Magnetic.

di calamity julianne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


Magnetic.
Capitolo uno.


 
 
Quando la madre di Julie Marin le aveva detto che aveva finalmente trovato l’uomo della sua vita, lei di certo non si aspettava di venire catapultata in un universo parallelo.

La famiglia di Julie non era mai stata ricchissima come non aveva mai dichiarato la bancarotta. Con il passare del tempo tuttavia, le spese aumentarono: il matrimonio, la nascita di Julie, la loro prima ed unica figlia e tutte quelle piccole spese che si facevano sempre più grandi.
Dodici anni dopo il loro matrimonio, un incidente aveva trasformato la vita di John Marin in cenere al vento così sua moglie Ashley aveva dovuto mandare avanti la famiglia e crescere la piccola Julie che all’epoca, aveva solo dieci anni.
La morte di John era ancora una ferita aperta quando per caso, Ashley incontrò in una libreria David Bower, l’uomo grazie al quale lei era riuscita ad amare di nuovo.

Ashley faceva su e giù per un piccolo corridoio della libreria, con il capo chino sul libro che l’aveva rapita e non si era nemmeno accorta dell’ uomo che aveva davanti finché non urtò contro di lui in modo imbarazzante e doloroso.
E da lì era nato il loro amore. Ashley e David amavano raccontare ad amici e parenti la storia del loro primo incontro, prendendosi le mani e lanciandosi quelle occhiate complici che nascondevano un amore inatteso ma desiderato.
Julie era felice per sua madre. Non era quel tipo di adolescente che quando vede la madre che si risposa le urla contro, tirando su una vera e propria tragedia greca. Aveva visto Ashley piangere per notti intere, l’aveva vista crogiolarsi in quel dolore immenso che lei poteva solo immaginare e vederla sorridere, dopo anni di agonie e delusioni, era la vittoria più bella.
 
La questione “matrimonio” tra Ashley e David era ancora un argomento in sospeso. Erano entrambi scettici e spaventati dall’idea di un altro fallimento, così si divertivano a fare la coppietta di adolescenti nonostante avessero quarant’anni.
Poi un giorno d’agosto, mentre assaporavano la brezza degli ultimi giorni d’estate David le chiese di fare i bagagli e andare a vivere a casa sua, insieme a Julie ovviamente.
Ashley accettò ed ora Julie, si trovava a fare i conti con un mondo decisamente diverso dal suo.
 
David aveva un figlio di ventitré anni e Ashley non faceva altro che fantasticare su come lui e Julie avrebbero potuto diventare amici. Sognava una famiglia unita, dove i genitori si amavano come se fosse il primo giorno e i figli erano anche migliori amici.
La diciassettenne Julie però temeva di non piacere al figlio di David, ma si tenne i suoi dubbi per sé per evitare che intralciassero la felicità ritrovata di sua madre.
 
***

Casa Bower non aveva niente a che fare con casa Marin. Sembrava una sorta di palazzo reale. Un enorme cancello e una stradina che sembrava non finire mai, diedero il benvenuto a Julie e Ashley in quella villa gigantesca che poteva contenere dieci volte l’appartamento dove vivevano loro.

Manca solo il maggiordomo, pensò Julie.

Scesero dalla vecchia auto blu mezza rotta e presero i loro bagagli. Varcarono la soglia di casa, dove ad attenderle c’era una signora sulla sessantina, con gli occhi piegati dalle rughe e un sorriso stampato sul volto.
«Benvenute», disse la signora. «Io sono Mary, la governante. Vado a dire al signor Bower che siete arrivate», sorrise ancora e sparì dalla loro vista.
«Mamma?», sussurrò Julie verso sua madre.
«Sì?».
«È stato inquietante»,mormorò la ragazza.
Ashley le diede una piccola gomitata sul fianco. «Comportati bene».

La somiglianza che legava Ashley e Julie era pazzesca. Soprattutto gli occhi che erano praticamente identici. Entrambe avevano occhi grandi color cioccolato, incorniciati da lunghe ciglia nere. Entrambe avevano i capelli mossi lunghi, con l’unica differenza che Julie li aveva più scuri e più mossi rispetto a quelli della madre.
 
Poco dopo, David raggiunse Ashley e Julie che erano rimaste a contemplare la meraviglia di quella casa.
In soffitto era alto, ornato da un grande lampadario in cristallo. C’era un’ enorme rampa di scale a pochi metri dalla porta di ingresso e le pareti erano riempite da quadri che raffiguravano paesaggi o personaggi sconosciuti.

David baciò Ashley con un sorriso sulle labbra e guardò la sua amata per un attimo come se volesse ricordarne ogni piccolo dettaglio, per paura di dimenticare il colore dei suoi occhi o la piccola fossetta al lato della sua guancia sinistra.
Poi si voltò verso Julie. «Tu devi essere Julie, è un piacere conoscerti», le strinse la mano e le baciò le guance.
«Anche per me è un piacere conoscerla», disse Julie imbarazzata.
«Dammi pure del tu, cara», si affrettò a dire David. «Tua madre mi ha parlato molto di te, ma non mi aveva detto che eri così bella».
Julie arrossì e mormorò un ringraziamento, pregando che quella tortura finisse al più presto. Non era uno di quei tipi a cui piace stare al centro dell’attenzione e non era nemmeno una di quelle ragazze che crede ai complimenti delle persone. Li vedeva come semplici parole buttate al vento dette solo per cortesia e nulla più.

«Vi accompagno nelle vostre stanze, sicuramente vorrete riposarvi un po’».
Ordinò a Harold, un uomo alto circa un metro e novanta, con la carnagione chiarissima, più di Julie – e non era facile trovare qualcuno più pallido di Julie – con indosso una specie di uniforme, di prendere le valigie e portarle nelle loro stanze.
 Salirono le scale e arrivati al secondo piano, David mostrò ad Ashley la loro grande camera da letto. Al centro della stanza c’era un grande letto con la spalliera in ferro che disegnava eleganti ghirigori. Ai lati del letto c’erano due comodini uguali in legno e una grande cassa riposava ai piedi del letto. Nella stanza c’erano altre due porte: una portava al loro bagno personale, l’altra alla cabina armadio.

La camera di Julie, si trovava al terzo piano, dove c’erano altre stanze compresa quella di Jamie, il suo fratellastro che lei non aveva ancora avuto modo di incontrare.
La camera di Julie era grande ed arredata secondo lo stile classico. Un grande letto in legno padroneggiava la stanza accompagnato da due comodini uguali ai lati del letto e da un armadio che era tre volte quello che Julie aveva a casa sua. C’era anche un “piccolo” bagnetto personale nella sua stanza.
«Ti piace?», chiese David sulla soglia della stanza di Julie.
«Moltissimo, è tutto bellissimo», ammise Julie.
David uscì dalla sua stanza e si chiuse la porta alle spalle. Una volta sola Julie si gettò sul letto e sorrise.

Magari non andrà tanto male.

***
«Signorina Julie?», la chiamò per la centesima volta Mary.
Era l’ora di cena e Julie si era addormentata sul suo letto. Mary, la governante bussava alla sua porta da dieci minuti senza ricevere alcuna risposta.
Julie sussultò sentendo la mano di Mary che sbatteva sempre più forte contro la sua porta.
«Chi è?», farfugliò Julie.
Si voltò verso il comodino e vide che la piccola sveglia che vi era appoggiata segnava le otto e mezza. «Signorina, sono Mary. A cena attendono solo lei», disse Mary.
Julie si alzò dal letto e di guardò allo specchio. Era uno straccio.

«Cinque minuti e sono da voi», disse infine la ragazza. Mary tirò un sospiro di sollievo e andò al piano di sotto.
Julie si sistemò davanti allo specchio e per un attimo si chiese se avrebbe dovuto mettere un abito da sera, ma infine optò per un paio di jeans e una maglietta nera a maniche corte.
Era il sei luglio e faceva un caldo insopportabile.
Julie scese le scale e arrivò in cucina dove l’attendevano sua madre, David e un posto vuoto. «Eccoti, finalmente», disse Ashley vedendola arrivare.

«Mi sono addormentata», spiegò Julie.
David sembrava irritato, anzi lo era parecchio. Aveva una mano sulle labbra e l’altra chiusa in pugno sul tavolo.

Jamie non era ancora tornato e sapeva benissimo che quel giorno si sarebbero trasferite Julie e Ashley. Jamie non era mai stato un tipo facile, non era esattamente quel tipo di adolescente tranquillo che fa quello che i genitori gli dicono.
Jamie era ribelle, era arrogante. Jamie era difficile, se così può definirsi. Inoltre, odiava suo padre. Non era quell’odio che urlano i quattordicenni da dietro una porta, quell’odio che voleva solo dire “non è giusto che non mi fai uscire stasera”  o quelle cose banali.
Jamie lo odiava davvero. Lo odiava con tutto sé stesso, lo odiava oltre i limiti del normale. Per questo, quando aveva compiuto diciotto anni, dopo aver preso il diploma si era cercato un lavoro e con quel lavoro si era comprato un appartamento il più lontano possibile da suo padre.

I Bower navigavano nell’oro e Jamie avrebbe perfettamente potuto chiedere un tot di soldi al padre per comprarsi una casa, ma odiava dipendere da lui, odiava qualsiasi cosa riconducibile a lui.
E una padre di sé, odiava anche Ashley e Julie, nonostante non le conoscesse.
 
Julie sentì una chiave che ruotava nella serratura. La porta dell’ ingresso di aprì e si richiuse emettendo un tonfo, che fece sobbalzare Julie.
Una figura alta si presentò sotto i loro occhi subito dopo.
Il viso di Jamie sembrava impassibile. Jamie era alto, biondo e con due occhi azzurri da far paura. Erano quel genere di occhi che sembrano parlare, ma gli occhi di Jamie urlavano. Urlavano e Julie rabbrividì nel guardarli.

«Era ora», disse seccato David.
«Ho avuto da fare», rispose Jamie semplicemente.
«Ti presento Ashley e Julie», continuò David. «Lui è Jamie, mio figlio».
Jamie attraversò la sala da pranzo e andò a sedersi nella sedia di fronte a quella di Julie.
«Ciao Jamie, è un piacere conoscerti, tuo padre mi ha molto parlato di te», disse Ashley.

Jamie non la guardò nemmeno. «Posso immaginare», rispose secco.
Quando due cameriere portarono la prima portata, Julie spostò involontariamente lo sguardo su Jamie. Stava giocando con il tovagliolo di stoffa disegnandovi ghirigori immaginari con l’ indice mentre l’altra mano era chiusa in un pugno, poggiata sulla sua guancia.
Jamie sentì gli occhi di Julie addosso e sollevò lo sguardo verso di lei. Quando gli occhi di Julie si scontrarono con quelli di lui, lei abbassò lo sguardo sperando che lui non riuscisse a vederle le guance rosse.

Ma Jamie non distolse lo sguardo. Le diede quindici anni. Aveva il viso fresco, con appena un po’ di mascara.
Arricciò il naso guardandola. Non gli interessava più di tanto avere un fratello, tantomeno una sorella. E dentro, pensò che sia lei che sua madre sarebbero state due palle al piede.

«Jamie, la tua sorellastra Julie ha diciassette anni sai? Frequenta lo stesso liceo che frequentavi tu», disse David.
Jamie distolse lo sguardo dalla ragazza  e puntò un paio di occhi azzurri infuocati negli occhi del padre. «Non siete nemmeno sposati e già si parla con termini di parentela».
Fu una piccola frase, ma Julie si sentì rifiutata e Ashley provò la stessa cosa.
Non le voleva in casa sua, ecco tutto.

«Jamie», lo ammonì il padre.

«No, Jamie un corno. Cosa pensi, che una cena ci farà diventare una bella e allegra famiglia? Pensi che potrò mai chiamare questa donna “mamma” e quella ragazzina “sorella”?», sbottò Jamie e poi si rivolse verso Ashley. «E tu non t’illudere, sei la terza da quando ha divorziato con mamma, lo sai? Goditi questo lusso, perché finirà in fretta. Dagli giusto il tempo di trovarsene un’altra più giovane e bella e vedrai che fine farà tutto il vostro amore», si alzò in piedi e sparì dalla sala, lasciando Ashley ferita e Julie infuriata.
David mortificato nei confronti di Ashley e Julie, urlò il nome del figlio che però si era già chiuso in camera, sbattendo la porta.

«Perdonatelo», disse David. «Jamie è fatto così».
 
***

Durante il resto della cena, Julie non proferì parola e quando ebbe finito andò verso la sua stanza.
Si perse un paio di volte prima di trovare la sua stanza: finì in uno sgabuzzino, in un bagno che era tre volte la sua stanza, in una camera da letto per gli ospiti e nell’ ultima stanza dove avrebbe voluto entrare.

Aprì la porta di scatto, convinta che quella fosse la sua stanza. Invece, trovò Jamie stirato nel letto a dorso nudo, con lo stereo che suonava una canzone dei Nirvana. «Scusa, pensavo fosse la mia stanza», ammise Julie.

Dannazione a te, Julie Marin. Si rimproverò la ragazza mentalmente.
Jamie sollevò gli occhi dal libro che aveva tra le mani e la guardò privo di un’espressione in viso.
«Evidentemente non lo è», rispose acido Jamie.
«Che problemi hai con noi?», disse Julie, convinta di averlo solo pensato.
Il ragazzo abbassò il volume dello stereo mediante un telecomando e puntò quelle iridi azzurre contro quelle di Julie. «Scusa?», disse lui fingendo di non aver sentito.

Ormai Julie aveva parlato, non poteva tirarsi indietro. «Sai benissimo a cosa mi riferisco», disse lei. «Il tuo bel discorso non è  stato il massimo della gentilezza».
Jamie alzò le spalle. «È quello che penso».
Julie fece una smorfia che non sfuggì a Jamie. «Ma che vuoi? Sei a casa mia, nella mia stanza quindi evita quest’aria di sufficienza».
«Se hai qualche problema, se sei frustrato o che so io, prenditela con qualcun altro», sbottò Julie ma Jamie la interruppe.
«Ehi ehi, ragazzina modera i termini», sembrava sinceramente infastidito.

«No, taci e fammi parlare. Mia madre, che tu lo voglia o no, si sposerà con tuo padre e questa non è più solo casa tua, è anche casa mia, perché che ti piaccia o no sono la tua sorellastra. Mi odi? Non è un problema mio, quindi vedi di iniziare a trattare bene mia madre. Insultami quanto vuoi, ma non mancarle di rispetto».
Jamie non parlò per un istante, stupito dalle parole pungenti di quella che sembrava una semplicissima ragazzina vuota e innocua. «Lui le spezzerà il cuore», disse infine ed esitò un attimo a continuare la frase. «Ed io spezzerò il tuo».

Non era sicuro che quello che aveva detto avesse un senso, ma era tanto sicuro di sé, tanto vanitoso da credere che tutte le ragazze che
incontrava sarebbero cadute ai suoi piedi. Sorellastre comprese.
Non che questo non gli fosse successo, intendiamoci.
«Non so che genere di film guardi tu, ma nel mio mondo fratello e sorella non hanno relazioni».
Jamie rise infastidito. «Sparisci dalla mia vista, ragazzina».

«Non chiamarmi ragazzina», sibilò Julie e poi chiuse la porta della camera di Jamie sbattendola e sperò che il ragazzo si fosse arrabbiato per il suo gesto.
Andò nella sua camera, s’ infilò i pantaloncini e la canotta del pigiama e sgattaiolò dentro le sue coperte.
Julie aveva un quadernetto che riassumeva la sua vita. Era una sorta di diario, dove Julie scriveva, disegnava e appiccicava foto che in qualche modo le suscitavano un ricordo.

Quella sera, Julie era troppo esausta per scrivere ma era nervosa e arrabbiata e sentì l’impulso di sfogarsi.
Scrisse tutto. Scrisse del viaggio in macchina, del palazzo in cui era andava a vivere, di Mary e della sua sveglia brusca, dell’accoglienza di David, della felicità di sua madre e dell’arroganza di Jamie e dell’odio che pian piano si faceva spazio verso di lei.
Poggiò il quadernetto sul comodino e si addormentò.
 
***

David e Ashley erano usciti presto per andare a lavorare e avevano lasciato soli Jamie e Julie. Quest’ultima si svegliò circa mezz’ora dopo Jamie e il primo pensiero fu il cibo. Scese le scale a piedi nudi con indosso ancora i pantaloncini e la canotta del pigiama e i capelli disordinati.
In cucina, vide Jamie a petto nudo che sorseggiava una tazza di caffè e con l’altra teneva in mano quello che Julie vide come un libro. Lui le dava le spalle appoggiato al bancone.
Jamie la sentì arrivare e si voltò verso di lei con aria divertita, nascondendo la mano con il libro dietro la schiena. «Oh, buongiorno».

Julie prese del caffè e una tazza. «Buongiorno», mormorò. Si sedette su una delle sedie del tavolo della cucina, più piccolo rispetto a quello della sala da pranzo. Solo allora si rese conto che Jamie aveva un’espressione beffarda stampata in viso e nascondeva in modo morboso qualcosa dietro la schiena.
«Che nascondi lì? Roba porno?», disse Julie sorseggiando il suo caffè.
Jamie ridacchiò. «No, in realtà è più divertente, vuoi che ti faccia vedere?», chiese lui.
Julie sollevò le spalle e Jamie iniziò a leggere.

«Tutto in questa casa mi sembra estraneo. Mary mi ricorda una di quelle signore anziane che interpretano le streghe nei film ma sembra dolce. Mia madre era contentissima ed io sono felice per lei e David, che mi sembra un brav’uomo e spero davvero tanto che non sia come suo figlio Jamie».

Julie impallidì sentendo quelle parole. Era il suo quadernetto.
Si alzò di scatto e andò verso Jamie per riprendersi il suo quadernetto. «Dammelo!», urlò Julie ma Jamie non fece caso a lei e la bloccò senza problemi.
Nonostante Julie fosse alta, Jamie lo era circa quindici centimetri più di lei ed era indubbiamente più forte. La fece ruotare su se stessa fino a farle poggiare la  schiena contro il suo petto mentre le teneva i polsi stretti con una mano.

«No no, qui arriva la parte migliore», disse Jamie e si schiarì la gola con fare teatrale. «Jamie è presuntuoso, arrogante, sgarbato e vanitoso. Crede di avere il mondo ai suoi piedi e si sente in diritto di calpestare gli altri per divertimento personale. Lo odio, esattamente come lui odia me. È un mostro che si crede migliore degli altri quando invece non è nient’altro che un pagliaccio idiota».

La presa sui polsi di Julie allentò e lei si sollevò sulle punte prendendo il suo quadernetto velocemente. «Come hai potuto? È una cosa privata, tu non avevi nessun diritto di leggere!», sbottò Julie.
Quella notte, Jamie si era intrufolato nella camera di Julie senza un motivo ben preciso e la prima cosa che aveva notato, era stato proprio il quadernetto che Jamie lesse tutto.
Julie si sentì scoperta a sapere che lui aveva letto i suoi pensieri, aveva visto i suoi disegni e le sue foto. Lo odiò più di prima, lo odiò con quell’ odio autentico che provano solo poche persone.
«Così sarei un mostro?», disse Jamie senza fare caso alle parole della ragazza.

«Se prima lo pensavo, adesso lo so per certo», disse Julie.
Jamie rise e andò fuori dalla cucina.
Ci vollero qualche secondo e moltissimi respiri per far ritrovare a Julie la calma che ultimamente perdeva spesso, sempre a causa della stessa persona.
Appoggiandosi contro il bancone, urtò senza accorgersene contro un vaso che cadde e si frantumò per terra.
Oh Dio.
 
Ma prima che potesse pensare o fare qualsiasi cosa, un Jamie spaventato e infastidito si presentò sulla soglia della porta.
«Ma che hai combinato?», disse Jamie guardando i pezzi di ceramica attorno alla ragazza.
«Non l’ho fatto di proposito», mormorò la ragazza affrettandosi a raccogliere più pezzi di ceramica che poteva.
Jamie sospirò. «Ferma, stai ferma», ordinò.
Andò verso di lei e calpestò con gli scarponcini i pezzi di vetro poi, senza dire nulla sollevò le gambe di Julie e la prese in braccio.
«Che fai? Mettimi giù», disse Julie con le guance che iniziavano a colorarsi di rosso, a contatto con le mani di Jamie che le stringevano le cosce.
«Lo farei, ma sarei responsabile del tuo faccino ricoperto di sangue, quindi taci», disse lui.

Poi ordinò a Mary di raccogliere i pezzi di vetro e tenendo Julie ancora in braccio salì le scale verso il bagno della sua stanza. Julie poggiò le mani sulle sue spalle e guardò per tutto il tempo altrove, nonostante la vicinanza fra i due implicasse almeno uno sguardo per piano.
Entrarono nella camera di Jamie che era nel più totale casino ed entrarono nel bagnetto personale di Jamie.
Era identico a quello di Julie, solo che il suo sembrava più grande.
Poggiò Julie sul bordo della vasca e la costrinse ad aprire il palmo della mano per controllare le ferite.
C’erano tagli su tutta la mano, ma non erano troppo profondi.  Senza dire una parola, Jamie prese del cotone e lo intinse nel disinfettante per poi tamponarlo lentamente sui graffi della mano di Julie. La ragazza sussultò un paio di volte per il bruciore causato dal disinfettante a contatto con la ferita, ma strinse il labbro inferiore tra i denti per fare in modo che lui non si accorgesse che stava provando un po’ di dolore, nonostante fosse palese. «Fatto», disse Jamie fasciando la mano di Julie.
«Grazie», mormorò Julie.

Jamie non rispose, così Julie andò nella sua stanza.
Passò il tempo a disegnare, stare all’aperto e aiutò Mary in alcune faccende domestiche nonostante lei gli avesse ripetuto più volte di non aver bisogno del suo aiuto.
La verità era che Julie avrebbe fatto tutto, tutto pur di non sentire la presenza di Jamie accanto.
La sera, a cena Ashley e David parlarono con i ragazzi.
«Da un po’ di tempo io e Ashley volevamo fare un viaggio», esordì David. «così abbiamo prenotato un volo per stanotte. Andiamo a Miami».
«E quindi? Dobbiamo venire con voi?», disse Jamie.
«No, questo è il punto. Abbiamo pensato che magari lasciandovi da soli per così tanto tempo, potrete stringere… amicizia», continuò David che non era nemmeno lui tanto sicuro di cosa stava dicendo.
«Tanto tempo? Quanto tempo starete a Miami?», chiese Julie.
«Fino alla fine dell’estate», disse Ashley.
A Jamie andò di traverso l’acqua e tossì rumorosamente. «Cosa?».
«Hai sentito, Jamie», disse David. «Confidiamo nella vostra responsabilità e speriamo che questo tempo servirà per unirvi di più».
O per scannarci a vicenda, pensò Jamie.
«No?», disse David guardando prima Julie poi Jamie.
«Certo», disse Julie.
«Sicuro», disse Jamie contemporaneamente a Julie.
 
No, non ce la posso decisamente fare, pensò Julie.

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Capitolo due.
 
Il giorno della partenza di Ashley e David, l’allegra famigliola era in pigiama davanti al portone di casa, per salutare la coppietta in viaggio.
Erano appena le sei del mattino e tutti i visi dei presenti erano solcati da profonde occhiaie violacee.
Harold prese le valigie e le carico in macchina, mentre Ashley stava riempiendo Julie di preoccupazioni e baci sulle guance.

«Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi, capito?», disse Ashley fissando gli occhi in quelli della figlia.
Julie annuì. «Sì, mamma. Stai tranquilla e goditi la vacanze, andrà tutto bene».
Ma stentava a crederci anche lei.
A cinque passi di distanza, David e Jamie si guardavano come due estranei. «Non fare sciocchezze», disse il padre. «Non metterti nei guai e per favore, sii gentile con Julie, intesi?».

Jamie lo guardò con disinteresse. Era l’uniche che non indossava il pigiama: indossava dei jeans scuri e una maglietta a maniche corte bianca. I capelli, biondissimi, erano scompigliati e incorniciavano due occhi che avrebbero dovuto essere illegali. «Intesi», disse infine con voce roca.
Poco dopo, David e Ashley sparirono dietro la porta e Mary, con il permesso dei due ragazzi tornò a dormire.
Jamie guardò fuori dalla finestra e attese che David e Ashley fossero abbastanza lontani per indossare il suo giubbotto di pelle nera e per afferrare le chiavi della moto dal caminetto.
Julie lo guardò con aria confusa. Lei a differenza sua, indossava il suo pigiama e stava morendo dal freddo.
«Dove vai?», chiese lei.
«Esco», rispose secco.
«Alle sei di mattina?».

«Sì», le passò davanti e toccò la punta del suo naso con l’indice, poi raggiunse la porta. «Ma tu dovresti tornare a nanna, i bambini non dovrebbero stare svegli a quest’ora», e sfoderò un sorriso che fastidioso era poco.
Julie arricciò il naso. «Hai davvero intenzione di lasciarmi qui da sola?».
Jamie alzò le spalle. «Ciao ciao», e sparì dietro la porta.

Julie sbuffò. Che maledetto idiota.

La ragazza salì al piano di sopra, fece una lunghissima doccia e si vestì. Indossò un paio di jeans chiari a vita alta, una maglietta a righe bianche e blu e un paio di converse bianche. Andò in cucina con una coda spettinata e si preparò una tazza di caffè.
Era sola, completamente sola in una casa troppo grande. Ed era una sensazione che non le piaceva molto.
Una cosa da sapere su Julie, è che era una contraddizione continua. Un ossimoro vivente, l’avevano definita alcuni.
Voleva girare quel castello, così si armò di coraggio, prese la sua tazza di caffè e andò in una parte della villa che non aveva visitato.

Imboccò un corridoio tappezzato di quadri che sembrava non avere una fine e la stanza che la colpì subito, fu una biblioteca.
Era enorme. Il soffitto era altissimo e vi era appeso un lampadario di cristallo. Le pareti erano piene di libri. Migliaia, pensò Julie o forse anche di più.
E non c’era paradiso migliore. Entrò nella stanza e la bocca le si socchiuse guardandosi attorno. Le enormi librerie erano divise in sezioni, tipo “poesia”, “letteratura delle origini”, “romanzi rosa”, “gialli”, “avventura”.

C’era un libro su uno dei divanetti che vestivano la stanza.

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde lesse Julie.

Involontariamente, le volò il pensiero su Jamie che forse era un po’ una sorta di Jekyll. Julie fece una smorfia. «Jamie bipolare Bower dovevano chiamarti», mormorò tra sé e sé sedendosi su un divanetto rivestito in pelle rosso scuro.
Julie lesse quel libro da pagina 32, ovvero dalla pagina dov’era adagiato un segnalibro che qualcuno aveva lasciato lì.
Lesse, lesse, lesse  e beata, s’ addormentò.
 
***

Jamie arrivò a casa verso le undici del mattino e non impiegò molto tempo per trovare Julie. La trovò distesa sul divanetto della biblioteca, con una tazza vuota di caffè accanto e un libro stretto al petto.

Il dottor Jekyll e Mr. Hyde lesse Jamie a mente.
Il libro che stava leggendo lui. Le sfilò il libro dalle mani e lo poggiò nel tavolinetto di fronte. Julie contrasse il viso. «Sembreresti quasi innocua così», constatò Jamie a bassa voce.
Picchiettò con le dita sulla spalla di Julie per svegliarla. «Julie? Julie svegliati», disse.
Julie farfugliò qualcosa di incomprensibile e aprì gli occhi impastati dal sonno. Ci volle un po’ di tempo per permetterle di mettere a fuoco la figura che aveva davanti.

«Oh», mormorò quando lo riconobbe. «Com’è stata la gita mattutina?».
Jamie ghignò ricordando Blaire, la moretta con cui aveva passato la mattina. «Interessante», disse con una malizia che Julie non colse. Jamie tornò a guardarla. «Alzati su, dobbiamo uscire».
Julie sbadigliò. «Per andare dove?», disse mentre si alzava.
«Voglio mostrarti una cosa», disse Jamie e le sfilò l’ elastico che aveva tra i capelli. «Così va meglio», disse. «Quei ricci che ti ritrovi rispecchiano il tuo carattere», aggiunse avviandosi verso la porta della biblioteca.

Julie gli andò dietro con qualche difficoltà nel seguire il suo passo svelto. «Perché che carattere ho?».
«Pazzo, decisamente fuori controllo».
 
***
 
Uscirono fuori da cassa Bower e attraversarono il vialetto costituito da piccole pietruzze bianche. Jamie indossò il suo casco e porse a Julie quello allacciato al manubrio della moto nera. Lei esitò. «Sei sicuro di saper guidare questo coso?».
Jamie roteò gli occhi al cielo e la guardò quasi severo. «Questo coso come lo chiami tu è una Harley Davidson, l’unico amore della mia vita».
Julie sollevò un sopracciglio. «Beh, è una gran bella moto, solo che non mi fido di te».
Jamie si avvicinò a Julie e le mise il casco in testa. Spostò una ciocca ondulata dei capelli di Julie dai suoi occhi e le allacciò il casco. «Sali e non fare storie», ordinò come un padre.

Julie si morse le labbra furiosamente e sospirò. Salì sulla moto e  Jamie attese che lei gli cingesse la vita con le braccia, cosa che invece non successe. «Dovresti tenerti», disse lui.
«Lo sto facendo», rispose lei tenendosi alla moto in modo non tanto sicuro.
«Intendevo che dovresti tenerti a me».
«Manco morta».
Jamie sospirò e per dispetto, partì in modo un po’ troppo veloce facendola sobbalzare dalla paura. Immediatamente, Julie mise le braccia attorno alla vita di
Jamie e lui sorrise soddisfatto.

La portò al centro di Londra, in un quartiere che lei conosceva bene.
Spense la moto davanti ad un bar e scesero entrambi da essa. Julie si slacciò il casco e glielo porse. «Che facciamo qui?», chiese lei.  Jamie prese il suo casco insieme al proprio e si voltò verso di lei.
«Voglio portarti in un posto», posò i caschi nella moto e camminò per una strada.
Salì su un marciapiede e si fermò davanti ad un grosso portone di legno. Tirò fuori dalla tasca del suo giubbotto una chiave dorata e la infilò nella serratura della porta. Spinse un paio di volte per riuscire ad aprirla.
Julie guardò quell’edificio dall’esterno, sembrava una cattedrale antica. «Sono venuta qui un sacco di volte ma non mi ero mai accorta di questo posto».

«Forse vedevi», disse Jamie dando uno strattone finale alla porta, riuscendo finalmente ad aprirla. «Ma non guardavi».
Julie entrò e si trovò in un ambiente completamente diverso da come appariva all’esterno. La sala in cui entrò, sembrava una sala delle riunioni piena di sedie. A entrambi i lati della sala c’erano due porte e davanti a lei un corridoio che sfociava in un’ enorme scalinata.
Jamie si richiuse la porta alle spalle e la sorpassò. «Vieni», le disse salendo le scale. Erano scale antiche in marmo bianco, scale rovinate ma che un tempo dovevano essere bellissime.
«Che posto è?», chiese Julie mentre saliva le scale al suo fianco.  «Una chiesa?».
«Più o meno», disse Jamie.
Le scale portavano ad una porta di legno aperta. Entrarono nella stanza spoglia e Julie si guardò intorno. Era un posto inquietante, ma aveva qualcosa di magnetico.

C’era una grande porta-finestra  che dava in un giardino piccolo, con una fontana al centro. La stanza era vuota, se non per un quadro vecchio di cui a malapena si riconosceva la firma.
Jamie superò la stanza e la portò in un’altra stanza, altrettanto grande. Il soffitto era altissimo e al centro di quella sala c’era un pianoforte antico. Jamie andò verso il piano forte con Julie dietro. Soffiò sui tasti impolverati sollevando una nuvoletta di nebbia e suonò una melodia che Julie non riconobbe.
«Sai suonare il piano?».
«Però, che occhio», disse Jamie tra il sarcastico e l’acido.

Suonò le ultime note di quella che sembrava la bozza di una canzone come se stesse dicendo addio all’amore della sua vita.
Jamie amava la musica in ogni sua sfaccettatura, era tutto ciò in cui credeva. Era uno che nella sua vita aveva avuto tante, tante delusioni e sapeva che la musica non l’avrebbe mai tradito.
La musica non tradisce, la musica ama e si fa amare.
 
«Questo posto non è una chiesa», disse Jamie senza sollevare lo sguardo dalla tastiera. «Secoli fa, una nobildonna italiana venne qui a Londra. S’imbatté per caso in uno dei quartieri più poveri di tutta Londra e vide decine di bambini orfani che vagavano per le strade, tutti sporchi, magrissimi  e con i vestiti stracciati. Si chiamava Caterina, era bellissima e molto ricca. Tutta quella povertà le aprì gli occhi e decise che non poteva stare con le mani in mano a guardare dei poveri bambini morire di fame, così si spogliò dei suoi beni, rinunciò al suo titolo e fece costruire questo edificio. Era un convento un po’ diverso dagli altri: fungeva anche da scuola e da casa per tutti i bambini che ne avevano bisogno, una sorta di collegio. Caterina raccoglieva i bambini dalle strade e restituiva loro una vita nuova, la speranza di una rinascita. C’erano le monache che aiutavano Caterina a mandare avanti questo posto e che insegnavano ai bambini ogni cosa: a leggere, a scrivere, a suonare, a cucinare e persino a cucire. Questo splendido edificio prese il nome di “Opera Pia” e oggi appartiene ai Bower».

Julie ascoltò la storia con attenzione e rimase stupita da ogni singola parola. «Tutto…tutto questo è tuo?», disse lei.
Jamie annuì e sollevò lo sguardo sulla ragazza dai capelli scuri. «E se i nostri genitori si dovessero sposare, sarà anche tuo».
«Sei ancora così poco convinto di questo matrimonio», non era una domanda e Jamie sapeva esattamente che aveva ragione.
Se solo Julie avesse saputo, se solo sua Ashley avesse capito che razza di uomo era David Bower sarebbero scappate entrambe senza voltarsi mai indietro.
«Tua madre non è la prima donna che mio padre frequenta dopo il divorzio», disse Jamie. «Non mi stupirei se questa sua nuova storia finisse esattamente come sono finite le altre».
Julie preferì troncare la discussione. Non rispose ma non distolse lo sguardo da quello di Jamie. Gli occhioni azzurri del ragazzo la scrutavano come se volessero vederla dentro, come se volesse capire i suoi pensieri. La ragazza spostò lo sguardo da quelle iridi azzurre che le facevano venire la pelle d’oca e indicò una grande porta bianca.
«Cosa c’è lì?», chiese indicando la porta.
I ragazzi attraversarono la stanza e Jamie aprì la porta.  Spuntarono in un lunghissimo corridoio che percorsero. «Erano le stanze dei bambini», Julie si sporse per vedere all’ interno di una delle camere. Non c’era niente, solo una piccolissima sedia al centro della stanza.
Si era fermata a guardare quella stanza e non si era nemmeno accorta che Jamie – che prima era a metri di distanza – era spuntato dietro di lei.
Si voltò e sussultò. «Non sapevo di fare questo effetto, capisco di essere bello ma non vorrei che mi svenissi davanti», disse lui.
Julie gli diede una piccola pacca sul petto. «Mi hai spaventata», ammise lei e guardò alle spalle del ragazzo. «Da dove sei spuntato?».
Jamie si voltò e spinse con le dita quello che sembrava un muro ma che in realtà era una piccola porta che si camuffava tra le pareti. Aprì la porta e Julie non vide altro se non il buio. «Da qui».
«Questo posto è un labirinto».
 
***
Jamie mostrò alla sua sorellastra un sacco di altre stanze e lei lo ascoltava raccontare storie su quel posto attentamente. Solo quando vide un piccolo cancelletto nero, decorato con ghirigori in metallo nero si bloccò. Il cancelletto si trovava alla fine di uno dei tanti corridoi dell’ edificio ed era in assoluto la cosa più inquietante di tutte. Era più piccolo delle gambe di Julie e copriva una scalinata che portava in quelle che sembravano le segrete. Le scale sfociavano in due porte, una a destra e una a sinistra, attorno a loro solo il buio.

Julie rabbrividì e Jamie quando vide che non era dietro di lui  le andò incontro. Le prese il braccio e la portò con sé. «Non vorrei che tu stanotte avessi gli incubi», mormorò al suo orecchio ma lei parve sentirlo appena.
Il ragazzo la portò al primo piano e Julie riconobbe da lontano il piccolo giardinetto con la fontana che aveva visto dalla prima stanza che avevano visitato.
Jamie imboccò il piccolo corridoio che portava al giardinetto e la stanzetta a pochi passi dal giardino era decisamente diversa dalle altre. Era piccola, vuota e con le pareti ricoperte dal cemento.
Julie si guardò intorno e notò che in una di quelle pareti vi era inciso un nome e due numeri. Si avvicinò per guardare meglio.

Julie 74
 
Passò l’indice sulle lettere incise sul muro e rabbrividì per un istante leggendo il suo nome. «Sapevo che ti avrebbe fatto impressione», disse Jamie riferendosi al nome sulla parete.
Julie si voltò verso di lui e alzò le spalle fingendo indifferenza. «No, è solo una coincidenza».
La ragazza aprì una piccola porticina di legno e si trovò in un piccolo ripostiglio buio. Sfilò il suo cellulare dalla tasca e fece luce. C’erano un tavolo vecchio, una vecchia macchina da cucire e due ritratti che la fecero sussultare.
Lanciò un piccolo urlò per lo spavento e Jamie  andò da lei. «Che succede?».
Julie scosse il capo. «Nulla, mi sono spaventata per i quadri», ammise a bassa voce. Erano quadri sbiaditi, antichi e ricoperti di polvere e ragnatele. Il primo raffigurava un uomo e l’altro una suora.
«Vieni», disse Jamie spingendola via da quel ripostiglio. «Ti faccio vedere la parte più bella».
La portò nel giardino e sì, era decisamente la parte più bella. Era piccolo ma probabilmente era la parte più curata di tutto l’edificio. Julie andò a sedersi su una piccola panchina e si guardò attorno.
«Qui giocavano i bambini?», chiese.

Jamie annuì. «Sì, anche le monache stavano qui. Passavano il loro tempo a leggere e ad accudire i bambini».
Julie notò che dall’altra parte del giardino, c’era una parete con delle finestre interamente coperte da grosse grate. «Cosa c’è di là?», chiese lei curiosa.
Jamie rise appena. «Non ti ho mostrato tutto, questo posto è un mistero anche per me, un giorno te lo mostrerò tutto, promesso. Ma adesso dobbiamo tornare a casa».
La ragazza annuì e uscirono dall’ Opera Pia. Raggiunsero la moto e Jamie giudò verso casa. quando arrivarono trovarono Mary preoccupatissima: i ragazzi erano usciti alle undici ed erano tornati che erano già le sette di sera.
Dopo averla rassicurata e averle detto più volte che erano vivi e senza un braccio rotto, andarono nelle rispettive stanze e s’infilarono dentro le docce.

Jamie, sotto il getto d’acqua calda della doccia pensò a Julie e a quel giorno passato insieme. Era piccolina, fastidiosa, impertinente, curiosa ma bella da far girare la testa. Una parte, chissà quanto importante, di Jamie la detestava con tutta l’anima e nemmeno lui sapeva il motivo di cotanto odio. Un’ altra parte era incuriosito da quella creaturina, a pochi metri dalla sua stanza.
Curiosità che Jamie represse.

Julie, nella vasca da bagno andò in apnea sotto l’acqua e tenne gli occhi chiusi. Era una cosa che faceva spesso, la rilassava e le piaceva. Jamie era una continua scoperta e lei era spaventata da quei suoi mille modi di fare.
Un attimo era gentile, l’attimo dopo era davanti a lei ad urlarle contro e quello dopo ancora la salvava dai cocci di vetro.
Era un mistero e lei non era sicura di voler veramente venire a capo di quell’ enigma dagli occhi blu.
 
***
La cena fu abbastanza silenziosa. Sedevano uno di fronte all’altra, senza guardarsi e senza parlarsi.
«Sai», disse Jamie staccando le labbra dal bicchiere di vetro. «Pensavo a ciò che scrivevi nelle pagine del tuo amato quadernetto».
Julie sussultò e questo a Jamie non sfuggì.  Sorride maligno e continuò a parlare. «Piuttosto banale ciò che scrivi, i disegni solo accettabili ma le parole sono proprio quelle di una bambina».
Ciò che quello splendido e terribile biondo stava dicendo non era vero e lui non pensava davvero quelle cose ma dentro di sé, sentiva il bisogno di farle del male.

Julie alzò lo sguardo dal suo piatto con aria fiera e furibonda. «Ciò che scrivo non deve interessarti, tantomeno piacerti».

Jamie fece finta di non sentirla. «Molto, molto banale. Specie quando descrivi la morte di tuo padre e come ti sei sentita, ah sì! Quella era la parte peggiore».
Julie si alzò dal tavolo di scatto facendo cadere la sedia all’indietro. Lo guardò con tutto il disprezzo possibile e si avvicinò a lui che intanto si era alzato e torreggiava su di lei. Ma Julie era troppo furiosa, era troppo davvero troppo arrabbiata. «Tu, schifosissimo verme non devi nemmeno permetterti di nominare mio padre. Sei davvero un mostro e io non voglio avere niente a che fare con te, stammi lontano, corri da una delle tue troie a parlar loro di quanto infelice sia la tua stupida vita da troglodita idiota montato e piena di sé. Sei ricco, ma sei povero. Sei povero perché qui dentro», picchietto con forza le dita contro il suo cuore. «Qui dentro è tutto fatto di ghiaccio».
Si guardarono negli occhi. Fuoco contro ghiaccio. Nero e bianco. Purezza e dannazione.
 
«Hai finito?», disse Jamie quasi annoiato.
La rabbia prese il sopravvento su Julie e gli diede uno schiaffo forte che sorprese anche lei. Jamie mosse la mascella che gli pizzicava a causa dello schiaffo. Non reagì, non si mosse, non disse niente, guardò Julie e basta.

Sapeva di aver sbagliato.

Sapeva di averla ferita.

Lo sapeva.

«Adesso sì», rispose Julie e corse verso la sua camera.
Era troppo arrabbiata per piangere, troppo irritata per pensare a qualsiasi altra cosa se non a Jamie e alle sue parole.
La odiava davvero così tanto?
Sentì una macchina calpestare i sassolini del vialetto e raggiunse la finestra per vedere chi fosse. Una porche rossa fiammante fece capolino nel viale. Una figura femminile scese dall’auto e Jamie le andò incontro.

La ragazza aveva un vestito corto nero, dei tacchi vertiginosi e le labbra dipinte di rosso. Jamie le diede un bacio sulle labbra, un bacio diverso, pieno di rabbia che fece rabbrividire la moretta che aveva di fronte.
Jamie aprì la portiera e sollevò lo sguardo.
La vide, alla finestra, splendida e ferita.
La guardò come per chiederle scusa e salì sulla macchina della ragazza e in un istante sparirono dalla vista di Julie.
Richiuse la tenda con tanta forza che avrebbe potuto strapparla e respirò profondamente prima di riuscire a ritrovare la calma perduta.

S’ infilò sotto le coperte del suo letto e fissò il soffitto.

Jamie voleva la guerra e la guerra avrebbe avuto. 

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


Capitolo tre.
 
Il giorno dopo di Jamie non c’era traccia e Julie ne era sollevata, sebbene il pensiero di vederlo arrivare da un momento all’altro le causasse un senso d’ansia.
Rimase tra le lenzuola del grande letto più del dovuto, tentando di tranquillizzare sé stessa ripetendosi mentalmente che Jamie non si sarebbe presentato di nuovo a disturbarla. Nonostante avesse iniziato quel rapporto con lui abbastanza prevenuta nei suoi confronti si sentiva ferita, quasi scossa dalle parole del ragazzo.
Pensava davvero quelle cose? Aveva davvero avuto il coraggio di sminuire il dolore che provava per il padre? Provava davvero tanto sdegno nei confronti di una ragazzina che aveva conosciuto appena?
Probabilmente sì ma d’altro canto non c’era da stupirsi più di tanto, considerando il fatto che anche Julie, per prima, si era dimostrata parecchio diffidente nei suoi confronti.

Julie si tirò su, poggiando la schiena alla spalliera fredda del letto e si passò entrambe le mani tra i capelli, dove le dita si bloccarono svariate volte a causa dei nodi. Scese giù dal letto, poggiando i piedi sul pavimento freddo e camminò verso il piano di sotto.
Mary non c’era e dalla grande vetrata della cucina, Julie scorse Harold a potare alcune piante in giardino. Aprì il frigo e si rese conto di non avere affatto fame, aveva lo stomaco chiuso. Si morse le labbra lascivamente e si voltò, dando le spalle alle grandi vetrate.
Che fare in una casa tanto grande, da sola?
Decise che forse uscire era la cosa migliore, quindi salì al piano di sopra dove si vestì velocemente, indossando un paio di jeans e una maglia in cotone a maniche lunghe bordeaux. Legò i capelli in una treccia laterale e indosso infine le proprie converse che avevano ormai la punta rovinata. Prima di uscire dalla camera, raccattò tutte le cose necessarie: il cellulare, il portafoglio e le chiavi di casa che David aveva fatto preparare per lei e si accertò di nascondere il quadernetto per bene, infilandolo tra i vestiti nell’armadio.
Uscì poi di casa e salutò Harold, spiegandogli che sarebbe andata a fare una passeggiata e che sarebbe sicuramente rientrata presto, nonostante volesse restare più lontana da casa possibile ma questo dettaglio lo omise.
Camminò lungo la lunga stradina verso il cancello, calpestando i sassolini bianchi e tenendo le braccia conserte. La villa dei Bower era ben lontana dal centro e senza un mezzo, non sarebbe riuscita ad arrivare lontano, motivo per il quale chiamò un taxi che le si parò davanti circa un quarto d’ ora dopo. Salì in macchina e quando il tassista le chiese dove volesse andare, ebbe un attimo di esitazione.
Lontano, avrebbe voluto dire.

Alla fine optò per Trafalgar Square e si rilassò sul sedile dell’auto solo quando finalmente si mise in moto. I minuti del viaggio li passò in silenzio, con le cuffiette nelle orecchie che non riproducevano alcun suono poiché ella non sapeva che canzone scegliere. Era solita scegliere le canzoni in base al suo umore eppure in quel momento non riusciva a decifrare i suoi sentimenti. Era arrabbiata e al tempo stesso ferita per le parole di Jamie che – sebbene tentasse di scacciare dalla mente – continuavano a rimbombarle nelle orecchie, ricordandole che sarebbe stato impossibile evitarlo a lungo perché erano costretti a condividere lo stesso tetto. Avrebbe voluto urlargli contro ma da un lato sapeva che non sarebbe servito, sapeva che Jamie era così e per qualche motivo provava quasi piacere nell’ infliggerle dolore.
Quando il taxi si fermò a Trafalgar Square, Julie pagò il tassista e scese dall’ auto, camminando verso la grande fontana davanti alla quale turisti si scattavano delle foto. 
Si diresse poi verso la scalinata che portava verso il National Gallery Museum e si sedette su uno degli scalini, tirò fuori il cellulare dalla tasca e selezionò la canzone Le onde di Einaudi che l’aiutarono a rilassarsi. Era sempre stata attratta dal pianoforte, persino il nome era tutta una storia.
Ricollegò il pianoforte a Jamie, al modo in cui aveva suonato quel giorno, all’ Opera Pia. Serrò la mascella al pensiero.
 

Chiuse gli occhi mentre il sole londinese che non riscaldava le si proiettava sulla pelle e tentò di non pensare ad altro se non alla musica. S’ inumidì poi le labbra e quando riaprì gli occhi, vide un ragazzo davanti a lei che scrutava il display del suo cellulare, aggrottando la fronte per via del sole.
Julie si sfilò una cuffia. «Ti serve qualcosa?», domandò facendo sì che il ragazzo spostasse lo sguardo dal cellulare a lei.
«Oh, no stavo solo tentando di capire cosa stessi ascoltando», ammise il ragazzo, passandosi una mano sulla nuca. «Einaudi, un po’ triste, no?».
La ragazza aggrottò le sopracciglia, sorpresa dalla domanda del ragazzo. Aveva i capelli scuri e gli occhi verdi, di un verde intenso e un sorriso tanto bello da nascondere l’imbarazzo.
«Un po’», fu l’unica risposta di Julie.
Il ragazzo si sedette accanto a lei e piegò le gambe sullo scalino sottostante, poggiando gli avambracci sulle ginocchia. Puntò lo sguardo su Julie e intrecciò le sue mani tra le gambe. «Non sei di molte parole», constatò lui con l’ombra di un sorriso sulle labbra. «Io sono Chris, comunque».
«Io sono Julie, piacere di conoscerti».
«Non credo di averti vista nei paraggi, sei di qui?», domandò lui e Julie si sfilò anche l’altra cuffia dalle orecchie per prestare attenzione al ragazzo.
«Sì, solo che mi sono trasferita e non sono venuta qui spesso», ammise lei e Chris parve accorgersi dell’ impercettibile smorfia ch’ella fece.
«Non sembri entusiasta della cosa», constatò Chris.
Julie sbuffò un sorriso e sollevò le spalle. «Diciamo che è un po’ complic-», s’ interruppe nel sentire il cellulare squillare e abbassò lo sguardo sullo stesso, dopo essersi scusata con il ragazzo. Guardò il display del cellulare e corrugò la fronte nel non riconoscere il numero. Accettò la chiamata e portò il telefono all’ orecchio.

«Pron-», fece lei ma fu subito interrotta da una voce.
«Dove sei?», sbottò Jamie dall’altro capo del telefono. Julie schiuse le labbra e le richiuse poco dopo.
«Come hai avuto il mio numero?».
«L’ho chiesto a tua madre».
Dopo che l’aveva insultata senza mezze misure aveva il coraggio di chiamarla?
«Non hai ancora risposto», ribattè Jamie prim’ancora che Julie potesse formulare una frase.
«A cosa?».
«Dove sei?», ripeté Jamie con un sospiro, palesemente irritato.
«Non è affar tuo», disse lei secca.
Sentì Jamie dall’altro capo del telefono sbuffare e Julie lo immaginò serrare la mascella, con gli occhi che parevano farsi più scuri dalla rabbia.
«Lo è da quando i nostri genitori hanno deciso di sposarsi, quindi te lo ripeto, dove sei?».
Julie schiuse le labbra e richiuse le labbra più volte prima di decidersi a parlare. «A Trafalgar Square», rispose vinta in un sospiro.
«Non muoverti da lì», disse Jamie prima di riattaccare.
Chris era rimasto a guardare e ad ascoltare la chiamata, corrugando la fronte di tanto in tanto. «Chiamata indesiderata?», domandò.
Julie annuì. «Era il mio quasi-fratellastro», spiegò. «Tra poco sarà qui».
«È un tipo geloso?», domandò Chris.
«Non saprei, non lo conosco bene».
«Lo sentivo sbraitare da qui», disse Chris accennando una risata per tentare di allentare la tensione creatasi.
Riuscì a strappare un sorriso a Julie che a sua volta riuscì a sviare la conversazione per evitare di parlare di Jamie o di qualsiasi altra cosa che poteva ricollegarsi a lui.
Chris si rivelò un ragazzo simpatico oltre che bello e intelligente. Aveva 19 anni, studiava economia all’ università ed era al primo anno. Era per di più una piacevole compagnia, tanto da far dimenticare a Julie l’esistenza di quel ragazzo dai capelli biondi che poco dopo le si parò davanti.

Trovò Julie mentre rideva con quel ragazzo a lui sconosciuto e raggiunse gli scalini a grandi falcate e quando la ragazza si accorse della sua presenza, non disse niente. «Andiamo», ordinò semplicemente Jamie con voce autoritaria.
Lei dal canto suo avrebbe voluto opporsi ma non voleva fare una scenata davanti al ragazzo appena conosciuto e alle altre persone che passeggiavano accanto a loro indisturbate. Si voltò verso Chris e gli rivolse il sorriso più convincente che era capace di creare, sporgendosi a lasciargli un leggero bacio sulla guancia. «Mi ha fatto piacere conoscerti».
«Anche a me, spero di rivederti», disse Chris ricambiando il suo sorriso mentre entrambi si alzavano dagli scalini.
 Jamie roteò gli occhi al cielo e afferrò il braccio di Julie. «Sì, certo», borbottò tirando Julie giù per le scale con sé e stringendo la presa sul suo braccio fino a farle male.
Una volta percorsa la scalinata, Julie si dimenò mordendosi le labbra. «Mi fai male, lasciami», disse secca ma decisa. Jamie parve non sentirla e continuò a camminare a passo svelto, trascinando Julie con sé tanto che dovette accelerare il passo per stargli dietro. Si fermò solo quando arrivarono alla Harley Davidson di Jamie e lasciò la presa sul braccio di Julie sul quale la ragazza passò la mano più volte. Riusciva quasi a sentire ancora la sua presa, nonostante non ci fosse più.
 
Jamie le porse il casco senza degnarla di uno sguardo e indossò poi il suo montando sulla moto. «Sali», le ordinò poi dopo che l’aveva vista indossare il casco dallo specchietto della moto.
«Con che coraggio riesci a parlarmi così dopo quello che hai fatto ieri sera?», sbottò lei.
«Di questo parleremo dopo, ora sali», ripeté Jamie guardandola dallo specchietto.
Julie salì in moto con riluttanza e poggiò le mani sulle proprie cosce senza sfiorare minimamente il corpo di Jamie che a sua volta, sì curò bene dal non chiederle di aggrapparsi a lui.

Jamie guidò guardando la strada, tanto concentrato sulla stessa che gli si creò una piccola ruga tra le sopracciglia. Julie – che affondava le unghie nelle proprie cosce ogni volta che Jamie prendeva una curva – si guardava intorno e non riusciva a riconoscere la strada ch’egli stava seguendo per tornare a casa.
Pensò fosse una scorciatoia, ma quando Jamie posteggiò davanti ad un grande palazzo, capì che non era così. Scese dalla moto e si sfilò il casco, rovinando la treccia laterale dalla quale uscivano piccole ciocche adesso.
«Dove siamo?», domandò lei.
«A casa mia», rispose Jamie mentre si sfilava il casco e con un cenno indicò a Julie che doveva seguirlo. Camminò a grandi falcate verso il portone del palazzo accanto al quale vi era un portiere che salutò Jamie con un “Signor Bower” nonostante lui non rispose. Julie gli rivolse un sorriso gentile a labbra chiuse e Jamie nel frattempo raggiunse l’ascensore e vi entrò  seguito dalla ragazza che quasi aveva il fiatone per riuscire a stare al passo con lui.
 
Jamie selezionò il pulsante dell’ ultimo piano e attese che arrivassero, fissando la parete opposta come Julie.
Nessuno dei due fiatava.
Quando l’ascensore tintinnò per annunciare che erano arrivati, Jamie si diresse a grandi falcate verso l’ unica porta del piano che apparteneva alla sua casa e Julie pensò che dovesse essere parecchio grande per questo.
Quando entrò in casa, schiuse le labbra trovandosi davanti ad una grande sala dove padroneggiava un pianoforte nero, nella cui superficie lucida si rifletteva il lampadario in cristallo. Il pavimento era in marmo nero e nella stessa stanza, separata da uno scalino vi era un grande tavolo da pranzo che poteva ospitare sei persone e pensare che lì viveva solo Jamie, secondo Julie era uno spreco. Più vicini al pianoforte, si trovavano dei divani e un tavolinetto. Il tutto era incorniciato da grandi vetrate che concedevano una vista della città mozzafiato.
Jamie gettò le chiavi della moto e di casa sul ripiano in marmo sopra il caminetto spento e si voltò verso Julie che era rimasta a guardarsi intorno. «Perché stai da tuo padre se hai questa casa?», domandò lei poggiando il casco per terra.
«Sto da lui solo perché me l’ha chiesto, per recitare la parte della famiglia unita mentre ci siete voi», sputò con la punta di veleno che spuntava ogni volta che parlava del padre.

Padre.
Le parole di Jamie tornarono a rimbombare nella mente di Julie che s’irrigidì.
«Dovresti farmi delle scuse».
Jamie sollevò un sopracciglio e si diresse verso la cucina a isola. Aprì il frigo sotto gli occhi di Julie che si avvicinò lentamente. «Dovresti vedere le mie parole come critiche costruttive», disse indifferente mentre tirò fuori dal frigo una bottiglia di birra che stappò e portò successivamente alle labbra.
«Critiche costruttive? Sul serio?», disse Julie incredula, riducendo gli occhi in fessure per l’espressione che aveva assunto. «Evita di scherzare, è già tanto se
sono qui».
Jamie si accarezzò il labbro inferiore con la punta della lingua. «Ho problemi nel chiedere scusa alla gente», disse come a giustificarsi.
«Però quando si tratta di sputare veleno non ti fai tanti scrupoli».
Jamie sbuffò poggiando la bottiglia sull’ isola e vi si appoggiò con le mani mentre Julie incrociava le braccia al petto, in segno di distacco.
«Spero tanto che i nostri genitori non si sposeranno», disse solamente. Julie aggrottò le sopracciglia e lui aggiunse: «Sei un tantino insopportabile».
Julie sbuffò un sorriso amaro e si girò, dirigendosi verso la porta. «Questo è troppo», mormorò tra sé ma Jamie la sentì. La raggiunse velocemente e la strattonò indietro dal braccio, lo stesso che portava ancora i segni della sua presa a Trafalgar Square.

«Scusa, scusa», disse prima che Julie potesse sbraitargli contro di lasciarla andare. «Che sei un tantino insopportabile lo penso davvero, quindi non mi scuso per questo. Ti chiedo scusa per ieri. Non rifletto su quello che dico».
«Dovresti iniziare a farlo invece», rispose Julie dopo un attimo di silenzio. Portò la mano sulla sua che era intenta a stringerle il braccio e la tirò via, facendo poi un passo indietro.
Avrebbe voluto urlargli contro tutta la sua rabbia e il disprezzo che adesso provava per lui eppure davanti a lui, in quel momento, si sentì quasi intimidita.
Di una cosa però era certa: le scuse di Jamie non avrebbero cambiato nulla. Si era tolta un piccolo sfizio, questo sì ma niente di più.
Julie si passò una mano sul collo e guardò fuori dalle vetrate per un attimo prima di tornare su di lui. «Dovresti accompagnarmi a casa, Mary sarà
preoccupata».
«L’ ho avvertita io, prima di venire a prenderti. Pensavo volessi compagnia invece di stare in quella casa sola», disse con finta innocenza.
«Preferisco la solitudine alla tua compagnia».
Jamie sollevò un sopracciglio, infastidito e divertito al tempo stesso della sua risposta. «A proposito di compagnia», disse pronto a cambiare discorso. «Chi era quello?».
«Di chi parli?», domandò Julie indietreggiando fino a poggiarsi alla spalliera del divano da dietro e poggia le mani sui bordi della stessa.
«Lo sai di chi parlo, di quel belloccio da quattro soldi con cui parlavi sulla scalinata».
«Non è un belloccio da quattro soldi. Si chiama Chris, l’ho conosciuto proprio stamattina».

«Fammi ben capire, tu passi del tempo con uno che conosci appena, promettendogli anche un secondo incontro?», disse come se stesse raccontando
un’assurdità.
«Teoricamente anche tu sei uno sconosciuto per me», disse lei con tutta la tranquillità che era in grado di dimostrare.
«Io non sono affatto uno sconosciuto», sbottò lui mantenendo un tono di voce normale.
«Hai ragione, tu sei quello che insulta mia madre, me, che legge le mie cose private e si prende gioco di ogni dolore altrui», disse lei con tutto il veleno che aveva in corpo e che pian piano riaffiorava con la rabbia.
Jamie parve essere preso alla sprovvista ma rispose ugualmente con un tono duro. «Ti ho chiesto scusa».
«Ma cosa pensi che cambino le scuse? Niente, non cambiano niente».


Le labbra di Jamie si schiusero per rispondere ma preferì tacere. Julie, scuotendo il capo, si spostò dal divano. «Come non detto», mormorò mentre tornava di nuovo verso la porta principale e stavolta Jamie non si azzardò a seguirla.
«Dove stai andando?», si limitò a chiedere mentre guardava la sua schiena e la sua treccia disordinata allontanarsi.
«Lontana da te», disse sbattendosi la porta alle spalle.

Jamie sussultò ma non fece altro.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


 

Jamie.

 

Erano passati due giorni dall’ ultima volta che io e Julie ci eravamo scontrati, due giorni che io avevo passato nel mio appartamento, lontano da casa mia dove sapevo che per forza di cose, prima o poi l’avrei incontrata. Me ne stavo seduto sul divano, con una sigaretta tra le labbra e Blaire appoggiata contro il mio petto. Non le prestavo attenzione, fissavo il vuoto perso tra i miei pensieri.
A volte mi odiavo per come mi comportavo, a volte avrei preferito essere diverso, anche solo indifferente ma la verità era che Julie era diventata la mia arma per colpire il mio vero bersaglio: mio padre. Non potevo sopportare l’idea che lui stesse tentando di ricostruirsi una vita, non riuscivo a sopportare l’idea che lui fosse ancora in vita, che avesse passato gli ultimi anni passando da una donna ad un’altra, permettendo a queste donne di dormire nello stesso posto che per anni era stato occupato dall’unica donna che meritasse di essere considerata tale.

Mia madre.

Esattamente come non riuscivo a non incolpare lui per la sua morte. L’aveva lasciata, abbandonata a sé stessa, umiliata, ferita. Le aveva permesso di perdersi in qualcosa di gran lunga più grande di lei e io no, non lo avrei mai perdonato. Come avrei potuto fare, d’altra parte?
Mia madre, la donna più buona e bella del mondo, si era rovinata perché caduta in delle mani che non erano riuscite a sorreggerla, mani che mai l’avevano protetta. Era colpa sua, io lo sapevo. Era colpa sua se mia madre era caduta in depressione, era colpa sua se mia madre aveva preferito togliersi la vita piuttosto che continuare la sua esistenza in quel modo. Era colpa sua, sua e di nessun altro.
Io ero solo un ragazzino, cosa avrei potuto fare per aiutarla? E poi, fino a che punto io avrei potuto fare qualcosa?
Era compito suo prendersi cura di lei, amarla e rispettarla. E invece cosa era stato in grado di fare? Niente. Si era limitato a guardarla, impassibile, del tutto indifferente mentre precipitava lentamente in un buco nero dal quale mai sarebbe stato possibile tirarla fuori.
Aveva iniziato a tradirla, la sera non tornava se non alle prime luci del mattino, con il colletto sporco del rossetto di un’altra donna perché ovviamente era più facile scappare dai problemi e rifugiarsi nel letto della prima sventurata che gli passava davanti.
Come potevo credere in quella specie di nuova famiglia che voleva costruire con Ashley e Julie? Proprio lui, l’uomo che mi aveva privato della mia famiglia.
No, non potevo accettarlo, non lo avrei permesso. Meritava di soffrire tanto quanto avevo sofferto io, se non di più e se l’unico modo per farlo era prendermela con Julie allora così avrei fatto.

Dentro di me però qualcosa era cambiato, iniziavo a sentire il senso di colpa crescere in fondo al mio petto da quando avevo letto come Julie aveva vissuto la morte di suo padre. Mi ero rivisto in quello che scriveva e non lo avevo affatto considerato banale o da bambina, come le avevo detto. Era stata in grado di raccontare un dolore così tanto profondo in maniera semplice, spontanea e diretta. Mi aveva profondamente colpito, ma in quel momento la parte di me che mi sussurrava di usare quel lato debole che avevo scoperto contro di lei ebbe la meglio.
Solo in quel momento iniziavo a rendermi conto di quanto quello fosse stato un colpo basso, colpire nel punto che fa più male di tutti, infilare un ago in una ferita già aperta e non una ferita qualunque ma una di quelle che non si rimarginano, neanche col tempo.
E io lo sapevo bene.
Quello che non sapevo affatto era come comportarmi dopo gli ultimi avvenimenti, mi rendevo conto di averla davvero fatta grossa e sapevo che qualsiasi tentativo di rimediare sarebbe stato se non vano, di sicuro insufficiente.

Spostai il braccio e mi scrollai di dosso Blaire che stava quasi per addormentarsi e protestò a bassa voce. Mi guardò confusa mentre mi alzavo dal divano, mi sistemai i pantaloni e le dissi: «Dovresti andare».
«Perché?», bofonchiò. Ogni tanto mi chiedevo perché continuassi a frequentarla, sapevo che era una passatempo ma negli ultimi tempi stava diventando abbastanza noiosa tutta quella situazione.
«Perché adesso vado a casa di mio padre. Ti chiamo un taxi».
«E perché non posso venire con te?», mi chiese mentre stavo già componendo il numero del taxi.
«Non è il caso».
«Cos’è, hai paura che la ragazzina ci veda?», sputò avvelenata.
Roteai gli occhi al cielo non dandole troppa importanza, Blaire non era mai stata particolarmente sveglia e non aveva neanche la capacità di capire quando la sua presenza era tutt’altro che gradita. Iniziava a stancarmi, non ero in grado di passare troppo tempo con lei senza essere assalito da un’irrefrenabile voglia di scappare via per mettere in salvo i miei neuroni. Non risposi alla sua ultima frase e indossai il giubbotto in pelle dirigendomi verso la porta. La aprii e la guardai aspettando che varcasse la soglia.
Sbuffò e uscimmo di casa insieme. «Quando passi a prendermi?», mi chiese prima di aprire la porta del taxi.
«Non lo so, vedremo». Mi stampò un bacio sulle labbra e sparì dentro al taxi. Col dorso della mano ripulii i residui del rossetto rosso che metteva sempre e andai verso la moto.
 
Julie.
Avevo passato gli ultimi giorni cercando di ammazzare il tempo, leggendo un po’ e disegnando tanto. È proprio vero che quando si è feriti si riesce a far uscire la propria vena creativa, forse per il semplice fatto che quando sei felice o sereno non hai neanche il tempo di pensare ad altro se non alla tua felicità. In quel periodo però io ero tutto fuorchè serena e il mio povero quadernetto era diventata la mia unica valvola di sfogo.
Abbozzavo disegni che perlopiù finivano per essere scarabocchiati, passando con le dita sui fogli riuscivo a sentire i solchi che avevo creato quando usavo le matite come fossero pugnali. Un giorno, sovrappensiero, mi ritrovai a disegnare un paio d’occhi che però mi ricordavano troppo il ghiaccio dentro quelli di Jamie. Inutile dire che tempo venti secondi ed erano già stati ricoperti da scarabocchi a volte tanto forti da bucare le pagine.
Che diavolo gli avevo fatto di male? Perché doveva per forza essere così velenoso con me? Ero comunque una sconosciuta, o quasi.
Perché non era in grado di accettare quel matrimonio imminente che avrebbe reso felice suo padre? Insomma, era suo padre! Il motivo per cui non ero ancora scappata a gambe levate da quella casa era proprio vedere mia madre serena e felice e sia chiaro, non era stato facilissimo per me accettare una figura maschile accanto a mia madre che non fosse mio padre.
In quei momenti sentivo la sua mancanza come amplificata, non riuscivo quasi a sopportarla. Mio padre era uno degli uomini, se non l’uomo più buono e altruista dell’intero pianeta. Un angelo che il cielo ti manda una sola volta nella vita e che non troverai da nessun’altra parte, ecco cos’era mio padre. Un uomo che nella sua vita aveva dovuto sopportare le peggiori sofferenze e che da queste era riuscito a trarne solo cose positive, cosa tutt’altro che semplice.
Jamie non era decisamente riuscito a fare la stessa cosa. Sicuramente dietro i suoi modi di fare si nascondeva tanta sofferenza, ma non per questo i suoi atteggiamenti erano giustificabili, men che meno nel momento in cui andava a toccare il dolore di un’altra persona.
Sospirai mentre mi fasciavo la testa con tutti quei pensieri e mi alzai dal divanetto in libreria, diretta verso il giardino.
Mi rifugiai sotto il gazebo situato in giardino e presi posto in una delle sedie attorno al tavolo. Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto e la presi tra le labbra. In quel momento lo vidi arrivare, sfrecciando per il vialetto con la sua moto e con le ciocche biondissime e ondulate che spuntavano dal casco.
Lasciò la moto alla fine del vialetto e quando mi vide mi venne incontro.
«Ciao», si limitò a dirmi un attimo prima di sfilarmi la sigaretta dalle labbra e prenderla tra le sue. La accese con un accendino che prese dalla tasca del suo giubbotto e piantò gli occhi nei miei.
«Molto simpatico», dissi riferendomi al suo gesto e prendendo un’altra sigaretta che stavolta mi affrettai ad accendere. «Come mai da queste parti?».
Sorrise come divertito. «Beh è casa mia, ricordi?».
Prese posto sul tavolinetto davanti al divano sul quale ero seduta e continuò a guardarmi. Non riuscivo davvero a decifrare i suoi occhi, troppo glaciali per permettermi di entrare. «Ti sono mancato?».
Feci una smorfia. «Se sei venuto qua per fare questi giochetti puoi anche andartene, non ho voglia di combattere con una delle tue tante personalità al momento».
«In realtà sono venuto per concludere quel discorso che abbiamo lasciato in sospeso qualche giorno fa, a casa mia».
«A me è sembrato che l’avessimo chiuso».
«Per me no», disse con fare autoritario. Serrò per un momento la mascella come se facesse fatica a parlare. «Mi sono reso conto di aver sbagliato, quando ti ho parlato in quei termini di ciò che scrivevi di tuo padre, in fondo non lo pensavo davvero e per questo ti chiedo scusa», marcò quell’ultima parola come se davvero pronunciarla gli costasse una parte del suo orgoglio. Mi sembrò sincero ma le sue scuse dopotutto non significavano che avrebbe smesso di tormentarmi. «Io non riesco a esserti amico».
«Non devi essermi amico, basterebbe che mi trattassi con un minimo di rispetto».
Scosse il capo tra sé. «Ma non mi riesce neanche quello. In tutta onestà tutta questa faccenda del matrimonio non mi entusiasma particolarmente», ammise.
«Questo lo avevo notato… solo che non capisco perché, ci conosci appena».
«Sì, è vero vi conosco appena ma lui no, lui lo conosco bene», notai che non riuscisse a chiamarlo “papà” e la cosa mi fece abbastanza strano.
Seguirono istanti di silenzio in cui io lo osservavo e lui era intento a guardare un punto qualsiasi alla sua sinistra, i muscoli del collo contratti e una vena in rilievo che pulsava.
«Non andate molto d’accordo, vero?».
Si lasciò andare ad una risata amara. «No, direi proprio di no ma francamente non è un argomento che amo affrontare».
Feci un passo indietro perché mi resi conto che era forse una delle pochissime volte che stavamo riuscendo ad avere un confronto civile senza risposte velenose o battutine.
Aspirai del fumo dalla sigaretta e lo buttai fuori un momento prima di parlare. «Okay, allora non lo affronteremo. Per quanto mi riguarda non pretendo di esserti amica, né di piacerti o robe del genere, vorrei solo vivere il pace questi giorni senza il terrore perenne di vederti arrivare con una delle tue battute infelici e di basso livello. Non ti chiedo tanto, puoi anche ignorarmi, lo preferirei a certe esternazioni».
Si girò a guardarmi mentre parlavo e fece un cenno col capo. «Non posso prometterti niente, anche perché non è che tu abbia un carattere tanto facile da permettermi chissà quanta pazienza, ma si può provare».
«Quindi è una tregua?».
«Non so se definirla proprio tregua, la mia idea sul matrimonio rimane la stessa. Magari cercherò di essere meno…».
«Stronzo», sentenziai io dato che sembrava non trovare il termine adatto. Accennò una risata e annuì, notai una scintilla diversa nei suoi occhi, sembrava genuina.
«Forse è il termine più appropriato, sì».
 
E strano ma vero, in seguito quella sorta di tregua ci fu davvero. Io e Jamie non riuscivamo  a vederci spesso avendo orari ed abitudini parallele, ma quelle poche volte che riuscivamo ad incrociarci notavo sempre quanto lui sembrasse, anche se in minima parte, diverso. Certo, le sue battutine c’erano ancora, non perdeva occasione per ricordarmi quanto io fossi piccola rispetto a lui, mi prendeva di tanto in tanto in giro per i miei disegni e per i miei modi di essere un po’ svampita ma si teneva ben lontano dall’essere cattivo, maligno e aveva smesso di entrare nel merito di questioni personali che proprio non gli competevano.
Che fosse veramente la svolta?
Quella mattina, mentre ero intenta a sorseggiare il mio cappuccino squillò il telefono. «Pronto?».
«Julie, ciao! Sono Chris, ti ricordi?».
Ma chi è Chris?
Solo qualche istante dopo mi ricordai di lui, di quella volta che ci eravamo incontrati sulle scalinate del National Gallery. Mi ero del tutto dimenticata di avergli lasciato il mio numero. «Chris, come no, ciao».
«Ehm, senti volevo chiederti… stasera mia cugina da una festa a casa sua e mi ha detto che potevo invitare qualcuno se volevo, ti va di venire?».
In tutta onestà, non ero mai stata un tipo da feste ma non avendo alternative, decisi di accettare. Concordammo un orario in cui venirmi a prendere e un attimo dopo aver riagganciato me ne pentii. Le feste nella maggior parte dei casi mi imbarazzavano, non ballavo mai – tranne in situazioni alquanto alcoliche – perché somigliavo più o meno ad un palo della luce intento ad oscillare. Non ero proprio capace e pensai che magari Chris mi avrebbe trovata noiosa per questo.
Sbuffai e in quel momento Jamie arrivò in cucina con i capelli scompigliati e indosso solo un paio di pantaloncini da basket. «Cos’è quella faccia?», mi chiese.
«Chris mi ha invitata ad una festa stasera».
«Il tipo con cui parlavi sulle scalinate? E hai accettato?», chiese con le sopracciglia sollevate come se fosse la cosa più assurda del mondo.
«E quindi?».
«Ti facevo un pelino più intelligente, sorellina. Non lo sai che in teoria bisognerebbe stare alla larga dagli sconosciuti?», avvertivo un pelo di acidità nella sua voce.
«Molto premuroso da parte tua, davvero. Apprezzo il tuo essere così protettivo, fratellino ma so badare a me stessa, non preoccuparti», lo stavo palesemente prendendo in giro, il tono era chiaro.
«Lo spero per te».
«Potresti sempre venire a controllarmi, sai con un binocolo ed un impermeabile scuro».
«Credimi, se non fosse che sono un ragazzo molto impegnato e richiesto, sarei già lì ma ahimè stasera ho altro da fare», disse con tono malizioso mentre si sedeva sul posto di fronte al mio.
«E con questo parli di quella bella moretta dell’altra sera…come si chiamava? Becca, Barbara, Belinda…», finsi di non ricordare il nome di quella ragazza mettendomi una mano sotto al mento con fare teatrale.
«Blaire», rispose lui. «Non fare così, potrei quasi pensare che tu sia gelosa».
«Oh sì, muoio dalla gelosia!», arrossii appena e pensai fosse il momento di andare, anche perché lui notò le mie guance incandescenti e rise tra sé e sé, nascondendosi dietro la tazza di caffè.
 
*
 
La scelta dell’abito fu meno impegnativa del previsto, d’altra parte quando non hai poi tanti vestiti tra cui scegliere deve per forza essere così. Così optai per un tubino nero in velluto, lungo fino al ginocchio e con uno scollo a V alquanto profondo sul seno. Ai piedi un paio di tacchi neri e un filo di trucco sul volto.
Scesi al piano inferiore con il telefono in mano, Chris mi aveva appena inviato un messaggio dicendomi di uscire perché era arrivato e non notai neanche Jamie, bello come il sole, accanto alla porta di ingresso. Era elegante, non lo avevo mai visto vestito così. Indossava una camicia nera aderente e con i bottoncini aperti sul petto, un paio di pantaloni neri e i suoi soliti stivaletti. I capelli perennemente scompigliati e uno sguardo strano.
«Però», mormorò guardandomi dalla testa ai piedi. Arrossii di nuovo, ancor di più di quella mattina.
«Vado bene?», chiesi timidamente, a bassa voce come se mi vergognassi di chiederlo.
«Stai molto più che bene».
Non riuscii a nascondere un sorriso. «Mi stai davvero facendo un complimento? Hai per caso sbattuto la testa?».
«Non farci l’abitudine», quello lì non poteva essere lo stesso che fino a pochi giorni prima mi diceva di tutto.
Mi fermai a guardarlo anch’io per qualche istante e poi mi ricordai che Chris mi aspettava fuori dalla porta. «Dovrei andare».
«Aspetta ahm, ho una cosa per te».
Mi diede un piccolo spray e non capii cosa fosse finche non lessi “spray al peperoncino”. Sollevai le sopracciglia e lo guardai ancora, tra il divertito e l’allibito. «Fai sul serio?».
«Non vedo come altro potresti difenderti, piccolina come sei», disse come se fosse ovvio.
In ogni caso, non riuscii a non vederci qualcosa di premuroso in quel gesto quindi mi limitai ringraziarlo. «Stai attenta», fu l’ultima cosa che mi disse prima che uscissi di casa.

Appena entrai in macchina, Chris mi riempì di complimenti che mi affrettai a ricambiare, stava davvero bene quella sera. Quando fece retromarcia per il vialetto non riuscii a fare a meno di notare due occhi azzurrissimi che ci spiavano da una delle grandi finestre, era come un déja-vu, come quella sera che lo guardavo andar via con Blaire da camera mia.
Appena arrivati alla festa non riuscii a fare a meno di notare quanta gente ci fosse in quella villetta, era davvero pienissima. Fummo costretti a sgomitare tra la gente per riuscire ad arrivare al bancone dentro casa, la musica alta poi non rendeva semplicissimo comunicare.
Riuscimmo a prendere due cocktail e chiesi – urlando – a Chris di andare un po’ fuori dato che dentro non si riusciva a respirare. Lui annuì e aggiunse: «Aspetta però, ti faccio conoscere mia cugina!».
Mi prese per mano e mi guidò verso il centro del salotto, dove una ragazza era intenta a ballare con almeno cinque ragazzi tutti intorno a lei, sembrava già abbastanza ubriaca. Non riuscii a riconoscerla subito, con quel suo rossetto rosso, gli abiti succinti a fasciare un corpo statuario.
«Blaire, ti presento Julie», urlò Chris all’orecchio della cugina.
Sì, Blaire esattamente quella Blaire.
Mi riconobbe probabilmente perché il suo sguardo cambiò quando mi vide. «Ma guarda, non solo vuoi rubarmi il fidanzato ma anche mio cugino!», urlò in preda all’alcol e io rimasi ferma a guardare la scena di lei che veniva sorretta da altri ragazzi perché troppo ubriaca per stare in piedi da sola.
«Ma di che parla?», chiese Chris. Mi limitai a scuotere il capo e gli dissi che non ne avevo idea e dopotutto era la verità.
Indietreggiai involontariamente per allontanarmi da quella situazione ma come previsto andai a sbattere contro qualcuno. «E tu che ci fai qui?», la voce di Jamie mi fece sussultare.

Oddio anche tu no, ti prego.

Mi sentivo in una specie di film horror, dove tutti i tuoi incubi saltano fuori uno ad uno. «Credimi, me lo chiedo anch’io», ammisi.
Chris seguì con gli occhi tutta la situazione e quasi scocciato dal fatto che io e il mio futuro fratellastro ci fossimo incontrati anche lì, mi prese per mano e mi portò fuori dalla casa. Fu un sollievo, sia perché non ero più vicina a Blaire che in tutta onestà mi metteva anche un po’ d’ansia in quelle condizioni e poi non ero neanche in mezzo a tutti quei corpi sudati.
Presi una boccata d’aria e mi accesi un attimo dopo una sigaretta. «Tuo fratello ha dei problemi seri se arriva addirittura a seguirti ovunque tu vada», sentenziò.
«In realtà lui e Blaire hanno una relazione, credo».
«Davvero? Oh, allora è lui il famoso ragazzo. Me ne ha parlato spesso».
«Siete molto uniti?», chiesi guardandomi intorno di tanto in tanto per controllare se arrivasse qualcuno.
«Siamo cresciuti insieme, negli ultimi anni ci siamo un po’ allontanati ma sì, credo sia normale crescendo».
Annuii e sorseggiai il mio drink e alla fine finimmo per cambiare discorso. Fortunatamente non rientrammo dentro e lui non sembrava neanche troppo dispiaciuto, forse il siparietto con la cugina non gli era piaciuto poi tanto, ovviamente.
La compagnia di Chris era piacevole, scoprii che studiava Scienze politiche ed era al primo anno di università, sognava di diventare qualcuno di importante per cambiare le cose, voleva essere ricordato. Mi chiese di me, delle mie passioni, di cosa mi piacesse fare e proprio quando iniziai a raccontargli della mia passione l’arte e per la scrittura, ecco che me lo rubarono via.
Incontrò un suo vecchio amico, anche lui non troppo lucido e Chris mi disse: «Dammi un secondo e sono da te, ti giuro, non muoverti».
Gli sorrisi e annuii. Dove altro sarei potuta andare poi?
Così rimasi seduta su quella panchina, da sola. Il giardino era ugualmente popolato come la casa ma quantomeno si respirava e non ero obbligata a stare incollata ad altra gente.
Dopo dieci minuti di Chris nessuna traccia, al suo posto arrivò un biondo di mia conoscenza ad occupare il posto libero accanto a me.
«Il tuo ragazzo ti ha scaricata?», chiese Jamie accendendosi una sigaretta.
«Non è il mio ragazzo, la tua piuttosto che fine ha fatto».
«Non è la mia ragazza», rispose imitando la mia frase.
Annuii e continuai a giocare con la cannuccia del mio drink ormai finito. Probabilmente la mia espressione doveva essere buffa perché Jamie scoppiò a ridere tutto ad un tratto. «Che hai da ridere?», chiesi con la fronte aggrottata come una bambina.
«Tu sei proprio un tipo da feste eh», disse ridendo ancora. Come dargli torto.
«Beh, neanche tu sei messo tanto meglio dato che sei qua con me».
«Touché», pochi istanti dopo aggiunse: «E se andassimo via?».
L’idea in realtà non mi dispiaceva affatto, ma sapevo di non poterlo fare. «Non posso, Chris ci rimarrebbe male se me ne andassi senza dirgli nulla».
«Stai parlando della stessa persona che ti ha lasciata qui da sola?».
«Touché».
Mi guardava con gli occhi divertiti e si morse il labbro inferiore, sorridendo. «Allora?», mi sventolò le chiavi della moto davanti agli occhi.
Fissai per qualche istante il portachiavi che oscillava davanti ai miei occhi, come se stesse tentando di ipnotizzarmi, così mi voltai
verso di lui e incontrai forse l’unica arma con cui avrebbe potuto ipnotizzarmi davvero: i suoi occhi.
Magnetici.
Non ci pensai troppo, risposi istintivamente.
«Andiamo».

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