Il giardino delle stelle

di _LostinLove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lei ***
Capitolo 2: *** Lui ***



Capitolo 1
*** Lei ***


E' l'undici luglio.
Non che questa data abbia rilevante importanza per me. Ma appena mi sono svegliata, l'ho pensato. Oggi è l'undici luglio. Mancano quarantatrè giorni e torno a casa. Altri quaratatrè giorni da vivere in questa baita, dove abitano i nonni, nel mezzo di una valle. Mi si forma un groppo alla gola per tutta questa storia.
Da due anni a questa parte, ogni singola estate la passo a casa dei nonni, cosa che non avevo mai fatto da piccola. Ma i miei genitori pensano che sopportarmi tutto il resto dell'anno sia abbastanza, e che debbano prendersi una vacanza. Una vacanza che dura settanta giorni.

 
Mi chiamo Elena, ho diciassette anni e sono le 8:27 del mattino. Ho esattamente tre minuti per far fermare il tremore della mia mano sinistra, prima che entri mia nonna in camera, con quel finto sorriso sulle labbra. Lo chiamano Parkinson o Morbo di Parkinson, e i dottori se ne sono accorti due anni fa'. La mia psicologa lo chiama, per farlo sembrare una cosa ancora più grave, Sindrome Ipocinetica Rigida e a me questo nome fa' ancora più paura. E' sempre questa psicologa che mi dice di pensare razionalmente, spesso identificando la mia vita con i numeri e dicendo appena sveglia, o quando mi sento confusa, le cose vere che so.
Quindi. Mi chiamo Elena, ho diciassette anni e sono le 8:29 del mattino. Il tremore alla mano non si è fermato. Al primo stadio, si verificano casi del genere. Tremori in stato di rilassamento. Se facessi qualsiasi azione la mano smetterebbe di tremare. Chiudo e riapro le dita lentamente, ma non fa nessun effetto. Le coperte sobbalzano, le vedo. Sento mia nonna salire le scale, piano. Infilo la mano tra le gambe, stringendola fra le cosce. Spero che non si noti.
Il legno scricchiola, la porta si apre. "Buongiorno Elena", sussurra mia nonna. Come temevo, ha quel sorriso falso. Il volto è stanco, pieno di rughe, incorniciato da capelli grigi. I suoi occhi grandi mi scrutano, cercando qualche segno della mia malattia.
Vorrei dirle che sto bene, che è passato tutto, ma riesco a dire solo “Buongiorno” proprio mentre il suo sguardo si fermo su un punto indefinito, e aspetta quel tremore che caratterizza ogni mia mattina. La gamba sobbalza, e mia nonna stringe i denti, il sorriso diventa una smorfia.
La colazione è pronta, il nonno è già uscito.”, sputa fra i denti, e poi esce dalla stanza. Nessuno nella mia famiglia riesce a concepire il perché sono io ad avere questa malattia. Non riescono ad arrendersi all’idea che sono malata. Non ce la fanno, è più forte di loro. Hanno più paura di me. Mia nonna, particolarmente, sembra darmene la colpa. Continuano a chiedersi: perché io, perché io, perché io. Io invece mi sono chiesta: perché non io? Se Dio vuole questo, lo accetto. Se nel suo grande piano, io devo avere il Parkinson credo in quello che decide. Io ci credo ancora in Dio. La mia famiglia non più.
 
Scendo dal letto e cerco qualcosa di comodo da mettere. Infilo la maglietta del giorno prima, che non puzza ancora, e dei pantaloni da tuta. Prima di vestirmi mi guardo allo specchio, ancora non mi riconosco. La ragazza che vedo mi sorride, ma è stanca, è triste. Ha il corpo fragile, è magra, quasi priva di curve. Mi sento fragile, così minuta e secca. Mi sento invisibile a volte. Passo le dita tra i capelli rossi e mi accorgo che stanno crescendo. Li avevo tagliati per comodità, credevo che in quel modo sarei sembrata più un soldato, una combattente. L’idea è durata un paio di mesi. Ora raggiungono le spalle, sono irregolari, usciti fuori taglio. Mi piacciono le sfumature che creano sotto la luce del sole.
Sul tavolo della cucina c’è un bicchiere di succo all’arancia, il mio preferito, e una scatola di biscotti. Non mi spreco neppure a sedermi, bevo il succo in piedi ed esco di casa silenziosamente. Ci abito abbastanza da capire che non mi vogliono, ma non lo ammettono. Meno tempo passo qua dentro, e meglio si sentono. Mi sento. Richiudo la porta del retro e vedo comparire mio nonno con un sacchetto della spesa.
Buongiorno fiore”, dice sorridendo. Appoggia la mano libera sulla mia guancia per farmi una carezza. Mi bacia la fronte. “Fai un salto al torrente, l’acqua è limpida.
Non ci penso due volte, lo saluto e corro. Corro oltre l’orto della nonna, oltre la strada che porta in paese, oltre il giardino dei vicini dove abusivamente passo i pomeriggi, corro. Risalgo una stradina di ciottoli e poi corro lungo un sentiero che ridiscende verso il torrente. Mi fermo solo quando i miei sandali si riempiono di sabbia fine e sassolini. Me li tolgo e cammino scalza, piano, evitando di farmi male. Mi arrampico su una roccia, la stessa roccia di sempre, e poi mi siedo lasciando i saldali a terra. La pietra sporge verso l’acqua e devo sedermi sul bordo affinché questa mi lambisca i piedi fino alle caviglie. Faccio un paio di risvolti ai pantaloni in modo che l’orlo non si bagni e mi distendo guardando il cielo.
L’acqua è freddissima di mattina ma il sole mi scalda, come un abbraccio. Mi sento bene. Mi sento felice. Sorrido. Il rombo delle onde è forte, devo pensare intensamente per non farmi trascinare via come un pezzo di legno nella corrente. Ma i miei pensieri sono così leggeri, che sembrano nuvole, e mi perdo in quel silenzio che silenzio non è.




 
Quando mi sveglio non mi sembra vero. Il sole è alto nel cielo, ho i piedi intorpiditi e congelati. In compenso sono tutta sudata. Ho i capelli appiccicati alla fronte e al collo. Non mi era mai capitato di addormentarmi cullata dai suoni della natura. Non mi era mai capitato. Mi siedo ritirando le gambe dall’acqua e stringendole tra le braccia. Abbasso il bordo dei pantaloni e mi massaggio i piedi. Lo sguardo ricade sull’orologio che porto al polso. E’ mezzogiorno passato. Avrei dovuto essere a casa mezz’ora prima. Rido. Rido follemente, come una pazza. Che cosa da sciocchi, addormentarsi su una roccia e svegliarsi ore dopo. Rido.
Mi infilo i sandali lentamente, tanto ero già in ritardo. Mi incammino lungo il sentiero che, al ritorno, invece, risale la collinetta. Scendo sulla stradina di ciottoli, passeggiando lungo il giardino dei vicini, oltre la strada, oltre l’orto della nonna. Apro la porta sul retro, e mi infilo in cucina. Non c’è nessuno, solo un piatto sul tavolo, pieno di cibo e una bottiglia d’acqua ancora fresca. Mi siedo a mangiare in silenzio.
Sei arrivata, mi stavo preoccupando.”, mente mia nonna, neanche guardandomi. “Tuo nonno stava giusto uscendo a cercarti”, non ricordo in quale preciso momento ho iniziato a odiarli tutti. Quelli che mi guardano con compassione e quelli che mi guardano con cattiveria. Non ricordo quando ho capito che mia nonna non avrebbe più voluto avere una nipote. Non una nipote così.
Non serve nonna.”, pronunciare quella parola fa’ più male del solito. Mi sorride, con forza. Abbraccio il bicchiere con le dita, e lei si sofferma ad osservare il tremore della mia mano. Mi odio per odiarla. Non è giusto. Ma la odio perché odia la mia malattia, una parte di me. E odia me. Mi alzo lasciando il piatto pieno a metà, svuoto il resto nel cestino e appoggio le posate nel lavabo pieno. Sembra sbagliato ad entrambe passare più di un minuto da sole nella stessa stanza, quindi io salgo le scale e lei esce nell’orto. Mi infilo in bagno, mi spoglio ed entro nella doccia. E’ il posto più sicuro per piangere. Ed è sempre così, piango di frustrazione. Mi sembra già ieri che ridevo sotto il sole, invece che una manciata di minuti prima.

Quarantasei minuti più tardi sono seduta sul letto della mia camera, dando le spalle alla porta, guardando oltre la finestra, le gambe incrociate. I capelli ancora bagnati fanno cadere dalle punte gocce d’acqua, che poi mi sfiorano la pelle. Scivolano dalle spalle percorrendo la schiena, provocandomi piccoli brividi. Altre gocce, invece, scivolano lungo le clavicole, sul seno nudo, per poi ridiscendere l’addome e infine bagnare la trapunta scura.
Dalla finestra non si vede un gran panorama, a dire il vero. Posso vedere le montagne, certo, ma il mio sguardo ricade sempre sull’edificio un po’ diroccato che in realtà è un pagliaio, ancora in utilizzo. In un giorno di questi, mi sono ripromessa, ci sarei entrata. Più che altro per curiosità. Il nonno dice che non è solo un pagliaio: i proprietari, nonché i vicini, ci tengono anche molti attrezzi per l’orto e cose del genere. Il nonno dice anche, quando non c’è nei paraggi sua moglie e quindi è libero di dire ciò che vuole, che i vicini sono una famiglia simpatica, che hanno dei figli ma non sa quanti. Dice che sono simpatici quando la nonna non c’è, perché lei in realtà li odia. Mi sono chiesta spesso se lei odia tutti, o solo quelli che hanno il brutto vizio di respirare.
Mi alzo dal letto quando i miei capelli sono solo un po’ umidi. Guardo l’orologio e mancano una manciata di minuti alle tre di pomeriggio. Apro un cassetto, indosso un paio di slip bianchi e lo richiudendo con un calcio. Mi infilo dentro un vestito color perla, con la gonna che arriva alle ginocchia. Liscio l’abito con le mani mentre mi osservo allo specchio. Sembro ancora più pallida ora. Mia madre dice che la mia pelle è diafana. Quando ero piccola ci scherzava dicendo che guardandomi attentamente il petto, con una pelle così chiara da diventare trasparente, poteva osservare il cuore battere tra le costole.

Esco di casa scalza, senza preoccuparmi di ferirmi i piedi. Uso la porta sul retro e mentre cammino nell’orto intravedo mio nonno lavorare. Silenziosamente mi allontano, raggiungendo il giardino dei vicini. E’ sempre curato e in ordine. Qualche volta mi chiedo se non sia immaginario, o io sia l’unica a passarci le ore.
Il giardino è circondato da una siepe verde sempre potata, ed è attraversato da una stradina di pietre che seguo ogni giorno. Ci sono tantissimi fiori e cespugli, di ogni genere, anche alcuni che non ho mai visto altrove. Ci sono un paio di panchine di legno dove non mi siedo mai, perché sono vicine alla casa. La figlia dei vicini, la più piccina, mi ha visto molte volte, ma nessuno mi ha mai cacciato. Forse un giorno lo faranno. Forse lei è sempre stata zitta. Il posto che preferisco è quello più lontano dai rumori e mi sembra un altro mondo. E’ un prato d’erba verdissima, mossa dal vento che soffia piano. Sembra che mi accarezzi con delicatezza. Il vento muove anche le fronde di un albero posto in mezzo a questa finta radura. Non è troppo alto, ma trovo riparo dal sole sedendomi sulle sue radici.
Cammino piano sfiorando con i polpastrelli i petali dei fiori. L’erba mi solletica le dita dei piedi. Il canto degli uccelli crea una crepa nel silenzio delle montagne. Il vento mi scompiglia i capelli premendo il vestito sulle gambe. Sorrido e chiudo gli occhi, ma il sole è così forte che mi è impossibile vedere il buio. Mi volto verso la casa e vedo la bambina. Ha lunghi capelli biondi raccolti in una coda. E’ accoccolata su una panchina, con le gambe strette al petto. Mi osserva sorridendo. Alza una mano per salutarmi, ma si ferma a metà strada. Si alza di corsa e si nasconde dietro un cespuglio di rose. La guardo scivolare via.
Mi scappa una risata e subito mi mordo la lingua. La bambina resta nascosta e io mi costringo a camminare. Mi piace attraversare il giardino, seguendo tutti i sentieri tra le piante. Mi piace immaginare di farlo mano nella mano con un ragazzo. Mi piace trasformare questo giardino in una grande città europea, in una spiaggia, in un oasi in mezzo al deserto, in un isola caraibica. “Chissà cosa si prova a viaggiare, a volare.”, sussurro guardando il cielo. Mi piace immaginarmi volare oltre le nuvole, o nuotare nel mare blu. Con la fantasia ho visitato mille e mille posti, e sono diventata mille e mille persone diverse.
Mi distendo sull’erba ai piedi dell’albero dalla grande fronda. Mi lascio travolgere dai pensieri, come fanno gli scogli con l’acqua. Sento un urlo felice e una risata acuta. La bambina bionda corre attorno all’albero, attorno a me. E mi guarda, ridendo, tenendo alzate le piccole braccia che ondeggiano. Ha gli occhi luminosi, innocenti, da bambina. Improvvisamente si ferma di fronte a me e si avvicina di un passo. Mi siedo proteggendomi gli occhi dal sole con una mano. Lei sorride e riprende a corre attorno all’albero, questa volta silenziosamente. I suoi piedi piccoli sono veloci, sembra quasi non tocchino terra. La ammiro nella sua grazia, finché non smette di girare e scappa in casa. Quando ritorna tiene due mele rosse tra le mani. “Una è per te.”, dice con voce squillante. Ne colgo una e la mordo. E’ succosa.
Grazie, sei gentile.”, dico mentre lei si siede di fronte a me. La guardo mangiare mentre io do piccoli morsi al frutto. Mi chiedo cosa l’abbia spinta a parlarmi dopo tutti questi giorni. Vorrei chiederle il nome ma temo di rovinare il silenzio. Mi guarda pensare e mi sembra lo faccia per ore, giorni. Sembra sia fatta per questo, lei, quella bambina. Non disturba. Non parla, ascolta. Ascolta i pensieri. L’ha fatto da sempre. Lo fa da giorni con me.




 
Il sole è basso nel cielo, le montagne quasi lo coprono già. L’aria si sta facendo fredda e mi punge la punta delle dita. Abbasso lo sguardo sulla mano sinistra che trema ancora. La nascondo sotto la coscia. Mi chiedo quanto continuerà questo mio modo di fare, nascondere la mia malattia. Nasconderla agli altri e anche un po’ a me. Guardo la bambina, si è addormentata prima che il cielo cambiasse colore. Ora è porpora, arancione, avorio. Ha un sorriso timido sul volto, il corpo raggomitolato per il freddo. Dovrei svegliarla e riportarla a casa, ma sono troppo fragile per sollevarla, troppo insicura anche solo per destare i suoi sogni. Lei non ha disturbato i miei pensieri, io non voglio disturbarle il sonno.
Scusa, devo recuperare mia sorella.”, sussulto. La voce grave di un ragazzo sopraggiunge come un tuono nel silenzio. Non sembra accorgersi del mio respiro pesante e del mio cuore che batte fortissimo per lo spavento. Mi sorride e passa le dita tra i capelli neri, cortissimi. Si avvicina alla bambina e, dandomi le spalle, fa scivolare il corpo della sorella fra le sue braccia. La sorregge con sicurezza, come se fosse una principessa. Si allontana con passo pesante e io mi alzo. Le gambe sono indolenzite per essere stata seduta a lungo, ma non voglio tornare a casa. Cammino su e giù sul prato, aspettando che il sole tramonti definitivamente, cercando con lo sguardo la mia ombra finché questa non si confonde col buio che scende su tutto, su tutti. Mi lascio cadere a terra e mi distendo sotto le stelle. E’ questo il momento più bello della giornata. Io, la notte e le stelle.
Ehi rossa, questa potrebbe servirti?”, chiede la stessa voce di prima. Mi siedo e vedo il ragazzo che regge una coperta in mano, il sorriso gentile. Mi fissa con i suoi occhi chiarissimi, grigi. Ha una pila accesa nell’altra mano e la punta in basso, vicino alle mie mani.
No.”, rispondo subito. “Non sono rossa. Io sono Elena e ..”, mi fermo. E’ questo che devo dire, no? Quello che mi hanno insegnato. Mi chiamo Elena, ho diciassette anni e devo sapere l’ora. Abbasso lo sguardo sull’orologio, non riesco a distinguere le lancette.
Non sei rossa?”, chiede lui.
No. Io sono Elena e ..”, balbetto.
E ..?
E ho i capelli rossi.”, improvviso. Lui scoppia in una risata fragorosa e mi ritrovo a ridere con lui. Stringo le gambe al petto e lo fisso. Ci guardiamo per un po’ senza dirci nulla. L’aria si fa fredda e tremo.
Questa ti serve.”, sussurra appoggiando la coperta sulle mie spalle. Si stringe nella felpa e si siede vicino a me. “Tremi come una foglia, sai?”, dice chiudendo la mia mano sinistra tra le sue. Mi bacia il polpastrello di ogni dito con dolcezza, le sue labbra sono morbide e sicure. Avvampo di vergogna e mi copro il viso con l’altra mano. Lui mi guarda e sorride. I miei occhi cercano i suoi. Sono color ghiaccio e mi trafiggono ad ogni sguardo. Ma più li guardo più mi sembrano caldi, mi ricordano casa, un rifugio sicuro. Non conosco la forza che mi nasce dentro, che mi scalda come un fuoco d’inverno, ma mi costringe ad alzarmi. Lui mi guarda e corruga la fronte. Si appoggia sulle mani inclinando il busto indietro mentre io mi siedo sulle sue gambe stringendo con le coscie il suo bacino. Gli sfioro con le dita le guancie e poi la nuca.
Scusa.”, sussurro con le labbra che praticamente sfiorano le sue. Lui appoggia le mani sui miei fianchi e alza lo sguardo per guardarmi negli occhi. Mi sento nuda e fragile tra le sue braccia. Le sue labbra cercano la mia bocca. Mi aggrappo al suo corpo. Mi aggrappo a quel bacio. Mi dimentico di tutte quelle cose stupide che mi hanno detto: di ripetere il mio nome, di razionalizzare, di capire fino in fondo le cose. Ma cosa significa poi? Io la mia malattia non l’avevo capita. L’amore non l’avevo capito. Mi aggrappo, con tutto il coraggio che ho, con le ultime forze rimaste. Mi aggrappo e spero lui mi insegni a vivere.

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Capitolo 2
*** Lui ***


Il sole sta tramontando oltre le montagne, il cielo sembra la tavolozza di un pittore pazzo. Osservo il giardino dalla finestra cercando con lo sguardo mia sorella. Non la vedo da ore, la mamma dice che si è nascosta ancora. Si nasconde sempre e osserva quella ragazzina, la nipote dei vicini, mentre passeggia.
Vai a cercare tua sorella.”, mi dice mio padre. Gli sorrido e mi dirigo alla piccola radura dove di solito c’è sempre Lei. Lei la ragazza, Lei che per me non ha ancora un nome. Lei che ho visto tante volte, ma non ne so nulla. Una volta ho origliato una discussione tra i miei, e l’unica cosa che ho saputo era che è malata. Non ho capito di cosa. Non ho capito se fosse semplice influenza o qualcosa di più grave. Si può essere anche malati d’amore, o di qualcosa di mortale. Sorrido. L’amore per me è mortale, in qualche modo. Mi dilungo in pensieri complessi quando la vedo, sotto l’albero, che guarda mia sorella. Indossa un vestito semplice oltre ad un sorriso timido sulle labbra. Sembra molto più piccola. Molto più piccola di non so quanto, perché non ho idea di quanti anni abbia. La osservo per un po’, Lei non mi nota, è troppo presa. Pensa intensamente, corruga la fronte e sembra perplessa. Mi avvicino piano, ho quasi paura di rompere quella bolla invisibile in cui vive.
Scusa, ma devo recuperare mia sorella.”, dico. Lei sussulta e sgrana gli occhi, fingo di non essermene accorto. Le sorrido e mi passo una mano tra i capelli neri. Mi avvicino al corpo addormentato e sorreggo la mia sorellina tra le braccia. Sento lo sguardo di Lei perfino quando mi allontano, ma quando mi volto Lei osserva il cielo, rapita. Mio padre mi apre la porta ridendo. “Non è possibile che tua figlia dorma sempre.”, dico e lui la prende tra le braccia. Io resto a guardare il giardino, vedo la figura di Lei camminare su e giù sul prato. Cosa darei per i suoi pensieri. Con le dita traccio sul vetro della finestra le linee del tramonto che sta solcando il cielo come una crepa.

Hai intenzione di stare lì a lungo o mangi?”, mi chiede mia madre, appoggiando una mano sulla mia spalla. Il buio ricopre ormai le montagne e si vedono le prime stelle brillare.
No, non mangio.”, dico afferrando la coperta dal divano ed una pila. Non so cosa mi passi per la testa, ma non riesco a fermarmi. Esco di casa e continuo a camminare verso di Lei. L’erba mi solletica i piedi e sento il freddo della sera. “Ehi rossa, questa potrebbe servirti?”, dico sorridendo. Lei si siede e mi guarda. Ci fissiamo, e mi perdo nei suoi occhi color nocciola. Dopo un po’ mi accorgo di star puntando la pila a terra, vicino alle sue mani. L’anulare della mano sinistra le trema, non sembra accorgersene.
No.”, dice secca. “Non sono rossa, io sono Elena e ”, si ferma di colpo. E’ turbata, pensa un po’ e poi abbassa lo sguardo. Mi chiedo se io abbia detto qualcosa di strano. Tace.
Ho bisogno di rompere il silenzio, quindi chiedo ancora: “Non sei rossa?
No. Io sono Elena e ...”, balbetta e non sa dove posare lo sguardo. E’ così timida che arrossisce, vedo le sue guancie colorarsi nonostante la poca luce.
E ...?”, la sprono.
E ho i capelli rossi.”, la sua frase mi sorprende e rido. Lei ride assieme a me, e mi sembra che quella frase sia la più spontanea che abbia mai detto. Sorride quasi orgogliosa. Mi guarda e stringe le gambe al petto. La fisso, forse in modo troppo convinto ma lei sostiene il mio sguardo e restiamo in silenzio per un po’. Il vento si alza ed Elena comincia a tremare di freddo.
Questa ti serve.”, sussurro appoggiando la coperta sulle sue spalle. Stringo le braccia al petto per scaldarmi e mi siedo accanto a lei. La guardo ancora, mentre l’aria si fa fredda. “Tremi come una foglia, sai?”, dico e le prendo delicatamente la mano sinistra. La chiudo tra le mie, per poi portarla sulle mie labbra e le bacio delicatamente ogni polpastrello. Cerco di essere sicuro, con movimento decisi, ma in realtà tremo dalla paura. Mi vergogno del mio gesto appena allontano la sua mano dalla mia bocca, ma lei si è già coperta il viso con l’altra mano. Tra le dita affusolate intravedo il suo sorriso imbarazzato e non posso fare a meno di sorridere a mia volta. Ci guardiamo di nuovo negli occhi e mi ritrovo a pregare che questi istanti non passino mai. Ha gli occhi luminosi, innocenti, da bambina. Ma allo stesso tempo profondi, misteriosi. Nascondono un grande segreto. Lo so. La sua espressione si fa’ dolce e si alza, corrugo la fronte perplesso. Si siede sulle mie gambe distese. Automaticamente mi ritiro inclinando il bacino all’indietro continuando a guardarla negli occhi.
Con le dita mi sfiora le guancie e la nuca, un leggero sorriso si forma sulle sue labbra. Poi sussurra, piano: “Scusa.”, la sua bocca mi distrae, troppo vicina alla mia. Appoggio le mani sui suoi fianchi, col tentativo di avvicinarla a me. I nostri sguardi si incrociano ancora, e i suoi occhi mi trasmettono sicurezza, così pieni di speranza e vita. La bacio. La bacio come se fossi nato per baciare solo lei. La bacio perché mi sento sia la cosa giusta da fare. La bacio e ne sorreggo il peso: mi sembra di sostenere anche le sue preoccupazioni, le sue paure, il suo mistero. Lei si aggrappa a me e a questo bacio. E mentre la stringo i suoi gesti sembrano farsi più sicuri, meno distratti. Tra le mie braccia sembra ricomporsi, come se prima cadesse in mille pezzi.
 
 
Non ho più freddo in questa notte buia. Non con lei.
Sono seduto sopra la coperta ed Elena mi abbraccia ormai da ore. Siamo fermi così, in silenzio. Le accarezzo i capelli, morbidi, e lei affonda il viso nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Talvolta la sento singhiozzare, il suo corpo comincia a sussultare e si asciuga le lacrime con le mani. In quei momenti le bacio piano la fronte  e la stringo più forte. Non diciamo nulla, ma sentiamo tutto. Siamo incastrati in un abbraccio, e nessuno dei due vuole allontanarsi dall’altro. Mi chiedo se il coraggio che l’ha spinta a baciarmi sia lo stesso che ha costretto me ad uscire per incontrarla. Mi sento confuso, lo stomaco sottosopra, ma non smetto di tenerla fra le mie braccia. Ho veramente paura di lasciarla fuggire via. Chiudo gli occhi e spero lei abbia lo stesso timore.
Scusa.”, dice poi in un sussurro. “Scusa.”, ripete e scioglie l’abbraccio. Mi guarda negli occhi, ma io vorrei tenerla tra le mie braccia ancora un po’.
Non è neanche sorto il sole quando lei si alza e lentamente si incammina verso casa sua. Non è neanche sorto il sole quando lei, scrollandosi di dosso l’erba del prato e i mille pensieri, decide che doveva scusarsi. Un errore. Non è neanche sorto il sole quando la vedo richiudere dietro di sé il cancello. L’unica cosa che riesco a pensare, a sperare è che lei si volti. Che guardi il disastro che aveva creato nella mia testa.
Mi passo una mano tra i capelli mentre sussurro il suo nome: “Elena.

Lei non si volta, non si scompone. E’ una ragazza forte ma sembra che il mondo le stia chiedendo troppo.
 
 
 


Mi scusi infermiere! Mi scusi!”, mi volto giusto in tempo per vedere una figura precipitarsi fuori dalla stanza. Abbandono il plico di fogli sul tavolino mentre arrangio qualche veloce scusa. Seguo il suono assillante del macchinario. “Il paziente della stanza 210!
Camera 210. Codice blu, Dipartimento Cardio Toracico, codice blu.”, una voce ripete dagli altoparlanti.
Persone in camice entrano nella stanza accanto, li seguo senza indugiare. Tutti sono rivolti verso un lettino, posizionato in fondo alla stanza. Un medico effettua la RCP su una donna incosciente. Lunghi capelli biondi ricadono a lato del viso, gli occhi chiusi ed un espressione stanca. I familiari vengono allontanati mentre mi faccio strada e mi accosto al lettino. Osservo i parametri vitali del paziente, il macchinario che emette un unico fischio riconoscibile. Battito assente.
Dammi una fiala di epinefrina. Preparate il defibrillatore.”, urla il dottore mentre comprime con i pugni il petto della paziente. Vedo gocce di sudore formarsi sulla sua fronte. Si abbassa per effettuare la respirazione, sigilla il naso e ricopre con le sue labbra la bocca della donna.
L’infermiere che mi aveva preceduto allunga la fiala e con un gesto secco colpisce l’addome nudo della donna. Sbatto le palpebre mentre un leggero Click ci conferma l’attivazione dell’ago a molla. L’adrenalina è in circolo. Non solo nel corpo della paziente.
Un’infermiera mi accosta il defibrillatore. Posiziono i due elettrodi sul petto e sul fianco della donna.
Vai, 200 Joules.” , mi conferma il medico. Il macchinario fischia. Non c’è tempo per avere dubbi.
Via tutti!”, urlo. Premo il pulsante. Il petto della paziente si alza in un sussulto, la testa reclinata all’indietro, i capelli biondi arruffati. Il medico di fronte a me riprende la proceduta RCP. Abbiamo tutti il respiro affannoso, gli occhi sbarrati. Continuiamo a guardare prima la donna e poi il macchinario. Le afferro il polso: nessun battito. Ha delle mani piccole e curate, la pelle abbronzata.
Di nuovo, 200 Joules.”, grida il medico. Allontaniamo tutti le mani dal paziente, il defibrillatore fischia. Premo il pulsante e il petto della donna di alza, ancora. Il corpo inerme e fragile, soggetto alla forte scarica, sbatte con forza sul lettino. La testa si piega di lato. Le speranze cominciano a scemare mentre continuiamo nel tentativo di salvarla.
Ancora!”, i suoni diventano ovattati, lo sguardo concentrato posato davanti a me. Continuo a seguire gli ordini ignorando le grida dei familiari, la stanchezza del turno, la paura di non farcela.
 
Avete lavorato tutti sodo.
Il dottore si allontana dal lettino, si asciuga il velo di sudore dalla fronte. Sospira. Abbassiamo tutti il volto. Alzo la manica del camice e controllo l’ora. Per la prima volta mi rendo conto di avere i polpastrelli delle dita sporchi di sangue.
11 Luglio, ore 21.37. Il cuore ha smesso di battere.”, affermo.  Alzo lo sguardo. I familiari si avvicinano piano, quasi a destare il riposo. Gli occhi gonfi, le guance rosee. L’infermiera accanto a me si porta le mani alla bocca, per nascondere lo stupore. Mi trascino fuori dalla stanza verso la sala relax dei medici. Il mio turno era finito.
Mi lascio accompagnare dal mio passo pesante, la testa svuotata. Non mi piaceva sentirmi così. Avremmo potuto fare di più. Attraverso quelli che sembrano corridoi infiniti, mentre mi lascio travolgere ancora una volta dall’impotenza.
Avremmo potuto fare di più.” , sussurro mentre apro il mio armadietto. Mi sfilo il camice e lo butto dentro il borsone, non importa se spiegazzato. La stanza vuota e il solo silenzio che mi circonda. Finalmente. Con le dita cerco inutilmente di pulire l’impronta di sangue sul quadrante dell’orologio.
A casa.”, mi dico. Lascio uscire un sospiro lunghissimo. Mi rilasso e comincio a sbottonarmi la camicia. Osservo il mio volto stanco dallo specchio appeso all’anta dell’armadietto. Le occhiaie evidenti e le labbra contratte. Rifletto su quale cena potrebbe soddisfare al meglio il mio appetito, mentre nelle orecchie fischia ancora il suono del defibrillatore. Scuoto la testa. Le mie mani stanche si fermano, non riescono a liberare un bottone. Mi guardo il petto, la pelle diafana nonostante il periodo dell’anno. Le dita della mano sinistra tremano e mi lascio scappare un sorriso di sconfitta. Mi sfilo la camicia oltre il seno, oltre la testa e la getto nel borsone. Cerco nell’armadietto le mie pillole. Un cocktail di dodici pillole che assumo ogni giorno.
Dodici pillole che prendo da anni. Dodici pillole che stanno rallentando la mia malattia. Dodici pillole capaci di rallentare, certo, ma non fermare il mio Parkinson. Dodici pillole che, per lo meno, mi stanno permettendo  di vivere.
Vivere non certo quella vita che sognavo, con i piedi in ammollo nel torrente. Una vita migliore, piena. Piena perché posso darle un senso. Un vivere che mi è stato insegnato lentamente ed io, studente ingordo, ho appreso entusiasta.
Non ho più bisogno di regole, di razionalizzare, di suddividere la mia vita in numeri. L’unico numero di cui ho bisogno ora sono quelle dodici pillole. Con un paio di sorsi d’acqua prendo le medicine che mi servono e getto la bottiglia nel cestino accanto alla porta.
Mi sciolgo i capelli e li lascio cadere sulle spalle. Una folta chioma rossa mi incornicia il volto. I capelli corti da combattente sono un vecchio ricordo. Mi osservo allo specchio. La mia figura minuta è ancora la stessa. Ma non mi chiamerei più fragile, sorrido e abbasso lo sguardo. Non ho più paure. L’amore ti da la forza di fare tante cose. A volte è solo l’amore che ti manca. L’amore ti da la forza di fare tante cose, a volte ti sveglia da un sonno che non sapevi stessi dormendo.
Svegliarsi ogni giorno, questa volta senza spiegazioni da dare, solo vite da salvare. Amore da donare.
Afferro la prima maglietta pulita che trovo nell’armadietto e la indosso, in fretta.
Sono pronta: richiudo dietro di me l’armadietto, mi getto il borsone sulle spalle e mi incammino verso l’uscita dell’ospedale. Sorrido salutando i colleghi. Nei corridoi vedo mille emozioni sui volti delle persone. Una vecchia signora tiene stretta tra le mani la croce che porta al collo. Le rughe che le ha donato la vita, i capelli argentei, il modo composto in cui è seduta. Tutto di lei mi affascina.
La supero ed esco dall’edificio. La notte calata sulla città.
Se porto la mano al petto, sotto la maglietta, riesco a sentire il cuore battere tra le costole. E questo è abbastanza per me. Sapere che non è tardi.

 

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