Gocce di Giove

di Sayami
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tiny Town - 1.1 ***
Capitolo 3: *** Tiny Town - 1.2 ***
Capitolo 4: *** Tiny Town - 1.3 ***
Capitolo 5: *** Tiny Town - 1.4 ***
Capitolo 6: *** Tiny Town - 1.5 ***
Capitolo 7: *** Tiny Town - 1.6 ***
Capitolo 8: *** Tiny Town - 1.7 ***
Capitolo 9: *** Tiny Town - 1.8 ***
Capitolo 10: *** Dove Nasce una Speranza - 2.1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  

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PROLOGO

"Baciami,
lontano dall'orzo irsuto.
Di notte,
accanto alla verde, verde erba.
Dondola,
dondola, dondola il passo che danza.
Tu quelle scarpe
e
Io quel vestito.
(...)
Baciami."
 
-Tana libera tutti!- urla trionfante Patrick, battendo forte il palmo della mano contro il muro.
Alicia salta fuori dalle siepi curatissime della signora Grint, un sorrisone sdentato stampato sul visetto di caramello. -Abbiamo vinto!- esulta.
Charlie si arrabbia, pesta i piedi a terra e quasi scoppia a piangere per la delusione: ce l'ha messa proprio tutta per scovare gli altri, e invece ha perso di nuovo. Nel frattempo, anche Veronika e James abbandonano i rispettivi nascondigli per riunirsi al gruppo.
Ora all'appello mancano solo... -Samuel! Laney!- chiama ad alta voce Veronika, guardandosi intorno alla ricerca del cugino e dell'amica del cuore.
-Certo che si sono nascosti bene...- commenta impressionato James.
-Forse sono andati lontano e ora non ci sentono- ipotizza Patrick.
-Verranno fuori, prima o poi- conclude svelto Charlie, ancora arrabbiato perché ha perso. -Io mi sono stancato di giocare.-
-Solo perché perdi sempre!- lo punzecchia perfida Alicia.
-Non è vero!- ribatte furente l'altro. -Stai zitta, brutta racchia!-
La bambina lo incenerisce con uno sguardo. -Che hai detto, scusa?-
-Laney! Samuel!- chiama ancora Veronika.
-Ripetilo, se hai il coraggio!-
-Brutta racchia- scandisce tronfio Charlie, e James ride.
La combriccola bisticcia, i maschi tirano le trecce ad Alicia e lei risponde a suon di calci sugli stinchi. Escono fuori un paio di parole che le mamme e i papà non approverebbero, qualche strillo e qualche lacrima, ma di Laney e Samuel nemmeno l'ombra.
Il punto è che, di uscire, quei non ne hanno proprio intenzione. Se ne stanno sulla veranda di casa Bribs, quatti quatti dietro al muretto di mattoni, uno di fronte all'altra, vicinissimi.
Si guardano e respirano piano, lui intreccia forte le loro manine ossute. Samuel si sta sforzando di non piangere, Laney lo vede, e per questo si impone di essere forte a sua volta. Quindi tira su col naso, si fa coraggio e gli chiede: -Ma devi andartene per forza?-
L'altro aspetta un po' a rispondere, poi annuisce e un lacrimone scivola giù, lungo la sua guancetta arrossata.
A questo punto, anche Laney demorde e comincia a singhiozzare, disperata. -Non è giusto!- si lagna. -Io non voglio che vai!-
Il ragazzino scuote il capo, si pulisce gli occhi e il naso con la manica della felpa blu, poi alza la testa e guarda Laney dritta in faccia. Anche se gli scappano un paio di singulti, la sua espressione è seria, risoluta a tal punto che quasi la spaventa.
-Te lo prometto- giura solennemente.
-Che cosa?- domanda confusa lei.
Samuel fa un passetto avanti, si avvicina ancor di più e stringe le sue mani. Laney sente il cuore che batte fortissimo nel petto, quasi le sembra che stia per scoppiare.
Samuel le piace. Le piace quando gioca a pallone, il più leggero e veloce di tutti. Le piace quando tornano a casa insieme, quando le racconta le storie più belle. Le piace perché non la prende mai in giro, perché profuma sempre di buono, perché ha i capelli castani e gli occhi scuri, grandi e allungati, diversi da quelli di tutti gli altri bambini. Lui è gentile e speciale.
E ora se ne andrà lontano, dall'altra parte del mondo.
Senza di lei.
-Che cosa?- chiede di nuovo, ricominciando a piangere al solo pensiero. -Che cosa mi prometti?-
-Che torno- afferma determinato il ragazzino, senza smettere di guardarla neppure per un secondo. -Ti prometto che un giorno torno e ci sposiamo. Va bene?-
Trascorrono pochi istanti. Il cuore di Laney fa una capriola, e lei si sente subito sollevata, leggera come una nuvola. Sorride raggiante e saltella sul posto, prima di annuire vigorosamente.
-Va bene- dice. -E' una promessa.-
L'altro sorride di rimando, rivelando due denti mancanti e un paio di adorabili fossette. Poi ridacchia. -E' una promessa- conferma.
Laney, tutta rossa per le lacrime, la felicità e l'imbarazzo, si solleva sulle punte dei piedi e posa le mani sulle spalle gracili di Samuel. Gli scocca un grosso bacio sulla guancia, lo abbraccia e scappa via, felice come una Pasqua.
E' una promessa: prima o poi Samuel, il suo Samuel, ritorna.
"E non se ne va mai più."

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Capitolo 2
*** Tiny Town - 1.1 ***


  

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Parte Prima: Tiny Town

"Mi manca

il tepore

e mi manca
il sole.

Mi manca
la baia.

Ciascuno
mi manca.

E mi mancano
i ponti.

Quell'arco
sul mare...

Stanotte
sembra secoli fa."

 

1.1

"E' solo una festa" le avevano detto.
"Vedrai, sarà divertente!" le avevano detto.
Ma in quel momento, impalata di fronte al portone di casa Carson, con la musica che le trapanava i timpani e il cuore in gola, Laney sapeva - perché lo sapeva - che quella di lasciarsi convincere era stata una pessima idea.
Tutto era cominciato appena una settimana prima, quando, per festeggiare il suo ventesimo compleanno, Veronika aveva deciso di organizzare un party in vero stile americano, invitando "solo un paio di personcine che sanno dove dimora il divertimento".
Ma, come prevedibile, la situazione le era un po' sfuggita di mano: il loro isolato era stato invaso dalla squadra di rugby del Nowhere College e la ragazza si era ritrovata la veranda piena di imbucati.
Di certo Laney non avrebbe abbandonato Vera proprio in un'occasione simile, ma non aveva mai avuto un buon rapporto con gli eventi sociali, men che meno con le feste di compleanno, che le portavano alla mente una valanga di pessimi ricordi. Come se non bastasse, quella sera sua madre l'aveva costretta a recarsi all'evento indossando uno stupidissimo vestito di trine comprato in saldo al Mall, un sacco brutto e largo di cui andava terribilmente fiera.
Ad ogni modo, Laney prese un bel respiro e si costrinse a guardare avanti. Il campanello incombeva minaccioso alla sua destra; sembrava dicesse: "Che aspetti? Suonami!", anche se lei, di suonarlo, non aveva la benché minima voglia.
Però era ancora in tempo, avrebbe potuto semplicemente girare i tacchi e tornarsene a casa.
"E poi chi la sente Vera?"
Assorta com'era nei suoi pensieri, quando la porta si spalancò, ci mancò poco che non le venisse un infarto.
Di fronte a lei si materializzò la silhouette minuta della festeggiata, vestita di tutto punto e felice come una Pasqua. Alle sue spalle era ammassata una calca nutrita di ragazzi, tutti visibilmente alticci e fin troppo eccitati. Fu un'immagine stranamente confortante: era un raduno di universitari, il che significava niente liceali rompiscatole tra i piedi. Forse.
-Ehilà!- esordì Vera, avvolgendola in un caloroso abbraccio. -Ti ho vista dalla finestra! Scommetto che stavi pensando di dartela a gambe.-
Quando si separarono, Laney mise su un sorrisino colpevole e la ragazza le scoccò un'occhiata penetrante. Non per niente Veronika era la sua migliore amica.
-Lo sai che non ti avrei lasciata da sola proprio stasera- rimbeccò lei, mollandole senza tante cerimonie una busta rossa mitragliata di lustrini, contenente il suo regalo di compleanno.
L'altra le sorrise, raggiante. -Certo che lo so- disse sicura. -Ed è anche il motivo per cui ti adoro.- Detto questo, l'afferrò per un braccio, la tirò in casa e richiuse la porta.
Forse merito del clima afoso di fine estate, forse del sovraffollamento in cui verteva la sala da pranzo, o forse di entrambe le cose, all'interno della casa faceva un caldo infernale.
La musica era assordante. I faretti e la plafoniera sul soffitto illuminavano di luci aranciate un marasma di stoviglie di plastica abbandonate in giro alla rinfusa, rimasugli di cibo, bottiglie vuote di spumante e mobili tutti addossati alle pareti per permettere agli invitati di ballare. Mentre Laney osservava allibita la scena, dedicando una pensiero solidale ai poveri signori Carson, Vera si era alzata in punta di piedi per sussurrarle qualcosa all'orecchio.
-Dei tuoi compagni neanche l'ombra- annunciò, dandosi aria di grande segretezza.
A quella conferma, Laney sentì un macigno rotolarle giù dal petto. -Grazie- sospirò riconoscente, stringendo forte la mano dell'amica. Quasi non riusciva a credere che avrebbe superato la serata senza complicazioni.
Vera però non sembrava aver finito, quindi aggiunse, ancora arrampicata sulla sua spalla: -E' arrivata una persona che devi assolutamente incontrare. Aspettami qui!-
Prima ancora che Laney potesse fermarla, la bionda si era tuffata nella mischia di corpi sudaticci che si contorcevano al centro della stanza, portandosi dietro il suo regalo e sparendo in un battibaleno su per le scale.
Lei rimase di sasso. Si guardò intorno, spaesata, cercando di escogitare un piano efficace per non sembrare un'idiota impalata vicino alla porta.
"Aspettare? Ma come diavolo ti viene in mente di mollarmi qui da sola?!" pensò, mentre intanto l'ansia sociale ricominciava ad attanagliarle lo stomaco.
Istintivamente indietreggiò e si strinse al muro, nel disperato tentativo di mimetizzarsi con l'arredamento, anche se aveva l'impressione che non avrebbe funzionato.
Poi, all'improvviso, scorse tra la folla Peter, il ragazzo di Vera. Era un tipo smilzo e dinoccolato, bianco come un cencio, con una zazzera di capelli rossicci, occhi piccoli e azzurri, guance scavate e un naso da topo, ma aveva un sorriso gentile e trattava Vera come fosse una principessa, ragion per cui le era sempre andato a genio. Stava conversando con un energumeno che era quasi il doppio di lui, in piedi accanto al televisore, stringendo in mano un bicchiere mezzo vuoto di punch.
Solo in quel momento Laney si accorse che la stava guardando, lanciandole di tanto in tanto occhiatine apprensive. Sapeva che non aveva cattive intenzioni, ma quel gesto contribuì soltanto a farla sentire ancor più inadatta e fuori posto.
Quando i loro occhi si incontrarono, Laney si sforzò di mettere su un ghigno conciliante, ma non dovette riuscirle un granché, data l'espressione sul viso di Peter. A ogni modo, lui le fece un cenno di saluto con la mano, a cui la ragazza rispose con un altro cenno, prima di voltarsi e filare dritta in cucina.
Se doveva sembrare una completa imbranata, preferiva farlo in un posto meno affollato e, se Veronika l'avesse cercata, Peter le avrebbe detto dove si trovava.
Lo stato della cucina non era migliore di quello del salone. Sembrava che fosse esplosa una bomba: terrine un tempo colme di salatini giacevano rovesciate sull'isola centrale; sui fornelli, chiazze di pomodoro bruciato e sostanze verdastre non meglio identificate; a terra, pozzanghere di bevande gassate e un numero non quantificabile di tovaglioli di carta, cocci di vetro e altro ancora.
Sulla soglia, Laney incrociò una ragazza. Doveva essere passata a prendere qualcosa da bere, dal momento che aveva con sé due grossi bicchieri straripanti di vino rosso e continuava a ridacchiare soddisfatta, barcollando ora a destra e ora a sinistra. Uscendo, la sconosciuta la urtò inavvertitamente, quindi si girò, le rivolse prima uno sguardo smarrito e poi un sorriso estasiato, infine riprese per dove era diretta.
Laney rimase immobile per qualche istante, prima di decidersi a entrare definitivamente in cucina. Lì la musica arrivava ovattata, forse smorzata dal tramezzo che divideva i due locali che componevano il pianterreno.
Si avvicinò circospetta all'isola e accarezzò il ripiano di marmo con la punta delle dita. Conosceva quel posto come le sue tasche, era abituata ai profumi, ai sapori e ai colori. Da quando ne aveva memoria, la sua famiglia e quella di Veronika erano sempre state vicine di casa. Erano cresciute così, giocando con gli altri bambini a rincorrersi per tutto l'isolato e facendosi le trecce a vicenda, condividendo i pasti, i vestiti e, qualche volta, perfino i genitori.
Forse era quello il motivo per cui, pur essendo figlia unica, Laney non si era mai sentita sola: Vera era sempre stata come una sorella maggiore per lei, e sapeva che nessuno al mondo la conosceva meglio.
Quella sera, però, casa Carson le sembrava un po' diversa, presa d'assedio da perfetti estranei e messa a soqquadro da capo a piedi.
A dirla tutta, sperava solo che la festa finisse presto.
-Ehi!-
Una voce. Maschile, per la precisione, e un po' impastata. Qualcuno era entrato in cucina, ma lei non poteva vederlo dal momento che stava di schiena.
"Non parla con me" pensò subito Laney, ma si sbagliava.
Il nuovo arrivato avanzò nella stanza e le mise una mano sulla spalla. -Parlo con te, moretta.-
La ragazza trasalì, sentendo i peli sulla nuca che si rizzavano uno dopo l'altro. Si voltò di scatto, ritrovandosi davanti a un giovane di media statura, coperto di tatuaggi e decisamente ubriaco: a malapena si reggeva in piedi, gli occhi gli si erano fatti rossi come tizzoni e aveva un alito a dir poco pestilenziale.
Con un movimento lento, Laney arretrò, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra di loro. Il palmo viscido dello sconosciuto le scivolò lungo il braccio, lasciato scoperto dal vestito, per poi ricadere pesantemente giù.
Lui però non fece una piega. Tirò col naso un paio di volte e poi biascicò, in una lingua quasi incomprensibile: -Sai dov'è il bagno?-
Laney sentì un brivido risalirle su per la schiena, le gambe molli come gelatina. Iniziò a sudare freddo. -Il bagno...- annaspò, mangiandosi le parole. -Il bagno è di sopra- bisbigliò alla fine, tutto d'un fiato.
L'altro però non sembrava aver capito, perché contrasse il viso in un grugno confuso e si sporse in avanti, su di lei, piantando una mano alla sua sinistra, sul piano dell'isola, per non perdere l'equilibrio e capitombolare per terra. -Parla più forte!- le intimò. -Non ti sento!- Dal tono che aveva usato, sembrava che si stesse innervosendo.
Laney indietreggiò ancora, spalle al frigorifero.
"Avanti, diglielo!" cercò di spronarla il suo cervello. "Così se ne andrà e ti lascerà in pace."
Ma a quel punto, anche se avrebbe tanto voluto parlare, le parole non le uscivano più. Aveva un groppo all'altezza della gola, ed era certa che, se avesse anche solo provato a emettere un suono qualsiasi, avrebbe urlato per l'agitazione.
"Vattene" pensò. "Non riesco a dirtelo, quindi vattene, per favore."
Ma l'altro non demordeva, continuava a scrutarla con quei suoi enormi occhi arrossati, in attesa di una risposta che non sarebbe arrivata.
-Ah...- rantolò.
"Vattene."
Pregò il cielo che qualcuno venisse ad aiutarla e, per qualche strana coincidenza astrale, le sue preghiere vennero esaudite.
In quel momento, in cucina arrivò qualcuno. Qualcuno che approdò al lavello, aprì il rubinetto e si riempì di acqua il bicchiere. Laney vide che li stava esaminando da lontano e sperò dal profondo del cuore che venisse a darle una mano. Inaspettatamente, fu proprio quello che lui fece. -C'è qualche problema?- domandò.
L'altro ragazzo, quello ubriaco, si voltò e le diede le spalle. Poco mancò che le ginocchia di Laney cedessero. Si lasciò andare a un lungo respiro sollevato, cercando di non dare nell'occhio.
-Sai dov'è il bagno?- tartagliò di nuovo il primo sconosciuto.
-E' di sopra- tagliò corto l'altro. Una frase semplice, lineare, pronunciata senza esitazioni. E, d'altra parte, non c'era poi molto da esitare: si trattava di una banalissima informazione. Laney sentì la frustrazione montarle in corpo come la marea. Una disadattata, ecco cos'era diventata. Una stupida, insignificante, penosa disadattata.
Incastrò il labbro inferiore tra i denti, mentre l'universitario ubriaco ringraziava e usciva dalla cucina, incespicando come era entrato.
A quel punto, Laney pensò che anche il secondo ragazzo se ne sarebbe andato per i fatti suoi, ma così non fu, perché quello aggirò l'isola e la raggiunse, senza però avvicinarsi troppo. Lei non riusciva ad alzare il viso. Anche se non poteva negare di essergli riconoscente, ora stava iniziando a desiderare che sparisse anche lui.
Per qualche istante, tra di loro regnò il silenzio, rotto solo dalle note che provenivano dall'altra stanza. Poi lui le domandò: -Va tutto bene?-
A quel punto, Laney si convinse a sollevare lo sguardo. In seguito, non avrebbe mai saputo spiegare che cosa provò quando i suoi occhi si posarono sulla sua figura.
La persona che ora aveva davanti era alta, molto più di lei, e slanciata. Aveva spalle larghe, gambe lunghe, una corporatura asciutta ma atletica, prestante.
Sul viso, di forma ovale, si poteva individuare qualche imperfezione: un neo solitario sotto all'occhio destro, le labbra sottili, anche se a forma di cuore, il naso tondo e le guance piene e colorite. Per concludere, i capelli, castani e lisci, gli ricadevano a ciocche sulla fronte e sopra agli occhi grandi, brillanti e allungati, dello stesso colore scuro.
Anche se indossava solo un paio di jeans e una t-shirt di cotone, sembrava appena uscito da uno dei più quotati fashion blog in circolazione.
Era bellissimo, forse il più bel ragazzo che Laney avesse mai visto. Semplicemente, era perfetto.
Rimase a fissarlo inebetita per un tempo che le parve un'eternità. C'era qualcosa di tremendamente familiare, in lui, qualcosa che non riusciva a identificare, seppure fosse lì, a portata di mano.
Anche l'altro però la stava studiando in modo strano: fermava lo sguardo prima sui suoi corti ricci bruni, poi sulle spalle, sulle labbra, sul naso e infine ricambiava il suo, di sguardo, prima di ricominciare il giro da capo.
Alla fine sgranò gli occhi, incredulo, come se gli avessero appena detto che aveva vinto alla lotteria. Si sporse in avanti e, quando parlò, lo fece a voce bassissima.
-... Laney?- sussurrò.
La ragazza spalancò la bocca, stupita. Come faceva quel tipo a conoscerla?
-Tu... come... come sai il mio nome?- balbettò.
L'altro le sorrise, un sorriso splendido, perché gli partiva dalle guance e arrivava a illuminargli le iridi, proprio come quello di un bambino. -Non ti ricordi di me?- le chiese, sbattendo le palpebre e avvicinandosi ancora. Laney, che non aveva più spazio per indietreggiare, sentì il cuore che le cadeva in fondo alla pancia.
L'ansia le stava nuovamente chiedendo il conto, con ancora maggiore insistenza, questa volta.
"Chi cavolo sei?!" avrebbe voluto dirgli, ma si trattenne, e continuò solo ad analizzare centimetro per centimetro il suo interlocutore, in cerca di una risposta. Così notò le ciglia corte e scure, la mascella squadrata, il piercing in cima all'orecchio sinistro e le unghie mangiucchiate, ma non trovò alcun indizio che potesse rivelare la sua identità.
Poi lui, forse per trarla d'impaccio, fece una cosa. Una cosa che Laney non credeva sarebbe mai veramente successa, una cosa semplice, che però le riportò alla memoria una montagna di ricordi.
Il ragazzo le mostrò il braccio. Intorno al polso portava allacciato un vecchio braccialetto di conchiglie scheggiate e perline rosso fuoco. Lo stesso vecchio braccialetto che Laney riconobbe come quello che si erano scambiati più di dieci anni prima, in riva all'oceano, lo stesso braccialetto che aveva anche lei, chiuso nell'ultimo cassetto della scrivania da chissà quanto tempo.
Non poteva crederci. Era quasi irriconoscibile.
Alzò gli occhi di scatto, sconcertata. Si trattava proprio di...
-Samuel- chiamò, senza nemmeno accorgersene.
Samuel le fece un sorriso talmente largo che Laney temette per un attimo che gli si sarebbe strappata la faccia. -Mio Dio...- le disse, portandosi una mano dietro alla nuca. -E' passato un sacco di tempo.-
-Già- replicò asciutta lei, non avendo idea di cos'altro aggiungere.
Si sentiva strana, ma non in senso positivo. Era come se qualcuno l'avesse presa di forza e messa in un grosso frullatore, per poi tirarla fuori così: disorientata, incapace di formulare un discorso di senso compiuto e per giunta conciata come un pastore protestante, con quello stupido vestito di trine che, più che un vestito, sembrava un abito talare.
In quel momento, si pentì amaramente di non essersi messa qualcosa di un po' più carino, di non aver nemmeno provato ad acconciarsi i capelli, a truccarsi o a indossare un paio di scarpe che non fossero le solite sneakers sporche e consumate.
Era solo che non credeva ne sarebbe valsa la pena, dal momento che, in genere, il modo in cui le piaceva vestire non faceva che attirare occhiatine torve e battute ironiche. Così, semplicemente, aveva smesso. Anche se, in realtà, quella non era l'unica cosa che "semplicemente aveva smesso", in quegli anni.
Forse avrebbe dovuto dirglielo?
A lui, che era diventato tanto bello, che sembrava così spigliato e disinvolto, che le sorrideva con gli occhi, come se non fosse passato nemmeno un minuto, da quando si erano separati? A lui che non sapeva più niente di lei e di cui lei non sapeva più niente?
Avrebbe dovuto dirgli che le giornate erano diventate invivibili da quando era iniziato il liceo? Che aveva scoperto che il mondo faceva schifo e aveva smesso di parlare con gli altri, di sorridere, perfino di uscire, da qualche tempo?
A lui, che chissà quali traguardi aveva raggiunto, quante cose aveva fatto e visto, che novità aveva conosciuto, in giro per il mondo... a lui, in quel momento, avrebbe dovuto dire che era stanca, che avrebbe voluto scappare via, lontano lontano, lasciare quella vita, quella città e anche quella festa?
Si ritrovò sull'orlo delle lacrime. Samuel non fiatava, sorrideva e basta. E cosa avrebbe mai dovuto dire, a un rifiuto?
-Senti- si decise infine il ragazzo, ma lei troncò la conversazione sul nascere.
-Scusa- disse. -Devo andare.- Con un movimento agile, scartò di lato, superò il ragazzo e si precipitò più veloce che poteva fuori dalla cucina, nella baraonda tremenda della sala da pranzo. Raggiunse la porta, la spalancò e si guardò alle spalle giusto il tempo necessario per confermare che non sarebbe mai riuscita a trovare Veronika, in mezzo a tutta quella marmaglia; poi uscì e richiuse la porta, diretta verso casa.
Era buio pesto, in strada. Quando fu a metà tra il proprio giardino e quello di Vera, Laney dovette fermarsi a prendere un respiro profondo per ricacciare indietro le lacrime e il magone. Non avrebbe pianto, nossignore, era già abbastanza miserabile così.
Il punto era che sapeva che quell'incontro le si sarebbe piantato nel cervello come un tarlo fastidioso, fino a roderle anche il fegato e le budella.
Perché lui aveva mantenuto la promessa ed era tornato davvero. Samuel Carson, il cugino di Vera, il suo primo amore. Forse l'unica persona che non sarebbe mai dovuta tornare.
E se fosse andato a scuola? Che fine avrebbe fatto il ricordo di quella bambina gentile e divertente, la memoria della ragazzina spensierata con cui si divertiva ad acchiappare le lucertole e a giocare a nascondino? Che fine avrebbe fatto quel poco che le restava, l'idea che qualcuno, là fuori, avrebbe ancora potuto nutrire stima e rispetto per la sua persona?
Invece Samuel avrebbe scoperto tutto, avrebbe visto ogni cosa. Avrebbe fatto anche lui quello che facevano gli altri. E sarebbe stato un miliardo di volte peggio.
A metà strada tra il proprio giardino e quello di Veronika, quella sera, Laney si sentì morire dentro ancora un po', affondare lentamente nel fango e nella melma di una situazione insostenibile.
Non aveva più nulla: dignità, speranza o qualcuno che custodisse un bel ricordo di lei.
Era finito tutto.
O almeno così credeva.
Ma si sbagliava di grosso.

 

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Capitolo 3
*** Tiny Town - 1.2 ***


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1.2

Tiny Town era un modesto centro urbano situato sulla costa del North Carolina, delimitato a levante da Engelhard e a ponente da Middle Town, diviso tra l'oceano e le coltivazioni che fiancheggiavano la statale 264.
La popolazione non superava il numero complessivo di ottomila abitanti - sebbene in estate la media si alzasse di molto - e proprio per questo si trattava di un posto tranquillo e, per certi versi, perfino bizzarro.
Grazie soprattutto all'operosità dei residenti, negli anni la cittadina era cresciuta, e ora disponeva di ogni struttura necessaria a migliorare la qualità della vita: un ospedale, una scuola per ciascuna fascia d'età, un centro commerciale, botteghe artigianali, uffici, ristoranti e chi più ne ha, più ne metta.
Laney Barnes e i suoi genitori vivevano a House's Valley, il quartiere residenziale, e precisamente in una traversa di Firmament Lane, in una casa a pianta quadrata che, identica alle altre cinque che componevano l'isolato, disponeva di due piani, muri grigi, un tetto spiovente, un giardino, un garage, uno steccato bianco e una buca delle lettere rossa.
Non si poteva negare, quindi, che Tiny Town fosse un bel posto per vivere, anche se, da qualche tempo, per una lunga serie di valide ragioni, Laney aveva iniziato a credere che non fosse il posto giusto per lei.
La ragazza avrebbe voluto discutere del problema con Veronika, che però non sembrava molto propensa a darle ascolto in quel momento, presa com'era a sciorinarle la sua lunga paternale. Quella mattina di fine Agosto, infatti, Vera si era fiondata a casa sua, decisa a farla pentire di essersela svignata, la sera precedente.
Ora si trovavano nella camera di Laney, al secondo piano, la stessa dove si erano rinchiuse a chiacchierare, a ridere e a piangere di sciocchezze, la stessa che aveva ospitato paure e sogni di anni lunghi e tutti uguali.
In un certo senso, era l'unico posto al mondo in cui Laney riusciva a riconoscersi. Si specchiava nei colori sgargianti dei poster e negli schizzi di vernice che decoravano le pareti, nei bozzetti di abiti stravaganti appesi qua e là e nella moquette verde scuro, sempre disseminata di cianfrusaglie. Scovava la propria indole sulle mensole, tra un salvadanaio a forma di décolleté stiletto e una fotografia che la ritraeva con i Maroon 5, e in quei cinque cassetti della sua scrivania, nei quali era riuscita a stipare tutti i ricordi che le facevano male al cuore. Infine, c'era il fondo del suo armadio laccato di rosso, un rifugio incantato di vestiti dalle fogge più disparate, di stoffe e tessuti, di rocchetti di filo, di aghi, ditali, fettucce, cartamodelli, pizzi, forbici e perfino di una splendida macchina per cucire, un modello nuovo che le era stato regalato per il suo quindicesimo compleanno dai suoi genitori.
Forse, il fatto che si trovassero in quel posto (Veronika sul suo letto, in piedi di fronte a lei) la stava aiutando a non sentirsi in colpa, anche se l'amica le stava facendo la predica già da una buona mezz'ora.
-"Non ti avrei lasciata sola proprio stasera"!- la scimmiottò per l'ennesima volta, mentre la ragazza si affaccendava da una parte all'altra per prenderle le misure. C'era un tacito accordo, tra di loro: ogni volta che bisognava discutere di qualcosa, bella o brutta che fosse, Laney si adoperava per confezionare qualche bel capo di vestiario a Veronika, che era sempre più che entusiasta di farle da modella. -Mi sono allontanata un attimo per andare a chiamare Samuel e tu... puff! Sparita!-
Laney le avvolse il centimetro intorno al bacino e sbuffò. -Vera, mi dispiace da morire, sul serio- disse mortificata. -Quante volte devo ripeterlo prima che tu mi creda?-
-Ma io ti credo!- le rispose piccata l'altra. -Lo so che la tua ansia non è una cosa che puoi controllare, e so anche che ti dispiace ma, Laney...- Veronika si interruppe per guardarla dritta in faccia. -Se non riesci neppure a rimanere in un posto dove nessuno ti conosce per più di dieci minuti, come pensi di superare il prossimo anno?-
Laney rimase a fissare la giovane per qualche secondo, senza avere la più pallida idea di cosa replicare. Vera aveva ragione su tutta la linea. Il nuovo anno scolastico era alle porte, e se quelle erano le premesse... beh, c'erano grossi guai in vista.
Alla fine, Vera sospirò, esasperata. -Tra una settimana parto- annunciò, categorica. -Torno al campus per il nuovo semestre. Cercherò di chiamarti tutti i giorni e di venire in città spesso, ma non ti prometto niente. Anche tu però dovrai impegnarti.-
Laney annuì, ma senza reale convinzione. -Va bene- le accordò, dopodiché riprese a misurarla con attenzione, appuntando le cifre su un foglio di carta.
Per tutta risposta, Vera roteò gli occhi teatralmente. Laney sapeva benissimo quale discorso stava per aprire e, anche se avrebbe voluto impedirlo con tutta sé stessa, non riuscì a opporsi.
Come al solito.
-Laney, devi reagire!- sbottò la ragazza, portandosi entrambe le mani ai fianchi con fare minaccioso. -Per quanto ancora hai intenzione di piangerti addosso? Credi forse che il college sia meglio di così? Beh, ho una notizia per te: non lo è per niente.- Era partita. Laney pensò che la soluzione migliore fosse quella di rimanere in silenzio, ma il suo atteggiamento remissivo sortì il solo effetto di far arrabbiare Vera ancor di più.
In seguito, si scatenò un'interminabile ramanzina su quanto fosse sbagliato il suo comportamento, sulle difficoltà che costellavano la vita e sulla crescita personale. Ma Laney era fin troppo abituata a quel tipo di situazione. Rimase impassibile per tutto il tempo, incurante degli improperi che la stavano travolgendo, fin quando Vera non si decise a tirare la stoccata finale.
-Mi stai ascoltando?!- gracchiò, senza ottenere la benché minima reazione da parte sua. Allora trasse un lungo sospiro e tacque. Scese dal letto ormai sfatto con un saltello, atterrò morbidamente sulla moquette e puntò gli occhi celesti in quelli scurissimi di Laney, seria come non mai.
Vera non era un tipo serio, non lo era mai stata. Era capace di scherzare perfino nel peggiore degli scenari, e più volte l'aveva fatto, in quegli anni, ma in quel momento sembrava che non ci fosse proprio niente da ridere.
Quando parlò, Laney fu in grado di distinguere chiaramente una nota di bruciante preoccupazione nella sua voce, e sentì un brivido risalirle la schiena.
-Tu non eri così- le disse la ragazza. -Prima che succedesse... tutto quanto, tu eri un'altra persona. Giocavi sempre, parlavi con tutti e non avevi mai paura di essere te stessa. Invece adesso...-
Per qualche istante, non si udì neppure un fiato.
Laney si sentiva uno schifo. Lo sapeva, sapeva di essere cambiata, di essersi ripiegata su sé stessa, rinchiusa, trincerata dietro a un muro di pensieri grigi e pessimisti che a volte nemmeno la facevano dormire la notte. Ma il fatto era che niente era dipeso da lei. Erano stati gli altri a decidere che era sbagliata, che era un'infame, meschina, inetta, sacrificabile, che non faceva più parte della gioventù di quella città. Che era diversa. -Non l'ho chiesto io- sibilò solo. -Non l'ho chiesto io, tutto questo.-
Non importava cosa avrebbero detto gli altri. Lei aveva imparato a proprie spese che continuare a guardare il mondo attraverso un caleidoscopio di colori brillanti, che sperare, sognare e vivere in prima linea non faceva altro che peggiorare la situazione.
Doveva sparire.
Come aveva fatto per tutti quei mesi in ospedale, doveva solo chiudere gli occhi e fare finta di non esistere, muoversi nel mondo in punta di piedi, fin quando anche quell'ultimo anno non sarebbe trascorso e lei sarebbe stata libera, finalmente, lontana da tutti e lontana da lì. Per sempre.
Era semplice.
Bastava sopportare, solo sopportare.
-Di che colore la vuoi?- chiese all'improvviso, cambiando argomento e piegandosi a prendere la lunghezza della gamba di Veronika.
La diretta interessata le scoccò un'occhiata a dir poco avvilita. -Sappi che questa nuova gonna non cambia il fatto che sono molto amareggiata. E comunque blu.-
Laney ridacchiò. Veronika era fatta così, un metro e cinquantadue di leziosità e apprensione, sapientemente miscelate a una buona dose di sfacciataggine e a un pizzico di impulsività. Per non parlare poi del fatto che, sebbene fosse di ben due anni più grande, a volte riusciva a essere capricciosa come una bambina.
Erano completamente diverse, loro due, sia dentro che fuori: Veronika era piccola, robusta di costituzione ma molto ben fatta, con lineamenti dolci, carnagione olivastra, occhi azzurro cielo e una fluente chioma di capelli biondi e lisci come spaghetti; lei, al contrario, era di statura media, di corporatura gracile, mora, riccia e pallida come un lenzuolo, con due occhioni castano scuro che sembravano quelli di una civetta.
Inoltre era molto timida, riservata, estremamente riflessiva e taciturna, specialmente con gli estranei, un po' permalosa, soprattutto sulle cose che le stavano a cuore.
Dall'esterno sarebbe potuto sembrare che non avessero proprio nulla in comune, eppure, insieme, erano una coppia perfetta, poiché l'una compensava i difetti dell'altra ed erano sempre pronte a sostenersi a vicenda.
Proprio per questo Laney sentiva tanto la mancanza di Veronika, quando era lontana da casa. Non avere nessuno che la capisse veramente, lì vicino a confortarla, la intristiva molto, ma si consolava col pensiero che presto la scuola sarebbe finita e lei avrebbe potuto raggiungere l'amica al college.
Mentre era presa in questi e altri pensieri, armeggiando di qua e di là con il centimetro, Vera le comunicò: -Comunque è inutile che continui a evitare Samuel. Frequenta il tuo stesso anno, quindi tanto vale che provi a farci amicizia prima che ricomincino le lezioni.-
Laney si paralizzò sul posto, spiazzata. Le tornò alla mente l'immagine di lui in quella cucina, il polso teso a mostrarle il braccialetto di perline e conchiglie e gli occhi che gli luccicavano come dieci anni prima.
Dieci interi anni prima.
Un'infinità di tempo.
Sapeva di aver reagito nel peggiore dei modi, la sera precedente: si era fatta prendere dal panico senza un motivo, trascinata dal sospetto che lui potesse giudicarla, senza però averne la certezza. Ma ormai era quella la sua vita, vissuta nel terrore delle azioni altrui e nell'abbandono all'idea che non ci fosse niente da fare per cambiare le cose.
E, d'altra parte, ciò che pensava sul conto di Samuel non era mutato di una virgola.
In tutta onestà, Laney era convinta che chi aveva incontrato la sera precedente non poteva essere ancora lo stesso ragazzino gentile chele regalava le caramelle per ogni ginocchio sbucciato, lo stesso che le permetteva di giocare a calcio anche se era una femmina e che le stringeva forte la mano mentre saltavano i cavalloni, giù a Starcrossed Bay.
Perché era la vita a cambiare le persone e ad allontanarle. Nel bene e nel male.
Di certo, ora che anche Samuel era cresciuto, sarebbe cambiato e sarebbe stato... diverso.
"Noi due non saremo mai più amici."
A quel pensiero, un pesante groppo le si strinse in gola, ma cercò di non darlo a vedere. A Vera però non sfuggì la sua espressione cupa. -Stai pensando che non sarete mai più amici, non è vero?- disse sicura.
"Colpita e affondata."
Laney le rivolse uno sguardo colpevole e un po' imbarazzato, ma non parlò. A volte, avere un'amica che ti conosceva meglio delle sue tasche poteva rivelarsi un problema.
-Pensi di poterlo evitare per sempre?- fece la ragazza, inquisitoria. -Alla tua destra abito io e alla tua sinistra, ora, abita lui. Sbucherà fuori all'improvviso e non potrai farci niente. Quella lì è la sua stanza, lo sai?- infierì allusiva, indicando il chiarore del giorno, oltre le tende accostate. Laney alzò lo sguardo solo per un istante, per dare un'occhiata alle imposte. Sulla parete di fondo della sua stanza si apriva una grande porta-finestra, che dava su un balconcino laterale. Dall'altra parte, a pochissima distanza, un altro balconcino e una porta-finestra identici ai suoi bordavano una camera con le veneziane abbassate.
Allora quella era la stanza di Samuel... proprio dirimpetto alla sua.
Laney tornò di corsa a concentrarsi sulle misure.
Sapeva che Vera diceva la verità. Anche la famiglia di Samuel aveva sempre abitato nel loro isolato, proprio accanto ai Barnes (e di qui quella ridicola battuta di suo padre sul fatto che fossero "circondati da Carson"),per cui non c'era proprio verso che non si incontrassero, per un motivo o per un altro.
In quel momento, però, Laney non voleva pensarci: si sarebbe goduta in santa pace quegli ultimi giorni di vacanza, prima di ricominciare la scuola, e avrebbe finto di non sapere neppure chi fosse, Samuel Carson. Inoltre, a conti fatti, il suo ritorno in città non cambiava proprio un bel niente.
"Solo una persona in più da cui guardarsi le spalle."
Vera si passò una mano tra le ciocche bionde e ripiombò a sedere sul letto. -Samuel ti piaceva un sacco, quando eri piccola- commentò. -A volte credevo che volessi più bene a lui che a me. Lo seguivi ovunque, gli facevi un sacco di regali... vi siete anche promessi di sposarvi, te lo ricordi?- Ora, sulle sue labbra, si era disegnato un sorrisino divertito.
Laney si sentì avvampare. Si voltò di scatto e raccolse un largo quadrato di satin blu elettrico che aveva abbandonato per terra, dopodiché si armò di matita, approdò alla scrivania e iniziò a tracciare lunghe linee guida sul tessuto. -Piantala, Vera- borbottò. -Eravamo solo bambini.-
L'altra prese a sbattere rumorosamente i piedi a terra. -Vedi? Sei diventata una noia mortale!- si lagnò.
-E tu invece sei diventata una cornacchia capricciosa e insolente-rimbeccò Laney, iniziando a tagliuzzare qui e lì con le fobici da sarta. C'era un quesito, però, che l'assillava dalla sera precedente, dal momento in cui aveva riconosciuto il ragazzo. Così, si fece coraggio e parlò. -Vera, posso farti una domanda?-
-Spara- rispose l'altra, ormai abbandonata tra le lenzuola, proprio come fosse a casa sua.
Laney smise di armeggiare con le forbici e si voltò a guardarla. -Perché è tornato?- domandò.
Trascorse qualche istante.
Veronika sembrava intenta a riflettere, ma quel modo tipico che aveva di arricciare il naso suggerì a Laney che stesse solo valutando se rivelarle o meno la risposta. Infine, però, cedette. -I suoi si stanno separando- spiegò. -Non dirgli che te l'ho detto. Annika sta completando la specialistica, quindi resterà con suo padre ancora per un po', mentre Samuel ha deciso di seguire sua madre qui.-
-Oh- fece solo Laney. Ricordava i genitori di Samuel, quei signori distinti e simpatici che le avevano offerto una quantità incalcolabile di merende e succhi di frutta freschi. E ricordava anche quella volta che avevano litigato e Samuel si era intrufolato nel loro giardino per nascondersi con lei nella casetta degli attrezzi.
Come se qualcosa fosse crollato, si sentì improvvisamente vuota.
-Lui come l'ha presa?- domandò d'impulso.
-Bene, credo- rispose solo Vera. -Anche se, a dirla tutta, non ne abbiamo parlato molto.-
A quelle parole, Laney non disse altro. Rimase immobile a riflettere per qualche secondo ancora, valutando tante, troppe cose e come queste cambiavano nel tempo.
Poi si morse il labbro inferiore, tornò composta sul posto e iniziò a cucire.

Poi si morse il labbro inferiore, tornò composta sul posto e iniziò a cucire
 

Mancava poco meno di una settimana all'inizio delle lezioni. Edward e Penelope Barnes non sapevano più come comportarsi con la figlia.
Laney era una mina vagante: schizzava da una parte all'altra della casa, mangiava così poco da far paventare uno svenimento imminente e non riusciva neppure a dormire perché, ogni volta che chiudeva gli occhi, nella testa le rimbombava la risata crudele di Tyler.
L'ansia si era fatta ingestibile, e Laney stava perdendo rapidamente lucidità.
Non era pronta.
Come se non bastasse, anche Veronika se n'era andata. Laney credeva che Samuel avrebbe salutato sua cugina la mattina stessa della dipartita, ma, quando era arrivato il momento, di lui nessuna traccia.
A prelevare Vera era passato Peter. Il poveretto aveva dovuto attendere una mezz'ora buona, tra pianti isterici e lamenti di ogni genere, prima di caricare le valigie della fidanzata nel bagagliaio della propria Ford Fiesta e partire in quarta, diretto al Nowhere college.
Quanto alla madre di Veronika, Cindy Carson, sembrava che le fosse passato sopra un treno: armata di fazzolettini per asciugarsi gli occhi e capelli biondi cotonatissimi, la donna aveva ricoperto sua figlia di baci, raccomandazioni e dolcetti ipercalorici, neanche stesse partendo per la guerra.
Per parte sua, Laney aveva recapitato la famosa gonna blu, e Vera le aveva promesso che le avrebbe inviato una foto del capo indossato al più presto.
A distanza di tre giorni, però, di quella foto non si era vista neppure l'ombra, e ora una brutta sensazione di spaesamento si era impossessata della ragazza: per quanto cercasse di mantenersi calma, non sapeva più come gestire tutte le domande che, nella sua testa, continuavano a pestarsi i piedi a vicenda.
In preda all'agitazione, quel pomeriggio Laney non aveva fatto altro che marciare su e giù per il salone, instancabile, senza fermarsi neppure per sorseggiare il tè che le aveva offerto sua madre o per una partita a scacchi con suo padre.
-Laney,- aveva tuonato alla fine Penelope Barnes, completamente fuori dai gangheri -se proprio non hai niente di meglio da fare che scavare il pavimento a furia di camminare, di là c'è la spazzatura che aspetta di essere buttata!- E, detto questo, l'aveva caricata di sacchi compost straripanti di rifiuti puzzolenti e l'aveva spedita sul vialetto con un bel calcio nel sedere.
Fuori, l'isolato era immerso nel silenzio. Una debole brezza alitava sull'erba rinsecchita delle aiuole e il pallido sole dell'ultimo pomeriggio bagnava strade e abitazioni, senza però scaldarle veramente.
A Tiny Town, l'estate stava morendo.
In quel momento, di fronte alla porta della sua stessa casa, Laney si sentì persa, sfibrata da tutte le nottate insonni e svuotata di ogni forza di volontà. Era stufa, era triste ed era arrabbiata: ora che Vera se ne era andata, lei era rimasta nuovamente da sola. Non c'era nessuno che la capisse fino in fondo, nessuno che sapesse come prenderla, in quel luogo. Neppure i suoi genitori sembravano mostrarle un po' di comprensione.
Per un attimo si immaginò minuscola, piccola abbastanza da risultare invisibile all'occhio umano, da non essere notata mentre scappava via, lontano lontano, dove i problemi non esistevano e le cose andavano sempre per il verso giusto.
E poi eccola di nuovo lì, davanti a quella porta, soffocata dal tanfo dell'immondizia e dalla sua stessa vita. Avrebbe voluto che quel maledetto anno scolastico non iniziasse mai.
"Devi reagire!" le aveva detto Veronika. Ma la verità era che doveva resistere, stringere i denti e fare finta di nulla.
"Ancora per un po'."
Appellandosi a un'energia che non sapeva di possedere, Laney riuscì a trascinarsi fino alla fine del patio e poi in strada, borbottando come una pentola di fagioli. Percorse il marciapiede a testa bassa, più svelta che poteva, le lattine vuote che tintinnavano per ogni passo che avanzava.
Ma quando si trovò vicina ai cassonetti, qualcosa la sorprese.
O, per meglio dire, qualcuno.

 

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Capitolo 4
*** Tiny Town - 1.3 ***


  

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1.3


Samuel era proprio di fronte a lei.
Laney si pietrificò. Sentiva la testa leggera, uno strano formicolio che le tormentava le mani e la bocca dello stomaco.
Il ragazzo non si era neppure accorto della sua presenza; armeggiava goffamente con alcune bottiglie di plastica, cercando di incastrarle nel bidone stracolmo di pattume, mentre reggeva una busta biodegradabile.
Indossava vestiti semplici: i pantaloni grigi di una tuta, una t-shirt bianca e sneakers consumate dello stesso colore. I capelli, castano ramato alla luce del giorno, gli ricadevano a ciocche disordinate sulla fronte e intorno alle tempie, conferendogli un'aria sbarazzina e disinvolta che gli calzava a pennello.
Quando ebbe finito, indietreggiò e rivolse il viso al cielo. Sembrava che stesse riflettendo, ma Laney non c'avrebbe giurato. Dopotutto, non lo conosceva più.
"Siamo due perfetti estranei."
Quel pensiero le diede i brividi. Per qualche ragione, il ricordo del ragazzino con le ginocchia nodose e le capannelle tra i denti stava svanendo, ingoiato dalla proiezione di un nuovo Samuel, cresciuto, cambiato, diverso, e parte di un mondo agli antipodi del suo.
Laney assaporò l'amaro della sconfitta in fondo alla gola.
Samuel, Veronika... tutti gli altri stavano andando avanti, lottando per i propri sogni passo dopo passo, conquista dopo conquista, mentre lei se ne stava lì, immobile in fondo alla coda, a osservare gli altri che diventavano sempre più piccoli, in lontananza, fino a scomparire.
Eppure Laney aveva tentato la via più di una volta. Si era rimboccata le maniche, aveva stretto i denti e intrapreso il cammino, ma ormai il conto di sgambetti, spintoni e sabotaggi si era allungato troppo perché potesse tenerlo. Era tornata indietro miliardi di volte, e miliardi di volte aveva deciso di ricominciare da capo. 
E poi, alla fine, stremata dalla fatica e logorata dal dolore, si era arresa.
Che senso aveva affannarsi, se poi veniva sempre rispedita all'inizio? Per quale ragione si ostinava a lottare, se aveva già perso in partenza? 
Laney non credeva che avrebbe potuto farcela. 
E quella era la sua pillola, disgustosa da ingollare, impossibile da addolcire, pastosa, cruda, rivoltante: la pura verità.
Mentre era presa in queste e altre riflessioni, però, accadde qualcosa: Samuel la vide. Quasi fosse riuscito a leggerle nella mente, si voltò nella sua direzione e la squadrò dalla testa ai piedi, come fosse stata un'apparizione mistica.
Laney smise di respirare. Sentì il cuore caderle in fondo allo stomaco, pesante come un blocco di granito. Sarebbe morta di lì a poco, se lo sentiva, e forse non sarebbe stata neppure una grande tragedia. Dopotutto, la sua vita non era stata altro che grigiore e sconforto, negli ultimi anni.
Samuel continuava a fissarla dalla distanza, e sembrava che neppure lui si aspettasse di incontrarla: la sua espressione era un miscuglio di sorpresa, confusione e diffidenza.
Come biasimarlo? Era lei quella che l'aveva piantato in asso alla festa di Vera, quasi due settimane prima, senza che avesse fatto nulla per meritarselo.
Ora che si ritrovavano faccia a faccia, che cosa avrebbe potuto dire a sua discolpa? Samuel non avrebbe mai, mai capito i motivi che si celavano dietro al suo comportamento. Ai suoi occhi, doveva apparire solo una stupida ragazzina, maleducata e per giunta ridicola.
"Hai rovinato tutto" si mortificò. "Hai cancellato ogni possibilità che ti restava."
Eppure, immerso nella luce morente dell'ennesima estate sprecata, Samuel non le sembrava altro che un sogno, una visione irreale.
Magari si stava immaginando tutto. Forse lui non era veramente lì e non la stava nemmeno guardando, in piedi davanti a quella fila di cassonetti puzzolenti.
Trascorsero attimi che a Laney parvero secoli interi, spesi l'uno negli occhi dell'altra. Poi lui parlò. Disse quattro lettere, una sola parola, la più semplice e naturale del mondo. -Ciao.-
Ma a Laney sarebbe bastato anche molto di meno per avere un crollo di nervi. Riscuotendosi dallo stato di torpore in cui era caduta, la ragazza sobbalzò, schizzò all'indietro e lasciò andare tutte le buste che aveva con sé.
Con un gran fracasso, il contenuto dei sacchi compost si riversò quasi interamente al suolo: lattine vuote di pelati rotolarono via per il marciapiede, fazzoletti svolazzanti e involucri di cartone scivolarono a destra e a manca e tutto intorno a lei diventò un cimitero di bottiglie e contenitori di plastica usata.
Solo il cartoccio dei rifiuti organici, spiaccicato a terra con un sonoro splat!, sembrava essere stato mosso a pietà, dal momento che almeno non si era disfatto in mille scarti disgustosi.
Laney era paralizzata. La sua frequenza cardiaca era alle stelle e un fischio sordo le sibilava nei timpani.
Cosa aveva appena combinato? Avrebbe voluto strillare fino a sputare i polmoni, strapparsi la pelle, scappare via a gambe levate. Invece rimase inebetita dove si trovava, lo sguardo fisso sullo spettacolo raccapricciante di tutta quell'immondizia che giaceva sull'asfalto.
Non aveva neppure il coraggio di guardare Samuel. Dov'era? Si stava godendo la scena? L'avrebbe presa in giro?
Che fare?
CHE FARE?!
"Raccoglila" le intimò il suo cervello con l'ultimo briciolo di razionalità conservato. "Inginocchiati e raccoglila."
E fu proprio quello che Laney fece.
Trattenendo il respiro, la ragazza si accartocciò su sé stessa, sperando quasi di diventare invisibile mentre compiva quell'operazione. Dopodiché, con le mani che tremavano come foglie al vento, si portò i ricci dietro alle orecchie e iniziò a ficcare rifiuti alla rinfusa nel primo sacco compost che le capitò a tiro.
"Perché a me?" si chiese. "Che cosa ho fatto per meritare tutto questo?"
La sua gola, secca e riarsa dall'afa, ora era ingombrata da un groppo grosso e doloroso. Non poteva piangere. Nossignore, era fuori discussione. Avrebbe soltanto aggravato la sua posizione già irrecuperabile.
Tirò su col naso e si sforzò così tanto di trattenere le lacrime che le venne il mal di testa.
Fu proprio allora che fu colta di sorpresa una seconda volta. Laney udì lo scalpiccio di alcuni passi. Passi lenti e controllati, passi regolari che avanzavano nella sua direzione.
Alzò lo sguardo: Samuel si stava avvicinando, e sul suo viso non c'era traccia di disprezzo, scherno o ripugnanza. L'unica cosa che Laney notò fu la cauta circospezione dei suoi movimenti, quasi stesse cercando di accostare un animale spaurito.
In una frazione di secondo, la ragazza passò dal terrore più puro all'imbarazzo più completo. Era così che lui la vedeva? Gli ricordava una bestia selvatica?
"Uno scarafaggio, piuttosto."
"Perché sei così patetica?"  
Aveva tanto caldo che sarebbe potuta svenire da un momento all'altro.
Pochi minuti prima, quando lui l'aveva salutata, Laney non gli aveva neppure risposto. Forse, nonostante l'apparenza, aveva intenzione di prendersi gioco di lei? Perché avvicinarsi, altrimenti?
In ogni caso, dì lì a poco l'avrebbe scoperto: Samuel l'aveva raggiunta.
Il ragazzo si piegò sulle ginocchia e si rannicchiò di fronte a lei, poi afferrò uno dei sacchi che le erano scivolati di mano e iniziò a raccattare bottiglie di plastica, scatolette di tonno e confezioni di yogurt vuote, quasi lo facesse tutti i giorni.
Per la prima volta dopo tanto tempo, la mente di Laney si svuotò, dominata dalla sola, totale e completa incredulità. Spalancò la bocca, sgranò gli occhi, smise perfino di respirare.
Samuel la stava aiutando, disinvolto e rilassato, senza battere ciglio.
Allora qualcosa vibrò, una corda del suo animo che non ricordava neppure di possedere. Era un'emozione forte ma... positiva, piacevole come una carezza fra i capelli, simile alla più genuina soddisfazione.
Era gratitudine. Laney si sentì grata, immensamente riconoscente. E anche un po' spaesata.
Perché?
Che cosa aveva spinto Samuel ad aiutarla? Gli aveva fatto pena? Tutto ciò che la ragazza riusciva a fare era fissarlo in silenzio, impietrita dallo stupore.
Ma quando anche Samuel tentò di rubarle un'occhiata furtiva, i loro sguardi si incontrarono e, per un istante, il tempo si fermò.
Gli occhi di lui, due lunghe lame luccicanti infossate nelle sue orbite, riflettevano gli ultimi raggi solari in modo incantevole.
Laney riusciva ancora a specchiarsi, a distinguere le pagliuzze dorate immerse nelle sue iridi e a decifrare i messaggi sottesi a ogni sua singola ruga d'espressione. Ipnotizzata, analizzò con minuzia i suoi lineamenti armonici, la pelle olivastra e i capelli, sottili e lucenti come fili di seta scura.
Nessuno dei due osò muoversi per attimi interminabili, trafitti, piantati sul posto.
Laney si chiese più volte se anche lui stesse facendo lo stesso, se stesse pensando che era diversa.
"Chissà se mi trova bella?"
A quel pensiero, si sentì annegare nella vergogna, ma non emise neppure un fiato.
Poi, a un tratto, vide Samuel avvampare e abbassare in fretta e furia il capo, quasi fosse stato scottato.
Laney si sbrigò a imitarlo. Perché accidenti si era messa a fissarlo con tanta insistenza? "Penserà che sei strana" le ricordò severa la sua coscienza.
-Anche tu sei stata spedita a buttare la spazzatura?- le chiese all'improvviso Samuel.
Con un riflesso involontario, Laney tornò a guardarlo. Ora era tutto preso a sistemare involucri in plexiglas e bottiglie vuote di acqua tonica, ma aveva ancora le guance arrossate.
Laney capì che stava cercando di allentare la tensione, quindi si decise a rispondere.
-- disse, cercando di ostentare una sicurezza che non possedeva, ma non appena udì la propria voce, desiderò ardentemente sprofondare nel sottosuolo.
"Stridula come un fischietto rotto."
Decise che la cosa migliore sarebbe stata tacere per il resto dell'eternità e fare in modo di svignarsela il prima possibile, così riprese a sistemare le ultime tracce del disastro che aveva combinato.
Samuel, tuttavia, non si arrese. -È incredibile- aggiunse ancora. -Ci trattano come schiavi.-
Laney ebbe un mancamento. "E adesso?" pensò. Non aveva idea di cosa avrebbe dovuto rispondere per non sembrare una completa imbranata. Come si esprimevano le persone normali in certe occasioni? Di cosa parlavano? Perché le relazioni sociali dovevano essere così difficili?
Ma proprio quando aveva iniziato a passare in rassegna una lunga serie di colorite imprecazioni mentali, Samuel si allungò verso di lei e le sfilò di mano il sacco compost ormai straripante di spazzatura. Dunque si alzò in piedi, si avvicinò ai cassonetti e, in un gran trambusto di latta e plastica, gettò via tutto quanto.
Non appena si accorse di ciò che lui aveva fatto, Laney si affrettò a raccogliere da terra il cartoccio dei rifiuti organici e a gettarlo a sua volta nella pattumiera.
Ora si trovavano sul bordo del marciapiede, in piedi uno di fianco all'altra, ma nessuno dei due accennava a dire una parola.
L'imbarazzo era palpabile; Laney riusciva a indovinare che anche Samuel era teso dalla postura rigida e dall'espressione contrita sul suo viso, completamente diversa da quella che le aveva mostrato alla festa, quando l'aveva riconosciuta.
Una fitta di dispiacere le calciò lo sterno. In fin dei conti, era lei il problema: Samuel si era mostrato gentilissimo, e per tutta risposta lei non aveva fatto altro che trattarlo con avversione. Continuava a dimenticare che lui non sapeva nulla delle sue cicatrici, nulla dei suoi incubi, nulla della sua insopportabile condizione.
Ma allora... perché non fingere che gli anni non fossero mai trascorsi? Non avrebbe potuto diventare un fantasma del passato? Non avrebbe potuto, solo per un attimo, dimenticare?
Prendendo coraggio, Laney si impose di non abbassare lo sguardo, né il tono della voce, mentre pronunciava queste parole: -Grazie. Dico s-sul serio.-
Si sentì assalire dall'agitazione, mentre Samuel si voltava verso di lei. Che cosa le avrebbe risposto?
Ma proprio mentre Laney attendeva di scorgere il segno della repulsione, o perfino dell'odio, sul volto di Samuel si aprì uno splendido sorriso.
Fu solo un istante, ma Laney rivide lo stesso ragazzino che l'aveva lasciata barare un miliardo di volte a Poker, che le aveva regalato un bellissimo pupazzo di Buzz Lightyear, nonostante fosse il suo preferito, e che aveva giurato di non essersi fatto niente quando era caduto dalla bicicletta, giù per la discesa di Hollow Churchyard.
Proprio lo stesso, anche se ora era tutto diverso. -Non c'è di che- le disse.
Laney si sentì inspiegabilmente leggera, come se un gigantesco masso le fosse rotolato via dal petto. Ma anche... irrequieta. Forse era l'opprimente calura estiva, o forse era la sola presenza di lui a destabilizzarla. In entrambi i casi, la compagnia di Samuel le stava facendo un effetto alquanto bizzarro: di punto in bianco,Laney fu presa da un'incontenibile smania di parlare.
Avrebbe voluto raccontargli ogni cosa e chiedergli altrettanto, chiacchierare fino a sentire la bocca asciutta, fare battutine perfide sulle loro conoscenze comuni e salutarlo, alla sera, sentendo una punta di tristezza pizzicarle la pancia come un insetto fastidioso.
Non l'avrebbe mai ammesso, ma da quando aveva rivisto Samuel, una strana fantasia aveva cominciato a farsi strada nella mente di Laney. C'era la possibilità, anche se remota e improbabile, che le cose andassero diversamente? Sarebbe mai potuto esistere un universo in cui aveva un amico?
-Samuel- chiamò, agendo d'impulso, senza pensare a nessuna delle sue paure.
Samuel si voltò e la guardò sorpreso, ma rimase in ascolto.
-Io, ecco... mi piacerebbe molto che noi...-
Ma una grossa risata sguaiata riecheggiò per la strada, riportandola di colpo alla realtà. Una risata orribile, che Laney conosceva fin troppo bene e che associava ad alcuni dei momenti più brutti della sua vita.
Il suo corpo reagì in maniera automatica, fulminato sul posto. Sentiva che il respiro iniziava di nuovo a mancarle, ma questa volta non si trattava di ansia o di angoscia, bensì di vero e proprio terrore.
Laney vide gli occhi di Samuel scorrere sul suo viso, poi superarla e fissarsi su qualcuno alle sue spalle. 
-Oh?- fece, inclinando di lato il collo. -Ci sono Tyler e i suoi amici.-
Quella semplice affermazione fu sufficiente a spedire una scarica di brividi attraverso di lei. Il sudore iniziò a colarle a rivoli lungo schiena e tempie, le mani le tremarono così forte che fu costretta a stringerle a pugno per controllarne le mozioni. Ma il peggio doveva ancor venire, lo sapeva bene.
Samuel non la guardava più, ora. Osservava invece la fine della strada, dietro di lei, e sorrideva.
"Scappa!" gridò il suo cervello. "Lui è con loro. Corri finché sei in tempo!"
Ma allora perché l'aveva aiutata, poco prima? Perché continuava a trattarla con quella gentilezza inaudita?
"Forse non sa che...?"
Laney non ebbe neppure il tempo di concludere quel pensiero: da un momento all'altro, l'uragano Tyler le piombò addosso. Anche se si trattava solo di un piccolo assaggio di ciò che l'attendeva a scuola, bastò a farla sentire uno schifo.
-Hey, Samuel! Come va?- urlò il ragazzo dall'altra parte della strada. Laney, che gli dava le spalle, non poteva vederlo, ma riuscì a immaginare vividamente il suo faccione squadrato deformato in un ghigno malefico. -Che ci fai con la spazzatura?-
Alla battuta di Tyler seguirono scrosci incontrollati di risa.
Laney non batté ciglio, fin troppo abituata a quel genere di trattamento, ma si sentì una grandissima imbecille. Come aveva potuto anche solo sperare che sarebbe cambiato qualcosa? Aveva davvero creduto di poter rimanere in pace? Stupida, stupida ragazzina.
Quando fu sul punto di girare i tacchi e tornarsene a casa, però, un dettaglio la colpì.
Samuel stava ancora fissando Tyler e il suo branco, sulla carreggiata opposta, ma ora non sorrideva più. Le sue labbra, al contrario, si erano tirate in una mezzaluna dura e infastidita. -Cosa hai detto? Non ho capito- riecheggiò per tutto l'isolato.
Per qualche istante, un pensiero le balenò nella mente: se Samuel si fosse unito a tutti gli altri, lei avrebbe potuto accettarlo. Si era già abituata all'idea, l'aveva focalizzata, maneggiata, assaporata fino a farla sedimentare, come un relitto, nei recessi della sua psiche.
Ma se, per causa sua, il ragazzo fosse diventato uguale a lei, se fosse stato risucchiato nella stessa spirale di dolore e distruzione, deriso, ripudiato da tutti, allora Laney sarebbe arrivata a detestarsi, a odiare sé stessa con ogni atomo del proprio corpo. E questo non poteva permetterlo.
-Scusa- farfugliò frettolosamente, gli occhi fissi tra le crepe dell'asfalto. -D-devo andare.-
E, detto questo, ruotò sul posto e si fiondò via, veloce come un razzo, diretta verso casa.
La distanza che la separava dal vialetto era breve, ma Laney fu comunque costretta ad annullare ogni stimolo esterno, lungo il tragitto: ignorò le risatine canzonatorie di Tyler, la nausea, la paura stringente che le gravata addosso e, infine, anche la voce di Samuel che chiamava: "Laney!", mentre lei si allontanava a grandi falcate.
Non poteva trascinarlo nel suo stesso ghetto, non si sarebbe voltata. Che la odiasse, piuttosto, non le importava.
Quando fu finalmente di fronte alla porta di casa, Laney non esitò un istante a spalancarla e a scivolarvi attraverso. Poi, dopo che si fu chiusa dentro, consapevole di essere al sicuro, si lasciò andare a un lungo e sofferto respiro di sollievo.
Ora era al riparo dal resto del mondo. Tyler, Samuel, tutti i suoi problemi erano rimasti dall'altra parte della soglia, non avrebbero potuto raggiungerla in alcun modo, barricata com'era. Ma era solo questione di tempo: qualche altro giorno, una manciata di ore, poi sarebbe stata costretta ad affrontarli.
Laney sollevò piano gli occhi. Suo padre, seduto sul divano, la scrutava preoccupato.
"Lo so, papà" pensò. "Lo so."

ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Ciao, cutipies!
1) Come state?
2) Ma quante pare mentali si fa Laney???
Un bacione. <3
Sayami98.
 

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Capitolo 5
*** Tiny Town - 1.4 ***


 

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1.4

 

La Turnips era l'istituto scolastico superiore di Tiny Town. Si ergeva nel bel mezzo di New Commerce, il quartiere mercantile, e per la precisione a metà tra Cross road e April lane, proprio davanti alla pasticceria dei Wells, che vantava i cookies più buoni di tutta la città.

L'edificio, un casermone basso e largo, tinteggiato di grigio e mitragliato da finestrelle, era immerso in un grande giardino sempre curato, circondato da un recinto in ferro battuto, e ospitava le sue classi su due piani distinti.
O, almeno, questo era ciò che Samuel ricordava. Difatti, riaffacciandosi all'entrata dopo tutto quel tempo, si accorgeva di quante cose fossero cambiate. Ora un lungo viale alberato conduceva all'ingresso della scuola, che nel frattempo era stata ridipinta di una sfumatura azzurrognola. Il giardino che circondava il complesso era rimasto spazioso, ma gran parte delle aiuole erano state sostituite da ampie oasi di sterrato, munite di panche e tavoli di legno per sedersi.
A ogni modo, i cambiamenti che avevano investito la Turnips non lo turbarono più di tanto: quello era uno dei pochi posti, in città, che meno aveva frequentato, prima di andarsene.
A pensarci bene, da quando era tornato, Samuel non aveva fatto altro che lasciarsi trasportare dalla nostalgia ogni qual volta ne avesse avuta l'occasione: un momento attraversava l'ingresso e si ricordava di una lite furiosa con Annika, quello dopo era in giardino a rammentare di quando suo padre gli insegnava a falciare il prato, e poi, una volta in strada, guardava la casa dei Barnes, sulla destra, e subito, vivido e ridente, gli riaffiorava alla memoria il viso di...
-Samuel, tu cosa ne pensi?-
Samuel sussultò. -Eh? Come?- disse, spaesato. Tanto assorto nei suoi pensieri, aveva perso completamente il filo del discorso. Si voltò a guardare James, in attesa che ripetesse quanto era appena stato detto, ma le sue speranze furono disattese. Il ragazzo lo fissava accigliato, i capelli celestini ritti come spilli in cima alla testa piatta.
-Io...- annaspò. -Qual era la domanda?-
Il suo interlocutore diede cenni di estremo disappunto: sbuffò e gettò gli occhi al cielo, ciancicando vaghi borbottii di protesta.
Alicia, al suo fianco, ridacchiò.
Crescendo, Alicia Scott e James Brisby erano cambiati a tal punto punto che, quando Samuel li aveva rivisti dopo il suo ritorno, aveva stentato a riconoscerli. Alicia, che era stata una bimba mingherlina coperta di treccine svolazzanti, si era trasformata in una bellissima ragazza, alta e formosa, con una catasta corvina e fitta di ricci afro e un sorriso a dir poco smagliante. Come se non bastasse, la sua pelle ambrata si era fatta tanto lucente da sembrare oro liquido, alla luce del sole.
James, al contrario, non era cresciuto molto ed era più basso di Alicia, ma non sarebbe potuto essere più diverso dal ragazzino malaticcio che dimorava nelle memorie di Samuel. Infatti, oltre a qualche chilo in più e al bel colorito rosato, James aveva acquistato anche un amore sconfinato per le tinture a ossigeno, e ora i suoi capelli, anche se un po' sfibrati, erano sempre un trionfo di toni vivaci. Unite ai tratti delicati, quasi efebici, del suo viso, e agli occhietti turchini, queste caratteristiche lo facevano sembrare il folletto di un bel libro di fiabe.
-È ridicolo- tornò alla carica Alicia, decisa a mettere fine al discorso una volta per tutte. -Voglio dire, di certo è molto divertente, ma si tratta comunque di speculazioni infondate. Il mio oroscopo ieri diceva che avrei riscosso una somma ingente di denaro. Be', guardami: ti sembro una che ha vinto alla lotteria?-
James scoccò ad Alicia un'occhiata tremenda. -Conoscendoti, non avrai neppure provato a comprare il biglietto!- ribatté inviperito. -Tanto per farti un esempio, l'oroscopo del Cancro ci ha preso in pieno: Venere è entrato nel segno e... puf! Ieri Tim mi ha scritto.-
Alicia rise di nuovo, guadagnandosi una seconda, rabbiosissima occhiata da parte di James. -Tim ti ha scritto perché gli piaci, non di certo perché glie lo ha detto Venere.-
-Ah!- sbuffò sprezzante l'altro. -Un bel giorno, l'oroscopo ti salverà la pelle, e allora farai poco la scettica, cara mia- concluse in tono minaccioso.
Samuel non riuscì a trattenere un singhiozzo divertito. Quando bisticciavano, quei due erano esilaranti. Non avrebbe mai pensato che sarebbe riuscito a riallacciare i rapporti tanto facilmente, una volta rietrato in città, ma con Alicia e James era stato facile come bere un bicchier d'acqua.
Eppure, una persona ancora continuava a evitarlo...
-Anche tu sei convinto che siano scemenze scaramantiche?- lo richiamò nuovamente James, sempre più inalberato. I suoi occhietti chiari, da dietro alle lenti degli occhiali da vista, erano seri come non mai.
James aveva una grande passione per tutto quello che riguardava gli astri e i flussi di energia, e più volte, da quando si erano rivisti, aveva ribadito che gli sarebbe piaciuto diventare lui stesso astrologo, un giorno. Era ovvio che la faccenda gli stesse a cuore, pensò benevolo Samuel.
-Non stavo ridendo di te- si affrettò a chiarire, alzando le mani in segno di resa. -Ma voi due siete uno spasso quando litigate.-
Alicia e James lo fissarono per qualche istante, dopodiché si scambiarono uno sguardo un po' perplesso. Infine, sorrisero.
-Grazie- squillò allegro James, puntando verso l'ingresso della Turnips. I tre vi approdarono, Samuel spalancò la porta e lasciò che gli altri entrassero per primi.
Nell'atrio brulicante di studenti, lunghe file di armadietti blu notte erano addossate alle pareti giallo canarino. La luce entrava a cascate dai numerosi lucernari, ma l'ambiente rimaneva sempre un po' in ombra. Come ogni scuola che si rispetti, l'aria sapeva di libri, candeggina e polvere, pervasa da un incessante mormorio di sottofondo, come il ronzare di uno sciame di vespe.
Non appena fu dentro, Samuel avvertì addosso una certa pesantezza. Si accorse che molti studenti avevano iniziato a scrutarlo di sottecchi.
Tiny Town era un piccolo centro e di rado ospitava nuovi arrivati. La Turnips era l'unico istituto superiore in città, per cui era ragionevole che molti si interrogassero sulla sua presenza.
Tuttavia, poiché Samuel aveva vissuto gli ultimi dieci anni in grandi metropoli, tra frotte di sconosciuti che non badavano a lui, fu alquanto infastidito da quel trattamento: c'era chi lo squadrava in silenzio, chi lo ispezionava meticolosamente, confabulando con il vicino, chi ad occhiatine languide accompagnava insopportabili risatine isteriche.
Dato il clamore che il suo arrivo sembrava aver suscitato, si domandò più volte se sarebbe stato etichettato come "il ragazzo nuovo" o come "quello asiatico", ma quest'idea scivolò presto via dalla sua mente, non appena vide che James e Alicia non stavano dando più di tanta importanza alla cosa. A dire il vero, sembrava proprio che non si fossero accorti di nulla.
-Allora,- cominciò Alicia in tono pratico -dove hanno detto che devi andare?-
-In segreteria- rispose lui. -Devono darmi dei documenti e farmi vedere la scuola.-
L'altra fece un cenno di assenso. -Molto bene- disse. -Allora ci vediamo più tardi. La segreteria è in fondo al corridoio, prima porta a destra. Se hai bisogno di noi, siamo...-
Ma Alicia fu interrotta dalla voce prepotente di qualcuno. -Samuel!-chiamò. -Benvenuto! Primo giorno, eh?-
Samuel alzò lo sguardo. Dall'altra parte della stanza, in piedi accanto all'entrata, Tyler torreggiava in tutta la sua stazza, mani in tasca e mento in fuori. Era circondato da un capannello di ragazzi chiassosi, tutti più bassi di lui, e al suo fianco ancheggiava una graziosa ragazza bionda dai grandi occhi color nocciola.
A dirla tutta, Tyler Grint non gli era molto simpatico: era un tipo spavaldo, spaccone, e Samuel aveva l'impressione che fosse anche un po' tonto. Tuttavia, da quando era arrivato, Tyler era stato sempre gentile con lui, e Samuel aveva ricambiato con altrettanta cortesia.
Dopotutto, erano stati buoni amici, un tempo.
-Già- rispose laconico, mettendo su un sorriso di circostanza.
-Grandioso- disse Tyler, facendogli l'occhiolino. -Se ti va, passa al nostro tavolo oggi, all'ora di pranzo.
Samuel annuì. Tyler smise di prestargli attenzione e tornò a concentrarsi sul suo crocchio di amici.
James, al suo fianco, si schiarì la voce e si leccò le labbra. Si era fatto piccolo e ingobbito, schiacciato contro uno degli armadietti alle loro spalle. -Tu... parli con Tyler?- gli domandò con voce esile.
Samuel si voltò verso di lui, ma il ragazzo non ricambiò il suo sguardo. Anche Alicia sembrava a disagio.
Come un fulmine a ciel sereno, un'immagine gli attraversò la mente. Rivide una ragazza tremante nella luce del tramonto, sul suo viso l'ombra del terrore più puro.
Laney.
"Scusa, devo andare" aveva detto, prima di scappare via a gambe levate per la seconda volta.
Samuel continuava a rimuginarci da giorni. Ripercorreva ogni istante, ogni gesto, ogni parola. Aveva fatto qualcosa di sbagliato? L'aveva offesa senza rendersene conto?
Era giunto alla conclusione che forse Laney era cambiata, che non era più la stessa bambina solare di dieci anni prima, che non sarebbe più stata disposta a offrirgli la sua amicizia, e quel pensiero lo aveva ferito nel profondo, perché aveva passato fin troppo tempo a idealizzare il suo ritorno a Tiny Town, per contemplare una simile opzione.
Eppure qualcosa non tornava.
Solo pochi giorni prima, Laney aveva reagito all'arrivo di Tyler nello stesso modo in cui ora stavano reagendo Alicia e James: come se fosse il loro peggior incubo.
-Sì- rispose. -Sì, perché?- e lo disse con una certa irruenza, perché notò che James si ritrasse appena.
-Niente, era solo... solo curiosità- glissò sbrigativo l'altro.
Alicia, dal canto suo, rimase in silenzio, gli occhi fissi sugli anellini di metallo che le ornavano le dita.
Ma Samuel non era affatto intenzionato a lasciar cadere il discorso. -Posso farvi anche io una domanda?- chiese.
Entrambi i ragazzi sollevarono la testa di scatto, sorpresi.
-Certo- rispose Alicia.
-Uscite ancora con Laney?- sputò Samuel, tutto d'un fiato.
I suoi interlocutori parvero un po' spaesati. -Con chi?- fece James.
-Laney- ripeté Samuel, cercando di non lasciar trasparire tutta l'ansia che aveva di sapere la risposta. -Media statura, capelli scuri corti... ha gli occhi grandi e la bocca piccolina.-
Ma nonostante la sua descrizione, i due sembravano non avere la più pallida idea di chi stesse parlando. Come era possibile? Avevano trascorso giornate intere a giocare insieme, da bambini. Forse Laney non frequentava la Turnips? Ma era assurdo, era l'unica scuola superiore nel raggio di miglia!
-Davvero voi non...- disse, scrutando basito le facce stralunate dei suoi amici. -Laney- tentò ancora. -Laney Barnes.-
Quel nome parve sbloccare qualcosa, come una chiave che apra un pesante lucchetto arrugginito. James di colpo sbiancò. Alicia sgranò gli occhi a tal punto che Samuel ebbe per un istante il timore che le sarebbero schizzati fuori dalle orbite. -T-tu parli di quella L-Lan...- balbettò, ma le parole le morirono sulle labbra.
Samuel rimase spiazzato. Si sarebbe aspettato di tutto, ma non una reazione simile. Rimase in attesa, mentre gli altri due si scambiavano occhiate complici.
-Non... non molto, in realtà- affermò infine Alicia, senza guardarlo.
-Oh- commentò solo Samuel, incerto, in parte deluso. -E perché?-
James prese un bel respiro profondo, prima di replicare. -Be', ecco...-
Ma fu interrotto.
Un brusio di irrequietezza percorse l'atrio. -È arrivata!- si udì.
Samuel si rese conto solo in quel momento che la maggior parte degli studenti si erano accalcati intorno agli armadietti e lungo le pareti, formando una specie di corridoio umano, largo abbastanza da far passare una manciata di persone.
-Vomito!- urlò di nuovo la voce prepotente, sovrastando tutti gli altri. Questa volta, però, una nota di pura perfidia riecheggiò forte e chiara. -È bello rivederti.-
Samuel fu percorso da un brivido. Alzò lo sguardo.
E lì, in piedi all'entrata della Turnips, ordinaria, del tutto anonima con indosso un comunissimo paio di jeans e una t-shirt grigio antracite, Laney Barnes sarebbe potuta passare inosservata perfino al più acuto degli osservatori.
Ma ora gli occhi di tutti erano su di lei, anche quelli di Samuel, che si trovava in una posizione relativamente privilegiata, vicino abbastanza da scorgere il suo viso, seppure la ragazza mantenesse il capo chino. Laney stringeva fra le braccia pochi quaderni, tutti dello stesso colore, e sulle spalle portava issato uno zaino nero dall'aria pesante.
Subito dopo, Samuel notò una cosa strana: l'ingresso era stato completamente sgomberato dagli altri studenti. Perfino chi era rimasto fuori dalla scuola osservava da lontano, senza osare avvicinarsi. Solo Laney se ne stava sulla soglia, immobile come una statuina. Tyler si era piazzato proprio davanti a lei, un'orribile espressione compiaciuta a deformargli il viso squadrato. Al suo confronto, Laney sembrava minuscola.
-Come sono andate le vacanze?- le domandò mellifluo.
Istintivamente, Samuel trattenne il respiro. L'atmosfera si era fatta tesissima, carica di aspettativa, di previsioni non dette.
"Che sta succedendo?"
Rivolse uno sguardo interrogativo ad Alicia e James, ma nessuno dei due se ne accorse. Assistevano entrambi alla scena in religioso silenzio, gli occhi spalancati, le bocche tirate in linee dure.
Laney non rispose alla domanda di Tyler. Sembrava una bambola scarica, una marionetta senza più fili.
Tyler attese qualche istante ancora, poi emise un suono, come un basso ringhio gutturale, e scalciò. Laney saltò sul posto.
-Ti ho fatto una domanda, Vomito. Cos'è, mammina e papino non ti hanno insegnato che è maleducazione non rispondere quando qualcuno ti parla?-
Quelle parole affondarono in un mare di silenzio. Tutti fissavano la ragazza sulla porta, aspettando una reazione, ma lei continuava a fissare il pavimento. Anche Samuel la guardava, e non riusciva a capire, a elaborare, a pensare.
Laney, la stessa con cui aveva condiviso i primi otto anni della sua vita, la stessa che si era ricordata dei loro braccialetti di perline, che lo aveva ringraziato a Firmament Lane, prima di fuggire veloce come il vento.
Ma ora lei era lì, curva, rigida, spenta, e tremava come una foglia, le nocche delle dita bianche per la pressione che esercitavano sui quaderni.
Era chiaro che aveva paura. E il modo orribile in cui le aveva parlato Tyler, poi...
"Sì, ma perché?"
Samuel aveva un brutto presentimento. Non sapeva spiegare di cosa si trattasse, ma non era niente di buono. Strinse i pugni lungo i fianchi, in allerta.
Solo allora, dalle labbra di Laney uscì un flebile sussurro. -B-ben... be... be...-
La folla radunata nell'atrio rumoreggiò. Molti ridacchiarono.
-BEEE!- fece il verso qualcuno.
-È come una pecora!- muggì viscido qualcun altro, nella mischia.
Samuel fu investito da un'ondata di repulsione. Cercò con lo sguardo chi aveva parlato, ma senza successo. Laney tremava così forte che sarebbe potuta cadere a terra da un momento all'altro.
-Hai fatto i compiti, Vomito?- le chiese Tyler, mettendoli tutti a tacere. Nel suo sguardo, nera e penetrante, brillava una luce cattiva.
Di nuovo Laney non disse neppure una parola, ma qualcuno rispose per lei.
-Che importanza ha?- gracchiò la bionda carina che Samuel aveva notato in precedenza. Si era appostata alle spalle di Tyler, mollemente abbandonata contro il primo armadietto della fila. -Tanto il professor Thompson la promuoverà comunque a pieni voti.-
Dopodiché, Samuel la vide bisbigliare qualcosa nella direzione di Laney. A giudicare dal labiale, doveva suonare molto simile a "bastarda".
Laney sussultò di nuovo. Samuel era stranito. Si sentiva fuori posto, sbagliato, come un pezzo mal incastrato nella trama di un puzzle, e più passavano i minuti, più cresceva in lui un bisogno impellente di fare qualcosa.
Ma che cosa?
Guardò ancora una volta Alicia e James, alla sua destra, in cerca di un gesto, un segnale che potesse fargli capire che cosa stava accadendo.
Il segnale non venne.
James continuava a scrutare Tyler astioso, ma rimaneva immobile, stretto al muro dietro di loro. Quanto ad Alicia, sembrava molto preoccupata. Deglutiva spesso e di tanto in tanto si umettava le labbra, sul punto di dire qualcosa. Però taceva sempre.
Alla fine, quando Tyler raggiunse Laney e le posò una mano grande come una racchetta da ping-pong sulla spalla, la ragazza mugolò un tremulo e impercettibile: -Poverina...-, quasi non avesse avuto la vera intenzione di parlare.
Nel frattempo, il corpo di Laney era scosso da violenti singulti. Stava piangendo?
Samuel avrebbe voluto correre da lei, ma qualcosa lo tratteneva.
Il punto era che lui non comprendeva. Ai suoi occhi, quello che stava accadendo non era affatto normale: una ragazza sola, circondata da un branco di studenti che continuavano a blaterare frasi spiacevoli.
E poi Tyler. Tyler che teneva la mano premuta sulla sua spalla, come se stesse cercando di schiacciarla, Laney che sembrava sul punto di crollare sotto al suo tocco.
Ma tutti erano così indifferenti, letargici, come se avessero visto quella scena ripetersi milioni di volte e sapessero già come sarebbe andata a finire.
Era comune, lì, che si verificasse questo? Era usuale? Era quotidiano? Toccava a tutti, prima o poi? Sarebbe toccato anche a lui, se non fosse rimasto al proprio posto?
Ingoiò saliva acida.
-Bene- tuonò Tyler, senza allontanarsi dalla ragazza neppure di un millimetro. -Spero che tu abbia sfruttato l'estate. Ci divertiremo un mondo insieme, quest'anno. Adesso, perché non raggiungi il tuo armadietto, Vomito?- Nella sua voce si insinuò una nota crudele, diabolica.
Laney non si mosse. Tremava forte, il petto che si gonfiava fino a scoppiare e poi sprofondava di nuovo, agonizzante.
Samuel riusciva a intravedere la sua bocca tra i ricci bruni, spalancata nell'atto di prendere aria, come se stesse soffocando. Sentì anche lui il magone strozzargli l'esofago. Era straziante.
"Fai qualcosa."
-Ho detto,- infierì Tyler -perché non vai al tuo armadietto, Vomito?- Si fece finalmente da parte, osservandola di sotto in su.
Trascorsero istanti infiniti. Samuel ebbe l'impressione di trovarsi in una foto 3D.
Poi, all'improvviso, Laney camminò. Incedé attraverso il corridoio di liceali, lentamente, incespicando nei suoi stessi piedi.
Quando gli passò davanti, Samuel sentì qualcosa lottare dentro di lui, una ressa di emozioni contrastanti.
"Agisci. Ti prego, Samuel, prima che sia troppo tardi."
Laney giunse a destinazione. Si fermò davanti al suo armadietto e attese che gli studenti la lasciassero passare. Si avvicinò al rettangolo, blu come una notte senza stelle. Posò la mano sulla manopola. Esitò.
Mentre una ragazza spalancava il proprio stipo, quella bella mattina di settembre, nell'atrio della Turnips non volò una mosca. Il silenzio fu tale che si udirono solo le automobili transitare sulla strada, oltre il giardino.
Anche se era scossa da brividi e tremiti, sotto gli occhi increduli di Samuel, Laney Barnes spalancò lo sportello con un unico movimento deciso.
E, immediatamente, una valanga torbida e densa si riversò fuori, rovesciandosi sui suoi quaderni, sulla sua maglietta, sui suoi jeans e anche sulle sue comunissime scarpe da ginnastica bianche, ma nuove di zecca, come appena uscite dal negozio.
Sulle prime, Samuel non riuscì a focalizzare che cosa era successo.
Realizzò solo in seguito, quando Laney balzò indietro, urlando e lasciando cadere tutto ciò che aveva con sé; gli studenti intorno a lei fecero lo stesso, cercando di mettere quanta più distanza possibile tra loro e la fitta massa scura.
Nella stanza si scatenò il panico. Molti gridarono, trascinati dalla psicosi, altri risero a crepapelle, divertendosi come non mai. Tra questi, c'era Tyler.
-Ti piace?- chiese, sovrastando il pandemonio. -È il tuo regalo di bentornato!- e, detto questo, si prese la pancia tra le braccia, piegato in due dalle risate.
Ma Samuel non ci trovava proprio niente da ridere.
Laney si dimenava, strillando come un'ossessa, nel disperato tentativo di scrollarsi via quanta più terra possibile. Terra bruna. Terra umida. Terra brulicante di larve e vermi.
Perché le avevano fatto una cosa tanto crudele? Samuel non l'aveva mai vista così, nemmeno da bambina, i lineamenti dolci deformati dall'orrore mentre si sgolava come se avesse voluto strapparsi la pelle di dosso.
-LEVATEMELI!- supplicava tra le lacrime. -VI PREGO! AIUTO!- Stava soffrendo per il divertimento altrui, alla stregua di un'attrazione da circo.
Ma quella era Laney.
La sua Laney.
La migliore amica che avesse mai avuto.
In quel momento, qualcosa scattò. Samuel si ritrovò lì, vigile e presente. Poteva scegliere: restarsene con le mani in mano insieme a tutti gli altri o tentare di salvare la situazione.
Decise che avrebbe tentato. Si fece strada tra la masnada di giovani, mentre Alicia, alle sue spalle, urlava: -Samuel, dove vai?!-
Ma Samuel non la sentiva più. Ogni passo che muoveva faceva montare in lui la rabbia, un senso di protezione feroce e cieco. Perché non aveva agito prima? Che cosa aveva aspettato?
Qualcuno lo spintonò di fianco, sbellicandosi dalle risate. Samuel si voltò di scatto e lo guardò in cagnesco, prima di ringhiargli contro: -Che accidenti c'è di tanto divertente?!-
Il tipo in questione, smilzo e con le guance incavate come quelle di un teschio, fece la faccia di chi ha appena preso un ceffone.
-Ehi...- mugolò, serio e un po' piccato. -Rilassati, amico, è solo uno scherzo.-
"È solo uno scherzo."
Samuel si sentì come se gli avessero tirato addosso una secchiata d'acqua gelida.
Era solo uno scherzo? Una burla innocente? Davvero? Era divertente? Era normale?
Perse altro tempo, attimi preziosi impalato sul posto. Attimi durante i quali gli adulti si precipitarono sul luogo del misfatto per gestire l'accaduto a modo loro.
Samuel li vide venire tutti trafelati, cipigli severi stampati sui volti cerei. Quando si accorsero del loro arrivo, molti studenti se la diedero a gambe. Tyler fu il primo a defilarsi, subito seguito dai suoi scagnozzi.
-Che cosa succede qui?!- sbraitò la donna che capeggiava la spedizione. Indossava un tailleur nero al ginocchio, i capelli grigiastri raccolti in un nodo strettissimo in cima alla testa. Appuntato all'occhiello della giacca, un cartellino bianco la identificava come la preside Rumple. -Fate silenzio!-
Due adulti, un uomo tarchiato sulla trentina e una signora che indossava la divisa da collaboratrice scolastica, andarono dritti da Laney e cercarono di calmarla, non prima di essersi assicurati che le larve non avrebbero assalito anche loro. Nel frattempo, un anziano corpulento era riuscito ad agguantare una studentessa, e ora la scrutava truce attraverso un paio di occhialetti tondi, in bilico sul naso adunco, pretendendo di cacciarle fuori chi fossero i responsabili, sebbene la ragazza continuasse a piagnucolare che non ne aveva idea e di lasciarla andare.
-Non avete alcun ritegno!- esplose alla fine la preside Rumple, la voce tremula annichilita dagli schiamazzi dei suoi studenti. -Siete stati in grado di fare questo perfino il primo giorno di scuola! Ah, ma ve la farò vedere io, ve la farò vedere...-
Detto ciò, fece apparire dal nulla un fischietto di metallo, se lo portò alle labbra e produsse un suono così stridulo e assordante che Samuel fu costretto a tapparsi le orecchie.
Di colpo, nell'atrio calò il silenzio.
-Vi voglio tutti in classe, immediatamente!- tuonò. -E lei, professor Thompson...- L'uomo tarchiato che stava liberando Laney dagli ultimi vermi si voltò di scatto. -Porti Tyler Grint in presidenza il prima possibile. Sono più che certa che abbia a che fare con questo pastrocchio.-
Il professor Thompson annuì serio e si dileguò per il corridoio. Nel frattempo, anche tutti gli altri ragazzi si misero in marcia verso le rispettive aule.
Fu inspiegabile, straniante come un sogno. Samuel si sentì come se lo avessero estratto dal suo stesso corpo. Lui era lì, ma il suo spirito no. Le sue mani, le sue gambe, la sua voce... nulla rispondeva più al suo comando. Stava fermo senza dire o fare niente, senza muovere neppure un muscolo, totalmente, straordinariamente impotente.
Fissava Laney.
"È solo uno scherzo" aveva detto il ragazzo. "Solo uno scherzo."
Ma allora perché lei stava ancora tremando? Perché era occorso l'intervento degli insegnanti, per mettere fine a quella pagliacciata? Perché sembravano tutti tanto terrorizzati all'idea di opporsi a Tyler? E soprattutto, perché lui si sentiva sopraffare da uno stringente, pressante, soffocante senso di colpa?
La collaboratrice scolastica prese il mento di Laney tra le dita, per costringera a guardarla in faccia. -Sappiamo tutti chi è stato, piccina. Basta che tu faccia il suo nome e gli daremo una bella lezione. Avanti- la incalzava, mentre lombrichi e altre creature striscianti si contorcevano sul pavimento scivoloso di fanghiglia.
Ma quando Laney sollevò il viso, i suoi occhi non incotrarono quelli della della donna, bensì quelli di Samuel. Rapido come un battito di ciglia, il ragazzo percepì lo sguardo di lei in un modo che non sarebbe mai stato in grado di descrivere: fu come se gli avessero perforato l'anima. 
Affogò in quella frazione di secondo, in quell'ultimo, effimero istante, lo aspirò, lo dilatò, vi si aggrappò con ogni spazio della sua mente. Un unico sguardo parlò più di miliardi di sterili discorsi.
Samuel lo sentì: Laney non era triste, non era arrabbiata e neppure spaventata. Laney era rassegnata.
"Mi vedi, Samuel? Questo è ciò che io sono ora."
Samuel si irrigidì nell'istante in cui qualcuno posò una mano sulla sua spalla. Si girò. Alicia e James erano proprio dietro di lui. -Sbrighiamoci- gli disse James, nervoso. -Ti portiamo in segreteria.-
Mentre Alicia lo trascinava via, lontano dalla mischia, lontano dai miliardi di domande che rischiavano di fargli esplodere la testa e lontano da Laney, nei pensieri di Samuel riecheggiò una sola frase:
"È solo uno scherzo."

 

Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire


Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire. Suo padre, probabilmente, non era ancora rincasato, ma sua madre sì e di sicuro le avrebbe fatto il terzo grado.
Tanto per cominciare, avrebbe detto che il motivo per cui indossava la tuta da ginnastica era che non aveva avuto voglia di cambiarsi, dopo educazione fisica. Le scarpe nuove si erano sporcate a causa della sua sbadataggine: il campo esterno era pieno di fango e lei non aveva fatto attenzione.
I vestiti impiastricciati di terra, infagottati nel suo zanio, avrebbe provato a lavarli, ma temeva che ormai fossero da buttare. Nel caso, l'avrebbe fatto quando i suoi non erano in giro.
Provò a immaginare una conversazione con loro.
"È andata bene? I tuoi compagni ti hanno infastidita?"
"No" avrebbe risposto sorridendo. È andato tutto a meraviglia." E poi sarebbe filata via, sperando che non indagassero oltre.
Non voleva che i suoi genitori sapessero come stavano le cose; quell'anno, aveva deciso, non avrebbe fatto preoccupare nessuno.
Aperta la porta, entrò in casa in punta di piedi, cercando di fare meno rumore possibile. Se fosse passata inosservata, non ci sarebbero state domande a cui rispondere con menzogne.
Le sarebbe bastato arrivare in camera sua: quello era il suo spazio, la sua salvezza. Come tutte le regole non scritte che ogni famiglia costruisce per sé, i signori Barnes non osavano disturbarla, quando Laney si trovava lì dentro.
La ragazza si guardò intorno. La borsa di sua madre, abbandonata sulla cassapanca alla sua sinistra, le rivelò che era in casa.
Muta come un pesce, Laney attraversò il salone con passo felpato e raggiunse le scale che portavano al primo piano.
Quando fu sul secondo gradino, però, le arrivò forte e chiara la voce di sua madre. -Laney?- chiamò, un po' affaticata. Forse stava rassettando. -Sei tu?-
"Cavolo" pensò mentalmente Laney. "Solo altri dieci gradini..." La porta era proprio lì davanti. Riprese a salire.
-Sì- rispose nel tono più allegro che riuscì a produrre. -Vado in camera mia.-
-Aspetta!- fece la donna. La sua testa sbucò sulla soglia del bagno, ma Laney fu più veloce. Con uno scatto repentino, si gettò in avanti, entrò nella sua stanza e si richiuse la porta alle spalle.
Attese qualche secondo col fiato sospeso. Sua madre non bussò. Sentì immediatamente la tensione che si allentava, lasciandole addosso un vago senso di nausea e stordimento.
L'ambiente era immerso nella penombra. Nessuno aveva riavvolto le persiane, quella mattina, così le imposte erano rimaste chiuse e le tendine tirate.
Si sforzò di non pensare alla camera di Samel, proprio dirimpetto, e si impose di dimenticare il modo in cui l'aveva guardata, nell'atrio. Non avrebbe saputo dire cosa aveva pensato, ma non voleva scoprirlo.
Gli occhi le pizzicavano.
Per prima cosa, Laney si cacciò le scarpe. Provò una fitta di dispiacere, notando come fossero rovinate. Solo poche ore prima erano state di un bianco accecante, le cuciture perfette e le stringhe impeccabilmente tirate. Ora erano bagnate e a chiazze marroni.
Non era arrabbiata, no. Laney aveva smesso di arrabbiarsi da tempo, poiché aveva capito che, anche se la collera l'avesse arsa viva, la situazione non sarebbe mutata di una virgola.
Aveva scelto la strada più semplice: l'accettazione.
Aveva preso atto della situazione e aveva fatto in modo di autoconvicersi che era ineluttabile come lo scorrere del tempo e le tappe della vita.
Un meccanismo di difesa che il suo psicologo – quando ancora era in terapia – aveva definito di "consenso subliminale". E lei non aveva potuto dargli torto, ma anche dopo che aveva ricevuto un nome, il problema aveva continuato a persistere.
Eppure c'era un sentimento che, nonostante tutti gli sforzi, Laney non era riuscita ancora ad appiattire, che costituiva l'ostacolo principale al suo progetto di stoica sopportazione: la frustrazione.
Come un cane che si morde la coda, Laney aveva smesso di arrabbiarsi con i suoi aguzzini e aveva cominciato a rivolgere quell'ira contro sé stessa.
Era così debole, così insignificante, così patetica da non riuscire a opporsi? Era possibile che non ne fosse proprio capace?
Forse, in fin dei conti, lei meritava quel trattamento.
Dopotutto, era giusto che soffrisse.
Singhiozzò. La gola le bruciava come se avesse buttato giù una tanica di olio bollente.
Il punto era che ciò che più la dilaniava non erano gli insulti degli altri, i loro sguardi carichi di derisione, le loro violenze. No, quella era solo la punta dell'iceberg, poiché ciò che le faceva più male, il suo nemico più grande, era proprio lei.
Laney odiava i suoi vessatori e tutte le loro torture, ma odiava ancor di più sé stessa per non essere in grado di soverchiare quell'ordine malato, distorto, perverso che le era stato imposto.
"Reagisci" era la parola che più spesso aveva sentito, in quegli anni, e che più la feriva, sempre pronta a ricordarle quanto fosse inetta, meschina, distruttibile.
"Chi non riesce a ribellarsi, non ha il diritto di farlo."
Stava arrivando, lo sentiva. Avvertiva le lacrime danzare sull'orlo delle sue ciglia, i lamenti che sgomitavano per salirle alla bocca.
Raggiunse lo stereo sulla mensola, stringendo i denti fino a farli stridere tra di loro. Pescò un CD dalla sua collezione, lo infilò nel marchingegno in fretta e furia. Fece partire la musica e alzò il volume al massimo.
Poi, finalmente, pianse. Pianse come aveva ormai imparato a fare da tempo, piano piano, cercando di coordinare il ritmo dei suoi singulti a quello della musica, cosicché nessuno avrebbe potuto accorgersi che si trattava della sua voce e non dei bassi profondi della canzone.
Pianse stesa sul letto, i lucciconi che rotolavano agli angoli dei suoi occhi socchiusi, per poi precipitare giù, lungo le sue tempie, bagnandole i capelli e le orecchie.
Pianse finché non sentì che il sonno si stava impadronendo di lei. Laney amava dormire. Se era abbastanza stremata, neppure sognava. Nel sonno c'era solo oblio, riposo, conforto. Nessun Tyler a tormentarla, nessun Samuel che la esamivana come si fa con un condannato a morte, nessuna coscienza con cui fare i conti. Niente.
Si addormentò e saltò la cena, come faceva quasi sempre, del resto.
Penelope Barnes non osò svegliarla. Si limitò ad apparecchiare per due, mentre suo marito, Edward Barnes, sgusciava nella camera di sua figlia per spegnere lo stereo e rimboccarle le coperte.
Quando fu tornato in cucina, al pianterreno, i due coniugi si scambiarono un'occhiata apprensiva.
-Ha pianto?- chiese Penelope, rimestando pensosa lo spezzatino.
-Sì- le rispose solo Edward, cupo.
E non si dissero altro.

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Capitolo 6
*** Tiny Town - 1.5 ***


 

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1.5

 

Nei giorni successivi, Samuel provò più volte a parlare con Laney, ma la ragazza continuava a sfuggirgli come fumo tra le dita. Gli altri studenti della Turnips le facevano sempre un sacco di scherzi, scherzi ignobili, a giudizio di Samuel, scherzi perfidi e insensati, scherzi che però sembravano far ridere tutti, a scuola.
Tutti tranne Laney.
Uno tra i tanti aveva attirato l'attenzione di Samuel, sebbene potesse sembrare il più banale: ogni mattina, l'armadietto di Laney veniva ricoperto da palate di bigliettini di carta, che recavano scritti i peggiori insulti che fossero mai stati inventati.
Nessuno avrebbe meritato di sentirsi dire certe cose, ma "era solo uno scherzo" e Laney non sembrava volere aiuto per difendersi. A dire il vero, Laney non sembrava proprio più volere.
Si aggirava per la scuola in punta di piedi, pallida come un lenzuolo, silenziosa come un fantasma, il capo sempre chino così che nessuno potesse incontrare il suo sguardo.
-Ciao, Vomito!- la motteggiavano al suo passaggio, nonostante i rimproveri accesi e le minacce degli insegnanti.
Samuel non riusciva a sopportarlo. Non faceva altro che pensare a come cambiare la situazione e il solo ricordo della sua immobilità, nei giorni precedenti, lo mortificava a dismisura. Ai suoi occhi, la prospettiva che le cose restassero come stavano era impensabile. Lui doveva fare qualcosa.
Così si risolse a parlarne con James e Alicia. Dopo il primo giorno di scuola, i tre non avevano più toccato l'argomento "Laney" e Samuel non era ancora riuscito a capire il perché della loro reazione.
Aveva una montagna di domande da fare, a cominciare dal perché nessuno intervenisse, fino a quale fosse la loro opinione in materia, così, quel mercoledì, quando il trillo della campanella giunse a segnalare l'inizio della pausa pranzo, Samuel si fiondò fuori dall'aula di matematica con un solo pensiero in testa, deciso a fare chiarezza una volta per tutte.
Raggiunse la mensa, non senza difficoltà - faceva ancora un po' di fatica a orientarsi - ma, una volta a destinazione, individuò immediatamente Alicia e James, che sedevano all'altro capo della stanza.
La mensa era una sala grande, sempre illuminata da fredde luci al neon, riempita da tavoli gialli e blu di forma ottagonale circondati da sedie di legno e ferro battuto degli stessi colori. L'intonaco e le maioliche erano entrambi di un bianco accecante e nell'aria si respirava uno sgradevole odore di cavolo lesso.
A essere onesti, le pietanze in mostra negli espositori paralleli alle pareti non erano mai particolarmente invitanti, così come le signore accigliate e scontrose che le servivano, eppure, un po' per pigrizia e un po' per abitudine, gli studenti se le facevano andar bene comunque.
Non appena si accorsero del suo arrivo, James e Alicia lo salutarono alzando le mani, facendogli cenno di raggiungerli al loro tavolo.
Samuel annuì da lontano, poi si mise in coda all'espositore degli hotdog. Glie ne fu dato uno rinseccolito, farcito con foglioline di lattuga tristi e avvizzite, ma non si lamentò. Al contrario, si fiondò dritto al tavolo di Alicia e James, già pronto a esporre tutti i suoi dubbi e tutte le sue ansie, ma a metà strada si fermò.
Tyler e la sua scorta stavano attraversando la mensa, le facce contratte in espressioni arcigne e spocchiose. Parlottavano tra di loro, dispensando occhiatine sprezzanti a destra e a manca, dandosi arie di grande importanza, quasi non appartenessero anche loro alla specie dei comuni mortali.
Un paio di ragazzi boriosi ebbero la brillante idea di staccarsi dal gruppo per andare a infastidire Alicia e James. Mentre i due si avvicinavano alla loro postazione, Samuel vide James farsi piccolo piccolo sulla sedia, come se stesse cercando di mimetizzarsi con l'ambiente circostante. Alicia, al contrario, li osservava torva, incupendosi sempre di più.
Quando furono arrivati, uno di loro, basso, con un codino spelacchiato in cima al muso cavallino, chiamò a gran voce: -Ehi, Brisby!-
James saltò sul posto e le sue guance persero di colpo il loro colorito roseo. Alicia sembrava sul punto di azzannarli e Samuel si allarmò: stava per assistere a un'altra scena come quella del primo giorno?
-Bei capelli- commentò il tipo con il codino. -Ora sì che sei proprio un finocchietto come si deve!-
A quelle parole, James sprofondò ancor di più lungo lo schienale, paonazzo per la vergogna. La loro era pura perfidia.
Molti dei presenti risero. Un terzo scagnozzo, evidentemente colpito dall'acume della battuta, decise di raggiungere i primi due per complimentarsi mediante una serie di rozze, vigorose pacche sulle spalle.
Samuel fu assalito da un ennesimo moto di repulsione: erano un branco di veri e propri scimmioni. Avanzò verso il tavolo, pronto anche a dare loro il benservito, se fosse stato necessario, ma Alicia lo anticipò: -Falla finita, Morrison- disse secca.
-Sennò che fai?- la rimbeccò l'altro, un ghigno spregevole cucito in faccia.
Alicia fece per rispondere, ma il secondo sconosciuto, con la pelle butterata e i muscoli che sembravano esplodere sotto alla giacca, intervenne. -Ha ragione, Chad, lasciali in pace- osservò mellifluo. -Magari è la volta buona che si fa un giretto con te.-
Altri scrosci di risa si rovesciarono nella stanza. Samuel era disgustato. Si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che condividesse la sua stessa disapprovazione, ma neppure le signore che servivano il pranzo sembravano sorprese.
Quel tipo di intermezzo era davvero la regola, lì?
Alicia scattò in piedi, facendo stridere la sedia contro il pavimento. -Fate schifo- ruggì a denti stretti.
-Tu invece non sei niente male, per essere negra.-
La ragazza trasalì. Samuel vide le nocche dei suoi pugni, lungo i fianchi, schiarirsi per la forza con cui li stava stringendo. "Dagli un pugno" pensò, riprendendo ad avanzare a passo spedito. "Oppure lo faccio io." Era inorridito, indignato, furioso, e non sarebbe rimasto a guardare un solo secondo di più.
Ma quando ebbe mosso l'ultimo passo, entrò nel campo visivo di Tyler. Questo, non appena lo mise a fuoco, si voltò verso di lui e lo guardò estasiato, allungando un braccio per tirare a sé la bionda carina che lo seguiva ovunque. -Samuel!- chiamò, facendo risuonare il suo vocione per tutta la mensa. -Ti siedi con noi?- chiese.
Per qualche istante, il tempo si fermò. La proposta era chiara, una domanda che celava ben più che il suo solo significato apparente.
I due ragazzi si scrutarono, poco meno di una falcata a separarli. Tyler ostentava la solita non-chalance, ma il sangue di Samuel ribolliva di rabbia. Non importava che cosa sarebbe successo, aveva ben chiara la risposta che avrebbe dato. Prese un respiro profondo.
-No- affermò gelido, sollevando il mento a indicare Alicia e James. -Io sto con loro.-
Si sarebbe aspettato qualsiasi reazione - una battuta, un urlo, perfino "uno scherzo" -, ma non quella che ottenne: Tyler fece spallucce e gli rivolse un sorrisino conciliante.
-Va bene- gli disse. -Come vuoi.- E, detto questo, si diresse verso un altro tavolo con il suo seguito, richiamando i tirapiedi che se l'erano presa con Alicia e James, senza degnarlo più neppure di uno sguardo.
Samuel ne fu sorpreso, ma cercò di non darlo a vedere. Al contrario, filò dritto dai suoi amici e si accomodò al loro fianco, mentre lo squadravano con tanto d'occhi.
-Che accidenti era quello?- gli domandò James, incredulo.
-Quello cosa?- rispose Samuel, addentando il suo misero hotdog. Era così arrabbiato che a stento riusciva a masticare senza mordersi la lingua.
-Quello che hai appena fatto!- gli disse ammirata Alicia. -Sei stato una forza!-
-Ma hai sentito che cosa vi hanno detto?!- ribatté furente lui, guardandoli entrambi dritti in faccia. -Si sarebbero meritati un bel gancio sul naso, e invece nessuno ha fatto niente!-
-Ma tu l'hai fatto!- esclamò James, in brodo di giuggiole. -Ti sei opposto!-
-Ne parlate come se tenere testa a un pallone gonfiato fosse chissà quale impresa. Dovrebbero farlo tutti, qui a scuola.-
A quelle parole, James e Alicia si rabbuiarono.
-Oh...- fece James. -Sì, be'... sono solo degli idioti.-
-Ormai non ci fa più né caldo, né freddo- aggiunse amareggiata Alicia, rimestando con poca convinzione i maccheroni scotti che aveva nel piatto.
-No!- scattò allora Samuel. -Voi dovreste contrattaccare, ribellarvi!-
Ma Alicia e James non risposero. Samuel rimase immobile per attimi infiniti, il fiato sospeso tra l'indecisione e la necessità, prima di fare una delle domande che gli ronzavano in testa da giorni: -È per questo che Laney non pranza mai con tutti gli altri, vero? Perché Tyler e i suoi la tormentano.-
James sospirò e annuì, mogio. -Mangia da sola fuori. L'ho vista di sfuggita un paio di volte in cortile.-
Samuel sentì un pizzico al petto. Presto sarebbe arrivato l'inverno, era impensabile che Laney continuasse a mangiare all'esterno con la pioggia e la neve. -Perché sono rimasti tutti a guardare, il primo giorno di scuola? Che ha fatto per meritarsi quel trattamento?-
-Niente- rispose laconica Alicia.
-E allora perché si comportano così con lei?-
Il viso della giovane ebbe uno spasmo di stizza. -Per lo stesso motivo per cui hanno detto quelle cose a me e a James, Samuel. Perché sono degli idioti.-
-Sì, ma... l'hanno coperta di vermi- continuò imperterrito Samuel, rimarcando più che poteva il concetto. -Tutte le mattine attaccano dei foglietti sul suo armadietto. Non fanno che perseguitarla. La chiamano Vomito, capite? Vomito! Non è giusto.-
James si imbronciò. -Se si potesse eliminare ogni ingiustizia, non ci sarebbe più la fame nel mondo.-
Samuel attese una manciata di secondi. Perché si stavano comportando così? -Voi non... credete che dovremmo fare qualcosa per lei? Insomma, quando eravamo piccoli...-
James sbuffò. -Tu parli così perché a te non farebbero mai niente del genere...-
-Cosa?- fece allora Samuel, piccato. -E perché?-
-Oh, andiamo, guardati!- sbottò James, dritto sulla sedia, improvvisamente congestionato. -Vieni dalla città, hai visto il mondo, sei alto un metro e ottanta e hai vinto più medaglie di quante ne abbiamo vinte tutti noi messi insieme. Non ti sei accorto di come ti guardano gli altri? Mentre tu te ne stai qui a conversare di ingiustizie con noi, quelli che contano ti hanno già invitato al loro tavolo...-
-E tu credi che me ne importi qualcosa?- lo interruppe Samuel. -Io ho scelto voi, James. Non mi interessano gli inviti di Tyler.-
E lo pensava veramente. Samuel non avrebbe cambiato James e Alicia per niente e nessuno al mondo. Loro lo avevano accolto, gli avevano offerto la loro amicizia, il loro supporto e il loro sostegno incondizionato, senza pensarci due volte.
Ma allora perché adesso si ritrovavano a fare certi discorsi? Per quale motivo in quel momento gli sembrava di essere tanto lontano, nonostante fossero seduti intorno allo stesso tavolo?
-Il punto è un altro- disse allora Alicia, senza guardarlo. -Quello che ha fatto oggi Morrison succede sempre, perché Tyler e il suo gruppo non capiscono tutto quello che non rientra nella loro logica. Ci danno fastidio perché ci vedono diversi, e fanno leva su questo! Ma con Laney... è solo cattiveria gratuita- spiegò, apparentemente calma. A Samuel però non sfuggì lo sfarfallio delle sue ciglia sulle guance, la curva dura delle sue labbra. Le veniva da piangere? -Non hanno bisogno di una scusa per ferirla, non cercano un pretesto per farle del male. Riversano su di lei tutto il loro odio e la loro rabbia, solo perché possono farlo. E chiunque provi a intralciarli... subisce lo stesso trattamento.-
-Appunto!- esclamò Samuel. -È proprio per questo che dobbiamo aiutarla. Dobbiamo parlare con i professori, fare qualcosa per farlo smettere!-
Ma parlare con James e Alicia, quel giorno, sembrava proprio come parlare a un muro.
-E come, secondo te?- disse la ragazza. -Sono stati presi più volte provvedimenti, ma questa situazione va avanti da anni, Samuel. Cosa pensi che accadrebbe se decidessimo di ribellarci? Lo sai che cosa hanno fatto a tua cugina, quando ancora era a scuola, per aver difeso Laney? Sai cosa volevano...- si interruppe. Gli occhi le si erano riempiti di lacrime. -Non c'è niente che possiamo fare.-
James, nel frattempo, era piombato nel silenzio, e sembrava intenzionato a non pronunciare più nemmeno una parola.
Ci fu una lunga pausa, durante la quale nessuno parlò. Samuel si sentiva esausto, come se avesse corso un'intera maratona in apnea, la testa leggera e le orecchie che gli fischiavano forte. Cos'era successo a Vera di cui non era stato messo al corrente? La situazione era proprio irrecuperabile? Non c'era nessuno disposto a fare un tentativo?
-Allora è così- concluse. -Voi avete paura.-
-Paura?- gli fece eco Alicia, indignata. -Hai idea di cosa significhi vivere giorno dopo giorno con la consapevolezza che al primo passo falso finirai con la faccia nel water? Con il terrore di ritrovarti sulla lista nera da un momento all'altro?- Le lacrime nei suoi occhi si trasformarono in saette ardenti. -Ci abbiamo riflettuto più volte e ti giuro che ci dispiace da morire per lei. Certe notti non riesco neppure a dormire per i sensi di colpa, ma ho visto che cosa fanno a quelli che si mettono contro Tyler. E puoi star certo che i prossimi sulla lista, dopo Laney...- Alicia indicò prima James e poi sé stessa, il dito che tremava come un ramoscello al vento. -Siamo noi.-
James tacque, ma non negò.
Samuel rimase a fissarli entrambi a bocca aperta, sbalordito. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. -Non lo pensate veramente- disse.
I due non risposero.
Samuel scattò: -Se non iniziamo da qualche parte, non cambierà mai niente!-
-Ma da quando te ne sei andato, è cambiato tutto!- esclamò James. -Noi siamo cambiati, tu sei cambiato e anche Laney è cambiata, e nessuno può farci niente.-
-Sono ancora io!- ribatté lui, e riuscì a sentire una vena di disperazione nella propria voce. -Sono la stessa persona con cui giocavate a guardie e ladri dieci anni fa! Non è cambiato nulla, dobbiamo solo...-
Ma James lo guardò, e ora era decisamente arrabbiato. Aveva digrignato i denti, e sembrava a sua volta sull'orlo delle lacrime. -Tu non puoi capire.-
Samuel si sentì punto nel vivo. Era questo che pensavano? -Non è vero...- disse cupo.
-Sì, invece- gli rispose Alicia, dando manforte a James. -Potremmo addirittura peggiorare la situazione. Hai pensato a questo? Come credi che reagirebbe Laney se gli altri si accanissero ancor di più su di lei? Sarebbe in grado di sopportarlo?-
-Perché ora come ora la situazione è sopportabile, no?!- replicò Samuel, alzando la voce più di quanto non avrebbe voluto fare. Alcuni ragazzi, ai tavoli vicini, si erano voltati a guardarli, attirati dagli schiamazzi.
James e Alicia lo fissavano come se non l'avessero mai visto prima. Sembravano sul punto di dire miliardi di cose, ma non ne dissero neppure una.
-E comunque,- riprese Samuel, abbassando sensibilmente il volume -non permetterò che accada.-
-Smettila di fare l'eroe- gli disse Alicia, fredda, tagliente come la lama di un coltello. -Nessuno ha chiesto il tuo intervento.-
A quelle parole, Samuel sentì qualcosa dentro di lui che scoppiava e si sgonfiava come un palloncino. Che fosse la delusione?
-Io non sono un eroe- rispose duro, distogliendo lo sguardo e puntandolo sul panino smangiucchiato che teneva tra le dita. Lo lasciò cadere svogliatamente nel piatto; non aveva più appetito. -Ma non ho intenzione di farmi da parte e aspettare che i sensi di colpa mi tengano sveglio la notte. Ora, se non vi dispiace, vado a cercare Laney.- E, detto questo, si alzò in piedi e si gettò lo zaino in spalla, deciso ad andarsene.
-Samuel...- lo supplicò James con un fil di voce, ma il ragazzo non volle sentire ragioni.
-Ci vediamo- disse, e si avviò.
-Samuel, aspetta!-
Samuel uscì dalla mensa senza guardarsi indietro. Trovò Laney una manciata di minuti più tardi, in giardino, seduta a uno dei tavoli di legno delle oasi di sterrato, con un porta-pranzo a pallini blu. Era a telefono con qualcuno.
Samuel rimase a studiarla per un po', nascosto dietro a una colonna del portico, in dubbio se avvicinarsi o meno. La osservò giocherellare con la forchetta, portarsi una ciocca di capelli ricci dietro all'orecchio e ridere al cellulare, e non poté fare a meno di pensare che era carina.
Già, carina. E anche diversa e sola. Le parole di James gli rimbombarono nella testa:"È cambiato tutto!"
Samuel aveva finto sdegno, delusione e rabbia, ma solo perché, in fondo... una parte di lui gli dava ragione. Chi gli garantiva che le cose sarebbero andate bene, anche se avesse aiutato Laney? E se lei l'avesse trovato antipatico? Se avesse creduto che si era montato la testa? Dopotutto, crescendo, si erano trasformati tutti e due, e ora... cosa era rimasto dei bambini spensierati che avevano condiviso l'infanzia, dieci anni prima?
"Dieci interi anni fa."
Sarebbe stato bello tornare indietro nel tempo, al periodo in cui non c'erano preoccupazioni e tutto era facile e lineare, ma non era possibile. Perché nella vita, a volte, si poteva solo andare avanti. E Samuel lo sapeva meglio di chiunque altro.

 

Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire

Era una giornata uggiosa e la luce grigiastra del sole, che filtrava tra i banchi di nubi, suggeriva l'avvento dell'autunno. Le foglie sugli alberi avevano già iniziato a imbrunire, il vento spirava forte e impietoso, ma Laney non ci faceva troppo caso, presa com'era dalla discussione telefonica con Veronika.
-Se fosse stata in un negozio, sarebbe andata a ruba- affermò la ragazza, frizzante come al solito. Si riferiva alla gonna blu che Laney le aveva confezionato con tanta cura, prima che ripartisse per il college. -Almeno in sei mi hanno chiesto dove l'avessi presa. E poi, quando ho detto che era stata una mia amica a disegnarla e a realizzarla...- Lasciò la frase in sospeso.
Laney, appesa al proprio cellulare, trattenne il respiro.
-Mi hanno chiesto tutte il tuo numero!- concluse l'altra, molto più che entusiasta. -Ti rendi conto? I tuoi modelli vanno già a ruba, diventerai la migliore stilista di sempre!-
Laney rise, felice. Non sapeva fino a che punto crederle, perché Vera aveva la tendenza a raccontare le cose in modo un po' drammatico, ma era comunque fantastica. Aveva preso l'abitudine durante i mesi che avevano trascorso in ospedale: si serviva di iperboli mirabolanti per cercare di tenerla incatenata al discorso e distrarla dal resto. Certo, ora non erano più insieme nella camera quattrocentouno, ma a chilometri di distanza l'una dall'altra, però c'erano ancora molte cose a cui Laney non voleva pensare, e la sua migliore amica lo sapeva bene.
Lo sguardo le cadde sulla mano destra, stretta in uno spesso bendaggio, che rimestava i piselli nel porta-pranzo. Quella mattina, Tyler le aveva fatto lo sgambetto in palestra; Laney aveva attutito la caduta con le mani, ma una grossa scheggia di legno le era entrata nel palmo, e così era dovuta andare in infermeria a farsi medicare. La zona era indolenzita, ma il fastidio era sopportabile.
-Come va con Peter?- domandò, dirottando bruscamente il discorso.
-Bene- rispose tranquilla Vera. -Sai che l'altro giorno...-
In quel momento, una sagoma nota si profilò all'orizzonte della Turnips. Per qualche istante, Laney pensò di esserselo immaginato. Si disse che era tutta colpa del suo subconscio, che non aveva ancora processato bene l'idea che fosse tornato, ma più Samuel Carson si avvicinava spedito al suo tavolo – e non sbiadiva come un ologramma – più Laney sentiva che la sua ora era ormai giunta.
-Vera?- chiamò, interrompendo la ragazza nella cornetta.
-Sì?- fece l'altra.
-Samuel- disse lei.
-Samuel? Non stavamo parlando di Peter? E comunque, se vuoi dirmi che ti piace ancora mio cugino, non preoccuparti, sapevo che sarebbe successo, prima o poi...-
-No, no!- fece Laney, nel pallone. Samuel era sempre più vicino. -Lui è qui! Sta venendo verso di me!-
-Oh- disse Vera, confusa. -E quindi?-
E quindi, nei giorni precedenti, Laney lo aveva evitato come la peste: aveva cambiato strada nei corridoi, si era assicurata di uscire per prima nelle classi che avevano in comune, aveva fatto in modo di non incrociarlo neppure una volta, ma in che modo sarebbe potuta scappare, adesso?
Non voleva parlargli: non sapeva cosa le avrebbe detto ma, ora che lui aveva visto, la sola idea di confrontarsi dopo che era finita così in basso la faceva sprofondare nella vergogna.
D'altra parte, per quanto l'idea fosse allettante, di certo non poteva alzarsi e andarsene via come se niente fosse, perché l'avrebbe bloccata in ogni caso. Non aveva scampo.
-Devo andare- disse a Vera e, senza attendere la risposta, chiuse la chiamata.
Samuel ormai era arrivato.
Laney sperò per una attimo che fosse diretto da qualche altra parte e che l'avrebbe superata senza dirle una parola, ma dovette rassegnarsi all'evidenza quando il ragazzo inchiodò proprio di fronte a lei, dall'altra parte del tavolo. Rimase a fissarlo inebetita, con il cuore che martellava nel petto.
Come prevedibile, fu lui ad aprire il discorso. -Ciao- le disse.
-Ciao- rispose, meravigliandosi della velocità con cui era riuscita a parlare.
Il ragazzo le sorrise, e Laney sentì lo stomaco salirle in gola.
-Posso sedermi qui?-
Laney si guardò intorno. Non vide nessuno nei paraggi, quindi annuì.
Samuel le si accomodò di fronte e, di nuovo, Laney non poté fare a meno di notare la grazia disinvolta dei suoi movimenti. Perché era lì? L'aveva visto spesso in compagnia di Alicia e James, in quei giorni... loro dov'erano adesso?
-Ehm...- si schiarì la voce Samuel. -Come va?-
-Oh...- Laney si sentì presa in contropiede. Era un po' nervosa. -Bene- mentì. -A te?-
Samuel fece spallucce. -Bene.-
Laney non poté fare a meno di domandarsi se anche la sua fosse una bugia. Poi il ragazzo si umettò le labbra e la scrutò con aria pensosa. Percepiva una certa urgenza nei suoi modi, necessità mista a imbarazzo, e questa sensazione la imbarazzò a sua volta. Con ogni probabilità, Samuel aveva capito perfettamente che aveva cercato di evitarlo per tutto quel tempo, ma decise di non fare menzione della cosa. Laney glie ne fu molto grata. Al contrario, le chiese: -Come mai non mangi a mensa con gli altri?-
Sulle prime, lei esitò. Una manciata di istanti dopo, però, ammise: -Non mi piace molto la mensa.-
Samuel sollevò un sopracciglio, per nulla convinto. -Non ti piace la mensa o la compagnia?-
Laney fece scattare gli occhi su di lui. -Io...- esalò, senza sapere cosa rispondere.
Un secondo dopo, Samuel indicò la sua mano bendata con un cenno del mento. -Che hai fatto lì?- le chiese.
Laney si affrettò a nasconderla dietro alla schiena. -Niente- rispose. -Sono inciampata.-
-Su una trappola di Tyler?- ribatté il ragazzo.
Lei rimase di sasso. Ormai sapeva, a che pro mentire? -Non fa niente- disse. -Ci sono abituata.-
Samuel scosse la testa, in disapprovazione. -Non è vero. Non ci si abitua mai al dolore.-
Si guardarono. Si era creata una strana intimità, la stessa che avevano da piccoli, quando si appartavano sulla veranda a discutere di figurine da collezione, giocattoli nuovi e litigi domestici.
Era assurdo, irrealistico come un sogno. Laney si meravigliò della serenità con cui lo stava affrontando. Non era in ansia, né provava agitazione, e pensò che, in fin dei conti, il fatto che lui avesse svelato il suo segreto era stata una liberazione.
-Perché ti chiamano "Vomito"?- le chiese Samuel.
Una domanda diretta.
Per un po', Laney non fiatò. Nella sua mente affioravano immagini, vapori di luci accecanti e rumori assordanti e grida di orrore e perfide risate... 
Rabbrividì. -È stato tanto tempo fa- disse, ma si rese conto immediatamente che non era era abbastanza per spiegare, per capire.
Si chiese perché. Perché Samuel voleva tanto sapere quelle cose? Perché continuava a inseguirla, invece che starle alla larga come gli altri? Perché non sembrava disprezzarla nemmeno un po'? E, soprattutto, perché ora si sentiva così al sicuro, con lui? Era una sensazione naturale, quella familiarità? Samuel era stato una delle persone più importanti della sua vita, ma era giusto che sapesse?
Lui attendeva. Muto e immobile, la fissava con piglio severo, in ascolto.
Come per magia, l'ultimo cappio che le annodava la lingua si sciolse. -Conosci Judith?- pigolò, guardandolo di sottecchi.
Lui negò con il capo. Non aggiunse altro, quindi Laney riprese: -È la ragazza bionda che sta sempre con Tyler. Quando era al secondo anno ha invitato tutta la scuola alla sua festa di compleanno, e io ci sono andata con Vera.- Si fermò per un istante, cercando di tenere sotto controllo i pensieri, le emozioni, di ricostruire l'ordine giusto degli eventi. Una stretta sgradevole le attanagliò lo stomaco. -È stata una festa carina, tutto sommato. Fino a quando Tyler non mi ha messo del cibo avariato nel piatto e mi ha costretta a bere tre bicchieri di birra tutti d'un fiato.-
Samuel non commentò. Aveva assunto un'espressione assorta, le braccia incrociate di fronte a sé.
Laney prese un respiro e si portò ciocche sparse di capelli dietro alle orecchie. -Puoi immaginare come è finita- bisbigliò. -È successo davanti a tutti. Ho sporcato il tappeto persiano dei signori Pierce e anche il vestito di Judith. Da quel giorno lei mi odia a morte.- Laney ascoltò la propria voce con distacco, come provenisse da un'altra dimensione. -E per gli altri sono solo "Vomito".-
Si rese conto subito di quanto dovesse suonare imbarazzante e patetica, e desiderò non aver mai parlato. Come al solito, aveva sbagliato tutto. Pensò di sdrammatizzare, magari dire qualcosa di stupido - la birra non le era mai piaciuta e il vestito di Judith era orribile anche prima che ci vomitasse sopra - ma dalle sue labbra uscì solo uno sprezzante: -È disgustoso.-
Samuel non era dello stesso avviso. -Non è disgustoso- disse piano. -È stato solo un incidente. Non è stata colpa tua.-
Laney sollevò di scatto la testa. Lo sguardo di Samuel era limpido, caldo e rassicurante, ma i suoi lineamenti erano affilati da un'incredibile determinazione, una durezza che non avrebbe mai creduto di associare al suo viso. In ogni caso, del ribrezzo non c'era neppure l'ombra, e se era rimasto turbato dal suo racconto, non lo diede a vedere. -Mi dispiace- disse infine.
-Di cosa?-
-Che hai dovuto affrontare tutto questo. Non è giusto- le rispose abbattuto.
-Non fa niente- affermò con leggerezza Laney. -Passerà. È l'ultimo anno, devo sopportare solo un altro po'.-
Samuel parve sconcertato. -Pensi di passare tutto l'anno così?! Non puoi, non è sostenibile!-
-Lo so- disse lei, tornando a studiare la mano bendata, ora sotto al tavolo. -Me ne rendo conto.-
"Ma che altro posso fare?" pensò.
Per un po' rimasero fermi, immersi in un silenzio rotto solo dagli schiamazzi provenienti dalla Turnips.
Poi, di colpo, Samuel si riscosse. -Io voglio aiutarti- dichiarò. -Cosa posso fare?-
Laney sgranò gli occhi e dischiuse le labbra, sorpresa. -I-io...- balbettò. Cosa avrebbe potuto rispondergli? La testa le viaggiava a velocità supersonica; non avrebbe mai creduto che la loro prima conversazione dopo tanto tempo avrebbe preso quella piega.
Era incredibile. Dieci anni dopo, Samuel era ancora dalla sua parte.
"Come sempre."
Sentì una stretta al cuore. C'erano troppe implicazioni, speranze non dette, ma Laney non sapeva fino a che punto lui se ne rendesse conto. Fece l'errore di immaginare ancora una volta come sarebbe stata la sua vita, se la realtà fosse stata un'altra: pranzare al caldo, scambiare chiacchiere e battute, camminare per i corridoi a testa alta... un'utopia. Una vera e propria utopia.
Ma il colpo più duro arrivò quando pensò a cosa sarebbe accaduto a Samuel, se l'avessero visto con lei. Una vagonata di proiezioni orribili le si pararono di fronte: Samuel che veniva pestato a sangue, Samuel che si puliva i vestiti dal fango, Samuel che lavava via le scritte dal proprio banco.
Dal giorno in cui si erano incontrati davanti ai cassonetti, Laney aveva sempre saputo che, per quanto lo volesse, non le era concesso avere amici. Ma ora che lui era proprio lì di fronte, e le offriva il suo sostegno con tanta naturalezza, quella consapevolezza si stava trasformando in una condanna intollerabile.
La ragazza fu assalita dalla disperazione. Dopo tutte le persone che erano state coinvolte a causa sua, dopo gli scontri, le vendette, le punizioni e le lacrime... con quale coraggio avrebbe potuto accettare quell'offerta?
-Niente- affermò brusca. -Non c'è niente che tu possa fare.-
Samuel la guardò dispiaciuto. -Perché?-
E poiché c'erano miliardi di motivi che avrebbe potuto addurre, Laney illustrò il più elementare che aveva a disposizione. -Perché è la verità- disse. -Nessuno può farci niente.-
A quelle parole, Samuel scattò sul posto, come se qualcuno lo avesse spintonato. -Per quale motivo oggi siete tutti così disfattisti?- sputò, cercando di dissimulare un fastidio che tuttavia traspariva chiaramente.
-Che cosa?- chiese Laney, catapultata sulla difensiva.
-Non è vero che non c'è niente che possiamo fare- disse sicuro l'altro. -Io lo so che non è così.-
Laney sfoderò un sorrisino divertito. -Tu lo sai?- gli fece eco, risentita. -Certo, parlate tutti così bene. È facile quando non si subisce in prima persona, vero? Non vi pare di essere un tantino presuntuosi?- Pronunciò quella frase con astio immenso, riversandoci dentro una quantità di fiele che neppure sapeva di serbare. -Ma non importa. Dopotutto voi lo sapete, no?- 
Ecco, alla fine, era esplosa.
L'espressione di Samuel ebbe un guizzo, e sul suo bel viso si fecero strada incredulità e delusione cocente.
Laney cercò di reprimere il senso di colpa, ma fallì miseramente, e ben presto si ritrovò a lottare contro il magone. Ferire Samuel era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare. Desiderava solo un po' di pace, ma evidentemente era chiedere troppo.
Si alzò in piedi, ripose il porta-pranzo nella propria borsa e, di colpo, si sentì persa. Era un disastro. Un desolante, ridicolo, nauseabondo disastro. -Mi dispiace- biascicò.
Le labbra di Samuel erano strette in una morsa letale. -No, hai ragione- disse. -Non avrei dovuto impicciarmi.-
Non era vero e lo sapeva. Samuel era mosso dalle migliori intenzioni, ma il baratro in cui era caduta era troppo profondo perché potesse risalire. E loro non potevano capire. Nessuno poteva. Quanto erano fragili i rapporti umani, se bastavano qualche anno e poche parole sbagliate, a distruggerli?
Laney trattenne il respiro. Infine, in un ultimo slancio di onestà, sussurrò: -Io non posso permettere che accada anche a te. Non me lo perdonerei mai.-
Lo sguardo di Samuel volò su di lei. -Laney...- annaspò.
Si osservarono un istante, prima che Laney decidesse di girare i tacchi e filarsela, veloce come il vento.
Sarebbe stato bello vivere la vita di qualcun altro, trasformarsi in un uccellino e volare via, oppure cadere in un sonno profondissimo proprio lì, su quel prato. Eppure niente di tutto questo sarebbe accaduto.
Per un po', Samuel non la cercò più. Fu come tornare alla realtà dopo aver vissuto un sogno, uno in cui a qualcuno importava ancora di lei e c'era la remota possibilità che non rimanesse relegata nella solitudine. In ogni caso, era quello che voleva, quindi Laney non si lamentò.
La prima settimana di Ottobre trascorse nel grigiore più totale, senza l'ombra di cambiamento né di rivoluzione.
Tuttavia, una novità c'era. Laney ipotizzò che Tyler avesse finito gli insulti da scrivere, o che forse iniziava a trovare quell'idea perfino troppo cavalleresca, e stava pensando di infliggerle qualcosa di molto peggiore.
In ogni caso, i post-it che venivano quotidianamente affissi al suo armadietto, come per magia, erano spariti.



ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Hey, cutiepies! 
Che dite? Come state?
Eccoci qui, dopo ere geologiche, con il nuovo capitolo.
Ormai mai mi sono rassegnata all'idea che, tra università, impegni e incombenze varie, aggiornerò ogni morte di papa, quindi spero che, almeno, quel poco che posto vi soddisfi.
Che ve ne pare del risultato? Vi è piaciuto?
Cosa credete che accadrà in futuro?
Io vi dico già che il prossimo brano è piuttosto... intenso, al livello emotivo.
Spero solo di non fare disastri >- Auspicando che non trascorrano altri due secoli e mezzo tra questo e il prossimo aggiornamento, io vi mando un grosso bacio, ringrazio tutti coloro che seguono la storia e che hanno recensito, e vi aspetto alla prossima puntata.
ILU.
Sayami.

 

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Capitolo 7
*** Tiny Town - 1.6 ***


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1.6

 

Il mistero fu svelato un martedì soleggiato, ma freddo.
Su richiesta del professor Thompson, Laney si era fermata a scuola dopo la fine delle lezioni, per seguire un laboratorio di lingua, così aveva trascorso la giornata tra saggi di illustri letterati e sbadigli nascosti nella manica della felpa.
Uscendo dalla classe, quel pomeriggio, il corridoio le era apparso come un lungo tubo blu e arancio. La luce che filtrava dai lucernari era tenue e appannata e, proprio in fondo all'ingresso, oltre la porta a vetri, il sole morente spandeva bagliori accecanti, anche se un po' malinconici .
Stringendo i libri al petto, Laney si incamminò, diretta al suo armadietto, ma quando fu quasi a destinazione vide che non era sola.
Qualcun altro si affaccendava alacremente intorno al suo sportello, strappando via fogli di carta e scotch, post-it dai colori vivaci e disegnini osceni su fazzoletti usati.
Era un ragazzo. Un ragazzo dai folti capelli castani e dagli occhi espressivi e affusolati come quelli di un gatto.
Lui non la vide. Per un po' seguitò col suo operato: imperterrito, risoluto, spietato, sradicava fogli come erbacce, radici del male.
Poi, quando finalmente si accorse della sua presenza, Samuel Carson si immobilizzò.
Nessuno dei due salutò l'altro.
Laney non gli chiese come era andata la giornata, se era stanco, se avesse voglia di tornare a casa insieme. Non gli chiese neppure perché si trovasse lì in quel momento, con quale coraggio. Lo guardò soltanto, mentre una parte di lei si spaccava a metà. -Che... stai facendo?-
Samuel non rispose subito; rimase inebetito, come sorpreso dalle sue stesse azioni.
-Io...- soffiò alla fine. -Io stavo solo...-
-Che stai facendo?!- domandò di nuovo Laney, a voce più alta, come se lui non avesse sentito e lei non avesse già capito tutto.
Era stato Samuel, sempre Samuel, tutti i pomeriggi, tutti quegli insulti. Come aveva potuto essere così cieca, così sciocca da credere che avrebbero smesso?
E se qualcuno l'avesse visto, mentre li toglieva? Lo avrebbero incolpato? Lo avrebbero punito?
"È colpa tua, solo tua."
La sua gola si strinse in una morsa straziante. Avrebbe voluto urlare.
Samuel continuava a fissarla attonito, senza dire nulla. Laney gli si avvicinò a passo spedito. -Rimettili a posto- statuì. -Tutti quanti.- Rabbia e terrore vorticavano furiosamente nel suo stomaco, ma c'era anche qualcos'altro che montava e montava, dentro di lei, e non la lasciava respirare.
Samuel non si mosse.
Laney fu assalita dall'impazienza e gli strappò i fogli dalle mani. Iniziò ad affiggerli al suo armadietto con foga febbrile, isterica. Leggeva parole come lame nella carne: "Vomito", "Cancro", "Aborto".
Samuel parve riscuotersi. -Cosa...- iniziò, ma Laney non lo ascoltava, non comprendeva più niente, ormai. Sapeva solo che quei messaggi dovevano tornare al loro posto nel minor tempo possibile.
-Laney, aspetta un secondo- obbiettò il ragazzo. -Perché stai...-
-Rimettili al loro posto, ho detto!- sbraitò lei, togliendogli un disegno stilizzato che la ritraeva in atteggiamenti ambigui con il signor Thompson. Tremava tutta, fino alle punte dei capelli, e le veniva da piangere.
Samuel assunse un'espressione fin troppo pietosa per i suoi gusti. -Laney...- tentò, ma la ragazza non lo lasciò finire.
-Sei uno stupido- abbaiò, grattando corde letali della sua anima. -Impiccione, insensibile, negligente...- e per ogni parola spuntata, attaccava un biglietto sullo stipo.
-Negligente?- le fece eco Samuel, contrariato. -Ti ha dato di volta il cervello, per caso?- Con una sola manata, il giovane spazzò via tutti i fogli che Laney aveva riappiccicato con tanta cura.
Lo guardò esterrefatta. Non sapeva per quale ragione si sentiva così umiliata, ma non importava. Niente aveva più importanza, in quel momento. -Ti avevo detto di lasciar perdere!- strepitò, battendo i piedi a terra. -Ti avevo chiesto di andartene!-
-E io non l'ho fatto- ribatté secco Samuel. -È una mia scelta.-
-Be', è una scelta stupida!- gridò lei, la voce rotta, il cuore disfatto. -Adesso dammi quei cosi e vattene.-
Laney allungò le braccia per riprendersi i suoi insulti, ma Samuel li allontanò. -No!- esclamò. -Tu devi ascoltarmi.-
Tuttavia, la sola cosa a cui Laney stava dando ascolto era il richiamo della sua paura. Sbracciò ancora, fece per prendere i biglietti con la forza.
-Laney...- la richiamò Samuel. -Ehi...-
Lei non si fermò. Tese le mani più che poteva per afferrare l'oggetto del contendere, si contorse, si snodò come una ballerina sul filo, come se ne fosse dipesa tutta la sua vita.
Voleva indietro la sua sofferenza, la voleva tutta, dentro il sangue, nelle vene, nelle ossa.
Sulle prime, Samuel provò a dissuaderla con le buone, ma poi perse la pazienza. -Basta!- ruggì. Si girò di scatto e con la mano libera le afferrò il polso. Anche se non le stava facendo male, la strinse forte e Laney fu costretta a guardarlo in faccia. Nella sua espressione, il fastidio si mischiava a un dolore vivo, bruciante. Ci fu una pausa, occhi negli occhi.
-Smettila di ignorarmi- bisbigliò il ragazzo. -Smettila.- Allentò la presa, ma non la lasciò andare.
Laney era senza forze, senza fiato. Si accorse solo allora di avere le guance bagnate di lacrime.
-Tu...- annaspò, ma nell'esatto istante in cui iniziò a elaborare, un lamento sguaiato e crudele echeggiò per il corridoio. Tyler e i suoi erano di ritorno dagli allenamenti.
Nella mente di Laney, il panico esplose come una bomba.
-V-Vattene!- ululò, strattonando Samuel. -O-Ora!-
Ma l'altro sembrava più determinato che mai. -Io non mi muovo di qui. Non ho paura di Tyler, non mi importa se ci vedono.-
-T-Tu non hai...- balbettò Laney, a metà tra la disperazione e l'incredulità. -Non puoi farmi questo...- esalò, mentre un'altra risata le rimbombava nei timpani. -C-Cosa... Cosa faccio adesso?-
Questione di istanti e loro sarebbero stati lì.
Un senso di malessere la invase. Aveva le viscere rivoltate, come se miliardi di insetti ci stessero ronzando dentro.
-S-Samuel...- supplicò. -Per favore...-
Ma Samuel era inamovibile, perentorio. -No- annunciò. -Io resto.-
Due parole come schiaffi, il cranio che pulsava così forte da scoppiare. Laney si sentì morire.
-Ti prego, devi andartene- disse di nuovo, sopraffatta dalla disperazione. -Ti supplico, Samuel...-
Il ragazzo finse di non sentirla. Si voltò e riprese a staccare post-it dall'armadietto con una calma ridicola, surreale.
Passi pesanti scandirono secondi interminabili. Li avrebbero visti. Avrebbero fatto del male anche a lui e lui l'avrebbe odiata. Il cuore le martellava nel petto, nelle tempie, nei polsi e sulla lingua.
-Perché...?- spirò ancora, sull'orlo del tracollo. -P-perché?-
Non sarebbe mai fuggita. L'avrebbero perseguitata per sempre, le avrebbero tolto ogni gioia, ogni cosa bella che le era rimasta, fino a farle rimpiangere di essere nata. Non voleva. Iniziò a battere i denti, a tremare più forte.
Era la fine.
E poi accadde qualcosa di terrificante e liberatorio insieme: Laney perse il senso di sé stessa. Non era la prima volta che le capitava, ma fu un episodio particolarmente intenso. Il malessere si tramutò di colpo in assenza; Laney si vide da fuori, esterna come in un film, un sogno.
-Laney!- le arrivò da un'altra dimensione. -Laney!- Ma lei non riusciva ad afferrare, a focalizzare. Il mondo appariva distorto, distante, distratto.
Per un attimo, un brevissimo istante, non ne ebbe paura.
Dopodiché si verificò un fatto ancor più strabiliante: tutto intorno divenne ovattato e incolore, ogni suono si zittì e braccia e gambe smisero di obbedire al suo governo; il suo corpo si fece di burro e Laney non percepì più nulla.

 
 
Tornando a casa dal suo primo giorno di scuola, Laney si spremette le meningi più che poteva per inventare una buona storia da imbastire

Le ginocchia di Laney impattarono al suolo con un botto secco.
-Laney!- esclamò di nuovo Samuel, sconvolto, lanciandosi in avanti per sorreggerla. Temette che le sua ossa si fossero sbriciolate, ma, quando provò a sollevarla, il ragazzo si accorse non solo che era leggerissima, ma anche che, per qualche curioso miracolo, Laney seguiva i suoi movimenti in un inconscio stato di volontà.
Non era svenuta. Il suo sguardo era vacuo, il colorito pallido, tremava tanto forte da battere i denti, ma una forza segreta la costringeva ancora a camminare.
Samuel non era un esperto, ma gli tornò in mente un episodio: le urla dei suoi genitori, il frastuono assordante di cocci infranti e le dita gelide e tremanti di Annika, strette tra le sue, identiche a quelle di Laney.
"È stato un attacco di panico" aveva detto il medico. "Attacco. Di. Panico."
In fondo al corridoio, gli schiamazzi del gruppo di Tyler si facevano sempre più roboanti, minacciosi come nubi temporalesche. Erano lì.
Samuel decise in una frazione di secondo. -Va bene, hai vinto tu. Ce ne andiamo, okay?-
Con un braccio avvolto intorno alla sua vita, Samuel condusse Laney fino a una stanza con la targa "AULA MUSICA". I due ragazzi sgusciarono al suo interno proprio mentre il faccione squadrato di Tyler faceva capolino dietro l'angolo. Tirandosi la porta alle spalle, Samuel si premurò di chiudere a chiave.
Un attimo dopo, la nota risata odiosa permeò l'aria, passando davanti all'entrata. -Bella, questa!- gongolò qualcuno, mentre altri gracchiavano imprecazioni grevi.
Laney ebbe uno spasmo, un guizzo di terrore. -No, no, no!-
Samuel cercò il suo sguardo. -Ehi...- la richiamò con dolcezza. -Non ascoltarli. Guardami. Siamo io e te, qui- disse. -Solo io e te. Non possono farti più niente, ormai.-
Laney aveva gli occhi pieni di lacrime. A poco a poco smise di tremare, ma due grossi lucciconi rotolarono giù dalle sue ciglia.
Samuel li raccolse con il dorso della mano. La pelle di Laney era morbida, calda, familiare. -Non piangere, ti si gonfieranno gli occhi!- disse allegro, ma lei non rise.
Di colpo, Samuel si sentì sciocco. La ragazza che aveva davanti non sarebbe potuta essere più diversa dalla Laney che galleggiava ancora nei suoi ricordi, e lo stava respingendo.
Per cosa stava combattendo, in realtà? Per una giusta causa o... per sé stesso? Avrebbe voluto essere d'aiuto, forte, caparbio, ma... forse Alicia e James avevano ragione. Forse era in torto, e forse la sua era solo ostinazione idealista.
Eppure gli pareva così palese che Laney avesse bisogno di lui, così scontato, da non riuscire a vedere la logica, il senso dietro al suo rifiuto.
Perché gli si era scagliata contro con tutto quell'astio? Quanta rabbia aveva covato, negli anni? Quanto aveva subito, ingollato, sopportato, assimilato senza ribellarsi?
"Non posso permettere che accada anche a te."
Il suo cuore saltò un battito.
L'aula musica era tanto luminosa quanto polverosa. In fondo alla stanza, un armadietto di compensato con gli sportelli scassati straripava di spartiti, peci consunte, crini di cavallo, corde di nilon e percussioni tintinnanti e disperse.
Sulla parete di destra, sotto a una lunga serie di finestre sporche, sfilavano custodie di viole e violini, chitarre e flauti e, al centro, un bel pianoforte a coda faceva mostra di sé, vanesio come una diva hollywoodiana.
La luce rossastra del crepuscolo baluginava sul legno lucido e nero, scivolava sulle pareti, sul pavimento, sfiorava i loro corpi e carezzava il viso di lei, piccolo, cereo e scavato di dolore.
Samuel rimase a guardarla per un tempo infinito, pensando con amarezza che poche volte aveva visto qualcuno di più triste.
Stretta al muro, aggrappata all'intonaco, come per non crollare, la ragazza se ne stava in silenzio, una mano piena dei tremendi bigliettini. Nella foga del momento, Samuel li aveva dimenticati in corridoio.
A un tratto, dissipando la coltre di indecisione, Laney parlò. -Perché?- chiese rauca. -Perché ti ostini a fare tutto questo?-
Samuel trasalì. Urgeva una giustificazione.
"Non lo so" avrebbe potuto dirle. "Forse perché sono un egoista e conservo ancora quello stupido braccialetto di conchiglie."
Ma Samuel non rispose nessuna di queste cose. -Perché no?- chiese invece di rimando, un banale palliativo in attesa di essere scoperto.
Laney lo scrutò attraverso la debole luce, gli occhi come pozzi di timori, e dischiuse le labbra quel poco che bastava per sospirare.
Ancora silenzio. Samuel si domandò a cosa stesse pensando. La sua ombra sulla parete era simile alla sua condizione: oscura, allungata e capace di inghiottirla. Una scena nostalgica, l'andamento ipnotico dei suoi ricci nel tramonto, il grigio e il rosso che si mischiavano su di lei come acquerelli.
Allora, e solo allora, Laney sollevò il mento e lo guardò dritto in faccia, e Samuel... si sentì perduto. Laney aveva un'espressione... come se fosse stata sull'orlo delle lacrime per tempi infiniti, senza potersi mai abbandonare al pianto. Proferì un'invocazione quasi inudibile: -Non posso, non ce la faccio.-
Samuel deglutì, parole aspre sul palato. -Io ti aiuterò- bisbigliò a sua volta.
-Tu non capisci- ribadì ancora lei, categorica, imperativa.
Samuel fece per ribattere, ma la ragazza lo bloccò. -Una volta, io e Vera stavamo uscendo da un'aula al secondo piano- iniziò. -Tyler ci ha viste, mi è corso dietro e mi ha spinta giù dalle scale.-
-Laney...- tentò Samuel, ma fu nuovamente interrotto.
-Mi sono solo rotta un braccio, ma Vera si è arrabbiata moltissimo- spiegò lei, un improbabile sorrisetto a tagliarle in due il volto. -Diceva che era troppo, che non potevamo andare avanti così, che era stufa e glie l'avrebbe fatta pagare. È andata a cercare Tyler, anche se io l'avevo pregata di non farlo. Lo ha insultato. Gli ha detto che era uno scarto umano e cose del genere. Alla fine gli ha anche mollato un ceffone.-
Samuel non poteva credere alle proprie orecchie.
Laney si umettò le labbra e proseguì, gli occhi fissi su distanze incolmabili: -Lui non l'ha presa bene. Un giorno ha mandato i suoi amici da noi. Hanno trascinato Vera in bagno, si sono chiusi dentro, e se i professori non fossero intervenuti l'avrebbero...- La sua bocca si spalancò, ma non ne uscì alcun suono. -Loro l'avrebbero...- Fischi inarticolati le morirono in gola. Laney, chiuse gli occhi e lacrime pesanti come il piombo le solcarono gli zigomi.
Samuel era senza fiato. Allora era questo, ciò che era accaduto a Vera. Sua cugina, una delle persone che aveva più care... per quale ragione nessuno lo aveva messo al corrente della situazione? -È tutto okay...- annaspò scosso, disorientato. -È tutto okay, troveremo una soluzione e...-
-NON C'È UNA SOLUZIONE, SAMUEL, NON C'È NIENTE!- gridò Laney, fuori di sé. -Ti f-faranno del m...ale, se c...ontin...ui a f...are co...sì. T-tu non...- Singulti confusi le riempivano la bocca prima che riuscisse a parlare e Samuel sgranò gli occhi, del tutto spiazzato.
Laney era scoppiata in un pianto incontrollato. Piangeva come piangono i bambini, disperata e senza freni, come se il mondo si fosse rotto e non ci fosse modo alcuno per ripararlo. Piangeva in modo brutto, con il naso che colava, singhiozzando forte e gemendo piano.
Alla fine era crollata, una torre di carte, un castello di sabbia.
E fu proprio in quel momento che Samuel capì.
Nonostante tutta la forza d'animo e il coraggio, c'erano ferite che non si sarebbero rimarginate, crepe profonde, nascoste agli sguardi distratti, che avrebbero continuavano a sanguinare silenziosamente per sempre. Perché a volte un ricordo poteva fare più male di mille schiaffi, e spesso la gente agiva senza pensare, per il puro gusto di ferire, strappare e distruggere ciò che di bello ancora restava.
Era così per tutti: James, Alicia, Vera, Laney... erano scheggiati, infranti in mille pezzi, ma proprio dove gli altri non riuscivano a vedere, nei recessi delle loro menti, in fondo a cuori troppo grandi e pesanti perché potessero continuare a sorreggerli da soli. Erano buchi neri, spirali di risentimento e dolore che avrebbero lasciato vittime e carnefici stanchi e sporchi per il resto dei loro giorni.
Abusare del prossimo, dire e fare cose che avevano il potere di cancellare ogni gioia dagli occhi e dall'anima era sbagliato, terribilmente, assurdamente sbagliato.
E nessuno, nessuno avrebbe mai dovuto subire un trattamento simile.
Così, Samuel seppe. E seppe che non avrebbe atteso un secondo di più mentre distruggevano la vita delle persone che aveva vicino. Della sua famiglia. Della sua migliore amica.
Ciò che accadde dopo gli venne naturale come respirare. Samuel avanzò, prese Laney nel cerchio delle sue braccia e la tirò a sé. Loro due come pianeti, corpi celesti che collidevano in un istante fatale.
Dapprima Laney rimase rigida, immobile, ma a poco a poco le tensioni si sciolsero come neve al sole. Samuel avvertì il battito del suo cuore, impazzito, farsi dolce e regolare sotto alle proprie dita. -Mi dispiace- bisbigliò solo. -Mi dispiace da morire, Laney.-
La ragazza sospirò appena. Samuel rabbrividì, sentendo le sue mani scorrergli lungo il torace. La differenza di taglia tra di loro era sconcertante, Laney sembrava fatta apposta per calzare nel suo abbraccio.
-Lasciami- protestò fiaccamente, mollandogli un pugnetto sul costato. -Vattene via.-
Samuel scosse il capo, testardo. La strinse più forte e affondò il viso nei suoi capelli. -Te lo scordi- dichiarò. -Io non ti mollo, hai capito?-
Laney riprese a singhiozzare. Si aggrapò alla sua maglietta e la strattonò, nascosta contro la sua spalla. -No...- ripeté. -Vattene, lasciami sola.-
Ma i suoi gesti la contraddicevano. D'istinto, Samuel sorrise.
Non poté fare a meno di ricordarla da bambina, dall'altra parte dello steccato, occhi rossi e gonfi e guance di lamponi. "Vattene via, voglio stare sola" gli diceva sempre quando litigava con i suoi. Samuel non sapeva mai come reagire.
Ma ora era tutto diverso. E non doveva essere per forza sbagliato. -Tu non sei sola- le sussurrò. -Non lo sarai mai più.-
A quel punto, Samuel avvertì il corpo di lei vibrare, prima di abbandonarsi del tutto alla sua presa. Non oppose più resistenza. Rimasero così per un po', stretti l'una all'altro, vicinissimi, in equilibrio tra il successo e il tracollo, fino a quando il tramonto non si asciugò e le prime stelle bucarono il cielo. Allora il cellulare di Laney squillò.
I due ragazzi trasalirono e di colpo si separarono.
Laney estrasse il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e osservò lo schermo. -È mia madre- disse, rossa in viso e con i capelli arruffati. Samuel sentì un vuoto all'altezza del petto all'idea che fossero stati abbracciati così a lungo.
Provò a sbirciarla di sottecchi, ma non appena si accorse che Laney stava facendo lo stesso distolse lo sguardo. Aveva caldo. -Dovresti andare, i tuoi saranno preoccupati.-
Laney annuì e fece per uscire dall'aula. Per qualche ragione, Samuel scoprì di essere un po' triste. Ma, un attimo prima di varcare la soglia, la ragazza si fermò.
-Samuel?- chiamò.
Lui la scrutò nella penombra. -Mh?-
Laney gli offrì un sorriso sbilenco.
-Grazie- disse solo. -Grazie di tutto.-


ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Hey, cutiepies! 
Come va la vita?
Dunque, io potrei, o potrei non aver urlato/pianto/battuto la testa contro il muro durante la stesura di questo capitolo, ma le conclusioni le lascio a voi.
Che ve ne pare? Troppo smielato? Troppo lento? Troppo jhigedk?
Vi confesso che mi trovo un po' in difficoltà con GdG: nella mia testa è una storia piacevole e molto molto dolce, ma quando poi la scrivo... eeeeh- 
Che tradotto significa che non so se sia un prodotto valido o meno. ç_ç
Voi che ne pensate del personaggio di Samuel? E di Laney? Credete che la loro relazione sia noiosa/costruita male/qualunque altra cosa vi venga in mente? 
Onestamente spero tanto di non aver portato troppo schifo nell'universo.TT_TT
Ad ogni modo, come al solito, ringrazio tutti coloro che hanno recensito e che hanno messo la storia nei seguiti, nei preferiti e nei ricordati. Un beso e alla prossima puntata.
ILU.
Sayami.

 

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Capitolo 8
*** Tiny Town - 1.7 ***


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1.7

 
Ovunque era il suo profumo: impregnava l'aria, lo sentiva addosso e tutt'intorno, uno spiritello infestante e maligno.
Era già trascorsa una settimana dall'incidente del corridoio. Laney non era più andata a scuola da quel pomeriggio. Si sentiva frastornata, una mina vagante, una pentola a pressione sul punto di esplodere. La sola idea di rivedere Samuel le sembrava improponibile, non solo per l'imbarazzo, ma anche per il terrore che l'assaliva ogni volta che pensava a lui. E Laney non faceva che pensarci.
Lo rivedeva in controluce, il suo corpo solo una sagoma che affondava nel tramonto. Le sue braccia la avvolgevano, la stringevano e la sostenevano con una forza e una dolcezza sconcertanti. Percepiva la consistenza della sua maglia sotto alle dita, il suo respiro tra i capelli, i battiti accelerati del suo cuore nelle orecchie. Si era sentita al sicuro. Per un attimo, un istante infinitesimale, aveva creduto che tutto si sarebbe sistemato, che ogni cosa sarebbe andata a posto, ma si sbagliava. Ovviamente, si sbagliava.
Da giorni rimaneva chiusa in camera sua, neppure ricordava l'ultima volta che era scesa al pianterreno di sua spontanea volontà. Mangiava poco, dormiva ancor meno, di tanto in tanto prendeva lunghi respiri, come tornando a galla da un'apnea. Fissava il soffitto da una posizione panoramica, stesa sul suo lettino, e contemplava con languore la propria condizione, quasi con nostalgia, quasi che, in fondo in fondo, non appartenesse veramente a lei.
Mamma e papà credevano che avesse la febbre. O almeno Laney sperava che ci credessero, anche se sapeva che non avrebbe potuto continuare a lasciare il termometro nella camomilla bollente o sul termosifone ancora a lungo. Avrebbe dovuto reagire.
Già, reagire.
Quella parola la spaventava a morte. Non ne conosceva l'esatto significato, non si identificava in nulla di preciso, nulla di concreto, nulla di certo e infallibile. Non aveva appigli.
Come se non bastasse, ora Samuel era intenzionato a dare battaglia a Tyler e Laney non riusciva a immaginare un risvolto della vicenda per cui non venivano entrambi assaliti, immobilizzati, pestati a sangue e abbandonati chissà dove.
Aveva paura e, come al solito, era scappata. Si detestava per questo, ma sapeva benissimo che si sarebbe odiata ancor di più se per causa sua fosse accaduto qualcosa a Samuel. Non avrebbe potuto sopportarlo.
Rapido come un battito di ciglia, un rumore di colpi alla porta ruppe il flusso dei suoi pensieri. Laney si affrettò a sistemarsi meglio tra le coperte.
-Laney, sono io- disse la voce di suo padre. -Posso entrare?-
-Sì- pigolò la ragazza contro il cuscino.
Edward Barnes sgusciò nella cameretta in punta di piedi. Laney lo vide strizzare gli occhi, identici ai suoi, prima di abituarsi alla penombra in cui verteva l'ambiente. -Ti ho portato il tè- le disse, indicando con un cenno la tazza fumante tra le sue mani.
-Grazie- rispose lei, osservandolo mentre la abbondonava sulla scrivania.
L'uomo lanciò una rapida occhiata alle imposte. -Non vuoi alzare le tapparelle?- chiese.
Laney pensò al balconcino della camera di Samuel, proprio dirimpetto alla sua. Le era capitato, sbirciando dalla porta-finestra, di vederlo passare, intento alle sue occupazioni. Qualche volta guardava nella sua direzione, ma poi distoglieva subito lo sguardo.
Scosse piano la testa. -Ho un po' di emicrania, preferisco rimanere al buio.-
Il suo interlocutore contrasse il viso in una smorfia indecifrabile. -Come vuoi. Ti dispiace se rimango un po' qui con te?-
Laney si tirò a sedere per fagli spazio. Con andatura maldestra, l'uomo attraversò la stanza e si accomodò ai piedi del letto.
Edward Barnes non era mai stato un papà affettuoso. Era di indole timida e riservata (che lei stessa aveva ereditato), ragion per cui era solito dimostrare il suo affetto mediante gesti discreti, all'apparenza trascurabili, come comprarle ogni tanto qualche leccornia o, per l'appunto, portarle il servizio in camera.
Il loro rapporto si era costruito su abitudini comuni: giocavano a scacchi, andavano a passeggio, spesso discutevano del più e del meno, ma di rado suo padre le aveva concesso carezze, o baci, o slanci profusi di effusioni.
Però ricordava che da bambina, quando era malata, era solito vegliarla per ore, in silenzio, prendendole la temperatura e dedicandole ogni sorta di attenzioni.
Edward passò in rassegna tutti i poster che decoravano la stanza, poi la scrutò dritta in faccia. -Come stai?- le chiese.
Laney deglutì, allungandogli il termometro elettronico. Segnava 38.2 gradi centigradi.
Suo padre osservò per qualche istante la cifra riportata, prima di posarle con disinvoltura una mano sulla fronte. -Non scotti- affermò senza un briciolo di sorpresa.
Laney si strinse nelle spalle. -Non mi sento bene- replicò. -Ho freddo, mi fanno male tutte le ossa e non ho forze.-
Edward sembrò rifletterci un po' su. -Forse dovremmo chiamare un medico.-
-È solo un'influenza, papà.-
Si guardarono. Laney conosceva suo padre come le sue tasche. Sapeva bene che, se si trovava lì, era perché non la stava più bevendo, ma era comunque intenzionata a portare avanti la messinscena il più a lungo possibile.
-Come sta andando la scuola?- domandò l'uomo, di colpo interessatissimo alle scarpe in disordine sul pavimento.
-Perché me lo chiedi?-
-Perché sono tuo padre, suppongo.-
Silenzio. Laney prese un respiro infinito, prima di rispondere: -Bene.-
Edward si torceva i pollici. Era incredibile come anche una conversazione ordinaria come quella potesse risultare tanto delicata.
-Gli altri ti stanno di nuovo...-
-NO!- esclamò lei, troppo in fretta, troppo forte per essere credibile. -Assolutamente no.- Sperò con tutto il cuore che suo padre non avesse afferrato l'incrinatura nella sua voce, ma lo sguardo apprensivo che le rivolse non lasciò spazio a dubbi.
-Dico sul serio- si sentì in dovere di precisare.
-Allora perché fingi di avere la febbre da più di una settimana?- Edward aveva parlato in tono molto più pacato di quanto la sua espressione desse a intendere.
Laney annaspò. -Io non fingo di...-
-Io e tua madre siamo molto preoccupati. A dire il vero, stavamo pensando... Sì, ecco, stavamo pensando di trasferirci.-
Laney rimase di sasso. Guardò suo padre come se non l'avesse mai visto prima, gli occhi sgranati, le labbra dischiuse per lo stupore.
-Sarebbe la soluzione ideale- proseguì imperterrito lui. -Così non dovresti più preoccuparti dei tuoi compagni e potresti finalmente trascorrere quest'anno in tranquillità.-
Laney sentì lo stomaco contorcersi e il cuore salirle in gola. Le tremavano le mani. Non riusciva a crederci. -E il v-vostro lavoro?- esalò.
-Troveremo una soluzione- rispose benevolo l'altro. -Non preoccuparti.-
Ma come poteva? Come poteva stare tranquilla sapendo che i suoi sforzi erano stati vani? Che i suoi genitori erano sul punto di gettare alle ortiche anni di fatica e impegno per lei? Che li aveva fatti stare in pensiero di nuovo, che a nulla erano valse le bugie e i pianti segreti? Come poteva rassicurarsi sapendo di aver fallito per l'ennesima volta?
-Perché? Io non...- Le lacrime le pizzicavano i bordi degli occhi come spilli. -S-sto bene- languì. -P-prometto che la smetterò di farvi p-preoccupare. T-tornerò a scuola e mi farò degli a-amici. Dovete credermi, v-vi prego!-
Per tutta risposta, suo padre si alzò dal letto in un unico, goffo movimento. Le lasciò una delle sue rarissime, un po' affettate carezze fra i capelli, poi si avvicinò alla porta. -Noi ti crediamo, Laney- le disse. -Ma vorremmo che, per una volta, anche tu credessi in noi. Pensaci.-
-Papà...-
-Per favore.- E, detto questo, uscì dalla cameretta così come era entrato, in punta di piedi, lasciandola sola con i suoi pensieri.
Ma erano pensieri grigi e tristi, pieni di amarezza, avviluppati nell'angoscia e nell'incertezza. I suoi genitori amavano Tiny Town, i loro impieghi, la loro casa. Avevano lavorato sodo per costruire le loro vite, e ora erano disposti a mandare tutto all'aria.
E se anche si fossero trasferiti? Sarebbe davvero cambiato qualcosa? E se non fosse cambiato nulla? Se fosse stata destinata a quel trattamento ovunque andasse? Forse il vero problema non erano gli altri, era lei, l'incapace, stupida, piccola, debole Laney Barnes, un fallimento in tutto e per tutto.
Ormai ne aveva la certezza: era sbagliata. E non solo come persona, ma anche come figlia.
Il portone di casa Barnes era grande, lucido e verniciato di un bianco accecante, a contrasto con l'intonaco grigio degli esterni

Il portone di casa Barnes era grande, lucido e verniciato di un bianco accecante, a contrasto con l'intonaco grigio degli esterni. Davvero un bel portone, se non fosse stato per il campanello, minaccioso quanto un pluriomicida armato. Forse era quello il motivo principale per cui Samuel era rimasto impalato sulla soglia tanto a lungo.
Doveva sembrare davvero ridicolo visto da fuori, ma non poteva farci nulla: l'idea di bussare di nuovo ai Barnes dopo tutti quegli anni lo metteva in agitazione.
Tuttavia si era ripromesso che avrebbe aiutato Laney a ogni costo e non era certo tipo da venire meno ai propri impegni. Laney aveva deciso di non mettere più piede a scuola dopo la loro ultima conversazione in aula musica, e Samuel credeva anche di sapere il perché.
"Ti faranno del male, se continui a fare così!" gli aveva detto, e quelle parole gli echeggiavano ancora nelle orecchie, ma Samuel non sapeva bene come inquadrarle. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, esporre i suoi pensieri e ricevere qualche consiglio, ma James e Alicia continuavano a tenergli il muso, e lui non si sarebbe di certo scusato per aver detto la verità.
Così eccolo lì, sotto al portico dei Barnes di Sabato mattina, impacciato e un po' dubbioso se suonare o meno il campanello. Che cosa avrebbe potuto dire? "Perché non sei più venuta a scuola?" No, troppo inquisitorio. "Va tutto bene? È un po' che non ti vedo..." Decisamente troppo disinvolto.
-Oh, al diavolo!- mugugnò tra sé e sé, quindi si decise. Sollevò la mano sul bottone, ma quando fu sul punto di suonare, la porta si spalancò, rivelando una silhouette nota e minuta. Era infagottata in una salopette di jeans logora e sformata, i capelli biondi e lisci raccolti in una grossa crocchia in cima al volto allungato. Alla vista dell'altro, sia Samuel che Penelope Barnes spiccarono due balzi indietro niente male.
-O Signore!- esclamò la padrona di casa, portandosi una mano al petto.
-Mi p-perdoni- farfugliò Samuel, imbarazzatissimo. -Non volevo spaventarla.-
La donna ridusse gli occhi a due fessure azzurre, dietro alle spesse lenti degli occhiali da vista, poi, di colpo, la sua espressione si rilassò in un bellissimo sorriso. -Oh, Samuel, ma sei tu!- esclamò estasiata.
Samuel annuì, rigido come un soldatino. Le mani avevano iniziato a sudargli copiosamente. -Buonasera, signora.-
-Ma quale signora, chiamami Penelope! Pensa, proprio l'altro ieri sono passata a salutare Marianne, ma tu non eri in casa... Come sei cresciuto!-
Samuel si limitò a stringere le labbra e annuire. Da quando aveva fatto ritorno in città, non aveva mai incontrato i Barnes. Rivedere Penelope dopo tutto quel tempo gli faceva uno strano effetto. L'età le aveva segnato il viso, ma il suo sorriso non aveva perso di calore, e anche i suoi modi erano rimasti dolci e affabili. Samuel ricordava momenti di una vita, con lei: magiche giornate al parco, succulente merende in cortile, regali che erano belli come sogni nel cassetto. Si sentì un po' triste al pensiero che fosse tutto passato.
-Posso fare qualcosa per te?- gli chiese Penelope.
Samuel si schiarì la voce. "Ecco, ci siamo" pensò.
-Cercavo, ehm... cercavo Laney- disse. -Sono, ehm... venuto a portarle gli appunti della scorsa settimana. Abbiamo un paio di corsi in comune.-
Samuel vide le spalle della sua interlocutrice crollare lungo il busto. -Oh... Laney sta dormendo in questo momento, ha un po' di febbre. Posso andare a chiamarla, se vuoi.-
Samuel rimase deluso dalla risposta, ma si affrettò comunque a rassicurare la signora Barnes: -No, non la svegli. Ripasserò un'altra volta.- Le rivolse un sorriso cordiale, ma prima che avesse l'occasione di voltarsi e tornarsene a casa, quella disse: -No, aspetta! Se non ti dispiace, avrei un paio di cose da chiederti.-
Samuel la osservò interdetto. -D'accordo- rispose. Qualcosa, nell'espressione di Penelope, lo turbava.
-Vieni dentro- lo invitò lei, facendosi da parte sulla soglia. -Ti va una tazza di té?-
Samuel assentì e, seppur titubante, entrò. Casa Barnes aveva un profumo familiare: sapeva di menta, di spezie orientali e del tabacco da pipa del signor Barnes. Il salotto era rimasto tale e quale a come lo aveva lasciato, ampio e luminoso, arredato all'antica con mobili stile impero zeppi di argenterie e ritratti di famiglia, quadri di paesaggi esotici, tende bianche e voluminose in tinta con il pellame delle bergère e la scala da interni che conduceva alle camere da letto.
La signora Barnes lo fece accomodare al grande tavolo centrale (intorno a cui Samuel aveva consumato più pasti di quanti riuscisse a ricordare), dopodiché si volatilizzò in cucina. Ricomparve dieci minuti più tardi con due tazze fumanti e un cestino di dolcetti fatti in casa. -Fai pure come fossi a casa tua!- chiocciò tutta contenta, dopo avergli zuccherato il té. -Non mi racconti niente? Com'è l'Europa?-
Samuel, preso in contropiede, si esibì in una vigorosa scrollata di spalle. -Bellissima, ma un po' triste.-
-Oh...- fece la signora Barnes, che si era accomodata di fronte a lui. -Come mai?-
Samuel abbozzò un sorrisino, ma non c'era niente da ridere. L'Europa gli riportava alla mente tante cose, quasi nessuna piacevole: amici, feste, baci, odori di lenzuola e mascherine, coreografie, medaglie, firme, torri di documenti, vasi rotti, occhi rossi, bugie, aerei, notti insonni e poi...
-Non saprei- liquidò, un po' brusco. -Che cosa voleva chiedermi?-
La signora Barnes gli rivolse uno sguardo penetrante, ma decise di non indagare oltre. Al contrario, parve in difficoltà quando venne il momento di arrivare al sodo. -Si tratta di Laney- soffiò. -Vedi, è che... ultimamente io e suo padre troviamo che si comporti in modo strano. Lei non vuole parlarne, quindi mi chiedevo... sì, insomma, andate a scuola insieme, forse tu ne sai qualcosa!- Penelope si interruppe. Prese la propria tazza di té fra le dita, un tic nervoso, perché non ne bevve neppure un sorso. Ora, pensò Samuel, le rughe sul suo viso apparivano perfino più profonde. -I suoi... i vostri compagni le danno ancora fastidio?-
Samuel fu stupito dalla domanda, ma cercò di non darlo a vedere. Non sapeva fino a che punto i Barnes fossero a conoscenza di quello che accadeva alla propria figlia, né si aspettava di essere interrogato in materia. Annuì, impacciato. -Già.-
La signora Barnes sospirò. -Lo sospettavo.-
Ci fu una pausa. La rassegnazione nella voce della donna fece sentire Samuel più che in colpa. Forse non era il più informato sulla situazione, ma avrebbe almeno dovuto provare a darle qualche indizio. D'altro canto, si trattava dei genitori di Laney, e se lui non riusciva ad aiutare la ragazza, di sicuro gli adulti ci sarebbero riusciti. -C'è un nostro compagno, in particolare...- iniziò, ma la signora Barnes lo anticipò.
-Tyler Grint- disse con sicurezza sconcertante. -Lo so.-
Samuel la guardò basito e Penelope gli concesse un sorriso triste. -E dimmi, cosa... cosa le fanno di preciso?-
Samuel si sentì seduto su una sedia di spine. C'era un'urgenza malcelata, nel tono della donna, che gli fece capire quanto fosse importante per lei. Ma anche lui era ansioso di sapere: la signora Barnes avrebbe potuto spiegargli ciò che ancora gli sfuggiva?
Le raccontò della scena in corridoio, il primo giorno di scuola, e poi dell'esilio in giardino, dei motti, dei post-it e di tutte le altre angherie a cui aveva assistito. Nel farlo, gli parve quasi di sfogarsi, come se ne stesse parlando con una zia che avrebbe potuto comprendere tutto il suo disappunto. Tuttavia, quando ebbe terminato, sul volto di Penelope Barnes non trovò traccia né di rabbia, né di orrore, ma solo una profonda amarezza. Sembrava che
sapesse già tutto, come se lo avesse sentito raccontare migliaia di altre volte, e quando Samuel comprese che era proprio così, ebbe un tuffo al cuore.
"Nessuno può farci niente." Le parole di Alicia gli strisciarono addosso come sanguisughe.
Penelope, gli occhi fissi sul centrotavola, non commentò. Invece, con la massima calma, bevve il proprio té.
Vinto dall'impulso, Samuel chiese: -Posso farle anche io una domanda?-
-Certamente- rispose l'altra.
-Da quanto tempo va avanti così?-
Per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, Penelope Barnes si mostrò perplessa. Guardò Samuel con aria corrucciata e domandò: -Laney non te l'ha detto?-
-Io e lei non parliamo molto, in realtà- ammise Samuel. -Ha paura che gli altri possano prendersela anche con me, se ci vedono insieme.-
La signora Barnes scrollò il capo con fare severo. -Tipico di mia figlia... Ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, dal secondo anno, credo. Laney non è mai stata molto chiara.-
-Samuel strabuzzò gli occhi, allibito e furioso. Quattro anni erano decisamente un sacco di tempo. -Non riesco a credere che solo per quello stupido incidente alla festa di Judith...-
-Oh, ma non è stato solo per quello- intervenne la signora Barnes, malinconica. -Non è mai solo per quello.-
La notizia arrivò come un fulmine a ciel sereno. Samuel attese che la signora Barnes finisse di addentare un pasticcino, prima di azzardare un: -Che cosa intende?-
Lei neppure lo guardò. -Poco dopo l'inizio delle superiori, Laney ha avuto un incidente- disse. -È stata investita mentre stava attraversando la strada.-
Samuel fu colto da un improvviso capogiro. -Che?-
La donna annuì. -Per fortuna si è sistemato tutto, ma per un po' abbiamo temuto che non potesse più camminare. Le connessioni e i legamenti delle gambe erano...- Penelope si interruppe. Samuel la vide prendere un lungo respiro e schiarirsi la gola, prima di continuare. -Sono stati mesi duri, Laney non faceva che piangere. Vera le è stata molto vicina: è andata a trovarla ogni giorno fin quando non si è ripresa, e non l'ha mai abbandonata.-
Samuel si lascio sfuggire un sorriso. -Vera è speciale.-
-Moltissimo- convenne la signora Barnes. -È stata lei a suggerire l'idea di far prendere lezioni private a Laney, durante la terapia, perché al suo rientro a scuola non si sentisse indietro rispetto ai suoi compagni. Così abbiamo contattato il professor Thompson. Di certo lo conoscerai, insegna alla Turnips.-
-È per questo che lui e Laney sono così...- Samuel cercò di azzeccare il termine appropriato. -Vicini?- chiese.
-Proprio così- confermò la signora Barnes. -Hanno trascorso molto tempo insieme, e ora Thompson la tratta come se fosse la sua sorellina, anche quando non dovrebbe.-
-Capisco- disse Samuel. -Poi cosa è successo?-
-Laney è potuta rientrare a scuola solo quando il secondo anno era iniziato da un pezzo- proseguì la donna. -Faceva una fatica immane per integrarsi. È sempre stata timida, ma la permanenza in ospedale l'ha completamente disabituata alla socialità. Anche se balbettava e arrossiva, si è sforzata in ogni modo di parlare con gli altri e fare amicizia. Dopo un interesse iniziale, però, i ragazzi hanno iniziato a stancarsi di lei: la vedevano come una privilegiata, per via del trattamento che molti professori le riservavano, e alla fine, non riuscendo a capire che cosa la rendesse tanto speciale, l'hanno esclusa.-
-È stato allora che hanno iniziato a tormentarla?- domandò Samuel. Per tutta risposta, la sua interlocutrice lo guardò senza dire nulla. Solo in quel momento il ragazzo cominciò ad afferrare la reale portata di tutta la vicenda. Ogni parola che usciva dalla bocca di Penelope gli pareva più complessa e pesante della precedente, eppure stava affrontando l'argomento con una fermezza unica nel suo genere. Era forte, si vedeva.
Da lì, Samuel tentò di ricostruire il corso degli eventi. -A quel punto è arrivata la festa di Judith Pierce,- disse -e la situazione è peggiorata ulteriormente.-
La signora Barnes si lasciò scappare una smorfia arrabbiata. -Sai, Samuel, in questi anni sono successe tante cose brutte. Io ed Edward abbiamo cercato in tutti i modi di farla pagare ai colpevoli, ma a ogni azione corrispondeva una reazione. Ci hanno lanciato carta igienica imbevuta di acido contro le finestre, ci hanno devastato il giardino, ci hanno mandato lettere minatorie.- Si mordicchiò un labbro. -Se devo essere sincera, per un periodo ho anche pensato che fosse tutta colpa di Laney. Credevo che, se solo non fosse stata così timida e fragile, nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di prendersela con lei. Credevo anche che forse un po' se lo meritasse.-
Samuel sgranò gli occhi, allibito. Penelope Barnes stava piangendo.
-La mia bambina- singhiozzò. -Ma sono stata sciocca, sai? Perché Laney è molto più forte di quanto tu e io possiamo immaginare. Pensa che non si è mai lamentata, neppure una volta.- La donna si asciugò gli occhi con il dorso della mano, e Samuel sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena. -Non importa quante torture subisce, cerca sempre di proteggerci, di non farci stare in pensiero. Anche se è stanca, resiste in silenzio, senza chiedere aiuto a nessuno.-
Un lampo balenò nella mente di Samuel. Misera, nel grigiore dell'autunno, una mano bendata sotto al tavolo del giardino. "Passerà" gli aveva detto. "Devo sopportare solo un altro po'." Ora si trovava al piano di sopra, pochi passi a separarla da loro. Aveva la febbre.
-Signora Barnes,- chiamò Samuel, a corto di fiato -Laney non può farcela da sola.-
Penelope lo guardò come se non lo avesse mai visto prima. -Lo so- disse, la voce rotta dal pianto. -Ma non sappiamo come intervenire. Dopo tutto quello che è successo, lei non ci permette più di farlo.-
Ci fu una pausa. Samuel stringeva le dita intorno ai bordi del tavolo, tanto forte da sbiancarsele. Ora sapeva, e comprendeva: erano impotenti, tutti quanti. Era una sensazione disgustosa, viscida, un enorme mostro ululante che incombeva alle spalle di ciascuno di loro. La solitudine di Laney.
-Solo lei è in grado di farlo finire- statuì a un tratto Penelope, cercando di recuperare la propria calma. -Solo lei ne ha il potere.-
Samuel deglutì. Non sapeva che fare. Il suo cervello viaggiava alla velocità della luce, si sentiva soffocare. Ripensava ai discorsi di Alicia e James, a quello che aveva appena ascoltato, alle scene a cui aveva assistito.
"Nessuno può farci niente."
A parte Laney.
Lui non voleva arrendersi. Lui non poteva arrendersi.
-Signora Barnes,- disse infine, risoluto -le prometto che farò del mio meglio per rimanere accanto a Laney. Non permetterò che le cose restino come stanno, dico sul serio.-
La signora Barnes gli rivolse un sorriso materno e infinitamente abbattuto. -Grazie, Samuel. Lo apprezzo tanto.-
Rimasero così per un po', fermi e silenziosi, seduti intorno al tavolo del salotto a rimuginare su quanto era stato detto, ma poi, di colpo, la signora Barnes scattò in piedi, come se fosse stata punta da un calabrone.
-Posso darti una mano- annunciò. -Aspetta un secondo.-
Si fiondò in cucina e ne riemerse più tardi con una penna e un paio di fogli svolazzanti. Si accomodò di nuovo di fronte a Samuel e gli fece scivolare un foglio sotto al naso. Era una locandina pubblicitaria. -Ecco- disse. -Il comitato cittadino ha organizzato una serata a tema per Halloween, nella piazza centrale. Laney vorrebbe andarci. Questo è il suo numero- e qui scarabbocchiò una serie di cifre sul secondo foglio, prima di passarglielo. -Se viene a sapere che te l'ho dato, mi uccide.-
Samuel non riuscì a trattenere una risatina. -Non glie lo dirò- promise.
Penelope assunse un'espressione soddisfatta. -Perché non provi a invitarla alla festa? Con noi non vuole venire, ma magari a te darà ascolto!-
Samuel sapeva perfettamente, avendo già avuto occasione di sperimentare in prima persona, che Laney non gli avrebbe riservato un trattamento diverso dagli altri. Ma la speranza era l'ultima a morire, e avrebbe pur sempre potuto fare un tentativo.
Dunque prese i fogli, li piegò per bene e se li infilò in tasca. -D'accordo- disse. -Ci proverò. Grazie mille, signora Barnes.-
La donna intrecciò le dita dietro al collo, i gomiti puntati sul tavolo. Aveva l'aria molto stanca. Samuel pensò che nessun membro di quella famiglia meritava ciò che stava accadendo loro. Nemmeno un po'.
-Di nulla- gli rispose Penelope Barnes, sorridendo cordiale. -Grazie a te.-



ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Hey, cutiepies! 
Che dite?
Io tornata con un coso di cose.
Che ve ne pare? Idk, con questa storia non riesco mai capire che acciderbolina io stia facendo...
Comunque il prossimo capitolo dovrebbe (e sottolineo dovrebbe, vista la mia scrittura disagevole) essere bellino, quindi stay tuned!
Cosa vi aspettate di vedere?
Detto questo, ringrazio come sempre tutti coloro che hanno recensito e che hanno messo la storia nei seguiti, nei preferiti e nei ricordati. Un beso e a presto (si spera ç___ç).
Sayami.

 

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Capitolo 9
*** Tiny Town - 1.8 ***


1.8
 
"Di' di sì, Giulietta,
sei con me?
La pioggia cade sul marciapiede.
Non me ne andrò fin quando non sarai uscita fuori.
Di' di sì, Giulietta,
uccidi il limbo,
io continuerò a lanciare sassolini alla tua finestra.
Tornare indietro non esiste per noi, stanotte.
(...)
Corri, piccola, corri!
Non guardarti mai indietro!
Ci faranno a pezzi,
se gliene darai l'occasione.
Non vendere il tuo cuore,
non dire che non siamo fatti per stare insieme.
Corri, corri!
Per sempre saremo
io e te."


***

 
"21/11/2018 17:55 – DA: Sconosciuto;
CIAO, LANEY! SONO SAMUEL, QUESTO E' IL MIO NUMERO.
SCUSA IL DISTURBO, HO SAPUTO CHE IN CITTA' STANNO ORGANIZZANDO UN FESTIVAL PER HALLOWEEN. TI ANDREBBE DI ANDARCI INSIEME?"
 
Laney non gli aveva risposto.
Il fatidico venedì di Halloween era arrivato, mancavano dieci minuti alla mezzanotte e lei era sola in casa; i suoi genitori erano usciti a vedere la fiera.
La sua stanza era un mare oscuro: il chiarore del telefonino era l'unica vera fonte di luce nella penombra. Bagliori aranciati, odore di pioggia e musica le arrivavano attraverso le imposte socchiuse. Per tutto il giorno non aveva fatto altro che rileggere il messaggio ancora, e ancora, e ancora, fino a impararlo a memoria.
Quella mattina Samuel l'aveva anche chiamata. Il cellulare aveva squillato per venti secondi buoni, e lei era rimasta a fissarlo, paralizzata dalla sorpresa.
Tanto per cominciare, chi gli aveva dato il suo numero?
Supina sul letto, sospirò. Era tutto così assurdo! Aveva fatto una montagna di assenze... per cosa, poi? Non riusciva a capire per quale motivo Samuel si ostinasse a cercarla. Avrebbe dovuto continuare ad allontanarlo? Avrebbe dovuto rispondergli? Che cosa sarebbe accaduto, se lo avesse fatto?
Forse, in fin dei conti, i suoi genitori avevano ragione: se si fossero trasferiti in un luogo dove nessuno li conosceva, lontano da tutto e da tutti, lei sarebbe solo scomparsa.
Laney controllò l'orario sul blocca-schermo del telefono. Sette minuti. Mancava poco.
Amava i fuochi d'artificio. Il sibilo prima dello scoppio, i colori brillanti, le forme e le coreografie: tutto la incantava. Da bambina le apparivano simili a enormi gonne danzanti, coperte di lustrini e polvere di stelle. I suoi genitori la portavano a vederli dalla spiaggia, glieli indicavano, tenendola per mano, e le mostravano il riverbero della luce sul mare, come un mondo segreto che sfiorava il suo. Allora era tutto diverso, ma la magia che aveva respirato in quei momenti non l'aveva mai abbandonata.
Vascello alla deriva, il suo sguardo gravitò verso la porta-finestra.
"Solo un'occhiata" si disse. "Prometto che non sarò triste, dopo averli visti".
Laney scivolò con cautela giù dal letto. Infilò le pantofole e si tirò in piedi, ma quando fu sul punto di uscire, qualcosa la bloccò: c'era una voce. Dapprima fu un suono flebile, ma a poco a poco si andò rafforzando.
-Psss...- diceva. -Psss, Laney!-
La ragazza si pietrificò sul posto, scrutando incredula oltre le tendine. Affacciato al terrazzino della propria camera, Samuel la stava chiamando con insistenza. Indossava una maglia nera e un paio di jeans, i capelli scuri scompigliati dal vento autunnale, e guardava fisso nella sua direzione.
-Sei lì?-
Con uno scatto secco, Laney si compresse nella porzione di muro che separava l'armadio dalla finestra. Chiuse gli occhi, strinse il telefono al petto e pregò che Samuel tornasse subito dentro. Perché accidenti doveva essere così testardo? Non poteva solo lasciarla in pace?
-Hey! Stai dormendo?- insisté lui.
Poi cadde il silenzio. Laney iniziava a pensare di averla fatta franca, quando il cellulare vibrò tra le sue mani. Un istante dopo, la sua suoneria rimbombò per tutta la stanza. Presa dal panico, Laney rifiutò la chiamata e scagliò il telefonino sul letto, come si fosse trattato di una bomba a orologeria.
La risposta dall'esterno non tardò ad arrivare: -Mi stai ignorando, per caso?-
Laney boccheggiò. Rimase immobile dove si trovava, trattenendo il respiro, e per secondi interminabili non accadde nulla. Poi qualcosa impattò contro il vetro della sua finestra. Atterrita, Laney si sporse quel tanto che bastò per scorgere un oggetto non identificabile sul pavimento del terrazzo. Decise di rimanere ancora nascosta ma, un istante dopo, un secondo impatto, più forte, la fece sussultare. Laney sentiva le orecchie fischiare.
Ancora qualche secondo di pausa e un terzo arnese fu scagliato contro le imposte. Questa volta la collisione fu tale da farle pensare che il vetro sarebbe andato in frantumi.
Che accidenti voleva Samuel da lei? Alla fine aveva deciso di contribuire a perseguitarla? Di certo non poteva lasciargli distruggere la finestra.
Costretta ad arrendersi, Laney prese un respiro e, con il cuore a mille, abbandonò il proprio rifugio, spalancò la porta-finestra e uscì sul balconcino. L'aria autunnale le schiaffeggiò il volto. Pioveva. In lontananza, oltre i profili delle case, c'erano Central Place parata a festa e gli echi e i colori della fiera che si levavano altissimi nel cielo notturno. Samuel era lì. Incuneato tra i motivi a spirali del balcone, slanciato, sorridente come al solito. Laney fu assalita dalla voglia di strangolarlo. Scoprì di colpo di essere furiosa. Quello era il suo spazio, l'unico su cui conservasse ancora un potere. E lui lo stava violando.
-Sei impazzito?- disse con inaspettata fermezza. Ai suoi piedi giacevano una vecchia ciabatta, una gomma da cancellare e un astuccio così carico di penne da scoppiare. -Perché l'hai fatto?-
Dritto di fronte a lei, il ragazzo sorrise ancora. -Sei uscita, finalmente!- disse. Non menzionò il fatto che lei lo avesse ignorato per tutto quel tempo, si mostrò solo contento di vederla. -Ti è passata l'influenza?-
Laney non rispose, lottando contro l'impulso di tornare in casa. -Perché volevi che uscissi?-
-Mancano cinque minuti a mezzanotte- disse lui. -Se ci sbrighiamo, possiamo vedere i fuochi dalla piazza.-
-Non ne ho voglia- lo freddò Laney. La formulazione esatta, però, era "non posso". Avrebbe rischiato troppo, se li avessero visti.
Samuel sembrò perplesso. Si portò indice e pollice al mento e inclinò la testa di lato. -Questa è una bugia- disse. -Ti sono sempre piaciuti i fuochi d'artificio.-
Laney sentì uno scricchiolio sinistro risalire dal fondo della sua coscienza. La sua lingua schioccò prima che avesse anche solo l'occasione di pensare. -Le persone cambiano. Forse dovresti fartene una ragione.-
Sul terrazzo si gelava. Samuel la scrutò per qualche istante, incredulo, e Laney si sentì subito in colpa per le proprie parole. Ma non se ne rimangiò neppure una. Qualcosa di corrosivo la stava erodendo dall'interno.
-Okay- commentò l'altro, stringendo le labbra tra di loro. -Quindi tu sei diventata il tipo di persona che scappa dai problemi con la scusa di non farcela, dico bene?-
-Può darsi- rispose lei, inespressiva. -Chi ti ha dato il mio numero?-
-Ha importanza?-
-Molta- disse.
Samuel scattò: -Allora forse dovresti uscire da quella dannatissima stanza e scoprirlo da sola, invece di cercare sempre la soluzione più semplice.-
Grida di giubilo arrivarono da lontano. Tre minuti a mezzanotte.
Laney sgranò gli occhi e squadrò il suo interlocutore. -Ti senti meglio, ora che lo hai detto?- chiese, senza riuscire a nascondere un'incrinatura nella propria voce. Faceva male, un male indescrivibile.
Samuel la fulminò con lo sguardo. -Non era quello che volevi da me? Oh, andiamo, smettila di fare la bambina.-
Era arrabbiato, Laney riusciva a vederlo. Eppure, come la miccia che fa divampare l'incendio, la rabbia di Samuel non fece altro che alimentare la sua. La cosa che la stava consumando dall'interno ribollì e premette per uscire. Laney la ricacciò indietro, stringendo i pugni. -Sarei io, la bambina?- gracchiò, due ottave sopra al suo tono abituale. -Sono settimane che mi dai il tormento!-
-Scusami tanto, se cerco di aiutarti!- rispose ironico Samuel.
Laney digrignò i denti. -Nessuno te lo ha chiesto. Faresti meglio a occuparti dei problemi tra i tuoi genitori, invece che dei miei.-
E lo seppe. Lo lesse negli occhi di Samuel, sul suo viso, e lo indovinò dal modo in cui tutto il suo corpo si irrigidì in blocco, di colpo. In quel momento, Laney ebbe l'assoluta certezza di averlo ferito. E, per la prima volta dopo anni, si sentì trionfanteVoleva fargli male. Voleva, per una volta, non essere la sola a soffrire.
Cadde il silenzio. I due ragazzi si scrutarono a vicenda, entrambi impettiti sui rispettivi balconcini, entrambi trincerati dietro a cortine di convinzioni solidissime e incrollabili.
Eppure, non quadrava. Laney aveva la sensazione che qualcosa, dentro di lei, avesse iniziato a creparsi. Non avrebbe saputo dire se fosse un bene o un male, né di cosa si trattasse. E questa era una consapevolezza sufficiente a renderla vulnerabile.
A un tratto, le labbra di Samuel presero la forma di un sorrisino maligno. Stonò sul suo viso, come ortica in un campo di margherite. -Sai qual è la verità?- chiese sardonico.
La verità. Sottile e affilata, quell'idea affondò nella finta calma di Laney e la spezzò. Un allarme scattò dentro di lei, l'ordine di tagliare la corda con la sua orrenda vittoria, prima che accadesse l'irreparabile. -Avanti, illuminami- lo sfidò, nervosa.
Il ghigno di Samuel si allargò. -Bene. La verità è che sei una codarda. Hai talmente tanta paura delle conseguenze, che preferisci stare ferma ad attendere che la soluzione piova dal cielo, invece di agire.-
Se le occhiatacce avessero avuto il potere di ardere vive le persone, quella che Laney rivolse a Samuel lo avrebbe ridotto in cenere. Stava perdendo il controllo. Il sangue le pulsava forte nelle tempie, il cuore in gola. Un brutto "crack!" allargò la crepa dentro alla sua anima. -Già, dovrei proprio seguire l'esempio di un paladino dei deboli forte e coraggioso come te...-
Samuel la ignorò e proseguì imperterrito: -E non ti importa se così fai preoccupare tutti quelli che ti stanno intorno. No, non te ne frega assolutamente niente! L'importante è non farti male. E questo fa di te anche una grandissima egoista.-
Laney si sentì come se qualcuno le avesse assestato un pugno in pieno stomaco. -Tu non sai niente- scandì, la testa incassata nelle spalle, le unghie conficcate nei palmi delle mani, per impedirsi di scoppiare. Stava tremando.
Samuel la guardò stralunato. -Davvero?- Spalancò le braccia. -Allora spiegamelo, invece di scappare.-
E Laney avrebbe voluto davvero spiegarsi, ma non ci riuscì. Non le venne in mente neppure una parola per farlo. Perché Samuel aveva ragione, aveva colpito nel segno. Non poteva sopportarlo.
Il sospiro che uscì dalle sue labbra fu rabbia aeriforme. -Samuel, io ti giuro...-
Gli occhi di Samuel dardeggiarono. -Cosa? Che mi vuoi giurare?-
-Ti giuro che se non taci ti farò rimpiangere di essere tornato in questo schifo di città!- gridò. Era tutta un fremito, aveva il respiro corto e sentiva nelle orecchie un cupo ronzio. Stava per esplodere.
Samuel rise di gusto. -Ah, sì? Avanti- disse. -Fammi pentire.-
Laney scrutò il suo opponente come se avesse voluto spellarlo vivo, ogni muscolo teso come la corda di un violino. Eppure non mosse un dito.
-Sto aspettando- rincarò Samuel.
Allora qualcosa sibilò e poi deflagrò nel cielo sopra alle loro teste.
Mezzanotte.
"I fuochi d'artificio."
Blu, rosa, verdi, gialli, brillanti, tonanti, roteanti, e belli da togliere il respiro. Spruzzavano scintille e schegge di luce sulla città, sui quartieri, sui giardini, sui loro corpi, sul viso armonioso di Samuel, duro e contrito come non mai.
-Sai una cosa?- disse il ragazzo, cercando di farsi sentire sopra al frastuono dello spettacolo pirotecnico. -Speravo che avrei trovato qualcuno di migliore, in questo "schifo di città". Ma forse gli altri hanno ragione.- Un fuoco balenò in cielo e tinse ogni cosa di rosso. -Forse tu non ne vali la pena.-
Eccola, la goccia che faceva traboccare il vaso.
In un istante, non ci furono più Halloween, Tiny Town, la sua casa e neppure i fuochi d'artificio. Perfino l'ansia, la paura e la tristezza svanirono. Rimase solo lei. Lei e la sua incontenibile, immensa, violentissima ira.
Laney iniziò a piangere. -Che cosa ne vuoi saperne, tu, di me?!- sbraitò. Si chinò e raccolse gli oggetti che Samuel aveva scagliato contro la sua finestra. Si avvicinò alla ringhiera del balcone e glieli rinviò, lanciandoli con quanta forza forza aveva in corpo. -Te ne sei andato per dieci anni e adesso. Pretendi. Di. Sapere. TUTTO!-
Samuel era allibito. Schivò il suo stesso astuccio per un pelo, ma la gomma da cancellare lo prese in piena fronte, e lui si lamentò per il dolore. Laney non ne fu felice. -Non sai niente!- ripeté. -NIENTE!- Si cacciò le scarpe e gli tirò anche quelle, che lo mancarono e ricaddero dalla sua parte di barricata, insieme agli altri oggetti.
Samuel si portò gli avambracci di fronte al viso, per proteggersi da ulteriori assalti, ma la sua espressione era deformata dalla frustrazione. -Sei tu che non vuoi cambiare! Non puoi dare agli altri la colpa delle tue scelte!-
-NO!- gridò Laney. Fu un latrato profondissimo, dilaniante, che racchiudeva la sofferenza di interi anni di agonia. Alleviò il dolore, ma la rabbia continuò a montare, inarrestabile. -Sei solo un presuntuoso, saccente e megalomane!-
Un altro fuoco squarciò il cielo. Samuel rimase a fissarla per qualche secondo, prima di voltarle le spalle, amareggiato. -Sei patetica, sul serio.-
Ma non fece in tempo a rientrare, che Laney aveva iniziato a issarsi sulla balaustra. Come aveva fatto a perdere del tutto il lume della ragione? Era perché Samuel aveva centrato il bersaglio? In ogni caso, non aveva alcuna importanza, adesso.
Il ragazzo si girò di scatto e la guardò sbalordito. -Che accidenti stai facendo?!-
-Dimmelo in faccia!- abbaiò Laney. Con un ultimo sforzo, fu in piedi sul parapetto. -Dimmelo in faccia, se hai il coraggio!-
-Che?! No, no, torna giù, è pericoloso!- supplicò Samuel, affondandosi le dita tra i capelli. -Rischi di cadere, Laney!- Allungò le mani, come se avesse voluto prenderla e rimetterla a posto. Ma Laney non aveva la benché minima intenzione di starsene buona al suo posto. Non più.
-Dimmelo in faccia!- esclamò ancora, fuori di sé.
Un altro scoppio. Enormi lingue di colore illuminavano l'aria.
-Fermati!- la supplicò Samuel, terrorizzato. -Sei impazzita?!-
-No- rispose lei. -Sono solo molto, molto incazzata!-
Laney spiccò un balzo e si gettò nel vuoto.

 
Il portone di casa Barnes era grande, lucido e verniciato di un bianco accecante, a contrasto con l'intonaco grigio degli esterni

Una frazione di secondo.
Ci fu una scarica fortissima di orrore e adrenalina. La sagoma di Laney si levò sempre più alta, un'ombra nera in un cielo di scintille.
Samuel urlò e corse in avanti. Volò da lui come un angelo: Samuel avvertì il corpo di lei che aderiva al suo, l'aria sulla schiena e i fuochi d'artificio sul mare. I loro vestiti erano umidi di pioggia. Crollarono giù, a metà tra la sua stanza e le piastrelle fredde dell'esterno.
Le scapole di Samuel impattarono contro il pavimento con un botto secco. Lui strizzò le palpebre e imprecò.
Poi la guardò. Laney era a pochi centimetri dal suo viso. I suoi ricci erano ovunque, sulle guance, sulle labbra e nel vento, e i suoi occhi brillavano nella penombra, ribelli e incantevoli. Bordata di luce e colore, non era altro che una sagoma distesa su di lui, dita leggere sulle sue spalle e pelle calda, familiare. Stava ancora piangendo.
-Incosciente- disse. -Saresti potuta morire!- E nel pronunciare quella semplice frase, Samuel si sentì di carne e di carta.
Molto più di tutti gli anni spesi a viaggiare, molto più dello sguardo freddo di suo padre e delle gambe inerti di sua madre. Fu come respirare, come ballare. In quel momento esistevano solo lui e Laney. Ed erano giovani, terrorizzati, arrabbiati a morte e vivi. Tremendamente vivi.
Non ci fu logica né ragione nella gioia feroce che gli attanagliò il petto. Samuel si abbandonò al sollievo. Espirò e infilò una mano nei capelli di lei, dietro alla nuca. Poi la strinse. Lei tremò tra le sue braccia e lo cinse a sua volta, fino a far premere ossa contro ossa, sangue contro sangue. Rimasero così per un po', vicini e a corto di fiato.
Infine, si separarono.
Samuel esalò un flebile: -Stai bene?-
Con le guance rigate di lacrime, Laney gli sorrise, e lui pensò di non aver mai visto niente di più bello in vita sua.
-Ora dovrei picchiarti- bisbigliò, asciugandosi gli occhi e tirando su col naso -per tutte le cose orribili che mi hai detto e perché non sono riuscita nemmeno a vedere i fuochi, ma...-
-Hai iniziato tu- rimbeccò lui, piccato. -Io avrei voluto vedere i fuochi insieme, ma tu hai cominciato con la storia che "le persone cambiano", e allora...-
Laney gli posò il palmo sulla bocca per zittirlo. -Ma- riprese, guardandolo dritto in faccia -hai ragione. La verità è che sono una codarda e anche un'egoista. Però non voglio più essere sola. Se prometto che migliorerò, tu prometti di restare?- E qui gli tese il mignolo, un gesto infantile, quasi sciocco. Ma era perfetta. Sorridente e perfetta.
Samuel la guardò sbalordito. Non riusciva a crederci. Le immagini combaciavano: era ancora lei. La bambina di cui si era innamorato sotto al sole, la stessa che lo proteggeva ogni volta che i suoi litigavano e che rideva forte e respirava piano, nascosta nelle siepi.
Era ancora Laney.
La sua Laney.
Samuel sentì il cuore prendere la rincorsa e darsi al galoppo e dimenarsi nel petto, come se avesse voluto a tutti i costi uscire.
Osservò prima il dito esile teso di fronte a lui e poi Laney. Avrebbe voluto... oh, avrebbe tanto voluto...
-Va bene- disse, intrecciando il mignolo col suo. -Lo prometto. Da ora sarà tutto diverso.-
-Mh-mh- rispose Laney.
-E da lunedì tornerai a scuola.-
-E da lunedì tornerò a scuola...-
-E la smetterai di evitarmi come se avessi una malattia rara e contagiosa.-
Laney rise. -E la smetterò di evitarti, anche se dovessi contrarre una malattia rara e contagiosa.-
Si guardarono. E risero.
-Croce sul cuore?- chiese Samuel.
-Croce sul cuore- rispose Laney.
E così, un altro Halloween passò a Tiny Town.
Lo spettacolo pirotecnico giunse a termine.
E Samuel e Laney erano di nuovo insieme. 
Come sempre.




ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Hi, cutiepies! 
Che dite di bello? Siete tornati dalle vacanze oppure vi attende qualche altro giorno di meritato riposo?
Per chi deve ricominciare la scuola o il lavoro, buon rientro! E per chi, come me, sta inguaiato con gli esami universitari, che la forza sia con voi! ç_ç
Che ve ne è parso del capitolo?
Personalmente, nonostante ci abbia sudato sopra sette camicie,  c'è ancora qualcosa che non mi convince, ma dal momento che i miei aggiornamenti sono sporadici come le gioie della vita, ho deciso di postarlo per ritornarci in un secondo momento, a mente fredda. 
Come sempre, vi esorto a farmi sapere cosa ne pensate con un commentino, anche brevissimo (del tipo: "Ritirati!"). X,D
A ogni modo, guess what? Siamo giunti alla fine della prima sezione e stiamo entrando nella seconda! Ragion per cui, vi mando un grosso bacio, un abbraccio forte, la finisco con la logorrea e vi do appuntamento non so quando (ç___ç), per il prossimo capitolo!
Luv ya. <3
Sayami.

 

 

 

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Capitolo 10
*** Dove Nasce una Speranza - 2.1 ***


Parte Seconda: Dove Nasce Una Speranza

"Che giorno è?
Di quale mese?
Mai questo orologio mi è sembrato
così vivo.
Non riesco a stargli dietro
o a tirarmi indietro;
ho perso tanto di quel tempo...
Perché siamo io, te
e tutti gli altri che
non hanno niente da fare,
e niente da perdere.
E siamo io, te
e tutti gli altri.
E io non capisco
per quale motivo
non riesco a smettere
di guardarti."

 

2.1

Ma il cambiamento era più facile a dirsi che a farsi, e alla mattina della domenica il cuore di Laney si era già riempito di dubbi.
Aveva promesso, certo, ma sarebbe stata in grado di tenere fede al suo impegno? Cosa avrebbe fatto in caso contrario?
I ricordi erano come mosche fastidiose: immagini di braccia avvolte intorno a lei, di occhi negli occhi e di sorrisi che volteggiavano nella sua mente, scomodi e imbarazzanti.
Come le era saltato in mente di gettarsi dalla finestra per andare a picchiarlo? Perché diamine aveva fatto mignolino?
Eppure lui l'aveva accettata. Con tutta la sua goffaggine, la sua inettitudine e la sua assurda follia, lui aveva giurato che non l'avrebbe lasciata sola. Mai più.
Laney sentì il respiro venirle meno. Sommersa da questi e altri pensieri, continuò a rotolarsi come un bozzolo nel piumone del letto, fin quando non la raggiunse la voce di sua madre, dal piano inferiore.
-Laney!- chiamò. -Svegliati! C'è Samuel alla porta!-
Con un salto, Laney fu in piedi e fuori dalle coperte. Che ci faceva Samuel alla porta di casa sua?!
"Lo prometto. Da ora sarà tutto diverso."
Maledicendosi mentalmente, Laney cercò di darsi un tono.
-Lo faccio salire?!- gridò sua madre.
-NO!- rispose lei, la voce così roca da far spavento.
Si lanciò sull'armadio alla disperata ricerca di qualcosa da mettere, ma non appena scorse il proprio riflesso nello specchio a muro si congelò. Era orribile. In cima alla testa aveva un nido di rondini, i suoi occhi si erano tramutati in due gonfie palle da biliardo e il suo pigiama con i maialini azzurri di certo non sdrammatizzava la situazione. Samuel non poteva incontrarla in quello stato. Nemmeno per sogno.
Pensò di andare in bagno a sciacquarsi il viso, ma così lui l'avrebbe vista dall'ingresso. Quindi rimase impalata dove si trovava, in attesa, come sempre, che la soluzione piovesse dal cielo.
E la soluzione arrivò. Ma non era quella che Laney avrebbe auspicato.
-Laney, Samuel sta salendo!- annunciò sua madre.
-COSA?!- Aveva i palmi delle mani gelidi e sudati. -No, no, non può!-
Udì i passi di lui sulle scale e poi nel corridoio, e il cuore le finì in gola. Così, fece la prima cosa che le venne in mente: ignorando il disordine imperante, la sua tenuta tutt'altro che presentabile e ogni altro disturbante pensiero, balzò di nuovo sul letto e si tirò le coperte fin sopra alle punte dei capelli. Poi tacque. Non una parola, non un sospiro. E, dopo istanti interminabili di attesa, Samuel entrò nella sua camera. -Laney?- chiamò.
Lei non rispose. Strizzò gli occhi e cercò di rimanere immobile. Forse, credendola addormentata, se ne sarebbe andato, giusto? Ma Samuel non era tipo da lasciar perdere, e Laney lo sapeva bene. Di colpo, il ragazzo accese la luce. -Avanti, è ora di alzarsi- disse.
Laney gli scagliò contro una lunga serie silenziosa di anatemi, ma non si mosse. Attese ancora, ma non udì alcunché. Forse Samuel era rimasto tanto disgustato da quella topaia, che aveva già deciso di fare dietrofront?
Sopraffatta dalla curiosità, Laney scostò un lembo del lenzuolo, il tanto che bastò per sbirciare. Vide le spalle di Samuel coperte da una grossa felpa nera, e il suo profilo mascolino. Era in piedi a pochi passi da lei, tra le scarpe e i calzini disseminati a terra come mine esplosive. Stava osservando i bozzetti dei suoi vestiti. La sua stanza, in questo senso, era un gigantesco archivio: i disegni tappezzavano le pareti, penzolavano dalle mensole, affollavano la scrivania in pile asimmetriche e pericolanti.
Laney trascorreva giornate intere a inventarne di nuovi, diversi, assurdi ed eccentrici. Ritagliava zelante pagine e pagine di riviste di moda, spulciava migliaia di siti internet in cerca di informazioni utili a nutrire il flusso inesauribile di idee che le sgorgava da dentro.
Vedeva forme, tagli e colori mentre mangiava, mentre camminava e perfino mentre dormiva. Quegli schizzi erano la cosa più preziosa che aveva al mondo, il suo posto felice.
Il terrore si impossessò di lei, più graffiante di qualsiasi altra paura mai provata prima, quando Samuel alzò una mano e fece per prenderne uno. Si trattava di un modello da sera, un lungo vestito verde giada con un vertiginoso spacco laterale e un corpetto tempestato di brillanti. Lo aveva immaginato di seta, con lo strascico per metà ricamato di pizzo, e magari qualche strato di tulle per aggiungere volume. Per tracciare le linee si era servita di elaborati criteri geometrici che potessero slanciare la figura e avvolgerla al contempo. Aveva impiegato mesi per perfezionarlo.
"Non toccarlo."
Ma non fece in tempo a uscire dal suo nascondiglio, che Samuel l'aveva già afferrato. E se sulle prime Laney si sentì ribollire di rabbia per quell'affronto, in seguito si accorse che le mani e gli occhi di Samuel erano gentili e delicati sulla sua arte, tanto da farla sentire al sicuro. Samuel poteva entrare nel suo posto felice. Perché l'avrebbe protetto, non distrutto.
"Non sei sola. Non lo sarai mai più."
Ormai era uscita allo scoperto. Era seduta sul materasso, le lenzuola sulle cosce, scarmigliata e impresentabile. Ma Laney non ci badò più.
Samuel si voltò. La frangia gli ricadeva a ciocche irregolari sulla fronte, e aveva le labbra secche. Era la prima volta che lo vedeva da Halloween, e nel realizzarlo il suo stomaco si annodò.
-Questi li hai fatti tu?- le chiese lui. Come immaginava, era sorpreso, ma non dal suo aspetto tremendo.
In imbarazzo, Laney si morse la lingua e chinò il capo in segno di assenso.
-Ti piace la moda? Vuoi fare la stilista?-
Non c'era scherno nella sua voce, ma Laney non riuscì comunque a controllarsi. -Ha importanza?- rimbeccò, forse un po' troppo dura.
Ma la risposta era sì. Sì, adorava la moda, sì, avrebbe voluto con ogni fibra del suo essere fare la stilista, sì, avrebbe dato qualunque cosa per diventarlo. Però sapeva che era impossibile, perché lei non avrebbe mai potuto aspirare a tanto. Una come Laney Barnes. La piccola, stupida, inutile Laney Barnes.
-Ha un'importanza cruciale- disse all'improvviso il ragazzo, prendendola in contropiede. -È la cosa più importante che ci sia.-
Laney lo guardò. Samuel era mortalmente serio, e nel suo sguardo c'era una luce fervida e tagliente. Un battito d'ali, un guizzo nel petto. Pensò al balcone, ai fuochi d'artificio e ai suoi occhi allungati nel buio.
"Prometti?"
"Lo prometto."
Un brivido le corse lungo la schiena. -Che ci fai qui?-
In risposta, lui sorrise. -Sono venuto ad assicurarmi che i buoni propositi siano ben saldi dentro di te.- Detto questo, ripose con cura il bozzetto al suo posto. -Verresti con me, stamattina? Voglio mostrarti una cosa.-
Laney lo osservò incerta. Non sapeva che diamine avesse in testa quel ragazzo, né per quale motivo fosse così determinato a starle accanto. Ma se c'era una cosa che sapeva, era che non voleva che tutto questo finisse.
-Va bene- acconsentì, alzandosi una volta per tutte dal suo amato giaciglio. -Andiamo.-
Samuel annuì e fece per uscire dalla stanza. -Ti aspetto di sotto- disse. Ma, un secondo prima di chiudersi la porta alle spalle, mise su un ghigno divertito e la squadrò da capo a piedi. -Carini i maialini, comunque.-



Laney aveva i nervi a fior di pelle. Cercava sempre di fare la parte della persona matura, e non le riusciva mai granché. Non poteva negare di avercela con Samuel per il commento sul suo splendido pigiama, ma di certo non gli avrebbe dato la soddisfazione di darlo a vedere.
Per cui se ne stava seduta sul sedile in fondo al bus, lo sguardo fisso sul paesaggio cittadino che scorreva fuori dal finestrino, dandosi un'aria di distaccata imperturbabilità.
Tuttavia Samuel, seduto al suo fianco, sembrava aver capito ogni cosa e continuava a ridacchiare sotto ai baffi. Si decise a scusarsi solo alla fine della corsa. L'autobus si avvicinava all'ennesima fermata, quando lui si alzò col grosso zaino che aveva sulle spalle. -Mi dispiace se te la sei presa, ma il tuo pigiama era davvero molto carino- le disse.
Laney si voltò e lo osservò nel modo più indifferente di cui fosse capace. Era in abbigliamento sportivo, eppure, in qualche modo, riusciva a sembrare sempre alla moda. -Non me la sono presa- ribatté piccata.
Il ragazzo le indicò con la testa le porte del mezzo. -Dobbiamo scendere.-
Sbuffando, Laney si tirò in piedi e lo seguì. Una volta in strada, riconobbe subito la zona: erano a Sporthings, proprio davanti al Palazzetto che dava il nome al quartiere. Insieme alla riviera, era l'orgoglio di Tiny Town, e non ospitava solo gli sportivi del luogo ma anche gli aspiranti atleti delle cittadine limitrofe. Si trattava di un imponente cilindro intonacato di bianco, mitragliato a piani alterni da finestrelle nere e profonde. Il maestoso ingresso principale si fregiava di una scritta gotica con lettere dorate: "AD MAIORA SEMPER".
Al suo cospetto, Laney si sentì piccola e sciocca. -Che ci facciamo qui?-
-In questi anni ho fatto un sogno. Voglio mostrartelo- le rispose Samuel, criptico.
Laney attese ulteriori delucidazioni, ma lui non gliene diede. Al contrario, la prese per un braccio e la trascinò all'interno dell'edificio.
Laney, che non aveva mai praticato altri sport se non quelli proposti dal loro comprensorio, una volta all'accoglienza rimase di stucco: l'ambiente era ultramoderno, illuminato da tenui luci al neon che irradiavano dal pavimento. Poltroncine grigio ghiaccio erano posizionate qui e lì per gli ospiti e una lunga vetrata con vista sull'enorme piscina offriva qualcosa con cui distrarsi. Pensò che il consiglio comunale doveva essersi impegnato molto per difendere il buon nome di quel posto.
Samuel andò dritto al bancone e spiegò alla receptionist che per quel giorno avrebbe avuto una spettatrice.
La donna, quindi, le sorrise, e le porse un badge con la scritta "Accompagnatore". Laney sentiva le guance bruciare. Ringraziò balbettando e si lasciò condurre da Samuel oltre i tornelli, fino all'ascensore. Salirono al terzo piano.
Approdati a un lungo corridoio tappezzato di rosso, Laney diede voce alle proprie domande. -Dove stiamo andando?-
-Ancora un attimo e lo scoprirai.-
Samuel fece strada fino all'ultima porta del piano. La spalancò e Laney si ritrovò in una stanza bianca, ariosa e soleggiata, con un grande specchio a muro, un logoro divanetto beige addossato alla parete opposta, un bel parquet lucido di cera e avvolgibili immacolate istallate alle finestre.
Di fianco a una di queste, c'era una donna. Quest'ultima era minuta, nera e con le spalle coperte da una cascata di box braids. Indossava un crop top giallo fluo, che metteva in risalto le dorature nel suo incarnato, e un paio di ampi pantaloni da ginnastica con una vistosa striscia laterale. Non doveva avere più di trent'anni, e ciò si evinceva dal volto giovane e piuttosto contrariato.
-Sei in ritardo- statuì seria, non appena li vide entrare.
-Mi dispiace, Maya, l'autobus ha saltato una corsa- si affrettò a spiegare Samuel.
Ma l'attenzione della donna era già stata catturata da altro. Scrutò Laney da capo a piedi con piglio rapace, dopodiché, ringalluzzita, chiese a Samuel: -Lei è la tua ragazza?
Laney per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. Scosse la testa tra un accesso di tosse e l'altro, ma il ragazzo le venne subito in aiuto.
-Maya, ti presento Laney, una mia cara amica d'infanzia- disse allegro, e poi, sfiorandole la spalla: -Laney, ti presento Maya, la mia istruttrice, nonché coreografa.
Laney cercò di non lasciar trasparire la sua sorpresa. -Coreografa?- pigolò.
Samuel annuì. -Negli ultimi anni mi sono dedicato alla danza. È la mia più grande passione.
-Oh...- esalò Laney. -Non me lo hai mai detto.
Ed era naturale che fosse così. Perché, nonostante tutto, loro due avevano parlato pochissimo, da quanto si erano riappacificati. Eppure Samuel sapeva già tutto quello che c'era da sapere sul suo conto, mentre lei... brancolava nel buio.
Si sentí mortificata e fu sopraffatta dal desiderio di conoscere ogni dettaglio: si era appassionato così tanto alla danza? Da quanto tempo la praticava? Che cos'altro gli piaceva fare? Che cosa, invece, detestava? Ricordò di colpo che sua madre in gioventù era stata una ballerina di incredibile talento, e iniziò a mettere insieme i pezzi. Ma non era abbastanza.
Ebbe la sensazione che in quel momento Samuel le stesse nascondendo qualcosa e che, al contempo, le stesse scoprendo il fianco più vulnerabile.
Nel frattempo, Maya aveva continuato a fissarla.
Laney tornò al presente e, pensando che non voleva apparire sgarbata, allungò una mano tremante e si sforzò di sorridere. -P-p-piacere- disse solo.
L'istruttrice parve entusiasta del suo gesto, e ricambiò la stretta di mano con grande vigore. -Il piacere è tutto mio! Sono così felice che Samuel abbia deciso di portare qualcuno! Ultimamente ha preferito isolarsi, per via...
-Bando alle ciance- tagliò corto Samuel. -Siamo già in ritardo, non perdiamo altro tempo.
In risposta, Maya sorrise. -D'accordo. Perché non ti dai una mossa e le mostri cosa sai fare?
I due la fecero accomodare sul divano, insieme a tutte le loro cose. Samuel si tolse la felpa e le lasciò in custodia anche quella, dopodiché le rivolse uno sguardo particolarmente penetrante e disse, in modo che solo lei potesse udirlo: -Guardami bene, capito?
-Sei pronto?- gli chiese allora Maya.
Samuel annuì e Laney lo vide raggiungere il centro della stanza. Abbassò il capo e portò entrambe le braccia al petto.
Laney sentiva il cuore palpitare forte nelle orecchie. Era a disagio all'idea di trovarsi nel posto felice di Samuel, perché sapeva meglio di chiunque altro che cosa poteva significare. Ne era terrorizzata. Non voleva guardare. Ma Samuel le aveva intimato di farlo. "Ho fatto un sogno, una volta. Voglio mostrartelo."
Maya pigiò il tasto "Play" e, di colpo, l'atmosfera mutò. La stanza risuonò di una musica triste, e così anche il corpo di Samuel.
Il ragazzo iniziò a muoversi, dapprima dolce, poi frenetico, come posseduto da una forza più grande di lui. Laney ne era certa: quello non poteva essere lo stesso ragazzo che aveva fatto irruzione nella sua stanza quella mattina. La sua espressione, i gesti, i movimenti: tutto era diverso. Ed era bravissimo.
Samuel ruotò su sé stesso, gettò la testa indietro e slanciò le braccia verso l'alto. Produsse un'onda con il busto, si rannicchiò a terra e poi tornò di colpo in piedi, avanzando due passi che tradivano una profonda tristezza. Poi ancora una giravolta, un colpo in pieno stomaco e una caduta drammatica, straziante.
C'era una storia nella sua danza. Una storia che parlava di notti insonni a esercitarsi, di sogni grandi e terribili come giganti nella nebbia, di paure che strisciavano alla base del collo e si annidavano, infide, dietro alle orecchie.
Samuel, che cercava di afferrare qualcosa. Samuel, che voleva essere un ballerino. Samuel, che avrebbe dato tutto, pur di diventarlo. Correva, si allungava, si snodava fin quasi a sgretolarsi, a rompersi in mille pezzi per quell'unica cosa che desiderava, che agognava più di ogni altra, per cui avrebbe lottato con le unghie e con i denti.
E lei? Lei cosa voleva? Cosa avrebbe sacrificato, pur di ottenerlo?
Le sembrò di condividere le sue emozioni a ondate: c'erano una luce, nei suoi occhi, e un fuoco, nei suoi movimenti, che erano stregati. E c'erano muscoli, e spigoli, e angoli di lui che non ferivano, piangevano soltanto. E il suo volto era un groviglio contorto e perfetto di chiaroscuri, e Laney seppe che il modo in cui lui era in quel momento, lei non lo avrebbe dimenticato mai più.
Avrebbe voluto avere carta e penna per disegnarlo, per avvolgerlo: senza volerlo, immaginò una giacca di stelle sulle sue spalle agili e forti, e pantaloni svolazzanti di seta intorno alle sue gambe veloci, e guanti di velluto bianco tra le sue dita affusolate, e poi colori e consistenze e decorazioni e altro ancora, fino a farle girare la testa.
E così capì, capì ogni cosa: lei doveva guardarlo. Non aveva altra scelta. Come si guarda la morte di una stella o la nascita di un dio, Laney doveva assistere allo spettacolo di Samuel, alla sua arte. E forse, allora, dentro di lei tutto sarebbe appassito e poi rinato, migliore e per sempre.
Si trattò di un miracolo, una falla nel sistema grande abbastanza da lasciarle sbirciare oltre.
Sullo sfumare delle ultime note, Samuel portò a termine la coreografia con un'incredibile acrobazia e Laney non riuscì a impedirsi di applaudire.
Si accorse di star sorridendo solo quando Samuel si avvicinò al divanetto. Il ragazzo si accucciò al suo fianco, aprì lo zaino e ne estrasse borraccia e asciugamano. Si tamponò la fronte, bevve e poi chiese: -Che ne pensi?-
-Fantastico- esalò lei. -E' stato fantastico.
Ma non fece in tempo ad aggiungere altro, che la voce di Maya aveva già riempito la sala. -Era tutto sbagliato. Quante volte devo ripeterlo? Si chiama popping per un motivo, Samuel. Se non scandisci bene i movimenti non otterrai mai la giusta intensità. E poi che diavolo era quella cosa con le braccia? Pensi che riuscirai a superare le regionali, di questo passo?
Laney non riusciva a credere alle proprie orecchie. L'esibizione di Samuel era stata da vero e proprio fuori classe, le sembrava inconcepibile che Maya la trovasse tremenda.
Spostò in fretta lo sguardo dall'uno all'altra, cercando di capire. L'espressione sul viso della donna era severa e intransigente, quella sul volto di lui contrita e pensierosa.
Faceva male essere criticati lì, nell'intimità della propria passione, nella carne debole del fianco scoperto. Laney lo sapeva, lo sentiva.
Non riuscì a trattenersi oltre. -Era perfetto- disse secca, la voce tremula e le mani strette tra di loro. -Ho sentito le sue emozioni, mentre ballava. Samuel è bravissimo, non deve...-
-Non ho detto che non sia bravo- intervenne pacata Maya. -Ma è ancora molto lontano dall'essere perfetto.
Laney sentì lo stomaco strizzarsi di più. -Ma...
-No, Maya ha ragione- la interruppe Samuel. -Lo so.
Non c'era tristezza nella sua voce, ma piuttosto... turbamento. Ripose borraccia e asciugamano nello zaino, poi scattò in piedi, come scottato. -Ricominciamo- statuì, rivolto all'istruttrice.
Maya gli fece un cenno, gli diede le spalle e tornò ad armeggiare con lo stereo. -Dall'inizio, per favore- dispose solo.
Samuel approfittò dell'occasione. Si chinò su Laney e le fece segno di porgergli l'orecchio. Anche se con un po' di imbarazzo, Laney lo assecondò. -Non abbandonarlo mai- le sussurrò allora lui, quasi ordinandoglielo. -Se la moda è ciò che ami davvero, se è la cosa che ti rende più felice al mondo, tu devi seguirla. A qualunque costo.-
Laney ebbe un tuffo al cuore.
Il ragazzo si ritrasse, lei si voltò a guardarlo e i loro sguardi si incontrarono per un tempo sufficiente ad annientarla. Alla fine però, Samuel riprese ad allenarsi, e Laney sentì il suo corpo, il suo sangue, la sua essenza intera tremare. Nelle parole di Samuel, nei suoi occhi, nel modo in cui aveva danzato ci fu qualcosa che la costrinse ad abbassare il viso per impedire che la vedessero piangere.
E così, Laney seppe con esattezza che quel pomeriggio sarebbe tornata a casa e avrebbe disegnato modelli fino a scorticarsi le mani.
"Ha un'importanza cruciale. È la cosa più importante che ci sia."
Un tramonto rosso bruno si stendeva su Tiny Town, ma la sua luce non scaldava più come in estate. C'era qualcosa di orribilmente nostalgico nell'atmosfera di quella scena, Laney riusciva a percepirlo in fondo alla gola, in quel magone che aveva faticato a ricacciare indietro da quando avevano lasciato Sporthings.
Dopo un'intera giornata passata ad allenarsi, Maya l'aveva salutata con un abbraccio caloroso e un sorriso accogliente (nonostante il loro contrasto mattutino) e si era raccomandata di tornare spesso ad assistere alle loro lezioni perché, a suo dire, Samuel non si era mai applicato tanto come quel giorno.
Il diretto interessato, dal canto suo, era uscito dalle docce dello spogliatoio bello e profumato. L'aveva guardata e le aveva detto: "Beviamo qualcosa, prima di rientrare." Laney si era chiesta dove trovasse tutte quelle energie.
Così eccoli lì, gambe incrociate sulle rive del laghetto artificiale di Central Place, a sorseggiare limonata ghiacciata nonostante il freddo impertinente. L'acqua era tutta diamanti e increspature viola, e le goccioline di condensa scivolavano lungo i fianchi delle bottigliette di vetro, infrangendosi sulle loro dita in lacrime cadenti e perdute.
-Grazie per essere venuta- iniziò Samuel. -Ne avevo bisogno.- Buttò giù un sorso di limonata e si leccò le labbra sottili.
Laney pensò che fosse fin troppo educato da parte sua farle credere che non era lei, quella che aveva bisogno di aiuto. Ma, in fondo, cosa ne poteva sapere? L'intera esistenza di Samuel era un'incognita, un gigantesco punto interrogativo nel nulla.
-Non c'è di che- si limitò a dire, bevendo a sua volta dalla bottiglia. La bibita era aspra sulla lingua. -Grazie a te per avermi invitata alla tua lezione di danza.
La conversazione si stava raffreddando. Sentendo calare tra loro una vaga sensazione di imbarazzo, Laney sputò la prima cosa che le venne in mente: -Voglio farmi aiutare. Mi metterò in contatto con uno sportello di ascolto e proverò a stare meglio.-
Samuel non commentò. Afferrò un ciottolo liscio al suo fianco e lo scagliò lontano. Quello disegnò una parabola in aria e piombò nel lago provocando uno zampillo d'acqua lucente.
La curiosità la stava divorando. Laney non riuscì più a trattenersi. -Che cosa hai fatto, in questi anni?
Samuel parve rifletterci mentre cercava altri sassolini da spedire sui fondali. -Un sacco di cose- rispose alla fine. -Ma non credo di essere stato io a farle. Credo che alcune siano successe e basta.
-Ma hai scelto tu di diventare un ballerino.
-Non ne sono sicuro.
Laney era confusa. "Perché?" avrebbe voluto chiedergli. A dire il vero, avrebbe voluto fargli miliardi di domande. Avrebbe voluto sapere tutto, dell'Europa, delle persone che aveva incontrato lì, dei suoi genitori, di come fossero finiti così, di tutti i suoi sogni. Invece, alla fine, gli domandò solo: -Sei felice?
Di nuovo, Samuel ci pensò per qualche istante. Si allungò sull'erba, si puntò sui gomiti e reclinò il capo su una spalla. Il sole morente gli schiariva i capelli e faceva sembrare la sua pelle ancor più levigata e dorata del solito. -No- disse alla fine. -Solo a volte- si corresse poi.
Laney sbarrò gli occhi per la sorpresa e lo scrutò sconcertata. Questo ragazzo, questo ragazzo che l'aveva inseguita per settimane, che l'aveva spinta a buttarsi da un balcone e l'aveva obbligata a riscuotersi dalla sua confortante tristezza, questo ragazzo... non era felice.
Samuel si accorse del modo in cui lei lo stava guardando e sorrise. Era così disinvolto che Laney un po' lo detestò.
-Cosa ti aspettavi di sentire, che sono interamente soddisfatto della mia esistenza e che l'unico mio desiderio, arrivato a questo punto, sarebbe invecchiare in pace in una casetta in riva al mare?- la punzecchiò. -Ho solo diciotto anni, non posso essere felice. Non voglio esserlo.
Questa volta fu il turno di Laney di riflettere. Si sentiva stordita e al contempo dispiaciuta dalle parole di Samuel, perché in un certo senso le comprendeva. -Ma allora...- tentò, pigolando -sei infelice?-
Samuel si limitò a stringersi nelle spalle. -No- disse. -Solo a volte.-
Poi, forse notando l'espressione smarrita sul suo viso, aggiunse: -La vita non è fatta per essere semplice, Laney, non lo è per nessuno. Ma se non provi, se non fallisci, se non cadi e ti rialzi dieci, cento, mille volte, puoi dire davvero di aver vissuto?-
Laney rimase schiacciata dalla portata di quelle parole, e fu costretta a bere una lunga sorsata di limonata per impedirsi di soffocare. Esitò per un breve intervallo, valutò, soppesò la dichiarazione di Samuel con la massima cura, infine rispose: -No, credo di no.
Samuel annuì. -Non sono del tutto appagato dalla mia vita, ma non ne sono nemmeno del tutto scontento. Semplicemente, penso che ora ce l'ho, quindi tanto vale provare e vedere che succede.
Si guardarono. Laney lo vide serrare la presa delle dita intorno alla bottiglia. I suoi occhi erano pieni di quella luce sicura e irremovibile, e lei si ritrovò a pensare che era cresciuto. Molto più di quanto aveva fatto lei, forse molto più di quanto sarebbe mai riuscita a fare. Provò un'improvvisa fitta di vergogna. Tornò ad ammirare il tramonto e si prese le ginocchia tra le braccia. -Mi dispiace- sibilò.
-Per che cosa?- chiese Samuel. Ma non c'era una vera e propria risposta a quella domanda e così tra di loro cadde il silenzio.
Rimasero muti e vicini per un tempo che parve un'eternità. Nella testa di Laney i pensieri rotolavano e si sovrapponevano gli uni agli altri.
Infine, quando il sole stava ormai scendendo oltre il bordo del mondo, Samuel scattò in piedi e si stiracchiò come un gatto. Poi guardò Laney e le rivolse un sorriso gentile. -Allora verrai a scuola domani?
Laney annuì senza guardarlo. -Ci proverò.
-Mettiti qualcosa di carino.
Laney si voltò a guardarlo di scatto. -Che?
-Qualcosa che ti piace- specificò il ragazzo. -Vuoi fare la stilista o no? Scommetto che puoi fare di meglio di "jeans e t-shirt grigia".
Laney lo fissò per un po'. Forse Samuel era impazzito, forse tutto quello sport gli aveva dato alla testa. O forse aveva ragione. Di nuovo. Su tutta la linea.
Valeva la pena soffrire così? Valeva la pena passare tutto quel tempo a preoccuparsi dell'infelicità, quando la vita era qualcosa di così strano, mutevole e... complicato? C'era stato un tempo in cui Laney si era espressa attraverso i suoi vestiti. Ma quel tempo era passato e lei aveva trascorso giornate infinite a piangersi addosso, senza nemmeno provare a vedere ciò che di bello ancora c'era.
Perché, dopotutto, lei aveva ancora un obbiettivo.
Perché, dopotutto, lei era ancora viva.
Viva.
Un brivido le corse lungo la schiena, mentre una ventata gelida scuoteva le rive del laghetto. Lei e Samuel si guardarono, e Laney fu avvolta da qualcosa di inspiegabile, una sensazione sepolta da anni di apatia e dolore: la speranza.
Laney sperò. Sperò e sorrise.
E, se sulle prime Samuel parve spiazzato da quella reazione, in seguito ricambiò con altrettanto calore. -Allora?- chiese.
-Non prometto niente- rispose vaga Laney. -Ma farò del mio meglio.
Samuel assentì, soddisfatto. -D'accordo- disse. -Mostrami il meglio che sai fare.
Poi le tese la mano e l'aiutò ad alzarsi. Entrambi gettarono le rispettive bottiglie di limonata ormai vuota nel cestino e, insieme, si avviarono verso casa.

ANGOLINO TUTTO NOSTRO:
Hi, Cutiepies!
Come state? Come avete trascorso questo periodo di quarantena? Come vi sentite?
Dopo numerosi mesi di assenza, ecco qui il nuovo capitolo! Sul suo conto dirò solo che... be', è stato un parto plurigemellare con complicazioni e aggravanti. A conti fatti sono quattro mesi buoni che ci sgobbo sopra e sono fermamente convinta che non sia un granché, anzi. Però questo capitolo ha un posto davvero molto prezioso nel mio cuore, qualcosa che mi porterà a rileggerlo ogni volta che sarò triste. Perché è nato e terminato in un momento particolare, e quindi ho deciso di passarlo anche a voi così, come è venuto a me.
Se avete tempo, voglia e non vi disturba, fatemi sapere che ne pensate! Mi fa sempre tanto piacere leggere le recensioni (anche se mi dimentico di rispondere come una cretina ç_ç)!
Grazie mille, in ogni caso, per il vostro tempo, la vostra attenzione e il vostro sostegno, sotto qualsiasi forma essi siano.
Vi mando un bacio e un abbraccio grandi e forti.
Luv ya. <3
Sayami.

 

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