Il Mondo dell'Amore di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
AVVISO
Signore
e signori,
dall’Enciclopedia
Treccani: una Distopia è una previsione,
descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui,
contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con
tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi,
assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi.
Questa storia parla di una
distopia. Parla quindi di un contesto immaginario, nel quale alcune
tendenze presenti anche ai giorni nostri vengono radicalizzate al
punto da apparire quasi grottesche, nell’ottica di dipingere una
società fortemente disturbante, angosciante e repressiva.
Perché scrivo questa premessa?
Perché per mia sfortuna
sono venuto in contatto
con persone che non riescono a scindere un’opera di pura fantasia
da un’eventuale struttura
di pensiero non in linea
con la
loro, e per questo motivo
interpretano un banale racconto di intrattenimento come un insulto o
un tentativo di mettere in discussione determinati concetti per loro
indiscutibili.
Il mio intento non è quello di
offendere, ovviamente. Se tuttavia qualcuno si sente offeso da questa
storia, sappia che anch’io mi sento offeso da un sacco di cose, ma
rispetto la libertà d’opinione e non vado a insultare nessuno.
Se
dopo questo pippone anti-talebani siete ancora qui, vi ringrazio e vi
auguro buona lettura.
IL
MONDO DELL’AMORE
Capitolo 1
Tanasha lanciò la stampa, quindi
infilò i piedi nudi nelle ciabatte infradito di fibra naturale e
scese dallo sgabello. Lasciandosi dietro un tinnire di cavigliere
etniche, raggiunse lo stanzino della fotocopiatrice e raccolse dal
cassetto dell’apparecchio le veline della giornata. Diede una
scorsa ai fogli, quindi li sistemò picchiettandoli sulla superficie
della scrivania fino a che nel pacco di carte non ci furono più
angoli sporgenti. “Vado da Zelda,” annunciò poi.
Poronda e Raynelle, le sue
colleghe, si limitarono ad annuire. “Torna presto,” bofonchiò la
seconda, sistemandosi una matita tra i dreadlock per tenerseli
indietro, “il testo di Omeopatia
e Femminismo non si
scrive da solo.”
“Tanto deve andare in onda fra
due giorni, ho un sacco di tempo.”
“Ha detto Zelda che se la
costringi di nuovo a improvvisare ti spedisce a lavorare coi maschi.”
Tanasha scosse la testa. “No,
grazie. Non ci tengo a fare le pulizie.”
“Nemmeno se c’è quel bel
figo con i tatuaggi?”
Pur china sul computer, Poronda
fece una risatina e disse: “Quello mi piacerebbe incantonarlo nei
cessi, una volta o l’altra, e poi controllare com’è messo in
mezzo alle gambe.”
Raynelle ridacchiò a sua volta,
quindi rispose: “In realtà secondo me ci spera, se no non andrebbe
in giro con quei pantaloni a vita bassa che fanno vedere il culo.”
Intervenne Tanasha: “E poi se
non ci sta gli rifili una bella accusa di molestie, così impara a
fare il prezioso.”
“È quello che si merita!”
provenne dalla stanza attigua. “Tanto i maschi sono tutti
stupratori, hanno il gene dello stupro.”
Le tre ragazze si voltarono in
quella direzione: era comparsa sulla porta un’attempata e segaligna
signora, con i capelli grigi sciolti sulle spalle, sandali monastici
e un colorato abito di foggia africana. Al collo aveva un monile di
pietre dure che rappresentava i sette Chakra. “Io me li ricordo,
prima che arrivasse il Mondo dell’Amore,” sibilò stringendo gli
occhi. “Tutti porci, tutti violenti. Non pensavano ad altro che a
stuprare, opprimere e prevaricare.” Fece una pausa, quindi in tono
funesto aggiunse: “Se nella Storia ci sono state tante guerre e
tante violenze, la colpa è degli uomini carnivori che hanno sempre
dominato il mondo.”
Sul gruppetto calò un silenzio
consapevole. Infine Raynelle in tono conciliante disse: “Per
fortuna ora sono arrivate le donne e hanno portato l’amore dove
prima regnava l’odio. Non è vero, Lorena?”
“Bisognerebbe castrarli tutti,
quei porci,” ringhiò la donna per tutta risposta, quindi girò
bruscamente le spalle e tornò nel suo ufficio.
Le tre più giovani si
scambiarono un’occhiata e fecero una risatina sommessa. “Lo
sapete perché si fa chiamare Lorena?” disse Raynelle a bassa voce.
“In onore della protagonista di un fatto di cronaca degli anni
‘90.”
“Davvero?” Poronda digitò
rapidamente qualcosa sulla tastiera, quindi girò il monitor verso le
altre due e svelò: “Lorena Bobbitt, quella che ha tagliato il
cazzo al marito.”
“Beh, qualcuno di quelli là se
lo meriterebbe,” commentò Tanasha.
“Ben più di qualcuno,”
rincarò Raynelle. “Hanno solo quello in mente, non capiscono
altro.”
Poronda fece spallucce. “Chi se
ne frega di cos’hanno in mente. Tanto gli uomini sono tutti
stupidi, vanno bene solo per divertirsi ogni tanto, oppure per fare i
lavori pesanti.”
Tanasha le strizzò l’occhio.
“Pensi a quel bel figo delle pulizie?” le chiese con aria
complice.
Non fece in tempo a sentire la
risposta, perché si udì il suono di un carillon e subito dopo
dall’interfono una voce profonda e flautata chiese: “Le mie
veline, Tan?”
“Scusami, Zelda, arrivo
subito!” rispose la ragazza, quindi raccolse il pacco di fogli che
aveva abbandonato sulla scrivania e si apprestò a raggiungere la
responsabile di Canale Mimosa.
Abbandonò la stanza ed entrò
nella versione moderna e vagamente new age di un open space:
scrivanie disposte apparentemente senza un ordine, pouf colorati,
moquette, poster di bambine indie o nere con frasi sulla natura. In
sottofondo, fra il trillare dei telefoni, il crepitare delle tastiere
e le voci delle occupanti, si udivano rarefatti accordi di sitar e
onde oceaniche. Sulla parete di fondo campeggiava una scritta
realizzata a mano con colori naturali, che in un tripudio di racemi
dorati recitava: Canale
Mimosa.
In un angolo, su un tavolino da
computer dismesso, era disposto un assortimento di divinità
femminili, da Astarte a Maman Brigitte, con dei bastoncini d’incenso
che bruciavano qua e là.
Tanasha abbandonò il locale,
percorse un breve corridoio e scostò una tenda batik che fluttuava
dolcemente investita dal getto dell’aria condizionata.
L’ufficio di Zelda era un
sontuoso boudoir con tende di seta, tappeti e cuscini. I monitor
dell’emittente e la scrivania con sopra diversi telefoni erano
stati relegati in un angolo e in quel tripudio di stoffe sgargianti
quasi non si vedevano. Il neon del soffitto era stato sostituito da
un lampadario d’ottone e vetri colorati che dava al locale
l’aspetto di un lussuoso bordello mediorientale. Nell’aria c’era
una fragranza che ricordava il patchouli.
Zelda, alta, imponente, il fisico
di una venere paleolitica e la pelle color cioccolato, era in piedi
al centro della stanza. Un giovanotto pallido e ossuto, dai capelli
tinti di blu, con una svolazzante camicia di seta dello stesso
colore, le volteggiava intorno come avrebbe fatto una falena con una
lampada e intanto consultava un’agenda elettronica. “Alle
quindici abbiamo l’estetista,” fece in tempo a dire, prima che
Zelda lo congedasse con un gesto. Nel movimento, gli strass della sua
manicure luccicarono fugaci.
Poi la donna si rivolse alla
nuova arrivata: “Le veline, cara?” Tese la mano.
Tanasha le porse i fogli. La
donna li prese e cominciò a guardarli in silenzio, uno dopo l’altro,
con calma. Di tanto in tanto sollevava le sopracciglia. Un paio di
volte schiuse addirittura le labbra color carminio come per dire
qualcosa, ma rimase in silenzio.
Infine alzò lo sguardo e chiese:
“Le hai lette?”
La più giovane si sentì morire.
Che fare? Dire di sì o di no? Quale sarebbe stata la risposta
giusta, quella che le avrebbe permesso di continuare a lavorare a
Canale Mimosa?
Notando il suo imbarazzo, Zelda
le rivolse un sorriso. “Coraggio, mia cara,” le disse suadente.
“Non mordo mica.”
Sorrise mettendo in mostra una
dentatura che sembrava decisamente promettere il contrario.
“Beh… qualcuna,” balbettò
Tanasha.
L’altra annuì con l’aria
della madre che sente il figlio confessare che sì, effettivamente,
qualche volta ha fatto qualcosa che non doveva fare. “Ci hai
trovato niente di strano?” le chiese poi.
“Io… ecco...” Di fronte a
quell’imponente donna nera, Tanasha si sentiva come una specie di
vermetto tirato fuori dalla mela: molto bianca e molto vulnerabile.
Si era cambiata il nome scegliendone uno da nera, ma per quante
lampade facesse, sarebbe sempre rimasta una caucasica un po’ più
colorata della media, e i suoi capelli, per quanto acconciati a
treccine, sarebbero rimasti disperatamente biondi. Verde scuro, al
massimo, quando provava a tingerli di nero.
Zelda le rivolse un sorriso e le
chiese: “Da quanto tempo sei qui a Canale Mimosa, cara?”
Tanasha deglutì. “Il venti
saranno tre settimane,” rispose.
“E prima dov’eri?”
“A Canale Rosa.”
Zelda annuì. “Ah, certo.
Consigli di bellezza e arte della seduzione. Rubriche per cuori
solitari.”
Tanasha annuì a sua volta, con
energia, ma prima che potesse aprire bocca, l’altra cominciò: “Ma
vedi, cara, qui al Canale Mimosa non ci occupiamo di queste cose
frivole. Il nostro compito è formare le coscienze, far capire alle
donne qual è il loro vero valore e quali sono i pericoli che si
troveranno ad affrontare là fuori, nel mondo.” Fece un gesto ampio
e circolare con il braccio, quindi soggiunse: “Ecco perché è così
importante scegliere con attenzione le notizie da trasmettere.”
“Io… credevo che la verità
fosse importante,” osò dire la più giovane.
Zelda fece un sorriso sornione.
“La verità, la verità,” ripeté. “La verità non è mai pura
e raramente è semplice. Chi lo disse?”
“Un uomo,” rispose
prontamente Tanasha, e la fissò, certa di aver superato con quella
risposta un pericoloso trabocchetto.
La nera annuì. “Sì, ma gay,”
puntualizzò, “vittima di vessazioni per il suo orientamento
sessuale, quindi molto più vicino alla giusta mentalità femminile
di tanti fallocrati ottusi convinti di poter dominare il mondo con il
loro miserabile pene.”
“Certo, Zelda.”
L’altra annuì di nuovo. Con la
sua voce profonda cominciò: “Un tempo, vedi, chiunque volesse
aprire un’emittente televisiva poteva farlo, e poteva trasmettere
ogni genere di notizia.”
“Anche quelle false?”
intervenne Tanasha, fissandola con occhioni che nonostante tutto
rimanevano più azzurri del cielo estivo.
“No, quelle false no,”
concesse Zelda, “ma tu capisci, mia cara: non tutte sono pronte ad
assorbire qualsiasi notizia. Le notizie vanno filtrate,
vanno
sistemate,
come i vestiti acquistati durante i saldi.”
“Che cosa significa?”
Per tutta riposta, la donna
raccolse il pacco di veline e cominciò a sfogliarlo. Lesse:
“Schizzare di sperma gli abiti di una donna è violenza sessuale.
Questa va bene.” Mise da una parte il foglio. “Guarda con
insistenza una donna sul treno, condannato a dieci giorni di carcere.
Anche questa va bene. Falsa accusa di stupro, donna incastrata dal
diario.” Sollevò la testa e rivolse a Tanasha uno sguardo
inceneritore. “Questa non
va bene,” sibilò.
La ragazza ritirò la testa fra
le spalle. “Ma è successo,” disse con un filo di voce.
“E con questo? Il nostro
compito non è riferire fatti, ma orientare coscienze. E se per farlo
dobbiamo dimenticare
qualche fatterello, beh, sarà per una giusta causa: la causa delle
donne.” Non attese risposta: di nuovo abbassò lo sguardo sui fogli
e a voce alta chiamò: “Raoul!”
Ricomparve il giovanotto dai
capelli blu. “Sì, Zelda?”
La donna stese la mano. “Portami
una penna,” ordinò concisa.
“Certo, Zelda.”
Cominciò a correggere i fogli.
Sottolineò alcuni pezzi, altri li cancellò con un deciso tratto dal
basso a sinistra verso l’alto a destra, ad altri aggiunse note a
margine. Infine restituì il pacco di fogli – ormai decisamente più
sottile – a Tanasha e in tono asciutto disse: “Falli sistemare a
Shakti.”
“A… Shakti?” fece eco la
più giovane.
Zelda si erse in tutta la sua
notevole statura, assumendo l’inquietante autorevolezza di un idolo
tribale. Lentamente disse: “Se sei così interessata alla verità,
mia cara, forse
potremmo trovarti un posto a Canale Margherita.”
Tanasha, master in giornalismo
superato a pieni voti, avvampò: “Cosa? Puericultura e salute della
donna?”
“Certo. Rimedi naturali,
saggezza femminile. Se ti piacciono tanto i fatti, forse quello è il
posto che fa per te.” Fece una pausa di qualche secondo, quindi
riprese: “Se invece, come me, ritieni che i fatti siano strumenti,
da utilizzare per far nascere nelle donne la giusta consapevolezza,
allora forse – e dico forse
– potremo ancora lavorare insieme.”
§
Sul piccolo schermo comparve
l’immagine di un cavallo bianco. L’animale si muoveva incerto
contro uno sfondo notturno sui toni del blu e del grigio, alzava e
abbassava la testa, si frustava i fianchi con la coda, esprimendo
nervosismo e disagio. Un primo piano mostrò gli occhi lucidi e le
froge dilatate.
Poi d’un tratto le nuvole alle
sue spalle si diradarono lentamente e nel tratto di cielo rimasto
libero comparve la luna piena.
A quel punto, al cavallo
spuntarono due sontuose ali di penne candide ed esso spiccò il volo,
rivelando di essere in effetti una
cavalla.
Sull’immagine dell’animale
che si dirigeva verso la luna con maestosi battiti d’ala comparve
una scritta: Il mondo
di Zelda.
“Vediamo che freakshow
ha tirato fuori stavolta,” disse una voce maschile.
“Sta’ zitto,” intervenne
un’altra voce, sempre maschile, “vuoi beccarti una denuncia per
commenti sessisti e lesivi della dignità della donna?”
Non ci fu risposta.
Sullo schermo frattanto era
comparso una specie di salotto orientale con tappeti e cuscini. Varie
persone sedevano su bassi divani disposti a semicerchio intorno a un
tavolino su cui si trovavano tazze artigianali in ceramica raku.
Tutti gli invitati guardavano con
aspettativa nella stessa direzione.
Ci fu uno stracco musicale e poi
fece il suo ingresso l’imponente Zelda, con una crocchia di capelli
che alzava ulteriormente la sua già notevole statura e un abito di
lamé che pareva scelto per mettere in evidenza le sue forme
prorompenti.
“Sembra un tacchino avvolto
nella carta stagnola,” commentò la voce di prima, di nuovo
precipitosamente zittita.
Zelda prese posto su una poltrona
dallo schienale alto, quindi accavallò solennemente le gambe.
Rivolse a tutti i presenti un maestoso cenno di saluto e procedette
alle presentazioni.
Dedicò per prima cosa la sua
attenzione a un uomo molto alto e di corporatura poderosa. Questi
sedeva con le mani in grembo, le spalle ingobbite e l’aria mesta di
un orso da circo.
“Ciao, Teddy,” lo salutò
suadente.
L’uomo assunse l’espressione
del cane che vede il padrone prendere il guinzaglio. “Ciao, Zelda,”
rispose.
“Vuoi parlarci di te, Teddy?”
“Beh, io...”
“Coraggio.”
Teddy prese un gran respiro. “Io
ero un uomo… sbagliato,” buttò lì alla fine. “Sbagliato,
facevo cose brutte.”
Zelda si piegò
impercettibilmente nella sua direzione. Gli rivolse un sorriso
incoraggiante. “Vuoi raccontarcele, caro?”
L’altro annuì come chi ha
appena preso una decisione dolorosa ma necessaria. Strinse le labbra,
poi disse: “Io andavo a caccia, mangiavo carne.” Sofferta pausa.
“Mi piacevano le armi.”
Un mormorio di disappunto
attraversò la sala, l’uomo ritirò la testa fra le spalle e
cominciò a fissarsi le scarpe. “Passavo il tempo con gli amici,”
aggiunse poi senza modificare la propria posizione, “giocavo a
football americano, non mi curavo delle esigenze della mia compagna.”
Alla confessione fece seguito un
silenzio costernato.
“Ed eri felice?” chiese
premurosa Zelda.
Teddy scosse la testa. “Io
credevo di esserlo.
Credevo che la vita fosse quella: stare con gli amici dopo il lavoro,
andare a caccia.” Si interruppe, quindi a voce più bassa
soggiunse: “Mangiare cadaveri.”
La donna annuì grave, con l’aria
di chi nonostante tutto cerca di comprendere. “E poi cos’è
successo?” gli chiese.
L’altro alzò la testa. “Ho
capito,” rispose. “Mi sono reso conto che la mia era un’esistenza
vuota, superficiale. Ho capito che vivevo le armi come un
prolungamento del mio stesso fallo e che stavo esaurendo le mie
energie in cose futili come giocare con gli amici invece di usarle
per cose giuste come dedicarmi alla mia compagna.”
Zelda annuì di nuovo, questa
volta imitata da tutti i presenti. Provennero da fuori campo voci
femminili che dicevano bravo.
“Mi sono reso conto che stavo
sbagliando tutto. Ho distrutto le mie armi e ho smesso di vedere
quelli che avevo sempre ceduto amici.”
“Non erano amici?”
Teddy scosse con decisione la
testa. “No, erano egoisti infantili, che mi allontanavano da chi mi
ama veramente.”
“Sarebbe?”
“La mia compagna.”
“Vuoi dirle qualcosa, Ted?”
L’uomo fissò con intensità la
telecamera, quindi lentamente sillabò: “Non ti ringrazierò mai
abbastanza per avermi spinto a crescere, tesoro. Ora ho imparato a
vivere le emozioni, ora so
piangere.”
Emise un sospiro.
“Ora so quali sono le cose veramente importanti della vita.” Si
terse con discrezione una lacrimuccia.
Scrosciò un applauso, coloro che
sedevano accanto a Teddy si protesero a darli pacche sulle spalle.
Una donna rasata a zero, con un assortimento di anelli tintinnanti a
ogni orecchio e una maglietta con due simboli biologici femminili
intrecciati, si alzò da una delle estremità del semicerchio e gli
strinse la mano. “Sei il primo maschio a cui non ho voglia di
sparare nei coglioni,” gli comunicò.
“Grazie,” rispose lui
modesto.
Ci fu un altro applauso, poi
Zelda si rivolse a una donna che non si sarebbe guardata due volte
per strada: magra, occhialuta, caschetto di capelli ingrigiti,
tailleur color pastello. “Vuoi dirci chi sei, cara?” le suggerì.
“Mi chiamo Igea, pratico
terapie naturali.”
“Sei una dottoressa, Igea?”
La donna assunse un’aria
arcigna. “La cosiddetta medicina tradizionale è il retaggio
anaffettivo e spersonalizzante della Scienza, che altro non è se non
uno dei modi con cui la cultura fallica e maschilista ha sempre
oppresso le donne. Io amo definirmi guaritrice o sciamana.”
Un mormorio meravigliato
attraversò il gruppetto degli ospiti. Zelda si limitò a inarcare le
sopracciglia, poi chiese: “Potresti spiegarci che significa?”
“Io compio un viaggio di cura
assieme alla mia paziente, comprendo gli squilibri della sua energia,
ne individuo le cause attraverso un percorso di consapevolezza che
porta a una crescita reciproca.” Fece una pausa, quindi rivelò:
“Io mi arricchisco interiormente, grazie al rapporto con le mie
pazienti.”
“Come si svolge la terapia?”
chiese Zelda.
La donna scosse la testa. “La
terapia sarebbe una costrizione, una violenza. Io insegno ad
accogliere le malattie come veicoli di crescita spirituale, a
convivere con esse, vivendole come uno degli infiniti modi di essere
nel mondo.”
“E le tue pazienti guariscono?”
“Se questo è il corso della
natura, sì. Ma qual è poi il senso della parola guarigione?
Dobbiamo liberarci dell’esigenza prettamente maschile di modificare
le cose a nostro uso e consumo. La natura è un’entità con cui
bisogna vivere in armonia, accettando le sue leggi immutabili, non
uno strumento per appagare nostre personali esigenze.”
Di nuovo scrosciò un applauso,
tutti si sentirono in dovere di manifestare la propria approvazione.
Poi Zelda si rivolse a una donna dai tratti orientali, alta ed esile,
che indossava panni simili a paramenti religiosi.
“Il bel discorso di Igea mi
porta direttamente a te, mia cara,” disse Zelda. “Vuoi
presentarti al nostro pubblico, per favore?”
L’orientale annuì. “Il mio
nome è Samsara, sono una sacerdotessa.”
La conduttrice annuì grave.
“Sacerdotessa di cosa, Samsara? Vuoi spiegarlo ai nostri ospiti e a
chi ci sta ascoltando da casa?”
L’altra sollevò la testa e con
espressione ispirata rispose: “Io venero il Femminile. La Dea, la
Natura, la Madre, la forza che dà la vita.”
Zelda annuì grave.
“Il Dio delle religioni
monoteiste è malvagio e oppressivo, relega la donna in una
condizione di inferiorità, essenzialmente perché spaventato dal suo
enorme potere.” Il fervore mistico si accese ancora più intenso
nei suoi occhi ed ella soggiunse: “La donna ha in sé tutta la
forza dell’Universo, perché ha la capacità di creare la vita. Se
non fosse stato per il Femminile, dove sarebbe adesso il mondo?”
Nessuno seppe dare una risposta e
la domanda rimase ad aleggiare come un severo monito.
“Passiamo alla nostra prossima
ospite,” disse allora Zelda, quindi si rivolse a una nera di
aspetto atletico, che indossava pantaloni mimetici e una maglietta
con il primo piano di un cucciolo di beagle dagli occhioni languidi.
“Perché non ci dici chi sei e
cosa fai, mia cara?” le propose.
“Sono Noun. Mi definisco una
guerriera dell’amore,” rispose la nera.
“Vuoi spiegarci che cosa
significa?”
“Io colpisco chi non ama. Chi
uccide gli animali, chi li alleva per macellarli.”
“Che cosa significa che li
colpisci,
cara?”
Noun si batté la destra chiusa a
pugno sul palmo della sinistra, producendo uno schiocco. “Gliela
faccio pagare!” proclamò. “Li faccio vivere nel terrore,
esattamente come loro fanno vivere nel terrore poveri animali
innocenti.”
“Giusto!” approvò la donna
rasata a zero con gli anelli alle orecchie, “Bisognerebbe
ammazzarli tutti, quei bastardi!”
“E farli soffrire, anche,”
rincarò la sciamana in tailleur color pastello.
“Io invoco maledizioni su di
loro ogni giorno,” aggiunse pacata la sacerdotessa.
Zelda alzò le mani per calmare
gli animi. “Capisco,” disse suadente, “è molto bello che ci
siano donne come te, Noun, che si impegnano in prima persona per il
benessere dei nostri amici animali.”
L’altra di nuovo strinse il
pugno e ringhiò: “Se vedo qualcuno che mangia carne, mi viene
voglia di spaccargli la faccia!”
Scrosciò un applauso, si udì
anche qualche brava!
da dietro le quinte.
A quel punto, Zelda si girò
verso una giovane donna piuttosto in carne che indossava una tuta da
ginnastica chiara e sedeva con le gambe accostate l’una all’altra.
“È a posto l’asciugamano, cara?” le chiese in tono soave.
Ella annuì.
“Molto bene, vuoi dire qualcosa
ai telespettatori?”
La donna aprì le gambe,
mostrando tra esse una chiazza rossa larga un palmo. “I tamponi
sono uno strumento di oppressione patriarcale con cui le donne sono
costrette ad auto-stuprarsi!” proclamò.
“Dunque sei una free
bleeder,” constatò
Zelda. “Ora vuoi dirci come ti chiami, per favore?”
“Ho scelto di chiamarmi Kiran,
in onore di Kiran Gandhi, che corse la maratona di Londra sanguinando
liberamente. Non
usare protezioni è il modo più bello di vivere la nostra
femminilità e allo stesso tempo di gridarla al mondo. Di dire: ehi,
mondo, noi siamo donne, diamo la vita, viviamo il ciclo mestruale in
armonia con la natura!”
La sciamana approvò con un
sobrio cenno del capo, quindi si scambiò un’occhiata con la
sacerdotessa, che a sua volta annuì.
A
quel punto, senza attendere di essere interpellata da Zelda, la donna
rasata a zero prese la parola: “Io sono Butch,” annunciò, “e
questa qui è Dyke, la mia donna!” Circondò con il braccio
nerboruto le spalle di una ragazza con la faccia tatuata e i capelli
tinti nei colori dell’arcobaleno, se la tirò addosso e le diede un
bacio in bocca con tanto di lingua, poi fece girare un’occhiata
tutt’intorno, come sfidando gli astanti a dirle qualcosa.
Nessuno parlò nel gruppetto
degli invitati, anche se qualche voce fuori campo espresse la propria
approvazione.
Imperturbabile, Zelda disse: “Fa
piacere vedere una coppia così unita. Del resto, non vedo il motivo
di reprimere i propri sentimenti, quando sono così naturali e
forti.”
“Ehi,
nessuno può reprimerci, ok?” ringhiò Butch fissandola in
cagnesco, “Noi siamo libere!”
Zelda fece un gesto a mezz’aria
come per scacciare un immaginario insetto, quindi rispose: “Ma
certo che siete libere. Non siamo più nel patriarcato fallocrate e
repressivo, ora c’è amore per tutti.” Poi, dopo una pausa: “Però
ora raccontaci perché siete venute a trovarci, Butch.”
“Due
pezzi di merda stavano allevando dei figli nella maniera sbagliata,
gli riempivano la testa di stronzate. Ma per fortuna siamo arrivate
io e Dyke e abbiamo risolto la cosa.”
“Che
cosa intendi per famiglia sbagliata?”
La
donna assunse un’espressione schifata e rispose: “Un maschio e
una femmina. Insieme.”
Zelda annuì grave.
“Un
maschio e una femmina,” ripeté Butch, più che mai scandalizzata.
“Sicuramente li avrebbero cresciuti nell’odio e nell’omofobia,
gli avrebbero fatto credere che una famiglia, per essere giusta, deve
avere un padre e una madre.” Lanciò sugli astanti uno sguardo che
di nuovo aveva il bagliore della sfida. La sua compagna la fissò con
aria devota.
“Cos’avete
fatto?” chiese Zelda.
“Ci
siamo rivolte all’ufficio per la tutela delle minoranze,
ovviamente. Abbiamo spiegato quello che stava succedendo, ovvero che
c’erano dei bambini in pericolo.” Fece una pausa, poi proseguì:
“Ora crescono a casa nostra. Hanno fatto un po’ di storie,
all’inizio. Insistevano che volevano i genitori.
Si vede che quelli là gli avevano fatto un bel lavaggio del
cervello.”
“E
adesso?”
“Hanno
smesso di frignare. Abbiamo dovuto anche depurarli, perché quei
criminali gli facevano mangiare la carne.”
Un mormorio di disgusto
attraversò l’uditorio.
“Ma
adesso solo frutta. E soprattutto un ambiente giusto, dove imparano
il rispetto e la tolleranza.”
Scrosciò spontaneo un applauso
veemente.
“Quegli
stronzi omofobi non rovineranno più nessuno!” disse Butch, ma il
proclama si perse nei fervidi battimani.
Dopo un po’, Zelda prese di
nuovo la parola: “Abbiamo ora l’ultimo ospite della giornata.”
Indicò un ometto smilzo e pelato, che indossava una specie di abito
da thai-chi e sedeva compunto sull’orlo del divano. “Vuoi
raccontarci la tua storia, caro?” gli propose.
“Mi
chiamo Cory e sono qui perché ho fatto una scelta di vita.”
Zelda annuì come chi vede
svolgersi le cose esattamente secondo le previsioni. “Quale scelta,
Cory?”
“Ho
voluto chiedere scusa per tutte le violenze che il mio genere ha per
secoli inflitto alle donne. Certo questo non ripaga tutto il male
fatto nel corso della Storia, diciamo che più che altro è un gesto
simbolico, che però ha per me un grande significato.”
“Vuoi
raccontare di quale gesto si tratta?”
“Mi
sono fatto asportare chirurgicamente il pene.”
L’uditorio
rimase raggelato, Teddy sobbalzò come se l’avesse punto una vespa,
Butch disse qualcosa che dovette essere coperto da un lungo Biiip.
Cory fissò gli astanti con la
serenità di un bonzo in procinto di darsi fuoco, quindi con un tono
di remota pacatezza cominciò a raccontare: “All’inizio avevo un
po’ paura, naturalmente, ma quando sono arrivato davanti alla sala
operatoria ho sentito dentro una grande pace. Ho capito che stavo
facendo la cosa giusta.” Emise un sospiro, quindi proseguì: “La
penetrazione è stupro, l’uomo si appropria del corpo della donna,
lo possiede. E questo… io sento che questo è sbagliato. Ho capito
che dovevo fare qualcosa, che se non l’avessi fatto non sarei più
riuscito a guardare la mia compagna, e con lei ogni altra donna,
senza provare vergogna.” Fece un’altra pausa, inspirò ad occhi
chiusi ed espirò lentamente. “Noi dobbiamo chiedere scusa alle
donne,” disse poi. Fissò direttamente la telecamera e proclamò:
“Scusate, donne. Io chiedo scusa a tutto il genere femminile, mi
vergogno di essere un uomo.”
“E
ora, pubblicità,” annunciò Zelda.
“Merda,
si é tagliato l’uccello!” L’uomo si girò verso il bancone e a
voce più bassa soggiunse: “Zac! Via il cazzo… Dammi qualcosa di
forte, Tony.”
“Lo
sai che hai esaurito la tua quota di superalcolici mensile.”
“Correrò
il rischio.”
Il barista fece spallucce: “Hai
tutta questa voglia di fare un mese di lavori socialmente utili in un
reparto di ammalati di cirrosi?”
“Senti,
fanculo, stiamo parlando di uno che si è appena fatto tagliare via
il cazzo. Ho bisogno di berci sopra.”
“Anch’io,”
intervenne un altro dal fondo della sala. Poi, rivolto a quello più
vicino al televisore: “Cambia canale, ‘sta troia mi ha già rotto
le palle.”
Quello sogghignò. “Che cosa
vuoi, consigli di bellezza o stronzate sulla medicina alternativa?”
“Spegni.”
Il televisore tacque.
Gli astanti, tutti uomini, si
scambiarono delle occhiate in tralice e per un po’ nessuno disse
nulla. Alla fine il barista allineò sul bancone un certo numero di
bicchierini, tirò fuori da un armadietto una bottiglia con scritto
sopra ‘Succo di mela con zenzero’ e versò un po’ della
bevanda, trasparente e di colore ambrato, in ogni recipiente. Si levò
il tipico odore del bourbon.
“Fanculo
la quota di superalcolico,” brontolò. “Questo lo offre la casa,
non state a tirare fuori le schede della Salute Armoniosa di ‘sto
cazzo.”
Uno
degli avventori, alto, corpulento, con una gran barba e un vecchio
cappello da baseball, sfilò di tasca una tessera con un microchip
decorata con un mandala sui toni del viola e dell’azzurro, la
scrutò aggrottando le sopracciglia e brontolò: “Sai dove glielo
ficcherei, questo pezzo di plastica fetente? Mangi una bistecca? Te
la registrano qui. Ti bevi un goccio? Anche quello va a finire qui.
Ti fumi una paglia? Qui. Fai qualsiasi cosa che non sia mangiare
fottuta erba o grano buono solo per i piccioni? Tutto qui. E quando
hai esaurito lo spazio, ti becchi uno dei loro merdosi corsi di
Consapevolezza e
Responsabilità.
Ma che si fottessero, brutte troie.”
“Beh,
questo è extra,” disse il barista in tono conciliante, “non
finisce sulla scheda.”
Tutti si avvicinarono. Dal fondo
della sala si fece avanti un ragazzo e sogguardando titubante i
bicchierini chiese: “Anch’io?”
“Di
sicuro non ti farà peggio della quinoa.”
Quando furono tutti riuniti, uno
tirò fuori dalla tasca anteriore della salopette da lavoro un DVD e
disse: “Un anno di Champion’s League. Interessa a qualcuno?”
Fece ruotare il disco sotto la luce.
“Quanto
chiedi?” s’informò l’uomo con la barba.
“Dieci
arcobaleni.”
L’altro sollevò le
sopracciglia, il primo si sentì in dovere di precisare: “Un anno
intero, con anche le interviste agli allenatori.”
“Andata.”
Tirò fuori dal portafoglio delle banconote dalle sfumature
multicolori e gliele porse.
“Non
farti beccare con quello,” lo consigliò il barista, “altrimenti
è un corso di Rifiuto
della Competizione e della Mascolinità Tossica
assicurato.”
Il DVD sparì nel profondo di una
tasca. Il ragazzo, che stava cautamente sorbendo il bourbon, a quel
punto si rivolse a un uomo smilzo, con i capelli bianchi e il volto
rugoso, e gli chiese: “Mike, ma è vero quello che hai raccontato
l’altra sera?”
“Cosa,
ragazzo?”
“Che
quando eri giovane si potevano guardare le partite in TV.”
L’uomo assunse un’espressione
sognante. “Certo, potevi guardare tutte quelle che volevi.”
Il più giovane lo fissò
meravigliato “Davvero?”
“Si
potevano guardare anche i film di guerra,” intervenne l’uomo
corpulento con la barba.
“Di
guerra? Con la violenza?”
“Sicuro.”
“E
se ti beccavano non ti facevano fare i corsi di Rispetto
e Tolleranza?”
“No,
c’era la libertà, a quei tempi. I maschi potevano fare quello che
volevano, anche studiare.”
“Non
ci credo. I maschi non possono studiare, non hanno abbastanza neu…
neutroni…?”
Intervenne un uomo molto alto,
con i capelli biondi e una casacca macchiata di grasso che si tendeva
sulle spalle ampie. “È quello che ti hanno sempre fatto credere,”
gli disse con un sospiro, “ma la verità è che gli uomini sono
intelligenti esattamente come le donne. Anzi, nel passato, quando
ancora potevano studiare, ci sono stati grandi scienziati uomini.”
Il ragazzo lo fissò con
espressione incredula.
“Rick
ha ragione,”
confermò l’uomo coi capelli bianchi.
A
quel punto, il tono della discussione si abbassò. Tutti assunsero
un’aria da cospiratori, qualcuno lanciò fugaci occhiate alla
porta, per vedere se in strada stava passando qualche Gruppo
di Consapevolezza,
quelli che di solito erano composti da almeno una decina di
esagitate, tutte smaniose di scaricare i loro taser nelle palle dei
fallocrati
violenti,
ma il marciapiede era deserto.
“Sembra
che non sia così dappertutto,” buttò lì con noncuranza l’uomo
con la barba.
“Sarebbe
a dire?” chiese il biondo.
“Ci
sono posti dove i maschi sono liberi.”
Un
mormorio di meraviglia attraversò il gruppo, il barista diede una
seconda occhiata alla strada. “Piano con questi discorsi, ragazzi,”
ammonì serio. “Non ci tengo a finire in una Comune
per l’Armonia e la Consapevolezza di Genere.”
“Posti
di merda,” brontolò un uomo di colore con gli abiti sporchi di
vernice e un metro che gli spuntava da una tasca.
“Ma
tu sei nero, Bob,” gli fece notare Mike. “Per un sacco di cose
non ti rompono le palle.”
“Ah,
non pensare che me la passi tanto meglio di voi bianchi,” replicò
questi. “Sono pur sempre maschio, ho lo strumento
di repressione fallocratica
in mezzo alle gambe.”
“E
ringraziamo che non ce l’hanno ancora tagliato,” brontolò l’uomo
con la barba.
“Dopo
la trasmissione di stasera potrebbe anche succedere,” ringhiò un
altro, vestito con una tuta verde da giardiniere, “Per
il nostro bene,
ovviamente.”
“Per
il nostro bene,” ripeté il biondo con un ghigno. Si guardò
intorno. “Che fine ha fatto Dave?” chiese poi. “Mi doveva due
arcobaleni per la bevuta di ieri sera.”
Gli altri si scambiarono
un’occhiata. Infine Bob disse cauto: “Non sai niente, Rick?”
“Cosa?”
“Accusato
di molestie. È finito alla Sezione
Disassuefazione dall’Aggressività Fallica.”
“Merda,
la peggiore,” commentò il biondo. “Cos’ha fatto?”
“A
una tizia era caduto qualcosa e lui si è chinato a raccoglierlo.
Hanno detto che l’ha umiliata in modo maschilista facendole pesare
la sua momentanea situazione di inferiorità, inoltre hanno stabilito
che da quella posizione avrebbe
potuto
guardarle sotto la gonna.”
“Ma
l’ha fatto?”
Chi stava narrando l’episodio
alzò le spalle. “Non importa. Potenzialmente avrebbe potuto farlo.
Sai bene che questo è più che sufficiente.”
Calò un silenzio cupo.
“Un
altro giro?” propose il barista. “Beviamoci su. Alla faccia della
loro Salute
Armoniosa
del cazzo.”
§
“È
pronto il bambino, Richard?”
L’uomo cercò senza successo di
afferrare un frugoletto con una gran zazzera di capelli biondi che
correva per le stanze come un indemoniato. “Un attimo, tesoro.”
“Se
fai presto ti do uno strappo con la macchina.”
Rick fissò critico la donna e
replicò: “Non vorrei che avessi delle noie.”
“Perché?
Siamo marito e moglie, potrò ben accompagnarti al lavoro in
macchina, no?” Poi, a voce più alta: “Leo, tesoro, vieni dalla
mamma!”
Il bimbo arrivò di corsa,
dribblò all’ultimo momento il tentativo della donna di afferrarlo
e si buttò ad abbracciare le ginocchia del padre. “Quando potrò
venire in officina con te?” gli chiese.
L’uomo si piegò ad
accarezzargli i capelli. “Quando sarai grande,” gli disse. “Ora
devi andare a scuola.”
“Non
ci voglio andare a scuola, le bambine mi fanno i dispetti.”
Richard scambiò un’occhiata
con la moglie, poi gli disse: “E tu dillo alle maestre.”
“Le
maestre dicono sempre che le bambine hanno ragione, anche quando non
è vero. Billy l’altro giorno è stato punito, ma era stata Kisha a
picchiarlo, lui non aveva fatto proprio niente.”
“Ne
sei sicuro?”
Il piccolo assunse un’espressione
di serietà grave. “Sì.”
“E
tu sta con i bambini, allora.”
“Le
bambine vengono a cercarci per farci i dispetti, tanto lo sanno che
le maestre danno sempre ragione a loro. Ieri Aalissah e Shakila hanno
rubato la merenda a Jimmy e le maestre non le hanno sgridate neanche
un po’.” Fece il broncio.
“Tu
non farti rubare la merenda,” suggerì Rick. “E se te la rubano
dimmelo, che vengo io a parlare con le tue maestre.”
“Richard,”
intervenne la moglie.
“Potrò
andare a parlare civilmente, no?”
La
donna scosse la testa. “Rischi di beccarti un’accusa di molestie
e di finire alla Disassuefazione.
Se Leo ha problemi ci parlo io con le maestre.”
“Sì,
poi magari trovi la lesbica che accusa te
di molestie.”
“Non
dire queste cose davanti al bambino,” lo ammonì la moglie,
guardandosi fugacemente intorno come per paura che ci fosse qualcuno
a origliare, “Se a scuola le ripete potremmo avere problemi.”
“Oh,
già.” Richard emise un sospiro. “Assistenti sociali in casa,
test di disfunzionalità del nucleo familiare e cazzate del genere.”
“Già
con quella faccenda della bandiera potremmo avere noie.”
L’uomo
si voltò verso la porta semiaperta della camera. Si intravedeva
appeso al muro un drappo a losanghe bianche e azzurre con al centro
uno stemma inquartato sostenuto da due leoni rampanti d’oro. “Era
di mio nonno, Schatzi.”
“Lo
so, ma adesso i riferimenti ai nazionalismi sono vietati, lo sai.”
Fece una pausa, poi cautamente soggiunse: “Sarebbe meglio che
andasse a finire in cantina, Rick.”
“Sai
che un tizio mi ha chiesto se la vendo? Mi darebbe un sacco di
soldi.”
La donna lo fissò con interesse.
“Quanto?”
“Da
comprarci una macchina nuova.”
“E
tu?”
“Ho
rifiutato. È l’unico ricordo che ho di mio padre.”
I due si scambiarono un’occhiata,
poi la donna sorrise e gli disse: “Ok, in fondo una macchina nuova
non ci serve al momento. Però promettimi che la metterai via.”
L’altro emise un sospiro. “E
va bene. Quando torno dal lavoro la tolgo.”
“Grazie,
tesoro.”
La donna raccolse la borsa e le
chiavi della macchina e disse: “Ora andiamo, se no farai tardi.
Ricordati che siamo già sotto controllo, quindi è meglio non
attirare troppo l’attenzione. Nel caso, andrò io a parlare con le
maestre.”
§
Mo’Nique,
giovane maestra della scuola elementare, percorse i banchi disposti a
ferro di cavallo e depose davanti a ogni persona
in accrescimento
un foglio bianco. Successivamente prese scatole di pennarelli, matite
e tempere di tutti i colori e le collocò a intervalli regolari lungo
la fila di banchi, in modo che fossero facilmente raggiungibili da
chiunque.
“Oggi
mi farete il ritratto della vostra famiglia,” disse poi. “Genitore
1 e Genitore 2, e tutti gli altri Genitori che avete, assieme alle
vostre sorelline e ai vostri fratellini. Usate tutti i colori che ci
sono, mi raccomando. Voglio vedere dei bellissimi arcobaleni.”
“Sìì!”
risposero i bambini in coro.
“Perché
è bello l’arcobaleno?”
I piccoli si scambiarono occhiate
dubbiose. L’arcobaleno era bello, punto e basta. Chi si era mai
posto il problema del perché?
Alzò una mano Jimmy.
“Sì,
caro?” chiese Mo’Nique.
“Perché
ha molti colori?”
La maestra annuì, ma poco
convinta. A tutti fu chiaro che si sarebbe aspettata qualcosa di più.
Alzò la mano Kisha, che rivolse dapprima uno sguardo di superiorità
al resto della classe, poi disse: “Perché è il simbolo
dell’amore.”
“Molto
bene,” approvò Mo’Nique. “È il simbolo dell’amore, delle
diversità che si uniscono a creare un tutto unico.” Fece una
pausa, poi disse: “E ora, recitiamo insieme il significato di ogni
colore. Rosso?”
“Vita!”
“Arancione?”
“Salute!”
“Giallo?”
Ci fu un momento di silenzio, i
bambini si fissarono l’un l’altro dubbiosi.
“Coraggio,
è facile,” li incoraggiò Mo’Nique. “Giallo?” Indicò un
disegno con un sole che splendeva.
“Luce
del sole!” esclamò Shakila.
“Certo,
luce del sole,” confermò la maestra. “Verde?”
“Natura!”
“Molto
bene. Blu?”
“Serenità.”
“Viola?”
“Spirito!”
“Bravissime!
E ora voglio vedere dei bellissimi disegni, forza!”
I bambini protesero
immediatamente le mani verso i recipienti con i colori, cercando di
afferrarne quanti più potevano. Con un movimento che ricordava
quello di un croupier, Aalissah e Shakila raccolsero tutti i colori
che si trovavano alla loro portata e li ammucchiarono su uno dei
banchi, dopodiché fecero girare tutt’intorno uno sguardo in
cagnesco, come per sfidare gli altri bambini a reclamare la loro
parte di pastelli e matite.
Nessuno si fece avanti,
ovviamente.
Leo, che aveva seguito in
silenzio tutto il mantra della bandiera arcobaleno, rimase a fissare
per un po’ le bambine che si disputavano i colori, poi prese una
matita, un tubetto di tempera bianca e uno di azzurro cielo e con
quelli si allontanò dal gruppo principale. Si scelse un banco
isolato e stese accuratamente il foglio, disponendovi sopra quel che
aveva recuperato. Andò poi a prendere un paio di pennelli e un
vasetto con un po’ d’acqua, quindi cominciò a tracciare figure.
Mo’Nique, che da un po’
teneva d’occhio il solitario bambino, gli si avvicinò con il più
accattivante dei suoi sorrisi. “Perché non stai con il resto della
classe, tesoro?” volle sapere.
Il piccolo levò su di lei gli
occhi celesti. Assunse un’espressione imbronciata e rispose: “Se
sto con gli altri, le bambine mi portano via i colori, e tu le
difendi anche se è colpa loro.”
“Ma
questo non è assolutamente vero,” protestò la maestra.
“Invece
sì,” rispose il bambino, con la franchezza priva di filtri
dell’età infantile. “Ieri Aalissah
e Shakila
hanno portato via la merenda a Jimmy e tu non hai fatto niente.
Quando è stato Boris a portare via la merenda a Latifa, tu l’hai
mandato a fare i lavori socialmente utili. Gli hai fatto pulire la
cacca dei conigli per una settimana.”
“Boris
è stato molto cattivo, Leo. Ha tirato i capelli a Latifa.”
“Anche
Aalissah ha tirato i capelli a Jimmy.”
“Questo
non è affatto vero!”
Il bambino la fissò torvo.
“Invece sì,” ripeté imperterrito. “L’ho vista io.”
“Allora
evidentemente Jimmy se lo meritava,” tagliò corto Mo’Nique, “e
ora fammi vedere il tuo disegno, forza.”
Il bambino spinse il foglio verso
di lei. La donna lo prese e per un po’ rimase a studiarlo
perplessa, aggrottando di tanto in tanto le sopracciglia. Ogni tanto
abbassava il pezzo di carta e fissava il piccolo, che le rimandava
uno sguardo di perfetta tranquillità.
Alla fine la maestra chiese: “E
questo cosa sarebbe?”
“Io,
papà e mamma,” rispose Leo.
“Sei
sicuro?”
Il bambino annuì. “Certo.”
Sul foglio, tracciate con incerta mano infantile, c’erano tre
figure: da una parte c'era una maschile molto alta e dall'altra una
figura femminile, riconoscibile dai capelli lunghi e dalla gonna,
decisamente più piccola. Al centro c’era una terza figura, più
piccola delle altre due, che teneva le prime per mano.
“Quello
sono io,” spiegò premurosamente il bambino.
“E
gli altri?”
“Papà
e mamma.”
“Non
si dice più papà e mamma, caro. Si dice Genitore 1 e Genitore 2.”
“No,
sono papà e mamma,” ripeté il bambino.
“E
se, poniamo, qualche bambino avesse due mamme o due papà? Potrebbe
sentirsi offeso dalle tue parole, ci hai pensato?”
“Sono
papà e mamma,” disse Leo imperterrito.
La maestra fece un sospiro, ma
rinunciò a insistere.
Riguardò il disegno: l’uomo
aveva i pantaloni azzurri e la maglia bianca, la donna un abito
marezzato nei due colori, come per un mal riuscito tentativo di
fantasia floreale. Il bambino aveva una maglietta a righe orizzontali
azzurre e bianche.
“Perché
solo questi colori?” chiese la maestra.
“Papà
dice che sono i più belli.”
“Davvero?
Come mai?”
“Perché
sono quelli del posto dove abitava il bisnonno Adolf,” rispose il
bambino in tono compunto, “la Beviera,
che è un posto bellissimo con tante montagne. Papà dice che il
bianco è il colore della neve e l’azzurro quello del cielo.”
La maestra lo fissò come se gli
si fosse girata la testa all’indietro e avesse cominciato a parlare
in aramaico. “Ma caro… non esiste più quel posto,” disse
cauta. “Ora non ci sono più le nazioni e nemmeno le bandiere, c’è
solo quella con l’arcobaleno. Che cosa rappresenta la bandiera con
l’arcobaleno, tesoro?”
“Che
le bambine possono tirarti i capelli finché vogliono e nessuno le
sgrida.”
“Leo!”
“È
così,” replicò il bambino.
“Non
è affatto vero. Non si dicono queste cose.”
“Ieri
Aalissah ha tirato i capelli a Jimmy e nessuno l’ha sgridata.”
Mo’Nique alzò leggermente la
voce: “Ora basta con questa storia, hai capito? Non è successo
niente del genere.”
“Invece
sì,” rispose imperterrito il piccolo, “l’ho vista io.”
“Ti
avverto: se non la smetti subito finisci in punizione. Ora prendi dei
bei pennarelli e colora come si deve questo disegno.”
“A
me piace così.” Il frugolo incrociò le braccia sul petto come a
sottolineare la sua indisponibilità a ottemperare alla richiesta,
poi fissò accigliato la maestra e in tono stizzito proclamò: “La
Beviera
è il posto più bello del mondo.”
Mo’Nique per un po’ rimase a
fissarlo indecisa sul da farsi: sgridarlo con più decisione? Cercare
di prenderlo con le buone? Il bambino rimaneva a braccia conserte e
si manteneva ostinatamente girato di spalle rispetto ai contenitori
di pastelli e matite.
“Leo,
vogliamo fare un altro disegno? Uno più bello?”
“No.”
“Vuoi
disegnare le montagne? Magari con gli animali che corrono sui prati
verdi?”
“No.”
La giovane donna inspirò e
allontanò il sempre più prepotente impulso di stampare cinque dita
sulla paffuta guancia del bimbetto. “Genitore 1 e Genitore 2
vorrebbero più colori, sai? Me l’hanno detto loro.”
“No.
Papà dice che quelli sono i colori più belli. Io voglio quelli lì.”
“E
la mamma?” Mo'Nique abbandonò addirittura la definizione di
Genitore
Numerato
per accattivarsi maggiormente la simpatia del piccolo. “Cosa dice
la mamma, Leo?”
“Anche
la mamma dice che sono belli.”
“E
mettere un po’ di rosso, Leo? Un po’ di giallo?”
“No.”
“Ma
perché?”
“L’ha
detto il papà.”
Fu come se una benda le cadesse
dagli occhi: ecco che di colpo tutto era chiaro. Ovviamente, in
quella famiglia c’era una figura paterna tirannica, che esercitava
la propria autorità fallocratica su una moglie succube e incapace di
opporsi e si poneva come distorto modello educativo per il bambino.
Ecco
perché il piccolo si rifiutava di chiamare correttamente i genitori
Genitore 1 e Genitore 2: era evidente che in quella famiglia c’era
una gerarchia
dei genitori.
A quel punto, Leo le fece
addirittura pena: sarebbe cresciuto con una mentalità patriarcale,
maschilista, che lo avrebbe reso incapace di vivere le proprie
emozioni e di avere una vita affettiva corretta. Senza contare che
lui stesso avrebbe poi esercitato, una volta adulto, la stessa
nefasta influenza su un’eventuale progenie.
Sentì che doveva intervenire al
più presto.
In tono suadente, disse: “Non
avevo visto bene il tuo disegno. Ma lo sai che è proprio bello?
Vorrei farlo vedere anche alle altre maestre.”
Il bambino le rivolse uno sguardo
diffidente, ma Mo’Nique gli sorrise e aggiunse: “Avevi ragione,
bianco e azzurro è più bello.” Si chinò in modo da avere il viso
all’altezza del suo, quindi gli chiese: “Me lo dai, Leo? Poi te
lo restituisco.”
“Quando?”
chiese il bambino, ancora dubbioso.
“Domani.
Il tempo di farlo vedere a LaBrion, Naranna e Jamaree e poi lo puoi
portare alla tua mamma.”
“È
per papà.”
Mo’Nique annuì: anche quella
risposta confermava i suoi timori: quella era una dipendenza
affettiva in piena regola. Una figura paterna tirannica stava
esercitando il suo malvagio potere e solo lei aveva la possibilità
di neutralizzarla.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve gente,
eccomi qui con il secondo
capitolo del mio mappazzone distopico. Ringrazio tantissimo tutti/e
coloro che mi hanno commentato, perché mi hanno dato grandi spunti
di riflessione, oltre a grande soddisfazione per essere riuscito io
stesso a fornire qualche spunto di riflessone ai lettori.
Grazie davvero a tutti, a chi mi
ha commentato ma anche a chi si è solo fermato per leggere o mi ha
messo in qualche lista.
Capitolo 2
In sala insegnanti c'era un
sottofondo di suoni della foresta tropicale e didgeridoo australiano.
Sul tavolino basso c'erano bicchieri da tisana dai quali si levava un
fumo aromatico.
“Questo
l'ho fatto io,” annunciò una donna di colore alta e magra, con una
pettinatura afro ormai ingrigita. “È succo di carote giamaicano.”
Un'altra, lineamenti misti
asiatici e caucasici, sovrappeso di diversi chili, con gli angoli
della bocca all'ingiù e un'espressione di disapprovazione stampata
in viso, in tono arcigno la rampognò: “Non si parla più di realtà
nazionali.”
“E
dai, siamo tra noi,” rispose l'altra. “Era una cosa che faceva
sempre mia madre quando ero piccola e all'epoca non c'era niente di
male a dire giamaicano o inglese o russo.”
“Beh,
adesso abbiamo superato i nazionalismi e gli sciovinismi, per tua
norma e regola, e queste parole equivalgono ad altrettanti insulti.”
Per tutta risposta, la donna si
limitò a spingere verso di lei una tazza. “Tieni, Naranna,” le
disse, “addolcisciti un po'.”
“Appena
una si addolcisce,
mia cara, il patriarcato fallocratico riprende il sopravvento. Non
aspettano altro che di trovarci dolci e arrendevoli, per ricominciare
a opprimerci.”
La prima si limitò ad alzare le
spalle. Soffiò sulla tazza per raffreddarne il contenuto e bevve un
sorso.
Poco
dopo entrò nella stanza una giovane docente con un fascio di fogli
sottobraccio. “Questi sono i compiti della sezione Fiore,”
annunciò. “Le classi Azalea, Garofano e Caprifoglio. Titolo del
tema: che cosa
farei per l'Umanità se fossi di un genere diverso dal mio.”
Fissò le colleghe con l'aria di chiedere la loro approvazione.
“Metti
da parte i compiti dei maschi,” si limitò a suggerirle Naranna,
“tanto quelli sono stupidi, non vale nemmeno la pena si guardarli.”
Fece una pausa in cui la sua smorfia arcigna si accentuò, quindi
soggiunse: “Non so nemmeno perché continuino a farli venire a
scuola, tanto non ci arrivano.”
“Noi
siamo per l'uguaglianza, no?” intervenne la donna di colore.
L'altra le rivolse un'occhiata
velenosa. “Dopo secoli di oppressione, Jamaree? Dopo secoli in cui
i maschi hanno schiacciato le donne, ucciso la loro anima e
violentato il loro corpo? Io dico che non meritano altro.” Si
rivolse alla nuova arrivata: “Dico bene, LaBrion?”
“Ecco...”
cominciò la ragazza, facendo guizzare lo sguardo alternativamente
dall'una all'altra. Stava per rispondere quando in corridoio passò
un addetto alle pulizie.
“Ehi!”
sbraitò Naranna, alzandosi addirittura dalla sedia, “Sono tutte
tue quelle chiappe, bel biondino?”
L'operaio ebbe un sussulto e
ritirò la testa fra le spalle. Continuò a camminare fissando
ostinatamente il pavimento.
“Che
c'è, sei timido?” lo provocò la donna. “Avanti, facci vedere un
po' di pettorali, forza!”
L'altro continuò a camminare
senza sollevare lo sguardo dalle piastrelle, Naranna si affacciò
alla porta e gli gridò dietro: “Fai il prezioso? Non lo sai che io
ti denuncio per molestie e ho anche ragione? Vieni qua e tirati giù
i pantaloni spontaneamente, è meglio per te!” Rise con fare
sguaiato.
“Lascialo
perdere,” disse alle sue spalle la donna di colore.
L'altra le rivolse un'occhiata di
fuoco. “Perché? Loro l'hanno fatto per secoli, adesso scoprono
cosa si prova.” Di nuovo fulminò la più giovane con lo sguardo.
“Non ho ragione?” ringhiò.
La ragazza si aggrappò al fascio
di compiti come se essi avessero avuto il potere di renderla
invisibile. “Devo scrivere i pareri costruttivi,” balbettò.
“Beh,
buon per te,” la rimbeccò Naranna. “Buon per te che esaurisci
tutto con i tuoi pareri costruttivi. Ma non lo sai che in ambito
scientifico c'è ancora qualcuno che si permette di affermare che ci
sono differenze biologiche fra maschi e femmine? Questa è
discriminazione,
cara mia, e tu pensi ai tuoi pareri costruttivi.”
Fece qualche passo nella stanza,
girandosi ogni tanto di qua e di là come un toro infuriato che non
sa bene dove dirigere le proprie cornate, quindi disse: “Lo so che
vi sembro una fanatica, ma io ho visto così tanto sessismo e
maschilismo che so riconoscerlo molto bene quando lo incontro. Lo
sapete dove lavoravo prima di venire qui?”
“No,
dove?” chiese LaBrion.
“Ero
all'Istituto per
l'Abolizione dei Contenuti Nocivi.
Correggevo gli eventi storici e i finali delle opere letterarie.”
LaBrion sbatté gli occhi
stupefatta e chiese: “Vuol dire che modificavi i libri?”
“Certo.”
“E
perché?”
Naranne ghignò. “Tu non hai
idea di quanti contenuti fallocratici, maschilisti, patriarcali e
discriminatori ci sono nei libri precedenti al Mondo dell'Amore.
Tutta roba tossica, che non può essere letta senza traumi. Non c'era
nessun controllo all'epoca: potevano essere pubblicati anche libri
con protagonisti maschi, che addirittura avevano un ruolo di maggiore
importanza rispetto alle figure femminili.”
“Davvero?”
“Certo.
E anche la Storia è basata solo sui maschi. La gente merita di
sapere quanto grande è stato il contributo delle donne nella
Storia.”
“Ma...”
LaBrion sbatté gli occhi di nuovo. “Ma ecco... così non si
rischia di modificare le vicende storiche?”
“Chiaro,”
fu l'immediata risposta. “Il valore formativo di un episodio è di
certo più importante della mera realtà dei fatti. E questo vale
anche anche le opere letterarie: è più importante che comunichino
le idee giuste o che traumatizzino con contenuti sbagliati?”
La più giovane accettò una
tazza fumante da Jamaree, ma subito dopo tornò a rivolgere la sua
attenzione a Naranne. “Quindi... Mandela era veramente una donna?”
“Lo
è diventata,” rispose l'altra con aria ispirata, “perché chi
combatte per la libertà senza timore dei potenti non può che essere
una donna.”
Stavano così discutendo quando
entrò nella stanza anche Mo'Nique con in mano il disegno di Leo. Si
sedette al tavolo e appoggiò il foglio incriminato, quindi si voltò
verso Jamaree e chiese: “È il tuo succo di carote gia...” Si
interruppe. “È il tuo succo di carote speziato?” si corresse
poi.
“Certo
cara. Ne vuoi un po'?”
“Sì,
grazie. Penso di averne proprio bisogno.”
La donna di colore sollevò
interessata le sopracciglia. “Come mai? Problemi con i bambini
della sezione Frutta?” Riempì a ogni buon conto una tazza e gliela
porse.
Mo'Nique prese il recipiente fra
le mani, ne annusò il contenuto socchiudendo gli occhi, quindi
rispose: “È per un bambino della classe Limone. Oggi ha fatto un
disegno che mi dà qualche preoccupazione.”
“È
quello sul tavolo?” chiese Jamaree.
Mo'Nique annuì.
“Cos'è
che ti preoccupa tanto?”
“Beh,
intanto il bambino ha voluto usare solo il bianco e l'azzurro.”
Alzò lo sguardo sulla più anziana aspettandosi di vederla annuire
gravemente, ma la donna si limitò a chiedere: “E con ciò?”
“Sono
colori... inadatti. Io credo che possano essere un segnale del fatto
che il piccolo sia esposto a contenuti negativi in famiglia.”
“Del
tipo?”
“Cose
razziste e sessiste.”
“Eh?”
“Il
bianco e l'azzurro. Il primo simboleggia la razza bianca e il secondo
il sesso maschile. E poi ha fatto discorsi strani su una nazione e ha
parlato di Adolf.”
“Di
Adolf?” intervenne Naranne in tono indignato, fissandola come se
avesse avuto intenzione di assalirla fisicamente.
“Non
so di chi stesse parlando.”
“Te
lo dico io di chi stava parlando: di Adolf ce n’è solo uno. Qui
bisogna chiamare con urgenza la psicologa, perché quei genitori
schifosi gli stanno facendo il lavaggio del cervello.”
Jamaree scosse la testa, facendo
ondeggiare il cespuglio di capelli crespi. “Ma figurarsi,” disse
poi con un sorriso indulgente. “Come ti vengono in mente queste
cose?”
“Ha
nominato… quello là,” ringhiò Naranne.
“Ha
disegnato cose sospette,” aggiunse la più giovane col tono di chi
ha la ferma intenzione di dare il proprio contributo alla risoluzione
di un serio problema.
La nera sorrise di nuovo. “Ma
no, non agitatevi, è solo un bambino che ritrae la sua famiglia.”
Mo’Nique ritirò
impercettibilmente la testa fra le spalle, tuttavia non demorse.
“Vedi la figura paterna così grande e quella materna invece
piccola? È segno che il padre è vissuto come tirannico.”
“Potrebbe
essere solo alto di statura, e la madre magari più bassa.”
Mentre
le due stavano così parlando, Naranne si avvicinò, seguita poco
dopo da LaBrion. La prima scrutò il disegno da sopra la spalla di
Mo’Nique, quindi in tono funesto proclamò: “La situazione è
molto
grave.”
“È
solo un bambino che ha disegnato la sua famiglia,” minimizzò
Jamaree, ma l’altra replicò: “Solo
un bambino che ha disegnato la sua famiglia, dici?” Fece girare
sulle colleghe uno sguardo di bragia, quindi proseguì: “Certo, ma
bisogna vedere come
l’ha disegnata.” Ghermì il foglio, lo tenne sollevato per
mostrarlo. “Qui abbiamo un padre tirannico, non vedete? Una figura
preponderante, che schiaccia le altre, ma alla quale il figlio sogna
in realtà di assomigliare, altrimenti non lo terrebbe per mano.”
“Tiene
per mano anche la madre,” le fece notare Jamaree.
“È
una catena di dipendenze affettive. Nell’atteggiamento succube
della donna, il bambino vede rinsaldata la propria posizione di
sottomissione alla schiacciante figura paterna.” Si interruppe, di
nuovo fece girare tutt’intorno uno sguardo feroce. “Qui ci sono
chiaramente una donna plagiata, che ha subito il lavaggio del
cervello, e un uomo razzista, intollerante e sessista, che rifugge il
pluralismo e si rifugia nei retaggi di una prevaricante tradizione
patriarcale per rinsaldare il proprio privilegio.”
Jamaree scosse la testa. “Ma di
cosa stai parlando?”
Naranne
di nuovo sollevò il disegno, quindi disse: “La situazione è
gravissima, direi. Propongo di chiamare immediatamente la psicologa
della scuola, affinché possa procedere a una valutazione del livello
di disagio presente in questa immagine.” Fissò alternativamente
LaBrion e Mo’Nique con sguardo spiritato e proclamò: “Quando
succederà qualcosa di terribile per colpa di questo padre tirannico
– perché io so
che succederà, ho visto troppi fallocrati violenti per sbagliare –
poi non venite a lamentarvi.”
Mo’Nique, responsabile della
classe Limone, deglutì a vuoto e le chiese: “Perché, cosa
potrebbe succedere?”
“Difficile
dirlo, con un uomo del genere. Potrebbe fare di tutto. Potremmo
trovarci a rimpiangere di non essere intervenute prima.”
La più giovane represse un
brivido. “Forse è meglio chiamare la psicologa finché siamo in
tempo,” disse. LaBrion si limitò ad annuire con espressione
fervida.
Melanie – piccoletta,
rotondetta, abitino a fiori – si aggiustò sul naso gli occhiali
dalla montatura rosa, quindi si rivolse a Mo’Nique e soavemente le
chiese: “E quindi, il bambino ha fatto questo disegno
spontaneamente?”
Scrutò il foglio, sul quale la
famiglia in bianco e azzurro pareva a tutte più inquietante che mai.
“Sì
è messo in un banco per conto suo e ha cominciato a disegnare.”
“Ah,
per conto suo,” ripeté la psicologa. “Questa è una notizia di
grande importanza. Il bambino ha chiaramente problemi nella
socializzazione: tende a isolarsi e a vivere gli eventi esterni
attraverso il registro dell’introversione. Sicuramente avrà un Io
coartato, inibito. È bravo a scuola?”
“Uno
dei più bravi.”
“Certo,
tipico di questa struttura di carattere,” confermò Melanie. “Cerca
di entrare in contatto con gli altri tramite le materie di studio,
dal momento che ha gravi problemi nel gestire i rapporti
interpersonali. Peraltro, il fatto che la sua scelta cromatica sia
stata così ristretta mi conferma un’affettività povera,
decisamente immatura.”
“E
il padre tirannico?” intervenne Naranna, che fin lì non si era
persa una parola.
“Non
è da sottovalutare,” confermò Melanie. Prese una penna con un
brillantino rosa in cima e con quella cominciò a indicare i vari
elementi del disegno. “Vedete questa figura paterna incombente? È
sinistra,
non trovate?”
Tranne Jamaree, che si limitò a
scuotere la testa e a versarsi un po’ di tisana, tutte convennero
che lo fosse.
“Vedete
com’è più alta delle altre? Sono sicura che in quella famiglia ci
sia una quantità di violenza da far accapponare la pelle.”
“Davvero?”
chiese LaBrion, fissando la figura paterna come se d’un tratto
avesse potuto balzare fuori dal disegno e saltarle addosso.
“Certo,
vedete che il bambino è vestito quasi allo stesso modo? Si chiama
identificazione
con l’aggressore:
la vittima esorcizza il proprio terrore vivendosi simile, e quindi
ugualmente potente, rispetto al proprio aguzzino.” Emise un
sospiro, quindi proseguì: “Credo che avrò gli incubi stanotte,
per la quantità di violenza subliminale che contiene. Comunica una
ferocia primordiale, che mi ha sconvolta nel profondo. Quei colori
sono glaciali, esprimono un'affettività coartata, sotto la quale può
esserci qualsiasi cosa. Lo confesso: mi fa venire i brividi.”
“L’avevo
detto, io,” brontolò Naranna. Rivolse al disegno un’occhiata
velenosa e soggiunse: “Guardatelo lì, quel porco abusatore e
violento. Pensava di farla franca, eh? Ma ha sottovalutato il potere
della psicologia e la grande forza delle donne.”
A quel proclama seguì qualche
secondo di silenzio, durante il quale la psicologa osservò di nuovo
attentamente il disegno.
“Tisana
per tutte?” propose Jamaree. “Ci beviamo sopra e a mente fredda
decidiamo il da farsi.”
Melanie la fissò quasi con
degnazione, quindi rispose: “Io capisco che la forte angoscia che
questa situazione ti comunica possa spingerti a un atteggiamento di
negazione, tuttavia sei un’insegnante esperta, non puoi
sottovalutare il pericolo insito nell’immagine che stiamo
analizzando.”
Le assistenti sociali arrivarono
il giorno dopo. Erano in due, come accadeva solo nei casi più seri:
una nera che sembrava una burrosa bambola, con lunghi boccoli che le
ricadevano sulle spalle e occhi pesantemente truccati, e una bianca
ossuta, con pantaloni cargo mimetici, una maglietta, capelli a
spazzola color carota e piercing a entrambe le arcate sopraccigliari.
La seconda aveva sottobraccio un corposo fascicolo.
“Dove
possiamo sederci?” esordì la nera, che invece teneva in mano solo
una lucida borsetta di ecopelle fucsia.
Si accomodarono intorno al tavolo
della sala insegnanti. La bianca distribuì a tutte robuste strette
di mano, presentandosi come Sam, l'altra fece sapere che si chiamava
Marvellous.
Le maestre si presentarono a loro
volta, ci fu un nuovo giro di strette di mano e successivamente una
distribuzione di tazze fumanti da parte di Jamaree.
Quando ebbero bevuto la tisana di
tiglio e zenzero, Sam annunciò: “Abbiamo portato i fascicoli
socio-sanitari del nucleo in oggetto.” Posò sul tavolo, dopo aver
spostato con gesto deciso la tazza, un corposo faldone di colore
bigio, chiuso da due fettucce annodate. Fece poi girare lo sguardo
sulle astanti, fermandolo infine sulla collega Marvellous, che
graziosamente annuì con un battito delle lunghe ciglia.
Sam slacciò allora le due
fettucce, aprì il faldone e cominciò ad allineare sul tavolo
documenti su documenti: certificati di nascita, atto di matrimonio,
esiti di esami clinici, titoli di studio e contratti di lavoro.
C'erano persino le buste paga e il rogito dell'appartamento nel quale
la famiglia viveva.
Alla fine alzò gli occhi e in
tono di oscura minaccia proclamò: “Ci sono cose, qui dentro, che
non mi piacciono per niente.”
“Lo
sapevo,” esclamò Naranna soddisfatta. “Per quello vi ho chiamate
con questa urgenza.”
Tutte si chinarono sui documenti
sparsi. Chi era troppo lontana si alzò e si appoggiò al bordo del
tavolo per osservare meglio.
Jamaree inforcò un paio di
occhiali, raccolse una fotografia di una giovane donna dai capelli
biondi e lisci e chiese: “Che cosa ci sarebbe di così brutto?”
“Piccoli
elementi,” spiegò Sam con l'aria di chi se ne intende. “Cose da
nulla, prese singolarmente.”
“Sono
come le tessere di un mosaico,” intervenne Marvellous. “Da sole
forse non vogliono dire nulla, ma tutte insieme compongono un disegno
che è davvero spaventoso.”
Sfilò dalla mano di Jamaree la
foto della giovane donna, trasse dalla distesa di documenti la foto
di un uomo e tenendo le due immagini una accanto all'altra le fece
lentamente girare in modo che tutte potessero vederle. “Non notate
niente?” chiese poi.
Maestre e psicologa si
scambiarono occhiate dubbiose.
Infine, fu Naranne a ringhiare:
“Sciovinisti.”
Sam annuì. “Biondi con gli
occhi azzurri tutti e due,” proclamò. La frase suonò come una
condanna.
“Io
mi sento offesa,” sospirò Marvellous in tono sconsolato, “è
come se questa coppia avesse appena manifestato disprezzo nei miei
confronti e nei confronti di tutte le persone con la pelle nera.”
Si rivolse a Jamaree: “E tu non ti senti offesa?”
La donna scosse la testa.
“Veramente no.”
A quel punto, Sam riprese: “Per
quanto molto grave, questo non è il solo elemento disfunzionale di
questo nucleo.” Raccolse alcune carte, le scorse come per preparasi
una linea di intervento, quindi proseguì: “Regolarmente sposati,
nessuna relazione precedente, niente famiglie allargate, altri
partner o altro. Un solo figlio.”
“Quello
di cui stiamo parlando?” intervenne LaBrion.
Sam si limitò ad annuire.
“Bambini
adottati?”
“Nessuno.”
Di
nuovo intervenne Naranne: “Parliamo del maschio.” La frase suonò
come 'Parliamo
della merda.'
L'assistente sociale scorse di
nuovo le sue carte, poi elencò: “Massimo titolo di studio
consentito a un maschio, conseguito a pieni voti. Non sono segnalati
problemi sul lavoro, né si rilevano segnalazioni dalla tessera per
la Salute Armoniosa. I referti medici sono quelli di una persona
sana, svolge attività fisica regolare. Non è noto alla Giustizia.”
“La
donna?” chiese Naranne.
“Laureata
in ingegneria gestionale, nemmeno su di lei ci sono segnalazioni.”
“Altre
figure di riferimento?”
“Si
sono trasferiti qui da un'altra città.”
“E
quel nome?”
L'assistente sociale la guardò
dapprima con l'aria di non capire, quindi sollevò le sopracciglia e
disse: “Certo, quel nome. Pare sia quello del bisnonno del
bambino.”
“E
loro lo pronunciano così, come se niente fosse?”
Un mormorio di disapprovazione
attraversò la stanza.
Nella generale costernazione, la
psicologa disse: “Sebbene la psicanalisi sia il prodotto di una
mente maschile frustrata, non tutta è da buttare. In ambito
psicanalitico è ben noto che vengono ripetute solo le cose
inconsciamente approvate.”
“È
un branco di nazisti!” boccheggiò LaBrion, con l'espressione con
cui avrebbe annunciato che sotto il tavolo c'era una bomba pronta a
esplodere. Detto questo deglutì, inspirò profondamente, poi in tono
contrito soggiunse: “Chiedo scusa a tutte per aver pronunciato
quella parola. Spero che non vi siate sentite troppo turbate.”
“Alle
volte il nostro dovere ci obbliga a sopportare, per il bene delle
categorie fragili,” replicò Naranne, poi si voltò verso Melanie
come per invitarla a proseguire nella sua disamina.
La psicologa annuì e cominciò:
“Come tutte avrete già notato, qui ci troviamo davanti un nucleo
familiare profondamente disfunzionale, gerarchizzato sulla figura
maschile dominante e attestato su modalità di funzionamento
arcaiche, chiuso, incapace di stabilire relazioni sane con l'esterno,
oserei dire addirittura coartato in un rispetto ossessivo delle
regole sociali che in realtà nasconde una profonda e radicata base
di oppositività e rifiuto.”
Sam annuì come se quelle parole
confermassero in pieno la teoria che anche lei aveva elaborato.
“Fanno i bravi, così noi non ci accorgiamo di quanto in realtà
siano marci.”
“Precisamente,”
confermò Melanie.
“Pare
che ci sia anche una faccenda di sciovinismo,” buttò lì Naranne.
“Oh,
sì,” intervenne volenterosa Mo'Nique. “Il bambino ha parlato di
una nazione. La Beviera,
se non sbaglio.”
“Baviera,”
la corresse Jamaree. “E non è una nazione, è una regione della
Germania.”
A
quelle parole, Naranne intervenne con durezza: “Lo era,
vorrai dire. Ora abbiamo superato i nazionalismi di stampo
fascistoide. Grazie al Femminile, che ha spazzato via le
prevaricazioni di stampo patriarcale, siamo un'unica Terra felice e
unita nell'amore.” Si interruppe, di nuovo atteggiò il viso a
un'espressione di disgusto, quindi aggiunse: “E chi non lo capisce,
chi insiste ad attestarsi su posizioni violente e reazionarie, deve
fare la fine che merita.” Fece girare lo sguardo tutt'intorno, come
sfidando le altre a contraddirla, e nel silenzio generale brontolò:
“Andrebbero ammazzati, per il bene di tutti.”
§
Rick aggrottò le sopracciglia e
fissò poco convinto il Consultorio Familiare. L'edificio, una
vecchia costruzione neoclassica, era stato ridipinto in modo che gli
elementi architettonici fossero ognuno di un colore diverso. Le
statue che rappresentavano figure maschili erano state rimosse e al
loro posto c'erano pannelli con slogan che inneggiavano al Femminile.
Uno
di essi recitava: “Anche
di fronte a una sola donna, l'uomo è comunque in inferiorità
numerica.”
“E
grazie al cazzo,” brontolò.
Al suo fianco, una giovane donna
dai lunghi capelli biondi chiese: “Hai detto qualcosa?”
Rick si piegò per guardarla in
faccia. “No, niente,” rispose.
Un
altro aforisma recitava: “Le
donne sono frivole perché sono intelligenti a oltranza.”
L'uomo
emise un sospiro e chiese: “Cosa dice la lettera, Schatzi?”
“Non
usare quel nome fuori di casa, Rick.”
“Perché?”
“Ne
abbiamo già parlato: potrebbe essere frainteso.”
“Che
rottura,” sospirò l’uomo. “Comunque, cosa dice la lettera?”
L'altra alzò le spalle. “Niente
di che, all'apparenza. Ci chiedono di presentarci per un colloquio.”
Rick rallentò il passo come se
stesse ponderando l'eventualità di girare le spalle e andarsene. “Un
colloquio con chi?”
Paula
gli mise una mano sull'avambraccio e in tono gentile gli sussurrò:
“Rilassati, so che stanno chiamando le famiglie per chiedere le
preferenze sul soggiorno di Consapevolezza
Multietnica
dei bambini, sicuramente sarà per quello.”
“Hm,”
grugnì Rick, ancora poco convinto.
“Che
c'è?”
“Non
lo so. Anche i ragazzi hanno figli, ma a nessuno è arrivata questa
lettera.”
“Tesoro,
lo sai che le mandano alle donne,” disse lei, quasi in tono di
scusa.
“Volevo
dire che nessuno ne ha parlato, né al lavoro né da Lonnie.”
Tacque per qualche secondo, poi in tono cupo ripeté: “Non lo so.”
Sulla
tenda che chiudeva l'entrata dell'edificio c'era scritto: “Le
donne sono come uragani. Diventano indomabili, quasi irraggiungibili.
Non si fermano davanti a nulla. Sono discrete e amano quasi in
segreto. Hanno sguardi sicuri e il cuore pieno di lividi. Sorridono e
ingoiano le lacrime. Loro, sono le donne che fanno la grande
differenza.”
“Mi
pare un mucchio di stronzate,” commentò torvo Richard.
“Anche
a me,” rispose Paula, “ma ora sta' zitto, da bravo. Lo sai che
parlare così è proibito.”
“Alla
faccia della libertà di pensiero e della tolleranza, eh?”
“Dai,
Rick, ora facciamo questo colloquio e poi ce ne torniamo a casa in
pace, d'accordo?”
“Hm.”
“Rick?”
Paula alzò la testa per fissare il marito negli occhi.
“Va
bene,” capitolò l'uomo. “Però se vogliono mandare Leo in mezzo
ai...”
“Rick,
cos'abbiamo appena detto?”
I
due entrarono nell'androne, che aveva le pareti decorate con murales
che rappresentavano madri che si dedicavano ai figli sullo sfondo di
prati fioriti e cieli azzurri, oppure donne intente a svolgere vari
lavori, tutte con espressioni sorridenti e sguardi fiduciosi rivolti
al futuro.
I
dipinti erano ricchi di colori chiari e brillanti. Le uniche tonalità
scure erano riservate agli angoli inferiori, nei quali uomini dai
lineamenti scimmieschi, sporchi, con la testa piccola e il corpo
sproporzionatamente gonfio di muscoli, combattevano fra loro,
brandivano armi tenendole all'altezza dell'inguine come grotteschi
falli o tiranneggiavano meste figure femminili che indossavano abiti
d'altri tempi.
In
un angolo della sala c'era un tavolino al quale sedeva una ragazza
dal volto olivastro e dai lunghi capelli neri, in quel momento
intenta a ripassarsi i tatuaggi all'henné ormai sbiaditi con una
matita da maquillage.
Paula
le porse la lettera di convocazione, lei vi diede una scorsa e disse:
“Certo, vi aspettano. Secondo piano, stanza Tormalina.”
“Ma
non è la stanza Pietra di Luna quella per la Consapevolezza
Multietnica?”
“Non
dovete andare alla Consapevolezza,” fu la soave risposta. “Vi
aspettano al gruppo di lavoro sui nuclei disfunzionali.”
Paula
ebbe l'istinto di fare un passo indietro. In tono diffidente chiese:
“Nuclei disfunzionali?”
“È
un controllo di routine,” le assicurò la ragazza distogliendo lo
sguardo e riprendendo la sua matita. “Un paio di colloqui e potrete
tornare a casa.”
Attraverso
uno specchio unidirezionale, Melanie e la sua collega Koko, un
trasgender che pur trovandosi nella sua fase femminile passava il
metro e novanta e aveva spalle da portuale, osservavano la coppia
seduta in sala d’attesa.
“Cosa
ne pensi?” chiese la prima a bassa voce.
Koko
si piegò per guardare attraverso la lastra di vetro, poi disse: “Hai
fatto bene a chiamarmi, tesoro. Anche se come tutti gli uomini sa
benissimo quello che rischia ad assalire fisicamente una donna,
rimane comunque stupido e impulsivo, incapace di prevedere le
conseguenze delle sue azioni.” Annuì come per confermare quanto
aveva appena detto, quindi premurosamente le assicurò: “Resto con
te quando fai il colloquio, gioia. Voglio proprio vedere dove andrà
a finire quella fisicità che ostenta con tanta tracotanza, quando si
troverà davanti una donna che se vuole è in grado di sbatterlo giù
dalla finestra.”
“Grazie,
Koko,” pigolò l’altra, che a stento le arrivava alla spalla e in
confronto alla sua struttura poderosa sembrava un chihuahua di fronte
a un bullmastiff. “Però prima chiamiamo lei. Voglio studiare il
livello di tolleranza allo stress dell’uomo.”
Koko
la scrutò dubbiosa, con le mani sui fianchi e la testa piegata da
una parte. “Cara, sei pronta?” volle sapere.
Melanie
sorrise. “Ma certo. Sta’ tranquilla, ho già fatto decine di
colloqui di questo genere.”
“Se
hai bisogno chiamami. Ricordati che è succube di quello là,
plagiata e incapace di avere una volontà propria. Potrebbe diventare
pericolosa, se intuisce che vuoi interrogarla su di lui.”
Melanie
si affacciò alla porta con il più radioso dei suoi sorrisi. “Paula,
non è vero? Sono felice di incontrarti, cara.”
Costringendosi
a ignorare lo sguardo duro che le stava rivolgendo l’uomo, le porse
la mano e quando Paula l’ebbe stretta vi aggiunse anche l’altra,
in una presa delicata che assumeva le connotazioni dell’affetto e
della protezione. “Vieni cara,” la invitò.
La
donna la seguì con andatura un po’ rigida, voltandosi di tanto in
tanto verso il marito. Melanie notò che stava cercando di guardare
al di là della porta socchiusa dello studio. “Saranno solo due
chiacchiere,” la rassicurò in tono amichevole. “Qualche piccolo
discorso fra donne.”
“A
che proposito?” chiese Paula.
“Un
aiuto,” le spiegò Melanie. “Tutte noi possiamo avere bisogno
d’aiuto nel corso della nostra vita, no? E allora è bello poter
contare su un’amica pronta a tenderci una mano, non è vero?”
“Che
cosa significa?” chiese la donna. “Io non ho bisogno d’aiuto.”
Poi, dopo una pausa: “Guarda che lo so benissimo che questo è il
gruppo di studio sui nuclei disfunzionali.”
Melanie
accentuò il sorriso. “Ma certo che lo sai, cara. Noi non lo
scriviamo da nessuna parte, perché qualcuna potrebbe leggere quella
parola così pesante e rimanerne traumatizzata, ma suppongo che
Jamila giù all’ingresso te l’abbia detto, non è così? Ora
vogliamo entrare?”
Quando
furono sedute su due graziose poltroncine in una specie di salotto,
in tono premuroso Melanie esordì: “Qui puoi parlare
tranquillamente, cara.”
Paula
aggrottò le sopracciglia. “In che senso?”
“Lui
non ci può sentire.”
“E
quindi?”
La
psicologa si costrinse a mantenere immutata l’espressione, anche se
quello di Paula si stava rivelando un caso da manuale: plagiata dal
marito tirannico, la povera donna fingeva che tra lei e il coniuge
fosse tutto perfetto. “Puoi parlare in
tutta libertà,” le
spiegò, calcando sulle ultime parole.
“Davvero?”
“Ma
certamente. Apriti senza timore.”
“Beh,
allora vorrei proprio sapere qual è il motivo per cui avete
convocato me e Richard.”
Calò
un silenzio costernato. Di fronte all’atteggiamento pragmatico
della donna – era un’ingegnere, avrebbe dovuto tenerne conto –
Melanie decise di cambiare tattica. In tono più asciutto le chiese:
“Dimmi, Paula, va tutto bene tra te e Richard?”
L’altra
aggottò le sopracciglia. “Che significa?” chiese diffidente.
“Se
vi amate, se state bene insieme.”
“Certo
che stiamo bene, altrimenti non staremmo insieme, no?”
“Avete
rapporti sessuali?”
Paula
avvampò. “Non vedo in che modo la cosa ti riguardi,” protestò
offesa.
“Rispondi
alle mie domande, per favore. Se ti ostini ad avere questo
atteggiamento oppositivo sarà tutto molto più sgradevole. Allora,
avete rapporti?”
“Come
ogni coppia.”
“Eviti
le risposte dirette, vero? Con che frequenza avete rapporti?”
“Guarda
che mi alzo e me ne vado!”
Melanie
la fissò da dietro la sua montatura rosa e lentamente rispose: “Non
te lo consiglio proprio. Vuoi che sulle tue note venga scritto che
hai un atteggiamento oppositivo e provocatorio? Non fa bella
impressione, sai?”
Paula,
che si era già alzata per metà dalla sedia, si irrigidì per
qualche secondo, poi a malincuore riprese il suo posto.
“Molto
ragionevole,” approvò la psicologa. “Allora: la frequenza dei
rapporti?”
“Dipende,
certi periodi quasi ogni sera, certi altri ogni due o tre giorni.”
“È
lui che ti cerca?”
“A
volte lui e a volte io.”
“In
che posizione lo fate?”
“Melanie,
io non vedo come...”
“Gli
piace stare sopra?” Al silenzio della donna, la psicologa aggiunse:
“Gli piace farti sentire la sua forza? Schiacciarti con la sua
mole?”
“Lo
facciamo in varie posizioni, va bene?”
“Ma
certo, non ti scaldare,” rispose Melanie conciliante. “E con il
bambino come si comporta?”
“È
bravo, gli insegna le cose, lo fa giocare. È una figura paterna
molto presente.”
“Tu
controlli che gli insegni le cose giuste? Che non gli faccia fare
giochi di competizione o aggressivi? Sai, essendo un maschio...”
“Naturalmente,”
rispose la donna, in un tono che a Melanie parve un po’ troppo
precipitoso.
Boccoli
azzurri e giacca del tailleur che si tendeva sui bicipiti, Koko si
avvicinò all’uomo in sala d’aspetto e gli chiese: “Sei
Richard, per caso?”
“Chi
dovrei essere? Mi avete chiamato voi.”
“Siamo
un po’ arrabbiati, per caso?”
“Io
di sicuro. Dov’è mia moglie Paula?”
“Lei
sta bene,” rispose la psicologa, registrando l’atteggiamento di
controllo sulla compagna che il soggetto dimostrava, “ha finito il
colloquio e non è più qui. Ora vuoi accomodarti tu, per favore?”
Richard
si alzò, arrivando faccia a faccia con l’imponente interlocutrice.
“Sono pronto,” annunciò.
Entrarono
nello studio, si sedettero ai due lati di una scrivania. Koko
accavallò le gambe e arrotolandosi una ciocca turchina intorno
all’indice, chiese: “Tu rispetti tua moglie, Rick?”
L’altro
aggrottò le sopracciglia. “E questa che domanda sarebbe?”
“La
credi in grado di badare a se stessa o pensi che sia una bambina
incapace che ha bisogno della tua guida?”
La
domanda gli suscitò solo uno stupefatto: “Eh?”
“Dimmi
la tua opinione, caro. Puoi parlare liberamente.” Gli strizzò
l’occhio.
Richard
lasciò passare qualche secondo, quindi rispose: “Io qui non ho
nulla da dire liberamente.
Forse è meglio che sia tu a farmi le domande.”
“La
domanda te l’ho fatta prima, Rick: tu rispetti tua moglie?”
“Si
capisce che la rispetto,” replicò l’uomo piccato. “È mia
moglie.”
“È
una cosa tua, quindi?”
“Non
ho detto questo.”
“A
me pare che tu abbia usato un bel pronome possessivo. Mia
moglie.”
“Che
cosa avrei dovuto dire, secondo te?”
Koko
lo fissò in silenzio per qualche secondo, con l’aria di trovarsi
esattamente nella situazione che si era aspettata, poi disse: “A me
vengono in mente tante espressioni che non indicano necessariamente
possesso: la persona
con cui divido la vita,
ad esempio. Io la trovo molto poetica, e tu?”
“Io
la trovo lunga. Dove sei stato ieri, Rick? Oh, niente di importante.
Io e la persona con cui divido la vita siamo andati a farci un giro
in campagna.” Fece una pausa, poi lentamente sillabò: “Per me è
una stronzata.”
“Per
me invece è rispettosa,” replicò Koko sullo stesso tono, “non
tira in ballo categorie e non colloca l’altro in caselle rigide
attribuendogli forzatamente un ruolo nel quale potrebbe non
riconoscersi a pieno.”
Calò
un silenzio nel quale si sentì distintamente il rumore di una foglia
che cadeva dalla pianta che c’era sul davanzale. “Ripeto che per
me è una stronzata,” disse Richard.
I
due si fissarono poi negli occhi per qualche secondo, infine Koko
distolse lo sguardo e in tono ammonitore disse: “Sta’ attento,
uomo delle caverne, perché io non sono quella che consideri la tua
femmina. È meglio che cambi tono, con me.”
“Altrimenti?”
In
quel momento si aprì una porta e Melanie, occhiali dalla montatura
rosa e abitino a fiori, fece il suo ingresso. “Abbiamo sentito
abbastanza,” annunciò in tono neutro. “Puoi andare, Richard.
Grazie per il tuo aiuto.”
“Dov’è
Paula?”
“Paula
sa badare a se stessa,” fu la secca risposta.
§
Melanie
spense il monitor interrompendo il filmato dei colloqui. Rivolse alle
due assistenti sociali uno sguardo cupo e proclamò: “Sono immagini
che non hanno bisogno di commenti.”
“La
situazione è grave,” confermò Sam. “Dobbiamo intervenire
subito, per il bene di quella donna e di suo figlio.”
Intervenne
a quel punto Koko: “Abbiamo a che fare con una figura maschile
fragile, che utilizza l’aggressività come modalità di
comunicazione primaria. Si tratta di un uomo dall’affettività
coartata, polarizzato su una possessività arcaica.” Fece una
pausa, quindi soggiunse: “È un uomo che deve essere aiutato a
raggiungere una piena consapevolezza di sé, ha bisogno di
apprendere, di liberarsi dei preconcetti del patriarcato. Deve
raggiungere un rapporto sano con la figura femminile, che attualmente
vive come minacciosa e sfuggente.”
“E
la donna?” intervenne Marvellous.
Si
fece avanti Melanie, che assunse un’aria di compunzione e rispose:
“Anche lei ha molto
bisogno d’aiuto. È una figura fragile, succube della figura
maschile, bisognosa di qualcuno che le faccia raggiungere una piena
consapevolezza di sé. Ha un Io coartato, modellato su quello
tirannico del marito. Teme di prendere decisioni in autonomia e ha
completamente delegato la gestione del figlio al marito.”
“Quindi
lascia che quello rovini il bambino?” intervenne Sam indignata.
“Permette a quello sporco maschio di creare un altro oppressore di
donne a sua immagine e somiglianza?”
Melanie
scosse la testa. “Non può fare altro, Sam,” rispose sconsolata.
“Non ci riesce. Non sarà mai in grado di opporsi, se noi non la
sosterremo.”
Marvellous
annuì con vigore. “La aiuteremo noi. Le consentiremo di
riappropriarsi del suo ruolo nel mondo, di non essere mai più
succube di fronte alla figura maschile.”
Tutte
si scambiarono sguardi decisi, pronte a svolgere al meglio il grande
compito. Infine Sam chiese: “Qualcuno ha valutato il bambino?
Quella faccenda delle nazioni mi piace davvero poco. Non vorrei che
quel bastardo stesse allevando un piccolo sciovinista.”
“Non
chiamarlo bastardo,” sospirò Melanie. “È solo un uomo fragile.
Ogni suo gesto è uno straziante grido d’aiuto, non te ne accorgi?
Dobbiamo accompagnarlo nel percorso della consapevolezza.”
§
Rick
entrò nel locale facendo sbattere la porta così forte che i vetri
tintinnarono negli infissi. Si appoggiò al bancone e disse: “Dammene
uno doppio, Lonnie.”
Il
barista lo sogguardò incerto, ma di fronte al suo cipiglio non ebbe
il coraggio di chiedergli la tessera. Gli mise davanti un tumbler
basso e cominciò a versarvi il bourbon. “Giornataccia?”
s’informò cauto.
“Di
merda.”
Prese
il bicchiere e lo vuotò d’un fiato. “Un altro,” disse
sbattendolo sul bancone.
“Rick...”
“Un
altro, cazzo!” ringhiò l’uomo senza sollevare lo sguardo.
Mentre
il barista lo fissava indeciso sul da farsi, da uno dei tavolini in
fondo alla sala si alzò l’uomo corpulento con la barba e il
capello da baseball. Rimise a posto la sedia, poi a passi lenti e
ponderati raggiunse il bancone e si sistemò accanto a Richard.
Questi non lo degnò di un’occhiata.
L’uomo
allora si rivolse al barista: “Fanne uno anche per me, Lonnie, e
versa un altro goccio a Rick.”
“Ma
Brunn, io non so se...”
“Versa,
Lon. Questo è un caso di forza maggiore.” Fece scivolare sulla
superficie del mobile una banconota.
Fu
solo alla fine del terzo bicchiere che Richard realizzò di avere
qualcuno di fianco. Si voltò adagio, cercando di mantenere
l’equilibrio nonostante il movimento gli facesse girare la testa, e
strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine. “Brunn?”
mormorò alla fine.
“In
persona, amico.” L’uomo gli diede una pacca sulla spalla che lo
costrinse a fare un passo di lato per non cadere. “Qualcosa non
va?”
“Niente
sta andando come deve andare.”
“Ti
va di parlarne?”
Richard
si voltò verso l’uomo, poi tornò ad abbassare lo sguardo sul
bicchiere. “È vuoto,” mormorò.
“Ed
è meglio che rimanga tale, almeno per un po’. Stai bevendo forte.”
Rick
lo guardò storto. “Che c’è, sei anche tu una di quelle? Magari
con una barba finta per spingermi a dire cose contrarie alla dignità
femminile?”
“Sei
già ridotto così dopo tre bicchieri?” ghignò Brunn. “Sarai
mica tu la donna travestita?”
I
due si scambiarono uno sguardo, Richard non poté fare a meno di
rivolgergli un pallido sorriso. Emise poi un lungo sospiro e disse:
“Ci sono momenti nella vita in cui non sai più da che parte
girarti per far funzionare le cose per il verso giusto. Io ho fatto
tutto quello che dovevo fare, te lo giuro, e adesso...” si
interruppe reprimendo un singhiozzo. Di nuovo abbassò lo sguardo sul
bicchiere. Brunn fece cenno a Lonnie di versare un altro po’ di
bourbon e il barista non pose obiezioni.
Richard
bevve di nuovo come se il distillato fosse una specie di medicina. Al
suo fianco, Brunn sorbiva in silenzio qualche sorso, con l’aria di
un estimatore che assaggia un single
malt particolarmente
pregiato.
Passò
un tempo che Richard non riuscì a quantificare. Era come se ci fosse
una barriera tra lui e il resto del mondo, che gli rimandava indietro
tutti i pensieri dolorosi che lui stava cercando di allontanare da
sé. Gli tornò in mente un supplizio dei tempi antichi nei quali il
condannato veniva chiuso in un sacco con degli animali affamati e
infuriati, che tentavano di liberarsi, ma non ci riuscivano e lo
dilaniavano a morte.
“Io
non ho fatto niente di male,” riprese. “Amo mia moglie, mio
figlio è la mia vita...” si interruppe.
“Ma...?”
chiese Brunn con cautela.
“Ma
è arrivata una lettera a Paula. Nuclei disfunzionali, se sai di cosa
parlo. Leo ha fatto non so che disegno a scuola, e quelle là si sono
fatte l’idea che io sia una specie di mostro. Prima due psicologhe
hanno voluto parlare con me e Paula. Ci hanno fatto un sacco di
domande del cazzo, a lei hanno chiesto addirittura in che posizione
scopiamo, volevano farle ammettere che io la tratto male.”
“E
tu la tratti male?” intervenne Brunn in tono neutro, come se gli
stesse chiedendo l’ora.
“Stai
scherzando? Io trattare male Paula o il bambino?” Emise un sospiro
sconsolato, quindi riprese: “Sono venute a casa la prima volta.
C’era Leo che giocava, io stavo preparando la cena perché Paula
era ancora al lavoro. Si sono prese da parte il bambino e gli hanno
fatto dire un sacco di stronzate.”
“Del
tipo?”
“Che
facevamo giochi aggressivi e di competizione, che giocavamo ai
soldati. Non sa neanche cosa sono, i soldati.”
“E
poi cos’è successo?”
“Hanno
trovato la bandiera.”
“Te
l’avevo detto di metterla via.”
“Me
l’aveva detto anche Paula, ma è l’unico
ricordo che mi è rimasto di mio padre. Gliel’aveva data il nonno,
salvandola dai roghi di quando quelle là hanno preso il potere.”
“Avete
bruciato noi? Adesso noi bruciamo i vostri simboli!”
Citò Brunn con una smorfia. “Fossero state solo le bandiere a
finire in cenere. Ti ricordi i roghi di libri e di quadri in mezzo
alle piazze, le statue fatte a pezzi, i musei devastati?”
Richard
annuì grave. “Ero solo un bambino, però me li ricordo.”
Di
nuovo tacquero e per un po’ bevvero in silenzio. Alla fine, il
biondo riprese: “Dopo un po’ se ne sono andate. Mi hanno fatto
chiudere la bandiera in cassaforte e ho fatto fatica a tenermi la
chiave, perché se la volevano prendere loro. Non possono togliermela
e lo sanno, ma mi hanno proibito di tirarla fuori o di farla vedere
al bambino. Io pensavo che me la sarei cavata con qualche corso di
Tolleranza e Dialogo,
magari quello di Critica
Consapevole della Misoginia,
che te lo rifilano per ogni stronzata, ma le puttane sono tornate il
giorno successivo, in quattro e con il culo parato da una squadra di
Riduzione dei Conflitti
con i taser. Hanno portato Paula in una Casa
per la Tutela delle Donne Abusate
e Leo l’hanno sbattuto in una Comunità
per l’Infanzia Negata.
Dovevi sentire come piangeva, poverino.”
Brunn
gli diede un paio di pacche sulla spalla, poi gli chiese: “E tu?”
“Ah,
io sono il bastardo della situazione, l’abusatore, il porco, il
misogino, il fallocrate, lo sciovinista, schiavo del patriarcato e a
mia volta schiavizzatore. Mi obbligano a fare i loro corsi del cazzo,
stronzate tipo Consapevolezza
di Genere, Tolleranza e Ascolto, Valore della Diversità o
Rapporto con il Femminile,
con valutazioni periodiche del livello di consapevolezza conseguito.”
“E
se ti rifiuti? Mica possono sbatterti dentro, non mi risulta che tu
sia accusato di reati specifici.”
“Perderei
il lavoro, tanto per cominciare, e non posso permettermelo: ho
bisogno di soldi.”
“Va
be’, tutti abbiamo bisogno di soldi.”
“Ma
a me ne servono di più. Voglio pagare un’avvocatessa per
riprendermi la mia famiglia.”
Brunn
lo fissò grave, quindi gli disse: “Sai bene che non ne troverai
una che sia disposta a difenderti.”
“Basta
pagare. Andrò da una di quelle brave.”
“E
secondo te, una di quelle brave, che passano la vita a sbattere in
qualche Comunità, che poi è solo una galera chiamata in modo
diverso, maschi accusati delle cose più fantasiose, si accolla la
difesa di un – cito parole tue – porco abusatore e sciovinista?”
“Io
non sono né porco, né abusatore né sciovinista.”
“Perché,
secondo te Dave era un molestatore? Eppure è finito dritto dritto
alla Disassuefazione,
e ci starà per un bel po’.”
Richard
diede fondo al bicchiere, poi in tono grave disse: “Basta che hai
un cazzo in mezzo alle gambe e non hai difese, non hai voce in
capitolo e non hai diritti. Puoi solo imparare a malapena a leggere e
scrivere, spaccarti la schiena tutto il giorno per quattro soldi e
dire sempre sì, se no diventi un porco e un abusatore e hai finito
di vivere.”
Brunn
lasciò passare qualche secondo, poi buttò lì: “Non è così
dappertutto.”
Richard
alzò le spalle. “Questo fottuto Mondo dell’Amore del cazzo è
ovunque, non si scappa.”
L’altro
si voltò a fissarlo negli occhi e in tono fermo dichiarò: “Ci
sono luoghi in cui i maschi sono liberi.”
“Liberi
di farsi trattare a calci in culo, al massimo.”
“Non
proprio.” Brunn gli fece scivolare in mano un biglietto con un
numero di telefono. “Pensaci.”
Richard
scosse la testa. “Mi dispiace, amico. Non vado da nessuna parte
senza Leo e Paula. Io resterò qui e troverò un’avvocatessa che
faccia valere i miei diritti.”
“Diritti
che non hai,” gli ricordò l’altro. “Anche un gattino
maltrattato ha più diritti di te, ricordatelo sempre. Suscita più
sdegno e ha uno spazio maggiore nei media. Tu sei un porco, un
fallocrate e un abusatore, tutto ciò che ti sta capitando te lo
meriti.”
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Salve
gente,
ecco un altro
capitolo distopico. Come sempre grazie a tutti coloro che sono
passati di qui, hanno letto o mi hanno gentilmente lasciato il loro
parere. Sappiate che ho apprezzato moltissimo tutti gli spunti di
riflessione che mi avete suggerito.
Capitolo
3
“Altro
che Omeopatia e
Femminismo!”
annunciò Tanasha trionfante. “Questa è roba forte!”
Esibì
alle colleghe una velina che aveva appena recuperato dal cassetto
della stampante.
Poronda
alzò la testa dal monitor e fissò il foglio strizzando gli occhi.
“Sarebbe?” chiese poco convinta.
“Fallocrate
sciovinista plagia moglie e figlio.”
“Ne
esistono ancora?” chiese Raynelle con un sorrisetto.
Imperterrita,
la prima proseguì: “Scoperta la situazione di grave disagio grazie
a un disegno realizzato dal bambino nel corso di un’attività di
espressione delle emozioni tramite l’arte.” Fece un sorriso
trionfante e dichiarò: “Zelda la adorerà.”
“È
il suo genere,” confermò Poronda.
Le
immagini della cavalla alata che si allontanava sfumarono e sulla
luna piena comparve la scritta Il
mondo di Zelda. Una
musica di presentazione introdusse la comparsa del salotto, con la
conduttrice già solennemente seduta sulla sua poltrona. A ogni
respiro della donna, l’abito di lamé mandava sprazzi di luce
tutt’intorno.
“Oggi
siamo qui perché vogliamo capire,”
annunciò Zelda rivolta ai telespettatori. “Perché sarebbe troppo
facile condannare e basta.”
Su
uno schermo alle sue spalle comparve il disegno di Leo.
“Non
sarebbe un atteggiamento femminile. Noi vogliamo comprendere,
vogliamo empatizzare. Vogliamo andare alla radice dei problemi e per
quanto possibile entrare nella mentalità di chi commette il male,
per poterlo aiutare a non commetterlo in futuro.”
Scrosciò
un lungo applauso.
Zelda
annuì con atteggiamento di serena modestia, come chi sa di star
facendo la cosa più giusta possibile, poi proseguì: “Abbiamo qui
alcune ospiti che ci aiuteranno a parlare di questo problema.
Mo’Nique.” Un riflettore la illuminò. La giovane donna quasi
sussultò, poi sbatté gli occhi e istintivamente cercò di sedere
più eretta. Zelda le sorrise con fare incoraggiante, quindi
proseguì: “Mo’Nique è la bravissima maestra che si è accorta
di questa spaventosa situazione di disagio. Senza di lei, un maschio
violento continuerebbe a imporre la sua autorità fallocratica, a
tarpare le ali di una giovane e bellissima donna e a imporre le
proprie idee scioviniste a un bambino.”
Scrosciò
un secondo veemente applauso, da dietro le quinte fioccarono i brava!
e i bene!
Addirittura si udì un bisognerebbe
tagliargli le... La
fine della frase fu coperta da un lungo biiiip.
Mo’Nique
arrossì fino alla radice dei capelli e si girò verso Zelda come per
chiederle aiuto.
La
conduttrice si limitò a rivolgerle uno sguardo di incoraggiamento,
quindi spostò la sua attenzione sull’ospite successiva, su cui si
mosse anche il riflettore. Solennemente proclamò: “Qui abbiamo una
giovane e valida psicologa, Melanie. Vuoi dirci cos’hai visto in
quel disegno, cara?”
La
ragazza si umettò le labbra con aria volenterosa, poi rispose:
“Ecco, non vorrei che quello che sto per dire potesse turbare
qualcuna delle nostre spettatrici. Sono concetti molto forti.”
In
sovrimpressione comparve un segno di divieto rosso, accompagnato
dalla scritta Avvisiamo
che i contenuti del dibattito potrebbero risultare particolarmente
disturbanti.
Zelda
annuì in modo quasi solenne. “Ora puoi parlare, cara,” le disse.
Il tono era quello con cui un medico avrebbe annunciato il sospetto
di un male incurabile.
“Il
disegno è inequivocabile,”
disse allora Melanie. “La figura paterna,” sullo schermo essa
venne evidenziata da un minaccioso contorno rosso e lampeggiante, “è
tirannica, incombente. È l’immagine di un padre fallico, che
schiaccia e prevarica.”
Un
mormorio attraversò la sala.
“Continua,
cara,” la invitò stoicamente Zelda.
Melanie
annuì con la stessa espressione di stoicismo indomito. “E ora la
madre.” La figura paterna smise di lampeggiare, quella della madre
venne circondata da un gradevole alone di un colore a metà tra rosa
e lilla, che pulsava dolcemente. “Vedi com’è piccola, Zelda?
Come sono evidenti i suoi caratteri femminili? Indica una posizione
di sottomissione anche nello stile di pensiero. Un’adozione –
chiaramente imposta dal maschio patriarcale – di modalità di
comportamento attinenti a epoche passate, in cui le donne erano
sottomesse.”
Stronzo!
provenne da dietro le quinte. Non ci fu nessun biiiip.
“E
ora il bambino,” disse la psicologa. La figura centrale si illuminò
di un lampeggiare rosso appena un po’ più tenue di quello del
padre. “Diventerà un piccolo tiranno se non interveniamo. Il padre
lo sta plagiando. Vedete come si è dipinto simile a lui? Ma è più
piccolo, segno che la sua fragile personalità in accrescimento è
schiacciata e deformata da quella prevaricante e violenta dell’uomo.”
“Bisogna
aiutarli!” proclamò Zelda in tono appassionato.
Un
terzo applauso, più forte dei precedenti, proruppe dal pubblico.
Efemena,
educatrice della Casa
per la Tutela delle Donne Abusate,
spense il televisore e disse: “Vieni, Paula, è l’ora del
counseling.”
La
donna rimase seduta sul divano. Alzò gli occhi verso lo schermo
ormai nero dell’apparecchio e disse: “Niente di quello che stanno
dicendo è vero.”
“Vieni
a fare la tua seduta, Paula. Poi più tardi conoscerai il gruppo di
auto-mutuo aiuto e potrai confrontarti con altre donne che hanno
avuto il tuo stesso problema.”
“Io
non ho nessun problema,” rispose lei imperterrita. “Non di quel
tipo, almeno. Vorrei solo sapere se Richard e Leo stanno bene.”
L’educatrice
le si avvicinò, si sedette accanto a lei sul divano e le circondò
le spalle con un braccio, sentendola irrigidirsi sotto la sua presa.
Fece finta di niente: in un caso come quello, le resistenze
all’inizio erano normali. Era ben nota, del resto, la dipendenza
affettiva che la vittima instaurava nei confronti del carnefice. In
tono affettuoso le disse: “Coraggio, tesoro, fa’ un piccolo
sforzo. Ora parlerai un po’ con la terapeuta e vedrai che lei ti
aiuterà a elaborare i tuoi conflitti.” Si alzò con fare
incoraggiante, ma Paula rimase ostinatamente seduta. Da quella
posizione alzò poi lo sguardo a fissarla negli occhi e disse:
“Quelle della televisione sono solo falsità. Nessuno ascolta la
mia versione dei fatti, in tutto questo? Nessuno chiede a
me se amo mio marito,
se voglio stare con lui, se condivido le sue idee?”
“Ma
cara, è ovvio che te lo chiederemo,” si affrettò a rispondere
Efemena, “ma sappiamo che in questo momento ti trovi in una
situazione di forte turbamento emotivo, che forse hai bisogno di fare
chiarezza in te stessa, di aprirti con persone esperte che ti aiutino
a elaborare i tuoi traumi, prima di poter parlare col sufficiente
distacco di questa cosa.”
“Quale
cosa? E poi, io non ho nessun trauma. Stavo benissimo, avevo una vita
del tutto normale, prima che arrivaste voi.”
Efemena
sospirò e crollò il capo come chi si trova di fronte a un problema
che conosce molto bene. “Allora per oggi niente counseling, vuoi?
Andremo io e te a fare una bella passeggiata nel nostro giardino e
poi, quando ti sarai rilassata, aiuterai a fare il mandala. Lo
componiamo ogni giorno, tutte insieme, e nel farlo elaboriamo i
nostri conflitti e liberiamo le nostre emozioni. Sarà un’esperienza
molto bella, vedrai, che ti arricchirà spiritualmente.”
Paula
si alzò in piedi, vagamente impacciata nel vaporoso abito indiano
che le avevano consegnato al posto dei jeans che era solita
indossare. Si raccolse i capelli biondi, ricordandosi solo all’ultimo
momento di non avere più al polso l’elastico col quale di solito
li legava. Li lasciò ricadere con uno sbuffo infastidito, quindi
rispose: “Non mi interessa il mandala e non ho conflitti da
elaborare. Voglio solo tornare da mio marito e da mio figlio. Quando
potrò farlo?”
“Ti
farò parlare con la dottoressa,” sospirò Efemena. “Lei ti farà
capire tante cose. Ti aiuterà ad abbandonare questo atteggiamento
oppositivo e ad aprirti al vero aiuto, perché, credimi, ne hai
davvero tanto
bisogno.”
Aggrappato
al tronco di un albero con tutte le sue forze, per l’ennesima volta
Leo strillò: “Voglio il papà!”
Una
maestra si avvicinò e il bambino, senza abbandonare la presa sul
tronco, cercò di colpirla con un calcio. “Voglio il papà!”
ripeté. Le lacrime gli ricavano il volto paonazzo, mescolandosi col
moccio che gli colava dal naso.
“Leo?”
tentò allora la maestra. “La vuoi sentire una bella favola?
Cappuccetto rosso e la lupa grigia fanno capire al cacciatore che
uccidere è sbagliato, poi tutti insieme liberano la nonna
prigioniera.”
Il
bambino interruppe il suo convulso singhiozzare e con quanto fiato
aveva in gola gridò: “Va’ via! Voglio il mio papà e la mia
mamma!”
“E
la favola del principe addormentato? La principessa non lo sveglia,
altrimenti lui avrebbe un trauma. Si mette con la guerriera che
comanda le guardie e le fa capire il valore della non-violenza,
adottano tre bambine di tre regni diversi e vivono tutte felici e
contente. La vuoi sentire questa?”
“Voglio
il mio papà!”
Arrivò
una maestra più anziana, che col tono di chi conosce molto bene il
problema disse: “Lascia, ci penso io.”
Si
sedette per terra accanto al bambino che strepitava e pazientemente
aspettò che smettesse di urlare. Quando le strida furono sostituite
da radi singhiozzi, gli disse: “Io sono Adorinda. Tu come ti
chiami?”
“Voglio
il mio papà,” disse il bambino per tutta risposta.
“Hai
fame?” chiese la donna. “Stelara ha preparato il budino di tofu,
hai voglia di assaggiarlo?”
“Non
mi piace il tofu.”
Adorinda
fece una lieve risata. “Dici così perché non hai mai assaggiato
quello di Stelara. Lei è una bravissima, cuoca, lo sai?”
“Voglio
gli hamburger che fa il papà.”
“Come
li fa il papà, col seitan?”
“No,
con la mucca.”
“Ma
la mucca è un essere vivente, tesoro. Non si può mangiare. Piange
tanto, lo sai?”
Con
lo sguardo ostinatamente rivolto altrove, il bambino ripeté: “Io
voglio la mamma e il papà. Non voglio mangiare il Satana,
voglio gli hamburger di mucca del mio papà, fatti sul barba-culo.”
“Il
barbecue,
vuoi dire?”
“Papà
dice che si chiama così perché quando i pirati prendevano una capra
le tagliavano la barba e gliela mettevano nel culo, poi la cuocevano
sulla griglia.”
La
maestra registrò che il padre trasmetteva al bambino contenuti
aggressivi e volgari, probabilmente nella demenziale convinzione che
si trattasse di argomenti più maschi,
ma fece finta di non aver nemmeno sentito. “Stelara fa dei
buonissimi biscotti di farro,” lo informò. “Scommetto che vuoi
assaggiarne uno.”
“No.”
“Non
hai fame?”
“No.”
“Vuoi
giocare, allora?”
“Voglio
tornare dal mio papà e dalla mia mamma.”
La
maestra emise un sospiro e rispose: “Non si può, tesoro. Ora devi
restare qui con noi per un po’.”
“Perché?”
“La
tua mamma e il tuo papà devono andare a scuola.”
“Ma
i grandi non vanno a scuola.”
“Loro
sì, perché devono imparare tante cose.”
Il
bambino si guardò intorno, fissò con aria schifata un gruppetto di
suoi coetanei completamente nudi che stavano giocando su un prato,
poi di nuovo chiese: “Quando potrò tornare a casa?”
Adorinda
gli rivolse un sorriso amorevole, quindi in tono soave rispose:
“Vedrai che presto ti abituerai e questo posto comincerà a
piacerti. Ora andiamo dagli altri bimbi, così potrete conoscervi,
che ne dici?”
“No!”
Leo, che aveva abbandonato il tronco dell’albero, ci si aggrappò
di nuovo con tutte le sue forze.
La
donna si limitò a scuotere la testa e si allontanò adagio,
lasciando il bambino dove si trovava. Era solo questione di tempo,
poi si sarebbe abituato da solo al nuovo ambiente e presto avrebbe
addirittura smesso di chiedere dei suoi genitori.
§
Nella
sala d’aspetto c’era un unico quadro: L’origine del mondo, di
Gustave Courbet.
Richard
cercava di non guardarlo, ma periodicamente, come calamitato, lo
sguardo si fissava su quell’enorme vulva pelosa, che sembrava in
procinto di saltare fuori dal quadro per avventarglisi addosso e
divorarlo.
Si
mosse nervoso sulla sedia e rivolse lo sguardo a una porta chiusa
oltre la quale si percepiva un vago brusio.
A
parte quel sommesso mormorare, nella sala c’era un perfetto
silenzio, rotto solo dal ticchettare di una pendola scura in un
angolo.
L’uomo
spostò lo sguardo verso la finestra e lasciò vagare lo sguardo
all’esterno. Si chiese dove fossero Paula e Leo, se stessero bene.
Aveva cercato di contattare perlomeno il bambino, ma glielo avevano
sempre impedito. La prima volta era rimasto un’ora ad aspettare
davanti alla porta dell’assistente sociale, salvo poi sentirsi dire
che la dottoressa era uscita e lui doveva tornarsene a casa.
La
seconda volta era andato direttamente alla Comune Steineriana in cui
avevano collocato Leo, ma una tizia di nome Adorabile, o qualcosa del
genere, gli aveva detto che avrebbe potuto vedere il figlio solo nel
corso di incontri protetti.
Era
tornato dall’assistente sociale a chiedere l’autorizzazione agli
incontri, ma da lì era stato spedito alla Giudice Tutelare, che
ovviamente gliel’aveva negata almeno fino alle prime valutazioni
del suo andamento nei corsi di Rifiuto
della violenza e di
Consapevolezza di
Genere.
Come
se avesse mai fatto male a qualcuno, poi, o non sapesse distinguere
un maschio da una femmina.
Mentre
era immerso in quelle meditazioni la porta si aprì. Sulla soglia
comparve una giovane donna che gli disse: “Vieni, Richard.
L’avvocatessa acconsente a vederti.”
L’uomo
entrò in uno studio con le pareti tappezzate da imponenti librerie
cariche di volumi dalle rilegature rifinite d’oro. In fondo alla
stanza c’era una scrivania a cui sedeva una donna di circa
sessant’anni, con i capelli grigi e un tailleur scuro.
“Vieni
avanti,” lo invitò la donna.
Richard
raggiunse l‘unica sedia che si trovava di fronte all’imponente
mobile e ne afferrò lo schienale, ma l’altra freddamente lo
rampognò: “Non ti ho detto di sederti.”
“Chiedo
scusa,” si costrinse a rispondere Richard in tono sommesso,
mantenendo lo sguardo fisso sul tappeto.
L’avvocatessa
scorse alcune carte che la sua segretaria le aveva posto davanti,
quindi rialzò la testa e chiese: “E così, tu saresti quello che
ha plagiato e tenuto in stato di sottomissione psicologica moglie e
figlio?”
“Non
ho fatto niente di tutto questo,” rispose Richard a denti stretti.
“Sono
vent’anni che lavoro, ma non ho ancora sentito un maschio
ammettere di aver commesso un crimine,” fu la replica, proferita
con un sorrisetto sarcastico.
L’uomo
alzò la testa. “Perché, le femmine lo ammettono, invece?”
“Le
femmine non commettono crimini. Al massimo si difendono dalle
prevaricazioni dei maschi.” L’avvocatessa fece una pausa di
qualche secondo, poi chiese: “Tu perché sei qui, comunque?”
“Perché
sono innocente.”
La
donna gli rivolse uno sguardo di degnazione. “Nientemeno.”
“Non
c’è niente di vero nelle accuse che mi sono state rivolte. Io e
Paula stiamo bene insieme, ci amiamo. Nostro figlio Leo è la nostra
vita.”
“Forse
tu
starai bene,” replicò l’avvocatessa, “ma non c’è persona al
mondo che possa stare bene, sottomessa e plagiata fino a che la sua
volontà non viene distrutta.”
Richard
aprì la bocca per replicare, ma l’altra non gliene diede il tempo.
“Ho letto il tuo fascicolo,” gli disse. “Tu sei il genere di
uomo peggiore, che maschera dietro un ostentato, posticcio sentimento
d’amore il suo odio per la Femminilità. Vattene subito, oppure
prenderò in considerazione il tuo caso, ma solo per farti sbattere
fino alla fine dei tuoi giorni in un posto dove tu non possa più
nuocere alle donne.”
L’uomo
si trovò in strada senza nemmeno rendersi conto di come ci era
arrivato. Tirò fuori di tasca un foglietto sul quale c’era un
elenco di nomi e indirizzi, prese una matita smozzicata e tracciò
una riga sul primo.
Si
guardò intorno: un uomo stava spazzando il marciapiede, un altro
paio trasportavano dei pannelli di cartongesso su un carrello. Un
quarto emerse da un tombino coperto di fango nero, due donne che
passavano di lì si fecero indietro protestando per il cattivo odore
ed egli si affrettò a scomparire di nuovo nelle viscere della terra.
Raggiunse
il secondo indirizzo che si era segnato, suonò il campanello ed
entrò in un androne in stile moderno, con marmi, luce soffusa e
pannellature in vetro satinato.
L’avvocatessa
lo accolse seduta a un tavolo basso e decorato con piastrelle di
ceramica, che sembrava più adatto a un salotto che a uno studio.
Aveva capelli rossi lunghi e ondulati e un aderente abito nero, con
una scollatura che lasciava vedere una buona porzione del seno.
Quando
lo vide arrivare accavallò le gambe, mettendo in mostra calze
sostenute da giarrettiere di pizzo, e disse: “Vieni avanti,
Richard.”
Accompagnò
l’invito col movimento di un dito indice dall’unghia lunga e
laccata di rosso.
L’uomo
si avvicinò mantenendo lo sguardo sul pavimento e si fermò a un
paio di metri di distanza.
“Siamo
timidi?” lo provocò la donna.
Richard
non rispose.
“Eppure
sei un bel pezzo d’uomo. Quanto sei alto, un metro e novanta?”
“Uno
e novantacinque.”
“Hai
un bel fisico. Fai qualche sport?”
“Quelli
che facevo sono stati proibiti.”
L’altra
alzò le sopracciglia. “Capisco. Cose da maschi,
non è vero?” Si passò una mano su una coscia.
“Sport
di competizione,” rispose Richard con la sensazione di trovarsi su
un campo minato.
“Oh,
roba forte. Corso di Rifiuto
del Machismo
assicurato, non è vero?”
“Già.”
“È
per lo sport che sei qui?”
“No.”
“Per
che cosa, allora?”
Richard
raccontò tutta la questione. Alla fine alzò fugacemente lo sguardo
e vide che la donna lo stava fissando con interesse. “Puoi fare
qualcosa per me?” le chiese. Poi, dopo una pausa: “Troverò i
soldi necessari.”
L’avvocatessa
lo squadrò dalla testa ai piedi, poi gli disse: “Possiamo metterci
d’accordo.”
L’uomo
aggrottò le sopracciglia. “In che senso?”
“Diciamo
che non è necessario che tu mi paghi in denaro.” Con un gesto
apparentemente casuale, la donna si passò la lingua sulle labbra
color carminio.
Richard
strinse i pugni. Alzò lo sguardo fino a fissarlo in quello della sua
interlocutrice e lentamente rispose: “Diciamo che io non sono in
vendita.”
L’altra
non si lasciò turbare dalla frase tagliente. “Lo sai che io ti
potrei accusare di molestie, vero?” lo informò, col tono leggero
di una banale conversazione. “Pensi che troveresti qualche
avvocatessa disposta a difenderti?”
“Non
sono in vendita,” si limitò a ripetere l’uomo, quindi le girò
le spalle e uscì dalla stanza.
Procedette
poi verso l’androne e da lì in strada, sempre aspettandosi di
sentire uno strillo alle sue spalle, o di vedersi arrivare contro un
gruppo di Guardie Rosa
contro lo Stupro
armate di taser e manganelli.
Non
accadde nulla di ciò che temeva.
Quando
fu a un’adeguata distanza dal palazzo dell’avvocatessa, si lasciò
cadere su una panchina e per un po’ rimase semplicemente fermo a
pensare, con i gomiti puntati sulle cosce e la testa fra le mani. Si
chiese per l’ennesima volta dove fossero Leo e Paula, se stessero
bene.
Si
chiese come fosse cominciato tutto quanto e si accorse di non
riuscire a darsi una risposta.
Ripensò
all'avvocatessa. Avrebbe dovuto accettare? Qualche scopata in cambio
della difesa non era forse un prezzo che un padre avrebbe potuto
pagare per riavere suo figlio? Si sentì un egoista.
Involontariamente
rialzò lo sguardo verso la direzione da cui era venuto, ma per
quanto cercasse di far appello a logica e senso pratico, non riusciva
a convincersi che cedere a certe proposte fosse la scelta migliore. A
prescindere da orgoglio e dignità personale, cui sarebbe anche
passato sopra, pur di riavere Leo e Paula, come avrebbe potuto, ad
esempio, esigere il rispetto dell'accordo? Era un uomo, non aveva
diritti, chiunque – a maggior ragione una celebre avvocatessa –
avrebbe potuto accusarlo di molestie e lui non avrebbe avuto voce in
capitolo per replicare.
Con
un sospiro tirò fuori di tasca il foglietto, su cui rimaneva un solo
nome.
La
terza avvocatessa era anche la più celebre. Aveva uno studio in
pieno centro, in un palazzo dall'aria prestigiosa.
Il
portone d'ingresso dell'edificio era di legno scuro, con due enormi
battenti di ottone lucidato a specchio. L'androne era così grande
che ogni rumore, dai passi a un colpo di tosse, produceva
un'inquietante serie di echi. Il pavimento era di marmo pregiato,
così come le colonne e le pannellature delle pareti. Le rifiniture
erano in bronzo.
Per
terra correva una passatoia rossa fermata da stecche di ottone.
Richard
si guardò intorno vagamente intimidito, poi identificò l'ascensore,
vi entrò e premette il bottone corrispondente all'ultimo piano.
Sbucò
direttamente in una sala d'aspetto con sedie antiche allineate lungo
le pareti. Dal centro del soffitto pendeva un lampadario tutto pieno
di volute e riccioli, con scintillanti gocce di cristallo. Appesi al
muro c'erano solo due grandi paesaggi, uno con delle montagne e uno
con un lago al tramonto, racchiusi in imponenti cornici dorate.
Accanto
a una porta chiusa si trovava una scrivania, dietro la quale sedeva
una ragazza dall'aria seriosa.
Richard
la raggiunse, declinò le sue generalità e il motivo per cui si
trovava lì. La ragazza non fece altro che indicargli una delle
sedie, quindi premette un pulsante e si piegò a parlare a bassa voce
in un microfono. Scambiò qualche frase che lui non riuscì ad
afferrare, quindi rivolse lo sguardo verso di lui e disse:
“L'avvocatessa ti riceverà fra poco.”
“Grazie,”
rispose Richard, ma la ragazza non lo degnò di ulteriore attenzione.
Passò
circa mezz'ora. Nella sala c'era silenzio, a parte il crepitare della
tastiera o il raro cigolio della sedia girevole della segretaria. Al
di là della porta non si udiva il più piccolo rumore.
L'uomo
si guardò le mani indurite dal lavoro, quindi fece girare lo sguardo
sulla stanza: tutto trasudava soldi, compreso l'abito della ragazza,
che era del genere che sua moglie aveva sempre desiderato ma non si
era mai potuta permettere. Si chiese come avrebbe fatto, con il suo
misero stipendio da maschio, a pagare la parcella.
Era
così perso nei suoi ragionamenti che la voce della segretaria lo
fece quasi sussultare. “L'avvocatessa acconsente a vederti,” lo
informò, con l'aria di considerare la cosa come una strana
eccentricità della suddetta.
Richard
alzò lo sguardo: la porta si era aperta e da essa stavano uscendo
due donne che si tenevano a braccetto. Le due lo oltrepassarono senza
degnarlo di uno sguardo e scomparvero nell'ascensore.
Egli
a questo punto si alzò ed entrò nello studio. L'avvocatessa era in
piedi in mezzo alla stanza, era evidente che si era alzata per
accompagnare le due precedenti clienti alla porta. Era una donna alta
e snella, poteva avere cinquant'anni ottimamente portati. Aveva i
capelli biondi tagliati corti e niente trucco, cosa che comunque
quasi non si notava, data l'incisività dei suoi lineamenti decisi.
Dava l'idea di essere una che non mollava fino a che non aveva
ottenuto quello che voleva.
Se
ne sentì rinfrancato, ma al tempo stesso intimidito: ricevere le
avances di una del genere e rifiutarle non doveva essere un atto
privo di conseguenze.
La
donna attese che lui si fosse avvicinato, quindi gli tese la mano.
“Nit mi ha detto che hai bisogno di un consulto,” esordì mentre
lui gliela stringeva.
“Veramente,
ho bisogno di assistenza legale,” fu la risposta.
La
donna lo fissò attenta, stringendo appena gli occhi. Due rughe
verticali le comparvero alla radice del naso. “Siediti,” disse
indicando una seggiola posta davanti a un'imponente scrivania di
legno scuro, quindi aggirò il mobile e si accomodò a sua volta. “Ti
ascolto,” disse poi.
Richard
spiegò tutto, cercando di raccontare le cose in modo più possibile
neutro e imparziale. Mentre parlava cercava di leggere l'espressione
della donna, che però rimaneva insondabile.
Quando
il racconto finì, ella rimase a fissarlo in silenzio.
Lui
si agitò nervoso sulla sedia. Il silenzio era perfetto, la donna
rimaneva immobile con gli occhi fissi su di lui. “Puoi aiutarmi?”
le chiese alla fine, già aspettandosi di venire scacciato come
l'ultimo dei porci e degli stupratori.
Contrariamente
alle previsioni, l'avvocatessa rispose: “Ti costerà parecchio.”
“Non
sono in vendita,” si sentì in dovere di precisare.
La
donna assunse un'espressione sprezzante, quindi gli disse: “Sei un
maschio. Nulla di ciò che hai da offrire, a parte i soldi, può
interessarmi.”
“Quanti
soldi?” chiese Richard.
“Cinquemila
per cominciare, e poi mille ogni volta che dovrò intervenire.”
“Cinquemila?”
mormorò lui smarrito. Si era immaginato molti
soldi, ma non avrebbe mai pensato che ne occorressero così tanti.
“Per
cominciare,” precisò lei impassibile, “e non ti garantisco il
risultato, il tuo è un caso dei peggiori. Fammi comunque avere tutti
gli incartamenti, quando mi porti i soldi.”
“Va
bene.”
“Ora
vattene, devo lavorare.”
§
I
gomiti appoggiati al bancone, un bicchiere vuoto davanti a sé,
Richard emise un sospiro e disse: “E così, adesso devo trovare
quei cinquemila, per cominciare.”
Al
suo fianco, Brunn chiese: “Ti ha dato qualche speranza di
riuscita?”
“No,
ha detto solo che è un caso dei peggiori.”
“E
allora?”
Richard
chinò il capo. Gli occhi fissi sul bicchiere vuoto, rispose: “Io
ci devo almeno provare, capisci? Io rivoglio la mia famiglia.” Si
voltò verso Brunn e proseguì: “Noi stavamo bene insieme. Io e
Paula ci amiamo, Leo è la nostra vita. Niente di quello che hanno
detto su di noi è vero e io mi rifiuto di piegare la testa di fronte
a questa ingiustizia, mi rifiuto di passare da porco e violento
quando non lo sono mai stato in tutta la mia fottuta vita.”
L'altro
rimase in silenzio.
“Io
ho il diritto di far sentire la mia voce,” insisté Richard alzando
il tono, “ho il diritto di dimostrare la mia innocenza!”
Brunn
a questo punto si girò fino a fronteggiarlo. La luce che cadeva
dall'alto era schermata dalla visiera del berretto da baseball,
quindi il suo viso rimaneva in ombra. Di esso si notavano solo gli
occhi chiari e la barba, così lunga da arrivare fin sul petto.
“Continui a non capire,” disse lentamente. “Tu non hai nessun
diritto, qui, se non quello di piegare la testa.”
Richard
strinse i pugni. “Non può essere così. Io non ho fatto niente.”
“Dimostralo.”
“Lo
farò!”
“Come?
Con che soldi? Quale giuria accetterà di giudicarti per quello che
hai fatto veramente e non per quello che rappresenti?”
Richard
non rispose, le nocche sbiancarono. L'altro attese qualche secondo,
poi gli batté la mano sulla spalla e disse: “Non è così
dappertutto, amico.”
Il
primo sollevò su di lui uno sguardo torvo. “So cosa stai per
dire,” lo avvisò, “ma io non lascio mia moglie e mio figlio.”
“Tra
un po' saranno loro a lasciare te.”
“Non
dire stronzate. Perché dovrebbero lasciarmi?”
“Perché
cominceranno a pensare come loro.”
“Impossibile.”
Brunn
si limitò a un'alzata di spalle. Fece un cenno a Lonnie perché
riempisse i due bicchieri ormai vuoti, quindi abbassò gli occhi sul
proprio. Dopo un po' disse: “Una volta io ero come te. Pensavo che
si potesse parlare, che ci si potesse confrontare.”
Fece una breve pausa, poi ripeté: “Confrontare. Una parola che
piace molto, ma che attualmente ha perso ogni significato. Perché o
dal confronto esce che le donne sono quel che adesso dicono di
essere, oppure vieni bollato come maschio fallocratico affamato di
predazione e conquista e il confronto finisce lì.”
“E
la verità? Dovrà pur venire fuori la verità, prima o poi.”
“Dire
la verità può essere uno sforzo inutile, soprattutto se non c'è
nessuno che vuole sentirla.”
Di
nuovo calò il silenzio. In sottofondo si sentivano un vago brusio e
una musica fioca. Richard bevve un sorso di bourbon e rimase a
rigirarsi il bicchiere fra le dita, gli occhi fissi sul liquido
ambrato che si agitava a seconda dei movimenti del recipiente.
Gli
giunse di nuovo la voce di Brunn: “Pensa a quello che ti ho detto.”
“Non
lascio mia moglie e mio figlio.”
“Non
puoi più fare niente per loro, ma non te ne rendi ancora conto.
Pensi che quell'avvocatessa ti aiuterà?” Fece un gesto sprezzante.
“Stronzate. Non conta chi ha veramente ragione, conta quello che
serve a rinsaldare il loro potere.”
“Io
comunque voglio provarci.”
Brunn
scosse la testa, poi disse: “L’uomo crede di volere la libertà.
In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo
obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano
rischi.”
“Beh,
io la mia decisione l'ho presa, amico. Me li riprenderò e poi ce ne
andremo tutti insieme in questo posto di cui parli sempre.”
Brunn
scosse di nuovo la testa e quando Richard fece per replicare, si
limitò a vuotare il bicchiere. Dopodiché buttò sul bancone un paio
di banconote e disse: “Pensaci, quando ti troverai sbattuto in
prima pagina come il mostro di turno, quando tua moglie ti sputerà
in faccia perché sei uno sporco sciovinista e tuo figlio non si
ricorderà nemmeno come ti chiami. Pensaci, e nel caso vieni a
cercarmi.”
§
Richard
appoggiò il martello sul bancone, si pulì le mani sporche di grasso
con uno straccio e si diresse verso un ufficio separato dall’officina
tramite pareti di vetro. Al di là, seduta a una scrivania, una donna
stava compilando dei moduli e ogni tanto sollevava lo sguardo per
controllare gli operai.
L’uomo
si avvicinò e bussò cautamente alla porta.
La
donna gli fece cenno di avvicinarsi. “Non sporcare per terra,” lo
accolse.
“Va
bene.”
Richard
rimase in piedi davanti alla scrivania. l’altra finì di compilare
il modulo, lo mise da una parte poi chiese: “Cosa vuoi?”
“Avrei
bisogno di fare qualche turno in più.”
La
donna aggrottò le sopracciglia. “perché?”
“Mi
servono soldi.”
“Ah,
soldi. E cosa ci vuoi fare con i soldi?”
“Ne
ho bisogno.”
“Ma
certo, lo immagino. Ti vorrai comprare roba proibita sottobanco.
Guarda che se ti becco con della mercificazione del corpo femminile
ti segnalo immediatamente alla Commissione
per la Consapevolezza di Genere,
e ci penseranno loro a raddrizzarti.”
“Vorrei
fare dei turni in più,” si limitò a ripetere Richard.
La donna lo scrutò stringendo
gli occhi. “Non è che te ne vuoi stare qua a bighellonare con i
tuoi colleghi uomini mentre tua moglie a casa deve sobbarcarsi tutti
i lavori?”
L’altro lanciò un’occhiata
all’officina, in cui i pezzi più leggeri che venivano movimentati
pesavano quaranta chili, e disse: “No, ho solo bisogno di soldi.”
“Va
bene, ti puoi fermare per un’ora dopo ogni turno.”
“Posso
fermarmi due ore?”
“No,
una. E poi te ne torni a casa difilato. Non voglio certo contribuire
a creare una figura di padre assente e disinteressato.”
Richard piantò la vanga nel
terreno in modo che non cadesse, quindi si asciugò il sudore dalla
fronte e disse: “Ho finito.”
“Di
già?” Una donna si avvicinò e scrutò critica la terra rivoltata
di fresco. Spostò una zolla con la punta del piede e chiese: “Sei
stato veloce. Sei andato in profondità come ti avevo chiesto?”
“Sì.”
“Fammi
controllare.”
“Sono
andato giù per quaranta centimetri.”
“In
così poco tempo? Non è che hai vangato solo la prima parte e nel
resto ti sei limitato a togliere lo strato d’erba?”
“No,
ho fatto il lavoro correttamente.”
La donna fece una risatina. “Un
lavoro corretto fatto da un uomo devo ancora vederlo.”
“Questo
è fatto come si deve,” replicò Richard con una punta di durezza
nella voce.
“Siamo
suscettibili, eh? Ma è scientificamente provato che il cervello
maschile non è in grado di organizzare i lavori complessi, quindi è
inutile che tu faccia l’offeso se voglio controllare.”
L’uomo non disse nulla,
limitandosi a calcolare mentalmente la cifra che avrebbe raggiunto
con il pagamento di quell’ultimo lavoro.
Era desolatamente bassa.
“Potresti
darmi i soldi, per favore?” chiese. “Devo pulire una piscina
prima che faccia buio.”
La donna contò alcune banconote
e gliele porse, Richard si affrettò a farle sparire nella tasca
anteriore della salopette, che poi chiuse con cura. “Ora scusami,”
disse, “ma devo andare.” Corse fuori prima di sentire la risposta
della donna.
§
Richard scese da uno sgangherato
autobus azzurro – quelli riservati ai maschi – poi si incamminò
lungo un vialetto con alberi sui due lati. Raggiunse un alto muro di
cinta, dietro il quale si intravedevano in lontananza i tetti di
un’imponente costruzione. Si avvicinò a un portone di ferro e
cercò di scrutare al di là. Subito si udì il ronzio di un
cicalino, si attivò l’occhio rosso di una telecamera e da un
altoparlante provenne una voce femminile che ruvidamente disse: “Cosa
stai facendo? Guarda che stiamo filmando e registrando. Prova a
muoverti e ti becchi una denuncia!”
L’uomo si irrigidì. “Vorrei
vedere Paula.” spiegò.
“Paula,
chi?”
“Paula.
Dovrebbe essere da voi per un decreto della Giudice Tutelare.”
Ci fu qualche istante di
silenzio, poi la voce chiese: “Tu chi saresti?”
“Suo
marito, Richard.”
“Ah,
il porco sciovinista.”
L’uomo si costrinse a non
replicare. “Posso vederla?” chiese dopo un po’.
“Neanche
per sogno. Le hai già fatto abbastanza male.”
Richard alzò lo sguardo verso la
telecamera, come per fissare un’eventuale interlocutrice, quindi
disse: “Ho un permesso delle assistenti sociali.”
“Fa’
vedere.”
L’uomo trasse di tasca un
foglio accuratamente piegato in quattro, lo spiegò e lo sollevò
verso l’occhio elettronico. Dall’altoparlante provenne una risata
sprezzante, quindi la voce disse: “Chiunque potrebbe falsificare
uno di quelli, persino un maschio. Andrò a fare una telefonata a chi
di dovere.”
Trascorse un tempo imprecisato,
che Richard impiegò passeggiando su e giù davanti al portone. Fece
un altro tentativo di guardare attraverso una fessura, ma di nuovo la
telecamera si attivò e lo puntò, cosa che lo convinse ad arretrare
immediatamente.
Alla fine, dall’altoparlante la
voce lo informò: “Mi hanno confermato il permesso.”
“Posso
entrare?”
“Qui
non entrano maschi. Aspetta qui, se Paula acconsente a parlarti
verrà, altrimenti te ne puoi andare.”
Si udì uno scatto metallico e nel
portone si aprì un finestrino munito di una grata.
“Non
provare a toccarla,” lo ammonì la voce, “non passarle niente e
ricordati che stiamo filmando e registrando.”
Di nuovo, Richard alzò lo
sguardo verso la telecamera e chiese: “Che cos’è, un carcere?”
“No,
è un luogo puro, in cui la femminilità non è contaminata dalla
presenza dei maschi e può esprimersi in tutta la sua meravigliosa
pienezza.”
Passò altro tempo. L’uomo si
piegò per dare un’occhiata attraverso il finestrino e vide un
immenso parco fiorito. In lontananza c’erano donne con abiti lunghi
e capelli sciolti che fluttuavano al vento. Esse parevano indaffarate
a completare una specie di grande disegno colorato che stava
prendendo forma sul pavimento.
Una delle donne si staccò dal
gruppo, e prima ancora che si girasse verso di lui, Richard riconobbe
la tonalità di biondo che tanto amava. Sentì il cuore balzargli nel
petto.
“Paula!”
chiamò. Si accorse di avere il respiro accelerato per l’emozione.
“Paula!”
La donna alzò la testa e scrutò
nella sua direzione come se l’avesse sentito. La immaginò
stringere gli occhi come faceva di solito.
“È
un po’ miope,” disse fra sé e sé, ma sembrò che lo stesse
confidando a chi lo stava ascoltando attraverso il sistema di
sicurezza.
Istintivamente allungò una mano
verso la grata, ma subito la voce lo avvertì: “Vuoi uno shock
elettrico nelle palle?”
Fece un passo indietro.
Paula nel frattempo si stava
muovendo nella sua direzione. Si chiese perché non corresse. Lui
avrebbe corso con tutte le sue forze, se fosse stato al suo posto.
La fissò con apprensione, ma non
sembrava sofferente. I suoi movimenti avevano la fluidità di sempre,
il volto era liscio e rilassato. “Paula!” ripeté. La donna alzò
a malapena la testa.
Si fermò a un metro dal cancello
e solo a quel punto, in tono calmo, disse: “Ciao, Richard.”
“Paula,
tesoro!” Di nuovo l’uomo tentò di avvicinarsi alla grata,
ricordandosi solo all’ultimo momento della proibizione. “Paula,
come stai?”
La donna gli sorrise. “Bene, e
tu? Come te la cavi a casa da solo?”
“Mi
mancate da morire.”
Paula annuì quasi con
indulgenza.
“Sto
facendo di tutto per farvi tornare, sai? È stato un clamoroso
errore, e io lo dimostrerò. Sono andato dall’avvocatessa migliore
della città.”
“Non
dovevi disturbarti.”
“Stai
scherzando? Io non vedo l’ora che tutto torni come prima, tesoro.
Non vedo l’ora di riavere te e Leo a casa.”
Di nuovo la donna annuì appena,
poi gli disse: “Le cose non torneranno più come prima, caro.”
Richard si trovò a deglutire,
spiazzato dalla strana risposta. “Che cosa intendi?” le chiese
diffidente.
Lei alzò le spalle. “Niente. È
che qui si impara a vedere le cose sotto un aspetto diverso.”
“Cioè?”
“Niente.”
Poi, dopo una pausa: “Come va il lavoro? Ti vedo stanco.”
“Bene,
non preoccuparti. Sto solo facendo un po’ di straordinari per
prendere qualche soldo in più.”
Lei
sorrise di nuovo, con la brezza che le agitava appena i capelli.
Qualche filo dorato le rimase impigliato nelle labbra. Richard si
sentì pervadere da una strana apprensione: sua moglie aveva un
aspetto vago, remoto.
Gli dava l’impressione di guardare la fotografia di una persona
molto amata ma ormai scomparsa.
La sua voce lo richiamò alla
realtà: “Ora devo andare.”
“Di
già, tesoro?” Notò che non si era sentito alcun richiamo e che
nessuna delle donne che si muovevano sullo sfondo sembrava fare caso
a lei.
“Devo
aiutare a finire il mandala. È molto rilassante e aiuta a elaborare
le emozioni. Grazie a quello, le donne violate dall’odio imparano a
riappropriarsi della loro dignità.”
L’uomo
si costrinse a ignorare quella strana frase. “Non
mi hai detto niente di te, Paula. Come ti trattano, cosa fai...”
“Devo
andare,” lo interruppe la donna. “A presto, Richard,” si girò
e prese ad allontanarsi senza fretta, come se si fossero salutati in
una mattina qualsiasi, prima di recarsi ognuno al rispettivo lavoro.
Richard rimase a guardarla fino a
che lo sportellino metallico non si richiuse con un tonfo, facendolo
sussultare per la sorpresa.
“Adesso
vattene!” ordinò brusca la voce.
Marvellous gli indicò una sedia
bassa, che sembrava provenire dall’arredamento di una classe. “Puoi
sederti qui,” gli disse.
Richard ci si accomodò a fatica,
finendo per trovarsi praticamente con le ginocchia contro il mento.
“Quando arriva Leo?” chiese.
Per tutta risposta, Sam accese un
monitor che si trovava su un tavolino e sullo schermo comparve una
stanzetta piccola, con il linoleum sul pavimento e le pareti verde
chiaro, arredata con un banco di scuola e un paio di sedie come
quella su cui sedeva lui.
L’uomo alzò lo sguardo
sull’assistente sociale e chiese: “Che significa?”
“Procedura
di prevenzione degli acting-out.”
“Avevo
chiesto di vederlo,” protestò Richard. “Ci siete voi a
sorvegliarmi, e poi con un’eventuale azione inconsulta avrei tutto
da perdere. Voglio vedere mio figlio di
persona.”
Sam scosse la testa e in tono
neutro lo informò: “È statisticamente dimostrato che gli uomini
reagiscono alle situazioni di forte stress emotivo con passaggi
all’atto. Dobbiamo tutelare il bambino.”
“Dovete
tutelarlo da me?
Ma io sono suo padre.”
“L’analisi
del disegno di Leo e i risultati dei test hanno dimostrato che sei
una persona violenta e impulsiva.”
“Un
momento,” chiese Richard in tono diffidente, “quali test?”
Ma non fece in tempo a sentire la
risposta, perché la porta della stanza che si vedeva nel monitor si
aprì e da essa, tenuto per mano da una donna, entrò il bambino.
“Leo!”
esclamò Richard. “Leo, mi vedi? Riesci a vedere papà?”
Il piccolo sorrise e corse verso
il monitor. “Papà!” esclamò. “Papà, quando andiamo via?”
“Presto,”
gli assicurò l’uomo, faticando per mantenere la voce normale.
“Prestissimo. Papà è andato da un’avvocatessa, sai?
un’avvocatessa molto brava, che ci aiuterà a tornare insieme.”
“Io,
te e la mamma?”
“Sì,
tutti noi insieme,” rispose di getto l’uomo, cercando di ignorare
la sensazione di disagio che il colloquio con la moglie gli aveva
lasciato.
“Papà,
qui sono tutti strani,” lo richiamò la voce del figlio. “Delle
volte ci fanno stare senza vestiti e poi non ci danno neanche un po’
di ciccia.”
“Davvero?”
“Neanche
un po’,” ripeté il bambino facendo il broncio. “Io gli ho
detto che tu la sai fare tanto buona, che se mai potevo chiamarti,
che tu glielo insegnavi anche a loro, come si fa, ma mi hanno detto
che le mucche piangono tanto tanto.” Fece una pausa. “È vero che
piangono, papà?”
“Beh...”
Richard sentì su di sé lo sguardo severo delle due assistenti
sociali.
Per fortuna, il bambino cambiò
discorso e gli chiese: “Quando posso tornare a casa?”
“Ecco…
ci vorrà ancora un po’.”
“Ma
quanto? Io voglio tornare con te e la mamma, non mi piace stare qui.”
“Devi
avere pazienza, Leo,” sospirò l’uomo. “Vedrai che quando
tornerai a casa faremo una bella festa.”
“Con
la ciccia?” chiese il bambino fissandolo speranzoso.
La donna che lo accompagnava a
quel punto si piegò su di lui e disse: “Lo sai cosa fa la ciccia,
Leo? Ti fa tanta bua alla pancia, perché quando la mucca muore sente
tanto male e quel male rimane dentro la sua ciccia.”
Il bambino si voltò a fissarla
con apprensione. “Davvero?”
“Sì.
La mucca, poverina, soffre tanto. Le danno una botta proprio qui,
sulla testa, e l’osso fa crack!
e si rompe in due. E il cervello della mucca, lo sai che cosa fa? Il
cervello esce tutto dai buchi del naso, insieme al sangue. E intanto
gli uomini cattivi che le hanno dato una botta in testa la legano per
un piede e la sollevano, e poi le aprono la pancia, ma la mucca non è
mica ancora morta...”
Il bambino scoppiò in un pianto
disperato. “Papà!” urlò fra i singhiozzi.
“Ehi,
ma che accidenti state dicendo a mio figlio?” sbottò Richard
sollevandosi per metà dalla sedia.
Per
quanto fosse dall’altra parte del monitor, la donna che
accompagnava Leo si fece indietro. “Tu sei un violento!” strillò.
“Sei un prevaricatore, uno che non consente agli altri di esprimere
le loro opinioni!”
“Certo
che no,” replicò l’uomo, incurante dei richiami delle assistenti
sociali. “Se le tue cosiddette opinioni sono racconti del terrore
che fanno piangere mio figlio!”
“Deve
sapere la verità! Deve sapere cosa succede agli animali che voi
carnivori uccidete!”
“È
solo un bambino, cazzo!”
A
quel punto, la burrosa Marvellous saltò su come punta da una vespa e
in tono tagliente disse: “Ma certo, quando le cose si mettono male,
voi maschi frustrati tirate subito fuori il vostro fallo, eh? Lo
ostentate.
Pensate che quell’insulso pezzo di carne vi renda superiori a noi,
non è vero?”
Dall’altra
parte del monitor, il bambino continuava a piangere. La donna che era
con lui gli stava dicendo: “Bravo, tesoro, fai bene a sfogarti.
Questo non riporterà certo in vita i poveri animali uccisi, ma
almeno ti aiuterà a empatizzare con il loro dolore. Lo sai cosa vuol
dire empatizzare, caro?”
§
Di
nuovo a casa – una casa straordinariamente silenziosa e vuota,
senza Leo e Paula – Richard si lasciò cadere sul divano e per un
po’ rimase semplicemente sdraiato a occhi chiusi. Il gruzzolo che
stava con fatica racimolando cresceva con una lentezza esasperante,
mentre le visite a sua moglie e a suo figlio gli avevamo fatto capire
con spietata chiarezza che l’intervento dell’avvocatessa non
poteva essere differito ulteriormente.
Si
voltò e fissò lo sguardo su un quadro che rappresentava bambine di
vari colori con tuniche arcobaleno impegnate in un festoso girotondo.
Non
era quell’immagine che gli interessava, ovviamente.
Dietro
di essa era nascosta la cassaforte, all’interno della quale c’era
l’ultimo ricordo della sua famiglia, l’ultima testimonianza
delle sue origini.
Emise
un lungo sospiro. Non aveva mai visto il luogo che una volta era
chiamato Baviera, ma suo padre gliene aveva parlato così spesso che
gli sembrava di esserci cresciuto.
Se
chiudeva gli occhi, riusciva a immaginare montagne inviolabili dalle
vette coperte di neve, che si stagliavano contro cieli di un azzurro
purissimo, oppure prati costellati di fiori, o stelle alpine che
spuntavano tra le rocce.
Se
si concentrava, riusciva persino a sentire il canto del vento tra le
vette o il grido acuto dell’aquila.
Andò
alla ricerca del telefono, compose un numero.
Dall’altra
parte, una voce maschile disse: “Pronto?”
“Jack?”
“Sì,
chi parla?”
“Sono
io. Ti interessa ancora quella cosa?”
Ci
fu qualche secondo di esitazione, poi giunse la risposta: “Sì,
certo. Hai deciso di venderla, finalmente?”
“Sì.
Il prezzo è sempre quello che mi avevi proposto?”
“Certo.
Se è autentica, naturalmente.”
“Lo
è. Dove ci troviamo?”
“Il
posto che avevamo pattuito. Domani sera va bene? Mi serve un po’ di
tempo per recuperare tutti quei contanti.”
“D’accordo.”
Richard
chiuse la comunicazione, poi fissò di nuovo lo sguardo sul quadro
col girotondo. Non
ereditiamo il mondo dai nostri padri,
c’era scritto sotto, lo
prendiamo in prestito dai nostri figli.
Gli
era sempre parsa una stronzata.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Salve a tutti/e,
e
con questo capitolo concludiamo la vicenda del Mondo dell’Amore.
Ringrazio tantissimo tutti cloro che sono passati da queste parti,
che hanno dato un’occhiata o mi hanno messo in qualche lista e
ringrazio con particolare calore tutti quelli che si sono fermati a
lasciarmi il loro parere e a darmi innumerevoli spunti di riflessione
su questo mondo che è sì distopico, ma non poi tanto lontano da
quello che stiamo vivendo adesso.
Capitolo
4
“Pronto?
Sono Nit, la segretaria dell’avvocatessa.”
Come
tutte le volte che riceveva una telefonata dallo studio legale,
Richard sentì il cuore saltargli un battito. Scese dall’autobus su
cui stava tornando a casa e si fermò in un angolo riparato del
marciapiede. “C’è qualcosa di nuovo?” chiese poi con
apprensione.
“L’avvocatessa
rinuncia a difenderti.”
L’uomo
sentì il sangue abbandonargli il volto. “Rinuncia a difendermi?”
ripeté, quasi sperando che la ragazza gli dicesse che aveva capito
male.
“Esatto,”
disse invece lei.
“Ma…
ma perché?”
“L’avvocatessa
non è tenuta a spiegarti il motivo.”
Richard
aggrottò le sopracciglia e in tono duro disse: “Voglio vederla.”
Subito
Nit replicò: “Non cercare di esercitare la tua aggressività
fallica su di me. La telefonata è registrata e se continui con i
tuoi atteggiamenti intimidatori ti denuncio.”
“Posso
sapere almeno perché l’avvocatessa non vuole più seguire il mio
caso?” chiese Richard, nel tono più calmo che riuscì a tirare
fuori.
“Ti
ripeto che non è tenuta a dirtelo.”
L’uomo
emise un sospiro sconfitto, quindi disse: “Va bene. Quando posso
passare a riprendere i soldi e i documenti?”
“I
documenti ti verranno recapitati per posta, l’avvocatessa non ti
vuole in studio.”
“E
i soldi?”
“L’avvocatessa
non ti deve restituire niente, l’anticipo che hai lasciato è
servito per pagare le prime spese.”
“Cosa?
Cinquemila arcobaleni per...”
Si
accorse che dall’altra parte proveniva solo il segnale di linea
libera. Provò a rifare il numero, ma non ebbe alcuna risposta.
Rimase
fermo sul marciapiede, con il telefono in mano e la sensazione che il
mondo gli fosse appena caduto addosso. Si guardò intorno, ma nessuno
faceva caso a lui.
Stavano
calando le prime ombre della sera, la gente camminava rapida e
intenta. Le vetrine dei negozi proiettavano a terra pennellate di
luce multicolore.
Richard
rimase per un po’ fermo a guardare i passanti: avevano tutti l’aria
di voler tornare a casa prima possibile. Immaginò famiglie felici,
pronte a riunirsi intorno al tavolo per il pasto serale. Immaginò
profumi di cucina e suono di risate.
Affondò
le mani nelle tasche e arretrò fino ad appoggiare la schiena al
muro. Rimase fermo un tempo imprecisato, mentre la luce calava sempre
di più e i passanti diventavano sempre più rari.
Quando
si decise a muoversi, la strada era deserta e rischiarata solo dai
lampioni. Gli autobus ormai non passavano più, quindi si rialzò il
bavero del giaccone, ingobbì le spalle per proteggersi dal vento
freddo che spirava e si incamminò verso casa.
Gli
fu chiaro già dal fondo della strada che qualcosa non andava:
c’erano più macchine del solito intorno a casa sua, il vento
portava con sé un vago brusio. Nel buio baluginò il lampo di una
torcia, che delineò per un attimo sagome di corpi.
Si
appiattì in una rientranza del muro e dall’ombra rimase a
osservare in silenzio.
Quando
i suoi occhi si furono maggiormente abituati all’oscurità, egli
riconobbe una squadra di Riduzione
dei Conflitti.
Udì
lo sfrigolare sinistro di un taser ad alto voltaggio.
“Lo
becchiamo mentre dorme,” disse una voce.
“Sei
sicura che sia dentro?” chiese un’altra.
“È
tutto spento. Sarà a letto.”
“Avrà
approfittato della mancanza della moglie per spassarsela, ovviamente.
Beh, becchiamo anche la tizia che c’è con lui.” Pausa. “O il
tizio.”
Alla
frase seguì qualche risatina soffocata.
“È
quello della bandiera?” chiese una terza voce.
“Già.
Essendo un maschio è stupido, quindi non ha pensato che dopo le sue
belle prodezze da fascista l’avremmo tenuto d’occhio. L’altro
l’abbiamo già beccato, adesso tocca a lui.”
“Sciovinista
di merda. Una bella Rieducazione,
di quelle toste, non gliela leva nessuno.”
“Ma
prima gli rieduchiamo
le palle finché non sono come due hamburger, a quello stronzo.”
Qualcuna
ridacchiò.
“Giusto,
non si merita altro,” fu la conclusione.
Richard
rimase immobile. Aspettò che le donne facessero saltare la serratura
di casa sua e aprissero la porta, quindi prese ad arretrare
lentamente. Nel frattempo, cercava di farsi un quadro della propria
situazione: ovviamente non poteva più rientrare in casa, dal momento
che probabilmente sarebbe stata sorvegliata giorno e notte. Aveva
solo i vestiti che indossava, un telefono mezzo scarico del quale
sarebbe stato saggio disfarsi il prima possibile, i documenti, che
avrebbero dovuto fare al più presto la stessa fine, e il po’ di
soldi che aveva messo insieme con i lavori extra della giornata.
Si
chiese cosa sarebbe stato meglio fare. Una persona di buon senso –
il genere di buon senso che veniva insegnato nelle scuole – gli
avrebbe suggerito di costituirsi, ammettere il proprio errore,
affrontare il percorso di consapevolezza che lo avrebbe portato a non
ripeterne in futuro e riprendere infine il suo posto nella società
come uomo nuovo, finalmente libero da idee scioviniste e
fallocratiche.
Sarebbe
stato molto facile: scusate,
sono qui. Ho capito di avere sbagliato, ho capito che il mio assurdo
atteggiamento di prevaricazione patriarcale, dettato da miei
conflitti irrisolti, ha generato solo sofferenza nelle persone che
amavo e ora sono pronto ad assumere un nuovo ruolo, di parità
consapevole e amore rispettoso, nella società.
Gli
tornò in mente il tizio del talk-show di Zelda, quello che si era
tagliato il cazzo.
Prese
ad arretrare lentamente, un passo dopo l’altro, e sentiva che ogni
volta che muoveva il piede all’indietro, un pezzo della sua vecchia
vita si sgretolava e scompariva. Il suo lavoro si volatilizzava, la
sua posizione di marito e padre anche. Le valutazioni dei corsi che
gli avevano imposto scomparivano come neve al sole.
Ora
c’erano solo lui e la sua volontà di affermare se stesso.
La
squadra frattanto aveva fatto irruzione in casa sua. Un paio di
finestre si illuminarono, il lampo azzurro di una scarica elettrica
ne accese una terza per un attimo. Anche dalla distanza che aveva
raggiunto udì il rumore di suppellettili infrante.
Si
girò per allontanarsi più velocemente, e a quel punto udì un grido
alle sue spalle: “Eccolo, è lui!”
Spiccò
la corsa, cercando di destreggiarsi tra bidoni dell’immondizia e
macchine parcheggiate. Una donna lo raggiunse, fece per puntargli
contro il taser, ma lui la spedì a terra con una manata. Un altro
paio lo afferrarono per i vestiti, e furono a loro volta proiettate
lontano. La sua fisicità maschile, tanto deprecata nella vita di
tutti i giorni, in quel momento gli conferiva un deciso vantaggio.
Una
donna molto robusta gli si parò davanti e lo affrontò con un calcio
al torso. Richard irrigidì i muscoli, quindi la investì con una
spallata, mandandola a sbattere contro il muro.
Dopo
quello scontro riprese la corsa. Cercò di visualizzare se stesso con
la maglietta della sua squadra di rugby e la strada come un campo
vuoto, che lui avrebbe dovuto attraversare per fare la meta decisiva.
Con
un altro paio di spallate si sbarazzò delle ultime avversarie,
quindi si gettò a capofitto in una strada buia. Corse a perdifiato,
con tutta la forza che aveva nei polmoni e nelle gambe, lasciandosi
alle spalle il quartiere popolare in cui abitava e dirigendosi verso
la periferia.
Si
fermò solo quando fu certo di aver fatto perdere le proprie tracce.
Ansante si rintanò in un androne scuro, mentre fuori sfrecciavano
macchine coi lampeggianti accesi. A un certo punto sentì anche il
battere ritmico delle pale di un elicottero, anche se non era certo
che fosse per lui.
Si
lasciò cadere a terra e rimase per un po’ seduto. Fece qualche
respiro profondo, si passò una mano sul viso per tergersi il velo di
sudore che l’aveva ricoperto.
Fuori
nel frattempo si era ristabilito il silenzio.
Rimase
immobile per un po’, cercando di cogliere eventuali rumori intorno
a sé. Un ratto, protetto dalle recenti leggi che lo equiparavano a
ogni altro animale e proibivano la sua eliminazione, uscì da un buco
nel muro, lo squadrò per un istante e scomparve con un fruscio.
Richard
trasse di tasca il cellulare, lo ruppe in due, quindi infilò i
frammenti nel buco da cui il ratto era uscito.
A
quel punto si alzò e si affacciò sulla strada deserta. Dovevano
essere le due o le tre di notte, non c’era anima viva. Prese a
camminare rasente al muro, ancora indeciso se considerare ciò che
era appena successo la realtà dei fatti o un lungo angosciante
incubo.
Pensò
al da farsi e si rese conto che le opzioni rimaste erano decisamente
poche. Anzi, in realtà ne era rimasta solo una.
Alzò
gli occhi sul cielo nero, quindi si diresse con risolutezza verso la
zona della città in cui si trovava la Casa
per la Tutela delle Donne Abusate.
§
Sullo
schermo alle spalle di Zelda, questa volta fasciata in un sontuoso
abito di paillettes dorate, c’era l’immagine di alcune bandiere
che garrivano al vento, sbarrata da un rosso segno di divieto.
Una
scritta in sovrimpressione recitava: Nazionalismi?
No, grazie.
“E
così,” stava dicendo la conduttrice a un attento pubblico, “alla
triste vicenda della famiglia dominata da un maschio fallocratico e
sciovinista si aggiunge un altro capitolo.”
La
folla fu attraversata da un mormorio di disapprovazione.
“Sembra
difficile da credere,” continuò Zelda, “eppure ci sono ancora
uomini che rimangono tenacemente aggrappati a forme arcaiche di
governo, basate sull’odio e sulla prevaricazione. Abbiamo chiamato
qui in studio varie esperte, per capire meglio come tutto ciò sia
possibile, nonostante l’attenzione che nel Mondo dell’Amore viene
dedicata alla crescita etica e responsabile della persona e al
rifiuto dell’aggressività in ogni sua forma.” Si voltò verso
un’imponente transgender di colore con una cascata di boccoli
azzurri che le arrivava a metà schiena. “Koko ha condotto il
colloquio di analisi personologica sul soggetto.” Fece una studiata
pausa, poi le chiese: “Posso sapere cos’hai provato nel parlare
con quest’uomo? Correggimi se sbaglio, ma credo che ti abbia
trasmesso molta sofferenza, non è vero?”
Koko
annuì grave. “Certo. Non bisogna mai dimenticare che questi
comportamenti sono sempre il frutto di un forte disagio, di una
personalità che si è strutturata in modo anomalo. È come se una
persona si trovasse, magari a causa di un incidente, con una gamba
più corta dell’altra: ovviamente non potrà mai camminare in modo
corretto, giusto?” Sbatté le ciglia lunghissime e incrostate di
mascara blu elettrico.
Dal
pubblico provenne una voce femminile: “Ma anche chi non cammina in
modo perfetto deve essere accettato. Non bisogna farlo sentire
inferiore, perché magari, anche se è motoriamente svantaggiato, può
essere una persona stupenda per tanti altri motivi.”
Scrosciò
un applauso. La telecamera fece un primo piano di una donna magra,
precocemente ingrigita, con le labbra serrate in un’arcigna
espressione di biasimo e una maglietta che recitava: 100%
cruelty free.
La
psicologa annuì di nuovo. “Ma certo. Io dico sempre che bisogna
guardare le persone per come sono dentro,
per com’è la loro anima.”
Partì
un secondo applauso.
Intervenne
a questo punto Zelda, che sollevò una mano per riportare il silenzio
e disse: “Queste belle parole hanno sempre il potere di
commuovermi, ma io credo che i nostri telespettatori saranno curiosi
di sapere qualcosa di più su questo sfortunato cittadino.”
“Ma
certo,” rispose Koko. “Siamo di fronte a un uomo chiaramente
molto debole dal punto di vista psicologico, assediato da insicurezze
che l’hanno fatto vivere per anni aggrappato all’illusoria idea
di protezione da parte di sovranità nazionali ormai superate.”
Fece una pausa, come per dare al pubblico il tempo di assimilare
quanto aveva detto, quindi proseguì: “Io credo che sia a sua volta
una vittima, verosimilmente di una figura paterna tirannica. Credo
che abbia bisogno di molto amore e di molta comprensione.”
Zelda
annuì. “Che cosa suggeriresti per lui?”
“Un
lungo periodo di rieducazione, che lo porti a elaborare finalmente i
suoi conflitti.” Emise un sospiro e aggiunse: “Io non voglio
pensare a quanto deve aver sofferto finora. Perché l’aggressività
espressa, vedi, viene sempre da aggressività subita in un contesto
di debolezza psicologica.”
Un
lungo applauso salutò la premurosa affermazione.
La
conduttrice si rivolse a quel punto a una donna di mezz’età con
capelli scuri e venati di grigio sciolti sulle spalle e abiti di
fibra vegetale che avevano i colori spenti delle tinture naturali.
“Adorinda, giusto?” le chiese.
La
donna annuì.
“Vuoi
parlarci di te, Adorinda?”
“Certo.
Gestisco una Comunità
per l’Infanzia Negata
a indirizzo steineriano, rigorosamente vegana e improntata al rifiuto
di ogni violenza.”
“Vuoi
dirci come sei venuta in contatto con il nostro soggetto, cara?”
“Abbiamo
accolto suo figlio qualche settimana fa.”
“Che
cosa puoi dirci di lui?”
“Oh,
è un bambino sfortunato. Cresciuto nell’odio, intossicato da cibi
carichi di aggressività e dolore. Ogni suo gesto è una straziante
richiesta d’aiuto.”
Zelda
annuì, comunque precisò: “Parlavo del padre, cara. Cosa puoi
dirci di lui?”
Adorinda
riunì le mani in grembo e per un po’ parve incerta su cosa dire.
Infine, rialzò bruscamente la testa come chi ha appena preso una
risoluzione dolorosa ma necessaria, quindi cominciò: “Ecco… io
per prima cosa desidero scusarmi con la bellissima e bravissima Koko.
Vorrei che fosse chiaro che quanto sto per dire non è assolutamente
una critica alle sue capacità professionali, né vuole in alcun modo
sminuirla, né come professionista né come donna. È piuttosto un
vissuto personale, diciamo. È quello che ho sentito quando mi sono
trovata a interagire con quell’uomo.”
“Che
cos’hai sentito, cara?” le chiese Zelda in tono soave.
“Violenza,”
proferì la donna in tono cupo, abbassando la voce. “Una terribile,
ancestrale violenza, che mi ha investita con una tale forza che ho
avuto bisogno di ascoltare per un’ora le vibrazioni positive, prima
di ritrovare l’equilibrio interiore.”
“Hai
parlato con lui?”
“Tramite
monitor, ma è riuscito comunque a trasmettermi la sua violenza, la
sua intolleranza, la sua aggressività e la sua rabbia.” Fece una
pausa, che utilizzò per inspirare ed espirare profondamente a occhi
chiusi, stringendosi tra pollice e indice la radice del naso. “Nel
momento in cui ho cercato di stimolare una conoscenza empatica nel
figlio, lui mi ha aggredita con una violenza che mi ha lasciata
sconvolta.” Tacque di nuovo, quindi in tono cupo concluse: “Io ho
paura
di quell’uomo.”
La
frase si lasciò dietro un silenzio carico di oscura minaccia.
Prese
di nuovo la parola Koko: “Anch’io mi sono sentita aggredita da
lui. È stato come se millenni di prevaricazione patriarcale mi
fossero stati rovesciati addosso tutti in una volta. Ho letteralmente
sentito il grido di dolore dei milioni di donne oppresse dagli uomini
nel corso della Storia.” Tirò fuori dalla borsetta un fazzoletto e
si tamponò una lacrima.
Scrosciò
un applauso che fece tremare lo studio. Fioccarono i Brava!
e i Bene!.
Nessun pudico biiip
coprì le numerose invettive che vennero lanciate contro l’oggetto
della discussione, per il quale vennero proposte, fra un insulto e
l’altro, la rieducazione forzata, la castrazione chimica e
addirittura l’eutanasia per
il suo stesso bene.
“E
ora, pubblicità!” annunciò Zelda.
§
Rintanato
in un folto cespuglio, Richard scrutava il giardino, che pian piano
emergeva dal chiarore dell’alba. Sui prati aleggiava una leggera
foschia, dalle foglie degli alberi stillavano rare gocce di rugiada.
Qua e là si udiva il cinguettio dei primi uccelli.
Il
disegno sul pavimento era una macchia colorata d’insolita crudezza,
in quei toni soffusi.
L’uomo
cercò di non pensare alle membra irrigidite dalla lunga immobilità
e mantenne lo sguardo fisso sull’edificio. Erano comparse delle
luci alle finestre del piano terra, segno che la Prigione mascherata
da Comune si stava svegliando.
Si
chiese cosa gli avrebbero fatto se l’avessero trovato lì.
Probabilmente, un periodo di Consapevolezza
e Impegno Fisico Volto al Bene della Comunità,
ovvero un modo elegante per chiamare lavori forzati associati a corsi
di rieducazione, non gliel’avrebbe tolto nessuno.
Dovette
attendere un’altra mezz’ora, poi si aprì una porta e le ospiti
uscirono tutte in fila, scalze e vestite con una semplice tunica
bianca, si disposero in cerchio e cominciarono a fare dei movimenti
che dovevano essere yoga. Senza spostarsi cercò con lo sguardo
Paula.
Ci
mise un po’ a trovarla, perché si era tinta i capelli di nero.
Notò che aveva mani e braccia coperte di ghirigori marroni. Abbassò
lo sguardo e si accorse che aveva gli stessi disegni anche sui piedi.
Pur
essendo distante, cercò di leggere la sua espressione: non vi trovò
nulla di quello che ricordava. Aveva uno strano sguardo remoto, che
sembrava perso nella contemplazione di chissà cosa. Si chiese se in
qualche modo le ospiti venissero drogate.
In
quel momento, forse attirata da un fruscio, una delle donne volse lo
sguardo nella sua direzione: egli si rannicchiò sotto le foglie e
rimase immobile fino a che tutte non ebbero finito la loro ginnastica
mattutina e tornarono nell’edificio.
Pensò
al da farsi: per prima cosa doveva parlare con lei, per sapere se
c’era un modo di portarla via che non comportasse l’attivazione
dei sistemi di allarme. Lui era riuscito a entrare scalando il muro,
una prodezza che aveva richiesto tutte le sue doti fisiche e anche
così gli era quasi costata la vita, ma come avrebbe fatto a portare
con sé Paula attraverso la stessa via? C’erano alberi da scalare,
tratti da percorrere reggendosi solo a forza di braccia, salti che
richiedevano una muscolatura potente e allenata.
Guardò
di nuovo verso lo spiazzo in cui le ospiti avevano appena fatto
ginnastica: gli erano parse tutte flosce, tutte spente. Chi di loro
poteva vantare una muscolatura abbastanza potente e allenata da
scalare il muro di cinta?
Rimase
ad attendere in giardino, spostandosi cauto da un cespuglio all’altro
per studiare i movimenti delle ospiti. Ogni tanto individuava la
lunga chioma ormai nera di Paula, ma non riusciva ad avvicinarla,
perché non era mai da sola.
Calò
il tramonto. Ormai aveva male dappertutto e non toccava cibo dalla
sera prima. Lo stomaco gli brontolava talmente forte che temeva di
farsi scoprire solo per quello.
Stava
quasi per rinunciare quando vide uscire Paula. Era da sola e aveva in
mano un secchio dal quale spuntavano cascami di verdura.
Seguendo
un percorso che evidentemente conosceva già molto bene, la donna
aggirò l’edificio e raggiunse uno spiazzo illuminato in cui si
trovavano bidoni dell’immondizia di vari colori e compostiere. Andò
a una di esse, sollevò il coperchio e vi buttò dentro il contenuto
del secchio, poi si apprestò a rientrare.
Richard
si spostò fino a raggiungere il margine dell’alone di luce, quindi
sottovoce chiamò: “Schatzi.”
Paula
si guardò intorno con aria spaesata. Sembrava che avesse sentito un
rumore al quale non riusciva a dare un significato.
“Schatzi,
sono Rick.”
Finalmente
la donna si voltò verso di lui. “Oh, Rick,” lo salutò con
pacata gentilezza. Il tono era quello di una banale conversazione,
come se si stessero ritrovando alla fine di una normalissima giornata
lavorativa. “Che ci fai qui?”
L’uomo
si sentì percorrere da un brivido gelido. “Sono venuto per
portarti via, tesoro.”
Paula
fece tanto d’occhi. “Per portarmi via?” Aggrottò le
sopracciglia con l’aria di non capire.
“Sì,
ce ne andiamo. Ho un amico che conosce un posto libero, dove potremo
vivere in pace lontano da tutte queste stronzate.”
Paula
inclinò la testa da una parte, come faceva sempre quando qualcosa le
sfuggiva. “Ma io vivo già in pace,” obiettò.
“Dio,
Paula, non puoi parlare sul serio!” ansimò mentre il cuore gli si
serrava in una morsa di ghiaccio.
“Non
nominare il dio del patriarcato!” lo rimbeccò lei. “È un dio
malvagio. È per colpa sua che le donne sono state oppresse in tutti
questi secoli.”
“Schatzi,
ma… ma ti rendi conto di quello che stai dicendo?” boccheggiò
Richard.
“Mi
hanno detto che se ti lascio potrò vivere in pace con Leo. Avremo
una casa tutta nostra e quando avrò finito la psicoterapia potrò
occuparmi della sua educazione. Lo crescerò di mentalità aperta,
libero da misoginia e sciovinismo e rispettoso. Non gli darò veleno
da mangiare.” Fece una pausa, poi in tono più basso soggiunse:
“Però tu sei stato giudicato irrecuperabile. Faresti male a me, ma
soprattutto a lui.”
Richard
trasecolò. “Io fare del male a te o a Leo? Ma dico, sei
impazzita?”
“Ecco,
lo vedi che cominci già ad aggredirmi verbalmente? Sei un maschio
prevaricatore, non voglio che Leo cresca come te.”
L’uomo
stava per replicare quando dall’edificio provenne una voce: “Paula?
Con chi stai parlando?”
Si
irrigidì. La moglie gli rivolse un’occhiata, quindi a voce alta
disse: “Con nessuno, Efemena. Stavo solo canticchiando fra me e
me.”
Gli
rivolse un ultimo lungo sguardo, quindi gli girò le spalle e prese
ad allontanarsi in direzione dell’edificio.
Richard
rimase a guardarla con le lacrime che gli pungevano gli occhi. Per un
po’ fu semplicemente incapace di muoversi: come pietrificato
guardava il palazzo che man mano veniva inghiottito dal buio. Prese
in considerazione l’idea di tornare e in qualche modo portarla via
con la forza, ma abbandonò subito il pensiero. Qual è la madre che
tra il figlio e il compagno sceglie il secondo? Probabilmente le
avevano promesso quello che lei stessa gli aveva riferito, e lei
aveva accettato pur di potersi tenere Leo.
Aveva
sacrificato lui per salvare il bambino.
O
forse le avevano semplicemente fatto il lavaggio del cervello, o
l’avevano imbottita di droghe o farmaci. Probabilmente non
l’avrebbe mai saputo.
Il
rumore di una porta che si apriva lo convinse a tornare rapidamente
sui suoi passi. Strada facendo si voltò indietro un paio di volte,
ma nel buio ormai non si vedeva più niente, se non qualche fioca
lampadina che illuminava le soglie dell’edificio.
§
“Brunn!
Ehi, Brunn!”
L’uomo, che stava apprestandosi
a entrare nel bar di Lonnie, si voltò e per un po’ scrutò
indeciso nel buio. Infine, a bassa voce chiese: “Rick? Sei proprio
tu?” Aggrottò le sopracciglia, poi aggiunse: “Ma come accidenti
sei ridotto?”
Fece un passo verso di lui.
Richard arretrò fino a scomparire di nuovo nell’ombra, quindi
rispose: “Sto vivendo all’addiaccio. A casa non posso più
andare, qualche giorno fa hanno cercato di arrestarmi.” Si passò
una mano sul mento, ormai ispido di barba.
Brunn si aggiustò la visiera
dell’onnipresente berretto, quindi disse: “Beh, vieni da Lon,
almeno mangi qualcosa e stai al caldo per un po’.”
“Non
posso rischiare che mi vedano. Piuttosto...”
“Sì?”
“Quel
posto di cui parlavi...”
“Quale
posto?”
“Quello
libero.” Richard si fece di nuovo avanti, scrutò negli occhi
Brunn, “Esiste davvero?”
L’altro annuì grave. “Esiste,”
confermò.
“Dov’è?”
“Perché
vuoi saperlo?”
“Mio
figlio. Non voglio condannarlo a questa vita di merda, voglio
portarlo in un posto dove possa crescere libero. Un posto dove non si
debba vergognare di essere un maschio.”
Brunn annuì di nuovo. “Ti
capisco,” rispose.
Richard fece un pallido sorriso,
poi chiese: “Come ci arrivo, in questo posto?”
“Tu
in nessun modo. Devo accompagnarti io.”
“Dov’è?”
“Lo
saprai quando ci arriveremo.”
“Brunn,
senti...”
“Sì?”
“C’è
davvero
questo posto? Non è che arriviamo da qualche parte dove non c’è
un cazzo e tu mi molli in mano a quelle che adesso mi vogliono
tagliare le palle con le forbici da giardino?”
L’altro fece una breve risata.
“Sai come si dice, no? Non chiedere a un oste se il suo vino è
buono.”
Richard chinò la testa. “Mi sa
che hai ragione,” sospirò.
L’altro gli diede una delle sue
pacche sulle spalle, costringendolo come ogni volta a fare un passo
di lato per mantenere l'equilibrio, quindi gli disse: “Facciamo una
cosa: ora vieni da me, così mangi qualcosa, ti lavi e dormi in un
letto decente, poi domani vediamo come recuperare tuo figlio, va
bene?”
“Grazie,
Brunn.”
“Ah,
non ringraziarmi. Se non ci si aiuta tra uomini...”
La casa di Brunn era come Richard
l’aveva immaginata: piccola, pochi mobili scalcagnati, niente
quadri e niente soprammobili. La cucina aveva da una parte
frigorifero e fornello, al centro un tavolo con un paio di sedie una
diversa dall’altra e lungo la parete opposta agli elettrodomestici
un divano coperto da un telo. “Tu puoi prendere quello,” lo
informò l’uomo. “Se vuoi lavarti, il bagno è dietro quella
porta, se vuoi dei vestiti, va’ in camera mia e prendi dall’armadio
quello che ti serve. Ti vanno degli hot dog?”
Richard lo guardò con tanto
d’occhi. “Di carne?”
“Si
capisce. Io non mangio la merda vegana.”
“E
come fai? Voglio dire, con la Tessera e tutto quanto? Te li contano
uno per uno.”
Brunn ghignò. “Basta sapersi
arrangiare,” rispose in tono sibillino. Gli mostrò il portafogli,
nel quale c’erano almeno dieci Tessere della Salute Armoniosa.
Di nuovo, Richard trasecolò.
“Ma...” cominciò.
“Va’
a farti la doccia,” lo interruppe Brunn, “ne parliamo dopo.”
Il primo non se lo fece ripetere.
Entrò nel bagno, si liberò con sollievo degli abiti sporchi e si
buttò sotto il getto.
Ci rimase a lungo, le mani
appoggiate alle piastrelle, l'acqua che gli scorreva sul dorso. La
carezza tiepida del vapore stemperava la sensazione di gelo che negli
ultimi giorni non lo aveva mai abbandonato.
Rimase a guardare l'acqua che
scendeva turbinando nello scarico ed ebbe la sensazione che con essa
scorresse via anche la vita che fino a quel momento aveva vissuto.
Quella del bravo ragazzo, che diceva sempre sì, che non creava
problemi e che piegava la schiena.
Chiuse il rubinetto con un gesto
secco, scrollò la testa lanciando intorno una raggiera di gocce.
Andò al lavandino e lucidò lo specchio appannato con un lembo
dell'asciugamano, quindi si cosparse di schiuma la metà inferiore
del volto e si fece con cura la barba. Gli parve che emergesse un
uomo nuovo, dalla rasatura. Più deciso, forte di una vera
consapevolezza di sé, non più gravato dalla penosa sensazione di
inadeguatezza che fino a quel momento gli era stata inculcata.
Uscì con un asciugamano intorno
ai fianchi e il profumo delle salsicce che sfrigolavano in padella
gli fece venire l'acquolina in bocca.
“Birra?”
gli propose Brunn senza nemmeno voltarsi.
Ormai Richard aveva smesso di
stupirsi. “Sì, grazie,” si limitò a rispondere, quindi andò in
camera a cercare qualche vestito che fosse della sua taglia.
Brunn gli rivolse uno sguardo
divertito. “Quella la portavo quando avevo... uhm... vent'anni.”
Richard abbassò gli occhi sulla
tuta da lavoro che si era infilato: aveva dovuto fare un risvolto ai
pantaloni e alle maniche e di spalle gli stava un po' larga.
Il primo spinse verso di lui
l'ennesima lattina e disse: “Tu mi ricordi me. Con qualche chilo di
meno, naturalmente.”
“Perché?”
“Anch'io
ero convinto che, se avessi fatto il bravo, alla fine le cose si
sarebbero sistemate per il meglio.”
“E
non è stato così?”
“No,”
si limitò a rispondere Brunn. Alzò fugacemente lo sguardo verso una
parete. Richard guardò a sua volta e vide il riquadro più chiaro di
qualcosa che era stato tirato via. “Avevi famiglia?” gli chiese.
L'uomo alzò le spalle. “Acqua
passata. Adesso aiuto gli altri.”
“Aiuti
gli altri?”
“Ad
andare di là. A pensare con la loro testa, a decidere.”
“Ma
di là dove,
Brunn?”
“Lo
saprai.” Si alzò lentamente. Richard pensò che gli ricordava un
grosso orso, di quelli un po' goffi e grassi, che però sono in grado
di staccare la testa di un alce con una zampata.
“Beh,
io me ne vado a dormire,” disse. Fece una tappa in bagno, quindi si
infilò in camera. Dopo poco provenne dalla porta socchiusa un
poderoso russare.
Richard si voltò in quella
direzione, poi tornò ad abbassare gli occhi sulla lattina, la cui
metà inferiore era ancora appannata dalla condensa. La vuotò con un
unico lungo sorso, poi la accartocciò e la lanciò nel bidone
dell'immondizia.
Andò a sua volta in bagno,
quindi si distese sul divano, si tirò addosso una coperta e per un
po' rimase semplicemente a contemplare il soffitto incapace di
dormire. Dal basso proveniva la luce dei lampioni, che disegnava
tremolanti sagome sulle pareti. Tolti il russare del suo ospite e una
vaga eco del traffico in strada, c'era un silenzio desolato, come se
a parte loro lo stabile fosse vuoto. Si rigirò su un fianco, quasi
nell'esigenza di produrre lui stesso un rumore, di avere un riscontro
della propria fisicità.
Per la prima volta da quando
tutto era cominciato, il suo pensiero non corse a Paula. Si fermò su
Leo, invece, e subito dopo scivolò verso il fantomatico luogo
libero, che nella sua mente assunse le connotazioni della Baviera,
ovvero montagne e boschi, cervi maestosi e rapaci dalle acute strida.
Chiuse gli occhi con il sorriso
sulle labbra.
§
“Sveglia,
bello. È ora di andare.”
Richard sussultò e si trovò di
fronte Brunn già vestito di tutto punto.
“C'è
del caffè, se vuoi,” lo informò l'uomo.
Il cielo era ancora buio, anche
se il nero cupo della notte andava sbiadendo in un'alba grigiastra. I
rumori della strada si erano fatti più intensi e anche nel palazzo
si percepivano movimenti o fiochi scambi di parole. Da qualche parte,
qualcosa cadde tintinnando e fu seguito da quella che parve come una
debole risata.
“Qual
è il piano?” chiese Richard. Abbandonò il giaciglio, piegò la
coperta e la mise dove l'aveva trovata. Si passò la mano sulla
guancia, di nuovo irruvidita da un principio di barba, poi si ravviò
i capelli tirandoseli all'indietro.
Brunn riempì una tazza e gliela
passò attraverso il tavolo. “Zucchero? Latte?” s'informò.
“Va
bene così.” Richard si sedette. Prese il recipiente fra le mani
come per assorbirne il calore, quindi ripeté: “Qual è il piano?”
“Conosco
quel posto,” rispose l'uomo. “Se facciamo le cose in fretta, ce
ne andremo prima ancora che riescano ad alzare il telefono per
chiamare una squadra di Riduzione
dei Conflitti.”
“Sei
sicuro? Quando sono andato a trovarlo, non me l'hanno nemmeno fatto
vedere di persona. Ci ho parlato attraverso una televisione a
circuito chiuso.”
“Sì,
visto che il problema è sempre con i padri, fanno così perché
hanno paura che uno si incazzi e cerchi di portarsi via il figlio con
la forza.”
“Davvero?”
Brunn
lo fissò sornione. “Secondo te, se tu fossi bestialmente
incazzato, quante educatrici, psicologhe e assistenti sociali ci
vorrebbero, per fermarti fisicamente?”
Richard fece mente locale. “Non
poche,” convenne.
“Ma
questo oggi non sarà un problema,” concluse l'altro dopo aver
vuotato la sua tazza. “Ora bevi, va' a pisciare e fatti la barba,
poi andiamo. Ti va anche una ciambella, con quel caffè?” Prese una
scatola di cartone e l'appoggiò sul tavolo.
“Vere
ciambelle? Con il burro, le uova e gli zuccheri raffinati? Fritte?”
“Te
l'ho detto, io la loro merda non la mangio.” Alzò il coperchio,
rivelando invitanti, soffici anelli di pasta, dorati al punto giusto
e coperti di glassa colorata. “Non saranno di giornata, ma sono
sempre meglio del tofu.”
La
Comunità per
l’Infanzia Negata
sorgeva al centro di un parco pieno di alberi. Per non traumatizzare
i bambini con la visione di barriere invalicabili, non c'erano muri
di cinta, ma solo una bassa recinzione, appena sufficiente a
scongiurare la fuga di persone alte in media un metro e venti.
In un avvallamento del terreno si
trovava uno stagno, debitamente recintato per la tutela dei piccoli
ospiti. Anche intorno a ogni tronco dalla corteccia ruvida c'era una
graziosa barriera di plastica colorata, per evitare che i bambini si
graffiassero.
La costruzione sembrava ancora
immersa nel sonno, le finestre erano tutte buie.
“Tra
un po' escono,” disse Brunn, seduto al posto di guida di un
furgone, scrutando il parco ancora velato della foschia del primo
mattino. “Vanno a fare la passeggiata nella natura. Tieniti
pronto.”
Passarono alcuni minuti, poi una
finestra si illuminò, una seconda si aprì e una bracciata di
lenzuola venne sistemata a cavallo del davanzale. Subito dopo, altre
finestre si illuminarono. Si cominciarono a percepire gli strilli di
voci infantili.
Brunn mise in moto e disse:
“Andiamo.”
Il veicolo prese a muoversi
lentamente.
“Ora
ci avviciniamo il più possibile,” continuò l'uomo, “tu scendi,
lo prendi, corri qui e partiamo a tavoletta. Se ti trovi davanti
qualcuna di quelle galline, sbattila per terra prima che abbia il
tempo di rendersene conto.”
“Va
bene.”
Richard si rese conto di avere la
bocca secca e il cuore che gli batteva come se avesse voluto uscirgli
dal petto. Sentiva un curioso alternarsi di caldo e freddo mentre
osservava la frotta di bambini dilagare vociando sui prati.
Strinse gli occhi, obbligandosi a
elaborare una strategia come quelle che a suo tempo usava per fare
meta. Individuò gli ostacoli e il percorso che lo avrebbe condotto
ad aggirarli.
“Tranquillo,”
gli giunse la voce di Brunn. “Non faranno nemmeno in tempo ad
accorgersi di quello che è successo e saremo già lontano.”
“Lo
spero ,” mormorò Richard senza smettere di cercare con lo sguardo
suo figlio.
“Lo
vedi?”
Strinse
i denti: non riusciva a vederlo. Cercò di non farsi prendere
dall'ansia: Leo doveva
essere lì.
“E
se è malato?” buttò lì dopo un po'. “E se l'hanno spostato da
un'altra parte? Se per qualche motivo oggi non esce?”
Brunn gli diede una pacca sulla
spalla. Impegnato a scrutare ansiosamente ogni centimetro di parco,
l'altro non la sentì neppure.
Infine comparve una testolina
bionda.
“Eccolo!”
esclamò Richard, alzandosi per metà dal sedile.
L'ansia scomparve come neve al
sole, lasciandogli solo una determinazione adamantina: quello era suo
figlio e lui se lo sarebbe ripreso, punto e basta.
Scese dal veicolo, spiccò la
corsa. Tutto si confuse intorno al bambino, divenne indistinto mentre
il suo sguardo si focalizzava su di lui come il mirino di un'arma.
Con la visione periferica percepì un'ombra farglisi incontro: la
allontanò con una manata, accelerò la corsa. Registrò un altro
ostacolo, forse qualcuno che lo aveva afferrato per i vestiti. Se ne
liberò quasi senza sforzo.
Il bambino alzò lo sguardo nella
sua direzione, lo riconobbe. Il suo viso cambiò colore. “Papà!”
gridò.
Richard lo afferrò a mezzo corpo
e continuò a correre pancia a terra inseguito dalle urla delle
educatrici. Saltò il recinto senza rallentare, raggiunse il furgone
e salì a bordo.
“Andiamo!”
esclamò.
§
Con un acuto stridore di gomme il
furgone bruciò un semaforo rosso, invase l'incrocio, urtò
un'utilitaria mandandola a fare una serie di furiosi testacoda e
proseguì senza nemmeno rallentare. Nel cassone cadde una scatola di
pezzi metallici, rovesciando sul pavimento tutto il suo contenuto.
Ciò che era appeso alle pareti tremava e vibrava.
Il motore ruggiva mentre la
lancetta del tachimetro sussultava all'estrema destra del quadrante.
Da una laterale sbucarono due
auto di un sinistro viola scuro, con la sirena che ululava e barre
lampeggianti sul tetto.
“Merda!”
imprecò Brunn. Cercò di dare gas, ma l'acceleratore era già a
tavoletta.
Sterzò per abbandonare la strada
su cui stava procedendo, le gomme stridettero, il veicolo si inclinò
come se stesse per rovesciarsi, tanto che il bambino emise uno
strillo spaventato e si aggrappò al collo di Richard. “Attento!”
urlò questi rivolto a Brunn, più per istinto di protezione che per
altro.
Si piegò a guardare lo
specchietto laterale e vide le macchine che li seguivano. La più
avanzata era guidata da una donna con i capelli neri tagliati corti e
un paio di occhiali da sole a specchio. La vedeva mordersi il labbro
inferiore, concentrata nel compito di non farsi lasciare indietro.
A un tratto, Brunn inchiodò: in
fondo alla strada era stato approntato uno sbarramento, una fascia
irta di punte era stesa di traverso. Il furgone piegò bruscamente a
sinistra, si infilò in un senso unico e cominciò una furiosa
gimkana, strombazzando fra le macchine che procedevano in senso
opposto. Urtò qualche veicolo, si vide lo spruzzo iridescente di un
cristallo che andava in frantumi, sul parabrezza si allargò una
ragnatela di crepe.
Un autobus rosa nuovo e lucido,
con fiori colorati dipinti sulle fiancate, perse il controllo al suo
passaggio, si inclinò e crollò di traverso sulla strada,
ostruendola quasi completamente.
Richard scrutò di nuovo il
retrovisore: una delle macchine inseguitrici sgusciò tra la mole
fumante del veicolo e il muro di un palazzo, evitò di stretta misura
il crollo di un palo della luce, diede gas e si mise di nuovo sulla
scia del furgone, sbandando a destra e a sinistra nel tentativo di
superarlo.
Alla guida c'era la donna con gli
occhiali a specchio.
Procedettero attraverso la
periferia, si lasciarono la città alle spalle.
Altre macchine si erano unite
alla prima e il furgone procedeva zigzagando inseguito da un codazzo
ululante e lampeggiante.
Richard si voltò verso Brunn.
“Che facciamo?” chiese concitato.
“Conosco
qualche trucco,” rispose l'altro, senza distogliere lo sguardo
dalla strada. “Basta che le seminiamo, tanto hanno solo i taser,
non possono colpirci da questa distanza. Va' dietro, apri il
portellone e molla giù quello che trovi.”
Il primo assicurò il bambino al
sedile con la cintura di sicurezza, quindi lo oltrepassò e si mosse
cauto nel cassone. Trovò dei contenitori di frammenti metallici,
scarti di officina, chiodi e altro. Aprì il portellone e si trovò
praticamente faccia a faccia con la donna dagli occhiali a specchio.
Quella lo vide e immediatamente sterzò, spostandosi dalla scia del
furgone. Il lancio di taglienti mise fuori combattimento altre due
macchine, che finirono la loro corsa sul bordo della strada con le
gomme squarciate.
Richard prese un secondo
contenitore e attese che la prima macchina riprendesse il suo posto,
ma di nuovo la donna sembrò intuire le sue intenzioni con un secondo
di anticipo, perché al momento del lancio letteralmente si
volatilizzò.
Poi la macchina ricomparve, diede
gas e speronò col muso il furgone. Richard perse l'equilibrio e
rotolò sul pavimento del cassone, finendo pericolosamente vicino al
portellone posteriore spalancato.
Di nuovo la macchina colpì il
furgone, che sbandò con un acuto stridore di gomme. L'uomo si
aggrappò, ma finì comunque con mezzo corpo fuori dal veicolo. Ebbe
una fugace visione dell'asfalto, che data la velocità dei mezzi era
solo un indistinto magma grigio.
Si tirò su a forza di braccia,
cercò di chiudere il portellone, ma di nuovo la macchina speronò.
Dal posto di guida provenne l'imprecazione di Brunn.
Il furgone si inclinò su due
ruote laterali, Richard all'interno rotolò come una palla di
stracci. Vide il magma grigio mutarsi in un magma marrone e poi verde
e comprese che stavano uscendo di strada. Fece appena in tempo a
saltare davanti e abbracciare il figlio, poi il furgone si piegò e
con un fracasso da fine del mondo prese a rotolare giù per una
scarpata.
§
“Papà!”
gridò il bambino, sgusciando via dalla cintura di sicurezza. “Papà,
papà!” Si mise a piangere. “Papà, dove sei?”
Richard aprì gli occhi e si rese
conto di essere disteso faccia in giù su un terreno sassoso, con
chiazze di muschio qua e là. Percepiva il calore del sole su un lato
del viso, sentiva il gorgogliare di un torrente.
Si alzò a fatica. Era
indolenzito, qua e là graffiato, ma non gli pareva di avere danni
gravi. “Leo?” chiamò per prima cosa.
“Papà!”
Fece scorrere lo sguardo
tutt'intorno.
La macchina viola era a ruote in
su, schiacciata come se fosse passata sotto una pressa.
Il furgone era disteso sul lato
del guidatore. Il parabrezza era saltato e sembrava che una mano
enorme avesse accartocciato il cassone come un pacchetto di sigarette
vuoto. Lo sportello dal lato passeggero mancava.
“Papà,
vieni!”
Richard raggiunse zoppicando il
veicolo: il bambino era accucciato sul sedile e a parte le lacrime di
paura non sembrava avere danni. Quello che invece giaceva immobile,
con gli occhi chiusi e un rivolo di sangue che gli inzuppava la
barba, era Brunn. Gli si chinò accanto. “Ehi, amico,” lo chiamò
con voce sommessa.
Egli sollevò a fatica le
palpebre e con voce debole disse: “Te l'avevo detto che sapevo
qualche trucco.”
“Dove
sei ferito, Brunn?”
“Forse
farei prima a dirti dove non
sono ferito.” Cercò di fare una risata, che subito si spense in un
doloroso colpo di tosse. Altro sangue gli colò giù per il mento.
“Mi sa che da qui in poi dovrai andare avanti da solo,” disse.
Richard scosse la testa. “Stai
scherzando? Io non ti lascio qui.”
“Stronzate.
Devi andare prima che quelle là ritornino in forze.”
“E
tu, amico?”
Brunn fece un pallido sorriso.
“Presto quelle là non saranno più un mio problema.” Cercò di
ghignare, ma di nuovo un accesso di tosse glielo impedì.
“Piuttosto... “
“Sì...?”
“È
meglio che ti spieghi la strada prima di...”
“Brunn!”
“Ah,
lascia. Dovrebbe esserci un po' di bourbon nella tasca del mio
giubbotto, ti spiacerebbe prenderlo? Vorrei farmi un goccio, almeno,
prima di tirare le cuoia.”
Richard frugò fino a che non
trovò la fiaschetta, quindi la stappò e gliela avvicinò alle
labbra. Nonostante le sue condizioni, Brunn riuscì a berne un lungo
sorso, poi emise un sospiro di soddisfazione e disse: “Ora
ascoltami, Rick, non ho molto tempo. C'è un torrente qui vicino?”
“Sì,
scorre a venti metri da qui.”
“Risali
la corrente.”
“È
lontano il posto?”
“A
piedi saranno un paio d'ore.”
“Come
lo trovo?”
“Saranno
loro a trovare te. Prendi il mio cappello da baseball e mettitelo in
testa. Verranno da te quando lo vedranno.” Fece una pausa, poi con
voce ormai debole, mormorò: “Dammi un altro goccio, Rick.”
Bevve un sorso, quindi soggiunse:
“Ti ricordi quella frase che ti dissi sulla libertà?”
“Certo.”
“Ora
non hai più paura, Richard. Va' libero con tuo figlio.”
“E
tu, Brunn?”
“Lasciami
qui. Se il mio corpo nutrirà un orso o un lupo, io continuerò a
vivere.” Chiuse gli occhi, la testa gli cadde lentamente da una
parte. Un ultimo lungo respiro gli sollevò l'ampio petto, poi il
silenzio calò sulla scena.
“Brunn!”
esclamò Richard, ma l'uomo non rispose più.
Allora raccolse il vecchio
berretto consunto e se lo calcò in testa, quindi si alzò e si voltò
fino a incontrare lo sguardo attonito del bambino. Si fissarono per
lunghi secondi, poi lo prese per mano e disse: “Vieni, è ora di
andare.”
“Dove
andiamo, papà?”
“A
casa.”
§
L’aria delle vette, già
frizzante della prima neve, fece turbinare i trucioli che coprivano
il suolo, il cielo terso vibrò del grido acuto e modulato di un
nibbio.
Richard sollevò la testa e si
guardò intorno alla ricerca del rapace, lo seguì brevemente con lo
sguardo, quindi riprese lo scalpello e tornò al suo lavoro. Trucioli
di frassino ricominciarono a imbiancare il terreno, mentre un motivo
decorativo a foglie di quercia prendeva lentamente forma. Di tanto in
tanto, l’uomo si voltava verso la costruzione che si trovava alle
sue spalle, una casa di tronchi con il tetto spiovente, la fissava
soddisfatto e riprendeva a intagliare.
Si udirono dei passi,
sopraggiunse un altro uomo, in pantaloni mimetici e giaccone di
pelle.
“Ciao,
Karl,” lo salutò Richard.
L’altro si fermò e si pose i
pugni sui fianchi, quindi contemplò a sua volta l’abitazione e
disse: “È quasi finita, eh?”
“Già,
i ragazzi mi hanno dato una mano. Volevano che fosse pronta prima
dell’inverno.” Passò una mano sul pannello che stava intagliando
e aggiunse: “Sto finendo le finestre. Appena sono pronte, direi che
io e Leo possiamo trasferirci.”
Karl si guardò intorno. “Dov’è
Leo?”
“A
caccia.”
“È
proprio appassionato, eh?”
“Già.”
Si udì un festoso abbaiare e
poco dopo arrivarono di corsa quattro grossi cani dall’aria
vigorosa e robusta, con folte pellicce e occhi vispi. “Ehilà,
ragazzi!” li salutò Richard.
Gli animali gli si avvicinarono
scodinzolando e uggiolando. “Dov’è Leo?” chiese l’uomo, come
rivolgendosi alle bestie.
“Sono
qui, papà!” rispose una voce.
Si fece avanti un giovanotto
snello e solido, con i capelli biondi lunghi fin sotto le orecchie e
due luminosi occhi azzurri. Aveva abiti mimetici e un fucile sulla
spalla. “Ciao, papà.” salutò. “Ciao, Karl.”
“Preso
qualcosa?” chiese quest’ultimo.
Il ragazzo alzò le spalle.
“Niente di che, un paio di conigli selvatici. Li mangiamo stasera.”
Richard annuì. “Ok, che hai
fatto al braccio?”
Il ragazzo si toccò una
fasciatura di fortuna macchiata di sangue in un paio di punti. “Un
graffio,” rispose.
“Va’
a lavartelo nel torrente. Nel caso chiedi a Miller di darti
un’occhiata.”
“Va
bene.” Il ragazzo appese a un ramo il carniere, poi aprì
l’otturatore del fucile e controllò che fosse scarico. Solo dopo
lo porse al padre.
Fatto questo si tolse anche la
giacca e si diresse al corso d’acqua. I cani lo seguirono latrando.
“Un
bravo ragazzo,” commentò Karl.
Richard annuì con gesto sobrio.
“Venite
alla sala, stasera?”
“Certo.
Qui non ci sono ancora le finestre, sarebbe un po’ freddo.”
Al centro della sala comune
ardeva un bel fuoco alimentato da ceppi di quercia. Tutt’intorno
sedeva la gente. Uomini, perlopiù, ma anche donne stanche del Mondo
dell’Amore.
Leo, i cani accucciati ai suoi
piedi, stava pulendo uno dei suoi fucili. Accanto a lui, Richard
sorseggiava un bicchiere di bourbon e lasciava scorrere lo sguardo
sull’ambiente.
Era decisamente soddisfatto: nel
pomeriggio aveva terminato gli intagli delle finestre e aveva già
pronti i barattoli di vernice bianca e azzurra per pitturare gli
infissi. Ripensò alla Baviera, che non aveva mai visto, e più che
mai gli parve che dovesse essere simile al luogo nel quale aveva
scelto di vivere.
La Baviera in realtà era più
che altro un luogo dello spirito, dove nel corso degli anni aveva
collocato ogni cosa bella e buona.
Si voltò verso il figlio, che
aveva finito di pulire l’arma e ora sedeva assorto, grattando
distrattamente la schiena di uno dei suoi cani. “Tu te la ricordi
la mamma?” chiese il ragazzo senza staccare gli occhi dalle lingue
di fuoco che danzavano nel braciere.
Richard emise un sospiro. “Sì.”
Poi, dopo una pausa: “E tu?”
“Sì.”
I due tacquero, ognuno assorto
nei propri pensieri. Il brusio della sala era un sottofondo ipnotico,
che invitava alla meditazione.
Alla fine il ragazzo disse: “Mi
piacerebbe sapere cosa sta facendo.” Fece una pausa, si chinò a
baciare tra le orecchie uno dei suoi cani, poi chiese: “Tu credi
che sia felice?”
“No,
io credo di no,” rispose Richard. “Il Mondo dell’Amore dovrebbe
chiamarsi in realtà Mondo dell’Odio, Mondo dell’Oppressione, o
magari anche Mondo dell’Aggressione Contro Chi Non La Pensa nel
Modo Giusto. Credono di rispettare, invece opprimono. Credono di
amare, invece impongono un’odiosa prigionia, in gabbie anguste come
le loro menti. Credono di essere aperte, empatiche e prive di
pregiudizi, invece sono grette, violente e cariche di disprezzo per
chiunque abbia idee diverse dalle loro. Dicono di comprendere, invece
giudicano, dall’alto di una superiorità morale che è solo nelle
loro teste. Parlano di uguaglianza, ma l’uguaglianza in quel mondo
esiste solo sottoterra.”
Di nuovo fra i due calò il
silenzio.
Alla fine Leo annuì grave, poi
si tirò indietro i capelli che gli erano scivolati sugli occhi,
raddrizzò la schiena e in tono risoluto disse: “Un giorno andremo
a riprendercela. Che ne dici, papà?”
Richard scosse la testa e
rispose: “Arriverà da sola, quando come noi avrà imparato davvero
il valore del rispetto e della libertà.”
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