Il viaggio del Picchio

di Crilu_98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capiolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Aia fissava le braci rossastre del fuoco che si andava spegnendo.
Non era un vero e proprio sacrificio – non c'era selvaggina sufficiente per sfamare la tribù, figuriamoci per offrire un lauto pasto agli dei.
Tuttavia Aia aveva bisogno di parlare con Mamerte, perché a differenza degli uomini era convinta che il dio non li avesse abbandonati. E Mamerte aveva risposto alla sua chiamata, sussurrandole parole terribili attraverso il crepitio di quella fiamma accesa sull'altare in mezzo ai boschi dove la sacerdotessa viveva in solitudine.
Volusus, il capo del villaggio, attendeva oltre i margini della radura: era un uomo buono, un guerriero coraggioso e un capo giusto – ma non credeva in Mamerte e Aia sapeva che questa sfiducia sarebbe stata punita a caro prezzo.
Versò purissima acqua di fonte sulle braci che si spensero con un ultimo sfrigolio, poi raccolse parte della cenere nera in una sacca di pelle di cervo, in modo da poterla usare nei suoi incantesimi di guarigione; il resto venne spazzato via, così che l'altare fosse pulito e pronto per il rituale successivo.
"Allora?"
La voce profonda di Volusus tradiva la sua preoccupazione ed insofferenza: in quei tempi di freddo e carestia l'uomo soffriva nel veder morire la sua gente e temeva per la sorte del suo popolo.
Non si era mai visto un inverno così rigido, in cui la neve cadeva tanto fitta da bloccare le porte delle capanne e gli animali selvatici morivano di stenti prima che gli uomini potessero trafiggerli con le loro frecce. Da quasi due lune i daini erano scomparsi dal territorio di caccia dei Sabini; da allora si erano cibati di bacche spinose che davano nausea e poco nutrimento e di carne di lepre secca e dura che i vecchi e i bambini non riuscivano neanche a masticare.
Artmis, dea della caccia, era rimasta sorda alle loro preghiere; Mamerte era un dio più crudele e pericoloso e spesso chiedeva di pagare i suoi favori con il sangue… Ma Volusus stesso sapeva di non avere altra scelta. Il suo viso, invecchiato anzitempo, si contraeva in una morsa di dolore al pensiero della giovane moglie in attesa del loro primo figlio, che stesa sul giaciglio di pelli attendeva la morte con gli occhi sbarrati, senza più forze. Come lei, altre sei donne si chiedevano se i loro figli avrebbero mai visto la luce del sole di primavera.
"Come faremo a combattere gli avidi popoli delle montagne, quando le nevi si scioglieranno, se i nostri piccoli avvizziscono nel ventre delle loro madri?" pensava Volusus.
Poi una seconda domanda, ancora più agghiacciante, seguiva la prima:
"Si scioglieranno mai, queste nevi?"
Aia mugugnò qualcosa nella lingua degli spiriti, dato che essi non avevano ancora abbandonato del tutto il suo corpo: l'anziana donna aveva le pupille dilatate e la bocca semi aperta. Le braccia erano scosse da un tremito incontrollabile e i tatuaggi scavati sulle sue guance spiccavano sul pallore malato della pelle. Volusus aveva la sgradevole impressione di star fissando qualcosa morto da tempo e la nausea (o forse la fame, la stanchezza, la paura) lo fecero vacillare.
Poi Aia parlò, con la sua caratteristica voce lenta e bisbigliante:
"Mamerte chiede un pegno… Un sacrificio, in cambio della salvezza della tribù."
Volusus lasciò andare il respiro che aveva trattenuto: temeva che anche il dio del tuono e della guerra voltasse loro le spalle.
"Tutti i sacrifici che vorrà, vecchia saggia. Offrirò la mia vita, lasciandomi sgozzare sull'altare, se necessario!"
La sacerdotessa scosse la testa con fare triste:
"Non la tua vita vuole Mamerte, nobile Volusus. Egli chiede la vita di coloro che nasceranno il giorno in cui il primo germoglio riporterà la primavera su questa terra e di tutte le creature che vedranno la luce per sessanta albe dopo di quella."
L'uomo sentì il sangue farglisi come di ghiaccio nelle vene: pensò al figlio non ancora nato e si chiese dove avrebbe trovato la forza di tagliargli la gola e vedere il suo corpicino bruciare; si chiese se sua moglie sarebbe sopravvissuta al dolore. Si chiese se lui, invece, sarebbe riuscito a superare il senso di colpa per la sua inettitudine.
Crollò in ginocchio, incurante della neve che gli bagnava i pantaloni di pelle e del vento freddo che gli sferzava la barba; le lacrime diventavano pungenti cristalli di ghiaccio sulle sue guance.
Aia gli poggiò una mano nodosa sul capo:
"Alzati, Volusus, Mamerte non vuole un massacro. Vuole un nuovo popolo, che guiderà lontano da noi e su cui veglierà benevolente."
"Un popolo?" ripeté Volusus, con il cuore in gola, iniziando a capire. "I nostri figli…"
"Non sono già più vostri!" replicò la donna con voce tremenda "Appartengono al dio, è il prezzo da pagare per sopravvivere. Vita per vita, carne per carne, goccia di sangue per goccia di sangue."
La mente del capo villaggio lavorava velocemente: contava i mesi che erano passati da quando il ventre di sua moglie aveva iniziato ad ingrossarsi e cercava una scappatoia per quel patto.
"Potrebbe anche darsi che…"
Alla fine si rialzò, sgrullandosi via la neve e il terriccio dalle vesti.
"Puoi dire al tuo dio che ha la mia parola. I nati della prossima primavera gli verranno tutti consacrati!"
 
Volusus fissava il sentiero sgombro di neve, ma il suo cuore non riusciva a gioirne.
La selvaggina era tornata nella loro terra, lentamente ma in maniera costante; il suo popolo si era salvato grazie alla benevolenza di Mamerte, che li aveva sfamati fino a quando la neve non aveva iniziato a sciogliersi, rivelando la terra scura e brulla che riposava sotto di essa.
Ogni giorno, quando usciva a cacciare, Volusus lanciava uno sguardo implorante al ventre della moglie, ora florida e in salute, pregandolo di schiudersi. Ormai la primavera era alle porte e il capo villaggio sapeva di non poter sottrarsi al sacrificio che aveva promesso: non solo perché non sarebbe stato giusto nei confronti di quei sei suoi compagni che come lui si erano rassegnati a perdere i figli, ma anche perché era da folli sfidare Mamerte.
All'improvviso, mentre procedeva lentamente verso il villaggio con un daino sulle spalle, lo vide: un piccolo bucaneve aveva fatto capolino proprio nel mezzo del sentiero, perciò era impossibile non notarlo. Volusus si chinò, come intontito, ad osservare quei piccoli petali bianchi che si schiudevano pigramente sotto i raggi del tiepido sole di fine inverno.
Neanche il pianto di donna che udì provenire dalla sua capanna riuscì a distrarlo dalla contemplazione di quella pianticella così fragile e precaria che gettava disgrazia e dolore sulla sua famiglia: come sarebbe stato facile estrarre il coltello di selce e sradicarla, calpestarla, farla a pezzi e lasciarla marcire su un lato della strada…
"E' da folli sfidare Mamerte" si ripeté.
Perciò si alzò e con passo pesante andò ad osservare il suo primogenito che veniva al mondo, con la consapevolezza che non sarebbe mai stato suo padre.
 
Il sangue scorreva a fiumi sull'altare del dio: capretti, leprottini e pulcini dal piumaggio candido venivano offerti in sacrificio uno dopo l'altro e il fumo che si levava dalle loro carcasse bruciate mandava un odore acre e pungente.
Sette donne, sette giovani madri, stringevano a sé i figli per l'ultima volta: la più giovane, una bambina dallo sguardo fin troppo serio, era venuta al mondo due giorni prima della scadenza dei sessanta giorni reclamati da Mamerte.
Volusus strappò dalle braccia della moglie il maschietto gracile e pallido nato il primo giorno di primavera: non sembrava destinato a diventare un grande guerriero, o il suo degno successore, ma Volusus lo amava ugualmente. Passò un dito reso ruvido dal continuo sfregamento con il legno dell'arco su quella pelle morbida e profumata; il piccolo lo fissò incuriosito con due iridi più verdi del fogliame primaverile, chiedendosi forse cosa fossero quelle piccole perle lucenti sul viso barbuto che gli stava di fronte.
Poi l'uomo lo tese ad Aia, vestita con il suo abito più ricco, ancora sporca del sangue dei sacrifici.
Sorda ai loro pianti terrorizzati, la donna praticò con il coltello di bronzo una piccola ferita verticale sulle loro fronti, il segno che li avrebbe divisi per sempre dal resto della tribù.
Poi li accolse nella sua capanna, dove li avrebbe nutriti e cresciuti fino a quando le tre bambine non avessero versato il loro primo sangue e il primo pelo sarebbe cresciuto sulle guance dei quattro maschi. Allora, e solo allora, Mamerte sarebbe ridisceso sulla terra per guidare il suo nuovo popolo.


Angolo Autrice: 
Aaah, quanto mi mancava questa sezione! 
Ebbene sì, sono tornata, non per riprendere la long storica che ho sospeso (prima o poi mi ci rimetto, giuro!) ma per inaugurare un nuovo progetto su un popolo italico che risale a prima della fondazione di Roma. 
La domanda era questa: perché quando si parla di antichità italiana si parla solo di Romani? E gli Etruschi? E i Sabini? E i Piceni, che poi sono il popolo della mia terra? 
Perciò ecco qui tre storie sui Pikentii, relativamente brevi (l'ultima è ancora in fase di stesura ma non credo avrà più di dieci capitoli) e scollegate tra loro, per rendere giustizia anche a chi non ha costruito fori ed imperi xD 
E niente, spero che vi piaccia questo piccolo assaggio di preistoria - siamo nel IX secolo a.C. e i "ver sacrum", le primavere sacre, si svolgevano più o meno come ho descritto in casi di grave carestia invernale. 
Enjoy! 

  Crilu 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Sattias osservava con timore crescenti le capanne farsi sempre più vicine.
Fin da quando aveva memoria gli era stato proibito avvicinarsi al villaggio e aveva sempre rispettato quella regola imposta dalla vecchia Aia; tuttavia lui e Manlios si erano spesso avvicinati in segreto alle capanne, osservando con timore e meraviglia la vita che gli era stata preclusa.
Avevano osservato le donne cantare mentre filavano la lana, gli uomini che si allenavano nel tiro con l'arco e con la lotta e i bambini – quelli nati dopo l'inverno maledetto e dopo quella triste primavera – che rincorrevano i cani per gioco.
Loro non avevano mai giocato insieme.
C'erano così tante cose da fare e da imparare che non ne avevano mai avuto il tempo: i maschi dovevano imparare ad usare le armi e a seguire le tracce nel bosco, dovevano conoscere i venti, le stelle, i fiumi; le bambine erano state istruite attorno al focolare nei segreti delle erbe, della cucina e di quel mistero da cui Sattias era affascinato, la creazione di una nuova vita.
L'unica eccezione era Hiccia, l'arciere migliore che il ragazzo avesse mai visto: lei non aveva mai mostrato interesse nelle arti femminili e mal sopportava di rimanere alla capanna. Quando era stata abbastanza grande per reggere in mano un arco si era tagliata i capelli ed aveva iniziato a seguirli nella caccia; nessuno si era opposto, neanche la sacerdotessa.
Aia li aveva cresciuti bene, al meglio delle sue possibilità, ma aveva sempre rimarcato che loro erano degli estranei lì: non aveva mai preso in considerazione l'idea di reintegrarli nella tribù, perché Mamerte, il terribile dio che disponeva delle loro vite, si sarebbe di certo infuriato.
A quindici anni, Sattias odiava Mamerte e non solo a causa della cicatrice che gli divideva a metà la fronte: era un ragazzino magro e svelto, ma debole in confronto a Manlios e ad Hostius. La sua vista era scarsa e questo gli impediva di essere un buon tiratore, come Pileius o Hiccia; tuttavia aveva imparato a notare più cose di loro e a rifletterci sopra.
Mamerte, invece, voleva un popolo forte e vigoroso e Sattias aveva più volte avvertito lo sguardo preoccupato di Aia fisso su di lui: la vecchia si chiedeva se sarebbe sopravvissuto al duro e pericoloso viaggio che li attendeva.
Se lo chiedevano tutti, in realtà.
Hostius lo sbeffeggiava quando vacillava sotto il peso di un daino, predicendogli una morte orribile tra le zanne di qualche belva; Pileius sbuffava quando finiva in coppia con lui, lamentandosi perché faceva tanto rumore da far scappare tutte le bestie; anche Manlios ed Etrilia, che Sattias considerava i suoi unici amici, a volte si lasciavano scappare un verso d'impazienza per la sua inettitudine.
Solo Hiccia e la bella Sabidia parevano non curarsi dei suoi difetti: la prima perché in realtà non si curava di nessuno e la seconda perché era innamorata di lui da quando erano bambini.
Il giovane si riscosse con uno scatto del capo, dato che il piccolo corteo era giunto nello spiazzo centrale del villaggio: avvertiva gli occhi di tutti fissi su di loro e la cicatrice sulla fronte prese a pizzicare in maniera insostenibile. Due giorni prima Aia aveva afferrato il mento di Pileius tra le dita ossute ed aveva lanciato un grido di trionfo: anche a lui era spuntata la barba, segno che era diventato un uomo e che i sette bambini sacri dovevano partire.
Trattenne a stento un singulto di sorpresa nell'incrociare uno sguardo identico a quello che scorgeva specchiandosi nella fonte: sua madre sedeva rigida e composta su uno scarno sgabello di legno e il vento faceva dondolare i pesanti monili che portava al collo e alle orecchie.
"E' bellissima!" pensò il ragazzo, estasiato. Hostius gli rifilò una gomitata che rischiò di farlo volare per terra:
"Che fai, mosca, piangi?"
Sattias non replicò: anni di zuffe e scaramucce gli avevano insegnato che contro un ragazzone ben piantato come Hostius il silenzio era l'arma più intelligente da usare. Nessuno dei suoi compagni sembrava provare il suo stesso attaccamento alla tribù e Sattias sapeva che era colpa sua: se avesse obbedito ad Aia e fosse rimasto all'interno dell'area sacra, non avrebbe mai incontrato l'uomo che ora stava andando incontro alla sacerdotessa.
Era ancora un bambino quando se lo era ritrovato sul suo stesso sentiero, ma l'aveva riconosciuto subito: il suo cuore gli aveva sussurrato la verità, quello era suo padre. Volusus l'aveva soppesato da capo a piedi, prima di fare un passo indietro e scomparire nel bosco senza una parola.
Da quel momento Sattias era stato colto da una mania irrefrenabile, un bruciante desiderio mai confessato che le cose fossero andate in modo diverso: voleva far parte di quel villaggio, voleva poter abbracciare sua madre e suo padre, voleva…
Un rullo di tamburi lo fece sobbalzare. Il cuore prese a corrergli nel petto ed il ragazzo osservò con ansia crescente i quattro rami fioriti che Aia stringeva tra le braccia, pronta per consegnarne uno a ciascuno di loro, nella speranza che Mamerte indicasse il suo favorito, il capo della piccola spedizione. Hostius afferrò il suo con un sorriso arrogante, piazzandosi al centro dello spiazzo per far sì che tutti potessero vedere il segno che il dio gli avrebbe inviato.
"Ti immagini passare tutta la vita ai suoi ordini? Che strazio!" borbottò Manlios con un sorriso divertito. Dopo Hostius era il più vigoroso del gruppo, ma era anche più cauto e legato già da tempo ad Etrilia, l'unica vera erede di Aia; c'erano buone probabilità che Mamerte scegliesse lui.
Sattias annuì, ma non riuscì a rispondere al sorriso: le labbra erano secche e serrate, non riusciva ad aprirle, non riusciva a formulare nessun pensiero coerente oltre il rumore assordante della paura che gli ruggiva nelle orecchie. Rischiò anche di far cadere il ramo coperto di fiori bianchi, perché le dita sembravano essere diventate di legno, rigide ed impossibili da manovrare.
L'ultimo rullo di tamburi si stemperò nel silenzio, rotto solo dai rumori leggeri del bosco: il villaggio attendeva muto. In quell'immobilità a Sattias parve che il suo cuore rimbombasse come un tuono, svelando a tutti il suo timore e la sua codardia.
"Chissà cosa pensa mio padre di me..." Si chiese, ma non ebbe il coraggio di cercare Volusus con gli occhi.
Aia strillò alzando gli occhi al cielo:
"E' là, là!" urlò, indicando una macchia verde che scendeva verso di loro con pigri cerchi concentrici. Era un picchio dal piumaggio lucente, uno degli animali sacri a Mamerte.
L'uccello compì larghi giri sopra la folla che lanciava grida ammirate, alzando le braccia per poterlo sfiorare; ma il picchio sdegnoso si innalzò di nuovo con un battito d'ali, puntando contro i quattro ragazzi. Per un attimo sembrò deciso a posarsi sul ramo di Hostius, che già gonfiava il petto d'orgoglio, ma lo superò in fretta, sfiorando con il becco i fiori del ramo di Manlios. Un altro colpo d'ala e l'uccello salì verso il sole: Sattias buttò fuori l'aria che aveva confinato nei polmoni, contento che fosse finita. Osservò con scarso interesse Volusus avvicinarsi al suo migliore amico con le braccia cariche di doni solenni.
"Aspettate!" tuonò Etrilia, frapponendosi tra Manlios e il capo villaggio. Era una ragazzina dal volto affilato come quello di un furetto, le sopracciglia folte e due occhi troppo grandi per il suo capo, spiritati e cerchiati di nero; non era affatto bella, ma era difficile toglierle gli occhi di dosso.
"Non è quello il segno!" spiegò, affannata. "No, no, aspettate…"
Sattias sapeva che di lì a poco sarebbe caduta in una delle sue crisi: si sarebbe gettata a terra urlando e dimenandosi, posseduta dagli spiriti che cercavano di trasmetterle il messaggio degli dei. Era uno spettacolo meraviglioso e ripugnante insieme, che gli lasciava addosso un profondo senso di inquietudine, perciò cercava sempre di defilarsi quando Etrilia dava segni di squilibrio; però in quel momento era circondato dalla gente che lo aveva offerto in sacrificio a Mamerte e non c'era alcun posto dove nascondersi.
"Mi sento soffocare!" pensò, spaventato. Poi, con un trillo di felicità, il picchio ripiombò sulla scena, affondando gli artigli nel ramo che ancora teneva teso davanti a sé.
L'uccello lo fissò con i lucenti occhi scuri e il ragazzo sentì uno strano senso di familiarità ed affetto sgorgargli dal petto: come se il picchio che scrollava le ali con fare soddisfatto davanti ai suoi occhi fosse un vecchio amico, perduto da tempo immemorabile.
Etrilia sarebbe caduta se Manlios, gettato il ramo da un lato, non si fosse affrettato a prenderla per le spalle e sorreggerla; la ragazza rovesciò gli occhi all'indietro e parlò con voce non sua:
"Seguite il picchio. Volerà verso nord, volerà verso il freddo, la fame, le montagne e nemici senza nome, ancora più spaventosi… A nord, a nord, oltre la neve e la roccia!"
Poi tutto finì velocemente come era iniziato: il sole tornò a scaldare la scena e il tempo parve riprendere a scorrere normalmente. Il picchio era scomparso.
Hostius lanciò lontano il ramo con un grido furioso, rivolgendosi ad Aia e Volusus:
"Sattias è un incapace! E' debole, è inadatto alla caccia e alla guerra, sa solo correre per rintanarsi in qualche buco come un coniglio e preparare trappole che quasi sempre rimangono vuote! Come potrà guidarci?"
"E' vero!" intervenne Pileius, in maniera più pacata. "Tanto più che ci aspettano numerosi pericoli là fuori… Avete sentito Etrilia. Avremo bisogno di un capo vero, un uomo in grado di tenerci al sicuro e di guidarci sani e salvi verso la nostra nuova terra!"
"Smettetela!" sbottò Sabidia, scuotendo i lunghi capelli neri e puntando i pugni sui fianchi "Siete soltanto gelosi perché Mamerte non ha scelto voi!"
"Zitta, donna!" ringhiò Pileius ed Hostius lo spintonò:
"Non ti rivolgere a lei con questo tono!"
Sattias lasciò che gli insulti e le recriminazioni dei suoi compagni gli scivolassero addosso come acqua, aiutando Manlios a tirare in piedi Etrilia: la ragazza aveva la pelle madida di sudore e sembrava sul punto di svenire da un momento all'altro.
Quando si voltò si trovò faccia a faccia con suo padre e rabbrividì; Volusus, invece, gli lanciò un'occhiata orgogliosa, forse anche commossa – Sattias lo conosceva troppo poco per esserne sicuro.
Con un gesto solenne srotolò un semplice panno di lana grezza e grigia:
"Questo stendardo ricorderà a voi e ai vostri figli dove è cominciato il vostro viaggio. E' il simbolo del tuo popolo, Sattias, non devi perderlo… Proteggetelo a costo della vita, poiché se cadesse in mano nemica sarete perduti!"
"Il mio popolo…" ripeté il giovane dentro di sé, sentendosi schiacciato da una tale responsabilità.
Prese lo stendardo e se lo strinse al petto come una coperta, tentando di cogliere in esso un odore familiare, qualcosa che riuscisse a colmare il vuoto che sentiva crescere nell'animo; una corta barba scura gli ombreggiava il viso da quasi un anno, ma aveva lo stesso voglia di piangere come un bambino.
E quando gli fu posata sul capo una lucente corona di bronzo il ragazzo avvertì quel peso come una condanna a morte.
 
Partirono all'alba, mentre la fresca brezza di inizio primavera scompigliava i capelli e le vesti. Portavano poco con loro: sacche di carne secca ed otri per i primi giorni di viaggio, lunghi archi di legno e coltelli di bronzo, affilati e lucidi, per uccidere e scuoiare le prede; Etrilia giocherellava con i sacchetti di erbe appesi al suo bastone, mentre Sabidia era intenta a contare le matasse di lana che aveva gelosamente riposto nel suo bagaglio e che avrebbe iniziato a filare una volta raggiunta la loro meta.
Sattias procedeva in testa al gruppo, con lo stendardo stretto in una mano e l'altra appoggiata sulla pesante spada di bronzo che gli era stata affidata: la sua figura magra e allampanata quasi scompariva sotto il peso di quelle insegne.
Nessuno andò ad osservarli partire, temendo che potesse portare sfortuna al villaggio; tuttavia, quando Sattias si voltò un'ultima volta verso quella che in una vita diversa sarebbe stata la sua casa, notò un uomo seduto davanti alla propria capanna, immobile nonostante il gelo mattutino. Gli sembrò anche di vedere, oltre la foschia che calava dalle colline, un braccio alzato in un gesto di saluto.
Fu l'ultimo ricordo che ebbe del nobile Volusus.


Angolo Autrice: 
Beh, temo che su questo capitolo ci sia poco da dire: spero che questa breve carrellata sui nostri protagonisti non vi abbia annoiato! Sattias non è certo un leader nato, eppure il picchio alla fine ha scelto lui: cosa avrà visto Mamerte in un ragazzino gracile e con seri problemi di autostima? Vedremo... 

  Crilu 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


"Ti ripeto che il sentiero a destra era la strada più veloce!"
La voce di Hostius, nitida e piena di malcontento, risuonò tra gli alti pini che costeggiavano il sentiero. Sattias strinse i denti, ringhiando: la corona stringeva sulla testa dolente, il peso dello stendardo minacciava di fargli cedere le ginocchia ed Hostius e Pileius non avevano perso occasione, in quei due giorni di viaggio, per rimarcare la sua incompetenza.
"Dannato picchio!" pensò, furioso, incurante dell'ira degli dei "E dannato Mamerte! Sia tre volte maledetto il suo nome e la sua crudeltà!"  
"Ci siamo persi, Sattias?" domandò Pileius con fare innocente. Tra i due, era quello che Sattias preferiva: nonostante fossero molto legati non era prepotente come Hostius, anzi, spesso frenava l'amico con la forza della ragione. Inoltre era un abile tiratore ed il ragazzo sapeva di poter contare su di lui per procurare cibo al gruppo; tuttavia il suo commento lo spinse a piantare nel terreno ghiaioso lo stendardo – su cui Sabidia aveva ricamato un bel picchio verde –  e a voltarsi con aria feroce.
Desiderava azzuffarsi pur sapendo che non sarebbe andata a finire diversamente dalle altre volte: Hostius l'avrebbe atterrato con facilità e colpito fino a fargli sputare sangue, fino a che Manlios non l'avrebbe strattonato via con forza o Sabidia non si sarebbe frapposta tra loro. La ragazza aveva il potere di stregare il giovane guerriero e non si faceva scrupoli nell'usare quell'ascendente per aiutare il ragazzo di cui era innamorata; Sattias di solito le era grato, ma in quel momento sperava con tutto sé stesso che non si intromettesse. Voleva lavare via l'insicurezza, i dubbi e la fatica con il suo stesso sangue: per un attimo una domanda bizzarra si affacciò nella sua mente.
"Questo non è da me. Che Mamerte abbia preso possesso del mio corpo?"
Quell'istante di esitazione fu sufficiente affinché Hiccia intervenisse.
"Sei mai stato sull'altro versante della montagna, Hostius?"
Tutti si voltarono a guardarla sbalorditi: era raro che la ragazza facesse udire la sua voce cupa e tagliente, non amava prendere parte alle discussioni che di tanto in tanto dividevano il gruppo. A volte Sattias aveva l'impressione che fosse uno spirito dei boschi, con quei ricci disordinati e gli occhi gialli, da gatta; allora si girava per controllare che fosse ancora lì, al margine del sentiero, e non fosse scomparsa tra gli alberi.
Hostius scosse il capo, ma non chiuse la bocca che aveva spalancato per la sorpresa, risultando come un grasso pesce appena pescato.
"E tu, Pileius? Hai mai inseguito una preda oltre il territorio della tribù?"
Pileius arrossì e boccheggiò nel tentativo di dare voce ai suoi pensieri: non era un mistero che Hiccia lo attraesse e lo terrorizzasse in egual misura.   
"No, io… Voglio dire, non che avessi paura ma…"
"Bene!" tagliò corto lei, senza degnarlo di una seconda occhiata "Allora, per tutti gli dei, come fate a sapere qual è la strada giusta da seguire?"
Manlios si lasciò scappare una breve risata, subito messa a tacere dall'occhiata penetrante di Hiccia:
"Che vi piaccia o no, Mamerte ha scelto Sattias come capo. Credete forse che un dio possa sbagliare?"
"No" replicò Hostius a mezza bocca "Ma Mamerte è un dio crudele. Si divertirebbe a vederci tutti morti, forse è solo una trappola e…"
"Silenzio!" ringhiò Etrilia, pallidissima in volto. "Non attirerai la collera degli dei su di noi, Hostius, non te lo permetto!"
Hostius si scostò i capelli neri dalla fronte ed arricciò le labbra sui denti grigi e storti, avvicinandosi alla giovane sacerdotessa: la sovrastava di tutta la testa ed incombeva su di lei come un orso infuriato.
"Cosa hai detto?"
"Ha detto che è ora di calmarsi!" intervenne Sabidia con voce soave. Tra loro era la più ingenua ed ottimista, oltre che la più bella: aveva lineamenti delicati, pelle priva di imperfezioni e due delicati occhi nocciola che si illuminavano quando rideva. Era stata la prima a diventare una donna e subito dopo il suo corpo era sbocciato in curve piene e sinuose che attiravano gli sguardi degli uomini, soprattutto di Hostius, che anche in quel momento si ritrovò a fissarla turbato, chiedendosi perché fino ad un attimo prima fosse stato così pronto ad azzuffarsi.
Poi, però, lo sguardo della ragazza volò su Sattias, ancora fermo nel mezzo del sentiero, e le labbra si piegarono all'insù in un tenero sorriso, uno di quelli che a lui erano sempre stati negati.
Hostius non riusciva a comprenderla.
La desiderava, certo, voleva accoglierla nel suo giaciglio e godere del suo corpo, ma le aveva dimostrato anche affetto in quei lunghi anni che avevano trascorso insieme: le aveva fatto capire che era disposto a fare di tutto per lei e che sognava una vita al suo fianco, una casa, figli forti e sani da crescere insieme.
Invece Sabidia si ostinava a lanciare sguardi e sorrisi a Sattias.
"Sattias! Quel piccolo insetto che cade sotto ogni folata di vento! Cos'ha lui che a me manca? E' stato scelto da Mamerte, vero… Ma anche prima di questo, Sabidia non mi ha mai rivolto le stesse attenzioni che dà a lui!"
E il fatto che l'altro ragazzo sembrava ignorare le profferte d'amore e che non pareva nutrire per Sabidia alcun interesse non riusciva a spegnere le fiamme della gelosia che gli divoravano il petto. Ogni volta che la vedeva accorrere in suo aiuto, Hostius soffriva come un orso colpito da una freccia; e come l'orso intrappolato, per difendersi dal dolore attaccava.
"Quale re si fa difendere da due sciocche donne, mosca?" ringhiò, tentando di ignorare la sorpresa e la ferita negli occhi chiari di Sabidia.
"Se fossimo un vero popolo" pensò Sattias, ricambiando l'occhiata ostile "Ed io fossi un vero re… Dovrei mandarlo a morte per tanta insolenza. Ma siamo solo dei ragazzi persi nel bosco, condannati a morte sicura e dimenticati dagli dei…"
Perso in quei cupi pensieri non si diede pena di rispondere alla provocazione, sfilando lo stendardo dal terreno e riprendendo la marcia. Lo scalpiccio di passi alle sue spalle gli indicò che tutti gli altri avevano deciso di seguirlo nonostante i dubbi, ma in tutta sincerità avrebbe preferito che la compagnia si sciogliesse subito, piuttosto che doverla guidare in territori sconosciuti alla ricerca di un destino incerto.
 
Lo trovarono al calar della sera, quando stavano scandagliando la foresta alla ricerca di un buon posto per accamparsi. Sabidia lanciò un urlo d'orrore e Hiccia, che era accanto a lei, per la prima volta in vita sua ebbe paura: ai loro piedi giaceva un picchio verde, morto. Le ali si erano spezzate nella caduta e ora erano piegate in maniera innaturale sulla terra umida del sottobosco; gli occhi neri erano opachi e vitrei e il sangue scuro bagnava le smeraldine piume dell'uccello.
Per un po' i sette rimasero ad osservarlo in un silenzio attonito, raccolti in cerchio attorno al povero animale; poi Pileius si chinò e stando ben attento a non sfiorarlo disse:
"E' stato ucciso da qualche altro uccello, gli ha spaccato il petto con il becco!"
Sattias, che invece aveva alzato gli occhi sull'albero sopra di loro, mormorò:
"Cercava di proteggere il nido… Ma è stato saccheggiato!"
In effetti tra i rami si intravedevano i resti distrutti del rifugio che il picchio aveva disperatamente tentato di difendere.
L'angoscia di quel presagio calò sul gruppo all'improvviso, come una soffocante coperta: ognuno di loro cercava di dargli un senso che potesse essere interpretato come un incoraggiamento, ma alla fine furono costretti ad ammettere che si trattava di un avvenimento sinistro e funesto.
"Mi sembra chiaro, dunque."
La voce di Hostius risuonò stentorea nella foresta ormai buia.
"Mamerte ci ha tolto il suo appoggio, non ci ritiene abbastanza forti sotto la guida di Sattias!"
"O forse si è arrabbiato per ciò che hai detto oggi pomeriggio!" replicò Sattias, gelido. "Etrilia aveva ragione, hai attirato la sua ira su di noi!"
"Ora cerchi scuse, mosca? Lo sappiamo tutti che vaghiamo alla cieca e che non sai più cosa fare!"
"Non vaghiamo alla cieca, stiamo andando a nord, come il dio ci ha ordinato!"
"Beh, io non intendo più seguire i vaneggiamenti di questa pazza!" sbottò il guerriero, indicando Etrilia. Manlios fremette, stringendo forte la corda del suo arco:
"Non è pazza! E’ l’unica che può trovare un senso in tutto questo!"
“Il senso lo vedo benissimo da solo, Manlios!”
“Ora sei anche cieco, oltre che stupido?”
Hostius alzò le mani con un ringhio di frustrazione:
"Io me ne vado! Siete liberi di morire come vi pare e piace, io proverò a sopravvivere per conto mio. Pileius?"
Pileius non ebbe un attimo di esitazione e voltò le spalle a Sattias; lanciò giusto uno sguardo timoroso verso Hiccia e poi raccolse le sue cose per seguire l'amico.
L'arciera sembrava ipnotizzata dal corpo inerte del picchio e quando alla fine si riscosse aveva gli occhi pieni di autentico terrore:
"Posso affrontare orsi e leoni di montagna e anche altri uomini, se necessario” bisbigliò con voce strozzata “Ma non combatterò contro gli dei!"
E anche lei si affrettò a seguire i due ragazzi nel folto del bosco.
Il respiro di Sattias tremolò:
"Non era forse quello che volevi?" sussurrò una voce maligna nella sua testa "Essere sollevato da una tale responsabilità… Dimostrare a tutti che, in fondo, non sei davvero figlio di tuo padre… E che avevano ragione su di te…"
"Voglio stare da solo!" borbottò, alzandosi in piedi ed evitando di incrociare lo sguardo penetrante di Etrilia o quello preoccupato di Manlios.  
Fece un largo giro attorno al cadavere del picchio, bofonchiando a bassa voce qualche vecchio scongiuro appreso da Aia, e si inoltrò anche lui tra gli alberi, nella direzione opposta rispetto a quella presa da Hostius, Hiccia e Pileius.
Gli sembrò di camminare per ore, ma in realtà non erano passati che pochi minuti quando la voce affannata di Sabidia raggiunse le sue orecchie:
"Sattias… Sattias! Per favore, aspettami… Ho paura, da sola!"
A malincuore il ragazzo rallentò il passo: i suoi pensieri ruggirono rabbiosi, ma non avrebbe mai abbandonato così la sua amica. Sabidia lo raggiunse con il respiro corto, le guance arrossate e gli occhi spalancati per il terrore: rischiò di scivolare sul terreno umido quando se lo ritrovò di fronte con i pugni serrati e lo sguardo torvo.
"Cosa vuoi?"
La giovane sembrò presa alla sprovvista:
"Volevo solo… Insomma, te ne sei andato a quel modo e…"
"Te l'ho detto, non volevo compagnia!" la interruppe lui, sempre più adirato. Perché non capivano il suo tormento, il timore che gli paralizzava le membra, il desiderio di essere lasciato in pace?
"Non dovevi venire qui…" aggiunse poi, voltandole le spalle "Va' con Hostius, Sabidia. Lui è in grado di proteggerti e di darti la vita che vuoi!"
"Ma io non voglio Hostius!" replicò lei con un sorriso tremulo, meraviglioso alla luce della luna che era appena sorta sopra le cime degli alberi. "Io voglio te, Sattias…"
Il ragazzo le si rivoltò contro come un cane rabbioso:
"Perché? Cosa ho io di speciale in confronto ad un guerriero come Hostius? Niente, ecco cosa. Tu, Mamerte, il picchio… Avete commesso un errore, avete scelto l'uomo sbagliato…"
Sabidia lo guardò orripilata:
"Cosa stai dicendo, Sattias? Gli dei non possono sbagliare!"
Gli occhi del giovane si incupirono fino ad avere lo stesso colore del muschio vecchio e dalle labbra gli volarono fuori parole taglienti, fatte per ferire:
"Tu sì, però, tu puoi errare: sei solo una bambina, non vedi il pericolo neanche quando ti sfiora la pelle! Te lo ripeto, vai da Hostius se vuoi sopravvivere. Andate tutti con lui!"
Sabidia scoppiò a piangere, stringendo i pugni attorno all'amuleto che portava al collo:
"Non puoi dire sul serio…"
"Oh, eccome!"
"Mi stai cacciando, Sattias?"
Lui la fissò senza l'ombra di un'emozione sul volto, a parte la rabbia che alterava i suoi lineamenti gentili:
"Sì."
La ragazza ingoiò a vuoto, emettendo un suono rauco come il verso di una civetta, poi si asciugò in fretta le lacrime dal viso e sparì tra gli alberi.
Sattias, invece, passò il resto della nottata a convincere sé stesso di aver fatto la cosa giusta.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Sattias non ricordava come avesse ritrovato Manlios ed Etrilia: era più probabile che fossero stati loro a seguire le sue tracce e ad accamparsi dove lui era crollato addormentato per la stanchezza. 
Comunque si stropicciò gli occhi per svegliarsi del tutto, tirandosi a sedere e stringendo d'istinto la spada che aveva al fianco quando vide un'ombra torreggiare accanto a lui: ma era solo Manlios, che gli sorrise amichevolmente. 
"Allora, mio re, come stai quest'oggi?" 
Le sue parole cerimoniose erano un tentativo di strappargli una risata, ma erano anche prive di scherno e piene di fiducia: Sattias non gli sarebbe mai stato abbastanza grato per la testardaggine con cui chiudeva gli occhi di fronte alle sue mancanze. 
"Meglio…" borbottò lui, guardandosi intorno. Vide che Etrilia, poco più in là, trafficava con le sue erbe sopra ad un piccolo focolare. 
"Sabidia?" 
Manlios storse le labbra come se avesse ingoiato una bacca velenosa: 
"Ha raccolto le sue cose con furia, gridando che sei un idiota ed un ingrato… E poi è corsa via, dietro ad Hostius e agli altri. Mi dispiace, amico, non sono riuscito a fermarla…" 
Sattias si strinse nelle spalle, sollevato: 
"Non fa niente, ha fatto la scelta più saggia. Avevo solo paura che si fosse persa nella foresta, sai, non è abituata come noi…"
Si interruppe, cercando le parole più adatte ad esprimere i suoi pensieri senza risultare offensivo: 
"Immagino che se vi ordinassi di andarvene non obbedireste, vero?" 
Gli occhi scurissimi di Manlios brillarono bellicosi, ma prima che potesse replicare la voce pacata e profonda di Etrilia li interruppe: 
"Perché dovremmo andare via, Sattias? Mamerte ha scelto te, è nostro dovere seguirti, per il nostro stesso bene…" 
"Mamerte ha anche inviato un segno infausto per farci capire che aveva cambiato idea!" 
Etrilia gli rivolse un sorriso enigmatico, apparendo ancora più inquietante del solito, dato che un paio di denti le erano caduti a causa delle piante sacre che masticava in continuazione. 
"Vieni, avvicinati." 
Sattias lanciò un'occhiata incuriosita all'amico, ma quando Manlios si limitò a stringersi nelle spalle si alzò e si avvicinò alla ragazza: gli bastò dare un'occhiata sopra la sua spalla per capire da dove provenisse l'odore nauseabondo che aveva invaso la piccola radura in cui si erano accampati. 
Davanti alla giovane sacerdotessa c'era il cadavere del picchio verde, con il ventre squarciato e le viscere ordinatamente disposte secondo uno schema noto solo ad Etrilia: Sattias sapeva che esistevano diverse pratiche con cui si poteva prevedere il futuro e che uno di essi consisteva proprio nel leggere gli intestini degli animali sacrificati. 
"Come mai le sarà venuta quest'idea?" si chiese, ma preferì non porre quella domanda ad alta voce. Le risposte di Etrilia, quando si riusciva a dar loro un senso, recavano sempre con loro un vago accenno di minaccia. 
"Cosa dicono?" domandò invece, mentre l'ansia gli chiudeva lo stomaco. Etrilia sfiorò le viscere con le lunghe dita, corrugando la fronte: 
"C'è una valle, oltre le montagne, che ci aspetta. E' benedetta, con molte prede e alberi rigogliosi… Per questo Mamerte l'ha scelta per il suo popolo!" 
"Sì, va bene, ma come ci arriviamo? E come facciamo a capire che il viaggio è terminato?" 
La ragazza scacciò le sue domande con un gesto seccato del capo: 
"Oh, Sattias, per essere così intelligente a volte dici cose proprio sciocche! Ci arriveremo perché dobbiamo arrivarci, è semplice!”
“E’ assurdo!” 
“E capiremo quando sarà il momento di fermarci, fidati di me…"
"Quindi il picchio non era un presagio infausto?" 
"Sì e no. Era un avvertimento, perché Mamerte non concede nulla senza avere qualcosa in cambio…" 
"Lo so bene!" pensò Sattias, digrignando i denti "La mia vita ti è stata già consacrata, non ti basta questo? Cos'altro vuoi da me, dio del tuono e della guerra?"
Etrilia, nel frattempo, aveva iniziato a tremare: 
"Tre prove!" pigolò, quasi spaventata "Tre prove dovrai affrontare, da solo, senza aiuti esterni. Se le supererai Mamerte ci garantirà un futuro sereno e una discendenza numerosa quante sono le stelle nel cielo!" 
"E se fallisco?" 
Ma di nuovo, le parole che gli affiorarono alle labbra furono altre: 
"Quali sono le prove?" 
"Devi bagnarti nel sangue di Diana, poi in quello di Ikiperu e infine in quello di Mamerte stesso. Le viscere non dicono altro, mi dispiace." 
Ma Sattias non la stava già più ascoltando: 
"Diana, dea della caccia, signora delle belve… Ikiperu, dea del matrimonio e del focolare domestico… E Mamerte, sempre lui, tre volte maledetto sia il suo nome! Come posso misurarmi con tre divinità? Sono solo un uomo e neanche uno dei migliori…" 
Tuttavia, per quanto disprezzasse Mamerte, sapere che il dio non aveva cambiato idea sulla sua scelta lo rincuorò e gli fece tornare il buonumore. Perciò afferrò con sicurezza lo stendardo, raccolse la corona di bronzo dal cespuglio in cui l'aveva lanciata la sera prima e sorrise ai suoi amici: 
"Sbrigatevi, la strada è lunga da qui alla cima delle montagne! E poi dovremo riscendere dall'altro lato!" 
Manlios pareva perplesso: 
"E gli altri? Dovremmo cercarli, avvertirli…" 
Etrilia gli poggiò una mano sul capo con affetto: 
"Abbi fede, amore mio. Li ritroveremo quando sarà il momento, non prima. Il fato degli uomini è in mano agli dei, lo sai!" 
"No" pensò Sattias con un guizzo d'orgoglio "Io sceglierò il mio destino, io e nessun altro. Gli dei hanno interferito fin troppo con la mia esistenza." 

Il daino procedeva a grandi balzi sul terreno sconnesso, voltando il capo di tanto in tanto per captare il pericolo; ma Hiccia sapeva bene come tenersi sottovento per nascondere il suo odore alle prede, perciò procedette con cautela, serrando la presa sul suo arco, mentre il daino riprendeva la sua corsa. 
Lo inseguiva già da diverse ore e si era allontanata parecchio dal punto in cui gli altri si erano accampati; tuttavia non si era mai tirata indietro davanti ad una sfida – era ciò che più le piaceva della caccia – e quel daino giovane, pieno di energia e voglia di correre, le risultava in qualche modo familiare. 
"Niente presagi, né terre sconosciute da scoprire!" pensò, scostandosi i ricci dalla fronte "Solo io e lui, il vento e la foresta, come dev'essere."
Hiccia adorava anche le emozioni semplici, come la gioia selvaggia che traeva dal centrare il bersaglio; diffidava, invece, da quel leggero senso di colpa che la perseguitava da quando aveva abbandonato Sattias, Manlios ed Etrilia. 
"E' solo perché sono abituata ad averli intorno!" si disse per giustificarsi "Non perché sento la loro mancanza. Non ho bisogno di nessuno, io!" 
Quando riportò la sua attenzione sul sentiero si maledisse: il daino era scomparso con un balzo dietro una roccia ed aveva già iniziato a discendere sull'altro versante. 
Hiccia esitò giusto un istante, soppesando le strade che le si aprivano davanti: poteva rinunciare ad una preda per la prima volta da quando aveva preso in mano un arco e tornare dagli altri; oppure poteva seguire il daino oltre il margine del bosco, dove l'altopiano brullo ed aperto non gli avrebbe offerto alcun riparo contro le sue frecce. 
"Chi potrebbe mai rifiutare un bersaglio così facile?" pensò con un sorriso astuto, pregustando già la morbida carde dell'animale sotto i denti.
Perciò scattò fuori dal cespuglio in cui era acquattata con un fruscio di foglie ed iniziò a correre lungo la china della collina, tenendo il torace piegato sulle ginocchia per evitare la corrente della brezza che spirava verso Nord. La freccia era già incoccata e la punta sfiorava ad ogni passo la decorazione in osso che Hiccia stessa aveva aggiunto all'impugnatura dell'arco. 
Quando arrivò sulla cima spazzata dal vento e guardò in giù, però, il suo cuore mancò un battito: il daino era immobile e spaventato quanto lei, paralizzato sul sentiero a una decina di passi di distanza. 
Entrambe le creature avevano lo sguardo fisso sui resti fumanti del villaggio in rovina e sui cadaveri insanguinati riversi nell'erba; la ragazza era convinta che molti di più erano accasciati tra le capanne che ancora bruciavano. 
Cautamente strisciò verso il corpo più vicino, un uomo dalla barba grigia a cui avevano trapassato la schiena: Hiccia osservò la ferita, turbata, chiedendosi quanto dovesse essere affilata la spada del nemico per produrre un taglio così netto e pulito attraverso la carne e le ossa. 
"Il popolo delle capre!" si disse, osservando i vestiti di lana grezza che indossava e le decorazioni d'osso tra i capelli. 
I Sabini non vedevano di buon'occhio il popolo delle capre, gente che viaggiava verso le montagne d'estate e verso le valli d'inverno; non cacciavano e rifuggivano la guerra, accontentandosi di quello che ricavavano dai loro greggi. Le capre che guidavano erano più preziose dell'oro per quello strano popolo e anche il loro dio aveva una barba sottile e corna ricurve. 
"Non mi stupirei se le montassero anche, quelle stupide bestie!" aveva detto una volta Aia con malcelato disprezzo. 
Tuttavia, nonostante il popolo delle capre fosse bizzarro e disprezzato per la sua codardia, nessuno meritava di morire in quel modo, pensò. 
Alzò lo sguardo verso le capanne di frasche, momentaneo rifugio dei pastori, alla ricerca delle capre: il daino era fuggito da un pezzo e lei non voleva tornare al campo a mani vuote. 
"Non se ne vede neanche una… Dove sono andate?" si domandò, sempre più nervosa. Non si era accorta dell'innaturale silenzio sceso sulla scena e rotto solo dal crepitio degli ultimi fuochi. 
"Mah… Le avrà prese la tribù che li ha uccisi… Non c'è più nulla qui, per me."
Quando si rialzò, riponendo la freccia nella faretra che portava legata in vita, capì di aver commesso un errore: grida rauche che parlavano una lingua sconosciuta si alzarono dal villaggio. 
Si girò e si trovò davanti una scena spaventosa: all'inizio le parvero mostri con diverse decine di arti, ma man mano che si avvicinavano Hiccia comprese che si trattava di uomini sulla schiena di cavalli imponenti, molto più grandi e veloci di quelli che aveva visto una volta che era scesa a valle durante una battuta di caccia. Le bestie procedevano al galoppo, apparentemente senza sforzo nonostante le armature scintillanti che coprivano i guerrieri dal capo alle ginocchia: la giovane, abituata alle corazze di cuoio duro dei suoi compagni, per un istante ne fu abbagliata. 
Poi, con qualche istante di ritardo, afferrò una freccia e la scagliò con precisione contro il più vicino dei guerrieri: se fosse stata una normale freccia con la punta d'osso si sarebbe spezzata, ma Hiccia andava molto fiera delle punte in bronzo che affilava con cura e devozione e che potevano penetrare anche il legno senza scalfirsi mai. 
Perciò fu con orrore e sorpresa che osservò la freccia scivolare sull'armatura dell'uomo e cadere a terra, per poi essere frantumata dagli zoccoli del cavallo: quando il guerriero balzò a terra per avventarsi su di lei, vide che la corazza non aveva riportato alcun danno. 
Lo scontro la buttò a terra e le tolse il fiato: l'armatura era fredda e dura sotto il suo tocco. 
"Questi sono dei… Non possono essere uomini!" pensò terrorizzata "Perché nessun uomo può aver creato questa… Questa…" 
Ma quando incrociò lo sguardo scuro ed assassino del suo avversario, Hiccia capì di avere di fronte un suo simile e chiamato a raccolta tutto il suo coraggio sfilò dallo stivale il suo piccolo coltello di bronzo e lo conficcò nell'unico lembo di pelle lasciato scoperto dall'armatura, un sottile spazio tra il mento e la clavicola: la lama scivolò con facilità attraverso la carne e il sangue schizzò fuori all'istante, bagnandole la faccia. 
L'uomo cadde all'indietro con gli occhi sgranati, tentando di fermare la vita che zampillava fuori dalla sua gola, ma quando il suo capo toccò terra era già morto; Hiccia, ansante, senza quasi riflettere si lanciò a recuperare l'arco che era caduto poco distante e scoccò una, due, tre frecce contro i nemici che ora l'avevano raggiunta e stavano disegnando uno stretto cerchio attorno a lei. 
Non lanciavano più grida di guerra e il silenzio minaccioso sceso dopo la morte del loro compagno l'atterriva; una delle frecce trovò un punto debole nella feritoia di un elmo e l'uomo urlò per il dolore, tentando di estrarre la freccia dall'occhio in cui si era conficcata. 
Un altro la caricò ed Hiccia evitò per un soffio di essere calpestata dal cavallo schiumante: i rumori le giungevano attutiti sopra il battito del suo stesso cuore, ma non appena si accorse della lama che stava calando sulla sua testa alzò l'arco sopra di lei in un ultimo, patetico tentativo di difesa. 
La spada spaccò l'impugnatura in osso, tagliò a metà il legno e sarebbe sprofondata nel petto della ragazza se il braccio che la brandiva non fosse stato colpito da una freccia scoccata da lontano. 
Il guerriero perse l'equilibrio e cadde: prima che potesse rimettersi in piedi una seconda freccia centrò il collo della sua cavalcatura e questa, resa pazza dal terrore e dalla ferita, finì per calpestarlo. Hiccia strisciò via, lontano dai suoi zoccoli insanguinati, stringendo con una mano i resti del suo arco e con l'altra il pugnale, guardandosi attorno alla ricerca del suo salvatore. 
Anche gli altri guerrieri tentavano di scovarlo, deviando le frecce con le loro prodigiose armature o con degli scudi rotondi fatti dello stesso metallo sconosciuto. 
"Gli occhi!" urlò Hiccia, alzandosi faticosamente in piedi "Gli occhi e la gola, mira a quelli!" 
Sperò con tutto il cuore che l'arciere nascosto comprendesse la sua lingua ed iniziò a correre verso la china da cui era discesa, ben sapendo che i nemici avrebbero potuto raggiungerla con facilità se non fosse stato per le frecce che continuavano a piovere loro addosso. 
Quando raggiunse la cima della collina si voltò a guardare la scena che si era lasciata alle spalle: quattro dei guerrieri erano a terra, morti, mentre il resto correva veloce verso il villaggio, messo in fuga dalle frecce. 
Crollò a terra, cercando di calmare il tremito che si era impossessato delle sue membra ed accarezzando tra i singhiozzi l'arco spezzato, il suo avere più prezioso, il suo amico più fedele: il danno era irreparabile, lo sapeva. 
"Cosa ci fai ancora qui?" strillò una voce conosciuta alle sue spalle. "Dobbiamo muoverci! O vuoi forse aspettare che tornino con i rinforzi?" 
Hiccia si voltò: Pileius era emerso dalle rocce alla sua sinistra e stringeva ancora in mano l'arco. I lunghi capelli neri erano scivolati fuori dal cordino con cui solitamente li teneva legati e si erano attaccati alla sua fronte sudata: il ragazzo doveva scostarli con la mano per poterla guardare negli occhi. 
"Avrei dovuto immaginarlo!" pensò la ragazza, asciugandosi furtivamente le lacrime. 
"Dopo di me, è il più abile con l'arco!" 
"Da dove sei arrivato?" ringhiò con alterigia, riprendendo a correre verso il folto del bosco. "Mi spiavi?"
Le guance di Pileius divennero rosse come il cielo al tramonto e gli occhi dal colore indefinito ruppero il contatto con i suoi: 
"Certo che no!" protestò con voce incerta "Ho sentito le grida!" 
Ad Hiccia quella debole scusa sembrava proprio una menzogna, ma evitò di rispondere, concentrandosi solo sulla necessità impellente di dover mettere quanta più strada possibile tra loro e i misteriosi nemici. 


Angolo Autrice: 
Ciao! 
Questo è un capitolo chiave per la storia, per vari motivi: uno è sicuramente la nuova profezia di Etrilia, il cui effetto collaterale è esacerbare la rabbia di Sattias nei confronti degli dei; il secondo è la presa di posizione di Sattias stesso, che decide finalmente di essere un re e non un ragazzino spaventato da Mamerte; il terzo motivo, ovviamente, sono i nemici con cui Hiccia e Pileius si scontrano, feroci, spietati e dotati di armi sconosciute. 
Ho anche una piccola precisazione da fare sui nomi delle divinità: le religioni italiche pre-Romane sono tante, per lo più oscure e parzialmente sovrapponibili. Ergo, ho dovuto lavorare di fantasia laddove le fonti mancavano: Diana è una dea latina; Ikiperu è il nome piceno di una dea di origine (forse) orientale, meglio conosciuta nelle Marche come Cupra e poi assimilata dai Romani come Bona Dea; Mamerte, forse l'avrete capito dall'assonanza, è l'antesignano di Marte. Tuttavia questo dio nei pantheon italici occupava una posizione molto importante, più simile a quella di Zeus che a quella di Ares (non a caso, oltre che dio della guerra, è anche dio del tuono e della tempesta). Più in là sentirete i ragazzi invocare il nome di Pico, ovvero il picchio, perché secondo il mito prima di essere un uccello consacrato a Mamerte Pico era un semidio. 
Mi sembra di aver detto tutto! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, a presto!

  Crilu 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Hostius fissava le armi poggiate ai suoi piedi, pronte per essere affilate, senza davvero vederle dato che era perso in mille pensieri diversi.
Era sempre stato un uomo d'azione, ma a volte, la sera, sentiva la necessità di raccogliere le idee davanti ad un otre pieno di idromele, come in quel momento. Era solo e questo gli permetteva di lasciar vagare la mente in tutta libertà.
Pensava soprattutto a Sabidia, che si era allontanata alla ricerca di legna per il fuoco e non era ancora tornata: dopo aver ascoltato il racconto di Hiccia e Pileius, Hostius nutriva grande preoccupazione per la sua sicurezza.
Quando si era sentito chiamare dalla sua voce melodiosa, quattro giorni prima, non poteva crederci: Sabidia l'aveva preferito a Sattias!
Invece, aveva capito poi, si trattava solo di una decisione impulsiva dettata dall'amarezza e dalla paura legata al cattivo presagio; la ragazza forse lo riteneva un guerriero migliore, un capo più adeguato, ma non l'uomo giusto da amare.
"Oh no, lei vuole quella mosca! Lo desidera nel suo giaciglio, vuole dargli dei figli… Anche dopo che lui l'ha cacciata via in malo modo! Come si può essere cattivi con lei, che non ha mai fatto del male a nessuno?"
Bevve un'altra lunga sorsata di idromele, ignorando il senso di colpa che lo avvertiva di star finendo tutta la loro scorta in una sola sera:
"Ne ho bisogno!" pensò, convinto, anche quando la vista iniziò a vacillare.
I nemici misteriosi erano la sua seconda preoccupazione: dove erano finiti? Avevano superato l'altopiano ed il villaggio bruciato attraverso un largo giro, ma non avevano visto segni del loro passaggio. Questo, anziché rallegrarlo, lo riempiva d'ansia.
La terza, grande preoccupazione di Hostius era Sattias:
"Va bene, non siamo mai andati d'accordo e lui non sarebbe mai stato un grande re. Ma forse dovevo convincere quei tre pazzi a venire con noi, invece che lasciarli lì, su quel sentiero. Sattias non sarebbe in grado di sopravvivere un giorno senza qualcuno che gli procuri il cibo, ma sono sicuro che Manlios ed Etrilia non lo abbandoneranno… Sì, ma se poi incontrano i nemici? Le nostre armi sono inutili contro le loro spade magiche!"
Era talmente nervoso che quando sentii un fruscio alle sue spalle agì senza pensare: rotolò a terra, afferrò la lancia e la puntò sul nuovo arrivato, che lanciò un grido di terrore.
“Sabidia!” ringhiò lui, confuso dalle diverse emozioni che lo invasero nello stesso momento: sollievo, timore, felicità e rabbia. E desiderio, tanto ed inatteso, quando i suoi occhi si soffermarono sui seni della ragazza che si alzavano e si abbassavano con affanno sotto la veste.
Lei lasciò andare la fascina che reggeva sotto il braccio e che toccò terra con un tonfo secco:
“Ti sembra il modo di accogliermi, Hostius?” borbottò, arrabbiata, portandosi una mano al petto e giocherellando con la spilla che teneva ferma la tunica sopra la sua spalla.
Più tardi, il ragazzo non riuscì a spiegarsi quella smania improvvisa ed irresistibile di poggiare le dita sulle sue: l’amava, certo, ma nonostante la sua forza non aveva mai pensato di soggiogarla con la violenza. Il solo pensiero lo faceva vergognare.
Eppure quella sera le si avvicinò con una luce pericolosa negli occhi scuri, una luce che Sabidia riconobbe istintivamente e di cui ebbe paura: provò a sottrarsi alla stretta ferrea che l’aveva imprigionata, tentò di sfuggire alle sue labbra pressanti che le lasciavano umidi baci lungo la linea del collo e alle mani che scivolavano possessive sulla sua pelle, fredde e dure come pietre.
Alla fine la sua salvezza arrivò nelle sembianze di Pileius, che si avventò sull’amico e strinse il braccio attorno al suo collo finché Hostius non vide un lampo nero danzargli davanti agli occhi. Hiccia, arrivata anch’essa in silenzio, si acquattò come una gatta accanto all’otre abbandonato sul terreno, sbirciando all’interno con aria critica:
“L’ha finito!” borbottò, laconica. Pileius era furioso:
“Ma sei scemo, Hostius?” ringhiò, battendogli un altro pugno sulla spalla e facendolo incespicare all’indietro “Ubriacarti durante il turno di guardia, quando sai che una tribù nemica pattuglia il nostro stesso territorio? E poi avventarti su Sabidia a quel modo… Ma che ti è preso?”
Si girò verso la ragazza per rassicurarla, ma con un singulto di apprensione scoprì che era scomparsa: una veloce occhiata gli confermò che i suoi averi erano ancora attorno al fuoco, ma in preda allo spavento doveva essere arretrata nella boscaglia.
“Sabidia!” urlò e l’eco della sua voce risuonò tra i tronchi mutato e distorto, come la sinistra risata di un dio. Provò a seguirla tra i tronchi, ma al buio non riusciva a capire che direzione avesse preso:
“Lascia perdere!” intervenne Hiccia, più pratica, richiamandolo indietro.
“Aiutami a spostare Hostius… Si è addormentato, l’idromele deve avergli dato alla testa!”
“Ma è sola e non conosce la strada…”
“Non è stupida, tornerà sui suoi passi non appena si sarà calmata. Manterrò acceso il fuoco per indicarle la nostra posizione.”
 
La mattina dopo Sabidia non era ancora tornata. Hostius, ora perfettamente sobrio e lucido, era roso dal senso di colpa e non aveva alcuna intenzione di condividere il suo fardello con gli altri due, che si erano addormentati dopo aver vegliato a lungo sulle braci nell’attesa della ragazza.
“Sono io ad aver sbagliato” pensò. Ammetterlo fu un duro colpo per il suo orgoglio, ma lo aiutò a trovare la determinazione per mettersi in cammino sulle tracce sconnesse e confuse di Sabidia.
Doveva aver corso per un lungo tratto, lasciando dietro di sé impronte ed arbusti spezzati, ma poi aveva raggiunto un torrente ed Hostius non riuscì a capire che direzione avesse preso.
Un pensiero bizzarro lo colpì e lo fece fermare, come instupidito:
“Sattias saprebbe trovarla!”
Si guardò attorno per sincerarsi che nessuno spirito del bosco lo stesse prendendo in giro, sussurrandogli malefiche bugie nelle orecchie. Ma no, era solo accanto al rigagnolo.
“Il fatto è che io sono un guerriero imbattibile, un buon cacciatore e so anche seguire le tracce senza stancarmi mai. Ma Sabidia è una donna, non un daino, ragiona e pensa… Ed io non l’ho mai capita. Sattias forse sì. E’ un incapace buono a nulla, ma sa comprendere le persone che gli stanno a cuore.”
Per la prima volta nella sua vita Hostius si sentì inutile e rimuginando su quel senso di inadeguatezza con cui tante volte il suo rivale si era dovuto confrontare prese a risalire il corso del torrente, sperando che Sabidia avesse deciso di salire verso la sommità delle montagne per individuarli oltre le cime degli alberi.
“Sabidia!” urlò a gran voce per l’ennesima volta.
A rispondergli non fu la voce musicale della donna di cui era innamorato, ma un ringhio basso e potente come il tuono di Mamerte.
Da dietro alle rocce spuntò un orso dalla pelliccia scura, il corpo smagrito dal letargo invernale, gli occhi neri accesi dalla fame e dalla vista di una preda. Hostius sobbalzò, ma non perse la presa sulla lancia, l’unica arma che aveva portato con sé. L’orso ringhiò di nuovo, scoprendo le zanne gialle mentre usciva dal suo rifugio: per qualche istante l’uomo e la belva rimasero perfettamente immobili, cercando di fiutare la morte nell’aria, per capire chi sarebbe caduto a terra senza vita.
L’animale si rizzò sulle gambe anteriori e ruggì, avanzando a grandi passi verso il ragazzo, che lanciò il grido di guerra più disperato a cui avesse mai dato voce, caricando l’avversario a testa bassa.
Lo scontro gli fece volare la lancia dalle mani: l’arma roteò nell’aria e sbatté contro le rocce, rotolando tra i cespugli, oltre la sua portata. L’orso era ormai sopra di lui e ad Hostius sembrò di scorgere in quegli occhietti feroci ed affamati il riflesso di Diana, dea della caccia che ama circondarsi di creature forti e spietate. Era perduto, nel giro di pochi istanti gli artigli scuri avrebbero dilaniato la sua carne e le zanne sarebbero affondate nel suo petto, fermandogli per sempre il cuore che ora batteva all’impazzata.
Poi l’orso ruggì di nuovo, ma di dolore: una lancia sporgeva dalla base della schiena e la bestia si dibatté disperata nel tentativo di liberarsene. Ma furono due mani d’uomo a sfilarla dalla sua carne per poi affondarla più in alto, tra le costole, fino a perforare il cuore: l’orso graffiò il vuoto con le enormi zampe, digrignando i denti davanti alla sconfitta, deciso a rimanere ostinatamente attaccato alla vita. Alla fine, però, il respiro si spezzò e l’animale cadde a terra, facendo tremare il terreno con il suo peso; dietro di lui, coperto di sangue denso e grumoso fino ai gomiti, c’era Sattias.
Aveva il fiato corto e tremava:
“Io…” balbettò, mentre le ginocchia gli cedevano. Svelto, Hostius lo afferrò per un braccio e lo tirò a sedere accanto a sé sulla roccia, accanto al cadavere dell’orso: neanche lui si sentiva molto saldo sulle gambe. Sattias fece un respiro profondo:
“Io ti ho sentito gridare. Vi stavamo cercando, sapevamo che non eravate lontani e così… Quando abbiamo sentito l’urlo di guerra io e Manlios abbiamo iniziato a correre. Non avevo capito che eri tu, però. Vedevo solo l’orso e… Ho capito che aveva intrappolato qualcuno ma…”
Sembrava sorpreso lui stesso dalla rapidità e dal coraggio con cui aveva agito.
Hostius lo osservò con attenzione: sedeva con le ginocchia ossute strette tra le braccia, lo sguardo fisso sulla bestia immobile, la corona di bronzo tutta storta sul capo per la corsa. La spada doveva essergli caduta per strada, abbandonata insieme all’arco e allo stendardo.
“E’ corso incontro al pericolo con quel misero bastoncino tra le mani, lui che non sa neanche usarla, la lancia… Troppo debole per lanciarla, si è avvicinato all’orso senza esitare pur di salvarmi…”
“Perché sei da solo?” chiese Sattias a quel punto “Dove sono gli altri?”
Ed Hostius, pieno di vergogna, gli raccontò tutto: dall’incontro di Hiccia con i prodigiosi guerrieri che avevano massacrato il popolo delle capre alle sue preoccupazioni, fino al motivo per cui si era separato dagli amici.
“Mi ero sbagliato su di te” ammise infine, senza avere il coraggio di guardarlo “Credevo di possedere le qualità necessarie per essere re e non riuscivo proprio a comprendere perché il picchio avesse scelto te al mio posto. Ora lo so. Io non avrei mai potuto compiere un’impresa del genere.”
Dopo anni di insulti e botte, Hostius si aspettava un’amara rivincita, ma Sattias lo sorprese di nuovo. Lo fissò a lungo con gli occhi grandi, dello stesso colore delle foglie bagnate, poi scoppiò a ridere di gusto.
“Impresa? Hostius, guardami, mi tremano ancora le mani! Non me la sono fatta sotto solo perché non ho avuto il tempo!”
“Ma lo stesso hai agito!”
Sattias scosse la testa:
“No, no, non ti ingannare. Io sono la stessa mosca di sempre; ho agito in maniera sconsiderata, forse per la prima volta nella mia vita. Ma ho capito che se gli dei possono giocare con la nostra vita a loro piacimento, solo a noi è concesso il potere di guidarla ed io ho deciso di vivere cercando sempre di fare la cosa più giusta, a prescindere dal volere di Mamerte! Forse non avrò la forza necessaria per farlo, forse non vivrò a lungo… Ma avrò vissuto una vita degna.”
L’altro stava per replicare, ma voci agitate e preoccupate li raggiunsero:
“Sattias!”
“Hostius!”
Quasi contemporaneamente giunsero sulle rive del torrente sia Manlios ed Etrilia, sia Hiccia con Pileius alle calcagna: i sei ragazzi si scambiarono qualche occhiata incerta ed imbarazzata, ma nessuno sembrava trovare le parole giuste per spezzare il silenzio che era sceso sulla radura.
Poi Hostius capì cosa doveva fare: lo vide nella sua mente, chiaro come un riflesso sulla superficie ghiacciata di uno stagno. Come aveva detto Sattias, era la cosa più giusta da fare. Mentre il giovane re si alzava in piedi raddrizzandosi la corona sui capelli, Hostius si buttò ai suoi piedi:
“Potrai mai perdonarmi, mio re?” borbottò “Per averti mancato di rispetto tante volte e per averti abbandonato nel momento del bisogno? Che Sanco mi sia testimone, giuro di proteggere te e le insegne che sorreggi anche a costo della vita!”
Sattias aprì la bocca, pronto per sbuffare e rifiutare una sottomissione così plateale: in fondo entrambi sapevano che non la meritava, che aveva ucciso l’orso perché aveva agito con rapidità ed era stato aiutato dal Fato, che Hostius era più forte ed abile di lui… Però alla fine rimase zitto. Si limitò ad offrire l’avambraccio per aiutare il ragazzo ad alzarsi e con un cenno a Manlios si fece riconsegnare la spada e lo stendardo.
“Assurdo, mi sembrano molto più leggeri!”
I due gruppi tornarono ad essere uno, anche se il silenzio accompagnò il lavoro di coltello sul corpo dell’orso: Sattias insistette affinché prendessero solo la carne e lasciassero lì la pelliccia.
“Ma è un trofeo meraviglioso!” obiettò Pileius, perplesso.
“Sta arrivando l’estate!” replicò lui, stringendosi nelle spalle “Non è un peso utile da trascinare in salita!”
“Proseguiamo verso le montagne?”
“Sì. Se Sabidia sta bene, ormai avrà recuperato il senno e cercherà di ritrovarci, oppure andrà in cerca di un rifugio sicuro. Non scenderà a valle, sa che al villaggio l’aspetterebbe la pena di morte. No, in qualsiasi caso sarà andata verso nord!”
Fiduciosi e pieni di speranza, decisero di risalire il torrente.
“E i guerrieri?” chiese ad un tratto Hiccia, dopo che Hostius ebbe spiegato a tutti la minaccia che incombeva su di loro. “Cosa faremo, se ci capiterà di incrociare il loro cammino?”
Istintivamente portò una mano alla saccoccia che teneva legata al collo e in cui era riposta l’impugnatura d’osso del suo arco, spezzata ed inservibile; il resto era stato bruciato e Pileius, per consolarla, le aveva promesso che alla prima occasione gliene avrebbe costruito uno nuovo. Per una volta Hiccia non aveva trovato nessuna battuta pungente e scostante con cui replicare.
Sattias, però, non aveva una risposta per la sua domanda ed il timore divenne il loro settimo compagno, silenzioso ed invisibile, ma sempre presente.  


Angolo Autrice: 
Beh, Sattias questa volta si è dato da fare ed è riuscito a saldare una frattura che sembrava insanabile! Neanche Hostius è perfetto, ma almeno ha l'umiltà di riconoscere i suoi erroi... Ma ora dove è finita Sabidia, secondo voi?

  Crilu

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Sattias procedeva da solo, pancia a terra, sul terreno reso umido dalla pioggia: aveva iniziato a cadere nella notte, rendendo inutile ogni loro tentativo di accendere un fuoco. La nebbia che era calata insieme a quelle gocce leggere e fastidiose rendeva difficoltoso orientarsi nella foresta sconosciuta.
Perciò Sattias aveva ritenuto più saggio seguire l’idea di Manlios. Liberatisi delle sacche e delle armi che li impacciavano, i quattro ragazzi ed Hiccia erano andati cautamente in avanscoperta, sperando di non imbattersi nei guerrieri sconosciuti o in altri pericoli. Ognuno di loro procedeva senza mai svoltare lungo una diversa direzione: ripercorrendo all’indietro i loro passi sarebbero tornati da Etrilia, posta a guardia dei loro averi.
Il sole era ormai alto dietro le nubi e Sattias sapeva di dover tornare indietro o non avrebbe mai raggiunto i suoi compagni prima dell’arrivo del buio; tuttavia era teso e fremente come un falchetto in procinto di buttarsi fuori dal nido per la prima volta. Si rimproverò, dicendosi che era solo una suggestione dettata dalla strana calma in cui la pioggia aveva gettato il bosco, ma nel suo cuore sapeva che stava per succedere qualcosa di straordinario. Qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita e quella dei suoi compagni per sempre e che si stava avvicinando ad ogni istante, volteggiando sopra al suo capo…
Un grido di donna ruppe ogni equilibrio. Acuto, inconfondibile eppure sconosciuto, si levò dal folto degli alberi, seguito ben presto da altre grida, più roche, sguaiate e crudeli.
“I guerrieri!” pensò il ragazzo, tremando di paura. Con sé aveva solo l’arco e il coltello e Hiccia non aveva avuto molta fortuna con quelle armi…
Quando però udì la donna gridare di nuovo, molto più vicina alla sua postazione di quanto pensasse, non poté ignorarla:
“Forse è Sabidia!” si disse, speranzoso, anche se la voce non gli risultava familiare.
Scattò in piedi, sforzando la sua debole vista per scorgere qualcosa tra i profili nodosi e contorti degli alberi. Intravide una figura guizzante volare su un sentiero incolto alla sua destra: una ragazza stava tentando di arrampicarsi su una vecchia quercia ma le sue mani continuavano a scivolare, facendole perdere la presa. Gli inseguitori non si vedevano da nessuna parte, ma le loro urla riempivano l’aria.
Sattias non esitò un istante di più, corse verso la sconosciuta ed afferrandola per i fianchi la buttò fuori dal sentiero battuto dagli uomini e da altri predatori.
Rotolarono avvinghiati lungo un breve pendio, mentre lei ringhiava e soffiava come un animale selvatico: il ragazzo mugolò quando con le unghie affilate gli impresse sulla guancia quattro graffi a forma di mezzaluna.
“Buona!” sbraitò, afferrandola per i polsi e spingendola a terra, sulla schiena. “Sta’ buona, per tutti gli dei!”
Lei non diede segno di aver capito, anzi, si dibatté più forte, arricciando le labbra in una smorfia di minaccia e rivelando la dentatura più spaventosa che Sattias avesse mai visto sulla faccia di un essere umano: tutti i denti erano stati meticolosamente limati per renderli triangolari ed affilati, così che ora il sorriso della ragazza pareva il ghigno astuto di una faina.
E quando lasciò scorrere gli occhi sul resto del suo corpo minuto, per qualche istante il ragazzo si chiese se non avesse catturato una creatura sovrannaturale: la pelle era molto più chiara della sua, pallida e brillante come la luna; i capelli, nonostante la sporcizia e il sudore di cui erano ricoperti, avevano la stessa sfumatura dell’oro e gli occhi erano azzurri, limpidi ed insondabili. Sattias ebbe l’impressione di star fissando il cielo terso di un pomeriggio di primavera, prima che un colpo improvviso lo facesse cadere all’indietro: la sconosciuta aveva fatto scattare il capo in avanti, rifilandogli una potente testata sul naso, che infatti prese subito a sanguinare.
La ragazza strisciò lontano da lui, barcollando nel tentativo di rimettersi in piedi proprio mentre lui udiva i nemici fermarsi sopra le loro teste: perciò artigliò con mano ferma la sua caviglia, facendola inciampare, le tappò la bocca con una mano e si stese sopra di lei sul manto erboso, ritrovandosi a pregare con sincero fervore qualsiasi divinità potesse venirgli in aiuto.
“Reitia, pothnia theron, madre delle acque e delle selve, nascondici dagli occhi nemici… Dioues Ouersores, guida i loro passi lontano da noi… Tu, Mamerte, e tu, Pico, proteggete il re che avete scelto…”
Qualcuno tra gli dei lo ascoltò, perché dopo minuti che durarono secoli una voce secca ed imperiosa richiamò indietro i guerrieri che stavano esaminando il sentiero: dopo qualche altro fruscio e rumore di terra smossa, Sattias rilassò i muscoli con un sospiro di sollievo.
“Se ne sono andati!” bisbigliò con fare rassicurante all’orecchio della ragazza. Ormai era certo che non potesse capirlo, ma sperava che la dolcezza del tono sopperisse al suono estraneo delle parole sconosciute.
Con sua immensa soddisfazione, la giovane smise di lottare contro di lui e Sattias poté osservarla con più calma: era molto magra e la carnagione pallida le dava un aspetto estremamente fragile; abituato alle forme rotonde e morbide delle donne della sua gente, non riusciva a trovare attraente quel corpo fatto di spigoli e lineamenti taglienti. Con gesti leggeri e cauti scostò un poco la pelliccia di lupo che la ragazza portava sulle spalle: sotto indossava solo una fascia di lana grezza stretta attorno al petto e una tunica di pelle di lepre legata in vita, tenuta insieme da un filo spesso e grossolano; i piedi erano avvolti da stivali di pelliccia alti fino al polpaccio.
“Ha i seni troppo piccoli” commentò tra sé “E fianchi troppo stretti. Morirà al primo tentativo di dare alla luce un figlio e se anche sopravvivesse non riuscirebbe ad allattarlo.”
Eppure si scoprì incapace di distogliere lo sguardo da lei, o di staccare le dita dalle sue braccia. La sconosciuta, infastidita da quell’esame troppo approfondito, cercò di spingerlo via e Sattias, docile, si mise a sedere a qualche passo di distanza, senza mai perderla di vista mentre si riassettava le vesti e sfilava qualche foglia che era rimasta incastrata tra i lunghi capelli.
“Quanti anni hai? Dodici, tredici? Da dove vieni? E perché quei guerrieri ti hanno inseguito fin qui?”
Non poter ottenere risposta per quelle domande lo infastidiva.
All’improvviso si ricordò dei compagni e si alzò in piedi, ma si fermò dopo pochi passi, titubante, perché vide che la ragazza non si era mossa.
“Non posso lasciarla qui, quegli uomini potrebbero tornare! Ma come faccio a spiegarglielo e a convincerla a seguirmi?”
Sospirò e gli occhi cerulei della giovane si piantarono nei suoi, scavando nelle sue iridi come se fosse alla ricerca della sua anima; a tratti, pensò il ragazzo, era davvero una creatura inquietante.
Ciò nonostante si inginocchiò davanti a lei e si poggiò la mano con le dita aperte sul petto, dove batteva il cuore.
“Sattias” scandì, ripetendo il suo nome un paio di volte nella speranza che lei comprendesse.
“Sattias” ripeté la sconosciuta dopo un po’, con una voce che ricordava il gorgoglio di una fonte.
“Bene!” mormorò il ragazzo, portando la stessa mano sul cuore di lei nel tentativo di farsi dire il suo nome. Ottenne però solo un lamento ed uno schiaffo: a quanto pareva, la giovane non gradiva essere toccata sul seno.
Sattias strinse i denti e le labbra quando comprese, almeno in parte, ciò che doveva essere successo.
Si rialzò e fece qualche passo nella direzione in cui era venuto, voltandosi più volte a guardarla e muovendo le braccia per invitarla a seguirlo: si sentì stupido, ma la ragazza non si perdeva nessuna delle sue mosse ed infine concluse che, dato che l’aveva protetta dai suoi inseguitori, non era una minaccia. Quando gli si affiancò, Sattias vide che era alta più di lui e che quegli stessi arti che sul terreno gli erano parsi sproporzionati e giganteschi diventavano improvvisamente aggraziati mentre la sconosciuta saltellava sul sentiero con un’agilità insospettata.
Procedettero in silenzio, con le orecchie tese per captare qualsiasi rumore sospetto che indicasse un pericolo o un’imboscata e Sattias si meravigliò della facilità con cui riuscivano ad intendersi senza parole: condividevano lo stesso istinto e questa era la prova definitiva che aveva di fronte una donna e non uno spirito.
 
“Per tutti gli dei!”
A dare voce ai pensieri del gruppo era stato Hostius, che fissava stralunato la pallida figura con cui Sattias era emerso dal folto del bosco.
“Ti davamo ormai per morto!” borbottò invece Manlios, a metà tra il sollievo e il rimprovero, ma il suo commento cadde inascoltato mentre gli altri si accalcavano attorno alla sconosciuta.
Lei, per contro, soffiò arrabbiata e si strinse contro il fianco del giovane re.
“Chi è, Sattias?” domandò Hiccia, girandole attorno con curiosità.
“Che cos’è, piuttosto!” esclamò Pileius, avvicinando il viso a quello della giovane e ritraendosi di scatto quando lei mostrò i suoi denti aguzzi.
“E’ una donna, mi pare chiaro!” replicò l’arciera, seccata.
“Ma hai visto la sua pelle? E gli occhi, i denti… Mettono i brividi!”
“Non è vero!” intervenne Sattias, lasciando scorrere una mano sulle spalle della ragazza per impedirle di voltar loro le spalle e scappare. Era già stato abbastanza difficile convincerla ad avvicinarsi al fuoco, ma ora i suoi compagni la stavano spaventando.
“Indietro, idioti!” sbottò Etrilia e i ragazzi si scansarono al suo passaggio “Non vedete che è terrorizzata, stanca ed affamata? Probabilmente non capisce neanche ciò che stiamo dicendo!”
“E’ vero!” confermò Sattias “Era inseguita dai guerrieri, ma non sembra comprendere né noi né loro. Credo che fosse una prigioniera che è riuscita a scappare…”
“Beh, per tutti gli dei, questa sì che è una notizia!” mormorò Hostius “Un esserino pelle e ossa come lei è riuscito a sfuggire ai nostri nemici, nonostante le loro armi e i loro cavalli? Sattias, dobbiamo trovare il modo di farci dire come ci è riuscita!”
“Dopo” sentenziò Etrilia, sospingendo gentilmente la ragazza verso il focolare su cui era stata messa a cuocere la tenera carne di una pernice.
“Ora deve riposarsi e mangiare.”
La sconosciuta sembrò apprezzare il calore ed il cibo ed iniziò a guardarli con occhi curiosi e non più ostili; tuttavia, l’unico che voleva avere vicino era Sattias.
Manlios mimò con le dita una corsa, poi afferrò la spada e simulò un grido di battaglia; Etrilia, di solito impassibile, si lasciò sfuggire una risatina, ma l’altra sembrò comprendere, piegando il capo verso l’alto mentre rifletteva.
Raccolse dal terreno un ramoscello verde su cui il fuoco non aveva attecchito e con il piede spazzò il terreno davanti a lei, illuminato a giorno dal focolare anche se ormai era sera inoltrata.
“Che cos’è questa cosa?” domandò Hostius, strabiliato.
“Sta disegnando un territorio! Guardate, quello è un fiume e questa è la cima di un monte!”
Sotto gli occhi affascinati del gruppo prese vita il disegno della foresta e poi delle montagne, con accanto un lungo solco; oltre quella linea, spiegò la ragazza a gesti, c’era una grande distesa di acqua. In cima a tutto disegnò quella che venne interpretata come una casa che poggiava su lunghi pali.
Sattias ne seguì il contorno con la punta di un dito, poi alzò lo sguardo verso la giovane:
“E’ da qui che vieni?”
Le lacrime nei suoi occhi furono una risposta sufficiente. Il terreno venne spazzato di nuovo e dalla punta del ramoscello presero vita le figure alte e minacciose dei guerrieri sui loro cavalli, che rapivano una ragazzina e la portavano vicino alla grande acqua…
“E’ una foglia?” chiese Pileius. Etrilia sbuffò:
“Non vedi che ci sono delle persone, sopra? E’ una barca, una di quelle costruzioni con cui i popoli della costa attraversano il mare ad ovest!”
Tra di loro c’era un uomo temibile, un gigante. Nel tratteggiarlo la mano della sconosciuta tremò violentemente:
“Diomedas!” balbettò.
“Diomedas…” ripeté Sattias, assorto. “E’ la prima volta che sento questo nome!”
Hostius assentì:
“E’ vero, non è di queste parti… Ma non sappiamo quali popoli vivano a nord delle montagne.”
Quando infine accanto a Diomedas la ragazza disegnò sé stessa Sattias fu invaso dalla rabbia: era stata rapita e donata al loro re come un trofeo, per essere battuta e violentata… Con un gesto istintivo e colmo di disprezzo cancellò il profilo del guerriero dalla terra. Gli occhi verdi brillavano di una luce feroce:
“Non gli permetteremo di farti ancora del male. Sei al sicuro con noi, ti proteggeremo da Diomedas e da tutti i suoi uomini!”
“E’ fiato sprecato, Sattias!” ridacchiò Hiccia “Non vedi che non capisce neanche una parola?”
Ma Sattias era convinto del contrario, gli era bastato quel lampo di speranza e riconoscenza che aveva illuminato le iridi della ragazza. Manlios si grattò il capo, confuso:
“Almeno un nome ce lo avrà, questo animaletto selvatico?”
Sattias provò di nuovo ad indicarle il petto e lei si agitò nel tentativo di comunicare:
“Sattias!” esclamò, tutta fiera. Gli altri scoppiarono a ridere, mentre il giovane sentì una vampata di fuoco scaldargli il petto ed il collo, come se avesse bevuto troppo idromele.  
“Sattias…” ripeté lei, più incerta, con tono lamentoso e sommesso.
“No, quello è il mio nome!” replicò lui, imbarazzato “Non puoi averlo, capisci?”
“Sattias!” borbottò di nuovo, ostinata.
“No! Ma insomma… Tu non sei Sattias, tu sei... Laktéa. Laktéa, sì? Va bene? Ti si addice.”
“Sembra piacerle!” osservò Pileius mentre la ragazza faceva scorrere sulla lingua quelle sillabe dal significato a lei sconosciuto.
“E’ deciso, allora. D’ora in avanti, sarà questo il tuo nome.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Laktéa si rivelò più astuta ed esperta di quanto la corporatura gracile lasciasse ad intendere. Li guidò con sicurezza attraverso le montagne, leggendo i segnali che il bosco gli inviava con precisione ed abilità; dopo una settimana di cammino, inoltre, aveva memorizzato già molte parole con cui esprimeva i suoi bisogni. La sua preferita, però, rimaneva ‘Sattias’ ed il ragazzo non riusciva a dissuaderla dal pronunciarla in qualsiasi occasione:
“Fuoco, Sattias!”
“Caccia, Sattias!”
“Sete, Sattias!”
Manlios ed Hostius sembravano trovare quell’abitudine molto divertente. Lui, invece, rimaneva interdetto ogni volta che Laktéa gli rivolgeva uno dei suoi temibili sorrisi, o quando, la sera, si accoccolava accanto a lui davanti al fuoco: l’aveva eletto a suo protettore e questo, invece di gravare sulle sue spalle come un’ulteriore responsabilità, era per lui un motivo d’orgoglio. Quando incrociava i suoi occhi così chiari non ne era più inquietato, anzi, aveva addirittura iniziato a considerarli belli.
Come in quel momento, quando lei si girò a guardarlo, trafiggendolo con quello sguardo freddo come il ghiaccio eppure così pieno di vita; una smorfia preoccupata le irrigidiva i lineamenti:
“Pericolo, Sattias!”
Il ragazzo non fece in tempo a sguainare la spada o ad impugnare l’arco che si ritrovarono circondati e si maledisse per non aver voluto aggirare quel vasto altopiano coperto d’erba e spazzato dal vento.
Osservando meglio gli uomini che li minacciavano con lunghi bastoni, però, capì di riconoscerli e alzò una mano per fermare Hostius e Pileius che stavano per avventarglisi contro:
“Fermi! Sono il popolo delle capre!”
Uno degli assalitori, probabilmente il capo, si avvicinò con circospezione:
“Parlate la lingua dei Sabini, stranieri, ma non riconosco il sigillo sul vostro stendardo, non appartiene a nessuna delle tribù che ho incontrato, e sono molte!”
“E’ il simbolo di un nuovo popolo!” avrebbe voluto replicare il giovane, ma si fermò appena in tempo: non era sicuro di potersi fidare di quegli uomini.
“Credevo che il popolo delle capre non cercasse la guerra con nessuno!”
L’altro assentì con un cenno del capo:
“Dici il vero, ma la guerra è venuta a cercare noi. E’ arrivata dal mare ed ora dilaga nel territorio come una malattia… Vi credevamo gli invasori delle lunghe navi, ma ora vedo che le vostre armi sono in bronzo e non in ferro!”
“Ferro? E’ così che si chiama quel prodigioso metallo?”
“Esatto…”
Il suo sguardo si posò su Laktéa e si socchiuse con sospetto:
“Per la barba di Pan! Cosa ci fa un’henetica a sud delle paludi? Dove l’avete trovata?”
“Non l’abbiamo rapita!” si difese subito Sattias, ponendosi tra l’uomo e la ragazza “Fuggiva anche lei dai guerrieri di Diomedas e noi l’abbiamo accolta. Vecchio, non vogliamo problemi… Siamo in viaggio per cercare una nuova terra da abitare, non popoli da rendere schiavi!”
Un secondo uomo si avvicinò e borbottò qualcosa di incomprensibile, alzando un dito fin quasi a sfiorare la cicatrice che aveva sulla fronte:
“Sta’ bene. Seguiteci al nostro villaggio, stranieri, potremmo aver trovato qualcosa che vi appartiene.”
 
Hostius la vide quasi subito, seduta in mezzo alle altre donne, intenta a districare le fitte matasse di lana da ridurre in fili da tessere.
La voce gli uscì roca e commossa:
“Sabidia!”
Anche lei li aveva visti ed aveva lanciato un urlo di gioia, abbandonando il lavoro per andare loro incontro. Corse ad abbracciare Sattias, ovviamente, ma questo non diminuì il suo sollievo e la sua felicità: Sabidia stava bene, sembrava ben nutrita ed in salute.
“Sono così contenta di rivedervi… Tutti insieme, poi!” rise, raccontando di come si era persa tra i boschi – ed Hostius provò nuovamente i morsi della vergogna quando gli occhi accusatori della ragazza si soffermarono con sdegno su di lui – e di come il popolo delle capre l’aveva salvata dal freddo e dalla fame.
“So cosa pensavano di loro, al villaggio” continuò, abbassando la voce, dopo che si furono riuniti nella capanna del capo tribù. “Ma mi hanno sfamata e protetta anche se non erano tenuti a farlo… Sono brava gente!”
“Mah, secondo me erano pronti a trucidarci!” borbottò Manlios, poco convinto.
“Hanno paura. Paura dei guerrieri di Diomedas.”
La voce di Sabidia si fece più profonda ed angustiata.
“Sono venuti dal mare, arrivarono quando si erano appena sciolte le nevi. Il popolo delle capre li ha incontrati per la prima volta molto più a nord di dove ci troviamo ora, un paio d’anni fa: l’inverno stava arrivando e credevano che non avrebbero mai più rivisto quei predoni. Invece quest’anno sono tornati con più navi, più armi e più uomini!”
“Perché?” chiese Sattias, sfiorando con una carezza leggera i capelli di Laktéa, che sentendo nominare Diomedas si era stretta tremando contro il suo fianco. Gli occhi di Sabidia si soffermarono su di loro un attimo in più del necessario.
“Cosa vogliono? Boschi per cacciare? Terre dove fondare nuovi villaggi?”
“Niente di tutto ciò. Vogliono uomini da portare via sulle loro navi come prigionieri e bestiame e oro da depredare. Uccidono per un bottino, Sattias, non perché sono costretti dalla necessità; non sono guerrieri, ma assassini!”
“Assassini dotati di armi divine!” aggiunse Hiccia con un brivido.
“E sembra che il nostro viaggio ci condurrà proprio tra le loro braccia…” concluse Hostius meditabondo.
Etrilia batté le mani, facendoli sobbalzare:
“Non pensateci ora, amici miei. Siamo stati gentilmente accolti da questa gente: approfittiamone. Riposiamoci, saziamo la fame e calmiamo la sete, dato che ci è stata offerta questa possibilità, così potremmo anche chiedere altre spiegazioni sul popolo di questo Diomedas: il popolo delle capre è sempre in viaggio, conosce più genti e terre di quanto noi potremmo mai immaginare! Quando riprenderemo il cammino sapremo almeno a cosa stiamo andando incontro.”
 
Qualche ora più tardi Sattias fu raggiunto dall’uomo che aveva teso loro l’imboscata, che rispondeva al nome di Corno Nero, e da un vecchio dalla pelle secca e rugosa come quella delle capre che scorrazzavano attorno alle capanne.
“Lui è Grandalbero” disse Corno Nero “Dov’è la ragazza henetica? Grandalbero conosce la sua lingua e vorrebbe parlarle!”
Il ragazzo fu colto da uno strano presentimento che gli fece stringere il cuore:
“E’ andata con le altre donne al fiume, la manderò a chiamare.”
Quando Laktéa arrivò Sattias ne rimase abbagliato: ripuliti dalla sporcizia, i capelli brillavano sotto i raggi del sole, attirando lo sguardo di tutti i giovani maschi.
Grandalbero sorrise, mostrando i denti corti e rovinati dal tempo, prima di rivolgersi a lei in una lingua dai toni aspri e secchi.
“Cosa le sta dicendo?” domandò il ragazzo, afferrando Corno Nero per un braccio.
“Le terre degli henetici sono vicine al nostro rifugio più a nord, che raggiungeremo nel giro di una luna e mezza. Non sappiamo se anche quei territori sono stati devastati da Diomedas; considerando la presenza della ragazza qui, così lontano da casa, temo che quelle tribù siano ormai con gli dei. Ma comunque noi la scorteremo nei luoghi in cui è nata e la aiuteremo a ritrovare quei membri della sua famiglia ancora vivi e liberi!”
Il giovane fu tentato di cedere allo sgradevole impulso di allontanare il vecchio dalla ragazza, perché l’idea di affidarla a qualcun altro gli sembrava insostenibile.
“Calmati” si disse “Non dovresti esserne così afflitto, lei non è una di noi! Non ha alcun motivo per seguirti…”
Laktéa e Grandalbero parlarono a lungo, gesticolando, a volte anche alzando la voce e ben presto molti smisero di prestar loro attenzione; Sattias, invece, pur non capendo una sola parola, stava ben attento ad ascoltare ogni battuta. Ad un tratto Hostius andò a sedersi accanto all’albero su cui si era appoggiato:
“Non otterrai nulla stando qui ad ascoltarli. Devi parlare con lei e sperare che ti capisca.”
“Non voglio ottenere alcuna cosa. Perché pensi il contrario?”
“Perché ho visto come la guardi e so che non vorresti lasciarla andare.”
“Ti stai sbagliando!”
“Può darsi. Però tra noi due tu sei quello che ha più possibilità di tenere con sé la donna che vuole: dopotutto le hai salvato la vita.”
Sattias si impose di ignorare l’agitazione che minacciava di fargli saltare il cuore fuori dal petto:
“La scelta è sua. Non l’ho salvata per poi impedirle di ricongiungersi con i suoi cari!”
Hostius ridacchiò:
“Allora ammetti che ho ragione: tu la desideri!”
L’altro stava per replicare, con la voce resa incerta dall’imbarazzo, quando si accorse che Laktéa aveva iniziato a piangere, lanciando brevi grida sommesse ed artigliandosi i lunghi capelli. Grandalbero sembrava contrariato.
“Cosa succede qui?” chiese Sattias, avvicinandosi a grandi passi e gratificando il vecchio di un’occhiata minacciosa. Quello si strinse nelle spalle:
“La ragazza è mezza scema, temo. Non vuole tornare a casa!”
“Sattias…” mormorò lei, gettandosi ai suoi piedi ed abbracciandogli le ginocchia. Quando alzò gli occhi pieni di lacrime il ragazzo vi lesse tutto ciò che non riusciva ad esprimere a voce:
“Ti prego, non mandarmi via.”
La felicità che sentì montare nel suo animo fu talmente potente ed inaspettata che gli chiuse la gola; e mentre aiutava Laktéa a rialzarsi, mormorando parole a casaccio nel tentativo di rassicurarla e farle capire che mai l’avrebbe abbandonata al suo destino, non si accorse degli occhi furiosi e sconvolti che lo scrutavano.
 
La notte era calata velocemente mentre loro banchettavano insieme al popolo delle capre, gustando la carne che veniva cotta lentamente sugli spiedi e una bevanda scura che donava leggerezza ed allegria, più forte e meno dolce dell’idromele: i loro ospiti la chiamavano “vino” e gli avevano spiegato che nasceva dall’uva, una pianta che alcune popolazioni avevano addomesticato come loro avevano addomesticato le capre.
“Certo che non sarebbe male saper produrre il vino!” borbottò Pileius ad un certo punto. Se ne stava stravaccato su un masso e rischiava di perdere l’equilibrio in ogni momento; Hostius e Hiccia, invece, si sorreggevano a vicenda stando appoggiati l’uno alle spalle dell’altro e accanto a loro Laktéa russava beata. Anche Sattias, che pure era sempre molto prudente ed aveva evitato di abusare della strana bevanda, sentiva la testa girare.
“Ma cosa dici?” biascicò Manlios, aggrottando la fronte “Vuoi diventare un pastore di capre, Pileius? Abbandonare l’onore delle armi per spostarti di luogo in luogo?”
“Potremmo essere tutto!” obiettò l’altro “Noi siamo il popolo del Picchio, i favoriti di Mamerte! Potremmo essere guerrieri e pastori, mercanti e qualsiasi altra cosa ci venga in mente… Possiamo ridurre sotto il nostro dominio ogni pianta ed ogni animale!”
“Tu vaneggi!” rise Hiccia, buttando indietro i folti riccioli. Sattias, invece, trovava quell’immagine meravigliosa e stimolante; tra i fumi del vino vedeva emergere pascoli infiniti, più verdi dei suoi occhi, forti città bianche e maestose e campi dorati come i capelli di Laktéa, che avrebbero sfamato la sua gente per generazioni…
“E’ una visione che può diventare realtà?” si chiese, eccitato. E volendo rifletterci in solitudine decise di accomiatarsi dai compagni, rannicchiandosi sul giaciglio che gli era stato desinato e coprendosi le spalle con una coperta di lana che gli faceva prudere ogni lembo di pelle lasciato scoperto.
Quando poco dopo sorse la luna stava ancora fissando il cielo stellato con gli occhi spalancati, ma era abbastanza lucido da intravedere la figura che si stava avvicinando a lui di soppiatto. Serrò le palpebre e la presa sul coltello che portava sempre legato alla vita, fingendosi addormentato ed aspettando l’attacco; ciò che accadde, però, lo colse ugualmente di sorpresa.
“Ma cosa hai intenzione di fare?” sbraitò, rotolando fuori dal giaciglio e sentendo le guance, le orecchie ed il collo tingersi di un rosso acceso. Sabidia, offesa, si strinse la coperta attorno al corpo nudo:
“Non è evidente?”
“Per tutti gli dei, Sabidia… Dimmi, nel nome di Pico, quando mai ti ho dato l’impressione di gradire le tue attenzioni?”
Lei alzò gli angoli delle labbra carnose verso l’alto, ammiccando con divertimento e convinzione:
“Di certo non le hai respinte!”
Sattias si passò una mano tra i folti capelli castani, guardandosi nervosamente attorno: da un lato desiderava che qualcuno – chiunque – venisse a salvarlo da quella bizzarra e scomoda situazione; dall’altro sperava che nessuno li notasse o c’erano buone probabilità che i suoi compagni lo costringessero a prendere Sabidia come sua compagna, se avessero tratto le conclusioni sbagliate.
“Per favore… Non intendo essere rude come l’ultima volta, non voglio spaventarti né ferirti. Ma questa sera hai passato il segno!”
Il sorriso astuto scomparve dal volto di Sabidia, che si tramutò in una maschera di sale:
“Allora è vero!” sussurrò, costernata “La strega pallida come un morto, l’henetica, ti ha rubato il cuore!”
Sattias stava cercando le parole giuste per spiegarle che il suo disinteresse nei suoi confronti e il legame che aveva stretto con Laktéa erano due questioni distinte, ma non ne ebbe il tempo.
All’improvviso, senza un rumore né un avvertimento, una luce violenta aveva squarciato il velo della notte: la foresta andava a fuoco, stringendoli in una morsa spietata fatta di fiamme e fumo. E tra le lacrime il ragazzo vide stagliarsi su di loro le imponenti figure dei guerrieri di Diomedas.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Sattias scartò di lato appena in tempo per evitare gli zoccoli di un guerriero che puntò verso il centro del villaggio mulinando una spada corta: alte grida di furia, paura e dolore iniziavano a riempire la notte ed il ragazzo, d’istinto, si voltò a controllare Sabidia.
Tirò un sospiro di sollievo quando la vide ben nascosta tra un cespuglio di rovi, dove solo gli occhi terrorizzati potevano rivelare la sua presenza.
“Rimani lì!” ordinò, afferrando la spada di bronzo e correndo alla ricerca degli amici con il cuore in gola. La pesante arma sbatteva contro la sua coscia ad ogni passo:
Ma sarà inutile contro di loro!” pensò, con un singulto di orrore, quando vide un guerriero decapitare Grandalbero con un colpo netto.
“Laktéa!” gridò, tentando di sovrastare il rumore dello scontro “Manlios! Hostius! Etrilia, dove siete?”  
Il panico ebbe il sopravvento sulla sua mente e Sattias vacillò, sentendosi improvvisamente troppo piccolo e debole, un bambino da proteggere piuttosto che un difensore; la prudenza e l’astuzia valevano a poco in quella carneficina. Quando un guerriero lo assalì alle spalle cadde in ginocchio, quasi perdendo la presa sull’elsa della spada, sperando, intimamente, che la lama fredda e spietata del nemico ponesse fine a quell’angosciosa responsabilità… Essere un re incapace di difenderli…
Una freccia centrò con inconfondibile maestria la tenera carne alla base del collo quando l’uomo fu abbastanza sciocco da esporla alla luce delle fiamme; alle sue spalle, il ragazzo avvertì due presenze familiari. Hiccia aveva già puntato l’arco di Pileius altrove e stava attentamente cercando un altro punto debole nelle armature dei nemici; Hostius, invece, lo aiutò a rialzarsi senza dire una parola.
“Gli altri?” chiese Sattias, la voce resa roca dal fumo e dalla paura.
“Avevano preso Etrilia e Pileius è corso ad aiutarla!” ringhiò Hostius e una luce feroce gli illuminò i lineamenti squadrati “Ho perso di vista Manlios e Laktéa quando questi spiriti infernali ci sono piombati addosso! Non hanno fatto alcun rumore, nonostante le cavalcature!”
“Se quello che il popolo delle capre dice è vero” mormorò Hiccia, scoccando una freccia che trapassò il ginocchio di un guerriero, facendolo crollare a terra tra urla di dolore “Allora sono anni che si esercitano con queste imboscate. Non se ne andranno senza il loro bottino!”
Hostius strinse i pugni:
“Beh, il loro bottino dovrà fare a meno di noi!”
Sattias aveva ancora la gola stretta dal timore: non solo per Manlios e per Laktéa, che aveva giurato di proteggere… No, con una punta di vergogna si rese conto di temere soprattutto per sé stesso.
“Non sono un guerriero, non ho alcuna possibilità contro questi uomini. Non voglio morire…”
Poi, però, la sua attenzione fu catturata da una scena che gli fece gelare il sangue nelle vene: riuscì finalmente ad individuare – tra gli uomini che combattevano e le donne che urlavano, tra le capre che belavano, impossibilitate a fuggire dai recinti, e i bambini e i vecchi che piangevano davanti a tanta crudeltà – Manlios. E nell’attimo stesso in cui lo vide, Sattias capì che sarebbe morto: perché aveva messo un piede in fallo, stava cadendo senza alcun appiglio da afferrare, senza scudo né altra difesa, e non c’era modo di fermare la spada che scendeva implacabile verso il suo capo…
Ci fu un lampo, un guizzo talmente veloce che se avesse sbattuto le palpebre non lo avrebbe visto: per un folle istante pensò che fosse il picchio di Mamerte, sceso sul campo di battaglia per difendere il suo popolo, invece era Laktéa, che era balzata giù dall’albero su cui si era rifugiata ed aveva azzannato il collo dell’uomo con la stessa crudeltà sanguinaria di un lupo. Il guerriero urlò, ma ormai il sentiero dalla lama era tracciato e la testa di Manlios rotolò a terra, divisa dal corpo, inondando la roccia di sangue scuro.
Laktéa cadde di lato, soffiando minacciosa all’indirizzo dei nemici che la stavano circondando, mentre da qualche parte arrivò l’urlo inarticolato di Etrilia, che si divincolò dalle braccia di Pileius e corse verso il marito, o quel che ne restava.
Per tutta la sua vita, anche quando la memoria e la mente avrebbero iniziato a venir meno, Sattias avrebbe ricordato con estrema precisione tutti i dettagli di quella notte: gli occhi inespressivi di Manlios, che tante volte l’avevano osservato con affetto, spalancati sul cielo che non avrebbero mai più potuto vedere; il suo corpo che lentamente cadeva a terra, privo della vita e dell’energia che lo avevano animato fino a poco prima, e poi quello più piccolo e fremente di Laktéa mentre le strappavano le vesti di dosso, i suoi lamenti ed il fuoco, sempre più vicino, pronto a divorare ogni cosa…
Il timore divenne rabbia, il dolore ferocia. E al ragazzino impaurito si sostituì un uomo.
 
Laktéa riuscì a colpire con un calcio il ghigno arrogante del soldato quando quello fu abbastanza incauto da sollevare l’elmo per osservarla meglio. L’attimo in cui l’uomo allentò la presa sui suoi fianchi fu sufficiente per divincolarsi e svicolare via come un’anguilla, uno di quei pesci sinuosi che la sua gente catturava con lunghi spiedi fatti di canne. Il sangue su cui continuava a scivolare aveva la stessa consistenza appiccicosa e viscida della pelle di quei pesci, ma era molto più scuro e sprigionava un odore penetrante che rischiava di darle alla testa. I guerrieri erano tutt’intorno a lei, Laktéa sentiva le loro risate, percepiva il loro fiato sul corpo che avevano parzialmente spogliato e gli occhi sulle sue gambe nude; non osava voltare il capo di lato, perché sapeva di non potersi permettere distrazioni come il corpo massacrato di un amico riverso sull’erba.
Viaggiava con i Pikentii da pochi giorni, ma erano bastati affinché Laktéa capisse di aver trovato in loro una nuova casa: avevano diviso il pane con lei senza esitare, le avevano offerto il calore del loro fuoco e la protezione delle loro armi.
E poi c’era Sattias. Sattias che l’aveva salvata, accolta ed accettata nonostante fossero così diversi; Sattias che la capiva senza dover conoscere la sua lingua, perché gli era sufficiente osservarla con i suoi saggi e profondi occhi verdi; Sattias che forse giaceva scomposto da qualche parte, come il suo migliore amico, mentre la sua anima scendeva nella terra dei morti piangendo la luce ed il vigore abbandonati troppo presto…
Laktéa non credeva negli dei, di questo era certa: li aveva invocati fino a seccarsi la gola quando era stata catturata, ma nessuna divinità era balzata fuori dalle edicole di legno poste nei boschi sacri per correre in suo aiuto. Tuttavia, quasi inconsapevolmente, quando riconobbe nell’assassino di Manlios quel volto teso in un crudele sorriso di vittoria, Laktéa pregò.
“Ho due possibilità” pensò poi, acquattandosi sui talloni e liberandosi della pelliccia di lupo che la impacciava nei movimenti “Morire trascinando questi bastardi con me fino alla porta di Culsu o vivere per vedere nuovi orrori.”
Non era poi una scelta così difficile.
Ma proprio mentre lui si chinava per sollevarla dal terreno e caricarla sul suo cavallo, mentre lei gridava di rabbia preparandosi a colpirlo con il coltello duro e freddo che stringeva tra le dita, la punta di bronzo di una lancia trapassò il collo della cavalcatura.
La bestia nitrì, imbizzarrita, prima di crollare sulle ginocchia nodose e rovinare a terra; il guerriero, però, era molto più abile di tutti i suoi compagni ed era già balzato a terra, atterrando ben saldo sulle gambe. Dietro il cavallo agonizzante, sullo sfondo del villaggio in fiamme, si stagliarono tre volti assetati di sangue: Hostius, i denti storti stretti in un ghigno feroce, si abbatté come una furia sui guerrieri sconcertati, strappando ad uno la spada ed utilizzandola per massacrare gli altri; Pileius, con gli occhi cangianti accesi dal dolore, aveva abbandonato l’arco e con grazia ed agilità sferrava precisi attacchi con il coltello, recidendo tendini e giugulari. Sattias piantò a terra lo stendardo con un suono secco e il picchio verde sembrò prendere il volo mentre il pezzo di stoffa veniva agitato dal vento: i capelli bruni erano sporchi di cenere e sangue e la sua pelle riluceva per il sudore mentre a grandi passi si dirigeva verso Laktéa.
Il capo dei guerrieri lo osservò pensieroso per qualche istante, prima di gridare un comando secco che fece accorrere in suo soccorso numerosi uomini.
Il cuore della ragazza mancò un battito quando li vide lanciarsi sul giovane come lupi affamati, ma Sattias non perse mai la calma: con lo sguardo glaciale fisso sull’assassino di Manlios affrontò un nemico dopo l’altro senza mostrare pietà. Miracolosamente la lancia non venne spezzata dalle lame di ferro e quando alla fine i due si trovarono faccia a faccia, attorno a loro giacevano numerosi corpi insanguinati.
Il guerriero scoppiò a ridere, una risata rauca e sinceramente divertita, prima di togliersi l’elmo, rivelando lineamenti squadrati, una pelle baciata dal sole e una lunga capigliatura bionda.
E’ giovane” si disse Sattias, studiandolo alla ricerca del suo punto debole “Sembra avere la mia stessa età.”
Lo straniero mormorò qualcosa nella sua lingua, stendendo le labbra carnose in un sorriso beffardo mentre estraeva la lunga spada, che alla luce del fuoco mandava lampi argentati.
Laktéa li vide correre l’uno verso l’altro senza riuscire a reagire: rimase ad osservarli combattere, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime quando vedeva la lama tagliente della spada sfiorare troppo da vicino il corpo del ragazzo.
Ad un tratto Sattias affondò la lancia sotto il braccio teso del nemico, trovando la carne morbida del fianco: tuttavia, seppur barcollante ed accecato dal dolore, l’altro non cadde, anzi, scartò di lato così velocemente che Sattias non fece in tempo ad estrarre l’arma e la lancia si spezzò con un sonoro schiocco, che risuonò come un tuono nonostante le grida ed il roborare del fuoco.
E’ perduto!” pensò Laktéa, trovando finalmente la forza di rizzarsi sulle gambe malferme e guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa che l’aiutasse a salvarlo.
Non ne ebbe il tempo, però, perché mentre il guerriero si slanciava su Sattias, zoppicando per la punta di lancia che aveva ancora infissa nel fianco, Hiccia, poco distante, alzò l’arco e scoccò: la freccia disegnò un arco perfetto nel cielo buio e calò implacabile sul nemico, trapassandogli la fronte. Lui rimase in piedi qualche altro istante, con la bocca aperta nell’ultimo grido di guerra e gli occhi che si spalancarono stupefatti mentre la luce della vita li abbandonava; poi cadde a terra, scomposto, affondando il viso nel terreno già umido di molto altro sangue.
Sattias, ansante, voltò le spalle al cadavere, incurante delle urla degli invasori che si ritiravano scompostamente dopo la morte del loro capo; non gli importava neanche del magnifico bottino – l’armatura, la spada magica, lo scudo – che si lasciò alle spalle e che gli venne sottratto quando i nemici sollevarono il corpo per portarlo via.
Si accorse di star piangendo solo quando le lacrime gli offuscarono la vista; avvertì delle piccole mani accarezzargli le guance per asciugarle e la gratitudine nei confronti di Laktéa, oltre che il sollievo di saperla sana e salva, minacciarono di farlo svenire.
Quando il momento di debolezza passò, Sattias si trovò davanti uno spettacolo inaspettato: i sopravvissuti del popolo delle capre si aggiravano come fantasmi attorno alle loro capanne distrutte, invocando i nomi dei cari dispersi, ma i suoi amici erano tutti raccolti attorno allo stendardo che sventolava sotto la debole luce dell’alba. Hostius e Pileius avevano deposto lì sotto il corpo mutilato di Manlios ed Etrilia sedeva a gambe incrociate in mezzo a loro, accarezzando con disperata devozione la testa che teneva sulle ginocchia.
“Eccolo lì, il mio popolo” pensò, ed un moto d’orgoglio gli scaldò il petto, attenuando un poco il dolore per la perdita dell’amico. Rimasero in silenzio a lungo, assaporando l’incredibile sensazione di essere ancora vivi contro tutte le previsioni, percependosi per la prima volta non come un gruppo di ragazzi condannati dal destino, ma come una famiglia unita nel lutto.
“Dobbiamo seppellirlo” mormorò Sattias alla fine.
“Qui?” domandò Etrilia con voce tremante. Era la prima volta che la vedevano smarrita e confusa. Era evidente che il pensiero che avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle anche la tomba del marito, per non rivederla mai più, la riempiva di sgomento. Sabidia le posò le mani sulle spalle:
“Gli costruiremo una bella tomba e chiunque passerà da questi monti si fermerà ad onorarlo. Lo sai che non possiamo fare altrimenti.”
 
“E’ una bella tomba davvero” pensò Sattias qualche giorno più tardi davanti alla bassa e tozza montagna di pietre che indicava il luogo in cui riposava il corpo di Manlios. Quando il dolore della perdita fu tale da costringerlo ad allontanare lo sguardo, Sattias lo posò sui compagni che rendevano a Manlios l’ultimo tributo; ognuno di loro aveva infilato nel sudario un piccolo oggetto che speravano potesse essere utile all’amico nell’aldilà. Perfino Laktéa, evidentemente estranea a quell’usanza, non aveva esitato a poggiare sul cuore del ragazzo il piccolo coltello di selce che portava infilato nel mantello di pelliccia.
“Credete che torneranno presto?” chiese Hiccia, osservando, pallida in volto, la devastazione che i guerrieri avevano portato nel villaggio. Con grande sorpresa di tutti, a rispondere fu Laktéa:
“No presto” mormorò, lanciando una veloce occhiata spaventata a Sattias “Sattias uccide figlio di Diomedas. Diomedas furioso, ma funerali prima di tutto. Dopo… Dopo Diomedas cerca uomo con picchio.”
Le minacciose implicazioni di quella scoperta aleggiarono per qualche istante nell’aria, prima che Sattias scuotesse il capo bruscamente, come per scacciare una mosca:
“Non è prudente avventurarci oltre da soli, dato che siamo un piccolo gruppo: Diomedas e i suoi guerrieri troverebbero facilmente le nostre tracce e noi non saremmo in grado di respingerli. Il popolo delle capre va a nord… Uniamoci a loro. Conoscono la strada meglio di noi e saremo al sicuro.”
Etrilia, che quella mattina non aveva ancora aperto bocca, stirò le labbra in un sorriso sinistro:
“Non l’hai ancora capito, Sattias? Finché Diomedas avrà respiro, noi non saremo al sicuro in nessun luogo…”


Angolo Autrice: 
Sono cattiva? Sì, sono cattiva. Ma questo era un mondo spietato, quindi era improbabile che tutti giungessero vivi alla fine del viaggio :(

   Crilu

 

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Capitolo 9
*** Capiolo 8 ***


Il sole del tardo pomeriggio bagnava ogni cosa in una calda luce dorata. Sattias, approfittando di quelle ultime ore di luce, si era arrampicato su un albero per godere della vista che si dispiegava ai piedi delle montagne. Le rocce lasciavano ben presto spazio ad erba e morbida terra scura e in lontananza le colline digradavano dolcemente verso la pianura; dalla sua postazione a strapiombo su un abisso il ragazzo poteva vedere anche il resto della catena montuosa che curvava alla sua sinistra e proseguiva verso nord, nascondendo alla sua vista le terre dove Laktéa era nata.
“Da qualche parte, in quella direzione, c’è il mare…”
I guerrieri di Diomedas sembravano essere scomparsi: non solo il convoglio con cui viaggiavano non era stato più attaccato, ma nessuno degli uomini che avevano mandato in avanscoperta era riuscito a trovare le loro tracce. Sattias, tuttavia, non si illudeva ed esortava sempre i suoi compagni alla prudenza. Non che ce ne fosse bisogno: la perdita di Manlios era una ferita ancora aperta che, se da un lato li aveva uniti, dall’altro aveva esacerbato gli animi. Non passava giorno senza che Sattias si trovasse a fare i conti con l’arroganza di Hostius, o con la gelosia di Sabidia e i battibecchi che dividevano lei e Laktéa; anche Pileius, che dopo Manlios era sempre stato il più cauto ed equilibrato, si lasciava spesso andare a scatti d’ira.
Si passò una mano tra i capelli, sbuffando per la frustrazione: in momenti come quello la solitudine tornava a mordergli il cuore e nelle sue orecchie risuonava la risata cristallina del suo migliore amico. C’erano stati giorni, in quel mese di viaggio, in cui Sattias si era voltato con gli occhi spalancati, convinto di aver intravisto la figura di Manlios più indietro lungo il sentiero, o nascosta in mezzo agli alberi; ma era solo una suggestione.
Un fruscio gli fece abbassare lo sguardo: Laktéa si era accovacciata ai piedi dell’albero ed osservava con interesse il paesaggio sotto di loro. Aveva iniziato a portare i capelli legati alla maniera del popolo delle capre per patire meno il caldo, scoprendo il collo candido e la fronte alta, increspata da una ruga di preoccupazione.
“Ti sei pentita di non aver accettato la proposta di Corvo Nero?” domandò il ragazzo a bruciapelo, chinandosi dal ramo su cui si era appollaiato. Laktéa piegò le labbra in un sorriso divertito, ma non rispose né lo guardò: mentre si abituava agli usi e ai costumi del suo popolo l’affetto nei suoi confronti si era fatto più discreto e Sattias spesso si chiedeva se non si fosse immaginato quella istintiva complicità che li aveva legati fin dal loro primo incontro.
“Sei ancora in tempo, sai” borbottò, infastidito. “Domani mattina il popolo delle capre continuerà verso nord mentre noi scenderemo a valle, secondo le visioni di Etrilia… Nessuno ti obbligherà a venire con noi!”
Finalmente la ragazza alzò il capo verso di lui:
“C’è forse qualcuno che mi obbligherà a non farlo?”
Sattias sapeva che si stava riferendo a Sabidia e al suo comportamento ostile:
“No. Sarai sempre la benvenuta tra di noi.”
“Allora non vedo alcun motivo per cui dobbiamo separarci” mormorò pigramente la ragazza, riportando gli occhi di ghiaccio sulla valle che si faceva più indistinta mentre la notte scendeva.
“Bello” sussurrò in un soffio, stringendosi la pelliccia sulle spalle.
“Lo è” confermò lui, scendendo dall’albero con un balzo e rischiando di scivolare giù per il pendio.
“E’ questa la valle che Mamerte vi ha destinato?” ridacchiò Laktea.
Una delle cose che Sattias più apprezzava di lei era il malcelato disprezzo che covava nei confronti degli dei: in un mondo di magia e rituali aveva finalmente trovato un’anima affine.
“Lo spero.”
Questa volta lo sguardo della ragazza si fermò su di lui più a lungo:
“Cosa hai intenzione di fare, una volta concluso il viaggio?”
“Vorrei sposarti” pensò Sattias “Darti dei figli e una casa in cui crescerli. Osservare il nostro popolo fiorire e sperare che non abbia mai fine. Di tutto il resto, della corona, dell’onore e delle guerre, non mi importa nulla.”
Quelle parole, però, gli rimasero incastrate in gola e quando Hiccia li chiamò per cenare, Laktéa si allontanò senza attendere la sua risposta.
 
Attraversare quel largo fiume si era rivelato più difficoltoso del previsto: sebbene il fondale fosse basso, la corrente era sostenuta ed il fondale scivoloso.
“Per tutti gli spiriti!” borbottò Pileius, allungando un braccio per aiutare Laktéa a salire sull’argine fangoso “Etrilia, manca ancora molto?”
“Non lo so” fu la sincera risposta. Da quando il suo compagno era morto, le visioni della giovane sacerdotessa si erano fatte più dolorose ed oscure da interpretare.
Una cappa di sconforto gravava sul gruppo mentre, dopo un breve momento di riposo, riprendeva la marcia; un trillo familiare, però, fece scattare lo sguardo di Sattias verso l’alto alla ricerca di una brillante figura verde. Dopo qualche istante il picchio scese in picchiata verso di loro, atterrando sul prato a qualche passo di distanza.
Tutti trattennero il fiato mentre l’uccello li squadrava ad uno ad uno con gli occhietti intelligenti e vivaci; tutti si chiedevano perché era apparso proprio in quel momento, nel bel mezzo del nulla.
“Siamo arrivati?” chiese Hostius, speranzoso.
La sua voce baritonale spezzò l’incanto ed il picchio spiccò nuovamente il volo, sfiorando lo stendardo che pendeva floscio dal bastone prima di virare velocemente verso destra.
Senza neanche doversi consultare i ragazzi iniziarono a correre, terrorizzati dall’idea di perdere la loro guida che solcava i cieli con leggerezza ed eleganza e si faceva ogni istante più lontana sull’orizzonte. Sattias, appesantito dalla spada, dalla corona e dallo stendardo, fu l’ultimo a raggiungere l’albero su cui il picchio si era posato.
L’animale si stava lisciando le piume tra i rami di un eschio frondoso, una pianta giovane ma già robusta, che offriva un fresco riparo dalla calura del solleone.
“E’ qui” mormorò il giovane re, mentre sollievo ed esultanza gli riempivano il petto fin quasi a farlo scoppiare.
“Possiamo fermarci” gli fece eco Etrilia, con gli occhi fissi su qualcosa che nessun altro poteva vedere “Mamerte ordina di fermarci!”
Ma a Sattias degli ordini di Mamerte importava ben poco, ora che avevano trovato un posto da chiamare casa.
 
Meno di una settimana dopo, Hiccia era di nuovo in viaggio. Non perché non le piacesse il luogo che avevano scelto per edificare il villaggio: la conca in cui cresceva l’eschio solitario era ricca di selvaggina e fonti, un posto perfetto da abitare. Proprio per questo, il fatto che la valle fosse disabitata la riempiva di sospetto.
Aveva perciò chiesto ed ottenuto il permesso di esplorare il territorio circostante, alla ricerca non solo del pericolo più noto e minaccioso, Diomedas, ma anche delle popolazioni confinanti che potevano rivelarsi ostili. In quella mezza giornata di cammino non aveva ancora incontrato segnali di presenza umana, ma non fu sorpresa quando percepì una presenza alle sue spalle.
“Pileius, nel nome di Pico, esci da lì!”
Il ragazzo sbucò dagli arbusti, scostandosi i capelli dagli occhi con aria imbarazzata. Hiccia, d’istinto, accarezzò l’arco che il giovane le aveva regalato come promesso: non aveva alcuna impugnatura in osso, ma il legno era stato inciso di simboli beneauguranti e lei lo usava bene quasi quanto il vecchio.
“Sattias lo sa che mi hai seguito?”
“No…”
La ragazza spalancò gli occhi:
“Sei impazzito? Potrebbe punirti per questo!”
“Sattias è saggio e capirà le mie ragioni. Ma in ogni caso, meglio una punizione che non vederti tornare.”
Hiccia sentì le guance bruciare come tizzoni ardenti e si voltò per non darlo a vedere:
“Come se avessi bisogno della tua protezione!” esclamò, con voce leggermente incerta.
Pileius si avvicinò e con insospettato coraggio le afferrò la mano che tormentava un ciuffo di ricci ribelli:
“Quattro occhi sono meglio di due, no?”
Un attimo dopo era piegato in due per la gomitata che lei gli aveva rifilato sulle costole.
“E sia, ma vedi di non rallentarmi, altrimenti ti lascio indietro!”
Nonostante il dolore al petto, il ragazzo si affrettò a seguirla con un sorriso raggiante sul volto.
 
Sattias si asciugò il sudore dalla fronte, esausto ma soddisfatto: la capanna di legno che stava costruendo sembrava solida e capace di mantenerlo all’asciutto.
“Già, peccato che mi aspettino solo notti solitarie, qui dentro!”
Laktéa, infatti, sembrava più che contenta di condividere una casa con Etrilia ed ignorava la presenza fastidiosa di Sabidia.
“Devi fare qualcosa” gli aveva detto la sacerdotessa. “Hostius si strugge per Sabidia e gli dei sono favorevoli alla loro unione.”
“La decisione non è mia da prendere, Etrilia”
“Sei il re. Se non tu, chi?”
“E’ giunto il momento di parlarle, sì” pensò, vedendo Sabidia distogliere lo sguardo da quello innamorato e gentile di Hostius. Le andò incontro con passo incerto e una smorfia sul viso che tradì le sue intenzioni, perché la ragazza aggrottò la fronte di colpo:
“E’ successo qualcosa?” domandò, ansiosa.
“No, nessun pericolo” rispose Sattias “Però vieni, siediti con me.”
Si accoccolarono davanti alla capanna appena costruita ed osservarono in silenzio una lucertola che si scaldava al sole sopra ad una piccola pietra. Il giovane si morse l’interno della guancia, a disagio:
“E’ venuta su bene, non è vero?” borbottò poi, indicando con un cenno del capo la sua nuova casa. Sabidia annuì con eleganza, senza sorridere:
“Davvero. Ma non credo che tu mi abbia portata qui per chiedermi di entrare nella tua casa come sposa, vero, Sattias?”
Lui sbatté le palpebre un paio di volte:
“Ho tentato di fartelo capire per anni e tu non mi hai mai creduto. Perché ora è diverso?”
La ragazza si strinse nelle spalle:
“E’ vero, non mi hai mai ricambiato, ma finché il tuo cuore era libero potevo continuare a sperare. Ho tentato anche di sottrarlo a Laktéa, ma sembra proprio che tu abbia fatto la tua scelta!”
Sattias balzò in piedi come se fosse stato morso da un serpente:
“Questo non c’entra niente con… Il fatto che io… Eravamo bambini, Sabidia…”
La piccola mano di Sabidia si strinse sulla sua:
“E ora non lo siamo più. Lo capisco, dico davvero, e rispetto la tua scelta. Ma non puoi chiedermi di esserne felice, perché anche se eravamo bambini io ti ho sempre amato come solo una donna può amare un uomo. E temo che questo non cambierà mai.”
Mentre la osservava allontanarsi, Sattias pensò che in apparenza non era cambiato nulla: Sabidia si muoveva con la stessa eleganza e fierezza e con la stessa andatura seducente, consapevole della propria bellezza.
Eppure il ragazzo sapeva anche che qualcosa, in quell’assolato pomeriggio di fine estate, si era spezzato per sempre.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Hiccia era oltremodo confusa; non dal paesaggio sconosciuto, o dai piccoli gruppi indigeni che avevano incontrato e neanche dal comportamento impacciato e nervoso di Pileius.
No, era confusa da sé stessa e dalle sensazioni che provava quando il suo sguardo si posava sulla figura alta e magra del ragazzo. Lo conosceva fin da quando era bambina, ma da quando l’aveva salvata aveva iniziato a guardarlo, suo malgrado, con occhi più attenti; ed ora che viaggiavano da soli, quella riluttante attrazione la metteva a disagio.
A volte Pileius sembrava essere venuto al mondo con il preciso scopo di infastidirla: si preoccupava per lei, le offriva i bocconi migliori della cacciagione e quando le rivolgeva la parola le regalava sempre uno di quei sorrisi caldi e speranzosi che le facevano attorcigliare le viscere.
Ma soprattutto, Hiccia detestava sentir montare la rabbia quando Pileius si attardava con le ragazze dei villaggi che incontravano: in quel momento, ad esempio, stava tentando di comunicare con una ragazzina bruna e paffuta che lo osservava con aria sognante.
“Non si sa perché, poi!” pensò con uno sbuffo infastidito “Non è forte e robusto come Hostius e non ha i bei lineamenti che aveva Manlios… Anche Sattias, con quegli occhi verdi, risulta più attraente di lui! Gli occhi di Pileius cambiano colore in continuazione e non stanno mai fermi… Tranne quando si posano su di me.”
Inquieta e decisa a non interrogarsi ulteriormente sul disagio che le opprimeva il petto, Hiccia fece pressione per ripartire il più in fretta possibile. Si era fatta un’idea abbastanza precisa della vallata in cui stavano costruendo il nuovo villaggio e delle colline circostanti, ma voleva spingersi ancora più a nord perché aveva sentito parlare di un insediamento di greci posto vicino al mare che poteva costituire una vera minaccia. I greci, infatti, avevano fama di essere un popolo di sapienti molto versati nell’arte della guerra.  
“Potevamo anche rimanere lì per la notte, sai” borbottò Pileius dopo un po’ “Non avrebbe fatto alcuna differenza, tranne quella di avere un tetto sopra la testa per dormire!”
“E un coltello piantato nella gola!” replicò lei cupamente, con il respiro leggermente ansante dato che il sentiero curvava verso l’alto. L’aria sapeva di sale, segno che il mare non doveva essere lontano.
“Che cosa? Ma sei impazzita? Era un villaggio ameno ed ospitale!”
“Non ho specificato quale gola!” ghignò intimamente la ragazza, ripensando alla brunetta formosa. Il suo corpo, invece, era duro ed allenato dalle corse nella foresta, le mani erano piene di calli dovute all’arco e i capelli, non curati, le ricadevano spenti e smorti ai lati del viso: c’era da dubitare che un uomo potesse trovarla bella…
Quel pensiero fu talmente inaspettato ed imbarazzante che Hiccia incespicò sul terreno, rischiando di perdere l’equilibrio, ma Pileius fu abbastanza veloce da trattenerla per un braccio:
“Ti sei fatta male?”
“No, sto bene.”
“Te l’avevo detto, che dovevamo fermarci e riposare! Sattias può…”
Ma non finì la frase, perché un grido lontano li zittì entrambi: una seconda voce rispose, sempre nella lingua dei guerrieri di Diomedas.
“Sembrano lontani!” bisbigliò Pileius, acquattandosi per istinto tra le foglie del sottobosco. Hiccia lo imitò e strisciando arrivarono fino alla fine del sentiero, dove gli alberi si diradavano su uno spiazzo d’erba secca a picco sul mare: sotto di loro, su una stretta lingua di sabbia, i guerrieri nemici, numerosi come mai prima d’ora, stavano partendo.
Le vele delle loro navi venivano scosse dal vento mentre gli uomini le spingevano in acqua, mentre altri radunavano i prigionieri in catene e il bestiame trafugato durante le incursioni; anche i cavalli venivano condotti per la cavezza sulle barche, attraverso strette passerelle di legno che scricchiolavano sotto quel peso.
“Che spettacolo spaventoso…” balbettò Hiccia, a corto di saliva. La reale potenza dei loro nemici la colpì come un pugno allo stomaco e la riempì di terrore; fu grata a Pileius quando lui l’attirò tra le sue braccia mormorando parole tranquillizzanti e solo l’ultimo, sciocco residuo di orgoglio le impedì di piagnucolare come una bambina.
“Calma, Hiccia!” le sussurrò il ragazzo all’orecchio, accarezzandole i capelli e le braccia per fermare il tremito che si era impossessato del suo corpo “Vedi? Se ne stanno andando!”
“Ma torneranno!”
“Non prima della prossima primavera. Per allora, saremo pronti ad accoglierli!”
 
Sattias si rigirava la sottile corona di bronzo tra le dita, indeciso se porsela sul capo o riporla accanto al giaciglio di pelli sfatto che occupava gran parte della capanna.
Era un giorno di festa, dopotutto, e il cerchio dorato non avrebbe sfigurato sopra alla veste più preziosa che possedeva, una tunica bianca bordata di porpora, dono del popolo delle capre per l’aiuto che avevano ricevuto.
Tuttavia, il ragazzo non sapeva se Sabidia avrebbe apprezzato una tale formalità al suo matrimonio; Hostius, ne era certo, era troppo emozionato e felice per badarci.
“Ma lei? Non le ho quasi più parlato da quel giorno… Siamo diventati due estranei.”
Ultimamente frammentati ricordi della loro prima infanzia avevano iniziato a turbare il suo sonno: momenti rubati alla severa educazione di Aia, in cui tutti e sette si erano concessi il lusso di essere bambini, nuotando nudi nel fiume prima che l’età, il pudore e le invidie li separassero.
Uscì dalla capanna stringendo ancora la corona tra le dita, in tempo per veder comparire Sabidia, adorna di fiori freschi e stranamente serena in volto.
Quando Hostius era venuto a chiedergli il permesso di sposarla, il primo impulso di Sattias era stato quello di negarglielo e non perché si rammaricasse della sua scelta: non avrebbe mai potuto amare Sabidia come lei meritava, dato che l’unica donna che avesse mai desiderato era Laktéa.
Tuttavia era anche scettico sulle fondamenta di quel rapporto e temeva che da una tentata violenza non potesse nascere nulla di buono; con una punta di arroganza e vergogna, si era chiesto se Sabidia non avesse accettato la proposta di Hostius per ripicca o amarezza.
Ma vedendola procedere sicura verso il marito che aveva scelto, Sattias si lasciò scappare un sospiro di sollievo: forse quell’unione non si fondava su una grande passione amorosa da parte di lei, ma non c’era rimpianto nelle sue iridi scure ed il sorriso che gli rivolse pareva sincero.
Si avvicinò ai due sposi e ad Etrilia, che officiava la cerimonia, fermandosi esattamente davanti a Laktéa, in modo da poter studiare il suo volto senza essere notato.
Mentre osservava Hostius e Sabidia pronunciare il giuramento e bere dalla coppa rituale il ragazzo arricciò le labbra in un ghigno divertito:
“Certo che per essere il primo matrimonio di un nuovo popolo è ben misera cosa! Hiccia e Pileius non sono ancora tornati, Laktéa sembra indifferente alla cerimonia e Manlios…”
Irrigidì i muscoli del collo e delle spalle al pensiero dell’amico perduto, ma l’unica che si accorse del lampo di dolore che gli attraversò lo sguardo fu Laktéa e mentre Etrilia procedeva con il sacrificio per rendere grazie agli dei ed interrogarli sul futuro degli sposi la ragazza gli si accostò in silenzio.
D’istinto Sattias cercò la sua mano per trovare conforto e lei strinse le sue dita di rimando:
“Solo noi sappiamo comunicare così!” pensò il ragazzo, deglutendo a fondo per l’emozione “Trasmettendo nei gesti tutto ciò che non sappiamo dire a parole!”
L’urgenza di rendere più concreta quell’ineffabile sensazione lo fece sorridere.
“Vieni con me!” sussurrò, con gli occhi che scintillavano, senza degnare di uno sguardo gli altri amici che stavano per consumare le delicate carni del capriolo offerto in sacrificio.
Il limpido sguardo di Laktéa si colmò di stupore, poi di comprensione ed infine di un’emozione selvaggia e ferina che Sattias sapeva di avere riflessa sul viso.
Scivolarono via dal modesto banchetto ridendo come mai in vita loro, corsero fuori dal villaggio senza guardarsi indietro e si fermarono, ansanti, solo una volta superato il fiume.
Sattias si lasciò cadere sull’erba umida vicino alla riva e trascinò Laktéa giù con sé, al sicuro tra le sue braccia, mentre lei si divincolava per poterlo guardare negli occhi e catturare le sue labbra con un bacio, accarezzandogli le guance con le dita sottili: quando si separarono avevano il fiato corto e le iridi verdi del ragazzo erano torbide ed affamate.
Sattias fece scorrere le mani su quel corpo che all’inizio aveva giudicato scarno e poco attraente, per poi iniziare a giocherellare con le ciocche bionde strette in una treccia sulla sommità del capo:
“Sposami” domandò in un soffio “Resta con me”
Sulla faccia di lei si dipinse un sorriso triste mentre poggiava il palmo sul petto del ragazzo, nel punto in cui il cuore batteva all’impazzata:
“Io sono già con te.”
“Resta con me come mia moglie, come mia regina!”
Quell’improvviso accenno al comando la turbò:
“Io non faccio parte del vostro popolo, non so quasi nulla delle vostre tradizioni…”
“E cosa vuoi che me ne importi!” la interruppe lui con impazienza “Non voglio sposarti per generare un erede, ma perché ti amo, Laktéa! Voglio te e se la tua risposta sarà no allora resterò da solo, ecco.”
Laktéa sorrise di nuovo, con indulgenza:
“Oh, Sattias” bisbigliò, liberandosi con un calcio degli stivali e scrollandosi di dosso la pelliccia di lupo “Non fare promesse che non puoi mantenere… Posso giacere con te, ma non diventerò tua moglie”
Sattias le afferrò i polsi con rabbia un attimo prima che potesse sciogliere la fascia che le cingeva i seni.
“Cosa ti frena? Il fatto che sei stata costretta a dividere il letto con Diomedas? Io non mi curo di questo!”
Il labbro inferiore di Laktéa tremò, ma lui non accennò a lasciarla andare.
“Non ho diviso il letto con lui” mormorò alla fine, a voce così bassa che Sattias credette di aver immaginato quella frase.
“Cosa hai detto?”
“Diomedas non mi ha violata” spiegò lei, con tono più alto “Non gliel’ho permesso, io… Ho aspettato che si ubriacasse, l’ho tramortito con una pietra e sono fuggita. Quell’uomo è forte come un toro ed astuto come una volpe, ma è anche vecchio e non regge più il vino. No, non è questo… E’ che io non voglio più avere paura per qualcuno: sarei costretta a vederlo partire per la guerra e convivere con l’incertezza ed il timore per la sua sorte. Non voglio fare la stessa fine di Etrilia, non voglio pensare che un giorno mi ritroverò a piangere sulla tua testa mozzata: lei almeno ha i suoi dei a cui chiedere conforto, ma se tu morissi… Sattias, se tu morissi io non avrei più nessuno. Sarei di nuovo sola, questa volta per sempre.”
A corto di parole, per qualche istante il ragazzo si limitò a fissarla con gli occhi spalancati, nei quali si rifletteva tutto il suo turbamento. Poi la presa sui polsi di lei si fece più leggera, trasformandosi in una carezza:
“Proprio perché non ci è dato conoscere il domani dovremmo godere dell’oggi” mormorò “Non voglio giacere con te per un piacere effimero, Laktéa. Voglio farlo con la consapevolezza che, notte dopo notte, potrò stendermi ancora al tuo fianco. Voglio farlo sapendo che per ogni giorno che gli dei mandano su questa terra tu continuerai ad amarmi… Perché mi ami, non è vero?”
Nel sentire quel tono incerto, da animale ferito, Laktéa sbuffò, per metà commossa e per metà divertita.
“Certo che ti amo, sciocco!”
“Allora, vedi, è troppo tardi per temere di soffrire ancora: che tu lo voglia o no, i nostri destini si sono già intrecciati.”
Sattias lasciò infine che la ragazza liberasse entrambi dal peso fastidioso dei vestiti ed accarezzò il corpo pallido con una riverenza ancora maggiore di quella che aveva sempre professato nei confronti degli dei.
Mentre la adagiava sull’erba e la osservava con meraviglia ed orgoglio, per la prima volta fu contento che Mamerte l’avesse scelto per quell’ardua e pericolosa missione che l’aveva portato tra le braccia di Laktéa.
Mentre affondava nel suo corpo, maledicendosi per il dolore che le stava infliggendo e per il sangue che bagnava le loro gambe, pensò anche che non c’era posto al mondo in cui avrebbe preferito essere.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Sattias alzò gli occhi quando si sentì chiamare da una voce acuta ed eccitata. Dal centro del villaggio vide un bambino bruno ed ossuto corrergli incontro, saltando le buche scavate per erigere la palizzata e schivando gli uomini al lavoro attorno a lui.
Il giovane sorrise e alzando una mano per richiamare l’attenzione dei compagni esclamò:
“Riposatevi un poco, amici: le giornate iniziano a farsi calde ed è dura lavorare sotto il sole.”
Gli uomini, quasi tutti più grandi di lui, acconsentirono con un cenno del capo e qualche breve mormorio di ringraziamento: si trattava di gente del posto, per lo più contadini e pastori che durante l’inverno avevano trovato un riparo tra le capanne del villaggio dei Piceni, la gente del picchio.
Era quello il nome con cui Sattias sentiva chiamare sé stesso e i suoi compagni e mentre le case si moltiplicavano attorno al giovane eschio, il suo popolo accoglieva uomini e donne di tutte le età. In cambio della sua ospitalità e protezione quelle famiglie decimate dai guerrieri di Diomedas – che per tutta l’estate avevano imperversato sulla regione come una piaga funesta – avevano insegnato ai sette giovani come preparare i campi per una buona semina ed offerto i loro greggi come sostentamento.
Sattias era orgoglioso di ciò che avevano costruito in poco più di otto lune e non si risparmiava alcuna fatica per apportare continue migliorie: più che per la sua forza o la sua ferocia, veniva rispettato per l’ingegno che applicava in ogni opera. A sedici anni compiuti il suo corpo era ancora minuto e gli sembrava che la vista fosse addirittura peggiorata, tanto che ormai non seguiva neanche più i suoi compagni a caccia; tuttavia, per la prima volta nella sua vita non si sentiva né inferiore né inadeguato al compito che gli era stato affidato e nei momenti più felici – come quando Laktéa gli aveva confidato di aspettare un figlio – si era addirittura spinto a ringraziare gli dei per quello che gli avevano concesso.
A volte nella sua mente risuonavano le parole della profezia fattagli da Etrilia molte lune prima: si era bagnato nel sangue di Diana quando aveva salvato Hostius dall’orso e in quello di Ikiperu il giorno in cui aveva sottratto a sua moglie la sua verginità, ma l’ultimo verso rimaneva un oscuro mistero. Come avrebbe potuto, lui solo, sconfiggere Mamerte?
Tuttavia, Sattias si sforzava di dimenticare quei presagi, cosa che gli risultava più difficile quelle sere in cui la sacerdotessa lo fissava assorta, con gli occhi accesi da una luce folle che non apparteneva al mondo dei mortali.
Martus si fermò ansante davanti a lui con un gran sorriso sul volto infantile: era un orfano che Pileius aveva scoperto a rubare nei dintorni del villaggio e Sattias si era guadagnato la sua eterna fedeltà decidendo di non punirlo e di prenderlo con sé. Sebbene avesse solo sette anni, era un abile pastore e non smarriva mai le capre che gli venivano affidate.
“Mio re!” disse, quando ebbe ripreso fiato “Hiccia è tornata!”
Sattias sentì un’ondata di sollievo e felicità invadergli il petto: Hiccia e i suoi esploratori erano partiti da quasi una luna e mezza, diretti verso il porticciolo fondato da alcuni mercanti greci su un promontorio a diversi giorni di cammino più a Nord. Si chiamava Ankón ed era una cittadina che raccoglieva ogni sorta di notizia proveniente dal mare.
Spolverandosi la tunica coperta di trucioli di legno Sattias si diresse fischiettando verso il centro del villaggio, dove intravedeva le sagome dei cavalli appena arrivati, seguito da presso dal piccolo Martus.
Hiccia fu la prima ad andargli incontro, mentre attorno a Pileius si era formato un piccolo cerchio di donne e vecchi interessati ad ascoltare le ultime novità: sebbene quei due si muovessero sempre insieme, non c’era alcun dubbio su chi fosse il più amabile e diplomatico.
“Ti trovo bene, Sattias”
“Lavorare alle nuove mura mi fa bene” commentò lui con un’alzata di spalle.
Gli occhi scuri della ragazza si incupirono:
“Temo che ci serviranno presto, forse prima di quanto tu creda. I guerrieri di Diomedas sono tornati.”
 
Ai piedi dell’eschio erano stati accesi numerosi fuochi per riscaldare gli uomini che si erano riuniti a discutere della nuova minaccia: sebbene i venti primaverili avessero già spinto le navi di Diomedas sulle loro coste, le notti erano ancora fredde.
Sattias sedeva tra le radici nodose dell’albero e spezzettava assorto i fili d’erba tra i suoi piedi mentre ascoltava le voci concitate dei suoi sudditi farsi sempre più alte. Aveva indetto quella riunione per ricevere consigli, ma iniziava a pensare che non sarebbero mai arrivati ad una soluzione: tutti erano spaventati dai nemici e consapevoli che il villaggio non avrebbe mai potuto difendersi da un loro attacco.
Lasciò vagare lo sguardo sui suoi compagni: Hostius, che cingeva protettivo le spalle di Sabidia e le accarezzava il ventre che aveva appena iniziato ad ingrossarsi, Hiccia che stava discutendo animatamente con uno dei pastori e Pileius, a braccia incrociate accanto a lei, che cercava di fermarla. Etrilia si era ritirata nel bosco vicino a pregare.
Laktéa si inginocchiò accanto a lui, stringendo i denti: come aveva immaginato la prima volta che l’aveva vista, la gravidanza non era facile per lei e Sattias era contrariato che avesse lasciato il letto.
Il suo primo figlio avrebbe visto la luce di lì a poche settimane in un clima di violenza e paura:
“Ora mi sembra di capirvi, padre” pensò il ragazzo, rievocando il viso serio ed incavato dell’uomo che era stato costretto ad abbandonarlo “Dove sarò quando mio figlio nascerà? Come farò a proteggerlo da una cosa tanto più grande di me?”
Anche sua moglie lo fissava preoccupata, stringendosi a lui come i primi giorni, quando ancora non capiva la lingua, non si fidava degli altri e Sattias era l’unico punto di riferimento in un mondo sconosciuto.
Il brusio si fece insopportabile ed il giovane si alzò in piedi in preda alla rabbia:
“Silenzio! Non serve a nulla agitarsi come lepri prese in trappola! I guerrieri di Diomedas sono ancora sulle rive del mare!”
Hiccia si fece avanti:
“Hai ragione, ma non possiamo rimanere qui ad aspettarli. Credo che siano greci, Sattias: hanno chiesto aiuto agli abitanti di Ankón e loro gliel’hanno accordato. E’ un vero e proprio esercito quello che si prepara a marciare contro di noi!”
“Per forza!” borbottò uno dei contadini a mezza bocca “Per i greci di Ankón siamo poco più che bestie da soma!”
“Non abbiamo alcuna possibilità contro Diomedas!” sibilò un altro, a voce più alta “Vuole vendetta per la morte di suo figlio: spazzerà via ogni resistenza pur di arrivare al re! E noi saremo fatti tutti schiavi! Dobbiamo fuggire!”
“E abbandonare ciò che abbiamo costruito con tanti sacrifici?”
La voce di Hostius vibrava di sdegno ed orgoglio in egual misura.
“Mai! Noi siamo guerrieri, vecchio!”
“Ma siete in pochi. Molti di noi non sanno neanche tenere in mano una spada!”
Sattias fece un passo avanti e la folla ammutolì: alla luce del fuoco le iridi smeraldine scintillavano come fiaccole. Iniziò a parlare in tono lento e pacato:
“Alcuni di voi suggeriscono di correre ad affrontare i nemici, altri di barricarci tra queste deboli mura, altri ancora di abbandonare ogni cosa e cercare rifugio altrove, dove Diomedas e i suoi guerrieri non potranno mai arrivare. Credo che dovremmo applicare tutti e tre questi suggerimenti.”
Dopo qualche momento di sconcerto fu Hiccia a farsi avanti:
“Cosa intendi dire?”
“Le donne, i bambini e chiunque non abbia la forza o il coraggio necessario per impugnare un’arma devono allontanarsi, e in gran fretta anche: non sappiamo quanto tempo ci resta prima dell’arrivo del nemico. Anche noi abbandoneremo il villaggio, dopo averlo spogliato di ogni cosa: non affronteremo Diomedas qui.”
“E dove allora?”
“Sulle montagne, un territorio che non conosce e che rallenterà i cavalli. Se dobbiamo batterci, facciamo in modo di vincere: è chiaro che non abbiamo alcuna speranza in campo aperto, ma tendendogli un’imboscata dovremmo riuscire a recuperare lo svantaggio dei numeri.”
Diverse ore più tardi, quando il sole iniziò a rischiarare i rami dell’eschio, Sattias si ritirò esausto nella sua capanna: avevano discusso a lungo sui sentieri da seguire e su ciò che dovevano portare via dal villaggio, dato che coloro che non avrebbero preso parte alla guerra sarebbero partiti quella sera stessa. Trovò Laktéa rannicchiata sul letto di legno e pelli che aveva costruito per lei, scossa dai singhiozzi:
“Vai via!” ringhiò, sottraendosi al suo tocco. “Sta accadendo ciò che avevo temuto e tu non fai nulla! Nulla!”
“Sto cercando di proteggervi entrambi. Non è abbastanza?”
La ragazza voltò il viso rigato di lacrime verso di lui:
“No. Sopravvivere sarebbe abbastanza. Venire con noi e proteggere tuo figlio e vederlo crescere sarebbe abbastanza. Invece hai scelto di difendere un pugno di assi di legno!”
Sattias l’afferrò per le spalle, inchiodandola sotto il suo peso per evitare che fuggisse:
“E’ davvero questo che credi? Pensi che mi importi più di questo villaggio che di te e del bambino o del mio popolo? Tutto quello che faccio, Laktéa, lo faccio per te. Non voglio lasciarvi inermi di fronte ad un nemico impossibile da sconfiggere, voglio porre fine a questa minaccia.”
“E se morissi?”
Sattias le accarezzò la guancia con un sorriso triste:
“Allora sarebbe per una buona causa.”
 
Hostius accarezzò con riverenza il ventre della moglie, poi le lasciò un bacio tra i capelli: sapeva che sarebbe stata al sicuro, ma il dolore minacciava di spaccargli il cuore in due e l’ansia per non essere con lei a proteggerla lo pungolava costantemente.
“Non ti affaticare troppo” si raccomandò “Anche Laktéa è incinta, resta vicino a lei e non avere paura di fermarti lungo la strada se ti senti stanca.”
Lei annuì ed Hostius si sentì assalire dalla solita malinconia: Sabidia non l’avrebbe mai amato come aveva amato Sattias, o come lui l’amava. Con un ultimo gesto del capo caricò sul mulo i loro ultimi averi e fece per andarsene: molti uomini lo attendevano per l’addestramento e…
“Hostius?”
Gli occhi scuri della ragazza erano pieni di lacrime:
“Sì?”
“Tornerai a prendermi?”
In due passi era di nuovo accanto a lei e la teneva stretta, sperando che bastasse per non farle ripetere quella dannata domanda e che lui non fosse costretto a deluderla.
No, Sabidia non lo avrebbe mai amato con la passione folle e cieca dell’infanzia, ma forse avevano la possibilità di costruire qualcosa di diverso. Desiderava solo avere abbastanza tempo per scoprirlo.
 
Etrilia si estraniò dalla confusione attorno a lei, dai mormorii angosciati delle donne, dalle preghiere dei vecchi, dai lamenti dei bambini: voleva parlare con gli spiriti, ma da quando Manlios era morto tutto era diventato molto più difficile. Quando provava ad elevarsi dal mondo umano per arrivare più vicino agli dei, infatti, il dolore la colpiva al cuore come una pugnalata, facendola ripiombare al suolo come un uccello a cui avessero tarpato le ali.
“Dove siete?” chiese, tentando di non cedere al panico quando gli dei rimasero muti.
“Dove siete? Perché ci avete abbandonati?”
 
Pileius si accostò silenziosamente ad Hiccia, che scrutava il sentiero da cui sarebbero apparsi i guerrieri: i Piceni li attendevano da giorni, nascosti in mezzo alle rocce. Avevano già trovato e bruciato il villaggio e cavalcavano per tutta la valle, ma nessuno sapeva quando avrebbero deciso di inseguirli sulle montagne. Neanche Etrilia, che aveva seguito le donne, i vecchi ed i bambini nei rifugi del popolo delle capre.
“Lascia, faccio io” borbottò il ragazzo in tono brusco. “Va’ a riposare”
“Non sono stanca.”
“Non mi importa. Non voglio che tu stia qui da sola ad aspettarli!”
“Perché?”
Pileius la fissò con i suoi occhi cangianti, insondabili e tristi: per diversi istanti Hiccia pensò che non le avrebbe risposto. Poi lui le voltò le spalle, mettendosi tra lei ed il sentiero:
“Vai, Hiccia.”
“Domani a quest’ora potremmo essere carne per i vermi, perciò voglio sentire cosa hai da dirmi”
Il ragazzo emise un soffocato verso di frustrazione, ma prima che potesse risponderle qualcosa catturò la sua attenzione: molto più in basso di loro, sulla linea dell’orizzonte, era apparso uno scintillio che non aveva nulla di naturale.
“Sono qui” mormorò Hiccia “Bisogna avvertire Sattias!”
Il bacio arrivò inaspettato: Pileius la trattene per un braccio e se la strinse al petto mentre si chinava su di lei per catturare la sua bocca.
“Curioso” pensò la ragazza, stordita, saggiando la consistenza di quelle labbra, dure e fredde fuori e calde come lingue di fuoco all’interno. Quando si separarono non erano passati che pochi momenti, eppure il mondo sembrava irrimediabilmente diverso.
Pileius – i cui occhi avevano finalmente assunto un colore definito ed erano grigi come le armature dei loro nemici – si allontanò di un passo, serio in volto come Hiccia non l’aveva mai visto.
“Vorrei che tu non fossi qui” confessò infine con voce amara, prima di correre via ad avvertire gli altri.
Hiccia restò, muta e sola, ad osservare il nemico che si avvicinava.
 
Sattias alzò il braccio destro: gli arcieri incoccarono le frecce in silenzio e il sibilo delle corde tese si confuse con il fruscio delle fronde.
Acquattati tra gli alberi e sulle rocce, i Piceni attendevano il momento propizio per attaccare i guerrieri che procedevano lentamente sul sentiero sotto di loro, rallentati dal terreno impervio e dalla ritrosia delle cavalcature.
In testa a tutti c’era l’uomo più imponente che Sattias avesse mai visto: un colosso coperto di ferro e che procedeva con feroce determinazione.
“Diomedas”
Lanciò un’occhiata ad Hiccia e Pileius, inquieti come tutti gli altri arcieri: sapevano di avere un’unica possibilità per colpire quanti più nemici possibili senza subire perdite.
Quando Sattias capì di non poter aspettare oltre chiuse la mano a pugno e gli arcieri scrutarono il drappello, scegliendo un obiettivo e puntando le frecce verso le gole dei loro nemici; con il cuore che batteva al ritmo di tamburi di guerra immaginari, il ragazzo abbassò il braccio.
Una pioggia di dardi si innalzò nel cielo con un fischio di morte, coprendo per un attimo la luce del sole: i guerrieri di Diomedas alzarono il capo appena in tempo per vedere le punte di bronzo delle frecce cadere verso di loro. Alcuni furono abbastanza veloci da alzare gli scudi e ripararsi dietro di essi; altri, invece, caddero da cavallo con gemiti strozzati, colpiti a morte. I greci di Ankon, che procedevano a piedi, a quella vista si diedero alla fuga e Sattias trattenne a stento un grido di trionfo.
Solo Diomedas sembrò rimanere indifferente all’imboscata: né lui né lo stallone fulvo che montava reagirono alle frecce che si infransero nel terreno lì intorno.
Il silenzio scese di nuovo sulle montagne e per un solo istante sospeso i cavalli piegarono all’indietro le orecchie, prevedendo la tempesta, le membra degli uomini si tesero, pronte a scattare, e anche le nuvole in cielo si aprirono, come per offrire agli dei uno spiraglio per affacciarsi ad osservare la battaglia.
E poi tutto finì ed iniziò: i Piceni serrarono i denti lanciandosi sul nemico dai lati e dall’alto, tagliando i garretti delle cavalcature per farle rovinare a terra, arrampicandosi con la furia della disperazione sopra ai guerrieri per tagliargli la gola.
Sattias ne vide morire molti in quel primo attacco, prima che si riavessero dalla sorpresa e si riorganizzassero seguendo i rauchi ordini di Diomedas, che con la sua spada falciava chiunque osasse avvicinarsi.
Il ragazzo venne trascinato dal tumulto, badando a farsi spazio con la lancia, l’unica arma che gli permettesse di evitare lo scontro diretto: la paura e l’angoscia gli serravano le viscere, ma neanche per un attimo pensò di arretrare.
“Forse Mamerte aveva visto giusto. Forse sono più coraggioso di quello che credessi.”
Quell’attimo di distrazione gli costò un dolore lancinante alla gamba. La punta di ferro di una freccia si era fermata appena prima di spaccargli l’osso e Sattias si lasciò sfuggire un gemito di dolore quando tentò di estrarla senza successo: i barbagli presenti sui lati del dardo gli arpionavano e laceravano la carne, allargando la ferita.
Un’ombra apparve ai lati del suo campo visivo e per istinto si buttò di lato, evitando per un soffio il fendente di Diomedas. Il guerriero torreggiava su di lui con l’elmo a forma di testa di lupo, che lasciava intravedere solo gli occhi – azzurri e slavati, eppure accesi di una luce vivissima – e qualche rada ciocca di capelli bianchi che svolazzava nella brezza.
Diomedas alzò la spada verso di lui in un muto invito a battersi e Sattias, zoppicando, si tirò in piedi. Iniziarono a girare in cerchio come due belve pronte ad azzannarsi, studiando l’avversario con pari odio e determinazione; nessuno osò interromperli, anche se gli scontri attorno a loro si fecero via via meno confusi e violenti. Molti, sia tra i guerrieri nemici che tra i Piceni, si fermarono ad osservare il singolare duello.
Sattias sentiva la tensione crescere dentro di sé e fiutava nell’aria l’eccitazione del vecchio guerriero, che già pregustava la vittoria su un ragazzino debole e ferito.
E capì in anticipo ciò che sarebbe successo, prima ancora di vedere Diomedas slanciarsi su di lui, prima ancora di alzare la lancia: comprese tutto nell’attimo in cui riconobbe sul pettorale dell’armatura la figura di un dio possente armato di lancia, un dio sanguinario, un dio della guerra…
La spada tagliò l’aria, perché Sattias si era già appiattito a terra, piantando la base della lancia nel terreno: Diomedas, incapace di recuperare l’equilibrio dopo l’affondo, non riuscì a frenare la propria caduta. Urlò quando la punta di bronzo trovò la strada verso il suo viso, ma in breve quel ruggito si stemperò in un gorgoglio e Sattias, ancora rannicchiato a terra, venne inondato dal sangue che colava lungo l’asta della lancia, tanto che per un attimo ne venne accecato.
Si pulì in fretta da quella sostanza disgustosa, frenando i conati di vomito e sforzando la gamba ferita per rimettersi in piedi, pronto a combattere ancora.
Ma non ce n’era bisogno: i guerrieri di Diomedas avevano già rotto i ranghi, fuggendo spaventati davanti alla morte del loro re, ripiegando disordinatamente verso la valle…
Nessuno dei Piceni pensò di mettersi al loro inseguimento: erano certi, infatti, che i predoni del mare non sarebbero tornati mai più.


Angolo Autrice: 
E anche questa storia giunge al termine :) manca infatti solo l'Epilogo, che pubblicherò la prossima settimana! 

  Crilu

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Capitolo 12
*** Epilogo ***


Sattias si chinò ad osservare il cadavere steso sul carro con il petto agitato da sentimenti contrastanti: spogliato dell’armatura e delle armi, Diomedas non sembrava più la reincarnazione di Mamerte.
Era solo un vecchio canuto con la pelle fragile e rugosa, segnata dalle cicatrici di mille battaglie. Etrilia aveva ricomposto il volto sfigurato dalla lancia in un’espressione di pace impescrutabile e sugli occhi erano state poggiate due monete di ferro, alla maniera dei Greci.
Il giovane re contemplò quei freddi e beffardi dischi argentati per qualche altro istante, prima di far segno al conducente di poter partire: nel siglare l’accordo di pace gli abitanti di Ankón avevano preteso che il corpo del guerriero venisse loro restituito e Sattias non aveva avuto nulla da obiettare a quella richiesta.
Si avviò zoppicando verso i resti del suo villaggio, osservando con mestizia le mura ormai completamente bruciate e la sua amata capanna distrutta:
“Quasi un anno di lavoro perduto!”
Anche Laktéa stava osservando assorta le rovine, accarezzandosi distrattamente il ventre, ma quando lo vide venirle incontro le sue labbra si aprirono in un sorriso.
“Onore a Sattias, l’ammazzadei!” ridacchiò, usando l’appellativo che Pileius aveva coniato un paio di sere prima mentre era del tutto ubriaco.
“Oh, andiamo…” borbottò il ragazzo, imbarazzato.
“Ci hai salvato, Sattias, lascia che gli altri lo raccontino. Diomedas è morto e i suoi guerrieri non torneranno più a minacciare le nostre case, ma non ti illudere: avremo altri nemici e altre guerre da combattere.”
“Lo so” replicò lui, scuro in volto “Che senso ha tutto questo, secondo te? Perché vincere per poi dover lottare ancora ed ancora, fino a che, come Diomedas, non saremo troppo vecchi e stanchi per sconfiggere il nostro nemico?”
La ragazza gli prese il viso tra le mani e lo costrinse ad alzare lo sguardo verso l’eschio, miracolosamente scampato al fuoco:
“Se c’è un senso, lo conoscono solo quegli dei in cui io e te non crediamo. Ma guarda bene: eccolo lì, il motivo per continuare a lottare.”
Tra le fronde che dondolavano pigramente nella brezza Sattias riuscì a scorgere il profilo di un nido: sopra di esso un picchio verde si godeva il primo sole di primavera ed aspettava, paziente, che le sue uova si schiudessero.
 
Licios, figlio di Sattias, era venuto al mondo di notte dopo lunghe ore di travaglio, mettendo a dura prova il corpo di sua madre. Ma osservando Laktéa che stringeva orgogliosamente a sé quel piccolo fagotto, Hiccia non poté far altro che concludere che forse ne valeva davvero la pena.
Il villaggio festeggiava le mura appena ultimate, ma lei se ne stava in disparte ad osservare il vino che scorreva a fiumi, e pensava alla vita che si era scelta.
Si chiese cosa ne sarebbe stato di lei quando le forze l’avrebbero abbandonata e chi, tra i Piceni, si sarebbe fatto carico di una vecchia cocciuta e scorbutica; con un sospiro frustrato, poggiò il capo contro la parete di una capanna.
Sattias aveva insistito affinché fossero tutte ricostruite in pietra per evitare gli incendi e per fortuna avevano scoperto, non troppo lontane da lì, cave di roccia bianca, abbastanza calcarea da poter essere scavata ma non abbastanza da essere rovinata dalla pioggia. Il risultato era che quel modesto villaggio, in pochi mesi, si era trasformato in una città degli dei: i Piceni si erano addirittura guadagnati il rispetto di Ankón, ora loro alleata.
Tuttavia la ragazza non riusciva a reprimere un brivido quando, durante i suoi viaggi, si ritrovava a passare davanti al santuario che i greci avevano costruito sulle ossa di Diomedas.
“Cosa fai qui, tutta sola?”
La voce di Pileius alle sue spalle la fece sobbalzare. Il bacio che si erano scambiati prima dello scontro sembrava ormai appartenere al mondo dei sogni e anche se Hiccia rievocava spesso il sapore delle sue labbra aveva imparato ad evitare la sua compagnia il più possibile.
“Riflettevo” mormorò.
Lui annuì, come se avesse capito, e nascose a fatica un sorriso, posando gli occhi cangianti sul piccolo Licios che si agitava tra le coperte in cui era stato avvolto:
“Un bambino vivace. Deve aver preso da Laktéa”
Hiccia si lasciò sfuggire una risata:
“Hai ragione, Sattias non è mai stato così vispo!”
“Anch’io vorrei che i miei figli somigliassero alla loro madre…” continuò lui, come se non l’avesse sentita.
“Ah… Sì?”
“Sì. Diventerebbero molto forti, veloci e coraggiosi.”
“Ed indisciplinati e testardi. No, non sarebbe una buona idea!”
Lui si strinse nelle spalle con un sorriso astuto:
“Penso di essere abbastanza buono e caritatevole per entrambi, tu che dici?”
Rimasero a fissarsi in silenzio per qualche istante, poi Hiccia scosse la testa, esasperata.
“Per tutti gli dei, Pileius!” sibilò tra i denti prima di alzarsi sulle punte e baciarlo, sentendo riecheggiare una risata nella gola del ragazzo.    
Sopra l’eschio, il picchio verde chiuse gli occhietti tondi e si accoccolò meglio nel suo nido: la sua gente non avrebbe avuto bisogno di lui per molto, molto tempo. 




E con un immenso ritardo, ecco anche l'epilogo! Sorry xD

  Crilu

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