che, da lontano, lo chiamava a
voce alta per dirgli che dovevano andare.
- Io vado allora… Grazie per
essere venuto, - farfugliò rapidamente, quasi avesse voglia di scappare.
Vittorio non ebbe neanche il tempo
di rispondere a quei saluti, o ad offrirgli il proprio supporto morale che il
ragazzo era già scomparso. Non seppe spiegarsene il motivo ma si era convinto
che i loro destini dovevano essere collegati. Non si era mai sentito così.
•••
Vittorio era seduto nella stanza
degli specializzandi; stanza poi, era uno sgabuzzino con una brandina d’emergenza,
un paio d’armadietti e una scrivania. Il ragazzo era seduto proprio sopra quest’ultima
mentre mangiava un sandwich rinsecchito farcito con della maionese e una
fettina di prosciutto, ossia tutto quello che gli era rimasto in frigo, il che
gli aveva ricordato che avrebbe dovuto fare la spesa. Vittorio guardava fuori
da quella finestra sporca mentre diede un morso al panino quando si accorse che
il cielo si era imbrunito e l’aria raffreddata. Era da
qualche giorno che si sentiva così, con il freddo dentro, come cullato da una
strana apatia. Forse era vero, pensò, quello che diceva Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi / le
foglie”.
Nonostante la sicurezza di un
lavoro fisso e ben retribuito, un monolocale arredato e la cena sempre servita,
Vittorio non riusciva a trovare pace. C’era qualcosa che non andava, si sentiva
svuotato da quell’ingenuità che l’aveva sempre caratterizzato, era diventato
diffidente e malpensante. Questo l’aveva portato a chiudersi in sé stesso e
diventare schivo con gli altri, riducendo le sue interazioni sociali solo ai
fini lavorativi almeno fino a quando Luca non gli era svenuto davanti. Quando l’aveva
visto perdere i sensi aveva avvertito il bisogno di stargli accanto; Luca aveva
risvegliato il lato di sé che aveva sempre apprezzato: quello umano. Quello
dove i pazienti “non sono solo carne da macello” ma nonni amorevoli, sorelle
simpatiche, cugini collaborativi.
La pioggia cadeva sempre più
forte, le gocce erano talmente grosse che sembravano sassolini lanciati contro
quei vetri tanto spessi e appannati. In quel momento avrebbe voluto avvolgersi
in un morbido plaid davanti ad un camino, mangiare un cornetto caldo e bere
cioccolata calda quando il proprio cercapersone iniziò a squillare.
Vittorio si ficcò il resto del
pranzo in bocca e deglutì neanche fosse una compressa quando lesse sul display
del dispositivo “emergenza in pronto soccorso” e, di conseguenza, iniziò a
correre fino a raggiungere il piano terra dell’ospedale, saltando qualche
gradino di tanto in tanto.
- Dottor Salvemini, mi scusi per
aver badgato lei, ma gli altri erano in pausa e… -
- Non si preoccupi Leonida, mi
dica pure! –
- C’è un ragazzino di diciott’anni,
dolore intercostale forte, casi cardiopatici in famiglia, è arrivato qui con un
codice giallo! -
- ECG? –
- Irregolare, è così giovane… -
- Dobbiamo muoverci! – Vittorio si
catapultò letteralmente di sotto, trovando il ragazzo indicato dall’infermiera.
Alzò gli occhi verso di lui quando, con rammarico, scoprì che si trattava
proprio di Luca Caruso.
•••
Note a margine
Eccomi, con il mio ritardo fisiologico, con il secondo capitolo di questa
storia.
Che ne pensate? Io personalmente credo che, impegnandomi, forse potrebbe
uscire qualcosa di decente.
Per il resto attendo, come al solito, i vostri pareri! ♥
Il ragazzo sembrava essere in
piena crisi respiratoria e ciò gli provocava una tosse strana; quasi come se
avesse fame d’aria e al contempo avesse assunto troppo ossigeno. Vittorio lo
visitò in silenzio, ascoltando quello che la mamma aveva da dirgli in
riferimento alle condizioni del figlio.
- È tornato da scuola, ha mangiato
poco… Non lo so, aveva detto di aver mangiato delle castagne d’asporto, ma boh…
Non riusciva a respirare e gli si è gonfiato il collo, ma non è allergico… -
- Stia tranquilla, signora Caruso,
ora facciamo un po’ di controlli e risolveremo! – la rassicurò il medico, -
Vedrà, sarà una cosa da nulla. –
La signora sembrava essere già più
calma e gli annuì mestamente.
La medicina d’urgenza non era
proprio la specialità di Vittorio che, da buon tirocinante di cardiochirurgia,
si limitava a quella che era la propria branca di medicina; tuttavia, un buon medico
non può non soccorrere una persona in difficoltà e, del resto, aveva anche un
giuramento a cui far fede e per fortuna aveva una buona infarinatura di
medicina di base. Leonilda era corsa a chiamare il medico di turno, impegnato
con un’altra situazione d’emergenza, e nel frattempo Vittorio si era dedicato a
dei controlli basici.
- Ora controlliamo la saturazione,
- spiegò Vittorio. Luca sembrava essere in preda ad un attacco di panico e lo
guardava in assoluto silenzio con occhi sgranati dalla paura. – Stai tranquillo!
–
- Ha, ehm, paura dei medici… -
spiegò la madre, sorridendo timidamente, quasi impacciata.
- Hai paura dei medici? – chiese il
dottore. Luca rispose con uno sguardo quasi omicida che fece ridere l’altro. I
ricci ribelli di Vittorio si mossero a ritmo della sua testa e proseguì, - Ma
noi siamo buoni, siamo qui per curare le persone, per farle soffrire di meno. –
- Mi… Fanno… Paura… I… Camici…
Bianchi… -
Il ragazzo parlava con voce
flebile e Vittorio gli fece infilare il dito nel saturimetro, una piccola
scatoletta elettronica che somigliava ad una molletta tonda e grassoccia. A
quelle parole Vittorio si tolse il camice e lo lanciò ai piedi della barella,
stringendosi nelle spalle, - Beh, il bianco ingrassa. –
La signora ridacchiò cercando di
non farsi beccare; Luca, invece, rimase sorpreso: era in un ospedale e, al di
fuori Vittorio, c’erano molti altri medici che indossavano un camice bianco. Il
ragazzo, però, rifletté sul fatto che quello fosse un gesto molto premuroso da
parte sua: non l’aveva deriso né preso in giro ma si era limitato a togliersi
quel camice per farlo sentire a proprio agio.
- Grazie… -
Vittorio sorrise amabilmente per
poi dare uno sguardo al saturimetro: 80 %. C’era qualcosa che non andava. Da
che era gentile e delicato nei modi, Vittorio sembrò allarmato e, in assoluto
silenzio, lo fece girare di spalle e gli sollevò la maglietta, auscultando in
corrispondenza del cuore: il suono era aspro. Il giovane medico deglutì e fece
dei movimenti scattosi nel prendergli i polsi: il battito sembrava essere
flebile ma sincronizzato, allora si concentrò sul colore della sua pelle. I
polpastrelli sembravano essere lievemente arrossiti, quindi afferrò il primo sfigmomanometro
utile e misurò i livelli di pressione sanguigna, anch’essi alterati.
- Tutto bene dottore…? – chiese la
signora, mentre il figlio sembrava agonizzare sempre di più.
- Un attimo solo signora Caruso…
Resti qui, non si muova. Resti qui. – il dottore sollevò le mani come a dirle
di rimanere calma prima di iniziare letteralmente a correre nervosamente per i
corridoi.
- PROFESSOR VELANTA, PROFESSOR
VELANTA! – urlò, bussando alla porta dell’ufficio del suo docente. –
PROFESSORE!! –
- Un attimo, arrivo… Vitto’, che c’è,
che urli? –
- C’è un ragazzino al PS… - disse
affannato, poggiando le mani sulle ginocchia. Gli presentò il caso: - Dispnea,
gonfiore giugulare, tosse, saturazione bassa, pressione minima alta, soffio
olosistolico aspro, presenta tachicardia, polsi flebili ma sincroni,
acrocianosi… è la valvola mitrale stenotica congenita, no? L’anamnesi familiare
è preoccupante, abbiamo perso suo nonno qualche tempo fa… -
- Prenota subito una sala! Come si
chiama? –
- Caruso Luca, 18 anni… -
•••
Vittorio aveva sbuffato e, con un
gesto secco, dopo essersi buttato contro il muro del corridoio, si era tolto la
cuffia liberando i ricci. Era stata una giornata lunga per lui e ora doveva
avvisare la famiglia. Odiava avvisare la famiglia.
Si stropicciò gli occhi, si liberò
della copertura chirurgica e, una volta lavatosi le mani, si diresse presso la
sala d’attesa. Già se l’immaginava i signori Caruso: l’avrebbero visto arrivare
e si sarebbero alzati per andargli incontro, si sarebbero stretti le mani e gli
avrebbero chiesto “Allora dottore?”.
Così come aveva fantasticato poco
prima, i due coniugi Caruso si erano alzati e l’avevano raggiunto mano nella
mano.
- Dottore, allora…? –
Vittorio scambiò uno sguardo con i
signori e poi sorrise dolcemente.
- Vostro figlio soffriva di stenosi mitralica.
Non è una cosa molto comune in ragazzi giovani come lui, evidentemente era
qualcosa di ereditario. Sbaglio o suo padre ha sofferto molto di malattie
cardiache? –
- No, non sbaglia dotto’, mio padre ha avuto pure un infarto… Pure mio nonno
soffriva col cuore, - aggiunse il signor Caruso.
- Beh, l’abbiamo preso in tempo e
gli abbiamo dovuto fare una plastica valvolare. –
- E ora come sta? – chiese la
signora.
- È ancora sotto l’anestesia, però
l’intervento è andato bene. Tra poco lo porteranno in camera e potrete vederlo.
–
I genitori si sciolsero in un
sospiro e sorrisero annuendo.
- Grazie dottore, grazie mille. –
Vittorio schiuse le labbra in un
sorriso e, dopo essersi congedato, s’incamminò per i corridoi.
- È un bravo ragazzo, questo
dottore. –
•••
Quando Luca aprì gli occhi non
riuscì a capire che ore fossero. Si sentiva confuso, dolorante e qualcosa in
petto gli bruciava e gli arrecava fastidi. Aveva anche uno strano formicolio
agli arti, ma forse quello era stesso causato dall’anestesia che stava perdendo
il suo effetto. Faceva un po’ freddo in quel posto, però almeno era silenzioso.
Nella stanza sembrava esserci solo un altro signore, oltre lui e suo padre che
si era addormentato sulla sedia accanto al letto. Luca incurvò le labbra in un
sorriso e si limitò a fissare la soluzione fisiologica scendere dal lavaggio,
quando avvertì l’eco di alcune voci provenire dal corridoio adiacente alla
stanza.
“Salvemini,
che ci fai ancora qui?”
“Uh? Ah,
professore! Sto andando via, ma prima volevo dare un’ultima controllata al
ragazzo di oggi…”
“Ma sono le
due di notte, saresti dovuto andar via ore fa.”
“Lo so, ma…”
“Veloce, su.”
La porta della camera si aprì con
un cigolio e Vittorio, in abiti decisamente meno professionali e spaventosi, si
avvicinò al letto di Luca. Controllò che ci fosse sufficiente soluzione fisiologica
e gli misurò nuovamente la saturazione; nonostante l’operazione subita sembrava
stare molto meglio.
-
Ciao, - bisbigliò
Luca.
Vittorio sorrise dolcemente e un
raggio di luce blu filtrata dalla finestra si batté contro il suo viso pallido.
– Ciao!Come stai? –
- Ho sonno. –
-
Dormi, dormi. –
-
Va bene, - rispose il
ragazzo e, dopo un secondo di pausa, aggiunse - Grazie. –
-
Ehm, prego, ma… Per cosa? –
-
Per avermi salvato la vita. –
-
Beh, -Vittorio ridacchiò, infilando il saturimetro in tasca, - In realtà ti ho solo ricucito. Spero di
essere migliorato! –
-
Che cosa carina da dire, - ridacchiò il
ragazzo, per poi assumere un’espressione sofferente: forse quello sforzo non
andava d’accordo con quella ferita fresca.
- Shh, riposa, tranquillo, - il medico lo rassicurò con uno sguardo
gentile e il ragazzo annuì.
- Buonanotte. –
-
Buonanotte. –
Luca osservò l’ombra di Vittorio
svanire dietro quella grossa porta bianca e tirò un sospiro. Aveva paura dei
medici e degli ospedali, non sopportava la vista dei camici bianchi e quella
stanza puzzava di farmaci e pipì.
Il sorriso di Vittorio, però,
valeva tutte le pene che stava soffrendo.
•••
Note a margine
Eccomi qui, nella speranza di essere ora in pari con la challange.
Volevo ringraziare pubblicamente Abby per le parole bellissime che mi
rivolge in ogni recensione. ♥
che più battaglia avrà fatto il primo per non
cedere,
che
il secondo per sopportare.
(Ugo
Foscolo)
04 – Vediamoci
Luca sbuffò verso la finestra
lasciando intaccato quel piatto di brodo che l’infermiera gli aveva portato.
Aveva fame ma voleva del cibo vero, non quella specie di rancio iposodico e
povero in carboidrati.
- Hai saltato un altro pasto, - lo
rimproverò Vittorio, - Cos’è, vuoi rimanere ospite fisso in questo hotel a
cinque stelle? –
- Ci vuole coraggio a definirlo
“Hotel”… -
- Beh, rifletti: posto letto,
pensione completa, sesto piano, vista sul mare, reception e assistenza ventiquattr’ore,
sette giorni su sette… -
Luca rise per quella frase e
scosse leggermente la testa, - Se la metti così… -
- Te l’avevo detto io! Bisogna
sempre guardare tutto dalla giusta prospettiva. –
- Peccato che come hotel sia una
bettola, però. –
- Perché? –
- Perché il cibo fa schifo. –
- Beh, sei qui a titolo gratuito,
che ti aspettavi? – rise Vittorio.
Luca l’osservò ridere: aveva il
viso illuminato dalla luce della finestra. Era così bello che non poté fare
altro che imitarlo, ridendo per quella battuta che, in fin dei conti, non era
male.
•••
- Ciao! – la voce di Luca echeggiò
nel corridoio stranamente calmo. Lui non avrebbe voluto disturbare Vittorio ma
gli aveva promesso che avrebbe provato a rimettersi in piedi e, di conseguenza,
voleva dimostrargli di esserci riuscito. Probabilmente a lui non sarebbe
interessato, dato che stava parlando con dei colleghi, ma Luca, un paziente
come un altro, ci provò ugualmente.
- Hey, ciao! – sorrise Vittorio, -
Vedo che finalmente sei in piedi! –
- Sono solo uscito dalla stanza, -
sbuffò Luca.
- Va beh, io vado, - parlò il
ragazzo accanto a Vittorio, - Se lo semo
'nsaponato e domani se 'o risciacquamo, – concluse, salutando.
- Ce se pija, - rispose l’altro stringendogli la mano, per poi
rivolgersi a Luca, - Come ti senti oggi? –
- Che… Che razza di idioma era
quello? – domandò il ragazzo, battendo le palpebre perplesso.
- Oh no, nessun idioma, è
romanesco. –
- E che significava? –
- Arrivederci, - riassunse
Vittorio, - Ma tu non hai risposto alla mia domanda. –
- Meglio, - rispose Luca, confuso,
e osservò con attenzione l’altro medico mentre si allontanava, - Quindi… non
sei di Napoli? –
- Perché, nun se sente? –
ridacchiò il medico.
- Un po’, - rispose Luca,
sorridendo. Provò a fare un ulteriore passo ma si sentì venir meno nelle gambe;
già vistosi per terra, Luca chiuse gli occhi, sorprendendosi di non aver emesso
alcun rumore sordo per la caduta. Quando li riaprì, si accorse che Vittorio
l’aveva sorretto e aveva così evitato l’impatto col pavimento.
- Forse dovresti tornare in
stanza… Dai, t’accompagno e poi finisco il giro visite. –
•••
Erano passati tre giorni
dall’ultima volta che Luca aveva incrociato Vittorio. In tutti quei giorni che
aveva passato ricoverato in ospedale l’aveva incontrato circa due volte al
giorno e quindi quell’assenza immotivata gli aveva causato una leggera ansia.
Luca, però, era anche un ragazzo molto perspicace: sapeva che Vittorio non era
un suo amico ma soltanto uno dei medici che l’aveva in cura e, probabilmente,
quello che gli aveva salvato la vita. Tuttavia aveva visto in quel medico
qualcosa di più di un semplice camice bianco e nozioni varie. Un nuovo medico
l’aveva visitato e, dopo aver firmato diversi documenti, Luca era stato
dimesso.
- Ma non c’è quel medico tanto
caruccio, come si chiama? Salvemini, possibile? –
- No, - rispose secco il figlio, -
Non passa da qui da giorni. –
- Ma che
peccato, - disse la signora sinceramente dispiaciuta, - Gli avevo preparato un
dolcino. –
- Ma’, fammi
capire, prepari dolci per lui e non per me? E poi che… NO, mi rifiuto, è una figura
di merda. Metti in borsa, - la rimproverò, impegnato nell’atto di chiudere la
zip della felpa.
- Aho, ‘nnamo ‘npò! –
A quello
strano accento Luca allungò l’orecchio e si catapultò letteralmente fuori dalla
stanza. Guardò a destra e a sinistra ma non ci fu traccia di Vittorio. Così,
sconsolato, si recò verso l’uscita dell’ospedale insieme alla madre.
- Dottor
Salvemini! – la signora Caruso sembrò essere raggiante, al contrario del figlio
che assunse un’espressione accigliata.
- Signora
Caruso, Luca, buongiorno! –
- Dottore, io
le avevo portato un pensierino, per ringraziarla… -
- Ma signora
lei… -
- No, stia
zitto! Niente di che, eh, non si aspetti un Rolex. È un dolce che ho fatto io,
una specialità! Non è vero, Luca? –
Il figlio
della signora Caruso storse il naso nell’annuire. Era un po’ innervosito,
giacché aveva appurato un notevole distacco da parte di Vittorio, ma forse era
tutto frutto della propria paranoia.
La signora
costrinse Vittorio a prendere un pezzo di dolce al cioccolato che lo specializzando
assaporò con gusto.
- Vedo che
stai meglio! – farfugliò il medico.
- Sì, mi
hanno dimesso. –
- Lo so, ho
firmato io quelle cartelle, - sancì Vittorio, poggiandogli una mano sulla
spalla.
Luca gli
lanciò un’occhiataccia che voleva intendere “perché non sei più venuto a trovarmi?”.
- Ah, non ci
ho fatto caso. –
- Questa
settimana mi hanno dato ben due turni di notte e quando sono venuto a
controllarti dormivi sempre. Va meglio anche con l’insonnia? –
Ma come
poteva Luca restare arrabbiato con lui?
•••
Vittorio gli
aveva lasciato il suo numero.
A questo
pensava Luca mentre se ne restava steso sul letto in camera sua: Vittorio gli
aveva lasciato il numero di cellulare e gli aveva detto “Chiamami se hai bisogno”. Era stato vago e sicuramente si riferiva
ad una mera questione medica, qualcosa come “chiamami
se si riapre la ferita” piuttosto che “chiamami
se ti fa ancora male il cuore”.
Luca aveva
appena portato a termine l’ennesima lunga giornata, tra la scuola e qualche
attività extra, era ora sul letto e fissava lo schermo del proprio smartphone.
«Vediamoci»
era stato quello l’SMS che Luca aveva inviato. Ma quanto era stato stupido? Una
parola messa lì, a caso, senza dire chi fosse. Che diavolo gli era passato
nella testa?
«E tu
saresti?»
«Luca»
«Adesso?»
«Non lo so,
vediamoci»
Gli SMS di
Luca erano sempre brevi e concisi: non amava perdersi in chiacchiere e, in realtà,
non sapeva cos’altro dirgli: voleva vederlo, ammirare il suo sorriso e sentire
la sua voce. Che altro doveva scrivere?
«Ti vengo a
prendere»
Vittorio
aveva sorriso nel ricevere quei messaggi. Non aveva voluto scrivergli per primo
da una parte perché non conosceva il numero, dall’altra perché era stato pur
sempre il suo medico e non avrebbe voluto farlo sentire sotto pressione per
qualcosa. Per cosa poi? Non lo sapeva. Per diventare amici? Insomma, Vittorio
era sicuramente omosessuale (era stata una rivelazione in tenera età, quando a
Carnevale chiedeva sempre di mascherarsi sempre da Daphne della Scooby gang) ma
non aveva idea di che tipo di interessi potesse avere Luca. Fatto sta che, per
qualche ragione a lui ignota, desiderava poter passare tempo con il ragazzo.
L’evidenza
che fosse così anche per Luca la sancì proprio quel primo messaggio
striminzito.
«L’indirizzo
non ti serve?»
«Seconda
stella a destra e poi diritto fino al mattino?»
•••
- Sai, - Luca
parlava davanti ad una tazza di tè al sapore di Natale. Non aveva idea di perché
avessero optato per un caffè letterario, ma a quell’ora della notte non c’erano
molti locali aperti, ad eccezione delle discoteche che erano state ampiamente
bocciate da entrambi.
Così,
vagabondando su una vecchia Vespa Acquamarina, Luca e Vittorio erano giunti in
un caffè letterario alle due di notte. Avevano parlato del più e del meno come
due grandi amici, anche se in realtà non si conoscevano affatto, e si erano,
infine, soffermati su quel tè al gusto di Natale, - Credo sia la cannella. –
- Secondo me
è lo zenzero. –
- Cannella. –
- Zenzero. –
- No, è
cannella! –
- Ma dai, lo
sanno tutti, il Natale è fatto da biscotti pan di zenzero! –
- In America,
forse, qui è fatto di struffoli e pandoro. –
- Che, in
ogni caso, non contengono cannella. –
- E neanche
lo zenzero. –
- Ma non
potevo prendere un tè nero normale come tutti i cristiani, no, eh? –
- No. Il
Natale è più buono, - rise Luca.
•••
Era giunta l’alba
quando Vittorio aveva accompagnato Luca a casa; la città aveva assunto un
fascino particolare senza tutto quel trambusto che, da lì a poco, avrebbe ripreso
a sconvolgerne l’equilibrio naturale.
Luca era
sceso dalla Vespa e si era tolto il casco rosa che il medico gli aveva
prestato, per poi restituirglielo.
- È stato
divertente. –
- Mai più tè
al Natale. –
- La prossima
volta assaggiamo quello alla birra. –
- La prossima
volta? –
- Sì, vediamoci
ancora. –
- Tè alla
birra sia. Che, probabilmente, secondo il tuo bizzarro senso del gusto, avrà il
sapore di wasabi, ma ok. –
Luca sorrise
a quell’appunto e, prima di rientrare nel portone di casa sua, si tuffò ad
abbracciare Vittorio. Fu una stretta, durata solo pochi secondi, nella quale
avvertì uno strano calore riempirgli il corpo.
In assoluto silenzio
Luca rincasò, riflettendo sul fatto che, in un modo completamente assurdo, suo
nonno doveva avergli fatto un ultimo regalo: Vittorio Salvemini.
•••
Note a margine
E così metto fine anche io a questa storia.
Ricordo a tutti che è stata scritta per la challange “Fall into autmn” indetta dal gruppo “Boys love”. È una storia senza
pretese, scritta di getto, senza betaggio e sicuramente piena di errori di
forma e punteggiatura, ma non importa. Spero che chiunque abbia investito due
minuti di tempo per leggerne i capitoli sia rimasto comunque felice di averlo
fatto.