Pezzi di mosaico

di LanceTheWolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Invito ***
Capitolo 2: *** Nuvole ***
Capitolo 3: *** Insonnia ***
Capitolo 4: *** Segreti ***
Capitolo 5: *** Futuro ***
Capitolo 6: *** Colazione ***
Capitolo 7: *** Vento ***
Capitolo 8: *** Statua ***
Capitolo 9: *** Lettere ***
Capitolo 10: *** Diversità ***
Capitolo 11: *** Caffetteria ***
Capitolo 12: *** Viaggio ***
Capitolo 13: *** Quadro ***
Capitolo 14: *** Cucciolo ***
Capitolo 15: *** Labbra ***
Capitolo 16: *** Shopping ***
Capitolo 17: *** Promessa ***
Capitolo 18: *** Ago e Filo ***
Capitolo 19: *** Rubare ***
Capitolo 20: *** Selfie ***
Capitolo 21: *** Chiave ***
Capitolo 22: *** Ombre ***
Capitolo 23: *** Dormire ***
Capitolo 24: *** Appunti ***
Capitolo 25: *** Calze ***
Capitolo 26: *** Titolo ***
Capitolo 27: *** Paradiso ***
Capitolo 28: *** Sciarpa ***
Capitolo 29: *** Colla ***
Capitolo 30: *** Matrimonio ***
Capitolo 31: *** Halloween ***



Capitolo 1
*** Invito ***


Note dell’autrice: Salve a tutti quelli che si fermeranno, anche per semplice errore, su queste poche righe. Quella che avete tra le mani è una raccolta: 31 pezzettini di storia, uno per ogni giorno di ottobre, che partecipano al Writober 2018 indetto da “Fanwriter.it” e liberamente tratti dalle avventure di Lan-Chen, uno dei personaggi originali che ruolo sulla piattaforma del GDN “Avatar, la leggend di Aang e Korra”.

Questo personaggio vive e si muove molti Avatar dopo Korra, tuttavia l’ambientazione è di poco più avanzata rispetto alla serie originale.

Perché ho pensato a lei?
Semplicemente perché da un po’ è stata messa da parte per motivi logistici. Questo però non cambia che adoro questo personaggio che, di volta in volta, assume sfaccettature sempre più nostalgiche perdendo la sua ingenuità a favore di una disillusione crescente, mantenendo comunque una natura positiva. Quindi non potevo non pensare a lei per questa iniziativa.

Lance

PS: riguardo ai prompt li userò di volta in volta come titolo, perché non so dare titoli. :P
PS2: Avendo poco tempo probabilmente mi sfuggirà qualche errore, quindi siate clementi. ^///^
 

Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 831
Prompt: Invito (Red List – 1/10/2018)
 
 
Invito
 

Lan-Chen sedeva sul letto della sua stanza.
I capelli lunghi, raccolti in due alti chignon ai lati del capo, la facevano sembrare più piccola di quanto non fosse.
Ventisei anni, ma ancora un volto da bambina. La bassa statura e il fisico minuto non aiutavano a farla apparire come la donna che sarebbe dovuta essere. Ma era bella, bella come una ragazza qualunque del Regno della Terra: gli occhi grandi, la carnagione dorata e i capelli del colore caldo della corteccia degli aceri che circondano la città di Zaofu.

Il corpo era fasciato in un abito di seta verde, un verde intenso e scuro che avrebbe dovuto mettere in risalto le sue curve, ma che, involontariamente, spostava l’attenzione sugli occhi di smeraldo. I decori in metallo, tipici della sua città natale, brillavano chiari e freddi sulla stoffa preziosa, coccolandola in una sensazione di piacevole protezione; un’armatura non voluta nata dalle usanze della Città del Metallo e del clan di cui era parte.

L’invito che sua nonna paterna le aveva procurato le bruciava tra le mani.
Non le piacevano le feste; non le piaceva la vita mondana in generale, ma si sarebbe adattata a quell’evento, questa volta come le altre; lo doveva alla sua città e alla guerriera che aveva promesso di aiutare.

Nuo-Shi non era certo una persona facile da contenere. Era convinta che l’arma che le era stata rubata potesse trovarsi alla mostra d’antichità e lei aveva il sacro dovere di controllare che tutto filasse per il verso giusto, ma soprattutto che la donna non uccidesse nessuno. Non che Lan-Chen pensasse seriamente che potesse farlo, ma Nuo-Shi era determinata, forte, e ne possedeva sicuramente le capacità; mentre la sua città si era adagiata troppo, e da troppo tempo, sulla tecnologia che la caratterizzava e sul potere dei custodi del Clan del Metallo, per scorgere anche il minimo pericolo in quella che poteva apparire come una semplice donna.

Un sospiro le affiorò alle labbra, mentre le lancette dell’orologio ticchettavano insolenti il passaggio dei secondi, ricordandole che doveva muoversi; che doveva alzarsi, infilare quelle benedette scarpe dal tacco vertiginoso e fingere che andasse tutto bene.
Ma… non andava bene.
Non stava più bene da quando si era trovata costretta a scegliere se uccidere chi non le aveva fatto nulla, pur di salvarsi la vita, o fare la cosa giusta.
Ma cosa c’era stato di veramente giusto in quanto era accaduto?
Era stata invitata a un evento proprio come quello a cui si sarebbe recata a breve, le avevano detto che avrebbe dovuto aiutare il suo vecchio professore della facoltà d’ingegneria dell’Università di Ba Sing Se e invece... invece si era trovata invischiata in un conflitto a fuoco.
Serviva un dominatore del metallo e per questo una delle persone che più stimava al mondo l’aveva tradita, usandola solo ed esclusivamente per il controllo dell’elemento che poteva mettere in campo.
Aveva combattuto, aveva riportato a casa la pelle, ma una parte di lei era rimasta lì, tra le macerie del Palazzo Imperiale della Capitale della Nazione del Fuoco.
Era rimasta lì e lì ritornava ogni notte che gli spiriti regalavano agli umani: sempre immobile, attanagliata dal senso d’impotenza e con lo sguardo fisso sull’ombra di fuliggine scura lasciata dall’uomo che l’aveva messa in trappola; ridotto al solo riflesso sbiadito sulla roccia dal colpo letale della Signora del Fuoco.
Era stata una battaglia persa ancor prima che cominciasse, eppure la follia umana, o la sua assurda speranza, aveva fatto credere a quel manipolo di uomini che fosse l’occasione giusta per cambiare il mondo. Poi…
Poi erano riusciti a fuggire, ma solo grazie all’intervento dell’Avatar: un ragazzino che era comparso dal nulla nel momento peggiore e aveva concesso ai ribelli, ancora in vita, una via di fuga, per poi scomparire subito dopo, proprio come era apparso.

Si alzò di scatto dal materasso, nello stesso modo rapido e veloce con cui si trappa un dente cariato.
Le scarpe vennero messe ai piedi in poco più di un secondo e quell’invito venne infilato dritto tra le pieghe di pelle della borsetta.

Era un azzardo, lo sapeva. L’imperatrice l’aveva vista in faccia. Si erano fissate per quelli che le erano sembrati istanti interminabili, occhi negli occhi, e la furia di quello sguardo dorato l’aveva paralizzata più della paura stessa.
No, non era un’idea geniale presenziare a un evento mondano, specialmente se l’organizzatore si era impegnato al massimo per fare in modo che venisse mandato in mondovisione, ma… Non poteva fuggire per sempre.

Non poteva e non voleva.

Il lato positivo?
Se la Signora del Fuoco l’avesse scovata i suoi incubi sarebbero finiti e… con questi la sua vita, ma era solo un dettaglio, infondo.

Era ora di andare.
Un respiro più profondo di altri, mentre recuperava il coraggio perso dietro quei ricordi che a tratti le sembravano non appartenerle davvero, e mosse un passo deciso verso la porta; un altro, un altro, e un altro ancora ed era fuori.

Nuo-Shi la stava aspettando e con lei il suo destino.

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Capitolo 2
*** Nuvole ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1038
Prompt: Nuvole (Red List – 2/10/2018)
 

Nuvole


“Nulla di fatto”, pensò Lan-Chen osservando la ragazza al suo fianco e lasciandosi sfuggire un sospiro. Lei e Nuo-Shi avevano ottenuto qualche dritta dal curatore della mostra, ma niente di certo.
La guerriera taceva e neanche lei non aveva voglia di aprire bocca, quindi preferì non farlo fin quando non arrivarono alla locanda nella quale la Nobushi dimorava. Anche una volta lì, però, si limitò ai soliti convenevoli.
All’indomani Nuo-Shi sarebbe partita.
Un nuovo sospiro.
Lei, invece, cosa avrebbe fatto?
Pensierosa si mosse verso casa.
 
***
 
Era l’alba ormai ed era sola per le strade.
I piedi le dolevano.
Bloccò il passo accostandosi a una parete, vi si sostenne e si sfilò quei due strumenti di tortura che insistevano col volersi fingere calzature.
Il sollievo fu immediato.
“Grazie agli spiriti!”, esclamò sollevata.
Quei trampoli erano tanto dolorosi quanto era dolce il sollievo ottenuto dal toglierli.
Afferrò le scarpe per i tacchi sottili, tenendole entrambe in una mano, per poi tornare a poggiare pesantemente contro il muro alle sue spalle.
Chiuse gli occhi, godendo per qualche secondo del contatto fresco e rassicurante del suolo sotto i piedi scalzi, e li riaprì più per necessità che per reale volontà: era tardi e doveva tornare a casa, malgrado ne avesse davvero poca voglia.
“Qualche altro minuto non mi ucciderà”, si disse socchiudendo lo sguardo e, proprio in quel momento i lampioni cominciarono a spegnersi uno dopo l’altro.
Sorrise.
Considerò con ironia che l’inesistente padrone di quella strada la stesse cacciando, come in un locale ci si libera da clienti molesti superato l’orario di chiusura.
“Deve essere un segno del destino”, suggerì a sé stessa e si sarebbe scostata da quella parete, sarebbe andata, non fosse che lo sguardo, ancora volto al lampione sulla sua testa, s’incantò a osservare il cielo.
La notte stava fuggendo lenta, inseguita dal primo chiarore, lasciando dietro di sé uno strascico viola che lentamente sfumava verso un candore surreale.
Il sole ancora non si vedeva, ma quell’alba incedeva costante, gettando chiazze dorate sulle nuvole in cielo.
 
Attese. Lan-chen attese, fin tanto l’oro non sfumò in un arancio sempre più intenso che annunciava l’arrivo del giorno.
Le nuvole candide sembravano pascolare in quel cielo, morbide come cotone.
 
La mente corse rapida all’ultima volta in cui aveva visto l’alba, all’ultima volta che aveva alzato gli occhi al cielo. Non si era più azzardata a tanto: anche quella volta c’erano nubi, ma erano nubi scure e letali: un nuvolo di spiriti furiosi che si abbatteva conto lei e contro tutti quelli che la stavano aiutando a mettere in sicurezza il Villaggio di Min.
Quanto tempo era passato?
Era stato poco dopo l’attentato all’imperatrice, dopo poco che lei e il resto dei sopravvissuti erano scappati con la coda tra le gambe per poi nascondersi ai quattro angoli del globo.
Era stata la richiesta d’aiuto proveniente dal villaggio ai confini della Palude Nebbiosa a convincere sua nonna che lei, Lan-Chen, avrebbe fatto al caso soddisfacendo il bisogno di quei contadini.
Sua nonna e le sue manie, ma… aiutare quella gente le aveva fatto bene, una parte di lei si era… Avrebbe voluto dire “rasserenata”, ma no, il termine giusto era… “arresa”. Sì, si era arresa all’evidenza e alla ineluttabilità del destino. Non poteva ribellarsi, non poteva nulla, tanto valeva accettare quanto accaduto e tentare di andare avanti. E alla fine… alla fine era ritornata lì, nella sua città natale, fingendo che non fosse mai accaduto nulla per non far inquietare i suoi cari. Si era rimessa a lavoro, tornando a essere una dei tanti, un ingegnere come tanti altri, addetta all’emblema più glorificante della città di Zaofu: la lucente monorotaia che serpeggiava maestosa sulle teste dei suoi cittadini.
 
Le nuvole nel cielo continuavano a muoversi lente, sospinte dal vento e per un attimo Lan-Chen le trovò incredibilmente simili a lei; a lei trascinata dagli eventi e mai realmente consapevole delle sue azioni, ma… era stata bene quando aveva aiutato la gente di quel villaggio assediato dagli spiriti, riuscendo addirittura a mettere da parte il rancore che aveva provato per quel ragazzo del fuoco che, come lei, era fuggito lontano dalla Capitale e che si era ritrovata inaspettatamente tra i piedi, proprio tra quei contadini.
“Il destino”, disse a mezza bocca, accennando un ghigno divertito nel nominare quel fato che sembrava divertirsi alle sue spalle, godendo, giorno dopo giorno, della sua angoscia.
Era stata bene, non poteva negarlo. Aiutare gli altri le impediva di pensare a sé stessa e la stanchezza accumulata riusciva a farla dormire la notte.
 
Le nuvole, ormai completamente bianche, sembravano rotolare verso le montagne.
Lo sguardo di Lan si posò sulle cime boscose che circondavano la città, facendo di Zaofu un gioiello lucente incastonato nel verde. Un verde vivido e intenso come lo sguardo di Nuo-Shi.
Era stata bene, anche in quelle ore, quando aveva spento ogni pensiero personale dirigendo i suoi intenti esclusivamente nell’aiutare la donna.
 
Ancora gli occhi al cielo e a quelle nuvole.
Era davvero come loro?
Sì, lo era.
Loro potevano accarezzare il cielo con la delicatezza di una piuma o esplodere dirompenti come la tempesta.
Lei poteva essere morbida come la sabbia e tagliente come il metallo.
Questo era, questo le rimaneva dopo che le avevano strappato il suo sogno più grande: non avrebbe mai avuto la targa che sognava nell’Aula Magna della Facoltà d’Ingegneria, ma… poteva avere altro, forse.
Non poteva più sperare in riconoscimenti pubblici ora che l’imperatrice conosceva il suo volto. Non c’era più spazio o speranza in quel che rimaneva della sua vita per le quelle velleità da ragazzina: velleità certo a cui aveva dedicato ogni singolo momento cosciente degli anni passati, per cui aveva lottato, perso il sonno e piegato la testa innumerevoli volte, per finire col trovarsi solo con un pugno di mosche in mano.
 
Quelle nuvole avevano il vento che le spingeva verso il loro destino.
Lei aveva trovato degli amici.
 
I primi passi cominciarono a echeggiare nelle strade, la Città del Metallo si stava svegliando. Poco distante, la monorotaia stridette, sospesa sotto quel cielo, al passaggio del primo treno.
Era davvero ora di andare e quelle nuvole spinte a ovest dal vento sembravano volerle indicare la direzione: Nuo-Shi non avrebbe continuato il suo viaggio da sola.

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Capitolo 3
*** Insonnia ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 972
Prompt: Insonnia (Red List – 3/10/2018)
 


Insonnia


Era tornata nella sua casa, Lan-Chen. Era di nuovo in quel bilocale grande come una scatola di sardine che un tempo la faceva sentire al sicuro, lontana da tutto e da tutti, ma non era più così da un po’ ormai.
 
Si girava e rigirava tra le coperte. Il sonno non stava semplicemente tardando a venire, quella notte sembrava proprio essersi dimenticato del loro appuntamento.
 
Tenere gli occhi chiusi le stava facendo male, era come se spingessero per uscirle fuori dalle orbite, per spalancarle le palpebre, e allora li aveva aperti. Si era trovata così a osservare l’oscurità, perché il soffitto non era visibile, vittima, come tutto il resto nella stanza, del suo vizio di rintanarsi nel buio più totale quando doveva andare a dormire, non permettendo al minino raggio di luce di entrare attraverso le tapparelle e le porte sigillate.
Una brutta abitudine la sua, ma aveva imparato che qualunque sprazzo di luce, anche il più piccolo brillio, in una situazione del genere sarebbe valso a metterla sull’attenti, chiaro segnale di pericolo.
Sbuffò a quella sua ennesima riflessione.
Era più sveglia di quando si era messa a letto e quei suoi pensieri da squilibrata non l’aiutavano certo a recuperare il sonno.
Da quando era diventata così paranoica?
Non lo ricordava, forse lo era sempre stata, un po’ come sua madre, ma… sua madre aveva false fobie da cui scappare, le sue paure invece avevano un volto e un nome.
 
Un sospiro.
Forse era colpa di quel che aveva mangiato quella sera, ma cosa aveva mangiato in effetti?
Nulla. Ecco cosa. Ma non le doleva la pancia. Nei suoi viaggi si era abituata a nutrirsi quando capitava e lo stomaco aveva imparato a ringraziare invece che a chiedere.
Quindi? Perché sembrava che si fosse iniettata del caffè direttamente in vena?
I dominatori del fuoco e dell’acqua erano strani quando si verificava un’eclisse, ma quelli della terra e dell’aria non avevano certi problemi, giusto?
 
Sospiro numero due e l’istinto le suggerì che forse, ma solo forse, stava per eruttare un vulcano nel sottosuolo della città che avrebbe ucciso tutti.
Uhm… ok, era fantascienza, gli abitanti del Regno della Terra non erano certo folli come quelli della Nazione del Fuoco che costruivano intere città nella bocca dei vulcani senza la certezza che fossero del tutto esiti. Senza contare che Zaofu era piena di dominatori come lei e sicuramente un evento del genere avrebbe attivato i sensi di tutti e non solo i suoi.
Stava vagando con la fantasia, non c’era altra spiegazione.
 
Un terzo sospiro e Lan arrivò alla conclusione che avrebbe dovuto farci qualcosa: non poteva dormire una notte sì e una no, era assurdo! E adesso, quando non erano gli incubi a rovinarle il riposo, ci si metteva anche l’insonnia e quel tamburellare frenetico nel suo petto?
Un attimo. Tamburellare… cosa?
Da quando il suo cuore aveva accelerato a quel modo?
Allora realmente un vulcano stava per eruttare.
Ok, accantonò istantaneamente quell’ipotesi: era la Lan-fatalista quella che spingeva per la soluzione più assurda o la Lan-goliardica? Uhm… in determinati casi la differenza era davvero poca, fatto stava però che l’accantonò, troppo assurda e troppo improbabile come aveva già valutato.
 
L’ennesimo sospiro, il quarto giusto?
C’era chi contava le pecore e chi… ma non era quello il punto. Era agitata, questo era. Ma non ne capiva il motivo. Non che non ne avesse, intendiamoci, ma quella non era certo una notte diversa dalle altre, tranne per il fatto che era tornata a casa e…
Era tornata a casa. Era questo?
 
Per una manciata di secondi non pensò a nulla dopo quella rivelazione, come se il cervello avesse smesso di funzionare, ed eccolo… un nuovo sospiro.
Aveva bisogno di prendere aria, questo le serviva. Doveva uscire, guardare la luna, le stelle, o qualunque altra cosa gli spiriti avessero piazzato in cielo per lei quella notte; non importava cosa, ma doveva uscire.
 
Si ritrovò in piedi senza ricordare quando si fosse alzata, ma… almeno non aveva sospirato… forse.
 
Si sfilò la maglia enorme che usava per la notte. Il simbolo dello Yuan, emblema del Regno, era impresso enorme sulla stoffa, non lo vedeva, ma sapeva che era lì.
Accarezzo distrattamente le fasce di metallo attorno ai polsi.
“Mai farsi trovare disarmata!”, era per questo che bracciali e collare non li levava mai, nemmeno per dormire. Avrebbero potuto essere la sua condanna un giorno, se avesse incrociato un dominatore del metallo più forte di lei, in grado di surclassare il suo controllo sull’elemento; ma se sarebbe avvenuto, se fosse stata tanto incauta da scontrarsi con qualcuno senza valutarne prima le potenzialità, se lo sarebbe meritato.
Scioccamente una parte di lei trovava quella fine addirittura romantica: percepiva della poesia nell’andarsene abbracciata, stretta mortalmente, dall’elemento che l’aveva sempre protetta, provando sulla sua pelle, per una volta, quello che aveva patito chi le aveva tagliato la strada.
Sospirò ancora. “Ancora? Ma no dai!”, si rimproverò a piena voce.
Da quando era diventata una mammoletta simile?
 
Si infilò la divisa d’allenamento: i pantaloni larghi e la casacca dello stesso colore del muschio che cresceva sulle pietre nel sottobosco. Legò la cintura di raso stretta alla vita.
Sorrise, non sospirò questa volta; un sorriso che si perse nell’oscurità, rendendosi conto di non avere più il bisogno ossessivo di guardarsi allo specchio. Sapeva perfettamente cosa stava facendo, senza bisogno di vederlo: aveva imparato a memorizzare ogni aspetto del luogo che la circondava, prima ancora che il cervello ne organizzasse il pensiero.
 
Strinse alla cieca i lacci degli stivali rinforzati e fu fuori in un secondo.
I passi batterono pesantemente contro il marmo delle scale, mentre scendeva veloce; mentre guadagnava la strada.
 
Aria, finalmente!
Si bloccò sul marciapiede e respirò a pieni polmoni, libera da un passato che l’opprimeva, che non riconosceva più come proprio. E…
Il cuore smise di martellarle in petto.

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Capitolo 4
*** Segreti ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 2219
Prompt: Segreti (Red List – 4/10/2018)
 


Segreti


Una colonna, fatta della stessa pietra che lastricava il sentiero, si erse quasi fosse viva. Lan-chen scattò di lato: un attimo di più e ne sarebbe stata investita in pieno. Ruzzolò malamente lungo il pendio. Strinse i denti, trattenendo un gemito di dolore quando quella caduta si interruppe contro il tronco di un albero.
Krong, cavalcando il suo dominio, ci mise un secondo per starle nuovamente addosso. L’enorme dominatore della terra afferrò la ragazza per il collo tirandola su tanto da tenerla sospesa a mezzaria.
La stretta era talmente salda e forte da mozzare il respiro, ma questo non vietò a Lan-Chen di ghignare smargiassa, mentre un rivolo di sangue le imperlava le labbra. Le dita sottili si afferrarono sulle braccia del dominatore nel tentativo di resistere a quella morsa.
“Cos’hai da ridere, Lin-Chan?”, inveì l’altro.
La ragazza ruotò gli occhi, non tanto per il dolore, quanto per l’esasperazione. Quell’energumeno avrebbe mai imparato il suo nome?
Poi fu un secondo, la risposta che Krong desiderava non si fece attendere: gli occhi di Lan-Chen vennero percorsi da un tenue bagliore verde. Le fasce di metallo che le adornavano entrambe le braccia fluirono nell’etere quassi fossero divenute liquide, cambiando di proprietario; ubbidienti al volere della dominatrice si consolidarono intorno ai polsi del colosso, forzandone la presa.
 
“Che diamine…?”, protestò Krong. Per quanto volesse rinsaldare la stretta, quel metallo sembrava di tutt’altro parere.
Ringhiò furente costretto a liberare la ragazza.
Lan, riguadagnato il suolo, portandosi una mano alla gola, barcollò instabile nel tentativo di trovare equilibrio sul pendio inclinato.
Il metallo costrinse i polsi del gigante uno contro l’altro, fondendosi in una sola, strettissima, fascia lucente.
Il terreno scosceso ebbe la meglio sulla dominatrice, più concentrata a immobilizzare l’avversario che sul resto. Sentì la terra mancarle letteralmente sotto i piedi. Erano sul fianco della collina e una nuova caduta avrebbe significato ritrovarsi ancora una volta a dover contrastare la forza di gravità, cosa che non le era mai riuscita un granché bene. Le fu certo, in quella frazione di secondo, che si sarebbe trovata con ben altro di un labbro spaccato e una presunta costola inclinata. Non le rimaneva che sperare che arbusti e cespugli rallentassero la caduta senza devastarla troppo.
 
“No, non funziona così, bella mia!”, protestò ancora il ragazzone della terra, mentre nello stesso istante abbassava il baricentro, divaricando le gambe, esibendosi in un richiamo perfetto del suo dominio. Le mani, ancora unite tra loro, colpirono come un enorme martello la terra davanti a lui. Il suolo vibrò scosso dal fremito che gli donava la vita e si innalzò alle spalle delle ragazza.
Lan strinse gli occhi, completamente indifesa verso quel nuovo evento.
 
“Accidenti a te, Lalla!”, affermò ancora il dominatore, muovendo la terra sotto i propri piedi alla velocità del suo stesso pensiero e arrivando accanto alla sua oppositrice.
Lan-Chen giaceva immobile, stesa sulla lastra di terra creata da Krong. Quella mossa aveva ferito più il suo orgoglio che il suo fondoschiena, ma le aveva evitato una sorte ben peggiore.
“Vuoi farmi venire un colpo?”, l’aggredì il ragazzone, mentre lei sciolse il dominio che gli avvolgeva i polsi.
Le labbra della fanciulla si piegarono verso l’alto in un sorriso spavaldo, mentre Krong si porse per aiutarla a rialzarsi.
“Mi verrà un bel livido”, commentò lei, massaggiandosi il fianco.
Il ragazzo scosse il capo.
Le fasce di metallo tornavano al loro posto, alle braccia di Lan-Chen.
Di nuovo in piedi, la dominatrice scoppiò a ridere. Davvero quello scemo di Krong si stava preoccupando per lei?
Anche le labbra del ragazzo si piegarono in un sorriso sbieco.
“Però è stato divertente, non trovi?”, asserì lei, cercando di quietare le risa. “Dovremmo farlo più spesso”.
“Scusa, ma preferisco fare altro con una bella ragazza, invece di riempirla di botte”, puntualizzò lui, dissentendo apparentemente esasperato a quell’atteggiamento, prima di tirarla a sé così da poterla riportare sul lastricato, aiutato dal potere elementale che lo caratterizzava. Si ritrovarono così senza aver fatto sforzo alcuno sulla via che dalla montagna portava alla città.
 
Era notte e Zaofu era incredibilmente bella vista dall’alto: un bocciolo di loto lucente illuminato dalla luna e racchiuso in petali di metallo.
 
Appena il ragazzo cessò il suo controllo sulla terra, Lan si scostò da lui.
Si piegò sulle gambe a sufficienza per toccare la vecchia pietra che rivestiva quel camminamento e che da secoli conduceva i viaggiatori tra le mura sicure della sua città.
Respirò lentamente, utilizzando il suo senso sismico per controllare che nulla di pericoloso si muovesse nei paraggi: non scovò nulla oltre il dominatore a un paio di passi da lei e un gatto-gufo che cacciava topolini tra i cespugli, facendo vibrare i sensi della ragazza al ritmo dei ramoscelli che smuoveva.
 
Krong intrecciò le mani dietro la nuca, prima di gongolare fissando la ragazza. “Hai perso il tuo smalto, Lin-Lin”, commentò, mentre Lan-Chen si alzava e lo guardava come se potesse fulminarlo da un momento all’altro.
 
Quel grosso gradasso si metteva a fare del sarcasmo per un colpo fortunato dopo che lei gliele aveva suonate non si ricordava più quante volte? Poi…
“Cosa c’è che non va, Lan-Chen?”, il tono di lui le arrivò inaspettatamente preoccupato.
Lan lo guardò meravigliata e non perché per una volta sembrava aver indovinato il suo nome, ma perché quello che percepì, prima di interrompere il contatto con il suolo, era il pulsare di un cuore sincero.
“Davvero, Krong? Davvero t’importa?”, la meraviglia nella sua voce dovette smuovere qualcosa nell’altro, dato che lo sguardo gli sussultò ferito.
“Per chi mi hai preso?”, protestò, preferendo al viso della ragazza la luna piena.
“Per l’idiota che solo un paio di anni fa voleva picchiare a sangue un ragazzino privo di sensi per semplice divertimento”, rispose lei a tono.
Krong sbuffò arreso, tornando a guardarla. “Strano, ti sei dimenticata di puntualizzare che io e due dei Miei volevamo pestare quel delinquentello venuto a fare lo spaccone nella nostra zona.” C’era dell’ironia nella sua voce, ma Lan non intuì immediatamente a cosa fosse dovuta.
“Già. Scusa. Errore mio. Tre contro uno: una bella prova di coraggio, quasi me ne dimenticavo.” Scosse il capo: Per un attimo aveva creduto che quello che era stato un suo amico d’infanzia potesse essersi ravveduto.
“Quella volta ce le hai suonate per benino”, aggiunse a quel punto Krong, tornando a guardarla.
Occhi di giada fissi in altrettanti occhi verdi.
Quel dire riuscì a strapparle un sorriso. “Ho avuto qualche aiutino.”
“Sì certo, il mostro.”
Lan assottigliò lo sguardo infastidita da quel dire, ripensando al dominatore storpio che l’aveva aiutata in quell’occasione.
“Quello non valeva una briciola rispetto a te.”
“Ehi, non sarà un complimento il tuo, vero?”, decise di rivestire la sua aria spensierata: litigare non l’allettava più tanto in quel momento.
“Beh, sì! Penso che lo sia.” Krong sciolse le mani lasciando che una tornasse a ciondolare libera accanto al suo corpo, mentre con l’altra si dava una vistosa grattata tra i capelli.
Lan-Chen l’osservò in silenzio per qualche secondo.
“È questo sai?”, aggiunse il ragazzo, muovendosi fino a un grosso albero al ciglio del camminamento, per poi lasciarsi cadere ai suoi piedi, sedendo sull’erba. “Te le ho date anche troppo facilmente prima. Ringrazia che non fossi in vena di vendette, perché, Bella Mia, tu sei sulla mia lista nera da un bel po’, ormai.”
Lan non rispose. Si accostò a quel gigante della terra e si lasciò scivolare con la schiena contro il tronco fino ad arrivargli seduta accanto.
“Tutto mi aspettavo stanotte”, continuò ancora lui, “tranne che incontrarti in strada.” Fece una breve pausa giusto per accennare un ghigno e riprendere: “Stavo imbrattando la vetrina di quel vecchio che si ostina a non pagare. Tu mi hai visto, ma hai tirato dritto come se nulla fosse.”
“Era solo una vetrina, non stavi mica uccidendo qualcuno.”
“Già!”, commentò con tono sarcastico.
La ragazza sospirò pesantemente, portando le ginocchia al petto e abbracciandole quasi fosse una bambina.
“Sono stanca. Forse hai ragione tu, ho perso il mio smalto.” La sua voce era poco più di un sussurro.
 
Krong. Ha ripensarci era cominciato tutto con lui. Con lui e le sue bravate da bullo di quartiere. Era poco più di un ragazzino allora e… adesso? Cos’era diventato?
Lan non lo sapeva, ma era noto che il padre del dominatore fosse un poco di buono e lei non credeva che le mele cadessero mai troppo distanti dall’albero.
Krong. Se quella volta non si fosse tanto incaponito lei non avrebbe mai conosciuto Shunto, Nokato o la giovane Nieve. Probabilmente sarebbe stata il genio dell’ingegneria che aveva sempre desiderato diventare, non avrebbe intrapreso nessun viaggio per aiutare una ragazzina sperduta a ritrovare sé stessa e un nobile della Nazione del Fuoco a tagliare i ponti con le sue origini.
No, si sarebbe fatta gli affari propri, ma Krong… ahhh, lui era sempre stato odioso, non poteva permettergli di compiere l’ennesima ingiustizia e poi… poi era rimasta impelagata nelle vite troppo complicate di quelli che diventarono i suoi amici; di quella ragazzina che divenne come una sorella per lei.
 
“Beh, se ti lasci fregare dalla stanchezza, sei un’idiota!”, la riprese quel bellimbusto.
“Cosa diav…”
“Sta zitta”, La bloccò lui, “tocca ai grandi parlare adesso”.
Grandi? Grandi! Ma se aveva a malapena un paio d’anni in più di lei.
“Il mondo è una vera schivezza, Lan-Chen, e io lo so bene.” Ok, Lan cominciava a pensare che lo avesse fatto a posta a sbagliare il suo nome in tutti quegli anni. “Ma a me non è permesso cambiare. Mio padre… beh, non è un segreto per nessuno chi sia mio padre. A lui serviva che l’ultimo dei suoi figli gli guardasse le spalle. Sono il suo gorilla, a differenza dei miei fratelli, e non serviva che studiassi o che mi trovarsi un onesto impiego come copertura. Gli affari di famiglia erano già ben gestiti da quelli venuti prima di me. Ma tu… cavolo Lan! Hai una famiglia che ti ama, un dominio talmente potente da mettere in ginocchio un’intera triade. Ok, magari sto esagerando”, si riprese lui, “ma… capisci cosa intendo vero?” S’interruppe un attimo, ricercando lo sguardo della ragazza che non mancò di gettarsi nel suo. Le sorrise e proseguì: “Hai origini nobili e questo da solo basterebbe ad aprirti ogni porta.”
Lei lo guardò sorpresa.
“Ehi, non fare quella faccia! Sei la mia nemesi, credi che non abbia mai preso informazioni?” Fece un’ulteriore pausa, il tempo di rubarle un sguardo maggiormente stupito, per poi continuare: “Non se ne parla a Zaofu e non ne capisco il motivo, ma a Gaoling tua nonna è una specie di celebrità e ti adora. E… se te lo domandi, sì, so anche questo!”
“Wow, ho uno stalker e non lo sapevo.”
“Fai poco la cretina e ascoltami. Il punto è che tu potresti essere qualunque cosa desideri e invece… invece prima sembrava quasi che volessi farti ammazzare. Cavolo, bella, ti ho chiesto una rivincita, mica avevo intenzione di macchiarmi le mani col tuo sangue.”
“Cavolo, sembra quasi che mi rispetti.”
“In un qual modo, sì. E poi… chi stalkerei se mi morissi così, di punto in bianco?” L’ironia era palese, troppo palese per non riuscire a strappare un nuovo sorriso alla brunetta.
Ancora il ragazzo sollevò i lati della bocca in un ghigno, prima di darle di spalla abbastanza forte da farla dondolare su sé stessa per poter riprendere posizione.
“Lo sai, non saresti male se non fossi… ehm… Krong”, commentò Lan.
“Uhm… quindi c’è qualcun’altra in vena di complimenti oggi?”, ribatté a tono lui.
“Forse…”, rispose lei, trascinando l’ultima vocale con fare fanciullesco poi, come a volersi togliere un fardello dalle spalle, disse: “Lo vuoi sapere un segreto, Krong?”
“Spara!”
“Ero tra quelli che hanno tentato di assassinare l’Imperatrice Iris.”
Perché glielo diceva?
Semplice, aveva bisogno di togliersi quel peso dal cuore e Krong era un completo disastro, ma non era poi così male infondo.
“Sì, certo. E io sono l’Avatar”, rispose deluso da quello che riteneva uno scherzo.
Lan sorrise. “Naaa, l’Avatar avrà sì e no la metà dei tuoi anni”, ironizzò, decidendo di stare al gioco.
“Ovvio, perché tu conosci l’Avatar”, la canzonò.
“Uhmmm, conoscere è una parola grossa, diciamo che mi ha salvato la vita un paio di volte.”
“Ho detto che puoi essere quello che vuoi, ma assassina e conoscente dell’Avatar? Non ti sembra di esagerare un pochino?”, rispose, riducendo gli occhi a due fessure.
“Dici?”, domandò, avvicinandosi con aria di sfida a quel volto che a tratti poteva ricordare ancora bambino.
“Dico di sì, Bellezza!”, si pavoneggiò lui appena in tempo, prima di essere azzittito da un bacio.
Krong, colto alla sprovvista, sgranò lo sguardo, prima di lasciarsi andare alla medesima premura che la ragazza gli stava riservando.
Lan-Chen si scostò da quella bocca il tempo di riprendere fiato e tuffarsi in quegli occhi tanto chiari quanto famigliari.
“Sei forse impazzita, Lan?”, chiese Lui, approfittando del distacco, con la voce ammorbidita da quel contatto tra loro.
La ragazza gli sorrise sul filo delle labbra, sussurrandogli a pelle: “Credevo… preferissi fare altro con una bella ragazza?”
A quella sfida, Krong rispose affondandole una mano tra i capelli e tornando a baciarla.
 
Non importava che Lui avesse creduto alle sue parole, l’importante era stato sentirle uscire dalla sua bocca. Un gesto insulso forse, ma che le aveva fatto sentire l’anima incredibilmente più leggera.

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Capitolo 5
*** Futuro ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1367
Prompt: Futuro (Red List – 5/10/2018)
 


Futuro


 
Senlin non era cambiata di una virgola dall’ultima volta che Lan-Chen vi si era recata.
Era pieno pomeriggio, il cielo era terso e, malgrado fosse autunno inoltrato, il sole regalava un tepore gradevole. La sacca sulle spalle della ragazza era leggera: si sarebbe trattenuta in città solo qualche giorno, il tempo necessario per controllare, come le era stato chiesto dal padre, la struttura del Casinò che aveva aiutato a ideare. Una buona scusa per andare a vedere come stavano quel gruppetto di mocciosi a cui si era ripromessa di non affezionarsi, che però, giorno dopo giorno, erano diventati una priorità.
 
Sorrise stiracchiando le membra intorpidite dal viaggio.
Il ricordo del periodo passato in quella città la coccolava piacevolmente, riportandole alla mente una sé stessa di qualche anno più giovane e fermamente convinta di avere ancora un futuro davanti; fermamente convinta che avrebbe lasciato il suo nome nella storia dell’ingegneria.
 
Ricordava. Era all’inizio di quella sua avventura: era preoccupata e furiosa, pensava che suo padre l’avrebbe uccisa.
Finalmente dopo tanto aveva ottenuto un incarico decente, anche se non esattamente per meriti. Il caso aveva voluto che i Suoi festeggiassero proprio in quel periodo il loro venticinquesimo anniversario di matrimonio e… come avrebbe mai potuto “lei” non far pesare al suo adorato papino tutto l’amore e l’impegno che la sua dolcissima, anche se terribilmente paranoica, mammina aveva investito nella loro relazione? E come avrebbe potuto non parlargli di quel viaggio? Quello che da sempre lui e la mamma sognavano di fare, ma avevano sempre rimandato e che, quasi fosse un segno del destino, era finalmente disponibile a prezzi modici?
Ovviamente non era stato facile. Si era dovuta accordare con la tizia dell’agenzia di viaggi per delle riparazioni gratuite ai mezzi di trasporto della suddetta ditta per un tempo quasi eterno, ma alla fine tutti erano stati contenti: la titolare dell’agenzia aveva ottenuto un meccanico gratis, sua madre e suo padre avevano acquistato il viaggio dei loro sogni e lei… beh, lei per la prima volta sarebbe stata “Il Capo”.
Certo, sarebbe stata responsabile solamente di un cantiere e allestito su richiesta di un riccone nativo della Nazione del Fuoco e dai dubbi affari; un riccone che sembrava aver trovato fortuna proprio lì, a Senlin, aprendo un casa da gioco dopo l’altra.
Quella nuova costruzione però, a differenza delle altre, sarebbe stata una vera e propria attrattiva. Non si parlava solo del palazzo più alto della città, ma di un’intera struttura in vetro e metallo che, scivolando su un impianto circolare, avrebbe usufruito della vista migliore della zona: la foresta sarebbe apparsa in tutto il suo splendore attraverso le immense vetrate, scorrendo sotto gli occhi dei clienti.
Un edificio all’avanguardia grazie alla navicella di vetro su binari ma, per riuscire a farla procedere lentamente, senza il minimo sentore di impedimento, in modo da dare agli ospiti la comodità a cinque stelle che voleva il committente, necessitava di innumerevoli elettromagneti.
 
Il suddetto presunto mafioso non badava a spese e questo rappresentava il sogno di ogni ingegnere: materiali eccellenti, alta tecnologia e la conseguente possibilità di creare qualcosa di magnifico.
Una situazione idilliaca non fosse stato che quello che avrebbe potuto segnare l’ascesa della ragazza ai più alti livelli delle lobby ingegneristiche, riservati esclusivamente alle più grandi menti che l’umanità avesse mai avuto il privilegio di generale, aveva rischiato di rivelarsi anche la sua fine: una prematura e disastrosa fine.
Le continue sparizioni di materiale dal cantiere, soprattutto dei costosissimi magneti, avevano posto in serio pericolo ogni piano di Lan-Chen per il futuro, rischiando di mettere in dubbio la sua affidabilità in quel campo.
Un’onta che non sarebbe stata possibile ripulire con un semplice colpo di spugna, trovandosi ad avere a che fare con uno degli uomini più influenti della città; la persona che aveva richiesto il maggior esperto nel settore e si era ritrovato a far i conti con la figlia della persona designata per quel lavoro che, seppur geniale, rimaneva comunque una sostituta.
Tutto questo senza contare la fatica costatale per dimostrare a suo padre che nessun'altro più di lei avrebbe potuto sostituirlo in quel progetto; che nessuno, oltre lei, conosceva a menadito ogni singolo piano di lavoro del genitore e, soprattutto, come questi volesse che venisse eseguito.
 
Si era così trovata costretta a dover intervenire: se non erano bastate le guardie di sicurezza del cantiere a evitare quelle sparizioni, forse lei avrebbe avuto più fortuna scendendo in campo in prima persona.
Probabilmente sarebbe stato più cauto avvisare le autorità, ma quella città era corrotta fino al midollo e, proprio su queste basi, la paranoia ereditata dalla madre aveva preso il sopravvento sulla sua parte più razionale, in verità già messa a nanna dalla rabbia del veder sfumare quello che era il sogno della sua vita da sempre per quattro delinquentelli del piffero.
Ma… Tutto si sarebbe aspettata, tranne d’incontrare proprio in quella circostanza la sua amica Nieve e saperla completamente invischiata nella faccenda assieme a un gruppetto di bambini; bambini tenuti in scacco da criminali locali che non si erano minimamente resi conto di star pestando i piedi a uno dei padroni della città.
 
Ricordava la notte insonne passata a cercare una soluzione e la convinzione che insieme a Nieve avrebbero avuto la meglio su tutto e tutti e… se questo non fosse avvenuto, beh… Lei si sarebbe rialzata, questo pensava all’epoca, di questo era certa. Non si era mai abbattuta prima di allora, aveva sempre dato il massimo per primeggiare e, malgrado la fatica e la stanchezza, Lei non avrebbe ceduto per nessuna ragione al mondo.
 
Un sorriso apparve a illuminarle il viso mentre si dirigeva al Casinò Royale, un sorriso nostalgico che si perdeva dietro il ricordo di quella sé tanto ingenua e determinata.
 
Alla fine però ce l’avevano fatta. Lei e Nieve insieme c’erano riuscite: avevano liberato quei piccoli ladruncoli dal giogo dei loro sfruttatori, facendosi passare per sgherri del Boss della città. Avevano recuperato i materiali rubati, riuscendo così a salvare il lavoro di suo padre e, in fine, si erano salutate.
Nieve era una girovaga, non era fatta per rimanere troppo a lungo in un solo posto, aveva i suoi demoni da inseguire e Lan, per quanto avesse provato a farla demordere, aveva capito presto che quella testa dura di un’adolescente non si sarebbe mai rassegnata prima di ottenere la vendetta che bramava.
 
Un sospiro nel ripensare alla sua giovane amica, qualche secondo prima di vedere apparire davanti i suoi occhi, in tutta la sua magnificenza, il più illustre casinò della città.
Eccolo lì, incredibile e meraviglioso. Per qualche istante bloccò il passo come ogni volta, quasi le mancasse il respiro, incantata nel rivedere quella costruzione che le era costata così tanto portare a termine.
 
I ricordi, difronte a quell’immagine, inondarono di nuovo i suoi pensieri con la triste consapevolezza di quanta grandezza era in grado di realizzare che non le sarebbe mai più stata concessa, ma… cosa era successo dopo?
Dopo che Nieve se n’era andata, Lan si era impegnata anima e corpo, non solo nel progetto di suo padre, ma nel cercare di aiutare quei bambini a riprendersi il futuro che credevano fosse stato tolto loro.
Perché lo aveva fatto?
Perché poteva e doveva essere fatto, semplice.
Poteva: il denaro e i contatti non le mancavano in quella città.
Doveva: perché era passato il tempo in cui preferiva guardare dall’altra parte, come era passata la convinzione che esistessero un giusto e uno sbagliato assoluti. Aveva capito che la differenza risiedeva nelle sfumature. Nelle sfumature, gia, ma non nella legge. E… Sempre più spesso, si era accostata alle persone che altri ritenevano sbagliate.
 
Lan non era sicura di avere ancora un futuro, non certo il futuro che si era prefissata. Non sapeva cosa l’aspettava nel domani, si limitava a vivere giorno per giorno, prendendo dal mondo quello che le offriva, beneficiando al massimo di ogni cosa bella che le veniva concessa e quei marmocchi erano la più bella di tutte; quei marmocchi, i suoi marmocchi. Avrebbe continuato a fare di tutto per assicurare a Kimo, Jizu, Ninoh, Juju e a ogni altro dei suoi bambini il futuro che meritavano, godendo di quel domani brillante e unico che poteva scorgere solo nei loro occhi.

 

Note dell’autrice: Vi chiedo scusa, avrei voluto rendere meglio questo raccontino, ma l’ho gettato così come mi veniva, e onestamente gli ho solo dato una riletta veloce, quindi vi chiedo si perdonarmi errori, ripetizioni o quant’altro. L’ho scritto così, come era nella mia testa senza starci a pensare troppo.

Purtroppo ieri ho passato la giornata dal veterinario, dato che il mio gatto è stato operato d’urgenza, ho passato la notte insonne con la paura di non trovarlo ancora vivo la mattina, e questo raccontino è tutto quello che sono riuscita a fare, scusatemi.

Avrei potuto evitarmelo, lo ammetto, come ammetto di averci pensato, ma… sono fermamente convinta che gli impegni, quando si prendono debbano essere portati a termine, non è solo un dovere verso la persona, o le persone, a cui hai dato la tua parola, ma soprattutto un impegno verso se stessi.

Un abbraccio e scusate ancora.

Lance.

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Capitolo 6
*** Colazione ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 2420
Prompt: Colazione (Red List – 6/10/2018)
 


Colazione


Nella giornata passata, Lan-Chen si era dedicata anima e corpo ai controlli sul rotore dell’impianto edile. Malgrado la stanchezza e per quanto ci avesse provato, la notte non era riuscita a chiudere occhio: il suo incarico al casinò era terminato e avrebbe potuto dedicarsi a quello che le premeva maggiormente, ma l’ansia d’incontrare Kimo e Nala le aveva giocato contro.
 
Si era fatta mattina, sapeva che non avrebbe visto i due ragazzini prima di un paio d’ore, ma decise ugualmente di precederli al luogo dell’appuntamento. Non era male prendersi un po’ di tempo per chiarirsi le idee, soprattutto quando la testa doleva da sembrare sul punto di scoppiare, non aiutandola a trovare un buon modo per informare i suoi protetti su quanto era intenzionata a fare.
 
Il corso principale della città era già in fermento.
Il piano migliore che le era venuto in mente, a cui affidarsi, sembrava rimanere solo la speranza, a nulla era servita ad aiutarla l’aria fresca di quella mattina d’autunno.
“Possibile che non riesci a trovare nulla di decente per evitare che quei mocciosi si mettano sulla difensiva ancor prima che tu riesca anche solo a dire lo faccio per voi?”, si lagnò con sé stessa, sbuffando difronte agli sguardi perplessi dei passanti nel trovarsi davanti quella strana brunetta che parlava da sola.
 
Quei ragazzi erano nati e cresciuti in quella città, lì si trovavano tutti i loro ricordi, come poteva dire loro che aveva l’intenzione di portarli via?
Quella costatazione, divenuta la colonna sonora dei suoi pensieri, da prima che quella mattina giungesse, le incurvò le spalle gravandole addosso quasi fosse un peso enorme.
Fino a quel momento Kimo e il resto della piccola combriccola erano stati ragionevoli. Ogni volta che aveva preso una qualunque decisione che li riguardava erano stati concordi con lei, consci che quanto compiva era sempre ed esclusivamente per il loro bene, ma questa volta?
Lan aveva il terrore che la sua richiesta rischiasse di rivelarsi una costrizione, anziché un aiuto, per i sentimenti di quei piccoli già tanto provati dalla vita.
 
Il suo mondo era altrove e se aveva accettato che, almeno apparentemente, si gestissero da soli era stato solo per non sconvolgere le loro abitudini più del dovuto. Questo però non cambiava la cose: rimanevano dei bambini e, per quanto avesse deciso di procedere gradualmente, avevano bisogno di un vero adulto accanto. I suoi impegni non le permettevano di poter essere sempre presente e in più di un’occasione si erano trovati bloccati per questioni burocratiche e costretti ad aspettare che lei potesse raggiungerli per far da garante. E questo, no, non andava bene.
 
Passeggiava lentamente per lasciar passare il tempo, gettando di tanto in tanto uno sguardo distratto alle merci esposte nelle vetrine.
“Come posso dir loro: sapete ragazzi, i piccoli finalmente hanno l’età giusta per intraprendere un addestramento adeguato, oltre lo studio. Ho vagliato diverse opzioni, so che esistono scuole di dominio e di lotta valide anche qui a Senlin, ma vorrei che i dominatori imparassero l’arte del controllo elementare dalla mia famiglia. Come posso farlo?”, lamentò ancora, scimmiottando in farsetto la sua stessa voce, prima di sbuffare arresa per l’ennesima volta.
“Peccato che le origini della mia famiglia siano di Gaoling, mentre le loro radici affondano in questa terra; sono questi luoghi a mantenere vivi gli ultimi preziosi ricordi che li legano ai loro veri genitori.” Già, i loro veri genitori. Quelli che, la guerra d’espansione dell’Impero, aveva portato via tanto prematuramente.
Quei genitori verso cui, stupidamente, a volte Lan-Chen provava invidia, perché voleva veramente bene a quei ragazzi; un bene talmente profondo e forte che per lei riuscire a convincerli a frequentare la scuola di dominio di sua nonna sarebbe valso a dire farli entrare appieno nella famiglia, poterli considerare a tutto e per tutto parte della sua famiglia, perché… parte del suo cuore lo erano diventati ormai da tempo.
 
Per quanto sicura che quella fosse la cosa migliore da fare, sfortunatamente, Lan era altrettanto convinta di chiedere troppo ai sui giovani protetti. Aveva già rivoluzionato le loro vite, poteva chiedere un ulteriore sacrificio? Un sacrificio di tale entità, oltretutto?
Respirò profondamente, cercando di argomentare meglio i suoi intenti. “L’istituto scolastico non è molto lontano dall’abitazione della mia famiglia e, per chi non possiede un dominio, esistono diverse palestre che si dilettano nelle più disparate discipline di arti marziali e…” Quel pensare diede alito alla sua voce. “E… mi rendereste estremamente felice.” Poche parole, una frase semplice accompagnata da un sospiro e lo sguardo mise finalmente a fuoco il luogo dove si trovava, riportandola con i piedi in terra, lontana da quei ragionamenti.
Gli occhi si puntarono involontariamente sulla vetrina di una pasticceria: conosceva quel negozio, ma trovarsi lì voleva dire che i suoi piedi, mentre era immersa nei suoi deliri, avevano superato il luogo dell’incontro.
“Uff!”, sbuffò ancora una volta con lo sguardo attento alla merce in esposizione.
Un dolcetto certo non l’avrebbe aiutata, ma forse le avrebbe tirato su un po’ il morale.

Quella vetrina esponeva delle paste bellissime e dai colori vivaci; talmente vivaci che non era sicura al cento per cento che fossero commestibili, ma… “Come si dice? Quel che non storpia…", bofonchiò a mezza bocca per darsi una spintarella in quella direzione, ma… no.
Non era il caso.
Aveva promesso ai ragazzi che avrebbero fatto colazione insieme e non era una buona idea quella di rovinarsi l’appetito per qualche boccone strabordante di colorante.
Fece retro front e tornò sui suoi passi. Infondo il locare dove era diretta non era molto distante, il suo stomaco e la sua voglia di coccole dolciarie antistress potevano aspettare ancora un poco.
 
Nella realtà dei fatti, a preoccuparla maggiormente non erano i piccoli, ma Nala e Kimo. Le brutture della vita avevano costretto i due adolescenti a maturare prima del dovuto e, a differenza degli altri bambini, ricordavano troppo e avevano fatto troppo per non sentirsi sconfitti difronte all’idea di accettare una simile eventualità. Possedevano un carattere deciso ed erano orgogliosi al punto da preferire sgobbare più degli altri e trovarsi dei lavori che potessero affiancare allo studio, pur di non pesare direttamente sulle sue finanze e permettersi qualche libertà in più per viziare all’occasione i loro fratelli. Fratelli, già!
Quei ragazzini si consideravano fratelli anche se non esistevano legami di sangue tra di loro, ma avevano condiviso momenti terribili insieme, prima che lei e Nieve intervenissero per cambiare le cose: alcuni, come Nala e Kimo, erano stati anni stretti nel giogo dei loro sfruttatori, altri, come Juju, solo pochi mesi.
Avrebbe potuto indorare la pillola dicendo loro che, se volevano, potevano restare, che l’avrebbero avuta al fianco in ogni caso, ma questo avrebbe anche significato dividerli dal resto dei loro fratelli e… lei per prima non voleva che accadesse.
Si portò la testa tra le mani in un gesto tanto involontario quanto esasperato, incapace di trovare una soluzione che potesse accontentare tutti. Strinse convulsamente le dita tra i capelli, tirando talmente che, se non ne avesse impugnato delle grosse ciocche, avrebbe finito con lo strapparseli.
“E se l’ipnotizzassi?” Ok, la sua parte assurda aveva fatto capolino, proponendo la cosa più inattuabile possibile.
Sbuffò per la milionesima volta, sicura che non sarebbe stata l’ultima in quella giornata ed… era ancora prima mattina.
 
Poi… “Eccola finalmente!”, pensò arrivata alla porta della sala da tè dove era diretta.


…Permettetemi di portarvi nel miglior negozio di tè della città! Ho assaggiato il loro tè verde una volta. È amaro, ma con i dolcetti che servono diventa deliziosissimo.”
Solo a guardare l’insegna di quel locare le erano tornate alla mente le parole di un piccolo Kimo; parole dette la prima volta che si erano incontrati… beh, la seconda, a dire il vero, ma nessuno dei due aveva riconosciuto l’altro: Lan non aveva visto nel ragazzino il ladruncolo che l’aveva rapinata solo la notte prima e Kimo non poteva sospettare che quella persona tanto gentile fosse la ragazza spaventosa che l’aveva costretto alla fuga. Nieve, oltretutto, glielo aveva presentato come un gentiluomo e lui tutto orgoglioso era stato al gioco, offrendosi come cavaliere per quelle due donzelle in difficoltà.
Sembrava passata una vita, ma era quel ricordo a rendere quel posto tanto speciale per lei, per loro.
 
Entrò nel locale e venne immediatamente accolta da una delle dipendenti. Quello era il posto preferito suo e dei ragazzi quando si recava in città e ormai la conoscevano.
Le dedicò un sorriso gentile nel salutarla, scusandosi: “Ho prenotato un tavolo per le nove, so di essere in discreto anticipo, ma…”
“Non si preoccupi, signorina Lan-Chen, anche i suoi ospiti sono già arrivati”, l’interruppe il sorriso della ragazza, sorprendendola.
“Arrivati?”, domandò, mentre lo sguardo scorreva rapido i tavoli della sala alla ricerca di volti famigliari.
Nala e Kimo Erano lì? Erano lì prima di lei e come lei ansiosi di vederla?
 
Gli occhi dei ragazzi intercettarono i suoi all’istante, con quel sesto senso tutto loro che aveva un ché di magico, permettendo di scovarsi anche tra la calca più fitta, come fosse un richiamo silenzioso a cui non potevano sottrarsi.
Erano al loro solito tavolo.  
Nala le sorrise timidamente, abbassando lo sguardo come era tipico della sua indole semplice, mentre la mano, distrattamente, andava a sistemare dietro l’orecchio una ciocca dei lunghi capelli castani, e Kimo… Ahhh, Kimo! Quasi rovesciò il tavolo per alzarsi e andarle incontro.
Non passò un secondo che si trovò stretta nell’abbraccio del ragazzino.
Ragazzino “poi”, ma quanto era cresciuto, quanto si erano fatti grandi?
Kimo era più alto di lei ormai, non che ci volesse molto in effetti, vista la sua bassa statura, e Nala… se era una bellezza quando aveva appena dodici anni, adesso era stupenda.
 
Possibile che ogni volta, ogni singola volta che li trovava davanti, s’imbambolava, invasa da quell’assurdo moto d’orgoglio che scaturiva anche semplicemente nel vederli sorridere?
“Cavolo Lan! Tutti sanno piegare le labbra, è una prassi più comune di quanto tu creda. Piantala una buona volta, non vorrai piangere anche a questo giro, vero?”, si rimproverò, ma era tardi: la commozione di rivederli non le aveva dato tregua e le lacrime erano scese leggere a ricordarle quanto li amasse.
 
Quel quindicenne avventato la sollevò da terra nell’impeto dell’abbraccio. Si era fatto forte.
“No, no, no, no, no! Stai già piangendo, non renderti più ridicola cominciando a singhiozzare come una bambina.”, si intimò ancora e questa volta parve resistere.
Resistette fino al tavolo.
Resistette quando si sedette.
Resistette finché Nala non le disse: “Mi sei mancata così tanto.”
E… smise di resistere e l’abbracciò stretta.
 
“Anche tu. Tutti voi mi siete mancati”, affermò, ed era vero, accidenti se era vero!
“I piccoli volevano venire, ma avevano scuola e…”, spiegò Kimo quanto lei aveva già intuito, “…li abbiamo convinti a demordere con la promessa che al rientro ti avrebbero trovata a casa.” La voce del ragazzino tradiva una nota di speranza.
“Ovvio che ci sarò!”, esordì lei, felice anche solo di averli accanto. “Non mancherei per nessuna ragione al mondo.”
“Perché non sei venuta a casa ieri sera? È la tua casa, l’hai comprata tu…”, chiese Nala, facendosi coraggio; coraggio che andiede scemando, lasciando quella frase così, sospesa.
“Sapevo di fare tardi e non volevo disturbare”, rispose, rimediandosi all’istante uno sguardo particolarmente severo da parte del ragazzino.
Stupidaggini! Ci avrebbe fatto solo che piacere e tu lo sai. E che non puoi negarti alle avance del padrone del Casinò, credi che non lo sappia? So perfettamente che è anche grazie a lui che possiamo starcene sereni e...”
“Kimo!”, lo riprese la sorella. “Vuoi davvero rovinare questo momento con la tua stupida linguaccia?”
Kimo abbassò lo sguardo pentito, dissentendo con il capo. “Scusa e che… quello non mi piace. Tutto qui!”
Lan respirò profondamente e, allargando il più caloroso dei suoi sorrisi, disse: “Che ne dite se intanto ordiniamo qualcosa?”
 
Erano alla prima fetta di torta, alla seconda portata di pasticcini e al terzo tentativo di Kimo di raccontare le malefatte della piccola Ninoh, evitando di scoppiare a ridere, quando Lan-Chen decise fosse arrivato il momento.
Mandò giù l’ultima forchettata di torta e, indicando nella loro direzione con la posata, disse: “Pensavo di prendere una casa più spaziosa, che ne dite? Siete grandi ormai, meritate i vostri spazi e poi… poi anche io ho le mie necessità. Ho bisogno di una vera camera, basta con il divano in salotto e… un bagno, sì, ho proprio bisogno di un bel bagno spazioso, se voglio venire a vivere in pianta stabile con voi. Sempre che… non vi dispiaccia l’idea che mi trasferisca qui a Senlin. Per il lavoro posso inventarmi qualcosa, sapete che ho le mie conoscenze in città. I piccoli hanno bisogno di qualcuno che insegni loro come usare il dominio e…” Non riuscì a terminare. Lo sguardo inizialmente esterrefatto dei due ragazzi si tramutò in commozione nello stesso istante in cui le si gettarono al collo, stringendola come mai prima d’allora.
 
Erano quei due mocciosi adesso a piangere e mai lacrime furono tanto appaganti.
Certo, non erano quelli i piani iniziali, ma… Lan-Chen li amava e quando si ama si sa scendere a compromessi; anche solo con sé stessi, a volte, pur di rendere felice chi c’è caro. Tra le braccia di quei due ragazzini non provava rimpianto per la scelta fatta, era quella giusta, sapeva che lo era. Il suo cuore glielo stava gridando dal momento stesso in cui avevano incrociato lo sguardo con il suo.
 
“Ehi, piantatela! Stiamo dando spettacolo”, li riprese senza durezza, per la stupida necessità di dire qualcosa pur di evitare di scoppiare nuovamente in lacrime.
In un attimo, neanche li avesse morsi un serpente, entrambi tornarono a sedersi composti al loro posto.
Quasi all’unisono buttarono giù un pasticcino da tè, poi Nala sorrise con quel suo fare timido, un sorriso che le illuminò il viso e lo sguardo. “È la colazione migliore della mia vita.” Le disse senza guardarla, apparentemente più attenta al contenuto della sua tazza.
Lan stava per cedere di nuovo alle lacrime, quando…
“Non che ci voglia molto a fare meglio di quello che insiste a preparare Tori”, intervenne Kimo. “Piuttosto, mi ricordi quando e perché abbiamo deciso che sarebbe stato lui a occuparsi della colazione?”, terminò quella domanda indicando la sorella con la forchetta: un modo di fare caratteristico che a Lan ricordò tanto sé stessa.
 
Aveva perso troppo tempo a pensare come fare per convincerli a frequentare la scuola di dominio di sua nonna, così da farli entrare in famiglia a pieno titolo, che non si era resa conto che loro… erano già la sua famiglia.

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Capitolo 7
*** Vento ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1103
Prompt: Vento (Red List – 7/10/2018)
 


Vento


Lan era infastidita mentre, sospesa dal binario della monorotaia, apportava gli ultimi accorgimenti al deviatoio. L’impianto aveva deciso che i treni dovevano andare solo ed esclusivamente verso la cupola centrale; il resto della città non aveva il diritto di essere servita a quanto pareva. A darle noia davvero però non era esattamente il guasto, ma il vento. Il vento che spirava con forza rendendo più difficoltoso il lavoro.
 
“Mi domando chi sia stato il genio che ha progettato la cabina di questo scambio esattamente a metà di un pilastro di metallo a novanta piedi d’altezza. Uff!”
“Baatar. Hai presente la mente geniale che ha concepito tutta la città del metallo? Quel Baatar e… sono Novantotto piedi.” La corresse la voce dalla radio a tracolla.
“Ehhh… Piede più, piede meno…” Commentò sarcastica.
 
Sembrava che un monaco dell’aria le stesse tirando un brutto scherzo, facendo ciondolare pericolosamente i tiranti di metallo accanto a lei. Eppure, malgrado quelle funi penzolanti e il fastidio che la costringeva a lavorare tenendo gli occhi socchiusi, non era preoccupata: la struttura era di metallo e qualunque cosa fosse successa il suo dominio non l’avrebbe abbandonata. Certo, bisognava comunque fare qualcosa con quei cavi pendenti, se si fossero staccati del tutto avrebbero potuto arrecare danno a cose o a persone. La struttura era munita di innumerevoli tiranti per poter ovviare a situazioni del genere e quei due “affari” oscillanti non creavano problema alla stabilità o alla funzionalità della rotaia, meglio però non rischiare.
 
“Fatto!” Esordì, mentre riposizionava minuziosamente l’ultimo ingranaggio danneggiato.
Si sbrigò a chiudere la centralina e a sigillare le viti con il suo dominio. Quelli erano i momenti in cui essere una dominatrice era un vantaggio anche a lavoro.
Sorrise compiaciuta del suo operato e senza indugio richiamò la fune che la teneva sospesa. Il metallo che la componeva si riarrotolò ubbidiente alla bobina ancorata alla vita della ragazza, portandola fin sul ballatoio di manutenzione alla sommità del pilastro.
Appena in cima, fu un secondo: i cavi pendenti si mossero come tentacoli vivi sotto lo sguardo attento della dominatrice. Il suono basso e stridulo al tempo stesso del metallo che si torceva accompagnò quel danzare di funi nell’etere fino alla piastra ad asole, alla quale questi sarebbero dovuti essere ancorati, insieme al resto dei tiranti. Si rinsaldarono così alla struttura principale, passando come il filo di una sarta nella cruna di un ago. I morsi si strinsero manovrati da mani invisibili e il tutto tornò in sicurezza.
 
Lan respirò a pieni polmoni sulla cima di quel pilastro, prima di lasciarsi scivolare seduta.
Staccò il moschettone di sicurezza che ancorava il mulino avvolgibile della sua cintura a quell’enorme colonna di metallo e, come aveva fatto centinaia di volte, prese a ciondolare i piedi nel vuoto.
Sollevò il volto al cielo, mentre un nuovo alito di vento le scompigliò i capelli senza la minima premura, per poi quietarsi un solo secondo prima di riprendere a soffiare ancora più forte.
Sorrise. Non era poi così male, anzi lo trovava addirittura divertente quando il vento non soffiava contro il suo sguardo, rendendole difficile tenere gli occhi aperti… Piacevole. Piacevole, sì, proprio come quella vista unica di cui poteva godere liberamente solo chi, come lei, era addetto alla manutenzione della monorotaia: la magnificenza di Zaofu sotto di lei e più in là le montagne che la incastonavano nel verde dei loro alberi.
I fili castani della sua chioma le solleticavano il viso smossi in quel momento da un vento più gentile.
In lontananza, oltre le montagne, il sole cominciava ad assumere tinte arancio, abbassandosi sempre più verso l’orizzonte.
 
Per un attimo le parve di trovarsi in un altro luogo, a guardare un tramonto non troppo diverso da quello davanti ai suoi occhi, dal dorso di un gigante dell’aria. Anche quella volta c’era il vento.
Tornò indietro con la mente: la Palude Nebbiosa scorreva fitta e impenetrabile sotto di lei, sotto di loro. Laslo era solo un cucciolo di bisonte volante, ma abbastanza forte da trasportare lei e Oyun.
Non aveva mai conosciuto un dominatore dell’aria prima di quel ragazzino. Per carità, ne aveva sentito parlare, sapeva che non erano molti, e che facevano per lo più una vita riservata, ma quel monaco era in giro con Rozu in cerca d’avventure e il dominatore del fuoco in questione l’aveva portato proprio nel villaggio di Min, dove lei era intenta a tenere a bada spiriti e a rinforzare confini.
 
Sembrava passata un’eternità.
 
“Avrà avuto… quanto? 12, 13 anni?” Pensò Lan. “Ma era già più alto di me, con una bella testa tonda e due enormi occhi grigi incredibilmente espressivi.”
Respirò profondamente. Era stata scostante con Oyun all’inizio, non doveva avergli fatto una bella impressione, ma non era convinta all’epoca che quello fosse il posto adatto a una creatura dal temperamento mite come un giovane monaco dell’aria. A dire il vero si era domandata anche cosa potesse fare mai un elementarista del vento contro degli spiriti furiosi. Conosceva la pietra, l’acqua e il fuoco; sapeva quanto potevano essere dirompenti, ma… l’aria?
Il resto del gruppo lo voleva, Rozu garantiva per lui e lei si era arresa alla maggioranza. Ancora non sapeva quanto poteva essere devastante una creatura in grado di controllare il vento, ma lo scoprì poco dopo. Dovette ricredersi su tutta la linea: solo perché i monaci erano di indole mansueta, questo non voleva dire che il loro dominio non sapesse essere combattivo se necessario.
Oyun si era rivelato un compagno leale e incrollabile, malgrado la giovane età. Aveva affrontato gli spiriti e con questi le sue paure, uscendone più forte, come tutti loro del resto.
 
A volte, come in quel momento, le capitava di domandarsi come sarebbero andate le cose senza di lui, se sarebbero riusciti a mantenere la calma necessaria in quella missione e a riportare la pelle a casa.
 
“Probabilmente non lo sapremo mai.” Si disse, sollevandosi e stiracchiandosi verso il cielo terso. Qualcosa le suggeriva comunque che non sarebbe andata bene: ognuno era stato essenziale per ottenere il risultato finale, nessuno escluso.
 
Puntò i pugni sui fianchi. Il vento ancora le frustava vestiti e capelli.
“Chissà cosa starà combinando Oyun in questo momento? È un po’ che non si vede in giro né lui, né quel suo bestione puzzolente.” Rise di gusto, mentre quel sole rosso dava il suo addio al giorno.
 
Il ronzio fastidioso della radio la distrasse da quei pensieri.
“Lan-Chen, sbrigati! Non possiamo tenere questa linea bloccata ancora a lungo.”
Sorrise.
“Sto scendendo.” Rispose al collega. Quel vento era piacevole e frizzante come la compagnia del giovane monaco, ma era il momento di tornare con i piedi a terra.

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Capitolo 8
*** Statua ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 388
Prompt: Statua (Red List – 8/10/2018)
 
 
Statua


Prima ancora di rispondere all’apparecchio Lan-Chen era stata percorsa da un brivido: esisteva solo una persona al mondo col vizio di chiamarla alle sei di mattina. Soffiò dal naso arresa, lasciando cadere in basso le spalle, prima di togliersi lo spazzolino dalla bocca e…
 
“Pronto nonna”.
Col dorso della mano libera dalla cornetta si asciugò le labbra.
“Io? Domani? A Gaoling? … Perché?”, il tono si fece esasperato sul finale.
“L’inaugurazione di cosa? … Come una statua, tu… … Vogliono mettere una tua statua nella piazza centrale? Ma… … Una maestosa, enorme e possente statua a… grandezza naturale?”. Lo sguardo le si ridusse a due fessure.
“Nonna, non sto dicendo… … Dico solo: maestosa e immensa. Sicura? … Sì, lo so che siamo i discendenti diretti di Penga e Ho Tun, ma… … Nonna, enorme? Io non penso che…”.
Esasperata, infilò lo spazzolino nel portapenne sul mobiletto.
“Ok, ok, so che te la meriti e, sì, ricordo la storia dell’Accademia Beifong per Dominatori del Metallo, me l’hai raccontata non so quante…”, iniziò a giocherellare distrattamente con il filo della cornetta, girandoselo tra le dita.
“Nonna, parliamone: possente, ma… … Sì, certo che voglio venire, non sto dicendo questo, è solo che tutte le donne della nostra famiglia non sono esattamente… … Ok, anche se i nostri avi si sono spostati da Yu Dao a Gaoling non vuol dire che siamo peggiori degli eredi dell’Oscuro. … No, non sto facendo dell’ironia, te lo giuro nonna, e… … Ok, forse solo un pochino, ma…”, bloccò il suo fare, abbandonando il filo.
“Una statua Enorme in tuo… … Nonna calmati, ho detto che ci sarò. Ti prego, respira. Sono solo le sei del matt… … Ok, le sei e dieci, ma… … Uff!”, di nuovo tornò a lasciar cadere le spalle verso il pavimento.
“No, non mi annoi e non sei vecchia come dici. Ascolta, solo: una statua grandissima a dimensioni naturali? Sicura? … Nonna sto solo dicend… … Sì, domani alle otto. Ci sarò. Promesso. … Sì, anche io sono felice di sentirti, ma, adesso che ti sei calmata, possiamo parlarne? … Una tua statua enorme a grandezza Naturale? Nonna, sei alta un metro e un pezzetto”.
Sfarfallò gli occhi un paio di volte ascoltando la risposta della vecchina.
“Piedistallo? Oh, beh, allora sarà un Gran piedistallo, non ne dubito”.

 

Angolo dell’autrice: per chi è curioso di sapere come è fatta la nonnina di Lan-Chen, eccola! :D


 

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Capitolo 9
*** Lettere ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 535
Prompt: Lettere (Red List – 9/10/2018)
 


Lettere


Ogni volta era così, rifletté Lan-Chen con un sorriso sereno in viso, mentre si sedeva in veranda, tra i cuscini della poltroncina di vimini intrecciato.
Tra le mani teneva quel piccolo plico arrivato per posta: non era mai solo una semplice lettera, ognuno dei suoi piccoli voleva partecipare e raccontare in prima persona le novità successe in quel mese.
Si sentivano assiduamente per telefono, ma… quello era un modo speciale per farle arrivare qualcosa in più e lei lo sapeva, così ogni volta leggeva ogni singolo foglio con calma, ammirava ogni disegno, sorridendo su quelli meno comprensibili e cercando di capire cosa vi fosse nascosto tra le linee incerte e gli scarabocchi. Cielo, quanto le piacevano quegli scarabocchi, ne aveva un cassetto pieno e… l’anta del frigo chiaramente.
Juju era il più attivo in questo, anche se le mandava per lo più disegni dei cibi che preferiva, spesso di quelli che non aveva mai assaggiato ma che sperava di mangiare, prima o poi. Mentre Liang era un vero artista, adorava il giallo e l’azzurro, e ogni decoro con cui abbelliva le sue lettere sembrava brillare di luce.
 
Lan si metteva lì, a gambe incrociate, sotto la luce fioca della veranda che ronzava per l’impianto elettrico malfunzionante e qualche falena troppo avventurosa. Si sedeva comoda: il magliettone per la notte, la coperta di pile che le avvolgeva le spalle, una tazza di tè in mano e scorreva foglio dopo foglio, avventura dopo avventura, incubi e sogni dei suoi marmocchi.
Le dita e lo sguardo scorrevano lente, sulle lettere di ogni singola parola che componeva quei racconti, come a volersele imprimere nella mente e spesso le assaporava, pronunciandole lentamente; arrotolando le consonanti con la lingua e soffermandosi nel soffiare le vocali con dolcezza.
Sapeva di chi era ogni singolo scritto prima ancora di giungere ai saluti finali e alla firma del piccolo di turno, lo sapeva: riconosceva quelle zampette d’anatra-tartaruga che impreziosivano i bordi delle lettere di Pete, adorava i riccioli che terminavano le parole di Nala, i cuoricini al posto dei puntini delle “i” della piccola Ninoh e le macchie di cibo che ungevano le pagine di Tori; amava le lettere arrotondate di Liang e quelle troppo spigolose di Miori, per non parlare delle lettere allungate e inclinate di Kimo che si inseguivano l’un l’altra quasi fossero un oceano increspato di onde; adorava la scrittura piccolissima di Jizu e quelle dai caratteri enormi, ondeggianti e disordinate di Li-Wei e Juju.
 
La tazza di tè era vuota ormai.
Sospirò, posando l’ultimo foglio sul tavolino davanti a lei e sciogliendo le gambe per farsi in avanti e stiracchiarsi verso il cielo. Prese dal tavolo il blocco con la penna, tirò le ginocchia verso il petto e vi appoggiò contro quanto recuperato. Era il suo turno di raccontare quanto successo in quel lungo mese lontana dai suoi ragazzi.
Un nuovo sospiro prima di cominciare a vergare lettere e parole sui fogli bianchi: tra breve sarebbero andati a vivere finalmente tutti insieme, tutti sotto lo stesso tetto, e, per quanto la cosa la rendesse felice, una parte di lei sentiva che tutto quello, quei disegni, quei fogli impiastricciati e quella marea di errori di grammatica… quello, quello le sarebbe mancato.

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Capitolo 10
*** Diversità ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 968
Prompt: Diversità (Red List – 10/10/2018)
 


Diversità


Suo padre era sempre il solito!
Lan-Chen sbuffò nel comunicatore gracchiante, imprigionata al presidio della cabina di controllo della monorotaia della zona industriale.
“Papà, sono a Lavoro, ti pare il caso di… … Ok, che tu e il mio caporeparto siete amici da sempre, ma… … Come sarebbe a dire un’urgenza alla baita? Dei ladri? Stai bene?”. Spalancò gli occhi preoccupata, per poi ridurli a due fessure sconsolate. “Patatine? Si sono mangiati le vostre patatine?”. Sospirò pesantemente. “Già, devono essere stati dei ladri davvero molto affamati”. Ancora un sospiro. “Sicuri che non ve le siate mangiate voi e… … Certo, non dubito che ve ne sareste ricordati: chi non si ricorda gli snack sgranocchiati, rintanati in una baita nella foresta, davanti alla semifinale regionale di Dominio sportivo?”. Ghignò divertita. “Ovvio che sto facendo dell’ironia, papà, da cosa lo hai capito?”. Rise sollevata, svelato l’equivoco. “Dai, faccio scorte e vengo a portarvele, ma preparatevi ho intenzione di vedere la finale con voi.” Ancora rise. “Prima o poi dovrai dire alla mamma la verità sulla baita di caccia. … Lo so che non la prenderebbe bene e che non ama lo sport, ma sono dieci anni che va avanti questa storia e tu, papà, odi il sangue e la violenza in tutte le sue forme, non pensi che potrebbe essersene accorta e… … Certo. Tu e i tuoi colleghi siete maghi della truffa coniugale. Certo”. Soffiò via l’aria dai polmoni, arresa. “Sarcasmo? Davvero papà? Non dirmi”. Rise per l’ennesima volta. “Dai, aspettatemi, tempo che stacco e arrivo”.
Chiuse la comunicazione scuotendo il capo divertita. Adorava suo padre e tutto quel gruppo di finti cacciatori della domenica che l’unico animale morto che riportavano a casa era quello comprato in macelleria il lunedì mattina.
 
“Capo, c’è anche lei oggi alla finale?”, s’informò lei, dando una voce fuori dalla porta della cabina di controllo. 
“Ovvio, ragazza mia”, commentò l’uomo dal corridoio con occhio vigile al tabellone delle partenze.
 
La baita, quanto tempo era che non passava per quella casetta sperduta tra gli alberi?
Si domandò, tornando a sedere davanti ai monitor.
L’ultima volta… Già, l’ultima volta, rifletté, era stato quando aveva aiutato quei due forestieri così tanto diversi tra loro.
Un sospiro nostalgico le gonfiò il petto accompagnato da un sorriso.
Ripensando a come si erano svolti gli eventi successivi, non avrebbe dovuto provare quella sensazione, eppure…
 
“Nokato e Shunto. Così diversi, ma entrambi alla ricerca di qualcosa”. Il sorriso le si allargò mentre si lasciava scivolare scompostamente sulla poltroncina.
Chissà dove si trovavano in quel momento?
Con Nokato si erano incontrati l’ultima volta nella Capitale del Fuoco e con Shunto… Eh, con quel grosso dominatore della terra si erano lasciati proprio in quella baita di montagna, o sarebbe stato meglio dire: li aveva lasciati.
Il sorriso le morì sulle labbra.
Ricordò in un attimo cosa li avesse portati in quel posto: l’aggressione al Rione Grande.
Shunto era strano a vedersi, aveva capelli e barba rossi e occhi di un verde acceso ed esageratamente chiaro. Colori inusuali, vero, ma quello che sembrava dare alla gente il diritto di puntare il dito contro di lui era il restante del suo aspetto: la gobba pronunciata, il naso carnoso e largo, la fronte sporgente, le braccia e le mani enormi come anche la testa.
Un nuovo sospiro.
Il mostro lo chiamavano, un forestiero per giunta, e gli abitanti del quartiere l’avevano accusato senza remore di essere stato il responsabile degli accanimenti al mercato e questo solo perché era… diverso.
E dire che i cittadini di Zaofu si vantavano di essere aperti e avanti con i tempi, migliori del resto degli abitanti del Regno della Terra grazie alle loro innovazioni, tuttavia non avevano perso un secondo a inseguire quell’uomo come fossero contadinotti del secolo scorso. Mancavano solo torce e forconi!
Come se un aspetto, che ritenevano repellente, potesse essere sintomo di malvagità.
Un ghigno amaro. Assurdo! Iris, la Signora del Fuoco, è la donna più bella che io abbia mai visto, ma ha ucciso con le sue stesse mani quelli che riteneva suoi oppositori al potere.” Scosse la testa quasi impercettibilmente. “Shunto invece…” l’uomo possedeva un animo gentile e lo aveva dimostrato andandosene in sordina, dopo che lei aveva dato a lui e Nokato un rifugio sicuro. Se ne era andato per non metterli maggiormente nei guai, per proteggere il vero responsabile.
Nokato, era lui il colpevole: nativo della Nazione del Fuoco, bell’aspetto e un temperamento anche troppo focoso per non essere un dominatore, ma un bravo ragazzo infondo e anche lui vittima dei benpensanti di Zaofu.
La sua città non era uscita esattamente a testa alta da quell’episodio, ma la rassicurava sapere che non fossero tutti come quegli esaltati del Rione; gonfiati nei loro propositi da gradassi come Krong e i suoi sgherri.
Un nuovo ghigno le piegò le labbra, un ghigno divertito stavolta.
“Quel gruppo di bulli non si era minimamente reso conto di muoversi, tra i vicoli del quartiere alla ricerca del Mostro, spalla a spalla col vero responsabile, ma… quello, che all’epoca conoscevano come Kled, non era deforme e vestiva gli abiti cittadini”, una considerazione sarcastica la sua.
 
Lo scampanio sordo che segnalava la fine del suo turno lavorativo la destò da quel rimuginare.
Scosse il capo come per allontanare gli ultimi rimasugli di quelle amare riflessioni: la finale regionale di Dominio Sportivo l’aspettava.
Un sorriso le riempì il petto d’entusiasmo: davanti allo schermo lei, il suo vecchio e il resto della combriccola avrebbero tifato per ragazzi diversi tra loro, provenienti da luoghi diversi e di diversi domini, ma facenti parte della stessa squadra.
Quella era la gente di Zaofu che amava, non quella dei suoi ricordi, ma quella che gioiva insieme davanti un video e soffriva insieme a ogni punto segnato dalla quadra avversaria; unita da una passione che non permetteva pregiudizi.
 


Nota dell’autrice: =_=; Salve, non sono molto felice di come ho raccontato questo evento, mi sembra mancante di qualcosa, monco per così dire, ma pazienza. Prima o poi lo riprenderò tra le zampette e lo correggerò come dovrei fare con tutto, del resto.

Grazie a chi ha avuto la briga di arrivare fino a qui con la lettura e un bacione a Donnasole e Mokuren che malgrado non gli sia dovuto, non solo mi danno sempre degli ottimi consigli, ma trovano anche il tempo di leggiucchiare queste mie righe. Grazie di cuore!

Lance

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Capitolo 11
*** Caffetteria ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 995
Prompt: Caffetteria (Red List – 11/10/2018)
 


Caffetteria

Lan-Chen aveva scovato quella piccola caffetteria vicino alla stazione di Senlin qualche giorno dopo essersi trasferita in città. Non che amasse particolarmente il caffè, ma la pioggia non sembrava voler smettere di cadere quel giorno e si sentiva intirizzita fin nelle ossa. Qualcosa di caldo ci voleva proprio e, neanche a dirlo, le era apparsa davanti quell’insegna scura. Il velo di usura sul bordo dell’insegna sembra indicare che dovesse essere lì da parecchio tempo, eppure chissà quante volte era passata per quel vicolo senza mai badarci.
 
Quel liquido caldo dal sapore leggermente bruciato la scaldò in quel momento come allora.
 
Sorseggiava lentamente dalla tazza il suo cappuccino esageratamente zuccherato, come era solita dirle la cameriera del locale da quando erano entrate in confidenza.
Sorrise, infagottata nel maglioncino di lana che portava i segni indelebili dei pennarelli di Juju e Miori. Quella mattina non aveva fatto in tempo a cambiarsi prima di portare i piccoli a scuola e non era la prima volta che in quella caffetteria la vedevano conciata come un quadro astratto. Fortunatamente quello si era rivelato un posticino carino e confortevole, proprio come le persone che ci lavoravano, e nessuno le fece pesare minimamente la cosa.
 
Guardava da dietro la vetrata il fioccare leggero della prima neve; se questa avesse resistito senza sciogliersi fino all’indomani avrebbe proposto ai bambini di fare un bel pupazzo.
Un nuovo sorso tiepido. Avrebbe dovuto sbrigarsi ad andare, c’era il pranzo da preparare, ma non ne aveva una gran voglia.
 
Appoggiò di nuovo le labbra alla tazza, distratta dal via vai di persone all’esterno del locale, quando la cameriera le portò un piattino con una bella fetta di torta.
Alzò il volto stupita e la ragazza, allargando un sorriso complice, le disse: “Il tuo amico dice che hai l’aria di chi ha passato una pessima mattina e che meriti un dolce, Lan-Chen”.
“Il mio amico?”, domandò, voltandosi verso l’interno del locale.
“Sì. Quel tipo carino al bar. È la prima volta che lo vedo da queste parti, ma conosce il tuo nome, quindi…” rispose l’altra e strizzò l’occhio maliziosa sul finire sospeso di quella frase, prima di andare.
Lan scorse con lo sguardo sulle persone al bancone e lo vide: il sorriso strafottente e quegli occhi a mandorla che avrebbe riconosciuto tra mille, così simili a quelli della sua migliore amica. Le dita della mano del ragazzo sfarfallarono in saluto, quando i loro sguardi s’incontrarono.
“Rialtan”, disegnarono le labbra di Lan-Chen nell’aria, appena lo riconobbero.
L’ufficiale della Nazione del Fuoco smontò dallo sgabello sul quale sedeva con la sua tazza in mano e le si avvicinò. “Posso?”, chiese come se niente fosse, senza realmente aspettare una sua risposta per accomodarsi.
 
Lan sorrise nel vederlo sempre a assurdamente a proprio agio ovunque. “Sei davvero tu, soldatino?”.
Il ragazzo annuì divertito. “Sono d’istanza qui a Senlin fino alla fine del mese, ma tu? Cosa ci fai da queste parti, Lan-Chen? Sei con mia sorella?”.
La ragazza scosse il capo stringendo le labbra dispiaciuta e, abbassando lo sguardo, posò la tazza sul tavolo. “Non sento Nieve da un po’ e non ho idea sul come contattarla, mi dispiace”.
A quella risposta il volto del ragazzo si rabbuio per una frazione di secondo, prima di mostrare un sorrisetto divertito e allungare la mano libera verso il suo viso.
Lan-chen fece per scostarsi, quando lui... “No, aspetta… è che? Non voglio farti nulla, hai solo…”, bofonchiò visibilmente divertito e con un velo di dolcezza nello sguardo che gli aveva visto riservare solo a Nieve prima d’allora. Lasciò che le sfiorasse lo zigomo come a cercare di cancellare qualcosa. “…È il segno di un pennarello questo?”, domandò allegro.
Lei, a quel dire, spalancò gli occhi intimidita, andando a strofinarsi energicamente con la manica del maglione dove Rialtan l’aveva sfiorata. Sicuramente dovette arrossire dall’imbarazzo visto che il ragazzo retrasse la mano un attimo prima del suo goffo tentativo di cancellare dal viso il passaggio dei suoi monelli preferiti.
“Cielo! Sono talmente stanca in questi giorni, tra il trasloco e i bambini, che…”, bloccò quel suo raffazzonare scuse nel notare il ragazzo guardarla con una tenerezza disarmante.
Un secondo di silenzio, durante il quale la ragazza non parve riuscire a distogliere lo sguardo dal volto davanti a lei, prima che questi gli chiedesse: “A quanto pare, alla fine, tua nonna è riuscita a incastrare qualcun altro, oltre me, per sposarti?”.
Questa volta Lan-Chen sentì chiaramente le guance andarle a fuoco. “No, non sono sposata”, specificò e, davanti alla sorpresa del ragazzo, cercò immediatamente di rimediare, dicendo: “No, no, no. Ho dei bambini, ma non sono esattamente miei, cioè sì, sono miei. I miei bambini, ma non li ho fatti io, ecco…”. Ok, era ufficialmente impanicata. Ma che stava combinando? Perché tutto quell’imbarazzo davanti a quei due… adorabili occhi scuri. “…Sono più una sorella maggiore, insomma… uff!”, finì, lasciando cadere le spalle verso il pavimento arresa alla sua goffaggine.
In tutta risposta, Rialtan tornò a sorriderle con la stessa gentilezza che le aveva riservato prima di quel suo immotivato attacco di panico. “Sempre a cercare di salvare il mondo, vero Lan-Chen?”, disse a quel punto, portandosi la tazza alla bocca e togliendola da ogni imbarazzo.
Lei sorrise, ritrovata la calma e, abbassando lo sguardo, annuì.
Raccolse la forchetta dal tovagliolo per affondarla nel dolce al cioccolato.
“Quindi…”, disse l’ufficiale dopo aver sorseggiato il suo infuso e aver posato la tazza sul tavolo, “…non sarebbe eccessivamente sconveniente vederci qualcuna di queste sere, giusto? Infondo siamo praticamente fidanzati”.
Per poco Lan-Chen non soffocò con il boccone di torta.
La risata di Rialtan che accompagnò il suo tentativo di riprendere fiato la indispettì al punto da fulminarlo con lo sguardo. Avrebbe inveito con il lessico più “illustre” del Regno della Terra, non fosse che lui spense ogni sua velleità di sfida, dicendole con dolcezza: “Comunque, bel maglione”.
Lan tornò a sorridere. “È il mio preferito!”, affermò teneramente.
“Non ne dubitavo, è pieno di cuori e stelle colorate”, concluse lui sorridendole.

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Capitolo 12
*** Viaggio ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 517
Prompt: Viaggio (Red List – 12/10/2018)
Beta: Donnasole
 


Viaggio


Era stata dura questa volta. Non che le altre fossero state facili, ma questa volta per Lan-Chen, questa volta, dopo essersi immersa nella parvenza di una vita normale, era stata particolarmente difficile lasciare Senlin.
Era stato difficile dire che era stata chiamata per un lavoro importante; era stato amaro riempirsi la bocca con l’ennesima bugia, malgrado la sapesse necessaria per tenere al sicuro le persone che amava.
 
I suoi amici le avevano chiesto aiuto e lei doveva andare, in passato aveva fatto loro delle promesse, ma il problema vero era che lo stesso aveva fatto con i suoi ragazzi: aveva promesso a Kimo, Nala e al resto di quei mostriciattoli che non li avrebbe lasciati soli troppo a lungo e invece si trovava a partire senza sapere quando sarebbe tornata.
 
“Sarò via solo un paio di giorni”, aveva detto e solo il cielo sapeva quanto aveva sperato che fosse vero.
 
Era alla stazione di Città della Repubblica, accanto a uno dei lampioni, immobile a eccezion fatta del suo bagaglio. Ciondolava quella vecchia la valigia quasi fosse il pendolo di un orologio; come se, proprio come questo, ne necessitasse per scandire il passare del tempo.
Quella valigia ne aveva affrontati di viaggi e di avventure.  
Sorrise. Era forse l’unica a sapere quante volte aveva rischiato la vita per mantenere… mantenere cosa?
Non lo sapeva. Non davvero almeno. Le sue promesse, certo, ma… aveva incrociato la sua storia con il destino delle Nazioni talmente tante volte che avrebbe potuto dire “per l’equilibrio”.
Quanta insolenza anche solo a pensarlo: le sue scelte erano sempre state dettate dall’egoismo, convinta di volta in volta di fare la cosa giusta, ma giusta per chi? 
Aveva mai davvero guardato tutto il quadro generale?
No, mai. Non lo aveva mai fatto.
 
Uno sguardo all’orologio della stazione: presto sarebbero arrivati a prenderla.
Bloccò l’oscillare della valigia.
Infilò la mano in tasca.
Dal binario accanto il treno cominciava a sbuffare frenetico pronto per la partenza, pronto per tornare indietro.
La sensazione di qualcosa d’estraneo sotto le dita, qualcosa di liscio e sottile: un foglio.
Il fischio del controllore segnalava di liberare il binario.
Trasse la mano e con questa uno stupido cuore di carta, colorato troppo male e da pastelli troppo grandi per essere bello.
Il convoglio stava per partire.
Eppure era meraviglioso, una delle poche cose in grado di toccarle l’anima.
Un nuovo fischio: l’ultimo avviso.
“Ti voglio bene”, era scritto da dita incerte che avevano appena imparato a graffiare lettere.
Era ancora in tempo per prendere quel treno, per buttarsi tutta quella situazione alle spalle.
Mosse un passo, un altro, e… varcò il binario deserto fino ad arrivare sotto la pensilina, difronte all’ultimo vagone del treno per Senlin.
 
Questa volta non era come tutte le altre, non c’era più soltanto sé stessa a cui rendere conto; questa volta aveva troppo da perdere, aveva qualcosa per cui vivere. Aveva promesso ai suoi ragazzi che ci sarebbe stata, che avrebbe pensato a loro, per sempre.
 
Afferrò il manicotto di metallo del vagone, ciondolò la valigia per gettarla all’interno, e…
 
“Lan-Chen”, la chiamarono e… fece l’errore di voltarsi.
 


Note: Grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui e grazie di cuore a Donnasole che ha betato questo mio raccontino nonostante lo stretto margine di tempo. Grazie. :*

Lance

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Capitolo 13
*** Quadro ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 687
Prompt: Quadro (Red List – 13/10/2018)
 


Quadro


“Maestra Lan-Lan, chi sono tutti questi vecchietti dipinti?”, chiese la piccola Ninoh all’anziana signora.
La donna si voltò a guardare lei e gli altri due bambini che la nipote le aveva affidato.
Sorrise.
“Sono i maestri che mi hanno preceduta”, rispose, riprendendo a camminare. Le mani intrecciate dietro la schiena, il passo deciso, mentre scortava i piccoli in quelle che sarebbero state le loro stanze durante la permanenza nella scuola; peccato che non tutti i piedini alle sue spalle colpirono il marmo che rivestiva il pavimento di quel corridoio, piccolo museo personale della famiglia.
Ancora tornò a voltarsi: il bambino di nome Jizu, il più grande tra i tre, era poco dietro di lei, ma gli altri due, Ninoh e Li-Wei, erano ancora inchiodati davanti a uno dei dipinti.
Scosse appena il capo tra il divertito e il rassegnato; gli anni passati l’avevano resa, mano a mano, più paziente.
 
Il maschietto davanti al quadro, il più piccino, con un pugnetto davanti al viso e l’altra mano stretta alla manica della bambina, guardava fisso davanti a sé.
“Sembrano tanto tristi”, disse.
L’anziana tornò a sorridere. Non le era ancora chiaro cosa rappresentassero quei tre piccoletti per la nipote, ma Lan-Chen le aveva chiesto di prendersene cura, era scesa a compromessi per assicurarselo, e lei si era ripromessa di accontentarla.
Tornò indietro di qualche passo, lo stesso fece il ragazzino più obbediente dei tre e l’unico a dominare il fuoco, anziché la terra.
Appena fu loro accanto, Li-Wei si voltò a guardarla.
“È perché sono soli, vero?”, le chiese.
 
Fu il turno dell’anziana d’osservare il dipinto: l’aria severa del suo antenato, il contorno scuro, i colori sbiaditi dal tempo.
Il sorriso le si allargò: non l’aveva mai vista così, ma… erano davvero dei dipinti tristi.
“Anche lei, maestra, finirà in uno di questi quadri un giorno?”, chiese la bambina.
“Sì. È un onore riservato a pochi membri della mia famiglia”, rispose.
“Anche Lan-Chen?”, domandò subito il più grandino.
Lei annuì. “Mia nipote è molto dotata. Ma ama il dominio, non le arti marziali”, rispose gentile, “nel chiedermi d’insegnarvi, ha però promesso di dedicarvisi. Deve volervi molto bene”.
 
La femminuccia abbassò il visetto, facendosi pensierosa. “Ho chiesto io a Lan-Chen d’imparare il dominio dalla persona che glielo aveva insegnato. Mi ha detto che voi, Maestra Lan-Lan, siete la migliore di tutti. Voglio diventare come lei da grande”, spiegò Ninoh, alzando negli occhi della donna uno sguardo risoluto.
“Vedremo di fare il possibile, allora”, il tono suonò incoraggiante.
“Anche io”, esordì Jizu. “Anche io, maestra, voglio diventare forte. Voglio difendere i miei fratelli proprio come Lan-Chen”.
“Il tuo dominio, con il giusto addestramento, sarà più temibile di quello di mia nipote”, rispose la donna.
Il piccolo annuì deciso.
 
Quei bambini non si assomigliavano, ma da quel poco che aveva detto la nipote, erano fratelli.
Lan-Chen non si era trattenuta a sufficienza per raccontarle altro: aveva fatto delle raccomandazioni ai piccoli e poi se ne era andata; qualcosa l’attendeva altrove, aveva detto, aggiungendo che al suo ritorno avrebbe spiegato ogni cosa.
 
“Ma adesso proseguiamo. Il viaggio è stato lungo e sarete stanchi”, riprese Lan-Lan, ma non fece in tempo a voltarsi che…
“Uhmmm…”, mugugnò il più piccolo.
L’anziana sospirò, qualcosa le diceva che sarebbe stata un’impresa più ardua del previsto condurli negli alloggi degli allievi.
“Maestra”, chiamò il bimbo, prima di voltarsi e dichiarare: “Deve sorridere e mettere un bel vestito colorato”.
“Cosa?”, chiese la signora di quella casa senza capire.
“Quando la metteranno nel quadro”, chiarì Li-Wei all’istante. “Deve sorridere e dire al pittore che ci vuole anche il sole del suo giardino e i suoi allievi. Un maestro non è un maestro senza allievi. Io le faccio compagnia volentieri, non sono mai stato dentro un quadro. Non sarà sola così. Sarà divertente, vedrà. È bello il suo giardino e anche il suo sorriso. Mi piace, è uguale al sorriso di mamma Lan”, proferì dai sui venerandi cinque anni di età, prima di abbandonare il vestito della sorellina, allargare un enorme sorriso e correre dalla donna per prenderla per mano.  
 
“Mamma Lan?”, si domandò. Sua nipote aveva decisamente qualcosa da spiegarle.

 


Note: Non sono molto soddisfatta, devo ammetterlo. Avevo in mente di strutturare il raccontino in tutt’altro modo, ma alla fine è uscito così. T_T Spero di non aver deluso troppo le aspettative. Baci.

Lance

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Capitolo 14
*** Cucciolo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 762
Prompt: Cucciolo (Red List – 14/10/2018)
 


Cucciolo


“È un gatto ti dico”, protestò Juju, mettendo il broncio al maggiore dei suoi fratelli.
“Uhm… a me non sembra un gatto”, costatò Kimo scettico a braccia conserte e con un sopracciglio alzato.
“Lo è. Guarda: ha le zampe da gatto, la coda da gatto, le orecchie da gatto e…”.
“E lunghe zanne affilate”.
“Anche i gatti… uff!”.
“Non penso proprio”.
“Mamma Lan non ce lo farà tenere, vero?”, domandò scoraggiato Il bimbo, stringendo il piccolo felino tra le braccia quasi fosse un peluche.
“Chiedere non costa nulla però, potremmo provare”, si intromise Liang che di più grande di Juju aveva solo il coraggio.
“Non correte con la fantasia”, sentenziò Kimo.
“Ping, lo chiamerò Ping”, riprese entusiasta Juju.
“Ecco, appunto!”, costatò il maggiore con voce atona.
“Tutti i bambini dovrebbero avere un cucciolo”, provò a farsi valere Liang.
“Non uno che crescendo potrebbe mangiarli”.
“A Ba Sing Se, i puma pigmei girano per le strade”.
“Sì e vengono considerati pericolosi, cacciati e cucinati per i palati più delicati”.
“Kimo sei un guastafeste!”, protestò Liang, incrociando le braccia, offeso dall’atteggiamento negativo del fratello.
“Non ce lo farà tenere...”, si lagnò Juju, tirando su col nasino.
“Ma è solo un cucciolo”, fu il turno di Tori di provare a convincere il fratellone con i suoi enormi occhi celesti.
“I cuccioli crescono”.
“Uhm…”, brontolò il bambino, non trovando nulla per poter ribattere.
“Ma era tutto solo in strada”. Un’altra tirata di naso da parte del più piccino del gruppo.
Un sospirone sollevò il petto di Kimo non resistendo alla vista di quei tre faccini affranti, per poi dire: “Ok, ok, provo a parlarc…”.
“Ragaz… e questo?”. Lan-Chen entrò dalla porta d’ingresso senza alcun preavviso, notando immediatamente il cucciolo.
“Posso spiegare”, mise immediatamente avanti le mani, Kimo.
“Un puma pigmeo, cosa ci fa qui?”, domandò la ragazza curiosa, posando le buste della spesa sul tavolo della cucina e avvicinandosi a Juju. L’animaletto fusacchiava sonnacchioso tra le braccia del bimbo.
“Era in strada e Juju…”, cercò di spiegare Kimo, ma…
“Non ne vedo uno da quando ero all’università, cielo se è delizioso!”, l’interruppe Lan, prendendo l’animaletto e alzandolo per osservarlo meglio.
“Non dirmi che sei tra quelli che se li mangiano, che orrore!”, Kimo strizzò i lineamenti del volto disgustato da quell’eventualità.
La ragazza si voltò a fissarlo perplessa.
“No, mamma Lan non mangiarlo!”, scattò in piedi Liang con i lacrimoni agli occhi.
“Mangiar…cosa?”, domandò lei ancora più confusa.
“È piccolo e tutt’ossa, non ci viene nemmeno il brodo. Mangia me, piuttosto”, disse il più piccino, tirando su col naso e riprendendo il cucciolo dalle mani di Lan-Chen.
“Io non mangio i Juju, neanche se hanno il musetto tutto sporco di cioccolata”, commentò la dominatrice divertita, leccandosi il polpastrello del pollice e andando a pulire lo sbaffo di dolciume sulla guancia del bambino.
“Mammaaaaa, che schifo!”, protestò questi chiudendosi nelle spalle e quasi sparendo dietro il piccolo felino scuro.
Lan ridacchiò di gusto alla reazione del bimbo, prima d’informarsi: “I Puma Pigmei non sono di queste parti, avrà sicuramente qualcuno che lo cerca”.
“Era tutto solo in strada e piangeva fortissimo, ma non è arrivato nessuno”, spiegò Juju.
“Uhm…”, lamentò Tori, tirando la manica della ragazza accogliendone lo sguardo con uno tristissimo, quando questa si voltò in risposta a quel fare. Lan sorrise, muovendo una mano ad arruffarne i capelli castani, prima di portarla tra le piccole scapole e tenerlo così il più vicino possibile a sé.
“Non ha né una medaglietta, né altro. E…”, provò a spiegare Kimo, nuovamente interrotto.
“E… se ce lo tenessimo?”, dichiarò entusiasta Lan-Chen. “Certo, è poco convenzionale, ma…”, non fece in tempo a finire la frase che si ritrovò stretta in troppi abbracci e nasini raffreddati.
 
***
 
Non troppo distante, al ristorante Feng’s Cuisine, il proprietario…
“Come sarebbe a dire che è caduta la cassa dal camioncino e il puma è scappato?”.
“Questa strada è piena di buche e…”, provò a spiegare il giovane garzone del ristorante.
“Non voglio sentire scuse!”, l’interruppe il signor Feng, buttandosi una mano in faccia frustrato.
Corrugò poi la fronte davanti al volto rammaricato del ragazzo.
“Pfh!”, soffiò arreso, cercando di calmarsi. “C’era altro al mercato d’interessante?”.
“Un fattore della Nazione del Fuoco ha portato degli ottimi esemplari di Pecore Koala, signore”.
L’uomo sospirò e facendo un gesto sconsolato con la mano, disse: “Vanne a prendere una bella grossa, ci inventeremo qualcosa”.
 
***
 
“Specialità di oggi”, lesse il garzone sul menù esposto all’esterno del locale. “Zuppa di Puma Pigmeo. Porzioni limitate.” Rapido sbarrò l’ultima parte della scritta, aggiungendo accanto: “Pecora Koala, direttamente dalla Nazione del Fuoco”.


 

Note dell’autrice: Sono partita gasatissima per questo evento e ancora lo sono, ma mi rendo conto di non essere soddisfattissima di quello che scrivo. Normalmente prima di pubblicare anche una sciocchezza sento i mille pareri dei miei amici, parenti e conoscenti e spesso pubblico il 10% di quanto scrivo. Qui mi sto mettendo un po’ troppo a nudo, con tutti i miei errori e le mie idiosincrasie che si rispecchiano anche nel comportamento di questo personaggio.
Questa Slice of Life, inizialmente l’avevo pensata formata solo da dialoghi e così l’avevo stesa (278 parole in tutto). Filava? Sì, filava, ma lasciava troppo alla fantasia del lettore il “chi diceva cosa”. Ho pensato a quel punto di caratterizzare con un carattere grafico diverso ogni partecipante alla discussione (a rappresentare la voce diversa di chi parlava di volta in volta). Ma… cinque personaggi a chiacchierare (sette se contiamo anche il garzone e il proprietario del locale)? Troppi e troppa confusione, quindi… “molliamo la sperimentazione e diamo qualche direttiva sugli eventi”, mi sono detta, e da 278 parole sono diventate 762. O____O Perché? Cosa mi sfugge?
E perché tutta questa voglia di seppellirmi sotto un cipresso?
Baci,

Lance

PS: un grazie particolare a Sandro che malgrado non piacendogli il genere mi ha aiutata a correggere questo raccontino. Grazie di cuore. :*

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Capitolo 15
*** Labbra ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1201
Prompt: Labbra (Red List – 15/10/2018)
 


Labbra


Non era certo la prima ragazza che baciava.
Era assurdo, il suo pensiero era rimasto inchiodato al tocco di quelle labbra. Assurdo, Krong non trovava parola più adatta; non era stato certo il suo primo bacio, ma era stato il primo labbro rotto a sfiorarlo e lei l’aveva posato sulla sua pelle con una tale sicurezza che quella carezza dal sapore metallico non faceva che girargli nella testa.
Quel tocco screpolato, piacevole, troppo da sembrare possibile, perché?
Non c’era nulla di perfetto in quel bacio, in quelle labbra spaccate, eppure era stato talmente completo, unico al punto d’allontanare dalla sua mente ogni altro bacio dato.


Era sera, se ne stava seduto alla scrivania del suo ufficio, quello che il padre gli aveva assegnato tanto per dargli una parvenza d’importanza davanti ai suoi sgherri. Le mani intrecciate dietro la nuca, il volto a contemplare il soffitto e le gambe una sull’altra appoggiate al piano laccato.

Non era certo la prima ragazza che baciava e non sarebbe stata l’ultima.
E pensare che quella Lan-Chen non gli era mai andata a genio, sempre impegnata a guardare gli altri dall’alto in basso e adesso… adesso lui non riusciva a togliersi dalla testa quelle labbra, le sue labbra, lei.
Lei, sempre così convinta di essere nel giusto; sempre convinta che fosse “lui” quello costantemente in torto per notarlo, eppure l’aveva baciato ed era stato maledettamente eccitante.
E… no, sapeva che non guardava tutti a quel modo, guardava così solamente lui, lui e il resto della sua gentaglia e ogni volta quegli occhi lo irritavano, lo ferivano; quegli occhi verdi gli buttavano addosso una pietà che non sentiva di meritare o… sì?
Non era lui il primo a sentirsi in gabbia, limitato al mondo in cui suo padre lo aveva gettato senza possibilità di fuga?


Le dita si aggrapparono ai capelli per non cedere all’angoscia.

Non era certo la prima ragazza che baciava… No, ma era stata la prima a sorprenderlo.
Lei era tutto quello che lo mandava in bestia, era questa la verità. Era sveglia, intelligente e talmente abile nel dominio da imparare a piegare prima il metallo della terra. Quello però che proprio non sopportava era che non aveva mai dovuto lottare per dimostrare quanto valesse; non si ritrovava un padre come il suo, che non perdeva occasione di ricordargli quanto fosse inutile, paragonandolo di continuo alla moltitudine dei suoi incredibili e talentuosi fratelli maggiori.


Si morse un labbro, nervoso. Gesto inutile quanto pericoloso ora che si trovava in bocca lo stesso sapore di quella notte.

Non era certo la prima ragazza che baciava e non sarebbe stata l’ultima.
Aveva avuto donne lungamente più belle di lei, allora perché quelle labbra erano rimaste impresse indelebilmente nella sua memoria?
Era carina, sì, ma nel suo aspetto non c’era nulla di particolare: occhi del verde più comune del regno e lunghi capelli castani tanto usuali da renderla del tutto anonima in mezzo ad altre ragazze se si fosse sciolta quei due stupidi codini che la facevano assomigliare a un coniglio-libellula.


Non trattenne un sorriso a quella sciocca associazione d’idee.

Non era certo la prima ragazza che baciava e non era neanche una grande altezza, ma… sfortunatamente per lui, adorava la ragazze piccoline e, cielo, se aveva adorato averla tra le braccia quella notte, così minuta e facile da manipolare. Così sua… incredibilmente sua, come quelle labbra spaccate che mai avrebbe creduto di trovare tanto desiderabili, uniche come lei: malgrado l’inganno dell’aspetto che vestiva.
Era stato bene. Era stato inebriate possedere una creatura tanto diversa da lui; ammantata di una tale libertà da illuderlo di poter essere altrettanto libero, di poter essere sé stesso per una volta, stringendola tra le braccia.


“Capo!”, esordì uno dei suoi, entrando senza preavviso e con aria trafelata.
Krong, senza troppa fretta, tornò a sedersi in maniera più consona al suo ruolo. “Novità?”, chiese senza interesse, sperando che, qualunque cosa fosse avvenuta, avesse potuto distrarlo dal ricordo di quelle labbra.
Il nuovo arrivato si poggiava sulle ginocchia per riprendere fiato; alzò il volto verso il giovane malavitoso. “È in città”, disse tra un affanno e l’altro.
Krong lo guardò perplesso, inarcando un sopracciglio.
“La strega è tornata, capo. Ha detto di avere una questione in sospeso con lei”.
Corrugò la fronte: non ricordava di aver dato ordine d'avvisarlo, ma non dubitava che avesse potuto, tanto le labbra di lei erano impresse a fuoco sulla sua pelle.
Fissò lo sgherro senza proferire parola, mentre gli occhi si riducevano a due fessure sottili.
“Capo?”, chiamò l’altro intimorito da quello sguardo severo.
“Ottimo. Da qui in avanti ci penso io”, disse a quel punto, tornando con i piedi a terra.
Sapeva ogni cosa di quella ragazza, dove viveva, dove lavorava, non aveva dubbi sul dove trovarla.
“È sicuro di non preferire che resti, l’ultima volta…”, il tirapiedi non finì la frase che la porta si aprì nuovamente.
Lo sguardo dei due uomini venne catturato da quel nuovo evento.
“Ehi!”, disegnarono nell’aria le labbra deliziose che tormentavano le sue notti. “Non pensavo fosse tanto difficile parlarti.” Era lei sulla porta. Quel tono strafottente suscitò in Krong un ghigno divertito.
“Lin-Lin”, ricambiò il saluto della dominatrice, non le avrebbe mai dato la soddisfazione di chiamarla col suo nome, quello era un privilegio che si sarebbe dovuta sudare.
La vide alzare gli occhi al soffitto, prima di sbuffare arresa, mentre lo scagnozzo si faceva da parte.
“Quindi… avremmo una questione in sospeso?”, chiese lui, ormai conscio del fraintendimento, facendo cenno all’altro uomo di lasciarli soli.
Il suo aiutante non se lo fece ripetere due volte e uscì dalla stanza, era palese quanto non apprezzasse quella nuova presenza.
“Direi di sì”, rispose lei, avvicinandosi alla scrivania e girandole attorno per arrivargli accanto.
“E di cosa tratta, se è lecito sapere?”, domandò Krong allusivo, mentre l’osservava appoggiarsi contro lo scrittoio.
Lan-Chen chinò la testa di lato, allargando un sorriso troppo dolce per concedere all'uomo di credere che fosse veramente per lui. I due codini le scivolarono lentamente dalle spalle fino a ciondolare liberi nel vuoto.
“Ogni cosa a suo tempo”, rispose smargiassa. “Che ne diresti di andarci a fare un giro prima? Non appena… beh, appena finisci il tuo turno. Anche se non so esattamente se il tuo Lavoro conceda pause o se sia a tempo pieno, ventiquattrore su ventiquattro”, blaterarono quelle labbra invadenti.
“Nel mio campo non si dorme mai”, commentò lui, alzandosi fino ad arrivarle a un palmo da viso. “C’è sempre qualcuno da intimidire, qualcun altro da malmenare, ma… il bello di lavorare in famiglia è che posso concedermi le pause che voglio”, terminò scostandosi da lei, prima di cedere al desiderio di assaporarne la pelle ancora una volta.
“Ottimo allora”, esordì Lan-Chen, staccandosi di getto dalla scrivania per precederlo alla porta. “Non avevo nessuna voglia di starmene segregata nel mio appartamento questa sera”.
“Dì, ma non hai degli amici in città da tormentare, invece di rompermi le scatole?”.
“Ovvio, ma tu sei meno noioso”, rispose lei con un’alzata di spalle.
Krong si attardò un secondo a contemplarne i movimenti, prima di seguirla.


Non era certo la prima ragazza che baciava e non sarebbe stata l’ultima, allora perché non poteva fare a meno di sperare che lo fosse?

 


Angolo dell’autrice: T___T Letta e riletta e, come al solito, sono poco convita. Non so che mi prende ultimamente, sono giù di tono. Spero comunque vi possa tornare gradita.
Baci e abbracci,

Lance

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Capitolo 16
*** Shopping ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1281
Prompt: Shopping (Red List – 16/10/2018)
 


Shopping


Erano in missione super segretissima, così aveva detto loro Juju e si era raccomandato di non dimenticare nulla della lista, perché tutto quello che c’era scritto era frutto di una ricerca accurata e minuziosa; peccato che a Kimo sembrava solo un lungo elenco di cose, per lo più incomprensibili.
“Ahm… Nala cosa pensi ci sia scritto qui?”, chiese alla sorella, scorrendo con la punta del dito sulla prima parola non depennata dall’elenco; grazie al cielo farina e zucchero non erano stati difficili da decifrare.
“Latte”, rispose la ragazza assottigliando lo sguardo sul foglietto di carta pastrocchiato. “Oppure lazzo, ma propendo per la prima”.
“Uhm… alle brutte dove troviamo un lazzo?”, domandò dubbioso.
“Dal ferramenta, credo”.
“Meglio andare sul sicuro”, dichiarò memore dello sguardo severo dei tre piccoletti di casa.
Nala rise di gusto.
“E daiii! Non prendermi in giro. È che non voglio deluderli”, lamentò il ragazzo, infilando nel carrello un litro di latte con fare meditabondo, prima di mettercene un altro paio sotto lo sguardo perplesso della sorella.
“Che c’è? Meglio abbondare, no?”.
Nala rise ancora, mentre anche uova e burro finivano nel carrello, insieme agli altri ingredienti per la torta.
 
Il tempo di pagare e furono fuori, stretti nei loro cappotti.
Nala si sistemò bene la sciarpa, mentre Kimo sembrava scrutare attento nella vetrina del…
“Ferramenta?”, la ragazza sfarfallò le palpebre perplessa, ancora intenta girarsi quell’enorme quantità di stoffa attorno al collo. “Kimo, fai sul serio?”.
Lui le lanciò uno sguardo incerto, prima di… “Il fatto è che deve essere tutto pronto prima che torni a casa o addio sorpresa”.
Nala allargò un dolce sorriso. “Vero, ma dubito che Lan-Chen ci faccia davvero qualcosa con un lazzo. Piuttosto, dammi qua!”, disse, sfilandogli la lista dalla mani.
“Oh bella!”, esclamò sorpresa.
“Cosa? Cosa c’è?”, intervenne preoccupato il fratello.
“Il ferramenta è davvero sulla lista a quanto pare”.
Fu Kimo ad allungarsi verso il foglietto questa volta e, proprio sotto l’indice di Nala, lesse: “nuovo Kit per le riparazioni, l’altro Miori l’ha perso”.
“Perso? Come ha… come si fa a perdere un Kit per le riparazioni?”.
Alla domanda di Kimo, la ragazza fece spallucce perplessa prima di entrare nel negozio.
 
Il compleanno di Lan-Chen era quello stesso giorno e, per quanto fosse una persona alla mano, farle un regalo era qualcosa d’assurdo data la sua brutta abitudine di comprare subito tutto quello di cui necessitava.
Eppure, due ore dopo e otto rivendite più tardi…
 
“Auguri!!!”, gridarono i ragazzini appena la padrona di casa entrò dalla porta.
Lo sguardo perplesso mutò istantaneamente in un sorriso appena Lan capì cosa stesse avvenendo.
“Vi siete ricordati?”, gli occhi si inumidirono, mentre sfilava cappotto e sciarpa per abbandonarli sull’attaccapanni all’ingresso. Non serviva molto a farla commuovere e i suoi ragazzi lo sapevano benissimo.
L’ingresso era stato decorato con festoni di stelle di cartone colorate infilate tra loro. Anche Ping, il cucciolo di casa, era stato addobbato a dovere, con un meraviglioso cravattino verde in carta crespa che metteva in risalto gli occhi felini.
 
Senza che se ne accorgesse Lan-Chen si trovò a tavola con la cena già servita.
 
I ragazzi avevano davvero pensato a ogni cosa e tutto era stato delizioso, soprattutto la torta.
“Come sapevate che adoro i frutti di bosco?”, chiese la giovane donna, ottenendo solo lo scambio di sguardi complici tra i suoi marmocchi, prima che Tori si facesse avanti porgendole un pacchetto.
“Per me?”, guardò il bambino dagli occhi grandi che annuì con un sorrisone. “Addirittura un regalo, ma… avete addobbato casa, cucinato e preparato la mia torta preferita, non vorrete viziarmi, vero?”.
In tutta risposta i bambini sghignazzarono divertiti.
“Aprììì!”, incitò il bambino saltellando sul posto.
Lei scartò quel involto di carta colorata, rivelando una lunghissima sciarpa verde.
“Accidenti, adoro il verde, come…”.
“Vesti sempre di verde, non era difficile, e la tua sciarpa era tutta consumata, mamma Lan. E questa è morbidissima, l’abbiamo provata io e Juju”, spiegò Tori, rimediandosi un abbraccio spupazzoso.
“Grazie a te e a Juju, allora”.
“No, no, no!”, protestò subito l’altro piccoletto chiamato in causa, facendosi avanti e posandole una scatola sulle gambe, “Questo è il mio, quello è solo suo”. Il musetto adirato mal si accostava al gesto di donare, ma Lan non poteva non trovarlo adorabile. Gli scoccò un bacio sulla guancia prima di sollevare il coperchio della scatola.
Un maglione bianco candido fece la sua comparsa, strappandole un sorriso.
“È spiccicato al mio!”, disse meravigliata.
“Già, ma quello te lo abbiamo impiastricciato tutto. Su questo invece c’è ancora tanto spazio per colorare”.
Certo quell’ultima delucidazione non era esattamente di buon auspicio, ma…
“Apri il mio, apri il mio!”, gridò Miori, fiondandosi sulle sue gambe con un pacco pesantissimo.
“E questo?”.
“Vedrai, vedrai”, borbottò il bambino.
Non se lo fece ripetere e… “Wow! Un kit per riparazioni. In effetti era da un po’ che non trovavo più il mio”.
“Lo so, lo so”, disse il piccolo con fare saputo.
Altro bambino altro bacio e così di seguito, trovando di regalo in regalo, non solo tanta attenzione alle piccole cose, ma una dolcezza che la sciolse.
“E poi ci sono questi!”, disse Kimo, avvicinandosi con Nala.
“Una busta?”.
Nala annuì frenetica. “Forza apri!”.
“Avviso che, pur partecipando…”, tenne a specificare Kimo, mentre Lan apriva la busta, “…mi dissocio categoricamente dal pensiero sdolcinato della qui presente romanticona. E che non approvo le tue frequentazioni, ma è il tuo compleanno e…”.
“Due biglietti per il teatro?”, chiese la festeggiata.
“Fanno lo spettacolo che volevi tanto vedere e… abbiamo pensato…”.
“Hai pensato”, puntualizzò il maggiore.
“…Che avresti potuto andarci con quel bel soldato della Nazione del fuoco con cui esci ultimamente”.
Lan-Chen arrossì istantaneamente.
 “O con uno qualunque dei ragazzi qui presenti”, aggiunse Kimo con un pizzico di gelosia, rimediandosi un’occhiataccia dalla sorella. “Ehm… o anche con Nala, ovviamente!”, tentò di recuperare, non capendo esattamente dove avesse sbagliato e allo sbuffare della ragazzina alzò le spalle per sottolineare la sua più completa mancanza di comprensione al fatto.
Lan-Chen li abbracciò di getto.
“Cielo, quanto vi adoro!”, disse, per poi fare cenno al resto della combriccola di avvicinarsi. “Venite qui!”, chiamò, invitando anche i più piccoli a unirsi all’abbraccio.
“Ehi, ehi, ehi, c’è un ragazzo che sta per morie soffocato qui!”, protestò Kimo, ottenendo il risultato opposto a quello sperato e lo scrosciare di risate allegre.
 
Era stato tutto perfetto, si trovò a pensare Lan-Chen fuori la veranda.
Passi lenti arrivarono a farle compagnia.
Una coperta arrivò a circondarle le spalle.
 “Kimo, Nala”, li salutò appena si sporsero dalla ringhiera accanto a lei.
 “I piccoli sono a letto”, l’informò immediatamente la ragazzina, intrufolandosi sotto il plaid.
Le sorrise in risposta, passandole un braccio intorno alla spalle per condividere meglio il tepore della stoffa.
“È una bella serata, fredda, ma pur sempre una bella serata”, commentò con voce serena il ragazzo che si era premurato di portare quella coperta.
“Come avete fatto a sapere esattamente cosa mi serviva e… il tempo, il denaro, dove li avete trovati?”.
“Ahhh questo è un segreto, spiacente!”.
Nala sorrise e annuì alle parole del fratello.
 
Ci furono lunghi istanti di silenzio, fin quando…
“Stavo pensando”, esordì di colpo Lan-Chen.
I due ragazzi si voltarono a guardala.
“Che ne pensate se domani ce ne andassimo in centro a fare Shopping? Un’uscita solo tra noi, è tanto che non ne facciamo, sarebbe davvero un bel regalo”.
Kimo e Nala annuirono convinti alla proposta.
Lan riprese: “Oltretutto devo necessariamente passare dal ferramenta. Come dominatrice del metallo sono un vero disastro, ho esaurito il lazzo della bobina portatile, forse dovrei smettere di usarlo come sostitutivo per ogni riparazione di metallo”.
A quel dire Kimo sgranò gli occhi, prima di voltarsi verso la sorella e guardarla malissimo.

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Capitolo 17
*** Promessa ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 312
Prompt: Promessa (Red List – 17/10/2018)
 


Promessa


Lan-Chen si trovava nella sua vecchia casa. Il suo incarico era finito e stava raccogliendo alcune cose da portare a Senlin.
 
Era sempre così dopo che la richiamavano a Zaofu per delle urgenze alla monorotaia; erano questi gli accordi con il suo vecchio capo, ma essere diventata una libera professionista non la soddisfaceva appieno come avrebbe dovuto. Ormai era un nome tra i tanti, non era più il piccolo genio di quell’agglomerato urbano nel quale aveva vissuto per anni.
 
Un sospiro mentre radunava i pochi effetti personali che aveva intenzione di portare con sé.
A poco a poco, visita dopo visita, quell’appartamento era apparso sempre più svotato e freddo, ma andava bene così, quella non era più la sua vita.
 
Distrattamente urtò uno degli scaffali della libreria.
“La mia solita delicatezza”, pensò, chinandosi a raccogliere quanto aveva fatto cadere.
Nulla d’importante, poche cose: una candela ammaccata, un vecchio peluche e…
La mano le tremò nel raccogliere l’ultimo oggetto caduto: il vecchio libro d’ingegneria applicata dell’ultimo anno d’università.
 
Il volume in terra era aperto sulle pagine sottolineate del suo ultimo esame. Lo raccolse, tentennando quasi potesse bruciarla. Tra le note a lato della pagina, la sua pessima calligrafia, circondata da stelline rosse, le gridò contro: “Sarò la migliore!”.
 
“Già”, disse chiudendo il tomo e portandoselo al petto, “la prima donna ad avere una targa nell’aula magna della facoltà”. Un sorriso amaro le piegò le labbra, mentre le cose piano tornavano a prendere il loro posto sulla mensola.
 
La candela.
 
Parte della sua esistenza si era fermata ed era stata proprio quella per cui aveva lottato tanto.
 
Il peluche del tasso-talpa.
 
La vita per Lan-Chen era una serie quasi infinta di promesse fatte. Alcune mantenute, altre da mantenere. Solo una non era riuscita a portare a termine, una… l’unica fatta a sé stessa: diventare il più grande ingegnere dei suoi tempi.
 
Il libro d’ingegneria.

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Capitolo 18
*** Ago e Filo ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1250
Prompt: Ago e Filo (Red List – 18/10/2018)
 


Ago e Filo


Dovevano fare qualcosa, ma cosa?
Lan-Chen non ne aveva idea.
Da che mondo è mondo, se si portavano dietro un curatore dell’acqua era per essere curati, appunto, in caso di necessità; ma nessuno le aveva mai spiegato cosa fare se fosse stato il curatore quello ferito e privo di sensi.
 
Il sangue colava dalla grossa ferita al braccio del ragazzo.
“Spiriti, si vedono le ossa!”, costatò angustiato Nam, il dominatore della lava.
“Lo vedo anche io”, disse lei, per un secondo più preoccupata di quello che gli sussurrava il suo senso sismico che di Mokuma, il ragazzo ferito: il crollo all’ingresso di quel tunnel non era stato naturale, questo era poco, ma sicuro.
L’Avatar aveva concesso loro una via di fuga, ma erano davvero in salvo adesso?
Le vibrazioni sotto la mano della ragazza cessarono; morire era già brutto di suo, ma fare la fine dei topi in trappola sarebbe stato assurdo, dopo che si erano infilati volontariamente in quel passaggio sotterraneo.
Strinse le labbra in segno di stizza: odiava non sapere cosa fare, non bastasse non tutti quelli che stavano percorrendo il suo stesso cammino riuscivano a mantenere un’andatura costante a causa delle ferite subite.
 
Procedeva, sfiorando con la mano la parete di pietra
Fuori dal tunnel, sulle loro teste, la battaglia sembrava essersi placata.
Che una delle due fazioni avesse avuto la meglio?
Sperò con tutta sé stessa che fosse stata quella dei ribelli.
L’uscita non doveva essere più così lontana, almeno per quel che riusciva a stimare con il suo dominio.
“Forza, manca poco!”, disse, sperando che questo potesse essere d’aiuto al morale generale.
 
“Il morale generale, certo”, si trovò a constatare: il professor Azar era morto, Nokato, Nam e Rozu erano feriti e Mokuma era in condizioni pietose. “Ma ormai siamo in ballo…”, si disse, cercando di trovare un ché di sensato in tutta quella situazione.
“Dobbiamo fare qualcosa o il Professore non sarà stato l’unico ad averci lasciato le penne”, Nam aveva voglia di parlare, a quanto sembrava, e senza tralasciare di sottolineare quanto la questione fosse grave.
“Non sono un medico, lo vuoi capire?”, esordì esasperata.
All’espressione sgomenta dell’elementarista davanti a lei rispose la saggezza dell’unico non dominatore del gruppo: “Penso che dovremo chiudere la ferita in modo che non sanguini”.
Lan sapeva che Nokato aveva ragione, ma come avrebbero potuto fare?
“I tuoi bracciali sono di metallo giusto?”, le fece notare Rozu avvicinandosi con la sua fiamma, l’unica luce in quell’oscurità.
“Cosa intendi? Cosa centrano dei bracciali con…”.
“E tu domini il metallo, non è così?”.
“Sì, ma non capisco come questo possa tornarci utile al momento. Ho già usato il mio dominio a mo’ di laccio emostatico, ma non s’è rivelato troppo utile”.
“Giusto!”, esordì Nokato verso Rozu, “ragazzino, sei un genio!”.  
“Dobbiamo, suturare la ferita, non c’è altra soluzione”.
“E come?”, ancora la ragazza li guardava senza capire.
“Io l’ho visto fare parecchie volte”, intervenne a quel punto Nam. “Se Rozu riesce a produrre più luce, io e Nokato teniamo immobili i lembi della ferita e tu, Lan, puoi chiuderla con il tuo dominio”.
“Ch… Cosa?”, sbigottita li guardò come fossero impazziti. “E come dovrei fare, secondo voi?”.
Quella domanda ottenne una risposta che non cercava: “Come con ago e filo”, riprese Rozu. “Devi assottigliare il metallo tanto da renderlo acuminato come un ago e sottile come un filo”.
“No, no, no, no. Non credo sia la soluzione giusta. Non ho mai fatto nulla del genere e… non sarebbe meglio cauterizzare la ferita con le tue fiamme, piuttosto?”, suggerì lei.
“È ridotto troppo male, non…”, tentò di rispondere il dominatore del fuoco, subito interrotto da Nam.
“Ti guiderò io, l’ho visto fare centinaia di volte, te l’ho detto”.
“Allora facciamo che ti fornisco quello che occorre e lo fai direttamente tu”, aggiunse ancora lei. “Non me la sento di prendermi questa responsabilità”.
Nam aprì bocca per ribattere, ma fu lui a venir bloccato, stavolta.
“Cazzate!”, esordì Nokato. “Lan, sai perfettamente che la mente è più precisa della mano e il dominio reagisce ai comandi di questa, quindi vedi di muoverti. Finiamola di perdere tempo in chiacchiere”, aggiunse ancora il ragazzo, chinandosi sul dominatore dell’acqua in terra e posizionandosi per tenere più immobile possibile il braccio leso. “Mokuma non ha tutto questo tempo”, terminò, mentre anche Nam e Rozu prendevano posizione.
“O la va, o la spacca!”, pensò Lan-Chen, cominciando a manipolare il metallo dei bracciali, assottigliandolo come le era staro richiesto e accostandosi per avere una buona visione della ferita.
“Rozu”, non necessitò di dire altro che il ragazzo intensificò la luminosità della fiamma.
Se il dominio era il suo strumento e la mente le sue mani, gli occhi erano la guida di cui necessitava.
“Perfetto”, disse Nam dopo che vide il filo di metallo acuminato sospeso nell’aria, “per prima cosa…”.
 
***
 
Forse era stata la strigliata che le necessitava, rifletté appena ripresero a muoversi nel tunnel.
Come ago e filo, aveva detto Rozu, peccato che lei non aveva mai tenuto un ago in mano. Fatto stava però che Mokuma, dopo che aveva terminato di trapassargli la carne da parte a parte neanche fosse il tacchino ripieno di capodanno, aveva smesso di prendere colore.
 
Era solo un rimedio momentaneo, avrebbe dovuto togliergli quella roba da dentro appena avessero trovato un medico o un altro curatore; da dentro, sì, perché la ferita era tanto profonda che aveva dovuto assicurarsi che le due parti recise collimassero alle perfezione e anche quelle… Arterie? Com’è che le aveva chiamate Nam? Beh, il fatto era che il sangue doveva andare nel verso giusto, né fuori dal corpo, né da qualche altra parte dentro.
Certamente quella era un’esperienza che non avrebbe mai più voluto ripetere.
“La prossima volta, due dominatori dell’acqua, poco ma sicuro”, si annotò mentalmente, quando lo sguardo le venne attratto da una luce che non proveniva dalla fiamma di Rozu. Giungeva dall’esterno, ridonando il giusto spessore a cose e persone: la fine del tunnel era a pochi passi, finalmente.
“Siamo arrivati”, le sfuggì dalle labbra, più simile a un sussurro che a una constatazione vera e propria; pronunciato per sé stessa, nella speranza che, sentendolo dalla sua stessa voce, si facesse maggiormente reale e non si rivelasse solo lo scherzo meschino della sua mente esausta.
 
Affrettò il passo. Avrebbe voluto richiamare il dominio e portare tutti con sé, ma era stanca: la sua mente era troppo provata per concederle la fermezza di comandare il suolo.
 
Si frenò a pochi passi dall’uscita: oh, solo gli spiriti sapevano quanto desiderasse emergere da quel buco, ma farsi appannare la ragione dal desiderio non era certo da lei; non dopo quanto accaduto e con la possibilità di cadere dalla padella nella brace una volta all’esterno.
“Dai Lan, un ultimo sforzo di concertazione, ce la puoi fare. Devi farcela!”, si sollecitò, sperando che la stanchezza non pregiudicasse il suo giudizio.
Controllò il perimetro con il suo senso sismico fin dove questo poteva espandersi: sembrava tutto a posto, possibile?
Possibile che fossero finalmente fuori pericolo?
Sì, possibile, il suo dominio le era sempre stato fedele, non l’avrebbe mai ingannata.
“La via sembra libera”, informò, udita solamente da Nokato che l’aveva raggiunta.
Mosse un passo verso l’esterno, mentre lo sguardo le si annebbiava.
Un altro passo e sentì la terra mancarle sotto i piedi: l’oscurità si chiuse su di lei e sull’immagine dei soldati dell’Imperatrice in fondo alla valle.
 
Aveva abusato di sé stessa, la mente non aveva retto, e non era ancora possibile tirare il tanto decantato sospiro di sollievo.

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Capitolo 19
*** Rubare ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1440
Prompt: Rubare (Red List – 19/10/2018)
 


Rubare
 

“Sì, sono io”, dichiarò Lan-Chen all’interno della cornetta. “Pete? Deve esserci un errore”, la giovane donna si incupì. “Bene, sarò da lei a momenti”, concluse, attaccando senza salutare.
 
Non perse tempo a cambiarsi, afferrò cappotto e sciarpa dall’attaccapanni, assicurandosi di avere le chiavi in tasca, e uscì con indosso gli abiti di casa.
 
La preside l’attendeva all’ingresso della scuola elementare e la guidò fino al suo ufficio, ribadendole l’accaduto. Percorrendo il corridoio, vide Pete di sfuggita attraverso la finestrella di vetro della sua classe. Il piccolo sedeva in un angolo, in disparte: la testolina china e le manine strette tra loro.
 
Lan-Chen non riuscì ad aprire bocca al riguardo che si ritrovò in presidenza.
 
Sedute, davanti alla scrivania della direttrice, tre donne tirate a lucido e con le unghie perfettamente dipinte, erano in attesa.
Una sedia vuota, accanto a quelle occupate, sembrava aspettarla.
 
***
 
“Vi rendete conto che stiamo parlando di un bambino? Lo state facendo passare per una creatura meschina, neanche fosse il Ladro di Volti”, esordì Lan incredula, dopo pochi minuti dall’inizio della conversazione, cercando di far ragionare quelle persone.
Parole al vento, nessuna di quelle donne sapeva cosa intendesse o a cosa si riferisse.
Sospirò e tentò di correggere il tiro: “Stiamo parlando di un bambino, non certo di un mostro. Sono sua madre e conosco…”.
Madre!? Lei? Tz, non mi faccia ridere!”, l’interruppe una delle tre signore alzando la voce. “Non ha fatto altro che raccogliere dei randagi dalla strada, dei delinquenti, e imporceli come se fossero nostri pari”.
Lan-Chen respirò profondamente, il suo istinto da guerriera passò in rassegna l’ambiente circostante e c’era davvero poco che non rispondesse al suo dominio in quella stanza.
“Quindi bisogna espellere un invertebrato dall’utero per essere una madre?”, chiese con amara ironia.
“Ovviamente”, rispose la donna, non sufficientemente preparata per recepire l’insulto.
“Non siamo qui per linciare nessuno, Signora Lan-Chen”, intervenne la direttrice in contemporanea con quella risposta. A differenza delle altre persone presenti aveva capito appieno quanto Lan aveva insinuato, preferendo comunque appoggiare quelle tre esaltate, bloccando il suo dire anziché quello della tipa che aveva dato dei poco di buono ai suoi bambini.
“Quel criminale ha rubato la collana di mia figlia e chissà cos’altro”.
“Deve essere perquisito!”.
 
“Perquisito?”, tuonò nella mente di Lan-Chen che si trovò ancora a dover respirare lentamente nel tentativo di trattenere la rabbia ed evitare che l’intero caseggiato si accartocciasse su quelle quattro vipere.
 
“Bene”, disse a quel punto, apparentemente calma. “Se è questo che volete, va bene. Da quando è successo questo increscioso evento, mio figlio non è uscito dall’istituto. Controllate le sue cose, il suo banco e il suo armadietto. Se doveste trovare quello che è stato trafugato sarò ben felice di darvi ragione. Ma, in caso contrario, pretendo che venga fatto lo stesso con tutti i componenti della classe finché non uscirà il vero responsabile”.
Pretende? Lei pretende? Con che coraggio?!”, disse la presidente del consiglio dei genitori, squadrandola da capo a piedi e soffermando lo sguardo sdegnoso sulla sciarpa impiastricciata a dovere dalle manine appiccicose del suo piccolo Tori.  
“Non se ne parla! Sappiamo già chi è il colpevole”.
“Nessuno si deve permettere d’invadere lo spazio personale di mio figlio”.
“Benché meno del mio. Chissà poi dove quel… quell’animale…”, riprese l’illustrissima presidente con il più completo disgusto, “…avrà nascosto la refurtiva”.
“Non voglio certo che la mia bambina rimanga traumatizzata per una cosa del genere, è già così sconvolta!”.
“Crede forse che non sappiamo che tipo di persona è o delle sue frequentazioni. Una vera madre si vergognerebbe anche solo a dividere la stanza con una come lei. La sua presenza mi disgusta”.
“Tutte noi proviamo disgusto”.
 
Cosa credevano di sapere? Frequentava delle case da gioco?
Ovvio, era il responsabile edile della più magnificente di quelle strutture in città, era il suo lavoro.
Quelle donne volevano davvero mettersi contro di lei?
Povere creature, non potevano nemmeno immaginare che le sarebbe bastato un singolo cenno della mano per trapassar loro il petto con uno qualunque degli orpelli che avevano indosso.
Si facevano grandi per aver scoperto il passato del piccolo Pete, passato che probabilmente aveva rivelato il suo stesso bambino, cresciuto nella consapevolezza di non doversi mai nascondere o vergognare di chi fosse o da dove venisse.
Si facevano grandi, ma non sapevano che lei aveva annichilito eserciti, armati con ben più di qualche gioiello e una borsetta griffata.
 
“Non vogliamo che i nostri figli stiano in contatto con delinquenti del genere”.
“Signore, calmat…”.
Un ghigno inquietante si aprì sul volto di Lan-Chen, tanto da azzittire la preside della scuola in un istante.
 
Aveva da scegliere tra due metodi per finire quell’assurda conversazione: quello violento, e solo il cielo sapeva quanto volesse applicarlo, o quello diplomatico.
 
Si alzò in piedi in un gesto talmente repentino da riuscire a ottenere l’attenzione dei presenti. Dichiarò senza indugi con tono fermo e portamento retto: “Lan-Chen, discendente della Nobile Penga e Ho Tun di Yu Dao, nipote della governatrice Lan-Lan di Gaoling e come questa facente parte del Clan del Metallo”. Fece una breve pausa al termine della sua presentazione, non aveva mai amato farsi grande col suo titolo, ma quella era una situazione che lo necessitava, poi aggiunse: “Non siamo qui per linciare nessuno, è vero. Siamo qui per risolvere un problema. Proprio per questo provvederò immediatamente a risarcire questa donna dieci volte il valore del gioiello che le è stato trafugato”, nel suo parlare si piegò sulla scrivania, tirò verso di sé il notes accanto alla preside e, sfilando la penna dal suo pacchiano supporto in vinile, vergò poche parole sulla carta. “Ecco a voi il recapito del nostro tesoriere, comunicherò lui quanto da me stabilito in questa sede”. Il denaro non era mai mancato al suo casato. Tornò ad assumere un fare imponente, prima di riprendere: “Mio figlio avrebbe potuto portare lustro alla vostra istituzione, ma accontenterò con piacere le richieste di questo consiglio genitoriale, ritirandolo seduta stante da questa scuola; decisamente non idonea a educare gli eredi di un lignaggio, tanto illustre quanto antico, quale quello della mia famiglia. Mi premurerò personalmente a far sì che questo si sappia in tutte le regioni che hanno usufruito dell’appoggio della mia casata, stabilendo con questi che chiunque abbia studiato in siffatto istituto venga etichettato per l’inetto che si è dimostrato non essendo in grado di apprezzare il valore di chi gli è accanto”. Una pausa voluta interruppe il suo disquisire. “Ora che il problema è risolto, con permesso”, problema che la giovane madre non aveva mai ritenuto per un solo istante essere suo figlio.
 
Si diresse alla porta nel mutismo più totale.
“Ah!”, esordì, soffermandosi sull’uscio e voltandosi con sufficienza verso quelle cornacchie starnazzanti. “Non so quanto questo rientri o meno nelle vostre decantate conoscenze sulla mia persona, ma sappiate che ho conseguito un dottorato in scienze delle costruzioni e un altro in ingegneria avanzata. Mi piacerebbe sapere quante di voi, signore, sono in grado di vantare altrettanto. Sempre che sappiate almeno scrivere correttamente il vostro nome”.
Uscì senza attendere risposta.
 
L’esodo di studenti da quella scuola agli altri istituti cittadini sarebbe stato difficilmente contenuto non appena quella voce sarebbe girata, fosse stata questa una semplice minaccia o meno; ma, fortunatamente per le quattro donne in quella stanza, Lan-Chen aveva scelto di applicare una linea esecutiva più gentile di quella suggerita inizialmente dal suo temperamento, e di questo avrebbero dovuto ringraziare l’amore che provava nei confronti del suo bambino, una delle poche cose, ormai, in grado di frenare i suoi istinti.
 
Quella scuola non era certo l’unica della città e neanche la più vicina alla nuova casa, forse quello spiacevole evento era stato solo uno degli infiniti e bizzarri metodi degli spiriti per farle capire che era giunta l’ora di trasferire anche Pete nell’istituto dove studiavano il resto dei suoi figli.
 
***
 
“Dove andiamo, mamma?”, domandò il piccolo aggrappato alle dita sottili.
“Se non ricordo male, mi avevi chiesto una macchina foto-qualcosa, per il tuo compleanno”, rispose Lan-Chen, fingendo di non sapere di cosa si trattasse.
“Fotografica!”, esordì il bimbo entusiasta, perdendo un passo per saltellare sul posto. “Devo documentare tutti i miei incredibili viaggi. Ma…”, aggiunse quasi istantaneamente, perdendo un po’ della sua euforia, “…al mio compleanno mancano ancora… quattro mesi”, dichiarò dopo aver contato con le dita della manina libera, chiudendone una dopo l’altra.
“Quattro mesi?”, disse fintamente allarmata, voltandosi, “Solo quattro mesi?”. Si fermò di colpo, abbassandosi per sollevare il bambino. “Allora dobbiamo correre!”, concluse, riprendendo a muoversi con passo veloce tra le vie fuligginose della periferia di Senlin, mentre Pete si stringeva a lei, la guanciotta schiacciata contro la sua, ridendo felice per quel gioco tutto loro.

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Capitolo 20
*** Selfie ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1195
Prompt: Selfie (Red List – 20/10/2018)
 

Note: I protagonisti di questo racconto sono due bambini che parlano tra loro. Errori e ripetizioni nei loro dialoghi sono voluti.
 

Selfie


“Quindi questa è la tua Mokkografica”, constatò Miori, rigirandosi quello strumento tra le mani.
“Macchina Fotografica”, lo riprese Pete, recuperandola dalle mani del fratellino, prima che gli sfuggisse di mano.
“Rotografica, rotografica, ho capito”, si corresse il bimbo.
“Fot… ahhh, non importa, non è questo il punto. Devi aiutarmi! Sei l’unico che può farlo”, riprese l’altro con occhioni supplicanti, non commentando la quasi-caduta della macchinetta in terra: era un fatto normale che a Miori scivolasse tutto di mano.
“Unico, unico?”.
“Sì”.
“Dov’è la fregatura?”.
“Nessuna fregatura”.
“Nessuna, nessuna?”.
“Beh, forse una: se accetterai questa cosa potremmo non tornare più indietro”.
“L’avevo detto, io, l’avevo dettooo!”.
 
Lan-Chen seduta sulla poltrona accanto alla finestra, intenta a leggere un vecchio romanzo rosa, portò lo sguardo ai due bambini che, come ogni pomeriggio, giocavano allegri sul tappetone di pelliccia.
 
“Dobbiamo costruire una macchina del tempo”, proclamò Pete, abbassando il tono e gesticolando per rendere la cosa più stupefacente e misteriosa.
“Ehhhm… Sicuro, sicuro? Cioè una Macchina del tempo, dici? Una. Macchina. Del. Tempo”, scandì ogni singola parola come a voler palesare al fratello qualcosa di terribile, implicito nei termini stessi che ne componevano il nome.
“So che ce la puoi fare!”, ancora gli occhioni supplichevoli colpirono.
“Lo so che sai che posso. Io posso tutto!”.
 
Lan sorrise divertita, tornando a sbirciare le avventure narrate nel libro, non prima però di accendere la lampada di metallo accanto a lei per agevolare la lettura.
 
“Dobbiamo andare avanti nel tempo e farci delle foto con i Noi del futuro, per documentare il nostro viaggio, altrimenti nessuno ci crederà mai”, informò Pete.
“Eh… perché? Lo sanno tutti che siamo fantasticissimi”.
“Non tutti, sai, Kimo…”, terminò quella frase con un sospirone.
“Kimo si crede tanto grande, grande, perché è il maggiore, ma non ha niente, niente, barba”.
“Però è tanto alto”.
“Questo sì, questo sì”.
 
Due ore, una serie quasi infinita di cartone, nastro adesivo, cianfrusaglie e ogni singola sveglia di casa, più tardi…
 
“Ciao mamma Lan del futuro, non spaventarti. Tu non lo sai, ma noi siamo il Pete e il Miori del passato. Abbiamo momentaneamente preso possesso dei nostri corpi del futuro, questo futuro, quello che per te è il presente”, disse Pete, accostandosi alla madre con l’atteggiamento tipico di chi non vuole far fuggire un animale impaurito.
Lan-Chen sfarfallò le ciglia perplessa.
“Troppe parole, troppe parole, la confondi”.
“Dici?”.
“Dico, dico!”.
“Bene, allora. Saltiamo la parte in cui spiego le complicatissime operazioni scientifiche messe in atto per arrivare fin qui dal passato e passiamo direttamente al punto: puoi farti un auto-scatto con noi? Per favoreeeeee!”, occhioni supplicanti 3, il ritorno.
“Abbiamo le braccia corte, corte, per riuscire a far entrare tutto, tutto, nella foto?”.
“Ci serve. È prova inconfutabile”.
 
Lan-Chen annuì ai due bambini, fingendo nel mentre un’espressione impressionata da quanto compiuto da quei due giovani viaggiatori del tempo e, posizionati tutti e tre sulla poltrona accanto alla finestra, scattò le fotografie tanto desiderate.
 
15 giorni dopo il rullino erano stato finalmente sviluppato.
 
“Per tutti i bufali-yak, guarda quanto è grande il Me del futuro!”, esordì Pete stupito, seduto sul tappetone del salotto accanto a Miori, dopo che il fratello maggiore aveva consegnato loro le foto tanto attese, tutto preso dal posizionare ognuno di quegli importantissimi reperti nel suo librone dei viaggi.
“Un vero gigante. Davvero, davvero! E io, guarda, guarda qui!”, disse Miori entusiasta, indicando il suo visetto sulla fotografia che gli era appena stata messa sotto il naso.
“Che meraviglia! Avevi già la barba e anche io, guarda qua!”.
“Ohhh, vero, vero!”. Il loro stupore echeggiava nell’aria.
“Ihhh, quiii!”, disse ancora Pete, puntando il ditino sulla stessa foto, dove era rimasto immortalato l’orologio sulla mensola che, oltre all’ora, scandiva anche giorno e data.
“10 anni. 10 anni avanti nel futuro!”.
“Ohhh! Come siamo invecchiati beeene”.
 
Poco più in là, Lan-Chen, nuovamente intenta a scrutare tra le pagine di un libro, sorrise: l’ombra che i due bimbi vedevano sui loro visetti, la data sull’orologio, erano state opera sua. Aveva manipolato il metallo con il suo dominio in modo di creare quell’effetto di luce e spostare in avanti le lancette senza essere vista.
 
“E il prossimo viaggio dove lo faremo?”, chiese Miori.
“Uhm… andremo tra le stelle!”.
“Tra le stelle, sei serio, serio?”.
“Servirà una macchina speciale che ci porti lassù, però”.
“Già, già!”.
“Uhm…”, mugugnò Pete, incrociando le braccia al petto e facendosi pensieroso.
“Ok, ok, la faccio io!”, dichiarò entusiasta, di punto in bianco, l’altro bambino.
“Cosa?”.
“Posso farcela, posso farcela!”.
Gli occhi di Pete brillarono ricolmi d’amore fraterno.
“Solo, ci vorrà un po’. Bisogna avere un fisicaccio per andare nel cielo. Lo sanno tutti”, spiegò Miori con fare solenne.
“Io ho già il fisicaccio”.
“Certo, certo. Non confonderti con il tuo Te del futuro, però”, ribatté sarcastico il piccolo inventore.
“Ehi, guarda che ho davvero i muscoli!”, fece notare l’avventuriero, piegando il braccio in una posa plastica.
“Certo, certo, non sarò mica io a porre limiti alla tua autostima”.
“Non vale se mi dai ragione così però, è come se non me la dai”, si lamentò Pete, guardando malissimo il fratello.
“Ahhh!!! Parlando di cose serie”, disse Miori, ritenendo conveniente tornare al nocciolo del discorso. “Dobbiamo trovare tutto il materiale, ci vorrà un po’, ma ce la faremo. Ce la faremo. Io e te andremo tra le stelle. Costruirò la più meravigliosa meravigliosissima aeronave di tutti i tempi e arriveremo dove l’unico limite sarà… sarà… uhm…”, bofonchiò non venendogli nulla di buono in mente.
“La marmellata di bacche”.
“Giusto, giusto, la marmellata di bacche. Lo sanno tutti che tra le stelle non ci sono boschi”.
“Le bacche crescono nei boschi”.
“E senza boschi, niente bacche”.
 
Un secondo di silenzio, mentre piccole mani voltavano pagine e pagine di viaggi fantastici, scrupolosamente documentati da reperti fotografici e strani articoli di giornale scritti a mano con disegni stravaganti al posto delle foto.
 
“La nave ce la facciamo disegnare da Liang?”, ruppe quel silenzio Pete.
“Sì, meglio. Le mie cose a funzionare funzionano, ma non sono mai, mai, belle”.
“Quando andremo tra le stelle lo faremo con stile”, annunciò tutto orgoglioso il piccolo esploratore.
Miori lo guardò perplesso, sfarfallando le ciglia degli occhioni blu.
Pete valutò la cosa chinando la testolina di lato.
“Stile?”, domandò il costruttore di follie.
“Stile, sì!”.
“Stiiileee, Stile?”.
“Già”.
“Uhm, ma non dovevamo andarci solo noi due?”.
Fu il turno di Pete di guardare dubbioso il fratellino, sbattendo un paio di volte gli occhi verdi.
Miori gli sorrise soddisfatto.
Pete era sempre più sconcertato: era stata una battuta quella?
Miori compiaciuto dall’espressione del fratello, allargò quel sorrisone al massimo.
Pete si rese conto per la prima volta nella sua breve vita di non aver mai sentito battuta peggiore.
 
Dopo qualche secondo di silenzio e dopo aver chiuso il librone delle “Cronache dei Viaggi Incredibili di Pete e Compagni”
 
“Che dici, abita qualcuno sulla Luna?”, domandò Pete, mentre Miori aveva preso a giocare con una macchinina di legno che faceva scorrere tra la pelliccia del tappeto quasi fosse questa un’intricata foresta.
“Certo che sì, altrimenti chi l’accende tutte le notti”, rispose serissimo.
“Giusto. Te sì che sei intelligente”.
“Lo so, lo so!”.
 
Lan non trattenne un nuovo sorriso.

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Capitolo 21
*** Chiave ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 982
Prompt: Chiave (Red List – 21/10/2018)
 

Chiave


“Ho parlato con tua nonna”, a quelle parole Lan-Chen assottigliò lo sguardo. La voce della madre attraverso la cornetta era stata per i primi minuti di quella chiamata quasi atona, troppo calma per non farle temere che avesse qualcosa da dire che andasse al di là del semplice informarsi sul come stesse.
Non disse nulla all’affermazione della donna e rimase in ascolto: non era stata una domanda e sapeva bene a cosa si stesse riferendo.
“Lan, piccola mia, ho aspettato. Credevo fosse un periodo, credevo che ne avessi bisogno, ma…”, la madre sospirò in maniera anche troppo scenica per concedere a Lan-Chen il dubbio che non avesse pianificato tutto quel discorso, “…tre anni. Tre lunghi anni. Cosa devo pensare?”.
“Non capisco, mamma. A cosa ti riferisci?”, rispose a domanda con domanda.
Aveva temuto quel momento talmente a lungo che per un attimo le sembrò di trovarsi in uno dei suoi incubi e, proprio come in questi, si sentì sprofondare, ma non doveva lasciare che trapelasse dalla sua voce, non poteva.
“Come a cosa, Lan? Passi per i viaggi, per tutto il denaro speso, per la gente che frequenti, per aver lasciato il lavoro. Ho accettato che ti togliessi ognuno di questi sfizi, ma… questo? Cos’è? Non ti andiamo più bene come famiglia?”.
La ragazza si portò una mano alla bocca trattenendo un sentimento troppo doloroso da tradurre, da capire lei stessa.
Le labbra le tremarono, ma riuscì a mantenere la voce nitida.
Sfizi? Credi che tutto quello che ho fatto in questi anni fosse solo per togliermi uno sfizio?”, ancora… ancora l’unico modo per difendersi era non rispondere, ma chiedere, facendo finta di aver inchiodato il pensiero a quella parola sfuggita troppo amaramente dalle labbra della madre.
“E come li dovrei chiamare? Avevi dei sogni una volta, li hai dimenticati?”.
Dimenticati?
Solo gli spiriti sapevano quanto desiderasse poterlo fare, riuscire a dimenticare, riuscire a smettere di soffrire.
Le lacrime cominciarono a rigarle il viso.
Era stata costretta a rivedere tutta la sua esistenza per proteggerli, perché per uno stupido scherzo del destino si era trovata nel posso sbagliato al momento sbagliato.
E poi… poi tutto era degenerato. Aveva lottato, aveva ferito e… aveva ucciso. Inutile girarci intorno.
Doveva difendere chi amava e cielo se amava quella donna petulante dall’altra parte della cornetta, quel folle di suo padre, i suoi nonni, i suoi vecchi amici, il suo lavoro.
“È la mia vita”, ringhiò a denti stretti.
“Ti piaceva quel ragazzo, Ming, e volevi diventare ingegnere come me e papà”, continuò la donna senza sentire ragioni.
Il suo lavoro era stata l’ultima cosa che aveva abbandonato, i suoi vecchi amici, quelli erano stati i primi verso i quali si era sentita costretta a recidere ogni rapporto. Aveva troncato con loro di netto, senza dare spiegazioni, ma cosa avrebbe potuto dire infondo?
Scusate, ma sono ricercata in tutti i regni conosciuti e non vedervi più è l’unico modo che conosco per evitare che vi facciano del male pur di arrivare a me?
Proprio la pessima trama di uno di quei Moventi spionistici che amava tanto suo padre.
Il sorriso amaro che le si dipinse in viso non fece che accrescere il suo dolore.
Ricordava ancora le sere passate a guardare il telefono che squillava, sapendo che l’unica a poter insistere a quel modo era Na-Zhu, la sua amica da sempre; ricordava i momenti passati immobile a osservare lei e gli altri amici attraverso lo spioncino della porta, a osservare le sue lacrime, mentre le chiedeva di aprirle, mentre le chiedeva cosa le avesse mai fatto di tanto orribile da non meritare neanche una spiegazione. Ricordava quando diceva di sapere che fosse lì, dietro la porta; ricordava il resto degli amici che lentamente la lasciavano sola ad aspettare, sparendo uno dopo l’altro dietro la sua figura minuta e delicata. Ricordava le scuse raffazzonate e stanche. Ricordava quelle spalle da uccellino fremere per le lacrime versate, versate insieme a lei senza che lo sapesse. Ricordava di averla vista venire sola a bussare alla sua porta, attendere in silenzio, per giorni, e ricordava… ricordava perfettamente il momento che smise per sempre di cercarla.
 
Non sentendo arrivare nessuna parola da lei, sua madre riprese: “L’ho incontrato al mercato l’altro giorno. Ming. Era con quella tua amica Na-Zhu, ti ricordi di lei?”.
Sua madre non poteva immaginare quanto la ferissero quelle parole.
“Mi hanno chiesto se stavi bene, ma... non ho saputo rispondere, perché io… io non lo so, Lan, non lo so più ormai, non so più niente”, stava piangendo, la sua mamma stava piangendo per colpa sua.
Non era sicura di quanto ancora avrebbe potuto resistere, ma sapeva come finivano tutti i suoi incubi: ogni volta che affrontava quel discorso con la sua famiglia, ogni singola volta, si concludeva con una rottura.
 
Seguì un lungo silenzio, ma entrambe sapevano che l’altra era ancora in ascolto dal capo opposto del telefono.
“Tua nonna dice che quei bambini ti chiamano Mamma”, eccolo era arrivato il momento. “È per loro che lo stai facendo? Stai buttando via la tua vita, lo capisci? A che gioco stai giocando?”.
“Non sto giocando”, un sussurro probabilmente non udito, mentre la donna dall’altra parte del filo alzava la voce esasperata.
“Ti ho messa al mondo, avrò diritto a un po’ di considerazione, a una spiegazione?”.
“No”, disse seccamente.
Non avrebbe discusso mai quel punto, perché non c’era nulla da discutere: loro, i suoi bambini, erano stati la soluzione, la chiave per aprire la porta della sua rassegnazione, la chiave per trovare un nuovo sprazzo di luce a cui aggrapparsi e andare avanti.
Se doveva decidere quale porta serrarsi alle spalle non sarebbe mai stata quella.
“Lan come…”.
Non aspettò che terminasse. Piangendo, chiuse la chiamata.
 
Sperava… aveva sperato che il suo lavoro fosse stato l’ultima cosa della sua vecchia vita a cui era stata costretta a rinunciare, ma, a quanto sembrava, sperarlo non era bastato.

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Capitolo 22
*** Ombre ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1046
Prompt: Ombre (Red List – 22/10/2018)
 


Ombre


“Dovresti parlarle.”
“Ma papà…”
“Lan, ti prego, è tua madre.”
 
***
 
Mai-Lin scese da quell’enorme ammasso di ferraglia rumoroso.
Chi erano quei barbari che avevano il coraggio di chiamare quel mostro Treno?
Avevano mai visto com’era un vero treno?
No, probabilmente no, e sua figlia si era ridotta a vivere con quegli incivili?
Cielo!
Strinse le labbra in una linea sottile, per la stizza. Uno sguardo alla mappa che teneva tra le mani e, con passo deciso, si avviò, trascinando la pesante valigia a rotelle tra i vicoli bui di Senlin.
 
Non l’avrebbe mai creduto possibile, eppure era lì: lei che odiava ogni cosa fosse fuori dalle mura della sua città, i ghetti maleodoranti, la sporcizia e le cose senza senso. Ma, per quanto ci fossero una marea di motivi per detestare quel luogo con tutta sé stessa, era lì che viveva sua figlia.
Gli spiriti non dovevano ancora conoscere adeguatamente la sua determinazione se la mettevano davanti a una prova del genere. Avrebbero potuto far piovere lapilli incandescenti dal cielo, lei non se ne sarebbe tornata a casa senza aver chiarito, perché, per quanto potesse pensarne la sua bambina, lei l’amava come null’altro al mondo, avrebbe sistemato la tesa del suo cappellino e avrebbe tirato dritto verso quel che si era prefissa.
 
Rallentò il passo, il viso si piegò involontariamente verso le grosse pietre che lastricavano la strada.
Lo sguardo si alternò distrattamente da una punta all’altra dei suoi stivaletti laccati.
No, non le piaceva come si era chiusa la telefonata con la figlia e, benché meno, il loro rapporto: quando l’aveva chiamata non era quello il risultato aspettato, avrebbe voluto solo capire cosa stese succedendo e cercare di ricordarle chi fosse veramente.
La sua Lan-Chen era stata ambiziosa un tempo, troppo ambiziosa a volte, al punto da preoccuparla e adesso?
Adesso avrebbe voluto tanto riavere indietro la sua spocchiosa marmocchia tutta pretese.
“Io farò quello. Io sarò questo. Io. Io. Io”, la cantilena ricorrente di quando era piccola le rimbombò nelle orecchie al ritmo del battito del suo cuore.  
 
Sospirò, fermando il passo sotto un lampione sfrigolante.
La luce fioca e altalenante della lampadina morente rendeva quel posto più lugubre di quanto fosse realmente e lei lo sapeva.
Lo sapeva, già!
Questo perché, prima di diventare la Mai-Lin che era, era stata parte di quel mondo e ne era uscita graffiando e mordendo; troppo orgogliosa per arrendersi al suo destino e, per quanto non se ne vantasse apertamente, aveva sempre creduto che il maledetto orgoglio che si ritrovava sua figlia, quello, lo avesse preso da lei.
 
Controllò la carta stropicciata che stringeva nel guanto di pelle scura e riprese il passo.
La sua ombra la seguiva silenziosa.
Non era mai andata troppo d’accordo con sua suocera, non che questa le fosse mai stata ostile, ma conosceva le sue origini; origini che non potevano certo vantare i titoli che l’anziana possedeva e una parte di lei se ne vergognava.
Non avrebbe mai permesso che Lan-Chen provasse quella stessa vergogna.
Era alla madre del marito che era ricorsa per avere quell’indirizzo: tre anni passati a cercare di ottenerlo dalla figlia e alla fine…
Gli occhi le si inumidirono.
…Alla fine l’unica a esserne a conoscenza era, come sempre, sua suocera.
La sua bambina diceva sempre tutto alla nonna. Tutto.
Cielo, quanto invidiava il loro rapporto!
Per tanti anni l’aveva imputato all’essere questa, a differenza di lei e il marito, una dominatrice della terra come la figlia, ma la verità era un'altra: non era mai stata una buona madre, questo era… questo doveva essere… per forza, se… dopo quella telefonata, Lan non le aveva più risposto.
Aveva parlato con il padre, con i nonni e chissà con chi altro, ma… non con lei.
 
I suoi tacchi sulla pietra battevano un ritmo costante, mentre la luna si alzava in cielo, allungando le ombre di cose e persone.
Tutto quello che aveva fatto nella vita era stato cercare di dare a quella ragazza quello che lei non aveva avuto, ma… Lan aveva preferito disfarsene, gettarlo via come fosse qualcosa di inutile.
 
Piangeva.
Altri, oltre lei, si muovevano per quelle vie.
Sentiva il loro parlottare e qualcosa aveva fatto rotolare rumorosamente un vecchio secchione, ma Mai-Lin non vedeva nessuno. Quelle persone le passavano accanto come ombre, eteree e distanti, aveva come la sensazione che avrebbero potuto passarle attraverso e andare oltre.
No, non erano loro le ombre, era la sua mente che era distante, era lei; lei che si era rifiutata di accettare quella realtà che le aveva dato vita, quella realtà che aveva finto non esistesse, guardando semplicemente dall’altra parte e adesso… adesso quella realtà aveva ingoiato sua figlia.
 
Arrivò davanti ai pochi gradini d’ingresso di una casetta a schiera, simile a tante altre che aveva superato su quella stessa via.
Controllò l’appunto sul bordo della mappa e poi il numero in rame di lato della porta: era il posto giusto.
Chiuse gli occhi e trattenne il fiato per un secondo, prima di sfilare il fazzoletto dal taschino del suo avvitatissimo cappottino a doppio petto e pulire le linee scure del trucco che le lacrime avevano trascinato sul suo viso.
 
Salì uno scalino dopo l’altro.
Arrivata davanti alla porta, stirò il margine del cappotto con le mani, come per darsi un’ultima rassettata.
Suonò il campanello una volta.
Attese.
 
Alzò lo sguardo alle finestre: la luce in casa era accesa.
Prese un profondo respiro e suonò una seconda volta.
Udì i passetti rapidi di un bambino echeggiare dall’interno della casa fin dietro la porta, subito seguiti dal tonfo sordo di manine contro il legno.
“Mamma?”, una vocina che non conosceva arrivò ovattata quasi fosse un sussurro, poi il silenzio.
 
Il cuore le scoppiava in petto.
Attese e attese, in silenzio, per interminabili minuti.
 
Alzò la mano ancora una volta e, ancora una volta, fece per sfiorare con le dita guantate il campanello della casa, ma… si bloccò.
Lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e rimase a fissare la porta. Uno, due, dieci minuti, immobile.
 
Qualcuno, dalle altre case, sbirciava da dietro le tende delle finestre illuminate, mentre le ombre di quella notte sembravano volersi chiudere su di lei e il suo dolore.
 
***
 
“Mamma, perché piangi?”, chiese la vocina preoccupata del bimbo alla giovane donna rannicchiata dietro la porta.

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Capitolo 23
*** Dormire ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1122
Prompt: Dormire (Red List – 23/10/2018)
 


Dormire


Dormire: tutte le volte che Lan-Chen si ritrovava ad affrontare un qualunque evento con pur uno soltanto dei suoi nuovi amici dimenticava cosa questo volesse dire, eppure era finita… anche questa battaglia era finita.
 
Osservò distrattamente gli altri guerrieri sopiti nella tenda, alla luce fioca della lanterna. Riposavano tutti, tutti a eccezione di lei.
Si sfilò dal sacco a pelo. Non aveva voglia di rimanere al chiuso, non dopo l’ennesimo pericolo sventato.
Uscì scalza, silenziosamente.
 
Fuori, la foresta pullulava di vita, poteva sentirlo a ogni singolo passo con il suo dominio, ma nessuno di quegli animali li avrebbe disturbati. Erano così che funzionavano le cose, “meglio starsene alla larga dai bipedi, quelli portano solo guai!”, si disse, facendo il verso a uno qualunque degli abitanti di quei boschi.
 
La luna era coperta dalle nuvole.
Qualche passo nell’oscurità il giusto per arrivare a una grande e vecchia roccia ricoperta, in parte, dal muschio.
Sapeva dov’era quel masso e per lei muoversi con poca visuale, non era certo un problema se poteva tenere i piedi in terra.
 
Qualcosa d’appuntito le ferì la pianta di un piede, interrompendo un secondo il suo senso sismico e con questo il controllo dell’ambiente circostante.
Strinse occhi e labbra, trattenendo un lamento, prima di avvertire le spalle scuotersi al sorgere di una risatina.
Camminava in una foresta a piedi nudi, che voleva aspettarsi?
Non sarebbe certo morta per un taglio, oltretutto neanche troppo profondo, rifletté, sedendosi sulla pietra. Ne aveva subite di ferite e ben più gravi, sarebbe stato ridicolo.
 
Sospirò alzando lo sguardo al cielo.
Tra le fronde scure, la volta celeste appariva di un nero lattiginoso, per colpa delle nuvole.
La serata era umida, ma non c’era vento; al contrario, proprio davanti ai suoi occhi, dove un leggero chiarore indicava trovarsi la luna, le nuvole sembravano scorrere veloci, inseguite da chissà quali demoni.
 
Abbassò il capo, tornando a preferire l’oscurità e la quiete della terra al cielo.
Si portò le ginocchia al petto rannicchiandosi su quella enorme roccia.
Gli occhi non vedevano, ma i suoi sensi percepivano ogni cosa, ogni singola pietra, ogni insetto brulicante nella terra, lo zampettare di ogni cacciatore notturno e ogni singolo filo d’erba smosso dal vento. Ogni movimento si traduceva in vibrazione sul terreno e il suo dominio, ancora troppo vigile dopo la battaglia, lo traduceva in immagini talmente nitide nella sua mente che nessuno sguardo, neanche il più attento, avrebbe potuto rendergli altrettanto merito.
 
Il suo dominio troppo, troppo, vigile. Un nuovo ghigno le piegò le labbra, un sorriso invisibile a chiunque non avesse destreggiato il suo stesso elemento ed era proprio quell’elemento a non permetterle di riposare come avrebbe voluto, come si sarebbe meritata.
Aveva sonno, accidenti se aveva sonno, ma… come poteva dormire quando attorno a lei c’era tanta vita?
Come poteva chiedere alla terra di smettere di vivere, solo per farla riposare qualche ora?
 
Nessuno dei suoi compagni di battaglia era come lei e forse era per questo che erano riusciti a chiudere occhio.
Come avrebbe potuto mai spiegare a uno qualunque in quella tenda che guardare, ascoltare, sentire, per lei erano percezioni deboli quando l’adrenalina non voleva smettere di scorrerle sotto pelle?
Al solo pensar loro le giunse il formicolio caldo del respiro pesante dei cinque guerrieri, era così che funzionava il suo potere. Ma… “Non sono l’unica sveglia a quanto pare”.
Non si poteva fingere con lei: il respiro, il battito cardiaco e ogni singolo muscolo, emettevano una vibrazione distinta e unica che le rivelava chi fosse addormentato, vigile o malato. Anche le emozioni per lei avevano una forma e una consistenza, addirittura un… sapore a volte, non avrebbe potuto definirlo diversamente.
 
Ancora un sorriso le accarezzò le labbra.
Un passo, un altro ancora, un respiro trattenuto e qualcosa di caldo pettinò l’aria facendola vibrare sufficientemente da sfiorare il suolo e permetterle di capire che il dominatore del fuoco si era stancato di starsene sdraiato ad attendere il sonno.
 
Una luce tenue e poi…
“Controlli il perimetro?”, le arrivò bassa la voce del ragazzo nel momento che le giunse accanto.
La fiamma sulla mano si fletteva e si arricciava seguendo i capricci dell’aria che gli spostamenti del dominatore, anche i più impercettibili, causavano.
“Non è a questo che servono i dominatori della terra?”.
“A questo e a un sacco di altre cose”, ironizzò il ragazzo sorridendo divertito, prima di aggiungere: “Non dovresti preoccupartene, il nemico è stato sconfitto. Vai a dormire, domani ci aspetta un lungo viaggio”.
Lan sorrise, quel ragazzo era sempre sorprendentemente gentile. “Lo stesso potrei dirti io”, commentò, volgendosi verso quegli occhi gialli che trovò crucciati e attenti a osservare i suoi piedi.
Lo vide avvicinare la fiamma alla pietra. Un sottile rivolo di sangue era scorso dalla sua pianta lungo la roccia, striandola e tingendo il muschio con riflessi scarlatti.
“Sei ferita?”, chiese, facendosi preoccupato e accostandosi maggiormente al masso dove la ragazza sedeva.
“Nulla di grave, ha smesso di sanguinare da un po’”, gli disse con un alzatina di spalle. “È quella tua fiamma rossa a far sembrare la cosa peggiore di quel che è. Ho solo calpestato un legnetto appuntito”.
Quanto odiava il legno morto, poteva percepirne la massa sul suolo, ma il suo potere non lo permeava e se non intervenivano altri fattori a delimitarne i contorni era come se, per il suo senso sismico, non esistesse nella sua completezza.
“Né tarme, né altri insetti a…”.
“Ahhh, non immaginavo di parlare con un esperto”, lo interruppe, battendo le palpebre stupita.
“Beh”, disse con una nota di rammarico nella voce, “mio padre lavora su una Banchina Carceraria”.
Per un secondo Lan trattenne il fiato. Una Banchina Carceraria: il posto dove spedivano i dominatori come lei quando commettevano un crimine contro l’Impero. Una struttura galleggiante costruita totalmente in legno e a chilometri dalla terra ferma. Il solo sentirla nominare le aveva fatto venire la pelle d’oca.
“Wow! Ora capisco perché hai tagliato i ponti con la tua famiglia”, commentò sarcastica.
“Non è questo il motivo, non dico d’approvare determinati metodi, ma…”.
Si voltò di scatto, guardandolo sgomenta. “Ma cosa? Sai come tornano i dominatori della terra da quei posti? Sempre se tornano”, stava per esplodere, come poteva anche solo pensare che una tortura del genere potesse essere concepibile.
“Lo so, non voglio dire… solo… non tutti voi siete ragionevoli”.
“Cos…”.
“Fammi finire, ti prego”, l’interruppe lui.
Lan glielo concesse con una smorfia.
“Quanto impiegheresti a farmi inghiottire dalla terra?”.
“Il tempo di pensarlo”, rispose abbassando lo sguardo affranta, sapeva che il ragazzo non aveva tutti i torti, ma questo non rendeva quei posti meno terrificanti.
“Già, il tempo di pensarlo… ancora non capisco come abbiate fatto a perdere la guerra”, tentò di sdrammatizzare lui.
“Perché siamo stupidi, ecco perché”, concluse lei.

 

Nota dell’autrice: Giornata terribile, non so neanche come sia riuscita a scrivere questo raccontino, quindi vi prego, prendetelo per quello che è senza aspettarvi nulla di particolare. Un abbraccio.

Lance

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Capitolo 24
*** Appunti ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 240
Prompt: Appunti (Red List – 24/10/2018)
 

Appunti


Zaofu, 24 Ottobre, anno 24
 
Mi domando come possa essere successo. Come io possa essere finita in questo mondo e come possa a volte pensare che mi vada bene. Eppure è così.
Mi guardo intorno e non mi riconosco. So che tutto questo mi è appartenuto un tempo, ma non riesco a ricordare come e quando, poi… poi è successo: ho trovato questo diario tra gli scatoloni nel mio vecchio appartamento.
 
Ho sorriso: mi sono ricordata di lui, c’è stato un tempo in cui eravamo grandi amici.
L’ho aperto. Ho guardato le parole scritte da una mano troppo lenta per essere stata la mia.
Ho sfogliato pagina dopo pagina e sono arrivata a questo foglio in bianco.
Mi sono domandata se avessi dovuto provare nostalgia o dolore per quello che ho lasciato indietro, ma il solo pensarlo ha dimostrato che non ho provato nulla.
Anzi no, “fastidio” … sì, è così. Ho provato fastidio.
Quindi ho preso la penna e ho scritto, ho scritto fin qui e sto scrivendo ancora e continuerò per almeno un altro paio di righe, forse tre, forse di più, non lo so con certezza.
 
Avresti dovuto tenere memoria per me del tempo passato, rammentarmi chi sono, invece mi ritrovo a leggere appunti di una vita persa, ma sono viva. IO. SONO. VIVA.
 
Sto accusando la carta? Davvero?
Sono arrabbiata adesso, mi sento tradita.
 
Tutti cambiano. Gli amici cambiano. Anche quelli di carta e inchiostro.
 
Lan

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Capitolo 25
*** Calze ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1395
Prompt: Calze (Red List – 25/10/2018)
 

Calze


Lan-Chen era in piedi accanto alla cesta strabordante dei panni sporchi: con dieci ragazzini dentro casa non ricordava di averla mai vista meno piena di così.
Guardava controvoglia quanto aveva davanti e, come ogni singola volta che si accingeva a fare il bucato da un paio di mesi a quella parte, si domandava perché mai non potesse semplicemente prenderli e portarli in lavanderia. In quella meravigliosa lavanderia all’angolo della strada.
 
Era in momenti come quello che le tornava in mente quel lontano terribile giorno di Settembre: era esausta per il far collimare gli impegni dei bambini con l’inizio della scuola e, non bastasse, i piccoli si erano passati alternativamente una terribile influenza intestinale che non le aveva permesso di chiudere occhio per giorni pur di accudirli; quando poi l’influenza era passata erano arrivati gli incubi a fiondargli i figli, rigorosamente a multipli di due, nel lettone in cerca di conforto. Oltretutto, quella mattina nello specifico, Juju aveva infilato il suo peluche rosso nella lavatrice insieme ai bianchi, stava facendo tardi al colloquio con i genitori a scuola di Liang e Nala aveva dimenticato la lista della spesa a casa, lasciando a lei anche quell’incombenza.
A peggiorare la situazione c’era Liang che voleva fare bella impressione con gli insegnanti e le aveva chiesto di vestirsi da donna per una volta. Il bambino si era tanto raccomandato e lei, per accontentarlo, stava soffrendo le pene dell’inferno strizzata in un rigido tailleur a doppio petto e con ai piedi delle scarpe troppo alte per non essere considerate un’arma impropria.
Ma per quanto quella giornata potesse essere cominciata storta, gli spiriti sembravano avere altro ancora in serbo per lei.
Con la scusa di dover pagare solo un litro di latte, una tizia al supermercato aveva tagliato la fila. L’aveva superata senza chiederle se fosse d’accordo e quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
Erano uscite parole grosse e, se non ricordava male, lei e l’altra donna erano arrivate ad accusare i loro rispettivi animali domestici di intrattenersi in rapporti impropri e non necessariamente con dei loro simili, questo, ovviamente, dopo aver menzionato ogni più truce abitudine parentale e le reciproche dubbie origini.
Alla fine, dopo che i proprietari del negozio avevano aperto un’altra cassa per calmare il resto dei clienti in fila e aver minacciato lei e la tipa del latte di chiamare le guardie, Lan-Chen l’aveva avuta vinta.
Aveva perso più tempo di quello che avrebbe impiegato a lasciar correre, ma… era stata una questione di principio e Liang le avrebbe perdonato qualche minuto di ritardo, aveva creduto. Ahhh, povera illusa!
La successiva litigata con il figlio non era stata certo all’acqua di rose, ma non era ancora finita, perché in quella giornata gli astri sembravano voler proprio che Lan raschiasse il fondo.
Una volta sbrigati gli impegni più impellenti, per riportare le lenzuola, e quant’altro fosse all’interno della lavatrice, al loro colore originale, dopo il passaggio di Juju, si era recata in lavanderia. E lì, ciliegina sulla torta, a ricevere i clienti aveva trovato quella meravigliosa creatura che le aveva dato della figlia di un babbuino agreste al supermercato.
Ancora doveva informarsi su che tipo di animale fosse il babbuino agreste, ma era abbastanza sicura che non potesse vantare alcun tipo di paternità nei suoi confronti e che non dovesse essere l’animale più bello del mondo.
A quel punto però aveva esaurito forza e combattività e, intuendo impossibile vincere quella battaglia, aveva battuto in ritirata, indietreggiando neanche fosse un granchio-pavone e sparendo tra le ombre più scure del vicolo.
 
Certo, c’era sempre l’opzione di spiegare alla donna che le era capitata una giornata storta e chiedere semplicemente scusa, era pur sempre il genitore singol di dieci marmocchi, ma… non era convinta che la sua genetica fosse stata programmata in tal senso.
 
Sospirò e si fece coraggio. Infondo c’era solo da dividere i bianchi dai colorati e infilarli in lavatrice, e stava per farlo, quando un paio di manine le strattonarono i pantaloni.
Tori si era svegliato e la stava fissando con quei suoi incredibili occhi celesti, il visetto assonnato e l’aria spaurita.
Lei sorrise e lo prese in braccio insieme all’enorme squalo blu di peluche che si trascinava ovunque.
Il piccolo le si strinse forte al collo in cerca di conforto.
Lan-Chen gli passò una mano tra i capelli umidi per il sudore, prima di voltarsi e baciargli una tempia.
La febbre era scesa, ma era ancora caldo.
“Hai fame?”.
Il bimbo dissentì con la testolina.
“Nooo? Hai fatto un brutto sogno allora?”.
Il piccino annuì rannicchiandosi maggiormente tra le sue braccia.
Con Tori era così, dovevi tirare a indovinare; non amava parlare se non era strettamente necessario e sicuramente per lui quel suo musetto sconvolto doveva essere un segnale più che chiaro per la sua mamma.
Quel bimbo era tanto bello quanto fragile.
Lan-Chen si sedette sul bordo della vasca e cominciò a dondolare su sé stessa.
“Sono qui, lo sai che non permetto a nulla e nessuno di farti del male”, disse, cercando di rincuorarlo.
Tori singhiozzò e strinse tra le manine la stoffa della camicetta della mamma tanto a far scolorire le piccole nocche.
Lei continuò a cullarlo, stringendolo con quanta più tenerezza possibile.
“Non a me”, disse lamentoso il bambino.
“No?”, chiese sorpresa: difficilmente Tori raccontava i suoi sogni.
“Facevano male a te, mamma Lan, morivi e mi lasciavi come l’altra mamma”, spiegò con vocina sottile.
Cielo, come si fa a essere preparati a questo?
Ognuno dei suoi bambini ne aveva passate tante, poteva averli liberati dalle mani di chi li sfruttava, ma non poteva liberarli dai loro ricordi, poteva solo sperare che col tempo avrebbero fatto meno male.
Poteva solo immaginare la paura che aveva avuto il suo piccino.
 “Ahhh, ma allora puoi stare tranquillo, io non morirò”, tentò di rassicurarlo come meglio poteva.
Tori alzò gli occhioni lucidi verso i suoi, voleva qualche certezza in più e Lan-Chen doveva trovare qualcosa di efficace da dirgli, si guardò velocemente intorno e…
“Vuoi sapere un segreto?”, chiese abbassando il tono e fingendo un fare circospetto.
Il piccolo annuì.
“Ho un drago che mi protegge”.
“Un drago invisibile?”, intervenne Tori, asciugandosi gli occhioni col dorso della manina.
“Uhm… Sì e no”, rispose Lan, facendo la misteriosa, “è solo ben nascosto”.
“Dove?”, chiese, pulendosi la mano sulla magliettina.
“Nelle mie calze”.
Il piccolo piegò la testa di lato, scrutandola sospettoso, assottigliando gli occhioni.
“Non ci credi?”.
La testolina castana dissentì un paio di volte.
“Come?”, disse Lan, fingendosi sbigottita, “Guarda che poi si offende, è una creatura magica, può vivere dove vuole. Ricordi le mie calze con il drago ricamato?”.
Il bimbo fece “sì, sì” con la testolina.
“Ecco, lui vive lì”.
L’espressione sorpresa sostituì definitivamente l’ombra d’angoscia che un bambino di sei anni non avrebbe mai dovuto avere sul viso.
Tori si liberò dell’abbraccio per scendere dalle gambe di Lan-Chen, facendo cadere il suo peluche. Appena arrivato con i piedini in terra sollevò il bordo del pantalone della mamma, per poi sgranare gli occhioni e rigettarli in quelli di Lan nuovamente preoccupato.
“Già, sono tra le cose da lavare”, spiegò lei, fingendo un sospiro, “anche le case dei draghi magici vanno pulite di tanto in tanto, sai?”.
Fu un secondo e il piccolo si fiondò sulla cesta del bucato alla ricerca del fantomatico paio di calze. Le trovò con facilità, la stessa che aveva impiegato Lan a scorgerle sul mucchio dei panni da lavare quando gli era saltata in testa quella folle idea.
 
“Laviamole, presto, o il drago scappa!”, esordì il piccolo, “Questa casa puzza”.
 
Inutile dire che per diverso tempo a venire, quelle calze non fecero in tempo a venir pulite che Lan-Chen già se le ritrovava ai piedi.
 
***
 
Lan osservava perplessa lo squalo bagnato in cima alla pila della biancheria che aveva ritirato dalla lavatrice. In effetti si era domandata che fine avesse fatto.
Sospirò arresa, guardando i panni, una volta bianchi, diventati di un azzurro marmorizzato.
Sollevò la camicia preferita di Kimo, quella che il ragazzino si era tanto raccomandato di lavare e stirare per quella sera così da indossarla per uscire con la sua nuova fiamma.
“Infondo non è così male”, cercò di convincersi, prima di lasciare cadere le spalle verso il basso e lamentare arresa: “Kimo mi ucciderà”.
 
Forse era giunto il momento di considerare l’idea di chiedere scusa alla padrona della lavanderia all’angolo.

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Capitolo 26
*** Titolo ***



Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1669
Prompt: Titolo (Red List – 26/10/2018)
 


Titolo


" L'Avatar deve essere compassionevole verso tutte le persone e l'unico modo per farlo è vivere tra loro. L'Avatar deve provare tristezza, rabbia, gioia e felicità. Provare tutte queste emozioni, l’aiuterà a capire quanto sia preziosa la vita umana e, di conseguenza, farà qualsiasi cosa per proteggerla. "
Avatar Yangchen ad Avatar Aang.



“Uhm…”, mugugnò Liang che se ne stava seduto al tavolo della cucina, insieme a Pete e Miori.
Come i due fratelli stava facendo i compiti, intento a sottolineare sul libro di storia le parti salienti da ricordare per l’interrogazione del giorno dopo.
La madre lavava i piatti poco più in là con l’aiuto dei piccoli di casa, Tori e Juju, e si voltò a controllare cosa stesse avvenendo.
Ovviamente, Pete e Miori, sempre pronti a distrarsi pur di non stare troppo tempo a testa china sui libri, non persero un secondo per fissare il maggiore con aria interessata.
“Li?”, chiamò curioso Pete.
Liang rispose con un profondo sospiro, infossando la testa nelle spalle.
Lan-Chen chiuse l’acqua e, preso in braccio Juju dal piano accanto al lavello dove l’aveva seduto per farlo stare tranquillo, si avvicinò al figlio spazientito.
Anche Tori scese dallo sgabellino di legno dal quale aiutava a lavare i piatti, asciugandosi le manine insaponate sul maglioncino prima di correre ad afferrare il grembiule della madre, proprio mentre questa spiava da sopra la spalla del figlio cosa l’avesse tanto abbattuto.
“L’Avatar?”, domandò la donna, dopo aver dato uno sguardo all’argomento trattato, sistemandosi meglio il bimbo tra le braccia.
Liang alzò lo sguardo verso di lei ed esordì esasperato: “Non capisco”.
“Tu che non capisci qualcosa?”, chiese Pete stupito.
“Strano, strano”, Miori seguì a ruota il fratello, pronto a sottolineare l’insolito evento.
“Già”, sospirò arreso Liang, mentre Tori, abbandonate le sottane della mamma, si attaccava con entrambe le manine al bordo del tavolo per sbirciare anche lui il libro aperto.
Lan-Chen chiese con dolcezza: “Cosa non ti è chiaro?”.
Il ragazzino si lasciò scivolare sulla sedia. “Che titolo è Avatar, non capisco”.
“Più che un titolo è un epiteto”, rispose la madre.
“Ma qui dice che non è qualcosa che si attribuisce: l’Avatar nasce Avatar, come uno spirito nasce spirito o…”.
“Un gattino nasce gattino?”, intervenne Pete.
“Già”, confermò Liang, sbuffando per l’ennesima volta, prima di riprendere: “è proprio questo il punto: è più una specie”, sottolineò l’uso improprio dell’ultimo termine, facendo le virgolette nell’aria con le dita. “Ma i gatti nascono dai gatti, invece un Avatar non nasce da un Avatar, perché qui c’è scritto che ne può esistere uno solo per generazione. Nasce dagli uomini, ma è una creatura spirituale e… Non capiscooo!”. Si portò le mani tra i capelli. “Perché sono così stupido? Uff!”, concluse lasciandosi scivolare maggiormente sulla sedia, arrivando ad avere il viso alla stessa altezza di Tori che, trovandoselo a portata, gli si fiondò tra le braccia.  
“A me sembra che tu l’abbia capito, lo hai appena spiegato”, cercò di rassicurarlo Pete, chinando perplesso la testa da un lato.
“Si, ok, ho ripetuto quello che c’è scritto sul libro, ma ripeterlo non vuol dire capirlo”, spiegò, accogliendo il fratellino in grembo e prendendo ad accarezzargli i capelli con fare distratto.
“Io ho conosciuto l’ultimo Avatar, sai?”, esordì improvvisamente Lan-Chen, alzando gli occhi al soffitto e rimediandosi lo sguardo sorpreso dei tre figli al tavolo.
“L’Avatar della Terra?”, chiese Liang, tornando a sedersi in maniera più composta e sistemandosi Tori sulle gambe.
“Mamma Lan come è fatto un Atavar?”, domandò Juju.
“Un Atavar...”, iniziò a rispondere Lan-Chen al bimbo tra le sue braccia, facendogli il verso, “…è fatto proprio come te. Ha due braccia, due gambe, un nasino”. Sorrise e sull’ultima parola detta prese il naso del bambino con le dita.
Juju cominciò a ridere divertito, cercando di allontanare la mano della mamma dal visetto.
“Davvero hai conosciuto l’Avatar?”, ricalcò Liang.
Lan-Chen annuì.
“E come si chiama? Com’è fatto?”, domandò, lasciando scorrere le parole come un fiume in piena. “Perché non si fa vedere mai in giro? Insomma, alcuni pensano addirittura che non esista, altri che sia un nemico dell’Impero. Dicono abbia organizzato un colpo di stato ai danni dell’Imperatrice Iris, dicono…”.
“Piano, piano”, l’interruppe Miori, facendogli cenno di rallentare.
“Già, non riusciamo a seguirti se parli tanto veloce”, fu il turno di Pete d’appoggiare il dire del fratello preferito.
“Sho-Sho. È un ragazzino poco più grande di te”, iniziò a rispondere Lan-Chen, contando le risposte picchiettandosi le dita della mano libera sulle labbra, “non so perché non si faccia vedere in giro, ma esiste. Non sono convinta che sia nemico dell’Impero e sì, sembra sia stato presente all’attentato alla corona”. 
“Visto? La mamma mi segue?”, rimbrottò Liang i fratelli.
“Che c’entra, le mamme hanno i super poteri, lo sanno tutti”, ribatté Pete a tono, come sempre mai senza parole.
“Vero, vero”, annuì Miori deciso, incrociando le braccia al petto con fare solenne.
Lan-Chen trattenne una risatina sullo sbuffare successivo di Liang alle risposte dei fratelli e si appoggiò di schiena contro il piano del tavolo.
Juju si accoccolò contro la spalla della donna chiudendo gli occhi, trovando più comodo riposare invece che ascoltare quelle chiacchiere da grandi.
“Io, se fossi l’Avatar, mi farei conoscere, cercherei di dare una mano a chi ha bisogno, cercherei di aggiustare la cose”, cercò di spiegare Liang. “Vedi, Mamma, qui nel mio libro dice che è dovere dell'Avatar dominare le quattro arti elementari e usare quel potere per mantenere l'equilibrio tra le quattro nazioni del mondo, così come tra l'umanità e gli spiriti; ma i quattro regni adesso sono uno da quando l’Imperatrice Iris li ha unificati sotto la corona della Nazione del Fuoco e spiriti e uomini vivono insieme da che l’Avatar Korra ha aperto i portali, quindi a cosa serve essere l’Avatar?”.
Lan-Chen tornò a guardare il soffitto pensierosa. “Vedi Liang, l’Avatar è l'incarnazione umana della luce e della pace. Se il mondo è in pace l’Avatar…”.
“Ma il mondo non è in pace”, la interruppe il figlio, “non c’è pace ed è lui che non la permette, lui che dovrebbe esserne il custode. L’Imperatrice ha portato la pace, ma l’Avatar non ha fatto e non fa altro che farle guerra. Le persone muoiono in questa guerra. L’Avatar dovrebbe appoggiare l’Imperatrice, non osteggiarla sfruttando le lotte di potere interne all’impero stesso”.
Non si poteva certo dire che il ragazzino non avesse le idee chiare sull’argomento.
“Io credo nell’Avatar”, intervenne Lan-Chen, “sono convinta che esista un disegno più grande dietro il suo operato; un disegno che le persone semplici come noi non possono vedere”.
I bambini presero ad ascoltare curiosi e attenti, a eccezione dei due piccini che preferirono uno sonnecchiare tra le braccia della mamma e l’altro intrecciare i lunghi capelli di Liang.
“Non deve essere facile nascere con un destino già segnato ed è questo quello che accade all’Avatar: non può negare quello che è, può solo accettarlo, conviverci e convivere con l’invidia del mondo per essere l’unico in grado di destreggiare un potere tanto grande da sconvolgere l’intero pianeta. Se solo volesse potrebbe piegare chiunque al suo volere, uomo o spirito che fosse, ma non lo fa ed è proprio per questo che non credo sia stato l’Avatar Sho-Sho a organizzare l’attentato all’Imperatrice. Ero lì e lui sembrava stupito quanto me per gli eventi”, si lasciò sfuggire Lan-Chen senza rendersene conto, “ha cercato di calmare gli animi ed evitare che quella strage continuasse. I media però hanno distorto la realtà, preferendole una propaganda anti-Avatar. Non ne capisco il motivo. Non capisco perché alimentare questo astio”.
Liang sembrò farsi pensieroso.
“La storia ci insegna che l’Avatar ha sempre difeso l’Umanità e non posso credere che questa volta sia diverso”, concluse Lan-Chen.
“Pensi, allora, che sia l’Imperatrice a sbagliare?”, domandò il ragazzino.
“Penso che la Signora del Fuoco abbia fatto grandi cose, ma che tema un potere tanto grande e, non è certo un segreto, in molti vorrebbero guidare il mondo al suo posto o prendersene una grossa fetta”.
“Quindi, come me, pensi che l’Avatar e l’Imperatrice dovrebbero sostenersi e non osteggiarsi?”.
“Lo penso, in effetti, ma non vedo come potrebbe essere possibile un dialogo tra loro in questo momento”.
“I regni sono uniti da troppo poco tempo per permettere alle genti di sentirsi un’unica entità”.
Lan-Chen annuì al ragazzino.
 
Un silenzio pensoso calò nella cucina. Poi…
“Io da grande farò l’Atavar e ‘giusterò tutto, tutto”, esordì Tori di punto in bianco.
“Uhm… sarai l’Atavar più bello di tutti”, lo vezzeggiò Liang sorridendo, sollevandolo poi per rimetterlo in terra.
Tori fu rapido a riappendersi al grembiule della mamma.
“Ora però vedete di finire i vostri compiti”, dispose Lan-Chen, prima di portare Juju a riposare nel suo lettino.
“Uffa però!”, protestò Pete, tornando comunque a dedicarsi al suo quaderno.
“Quando hai ragione, hai ragione”, sostenne Miori, riprendendo a studiare controvoglia.
 
Quando Lan-Chen tornò con Tori tra le braccia, i suoi tre figli erano presi dai loro compiti.
Il tempo di mettere giù il piccolino e aprire l’acqua per terminare di lavare i piatti che Liang esordì serio: “Guardiano”.
Lan-Chen si voltò con fare interrogativo e trovò gli occhi del ragazzino puntati su di lei.
“Se dovessi attribuire un titolo all’Avatar, questo è il titolo giusto e non sarebbe il solo. L’Imperatrice e l’Avatar sono entrambi i Guardiani del mondo che conosciamo e sono convinto che prima o poi lo capiranno e si adopereranno insieme per renderlo un posto migliore”.
Lan-Chen annuì orgogliosa delle parole del figlio e tornò al suo daffare.
 
***
 
Dopo poco…
“Mamma, ma tu cosa ci facevi nella Nazione del Fuoco durante il Sole Nero?”, domandò Pete a bruciapelo.
Lan-Chen si gelò sul posto. Quella era una domanda alla quale non avrebbe mai potuto rispondere sinceramente.
“Mamma Lan è l’ingegnere migliore del mondo, l’imperatrice l’avrà chiamata per affidarle un compito importantissimo”, sentenziò Miori.
Pete annuì. “Giusto, non ci avevo pensato, come farei senza di te?”.
“A volte me lo domando anche io”, rispose scherzoso il bambino, sollevando Lan-Chen dal doversi inventare una scusa pur di preservare il suo segreto più oscuro.

 


Note dell’autrice: Sono esausta e l’ho buttato giù come l’avevo in testa, spero solo di non aver fatto troppa confusione e che “funzioni”, malgrado tutto. Forse in questi giorni troverò il tempo per dargli una letta e correggerlo, ma non posso assicurarlo; troppa tristezza, troppi impegni e troppa stanchezza.

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Capitolo 27
*** Paradiso ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1097
Prompt: Paradiso (Red List – 27/10/2018)
 


Paradiso


Cos’era il paradiso?
Lan-Chen non se lo era mai chiesto veramente; da bambina aveva creduto fosse un posto sospeso da qualche parte in cielo, dove tutto era bianco e azzurro, e dove i bambini buoni se ne stavano sdraiati su nuvole morbide a ingozzarsi di zucchero filato. Poi era cresciuta e aveva smesso di pensarci, infondo non era nulla di più di una favola per convincere i bambini a fare i buoni, no?
Oltretutto, anche se le piaceva lo zucchero filato, non amava particolarmente il bianco e l’azzurro, anzi solo l’idea di doversi trovare in un posto del genere le metteva i brividi. Un posto dove non poteva tenere nemmeno un piede al suolo? Scherziamo?
Era una dominatrice della terra e del metallo, il suo Paradiso avrebbe dovuto assomigliare più a un qualche buco caldo scavato nel terreno dove rintanarsi cullata dalla sicurezza trasmessa dal suo senso sismico e… Cavolo! La sua idea di paradiso era diametralmente opposta a quella generale, però lo zucchero filato, quello ce lo avrebbe messo anche se crescendo aveva imparato ad apprezzare di più i fiocchi di fuoco piccanti e… ma questo non era il punto.
 
“Mamma Lan, da grande voglio diventare un ingegnere come te!”, ecco questo era il punto. Le parole di Miori che le stringeva le braccia al collo e quei ragazzini che senza un motivo apparente le avevano regalato un pezzo di carta bruciacchiato sui bordi, incorniciato e decorato come un biglietto d’auguri.
Senza motivo, perché non era il suo compleanno, non era un evento speciale, era un giorno qualunque dove di ritorno dal mercato aveva trovato ad aspettarla a casa sua nonna e i tre cuccioli che le aveva affidato.
Erano andati a trovarla quei mascalzoni, capitanati dalla vecchietta tutto pepe. Non le avevano detto nulla e già quella era stata una gran bella sorpresa, ma…
“Tieni, l’abbiamo fatta noi!”, se ne era uscito quel piccolo angelo del suo Li-wei.
“Volevamo farla di metallo come quelle vere, ma ne io e ne Li siamo ancora abbastanza bravi con il dominio, allora…”, aveva detto la piccola Ninoh.
“…Allora abbiamo chiesto a Liang. L’ha disegnata lui, ma io l’ho antichizzata con il fuoco.”
Antichizzata, ovvero bruciacchiata sui bordi, ecco cosa intendeva il suo Jizu con quel termine e, per tutti gli spiriti, era sempre stato tanto alto?
Cielo, se gli erano mancati quei tre marmocchi!
Che l’aveva disegnata e scritta Liang non ne aveva avuto alcun dubbio, l’oro e l’azzurro facevano da padroni in quel ritaglio di carta colorato.
“Io e Tori abbiamo scelto la cornice, Mamma Lan”, l’aveva informata Juju, “vedi, è verde come piace a te e ci sono le margherite tutt’intorno. Nala dice che adori le margherite”.
Ed era vero, come era vero che la ragazzina sentendosi nominare aveva abbassato la testa intimidita.
“Io ho decorato lo sfondo. Guarda qui?”, aveva detto Pete, indicandole le impronte di zampette d’anatra-tartaruga tutt’intorno a quella sorta di biglietto.
“E sono le più belle orme che io abbia mai visto”, si era complimentata lei.
“Kimo ci ha accompagnati a comprare la cornice, sai? E tutti, tutti, i materiali”, intervenne il bambino tra le sue braccia, quel monello di Miori. Non lo avrebbe mai ammesso, perché li amava tutti infinitamente, ma per quel piccino provava un pizzico di passione in più, un po’ ci si rivedeva, era una sorta di sua versione corretta e migliorata di cui non poteva non sentirsi orgogliosa.
 
Ma si parlava del Paradiso e il sorriso di quella vecchia volpe di Nonna Lan-Lan doveva saperne qualcosa in più di lei al riguardo, dato che la guardava come se s’aspettasse da un momento all’altro che aprisse i rubinetti e incominciasse a piangere, e… pianse, accidenti se pianse dopo, ma…
 
“Targa importante, importantissima!”, risaltava nella bella scrittura di Liang in caratteri dorati su quel biglietto incorniciato e decorato. “A mamma Lan-Chen, la mamma più speciale di tutte e il miglior ingegnere di sempre, che non solo aggiusta e mette insieme le cose, ma che ha aggiustato e messo insieme anche la nostra famiglia”. C’era un po’ di tutti in quelle parole dettate a Liang e poteva sentire ogni loro singola vocina vibrare a ogni lettera che le passava sotto lo sguardo.
 
“Ti vogliamo tanto, tanto, tanto bene, mamma Lan”, Tori aveva trovato la voce solo per lei.
“Nonna ha detto che ti sarebbe piaciuto avere una targa all’Università, certo non è proprio la stessa cosa, ma…”, Jizu aveva sempre un pensiero in più degli altri e non era difficile intuire che fosse partita da lui quell’idea.
“È bellissima!”. Piangeva e non era sicura che l’avessero sentita, ma la trovava davvero bellissima, e… pacchiana, bizzarra e sgargiante da far male agli occhi.
Non era la targa che aveva sognato, ma come dichiarava essa stessa a chiare lettere era la targa più importante che le avessero mai attribuito. No, non era quella che si era sempre immaginata, no… era lungamente migliore ed era solo sua. Era quella che aspettava veramente e non se ne era mai resa conto.
 
Non ricordava quanti baci avesse scoccato quel pomeriggio o quante lacrime avesse versato.
Ma di una cosa era certa, quello era il suo piccolo buco caldo ne terreno, il suo Paradiso.
 
“Ci siamo organizzati per telefono sai?” Le aveva rivelato Li-Wei, decidendo che sulle sue gambe c’era spazio sufficiente per accoglierlo insieme agli altri due piccoli di casa.
 
Un giorno i suoi bambini sarebbero cresciuti e si sarebbero accorti che lei era solamente una persona come tante, ma per il momento non poteva non godersi quell’angolino di amore tutto suo e quella targa meritava un posto d’onore sul muro del salotto di casa, pronta a ricordarle ogni giorno tutta la sua fortuna. A ricordarle che non bisognava cercare troppo lontano il proprio Paradiso e che spesso bastava solo saper guardarsi intorno.
 
***
 
“Nonna rimani qui questa sera, vero?”.
“Ovvio, mio giovane allievo! Cosa c’è di buono per cena?”, chiese la vecchietta a Jizu che le aveva posto quella domanda.
“Ehm…”, bofonchiò il ragazzino.
“Non ci abbiamo ancora pensato, nonnina”, disse Nala, imbarazzandosi.
“Fiocchi di fuoco!”.
“Ma Tori, sono uno snack, mica cibo vero!”, protestò Kimo.
“Adoro gli snack”, Commentò Lan-Chen ancora con gli occhi umidi.
“Quindi… fiocchi di fuoco e movente d’azione questa sera. È deciso e non si discute”, concluse Liang, sempre più determinato degli altri.
Oh, sì… quello era davvero il suo piccolo paradiso!
 
“Nonna, sei ancora sicura di voler rimanere?”, s’informò Nala, non del tutto convinta che l’anziana signora potesse apprezzare il programma stabilito.
“Oh sì, ragazza mia! Cibo spazzatura davanti alla proiezione di bei giovanotti muscolosi? M’inviti a nozze”.

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Capitolo 28
*** Sciarpa ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1645
Prompt: Sciarpa (Red List – 28/10/2018)
 


Sciarpa


Pioveva è già questo era un male; si trovava all’aperto e questo non migliorava certo le cose, ma quello che proprio non le andava giù erano quei tre che continuavano a lanciarle addosso fiammate e a illuminare la notte neanche fosse l’ultimo dell’anno.
Lan-Chen scattò all’indietro, abbassandosi e sollevando un pugno verso l’alto con un movimento rigido quanto l’elemento che stava richiamando.
La parete di roccia si erse rapida tra lei e i dominatori del fuoco, mentre le fiamme di questi s’infrangevano violentemente contro la pietra appena eretta.
Uno, due, tre colpi e per un momento l’attacco sembrò placarsi. Sembrò, appunto, perché un quarto colpo più potente e mirato sgretolò la sua protezione costringendola a schivare, scivolando sul fango fresco.
Altri due colpi in rapido susseguirsi arrostirono la terra dove prima di trovava.
Rivoli di vapore si alzavano nell’aria a ogni fiammata inflitta sul suolo bagnato.
 
“E fortuna che è notte e che i dominatori del fuoco sono meno potenti con le tenebre”, si disse sarcastica domandandosi di seguito se qualcuno avesse mai avvisato quei tre della cosa.
Fece appena in tempo a richiamare la terra chiudendo le braccia, serrando energicamente gli avambracci, che altri violenti colpi si scagliarono contro i due pilastri di pietra che le si erano sigillati davanti seguendo i movimenti del suo corpo.
 
No, non andava bene. Finché difendeva non poteva attaccare e questo non le piaceva affatto, ma dov’erano i suoi compagni?
D’accordo, le avevano detto di controllare solamente quel piccolo gruppo, di non agire prima che fossero arrivati; cosa che lei aveva avuto tutta l’intenzione di fare, non fosse stato che quei tizi avessero finito di caricare tutta la loro schifezza chimica sul camion se ne stessero andando.
Che avrebbe dovuto fare a quel punto?
Aveva spaccato il loro mezzo, ecco cosa, ma quei quattro non sembravano averla presa troppo bene, più che altro i tre dominatori del fuoco che sembravano intenzionati a rosolarla a dovere, neanche fosse una bistecca.
 
Il suo nuovo riparo durò meno del previsto e quel terreno bagnato non era sicura che riuscisse a mantenere la forma richiesta qualora avesse deciso di farsi inghiottire dal suolo, per spuntare sotto i piedi di quei tre idioti e seppellirli fino al collo.
Era una pratica che aveva fatto, solo il cielo sapeva quante volte, ma mai in quelle condizioni e finire lei vittima del suo stesso potere avrebbe avuto dell’assurdo.
 
Il metallo che indossava si fluidificò e seguì i cerchi circolari disegnati nell’aria dalle sue mani, ponendo una debole difesa tra lei e le fiamme.
La pioggia incessante faceva di ogni movimento, immersa ormai nella melma fino al ginocchio, un’agonia.
Era una dominatrice, questo era vero, ma il suo fisico non era allenato a sufficienza per sopportare lo sforzo necessario per muoversi in quelle condizioni.
Si sentiva messa all’angolo mentre quei tre sembravano non patire lo stesso tormento, con i piedi all’asciutto su quanto rimaneva del loro mezzo.
Certo, quel coso era fatto di metallo e lei avrebbe potuto richiamarlo se fosse riuscita a farlo rientrare nel suo raggio d’azione, ma… era ancora troppo lontana.
 
Due fiammate in contemporanea fecero schizzare via buona parte del metallo dei suoi orpelli, troppo lontano per poterlo richiamare. Certo l’avevano protetta, ma ora?
Spiriti, non ricordava di aver mai odiato tanto dei dominatori de fuoco in vita sua!
“Forza Lan, manca poco”, si disse, tentando di farsi coraggio, “resisti, i ragazzi stanno per arrivare”, ma non terminò quel pensiero che un nuovo colpo la privò dell’ultimo brandello di metallo rimastole, fiondandolo chissà dove.
Impreparata al colpo che seguì si trovò catapultata all’indietro, gettata su un fianco con la faccia nel fango e una spalla ustionata.
 
Non era convinta che a farle male fosse più il dolore o l’orgoglio; non erano quei tre che la stavano massacrando, ma quella maledetta pioggia e quel combattimento in campo aperto e… proprio un campo era quello nel quale si affrontavano, uno stramaledetto campo smosso di fresco dai contadini e troppo soffice per essere un aiuto realmente valido in quelle condizioni.
Doveva accedere a metri sotto di lei per richiamare la pietra e… ma perché diamine non aveva permesso a quei quattro idioti di andarsene via con i loro veleni, accidenti a lei?
 
Non fece in tempo a rialzarsi che una nuova fiammata esaurì la sua energia sulla melma a pochi centimetri dal suo viso.
Che non fosse l’unica a subire quell’handicap? Ragionò senza trovarne reale sollievo, nel trovarsi di nuovo a scivolare sul suolo bagnato per togliersi dalla traiettoria dei tre tiratori.
“Ma cosa diav…”, ringhiò a denti stretti, mentre la sua sciarpa la strattonava all’indietro, trattenendola.
Non riuscì a evitare quella nuova raffica e i tre colpì, concentrati al centro del suo corpo, la rispedirono nel fango.
 
Aveva fatto male, questa volta aveva davvero fatto male.
Sentiva la ferita bruciarle al punto da credere che fosse arrivata a squarciarle le viscere, ma imbrattata di fango com’era non poteva certo vedere nulla, oltre a intuire che se non fosse stato per gli strati d’indumenti bagnati, la pioggia e la fanghiglia sarebbe arsa come una strega sul rogo.
 
Arrancò nel fango per evitare i colpi successivi, mentre la mano tastava lungo la sciarpa per disincagliarla da qualunque cosa l’avesse intrappolata; più facile liberarla a quel modo che sciogliere i giri ripetuti intorno al suo collo.
Le dita trovarono quello che cercavano: cielo come odiava radici e legnetti!
Sarebbe stato lungamente più semplice se la stoffa si fosse incastrata in una pietra, ma no, troppa grazia!
Era libera finalmente.
 
“La prossima volta devo ricordarmi che sciarpa, guanti e cappotto non sono gli indumenti adatti per missioni del genere”, ironizzò come era proprio della sua indole, mentre l’adrenalina del combattimento rispingeva indietro il dolore. Ma, per tutti i fulmini, poteva sapere che si sarebbe trovata in una situazione del genere quando si era preparata per uscire quella mattina?
No, certo che no; altrimenti avrebbe indossato i suoi stivali rinforzati e avrebbe preso a calci nel culo quei tre incendiari della domenica.
E… in effetti era domenica, ora che ci pensava.
 
Era stanca di fare da bersaglio mobile: il fango non era esattamente facile da dominare con la sua tecnica, preferiva la sabbia arsa del deserto, ma era pur sempre nelle sue corde e se poteva manipolare il metallo come un fluido, usare quella roba non doveva essere troppo diverso infondo.
 
Cercò una posizione stabile: scavò, scivolando con i piedi nel fango fino a sentire il suolo più compatto sotto le suole. Abbassò il baricentro, mentre altri colpi fiammeggianti volavano rapidi nella sua direzione e, come era solita fare con i lacci di metallo delle sue bobine (anche quelle lasciate rigorosamente a casa, perché non le donavano di certo sotto il cappottino scamosciato), concentrò il suo pensiero per legarsi alla terra e ai minerari che erano parte di quell’ammasso vischioso. Le mani vorticarono, sincronizzando i movimenti del fango ai propri, mentre l’acqua scorreva rapida contro le sue gambe accresciuta dalla pioggia incessante e resa pericolosa dal inclinazione del suolo, costringendola a rinsaldare maggiormente la posizione, eppure… quella difesa resse i colpi dei tre dominatori, al punto da farle tirare un sospiro di sollievo.
Non si era mai cimentata in una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta, no?
 
Odiava la gittata dei dominatori del fuoco, cielo se l’odiava!
Lei poteva scatenare terremoti, ma i suoi colpi non andavano mai ugualmente lontano.
Doveva avvicinarsi.
Ritemprata dalla presenza del nuovo riparo, avanzò coperta dal vorticare di terra liquida.
Non vedeva a un palmo dal naso, ma sapeva che quei tre erano esattamente davanti a lei.
 
Come diavolo facevano i dominatori dell’acqua a dominare un elemento tanto instabile?
Non poteva perdere un secondo la concertazione che quella roba perdeva di consistenza precipitando su sé stessa, non come le sue pareti che rimanevano lì, stoiche, permettendole d’impiegarsi in altro.
Assurdi! Assurdi gli altri elementi e assurdi gli altri dominatori! Anche se probabilmente il suo potere era altrettanto incomprensibile per loro; troppo rigido e testardo per essere trattato con la dolcezza e l’eleganza dei movimenti d’acqua, d’aria e di fuoco.
 
Spostandosi verso il camion, verso la strada, la terra guadagnava consistenza sotto i piedi, lei prendeva dimestichezza con quella versione fluida del suo dominio e l’acqua scemava.
Non attese che il fango le arrivasse sotto le caviglie per lanciarsi di corsa verso i suoi aggressori (anche se, in effetti, era lei quella che aveva attaccato per prima).
 
I dominatori del fuoco dovettero capire cosa stava per precipitar loro addosso, dato che intensificarono gli attacchi, ma il loro era un destino segnato: era sulla terra ferma adesso.
 
Un pugno al suolo, mentre il fango che la proteggeva quasi sfuggiva al suo controllo, e la pietra e il metallo del veicolo sotto i piedi dei tre fiammiferi si accartocciavano attorno a questi, chiudendoli in una prigione cieca che non permetteva alcun movimento.
 
Erano in trappola, aveva… “no… cosa?”.
Qualcosa trapassò, sibilando, quel suo scudo fluido, mentre si rialzava ormai convinta della vittoria.
Sbottò sangue. Il suo domino piombò al suolo inerte, abbandonato dalla sua mente.
Lo sguardo si piegò lento a osservare la mano che aveva raggiunto il fianco nello stesso momento che si era sentita colpita, stranamente provava meno dolore di quanto avrebbe potuto immaginare: il palmo scoloriva sotto la pioggia dalla terra e dal sangue della ferita.
 
Lan cadde all’indietro, per l’ennesima volta, pesantemente, contro la terra bagnata.
Nella sua visuale il quarto uomo, il non-dominatore, imbracciava un fucile.
 
Era finita. Finita per un pezzo di metallo, c’era dell’ironico in questo o era solo lei a vederla così?
Un ghigno amaro le si dipinse sulle labbra, mentre la mente le si offuscava.
L’acqua continuava a colpirle il viso, incessante.
Arrivò il buio e il suo ultimo pensiero si chiuse sull’immagine dei suoi bambini e sulla certezza che nessuno avrebbe mai spiegato loro perché la mamma non sarebbe tornata a casa quella sera.

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Capitolo 29
*** Colla ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 2152
Prompt: Colla (Red List – 29/10/2018)
 

Note: questo raccontino è visto dal punto di vista di un bambino, per questo motivo ho preferito usare un lessico semplice e ripetitivo, accompagnato da parole di fantasia.
 

Colla

 
A Tori non piaceva quel posto: c’erano tante cose interessanti che gli sarebbe piaciuto controllare da vicino, ma non gli facevano toccare nulla. Anche Liang che non lo sgridava mai, l’aveva preso in braccio quando si era allungato verso un carrellino con tante cose strane sopra, dicendogli che non doveva toccare nulla altrimenti l’avrebbero riportato a casa e non avrebbe visto la mamma.
Liang non era tipo da dire cose tanto brutte, quindi dovevano essere cose davvero sbagliate con cui giocare quelle lì e lui voleva tanto vedere la mamma.
Mamma Lan gli piaceva un sacco, lei lo capiva senza che dicesse nulla e lo prendeva sempre in braccio e anche quello gli piaceva tanto.
Per un po’ quindi era stato buono buono, insieme a tutti i suoi fratelli in quella sala tanto grande ad aspettare che la porta di metallo si aprisse; quando si era aperta però, e si erano alzati tutti, ma proprio tutti, avevano fatto entrare solo Nala e Kimo. Loro, i piccoli, erano rimasti con Jizu, Liang e quell’amico della mamma tanto simpatico, di cui non ricordava mai il nome, che portava sempre caramelle e cioccolato quando andava a trovarli.
 
Quando uscirono i fratelloni, lui corse veloce veloce, verso la porta di ferro, ma Pete lo prese al volo. Cominciava a non piacergli più essere uno dei piccoli, se chiunque poteva prenderlo e impedirgli di fare come voleva.
 
Era stato il turno di Liang e Jizu d’entrare.
Tori era arrabbiato: voleva vedere la mamma, non la vedeva da giorni e saperla dietro quella grande porta e non poterle fare nemmeno un sorriso grande grande gli faceva sentire male al pancino.
Sedeva sulle gambe di Pete, mentre Juju tirava su col naso; vederlo così fece venire la tristezza anche a lui. Scoppiò a piangere forte forte. Anche Li-Wei fece lo stesso, perché era così tra fratellini, se c’era una tristezza tristissima diventava subito di tutti e…
“Buoni piccini! State buoni o finirà che ci cacceranno”, cercò di consolarli Pete. Anche Ninoh prese ad abbracciarli uno ad uno per calmarli, ma il pancino non ne voleva sapere di fare meno male e il fatto che Nala e Kimo fossero andati col signore dal camice bianco, invece di prenderli in braccio, faceva ancora più male.
“Voglio la mamma!”, piagnucolò Lì tra i singhiozzi.
“Anche io!”, strillo Juju arrabbiato.   
Lui piangeva senza fiato, perché voleva quello che volevano loro, ma dirlo faceva più male che non dirlo.
L’amico di mamma abbassò la testa triste triste, nel sentire i fratellini e Tori pensò che stesse per piangere: aveva stretto forte i pugni, tanto forte, quindi aveva anche lui tanto male al pancino.
 
***
 
Tori non ricordava quando era arrivata la nonnina, ma lui stava ancora piangendo e Liang e Jizu erano ancora via. Era arrivata con due grandi che non conosceva.
“La signora della porta”, aveva detto Miori zitto zitto, strattonando la manica di Pete e indicando la signora con la nonnina.
Anche Miori era triste, ma lui non piangeva mai.
 
Tori sapeva chi era la signora della porta. Una volta, tanto tempo prima, la signora della porta aveva bussato alla loro casa; ma la mamma non le aveva aperto, si era seduta a terra e aveva cominciato a piangere senza singhiozzi e senza rumori.
Miori si era spaventato tanto, così gli aveva raccontato, perché lui, quando era arrivata la signora della porta, dormiva nel suo lettino.
I fratelli più grandi avevano detto che la signora della porta era stata in silenzio, poi però aveva parlato e aveva chiesto alla mamma di aprire, aveva detto che voleva solo abbracciarla. La mamma però non aveva aperto.
Tori aveva pensato, quindi, che la signora della porta fosse cattiva come quelle vecchine delle favole che fanno i complimenti, ma poi ti danno la mela avvelenata e si sa che le mele avvelenate sono avvelenatissime e se le mangi poi non ti risvegli più. Mamma Lan era furba e lo sapeva, per questo non aveva aperto e piangeva perché a lei piaceva quello che la signora della porta le voleva dare, a chi non piacevano gli abbracci?
 
La cosa strana però era che era stata la nonnina ad aver portato lì la signora della porta, che oltretutto non era neanche una vecchina e aveva gli occhi belli come quelli della mamma.
A lui piaceva la nonnina, anche quando domandava alla mamma se non fosse un po’ toccato. Lui non sapeva cosa volesse dire toccato, ma la mamma rispondeva sempre che l’unica cosa che non andava in lui era una nonna petulante di nome Lan-Lan, che era il nome della nonnina in effetti, ma lui non sapeva neanche cosa volesse dire petulante, quindi tutte quelle parole erano solo parole per lui.
 
L’amico della mamma si era alzato svelto, quando aveva visto la nonnina arrivare e lo stesso avevano fatto Nala e Kimo; poi, tutti insieme, compresi il signore che non conosceva e la signora della porta, avevano cominciato a parlare fitto fitto e piano piano; tanto piano che il battere del suo cuoricino copriva quello che dicevano.
Poi però la signora della porta lo aveva guardato.
Aveva guardato proprio lui, perché era l’unico attento ai grandi.
La signora aveva gli occhi luminosi, ma non piangeva.
“Sono loro i bambini?”, aveva chiesto mentre lo fissava e Tori era riuscito a sentire.
“Sì”, aveva detto la nonnina.
La signora della porta a quel punto gli era andata vicino.
Pete lo aveva stretto forte forte.
 
“Ciao”, disse la signora accovacciandosi davanti a Tori e Pete.
Tutto era diventato silenzio: i fratellini avevano smesso di piangere, anche se Juju tirava ancora su col nasino.  
“Ciao”, rispose Tori. Salutare era importante aveva spiegato la mamma, per questo lui lo faceva sempre sempre.
La signora della porta gli sorrise: aveva il sorriso come quello della mamma e il male al pancino scomparve all’improvviso, così sorrise anche lui.
Lei gli scompigliò i capelli proprio come faceva mamma Lan e Tori pensò che forse la signora della porta non era una vecchia cattiva; anche perché l’aveva guardata bene bene, da quando era arrivata, e non aveva nessuna mela con lei.
“Vedrai la mamma starà bene”, gli disse, “la conosco da tanto, sai? Dobbiamo essere forti e sorridere, perché se ci vede piangere diventerà triste e smetterà di guarire”.
Tori annuì convinto a quelle parole. 
“Vedi piccino, adesso la tua mamma è stanca si sente a pezzi. Delle persone cattive le hanno fatto male, ma noi dobbiamo essere forti per aiutarla a rimettere insieme tutti questi pezzi”.
“L’ho sognato, lo sai? I signori cattivi, ma mamma ha detto che il drago dei calzini la proteggeva, ma lei è qui e i calzini sono a casa. Non voglio che li toglie, ma ogni tanto la casa del drago va lavata, dice”, spiegò così alla signora della porta tutte le cose che doveva sapere per capire perché lui era tanto triste.
“Allora dobbiamo assolutamente andare a prendere questi calzini, ci andiamo insieme?”. La signora si alzò porgendogli una mano.
“Uhm…”, Tori guardò la mano della signora, poi abbassò la testa pensieroso.
I suoi fratelli non dicevano nulla.
Guardò allora la nonnina di sottecchi e lei sorrise facendo sì sì con la testa.
La nonnina la sapeva lunga, così diceva sempre la mamma, quindi… “Vengono anche Juju e Lì?”, chiese, gettando di scatto gli occhi in quelli della signora.
 
Nala era rimasta zitta fino a quel momento, ma, nel sentirlo parlare, disse: “Verranno anche Miori, Ninoh e Pete”.
“Ma Nala…”, tentò di protestare Pete alle spalle di Tori.
“Dovete mangiare qualcosa, è da questa mattina che non mettete nulla sotto i denti”, spiegò la sorellona.
“Ci penso io a farli mangiare”, disse la signora della porta, posando una mano sulla spalla di Nala, “stai tranquilla”.
Quella signora aveva una voce dolce, pensò Tori.
“Voglio vedere la mamma, prima!”, lagnò Miori e anche lui voleva vedere la mamma.
 
***
 
Non riuscirono ad averla vinta, non prima di mangiare, almeno.
La signora della porta era una brava cuoca e Tori queste cose le sapeva, perché lui da grande avrebbe fatto il cuoco o l’Atavar.
Miori e Pete si erano convinti a tornare a casa perché i fratelloni avevano promesso che poi avrebbero fatto vedere loro la mamma; così avevano obbedito e avevano mangiato di fretta frettissima, perché dovevano sbrigarsi: la mamma aveva bisogno di loro, proprio come aveva detto la signora della porta che aveva anche un nome, aveva scoperto Tori, ed era Mai-Lin.
Era un bel nome Mai-Lin, gli piaceva perché erano due nomi in uno e tutti quelli che conosceva che avevano due nomi in uno erano forti.
 
La mamma aveva bisogno della loro forza, aveva detto la signora, e se avessero mangiato tutto tutto sarebbero stati più forti per la mamma. Appena finito lui era corso in bagno e aveva cercato nella cesta del bucato le calze col drago. Le aveva trovate ed era sicurissimo che appena la mamma le avrebbe messe si sarebbe sentita subito meglio.
Juju voleva portare Ping per farle difendere la mamma nello spedale, ma la signora Mai-Lin aveva detto che nello spedale i puma pigmei non potevano entrare. Juju si era arrabbiato e aveva battuto i piedi contro il mobile in sala forte forte; talmente forte che aveva fatto cadere la targa di mamma e poi si era messo a piangere, perché la mamma teneva davvero tantissimo a quella targa e se avesse visto la cornice rotta si sarebbe fatta tristissima di sicuro.
Miori sapeva fare tutto, per fortuna, ed era corso in camera sua a prendere la valigetta degli attrezzi, che era di mamma, ma che stava sempre in camera di Miori e Pete, perché… non sapeva perché, ma mamma non era arrabbiata che fosse lì, quindi quella doveva essere anche la camera della valigetta di mamma, sì doveva essere così.
Dalla valigetta Miori tirò fuori una cosa che lui non aveva mai visto: sembrava un dentifricio, ma puzzava come i calzini portafortuna della mamma. Schiacciò il tubetto e ne mise un po’ dove la cornice era rotta. Aspettò un tantino e la cornice tornò sana sana.
Juju era tanto contento, non piangeva più; potevano tornare dalla mamma, lui era curioso però.
“Mì, cos’è?”, chiese indicando il dentifricio puzzone al fratello.
“Colla”, rispose Miori.
“Cosa fa la colla?”, domandò ancora lui.
“La colla serve a rimette insieme i pezzi”, gli spiegò e Tori capì che si trovava davanti una cosa magichissima come le calze della mamma, per questo puzzavano uguale.
 
***
 
Finalmente era con la sua mamma. Era pallida, pallida; sembrava che l’avessero cosparsa di farina da per tutto, ma non era polverosa, era sola bianca.
La riempì di baci e baci, ma dovette litigarsela con quei due rompiscatole di Lì e Juju, ma andava bene anche così, l’importante era averle infilato le calze col drago ai piedi. La mamma così aveva capito che lui teneva tanto tanto a lei, anche se non l’aveva potuta baciare tantissimo come voleva.
 
Purtroppo però, quando il signore con gli occhiali, e con il camice più lungo che Tori avesse mai visto, disse di andare via, Kimo prese Juju in braccio, Lì per una mano, e disse che era ora di salutare.
“Ci vediamo domani, vedi di non farci prendere più di questi colpi, ok?”, disse alla mamma il fratellone che non la chiamava mai mamma e chissà poi il perché.
“Non preoccuparti, ho i miei calzini portafortuna, adesso”, disse mamma Lan con un sorriso, facendogli l’occhiolino; a lui, non a Kimo, anche se ogni volta che muoveva qualcosa, o la baciavano, gli occhi le si chiudevano stretti come se invece di baci fossero pizzichi e, per un secondo uno, sembrava non respirare.
 
Lui non sapeva se fare o meno quella cosa che voleva fare, ma… Kimo non aveva abbastanza mani per tutti e lui aveva portato con sé quella cosa per la sua mamma, senza dirlo a nessuno.
Se l’avessero scoperto l’avrebbero sgridato tanto forte da fargli male alle orecchie, lo sapeva, ma quella era la sua mamma, doveva farlo!
E, non appena il fratellone girò l’angolo, lui corse velocissimo e si arrampicò sul letto. Non fu un cosa facile perché un letto tanto alto Tori non lo aveva mai visto, ma…
“Tieni mamma Lan, l’ho presa a Miori, ma non sgridarmi. È una medicina magica, serve per rimettere insieme i pezzi e la signora della porta ha detto che tu devi rimetterli insieme”. Le mise in mano il tubetto di colla e corse dietro i fratelli, prima che questi potessero notare la sua assenza.
 
La mamma sarebbe stata bene, Tori lo sapeva, perché aveva sorriso, prima che lui scappasse via e aveva stretto gli occhi come faceva sempre quando gli diceva che tutto andava bene, senza dirglielo a parole. I pizzichi sarebbero passati e sarebbe tornata colorata come prima, perché era la sua mamma e aveva promesso che ci sarebbe stata sempre sempre per lui e… tutti sapevano che mamma Lan manteneva sempre le promesse.

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Capitolo 30
*** Matrimonio ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 555
Prompt: Matrimonio (Red List – 30/10/2018)
 


Matrimonio


La cerimonia preannunciava d’essere indimenticabile.
Tutto era perfetto.
Lui era meraviglioso nel suo completo nero e col cravattino verde che richiamava il colore intenso dei suoi occhi. Impettito, non mostrava segni di cedimento, tranne un lieve occhieggiare alla tavola imbandita e al testimone al suo fianco.
Pochi minuti sembrarono un’eternità, mentre tutti gli invitati erano in fremente attesa di vedere lei, la sposa; poi, finalmente, eccola! Accompagnata dalla damigella d’onore che la sosteneva quasi stesse per donare al futuro sposo un gioiello prezioso.
Gli invitati trattennero il fiato tant’era meravigliosa ed eterea nel suo incedere lento, cadenzato dal ritmo melodioso che aveva scelto con il suo sposo e che avrebbe accompagnato quel ricordo nelle loro menti per sempre.
Si fermò davanti all’altare, accanto all’amato.
Lui la guardava estasiato, dimentico per un attimo delle leccornie di cui la tavola era ricolma.
Lei era incredibilmente radiosa, il trucco perfetto, il vestito… cielo il vestito! Le balze ricadevano morbide e soffici quasi fossero panna montata e il velo era una nuvola leggera, impreziosito da ricami floreali e schegge smeraldine.
“Adesso mangiamo?”, esordì una voce tra gli invitati, subito azzittita da un coro sibilante.
 
L’officiante attendeva con fare solenne il momento in cui quel rituale sarebbe esploso nel fragore dell’esultazione generale per quella dolce, bellissima, coppia. Accompagnò i primi momenti della cerimonia con un discorso toccante, al punto che il testimone dello sposo dovette accarezzare il suo protetto che, tanta la tensione del momento, era sul punto di darsela letteralmente a gambe levate.
Lei, al contrario, era immobile, una vera bambola, fiera come il suo lignaggio pretendeva.
“Ping, Poppy”, asserì solenne Pete, l’officiante, “vi dichiaro marito e moglie.”
Il bacio che ne seguì fu a quanto di più commovente l’umanità tutta avesse mai assistito; quanto meno Juju e Ninoh, testimone e damigella, che si sciolsero in calde lacrime.
Miori, tra gli invitati, applaudì entusiasta.
 
“E… adesso mangiamo?”, ripeté per l’ennesima volta Li-Wei.
Pete fece spallucce, acconsentendo.
Miori si fiondò verso la tavola, saltando dal divano e facendo cadere i testimoni di pezza giunti da ogni dove, di quella casa, per assistere al lieto evento e, ovviamente Lì non se lo fece ripetere due volte, “era ora!”, dichiarò arrampicandosi su una delle sedie del salone.
Ninoh scosse il capo delusa, lasciando improvvisamente ciondolare la sua mano verso il basso e con questa la dolce sposina.
Pete accorse immediatamente a risollevare il morale della damigella, posandole una mano sulla spalla e… “Che vuoi farci, è risaputo che la parte più interessante di un matrimonio è il pranzo nuziale”, esordì esperto, invitando la sorella a sedersi a tavola con gli altri invitati.
Juju recuperò il suo cucciolo, nonché lo sposo, prima che assaltasse il pasto tanto agognato e si accomodò accanto a Tori che attendeva silenzioso gli ospiti accanto alla tavola, pronto a ricevere gli omaggi dovuti a uno Chef del suo calibro.
 
La tavola strabordava di ogni bendidio: snack di tutti i tipi riempivano moltitudini di ciotole, tramezzini, panini farciti e dolcetti erano distesi su vassoi variopinti, gelatine colorate e lecca-lecca facevano da padrone sulla meravigliosa torta di panna montata che il giovane cuoco aveva preparato, aiutato dalla mamma, ma solo aiutato, ovvio!
 
Pete era sicuro, quel matrimonio lo avrebbero ricordato per secoli e secoli a venire!
 
***
 
Un’altra pagina si chiuse sulle “Cronache e Viaggi Incredibili di Pete e Compagni”.

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Capitolo 31
*** Halloween ***


Iniziativa: Questa storia partecipa al “Writober 2018” a cura di Fanwriter.it.
Numero Parole: 1661
Prompt: Halloween (Red List – 31/10/2018)
 


Halloween


“Non è possibile! Che razza di costume è quello?”, si lamentò Liang, vedendo la sua mamma scendere le scale circondata da un enorme zucca di stoffa imbottita, tenuta su da vistose bretelle verdi.
Lan sfarfallò un paio di volte le ciglia. “Daaa… zucca?!”, rispose incerta, convinta fino a quel momento che la cosa fosse abbastanza evidente.
“Ma, ma, ma…”, bofonchiò il ragazzino, “…perché? Tutte le altre mamme si vestono da cose incredibili e spaventose, questo…”, indicò Lan-Chen con entrambe le mani, “… non fa paura, è… tenero!”.
Lan scoppiò a ridere, tirandosi in braccio Tori. “Allora sarò la zucca più tenera di tutte!”.
“Ma mamma, perché?”, tentò di protestare, mentre la madre gli rifilava tra le mani un secchiello arancione puntinato dalle sagome nere di pipistrelli-lupo. “Cosa ti ho fatto di male? Sarò lo zimbello di tutti i miei amici! Uff!”, sbuffò il ragazzino vestito da mummia, prendendo il secchiello e ritrovandosi in strada senza che se ne fosse reso conto.
“Allora fortuna che ci se tu a essere spaventoso per tutti e due”, disse lei divertita.
 
***
 
Fuori casa, ogni bambino aveva in mano il suo cestello.
“Lo sapevo che sarei dovuto andare con Kimo, lui almeno si è travestito da Zombie. Gli zombie sì che sono forti, mica le zucche!”, protestava ancora Liang.
“Non sei tu quello che si è offerto di venire a darmi una mano con i piccoli, dicendo che potevo contare su di te, perché sei grande ormai?”, gli ricordò Lan-Chen.
“Ma sono grande, solo…”, sbuffò, prima di lasciar cadere la frase con fare arrendevole.
“Liang è arrabbiato?”, chiese Tori.
“È che vuole sempre fare come fanno Kimo e Nala, ma in realtà è ancora un bambino come noi”, spiegò Pete.
“Vero, vero!”, confermò Miori, tenendosi stretto alle mani di Lan-Chen e del fratellino.
“Non sono un bambino”, mise il broncio il più grande, decidendo comunque di seguire la madre per fare incetta di dolcetti, bussando alle case della loro via.
 
Tanti bambini necessitavano di tanti controlli e così Lan-Chen, Kimo e Nala si erano divisi i piccoli e tutto inizialmente era sembrato andare per il meglio non fosse stato che Miori, di punto in bianco, si fosse impuntato per andare con la sua mamma e che Pete non potesse assolutamente rinunciare a fare dolcetto o scherzetto con lui, il fratello preferito. Tori aveva piagnucolato di voler stare con Liang, come sempre del resto, e a quel punto il ragazzino si era offerto di aiutare.
 
***
 
Come era prevedibile, le proteste di Liang cessarono appena bussarono alla prima porta e le caramelle cominciarono a tintinnare nei secchielli accompagnate da fiumi di complimenti.
Presto incontrarono diversi compagni di scuola e le relative mamme o papà, proprio come temeva la mummietta.
“Che bel costume”, si complimentò un’amichetta di Liang col bimbo tra le braccia di Lan-Chen, mentre questa parlava con la mamma della bambina, “sei vestito da dominatore dell’acqua?”.
Tori negò con la testolina, per poi dire tutto fiero: “Io sono l’Atavar!”
“L’Avatar Kuruk?”, domandò la bambina, ricordando che i vari Avatar dell’acqua (perché dell’acqua doveva essere visti i colori che indossava) erano soliti portare un copricapo di pelliccia di lupo, mentre il piccolo non solo non l’aveva, ma sfoggiava sulla testolina un’alta coda di cavallo.
“Sono l’Atavar Korra”, dichiarò impettito. “ sa tutto tutto e ha detto che è stata l’Atavar Korra a far tornare gli spiriti e oggi è la festa degli spiriti”.
“Maaa… l’Avatar Korra era una femmina”, provò a far notare lei.
Liang fece cenno alla ragazzina di sorvolare sulla questione e questa acconsentì senza fare problemi.
 
***
 
“Complimenti, davvero una gran bella zucca”, disse una voce maschile dal tono strafottente e incredibilmente famigliare. Lan-Chen piegò le labbra in un sorriso, già prima di voltandosi, mentre il ragazzo continuava: “anche se ti avrei visto meglio in un vestito da strega. È più nelle tue corde”.
“Krong, gentilissimo come sempre”, ironizzò lei, mentre il dominatore della terra le si avvicinava, mimando un baciamano. “Cosa ci fai da queste parti? Non sei un po’… ehm… fuori zona?”.
“Volevo vedere come se la passava la mia strega preferita”.
“Zucca, la mamma è una zucca”, arrivò immediatamente Miori a correggere il tiro del nuovo venuto, con tono particolarmente piccato, notata la confidenza mostrata da questi verso la sua mamma.
“Giusto. Zucca”, si corresse Krong, piegandosi per guardare il bambino in viso, “e tu da cosa saresti vestito?”.
Il bimbo inorgoglito puntò le mani sui fianchi e disse: “Da mamma Lan, ovvio!”.
Krong rimase un secondo interdetto, prima di guardare la giovane mamma singol al suo fianco che spiegò divertita: “Vedi… lui vuole fare l’inventore”.
 
“Ma…”, chiese sottovoce l’amichetta di Liang al suo compagno di classe, “…anche tua madre è femmina”.
“Lascia stare, vivo in una famiglia di pazzi!”, si difese il ragazzino rassegnato.
 
“Sicuramente l’originalità non ti manca”, esordì sorpreso Krong.
“Forzaaa!”, si lagnò Pete, arrivando di corsa, agitando in aria il suo uncino da pirata e afferrandosi al braccio di Lan-Chen. “Mamma non abbiamo tempo per le chiacchiere, dobbiamo finire il giro prima di Kimo e Nala”.
Lan sorrise al bambino, prima di volgersi dispiaciuta verso Krong. “Scusa, ma…”, tentò di spiegare la giovane donna.
Il ragazzone scosse la testa con un sorriso: “Vai tranquilla, ero solo passato per vedere come stavi, te l’ho detto. Ti ho vista: va bene così”.
“Lascia, ci penso io a questi marmocchi ululanti”, intervenne la mamma dell’amichetta di Liang, porgendosi a prendere la mano del piccolo pirata, “stiamo facendo lo stesso giro, non mi costa niente. Tu rimani ancora un po’ con il tuo amico”, terminò in tono allusivo.
Lan arrossì fino alla punta delle orecchie.
“Ma… sono delle pesti, non vorrei che ti creassero problemi…”, tentò di spiegare, cercando di dissimulare l’imbarazzo.
“Tranquilla mamma, ci sono io, non dimenticarlo”, rincarò Liang, togliendole Tori dalle braccia e prendendo Miori per mano.
La dominatrice osservò i suoi bambini accostarsi all’uscio della casa accanto a quella appena visitata.
“Quindi sono questi i tuoi bambini”, disse Krong alle sue spalle.
Lan sorrise annuendo appena e, voltatasi verso il ragazzo, lo squadrò dalla testa ai piedi per poi commentare sarcastica: “Un costume da mafioso? Non me lo sarei mai aspettato”. Gli si accostò con un’espressione gentile che aveva davvero poco a che fare con quel dire canzonatorio.
“Sai com’è, i completi gessati mi donano”, rispose a tono e con un pizzico di malizia nello sguardo.
“Quindi… sei passato solo per vedere come stavo? Lo sai, vero, che ci troviamo a Senlin e che Zaofu non è esattamente dietro l’angolo?”.
A quelle parole Krong ghignò, facendo spallucce con apparente non curanza.
 
***
 
Qualche ora, diverse chiacchiere e caramelle dopo, il piccolo gruppo di razziatori di dolciumi era sull’uscio di casa.
Nala e Kimo erano già tornati e i bambini affidati loro erano in salotto a controllare il bottino di dolcetti e bonbon.
Liang, Pete e Miori corsero immediatamente a mostrare ai fratelli quanto avevano raggranellato grazie ai loro fantasmagorici costumi. Lan-Chen li seguì con lo sguardo, sorridendo stanca, quando la voce di Nala giunse a chiederle: “Ma… Tori?”.
“Tori?”, ripeté lei stupita da quella richiesta. Liang non aveva fatto altro che trascinarselo da per tutto, quindi… “è con Liang”, disse sicura.
Nala si sporse per controllare in sala poi, volgendosi vero Lan-Chen, dissentì con il capo, impallidendo.
 
Cosa? Dov’era il suo Tori?
Lan si voltò di scatto, afferrò la maniglia della porta e l’aprì, pronta a gettarsi alla ricerca del suo bambino.
 
Si sentiva morire. Non poteva essere!
Una cosa del genere non sarebbe dovuta succedere, non sarebbe “mai” dovuta succedere.
Si maledisse intimamente per aver perso tempo con Krong, per essersi distratta.
 
Disperata, urtò contro due ragazze appena fuori la porta d’ingresso e… il suo bambino.
Senza guardare chi gliel’avesse riportato scoppiò in lacrime, rubando Tori dalle braccia di una delle sconosciute e stringendolo come se temesse che potesse sparire di nuovo.
“Piccolo, grazie al cielo!”, si ritrovò a piagnucolare come una bambina.
“Perché piangi, mamma? Ero qui con le mie amiche”.
Alle parole del bambino, sembrò riaversi e anche Nala si accostò loro, riprendendo colore.
 
Le due sconosciute sorrisero difronte a quella scena.
“Salve!”, salutò quella tra le due con il sorriso più ampio.
“Non so come ringraziarvi, stavo per… ero nel panico, non…”, cercò di spiegare la giovane madre, ancora sconvolta.
“Non preoccuparti Lan, abbiamo visto che era rimasto indietro, e…”, intervenne la ragazza che aveva salutato.
“E... non potevamo lasciare solo un Avatar tanto carino”, concluse la seconda il dire della prima.
“Soprattutto se è vestito come me!”, commentò divertita l’altra, più bassa e dall’aspetto tipico delle Tribù dell’acqua, vestita anch’essa, per l’appunto, da Avatar Korra.
Lan-Chen si asciugò gli occhi col dorso della mano, prima di scattare e abbracciarle entrambe, mentre il piccolo Tori passava nelle braccia di Nala.
Le due ragazze sorrisero sorprese. Ci vollero diversi secondi prima che la giovane mamma decidesse di liberarle dalla sua stretta.
“Dobbiamo andare. Abbiamo lasciato soli i nostri cari e non abbiamo molto tempo”, spiegò dolcemente la più alta tra le due.
“Oh, sì sì, certo, scusate e… grazie ancora”, disse Lan imbarazzata per quel gesto convulso.
 
La ragazza in azzurro si sporse verso Tori. “Ancora complimenti per il costume, ottima scelta”, disse, facendogli l’occhiolino.
“Grazie,” rispose tronfio, “ma il tuo è più bello!”.
“Direi… perfetto”, intervenne la più alta, travestita da Asami Sato, inconfondibile per le tinte rosso scuro e la cascata di ricci corvini.
L’altra, a quel dire, si tirò indietro, puntando le mani sui fianchi e ridendo di gusto.
 
“Grazie ancora”, disse Lan-Chen, mentre un saluto, accompagnato dal cenno della mano, precedette allontanarsi delle due ragazze: scesero i gradini di quella abitazione e si avviarono lungo la via, sorridendosi amorevolmente.
 
***
 
Un oretta dopo, mentre Tori mangiucchiava caramelle al tavolo e Lan era intenta a spazzar via carte di caramelle dal pavimento…
 
“Mamma, conoscevi già Sami e Korra?”.
“No, Tori”.
“Perché allora ti hanno chiamata per nome?”.
“Ma… non glielo hai detto tu?”.
“No, no”, dissentì il bimbo vivacemente.

 
Fine.


Note dell’autrice: Wow! Siamo alla fine. Non mi sembra vero, ma bisogna dire che è stata davvero una gran bella avventura! Grazie di cuore a chi ha organizzato l’evento e a tutti quelli che hanno dedicato un po’ di tempo a leggere queste mie “cosette”, non credevo di riuscire ad arrivare fino alla fine, e invece… eccoci qui. :3

Grazie ancora!

Lance.

PS: Un bacione a Donnasole che con le sue dritte ha reso il finale di questa storiella più interesante. :3
PS2: Essendomi ridotta a scriverla all'ultimo momento questa è la versione, rigorosamente, non corretta, quindi chiedo venia, provvederò quanto prima a sistemare i miei soliti obrori, per il momento, però... Felice Halloween a tuttiii!!! :3

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