Giochi pericolosi di shilyss (/viewuser.php?uid=21848)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tensione affilata ***
Capitolo 2: *** Quello che è rimasto ***
Capitolo 3: *** Distanze ***
Capitolo 4: *** Progetti ***
Capitolo 5: *** A Sigyn ***
Capitolo 1 *** Tensione affilata ***
1
Tensione affilata
Fissò la sua immagine riflessa nello specchio cercando, nella confusione della sua testa leggermente annebbiata dal vino, di registrare i cambiamenti occorsi nelle ultime due ore e, allo stesso tempo, imprimere nella memoria il suo viso com’era in quel momento, a una manciata di minuti dall’inesorabile fine di quella serata straziante, ma necessaria. L’idromele bevuto fino a farle girare la testa non l’aveva ubriacata purtroppo, ma le era scivolato in gola lasciandola confusa e accaldata. Con una mano si massaggiò la nuca, con l’altra carezzò la carta ruvida su cui spiccava una firma corsiva tracciata con un segno rapido e deciso: la sopravvivenza di Vanheim segnata su un foglio di carta, la flebile speranza che i suoi bambini potessero ancora vivere sereni, protetti. Sigyn si morse le labbra nel tentativo di contenere un sospiro strozzato. Sonje e Vali a quell’ora erano a letto, certamente dormivano già. Li immaginò rannicchiati nei loro lettini, avvolti nelle coperte calde, circondati da animali di pezza. Le mancavano in maniera disperata, assoluta, atroce. Sentiva il bisogno di accarezzare i loro soffici capelli, di annusare il profumo di cuccioli che emanavano; moriva dal desiderio di stringerli e coccolarli e dir loro che tutto sarebbe andato bene. Sonje non le avrebbe creduto, all’inizio. Con quei suoi occhi grigi identici ai suoi, ma taglienti come quelli del padre, si sarebbe concessa il beneficio di attendere, aspettare. Nello sguardo verde e quasi trasparente di Vali, invece, avrebbe scorto la dolce e ingenua speranza innata che nutrono i bambini verso le cose del mondo.
Si asciugò una lacrima frettolosa facendo attenzione a non rovinare la polvere nera che circondava i suoi occhi bistrati, tentò di placare il respiro corto. La nostalgia di casa, di Vanheim, spesso si mescolava a un feroce rimpianto per ciò che era stato e aveva perso, ma questi erano tutti ragionamenti sbagliati che avrebbero rischiato di infrangere il precario equilibrio di quella serata dove tutto fino a quel momento era andato per il verso giusto. Si era prefissata l’obiettivo di essere affascinante e divertente e piacevole e c’era riuscita: lo aveva sedotto. Ora poteva sentire la sua voce secca e perentoria oltre la porta della stanza. Quanto tempo aveva ancora, a sua disposizione? Un paio di minuti forse, non di più. Inghiottì il dolore che la lontananza dai suoi figli, anche se breve, le provocava, e si concentrò sul suo viso. Sugli occhi grandi e grigi sfumati di nero, sull’acconciatura elaborata che le lasciava appositamente la nuca e il collo esposti e non privava gli uomini del piacere di poter ammirare la chioma bionda e folta che le ricadeva sulla schiena. Poi il suo sguardo scese giù, verso la scollatura bianca incorniciata dalla seta nera del suo abito di un’eleganza sfacciata. Rabbrividì ricordando come era stata guardata, quando a cena gli era apparsa davanti con quel vestito attillato che le fasciava la vita e il seno per poi scivolarle leggero sulle gambe tremanti. Fremette, osservando la spallina sottile ora penzolante che era stata brutalmente tirata giù e ora scopriva la spalla nuda, esposta. Lo aveva sedotto e le era piaciuto farlo.
No, il vino che avrebbe dovuto ubriacarla e al mattino giustificare i suoi errori non aveva sortito l’effetto sperato: Sigyn era lucida, ogni suo pensiero veniva formulato nella sua testa con la massima precisione e puntualità. Era il suo corpo a tradirla, a vibrare quando non doveva lasciandole una sensazione di umido calore tra le gambe. Un desiderio che il suo ospite aveva carpito, intuito, sentito persino. Con la coda dell’occhio, fissò il mantello abbandonato con malagrazia sulla poltrona soffermandosi sul vessillo di Thanos che spiccava sulla stoffa rossa. Nascose il foglio con un gesto rapido della mano, afferrò la caraffa d’acqua posta sulla toletta e bevve un lungo sorso che non riuscì a calmarla né a dissipare la confusione che le regnava dentro, ma servì solo a bagnarle le labbra e a prendere – o sarebbe stato meglio dire perdere, tempo.
La porta si aprì con un cigolio metallico, e subito la voce alta e chiara dell’uomo riempì la stanza portandosi dietro gli ultimi brandelli di una conversazione spaventosa intrapresa con leggerezza, che il legno e le pareti le avevano risparmiato e ora emergeva prepotente. Un ordine perentorio e implacabile capace di turbarla, perché le ricordò dov’erano rimasti prima che fossero interrotti, alla fine della cena. Rivisse il turbamento provato baciandolo, la disperata perdizione in cui era scivolata quando gli aveva concesso di liberarle la spalla da quel pezzo di stoffa, di afferrarle i fianchi e sollevarla. Era sola da troppo tempo perché le cose potessero andare diversamente, eppure.
“Non voglio rubare ulteriore tempo alla vostra udienza privata con la Regina dei Vanir, Generale.” Sigyn tremò sentendo quel titolo, ma non distolse lo sguardo dalla sua immagine riflessa nello specchio. Non voleva incontrare lo sguardo né di lui, che certo ora la stava fissando, né quello dell’untuoso interlocutore che aveva assistito alla loro cena e l’aveva osservata mentre affascinava e irretiva il guerriero dal sorriso compiaciuto e lo sguardo attento che era sulla soglia. La porta si chiuse senza una risposta – forse il Generale si era limitato a sorridere e basta. La raggiunse e lei poté vedere i suoi occhi feroci sulla superficie riflettente, sentì le sue labbra che indugiavano sulla nuca e sul collo, stregata dalla tensione affilata che permeava quell’incontro. I loro respiri si incrociarono, le mani del guerriero le raggiunsero i seni e lei sospirò con forza a quel tocco, precipitando di nuovo in quello smarrimento da cui il pensiero di casa, di Vanheim, per un momento l’aveva risollevata. Le era necessario quel contatto. Voleva essere toccata, baciata, presa. Amata forse, ma del suo cuore ferito non poteva curarsi, ora. Lo aveva giurato sul trono di Vanheim e promesso a se stessa, a Sonje a Vali e a Loki, persino, che quella corona era riuscito solo ad accarezzarla appena.
No, Sigyn non era affatto ubriaca, ma avrebbe voluto esserlo perché aveva bisogno di quella notte così com’era, anche se le mani che la spogliavano erano quelle di un generale di Thanos. Non aveva importanza perché rabbrividiva a quel tocco e doveva mordersi le labbra per non gemere. Il Regno dei Vanir e i suoi problemi erano lontani anni luce anche se era per loro che si trovava lì, e non per soddisfare un bisogno fisico che l’aveva colta di sorpresa con la sua spiazzante urgenza. Il corsetto era slacciato fino all’ombelico, la bocca e la lingua del tirapiedi di Thanos la esploravano con un desiderio almeno pari al suo. Non resistette all’impulso di artigliargli i capelli e di dirgli di farla sua adesso, in quel momento.
Il Generale ghignò, la guardò con attenzione, cercandole sotto la gonna le prove di quel turbamento che le rendeva lo sguardo languido e annebbiato. “Non è ancora il momento. Possiamo divertirci di più” decise, e riprese a tormentarle i seni con implacabile, atroce lentezza, a baciarle le labbra per zittire le sue proteste.
Avevano respirato tutti l’affilata tensione che c’era stata tra loro, a cena. Erano stati intercettati sguardi, sorrisi, battute, allusioni velate, persino. Il modo in cui lei gli aveva offerto la mano e, più tardi, si era sfiorata l’orlo superiore del vestito guardandolo, anche quelli potevano essere annoverati come inequivocabili segnali del bisogno che li avrebbe spinti sul letto senza che ci fossero altre parole oltre a quella richiesta e al rifiuto che ne era seguito. Ma prima di godere l’uno dell’altra tra le lenzuola fu lì, davanti allo specchio di quella toletta che il Generale, con la stessa fermezza con cui comandava gli eserciti del Titano, la sollevò fin sul piano di legno e le aprì le gambe.
Sigyn gli sfiorò con le dita gli spallacci decorati e i gradi del comando e lo accolse dentro di sé senza esitazioni, aggrappandosi alla stoffa ruvida segno indelebile della sua sconfitta, abbandonandosi alla disperata voglia che il giorno dopo avrebbe maledetto ma non ora, non ora per le Norne. Gli cinse i fianchi e fu sua su quel mobile e dopo sul letto. Glielo gridò e disse, incapace di resistere al piacere basso e intenso che le provocava sentirlo finalmente dentro di lei. Lo assecondò in ogni suo movimento – anche questo era stato filato dalle tre entità che decidevano il destino?
Il Generale si compiacque per quell’ennesima vittoria. Anche lui aveva desiderato averla dal primo istante in cui l’aveva vista e non aveva creduto, quando gli si era seduta di fronte con quell’abito nero addosso, di poter finire così piacevolmente la serata. Avrebbe scommesso tutto quello che aveva su un suo sdegnoso e ragionevole rifiuto, piuttosto.
“Sembra che con questa divisa ti piaccia di più,” constatò con voce roca, sentendo le mani delicate a ansiose della donna stringere disperate la stoffa scarlatta. Aveva ragione, ovviamente. Sigyn non lo avrebbe ammesso in nessun caso ad alta voce e non sarebbe mai riuscita a rendersi conto di come fosse possibile, ma era vero. Lo aveva voluto in maniera sfacciata quando aveva visto le insegne rosse e nere di Thanos addosso al suo corpo di guerriero, e quella che prima le era parsa una strategia disperata, aveva assunto i toni di una sfida intrigante che essere nuda con lui non bastava a placare. Perse il controllo all’improvviso e il Generale subito dopo di lei.
Si ritrovarono scossi e stremati, col fiato corto e ancora stretti l’uno all’altra, ma il desiderio impellente aveva lasciato spazio anche ad altro: alla ragione, finalmente. Grosse lacrime calde scivolarono dalle ciglia nere di Sigyn. Pensò a Sonje e a Vali, ai suoi bambini adorati e ignari di ogni cosa e pianse in silenzio ciò che aveva perso con gli occhi rivolti al soffitto, mentre la sua mano abbandonava con lentezza la stoffa scarlatta della divisa del Generale ancora steso sopra di lei. Lui si sollevò quel tanto che bastava per guardarla.
“Un rimpianto? Te ne penti?” domandò increspando le labbra in un mezzo sorriso. Aveva ancora il fiato corto.
Lei distolse lo sguardo. “Lo volevo, lo sai.”
“Allora cosa?”
“Sai anche cosa voglio. Che Thanos mi restituisca mio marito.”
Lo sentì tendersi, irrigidirsi, allontanarsi. Cambiare posizione e maledire il cielo, il destino e chi lo filava.
“Puoi biasimarmi?” insistette Sigyn. Cercò di coprirsi con un lembo di coperta, incapace di guardarlo negli occhi e di controllare la sua voce che sentiva sul punto di incrinarsi. “Sinceramente Loki, puoi biasimarmi?”
Il Generale di Thanos e dio degli inganni tirò su la schiena passandosi una mano tra i capelli scuri e la fissò come si guardano le cose amate e perdute. Era la prima volta che lo chiamava per nome da quando l’aveva rivista. Si era ostinata ad appellarlo con il suo grado militare per tutto il tempo facendolo impazzire di rabbia e desiderio. Si contenne.
“Povera moglie mia. Sei bellissima, stasera,” commentò asciugandole una lacrima.
“Vali è andato a cavallo per la prima volta, una settimana fa, e Sonje è sempre più brava con le rune. Gli manchi, ti cercano: non possono farsi bastare un’ombra che non li può abbracciare né stringere o consolare.” Si era ripromessa di non alludere mai, per nessuna ragione, al calore familiare cui l’Ase aveva voltato le spalle. Loki serrò le labbra, guardò la toletta dove aveva ceduto al desiderio di averla.
“Lo dici come se fossi libero di andarmene. Non mi aiuti così,” le ricordò.
Era stata così forte. Aveva firmato editti, indetto riunioni, parlato ai comandanti, ai soldati, alla povera gente. Njord era morto stringendo la sua mano e lei, da quel momento, non era crollata un solo istante se non qualche volta nel letto matrimoniale divenuto all’improvviso troppo grande e freddo. Prima di prendere qualsiasi decisione importante, si tormentava la fede che aveva spostato dall’anulare alla collana che indossava tutti i giorni nel tentativo di provare a calmare il respiro e ragionare con la stessa pungente analiticità con cui Loki era solito sezionare ogni fatto. Rivederlo dopo tutti quei mesi era stato terribile, lancinante, distruttivo. Non aveva dimenticato di che colore fossero i suoi occhi perché li riconosceva tutti i giorni nel viso di Vali, ma si era resa conto di come avesse scordato il modo in cui la guardava: quel misto di divertita dolcezza e compiaciuta attenzione che l’aveva fatta arrossire nei tempi lontanissimi in cui litigavano ai banchetti e di cui non era sempre riuscita a cogliere l’inafferrabile senso nemmeno quando, più tardi, erano diventati amanti e si nascondevano negli angoli più remoti del palazzo dei Vanir.
Nessuno, nei Nove Regni e oltre, avrebbe mai osato dire che Loki Laufeyson avesse uno sguardo dolce: i suoi occhi chiarissimi erano densi di ombre di impenetrabile durezza, ma quando guardava lei, per le Norne, avevano una luce differente. Gli era cara – l’amava, anche se non glielo aveva mai detto apertamente. La Lingua d’Argento si era inceppata e non era riuscita mai a sciogliere il nodo rappresentato da quelle due semplici parole. Non era nella sua natura altezzosa, forse, cedere a voce a qualcosa di evidente. Sigyn nel tempo si era convinta, a ragione, che il dio degli inganni non avrebbe mai pronunciato le fatidiche parole, ma aveva riconosciuto il loro eco in una serie di piccoli gesti nascosti e quotidiani cui aveva imparato a fare attenzione: nel braccio che le cingeva a volte la vita la notte, nell’attenzione che prestava ai suoi discorsi o nella coperta che lasciava gli rubasse nelle sere di più fredde. Dopo un’avventura rocambolesca di cui spesso a lei non arrivavano che dettagli, sceglieva di ritornare da lei, da loro, e anche questo era amore.
Poi la catastrofe si era abbattuta su Asgard, e l’ombra delle sue macerie aveva travolto le loro vite per sempre. Scoppiò in lacrime anche se si era ripromessa di non farlo, artigliando con le dita la stoffa spessa di quella divisa estranea che conservava l’odore dell’Ase in silenzio accanto a lei. Profumo desiderato, cercato nell’armadio tra i singhiozzi per troppe notti, ora vicino a lei come il corpo che lo emanava. Di Loki che non le apparteneva più.
“Non aiuto te né Vanheim né loro. Tuo figlio ha gli incubi ogni notte, tua figlia è ombrosa, si è chiusa in se stessa. Ho qui i loro disegni, le loro lettere. Sarebbero felici se li avessi, ma tu non puoi tenerli,” constatò in un momento di lucidità improvvisa, asciugandosi in fretta le lacrime traditrici, il naso umido.
L’Ase la guardò con attenzione: il trucco nero si era leggermente sbavato, gli occhi grigi erano liquidi e carichi di una solitudine che mezz’ora di amore non aveva potuto soffocare, né l’abbraccio in cui erano ancora stretti. Le scostò una ciocca dorata dalla fronte – l’acconciatura si era irrimediabilmente disfatta, come i loro progetti di contenersi, e nel farlo le accarezzò il viso liscio, la pelle morbida.
“Sai che non posso tornare né portarvi con me. Ciò che non sai è quello che farebbe Thanos ai nostri figli, se li trovasse. Io sì,” confessò con voce tetra.
“E a te cosa farà?” Sigyn aveva fermato la sua mano e ora lo guardava fisso, in attesa delle ombre che gli avrebbero oscurato lo sguardo. Il destino di un traditore doppiogiochista era inevitabilmente tinto di rosso. Loki Laufeyson non era andato da Thanos nelle vesti di padre, marito e quasi capo di stato, ma col ghigno beffardo di uno che non aveva niente da perdere, come un lupo solitario egoista e crudele pronto a recuperare in fretta il tempo perduto e il prestigio svanito. Solo che abbindolare il Titano non era stato facile: la guerra contro Asgard poteva essere spiegata alzando fieramente il capo, ma il soggiorno presso Vanheim? Gli era toccato descrivere quella terra fertile e calda, dove anche gli inverni più rigidi erano tollerabili e miti, spezzati com’erano dalle correnti marine. Della giovane moglie e dei bambini non aveva fatto parola. Li avrebbe descritti con un’alzata di spalle come qualcosa di tangente che aveva interrotto il naturale corso della sua esistenza, una scorciatoia succosa verso un trono facilmente conquistabile: nello stesso identico momento in cui raccontava tutto questo al Titano, Njord moriva e Sigyn si ritrovava sola con la responsabilità di un regno intero sulle esili spalle.
“Non è il tipo di domanda che dovresti porti,” l’avvertì l’Ase, “e nemmeno la migliore che potresti rivolgere a me.”
Lei non sapeva niente. A volte, questo era l’unico pensiero consolante che gli attraversava la mente febbricitante, esaltata per aver intrecciato tra loro troppe rune. Sigyn era lontana, protetta dalle oscenità dell’universo, chiusa nel suo mondo incantato dove in inverno nevicava di rado, non più di un mese all’anno. Suddita di Thanos, come tutti, ma il Titano la ignorava. Purché lei gli obbedisse, ovviamente, e alla sua Sigyn non sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di opporsi alla volontà del terribile dominatore, perché aveva visto cos’era successo a Thor e agli Asi. In un ultimo disperato tentativo di salvare il popolo che aveva dato vita agli indomiti guerrieri, Loki era arrivato persino a scatenare Surtur e a distruggere Asgard tutta: così la Voluspa si era compiuta. Mentre osservava i fiordi che circondavano il palazzo che era stato di Odino divenire rossi per le fiamme appiccate dal gigante di fuoco, il dio degli inganni aveva ripensato a Frigga, sua madre, quando tentava di spiegargli il senso nascosto di quella profezia implacabile e crudele che, un tempo lontano, lo aveva costretto a guardarsi allo specchio chiedendosi cosa ci fosse di storto, in lui.
Thanos aveva preteso la sua vendetta comunque. Vedere Asgard bruciare non gli era bastato. A Sigyn nemmeno Thor, ferito e fuggiasco, si era azzardato a raccontare la scena di Loki che, fingendo un sangue freddo che forse non possedeva del tutto e con gli occhi resi lucidi dall’aria densa di fumo, gli prometteva i suoi servigi. C’è qualcosa di tragico e nobile, in una resa plateale e disperata come quella messa in atto dal dio degli inganni. L’intera scena possedeva la gravità che solo i momenti fatali e decisivi vantano, unita al brivido d’eccitazione tipico di una scommessa azzardata: avrebbe osato barare, stavolta, il sagace ingannatore? Era conscio di quanto gli sarebbe costato, tornare nelle tetre fila di Thanos?
Ma lei non lo sapeva e nessuno glielo avrebbe detto e questo all’Ase bastava. Vanheim si era arresa e, nel preciso istante in cui ciò era avvenuto, il Titano aveva smesso di considerarla nient’altro che un punto verde sulla cartina. Anche Loki si era arreso, ma a lui non era toccato l’oblio né il disinteresse del conquistatore, e nemmeno questo lei doveva intuire. La morte di Njord, sotto questo aspetto, era stata provvidenziale perché la giovane regina non aveva avuto il tempo di pensare né di chiedersi che costo avesse, tornare dopo anni di assenza da un padrone abbandonato.
A volte però, nel cuore della notte, Sigyn si svegliava con in gola un grido sordo. Sobbalzando cercava istintivamente il corpo di Loki addormentato accanto a lei, come si era abituata a fare ormai da anni; mille volte la sua mano bianca e sottile aveva accarezzato i muscoli tonici del dio degli inganni addormentato; altrettante, spinta dal freddo o spaventata a causa di un incubo, gli si era stretta contro per cercare conforto tra le sue braccia. Lui a volte nemmeno se ne accorgeva, abbandonato com’era in un sonno profondo; alle volte, però, si svegliava sentendola scivolargli di fianco e la rimproverava con un mugolio basso, arrochito. Capitava anche che a causa del movimento leggero di lei l’Ase spalancasse gli occhi altrimenti verdi nel buio. Sentiva le gambe fredde di Sigyn avvinghiarsi alle le sue, il corpo flessuoso e caldo della giovane donna, con tutte le sue naturali e dolcissime curve, combaciare con la sua pelle nervosa, avvertiva il dolce gonfiore del seno premergli contro la schiena. Incapace di resisterle, sedotto da quella vicinanza, improvvisamente sveglio, con un gesto repentino era sopra di lei per baciare quelle sue labbra assonnate, il collo profumato, tirarle via l’inutile e leggera camicia da notte che indossava e farla sua. Colta alla sprovvista, Sigyn scopriva di volerlo con la stessa intensità e che le piaceva quel modo rapace dell’Ase di fare l’amore con lei. Qualche notte lo aveva trovato anche in piedi, intento a consolare il pianto infantile dei loro bambini.
Che spettacolo strano vederlo prendere in braccio un disperato Vali con i biondi capelli arruffati e bisbigliargli qualche frase consolatoria nella lingua dura degli Asi. Il bambino tendeva le braccia verso di lui, pretendeva che il dio degli inganni consolasse anche il suo giocattolo di pezza preferito, e Sigyn, immobile sulla soglia, nella penombra, ringraziava silenziosamente le Norne per quei momenti assolutamente perfetti. Loki che raccontava ai loro figli le avventure vissute con Thor e loro che lo guardavano e ascoltavano ammirati, Sonje che si arrampicava sulle sue gambe per stampargli un bacio umido sulla guancia e mostrargli tutta fiera un disegno o il traballante esercizio con cui cercava di imparare le rune, mentre lui, seduto sulla sua scrivania imponente, rispondeva alle numerose lettere, contrastava trattati, spulciava vecchie leggi in cerca di cavilli.
Non aveva smesso di essere il dio degli inganni neanche un momento. Le sue battute continuavano ad essere affilate come rasoi, la sua ambizione faceva conquistare a Vanheim una posizione di potere prima solo vagheggiata. Ciò che prima era stato fatto sotto pagamento di un lauto corrispettivo, ora veniva compiuto con volontà e decisione in vista di un futuro che si prospettava tutto sommato già scritto, lineare. Ripensare a quegli anni, adesso che Thanos aveva sconvolto ogni cosa, era come passarsi una lama tagliente sulla carne, perché non c’è cosa più terribile che rievocare i giorni felici, nella miseria, eppure anche allora c’erano stati giorni a loro modo tormentati. Del resto, Sigyn aveva sempre saputo chi fosse Loki. Si parlava di lui, alla corte di Njord, ben prima che Freya lo accogliesse a Vanheim. Le sue trovate sagaci – e crudeli – facevano spuntare un sorriso divertito sulle labbra sottili di suo nonno. Il ragazzo prometteva bene, Odino era stato abile e accorto: aveva tirato su rispettivamente un guerriero e un politico, il suo regno avrebbe proliferato, negli anni a venire. Gli Asi stavano perdendo la loro connotazione di barbari combattenti per diventare altro. Sigyn bambina ascoltava in silenzio, fantasticando su quei nomi che tanto spesso venivano pronunciati nella sua casa: Thor, Odino, Frigga, Loki, Asgard le erano quasi familiari.
Curiosa com’era, silenziosa come sarebbe stata ancora per poco tempo, assorbiva come una spugna discorsi e riferimenti. Nella sua testa, intanto, creava un mondo tutto suo, una Asgard immaginaria dove quegli Asi dal nome esotico avevano fattezze tutte particolari. Se Odino corrispondeva, con la sua barba bianca folta e candida e il suo occhio penetrante e acuto, al ritratto mentale della ragazzina, gli altri membri della casa reale erano decisamente differenti. La Frigga di Sigyn era più anziana di quanto non fosse in realtà, e così Thor e Loki. Come dovevano essere i figli guerrieri di un Re capace di schiacciare ben Otto Regni? Avevano senz’altro il viso segnato da rughe e ciuffi bianchi tra la barba e i capelli, almeno come zio Freyr, che certo un combattente non era. Sicuramente erano imponenti e massicci come il grosso capitano che governava le prigioni di Vanheim e riempiva con la sua stazza l’intero vano della porta. Però il dio dell’inganno non era esattamente un guerriero, o meglio, non era solamente questo: zia Freya raccontava stupefatta di come fosse anche un mago eccezionale, il fratello le ribatteva piccato che bilanciava così altre mancanze.
Che aspetto poteva avere, un maestro del seidr più abile persino di sua zia? Gli insegnanti e i precettori della ragazzina erano vecchi barbuti che avevano passato la vita a studiare e la bacchettavano per ogni errore di pronuncia, per qualsiasi distrazione che inficiava un suo esercizio matematico. Il figlio mago di Odino certo aveva studiato per anni su libri molto più complessi e difficili fino a perdersi gli occhi, e se suo fratello era un omone grande e grosso capace di sbaragliare da solo un esercito, lui senz’altro doveva avere una barba scura e arruffata che gli arrivava fino al petto e lo faceva assomigliare ai suoi insegnanti.
La prima volta che Sigyn lo aveva visto, aveva solo un paio di anni in più della loro figlia. Era una ragazzina magra e minuta con due spesse trecce bionde a incorniciarle il viso. Era sera, e le imposte tremavano scosse dal vento e dalla tempesta. Il cielo rivoltava sulla terra acqua e grandine, tuoni e fulmini squarciavano l’aria. Sigyn, spaventata, cercava sua zia per aiutarla a trovare la sua gattina che era fuggita dalla sua stanza qualche ora prima e temeva stesse bagnandosi sotto il temporale. Si era affacciata nello studio elegante di suo nonno e lo aveva visto seduto su una sedia, fradicio, ferito a una mano. Premeva sul palmo una pezza macchiata di rosso. Era rimasta incerta sulla soglia a fissare la scena strana che le si presentava davanti: Njord dietro la sua scrivania, a labbra serrate, e dietro di lui Freyr. Freya accanto alla sedia dove era seduto lo straniero vestito di nero con i capelli scuri tirati indietro e incollati al viso dal profilo affilato. Non era ancora Loki, in quel momento, ma solo un uomo giovane vestito in una maniera che assomigliava un po’ a quella degli Asi.
Anziché indossare gli abiti sontuosi di seta e broccato che si usavano tra i Vanir, portava infatti vestiti di pelle, tessuti pesanti, calzava stivali. Sentendola spuntare dall’ombra, si era immediatamente voltato verso di lei puntandole addosso un paio di occhi chiarissimi e verdi. Freya le aveva chiesto cosa volesse e l’aveva mandata via in maniera piuttosto sbrigativa, promettendole che avrebbe ritrovato lei stessa l’animale. Mentre Sigyn si allontanava, aveva ascoltato sua zia rivolgersi allo straniero.
“Perdona l’interruzione, Loki.”
Quel nome l’aveva fatta sobbalzare e girare di nuovo verso lo studio illuminato a giorno. Quel nome. Tornò a prestare attenzione allo sconosciuto seduto vicino a Freya: era un uomo di bell’aspetto, giovane, sbarbato. Un paio di lividi sul viso magro non intaccavano la sua aura regale, ma certo non facevano di lui il mago temibile e mortalmente esperto dei racconti che aveva sentito.
“Lui non puoi essere Loki!” La frase le era uscita letteralmente di bocca. Vide suo nonno alzarsi, la zia avvampare. Si sarebbero infuriati, l’avrebbero giustamente messa in punizione perché, come al solito, parlava a sproposito, si impuntava a voler ascoltare i discorsi degli adulti.
Il dio degli inganni aveva sogghignato. “Non posso?!”
Il sorriso feroce e sbieco dell’Ase l’avrebbe messa a disagio, anni dopo, e anche una volta che sarebbe diventata sua moglie avrebbe continuato a lasciarle addosso lo strascico di qualcosa che era, allo stesso tempo, paura, fascinazione, attrazione, confusione. A dodici anni pensò che fosse semplicemente bello.
“Credevo che fossi un mago degli Asi con una lunga barba e molto più vecchio di così,” osservò Sigyn guardinga. Loki buttò il capo all’indietro ridendo di gusto e, per un istante, assecondò la sua immaginazione cambiando aspetto, mutando forma, assumendo le sembianze che lei gli aveva attribuito. La ragazzina, spaventata, corse via.
Continua...
Ebbene sì. Sono stata davvero crudele con questo incipit. Volete protestare o dimostrare un vostro eventuale apprezzamento? Fatelo lasciando una recensione, una battuta, un messaggio privato mi fa sempre molto piacere avere un feedback. Stimola anche la mia creatività. Capito il messaggio subliminale? Che altro dire? A mercoledì! Passate delle buone feste!
Lo spiegone noioso dell’Autrice:
Per creare questa storia ho utilizzato e rielaborato tutto il materiale proveniente dalla trilogia di Thor e da quella di Avengers e Avengers: Infinity War (per quel poco che si è visto). Per questa ragione, non ho indicato nelle note la dicitura “Spoiler”: il rimaneggiamento, a mio avviso, non rivela contenuti. Trame e sensazioni si sono andate a fondere con il ciclo di storie che parte da “Tutte le tue bugie” e prosegue con la raccolta di shot “Oltre l’inganno” e “Altro che il Ragnarok” (quest’ultima è una cosetta comica perché non di solo angst e dramma si può vivere): come sempre, non serve necessariamente aver letto tali storie per iniziare questa, perché credo che ogni testo debba essere autonomo e conclusivo. Ovviamente, però, alcuni riferimenti al passato è inevitabile che ci siano. Che altro dire? Buona Pasqua.
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Capitolo 2 *** Quello che è rimasto ***
2
Quello che è rimasto
Anni dopo, Njord mentre agonizzava nel letto avrebbe chiesto perdono a Sigyn. Loki aveva già indossato la divisa e i colori di Thanos abbandonandola, e il vecchio re, prendendo tra le sue la mano bianca e sottile della giovane donna, si sarebbe assunto la responsabilità di averla costretta suo malgrado a una vita infelice. In punto di morte aveva maledetto quell’Ase crudele che lui stesso aveva fatto entrare in casa sua. Affascinato dalle sue abilità, troppo tronfio per comprendere i pericoli derivanti da quell’ambiziosa decisione, non si era fatto scrupolo nel lasciare che Loki vivesse nella sua casa, mangiasse alla sua tavola. Piangendo, aveva chiesto scusa a Sigyn per averle fatto credere che il dio dell’inganno potesse essere tenuto a bada. Che imperdonabile leggerezza era stata, la loro!
Avevano vissuto sotto lo stesso tetto per anni, tanto da credere che, nei loro confronti, il fiero Ase potesse essere se non leale almeno riconoscente, ma non si può far entrare un lupo in casa e pensare di averlo addomesticato solo perché, talvolta, si lascia accarezzare il manto scuro senza azzannare la mano che gli si avvicina. Così Sigyn, che avrebbe dovuto temere Loki e rivolgergli la parola solo se necessario, aveva finito per essere incauta, apostrofandolo ai banchetti, chiedendo la sua opinione sui più disparati argomenti, litigando con lui su qualunque cosa. Il re, che pure si reputava scaltro, aveva ignorato il pericolo rappresentato da quelle discussioni, non accorgendosi affatto di ciò che stava succedendo sotto il suo naso. Avrebbe dovuto avvedersene e scacciare l’infido consigliere, ma la vanità lo aveva bloccato, inchiodandolo contro il suo errore. Senza il dio dell’inganno, Vanheim non avrebbe continuato ad affermarsi come una potenza militare e politica.
L’altro sbaglio era stato lasciare che si sposassero. Sigyn si era risentita profondamente per quella battuta. Gli aveva detto che amava l’Ase; si era innamorata di lui lentamente, vincendo i pregiudizi, cercando dietro il suo sguardo glaciale la tristezza di chi abbia perso qualcosa. In un mondo di ipocriti travestiti da gente perbene, il dio dell’inganno le era sembrato, per paradosso, l’individuo più sincero di tutti. Mentiva, tramava, irretiva, manipolava, ma non si nascondeva dietro a un dito, non giustificava le sue azioni. Persino con lei era stato a suo modo leale, e l’aveva difesa e voluta al suo fianco quando la sua famiglia si proponeva di scacciarla. Glielo ricordò con un tremito offeso nella voce altrimenti chiara.
Njord aveva scosso debolmente la testa adagiata sul cuscino. “Avrei dovuto proteggerti, allora, hai ragione.”
“Ma non l’hai fatto, e senza il dio dell’inganno ora sarei nel Tempio.” Non avrebbe dovuto rivolgersi in maniera tanto dura a suo nonno morente, che respirava a fatica, né difendere a spada tratta Loki Laufeyson. Entrambe le cose erano ingiuste, ma le Norne avevano filato per la giovane donna un destino e un nome che presto avrebbero avuto un loro pieno senso.
“Doveva rimanere qui, proteggerti a costo della sua vita. Invece se n’è andato per morire lontano non per te o per i suoi figli né per Vanheim, ma per se stesso e, forse, per Asgard. Ti ha abbandonata, bambina mia, e vi rinnegherà tutti per salvare la pelle. Ecco quanto ti è costato sposare Loki Laufeyson. Sarai sola per sempre.”
Sigyn aveva indietreggiato, colpita da quelle parole come da uno schiaffo. Asgard non esisteva semplicemente più: era crollata sotto i colpi di Surtur e di Thanos. Gli Asi sconfitti avevano raggiunto i confini di Vanheim con gli occhi carichi di orrore e gli abiti laceri e sporchi. Un fiume di derelitti si era riversato sulle strade lustre e lastricate di mattoni degli altezzosi Vanir. Sigyn aveva comandato che fossero accolti e protetti, in virtù dell’antica alleanza tra il suo popolo e quello governato dalla casa di Odino. Così aveva affermato dicendo di parlare a nome di Njord, suo nonno, troppo malato per potersi affacciare al balcone. Era una bugia, ovviamente, la prima di molte che la donna avrebbe detto. L’anziano sovrano soffocava nel proprio letto stroncato dalla malattia, ma si era opposto con forza all’apertura delle sue frontiere per accogliere gli Asi esuli e fuggiaschi: gli avrebbero portato guai, come aveva finito per fare, anni prima, il loro principe dal sorriso obliquo e affascinante che, una sera, aveva bussato alla sua porta. L’anima che stentava a lasciare il suo corpo non gli lasciò la pietà che si incontra spesso sulla soglia della morte, tutt’altro. Njord si lasciò invadere il cuore dalla paura e dal rancore. Una leggenda antica dei Vanir raccontava come, negli ultimi istanti di vita, i moribondi potessero talvolta godere di un breve e fugace sguardo attraverso il tempo: ad alcuni le Norne concedevano di osservare il filo di Urd, ad altri brevi tracce della giovane e impietosa Skuld*. Non sempre lo squarcio offerto era consolante, anzi. La vecchia storia sosteneva tutt’altro, parlava di grida mute e disperate e amari rimpianti che velavano lo sguardo degli sfortunati condannati a vedere il loro retaggio. Forse Njord trascorse così le ultime ore che gli erano state concesse, volando con la mente sulla devastazione inesorabile di un mondo che aveva provato a proteggere e difendere per tutta la sua lunga vita, anche a costo di consegnarlo all’ingannatore.
Ma Sigyn non poteva e non voleva lasciare che il popolo di Asgard venisse massacrato dalle retrovie del Titano o vagasse per i Nove Regni e oltre; forse, nel suo cuore, aveva sperato che in mezzo alla massa cenciosa e piangente si nascondesse anche il suo furbo marito in compagnia di Thor. Si era sbagliata, ovviamente, ma non per questo fu meno solerte nel far assistere gli alleati sconfitti e piegati. Era come se, aiutando quell’insieme di uomini, donne e bambini, potesse dare una mano a Loki e al dio del tuono, persi chissà dove, vivi senz’altro. Nessuno li aveva visti cadere sul campo di battaglia, con gli elmi fracassati e le armature intrise di sangue. Erano stati portati via vivi, sulle loro gambe, e qualcuno era persino disposto a giurare che fossero saliti sulla nave di Thanos con aria fiera e sprezzante. Non era un racconto del tutto vero: troppi dettagli cozzavano tra loro, ma Sigyn scelse ugualmente di credere a quella storia perché suo nonno stava morendo e lei non aveva il modo né il tempo, di piangere o disperarsi per il dio dell’inganno.
Sentendola impartire tutt’altro ordine, Njord scelse di accomiatarsi per sempre da lei con poche parole spezzate, non prive di amarezza. “Sarai regina. Già lo sei. Ricopri questo ruolo con orgoglio e ricorda: tornerà, ma non sarà quello di un tempo.”
“È il padre dei miei bambini, è mio marito,” ribatté Sigyn con forza. “Lo ha fatto perché Thanos altrimenti ci avrebbe uccisi tutti come mosche.”
Le venne in risposta un rantolo beffardo. “Tornerà, ma maledirai quel giorno e quello in cui è sopravvissuto alla rabbia del Titano.”
Njord morì con questa oscura profezia sulle labbra, boccheggiando a causa dei polmoni devastati, invocando l’aria che non riusciva a respirare, con impressa negli occhi la paura. Sigyn si era lasciata cadere sulla sedia posta accanto al capezzale del nonno, coprendosi con le dita tremanti la bocca che già tentava di soffocare un singhiozzo: le ultime frasi che aveva scambiato con l’uomo che l’aveva cresciuta, erano state piene di rancore verso suo marito cui lei aveva risposto piccata, offesa. Non si sarebbero rappacificati mai più, in questa vita, e forse nel Regno di Hela avrebbe dovuto dargli ragione.
Se ci fosse stato accanto a lei Loki Laufeyson col suo piglio spiccio di mancato re, le esequie di Njord sarebbero state più solenni e pompose, la sua incoronazione magniloquente: invece, il vecchio sovrano di Vanheim fu calato in fretta nella sua tomba di pietra e lei si fece posare la corona sul capo nel corso di una cerimonia sobria e breve. Non tolse l’anello quando tutti i Vanir le prestarono omaggio: lo fece dopo, davanti a Loki che le suggeriva di firmare la resa senza condizioni a Thanos e la rinnegava una seconda volta ad alta voce. La prima, lei lo sapeva da tempo, era avvenuta quando l’Ase indossava ancora le sue insegne e aveva addosso l’odore di Asgard che bruciava. Il dio dell’inganno l’avrebbe osservata sfilarsi lentamente l’anello fabbricato dai Nani con le pietre intagliate dagli Elfi, cesellato con cura maniacale sotto la sua supervisione; un gioiello stupendo che le aveva ornato l’anulare per più di dieci anni e che ora Sigyn gli restituiva, in silenzio.
Non erano soli, del resto: decine di paia d’occhi li spiavano, in quel momento. L’Ase aveva accettato l’anello facendolo sparire in fretta in una delle tasche interne della giubba, ma a Sigyn non erano sfuggite le labbra serrate, la mascella contratta, gli occhi chiari di un’indefinibile sfumatura carichi di un’ombra che ne velava la trasparenza. In quel momento aveva capito come, forse, Loki avrebbe rimpianto per sempre lei e quello che avevano creato insieme, ma anche che servire Thanos lo avrebbe condotto a una morte violenta e inevitabile.
***
Quanto tempo era passato, dal giorno in cui Vanheim si era assoggettata? Quasi due anni. Sigyn si alzò dal letto che li aveva visti riunirsi, seppur per breve tempo, rassettandosi l’abito nero, provando a chiudere il corsetto slacciato che le lasciava scoperta la pelle bianca del seno. Il trucco scuro presentava diversi sbavi, i capelli erano un groviglio di ciocche spettinate. Loki la raggiunse, infilò le dita nella massa bionda e arruffata, con l’altra mano l’attirò a sé cingendole la vita sottile.
Sigyn chiuse gli occhi. Le sue mani che la sfioravano, il suo odore, il tono leggermente sarcastico che condiva sempre la sua voce roca, le erano mancati in maniera disperata, assoluta. Il dio dell’inganno non era mai stato prodigo di baci e carezze, a meno che non volesse fare l’amore con lei. Allora la cercava, la ghermiva. Durante il giorno, era Sigyn a cercare il contatto fisico con lui. Entrava nel suo studio perennemente avvolto nel caos più totale per portargli una tisana o qualcosa da mettere sotto i denti, girava attorno alla sua scrivania e lo abbracciava cingendogli le spalle, si sedeva sulle sue ginocchia per scoccargli un bacio sul collo, la guancia, le labbra.
“Va’ via, Vanir appiccicosa!” si lagnava lui aggrottando la fronte, mortalmente seccato dall’interruzione, ma Sigyn era certa che desiderasse quelle premure, perché l’Ase adorava essere al centro dell’attenzione del suo prossimo. Lei se ne andava tutta imbronciata, fingendo di essere profondamente sdegnata per il comportamento selvaggio e barbaro del marito, ma tutto questo succedeva prima di Thanos e della corona di Vanheim: una vita fa.
E ora, decisioni e buoni propositi erano svaniti, evaporati. “Come posso non chiedermi cosa ti farà il Titano, Loki? Come faccio a ignorarlo? Quello che hai deciso di fare è…”
“Zitta.”
Sigyn obbedì deglutendo. Era il dio dell’inganno che le stava parlando, nell’accezione più oscura e cupa del termine, e lo stava facendo in una delle molte basi militari di Thanos.
“Non pronunciare né dire ad alta voce niente, di tutto questo,” le soffiò sul collo.
Lei annuì con un cenno breve del capo e lui la sciolse dalla sua stretta. “Mostrameli,” sospirò improvvisamente con un tono stanco, rassegnato quasi. “Non posso tenerli, ma guardarli sì. Tu glielo dirai.”
Sigyn meccanicamente si riallacciò il nastro che le stringeva il corsetto, rovistò in una delle borse del suo bagaglio e trasse da una tasca un insieme di fogli arrotolati, stretti da un nastro. Glieli porse, e l’Ase scorse i disegni tracciati con mano infantile dal suo erede più giovane, lesse rapidamente le righe vergate con una grafia rotonda e femminile da Sonje. A Sigyn sembrò che il marito perduto piegasse appena l’angolo della bocca nel principio di un sorriso, sfogliando le carte stropicciate e colorate. Forse era stata egoista, decise. Loki Laufeyson era bravo più di chiunque altro a mentire, tramare e ingannare, ma la sua maschera non era inscalfibile. C’erano delle crepe sottili ma profonde, in lui, come i segni d’espressione che ne accentuavano la bellezza selvaggia e feroce, di guerriero. Il dio dell’inganno non era in una posizione facile, e certo non aveva bisogno di pensare ai figli generati e poi abbandonati, perché aveva scelto di dedicare la sua esistenza al raddrizzamento di una stortura che lui stesso aveva causato. Lo aveva deciso quando ancora gli occhi gli bruciavano per il fuoco che aveva corroso fin nelle fondamenta la bella e inespugnabile Asgard, ora distrutta.
Sonje non gli avrebbe mai perdonato di averli abbandonati, Vali a stento ricordava il suo viso: questo era il prezzo da pagare per un’alleanza che era stato costretto ad accettare tutte e due le volte. Quando, caduto oltre il Bifrost, il Titano lo aveva individuato e fissato con curiosa attenzione, Loki non si era chiesto quale sarebbe stato il prezzo della sua sottomissione: era irragionevole, farlo. L’alternativa oscillava tra vivere e morire, niente di più, e all’Ase era sembrato assolutamente evidente come la prima ipotesi fosse preferibile alla seconda. Del resto non aveva niente da perdere, allora.
Odino lo aveva guardato penzolare oltre il Bifrost senza concedergli nemmeno in quel tragico momento, il beneficio della comprensione, la soddisfazione di una lode. Non gli aveva riconosciuto l’estrema devozione che tributava all’imponente e somma Asgard, alla sua Casa, e aveva permesso che precipitasse, o forse Loki aveva lasciato di sua spontanea volontà la presa su Gungnir, la lancia di suo padre, e Thor aveva gridato tentando, in un ultimo, disperato gesto, di afferrarlo, ma invano. Non aveva importanza. L’incoronazione del fratello era un ricordo ormai lontano, sbiadito, amaro come poche cose al mondo.
Il penultimo foglio lo fece impallidire. Sollevò gli occhi chiarissimi sulla moglie in una domanda che rimase muta, ma non per questo perse la sua potenza né il suo significato. Era niente più che un biglietto accartocciato, e le poche rune frettolose che c’erano scritte sopra non avrebbero rivelato niente a uno sguardo esterno e inconsapevole. Erano in codice, ma rappresentavano comunque un problema.
“Questa è stata una terribile imprudenza,” sibilò a denti stretti. “Voi non vi rendete conto di quello che avete appena fatto.”
“Dovevi sapere. Non c’era altro modo,” spiegò Sigyn avvicinandoglisi. Loki le restituì con un solo gesto le lettere dei bambini, evocò una runa e imprecando a bassa voce diede fuoco al pezzo di carta incriminato.
“Sono il dio dell’inganno, ma l’onnipotenza non mi appartiene ancora. Non qui, soprattutto. È per questo che ti sei arrischiata a venire in questo posto?” le domandò sarcastico, ma il tono della sua voce non riusciva affatto a mascherare delle note di inquietudine e nervosismo così palesi ed evidenti, che strinsero il cuore di Sigyn in una morsa. Loki poteva anche non dirle cosa stesse esattamente rischiando, ma lei poteva immaginarne la conclusione senza sforzo. Una morte orribile non è necessariamente la peggiore delle sorti possibili, alla corte di Thanos.
“Anche,” ammise in un sussurro.
“È stato un errore. Come la concessione che ti ho fatto,” sospirò l’Ase lanciando un’occhiata alla toletta dove spiccava l’atto con cui, in virtù dei poteri conferitigli da Thanos, autorizzava Vanheim ad importare di nuovo l’acciaio dei Nani**.
“Come tutta l’ultima ora, del resto,” gli fece eco lei sfiorandogli un braccio, sorridendo appena. Loki vibrò appena a quel contatto, come se il gesto lieve e appena accennato di Sigyn potesse rilassargli i muscoli tesi, perennemente all’erta.
Ad ogni modo la donna aveva ragione, ovviamente, ma i Vanir non potevano più sopportare di rimanere senza materie prime. L’economia stentava a ripartire, senza quel metallo robusto e indistruttibile. Sigyn era la regina di Vanheim e il suo compito principale era quello di pensare alla sua gente e alla sua famiglia. Aveva chiesto udienza in maniera formale, attendendo paziente per più di un mese che le fosse accordato il permesso di recarsi in quel quartier generale sperduto e inospitale. Quanto aveva battuto il suo cuore, quando era finalmente arrivata nella desolata landa su cui sorgeva il palazzo asettico espropriato dai soldati del Titano? Troppo, decisamente.
Era stata condotta in quella stanza da una serie di subalterni che non avevano perso occasione per scrutarla con sfacciata attenzione, non necessariamente perché la trovassero bella o attraente, ma perché cercavano di indovinare se quel bugiardo di Loki potesse davvero averla amata, un tempo. Forse tanto interesse era dovuto anche al desiderio di fare paragoni con qualcun’altra.
“Lingua d’Argento arriverà stasera, vi ha invitata a cena,” le era stato annunciato, e Sigyn aveva annuito con un cenno distratto del capo, cogliendo l’occasione dovuta all’intervallo di tempo che la separava dalla serata ancora lontana per cambiarsi d’abito, sottolineare il suo sguardo con una polvere nera, sistemare l’acconciatura in un modo che sapeva lui avrebbe apprezzato. Maledicendosi si era fatta bella per Loki anche se non doveva, commettendo l’errore di desiderare che lui la fissasse con occhi ammirati, sebbene avesse lasciato Vanheim decisa a ottenere la firma che le serviva e ad andarsene senza nemmeno voltarsi indietro.
Perché era passato più di un anno da quando aveva smesso di avere sue notizie, e quelle che le erano arrivate di straforo erano incerte, ambigue, inquietanti, dolorose. Ma quel subalterno insolente e mellifluo aveva osato appellare l’Ase con quelle due parole che anche lei aveva usato in passato, e Sigyn era stata gelosa di Loki in una maniera straziante, assoluta, totale. Lei lo chiamava Lingua d’Argento quando litigavano ai banchetti e si amavano sotto le coperte. Con la voce carica di dispetto, desiderio o divertito compiacimento, sfiorandogli i capelli neri e le spalle asciutte e nervose, aveva soprannominato così quell’uomo che era stato suo e a cui lei apparteneva ancora, per sempre, fino alla fine del tempo. Non se lo era inventato Sigyn, il termine Lingua d’Argento, ma se ne era appropriata: si sentì spogliata di un diritto, defraudata, tradita. A cena mascherò il dolore dell’abbandono sotto un sorriso ampio e una conversazione frizzante, bevendo e parlando come se nulla fosse successo e il suo cuore battesse libero da ogni ombra. Loki era lì, davanti a lei, magnifico e magnetico più di quanto ricordasse. La accolse sorprendendosi, anche se sapeva perfettamente che l’avrebbe vista. Lasciò che Sigyn intravedesse il suo stupore, raccogliesse il principio del suo sorriso laterale ammirato, ghignante.
Le concesse la fredda cortesia che si accorda a un ospite di riguardo e si sedette di fronte a lei senza smettere un solo istante di fissarla, ma non lasciò che cenassero da soli. Volle degli ospiti, al suo tavolo: un numero sufficiente di testimoni che avrebbero riferito a Thanos come la giovane regina dei Vanir avesse chiesto a uno dei suoi generali più brillanti, l’autorizzazione a finalizzare un trattato commerciale e, nel farlo, avesse civettato platealmente. Era una tattica, una strategia, un sottile e abile piano che lui aveva avallato e lei stava mettendo in atto quasi inconsapevolmente; tutti avrebbero visto il loro gioco di sguardi, avvertito il desiderio che li confondeva, colto la volontà di piacere, carpito il bisogno di ottenere un favore.
Avevano parlato a lungo di temi leggeri, forse persino vacui, condendo di tanto in tanto le frasi pronunciate con frecciate ammiccanti, pungenti, estremamente divertenti. Sigyn avvampava a ogni sguardo o battuta. A malapena era riuscita a toccare cibo. Sentiva che il suo stomaco si era chiuso, contratto, e il cuore non smetteva di martellarle nel petto. Per le Norne, dall’altro lato del tavolo aveva Loki, il suo Loki che non vedeva da più di un anno e che l’ultima volta aveva cacciato via da Vanheim, perché non poteva spezzarle il cuore e rischiare di farsi ammazzare a quel modo. Le aveva sibilato il suo piano all’orecchio e lei era rimasta impietrita, immobile nel buio, in un angolo del palazzo dei Vanir che entrambi sapevano nascosto da sguardi e orecchie indiscrete, scoperto quando ancora erano amanti, un vita prima. Di fronte alle sue proteste accorate l’aveva zittita con un bacio rude, strappato. Sigyn ricordava di aver provato a divincolarsi debolmente. Maledetto Loki. Le mani che avrebbero dovuto allontanarlo perché se n’era andato e si sarebbe fatto ammazzare, avevano smesso di scostarlo per stringerlo invece contro il suo corpo da troppo tempo solo. Con la nuca e la schiena premute contro il muro freddo l’aveva sentito alzarle la gonna, scostarle la biancheria, farla sua.
Sì, a Vanheim, Loki l’aveva rinnegata una seconda volta davanti a Thanos, per poi cercarla e spiegarle e fare l’amore con lei, avendo premura di tapparle la bocca con una mano per non far udire a terzi i loro sospiri affannati. Poi le aveva dato di nuovo l’anello che lei solo pochi minuti prima gli aveva restituito, e Sigyn, indossandolo sulla lunga collana d’ametista che portava sempre al collo, gli aveva detto che era troppo rischioso vedersi.
Questo succedeva un anno prima, e ora lei gli sedeva davanti e sorrideva, riconoscendo con dolorosa precisione il modo elegante con cui impugnava le posate e tagliava la carne, individuando prima che si servisse quali piatti avrebbe scelto di gustare, tenendosi strette le parole che gli avrebbe voluto dire. Ti ho giurato fedeltà e amore, anima mia, e ora vorrei dirti che mi sei mancato da star male e raccontarti delle uniche cose che contano oggi, adesso che, finalmente, sei qui: Sonje e Vali che ti assomigliano e ti cercano e sono sicuri che tornerai. Hanno più fiducia in te di quanta non ne abbia io – per questo tradimento perdonami, amore mio –, ma ho paura di quello che vuoi fare e di come intendi metterlo in atto. Invece devo sorriderti e parlare d’altro, di cose che non ci interessano affatto. Ci sono un paio di segni in più sul tuo viso e il tuo sguardo è stanco e cerchiato di nero, ma sei sempre il mio Lingua d’Argento.
Durante la cena le loro dita si erano quasi sfiorate più di una volta, ed entrambi erano rimasti scossi da quel contatto; in silenzio si erano guardati corteggiandosi. Dopo che ogni portata fu servita e assaggiata, l’Ase si era offerto di firmare immediatamente la concessione in favore dei Vanir. In piedi, leggermente chino sul tavolo di una stanza allestita in fretta a suo studio privato, aveva letto con le sopracciglia aggrottate la richiesta redatta dai Vanir divenuti abili mediatori grazie ai suoi passati insegnamenti. Dall’altra parte del tavolo, Sigyn aveva osservato la sua figura alta ed elegante, soffermandosi sui dettagli delle insegne di Thanos indossate con apparente noncuranza. Senza aggiungere una parola, l’Ase aveva firmato e siglato il documento e glielo aveva restituito facendo attenzione a non toccarla, perché non c’erano più ospiti da ingannare o stupire, in quel momento: erano soli, e per l’universo intero ogni vincolo era stato annullato con non uno, ma due ripudi.
La regina di Vanheim poteva cadere nell’errore, come donna, e lasciare che l’uomo che l’aveva abbandonata facesse di nuovo l’amore con lei, ma non era ammissibile che incespicasse due volte nello stesso sbaglio fatale. Per tutta la sera aveva guardato l’Ase dal sorriso affascinante che l’aveva legata a sé per poi abbandonarla. Gli aveva giurato fedeltà e amore finché la morte non li avrebbe separati, domandandosi se davvero Hela potesse spezzare il legame che unisce due spiriti e far cessare l’amore.
Loki avrebbe detto che la morte alla fine spezza ciò che incrocia nel suo cammino. Ogni cosa finisce, anche nelle terre degli Asi e dei Vanir che alcuni popoli chiamano con ammirazione dèi: l’istinto di sopravvivenza, alla fine, ci costringe ad alzarti ogni mattina, a guardare il mondo che ci circonda. L’amore non svanisce, si trasforma, forse resta nascosto in qualche piega dell’anima coperto dalla nostalgia, ma è giusto che chi resta vada avanti e si consoli come può.
I voti li aveva pronunciati con un filo di esitazione quando era davvero poco più di una ragazza, ma come aveva predetto Njord, lui era tornato per non restare: Sigyn doveva solo assicurarsi che firmasse il patto necessario affinché Vanheim non facesse la fine di Asgard e poi andarsene via, senza voltarsi. Suo marito aveva bisogno di tutto tranne che di lei, in quel mondo alla rovescia creato dal Titano, perché Loki era così, si adattava velocemente a qualsiasi realtà apprendendo in fretta accenti, modi di dire, abitudini. La sua lingua sciolta non aveva problemi nel tessere immediatamente nuovi rapporti, infinitamente superficiali dal suo punto di vista, ma presenti e reali per la sua vittima. Sapeva affascinare, e non aveva mancato di farlo di nuovo nemmeno alla corte di Thanos. Lei lo sapeva, glielo aveva visto fare quando era poco più di una bambina.
Sotto i polpastrelli di Sigyn, l’autorizzazione a commerciare di nuovo con i Nani fabbricanti di gioielli pareva scottare.
“Lascia che vada via, adesso” aveva implorato, spezzando l’incanto di quella farsa stupenda: nessuno dei due poteva ignorare ancora a lungo le cose condivise e perse, ed entrambi erano consapevoli di come la macchina messa in moto quando Thanos aveva reso noti all’universo intero i suoi progetti fosse ormai pronta, e appresso a lei il piano volto a fermare il conquistatore.
L’Ase le aveva risposto che era troppo tardi per partire e le avrebbe permesso di lasciare la base solo all’alba; si era offerto di scortarla nelle stanze che aveva fatto preparare apposta per lei, in cui Sigyn si era preparata vinta dall’ansia e dalla nostalgia. Il tragitto lo fecero in silenzio, come se qualsiasi parola potesse spezzare il delicato equilibrio che entrambi si ostinavano a mantenere, ma sulla soglia della camera da letto, il dio dell’inganno non poté resistere all’impulso di baciarla sulle labbra semplicemente perché non era più sua.
Aveva bisogno di assaggiarle le labbra morbide, ristabilire un possesso che era venuto meno, calmare il desiderio che li aveva avvinti a cena, sentirsi vivo come da mesi non era più; la corte marcia del Titano si era fatta asfissiante, gli incarichi che riceveva erano malloppi amari difficili da ingoiare anche per lui, che era un guerriero degli Asi che combatteva da prima ancora che gli spuntasse la barba. Sigyn non doveva essere là, si ripeté mentalmente strappandole*** la spallina del vestito nel tentativo di spogliarla di quel magnifico abito nero, ma l’autorizzazione affinché lei potesse raggiungerlo in quello schifo di posto era venuta da qualcun altro che si era azzardato a parlare a nome suo; forse l’odiosa intrigante era diventata sospettosa o qualcuno voleva vedere se fosse vero, che della regina dei Vanir, a lui, non interessava nulla. Si erano baciati abbandonandosi al caos, e non avevano smesso quando era passato un drappello di guardie curiose e sogghignanti. Così era andata.
***
E ora, il letto sfatto testimoniava come entrambi avessero finito con l’ignorare la ragione e il buonsenso. Le ceneri del biglietto furono gettate nel caminetto spento.
“Come tutta l’ultima ora, del resto,” gli sfiorò il braccio Sigyn, “ma non me ne pento, non riesco, anche se dovrei.”
“Mi hai sedotto, stasera,” ghignò l’Ase osservando brillare la catena d’oro e i due pendenti che pochi minuti prima aveva sfiorato con le sue labbra ironiche. “Hai fatto di tutto perché arrivassimo a questo punto. Sei stata scorretta. Avevi detto che non avremmo mai più dovuto incontrarci così,” le ricordò girandole attorno come per osservare meglio la sua figura snella e quasi troppo sottile – colpa di quella corona troppo pesante che le gravava sul capo e del Titano –, “e invece.”
Lei accennò un sorriso lieve. “Ho imparato dal migliore,” gli ricordò.
Loki accennò un mezzo sorriso laterale e breve. “Avrei voluto insegnarti la prudenza. Non mi è riuscito,” constatò con un velo di rammarico nella voce.
“Ne avrai l’occasione, ma non credo che ti riuscirà,” lo sfidò Sigyn carezzandogli la guancia appena ispida, mettendosi in punta di piedi per raggiungere con la sua bocca le labbra beffarde dell’ingannatore. L’alba era lontana, il biglietto distrutto nient’altro che polvere dentro a un camino e lei, se anche avesse compreso il criptico messaggio, non era in grado di dargli un senso, e queste furono le uniche consolazioni che Loki Laufeyson scelse di concedersi, per quella notte. Il giorno dopo avrebbe dovuto capire cosa era successo e chi avesse permesso a Sigyn di raggiungerlo, ma soprattutto, gli sarebbe toccato dare una risposta al messaggio cifrato che aveva ricevuto, spostare da una parte all’altra l’ago della bilancia. E forse, per tutto questo, non era ancora pronto.
Non chiuse occhio, quella notte, e non perché lei si era addormentata stringendoglisi contro. Doveva elaborare una risposta da dare al messaggio cifrato, spostare da una parte all’altra l’ago della bilancia.
Continua…
Cari Lettori presenti e silenziosi,
Grazie per il tempo che mi avete dedicato arrivando fino a qui, e un caloroso grazie di cuore a quanti hanno inserito la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite e che commenteranno/hanno commentato.
La Fatina dell’Ispirazione sprigiona su di me la sua magia grazie a voi! Vi sarei infinitamente grata se mi lasciaste un pensiero di qualsiasi tipo su queste mie paginette. Non pensate di dovermi scrivere necessariamente venti righe di testo super profondo e descrittivo o che non mi accontenterei di una semplice frase. Vi giuro che sono molto alla mano e mi farebbe tanto piacere se mi dedicaste ancora qualche secondo. Detto questo, a presto! (Mercoledì, ma io fossi in voi passerei pure domenica…)
NOTE E SPIEGONE DELL’AUTRICE
*Ho tratto ispirazione per questo dettaglio della visione prima della morte da un bellissimo e drammatico libro-testimonianza di Antonia Arslan, La masseria delle allodole.
**Nell’ultimo capitolo di “Oltre l’inganno,” come ricorderanno quelli che seguono anche quella storia (non è obbligatorio eh) Loki ha iniziato a trattare per ottenere l’acciaio da questi famosi Nani. Perché? Per realismo.
***Allora, al 99,99% di voi lettori questa nota sarà utile come un frigorifero al Polo Sud perché avrete sicuramente già capito tutto, ma io la aggiungo lo stesso, non fosse altro che per il rating arancione: il nostro “eroe” è un po’ rude, qui. Tappa la bocca di Sigyn nel flashback ambientato a Vanheim, strappa la spallina del suo vestito con un gesto brusco dopo la cena nella base periferica di Thanos. Nel primo caso, lo fa per essere certo che nessuno senta i sospiri concitati della moglie (ex?), nel secondo, si fa prendere un po’ troppo dalla foga del momento. In entrambe le circostanze, Sigyn è assolutamente consenziente. Lotta tra il dolore per essere stata abbandonata e l’amore – che certo non si spegne a comando – per l’uomo che ha sposato e di cui è innamorata.
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Capitolo 3 *** Distanze ***
Giochi pericolosi 3
3
Distanze
La
nave che avrebbe riportato Sigyn a Vanheim partì poco dopo
l’alba, o in
qualunque modo si chiamasse quel fenomeno che rischiarava leggermente
il cielo
buio del posto desolato dove sorgeva il comando di Thanos. Loki
Laufeyson non
scese a salutarla. Osservò dalla finestra la sua figurina
sottile che si
arrampicava sul ponte, la lunga gonna scura gonfiata dal vento, la
capigliatura
chiara stretta in un raccolto creato in fretta, invariabilmente
spettinato. La
lasciò andare via senza darle alcun messaggio scritto: si
sarebbe occupato lui
di offrire una risposta al biglietto che gli aveva fatto avere. Del
resto, non
aveva chiuso occhio, quella notte, e non perché lei si era
addormentata
stringendoglisi contro, ma perché doveva elaborare un
responso da dare al
messaggio cifrato. Trovare una strategia, una soluzione adeguata al
disastro
che si approssimava ogni ora di più.
Il
respiro di Sigyn, lento e regolare, non lo aveva aiutato a ragionare in
maniera
lucida e analitica, come invece era necessario facesse. Gli aveva
portato alla
mente altri giorni, altre notti, dolci alla stessa maniera e interrotte
verso
l’alba o subito dopo dallo scalpiccio frettoloso di piedi che
correvano verso
la loro porta, di mani che facevano girare con infinita lentezza la
maniglia,
di teste arruffate e occhi già vispi che si affacciavano
nella stanza.
L’illusione di una normalità che non gli era mai
appartenuta, la necessaria
prosecuzione di una stirpe che avrebbe, alla fine, regnato
sull’impero che lui sarebbe
riuscito a costruire, il caos che si era insinuato nella sua vita
facendogli
concepire dei figli con una donna nonostante le precauzioni prese. Un
colpo
secco alla porta lo riscosse dal pensiero di ciò che aveva
perduto – che aveva
avuto l’ardire di pretendere. Che imperdonabile errore.
Un attendente entrò, si
mise sull’attenti e iniziò a elencare una serie di
dati su confini, armate,
risorse, fiumi. Loki non lo guardò nemmeno. Si tolse
l’elmo dalle lunghe corna
ricurve passandosi una mano tra i capelli scuri. Il momento giusto non
sarebbe
mai arrivato, rifletté. Rispose al sottoposto con voce
incolore poi, con il
pezzo d’armatura sotto il braccio, lasciò la base
e salì su una nave. Un altro
inutile massacro lo attendeva.
Thanos
non lo aveva immediatamente annoverato tra i suoi generali. Lo aveva
lasciato a
marcire in una cella spoglia e lugubre per un tempo che gli era parso
infinito.
L’Ase ricordava ancora l’odore del cibo irrancidito
che assaggiava appena e ingollava
solo per non indebolirsi troppo. Avrebbe potuto liberarsi, allora.
Spezzare i
ceppi che gli serravano i polsi e le caviglie, sollevarsi dal pavimento
disgustoso che, in qualsiasi altra occasione, gli avrebbe fatto
storcere il
naso e provocato un conato, ma non in quel momento. Com’era
stato, cadere dal
Bifrost?
Era
precipitato in un’oscurità senza fondo e aveva
perso cognizione del tempo,
dello spazio, di se stesso. Ma cos’era poi, lui? Una reliquia
rubata, il trofeo
ormai inutile di un padre ipocrita, l’ombra malvista e
compatita di un fratello
brillante. No, Thor non era più
questo, per lui.
Il
dio del tuono era il figlio di Odino; l’ingannatore non era
altro che lo scarto
che Laufey si era vergognato di mostrare al suo popolo. Non aveva una
casa né
un nome che sentiva come proprio. Loki Odinson era caduto dal ponte e
la sua
esistenza era un’enorme bugia, Loki Laufeyson era un reietto
che gli Asi non
volevano e gli Jotunn disprezzavano. In un altro contesto, le prigioni
di
Thanos lo avrebbero disgustato, ma cadendo era rimasto ferito: sulla
sua fronte
alta e regale spiccava un taglio ancora visibile, barbaramente ricucito
con dei
punti malmessi. La sua armatura d’oro e di smeraldo era
graffiata, sporca,
ammaccata, uno degli spallacci era stato completamente divelto.
L’asimmetria dei
suoi abiti rispecchiava, in un certo qual modo, il suo spirito
spezzato,
infranto, privo di scopo.
Com’è
precipitare nel buio infinito delle galassie lasciandosi andare a una
morte
terribile, per asfissia o peggio? Ci si augura di schiantarsi. Che lo
strappo
provocato dal precipitare tra i mondi, attraverso le più
oscure fenditure dello
spazio, finisca e prima o poi ci lasci liberi. Loki non sapeva come e
quando
aveva smesso di cadere. A un certo punto il cielo aveva cessato di
vorticare e,
sbattendo le palpebre, si era accorto che qualcosa era finito. Il
dolore no,
quello era rimasto. Così, nonostante avrebbe potuto
liberarsi dai ceppi, se ne
era rimasto in silenzio, ammaccato e dolorante, con la nuca poggiata
contro la
parete, lo sguardo perso, il mantello ridotto a un inutile straccio, le
sue
insegne sbiadite, scolorite, perdute.
Spezzare
le sue catene non sarebbe servito a niente, questo era il punto: non si
può
organizzare una fuga, se non si sa dove scappare. Così
l’Ase era rimasto a
leccarsi le ferite nella disgustosa cella di Thanos, e mentre il suo
nome e il
retaggio che si tirava dietro stingevano perdendo di significato, aveva
iniziato ad ascoltare. Si apprendono più cose nelle peggiori
bettole e nelle
carceri che nelle sale lussuose delle Corti dei Re. Il dio
dell’inganno lo
sapeva, glielo aveva insegnato Odino quando ancora lo illudeva di poter
ambire
all’imponente trono d’oro di Asgard. Accanto a lui
la gente marciva, moriva, urlava,
supplicava. Loki faceva finta di non guardare nemmeno, ma intanto non
si
perdeva una parola, un sussurro, una bestemmia dei suoi compagni di
cella.
Il
Titano affermava di essere un fautore dell’equità,
si proclamava il portatore
di un concetto migliore di giustizia. La sua scure calava impietosa su
chiunque, salvando uno e massacrando l’altro in base a un
mero calcolo
numerico. Non risparmiava donne e bambini, né si inteneriva
di fronte ai
soldati troppo giovani. Nella pietà che muove il cuore del
guerriero a liberare
uno per uccidere un altro, era nascosto il seme della differenza,
dell’ingiustizia,
diceva. Loki ascoltava, registrando informazioni e nozioni. Thanos era
alla
ricerca di un potere antico quanto l’Universo intero:
dedicava ogni secondo
della sua esistenza a delle pietre, artefatti magici di incredibile
forza
nascosti sotto mentite spoglie. Il destino di chi poteva dargli
informazioni su
di esse, oscillava pericolosamente tra una morte orrenda e un glorioso
prestigio. Oppure, in virtù di una spietata ironia,
contemplava entrambe le
soluzioni. Il dio degli inganni, in silenzio, rifletteva.
Non
era il fratello di Thor né il figlio di Odino né
un Ase. Gli Jotnar trovavano
riprovevole che nascondesse il suo aspetto, gli abitanti di Asgard e
lui stesso
rabbrividivano solo al pensiero che la sua pelle potesse mostrare
l’estranea
sfumatura blu dei Giganti di Ghiaccio. Se l’Universo intero
fosse stato messo a
ferro e fuoco da una guerra, Loki avrebbe scelto di osservarne il
disfacimento
immobile, perché con tutta probabilità non
avrebbe semplicemente saputo da che
parte schierarsi. Era il dio del caos e dell’inganno: portava
entrambi nel suo
petto e non aveva idea di come potersene liberarsene.
“L’Asgardiano,
eccolo.” Uno dei secondini aveva rovesciato con un calcio la
ciotola dove era
costretto a ingurgitare la sua brodaglia. Loki aveva osservato il
recipiente
capovolgersi, oscillare e poi cadere a terra vibrando. Gli stivali di
Thanos
erano di ottima fattura, decise.
“La
tua casa è lontana, molto lontana. Che ci fai
qui?”
Aveva
una voce possente, cavernosa, grave. Rifletté sulla risposta
da dare, vagliando
con attenzione ogni possibilità. Si accorse di avere le
labbra screpolate,
secche, riarse. Forse era malato. Si sforzò di deglutire, e
gli vennero in
mente tutte le volte in cui si era presentato di fonte a futuri alleati
e
avversari con lo spirito gonfio di tutta la tracotanza degli Asi cui
credeva di
appartenere. Di quella baldanza, ormai, non gli restava più
nulla – solo
briciole, anzi vaghe ceneri che il vento avrebbe finito per spazzare
via.
“Sono
stato bandito. Dovevo essere re,” aveva spiegato aggrottando
la fronte ferita.
Alzò gli occhi su Thanos, soffermandosi sul colore violaceo
della sua pelle,
sullo sguardo nero e cattivo che intravedeva sotto le palpebre gonfie.
Non
aveva ancora delineato il piano giusto da seguire, e sentiva il cuore
martellargli nel petto, l’adrenalina pompargli nelle vene. Il
Titano avrebbe
potuto ucciderlo lì, seduta stante, oppure condannarlo a una
lenta e infinita
agonia: occorreva solamente scegliere come era più opportuno
morire, rifletté,
e il pensiero riuscì a strappargli un moto di bieca
soddisfazione; sarebbe
stata la sua ultima sfida e, qualsiasi cosa fosse successa, avrebbe
venduto
cara la pelle. Non gli restava che quello, del resto: riuscire a morire
con un
onore che solo lui avrebbe conosciuto, da guerriero.
“Ma
che onore. Nelle mie carceri ospito persino un mancato Re,
adesso!” Il Titano
rise. Aveva i denti di un bianco innaturale, scintillante, spaventoso.
“E
dimmi, qual è una buona morte, per un asgardiano?”
“Asi,”
soffiò il dio dell’inganno.
“Asi è il nostro
nome.” Spiegare a Thanos cos’era lui, davvero, non
aveva alcun senso, era una
perdita di tempo, una storia che Loki non voleva nemmeno raccontare. Le
parole
erano sempre fluite dalla sua bocca in maniera spontanea e allo stesso
tempo
potente: dicevano che le sue frasi fossero capaci di incantare che le
ascoltasse, confondendo e convincendo, ma qualcosa gli
suggerì che quell’arma
affilata stavolta non lo avrebbe aiutato.
“Dicono
che ad Asgard ci sia una delle Gemme che cerco,”
proseguì l’altro. Gli occhi
verdi del dio dell’inganno si dilatarono appena. Percorse
mentalmente la Sala
delle Reliquie, domandandosi con terrore dove potesse essere stata
nascosta la
preziosa quanto maledetta gemma, odiandosi per il tremore sottile che
lo
avvolse al pensiero che la terra che aveva chiamato casa per una vita
intera
fosse sull’orlo del collasso. Eppure così era.
Deglutì e ammise di non sapere
nulla sperando di risultare credibile, sincero. Aggettivo che non gli
si addiceva,
su cui aveva sempre ironizzato quasi tetramente, sostenendo fiero come
non
esistesse una sola realtà univoca e inequivocabile, ma
molte, infinite. Se la
verità non esisteva, allora tutto era finzione e menzogna
– e lui di ogni cosa
era il signore.
***
Ci
sono storie che non posso essere raccontate, spiegazioni che non vale
la pena
di dare, ammissioni che solo il nostro cuore deve conoscere e
custodire. Sigyn
stringeva tra le dita sottili il trattato firmato da Loki, e le
sembrava che il
solo contatto con la pergamena spessa e robusta potesse, in qualche
modo,
restituirle il marito. Sentiva ancora il tocco delle sue labbra
beffarde sulla
pelle. Una nostalgia feroce avrebbe dovuto agguantarla alla bocca dello
stomaco
impedendole di respirare, invece era lì, seduta sul trono,
sorridente e
attenta, almeno all’apparenza. Si era preparata ogni parola
del discorso che
avrebbe dovuto fare di fronte al Consiglio dei Nobili (1). Era riuscita
a
riportare nella sua terra se non la pace, almeno la speranza di vivere
in condizioni
migliori. L’acciaio dei Nani era indispensabile per la
ripresa dell’economia di
Vanheim. La sua voce risuonò chiara e limpida, ma la giovane
regina lasciò
quasi immediatamente lo scranno di legno intarsiato su cui si era
seduto per decine
di anni suo nonno Njord per camminare avanti e indietro spiegando e
illustrando,
come era solito fare Loki.
Una
volta gli aveva chiesto perché misurasse con ampie falcate
la sala, muovendosi
tra i banchi dove erano seduti i nobili. L’ingannatore
l’aveva fissata un
momento. Era immerso nella vasca e lei lo stava aiutando a lavarsi
perché il
suo braccio era ancora steccato e fasciato dopo lo scontro con Thor(2).
Erano
sposati da pochissimi giorni, e le strade di Vanheim ancora mostravano
appesi i
festoni floreali con cui i Vanir avevano celebrato la loro unione.
Sigyn era
seduta sul bordo dell’ampia vasca e gli stava insaponando i
capelli scuri, la
spalla sana e ben scolpita.
“Per
guardarli negli occhi, da vicino,” aveva risposto Loki con
lentezza. “Per
capire le loro reazioni e coinvolgerli nel mio ragionamento.”
Poi, un ghigno
storto gli aveva attraversato le labbra e l’aveva trascinata
nella vasca, con
lui, tra le sue grida di protesta e gli spruzzi d’acqua
insaponata. Il dio
dell’inganno era solito dire che l’amore non
migliorava le persone ma, semmai,
le peggiorava, eppure Sigyn era convinta che l’Ase, durante
il loro matrimonio,
fosse riuscito a darle più di quanto non avrebbe ammesso.
Rispondendo alle sue
domande, svelando le ragioni di certe sue azioni, l’aveva
inconsapevolmente
preparata al ruolo che sarebbe andata a ricoprire.
Qualcuno,
nella Sala del Consiglio, applaudì fragorosamente quando la
regina smise di
parlare, molti le sorrisero soddisfatti. Altri, forse, si chiesero il
prezzo di
quella concessione lasciando scivolare gli occhi sulla figura snella
della
donna. Era opinione di una fetta sempre più ampia della
nobiltà Vanir che Sigyn
dovesse convolare a nuove nozze.
Lei
lo sapeva. Percepiva gli sguardi indagatori come era al corrente delle
chiacchiere che giravano nel palazzo. Rientrando nelle sue stanze
accompagnata
dalle sue ancelle, lasciò che una mano le scivolasse sul
seno in cerca della
collana su cui aveva appeso il suo anello; un talismano in cui Loki,
bugiardo e
astuto com’era, aveva racchiuso chissà che rune
potenti.
Freyr
le si accostò e subito le ancelle si scostarono. Aveva
un’aria sfatta,
disordinata, stanca, e i segni della malattia che gli rodeva il fegato
erano
ogni giorno più evidenti. “Stringi una nuova
alleanza con un buon matrimonio. È
quello che il Consiglio vuole,” suggerì.
L’ampio corridoio era fiocamente
illuminato dalle torce e Sigyn lo aveva percorso troppe volte in
compagnia di
Loki. In alcune occasioni erano rimasti in silenzio, ognuno
sdegnosamente
chiuso con i suoi pensieri, in altre lei gli aveva cercato la mano e
aveva
incrociato le dita con le sue.
“Ho
dato a Vanheim degli eredi, mi occupo della sua prosperità.
Non ho bisogno di
una nuova unione,” replicò asciutta, offesa.
Freyr
scosse il capo. “Non tornerà. Possibile che tu non
capisca? Le Norne hanno
deciso per lui una morte da guerriero, sul campo di battaglia. La tua
fedeltà
nei suoi confronti è sciocca e inutile, Sigyn. Il vincolo
matrimoniale è
spezzato e tu sei la regina di Vanheim. Ogni tua azione dovrebbe essere
tesa a
questo, non nel vagheggiare un traditore che morirà
soffocato dal suo sangue.”
Sigyn
si fermò. L’immagine evocata da suo zio le si
stampò nella mente con tutta la
sua forza, e la cosa peggiore, la più ingiusta e inevitabile
di tutte, era che
dietro la sua battuta crudele si nascondeva una probabilità
per nulla
ventilata. E lei non poteva fingere d’ignorare che esistesse
una simile
eventualità, per quanto orribile fosse. Strinse le labbra,
non cercò il suo
sguardo. Se lo avesse fatto, suo zio Freyr avrebbe visto che aveva gli
occhi
lucidi e si stava contenendo appena.
“Non
tutte le regine hanno bisogno di un re, per governare. E il destino
dell’ingannatore è quello che lui si è
scelto, ma la sua sorte non potrà mai
essermi indifferente e, se riavremo l’acciaio, è
perché lui me lo ha concesso.”
Era stata brusca. Si maledisse mentalmente per aver lasciato vibrare la
voce
mentre si riferiva a Loki, per averlo difeso sebbene lui non ne avesse
alcun
bisogno, anzi. Se qualcuno, nei Nove Regni e oltre, avesse sospettato
che l’Ase
stesse intessendo un pericoloso doppiogioco nei confronti del Titano in
persona, la sua fine sarebbe stata orribile, orrenda oltre ogni dire. A
questo
Sigyn pensava le notti in cui non riusciva a dormire, e a quello che
avrebbe
dovuto dire ai suoi figli il giorno in cui l’intrigo sarebbe
stato svelato. Quando
finalmente entrò nelle sue stanze, sorrise per la prima
volta da quando aveva
lasciato il dio degli inganni. Il suo letto era occupato.
“Dovresti
già dormire, signorina,” disse con un tono
fintamente serio.
Sonje
alzò gli occhi grigi dal libro che stava leggendo.
“L’impiastro non voleva
addormentarsi,” spiegò gettando
un’occhiata laterale e breve alla testolina
bionda e arruffata che spuntava da sotto le coperte. Sigyn si sedette
sul
letto, accarezzò i capelli chiari del figlio più
piccolo e diede un bacio sulla
fronte alla maggiore.
“Non
è un impiastro, non mi piace che usi quella parola, lo
sai,” la redarguì.
Sonje
per tutta risposta arricciò le labbra in un broncio che le
ricordò
dolorosamente Loki. “Si è fatto male durante la
lezione di equitazione e ha
frignato, mamma, ha frignato come mai nessun Ase avrebbe fatto. Se
papà e zio
lo avessero visto, loro…” Si
interruppe,
aggrottò la fronte. “L’hai
visto,” mormorò.
Non
era una domanda, ma un’affermazione. Una di quelle analisi
precise e pungenti
cui non si può mentire. Sigyn annuì e
iniziò a spogliarsi con lentezza,
raccontandole come il dio dell’inganno stesse bene e si
preoccupasse per lei,
per tutti loro.
Sonje
annuì e quando sua madre si stese accanto a lei e al
fratellino, si sporse per
giocare con la bella collana che portava sempre indosso, infilando il
dito
sottile nell’anello magnifico che una volta,
quand’erano felici, vedeva
scintillare all’anulare di Sigyn. Perché con il
suo intuito di bambina non
poteva non accorgersi che l’assenza di suo padre faceva male,
a sua madre,
quanto le rare e sporadiche occasioni in cui lei riusciva a vederlo o
ad avere
sue notizie. Si sforzava disperatamente di non piangere ed essere
sempre
allegra, sicura e presente per lei e suo fratello, ma qualcosa dentro
sua madre
si era spezzato, infranto, rotto. E Sonje quella tristezza mascherata
da altro
la trovava terribile, insopportabile. Era il velo che oscurava tutto il
resto,
anche le occasioni più liete: quando c’era il
Solstizio, ad esempio, sua madre
preparava ancora i biscotti al miele della tradizione con lei e Vali,
ma le
mancava l’impazienza con cui sostava davanti al forno in
attesa che si
cuocessero e non le brillavano più gli occhi come quando li
porgeva a suo
padre, sobbarcato di scartoffie, intento a leggere o ad allenarsi. (3)
“Tornerà.
Qui ci siamo noi. Te lo ha detto, vero?”
S’imbronciò infilandosi finalmente del
tutto sotto le coperte, ansiosa di ottenere una risposta impossibile
che
avrebbe reso di nuovo la sua famiglia felice, serena. Un desiderio
legittimo
che Sigyn colse e che fece nascere nel suo petto un senso di colpa
enorme,
grandissimo. I suoi bambini non erano felici; sentivano la mancanza di
Loki, e
lei non poteva parlargli di trame complesse e doppi giochi,
perché una frase
sbagliata uscita per errore dalle loro bocche avrebbe potuto
pregiudicare per
sempre la libertà dei Nove Regni e la vita di Loki e Thor
stessi.
“Vorrebbe
tornare, ma non può. Lo sai. Thanos ha bisogno di
lui,” mentì. Il Titano
consentiva a suo marito di vivere perché ancora necessitava
dei suoi servigi,
ma nessuno è davvero indispensabile, l’ingannatore
glielo aveva detto mille
volte con quel suo sorriso sbieco e laterale, beffardo e triste allo
stesso
tempo.
“Non
vuole.” Vali si era svegliato a causa delle loro voci. Si
alzò a sedere
strofinandosi i begli occhi verdi, assonnato e con
quell’irritazione propria
dei bambini quando sono stanchi, esausti. Con aria tragica e in
perfetto
silenzio, tirò fuori dalle coltri la caviglia fasciata,
osservandola con aria
critica. Loki era un’ombra alta e severa che lo fissava con
troppa attenzione e
che non giocava con lui né lo abbracciava. Un fantasma che
non ricordava, un
sogno destinato a sbiadire non appena aveva l’ardire di
toccarlo. Un’assenza,
un vuoto che, dall’alto dei suoi sei anni, non sapeva
esprimere a parole ma che,
pure, sentiva. Al contrario di sua sorella, Vali non ricordava i
solstizi
passati con il genitore, né aveva una traccia di quello che
era stata la sua
famiglia prima che Thanos guardasse con avidità ai Nove
Regni. Loki era la
ragione per cui Sonje a volte si scocciava della sua presenza, il
motivo per
cui il sorriso di sua madre era venato da una nota di tristezza, forse
era
persino la causa principale delle lunghe assenze dello zio Thor.
Incapace
di comprendere appieno la complessità dello scacchiere
politico in cui era
immerso assieme a tutti gli altri, Vali provava, nei confronti di suo
padre,
un’attrazione mista a repulsione. Non c’era la
prima volta che era salito a
cavallo, mesi prima, come non era presente durante il suo primo
allenamento o
quando si era tuffato stringendo le ginocchia al petto dal molo del
lago. Non
c’era e avrebbe dovuto esserci, così come, allo
stesso tempo, era una fortuna e
un dolore che non avesse assistito alla rovinosa caduta di quel
pomeriggio e al
pianto disperato che ne era seguito. Nelle rarissime occasioni in cui
la sua
figura fiera compariva all’improvviso dentro le mura del
palazzo, Vali fuggiva
i suo occhi indagatori e rispondeva alle sue brevi domande con dei
monosillabi,
fissando il pavimento. Gli faceva paura, lo terrorizzava. Gli abiti
scuri, la
corazza di pelle intrecciata e le insegne scarlatte che gli decoravano
il
mantello, lo facevano apparire come il personaggio malvagio di qualche
fiaba,
anziché l’eroe (4).
Vali
sentiva che avrebbe dovuto vergognarsi del suo timore e di quei
pensieri, ma
gli era capitato più di una volta di ascoltare ancelle e
domestiche parlare di
suo padre. In silenzio, nascosto sotto a un tavolo o dentro a un
armadio, le
aveva sentite discorrere di come ora che era un Generale del Titano
Loki fosse,
in definitiva, quello che era sempre stato: un condottiero sagace e
astuto
bravissimo a salire sul carro del vincitore, a cui interessava solo ed
esclusivamente la salvaguardia della propria pellaccia. Parole, di
nuovo, che
non poteva comprendere appieno perché conosceva solo
vagamente le storie che
riguardavano suo padre, e persino il nome che si tirava appresso,
quello di dio
dell’inganno, aveva un’eco pomposa e difficilmente
comprensibile. Che
significava, esattamente quella parola, inganno?
Che suo padre mentiva per ottenere un
vantaggio. Questa era stata la spiegazione imbarazzata dello
zio Thor.
Quando
giocava con gli altri bambini, al primo problema o disputa spesso
veniva
isolato perché, probabilmente, era un voltafaccia
traditore come suo padre. Sebbene il senso del termine
voltafaccia gli
sfuggisse, l’altro gli era tristemente noto. Ogni volta che
lo sentiva,
scattava e perdeva il controllo buttandosi a capofitto in risse che lo
avrebbero visto inevitabilmente uscire come perdente. C’era
qualcosa di tragico
e commovente, nella disperazione con cui Vali si lanciava in difesa
dell’oscuro
e ambiguo Loki che, di fatto, lo aveva abbandonato. Era forse
l’unico elemento
che lo accomunava alla sorella, ma mentre quella parola, traditore,
aveva su di lui l’effetto di uno schiaffo in pieno viso
e pesava come un’onta terribile, Sonje se ne faceva un vanto.
Alzava il mento
fiera, se qualche ragazzino le ricordava il gesto del loro genitore,
ammettendo
a viso aperto quel comportamento e, anzi, beandosene.
“Io
sono la figlia del dio dell’inganno. Un principe, un re che
non ha paura di
nessuno e ti convincerebbe a fare qualsiasi cosa solo fissandoti. Lo
sai che ha
combattuto contro gli Asi e ha vinto? Lo sai che è evaso da
ogni prigione? Se
ha tradito è per permettere a insulsi bambini col moccio
come te di vivere,”
concludeva incrociando le braccia, severa e regale.
Vali
non sapeva dire dove Sonje trovasse quell’incrollabile
fiducia in Loki perché
lei stessa non glielo diceva, preferendo chiudersi in camera con i
libri di
magia che capiva a malapena, sforzandosi di apprendere una materia
oscura che
forse non le apparteneva come sperava. Voleva diventare brava con il
seiðr
almeno quanto Loki, ma per il momento non era riuscita a creare un solo
incantesimo. Così, dato che Sonje non voleva parlare con lui
del loro padre, la
sua mamma era spesso costretta a lunghe assenze a causa degli impegni
di regina
e Thor era una presenza effimera quasi quanto il genitore stesso, Vali
cercava
nella solitudine le risposte alle sue domande. Silenzioso
com’era, ascoltava e
spiava e pensava. Così aveva trovato la chiave dello studio.
Una
stanza proibita, chiusa da anni, dove nemmeno sua madre metteva mai
piede. Non
davanti a lui, almeno. Il fascino esercitato dallo stipite serrato era
stato
troppo forte perché vi potesse resistere e, del resto, Sonje
ripeteva sempre
che loro due erano mezzi Asi e gli Asi non avevano paura di nulla.
Vincendo il
terrore che invece lo avvolgeva, deglutendo aveva infilato la chiave
nella
toppa e poi girato. Eccolo, lo studio di mago di suo padre, il posto
proibito.
Vali non lo ricordava, ma in quella stanza ampia e buia lui e sua
sorella
avevano giocato ed erano entrati correndo e sgambettando in cerca di
quella
figura ormai assente, sfumata eppure indimenticabile.
Con
il cuore che batteva all’impazzata, il bambino si era messo a
osservare e
sfiorare con le sue dita piccole e infantili le pergamene vergate
fittamente,
la poltrona di pelle dove Loki studiava e rispondeva alla
corrispondenza, il
dorso di alcuni libri di magia. Oggetti misteriosi di cui non capiva il
significato e a cui non diede particolare importanza, finché
non la vide. Vali non sapeva come
si
chiamasse quella fascia di cuoio e pelle, ma capì
immediatamente che doveva
trattarsi di un pezzo dell’armatura di suo padre. La
sollevò circospetto,
accorgendosi del suo peso, soffermandosi sulla placca dorata su cui era
inciso
un serpente marino. Decise di tenerla per sé. La
portò via dalla stanza e la
nascose dentro a una scatola che conteneva tutti i suoi tesori
più preziosi,
senza immaginare che quella era la bandoliera che Loki indossava ad
armacollo.
(5)
Fu
Thor a spiegargli cosa fosse e a mettergliela addosso con un sorriso un
po’
mesto, svelandogli l’esistenza di una tasca nascosta in cui
era rimasto
custodito un sottile coltello. Nelle sue brevi visite, non mancava mai
di
portare a lui e a Sonje un dono e svelare qualche trucco per tenere per
più
tempo il respiro sott’acqua o colpire meglio un avversario.
Sì, zio Thor era
divertente ed era bello trascorrere i pomeriggi in sua compagnia, ma
quando
aveva chiesto a sua madre se assomigliasse a suo padre, Sigyn aveva
scosso il
capo in fretta dicendo che no, le somiglianze erano ben poche.
***
Controllò
due volte le indicazioni nel biglietto stropicciato che stringeva tra
le dita,
prima di entrare. Con una smorfia schifata, si domandò come
potesse aver scelto
un posto tanto fetido per il loro appuntamento. Non era da lui,
rifletté
osservando con aria critica la bettola sporca e maleodorante. La
maggior parte
degli avventori era ubriaca fradicia, quelli che ancora erano svegli,
invece,
con tutta probabilità erano tagliagole e ladri decisi a
derubare i loro vicini addormentati.
Derubare di cosa era una bella
domanda. Individuò il tavolo giusto, vi si sedette. Il legno
era unticcio. Una
cameriera sfatta e con il viso butterato gli chiese cosa volesse e lui
ordinò
due birre senza togliersi il cappuccio. Quell’idiota non era
ancora arrivato,
ma nulla vietava che potesse materializzarsi all’improvviso
davanti a lui
grazie al seiðr. Gli fu portato da bere: la birra era calda, e
il sapore
pessimo non ricordava nemmeno lontanamente l’idromele che
veniva servito ad
Asgard.
Con
una smorfia, posò il boccale e, alzando gli occhi, lo vide.
“Hai
avuto il coraggio di ordinare da bere in questa cloaca? Sai che, con
tutta
probabilità, hanno allungato la birra con il
piscio?” Anche Loki indossava un
mantello. Si sedette di fronte a lui non prima di aver gettato
un’occhiata
rapida ai beoni e ai delinquenti che affollavano ancora i tavoli e i
banconi.
“È
un piacere vederti anche per me, fratello,”
borbottò Thor allontanando da sé la
birra incriminata e inumidendosi le labbra per scacciare il sapore
amarognolo.
L’ingannatore gli regalò un sorriso furbo,
divertito, e il dio del tuono
proseguì. “Non credevo che mi avresti fatto davvero
l’onore di palesarti di persona,” aggiunse
tirandogli i rimasugli di un guscio
di noce che era rimasto sul tavolo.
“Volevo
un luogo il più possibile neutrale,”
spiegò Loki asciutto, “e tra i tuoi uomini
ci sono delle spie.”
Continua...
L’angolo
di Shilyss
Ciao Lettori!
Credevate che
avessi abbandonato questa storia, vero?
E invece NO. Grazie a quelli che la seguono e la preferiscono
pubblicamente o
meno per aver atteso con infinita pazienza l’aggiornamento.
È solo che, come
molti di voi, avevo bisogno di fare il punto sulla situazione dopo
Infinity War
e integrare nel mio canon il
personaggio di Thanos (quindi aspettatevi sorprese).
Grazie a tutti
coloro che hanno recensito e
recensiranno o vorranno testimoniare in qualche modo il loro
apprezzamento. La Fatina
dell’Ispirazione mi tormenta, ma
si intristisce se non vede i vostri feedback! Come sempre, il prossimo
appuntamento con le mie storie è per domenica. Mi raccomando!
Vanheim
e il suo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea:
vi
pregherei di non utilizzarla o, se proprio vi sentite ispirati, di
inserire un disclaimer
apposito in cui dichiarate i credits. Io non mi
offenderò,
anzi vi stimerò di più ♥. Anche il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione. Sonje
è un personaggio originale,
mentre Vali, nel mito, è
realmente
il figlio di Loki e Sigyn, ma il suo carattere è una mia
invenzione.
Come sempre, ci
sono ottomila citazioni nel capitolo. Vi
segnalo Il testamento di Tito di De
André.
1. Nel mio
canone Vanheim funziona così.
2. Lo scontro
con Thor di cui ho scritto nella mia fic
Tutte le tue bugie. Non
l’hai ancora
letta/recensita? Male! La Fatina
è
triste!
3. I famosi
biscotti visti in Tutte le tue bugie
e Altro
che il Ragnarok.
4. Come nel cap.
1 di questa fanfiction. Ho immaginato
che Loki, al servizio di Thanos, indossi delle insegne con i suoi
colori (in
questo caso, rosse).
5. La fascia che
Loki indossa in Avengers.
Un caro saluto,
Shilyss
|
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Capitolo 4 *** Progetti ***
4
Progetti
Il ministro
delle finanze di Vanheim
era un uomo quasi calvo, decisamente anziano, fin troppo magro e con
una voce
cavernosa e roca. Spiegava concetti e strategie utilizzando
continuamente
metafore, e Sigyn ricordò distrattamente che suo marito lo
trovava divertente
quanto suo nonno insopportabile. Loki lo ascoltava con le mani
incrociate
dietro la schiena e lo sguardo attento, quasi volesse bere ogni parola
del suo
interlocutore, come se si fidasse ciecamente della sua opinione. Non
era vero:
ricontrollava minuziosamente conti e statistiche anche a costo di
rimanere
sveglio fino all’alba. In quei casi, lei si alzava un
po’ prima del sorgere del
sole con un lieve broncio sulle labbra, rimproverandogli dolcemente di
averla
lasciata sola. Poi lo cingeva per le spalle, lo baciava sul collo e gli
metteva
davanti una tazza di tisana calda fatta con dei semi che toglievano il
sonno e
rinvigorivano lo spirito (1). Lui non la ringraziava apertamente, ma la
fissava
con quei suoi occhi chiari increspando leggermente le labbra sottili in
un
sorriso.
“Ti
amo,” gli diceva lei. “Ti amo,
Loki: non ti stancare così tanto.”
Lui la studiava
in silenzio – una
volta Sigyn pronunciò quella frase e l’ingannatore
la scrutò con quel suo
sguardo rapace che dicevano avesse rubato a Odino in persona, e non le
rispose
– non lo faceva mai. No, di fronte a
quell’ammissione incondizionata e
coraggiosa, totale, lui non replicava, limitandosi a baciarla se
stavano
facendo l’amore o a sorriderle appena se erano in pubblico.
Ma, nella luce
incerta dell’alba, talvolta incassava quel tributo con meno
artificio del
solito e le prendeva la mano per posarle un bacio sul dorso liscio
– l’omaggio
di un cavaliere alla sua dama.
Passeggiando con
il vecchio nobile le
tornò in mente questo e altro ancora, come sempre. I
giardini attorno al
palazzo reale di Vanheim erano in fiore e regalavano lo spettacolo
magnifico di
una natura che traboccava di colori e odori.
“Mia
regina?!”
“Approvo
ogni punto del vostro
progetto,” si riscosse Sigyn, “tranne le misure
relative alle nostre difese.
Vanno aumentate.”
Il ministro si
fermò, stupito da
quella risposta che riteneva assurda. “A Thanos non
piacerà, mia signora, e
sarebbe una mossa del tutto inutile, lasciate che ve lo dica. Se
volesse
schiacciarci, manderebbe il solo in grado di sconfiggerci. Colui che
conosce
ogni varco, ogni debolezza del nostro esercito e del regno
intero.” Deglutì,
non osando aggiungere il nome della figura altera che gli si era
disegnata
nella testa.
Sigyn
piegò le labbra in un sorriso
amaro. Loki non veniva nominato apertamente nemmeno quando era ancora
il
principe esiliato di Asgard, il profugo inquietante che suo nonno aveva
accolto
in casa sua non in nome di qualche riguardo o favore, ma della
politica. Il
fabbricante di bugie, l’ingannatore, il figlio maledetto di
Odino; così lo
chiamavano le sue amiche quando venivano a trovarla per passeggiare in
quei
medesimi giardini, ridendo e bisbigliando ogni volta che incrociavano
l’Ase.
Com’è
il dio dell’inganno, cosa fa? È
crudele e spietato? Infastidita da quelle domande, lei fissava senza
capire la
figura altera di quello straniero che si muoveva con passo felpato
nelle sale
di casa sua e parlava fittamente con sua zia Freya. Non era che una
ragazzina,
allora, e di Loki le sfuggivano ancora troppe cose. Sapeva che doveva
guardarsi
da lui e temerlo, eppure era stato a quell’Ase che suo nonno
aveva chiesto il
favore di farla ballare, la sera del suo debutto a Corte. Sigyn non era
ancora
sbocciata come un fiore, nel lento passaggio dall’infanzia
all’età adulta. Si
sentiva impacciata, stretta com’era in abiti che non le
appartenevano e
rischiavano di farla sembrare ridicola. La giovane principessina di
Vanheim non
era bella come sua zia Freya, e ne pagava lo scotto rimanendo in
disparte in un
angolo della sala, ad annoiarsi e a riflettere su cosa le mancasse per
essere
come le sue amiche già belle e civettuole. A metà
serata, ricordò di aver visto
Njord chiamare con un cenno della mano Loki, bisbigliargli
all’orecchio
qualcosa indicandola. L’Ase si era voltato, aveva annuito
dopo averla squadrata
appena e si era diretto verso di lei tendendole la mano.
“Non
mi piace ballare,” aveva detto Sigyn
in fretta abbassando gli occhi.
“E a
me non piacciono le ragazzine
imbronciate. Tuo nonno desidera vederti al centro della sala, io
accontentarlo.” Loki le aveva preso la mano scostandola
finalmente dalla parete
per condurla verso il centro della sala. La sua presa era sicura,
decisa, ma a
suo modo fredda, libera da qualsiasi coinvolgimento. Eseguiva il
compito
assegnatogli con estrema efficienza, conducendola in giri e passi senza
alcun
tipo di trasporto, limitandosi a suggerirle dove fosse la pausa quando
lei,
agitata per tutte le paia d’occhi che la fissavano dubbiose,
smarriva il tempo (2).
Infine, Sigyn aveva rotto il suo silenzio.
“Si
aspettavano fossi diversa? Come
Freya?”
Lui
l’aveva squadrata rapidamente “Di
Freya ne abbiamo già una, non credi? Sei solo troppo
giovane,” si era lasciato
sfuggire, e lei aveva abbassato gli occhi pensando a quello che le sue
amiche
le avrebbero detto il giorno dopo – che il bel dio
dell’inganno l’aveva
invitata a ballare solo per compiacere suo nonno.
Era stata
felice? Il suo cuore aveva
accelerato i suoi battiti, mentre lui la faceva volteggiare? Meno di
quattro
anni dopo, lui non l’avrebbe deliberatamente invitata a
ballare, ma sarebbe
rimasto in un angolo a scrutarla, mascherando abilmente
l’attenzione selvaggia che
riservava a ogni suo gesto per poi venirla a cercare in qualche angolo
remoto e
buio del palazzo, strappandole baci lunghi e intensi che erano un
accarezzarsi
di labbra e di lingue, sfiorandole il corpo sottile e tremante sotto la
seta
dei suoi begli abiti colorati, finché il desiderio non
avrebbe annebbiato gli occhi
di entrambi. Cosa rimaneva in quei momenti di lei, di Sigyn? La voglia
che lui
andasse avanti. Che ne facesse, finalmente, la sua amante. Allacciata
alle sue
spalle, non poteva fare a meno di desiderarlo, di cercarlo, di
baciargli la
pelle parzialmente protetta dal colletto della tunica, di passare le
dita sulla
schiena dritta e altera. Di sceglierlo, perché si era
insinuato nel suo cuore e
nelle sue vene – perfido dio
dell’inganno, mi sono innamorata di te e non dovevo, ma
è successo e non riesco
a dimenticarti, né lo voglio.
(3)
“Loki
Laufeyson,” disse Sigyn
scacciando dalla sua testa il ricordo dei baci rubati, dei sospiri
spezzati,
“non è invincibile, come nessuno. Ce lo ha
insegnato lui stesso, mio caro
ministro, quando ha costretto Asgard e Odino a trattare con noi da
pari. Più
che invocare il suo nome come fosse un talismano in grado di
proteggerci,
dovremmo raccogliere ciò che di buono ci ha lasciato, io
dico, e farne tesoro.”
Il ministro la
guardò a lungo, prima
di rispondere. “Siete saggia, mia regina. E fedele.”
Lei
annuì con un cenno lieve del
capo. Leveresti la tua spada verso questa
terra che hai contribuito a rendere grande, amore mio? Contro la casa
di tua
moglie e dei tuoi figli? Lo faresti, se Thanos te lo ordinasse? Era,
questa, una domanda muta che Sigyn si era già posta infinite
volte. Ogni volta
che i suoi bambini si stropicciavano gli occhi e sbadigliavano
perché era
finalmente giunta l’ora di alzarsi, si chiedeva se quello
sarebbe stato il
giorno in cui il Titano avrebbe ritenuto Vanheim un possedimento
inutile,
indegno di vivere. Sonje arricciava le labbra replicando
inconsapevolmente il
broncio di Loki, Vali la fissava con i suoi begli occhi verdi, e lei
giurava a
se stessa che avrebbe fatto ogni cosa per proteggerli e credeva,
sì, lo
credeva, che anche il dio dell’inganno avrebbe fatto lo
stesso. Doveva essere
così.
“Con
l’acciaio dei Nani costruiremo
anche delle armi,” soffiò. “Non
rimarremo inermi, in attesa che il Titano si
stanchi della nostra presenza. Vanheim c’era prima di Asgard
e continuerà a
esserci anche dopo.”
***
“Spie.”
Thor ripeté quella parola
accarezzandone il senso crudo e inequivocabile, mentre Loki continuava
a
fissarlo con quel suo sguardo aguzzo e terrificante. C’era,
nei suoi occhi, una
luce nuova, diversa. Un brillio folle che il tonante non vedeva da
molto,
troppo tempo negli occhi di suo fratello, ma che non aveva dimenticato
mai,
nemmeno per un momento. Era il sintomo più evidente della
stessa furia cieca
che aveva convinto, un giorno lontano, Loki a recarsi a Jotunheim
seguendo
sentieri noti a lui solo per proporre a Laufey in persona uno scherzo
che si
sarebbe rivelato anzitutto crudele e, che per un contrappasso amaro,
avrebbe
trascinato l’ingannatore stesso in un abisso di follia e
disperazione e rabbia
(4). Una scintilla di cui il giovane e arrogante Thor non si era
accorto, che
il vecchio Odino aveva tragicamente sottovalutato e che ora brillava
lì, di
nuovo davanti a lui, coperta dalle sopracciglia corrucciate del suo
inafferrabile fratello.
“È
per questo che non devi mai più
metterla in mezzo,” disse Loki a denti stretti.
“Noi possiamo crepare anche
domani, Thor. Siamo guerrieri Asi e la morte non ci spaventa, ma lei, lei la devi lasciare fuori. Vanheim
esiste ancora perché Thanos non ha il tempo materiale di
vedere quale regno gli
è utile e quale, invece, no.” (5)
“Pensavo
lo sorvegliasse per te,”
replicò torvo il re della distrutta Asgard fissando negli
occhi suo fratello.
Fu tentato di bere ancora la pessima birra, ma il sopracciglio inarcato
dell’altro lo fece desistere quando già le sue
dita sfioravano il manico del
boccale. “Davvero crede che non ti importi nulla di
loro?”
Stavolta fu
Loki, a fissare il
liquido ambrato. “Vanheim esiste ancora anche
perché così può ricattarmi meglio. La
distruggerà davanti a miei occhi o
testerà la mia immortale
fedeltà
facendomela radere al suolo,” ammise il dio degli inganni e,
nel pronunciare
quelle parole, abbozzò un sorriso triste, pesante come un
macigno. “Non
permetterò che si ricordi prima del tempo
dell’arma che ha in mano,” soffiò, e
quelle parole suonarono, alle orecchie di Thor, come delle minacce
nient’affatto velate. (6)
“Non
potevo farne a meno, lo sai.
Dovevo contattarti e tu eri sparito.” Thor aveva risposto in
maniera stizzita,
irritato, come sempre, dalla querula perfida di del fratello che voleva
sempre
avere ragione, forte dei suoi ragionamenti precisi come il filo delle
lame
forgiate dai Nani.
“Finalmente
abbiamo un esercito, Loki.
Uno abbastanza grande da fermare una volta per tutte quel figlio di
puttana e
liberarci per sempre della sua presenza. Il momento in cui vendicheremo
Asgard
è finalmente vicino. E quello che hai concesso a Sigyn ci
serve. Con l’acciaio
di Nidavellir, il sole tornerà a
splendere su di noi.”
Le belle dita di
mago del dio degli
inganni tamburellarono sulla superficie unta del tavolo di legno.
Attorno a
loro, le voci strascicate degli avventori ubriachi si confondevano con
le grida
del locandiere intento a riportare l’ordine nel suo locale
sudicio e malamente
illuminato. Era il posto perfetto, per parlare di una congiura e di un
colpo di
stato. Il solo possibile, anche. Arricciò le labbra, incerto
se mettere a parte
il fratello di una notizia che avrebbe scalfito inevitabilmente
quell’incrollabile fiducia di cui Thor si ricopriva come
fosse un abito. La
cieca resistenza del dio del tuono, in qualche modo, era confortante.
Rendeva
possibile il crogiolarsi ancora nell’illusione che Thanos
potesse essere vinto,
sconfitto.
“Cosa
sa, lei?” Una domanda secca,
guardinga, pronunciata con filo tetro di voce. “Cosa sa lei davvero? Di quello che dobbiamo fare,
intendo.”
“Tutto
ciò che lei hai confessato
quando l’hai ripudiata. Che stai lavorando ai fianchi per
tradirlo.” Thor
avrebbe voluto aggiungere anche altro. Parlargli dei dubbi e delle
ansie che
avevano stretto il cuore della regina di Vanheim quando erano giunte
notizie cupe
e contrastanti sul suo operato, raccontargli di quanto stessero
crescendo Sonje
e Vali, condividere il ricordo del bambino con indosso la sua
bandoliera. Del
magnifico stupore che gli aveva letto negli occhi quando si era
specchiato con
indosso quell’accessorio troppo grande. Chiedergli il conto
del nervosismo che
Loki riusciva a malapena a sfogare con quel suo tamburellare leggero,
anche
quello voleva.
“Non
coinvolgerla ancora, Thor. Per
nessuna ragione.” Il dio degli inganni lanciò
un’occhiata torva al locale
ancora rumoroso nonostante l’ora tarda, alla gente sfatta e
con la testa
svuotata dall’alcool che dimenticava problemi e speranze
accanto a un boccale
colmo di chissà che schifezza.
“Siamo
tutti coinvolti.” (7)
Loki
continuò a guardare altrove, in
ogni luogo e in nessuno. “Ha chiesto ai Nani di fabbricargli
il guanto,
fratello.” Lo disse con una voce distante e priva di
emozione, ma Thor fu certo
di riconoscere un lieve sussulto nelle spalle coperte dal mantello
dell’altro.
Un brivido di terrore improvviso che, solo a osservarlo,
spaccò a metà tutte le
certezze con cui era entrato in quella locanda fetida e sporca.
“Io
c’ero,” proseguì Loki con voce
torva, “c’ero e l’ho visto ordinare che
fosse forgiata quell’arma tremenda.
Utilizzerà tutto quel
potere per spazzare
via metà dell’universo.” Si
leccò le labbra e tornò a guardarlo negli occhi
con
quelle sue iridi chiare capaci di trapassargli la pelle, entrargli nel
cuore,
leggere nella sua mente, forse. “Dicono che gli
basterà uno schiocco di dita.”
Rimase in attesa
della reazione
dell’altro, le labbra congelate in una piega amara che
raccontava di massacri
ed empietà: eccolo, il prezzo scottante della sopravvivenza,
del compromesso,
dell’attesa. L’obbedienza cieca, la saliva mandata
giù di fronte all’esecuzione
di un ordine particolarmente crudele, le catene invisibili che gli
impedivano
di essere ciò che era – caos,
nient’altro
che questo.
Thor
deglutì, pronto ad ascoltare le
nefandezze che certo sarebbero seguite. Ecco perché Loki
aveva mancato il loro
appuntamento. Aveva fatto carriera e il Titano aveva deciso addirittura
di
portarlo con sé. Le voci sinistre e perfide che lo avevano
rincorso nei lunghi
mesi in cui non si erano né visti né sentiti
tornarono a mordergli il cuore. Il
dio degli inganni aveva fatto ogni cosa lecita e illecita per rientrare
nelle
grazie di Thanos, perché l’unico modo che aveva
per sconfiggerlo era stargli
tanto vicino da poter respirare la sua stessa aria. Un compito
sgradevole e
oltremodo orrendo, che forse aveva avvelenato e corrotto ciò
che la bella e
fertile Vanheim era riuscita a curare con le sue lunghe primavere e gli
inverni
miti e placidi, che le labbra morbide di Sigyn avevano lenito nelle
dolci notti
che aveva condiviso con lui.
“Te lo
immagini, Thor?” Quasi
compiaciuto, Loki riprese a parlare con voce bassa e quasi trasognata,
sottolineando ogni parola con ampi gesti delle belle mani eleganti.
“Un solo
schiocco, un unico, semplicissimo gesto e metà
dell’universo sparirà senza un
ordine preciso né una regola.
Un’imparzialità devastante calerà come
una
mannaia su ogni anelito di vita. Chi sopravvivrà, non
continuerà a esistere per
merito, selezione o scelta, ma solo per un regalo del caso.”
C’era
una nota stonata, nel discorso
del dio dell’inganno. Un’agitazione strana, che
incupì il tonante. Si chiese se
non fosse ammirazione. Se, in qualche parte nascosta del petto di Loki,
il
piano del Titano non esercitasse un certo osceno fascino.
“Sarà
il caos,” lo provocò, per
testare una volta di più le intenzioni del suo alleato
più caro e del suo
nemico più terrificante.
Loki gli rivolse
un ghigno tetro, ma
dovette percepire l’improvviso dubbio del fratello,
perché si ritrasse poggiando
la schiena sulla sedia. “Sarà il caso a decidere
un ordine innaturale. Il caos
è diverso. È vita, possibilità,
incertezza, libertà.
Thanos vuole l’universo ai suoi
piedi. Vuole decidere cosa è giusto e cosa sbagliato,
pretende di conoscere la
ricetta giusta per la felicità e la
prosperità.”
“Tutte
cazzate.”
“Un’utopia
irrealizzabile e
pericolosa che sperimenterà sulla nostra pelle,”
precisò il mago, calcolando
mentalmente le probabilità che lo strettissimo manipolo di
persone di cui gli
importava qualcosa potessero sopravvivere allo schiocco. Quattro anime
che, secondo
un fato impossibile da decifrare, sarebbero potute sparire senza avere
nemmeno
il tempo di rendersene conto o, viceversa, avrebbero conosciuto quanto
costasse
sopravvivere all’incubo. Cosa sarebbe rimasto di Sigyn
– di lui stesso – se i
loro piccoli eredi fossero morti? Se lo schiocco, crudele e senza leggi,
ma
tutt’altro che neutrale, avesse spezzato proprio le loro
giovani vite,
distruggendo la perfetta combinazione con cui i lineamenti di lei si
erano fusi
con i suoi? Quante possibilità esistevano che tutti loro
fossero risparmiati? A
Thanos, che gli rinfacciava di aver perduto un’intera armata
di Chitauri, Loki
aveva risposto un tempo con furba arroganza che preferiva chiamare le
sconfitte
opportunità. Un
fallimento non era
che un tentativo andato male, da cui una mente astuta e brillante come
la sua
avrebbe potuto ricavare una futura vittoria; una scatola piena di
informazioni
e possibilità da custodire con cura. Un modo di ragionare,
questo, che aveva
difeso a testa alta per tutta la vita, ma che, da tempo, non valeva
più.
Perdere, adesso, voleva dire rischiare di veder svanire per sempre
qualcosa di
importante e immeritato.
Thor vide lo
sguardo del fratello
incupirsi, osservò la smorfia tirata che avevano assunto le
sue labbra sottili,
tagliate da un’antica cicatrice verticale che da tempo
s’era fatta bianca.
“Quante
gliene mancano? C’è chi dice
che le abbia prese tutte, chi sostiene che stia ancora brancolando nel
buio.”
“Una.
Gliene serve una. L’ultima.”
Loki lo disse articolando ogni sillaba con una lentezza estrema. Il
tempo non
era dalla loro parte, e nemmeno il destino. L’altro si
irrigidì, sorpreso da
quella notizia inaspettata e l’ingannatore gli rivolse un
sorriso triste e
breve. “Siamo in pochi, a saperlo,”
spiegò. “All’interno del suo stesso
esercito, solo uno stretto manipolo conosce il numero di gemme
effettivamente
raccolte e, cosa più importante, il suo piano idiota. Solo i
suoi generali più fidati,”
aggiunse arricciando le labbra
ironiche.
“Cos’hai
fatto per meritarti questo
privilegio dopo tutto quello che gli hai fatto?”
Il baccano,
nella locanda, pareva
destinato a non cessare affatto. Il dio degli inganni
giocherellò con una delle
monete che il fratello aveva poggiato sul tavolo per pagare la pessima
bevanda
ordinata. “Credo che tu lo abbia sentito dire in
giro.”
“Ho
sentito dire tante cose, Loki.”
Un lampo fugace
attraversò gli occhi
dell’ingannatore. “È abbastanza
probabile che siano vere. Dovresti preoccuparti di altro, tuttavia.
Delle spie
che circolano a Vanheim e negli altri luoghi dove gli Asi sopravvissuti
si sono
nascosti. Dell’ultima gemma che deve ancora
trovare,” suggerì perfido.
“Hai
un piano, a proposito?” Gli
occhi di Thor continuavano a essere puntati sul viso affilato e pallido
del
fratello. Era giunto il momento di rendere concreta la congiura, di
dare un
senso ai sacrifici operati dalla Resistenza che aveva tirato su con
fatica
negli ultimi, difficili anni. Asgard doveva essere vendicata, e
così tutti gli
altri regni o pianeti che erano stati ridotti in cenere dal Titano
pazzo.
Mentre le guglie della città degli Asi bruciavano, pochi
minuti prima di
arrendersi di fronte alla potenza di Thanos, Loki, citando un poema
antico, gli
aveva promesso che la sconfitta di quel giorno tremendo sarebbe servita
a
ottenere la vittoria in futuro. Il momento di mantenere quella promessa
era
arrivato, ma suo fratello continuava a essere quello che era sempre
stato: il
dio degli inganni ambiguo e inafferrabile, che poteva concedere il suo
aiuto
così come negarlo non perché fosse folle o
particolarmente crudele, ma per
seguire uno dei suoi piani rischiosi e azzardati, geniali e teatrali.
“Quando
Thanos radunerà tutte le
gemme e schioccherà le dita,” cominciò
a dire Loki, “non solo l’universo si
dimezzerà, ma anche il suo esercito. Il punto è,
fratello, che noi non avremo
alcun vantaggio da tutto ciò. La morte potrebbe portarsi
indistintamente via
sia i suoi generali che noi. Capisci, Thor?”
“E
quindi il tuo progetto qual è?”
L’ingannatore
smise di dedicarsi alle
poche monete sul tavolo. “La conoscenza ci salverà
e ci renderà liberi.
Dobbiamo impedirgli di usare
l’ultima
gemma, non di trovarla. E abbiamo bisogno che la voce di quello che
è davvero
il suo piano circoli ovunque e allontani quanti, assurdamente, ancora
lo
appoggiano. Useremo le tue spie. Quelle che si sono infiltrate in mezzo
alla
Resistenza, che vivono vicino a mia
moglie per controllarla, che sanno che sei qui, ma non hanno
idea di cosa
tu stia facendo, da solo in una locanda,” aggiunse.
Thor si
guardò attorno. Suo fratello
era davvero invisibile a tutti tranne che a lui?
“Un’operazione delicata,”
commentò. Si ritrovò a sorprendersi come quando
era poco più di un bambino di
fronte all’incantesimo magnifico creato da suo fratello,
quell’essere geniale e
mutevole sempre in vena di fare scherzi con cui, da quando aveva
memoria, si
era ritrovato a dividere ogni cosa. Erano stati alleati, amici,
compagni di
stanza e d’arme. Avevano bevuto dallo stesso corno e si erano
guardati le
spalle così tante volte da non ricordarle tutte. Loki.
“Avrai
bisogno anche di un’altra
cosa, Thor.” L’ingannatore socchiuse leggermente le
palpebre, s’inumidì le
labbra, quasi cercasse le parole giuste da dire. “Di qualcuno
cui passare il
testimone in caso Thanos riuscisse a mettere anche l’ultima
gemma nel guanto e
noi venissimo scoperti e uccisi. La Resistenza deve proseguire anche dopo di noi. E di questo, vorrei non
facessi parola con lei,” precisò l’Ase
sollevando leggermente il mento altero,
quasi glielo stesse ordinando come il re che non era mai stato.
Fu allora che
Thor comprese. Si passò
una mano tra i capelli che ora teneva corti, masticò
un’imprecazione veloce
alle Norne beffarde. “Loki,” iniziò, ma
l’altro fu più veloce e lo interruppe.
“Gli
sottrarremo la pietra dopo che
l’avrà trovata e prima di metterla nel guanto e
forse moriremo nel farlo,
fratello. Ma è l’unico modo. Taglieremo
direttamente la testa al mostro con una
congiura ben fatta. Non sacrificheremo centinaia di migliaia di vite,
come
abbiamo fatto ad Asgard. Sarà un’azione rapida,
letale, velocissima: avremo una
sola occasione.”
“È
davvero il piano migliore che ti è
venuto in mente?”
Loki Odinson
increspò le labbra in un
sorriso laterale e breve. “Ho scartato a malincuore chiamate aiuto,” chiosò.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Voglio
ringraziare
tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa
storia.
Grazie davvero, ogni riga è per voi ♥ Per quelli
che non lo hanno fatto, vi
ricordo che su Efp è possibile utilizzare delle liste:
usatele, non vi costa
niente e farete un Autore felice! ^^
Mi dispiace di
avervi
fatto aspettare tutto questo, ma prometto di aggiornare questa storia
con un po’
più di regolarità. Come avete visto, il canone
MCU è stato (e sarà) da me
plasmato e ridotto a qualcosa di totalmente differente da quanto avete
visto. Vi
avverto: nei prossimi capitoli succederanno
cose, e tante. La Fatina dell’Ispirazione necessita
sempre delle vostre
cure per poter spandere i suoi glitter! Per ulteriori info e un
po’ di
divertimento… c’è la mia pagina
facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Vanheim e l’Impero di Thanos così
come QUI sono intesi e descritti,
con questo ordinamento sociale,
politico e culturale sono una mia idea:
vi pregherei di non utilizzarla o, di inserire un disclaimer apposito
in
cui dichiarate i credits ♥. Anche
il
personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla
voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
1 Una sorta di
caffè.
2 Per ballare,
occorre ascoltare la
musica e sentire il tempo.
3 Come viene
raccontato nella mia
long “Tutte le tue bugie.”
4 Come nel primo
Thor.
5 Come forse
ricorderete, nel cap. 1
Sigyn porge a Loki un biglietto che viene bruciato nel caminetto.
6 Qui e altrove
vengono citate delle
frasi tratte da Avengers: Infinity War.
7 Poteva mancare
Faber?
Shilyss
|
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Capitolo 5 *** A Sigyn ***
Cap. 5
“A
Sigyn”
Sonje
increspò le labbra in una
smorfia leggera. Sua madre sarebbe rientrata solo a notte inoltrata;
una noiosa
festa da grandi l’avrebbe
trattenuta
ben oltre il tempo in cui lei e Vali sarebbero rimasti alzati. Per
tutta la
sera, sarebbe rimasta insieme a suo fratello sotto la rigida
sorveglianza di
Hilda, una delle Asinne fuggiasche che avevano lasciato Asgard quando
Thanos
l’aveva messa a ferro e a fuoco. Era una donna magra, ossuta,
dai lineamenti
duri e affilati, che solo raramente si concedeva di raccontarle
com’era il
regno dove suo padre era cresciuto. All’inizio, a onor del
vero, Hilda parlava
con un certo orgoglio di alcune delle avventure vissute da Thor e Loki.
Con un
sorriso appena accennato sulle labbra, concedeva loro qualche breve
dettaglio
della vita vivace e scapestrata dei due giovani figli di Odino prima
che
l’Hlidskjalf fosse sconvolto dall’amara
verità sulla nascita del dio degli
inganni.
Sonje e Vali non
conoscevano che per
sommi capi quella storia. Sapevano di avere sangue Jotunn nelle vene e
di
essere mezzi Asi per adozione, ma quella complessa genealogia per loro
non
aveva un grande significato. Era irrilevante, una caratteristica come
un’altra
di cui non comprendevano bene le implicazioni. Una nota di colore, come
il
fatto che gli occhi di Vali erano identici a quelli del dio degli
inganni,
mentre quelli di Sonje avevano la medesima sfumatura grigia di Sigyn.
Fatto sta
che l’ossuta Hilda che non rideva mai a un certo punto aveva
semplicemente
smesso di raccontar loro storie. Ora la donna, seria in volto, sedeva
in un
angolo della biblioteca a sonnecchiare accanto a un ricamo che non
riusciva a finire.
Li aveva trascinati lì piuttosto in fretta per qualche
oscura ragione che Sonje
non comprendeva e che Vali era troppo piccolo per poter decifrare. La
bambina
detestava tutta quella situazione: fuori pioveva – una
pioggia fitta e lugubre
che funestava Vanheim da giorni – e il palazzo era pieno di
gente straniera
venuta da chissà dove, che lei non doveva incrociare nemmeno
per sbaglio.
Mentre suo fratello era intento a colorare un tetro disegno dove un non
ben
identificato guerriero infilava la spada nel corpo di non si capiva
bene che
brutta bestia, lei, che s’annoiava, prese a dare
un’occhiata all’immensa
distesa di libri che tappezzava ogni angolo della biblioteca, sfiorando
con il
dito il dorso di pelle dei numerosi volumi. Toccò, senza
saperlo, quelli contro
cui Loki aveva spinto Sigyn per strapparle un bacio feroce e ardito, la
notte
lontana in cui l’aveva aiutata a liberare una cucciolata di
lupacchiotti.
Prese in mano, per riposarlo subito senza nemmeno aprirlo, il
noiosissimo testo
che Loki stava studiando, e che era effettivamente pieno delle sue
chiose
minuziose, il giorno remotissimo in cui il dio degli inganni si era
finalmente
accorto che la nipote di Njord era diventata una donna. Venne attratta
da un
altro libro, però. Un volume ugualmente importante e
piuttosto sottile, che osservò
aggrottando appena le sopracciglia. La copertina era in pelle, gli
angoli
appena consunti. Lo aprì distrattamente, incuriosita dal
fatto che le lettere
del titolo fossero quasi illeggibili, e trattene il fiato quando lo
sguardo le
cadde sul frontespizio. C’era una dedica, al centro della
pagina. Poche righe
vergate con una grafia assai fluida e corsiva.
A Sigyn,
Che conosce gli
incantesimi più potenti e non lo sa.
Che queste
storie possano scaldarti nelle notti fredde che verranno.
L.
Era un regalo
che suo padre aveva
fatto a sua madre. Sonje batté le palpebre, sorpresa e
incuriosita da quella
dedica asciutta eppure carica di qualcosa che lei aveva visto e non era
mai
riuscita a dimenticare. Le domestiche amavano raccontare che i suoi
genitori si
scambiavano sempre doni sontuosissimi. Gioielli, perlopiù,
fatti dai Nani o
dagli Elfi. Tiare e collane e diademi e anelli che sua madre sfoggiava
solamente nelle occasioni ufficiali. Doni importanti che andavano a
impinguare
il Tesoro di Vanheim ed erano più di rappresentanza, che di
altro. Concetti,
questi, che la bambina non era in grado di decifrare. Curiosa
com’era,
raccoglieva con gli occhi ogni informazione possibile cercando di dare
a ogni
tassello il giusto senso. Sua mamma non era una maga né
un’incantatrice: di che
cosa parlava suo padre? Lesse e rilesse quelle due semplici righe fino
a
impararle a memoria, perché captava, in esse, la magia e il
mistero che avevano
determinato la sua nascita, ma anche quel calore che era svanito per
sempre
dalla sua casa il giorno in cui suo padre aveva varcato per
l’ultima volta la
soglia di casa. A Sigyn. La dedica
aveva in sé una dolcezza e una premura rese ancora
più particolari dalla natura
stessa del dono: un semplice libro che conteneva una serie di racconti
di
Asgard che non c’era più.
Tornò verso le poltrone di pelle su cui, in un altro tempo,
suo padre aveva
trovato sua madre addormentata – lei si sarebbe svegliata per
poi offrirsi di
preparargli una tisana e lui non avrebbe né accettato
né rifiutato, ma questo
Sonje non poteva saperlo – e si sedette sfogliando le pagine
ingiallite.
“Cos’è?”
Vali, sdraiato sul tappeto,
smise di disegnare per puntare i suoi occhi verdissimi in quelli della
sorella.
“Guarda,”
lo incitò la bambina
mostrandogli orgogliosa il frontespizio, “questo è
un regalo che papà ha fatto
a mamma.”
“A
Sigyn,” lesse il bambino cercando
di decifrare la grafia adulta e corsiva di Loki, “che conosce
gli incantesimi
più potenti e non lo sa. Che significa? Mamma non
è una maga,” disse arricciando
il naso con sospetto.
Sonje non seppe
che rispondere a
quella domanda lecita che si era posta anche lei.
S’interrogò sulla metafora
che aveva utilizzato il padre e ricordò quello che il
fratellino non riusciva
più a rammentare. Anche quando la sua famiglia era unita
capitavano serate come
quella, in cui i suoi genitori rientravano a tarda sera, ma
l’aria che si
respirava in casa era diversa, più allegra. Sigyn si
adornava davanti allo
specchio dei bei gioielli che Loki le regalava e che faceva indossare
per gioco
anche a lei promettendole che, un giorno, ognuna di quelle gioie
sarebbe stata
sua, e poi Sonje l’aiutava a scegliere l’abito
giusto, quello che papà avrebbe
trovato più bello. E lui, a un certo punto,
compariva dal nulla nel vano della porta col suo sorriso perfetto e
diceva che
le principesse di Vanheim erano terribilmente vanitose, tutte. Sua
madre
rispondeva fintamente piccata e arrossiva lanciandole uno sguardo
d’intesa – lo
trovavano bellissimo entrambe – e poi andavano via insieme,
lui con le insegne
color oro e verde che gli luccicavano addosso, lei ammantata delle sete
più
preziose di Vanheim. Tornavano a sera tardi, quando lei già
dormiva, ma a volte
li sentiva rientrare – bisbigli e risate soffocate
– e correva da loro scalza e
allegra, stringendo tra le braccia l’enorme gatto di pezza
regalo di suo zio
Thor.
Mamma e papà erano di nuovo a casa, e Sonje alle volte
riusciva a sorprenderli
mentre erano labbra contro labbra, lei che gli cingeva il collo in
punta di
piedi e teneva le palpebre socchiuse, lui che la guardava sfiorandole
la
schiena o i capelli.
Adesso, invece,
tutto era diverso.
Sigyn si era preparata, quel giorno come tante altre volte, scegliendo
con cura
gli abiti e i gioielli che doveva sfoggiare, facendo ben attenzione a
che la
collana che le si infilava in mezzo al seno non mostrasse
l’anello e l’ametista
che indossava sempre.
Si era guardata allo specchio e Sonje aveva pensato che fosse molto
bella, con
quei capelli d’oro, anche se sua madre non rideva
più di fronte alla sua
immagine riflessa e non la riusciva a coinvolgere con
l’entusiasmo di prima
nella scelta degli abiti. Sonje non sapeva decifrare lo sguardo critico
che la regina
di Vanheim rivolgeva allo specchio, né comprendeva quanto
fosse difficile farsi
bella per degli uomini che l’avrebbero scrutata con finta
deferenza o con
sincera preoccupazione, ma aveva sviluppato, nei confronti di sua
madre, una
palese e feroce gelosia che la facevano assomigliare fin troppo
all’altero
genitore di cui aveva ereditato le labbra e la capigliatura corvina. Un
sentimento che era nato per un milione di motivi, primo tra tutti la
consapevolezza che la sua mamma, alle feste cui partecipava, ballava e
rideva e
scherzava con gli altri ospiti come faceva quando ancora
l’accompagnava suo
padre. Una consapevolezza che l’aveva raggiunta quando era
stata sgridata da
una delle domestiche per un capriccio, anzi, un vero e proprio dispetto
fatto
con deliberata cattiveria, di cui si era pentita solo a voce, ma che
avrebbe
rifatto altre mille volte. Aveva sentito le donne ciarlare della sera
precedente. Aveva captato il nome di sua madre ed era rimasta ad
ascoltare: le
cameriere parlavano di quant’era bello l’abito che
indossava la regina e di
quanto era sembrato a tutti che si stesse finalmente divertendo in
compagnia di
quel nobile così ammodo – era il momento che si
rifacesse una vita, del resto. Il
commento l’aveva colpita come uno schiaffo. Le aveva dato la
misura definitiva
di quanto era successo nella sua famiglia, insinuandole il sospetto
che, forse,
il suo magnifico papà non sarebbe mai più tornato
da loro.
Per chi si
faceva bella sua madre?
Perché lasciava soli lei e Vali? Se ne sarebbe andata anche
lei? Tornava da
quelle feste a volte allegra, altre con un umore nero. Allora, si
sedeva alla
toletta togliendosi con lentezza il trucco nero che le esaltava lo
sguardo,
pulendo con stizza il rosso che le tingeva le labbra e le diceva di
avere gli
occhi lucidi perché era stanca. Per placare il suo broncio
sospettoso, le dava
un bacio sulla guancia sussurrando che andava tutto bene. Mentiva,
ovviamente.
A
Sigyn. Che conosce gli incantesimi più potenti e non lo sa. Sonje lesse
rapidamente una delle
storie e si accorse di conoscerla da tempo, perché era una
fiaba molto amata;
parlava di come suo padre avesse ottenuto dai Nani e dagli Elfi doni
preziosi
da portare agli Asi – la cintura e i guanti per zio Thor su
tutti – e del modo
in cui Odino aveva evitato che i Nani, offesi dai suoi tranelli, gli
tagliassero di netto la testa.
Quando Loki ripercorreva con lei quell’evento, riusciva a
farla ridere e le
mostrava la piccola cicatrice che gli era rimasta addosso come fosse un
trofeo.
Ma ora, rileggendola, Sonje aggrottò la fronte ed ebbe
paura. Dall’alto dei
suoi dieci anni, si accorse improvvisamente che le belle avventure di
suo padre
avevano tutte un retrogusto amaro e inquietante. Stringendo il libro il
petto,
decise che avrebbe tenuto il volume con sé.
***
Loki si
guardò accuratamente attorno,
e solo quando fu sicuro che non ci fosse nessuno a spiarlo, si decise a
riprendere il suo consueto aspetto. Deglutendo, si incamminò
col suo solito
passo altero ed elegante verso i corridoi spogli
dell’ennesima dimora adibita a
quartier generale. All’inizio del suo servizio presso Thanos,
aveva provato a
mettere in salvo alcune delle reliquie appartenute ai vari popoli che
erano
stati schiacciati sotto gli stivali del Titano. Libri,
perlopiù, ma anche gioielli,
manufatti artistici, opere d’arte. Con un’ansia che
non sapeva di possedere,
aveva scoperto di amare il bello e di volerlo proteggere.
Che pena che era stata, vedere le guglie delle biblioteche bruciare, le
splendide e ricercate torri d’astronomia ridotte in macerie,
gli ingranaggi di
qualche strana macchina distrutti senza poter essere nemmeno compresi!
All’inizio della sua ritrovata carriera di tirapiedi scelto
di Thanos, Loki si
era premurato di proteggere e salvare il salvabile; quando il Titano si
era
accorto della sua mania, lo aveva apostrofato con uno sprezzo ilare e
palese,
cui l’ingannatore aveva risposto abbassando il capo e
mordendosi le labbra
quasi a sangue per non ribattere.
“Siete
un popolo di ladri e
saccheggiatori, voialtri asgardiani,” aveva detto,
“ce l’avete nel sangue.”
Forse era vero.
Magari c’era
realmente una cupidigia instillata fin da piccoli e assimilata assieme
al latte
materno, negli Asi che, da popolo potente e invincibile, si era
trasformato in
un manipolo di profughi reietti, ma il dio degli inganni non
riuscì soffocare
un moto d’orgoglio per l’attrazione smodata che la
gente con cui era cresciuto
– la sua gente
– nutriva per i tesori
e per le reliquie e per tutto ciò che di strano e complicato
c’era nel mondo e
nell’universo. Di fronte alle beffe del Titano capace solo di
inseguire il suo
folle piano, Loki si era sentito come il re che non era mai stato e il
petto
gli si era caricato d’orgoglio. Il suo padrone avrebbe potuto
dimezzare la
popolazione e schioccare le dita quante volte voleva: sarebbe sempre
rimasto
una creatura gretta e ottusa, incapace di capire e comprendere la vera
bellezza
dei suoi domini. L’ignoranza lo avrebbe relegato in una
dimensione di
subalternità rispetto a lui, dio degli inganni e principe di
Asgard, legittimo
erede al trono di Jotunheim e figlio di Odino.
Da allora, tuttavia, aveva smesso di accumulare tesori e salvare opere
d’arte.
Esporsi sarebbe stato troppo rischioso. Si limitava, quando poteva, a
sfiorare
con la punta delle dita gli splendidi manufatti prima che fossero
irrimediabilmente distrutti. Solo così, si diceva, un giorno
qualcuno avrebbe
ripreso a creare. Un prezzo altissimo che, inevitabilmente, avrebbe
dovuto
essere pagato. Le sontuose porte delle stanze del Titano si aprirono, e
subito
fu apostrofato dal suo occupante, visibilmente scocciato.
“Loki
Laufeyson, razza d’intrigante, che
fine hai fatto?”
L’Ase
non riuscì a puntare lo sguardo
a terra come avrebbe dovuto. Non ce la faceva mai del tutto.
“Perlustravo le
zone attorno al quartier generale, nobile Thanos.” Mio signore sarebbe risultato un
appellativo decisamente più
opportuno, ma la deferenza con cui gli riuscì di pronunciare
quel nobile parve placare
l’alieno. Lo vide
piegare la testa calva e lucida in un breve cenno d’assenso.
“E che
mi dici delle notizie
sull’ultima gemma?”
“False.”
Loki rispose sicuro, alzando
il mento fino a incontrare gli occhi color ametista del mostro.
“Totalmente
false. Un possibile depistaggio,” insinuò con il
principio di un sorriso furbo.
“Chi
oserebbe?”
“Chi
non ha niente da perdere,
signore.” Deglutì, intimamente soddisfatto per il
pronome possessivo che era
fortunosamente riuscito a evitare ancora una volta, e che solo
pronunciare
faceva male come un coltello infilzato nella carne.
Il Titano
strinse le palpebre fino a
ridurle a due fessure sottili. “Voglio le loro teste su una
picca,” replicò distante.
L’ingannatore si affrettò a porgere un inchino
breve e deciso, e quello
proseguì impassibile. “E la pietra vera
dov’è?”
Eccola, la sola,
unica e vera ragione
per cui il dio degli inganni respirava ancora e non era un cadavere
gettato in
una fossa comune col collo spezzato: la sua abilità di mago
che gli aveva fatto
intercettare una a una le varie gemme. Era davvero incalcolabile il
numero di
massacri che il Titano aveva compiuto per recuperarle; il dio degli
inganni,
che pure era nato per essere re e per guidare eserciti feroci, sentiva
di avere
le mani lorde del sangue degli innocenti. Gli Asi erano sempre stati un
popolo
di guerrieri spietati, cui combattere piaceva in una maniera viscerale
e
morbosa, ma le loro battaglie e le successive razzie cui si
abbandonavano
avendo poi la premura di chiamarle con altri nomi, avevano un limite.
Odino e
Bor prima di lui non avevano mai avuto l’intenzione di
cancellare per sempre
popoli e tradizioni. Mancava loro la sistematicità
che, invece, caratterizzava il modo di agire delle truppe di Thanos. Al
contrario degli Asi, il suo nuovo, tremendo signore aveva un solo,
irragionevole scopo, e non dava né peso né valore
alle vite che spezzava. Il
suo obiettivo era trovare le Gemme dell’Infinito e portare un
presunto ordine
nell’universo distruggendo tutto ciò che gli si
parava davanti, senza
distinzioni né eccezioni. Mentre rientrava nella sua tenda o
in qualche base
fatiscente resa appena più gradevole per gli ufficiali e i
generali, con gli
stivali ancora inzaccherati dal sangue e dal fango, Loki si era
ritrovato più
volte a domandarsi se il prezzo che stava pagando in vista di una
futura quanto
sfocata vendetta non fosse troppo alto. Fino a dove e a che punto
sarebbe
riuscito a liberarsi dal peso delle inutili atrocità
commesse e a raccontarsi
la bugia che aveva ucciso e sterminato seguendo un criterio disgustoso,
sì, ma solo
e unicamente per creare il più in fretta possibile le
condizioni necessarie per
liberarsi di Thanos.
“Quella
vera, mio signore,” annunciò,
e stavolta lo sentì in tutta la sua interezza, il peso grave
e opprimente di
quel possessivo che gli era uscito dalle labbra.
“L’hanno nascosta davvero
molto bene per non farcela trovare,” proseguì,
“l’hanno occultata alla vista
con incantesimi potenti, ma io l’ho trovata lo stesso, ho
intercettato anche
questa.” Increspò l’angolo esterno
delle labbra verso l’alto sforzandosi di sfoggiare il sorriso
soddisfatto del
tirapiedi zelante la cui parte era costretto a recitare, lui, che era
nato per
essere re.
Il Titano lo
soppesò per un momento
troppo lungo, quasi volesse valutare quanto fosse affidabile e sicuro.
“Organizzerai la spedizione di recupero,
Ingannatore,” ordinò infine senza
entusiasmo. “So che hai passato del tempo con tua moglie,
ultimamente.”
Del
tempo.
Loki sentì l’adrenalina scorrergli nelle vene, si
sforzò di mascherare ogni
traccia di sorpresa, stupore, terrore. Del tempo. Una sera sola non
è “del tempo”.
Sono ore rubate al Fato
filato dalle Norne, minuti spesi a ricordarsi com’era la vita
prima di diventare
uno schiavo. Ricoperto di mostrine e con le insegne lucide, certo, ma
pur
sempre un subalterno, un servitore che potrebbe essere rimpiazzato in
ogni
istante. Si sforzò di utilizzare un tono di voce mellifluo e
distante. Chissà
chi era, l’intrigante ficcanaso bastardo che si era
preoccupato di spargere la
voce di quella notte in cui lui si era soffermato nella stanza per gli
ospiti
allestita per la regina di Vanheim fino all’alba. Forse uno
dei commensali
impomatati che li aveva visti lanciarsi occhiate troppo lunghe e
intense? Oppure
la spia era l’attendente che, per un momento, aveva guardato
la porta chiusa
oltre le sue spalle dove sapeva esserci Sigyn? Non
voglio rubare tempo alla vostra udienza privata con la regina,
si era azzardato a dire, e Loki non lo aveva corretto né
redarguito perché
aveva nelle narici l’odore di lei e la desiderava e voleva
ribadire il suo
possesso, la conquista dai capelli d’oro che stava per cadere
di nuovo tra le
sue braccia.
“Il
prezzo di una firma,” spiegò
asciutto, ma il sangue Jotunn gli ribollì nelle vene, al
pensiero di dover dare
spiegazioni a qualcuno circa il suo operato – peggio, tra le
lenzuola.
Thanos
annuì appena. “Ti ha dato dei
figli. Anche un maschio, mi pare.”
“Un
bambino di pochi anni,” minimizzò
Loki scrollando le spalle.
“Ci
occuperemo anche di lui.”
“È
presto, mio signore. È davvero
presto.” Il dio degli inganni
puntò lo sguardo chiaro e quasi trasparente sul Titano,
dimenticando
improvvisamente i suoi orgogliosi tentativi per non piegarsi
definitivamente di
fronte a lui – non più di quanto avesse
già fatto, ad ogni modo.
Quello gli
rivolse un’occhiata in
tralice. “Voialtri asgardiani succhiate il latte materno con
le armi già in
mano. Anzi, succhiavate,”
puntualizzò
con una nota di disprezzo, rievocando la città degli Asi
distrutta. “Vuoi che
per il tuo piccolo erede sia diverso, Loki?”
“So
bene qual era la regola, ad
Asgard. Non appena sarà il momento, andrò di
persona a Vanheim affinché faccia
quello che deve: diventare un tuo soldato, nobile Thanos.”
La voce di Loki
risuonò sicura e
decisa come lo sguardo fiero e determinato che rivolse al Titano, anzi:
c’era,
nel suo tono, l’ombra di un lieve compiacimento, come se
l’idea che il più
giovane dei suoi figli potesse presto vestire le insegne blu e rosse di
Thanos
fosse un vanto. Era una menzogna atroce, ovviamente, una delle
più false che
gli era mai uscita dalle labbra. Il solo pensiero di ficcare il figlio
in una
delle orrende accademie militari da cui sarebbe uscito solo per
arruolarsi
nelle fila del Titano rappresentava un incubo atroce che quasi non
aveva
corrispettivi. Era vero, gli Asi iniziavano a combattere più
o meno all’età di
Vali, ma la loro innocenza veniva tutelata e preservata il
più possibile
dall’occhio vigile di maestri selezionati con cura. Il dio
degli scherzi e
degli inganni aveva visto molte cose, nella sua vita, forse persino
troppe.
Conosceva bene il cuore degli uomini e le ombre che, talvolta, lo
divoravano,
ed era proprio grazie alla sua acuta e appuntita capacità di
analisi che, dopo
tante battaglie, era ancora vivo. Il pensiero doloroso che gli era
balenato in
testa la notte infinitamente lunga in cui Sonje era nata –
che lui non dovesse
avere una progenie di nessun tipo perché aveva troppi nemici
– si affacciò di
nuovo nella sua mente insinuandosi come una scheggia.
Suo figlio era
un bambino di pochi
anni che a malapena lo ricordava, un principino molto amato del tutto
incapace
di sopravvivere alla schiavitù e ai soprusi cui i ragazzini
venivano sottoposti
una volta inquadrati nelle file di Thanos. Circondato com’era
sempre stato
dall’affetto e dal tepore della calda e luminosa Vanheim,
Vali non aveva i
mezzi e gli strumenti per resistere nemmeno un giorno in mezzo al fango
e alla
fame e non perché ritenesse che il suo erede fosse
invariabilmente debole, ma
per una delle sue constatazioni precise quanto amare: al Titano non
interessava
affatto addestrare un nuovo futuro generale. Lo schiocco, se ci fosse
stato,
sarebbe avvenuto molto prima e dopo, con tutta probabilità,
non ci sarebbe
stata alcuna necessità di avere un esercito. No, Thanos
voleva semplicemente
controllare maggiormente lui, Loki, di cui, a ragione, non si era mai
fidato
del tutto. Desiderava testare la sua devozione e, perché no,
anche torturarlo con
il peso della conoscenza.
Il figlio maschio del dio degli inganni, per quanto
fosse nient’altro che un bambino, era una pedina importante
nello scacchiere
politico dei Nove Regni anche se non sarebbe mai diventato re di
niente, esattamente
come lui. Avrebbe, invece, raccolto il peso delle molte malefatte che
Loki
stesso aveva compiuto, pagando sulla propria pelle per atti di cui non
era
responsabile. Che vendetta facile e squisita sarebbe stata, per i suoi
nemici,
quella che avrebbe avuto per oggetto Vali! Anche i più
insignificanti e luridi
tra quanti lo volevano vedere morto, coloro che Loki avrebbe potuto
schiacciare
senza problemi sotto le suole dei suoi alti stivali in qualsiasi
momento,
avrebbero finalmente avuto l’occasione per fargliela pagare
nel più atroce dei
modi. Un ricordo sepolto nel tempo tornò improvvisamente a
galla, uno di quelli
che non si concedeva mai di ricordare: Vali aveva mosso i primi passi
sotto il
suo sguardo orgoglioso, fierissimo. Lo aveva raggiunto barcollando sul
tappeto
del salotto, le braccine tese nel tentativo di afferrarlo, e il dio
dell’inganno si era ritrovato a stupirsi per quella conquista
semplice eppure
eccezionale.
Deglutendo, si
chiese se Odino avesse
provato lo stesso vuoto nel petto, la prima volta che li aveva visti
nelle file
dell’esercito di Asgard. La sua mente svelta e aguzza
arrivò anche a sfiorare
il pensiero di Laufey e del suo sguardo scarlatto, ma
accantonò immediatamente
quel pensiero a favore di un altro, ben più terribile. Sigyn. S’immaginò
nell’atto di eseguire la promessa che aveva
appena fatto a Thanos e di portarglielo via. Pensò alle
lacrime che lei avrebbe
versato, allo sguardo tremendo che gli avrebbe rivolto. Poteva
sopportare la
sua lontananza, ma quella di suo figlio no, non ne era in grado.
“Ancora
pochi mesi e sarà pronto,”
concesse modulando accortamente la voce. “Non è
opportuno accelerare i tempi. Come
con la Gemma, dobbiamo essere cauti, per ottenere il migliore risultato
possibile.”
L’allusione
tetra e forse troppo
rivelatoria chiuse finalmente il pesante dialogo. Thanos finse di
credere alle
sue parole bugiarde e di condividere la posizione che aveva espresso;
gli
affibbiò altri compiti scomodi riguardanti il recupero
dell’ultima reliquia e
poi, finalmente, si decise a lasciarlo andare.
Allontanandosi
dalle stanze del
tiranno, Loki non riuscì a trattenere un sospiro grave e
basso, a malapena
soffocato dal rumore secco dei suoi stivali sulla pietra del corridoio.
Si
chiese a che punto fosse Thor con l’organizzazione del loro
piano. Increspando
le labbra in una smorfia infastidita, ripassò per
l’ennesima volta il piano
precisissimo che aveva ideato il giorno in cui Asgard si era
trasformata in un
mucchio di cenere e rovine, che si era dato la pena di limare e
perfezionare
ogni giorno per anni – che continuava ad aggiustare persino
in quel momento,
perché ogni dettaglio doveva essere perfetto. Anche se il
tempo a sua
disposizione era spaventosamente poco e la speranza di sopravvivere
scarsa, lui
e Thor avrebbero messo a segno la loro vendetta: presto, sarebbe stata
la testa
calva di Thanos ad essere infilata su una picca. Ecco quanto poteva
essere
spaventosa la rappresaglia degli Asi. Di fronte a quel pensiero forse
troppo
intriso di speranza, Loki stirò le labbra in un ghigno
feroce.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Voglio
ringraziare
tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa
storia.
Grazie davvero, ogni riga è per voi ♥ Per quelli
che non lo hanno fatto, vi
ricordo che su Efp è possibile utilizzare delle liste:
usatele, non vi costa
niente e farete un Autore felice! ^^
Vi avevo
promesso un
capitolo a stretto giro e, avete visto? Voi avete nutrito la Fatina
(grazie ♥)
e io ho avuto una botta d’ispirazione unica (merito del fatto
che sto
metabolizzando pian piano l’Infinity War). Allora, purtroppo
che Vali debba
espiare per le colpe del padre è canone nel mito. Ci sono
dei riferimenti
riguardo a ciò che potrebbe capitare al bambino se fosse
strappato alla madre.
Il rating di questa storia è arancione e lo
rimarrà: pertanto, non leggerete
nulla di più sconvolgente a delle allusioni come quelle di
oggi. Non è affatto
detto che io sia così crudele con Vali come nel mito,
però trovo giusto partire
dalle medesime basi. La connotazione un po’ alla Seconda
Guerra Mondiale di Thanos
sono un mio canone che spero
possiate gradire.
La Fatina
dell’Ispirazione necessita sempre delle vostre cure per poter
spandere i suoi
glitter! Per ulteriori info e un po’ di
divertimento… c’è la mia pagina
facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Vanheim e l’Impero di Thanos così
come QUI sono intesi e
descritti, con questo ordinamento
sociale, politico e culturale sono una mia
idea: vi pregherei di non utilizzarla o, di inserire un disclaimer
apposito
in cui dichiarate i credits ♥. Anche
il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate
alla
voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
Vostra,
Shilyss
|
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