Amore antico

di swimmila
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** …volto a mezzogiorno ***
Capitolo 2: *** Nella luce dell’ombra ***



Capitolo 1
*** …volto a mezzogiorno ***


Questa storia è un gioco di luci ed ombre ispiratomi per caso dal termine latino anticus, che vuol dire
 
…volto a mezzogiorno

L’alba cercava un posto da cui osservare la figura alta e magra che si aggirava, silenziosa, fra i bisbigli insonni della fontana, ma non era soddisfatta del suo punto di osservazione. La figura, col suo passo pacato e privo di sfumature, pareva indugiare sempre un attimo prima del suo biancore, come se avesse un segreto da amare alla luce dell’ombra. Occhieggiò allora fra le fronde del tiglio, l’alba precoce col suo offeso bagliore. Aprì brecce in cuoriformi sussurri; avvistò accucciata fra bordi merlati; spintonò verde che incespicò in oro.
La figura intanto incedeva incurante sul selciato pezzato d’ombra, eludendo le trappole di chiarore. Si guardava attorno con alacre indolenza; sollevava il viso su ciclicità sorprendenti; esclamava ammirazione con sguardi sfavillanti.
Decise di allargarsi, l’aurora ormai gallata, strappando il cielo in candori rabbiosi.
La figura adesso se ne stava seduta davanti agli zampilli argentini della fontana, col suo segreto bene in ombra e il viso a cercare il buio nell’alba irritata.
Un’ombra splendente, nel lontano avvicinarsi di un’altra figura, attirò la bistrattata attenzione della curiosa luce del sole crescente. La seconda figura raggiunse la prima sul bordo della fontana, dove sedette assieme al suo insonne segreto.
Sotto lo sguardo aperto del giorno, l’una sotto un occhio d’ombra, l’altra sotto quello di luce, le due figure s’intendevano nell’eucaristico silenzio dei loro segreti: l’uno nascosto nei sotterranei del cuore, l’altro scolpito nelle rune dell’anima.
Lo sguardo volto verso l’alto, la figura che amava alla luce dell’ombra ombreggiava l’aria compitando un amore impossibile in parole disposte sulla finzione di un’amichevole sfida.
Dal suo canto caldo e condolente, il segreto insonne fingeva educato di accettare il duello, osservando la sua fida amarezza iridarsi negli spruzzi ormai assordanti della fontana. Aveva passato la notte a vegliare su un’angustia che gli sgallava l’anima. Ad immaginarla, al piano di sopra, in preda al suo stesso desiderio che bruciava al piano di sotto. Ma per un desiderio che le dormiva due piani sopra.
Il sole presiedeva soddisfatto, adesso. Le vedeva entrambe, le due figure e i loro segreti. Una, quella che amava alla luce dell’ombra, era ferma dietro l’ombra delle prime migrazioni che le scorreva addosso senza vederla. L’altra, quella che insonne cullava un segreto, scorreva immobile sull’immobile scorrere del tempo.
 
Li osservava da dietro la finestra, nei grumi di chiarezza che via via ammonticchiavano i bordi del buio. Era sveglia da un pezzo.
Da un pezzo combatteva contro dita scantate che pizzicavano corde che credeva nascoste.  
Da un pezzo cercava di finire di abbottonarsi la camicia, ma le dita inciampavano impacciate nell’asola dell’emozione. Il Conte di Fersen, sotto l’ombra del tiglio, lanciava nell’aria occhiate di spaesato sollievo e stupito piacere. Era tornato dalla guerra quando la guerra era ormai il soddisfatto ricordo di una ripicca. Era smagrito, ma non aveva perso vigore e avvenenza. L’aveva sorpresa, accettando in una pudica commozione il loro invito a restare a palazzo Jarjayes. Avevano insistito, lei e André, ma Oscar non era certa che avrebbe accettato. Il Conte di Fersen non aveva mai accettato un suo invito. E invece stavolta l’aveva sorpresa. Come solo l’inaspettato sa fare.
Aveva cominciato dal basso, chiudendo la fermezza nel primo bottone.
Era mattiniero, il Conte di Fersen. Ma anche lei non aveva quasi dormito, come da mesi ormai le accadeva.
Il giorno si dibatteva ancora nel silenzio della notte in cui era rimasto impigliato: era il momento ideale per incastrarvi le chiacchiere.
Aveva continuato chiudendo la decisione nel secondo e terzo bottone.
Un attimo prima di voltarsi, le mani ancora calme sui lembi della camicia, lo aveva visto comparire. Il sole saliva svelto e risoluto e quei capelli corvini rilucevano come lustrini mentre affondavano morbidi nei fasci di luce. Un calore languido le scese rapidamente dallo stomaco fino a scioglierle le gambe, e le sue mani d’avorio sognarono di affondare in quelle morbide onde d’ebano.
Aveva proseguito chiudendo il tremore nel quarto bottone.
Era in genere mattiniero, André, ma non fino a quel punto. Eppure non c’era traccia di torpore sul suo viso, ma di sola limpidezza. Era aperto, il suo sguardo. E cortese il sorriso. Da dietro la finestra della sua camera Oscar non riusciva a sentire le loro voci. Ma se provava a seguire il movimento delle sue labbra, se si concentrava sulla sua bocca ….. la poteva immaginare scenderle sulla pelle in voluttuosi palpiti di rovente piacere.
Deglutì dolorosamente di vuota solitudine.
Si era fermata, le dita bloccate nel turbamento dell’ultimo bottone.
Con un sussulto si allontanò dalla finestra. Aveva i brividi. Forse era l’aria carica di rugiada.
Forse era un peritante ti amo affacciato alla troniera della procacità.
 
§§§§§§

Il sole si era accomodato, e dal suo scranno antico conquistato in ore di ascesa gettò un lungo sguardo verticale. Che c’era ancora tempo per inclinarlo sulle balze del rimpianto.
Sotto la sua splendente intransigenza due figure si agitavano come anime in pena. Balzavano in avanti con esclamazioni prestanti; si ritraevano fulminee nelle plaghe del dolore. Una delle due ad un tratto stese il braccio e affondò la spada nell’imprecisione lasciata dalla guardia disattenta dell’altra. Schioccò il gesto in un gridolino secco senza strascichi che dall’alto della cima del sole sembrò il rimprovero ad un segreto amato nell’ombra rotolato nella luce sotto l’improvviso scossone.
L’altra figura raccolse in fretta il segreto che incauto aveva lasciato nella sua guardia insonne e accarezzandolo lo adagiò in un angolo in compagnia della promessa del suo ritorno. Il segreto si accucciò obbediente in un pertugio assolato fra due ali d’ombra; si appisolò tranquillo e attese la certezza di tornare insonne.
Ora di punta, ora di taglio, ora di piatto, la figura che alla luce del sole ricacciava nell’ombra un affranto segreto abbacinava l’aria con i riflessi delle combinazioni di scherma che conosceva. Anche dall’alto dell’indifferenza del sole si intuiva netta la sua superiorità tecnica e tattica.
Si mosse appena, il sole, sul suo trono di luce che credeva a picco, sotto il quale però la figura che superiore attaccava e si difendeva riusciva sempre a trovare ritagli d’ombra in cui impuntare il suo baldanzoso dolore, in cui lasciare echi secchi senza code, in cui restare un attimo al di qua di un ciglio assolato al di là del quale un sonnacchioso segreto attendeva di rientrare insonne nella guardia.
Con un occhio nostalgico al suo acquattato segreto, l’altra figura sembrava avere fretta di mantenere la sua promessa. Ora di piatto, ora di taglio, a volte di punta, bloccava egregiamente gli affondi superiori che dall’ombra gli balzavano addosso. Non sembrava intenzionata ad attaccare. Le bastava difendersi dagli attacchi oscuri e superiori che l’altra menava con impeccabile disperazione. Le bastava tornare a bramare un segreto che la presenza della figura che amava alla luce dell’ombra aveva reso insonne.
Si mosse ancora un poco, il sole, dalla vetta del suo bagliore. Guardò a picco su un angolo lasciato alla sua luce dove gli era sembrato di scorgere un segreto. Ma forse era stata una sfolgorante illusione, perché dalla sua posizione antica la sua macchia non poteva essere più lumeggiante, e nella patacca del suo chiarore non c’era nessun segreto che dormiva. Forse era tornato insonne.
 
Poco in disparte, Oscar osservava i due uomini menare i fendenti di una bennata contesa.
Sorprendendola oltre ogni immaginazione, il Conte di Fersen aveva accettato la sua ospitalità e aveva deciso di trattenersi a Palazzo Jarjayes un paio di settimane.
Ne era già passata una. E lei non aveva ancora ritrovato i suoi pensieri di una volta.
I lunghi capelli schiariti dagli spaventi della guerra svolazzavano nell’aria tiepida di settembre pavoneggiati dal fervore del duello. Non facevano in tempo a ricadere di sgonfia caducità che un nuovo slancio li librava nei coni d’ombra con cui la luce si divertiva a schermirli.
Parevano tentacoli. Facilissimi da tranciare con un taglio deciso.
André si muoveva fluido ma un poco in ritardo rispetto alle mosse del Conte. Le individuava solo all’ultimo, senza tentare di anticiparle; senza provocarle o contrastarle. Sembrava che gli stesse concedendo la scena e, a ben vedere, non era ritardo, il suo, ma mancanza di fretta.
I suoi capelli rilucevano oscillando garbati nel nastro che impediva loro di disperdersi. Ma seppur costretto, il loro fluttuare sembrava il tocco delicato di una carezza e Oscar credette di sentirlo sul suo viso, quel morbido ondeggiare che corteggiava l’aria e dava a lei i brividi.
Era passata una settimana da quando il Conte di Fersen era ospite a palazzo Jarjayes. Ma i suoi pensieri non erano più gli stessi.
Con un urlo composto e senza scie, il Conte di Fersen arretrò improvvisamente, come se qualcosa, un colpo a tradimento, lo avesse costretto a stupirsi. Con una mossa a sorpresa persino per se stesso André lo aveva obbligato a ritirarsi in difesa, ad avanzare nel suo cono d’ombra. Per un attimo sembrò sul punto di avere la meglio. Poi un sorriso gli distese il viso e tornò a dargli la scena.
Dalla sommità del suo sguardo verticale il sole ebbe un guizzo inaspettato. Un movimento impercettibile sotto i suoi raggi calcinanti lo aveva spinto ad allungare la sua luce. Sembrava un’emozione scossa da un brivido di freddo.
O forse era solo un ti amo imbrigliato nella voce del vento.

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Capitolo 2
*** Nella luce dell’ombra ***


Nella luce dell’ombra

Nel suo rapido declino settembre perdeva i giorni come petali non colti di un fiore innamorato.
A settembre la tristezza si accendeva dei colori truculenti della malinconia e la voglia di urlare di André si faceva procace. Dalle vetrate dell’anticamera in cui da ore era intento ad ignorare il pomeriggio, seduto in bilico su una sedia pronta ad atterrarlo, non si accorgeva del sole che sbieco lo guatava, indeciso se soffermarsi ancora sull’inamovibile apatia di un dettaglio o se lasciare senza indugio all’enfasi del buio gli affanni che aveva nascosto nell’ipocrisia del suo sguardo diurno.
L’anziana governante sbucò dal basso del suo rango sociale a sbatacchiare i pensieri penzolanti del nipote.
“André, dove ti eri cacciato?” Irruppe, con voce affettuosamente scorticante. “Muoviti, dammi una mano. Porta questo a Madamigella Oscar e al suo ospite”. La vecchia lasciò il vassoio con due calici di vino e una bottiglia con cui riempirli sul ripiano obbediente delle mani del nipote, che come un misirizzi era scattato in piedi prima che i piedi dondolanti della sedia lo atterrassero insieme ai suoi immobili pensieri.
 
Le due figure si stagliavano sfrontate al centro dello sguardo quasi orizzontale del sole, che sembrò avvampare d’imbarazzo mentre ne sfiorava sensuale i contorni riempiendo del nero più pesto le sagome dei loro segreti.
La sagoma che amava alla luce dell’ombra sgorgava rivoletti di insopprimibile amore e di rinnovato tormento, scrutando l’orizzonte dall’alto della sua statura per avvistarne la foce.
L’altra, una chiazza nera che emetteva luce, guardava sgorgare un insopprimibile amore e un rinvigorito tormento senza più sapere da quale rivolo schizzassero, se dal proprio o da quello che nell’orizzonte cercava strisciando la foce. Ebbe solo la certezza di un brivido profondo che le scosse l’anima mettendole addosso una settembrina voglia di urlare.
Ricacciò il silenzio in bocca, invece. Lo sentì echeggiare mentre rotolava dal crinale dell’inquietudine. Infine udì un tonfo.
O forse era solo un ti amo giunto al fondo della sopportazione.
 
André entrò nel soggiorno abbassando lo sguardo sul pretesto del vassoio per non vedere l’impossibile torturare l’amore.
La conversazione si interruppe attorno a lui, che con calma febbrile versava da bere in entrambi i calici.
“Grazie, André”. La voce asciutta e priva di ripensamenti del Conte di Fersen si strinse attorno allo stelo del bicchiere che per primo gli fu offerto.
Sempre in silenzio, André completò la liturgia del dolore riempiendo per metà l’altro bicchiere.
“André, perché non restate a farci compagnia?” Squillante di cortese spavalderia, l’invito lo raggiunse direttamente dalla dichiarazione americana dei diritti. Ma André non aveva alcuna voglia di brindare a tre supplizi. Né di indossare i panni di un liberto dell’impero svedese.
“Vi ringrazio Conte di Fersen, ma devo ancora ferrare i cavalli” Con voce morbida e suadente si riprese la sua condizione di servo borbonico, mentre con una mano lasciava il bicchiere dentro le dita di Oscar. Non resistette al richiamo del cilicio e alzò lo sguardo in quello di lei, prima di correre nella schiavitù salvifica della sua bugia.
Rimase immobile, invece. Folgorato.
Le dita di Oscar erano chiuse attorno al bicchiere che lui le porgeva. E per qualche interminabile istante anche attorno alle sue.
“Grazie, André” Una carezza morbida si arrochì di dolcezza prima di avvolgersi attorno a due figure travolte nell’incanto l’una dell’altra, quella che guardava sgorgare un rivolo d’amore e quella che vegliava insonne un segreto.
Attorno a un bicchiere mezzo pieno, delle dita trattenevano disperate una bugia che voleva scappare da una verità ormai in dissolvenza. La bugia, abituata ad intollerabili verità, sbalordì di fronte all’improvvisa prodezza di quel crollo.
Sulla superficie increspata di due enormi pozze azzurre un amore irrefrenabile biancheggiava turbolento, lampeggiando di riflessi schiumosi prima di frangere lungo e struggente come un lamento.
In quelle acque tempestose due incauti smeraldi beccheggiavano al ritmo furioso di un cuore impazzito che boccheggiava tramortito da una felicità presentita.
Il sole, paonazzo come un intruso, non riusciva a vincere la forza magnetica che gli teneva lo sguardo ormai orizzontale avviluppato a due figure inchiodate nell’amore l’una per l’altra.
Il rivoletto in cerca della sua foce attese sotto la superficie del dolore di riprendere il suo corso. Non aveva fretta. Sembrava sapere dove lo attendeva lo sbocco. Libò invece il vino che gli era stato offerto, alzando appena il calice in un brindisi di cui nessuno si accorse.
Dopo un tempo che sembrò infinito le dita tornarono senza dita attorno al bicchiere.
André non seppe mai come riuscì a muovere gambe di burro verso una bugia che gli pareva ormai urgente.
Oscar ebbe sempre il sospetto delle sue parole. Era certa di aver detto Grazie. Ma le sembrò che le fosse uscito ti amo.
 
§§§§§§
 
La luna si precipitò attratta da un accorato richiamo d’amore. E nella corsa fricativa la sua luce si polverizzò in un brivido infinito.
Alla fine del fiatone, oltre un velo sensuale e un’erotica finestra, il bagliore riflesso di una fonte abbagliante si gettò trafelato ai piedi di una felicità tremante di paura.
Nel lucore implorante della luna, due figure si agitavano immobili. L’una, quella che tratteneva disperata una bugia con le dita, aveva una vetusta falsità di cui voleva liberarsi ma le sue dita non sapevano come afferrare la nuova verità. L’altra, che con gambe di burro era corsa verso una autentica menzogna, aveva un antico dolore di cui affrancarsi, ma aspettava che la felicità si voltasse antica per addormentare per sempre il suo insonne segreto.
La donna aveva un nodo in gola ad impedire il passaggio dell’amore riuscito a stasarsi dall’involucro del cuore. Non riuscendo a raggiungere il mare che vedeva all’orizzonte, il suo rivolo ribollente d’inarrestabile amore deviò furioso il percorso. Scese giù, incuneandosi nella forra del petto dove sbatté in un cuore in panne che lo schizzò da più parti, impazzito, e si ritrovò ad annaspare in mani fredde e tremanti; nel respiro sospeso; in guance arrossate e bollenti; nello sguardo focoso; nel voluttuoso languore che come una terzana l’ardeva da dentro; in un desiderio pulsante che l’accendeva nel centro.
L’uomo avvertì una fitta, una sensazione di vuoto che lo accartocciò in strati di niente. Il suo atavico dolore era fuggito orripilato, lasciandogli dentro lo stordimento stupito di una pena che muore. Sentì la felicità tremargli sotto i piedi e ne ebbe paura. Perché lui la felicità non l’aveva mai vista. Con quelle sembianze. In quella luce.
La luce della luna cominciò a sciogliersi, stingendo le tenebre in un turbamento luminoso. Oltre il velo della commozione e delle tende, si gettò a supplicare due figure impietrite dai demoni di una gioia mai provata. Raccolse una mano tremante, di diafana delicatezza, e ne adagiò l’ombra su un petto robusto sfracellato di emozione. Si buttò in una bocca socchiusa, trovò il passaggio per arrivare all’anima, risalì sospesa nel lato lucente di una bolla d’amore.
Presasi di coraggio, la luce della luna si tuffò in due pozze di smeraldo lucide di attesa, ne sminuzzò la trepidazione in un corteggio accecante, colò in un solitario diamante di incredula dolcezza.
Giocherellò con l’ombra luminosa di parole audaci. Si intrufolò nel dedalo di dita intrecciate. Versò il silenzio assetato di una bocca nella sete di silenzio dell’altra. In un’alternanza sempre più sfrontata di chiaroscuri, la luce della luna, vieppiù padrona del gioco, corse a perdifiato lungo schiene che lasciava ad inarcarsi in uno spasmo prolungato di brividi convulsi. Rotolò, ansante, nell’incavo di gole pulsanti e scese giù, inarrestabile, in una stretta valle ombreggiata da due morbide alture.
Ebbra di felicità, la luce della luna si arrestò un attimo a riprendere fiato. Ma nel chiarore del suo riposo arrivò tosto un’ombra pentadattila a scansarla dal suo morbido rifugio. Rotolò allora su pendii lievemente scoscesi. Curiosò al di là di dossi inviolati. Assaporò gocce di sconosciuto piacere. Si inebriò degli effluvi avvinghiati di anima e corpo. Accelerò la sua esplorazione, rincorsa dalla spinta urgente delle ombre che la incalzavano bramose. La sua corsa tornò frenetica, fra lunghi rettilinei gibbuti. Inciampò, nell’ombra di concavi tranelli. Indugiò, nella malia di alcove seducenti.
Ma non poteva fermarsi. Doveva proseguire.
Corse a rotta di collo, sempre più esaltata. Si inoltrò in foreste auree e ricciolute, in boschi di morbido ebano. Le ombre la inseguivano inesorabili dietro ogni suo fascio di luce, come a volerlo dicioccare. Invece un attimo prima di agguantarlo si fermavano, lasciavano un sospiro e proseguivano oltre.
Nel groviglio in cui la luce di luna si era infiltrata, cominciò a diffondersi un suono sommesso. Sembrava la somma di tanti sospiri. Un’espunzione di passate imposture. Un indissolubile prodotto di fattori d’amore. Una partizione di insostenibile gioia.
Incantata dall’armonia di quel canto amebeo, la luce della luna, col suo codazzo luminoso ormai strascicante di emozione, ripercorse antri già esplorati e vibrò in fremiti nuovi. Come sospinta da una forza soverchiante, salì in cima ad una altura stondata, ai piedi di una conca allagata da un rivolo sgorgato, e da lì spiccò un volo che la precipitò sulle vette di un inconfutabile destino.
Allora, la luce di luna seppe di preciso, e senza più alcun dubbio, dove andare a morire. E nella sua corsa verso l’eterno perdeva scintille di fulgore che ammantavano l’aria in un eburneo velo. Ad un tratto si arrestò, intimorita, all’ingresso della selva. Sapeva di non potervi entrare. Si voltò. Vide l’ombra venirle incontro. E si sciolse. Si sciolse di incontenibile emozione. Si sciolse, nell’attesa ormai finita di consegnare il suo freddo bagliore al calore di un’ombra che incedeva insonne senza più segreti.
Prima di sparire risucchiata in un vortice d’amore, nell’attimo in cui l’ombra l’avvolgeva per sempre, la luce della luna udì un incantevole fiotto scivolare nella dolcezza di un soffio.
Era un ti amo. O forse erano mille stille d’amore.

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