Il manoscritto Trebitsch-Lincoln di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Manoscritto 1
IL
MANOSCRITTO TREBITSCH-LINCOLN
Capitolo 1
Il soldato Westbrook si dondolò
sulla sedia girevole, che scricchiolò sotto il suo peso, quindi
sollevò lo sguardo e lo fece scorrere sui monitor delle varie
telecamere di sorveglianza: un corridoio vuoto, un altro corridoio
vuoto, una porta blindata regolarmente chiusa, una seconda porta
blindata chiusa, un laboratorio in penombra con teli di plastica che
coprivano le varie apparecchiature, un laboratorio illuminato, con
gente in camice bianco affaccendata intorno a qualcosa che non si
riusciva a distinguere bene.
“Che palle,” brontolò.
Riprese il controllo dei monitor.
Le porte degli ascensori per il personale: chiuse. I portelli dei
montacarichi: chiusi. La porta che dava sulle scale: chiusa anche
quella. Nessuno in giro a parte gli autorizzati.
Si stiracchiò di nuovo, si
sbottonò il colletto della mimetica, quindi brontolò: “Siamo
chissà quanti piani sottoterra e dobbiamo starcene con questa merda
di giubbotto antiproiettile addosso, per proteggerci dai terroristi.
Lo sai che ti dico? Che se i terroristi sono talmente motivati da
sbattersi ad arrivare
fin qui si meritano un premio.”
Indicò l’armadietto della dotazione anti-terrorismo e disse: “Lì
dentro ci vorrebbe un frigo con le birre, invece dei taser.” Poi,
dopo una pausa: “Che ore sono?”
Dalla console dei sistemi di
sicurezza, il soldato Nielsen rispose: “Le dieci.”
“Di mattina o di sera?”
“E dai, non fare l’idiota.”
“In questo cazzo di posto si
perde la nozione del tempo. Allora: di mattina o di sera?”
“Sera.”
Westbrook aggrottò le
sopracciglia. “Allora vado e ti mando giù quel cazzone di Beau.”
L’altro guardò di nuovo
l’orologio. “Ovviamente è in ritardo, eh?”
“Già.”
Il primo abbandonò la sedia
senza aggiungere altro, quindi raccolse l’M-4 e se lo mise in
spalla. Uscì dalla sala controllo, si stirò facendo scrocchiare le
ossa della schiena e si strofinò gli occhi. “Fottuti monitor,”
brontolò fra i denti, quindi si mise in movimento.
Percorse il corridoio, raggiunse
l’ascensore A e premette il pulsante di chiamata. Passò qualche
secondo, poi le porte si schiusero sulla cabina in attesa.
Westbrook si girò brevemente a
mostrare il dito medio alla telecamera di sorveglianza, agitò
l’altra mano in segno di saluto e scomparve nell’ascensore.
Sorrise fra sé e sé: la storia
del dito medio a quelli della sorveglianza l’aveva inventata Beau,
tanto per cambiare. Per le cazzate era lui lo specialista.
Non c’erano indicatori di piano
o bottoniere – un’altra procedura antiterrorismo – per cui il
soldato si limitò a scandire: “Alloggi personale militare.”
Sperò come sempre che il
riconoscimento vocale o chi per esso non si fosse guastato proprio
quel giorno. Subito dopo, con un ragionamento automatico, prese a
calcolare quanto ossigeno c’era dentro quell’ermetica scatola di
metallo cromato. Finito il calcolo, alzò lo sguardo verso l’occhio
della telecamera di sorveglianza e sillabò: “Vedi di non fare lo
stronzo.”
“Fanculo,” provenne
dall’altoparlante.
Il breve viaggio si svolse
comunque senza intoppi. Le porte dell’ascensore si schiusero e
Westbrook si trovò davanti il poster di una modella che indossava
un bikini mimetico e con fare allusivo teneva un M-16 tra le gambe.
“Ciao, Charline,” la salutò,
quindi si diresse verso le camerate ed entrò in quella sella squadra
Bravo. “Beau?” chiamò, “Sei qui?”
Gli rispose un grugnito.
Westbrook si girò e gli occhi
gli si dilatarono per lo stupore. “Ma che cazzo hai combinato?”
chiese, con un tono a metà fra il risentimento e la preoccupazione.
Beau Lyles giaceva sulla propria
branda con l’aria di un caduto dello sbarco in Normandia. Aveva un
occhi nero, un livido sullo zigomo, un labbro spaccato e vari altri
danni.
“Allora?”
Con qualche difficoltà, l’altro
articolò: “Quattro stronzi della squadra Alpha hanno detto che ho
barato.”
“Ed era vero?”
Lyles pronunciò qualcosa di
inintelligibile.
“Era
vero?” ripeté Westbrook. Senza attendere risposta, andò
all’armadietto del pronto soccorso e ne trasse una cassetta bianca
contrassegnata da una croce rossa. La posò sul tavolo e l’aprì.
“Lascia stare,” gli giunse la
voce di Beau, “prendimi piuttosto la bottiglia che c’è nel mio
armadietto.”
“Se te la becca il sergente
Ewing ti incula a sangue, lo sai.”
“Sono disposto a correre il
rischio. Me la passi, amico?” Lyles corredò la richiesta con uno
sguardo da cucciolo di foca.
“Non mi hai ancora detto se è
vero che avevi barato.”
“Che te ne frega? In ogni caso,
non si dovevano permettere di accusarmi solo perché hanno perso
tutto.”
“E quindi?”
“Li ho sfidati tutti e quattro.
Io intendevo uno per volta, però.”
Westbrook emise un sospiro, poi
chiese: “Lyles, non è che hai un problema con la tua
aggressività?”
L’altro parve ponderare la
cosa. Infine, in tono serio rispose: “Non con la mia. Con quella
degli altri.”
“Sei sempre il solito,”
brontolò il primo, quindi prese un flacone di disinfettante, del
cotone e dei cerotti e si sedette accanto a lui sul letto. Beau aprì
l’occhio buono, scrutò quello che aveva in mano e gli chiese: “E
la bottiglia?”
“Fanculo la tua bottiglia. Ora
ti sistemo la faccia, poi finisco il tuo turno prima che il sergente
si accorga che non sei in servizio. Tu sta qui e riposati.”
“Sei un amico, Chet.”
“E tu sei un idiota, Beau.”
“Fanculo.”
“Fanculo anche a te.”
§
Il soldato Lyles fece scorrere lo
sguardo sulla sala conferenze, quindi significativamente alzò gli
occhi sulla cabina del proiettore e disse: “Pensa se qualcuno
andasse a mettere su un bel porno al posto di quelle loro
presentazioni del cazzo piene di grafici e formule.”
Westbrook scosse la testa. “Non
ci pensare nemmeno. Piuttosto: ti fa ancora male dove ti hanno preso
a calci?”
“Solo quando respiro
profondamente.”
“Per me dovevi farti vedere dal
dottore.”
“Per sorbirmi anche la sua
ramanzina? No, grazie.”
“E se hai delle costole rotte?”
“Fanculo, si aggiusteranno.”
Lo scambio fu interrotto
dall’entrata in sala di un nutrito gruppo di persone. Westbrook
sollevò le sopracciglia nello scorgere un gruppetto di alti
ufficiali. “Il comandante della base in persona?” sussurrò al
compagno.
“Roba forte,” rispose l’altro
sullo stesso tono, poi si immobilizzarono sull’attenti.
Una piccola folla di ricercatori
e militari si accomodò nelle prime file di poltrone, il comandante
della base e alcuni tizi in borghese salirono sul palco e si
accomodarono al tavolo.
Il proiettore si attivò e sullo
schermo alle spalle dei relatori comparve il logo della base: uno
specchio d’acqua che doveva rappresentare un lago salato, un cactus
a candeliere con un avvoltoio appollaiato su uno dei bracci, un
teschio di vacca e la scritta ‘Aguas Muertas’.
L’ufficiale prese la parola.
Sciorinò i saluti di rito, ringraziò questo e quello, presentò i
relatori, quindi assunse una certa aria di mistero e in tono
sibillino chiese: “Che cosa pensereste se io vi dicessi che esiste
un’arma invisibile, potentissima, virtualmente senza ingombro e in
grado di colpire esclusivamente nemici prescelti?”
Sulla platea calò dapprima il
silenzio, poi un uomo alzò una mano e replicò: “Direi che siamo
nella fantascienza.”
L’ufficiale sorrise. “Una
fantascienza vecchia di milletrecento anni, più o meno.”
L’affermazione evocò un brusio
talmente intenso che l’oratore si trovò a dover richiedere il
silenzio battendo la mano sul tavolo.
“Passo la parola al professor
Kozlov,” si limitò ad annunciare quando si fu ristabilita la
calma, quindi si sedette nuovamente al suo posto.
Il chiamato, un uomo alto,
brizzolato, con i capelli spettinati e un maglione che sembrava una
specie di sacco realizzato con gli avanzi di dieci gomitoli diversi,
si alzò e andò con noncuranza al podio del conferenziere. Alle sue
spalle comparve una foto in bianco e nero che rappresentava una città
in macerie.
“La nostra storia comincia il
25 aprile del 1945, a Berlino,” esordì l’uomo con distacco. Il
puntino rosso di un laser si mosse in tondo sullo scenario di
distruzione come per attirare su di esso l’attenzione degli
astanti.
L’immagine cambiò, comparvero
sullo schermo sette corpi al centro di una stanza semidistrutta, sei
disposti a raggiera e uno al centro, tutti in uniforme tedesca.
“Che significa?” chiese
qualcuno dalla platea.
Kozlov annuì come se si fosse
aspettato proprio quella domanda. La successiva immagine,
l’ingrandimento del viso di uno dei cadaveri, mostrava lineamenti
inequivocabilmente orientali. L’uomo spiegò: “I sei corpi” –
Il laser passò dall’uno all’altro – “sono monaci tibetani.
Come vedete, sono morti per recisione della gola.” Il puntino rosso
guizzò sulla figura al centro e Kozlov proseguì: “Questo invece,
colloquialmente identificato come Lama dai Guanti Verdi, è Ignatius
Timothy Trebitsch-Lincoln, un avventuriero ungherese al servizio del
Reich. L’uomo era stato dato per morto nel ‘43 in Cina,
probabilmente per ingannare i servizi segreti Alleati.” Sullo
schermo l’immagine cambiò di nuovo, divenendo quella di un bivacco
in cui europei in abiti da montagna e asiatici in paramenti religiosi
sedevano alternati intorno a un tavolo. “Si sa per certo che
partecipò a diverse spedizioni naziste in Tibet, e che da una di
esse riportò un manoscritto che l’allora Dalai Lama aveva offerto
in dono alla Germania come estrema
difesa.”
A questo punto, l’uomo si
interruppe e fece girare lo sguardo sulla platea, dalla quale di
nuovo si levava uno scettico brusio. “Si sa per certo che quel
manoscritto era nella stessa stanza in cui furono rinvenuti i corpi,”
proseguì, “ma quello che per anni è stato tenuto segreto
dall’allora Unione Sovietica, che si appropriò del manoscritto
alla fine della guerra, è questo.” L’immagine cambiò ancora:
comparve sullo schermo, tra le macerie di Berlino, una distesa di
cadaveri straziati. Ad alcuni erano stati strappati gli arti, altri
erano decapitati, altri ancora avevano il ventre squarciato. Sembrava
che un’orda di demoni vi si fosse accanita sopra in preda a una
mostruosa frenesia di massacro. Tra essi non si vedeva una sola
uniforme tedesca.
Alla prima fecero seguito altre
fotografie, che ritraevano analoghe distese di corpi su scorci
diversi della città. A quel punto, il professore spiegò: “Testimoni
oculari parlarono di forze potentissime e invisibili, non attaccabili
dalle armi convenzionali. ‘Ho
visto Dimitri aprirsi in due sotto i miei occhi come se qualcuno lo
stesse sventrando, ma non si vedeva nessuno,’
recita la deposizione di un soldato che assisté al fenomeno.”
A quel punto alzò la mano un
altro degli astanti.
Il professore si voltò verso di
lui. “Sì?”
“Posto che tutto questo sia
vero, che cos’era, un’arma segreta dell’Unione Sovietica?”
Sullo schermo comparve
un’ulteriore immagine di corpi straziati, ancora più spaventosa
delle precedenti, se mai fosse stato possibile. “Non sappiamo
esattamente di cosa si tratti,” rispose Kozlov, “ma sappiamo che
nessuno è stato in grado di vederlo, di controllarlo né tanto meno
di combatterlo in qualche modo. Il fenomeno è proseguito fino a che,
supponiamo, qualcuno non ha ucciso Trebitsch-Lincoln e i sei lama.”
“Ma cos’ha a che fare tutto
questo con il laboratorio di Aguas Muertas?”
“Buona domanda,” rispose
Kozlov, col tono di chi sente un bambino chiedere perché l’acqua
messa sul fuoco si scalda. “Saranno il professor van Zijl del
dipartimento di fisiologia della voce e il professor Gaidher, esperto
di lingue e religioni orientali, a rispondere per me.”
I chiamati si fecero avanti e si
avvicinarono al podio. Il primo era un uomo di mezz’età con gli
occhiali cerchiati d’oro e un completo grigio scuro, il secondo era
un orientale, forse un indiano, con la pelle color caramello e lisci
capelli neri. Portava un blazer chiaro con il collo alla coreana,
allacciato fino all’ultimo bottone.
I due scambiarono qualche parola
a bassa voce con il professor Kozlov, quindi Gaidher piegò il
microfono per adattarlo alla propria bassa statura e cominciò:
“Stiamo parlando di un manoscritto Bön risalente al settimo secolo
dopo Cristo.” Alle sue spalle comparve l’immagine di una
pergamena chiaramente molto antica, ma straordinariamente ben
conservata. Essa rappresentava demoni con tre occhi, zannuti e
incoronati di teschi umani, per la maggior parte neri, ma anche rossi
o gialli, mostrati nell’atto di uccidere uomini armati, piccoli
come bambini in confronto alla loro mole. Dappertutto, dipinti con
uno stile semplice ma incisivo, vi erano arti recisi, teste mozzate e
corpi scuoiati o sventrati.
Le parti lasciate libere dai
disegni erano coperte di una scrittura fine, nera con i capoversi in
rosso.
Scorsero altre pagine della
pergamena, simili alla prima per i contenuti, infine si vide il
manoscritto per intero, ripiegato a fisarmonica e racchiuso tra due
tavolette di legno su cui si indovinavano ancora resti di pittura
rossa e foglia d’oro.
Gaidher riprese: “Questo è
quello che viene chiamato ‘Manoscritto Trebitsch-Lincoln.’ Si
tratta di un terma, ovvero tesoro nascosto, cioè di un testo sacro
destinato a rimanere celato alla vista dei fedeli.”
“Mi scusi,” provenne
dall’uditorio, prima che il professore potesse continuare.
L’indiano si girò in quella
direzione. “Sì?”
“Aguas Muertas si occupa anche
di archeologia adesso? E come mai quel manoscritto è in vostro
possesso, se era stato portato via dai russi?”
Gaidher stava per rispondere, ma
il comandante della base lo precedette: “È stato regolarmente
acquistato. Ora che il blocco sovietico non esiste più, non c’era
nessun motivo perché il governo russo rifiutasse l’offerta del
museo di Arte Orientale di New York.” Fece una risatina.
“I russi non hanno mai pensato
di sfruttarne le potenzialità belliche?” insisté l’uomo.
Il generale annuì. “Fecero
alcune prove, ma abbandonarono il progetto abbastanza in fretta.”
“Come mai?”
L’ufficiale alzò le spalle
ostentando noncuranza. “Non avevano ancora le tecnologie giuste e i
risultati furono deludenti, inoltre era l’epoca delle prime
conquiste spaziali e tutte le risorse venivano convogliate lì.”
Fece una pausa, quindi soggiunse: “Ma ora, passerei la parola al
nostro esperto di fisiologia della voce.” Si rivolse al professor
van Zijl.
Questi avanzò verso il podio,
quindi rialzò il microfono e piegandosi comunque leggermente salutò
l’uditorio, poi cominciò: “Tutto è nato alcuni anni fa da uno
studio sulla fisiologia del canto armonico presso i monaci Gyuto
tibetani. Ci siamo accorti che con le tecniche a oggi conosciute, non
era più possibile eseguire determinate recitazioni. Il principale di
questi testi era naturalmente il manoscritto Trebitsch-Lincoln, per
il quale sembrava necessario un apparato fonatore incompatibile con
l’attuale anatomia umana.” Si aggiustò gli occhiali e si schiarì
la voce, quindi proseguì: “Sono stati effettuati studi su mummie
di monaci del settimo secolo dopo Cristo conservate presso i
monasteri e il riscontro è stato che in effetti vi erano delle
particolarità anatomiche a oggi non più riscontrabili. Si suppone
che i monaci deceduti a Berlino fossero gli ultimi in grado di
eseguire quel particolare canto armonico.”
Sullo schermo alle sue spalle si
susseguì una serie di fotografie di corpi mummificati, radiografie e
disegni anatomici.
Infine, il professore disse:
“Tuttavia, con l’aiuto di Marsia 2.1, un nuovo e sofisticatissimo
software per l’elaborazione dei suoni, è stato possibile, sulla
base di studi anatomo-fisiologici portati avanti in collaborazione
con l’Istituto di Antropologia e Odontologia Forense, ricostruire
dapprima l’apparato fonatore dei monaci e successivamente, con
tecniche di campionatura e mixaggio all’avanguardia, è stato
possibile riprodurre anche il canto armonico che esso era in grado di
generare.”
Alla reboante rivelazione la
platea reagì con un silenzio perplesso. Intervenne il comandante
della base, che in tono incoraggiante suggerì: “Dica cos’è
successo quando avete fatto i primi esperimenti di recitazione con la
voce mixata.”
“Ah, certo,” rispose van Zijl
annuendo. “Fenomeni strani. Inspiegabili, anzi.”
“Di che tipo?”
“Scariche elettriche, oggetti
che si spostavano da soli...”
“Poltergeist?” lo interruppe
qualcuno dal fondo della sala. Ci fu qualche risatina.
Per tutta risposta, il professore
fece partire un filmato: in un laboratorio c’erano lui e alcune
altre persone. Qualcuno prendeva una cassetta blindata, la apriva,
indossava un paio di guanti bianchi e tirava fuori il manoscritto,
quindi partiva una traccia audio.
Alle prime note, un mormorio
attraversò la platea. Un paio di persone si alzarono e abbandonarono
la sala.
Sullo schermo frattanto si vedeva
crepitare dal nulla un arco elettrico. Dei fogli appesi al muro si
sollevarono come investiti da una corrente d’aria e una sedia si
spostò di parecchi metri senza che nessuno l’avesse toccata.
Il canto, una specie di nenia
ipnotica, continuava arricchendosi via via di armoniche. Altre
persone uscirono, una addirittura scossa da conati e con una mano
premuta sulla bocca.
Il filmato si interruppe,
lasciandosi dietro un silenzio costernato.
“Ecco perché il Pentagono ha
deciso di acquisire il manoscritto Trebitsch-Lincoln e tutto il
materiale a esso correlato,” intervenne bruscamente il comandante
di Aguas Muertas, facendo sussultare più di una persona. “Crediamo
che sia importante effettuare ulteriori studi su questa… tarma.”
“Terma,” lo corresse il
professor Gaidher.
Lo schermo tornò grigio. Fermo
su un lato della porta, Westbrook girò lo sguardo verso Lyles, che
si trovava sull'altro, e sottovoce gli chiese: “L'hai sentito anche
tu?”
Egli annuì appena. “Ancora un
po' e vomitavo. Quella roba è peggio del metal satanico.”
“Io mi sentivo...” Westbrook
fece una pausa, quindi in tono esitante chiese: “Le hai viste anche
tu le cose?”
“Quali cose?”
“Quegli affari con tre occhi
che c'erano nelle immagini. Per un attimo mi è sembrato di averne
uno davanti.”
“Devi smetterla di mangiare la
pizza ghiacciata col ketchup a mezzanotte,” replicò Lyles. Tentò
di assumere un’espressione noncurante, ma Westbrook notò che aveva
lanciato intorno un sguardo preoccupato.
§
Seduto a una console, il
professor Kozlov fissava un monitor sul quale scorreva una serie di
spettrogrammi il cui colore andava dal viola cupo al giallo acceso,
passando per tutti i toni del rosso e dell'arancione. Si tirò su le
maniche del camice bianco scoprendo gli avambracci ossuti, quindi si
passò le mani fra i capelli e strinse fra le dita scomposte ciocche
grigie. “Marsia sta cercando di dirci qualcosa,” borbottò.
Raccolse una penna e picchiettò con quella la superficie del
monitor. Lo spettrogramma sembrò ritrarsi come una specie di
creatura marina disturbata. “Marsia è preoccupato.” Passò dallo
spettrogramma alla forma d'onda, che prese a muoversi sullo schermo
nero sinuosa come lo scheletro di un serpente, di un colore a metà
fra il verde e il turchese. Aggiunse le armoniche, una dopo l'altra.
Cominciò a dondolare la testa, mormorando a fior di labbra la
melodia del canto Bön. “Che cosa stai cercando di dirmi, Marsia?”
Mormorò. Poi, a voce più alta: “Henson!”
Si avvicinò un giovanotto sulla
trentina, di altezza e corporatura medie, pettinato come un ragazzino
degli anni '50, con occhiali dalla pesante montatura nera.
“Professore?” disse.
Senza staccare gli occhi dal
monitor, Kozlov chiese: “Dov’è van Zijl?”
“Sta studiando lo spettrogramma
di un sutra assieme al professor Gaidher.”
“Uhm. Un professore di favole,”
bofonchiò. “Storielle per i bambini. Fra la religione e la vera
Scienza non esistono parentele, né amicizia, né inimicizia: esse
vivono su pianeti diversi.” Tornò a dedicarsi al monitor. “Guardi
qui, Henson. Non nota qualcosa di strano?”
L'altro si piegò appena in
avanti e contemplò le armoniche come avrebbe dato una scorsa a un
libro nemmeno tanto complicato. “Non c'è rumore,” disse poi,
“solo frequenze pure.” Aggrottò le sopracciglia. “Sembrano
potenziarsi a vicenda.” Puntò a sua volta la penna verso il
monitor. “Proprio qui, vede, professore? L'intensità aumenta in
maniera apparentemente inspiegabile e le frequenze che ne risultano
vanno negli ultra- e infrasuoni.” Fece un'altra pausa, poi
soggiunse: “I valori ottenuti con la FFT sono al di fuori di ogni
logica.” Si lisciò il ciuffo castano, si sistemò gli occhiali,
quindi chiese: “È stato Marsia a realizzarlo?”
“Sì, Marsia.
Ma è stupito quanto te, mi pare,” rispose Kozlov. “Per quanto
sia lo stato dell'arte a livello di elaborazione del suono, anche lui
getta la spugna di fronte a questo.”
Il professore fece partire un secondo spettrogramma e le due tracce
procedettero per un po' affiancate. “Mi sai dire perché quando il
manoscritto è nella sua cassetta blindata viene fuori questo e
quando invece è nella stanza dove si trova Marsia viene fuori
quest'altro?”
Prima che Henson potesse
rispondere, si udirono i soldati ai due lati della porta scattare
sull'attenti. “Riposo,” ordinò concisa una voce maschile.
Kozlov si voltò in quella
direzione. “Colonnello McDowell,” salutò. Si alzò lentamente in
piedi e gli porse una lunga mano ossuta.
L'ufficiale, cinquantenne, spalle
larghe, cranio quasi rasato, la strinse energicamente e chiese: “A
che punto siamo?” Volse lo sguardo verso lo schermo su cui ancora
scorrevano i due spettrogrammi, ormai diversi come il giorno e la
notte.
“Beh...” Kozlov ritirò la
mano e se la mise in tasca. Prese a giocherellare distrattamente con
un piccolo flacone nel quale a ogni movimento ticchettavano delle
capsule. “Beh, è difficile dirlo. Questo suono non si sta
comportando come dovrebbe. Saranno necessari altri studi.”
Il comandante di Aguas Muertas
aggrottò le sopracciglia. “Come sarebbe a dire che non si comporta
come dovrebbe?”
Kozlov alzò le spalle e assunse
un'espressione vaga. “Un FFT fuori da ogni norma, se le dice
qualcosa. Suoni che si trasformano gli uni negli altri, si potenziano
a vicenda, cambiano. È come avere un gatto infuriato in braccio: una
volta che lo lasci andare, chi lo sa dove deciderà di scappare?”
“Si spieghi,” disse McDowell
irritato.
“Lo sto facendo, ma la sua
mente sembra avere problemi con la simbolizzazione. Abbiamo qui un
insieme di suoni che sfugge a ogni legge della fisica e dobbiamo per
prima cosa capire perché.”
Il colonnello non parve
particolarmente impressionato. Guardò ancora una volta il monitor,
quindi replicò: “È lei il professore, Kozlov, e questo è un
laboratorio all'avanguardia, con le tecnologie più sofisticate che
il denaro può pagare. Veda di capirci qualcosa.”
L'altro scosse la testa. “Noi
siamo scienziati. Non seguiamo mappe di tesori nascosti e la X non
indica mai il punto dove scavare.”
“E questo cosa significa?”
“Che la ricerca richiede tempo,
pazienza e dedizione. Non funziona come nei cartoni animati, dove
all'improvviso si accende una lampadina sopra la testa del
protagonista e tutto gli diventa chiaro.”
“Quanto potrebbe volerci?”
insisté imperterrito il colonnello.
Di nuovo, Kozlov alzò le spalle.
“Due giorni come un anno, chi lo sa. La Scienza non segue tabelle
di marcia, la Scienza è genio e rigore che procedono di pari passo,
l'uno inutile senza l'altro.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “E
ora, se vuole scusarmi...”
McDowell strinse i pugni e tese
le spalle. Lanciò un'ultima occhiata a lui, poi al monitor e infine
a Henson, che in risposta si sistemò gli occhiali con gesto nervoso,
quindi ringhiò: “Veda di darsi una mossa, professore: lei non è
l'unico esperto di questa roba sulla piazza.”
“Ma sono il migliore.”
La risposta giunse che il
colonnello aveva già oltrepassato la porta e quindi cadde nel vuoto.
Kozlov scrutò critico i due
soldati, poi disse: “E voi che fate lì impalati come due
marionette? Che fine ha fatto il vostro cervello?”
I militari rimasero immobili, lo
sguardo fisso all'infinito.
“Bah, marionette,” brontolò.
Poi si rivolse a Henson: “Vado nel mio alloggio, ho bisogno di
allentare la Valvola
Riducente[1].”
Kozlov considerò che l’alloggio
che gli era stato messo a disposizione poteva decisamente essere
definito confortevole: c’erano un letto, una scrivania, un
computer, un piccolo frigorifero e un armadio per gli effetti
personali. Incastrata da una parte, c’era anche una porticina che
dava su un bagno completo di servizi.
Nel soffitto era incassato un
neon che mandava un debole ronzio, ai suoi lati c’erano due
bocchettoni coperti da grate, per la circolazione dell’aria.
L’uomo chiuse la porta alle
proprie spalle, girò la chiave nella toppa e poi se la infilò in
tasca. Successivamente trasse dal frigorifero un cartone di succo
d’arancia, alcune zollette di zucchero e un bicchiere e li allineò
sulla scrivania, poi prese dalla tasca del camice il flacone col
quale era solito giocherellare e da esso estrasse una capsula bianca
che posò solennemente sul piano del mobile.
“3,4,5-trimetossi-β-fenetilammina[2],”
mormorò quasi con affetto.
Si sedette sulla poltrona
girevole, prese la capsula fra pollice e indice e per un po’ rimase
a contemplarla, cercando di scorgere in trasparenza la polvere che
essa conteneva. Si passò la lingua sulle labbra e in un subitaneo
guizzo le pupille gli si dilatarono.
Si versò mezzo bicchiere di
succo, quindi si mise in bocca la capsula e la mandò giù. Si
allungò contro lo schienale e chiuse gli occhi con un sospiro di
soddisfazione.
Li riaprì dopo un tempo
imprecisato. La prima cosa che colpì il suo sguardo fu una goccia di
succo d’arancia sulla superficie bianca. La minuscola sfera era
come un sole, come un opale di fuoco che sotto la luce della lampada
sembrava quasi ardere di un fuoco interno, pulsare di una vita
propria. Gli evocò una goccia di magma persa in un mare di neve
talmente candida da emanare una vaga luminescenza azzurrina. Strinse
gli occhi, allungò la mano per toccarla, ma all’ultimo si
interruppe, reputando il gesto quasi sacrilego.
In quel momento vide la porta
della camera aprirsi senza che la maniglia si abbassasse: ruotò di
lato in un silenzio irreale e sulla soglia comparve lui stesso, molto
più giovane e come sarebbe stato se il suo sviluppo psicofisico si
fosse svolto nella maniera ideale: alto, snello, dalle movenze
eleganti e cariche di forza trattenuta. I capelli erano una lucida
criniera corvina, gli occhi vividi abissi di ossidiana che studio e
droghe non avevano ancora offuscato. Indossava un camice radioso, di
un bianco che sembrava quello della veste degli arcangeli.
“Ciao, Me,” lo salutò.
Me rispose con un grazioso cenno
del capo, quindi si sedette sul letto. Kozlov notò che la coperta
sembrava riflettere il chiarore emanato dal suo candido indumento.
“Come te la passi?” gli
chiese.
Il nuovo arrivato si limitò a
scuotere la testa.
Il professore sorrise. “Capisco,
non sei qui per fare conversazione, vero?”
Di nuovo, l’altro scosse la
testa. Kozlov alzò lo sguardo: la luce del neon si era trasformata
in una corrusca raggiera di aghi di ghiaccio, il ronzio del sistema
d’aerazione nella misteriosa nenia di uno sciamano. “Ho un
problema,” disse.
Me annuì serio.
“Un problema con le armoniche
di quel dannato brano,” precisò Kozlov.
Me annuì di nuovo: evidentemente
sapeva anche quello. Il professore non se ne stupì: se Me era lui
stesso, sapeva tutto quello che sapeva lui. “E quindi, come
potrebbe darmi delle risposte?” disse, di nuovo rivolto all’ignea
apocalisse della goccia di succo d’arancia. Rialzò gli occhi verso
il suo doppio: “Come potresti?”
Finalmente Me parlò: “Hai
dimenticato? Io sono te a un livello superiore.”
Kozlov sollevò le sopracciglia.
“Oh, certo,” assentì sarcastico.
Me sorrise e dalla fila di denti
candidi che scoprì nell’atto promanò un lampo che costrinse
l’uomo a mettersi una mano sugli occhi. “Hai provato a misurare
l’intensità dei campi elettromagnetici?” chiese.
Il professore abbassò la mano.
“Quali campi?”
“Rifletti: archi voltaici
uguale campi elettromagnetici, è molto semplice. Sembra che queste
armoniche abbiano il potere di ionizzare i gas dell’atmosfera, non
è vero? Probabilmente le vibrazioni entrano in risonanza con le
particelle subatomiche e conferiscono loro energia.”
“Se questo fosse vero...”
“È
vero,” intervenne Me categorico.
“Dicevo, se questo fosse vero,
l’intera recitazione del canto svilupperebbe una quantità enorme
di energia.”
“Senza contare l’effetto che
ha sull’organismo umano,” puntualizzò Me.
“Sarebbe a dire?”
“Fenomeni di trance in soggetti
predisposti. In altri cefalea, nausea, vomito, attacchi di panico. In
alcuni casi esperienze deliranti primarie. So che anche tu ne hai
risentito.”
“Ovvio che lo sai,” replicò
ruvido il professore, “sei me.”
“Hai visto cose, vero?”
“Non più di quelle che sto
vedendo adesso.”
Me scosse la testa come di fronte
alle intemperanze di un bambino. “Hai visto cose,” ripeté,
questa volta con apodittica sicurezza.
“E anche se fosse?”
Me si limitò a scuotere la
testa, quindi si alzò in piedi e disse: “Ora vado. Misura i campi
elettromagnetici.”
“Aspetta! Perché il fenomeno
si manifesta solo in presenza del manoscritto?”
Me, che stava già dirigendosi
verso la porta, si voltò a guardarlo da sopra la spalla. “Fa da
catalizzatore.”
“Qualche sostanza che si trova
nelle immagini?”
“Quello e la risonanza
inconscia delle figure con archetipi di distruzione, che vengono da
esse evocati.”
“Me! Aspetta, Me!”
La figura attraversò la porta in
senso opposto.
Kozlov aprì gli occhi. Era
semisdraiato sulla poltrona, il neon aveva perso la sua corona di
aghi di ghiaccio, la goccia di succo si era ridotta a una macchia
opaca, di un arancione spento da mitilo morto. Il bianco non brillava
più di luce propria.
L’uomo si alzò incerto, si
versò un bicchiere di succo e lo bevve con foga, facendosene colare
un rivolo da un angolo della bocca. “I campi elettromagnetici,”
disse poi fra sé e sé. “Ma certo, è ovvio. Sarà meglio trovare
il sistema di contenerli in qualche modo.”
§
Seduto sul letto a gambe
incrociate, gli occhi fissi sullo schermo e il joypad stretto fra le
mani, Beau imprecò tra i denti. “Eh no, bastardo, no...” Si udì
un rumore che avrebbe dovuto essere quello di un fucile laser, il
soldato si piegò bruscamente da una parte come per evitare un colpo.
“Figlio di puttana!” esclamò. Sullo schermo, le mani del suo
personaggio imbracciarono un'arma e cominciarono a fare fuoco su una
moltitudine di avversari. “Figli di puttana!” ripeté con foga,
vuotando caricatori su caricatori. “Bastardi!” Di nuovo si piegò,
facendo cadere nel movimento una lattina di coca, che rotolò via
spargendo il suo contenuto sul pavimento.
“E dai, Beau!” protestò
Westbrook, sdraiato sul letto di fianco con un libro in mano. Abbassò
lo sguardo sulla lattina, che finiva di rotolare lasciandosi dietro
una liquida traccia marrone, e disse: “Adesso pulisci.”
“Un attimo.” Altri spari,
l'esplosione di qualcosa di grosso. “Cazzo!” Raffiche di
mitragliatrice, di nuovo il soldato si buttò da una parte, facendo
oscillare pericolosamente l'armadietto con tutto il suo contenuto.
“Cazzo, bastardi!” Poi, in tono più concitato: “Eh no,
bastardi! No, no! Cazzo, no!” Lo schermo si fece tutto rosso.
“Sei morto?” s'informò
Westbrook.
“Cazzo!”
“Beau?”
“Cazzo! Cazzo! Cazzo! Lo sai
quanto tempo è che sto dietro a questo fottuto livello? Eh? Lo sai?
E quel cazzo di SWAT mi salta fuori all'ultimo momento e mi spara in
faccia, cazzo!” Prima che l'altro potesse replicare, afferrò il
joypad come un pallone da football e con un lancio poderoso lo mandò
a fracassarsi contro il muro, quindi si rivolse alla lattina e la
calciò con tale forza che essa rimbalzò contro tre pareti prima di
esaurire il proprio movimento.
“Cazzo!” sbraitò di nuovo.
Rimase ansante al centro della stanza, con lo sguardo spiritato e i
pugni chiusi.
“Lyles, datti una calmata!”
provenne dalla stanza attigua.
Beau si voltò fugacemente in
quella direzione, poi girò lo sguardo verso i resti del joypad.
“Merda,” brontolò.
“Giornataccia?” s'informò
Chet.
L'altro crollò le spalle.
“Scusa. Mi sa che sono un po' nervoso.” Raccolse la lattina,
quindi prese dall'armadietto il suo asciugamano e fece per pulire il
pavimento.
“Ma no, non con quello,” lo
fermò Westbrook, alzandosi dal letto. “La tua solita mania di fare
le cose senza pensare. Va' a prendere un po' di carta, no?”
“Quella del cesso?”
“Anche, sì.”
Beau uscì dalla stanza e tornò
dopo un po' con un rotolo di carta igienica. Lanciò un altro sguardo
carico di rimpianto ai resti del joypad, quindi cominciò ad
asciugare le mattonelle. “Scusa, Chet, è che sono un po' nervoso,”
ripeté dopo un po'.
“Non più del solito, mi pare,”
osservò l'altro.
Il primo si alzò in piedi e lo
fissò negli occhi. “E invece sì,” disse.
Chet aggrottò le sopracciglia e
scrutò attento l'amico, che a sua volta aveva due profonde rughe
verticali sulla fronte. “Che ti succede?” gli chiese.
“È quella specie di metal
satanico. Tu sei mai stato là dentro quando fanno uno dei loro
esperimenti?”
Westbrook annuì.
“Allora hai capito, no?”
Si fissarono di nuovo negli
occhi. Quelli azzurri di Beau, normalmente spavaldi al limite della
tracotanza, erano velati d'apprensione. “L'ultima volta ho visto
della roba che non ha spiegazione,” disse.
“Magari era roba segreta,”
minimizzò Chet.
Lyles scosse la testa. “Mi è
bastato guardare le loro facce per capire che anche loro se la
stavano facendo sotto. Soltanto quel tizio che sembra lo scienziato
pazzo dei fumetti era tranquillo.” Fece una pausa, poi soggiunse:
“Ma secondo me è solo perché le armi più potenti di tutta la
base sono i cannoni che si fuma.”
“Beh, ma in pratica cos'avresti
visto?” chiese Westbrook, sospingendo l'amico fuori dalla porta.
“Non lo so. È quella cantilena
che fa venire i brividi. Quando fanno partire quella...” si
interruppe.
Chet si girò a fissarlo. “Quando
fanno partire quella...?”
Il primo scosse la testa. “Non
lo so. Succedono cose.”
“Che specie di cose?”
Beau si fermò e per qualche
secondo sembrò ponderare sulla faccenda. Infine chiese: “Tu non
hai avuto la sensazione che ci fosse qualcun
altro, in quel
laboratorio?”
Chet annuì. La sensazione
l'aveva avuta eccome. Era stato come trovarsi in una stanza
completamente buia con qualcuno immobile di fianco: per quanto non
avesse visto o sentito niente, aveva percepito qualcosa come un'aura
di calore, o magari un campo elettrico. Meccanicamente si guardò
l'avambraccio, coperto di una fine peluria bionda. Beau notò il
movimento e gli chiese: “Anche a te si sono rizzati i peli quando
eri là dentro?”
“Sembravo un coniglio
d'angora,” ammise Westbrook. “Bart si è sentito male, hanno
dovuto portarlo fuori.”
“Davvero?”
“Cascato giù come una pera. Il
fucile aveva il colpo in canna, a momenti ammazzava uno di quelli là.
Quando l'ha saputo, il sergente si è incazzato come una iena.”
§
Il laboratorio odorava di ozono e
disinfettante al cloro. Le luci al neon – tutte accese –
toglievano le ombre alle cose. Al centro della sala erano stati
portati dei tavoli a rotelle, di quelli lunghi da obitorio, e dei
tecnici vi stavano posizionando sopra varie apparecchiature. Con un
gesto istintivo, Westbrook strinse fra le mani l'M-4 poi si voltò
verso Lyles e gli altri membri della squadra Bravo. Beau stava
girando su e giù come un leone in gabbia, ma anche gli altri
apparivano piuttosto nervosi. Morales non la piantava di far girare
fra le dita uno spinner fatto a simbolo di Batman, Thomas e Clarke
stavano battibeccando a bassa voce attenti a non farsi sentire dal
sergente. In compagnia di Gray e Wang, il caporale Mitchell stava
continuando a girare tutt'intorno all'allestimento come una specie di
cane da pastore che vede il gregge infilarsi in mezzo a un branco di
coyote.
“Sarà la decima volta che
passano lì davanti,” disse Lyles, lanciando ai tre uno sguardo
torvo.
Westbrook alzò le spalle. “Lo
sai com'è fatto Mitchell.”
“Mi chiedo cosa dovrebbe fare
la squadra qui dentro,” ringhiò. “Non siamo mica scienziati.”
Chet non rispose, anche perché
non avrebbe saputo bene cosa rispondere. L'unica cosa che aveva
origliato tra i vari turni di guardia era che dopo gli ultimi
esperimenti era stata fatta richiesta di aumentare il personale
militare. Addirittura si era parlato di far arrivare ad Aguas Muertas
un altro plotone.
Fissò di nuovo i tavoli
d'acciaio, ormai coperti di apparecchiature e cavi. Un tizio con un
camice bianco e gli occhiali da nerd stava sistemando dei monitor su
cui scorrevano misteriose sinusoidi. Il professore con l'aria da
scienziato pazzo stava invece scrivendo sulla tastiera di un computer
con il case raffreddato a liquido, grosso come il monolito di 2001,
Odissea nello Spazio.
Di tanto in tanto ci parlava, chiamandolo Marcie,
o qualcosa del genere. “Non si chiamava Hal?” si domandò a mezza
voce.
Beau interruppe il suo nervoso
passeggiare. “Cosa?”
“Il computer. Lo chiama Marcie,
hai sentito?”
L'altro scosse la testa. “Te
l'ho detto: a quello gli manca qualche rotella.”
Ci fu un’altra mezz’ora di
preparativi, poi finalmente l’affaccendamento parve calmarsi. Nel
silenzio generale, il tizio con gli occhiali da nerd indicò una
telecamera e chiese: “Sta registrando?”
Giunse una risposta affermativa.
L’altro allora si posizionò
davanti all’obiettivo, snocciolò la data e annunciò:
“Sperimentazione Trebitsch-Lincoln numero dodici. Recitazione fase
preliminare.” Successivamente andò a una cassetta blindata, la
aprì e dopo aver indossato dei guanti bianchi ne trasse il
manoscritto, che collocò su un apposito supporto.
Chet ebbe l'impressione che un
alito di vento gli passasse sul viso, ma l'aria era immobile. Si
voltò verso Beau e incontrò il suo sguardo torvo, segno che anche
lui doveva essere turbato da qualcosa.
Si udirono scattare degli
interruttori e le luci ebbero una lieve oscillazione. Subito dopo
cominciò a farsi udire il ronzio basso di potenti apparecchiature
elettriche.
Il caporale Mitchell abbandonò
la parte centrale della sala e ordinò: “Tutti indietro, ragazzi.
Nessuno vada oltre la linea bianca sul pavimento.”
“Perché?” volle sapere
Lyles.
“Campi magnetici. Se entrate là
in mezzo con gli M-4 viene fuori un casino.”
“Sì, ma… e se succede
qualcosa?”
“Interveniamo da qui.”
Perplesso, Westbrook chiese: “In
che modo, caporale?”
Prima che il graduato potesse
rispondere, partì la prima traccia audio. Cominciò un salmodiare
basso, gutturale, che sembrava una via di mezzo tra un canto
dissonante e un lamento. A esso si unì dopo poco una prima armonica,
che prese a seguire la melodia principale.
Westbrook abbassò gli occhi sui
propri avambracci, dove i peli erano ritti come per un’esposizione
al freddo intenso. Si voltò verso Beau e vide alle spalle dell’amico
Clarke piegato in due in preda ai conati e Thomas addossato al muro
con gli occhi fuori dalla testa e il respiro ansante.
L’odore di ozono divenne più
intenso, le luci oscillarono di nuovo, alcuni neon si spensero, uno
addirittura scoppiò con un rumore sordo. Accanto al supporto del
manoscritto cominciarono a crepitare nell'aria scariche elettriche
violacee.
“Basta!” disse una voce
allarmata sullo sfondo. “Basta, i campi di contenimento non tengono
più.”
Una cassetta piena di attrezzi
crollò al suolo spargendo tutto il suo contenuto, un fascio di fogli
prese a turbinare come investito da una folata di vento. Si aggiunse
un’altra armonica, acuta ai limiti dell’udibile, le scariche si
fecero più intese e virarono verso una tonalità di azzurro chiaro.
“Basta!” ripeté la voce.
Uno dei tizi in camice bianco
abbandonò la stanza di corsa, un altro si afflosciò giù dalla
sedia come una specie di straccio e rimase fermo lì.
Il case di un computer emise un
nugolo di scintille e poi cominciò a fumare.
Un tizio che non aveva il camice,
indiano a giudicare dai lineamenti, tirò fuori dalla tasca una
specie di collana, se la arrotolò intorno alle dita, giunse le mani
e cominciò a recitare qualcosa.
Un’altra armonica, talmente
bassa che Westbrook si sentì vibrare le costole, seguì le altre, ma
a quel punto tutti i neon saltarono e subentrarono i LED degli
antincendio. I monitor si spensero e il canto finalmente cessò.
Nella scarsa luce, il soldato
ebbe per un istante l’impressione di vedere delle grandi ombre che
sovrastavano il personale indaffarato a ripristinare le
strumentazioni, ma un attimo dopo i neon si riaccesero e delle ombre
non vi era più traccia.
[1] Da “Le porte della
percezione”, di A. Huxley.
[2] Mescalina.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve a
tutti,
ecco
un nuovo capitolo della mappazza, spero che apprezzerete. Grazie a
tutti quelli che sono passati per di qua, che mi hanno letto e/o
piazzato in qualche lista, ma soprattutto grazie a tutti quelli che
mi hanno commentato!^^
Capitolo
2
Immobile
nei ranghi, Westbrook fece girare intorno lo sguardo per quello che
la posizione di riposo gli consentiva. Gettò un'occhiata a Beau, che
volse impercettibilmente la testa verso di lui e sussurrò: “Saranno
cazzi.”
“Silenzio,
Lyles!” abbaiò il caporale Mitchell. Il soldato grugnì qualcosa
di inintelligibile.
“Piantala,
se no ti faccio pulire i cessi di tutta Aguas Muertas.”
Beau
si limitò ad articolare con le labbra la parola 'Fanculo'.
Di
nuovo calò un silenzio rotto solo dall'impercettibile ronzio
dell'impianto di aerazione.
Chet
alzò lo sguardo sul soffitto, chiedendosi se fosse vero quello che
dicevano, ovvero che in ogni stanza, dietro le pannellature
fonoassorbenti e riposanti per la vista, si nascondessero
apparecchiature che in caso di contaminazione della base venivano
azionate per eliminare ogni forma di vita. Cercò di immaginare dove
fossero e quasi dovette trattenersi per non spostarsi, una volta che
ebbe l’impressione di averne individuata una.
Fissò
anche gli altri membri della squadra, per quanto poteva, e gli parve
che non ce ne fosse uno tranquillo. Persino il sergente, quando entrò
nella stanza, aveva un cipiglio che non gli aveva mai visto.
Il
sottufficiale scorse alcuni fogli che aveva in mano, quindi annunciò:
“La fase preliminare della sperimentazione si è conclusa ieri. La
seconda fase comincerà domani, alle zero nove zero zero
antimeridiane.” Prese un pennarello, si avvicinò a una lavagna
bianca e vi tracciò un semplice schema del laboratorio. “La
squadra Alpha prenderà posizione nel vestibolo,” annunciò, dopo
aver tracciato una A rossa nel punto indicato, “pronta a
intervenire di supporto nel caso fosse necessario. La squadra Bravo
sarà all'interno del laboratorio...”
“Ehi,
perché proprio noi?” non poté esimersi dal protestare Beau. La
frase innescò un coro di brontolii di disappunto.
“Silenzio!”
ordinò Mitchell. “Silenzio! Piantala, Lyles!”
I
brontolii a malincuore cessarono. Il sergente riprese: “La squadra
Bravo, che ha avuto i migliori risultati ai test medici dopo
esposizione al materiale di sperimentazione, rimarrà all'interno del
laboratorio. La squadra Charlie presidierà la zona dell'ascensore e
dei montacarichi, la squadra Delta è addetta al controllo in sala
monitor.”
A
quelle parole, di nuovo Beau esplose: “E che cazzo! A saperlo, mi
cagavo addosso, in quel fottuto laboratorio, e poi voglio vedere se i
test medici erano positivi!”
“Lyles!”
“No,
Lyles un cazzo! Io...”
“Basta!
Ne riparliamo quando questa faccenda è finita, comunque.”
Di
nuovo, a malincuore il soldato si tacitò e rimase, torvo e immobile,
a fissare ostinatamente un punto all'infinito dietro le spalle del
sottufficiale.
“Adunata
domani alle zero otto zero zero antimeridiane,” disse il sergente,
“tenuta da combattimento, elmetto e giubbotto antiproiettile.”
Una
volta che fu dato l’ordine di rompere le righe, Beau si rivolse a
Chet: “Tenuta da combattimento? Ma chi cazzo dovrebbe arrivare in
quel laboratorio, i terroristi islamici?”
L’altro
si strinse nelle spalle. “Non lo so. L’hai visto anche tu cosa
succede là dentro.”
“Sì,
certo.”
“Beh,
non sono cose normali,
se capisci quello che intendo dire. Visto che comunque domattina
saremo là, non mi dispiacerà avere la tenuta da combattimento e
l’M-4.”
I
due abbandonarono la stanza e presero a camminare fianco a fianco
lungo un corridoio. Beau non dimenticò di mostrare il dito medio
alla telecamera di sorveglianza quando ci passò sotto.
“Secondo
te di cosa hanno paura?” chiese dopo un po’, “Che qualcuno vada
fuori di testa per colpa di quei suoni strani?”
“Dubito
che ci farebbero intervenire in tenuta da combattimento, se il
problema fosse qualcuno che va fuori di testa.”
Lyles
non rispose, i due continuarono a camminare in silenzio. Dopo un po’,
fu Chet a riprendere il discorso: “Non è quello che ho sentito
dire in giro, perlomeno.”
Beau
si voltò a fissarlo. “Cosa?”
“Le
persone fuori di testa. Non sono loro il problema.”
“E
quale sarebbe allora?”
Chet
si guardò intorno, poi abbassò la voce e rispose: “Sembra che
quella nuova arma
che stanno studiando non sia così ben controllabile come credevano.”
“Sì,
ma che genere di arma sarebbe?” chiese Beau, un po’ impressionato
da quell’aria di mistero.
Westbrook
stava per rispondere quando alle loro spalle echeggiò la voce del
caporale Mitchell: “Ehi, voi due! Venite qui, ci sono le camerate
da pulire!”
§
Sprofondato
nella poltrona, Kozlov alzò appena lo sguardo e salutò: “Ciao,
Me.” Fece un sorrisetto. “Qual buon vento?”
Me
si fece avanti senza rumore e si sedette sul letto. Le molle, che di
solito cigolavano in modo straziante, rimasero mute.
Sotto
il riverbero del suo camice candido, la coperta dalla fantasia tipo
tartan si trasformò in un intrico di vasi pulsanti, di cavi luminosi
attraversati da energie sconosciute. Divenne un mazzo di fibre
ottiche di tutti i colori, che a ogni intersezione generavano gocce
di luce così intensa da fare male agli occhi, stillanti come
rugiada, brillanti come gemme.
“Sono
venuto a salutarti,” disse in tono pacato. Lentamente si passò una
mano fra i capelli corvini e Kozlov quasi si incantò nel seguire con
lo sguardo le ciocche di un nero purissimo che scorrevano tra dita
bianche come marmo. “A salutarmi?” mormorò, lo sguardo
calamitato dalla straziante perfezione plastica di quel pur semplice
movimento.
Me
abbassò la mano e si raddrizzò nella persona. “I campi di
contenimento sono instabili,” disse.
“Basta
che tengano fino alla fine della traccia audio.”
L’altro
scosse la testa. “Sarà lì che cominceranno i problemi.”
Kozlov
gli rivolse uno sguardo torvo. “I problemi? Per un po’ di plasma
che scoppietta?”
“Oh,
fosse solo qualche scarica elettrostatica di troppo...” buttò lì
Me.
“D’accordo,
c’è stata anche qualche persona che si è sentita male,”
concesse il professore. “E allora? Gente impressionabile,
psichicamente immatura.”
L’altro
scosse la testa. “Non hai bisogno di mentire. Non a me, perlomeno,
dal momento che io so tutto quello che sai tu.”
Kozlov
distolse lo sguardo. Si guardò le mani e gli parve di vedere ogni
poro della cute, i capillari, i muscoli, traslucidi e rossi come
frutti, con i tendini di un candore abbagliante, quasi argentato. E
sotto di essi le ossa, in tutto il loro eburneo nitore, con i capi
articolari coperti da uno strato di cartilagine lucida e azzurrina
come uno strato di ghiaccio… “Basta, sto divagando,” disse
asciutto. Tornò a fissare il suo ieratico visitatore.
Questi
gli rivolse un lieve sorriso, quindi domandò: “Te lo sei chiesto,
vero? Io so
che te lo sei chiesto.”
“Di
cosa stai parlando?”
“Che
cosa ha ucciso tutti
quei soldati russi. Nonostante la tua entusiastica presentazione, so
che all’inizio eri scettico: hai pensato dapprima a un artefatto
fotografico e poi anche a una banale truffa, ma non hai certo
rifiutato la possibilità di lavorare con apparecchiature come quelle
che ci sono qui, giusto? Lasciamoli alle loro fantasie, hai pensato,
io intanto ho l’occasione di sperimentare come voglio e raccogliere
dati.” Fece una breve pausa, poi proseguì: “Quando hai capito
che non si trattava di artefatti?”
Kozlov
rimase in silenzio. Non c’era stata una vera e propria
illuminazione, nessun Eureka!
gridato mentre correva nudo per le strade. Era stato piuttosto
l’accumularsi di dati sperimentali che non collimavano con quelli
attesi, di fenomeni che sembravano sfuggire a ogni tentativo di
interpretazione. Nemmeno Marsia, la più sofisticata tecnologia di
analisi spettrografica disponibile sul mercato, era stato in grado di
fornire una spiegazione attendibile di certe cose che nondimeno erano
accadute.
Si
affondò le mani tra i capelli, strinse le ciocche tra le dita e le
tirò come se avesse voluto aprirsi in due la testa.
Gli
giunse di nuovo la voce pacata di Me: “Il manoscritto, vedi, è un
catalizzatore.”
Kozlov
abbassò le mani e lo fissò con interesse. “Che intendi dire?”
“Ti
sei mai chiesto cosa significhino le sue figure?”
“Sono
dei demoni. Sciocche superstizioni di un culto primitivo.”
“Perché
li hanno rappresentati così?”
“Coazione
a ripetere, immagino. Schemi precostituiti e socialmente accettati
per raffigurare creature potenti e spaventose.”
“Si,
ma il primo
che li ha raffigurati, da dove ha tratto l'idea di farli in quel
modo?” chiese Me.
Il
professore alzò le spalle con noncuranza e rispose: “È un
problema che attiene all'antropologia, forse. Non certo alla
Scienza.”
“Dipende.”
“No,
nel mio campo, nulla dipende.
Ci sono solo misure esatte. Un litro d'acqua pesa un chilo sia qui
che a Buenos Aires che a Helsinki e bolle a cento gradi Celsius in
tutti e tre i posti.”
“Se
questo fosse il metro di valutazione, il valore della Gioconda si
potrebbe calcolare sommando il costo della tela, dei colori usati per
dipingerla e delle ore di lavoro di Leonardo.”
“Per
me è così.”
“Ma
la realtà contingente ti insegna che invece non
è così.” Me fece un lieve sorriso, enigmatico come quello
dell’opera che aveva appena nominato, quindi soggiunse:
“L'importanza di quelle figure va al di là della mera composizione
chimica dei pigmenti usati per dipingerle.”
“E
dove risiederebbe, secondo te?”
“Sono
proiezioni di qualcosa.”
“Sarebbe
a dire?”
“I
mostri dell’inconscio. Non dirmi che non ci hai pensato, perché so
che l’hai fatto.”
L’uomo
si chiuse per lunghi secondi in un silenzio meditativo, infine disse:
“Poniamo che tu abbia ragione. L’insieme delle armoniche ionizza
i gas dell’atmosfera, conferendo loro un’enorme energia. Le
figure del manoscritto evocano l’immagine di mostri dell’inconscio
collettivo. Ma in che modo si combinano le due cose?”
Me
emise un teatrale sospiro, quindi rispose: “Sarebbe stato molto
interessante scoprirlo. Peccato che l’esperimento di domani sarà
l’ultimo.” Accavallò le gambe e intrecciò le dita sul ginocchio
di quella più alta, poi piegò appena il capo all’indietro. “Sarà
l’ultimo,” ripeté. “I campi di contenimento non terranno.”
“E
tu come lo sai?”
“Io
sono una tua proiezione e grazie all’allentamento della valvola
riducente operato dalla mescalina ho accesso a contenuti della tua
mente che in condizioni normali vengono bloccati dagli strati
superiori della coscienza. Dentro di te, sai già che domani andrà
male e che non ci ci saranno altri esperimenti, io non faccio altro
che esplicitarlo.”
Kozlov
emise una risatina sarcastica. “E quindi sei venuto a salutarmi?”
Me
si strinse nelle spalle e rispose: “Può darsi. L'apertura della
valvola libera anche una serie di contenuti emotivi che normalmente
riesci a mantenere nel preconscio.”
“La
mescalina mi farebbe diventare una specie di sentimentale?”
“Dimmelo
tu.”
Me
abbandonò la sua posizione rilassata e si alzò in piedi, quindi gli
si avvicinò lentamente. Kozlov strinse gli occhi abbagliato dallo
splendore del camice bianco che indossava, quindi gli chiese: “Che
cosa saresti? Una specie di Doppelgänger che viene a predirmi
disgrazia? Sono solo stupide superstizioni.”
Me
lo fissò serio, quindi rispose: “Sono il tuo cattivo demone,
Bruto. Ci rivedremo a Filippi.” Poi si piegò su di lui e posò le
proprie labbra sulle sue.
§
Le
squadre Alpha, Charlie e Delta avevano già preso posizione, si
udivano di tanto in tanto le comunicazioni radio che i rispettivi
comandanti si scambiavano fra loro o col sergente. La squadra Bravo,
in completo assetto da combattimento, aspettava ancora davanti alla
porta del laboratorio. Westbrook scambiò uno sguardo perplesso con
Lyles, poi diede un'occhiata all'interno e vide il tizio con gli
occhiali da nerd che trafficava sul computer enorme. Arrivò poi il
tizio dai lineamenti indiani, che tirò fuori di nuovo la sua
collana, si mise da una parte e cominciò a recitare una specie di
preghiera. Il nerd gli disse qualcosa e l'altro replicò in tono
risentito. Il breve battibecco fu interrotto da un altro tizio in
camice bianco, alto, con gli occhiali cerchiati d'oro e l'aria
severa.
Tutti
sembravano molto nervosi, scattavano per un nonnulla. Uno dei tecnici
ne urtò per sbaglio un altro mentre sistemava qualcosa e per poco
non vennero alle mani.
Erano
quasi le nove.
Westbrook
cercò di nuovo lo sguardo di Lyles, che gli rimandò lo stesso
messaggio di inquietudine.
“Siamo
pronti?” chiese qualcuno. La frase cadde nel vuoto.
A
un certo punto si avvicinò il caporale Mitchell e ordinò:
“Westbrook, va a chiamare Kozlov, manca solo lui.”
Il
soldato diede un'altra occhiata all'interno del laboratorio, in cui
dopo la frenesia della preparazione regnava una strana calma
sinistra, e fu tentato di rispondere lasciamolo
dov'è.
“Muoviti,”
lo sollecitò il graduato.
Chet
si mise l'M-4 a spall'arm e si allontanò lungo il corridoio. Udiva
dietro di sé un canto che non era quello della registrazione e
comprese che era il tizio indiano che stava salmodiando qualcosa.
Si
costrinse a non pensarci, quella cosa sapeva dannatamente di
preghiera.
Raggiunse
l'ascensore e da lì il livello degli alloggi del personale
scientifico. Andò alla porta di Kozlov e bussò un paio di volte.
Due
rintocchi come di campana, dal tono cupo e funesto, destarono il
professore, ancora riverso sulla poltrona. Egli si guardò intorno e
sulle prime parve stupito di trovarsi in stanza da solo. Si passò le
dita sulle labbra, dove il ricordo del bacio di Me bruciava come la
traccia lasciata da un carbone ardente, e poi fissò i polpastrelli,
certo di scorgervi qualche iridescente traccia di saliva.
Altri
due colpi lo distolsero da quella contemplazione. Da fuori una voce
chiese: “Professore, è lì dentro?”
Kozlov
si alzò, trasse di tasca la chiave e fece scattare la serratura. Si
trovò davanti un soldato e il suo sguardo fu immediatamente
calamitato dal susseguirsi dei quadretti di diverso colore sulla sua
mimetica digitale. Grigi antracite, perla, ferro, tortora... colori
sontuosi, pieni, opulenti, nei quali veniva voglia di perdersi come
in una landa inesplorata...
“Signore?”
La voce del soldato lo distolse da quell'appagante contemplazione.
Egli alzò lo sguardo a fissarlo negli occhi e si trovò a
contemplare iridi screziate sulle tonalità del verde, con filamenti
più chiari, alcuni quasi dorati, altri sui toni del grigio e
dell'azzurro, che convergevano a raggiera su pupille mediamente
dilatate. Immaginò di fermarsi sul bordo di una di esse e guardare
giù, come avrebbe potuto scrutare da una giungla in un pozzo
naturale.
Il
soldato distolse lo sguardo, sottraendogli così il materiale di
osservazione. La cosa lo fece sentire indispettito, tanto che
aggrottò le sopracciglia e chiese: “Pensi che fuggire serva a
qualcosa?”
Per
tutta risposta, il giovanotto fece un passo indietro e dalla nuova
posizione rimase a fissarlo perplesso.
Kozlov
si passò una mano sul viso, cercando di liberarsi degli ultimi
strascichi della mescalina che aveva assunto durante la notte, poi
proseguì: “Fuggire non servirà. Tu credi nel Doppelgänger?”
Il
soldato assunse un'espressione stupefatta. “Signore?”
“Il
Doppelgänger. Il doppio. Sai di cosa parlo?”
“Nossignore.”
“Beh,
non starò ad annoiarti con le teorie sul doppio, anche perché forse
non le capiresti. Sappi soltanto che il Doppelgänger mi ha detto che
oggi andrà tutto male.”
Il
soldato rimase a fissarlo in un modo che a Kozlov parve anche
piuttosto stolido. “Male,” ripeté il professore, infilandosi con
gesti frettolosi il camice bianco. “Male. Disastro. Capisci?”
“Ma...”
interloquì il giovanotto.
“Sì?”
“Ecco,
signore... se sa già che andrà tutto male, perché non ferma
l'esperimento?”
Egli
fece un gesto come per scacciare un insetto: “Il Doppelgänger è
la mia parte emotiva, umorale.
Intuisce, più che sapere, e le intuizioni sono notoriamente
imprecise.”
In
quel momento si attivò la ricetrasmittente che il militare aveva
sulla spalla. Da essa uscì una voce gracchiante che chiese:
“Westbrook, a che punto sei?”
“Stiamo
arrivando, caporale.”
§
La
prima cosa che Westbrook notò fu che il tizio indiano aveva smesso
di cantare la sua nenia. Nel laboratorio c'era un gran silenzio,
rotto solo da un ronzio basso e persistente, che evocava l'idea di un
animale in agguato.
Il
tizio con gli occhiali da nerd si avvicinò alla telecamera facendo
echeggiare i passi sul pavimento. Si accertò che fosse accesa e
scandì: “Sperimentazione Trebitsch-Lincoln numero quindici:
recitazione fase due, parti iniziale e centrale.” Tornò alla
console.
Il
tizio alto con gli occhiali d'oro si aggiustò nervosamente il
camice.
Qualche
tecnico sullo sfondo stava connettendo cavi o spostando carrelli.
Il
soldato si sentì battere sulla spalla. Si voltò e Lyles gli chiese:
“Tutto ok?”
Westbrook
sorrise. “Sì, tranquillo.”
L'altro
fece ostentatamente scorrere lo sguardo tutt'intorno e brontolò: “Lo
sai che fine ha fatto Tranquillo, vero?”
“No,
quale?”
“La
stessa che stiamo per fare noi.” Stava per aggiungere altro, ma la
sua attenzione, come quella di tutti, fu attirata dall'arrivo del
professor Kozlov. L'uomo appariva più scarmigliato del solito, più
torvo. Aveva cerchi scuri intorno agli occhi e le falde del camice
sbottonato gli svolazzavano intorno al corpo magro. “Cominciamo,”
disse semplicemente, quindi si accomodò a sua volta a una console.
Nel silenzio della sala, si sentì la sua voce che diceva: “Ben
ritrovato, Marsia.”
“Io
dico che quello è suonato,” grugnì Lyles, fermo al fianco di
Westbrooke.
“Ragiona
a tre cilindri,” fu la cupa risposta.
Nel
laboratorio di fece udire di nuovo la voce di Kozlov: “Proceda,
Henson.”
“Sì,
professore,” rispose il nerd.
Partì
la melodia che ormai conoscevano molto bene. A Westbrook sembrò più
forte del solito, più graffiante, tanto che mentre si massaggiava le
braccia, in cui i muscoli avevano improvvisamente cominciato a
dolergli come dopo una giornata di allenamenti, si sentì squassare
da brividi di freddo. Istintivamente rivolse lo sguardo verso Lyles.
Questi si voltò simultaneamente verso di lui e si sporse fino a
toccarlo con la spalla.
Le
armoniche cominciarono ad accompagnare il brano principale. Un primo
neon sfarfallò brevemente e poi si spense, subito dopo un altro si
ruppe in due con uno schiocco. Da una parte ci fu uno sfrigolare di
scintille. Nell'aria si diffuse odore di ozono, sottili archi
elettrici, di colori che andavano dal violaceo al bianco brillante,
presero a torcersi crepitando.
Westbrook
si passò una mano sugli occhi. Al centro della sala, gli parve di
vedere le scintille rimbalzare contro qualcosa. Subito dopo, la
voluta di fumo che si levava da un apparecchio surriscaldato si torse
attorno a qualche ostacolo invisibile.
“Beau!”
esclamò. Si fece scivolare l'arma dalla spalla e la imbracciò
convulsamente.
Lyles
si voltò verso di lui. “Ehi, ma che cazzo...” cominciò, poi
guardò verso il laboratorio e a voce più alta ripeté: “Che cazzo
sta succedendo?” Imbracciò a sua volta l'arma. “Chet, ma che
cazzo è quello?”
Un
armadio carico di strumentazioni fu spinto via come da un calcio e
andò a schiantarsi contro la parete, un case fu strappato via, e coi
cavi ancora penzoloni attraversò in volo la stanza e si fracassò al
suolo. Ci fu un altro nugolo di scintille, che nel rimbalzare delineò
per un istante qualcosa di simile a un arto che si muoveva.
Le
luci si spegnevano una dopo l'altra, il fumo stava invadendo
l'ambiente.
Westbrook si voltò verso i commilitoni, ma tutti si stavano agitando
irresoluti. La recitazione frattanto continuava, e di attimo in
attimo sembrava prendere nuova forza, diventando sempre più
difficile da tollerare.
“Fermatelo!”
urlò qualcuno, a Chet parve che si trattasse del tizio alto con gli
occhiali d'oro. “Fermate il canto.”
L’uomo
fece per muoversi verso il grosso computer chiamato Marcie,
ma d'improvviso qualcosa sembrò ghermirlo e scrollarlo come uno
straccio. Si udì distintamente lo scroscio delle vertebre cervicali
che si fratturavano, quindi il corpo ormai senza vita venne scagliato
contro un muro, alla cui base si afflosciò in un viluppo informe e
sanguinante.
“Che
cosa è stato?” urlò qualcuno con voce incrinata dall'angoscia,
“Che cos'era?”
Un
tavolo andò a gambe all'aria spargendo in giro strumentazioni, un
altro uomo fu afferrato da qualcosa di cui si percepiva solo una vaga
sagoma nell'aria caliginosa, si udì un urlo raccapricciante e in un
lucido spruzzo carminio le due metà del corpo finirono una da una
parte e una dall'altra.
Con
un fracasso da fine del mondo, nella stanza ormai completamente buia,
rischiarata qua e là da scariche elettriche e scintille, si scatenò
un fuggi fuggi generale. Tutti cercavano di uscire calpestando chi
cadeva e facendosi largo fra i detriti, ma di tanto in tanto qualcuno
veniva ghermito e trascinato indietro.
Westbrook
si sentì investire all'improvviso da qualcosa che sembrava un
fortissimo campo di elettricità statica, si sentì spingere
all'indietro e poi qualcosa di pesante gli piombò sul petto
mozzandogli il respiro. Poi sentì Lyles urlare: “Non provarci,
stronzo!” Subito dopo, lo vide afferrare l'M-4 per la canna e
abbatterlo con tutte le sue forze contro quello che gli parve solo il
vuoto. L'arma però rimbalzò come su qualcosa di duro, poi una forza
immane sollevò il soldato e lo scaraventò lontano.
“Beau!”
gridò Westbrook. Lo raggiunse, si inginocchiò accanto a lui.
“Beau!” gridò di nuovo, scuotendolo per i vestiti, “Beauregard,
parlami!”
L'altro
aprì gli occhi, tossì un paio di volte. “Chet? Ma come cazzo mi
stai chiamando?”
“Beauregard.
Non è così che ti chiami?”
“Solo
mia nonna mi chiamava così.”
Mentre
l’amico con fatica si rialzava, Chet si guardò rapidamente
intorno: la devastazione continuava, qua e là echeggiavano raffiche
di mitra, una granata flash-bang illuminò a giorno per un istante il
laboratorio ed evidenziò delle forme in movimento, o più che altro
l’impressione che ci fossero delle forme enormi che si muovevano al
centro della stanza. Un altro uomo fu afferrato come un fuscello e
lanciato lontano, una colonna in cemento armato esplose come un
petardo scagliando frammenti tutt’intorno, dal soffitto crollarono
schegge di cemento e calcinacci. Il nugolo di polvere sollevato fu
ancora una volta spostato dall’ampio gesto di qualcosa che non si
vedeva.
Sentì
Mitchell urlare: “Ripiegare! Ripiegare!” Di nuovo echeggiarono
raffiche di mitra, una sventagliata di proiettili fece schizzare
brandelli di rivestimento metallico da un armadio. Qualcuno emise un
lamento atroce.
Weestbrook
si sentì afferrare per un braccio e trascinare via. Sulle prime
istintivamente oppose resistenza, ma la voce di Beau ringhiò: “Sono
io, stronzo.”
Cominciarono
a correre inciampando su detriti e corpi, cadendo e rialzandosi. Alle
loro spalle si udivano rumori di suppellettili infrante e urla di
dolore. Una specie di palla li oltrepassò in volo e atterrò con un
sordo rimbalzo, poi rotolò via goffamente, rivelandosi una testa
umana staccata dal busto. Il volto tumefatto conservava
un’agghiacciante espressione di orrore.
Si
voltarono con l'intento di coprire la ritirata degli altri, ma non
c'era nulla contro cui sparare. Gli oggetti sembravano esplodere
dall'interno, i corpi prendere il volo da soli. A parte quello
prodotto da mobili e strumenti che venivano fracassati, o le urla di
chi veniva ghermito, non si udiva altro rumore.
“Muoviti!”
esclamò Beau. Corsero fuori evitando di stretta misura il lancio di
un blocco di cemento e nell'allontanarsi si sentirono spostare da
qualcosa di poderoso che poi passò oltre.
§
Seduto
a terra, la schiena appoggiata a una parete, Kozlov contemplava con
distacco il riflesso delle fiamme sulla pozza di sangue che si stava
allargando sotto di lui. “Rosso carminio,” mormorò. “O forse
vermiglio.”
Sollevò
lo sguardo e lo fece girare su quello che restava del laboratorio:
l’unica luce proveniva dalle due o tre lampade antincendio che
erano sopravvissute alla devastazione, l’ambiente era gravato di
ombre nitide e intense. Di quando in quando sfrigolavano nell’aria
caliginosa nugoli di scintille.
Notò
una macchia bianca in movimento, così intensa da gettare un
riverbero tutt’intorno a sé. Fece un lieve sorriso e con fatica
chiese: “Siamo a Filippi, per caso?” Tossì un paio di volte e
soggiunse: “Non avevi detto che non ci saremmo più rivisti?”
“Allucinazione
pre-exitus,” chiarì Me con distacco.
“Nientemeno,”
gracchiò Kozlov. Di nuovo si guardò intorno e disse: “Quasi mi
dispiace non vedere tutto questo sotto l’effetto della mescalina.”
“Le
capsule sono nella tua tasca destra,” gli ricordò Me, fermo in
piedi davanti a lui. Kozlov notò che il sangue sembrava girargli
intorno, come per paura di sporcarlo. Scosse la testa e rispose:
“Morirei prima di riuscire ad assimilarle e l’illusoria
sensazione di benessere che proverei sarebbe solo il risultato di un
miserabile effetto placebo.”
“Ora
sei in stato di shock ipovolemico,” gli fece notare Me, sempre
dritto in piedi davanti a lui, “la Valvola Riducente è comunque
allentata, per effetto dell’ipossia sul cervello.”
“È
per questo che ti vedo?”
“Già.”
Kozlov
annuì, poi disse: “Sai, penso di aver capito. Peccato solo non
poter fare un’altra prova.”
“Che
cosa, hai capito?”
“I
monaci dovevano avere qualche sistema per focalizzare
la recitazione su un nemico. A quel punto, non c’era bisogno di
contenimento.”
“Anche
perché il contenimento non è possibile.”
Il
professore provò a scuotere la testa, ma subito vi rinunciò con una
smorfia di dolore. Fece poi un tentativo di sistemarsi più
comodamente e si accorse che ormai non sentiva più la parte
inferiore del corpo. “Non con le conoscenze che abbiamo adesso, in
ogni caso,” mormorò. Sollevò con fatica una mano e si terse il
sudore gelido che gli imperlava a fronte. “Moriranno tutti, vero?”
chiese poi.
“Sai
che è così. Quello che hai liberato non si fermerà fino a che non
avrà portato a termine il suo compito.”
“Che
cos’è?”
“Tu
cosa pensi che sia?”
“Non
voglio passare i miei ultimi istanti di vita a risolvere sciarade.
Dimmelo tu, visto che sei me stesso a un livello di consapevolezza
superiore.”
In
quel momento, Me sembrò tremolare come un riflesso sull’acqua. Sto
morendo, pensò
Kozlov, e si preparò a vivere l’esperienza, col solo rimpianto di
non poterci ragionare sopra in seguito, ma si sentì investire da
qualcosa che sembrava un fiato caldo, anche se l’aria era immobile.
Peli e capelli gli si rizzarono come per effetto di una forte carica
elettrostatica. Un brivido di luce crepitò delineando contro il buio
una sagoma che offuscava lo splendore di Me come una specie di vetro
opaco.
L’ultima
cosa che vide furono tre occhi disposti a triangolo, immensi, feroci
e iniettati di sangue, che lo fissavano.
§
Westbrook
si trovò a correre a perdifiato per un corridoio semibuio, invaso
dal fumo degli spari e rimbombante di urla e raffiche di mitra.
Come
negli incubi peggiori, qualcosa lo stava inseguendo, ma per quanto
egli si lanciasse occhiate alle spalle, non riusciva né a sentirlo
né a vederlo.
Tuttavia
lo percepiva, anche se forse non con i canonici cinque sensi.
“Abbiamo
qualcosa dietro!” urlò.
“E
allora muovi il culo!” replicò Lyles, che correva accanto a lui.
Un
pannello della parete si coprì di intaccature profonde come per il
colpo di un gigantesco artiglio, quello successivo si accartocciò
come un foglio di carta, schizzò via e si perse rimbalzando nel buio
del corridoio. Un estintore si staccò dal suo supporto, impattò
contro il soffitto, rimbalzò per terra e cominciò a girare su se
stesso sibilando ed emettendo un getto di polvere. Nella nube
azzurrina fu visibile per un attimo una sagoma vagamente umanoide, ma
così alta da sfiorare il soffitto e larga quasi come tutto il
corridoio.
Subito
dopo, altri elementi della pannellatura volarono via, seguiti dalla
coibentazione del soffitto e dai tubi dell’aerazione.
Il
soldato continuava a correre più in fretta che poteva. A un certo
punto incespicò e sentì una mano stringersi intorno al suo braccio.
“Muovi il culo!” ripeté Lyles.
Sbucarono
nell’atrio dal quale si dipartiva la maggior parte dei corridoi.
Anche quella sala era disseminata di corpi, una parete era annerita
dagli effetti di uno scoppio, su tutte le altre c’erano raffiche di
mitra e schizzi di sangue.
“Agli
ascensori!” urlò Beau, poi lo sospinse in quella direzione.
Quando
raggiunsero il luogo, rimasero per un istante impietriti dall’orrore:
una delle cabine era completamente squarciata e lasciava vedere la
voragine del vano di corsa, le porte dell’altra continuavano ad
aprirsi e chiudersi su quello che rimaneva di un tecnico di
laboratorio. La porta che dava sulle scale era aperta e parzialmente
divelta.
“Via
di qui!” urlò Lyles. Si buttarono a rotta di collo in un altro
corridoio, inseguiti dal lancio di una delle porte dell’ascensore,
che rimbalzò un paio di volte contro le pareti staccando ampi pezzi
di rivestimento.
Westbrook
adocchiò una zona invasa dal fumo. “Di qua!” ansimò. “Facciamo
perdere le nostra tracce!”
Corsero
praticamente tentoni, tenendo una mano contro la parete per
orientarsi, solo per udire alle loro spalle il rumore delle
pannellature divelte. “Cazzo, ma come fa a vederci?” urlò Beau.
“Forse
sente l’odore!”
“In
mezzo a questo casino? C’è puzza di qualsiasi cosa, qui dentro.”
“Dove
stiamo andando?”
“E
che cazzo ne so? L’importante è che sia lontano da quegli affari!”
Il
corridoio finì. In fondo c’era solo una porta, di quelle con la
metà superiore di vetro retinato. “Merda!” imprecò Beau. Provò
ad abbassare la maniglia, che però non si mosse. “Cazzo!”
Chet
si voltò: i rumori di devastazione andavano aumentando. “Arriva!”
disse.
L’altro
afferrò l’M-4 e con il calcio dell’arma colpì il vetro, che si
crepò nel mezzo. “Non startene lì impalato,” ringhiò, “dammi
una mano.”
Cominciarono
a battere, coi calci e con le canne, cercando di spaccare l’armatura
di metallo che il vetro aveva all’interno.
Infine
Beau prese la rincorsa e con una pedata riuscì a far cadere il
pannello. “Ora saltiamo!” disse, quindi si buttò dall’altra
parte.
Si
sentirono una serie di tonfi metallici, dei gemiti soffocati, un
tonfo più forte e infine silenzio. “Beau?” chiese Chet.
Non
ricevette risposta, ma un pezzo di corpo umano che colpì la parete a
poca distanza da lui lo convinse a saltare oltre la porta.
Cadde
per un tratto che gli parve enorme, rimbalzò su qualcosa di duro,
rotolò e infine si aggrappò a un tubo di ferro che riuscì a
fermare la sua caduta. A quel punto realizzò di essere su un
pavimento di linoleum, ai piedi di una scala. “Beau?” chiamò,
massaggiandosi una spalla indolenzita.
“Qui,”
rispose l’altro avvicinandosi.
“Stai
bene?”
“A
posto, e tu?”
“Ok.”
Simultaneamente,
i due alzarono lo sguardo verso la porta, poi si scambiarono
un’occhiata. “È ancora là,” disse Chet sottovoce.
Con
lo stesso tono, Beau chiese: “Sei sicuro?”
“Sì,
anche se non capisco perché non entri qui.”
“Ti
dispiace, per caso?”
Di
nuovo scrutarono la porta, oltre la quale non si vedeva nulla e non
si udiva alcun rumore. “Cerchiamo di capire dove siamo finiti,”
disse Westbrook, distogliendo lo sguardo e facendolo girare
tutt’intorno.
Si
trovavano in una stanza ampia e scarsamente illuminata. Ai due lati
di una passatoia leggermente sopraelevata erano allineate strutture a
parallelepipedo grandi come furgoni, ognuna dotata di un quadro
comandi su cui pulsavano delle luci.
“I
generatori elettrici,” disse Beau, facendo un passo verso le
imponenti apparecchiature. “Sono enormi.”
“Ci
credo,” rispose Chet, “hai idea di quanta energia riescano a
succhiare i laboratori? E solo su questo piano ce ne sono tre.”
Percorsero
adagio la passatoia. Alle loro spalle si coglieva l'eco flebile di
urla e spari.
Chet
si voltò a guardare. “Non ci segue,” ripeté.
“Tanto
meglio,” brontolò Beau, “almeno qui dentro siamo al sicuro.”
“Non
saprei, forse...” Un rumore li fece sobbalzare. Si girarono in
quella direzione con le armi spianate e si trovarono di fronte un
ometto magro con la divisa da tecnico, gli occhiali e un'incipiente
calvizie, che appena li vide alzò le mani e disse: “Non sparate,
sono uno dei vostri!”
Abbassarono
le armi.
“Sono
arrivati i terroristi?” chiese l'ometto, facendo saettare uno
sguardo dubbioso dall'uno all'altro.
Westbrook
fu il primo a riprendersi. “Non proprio,” rispose.
“Ma
su stanno sparando di brutto,” insisté l'altro.
“Sì,
c'è qualcosa.”
“Cosa?”
Il
soldato scosse la testa. “Non lo sappiamo.” Raccontò brevemente
quanto era accaduto.
“Io
credevo che fossero i terroristi,” ripeté l'ometto, all'apparenza
poco impressionato dai mostri invisibili. La voce aveva quasi un tono
deluso.
“Niente
terroristi.”
“Beh,
qui comunque non sono arrivati.” Tese solennemente la mano.
“Seymour Fisher.”
“Io
sono Chet e lui è Beau,” rispose Westbrook stringendogliela. “Ci
sono altre uscite oltre la porta da cui siamo passati?”
“Certo.
Una davanti al laboratorio 3, una vicino al montacarichi della zona B
e una scala che mette in comunicazione i generatori del nostro
livello con quelli del livello 4. Non consiglio di usare la scala,
però, perché stanno facendo dei lavori al generatore 2 di quel
livello e quindi non sono certo che sia del tutto sicura.”
“Sei
ben informato,” commentò Lyles.
Fisher
assunse un'espressione orgogliosa. “Io so tutto
di Aguas Muertas,” rispose, “praticamente sono qui da quando
l'hanno inaugurata.”
In
quel momento si udirono una serie di colpi concitati.
Tutti
e tre si voltarono in quella direzione, poi Lyles disse: “È
qualcuno dei nostri che vuole entrare.” Si rivolse a Fisher: “È
meglio aprire la porta.”
Il
tecnico trasse di tasca una tessera magnetica, quindi fece cenno ai
due di seguirlo.
Oltre
la porta c'era effettivamente un gruppo di persone. Due soldati
stavano battendo contro il vetro esattamente come avevano fatto loro
pochi minuti prima e alle loro spalle c'era una piccola folla di
divise e camici bianchi che si agitava.
Mentre
Fisher digitava il codice, un militare urlò e venne sollevato di
peso, poi si udì il rumore di qualcosa che si squarciava e il vetro
si coprì completamente di sangue. Oltre la porta, ovattati dal suo
spessore, echeggiarono atroci lamenti d'agonia.
L'anta
finalmente si aprì e diverse persone crollarono dentro. Westbrook
riconobbe il dottore con gli occhiali da nerd, apparentemente illeso
ma con il camice fradicio di sangue, il sergente Ewing, un paio di
uomini della squadra Delta e un paio della squadra Charlie, uno dei
quali ferito e sostenuto quasi di peso dall'altro.
“Sbarrate
tutto!” ordinò Ewing non appena furono entrati, ma Lyles gli
disse: “Qui dentro non vengono, sergente.”
Il
sottufficiale lo fissò dubbioso. “Come sarebbe a dire che qui non
vengono? Perché?”
Prima
che il soldato potesse rispondere, la maggior parte delle luci si
spense, gettando gli ambienti in una sinistra penombra. Venne meno il
ronzio di fondo del sistema d'aerazione, lasciandosi dietro un gran
silenzio. Cominciò a suonare il segnale di allarme rosso.
“Oh,
merda!” imprecò Ewing.
“Lei
sa cosa sta succedendo, sergente?” chiese Westbrook con un gran
brutto presentimento.
“Il
sistema ha rilevato questo casino come una falla nel contenimento.
Fra trenta minuti in questo posto ci saranno più raggi gamma che a
Hiroshima, Nagasaki e Chernobyl messe insieme.”
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Cari lettori,
siamo
alla fine del mappazzone, spero che abiate apprezzato la vicenda.
Ringrazio come sempre tantissimo chi mi ha seguito, chi mi ha messo
in qualche lista e chi è stato così gentile da lasciarmi un
commento.
Grazie
a tutti, sono i lettori che fanno vivere le storie, non gli
scrittori.
Capitolo
3
“Perché
trenta minuti?” chiese Lyles, guardandosi intorno con aria quasi
offesa. La sua espressione era quella di chi è rimasto vittima di
uno scherzo di pessimo gusto. “Anche se avessimo a disposizione
dieci ore, come accidenti facciamo a uscire di qui, con quegli affari
ancora in giro?”
Il
sergente scosse la testa e rispose: “Una falla nel contenimento
significa che non esce più nessuno. Qualsiasi cosa sia qui dentro –
noi inclusi – è considerata a potenziale rischio biologico.”
“Cioè,
mi faccia capire,” ringhiò Lyles, “questi ci vogliono friggere
come calamari?”
“È
così.”
“E
noi non possiamo far sapere a quelli che stanno là fuori che non c'è
nessuna cazzo di contaminazione biologica? Che abbiamo solo delle
stronze bestie invisibili che ci stanno aprendo il culo?”
Nessuno
rispose.
“Eh?
Non possiamo comunicarlo a qualcuno? Dobbiamo stare qui a farci
arrostire le palle come degli stronzi?”
Westbrook
gli mise una mano sulla spalla, ma lui si svincolò bruscamente e
ringhiò: “Fanculo!”
A
quel punto intervenne il sergente: “Ora basta, soldato.”
Beau
si voltò verso di lui con lo sguardo di un toro che sta decidendo se
caricare o no, ma il graduato proseguì: “Abbiamo mezz'ora, vediamo
di non sprecarla in stronzate.”
Lyles
emise il fiato che aveva trattenuto, poi fra i denti rispose:
“Sissignore.”
Ewing
annuì, quindi disse: “Problema numero uno: individuare una via
d’uscita. Problema numero due: raccogliere i superstiti...”
Lyles
lo interruppe: “Problema numero tre, anzi, numero zero virgola
cinque, visto che viene prima di tutti gli altri: se non troviamo il
modo di scrollarci di dosso quegli affari, possiamo pure risparmiarci
di pensare a come risolvere gli altri due.”
Nonostante
il suono ritmico dell’allarme rosso, si udirono in lontananza il
rumore di qualcosa di metallico che cadeva e un urlo d’agonia.
Seguì qualche raffica di mitra, poi un altro urlo.
“Merda,”
ringhiò qualcuno fra i denti.
Il
ferito gemette tentando di muoversi, il suo compagno gli disse
qualcosa a basa voce e controllò la fasciatura di fortuna che gli
aveva applicato, già rossa di sangue.
Il
sergente si voltò a fissare i due, quindi si rivolse a quello illeso
e indicando l’altro chiese: “Che cos’ha?”
Per
tutta risposta, egli con voce dura replicò: “Non lo lascio qui.”
“Non
dire stronzate, soldato, nel mio plotone nessuno viene lasciato
indietro.” Detto questo, il sergente si chinò sul ferito e lo
esaminò. Una ruga gli comparve tra le sopracciglia aggrottate, poi
rialzò la testa con un gesto brusco e disse: “Ora troviamo il modo
di uscire di qui.”
Intervenne
il nerd in camice bianco: “Tutti gli accessi sono sigillati, la
procedura di sicurezza non può essere fermata.”
“Ma
che bella notizia,” commentò il sottufficiale in tono sardonico.
L’altro
si strinse nelle spalle e rispose: “Qui vengono messe a punto armi
biologiche per cui non esistono antidoti, una fuga di materiale
contaminato potrebbe creare un’epidemia impossibile da contenere.”
“Beh,
mi dispiace per le sue armi biologiche, dottore, ma io ho intenzione
di portare i miei ragazzi fuori di qui.”
“Non
creda che io invece abbia voglia di stare qui ad aspettare una dose
letale di raggi gamma,” fu l’asciutta replica. Lo scienziato fece
poi una breve pausa, durante la quale gettò un’occhiata alla porta
scardinata e al corridoio scuro che da essa si dipartiva, quindi
proseguì: “Credo di aver capito perché quelle cose non entrano
qui dentro: evidentemente si orientano seguendo l’energia
bioelettrica degli esseri viventi.”
Il
sergente lo fissò dubbioso. “E quindi?”
“È
semplice: il campo elettrico dei generatori copre il nostro. Non
riescono a vederci.”
In
quel momento, il quadro di una delle enormi apparecchiature si fece
buio. Pochi secondi dopo, altri si oscurarono in successione.
Ewing
fissò i macchinari come se fossero stati belve pronte ad assalirlo.
“E adesso che cazzo succede?” ringhiò.
Intervenne
Fisher: “Il sistema li spegne, tanto non servono più.”
“Quindi
tra un po' rimaniamo al buio e senza copertura?”
“Tra
quindici minuti saranno operativi solo i generatori d'emergenza.”
Il
sergente annuì brusco, quindi disse: “Beh, allora non c'è tempo
da perdere. Lyles e Westbrook, alla sala monitor. Controllate se ci
sono superstiti e nel caso mandate un comunicato per raccoglierli al
livello 1. Jones e Murphy, voi venite con me. So che nell'armeria del
livello 3 c'è dell'esplosivo ad alto potenziale. Dottore, lei...”
“Che
cosa vuole fare con l'esplosivo?” s'intromise il tecnico.
“Facciamo
saltare una delle porte.”
Fisher
scosse la testa. “Tutta la base è chiusa in un bunker di cemento
armato, le pareti sono spesse un metro come minimo. Le porte sono
blindate come quelle del caveau di Fort Knox.”
Il
sottufficiale annuì brusco. “Altre uscite?”
Di
nuovo, il tecnico scosse la testa. Dal corridoio provenne qualcosa
che sembrava un ruggito, poi si udì un tramestio metallico. Un
elmetto con il sottogola strappato arrivò rotolando e si fermò
contro uno dei generatori.
Ci
fu un muto scambio di occhiate, poi Fisher disse: “Si potrebbe
provare con il tunnel.”
“Che
tunnel?”
“Giù,
al decimo livello. È una galleria che porta all'esterno.”
“E
quella non è blindata?”
“Un
mio collega che lavora giù alle turbine dice...” si interruppe, lo
sguardo gli cadde sull'elmetto che era rotolato dentro. “...diceva
che c'è modo di sbloccarla. Diceva che chi aveva progettato la base
aveva lasciato una via d'uscita per il comandante e il suo staff.”
Ewing
lo fissò dubbioso. “Ed è vero?”
Fisher
si strinse nelle spalle. “George non era tipo da raccontare bugie.”
Seguirono
alcuni secondi di silenzio, rotti solo da un lieve gemito del ferito.
La sirena continuava a mandare i suoi segnali intermittenti, le luci
rosse e gialle dei lampeggianti d'emergenza spazzavano le pareti.
“Scendiamo,”
disse il sergente.
Ci
fu un altro giro di occhiate. Alla fine, Murphy della squadra Delta
diede voce al pensiero di tutti: “E quei cosi?”
Ewing
guardò l'orologio, sul quale le cifre stavano calando a una velocità
vertiginosa, quindi rispose: “Dobbiamo tentare. Ascensori e
montacarichi non sono più operativi, quindi sarà necessario usare
le scale.”
Nessuno
si mosse.
“C'è
una scala di servizio,” propose il tecnico. “Sarà al buio, ma
con le torce si può scendere.” Si diresse verso un armadietto di
metallo, lo aprì e controllò il contenuto. “Qui ce ne sono tre,”
annunciò.
Il
giovanotto in camice lo raggiunse e guardò a sua volta nel mobile.
Tirò fuori un paio di strumenti che sembravano telefoni cellulari di
tipo antiquato, con una sfera arancione grossa come una palla da
tennis fissata sopra.
“Rilevatori
di campi elettromagnetici,” disse, in risposta alla muta occhiata
del sottufficiale. Ne accese uno, che si illuminò ed emise un bip,
quindi proseguì: “Nel corso degli esperimenti, determinate
manifestazioni
erano sempre accompagnate da alterazioni del campo elettromagnetico.”
“Significa
che quegli aggeggi rilevano la presenza dei mostri?” chiese Lyles
dubbioso.
“Teoricamente
sì.”
“E
in pratica?”
§
“E
in pratica, vaffanculo,” brontolò Lyles, tenendo lo strumento
davanti a sé come la bacchetta di un rabdomante.
“Sta'
un po' zitto, Beau.”
“Fanculo.”
Il
display mostrava solo minime variazioni quando passavano accanto alle
luci intermittenti.
I
due continuarono a camminare cauti lungo il corridoio. Il pavimento
era ingombro di detriti, il rivestimento delle pareti era stato
strappato come vecchia carta da parati e lasciava vedere il cemento
sottostante, intaccato da solchi paralleli a quattro a quattro, come
lasciati da enormi artigli. Un cavo dell'alta tensione tranciato
dondolava sputacchiando scintille.
Scavalcarono
con cura un mucchio scuro al centro di una pozza di sangue.
“Ne
mancava metà,” borbottò Lyles.
“Ti
ho detto di tenere chiuso il becco.”
“Se
lo sono mangiato.”
“Vuoi
fare la stessa fine?”
“Col
cazzo.”
“E
allora sta zitto.”
Proseguirono.
A parte il suono martellante dell’allarme, non si udivano altri
rumori. Ovunque c'era sangue, ma corpi non se ne vedevano.
“Muoviamoci,”
sussurrò Chet, ma in quel momento il rilevatore ebbe un guizzo. I
due si immobilizzarono e si scambiarono uno sguardo preoccupato
mentre le cifre sul display aumentavano con velocità vertiginosa.
Arretrarono in silenzio, trattenendo persino il respiro.
Beau
fece scivolare il dito sul grilletto dell’M-4, l’altro scosse la
testa con espressione inorridita.
In
fondo al corridoio, l’aria sembrava tremolare come per l’effetto
del calore. Un cavo pendente oscillò, le scintille rimbalzarono su
qualcosa che però non si vedeva.
Passò
un tempo che ai due parve eterno, poi le cifre ripresero a calare e
in breve la luminosità del display si smorzò, segno che lo
strumento era tornato in fase di quiete.
Chet
si passò sul viso una mano tremante e la ritrasse fradicia di
sudore. “Andiamo,” sussurrò.
Raggiunsero
dopo poco la stanza dei monitor. Lo strumento guizzò quando vi
entrarono, di nuovo le cifre sul display ebbero un’impennata. Beau
si fece indietro imbracciando il mitra, ma non successe nulla.
“Gli
schermi,” sussurrò Westbrook dopo un po’. A riprova della sua
intuizione, avvicinò il rilevatore a uno dei monitor ed esso ebbe un
guizzo.
Beau
emise il fiato in un lungo sospiro. “Me la sono quasi fatta sotto,”
mormorò, “pensavo che ce ne fosse uno nascosto qui dentro.”
“Muoviamoci,”
disse Chet per tutta risposta.
Pressoché
ogni telecamera, sia al loro livello che in tutti gli altri, mostrava
le stesse scene di distruzione.
“Ma
quanti cazzo sono questi affari?” disse Beau fra i denti, muovendo
il joystick per spostare il controllo da una telecamera all’altra.
A
un tratto si immobilizzò: il monitor che stava fissando aveva
cominciato a sfarfallare. Tra le righe di disturbo si videro i mobili
finire in pezzi, una porta aprirsi come per effetto di un colpo di
vento e un pacco di carte turbinare lontano. Comparve una donna che
correva, qualcosa la afferrò, la sollevò di peso e la mandò a
sbattere contro un muro.
“È
qui al blocco A,” disse Chet in tono cupo, “riconosco le
decorazioni sul muro.”
La
donna frattanto parve esplodere a mezz’aria. Uno schizzo di sangue
colpì la telecamera oscurandola.
“Merda,”
mormorò Beau.
“Cazzo,
guarda!” esclamò Chet.
Un
altro monitor si era appena coperto di righe.
“È
quello del corridoio principale,” disse Lyles.
I
segnali di disturbo passarono al monitor successivo.
I
due si guardarono sgomenti. Sottovoce, Westbrook disse: “È
quell’affare. Fa impazzire le telecamere.”
“Sta
venendo verso di noi.”
Simultaneamente,
i due arretrarono verso gli schermi e vi si appiattirono contro.
Beau, il cuore in gola, rivoli di sudore ghiacciato che gli
scorrevano giù per la schiena, si trovò a scrutare angosciato nel
buio del corridoio, a tendere l’orecchio nella vana ricerca di un
rumore che gli facesse capire dov’era quell’essere, se poi di un
essere si trattava. Strinse la presa sull’M-4 con tale forza che le
nocche sbiancarono.
Qualcosa
mosse l’aria, il monitor più vicino alla porta si coprì di una
ragnatela di schegge. Uno sgabello fu scaraventato dall’altra parte
della stanza e si fracassò contro il muro con un rumore assordante.
Chet urlò mentre qualcosa lo afferrava.
D’istinto,
Beau premette il grilletto. “Figlio di puttana!” sbraitò,
“Bastardo!”
Dopo
i primi colpi, qualcosa lo investì facendolo finire a terra. L’M-4
gli venne strappato di mano, si torse nell’aria e si piegò come un
coltello a serramanico. Il soldato rotolò da una parte, afferrò
quel che rimaneva dello sgabello e lo lanciò dove il fumo degli
spari sembrava delineare una vaga figura. Di nuovo fu colpito, sentì
in bocca il sapore del sangue, crollò a terra con farfalle bianche
che gli danzavano davanti agli occhi. “Chet!” urlò.
Gli
rispose un lamento inarticolato.
Saltò
in piedi, scrollò la testa come per recuperare lucidità. Si guardò
intorno alla ricerca di un’arma e gli capitò sott’occhio
l’armadietto delle dotazioni anti-terrorismo. Ne spaccò il vetro
con un pugno, estrasse un taser e lo puntò verso quella che sembrava
solo aria.
La
scarica elettrica illuminò a giorno per un istante la saletta, e in
quella luce violacea al soldato parve di vedere un’enorme testa con
tre occhi, nera e cornuta.
Poi
tutto si fece buio.
“Beauregard!
Beauregard, rispondimi!”
Lyles
sbatté gli occhi e intravide una sagoma china su di lui. “Cosa…?”
balbettò.
“Beau!”
“Che
cazzo...”
“Dobbiamo
andarcene, ce la fai ad alzarti?”
“Non
lo so.” Lyles provò a muoversi, ma subito ricadde con la
sensazione di avere una sbarra incandescente piantata nel torace.
Tossì un paio di volte e fitte di dolore gli fecero venire la pelle
d’oca. “Ho paura di no,” mormorò con voce flebile.
“Invece
sì, ti aiuto io.” Incurante dei suoi lamenti, Chet lo afferrò per
un braccio e lo sollevò a sedere. “Tu e la tua mania del cazzo di
fare le cose senza pensare,” imprecava frattanto a denti stretti.
“Ti cacci sempre nei guai, brutto idiota.”
“Preferivi
finire spalmato sul muro come un cazzo di paté?” ansimò Lyles.
“Stronzo!”
Beau
si aggrappò a uno spigolo della console, si tirò faticosamente in
piedi e rimase per qualche secondo ad ansimare mentre il dolore
minacciava di fargli perdere i sensi.
L’altro
lo fissò preoccupato. “Ce la fai?”
“Andiamo.”
Si
affacciarono sul corridoio.
“Quegli
affari?” ansimò Beau.
“Il
rilevatore non dice niente.”
L’allarme
continuava a suonare, sembrava che nel frattempo si fosse fatto più
concitato, più urgente. “Quanto manca alla frittura delle palle?”
chiese Lyles.
“Poco.”
“Sai
sempre come essere incoraggiante. Gli altri?”
Chet
tirò fuori da una tasca del giubbotto antiproiettile una radio e la
accese. “Bravo 1 a Casa Base. Bravo 1 a Casa Base. Sergente, mi
riceve?”
Si
udì qualche fruscio elettrostatico, poi dall’altoparlante provenne
la voce di Ewing: “Casa base a Bravo 1, avanti.”
“Casa
Base, ricerca superstiti con esito negativo. Bravo 1 in rientro, un
ferito.”
“Attenzione
medica, Bravo 1?”
“Confermo,
Casa Base.”
Lyles
tossì un paio di volte, quindi disse: “Spegni quell’affare, mi
dà ai nervi.” Poi allungò una mano, agguantò l’apparecchio,
premette il PTT e ringhiò: “Sergente, ci hanno fatto il culo a
strisce, passo e chiudo.” Tossì di nuovo, aggrappandosi ansante
alla spalla dell’amico.
“Muoviamoci,
Beau,” disse Chet, passandogli un braccio intorno alla vita e
stringendoselo contro.
“Abbiamo
tredici minuti,” li accolse il sergente Ewing. “L’attenzione
medica dovrà aspettare.”
Westbrook
diede un’occhiata intorno: il soldato della squadra Charlie stava
sorreggendo il suo compagno ferito, che aveva il volto ormai terreo e
una larga striscia di sangue che gli inzuppava tutta la parte destra
dell’uniforme; i due della squadra Delta reggevano un gruppo
elettrogeno portatile e un altro era in attesa assieme a due taniche
di carburante all’inizio della scala.
“Muoviamoci,”
disse il sottufficiale.
Cominciarono
a scendere. La scala era stretta e piuttosto ripida, tanto che alle
volte dovevano aggrapparsi ai corrimani per non perdere l’equilibrio.
Puntando la torcia verso il basso si vedevano solo strutture di tubi
di ferro bianchi e rossi che si perdevano in un abisso nero.
“Ma
regge quest’affare?” chiese Beau, senza rivolgersi a nessuno in
particolare. La domanda si perse nella cacofonia metallica dei passi.
La
scala finì. Fisher, che precedeva il gruppo con una tanica di
carburante in una mano e la torcia nell’altra, disse: “Siamo al
livello 6, questo è il locale generatori, ma ormai saranno tutti
spenti. Dobbiamo raggiungere il locale delle pompe d’aerazione, da
lì c’è un’altra scala di servizio che arriva fino al livello
8.”
“Bene,
andiamo. Jones e Murphy, andate a posizionare il gruppo elettrogeno.”
“Sissignore,”
rispose il primo, quindi attivò il rilevatore di campi
elettromagnetici e lo mosse in su e in giù per captare eventuali
alterazioni. “Tutto pulito,” disse infine e si allontanò insieme
all’altro.
“Dovrebbe
attirarli,” disse il nerd, sistemandosi gli occhiali con la mano
che non reggeva il gruppo elettrogeno. “O perlomeno, dovrebbe
confonderli.”
Si
udì lo scoppiettio del motore provenire da un corridoio, e pochi
secondi dopo il pennello di luce di una torcia spazzò le pareti.
“Fatto, sergente,” disse Murphy.
“Muoviamoci,”
rispose il sottufficiale.
Si
rimisero in marcia con tutta la rapidità che la loro situazione
consentiva. I due soldati della squadra Delta afferrarono il secondo
gruppo elettrogeno, il dottore e il sergente aiutarono a trasportare
i feriti.
Non
avevano fatto cento metri che il gruppo elettrogeno smise
improvvisamente di funzionare. Subito dopo si udì il rumore di
qualcosa di pesante che cadeva, o finiva contro qualcosa a forte
velocità.
“L'hanno
attaccato,” considerò il dottore. “Evidentemente il diversivo ha
funzionato.” Col dorso della mano che reggeva la torcia tentò di
sistemarsi gli occhiali, nel movimento il fascio di luce guizzò sul
soffitto e poi tornò a puntarsi in avanti, mostrando una porta che
oscillava lentamente sui cardini.
Tutti
si immobilizzarono.
“Che
cazzo è?” ringhiò il sergente, facendosi scivolare giù dalla
spalla l’M-4.
Murphy
estrasse il rilevatore di campi elettromagnetici e le cifre sul
display ebbero un guizzo. “Merda,” mormorò.
Il
sergente osservò a sua volta lo strumento, poi disse: “Non va su
come quando arriva uno di quegli affari.”
“Ma
non è nemmeno a zero.”
“Il
tempo passa,” fece notare Lyles, ancora appoggiato alla spalla di
Westbrook.
Nessuno
si mosse, sguardi preoccupati guizzarono dall'uno all'altro.
Il
display nel frattempo si era attestato su un valore medio. Murphy
mosse appena lo strumento, quindi indicò la porta che avevano visto
muoversi. “È là dentro,” disse, a voce così bassa che
praticamente mosse solo le labbra.
“Se
fosse uno di quelli, sarebbe già uscito,” fece notare Lyles.
Il
dottore intervenne: “Forse non si è accorto di noi.”
A
quel punto, lo strumento ebbe un guizzo e dalla porta socchiusa
scivolò fuori una forma scura e bassa. Immediatamente, Jones e il
sergente Ewing imbracciarono gli M-4 e premettero il grilletto.
L'oggetto
fu sbalzato all'indietro dalle raffiche e rotolò via emettendo
scintille.
Si
udì una voce spaventata: “Non sparate!”
Il
dottore puntò la torcia, illuminando i resti di un grosso robot
lavapavimenti. Da oltre la porta si affacciò cauto un giovanotto dai
lineamenti asiatici che indossava la divisa degli addetti alle
pulizie.
Subito
Fisher gli si fece incontro. “Lanh! Che ci fai qui?”
Il
tizio, giovane, dall'aria un po' svampita, diligentemente rispose:
“Scusate tanto, non avevo considerato che i robot partono
automaticamente. Non sparate agli altri quando escono, costano un
sacco di soldi. Che sta succedendo?”
“Facciamo
prima a dire quello che non
sta succedendo,” intervenne il sergente. “Muovi le chiappe,
perché fra dieci minuti qui salta tutto.”
Lanh
lo fissò stupefatto. “Salta tutto?” ripeté con l'aria di non
capacitarsene.
“Ma
che cazzo avete nella testa voi tecnici, la merda di coniglio?”
intervenne brusco Lyles. “Qui sta succedendo l'inferno e tu perdi
tempo a farmi domande idiote? Ma non lo senti l'allarme?”
“Credevo
che fosse un'esercitazione.”
Ripresero
la marcia. Il soldato della squadra Charlie aveva perso i sensi ed
era praticamente trascinato a braccia dal suo compagno e dal dottore,
Lanh e Fisher trasportavano il gruppo elettrogeno superstite.
Lyles
abbandonò la presa sulla spalla di Westbrook e disse: “Ora va
meglio.”
“Ce
la fai?” chiese Chet, fissandolo preoccupato.
“Più
o meno. Devo avere qualche costola rotta, niente di che. Quando
giocavo a football mi riducevo anche peggio.”
“Non
fare una delle tue solite cazzate.”
“Fanculo.”
“Fanculo
tu, brutto idiota. Poi mi crepi perché magari una costola ti buca un
polmone.”
Beau
fece una risatina. “Ci rimarresti male, per caso?”
“Fanculo.”
“Basta,
voi due!” intervenne il sergente.
Alla
fine del corridoio, Fisher si fermò davanti a una porta e disse: “È
qui.” Provò ad abbassare la maniglia, che però non si mosse.
“Accidenti,” imprecò. Provò di nuovo, con lo stesso risultato.
Mentre
dardeggiavano nel gruppo sguardi preoccupati, si fece avanti Lanh.
“Il vantaggio di essere quelli che fanno le pulizie,” disse,
tirando fuori dalla tasca una chiave universale.
Fece
scattare la serratura.
In
quel momento, provenne dal fondo del corridoio un rumore come di
vetri infranti e lamiere accartocciate. Una porzione di soffitto si
staccò e rovinò al suolo, il rivestimento fu strappato da qualcosa
che sollevò scintille come il disco di un flessibile.
“Ne
arriva uno!” urlò Ewing. “Copertura!”
Tutti
saltarono oltre la porta appena aperta mentre il fragore della
distruzione si avvicinava con velocità vertiginosa e ovunque
schizzavano detriti. Chet spinse dentro Beau, poi si girò per
afferrare il soldato privo di sensi, ma sia lui che il suo compagno
gli furono strappati dalle mani. Nella penombra tagliata dai fasci
delle torce vide un lucido spruzzo di sangue levarsi in aria, poi
qualcuno lo afferrò per la collottola e lo tirò indietro.
L'anta
si serrò con un tonfo.
Si
lanciarono giù per le scale con tutta la velocità che carichi e
ferite consentivano e per lunghi secondi non si udirono altro che
l'echeggiare dei passi sul metallo e un ansimare sempre più intenso.
Alla
fine, Fisher disse: “Siamo al livello 8.”
“Ne
mancano due, giusto?” chiese il sergente alle sue spalle. Guardò
l'orologio e aggiunse: “Abbiamo sei minuti. Accendete il gruppo
elettrogeno mentre andiamo, così risparmiamo tempo.”
Lasciarono
nel corridoio l'apparecchio scoppiettante, che però continuò a
funzionare indisturbato, mentre da lungi cominciava a farsi sentire
il consueto rumore di distruzione.
“Correte!”
urlò il sergente. “Fisher, fa' strada! Corri!”
Si
udì un urlo lacerante, qualcosa sbatté contro la parete. Un braccio
con tanto di M-4 ancora attaccato alla mano oltrepassò il gruppo in
fuga e atterrò con un rumore sordo.
“Nessuno
si fermi!” ordinò Ewing.
Continuarono
a correre pancia a terra. Ai livelli bassi il buio era completo, solo
le torce facevano guizzare qualche pennello di luce qua e là,
mostrando ovunque scene di distruzione e corpi smembrati. “Sono
arrivati dappertutto!” esclamò Lyles.
Alle
sue spalle, il dottore disse: “Sanno tutto quello che sappiamo
noi.”
“Cosa?”
“Sono
un prodotto della nostra mente e...” La frase si spense in un urlo
strozzato.
“Le
scale principali!” esclamò Fisher, “Al livello 10 ci sono le
indicazioni per il tunnel di collegamento!” Rallentò con una mano
sul petto.
Westbrook
lo afferrò per un braccio. “Muoviti!”
“Tunnel
di collegamento,” ripeté l'uomo per tutta risposta. “Lo trovi
alla fine del corridoio nord. George diceva che da fuori assomiglia a
una camera iperbarica. Lo sai com'è fatta una camera iperbarica?”
“Più
o meno.”
“La
porta dev'essere bianca, circondata da un nastro adesivo a righe
gialle e nere.”
“D'accordo,
ma adesso muoviamoci,” replicò il soldato. Lo tirò per
convincerlo ad aumentare l'andatura e di colpo finì sbilanciato
all'indietro con un moncone di braccio tra le mani, mentre il resto
del corpo di Fisher si apriva come se qualcosa lo stesse facendo a
fette. La testa rotolò da una parte e sbatté contro la parete con
un tonfo sordo.
Westbrook
distolse gli occhi dalla scena e raggiunse il resto del gruppo.
Entrarono
nella sala generatori, buia e silenziosa, serrarono la porta alle
loro spalle, ma un istante dopo l'anta volò via come per effetto di
una carica di esplosivo. Lanh, che era l'ultimo del gruppo, parve
prendere il volo. Finì con un urlo contro la parete, dalla quale
scivolò giù lasciandosi dietro una strisciata di sangue.
Lyles
imboccò le scale, inciampò, capriolò malamente per tutta la rampa,
riuscendo a rimettersi in piedi solo al pianerottolo. Si portò la
mano al lato del torace e sputò una boccata di sangue. “Mi sa che
porti rogna, Chet,” fece in tempo a dire, prima di scomparire giù
per la seconda rampa.
Westbrook
gli andò dietro senza ribattere e mentre scendeva il suono
dell'allarme divenne una sirena continua che spaccava i timpani.
Delle luci rosse si accesero e cominciarono a lampeggiare.
“Mancano
tre minuti,” disse il sergente.
“Ce
la possiamo fare,” ansimò Chet, cercando di ignorare il fuoco che
ormai gli divampava nel petto. “Dobbiamo solo cercare la porta del
tunnel.” Fece una pausa, inalò con fatica una boccata d'aria,
quindi soggiunse: “Bianca con il bordo giallo e nero.”
Qualcosa
gli piombò sulla spalla ed egli ebbe l'impressione che lame
incandescenti gli straziassero la carne. Urlò di dolore mentre
rivoli di sangue gli scendevano lungo il braccio.
Immediatamente,
Lyles tornò sui suoi passi. “Chet!” esclamò.
“Vattene,
Beau!”
“Col
cazzo!” L'altro lo afferrò per il giubbotto antiproiettile e lo
tirò indietro. Nel movimento persero l'equilibrio entrambi e
cominciarono a rotolare giù per le scale.
Dall'alto
provenivano urla agghiaccianti.
Qualcosa
di viscido e rossastro cadde giù e atterrò con un tonfo flaccido
che ricordava una bistecca gettata sul tagliere. Westbrook deglutì e
disse: “Mi sa che siamo rimasti soli.”
“Beh,
allora diamoci una mossa,” fu la replica di Lyles. “Non voglio
essere qui quando questo fottuto posto si trasformerà in una
succursale di Chernobyl.” Poi, dopo qualche secondo: “Ti fa male
il braccio?”
“Almeno
è ancora attaccato. E a te le costole?”
“Fanculo
a loro.”
Illuminato
solo dal bagliore intermittente dei fari rossi, il corridoio nord
aveva l'aria di essere completamente vuoto. Tutto sembrava intatto,
come se le entità lo avessero ignorato.
La
porta sulla parete di fondo non assomigliava a quella di una camera
iperbarica: era una normalissima porta di collegamento ed era chiusa
a chiave.
“Merda!”
imprecò Lyles col poco fiato rimastogli. Tossì di nuovo, sputò una
boccata di qualcosa che nella luce sanguigna parve privo di colore.
“Merda!” ripeté. “Il posto è questo, che cazzo facciamo?”
Il
suono della sirena cessò all'improvviso. Calò un silenzio
raggelante, nel quale si udiva solo qualche lontano sfiato di vapore.
I
due si scambiarono uno sguardo. “Tempo scaduto,” disse Westbrook.
Lyles
gli rivolse un'occhiata feroce. “Eh no, col cazzo!” replicò. “Io
non mi sono sciroppato dieci piani di mostri incazzati per schiattare
come un idiota a un metro dall'obiettivo!” Si guardò intorno,
individuò un estintore. Lo staccò dal gancio e con quello prese a
colpire la porta. “E dammi una mano, no?” ringhiò dopo un po'.
“Che
cazzo faccio, canto uno spiritual per darti il ritmo?”
Il
pavimento vibrò come per una scossa di terremoto, i neon del
soffitto tintinnarono.
“Merda!”
imprecò Lyles. Colpì la maniglia della porta, che finalmente
cedette.
Al
di là c'era una stanzetta vuota, che sulla parete di fondo aveva una
porta bianca, bordata di giallo e nero.
Di
nuovo il pavimento vibrò, dal soffitto caddero giù dei calcinacci.
“Apri
quel cazzo di sportello,” disse Lyles, “qui sta saltando tutto.”
La
porta in effetti non era chiusa, anche se all'interno possedeva un
dispositivo di blocco. Al di là, un tunnel dalla sezione rotonda si
perdeva nel buio.
Una
terza esplosione fece cadere i tubi dei neon e fece comparire crepe
lungo tutte le pareti. Beau entrò nella galleria, Chet fece per
seguirlo, ma in quel momento la porta della stanza venne praticamente
strappata dai cardini e andò a fracassarsi contro un muro.
Westbrook
si sentì afferrare e strappare indietro. Lyles lo vide e senza
esitare un attimo balzò fuori a sua volta. “Bastardo!” urlò,
rivolto all'invisibile assalitore. Westbrook si sentì afferrare per
un braccio. Si trovò dapprima a testa in giù, con qualcosa che lo
reggeva per una gamba, e poi per terra con un nugolo di farfalle
bianche davanti agli occhi. Lyles continuava a imprecare
furiosamente.
Poi
si sentì sollevare di nuovo e si rese conto di essere troppo debole
per opporre resistenza. Si trovò su un pavimento di metallo
zigrinato.
Ci
fu un'esplosione, il pavimento vibrò sotto di lui, la porta sbatté
e subito dopo ci fu lo scatto metallico del sistema di bloccaggio che
veniva azionato.
Nel
generale ovattamento dei rumori, si udirono, forti e chiari, dei
colpi sulla porta.
La
voce di Beau disse: “Non è mica finita.”
“Cosa...?”
“Alzati,
amico, dobbiamo tagliare la corda prima che qui salti tutto. Non so
quanto regga questa galleria.”
Il
vetro dell'oblò si incrinò sotto un ennesimo colpo. Un'esplosione
proiettò contro la porta una grandinata di detriti.
“Alzati,”
ripeté Beau.
Chet
aprì gli occhi. Per terra c'era una striscia fosforescente come
negli aerei, che si perdeva serpeggiando appena in un'oscurità
picea. Da dietro la porta continuavano a giungere i tonfi di qualcosa
che vi stava rabbiosamente battendo contro.
“Alzati
e vediamo di darci una mossa.”
Westbrook
gemette cercando di sollevarsi. “Sto sanguinando, Beau,” mormorò.
Sentiva il liquido caldo e viscoso scorrergli lungo il braccio, ne
sentiva l’odore ferroso sulla pelle. Spinse la mano sana a toccare
cautamente la ferita che aveva sulla spalla e le sue dita
incontrarono dei profondi solchi. Fu stupito di non sentire alcun
dolore.
“Andiamo,
dai,” La voce di Lyles lo riportò alla realtà contingente. “Ti
aiuto io.”
“Ma
anche tu sei ferito, Beau.”
“Ci
aiuteremo a vicenda, allora.”
§
Sbucarono
fuori dalla galleria nel pieno pomeriggio e si trovarono a sbattere
gli occhi, momentaneamente accecati dalla luce forte del deserto.
“Ma
che cazzo...” mormorò Beau, facendosi ombra con una mano.
Si
guardò intorno barcollante e la sua vista annebbiata captò
l’immagine di un posto di guardia nel quale alcuni soldati stavano
aspettando che il tempo passasse. Si chiese quanto dovessero essere
lontani dall’entrata principale di Aguas Muertas, se quei quattro
bellimbusti se ne stavano là pacifici come su una spiaggia delle
Bahamas.
“Magari
siamo veramente finiti alle Bahamas,” mormorò dando voce ai propri
pensieri.
Alle
sue spalle, Chet boccheggiò: “Cosa?”
“Siamo
alle Bahamas, amico,” mormorò Beau con le ultime forze, quindi si
afflosciò a terra.
Il
tonfo del corpo attirò l'attenzione dei quattro, che accorsero e per
prima cosa li fissarono inorriditi. “Che cazzo vi è successo?”
chiese il caposquadra.
“...Un
casino...” riuscì a esalare Beau.
Da
sonnolento che era, l’avamposto si trasformò immediatamente in un
fervere di attività: i due furono raccolti e portati al coperto, fu
offerta loro dell’acqua e sulle loro numerose ferite furono
praticate le prime medicazioni.
Cominciò
un concitato scambio di messaggi con il posto di guardia principale e
con la vicina base militare.
“Abbiamo
qui due soldati,” spiegò il caposquadra, parlando via radio con la
base, “dicono che sono usciti da Aguas, che là sotto è successo
un casino.” Si voltò verso di loro. “Come vi chiamate?”
“Soldati
Chesterton Westbrook e Beauregard Lyles.”
“Ok.”
Mentre
il graduato ripeteva i nomi alla radio, Beau si girò faticosamente
verso l’amico e mormorò: “Chesterton?”
“Che
c’è?”
“Hai
un nome da omosessuale inglese.” Fece una risatina.
“Il
tuo è da omosessuale francese, allora,” rispose Chet piccato.
“Il
mio è un nome carico di gloria. Un grande generale confederato si
chiamava così.”
“Beh,
allora se vuoi saperlo, un grande scrittore inglese si chiamava come
me.”
“Scommetto
che era omosessuale.”
“Non
più del tuo generale, caro mio.”
“Basta,
voi due!” intervenne una voce estranea. “Ora mandano una squadra
medica dalla base. Nel frattempo, piantatela di fare casino.”
§
Beau
aprì gli occhi e mise a fuoco l’immagine della persona che aveva
di fronte. Aggrottò le sopracciglia. “E lei chi sarebbe, il G-Man
di Half Life?” chiese.
L’uomo,
completo scuro, camicia bianca, cravatta blu e una valigetta nera
nella mano destra, si avvicinò ai piedi del letto e disse: “Buon
giorno, soldato Lyles.”
“Chi
è lei?” ripeté Beau diffidente. Si girò verso il letto accanto
al suo, liscio e vuoto. “E dov’è Westbrook?”
“Sta
facendo delle terapie.”
Il
soldato cercò di alzarsi, scoprendo di essere troppo debole per
farlo. “Che tipo di terapie?” chiese, fissando l’altro con
sempre maggiore diffidenza. “Voglio vederlo.”
“Tutto
a suo tempo,” rispose l’uomo in tono accondiscendente. “Per il
momento vorrei solo sapere cos’è successo ad Aguas Muertas.”
“Mi
pare che Westbrook ve l'abbia detto, no?”
L’altro
scosse la testa. “Non è stato convincente.”
“Beh,
mi dispiace per lei se non si è convinto. Se non crede a lui, perché
non scende giù a controllare di persona?”
L’uomo
prese una sedia e si accomodò accanto al letto. Si pose la valigetta
sulle ginocchia, poi in tono suadente disse: “Un manoscritto di
valore inestimabile è rimasto laggiù.”
Beau
scosse la testa con decisione. “Chi se ne frega. E poi, tanto, quel
vostro manoscritto di merda ormai sarà ridotto a un mucchio di
cenere.”
“Non
lo è.”
“E
lei come fa a saperlo? Mi sembra che nessuno sia sceso giù a
controllare, giusto?”
“Abbiamo
inviato una sonda,” rispose l’altro con la massima calma.
“Beh,
allora la stessa sonda glielo potrà anche recuperare. Senza contare
che laggiù sarà pieno di radiazioni, giusto?”
“Dettagli.”
“Dettagli
un cazzo, direi, specialmente se sta pensando di spedire qualcuno
laggiù.”
L’uomo
rimase impassibile. Si limitò a tamburellare leggermente sulla
superficie della valigetta con le dita, poi chiese: “Lei tiene al
suo amico Chesterton Westbrook, soldato Lyles?”
Beau
aggrottò le sopracciglia mentre un brivido gli percorreva la
schiena. “Che c’entra Chet, adesso?”
“La
nostra idea è che non sia più in possesso delle sue facoltà
mentali.”
“Come
sarebbe a dire?”
“Farneticazioni
su mostri invisibili, gente morta in modo misterioso. C'è l'ospedale
psichiatrico per certe cose, soldato Lyles.”
Il
militare cercò di nuovo di sollevarsi dal letto, riuscendo solo a
puntellarsi su un gomito. Rivolse all'uomo uno sguardo omicida e
ringhiò: “Mi faccia capire: volete farci passare per pazzi?”
Questi
alzò le spalle e in tono pacato rispose: “Non c'è psichiatra al
mondo che non reputerebbe il soldato Westbrook un grave delirante,
temo.”
Beau
distolse gli occhi da quelli del suo interlocutore. Immaginò Chet
con la camicia di forza, chiuso in una stanza imbottita, istupidito
dai farmaci. “Ok, vado laggiù,” disse categorico. “Vado e vi
dimostro che Chet è perfettamente sano di mente e voi siete degli
stronzi.”
§
Westbrook
si passò una mano sulla faccia, quindi esclamò: “Sei un idiota!
Cristo di Dio, sei il re delle teste di cazzo, tu e la tua maledetta
impulsività!”
Lyles
lo fissò indignato. “Per tua norma e regola, volevano sbatterti in
un ospedale psichiatrico!”
“Macché
ospedale psichiatrico del cazzo! Ti hanno preso in giro e tu ci sei
cascato come un allocco.”
“Che
stai dicendo?”
“Avevano
solo bisogno di convincerci a tornare là sotto volontariamente.”
Beau
aggrottò le sopracciglia. “Stai scherzando?”
“Mai
stato così serio. Quella specie di Agente Smith delle mie palle con
cui hai parlato aveva proprio il compito di farti dire la cazzata che
hai detto.”
“E
tu come lo sai?”
“Lo
so perché con me ha fatto lo stesso teatrino.”
Lyles
abbassò lo sguardo e per un po' lo tenne ostinatamente fisso sulle
proprie mani, dando l'idea di ponderare se fosse il caso di andare
alla ricerca dell'uomo con la valigetta e prenderlo a cazzotti, poi
chiese: “E tu cos'hai fatto?”
“Oltre
ad avermi dato il nome di un grande
scrittore, mio padre mi ha insegnato a contare fino a dieci, prima di
parlare.”
“Beh,
allora il mio mi ha insegnato che non si lasciano gli amici nella
merda, se vuoi saperlo,” fu la piccata replica.
“In
ogni caso,” riprese Westbrook, ignorando il veemente proclama, “io
ho risposto che prima volevo parlare con te. Peccato solo che quando
sono arrivato qui ho trovato la frittata già fatta.”
Tra
i due calò il silenzio. Dopo un po', Lyles fissò l'amico e in tono
di riprovazione gli disse: “Quindi, all'idea che mi avrebbero
sbattuto in un ospedale psichiatrico tu sei rimasto indifferente?”
“Tanto
sapevo che era un bluff.”
L'altro
si mise i pugni sui fianchi con fare indignato. “Ah, bell'amico. Se
vedi che mi puntano una pistola in faccia cosa fai, non ti muovi
perché tanto sei sicuro che sia finta?”
“Oh,
che palle, Beau. Ti va una birra?”
“Fanculo.”
“Fanculo
anche a te. Andiamo?”
Si
incamminarono verso lo spaccio.
“Si
sa quando partiamo?” chiese Lyles.
L'altro
alzò le spalle con indifferenza. “Non lo so, però il tempo di
bere qualche birra ce l'abbiamo di sicuro.”
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