Raccolta di memorie di dieci anni di fallimenti

di Sarane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi siedo e parlo ***
Capitolo 2: *** Heroes ***
Capitolo 3: *** 9-02-2016 ***
Capitolo 4: *** Quando ero bambina ***
Capitolo 5: *** 22-08-15 ***
Capitolo 6: *** 23-07-2017 ***
Capitolo 7: *** 25-03-20 una risposta tardiva ***



Capitolo 1
*** Mi siedo e parlo ***


 



I rituali sono inevitabili.
Per quanto uno si sforzi di lottare contro la routine, ci sono cose che ripetiamo ancora e ancora, che addirittura ci piacciono proprio per la loro rassicurante banalità.
Il lunedì è diventato un rituale.
Mi faccio la mia ora di chiacchierata abituale, ormai statica e perfettamente incasellata in un contesto di prevedibile monotonia, e dopo sono libera.
Mi siedo e parlo.
Sembra che parlare sia la soluzione a tutto, che l’unico modo che mi resti per spezzare la mia stagnante apatia sia parlarne ancora e ancora, fino alla nausea.
E allora ci provo, ogni settimana, sempre alla stessa ora.
Mi sembra di compiere un rituale che più il tempo scorre più perde importanza.
All’inizio, avevo un brivido.
L’ebrezza di un nuovo confronto, di qualcosa di rivelatorio, forse. Ma penso di averci riposto troppe speranze.
La prima cosa che quell’uomo mi ha detto, è stata che non sarebbe stato semplice.
“Sei molto intelligente, le persone come te sono difficili da guidare”
Cazzate.
Semplicemente, aveva già capito che non c’era verso, ma non me lo voleva dire, così avrebbe potuto continuare a vampirizzarmi. Mi stava bene, ho deciso di permetterlo, onestamente non mi cambia nulla.
Il problema, ad oggi, è che la distanza cresce invece che diminuire, il mio interesse si perde, fatico a restare concentrata, mi distraggo, perdo il filo. E mi annoio ad ascoltare.
Ho memorizzato ogni libro nello studio, ama l’arte.
Talvolta ne parliamo, più di qualche volta. Di musica, di arte, dei suoi quadri, dei miei lavori, dello scrivere.
Gli faccio domande, lo faccio parlare, mi faccio raccontare del suo volontariato, della beneficienza, delle sue vecchie esperienze lavorative, delle sue figlie, di come si è avvicinato alla pittura.
Commentiamo i suoi quadri.
Gli parlo di me ovviamente.
Ma lo faccio parlare tanto anche di lui.
Ci sono dei momenti in cui se ne accorge, mi dice che con me è facile divagare, non si rende conto di come siamo arrivati a sfiorare certi argomenti, la sua adolescenza, suo fratello, quando era giovane e i libri che gli piacevano da bambino.
Quando mi arrabbio gliela rendo difficile, lo provoco.
Mi piace sottolineare un suo limite, sorridergli e chiedergli come lo fa sentire.
Non me ne frega niente
Beh frega a me, questo limite ti rende incapace di aiutarmi come si deve
Non lo penso, è una brava persona, è in gamba nel suo lavoro.
Sono io che non sono onesta. Mi dice cose che già so, che ho già rielaborato, ma fingo sempre di cadere dalle nuvole, di non aver mai contemplato certe possibilità, certe ovvietà.
Anni di abitudine a fingermi più ingenua di quanto non sia, a ridimensionarmi costantemente, per non far sentire nessuno in difetto. Sono troppo abituata a sembrare più stupida, fin troppo sotto il livello della media, tanto che anche io a volte mi osservo, come da fuori, e mi domando se davvero io non mi sia trasformata nella mente assente che interpreto ogni giorno.
Mi riecheggia sempre la voce di mio padre in testa.
Non far pesare niente a nessuno, adeguati.
Non alzare il livello, mantieniti sempre sugli standard della persona che ti ritrovi davanti, niente di più e niente di meno.
Non c’è gloria nell’umiliare il prossimo, nel non farlo sentire all’altezza.
Le persone scambiano la cultura per intelligenza e si sentono svilite.
Così, finisco ogni santa volta a dire che non ci avevo pensato, che certi meccanismi sono inconcepibili per me, troppo complessi. Quando voglio che noti qualcosa, ma non voglio ammettere di averci riflettuto consciamente, uso una terza persona.
La mia migliore amica parlando mi ha fatto notare che….
E infilo le mie riflessioni nella bocca di qualcun altro.
È più semplice.
La tua amica è in gamba, ha mai pensato di fare la psicologa?
No, non è così intuitiva con tutti, le riesce solo con me.
Che ridere.
Mi diverto con poco. Ultimamente però, mi sto estraniando, sto pensando di non andarci più, lui mi ha detto che se compio una simile scelta devo motivargliela.
Non so come motivarla.
Sento solo che sbattiamo contro lo stesso muro ancora e ancora e, se almeno prima mi divertivo, se almeno prima avevo un confronto, ora provo solo noia. Smettere di andare da lui sarebbe un po’ come cambiare i Testimoni di Geova del martedì quando diventano monotoni e incapaci di argomentare, quando le loro ragioni si arrampicano su pareti troppo lisce che li fanno capitombolare a terra.
Era il nostro gioco, mio e di mio padre, dibattere con i testimoni di Geova, tormentarli, e poi confrontare tra di noi le risposte che avevamo dato e ridere da vere carogne.
Lui non è noioso.
È simpatico, cerca di tenermi sveglia con l’ironia, ha capito come sono. E allora, metà della seduta si consuma in frecciatine e battute ironiche.
Ti ho intravista, ma mi mostri solo il tuo lato più spensierato.
Le persone hanno la tendenza a fare le dure, mostrano la loro scorza per difendersi e dentro poi sono cuoricini di panna dalla fragilità imbarazzante. Il mio è l’opposto problema, sembro una spumiglia, una torta glassata, ma sotto il primo strato c’è solo cemento contro cui spaccarsi i denti.
Ci sto facendo i conti.
Qualcuno che ho particolarmente amato mi ha detto che io distruggo chiunque mi sia troppo vicino.
Ha detto che distruggevo anche lui, ma che in fondo tante cose fanno male e quindi tanto valeva farsi demolire da me.
Forse sono solo questo, una sorta di cancrena.
La mia migliore amica mi ha rivolto le stesse parole, dice che va bene, che è il giusto prezzo per essermi amica. Non so confortarla e la faccio più piangere che altro, e lei dice che va bene.
Non so dosare le parole, ma vorrei saperlo fare.
Ieri, frugando in una pila di fogli accumulati con la tenacia di un’accaparratrice seriale, mi sono imbattuta in una serie di riflessioni sparse, alcune così datate da farmi quasi tenerezza, per la tragicità intrinseca della mia adolescenza. Tanto ora mi sono scarnificata quanto allora ero prolissa.
Li ho messi un po’ in ordine, stimando la datazione dalle mie memorie, per quanto mi sia possibile visto i contenuti vaghi, e ho pensato che forse riguardare il resoconto degli ultimi dieci anni della mia vita, le impressioni più oneste gettate su carta senza uno scopo, le riflessioni, le sciocchezze infantili, potrebbe aiutarmi a tirare le fila del mio essere momentaneo.
Riguardare ogni mio appunto per ritrovare un senso.
Magari ritrovare anche un dialogo in queste sedute di nulla, dove mi smarrisco in intrecci di linee nere e mi disegno le mani, come i bambini, inseguendo pensieri che a voce non so esprimere.
E, se non dovesse funzionare, partirò di nuovo, come ogni volta che la vita mi va stretta e non trovo una soluzione.
In teoria, vado cercando i nodi nevralgici della mia patetica e inconcludente esistenza, più concretamente mi sembra di aprire un vaso di Pandora per liberare mali che, a volte, sarebbe meglio tenere sopiti. Mi basta sperare che sotto tutta la melma che voglio smuovere esista anche solo per errore una risposta ad una domanda che in realtà nemmeno ho ancora formulato, ma che dovrebbe avere almeno il sentore di una verità, finalmente.
 

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Capitolo 2
*** Heroes ***


 

A notte fonda le cose hanno un odore diverso.

Fa freddo e resto immobile, seduta al posto di guida, ascoltando vecchi brani rock e fingendo di contemplare un’esistenza che è sfatta in partenza.

Domani è lunedì, ho scuola, sono le tre del mattino, il vetro è appannato e non posso fare altro che restare in un parcheggio in attesa dell’alba.

È sempre stata questa la mia vita fino ad ora, un’estenuante ed eterna attesa di qualcosa che mi piombi giù dal cielo. Ho aperto la portiera, mi sono sporta fuori, ho deciso che forse avrei potuto fare due passi. Il viale alberato davanti alla fila di appartamenti era deserto ed ero l’unica figura che si muoveva nel silenzio, pozze di luce porosa provenienti dai lampioni rischiaravano ad intermittenza l’asfalto sotto i miei piedi.

I miei zii dormono, non posso entrare così tardi, non posso svegliarli. Si alzano presto la mattina, lavorano tutto il giorno e la mia cuginetta è troppo piccola per stare dietro ai miei ritmi. E allora ogni mio fine settimana si ripete medesimo: esco, cerco le mie amiche, stiamo insieme fino a notte fonda e, quando poi ci dividiamo, dormo in macchina.

Sono stanca e le occhiaie marcano il mio viso.

È strano, in realtà sono sempre stata una ragazza tranquilla. In momenti così penso che vorrei fumare o avere una bottiglia di vodka tra le mani, per giocare un poco a fare la bohemien forse, a fare l’artista bistrattata, la ragazza problematica distrutta e consumata dalle esperienze.

Invece sono solo una povera sfigata che ciclicamente la madre, per insofferenza, butta fuori casa. Niente di trascendentale, i parenti mi ci passano come fossi un pacco postale di poco conto, ogni volta mi sposto di casa in casa aspettando di poter rimettere piede nella mia.

Ho una borsa in macchina, quel catorcio di Punto datato un ventennio che è stato il mio regalo per i diciotto anni da parte della nonna – santa donna. In quella borsa ci tengo un cambio, la porto a scuola con me. Le prime volte ero in imbarazzo. Forse a diciotto anni è facile sentirsi in imbarazzo, ma pensavo di aver perso una certa patina di pudore nella mia adolescenza.

Il pudore non è mai stato un mio punto forte.

Troppe esperienze paradossali e umilianti, perché possa essere scalfita.

Eppure, davanti alla mia non esistenza, alla negazione del mio essere da parte della mia progenitrice, ho provato una sorta di strano pudore, una vergogna non dissimile dal trovarmi nuda in una stanza piena di estranei. Che ironia, pensare questo mentre aspetto, seduta su una stupida panchina di legno umido, in un parco di un paese che nemmeno è il mio, con cui ho poca confidenza ed anche un poco di paura.

Quelle paure primordiali quasi inspiegate, di quando sei consapevole che non c’è pericolo ma non puoi impedirti di guardarti attorno ad ogni minimo rumore.

Ora non provo più vergogna.

In fondo, della classe in cui mi trovo ora non conosco veramente bene quasi nessuno. La frequento da mesi e sono comunque riuscita a dimenticare o nomi o cognomi. Mi odiano, e li capisco. Nutro per loro una tale indifferenza, che se non provassero per me un rancore radicato penserei davvero di essere finita in un gruppo di volontariato per i bambini che muoiono di fame.

Per le persone non ci sono tagliata, so guardare solo le nuvole di condensa che escono dalla mia bocca, so pensare solo che la vita fa schifo, che il peggio non l’ho ancora passato, che sono solo le quattro e ho troppo tempo davanti a me, troppi giorni, troppi anni, troppo disinteresse e troppo distacco dalla vita. Penso solo che dovrei imparare a fumare e a bere, a fregarmene di più ma in modo più distruttivo, per finire tutto.

Me lo chiedo spesso, cosa può esserne di una persona come me.

Qualcuno senza origine non ha un luogo a cui fare ritorno, e avere genitori non significa necessariamente avere origini. Mio padre mi ha tenuta con sé per un po’, poi ho capito che era troppo.

Casa sua mi piaceva, mi ricordava quegli appartamenti nei villaggi al mare. Forse era il rumore del fiume lì accanto, che potevo ammirare affacciandomi al balcone, i lampioni rotondi avvolti dai rampicanti, i sentierini che collegavano le varie strutture.

Forse era che la portafinestra della mia camera dava sul balcone interno, le tende si muovevano quando la tenevo aperta e c’era il profumo di fiori del deodorante per ambienti che avevo comprato. Non avevo l’armadio, solo le due valigie aperte sul pavimento, un tavolo piccolo e due sedie su cui impilavo i miei libri, e il letto di legno conservato da quando ero bambina.

A volte sento nostalgia di quella casa. Mi ha ospitato per poco, ma è stato bello.

Quando mio padre ha deciso che ci serviva un armadio ho capito che era il momento di spostarmi, che non ce la faceva ad avermi lì.

L’ho capito dai dettagli, dalle sue abitudini.

Dall’imbarazzo impacciato delle sue scelte.

La sera, mi veniva da piangere a stare lì dentro, un magone di straniamento. Succede spesso, quando mi trovo a girovagare, di provare simili momenti di sconforto. Non durano a lungo, ma bastano per ricordarmi che non ho radici.

 Quando mia zia mi ha trovato fuori dal cancello, con le borse nel baule e l’aria di un randagio, e mi ha accolto con il calore di sempre, come se aspettasse solo di potermi tenere lì con loro, ho provato ancora quel senso di malessere.

Avrei dovuto ascoltarla anni prima, quando a quindici anni per la prima volta mi sono ritrovata con uno zaino in spalla e lo smarrimento di un rifiuto. Avrei dovuto ascoltarla, forse avrei dovuto permetterle di portarmi via da mia madre.

Mancava poco alla mia maggiore età, ed io pensavo andasse bene, pensavo che alla fine non mancava molto allo scadere del tempo. Non volevo dare un dolore a mio padre.

In fondo non volevo darlo nemmeno a mia madre.

Ho sempre avuto rabbia per loro, e frustrazione per quell’incapacità di avere cura di qualcuno al di fuori di loro stessi, eppure una parte di me è sempre stata certa che se li avessi respinti con la stessa intensità con cui loro respingevano me, li avrei uccisi.

Per questo ora è facile stare qui, con il riscaldamento della macchina acceso, a ripercorrere come ogni sabato e ogni domenica iniziata male e finita peggio la patetica storia del mio esistere.

Ho fatto un giro, mi piace guidare con il buio.

Le strade sono vuote, l’orizzonte sempre malinconico.

Mi tranquillizza.

Ho la patente da poco, non sono ancora spavalda e disinvolta alla luce del giorno, temo le altre macchine, gli incroci, le partenze. A volte sbaglio marcia e la macchina mi si spegne, se sono nervosa, e di giorno agli incroci mi capita.

Di notte è tutto più semplice.

Nel paese accanto c’è una stazione ferroviaria, il cavalcavia passa sopra ad un fiume, ci sono le cascate, piccole, che rendono l’acqua nervosa e turbolenta. Ho parcheggiato lì vicino, mi sono seduta a sentire il rumore dell’acqua che scorre.

Non posso vederla, ma scroscia forte.

Come essere seduta sulla portafinestra della casa di mio padre.

Come le lunghe passeggiate con la mia migliore amica vicino alla casa di mia madre.

 C’è sempre un fiume, da qualche parte, a delimitare il confine dei miei mondi. Ho acceso la radio e ascolto Heroes, e penso a “I ragazzi dello zoo di Berlino. Non so perché, non c’è molta attinenza.

Vengo trattata come un caso umano da che ricordo ed ora ho imparato che, per essere uno di quei soggetti disadattati che la gente guarda storto, non bisogna fare chissà cosa. Non devo per forza devastarmi, mi basta leggere. Persino il mio modo di leggere basta, seguire i miei ritmi è più che sufficiente.

Ho ritmi diversi dal resto del mondo, vivo le ore sbagliate della vita.

Domani, in classe, mi addormenterò.

Sembrerà che abbia fatto chissà cosa, ed invece ho aspettato semplicemente l’alba, con Heroes nelle orecchie a convincermi che posso vincere tutto, anche solo per un momento.

Che questa notte è mia, e fanculo ne avrò altre decine così, altre decine di momenti fuori dai ritmi normali, momenti miei, dove posso sconfiggere chiunque.

Credo mi stia bene, la musica stempera, la canto, più forte, non m’importa.

Solo per un giorno.

Notti come questa avranno un senso magari, le riguarderò e non avranno amarezza, mi resterà il fascino del trasgressivo, quando sarò più grande. E almeno mi vedrò come un’eroina che, anche solo per un giorno, è in grado di sconfiggere la solitudine della vita.

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Capitolo 3
*** 9-02-2016 ***


Se ripenso alla mia infanzia, non posso dire sia stata infelice. Fino a poco tempo fa non conoscevo la sfumatura dell’infelicità, non avevo mai conosciuto nessuno che fosse stato felice, non per davvero, e quella realtà semplicemente mi sfuggiva.

A riguardare come diapositive i miei ricordi, adesso, provo solo una profonda angustia, forse perfino immotivata, attribuisco e chiamo per nome un’emozione che nella mia innocenza ignoravo serenamente. Crescere è sempre stata una fregatura per me, non sono mai stata idonea a diventare veramente adulta, solo il tempo mi ha reso atroci e insostenibili pesi che non sapevo nemmeno di portare, solo la consapevolezza dell’essere adulti, dell’imparare come le cose dovrebbero essere per davvero.

I primi dolori ti si rovesciano addosso che ancora non sei niente e quanto riesci a percepirli e a non subirli segna la linea sul tipo di persona che riuscirai o meno a diventare, ho sempre pensato questo.

Col senno di poi, non li ho mai gestiti veramente bene, ma non mi sembrava, mi sembrava di essere un muro, di essere invincibile, di avere le risposte in mano e quando non erano vere mi costringevo a trasformarle in realtà.

Non sono mai stata troppo ragionevole o clemente, soprattutto con me stessa, e ho sempre cercato di assecondarmi per proteggermi, questa è la mia più grande colpa verso di me. Mi sono guardata troppo le spalle e, ironicamente, tutto questo difendermi dal mondo mi ha lasciato sguarnita e fragile.

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Capitolo 4
*** Quando ero bambina ***


 

Quando ero bambina essere forte era più semplice. Parlare di debolezze, contemplarne l’esistenza, mi era impossibile. ho sempre avuto un problema che con il tempo si è acuito invece di scemare, non sono mai riuscita ad accettare la pietà.

Mi ha sempre ferito vederla negli occhi degli altri, leggervi la compassione mi faceva sentire come una lebbrosa. Mentirei se dicessi di non aver mai desiderato, mai nemmeno una volta, delle attenzioni, avrei voluto qualcuno in grado di guardare ai miei problemi, avrei voluto poter rispondere con l’onestà che doveva competere alla mia età più tenera quando mi veniva chiesto come stessi, ho sempre avuto un disperato bisogno di comprensione nella mia vita e di affetto.

Ma essere forte, anche solo per finta, per principio, ha prevalso ogni volta su qualunque malessere.

Alcune fissazioni sono destinate a procrastinarsi nel tempo lentamente, è stato inevitabile per me non riuscire più a mostrare il male che mi porto dentro. A volte lo sento affiorare in superficie, mi arrabbio con me stessa, sembro uno stereotipo di persona complessata che cerca di fare la dura, ma poi un poco spero che si noti. Non si nota mai invece, quel riaffiorare è sempre troppo blando per apparire dolore, è così compresso, così premuto a fondo da qualche parte nel mio stomaco che, più facilmente, trasborda solo in eccessi di collera mal gestiti e umorismo nero di pessimo gusto.

Non riesco a ritrovarmi in questo, non per davvero, non riesco a ritrovarmi più e basta.                   

In un momento indefinito della mi esistenza so solo di essermi persa, di aver deciso con tanta decisione come avrei dovuto essere da aver dimenticato come sono. Ho investito troppe forze in questa immagine di me che mi rendesse orgogliosa, eppure a pari merito con l’orgoglio zoppica un malessere costante, una repressione forse, una sensazione d’incompletezza e insoddisfazione.

Se da un lato mi sembra di aver sviluppato una resistenza incredibile, perfino troppo rigida, dall’altro sono fin troppo brava a farmi scivolare la realtà tra le dita, le cose, gli obiettivi, le persone, che mi sembra sempre più facile lasciar perdere tutto ma lasciar perdere tutto mi fa male in un modo che non avevo mai considerato, è come incidermi l’anima lasciarmi fallire e lasciarmi trasportare dalla corrente, per avvilupparmi in un sollievo momentaneo affondo da sola la lama.

L’oblio è ciò che mi resta, dimentico senza dimenticare, è la mia condanna riuscire ad archiviare ogni cosa, sono sopravvissuta archiviando la mia vita e la mia vita è un archivio di ricordi che, quando viene aperto, mi soffoca di una collera profonda, per tutto ciò che fingo costantemente non ci sia mai stato.

Non dimentico davvero, fingo di dimenticare per essere serena o per fingere di esserlo. Il problema è che, a tratti, lo divento davvero, come una mente svuotata che continua a cercare di svuotarsi, che appena tappo il buco e impedisco ai pensieri di fuggire per poterli contemplare, sono sopraffatta dall’insoddisfazione di un essere mediocre e triste.

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Capitolo 5
*** 22-08-15 ***


 

22-08-15

 

Avevamo grandi progetti.

Ne abbiamo sempre avuti, forse è così che funziona, è da qui che si snoda ogni vita, da progetti falliti, futili e dimenticati. La nostra amicizia è stata il più grande fallimento, ma se ce lo avessero detto anni fa, o anche solo l’altro giorno, non lo avrei creduto possibile.

Invece ora ci guardiamo negli occhi e sento che quello che ti sto dicendo è la fine di ogni cosa, ogni parola mi allontana da ciò che siamo state e da te.

Sembri un cucciolo, i tuoi occhi sono lucidi di un rimpianto che non ha più valore. Non lo hai capito, che ti sto salutando come un addio. Proprio qui, in questa città che è la mia città. È sera, e Budapest brilla di luci nel velluto della notte. Sedute sul ponte illuminato, guardiamo i traghetti che infrangono la superficie dell’acqua nera, smerigliata, pronta a riflettere la meraviglia di una città che prende vita, al buio. È un mese che viaggiamo ormai, con uno zaino in spalla e poche ore di sonno tra un treno e l’altro, una capitale e poi un’altra, eppure proprio quest’avventura, che avrebbe dovuto riunirci, mi ha mostrato con una decisione imbarazzante che ormai siamo diventate due persone troppo diverse, così diverse che, anche se lo vorrei davvero, non posso più procedere su una via parallela alla tua senza allontanarmi da me stessa.

Prima, in camera, sul letto a gambe incrociate come nell’infanzia, ti sei sfogata, mi hai raccontato il tuo rancore, cose piccole che prima ti pesavano poco ed ora invece ti fanno soffrire, ed ho provato per te la medesima tenerezza che da piccola mi spingeva ad abbracciarti, a sottrarti alla tua casa, a quella vita incasinata che poi era specchio della mia, perché era bello che fossimo uguali, era bello che qualcuno potesse essere salvato, anche fossi stata solo tu e non io.

Per la prima volta, ti ho raccontato fragilità che non credevi, debolezze nelle quali mi sono crogiolata per una vita, combattendo contro una me stessa inetta e debole, infantile, che si sentiva facilmente mortificata e non sapeva uscire dal proprio baratro. Certe verità non te le avevo mai dette non per mancanza di fiducia, ma per proteggerti. Perché nonostante le similitudini tra noi, sono sempre stata io il muro portante e non volevo caricarti di dolori che non potevi reggere, non volevo che ti crollasse tutto addosso, non volevo farti sentire inutile. Mi chiedo come tu non abbia capito che questa ammissione improvvisa è stata in realtà un congedo, volevo solo darti le ragioni per cui, in qualche modo, quest’amicizia è diventata per me insostenibile.

Eppure ti guardo ora e ridi, ti scatti molto foto, altre ne facciamo insieme, ti lamenti di me, di questo taccuino che mi porto sempre appresso.

E restiamo insieme, nel silenzio, a fissare il buio.

Sei sempre stata ingenua a modo tuo, non sei mai riuscita a vedere quanto oscura e torbida sia la mia anima, le mie azioni e i miei pensieri ti sono rimasti estranei nonostante il tempo trascorso.

Quando da bambine provavamo disperazione, fare progetti, vivere di speranze, era la nostra salvezza. Non posso dimenticare l’immagine di una te infantile, piccola e triste, rattrappita dal dolore, che si presentava davanti alla porta di casa mia quando tua madre ti cacciava di casa, più spesso di quanto sarebbe lecito ammettere. Arrivavi sempre con il tuo cuscino giallo e la copertina della tua infanzia, stretti tra le braccia. Ci attraversavi il paese, con quei tuoi cimeli, per venire da me.

Di tutte le cose che potevi recuperare, quelle erano le uniche due che non mancavi mai di avere, poco importava se era inverno, se non avevi la giacca o eri ancora parzialmente in pigiama. Ti infondevano calma, erano la tua salvezza nello smarrimento del rifiuto.

Non posso dimenticare il panico che provavi quando invece ero io ad essere cacciata, e non potevo darti rifugio e non potevo cercarlo da te, e allora erano i miei parenti più prossimi a raccogliermi come un randagio e temevi sempre di non vedermi più. I nostri sogni erano tutto ciò che avevamo.

Quando fossimo state più grande, tu saresti andata a studiare in America, io avrei pubblicato il mio libro, lo avremmo dovuto fare insieme, doveva essere il nostro riscatto contro una vita che ci sputava in faccia tutti i giorni il suo schifo.

Il tempo però è trascorso, tu rimandavi, io rimandavo.

Siamo sempre state due inconcludenti ma, al di là di tutto, non dimenticherò come, in quella fase nera della vita in cui non abbiamo avuto nulla tranne noi stesse e due famiglie indifferenti, ci siamo supportate. Non dimentico che tra figure paterne inesistenti e madri problematiche, nelle serate di solitudine in cui non potevamo vederci, passavamo il tempo io sul balcone, tu alla finestra del bagno mia dirimpettaia, e urlavamo per sentirci e facevamo le idiote per farci sorridere.

Sono sempre stata più simile a Narciso, precisa, misantropa, studiosa, raccolta in mille personali elucubrazioni; tu sei un Boccadoro, hai bisogno delle persone, del contatto, di calore, non ti è mai importato di come ottenerlo, anche se i metodi che sceglievi spesso entravano in conflitto con la mia natura. Eppure, al di là di tutto, sei stata una sorella per me, e per te ho nutrito una tenerezza sconfinata. Mi hai tenuta legata ad un brandello di umanità che, non ci fossi stata tu, avrei perduto, perché il rancore senza l’affetto come contraltare consuma, ed io mi sarei consumata.

Perciò domani rientreremo, sedici ore di treno, le ultime che trascorreremo insieme. So che quando capirai, quando d’improvviso ti accorgerai che non risponderò più alla tua voce, dalla finestra, non visualizzerò più i tuoi messaggi e il mio cancello non sarà più aperto per te, mi odierai. Penserai che avrò torto, non capirai che le tue bugie, l’ultimo anno, mi hanno logorata, perché non te l’ho detto, non so dirle le mie debolezze, non potrò mai dirti quanto mi hai mortificata.

So questo e che fingeremo di non vederci per strada, finché alla fine non ci vedremo più per davvero.

So anche che, in realtà, è stata la nostra amicizia a frenare tutti i nostri progetti. Non hai mai avuto nulla qui, tranne me, e non partirai mai finché avrai me. Ma andartene è l’unica cosa che puoi fare per te stessa, per non essere fagocitata dalla melma in cui sei nata. D’altro canto, io non vedrò mai me stessa se continuerò a vedere prima te, a curarti per curare la mia anima che invece, alla fine, continua a sanguinare imperterrita e ignorata. Paradossalmente, è il nostro legame ad averci reso inconcludenti e, forse, da domani saremo entrambe libere.

Forse, quando un giorno lo capirai- e chissà dove sarai allora- il mio ricordo ti farà sorridere ancora, non ti avvelenerà del rancore che ti ho instillato dentro. Mi ricordi Le braci di Marai, mi ricordi Konrad, non per la sua creatività ma per quell’acredine, per il suo fucile. Ecco, questo mi ricordi, e penso che solo tra molto il tempo attenuerà tutto questo, ma quando rimarranno solo braci sotto la cenere, allora forse anche noi parleremo del male che ci siamo fatte senza più odiarci.

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Capitolo 6
*** 23-07-2017 ***


23-07-2017

Il nonno è morto.

L’ho amato teneramente, e adesso è morto.

La morte è facile in realtà, è incredibilmente veloce. È incredibilmente facile prepararsi alla perdita. Ricordo di aver letto che no, ogni volta che un dolore ci colpisce, dobbiamo ricominciare a ricostruirci da capo, non saremo mai preparati.

Ma era una bugia.

Siamo fatti per accumulare dolori e metterli da parte e quando lo conosciamo, impariamo anche a gestirlo. È stato così imprevisto che, ammetto, per un attimo sono stata presa in contropiede. La verità è che ancora non so bene come devo parlarne, so solo che è successo, che è la vita, ed aspettavo questo momento da tempo. In fondo, già il terzo infarto avrebbe dovuto portarlo via, invece ha fallito anche il quarto, e l’Alzheimer procedeva, avevo tutti i presupposti.

Ogni giorno lo baciavo in fronte e gli dicevo che lo amavo come fosse l’ultima volta.

Però ho pianto lo stesso.

Mi sono sentita soffocare di un panico che non conoscevo, mi sono sentita come se non ci fosse nulla a cui aggrapparsi. Per una persona patetica come me, vuota come me, lui era troppo. Per qualcuno che ha passato la vita a collezionare frammenti di figure paterne da nonni e zii, lui era troppo.

Era stato il nonno a trovarmi nel sottoscala, tanto di quel tempo fa che quasi il ricordo e slabbrato e stinto. Era stato lui l’unico a cui avevo confessato la più avvilente delle mie verità.

Un figlio non dovrebbe mai vedere una madre umiliata dal proprio padre.

Un figlio non dovrebbe mai assistere a certe forme di violenza.

Ma il nonno era grande e grosso, un burbero, uno scudo dal mondo. Confessare a lui che papà picchiava la mamma forse era più facile, forse ero solo ingenua. Alla fine, il nonno non era stato diverso con la nonna, la nostra famiglia è sempre stata una spirale di violenza e discutibili legami umani.

Ma, quando ero piccola, cosa potevo saperne?

È stato il nonno a darmi una delle consapevolezze più nitide della mia vita, uno dei miei mantra. Forse, uno dei momenti in cui il cuore me lo hanno spezzato davvero.

Sei una bastarda come tuo padre.

Succede, ai figli non troppo desiderati. A conti fatti, mio padre è stato l’essere vivente che mi ha voluto di più, è per un suo desiderio che sono nata, ha un senso che io abbia ereditato da lui.

Non ti ho mai odiato nonno, ho pianto un poco, ma non ti ho mai odiato. Anche se sono una bastarda come mio padre. Perché anche così, mi hai amata. Sedevi al tavolo con me, e ti guardavo mentre sbucciavi le mele e le tagliavi a spicchi, uno a te e uno a me.

Le mele le mangiavo solo con te.

Sacchetti interi di mele, solo per guardarti compiere gli stessi gesti ancora e ancora.

Li compivi per me.

La buccia cadeva sempre in un unico serpente ininterrotto, non sbagliavi mai, anche se avevi le mani grandi da contadino, mani fatte più per ammazzare un animale con un colpo secco che per essere tenere. Non lo eri tanto, quando ero piccola, la tua era una dolcezza brusca, un poco severa, spesso rude.

Perché mio fratello mangiava più di me e ti dava soddisfazione, ed io ero piccola e non sopportavo l’aceto, e allora le tue labbra si strizzavano in una linea di disappunto e ti inasprivi. Ho imparato ad immergerci la frittata, nell’aceto, per mangiarla come volevi tu, perché così, simili in qualcosa, ti saresti inorgoglito. Ti inorgoglivi per queste cose, ci ho messo anni a capire che, nella tua durezza, cucinare per me era il tuo solo modo di passarmi l’affetto, e quando rifiutavo ti sentivi respinto.

Ci ho messo qualche anno, ma poi l’ho capito.

L’ho capito quando, dopo un cartone animato, ti dissi che volevo una torta, in un giorno di festa in cui i negozi erano chiusi, e tu mi caricasti in macchina insieme a mia cugina e girasti per ore ogni piccolo market di ogni paesino della zona, per trovarne una come la volevamo noi.

 Ci si prepara sempre, sono preparata ora.

Sei morto da poche ore, ma già mi sembra trascorso un giorno.

Sono entrata con mia zia, nella piccola stanza dove un inutile medico di base ci ha raccontato, molto pragmaticamente, che hai avuto un arresto cardiaco, che hanno cercato di rianimarti per venti minuti. Che avremmo dovuto aspettare un poco, perché eri ricoperto di vomito e dovevano ricomporti.

Si muore così.

Non è niente di tragico in realtà.

Però ti ho guardato, e ho pianto.

Come da bambina, nel sottoscala. Ho smesso di piangere in quel modo, rumoroso e soffocante e fuori luogo, da tanto di quel tempo che mi sembra quasi non sia mai accaduto. Ricordo solo di essere stata piccola, molto piccola. Ricordo che piangevo in quel modo lì, senza fiato e senza forze, quando avevo paura di essere abbandonata.

Non piangevo davanti a qualcuno da troppo tempo, per non provare umiliazione.

Ma è stato tutto lì, raccolto in un unico pianto.

Lo psicologo mi ha chiesto di parlarne, l’ho fatto, gli ho detto tutto.

La sua espressione disperata mi ha sconfortato. Mi ha chiesto se mi è utile, mi ha detto che sono un’anguilla, che non riesce ad afferrarmi.

Mi è venuto da ridere.

La solitudine è quando non riesci più a raccontarti, e forse non so più farlo. Gliel’ho letto negli occhi, l’ho fatto sentire inetto. Sono brava a leggere le persone, quello almeno, ma non sono empatica. Però l’ho capito. Solo, non ho capito cosa dovevo dire, cosa c’era che non andava.

Mi sono sfogata, non è vero che mi sono tenuta tutto dentro.

Mi sono separata da te, sono andata in bagno e ho pianto. Tanto, non pensavo di saper piangere tanto. Sono stata così patetica, che ti avrei creato disappunto. Prostrata a terra, rannicchiata in un angolo, aggrappata ad una parete di piastrelle di uno schifoso bagno di un ospedale pubblico.

Una scena ridicola che rientra negli annali delle sceneggiate peggiori di sempre.

L’unico conforto è che sono l’unica persona con cui quella scena di ridicola inutilità è stata spartita. E forse un poco è servita, forse mi serve piangere, ogni tanto. Il vero dolore lo lascio agli altri, io non ci sono tagliata per queste cose, lo sai.

Se ci si sente mortificati bisogna diventare più forti

Io non posso distruggermi, lo sai che sono l’unica che può tenermi insieme, lo sai che la nostra è una famiglia di bestie emotive che si nutrono del proprio dolore. Ci siamo coccolati tra di noi, quando ti baciavo e ridendo ti dicevo di ignorare quell’idiota di tuo figlio, con i suoi complessi paterni freudiani che ti invitava a tirare le cuoia un giorno sì e l’altro pure.

Chissà nella sua testa quale atroce senso di colpa c’è, ora che morto lo sei davvero.

Ti proteggevo dal rancore radicato della nonna, quando negli ultimi anni eri diventato un bambino dallo sguardo furbo e ti eri addolcito, e mi abbracciavi e mi dicevi che ero la tua nipote preferita. Quando ti correvo incontro per baciarti e non importava chi ci fosse lì con te, dicevi sempre la stessa cosa

È la mia nipotina. Lei mi vuole bene

Non ti volevo bene.

Ti amo.

Anche se amo male.

Mia madre questa volta è stata leggera, mi ha solo detto che non tutti hanno la mia razionalità. Vedermi cedere forse l’ha convinta che non sono del tutto un animale, ma dopo anni di abitudine a sentirmi ripetere sempre che sono una bestia e non sento nulla, questa sua uscita mi ha fatto un poco ridere. Dovrei annoverarla nei progressi del nostro rapporto, questa concessione umana che mi ha fatto. Per ora ci evitiamo, lei è emotiva e io la ferisco.

Così sono a casa della nonna, e dormo accanto a lei, nel tuo posto, nella conca che hai lasciato nel materasso. Ci sprofondo dentro.

Nell’insieme, sono quella che l’ha gestita meglio, qualcuno che resti saldo ci vuole. Qualcuno che faccia le commissioni, che passi dal comune alla camera mortuaria alle pompe funebri. Che faccia mangiare anche la nonna e che butti un occhio al mio fratellino più grande.

Mia madre dice che non sento, ma non serve sentire, quando si conosce, e io conosco mio fratello. Il giorno in cui sei morto tu, ho rischiato di perdere anche lui.

L’ho saputo immediatamente, una realizzazione fulminea, ma la mamma non era lucida, ci ho messo un po’ per farle capire che doveva tornare subito a casa da lui e al diavolo il turbamento della sua perdita, che sarei rimasta io con la zia ad aspettare le onoranze funebri, perché prima di una figlia doveva essere una madre. Ho mandato i suoi amici a casa a fermarlo, ma la verità è che sono stata solo fortunata.

Ho sempre contato sul fatto che, nonostante i suoi desideri suicidi, in realtà avesse troppa paura della morte per riuscirci. Ma era tanto disperato, che c’è stato un frammento di cedevolezza in me in cui ho temuto che la disperazione lo avrebbe portato a riuscirci.

Pochi giorni fa è arrivato ubriaco e si è accasciato ai miei piedi, e mi ha detto che non sa se questa vita riesce a viverla tutta, che io sono il suo unico scrupolo.

Ho fatto l’unica cosa che potevo fare, l’ho fatto sentire in colpa. Siamo i nostri vicendevoli e unici appigli in un’esistenza di solitudini simili a rette parallele destinate a non incrociare la strada di nessuno, lui non ha il diritto di mollarmi qui, non ha il diritto di farmi anche lui questo.

Almeno lui, solo lui, deve restare.

Noi dobbiamo guardarci le spalle.

Sono stata contenta, perché ha avuto paura. Ci ha provato, ma non è riuscito ad ammazzarsi. L’ho ritrovato spezzato, ma va bene. Lui può rompersi, può essere un giocattolo demolito e abbandonarsi sul ciglio di una strada, può mancargli la forza, avrà sempre la mia, lo raccoglierò sempre e lo rimetterò in piedi ancora e ancora.

Non sono stata contenta, perché quella lettera di commiato fallito che la mamma ha ritrovato era per me. Ed io non posso credere che davvero abbia pensato di abbandonarmi, proprio lui che con me condivide l’anima, e di liquidarmi con un biglietto.

Cerco di tirare le somme.

Mi hanno detto che sono tante cose tutte insieme, che devo rifletterci, che sono un colpo.

Ma non ho vissuto nulla come uno shock, ho fatto quello che andava fatto e basta, qualcuno deve restare lucido, ed io sono più brava a restare lucida.

È semplice, è tutto qui.

Non c’è nulla di triste in questo, sono cose che vanno fatte e qualcuno deve farle. Far ridere le mie cuginette, far capire loro che la morte è nulla, che conta solo tutto il resto, è un qualcosa che ho sempre potuto fare solo io, per non farle diventare come mia madre, come mia zia e mia nonna e mio fratello. Perché non avessero paura, paura di qualcosa di normale, di qualcosa che da solo senso a ogni cosa.

Al funerale le ho tenute con me, su un’altra panca, perché era giusto così.

Perché là piangevano, e io le facevo sorridere.

Nessuno dovrebbe avere paura della morte. È la morte che ci insegna a vivere.

Tenere compagnia alla nonna, dormire nella tua forma, è una cosa che posso fare solo io, perché tutti gli altri non ne hanno il coraggio, come se ci fosse qualcosa di male nell’occupare il tuo posto. La tua sagoma mi fa sentire bambina, mi ricorda che sei sempre stato enorme, avvolgente, e quando mi abbracciavi ci scomparivo nel tuo abbraccio, nonostante io non sia piccola. Mi ricorda che mi hai sempre trattato come se non fossi mai cresciuta, e probabilmente è così, rispetto alla tua mano grande io restavo sempre una bambina.

La somma di tutte le perdite degli ultimi anni, anche di quelle che il mondo considera poco rilevanti ma che in realtà mi hanno fatto male come perdere una parte di me, mi hanno preparato a questi dolori più grandi, questa è la verità. Mi hanno indurita, mi hanno insegnato quali sono i passaggi che devo compiere per andare oltre e non provare amarezza.

Nella casa del commiato dove ti abbiamo lasciato, ho preparato cioccolate e giocato.

Io e lo zio ci siamo seduti nella stanza accanto, era vuota, e abbiamo cercato d’immaginare come sarebbe stato fare finta di essere morti lì dentro, e gli ho raccontato dell’imperatore Claudio e di Trimalcione.

Ho portato i giornali con scritto il tuo necrologio, ho fatto sedere le mie cugine in cerchio, e su quel giornale ho preso i cruciverba e le ho convinte a giocare. Chi entrava ci guardava male, guardava male quelle cugine che per me sono sorelle, che sono cresciute sotto i miei occhi giorno per giorno, tanto che le tratto ancora come bambine per come a volte mi si rannicchiano addosso come passerotti sparuti, eppure non lo sono più, sono bellissime e grandi.

La Marti mi ha fissato, ha scosso il capo, ha detto che noi il lutto non sappiamo proprio portarlo.

Ma l’ha detto con il sorriso e allora ho pensato “fanculo il lutto”.

Il lutto è una stronzata, che siamo qui in cerchio, raccolte sul giornale a dissacrare con un sorriso e un gioco la chimera della morte, questo è importante.

Del biasimo non me ne frega nulla, che passino, che mi guardino, storcano la bocca e pensino che il rispetto non so cosa sia, possono metterselo dove vogliono. Io continuerò a entrare in quella stanza, guardare il corpo, e fare congetture, e prenderti in giro, e a dire con mia cugina che no, se un paradiso esiste deve essere solo d’italiani perché con i francesi non possiamo proprio conviverci, e quindi un cambio monetario ci sarà di sicuro e anche se ti cremiamo con le sterline invece che con un obolo dovrebbe comunque funzionare.

E ti bacerò la fronte ogni volta che ne uscirò, come sempre, perché siamo onesti, che il corpo sia caldo o freddo, che differenza fa?

Guardarti e non riconoscerti più sarebbe impossibile.

Parlo perché dicono che devo, ma non so dire le cose come vanno dette, e non so fare le cose come vanno fatte.

Ci sono persone che sono refusi di stampa e stanno lì, per errore, a occupare posto in una frase che non gli appartiene.

Tra i miei parenti io sono la virgola fuori posto, non c’è un modo diverso di dirlo, e non c’è malessere nell’ammettere una verità.

Non è che non parlo come dovrei, semplicemente non parlo come si dovrebbe, come ci si aspetta. E non capisco perché vogliono che dica che soffro, come se non fosse scontato, ovvio. Certe verità non meritano di essere espresse, meritano di essere comprese e basta. E se non lo vedono, se non sanno leggere tra le righe, allora forse non sono io che non so esprimermi, forse ci sono troppo pochi buoni lettori e si guarda troppo al plateale, e di un mondo analfabeta non è che me ne faccia poi molto.

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Capitolo 7
*** 25-03-20 una risposta tardiva ***


Ti sei mai trovato nel silenzio più completo? Quando è tanto forte e permeante che ti sembra quasi l’atmosfera prema sui timpani e li comprima. Mi è successo spesso, ma mai come in questi giorni mi è capitato d’immergermi in una tale assenza di suoni. Il rumore secco dei miei passi sembra piombo, il ticchettio nelle unghie del cane sui sampietrini, l’inquietante scorrazzare di un qualche animaletto astuto.
Quando mi fermo, sembra che il mondo si fermi. Forse adesso è fermo davvero.
So che non dovrei uscire di casa, non è questo il momento per farlo e se sei uno di quei moralisti che invitano al cecchinaggio istantaneo di chiunque metta un piede fuori dalla porta d’ingresso, ti chiedo scusa. Sarà in questo caso di conforto sapere che resto, di base, un animale notturno per cui, nelle ore della vita che vivo io, non posso imbattermi in alcun essere senziente.
Qualche pipistrello a volte, ma ultimamente anche loro tacciono e rimango solo io, alle due del mattino. Nonostante questi vagabondaggi notturni, non ho mai visto il cielo completamente nero, non in paese almeno. Non che ci sia questa grande fonte di illuminazione artificiale a Z********, eppure a quanto pare è sufficiente a rendere la notte opalescente. Vicino al cimitero c’è un grande campo con un solo albero, piantato per qualche arcano motivo nel mezzo. Dovrebbe essere distante e oscuro, eppure lo intravvedo, ne tratteggio con lo sguardo la sagoma ombrosa. Quando nevica poi, di notte tutto è bianco, anche il cielo, ed allora mi capita di andare a giocarci là sotto, ammetto che mi piace giocare con la neve da sola, al buio. Mi piace l’impressione di essere l’unico essere vivente al mondo. Quindi, forse, non lo intravvedo ora, è la mia memoria che ne ridisegna i confini, non che la questione abbia una qualche rilevanza. Solo che mi fa pensare a te.
Queste passeggiate lunghe e silenziose, accompagnate al massimo da musica leggera, non mi aiutano a tirare le fila del mio essere, ma mi danno da pensare. E dove si posa il mio pensiero è soprattutto il più grande motivo di riflessione. C’è un punto panoramico qui, probabilmente non lo sai, non lo indovineresti nemmeno, che possa esserci qualcosa di tanto poetico nel nulla di un paesino sotto le cave. Eppure c’è, ed è bello solo di notte, per cui credo siamo in pochi a conoscerlo. Di giorno è una banale panchina sul ciglio di una strada, sul curvone di una via che si fa poi sterrata, con davanti a sé null’altro che un cartello ingombrante. Di notte, puoi vedere le luci di T*******, di G******, forse anche E********, non saprei. Se avessi una maggiore conoscenza della zona probabilmente potrei arrivarci ma lo sai, io e la geografia non siamo mai andati particolarmente d’accordo e questo senso d’indefinitezza, ti dirò, mi piace. Mi piace non sapere fin dove si spinge il mio sguardo, pensare di arrivare più lontano del mio limite personale. A volte la conoscenza può essere essa stessa un limite, per cui mi rifiuto di imparare. Da questa panchina, guardando più in là, mi sono chiesta se quelle luci non fossero le stesse che, inconsciamente, potevi vedere tu.
Così mi sono resa conto di star pensando a te.
Normalmente queste ridicole riflessioni avvengono in romanzetti di poco conto, rese anche romantiche in qualche modo, discorsi tipo “guarderà il mio stesso cielo? Vedrà le mie stesse stelle?”.
Purtroppo, c’è molto meno romanticismo in me, e il cielo è senza stelle la maggior parte del tempo, ho sempre lo sguardo puntato verso l’alto e non ne vedo abbastanza, di stelle. Guardo le foto dell’Hubble allora, per ricordarmi quanto è bello tutto ciò che sta sopra la mia testa e che ho occhi troppo deboli per poter ammirare da me. Quindi, inciampare in te è meno poetico di quanto tutto questo non lasci intendere. Sei come una scheggia piccola nel pollice: non infici nulla del mio quotidiano, non mi accorgo che ci sei, ma il mio organismo cerca di espellerti come corpo estraneo e, non riuscendoci, la pelle ciclicamente si irrita, s’infiamma e finisce che con l’indice continuo ad andare a toccarla nella speranza che esca presto e non mi dia più problemi.
 
Scrivo a più riprese, giusto per informarti della probabile incoerenza del testo. Ho tutto il tempo del mondo, il tempo non ci manca, perciò ho deciso di prendermelo, di scavare a poco a poco in questa mia ascesa alla deficienza. Sì, non mi stimo molto per quello che sto facendo, lo ammetto, anzi, ci vedo una certa tristezza. Eppure, la tristezza fa parte della mia entità e devo rassegnarmi ad abbracciarla in ogni sua forma, suppongo. Che io sia terribilmente triste e desolante, non so se tu te ne sia mai reso conto. Ho sempre avuto l’impressione che tu non mi abbia mai visto per quella che sono davvero, mi hai dipinto con una luce positiva nella tua lettera, ormai quanto? Un anno? Due anni fa?
Ecco, il tempo è sempre il problema, scorre veramente veloce per me, procede per moltiplicazione ed io invece sono una più pacata addizione, siete almeno trenta passi avanti a me, nel migliore dei casi, ed io nel mentre sto ancora contemplando i lacci delle scarpe per decidere se il colore è di mio gradimento. Alzo lo sguardo e baam, siete già spariti dietro l’angolo e mi tocca partire alla rincorsa. Solo che sono lenta e pigra, non mi va di correre, perciò finisce che forse, un giorno, tra quarant’anni, mi aspetterete tutti al traguardo ed io arriverò un po’ acciaccata, ma di sicuro non ci si incontrerà più lungo la corsa, almeno che non decidiate di darvi ad una pausa ristoro.
In quel caso, volendo, ci si potrà imbattere per poco l’uno nell’altra.
Non mi dispiace essere lasciata indietro, è troppo complicato tenere il vostro passo, tuo come di chiunque, i miei ritmi sono pacati e incostanti. Ho scoperto di saper camminare pianissimo, anche questa è un’affermazione alquanto irrilevante nel quadro di quello che vorrei dirti, però è stata un’epifania, scoprire quanto lentamente possa muovermi. Riesco a fare passi veramente minuscoli, quando sono sola. E la cosa incredibile è che non mi stanca, non mi snerva, tutt’altro: metterci due ore per un percorso di venti minuti è tremendamente rilassante. Persino il mio battito cardiaco si riduce, lo ascolto, provo a contare il pulsare della vena sul collo ma arrivo a non percepirla più finché non rido. Questo mi ricorda quante volte ho letto “Se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana” senza afferrarne realmente il senso. Adesso, quando mi sento sopraffatta, faccio proprio questo, cammino piano piano e guardo le persone che mi circondano superarmi. Le osservo muoversi in fretta, un poco chine in avanti, saluto di sfuggita se riesco a riconoscere qualcuno, ma è raro. Sono una spettatrice molto distratta. Rallento il ritmo della mia vita fino alla brachicardia, soprattutto in luoghi affollati, dove il contrasto risulta tanto incredibile da incantarmi. Ultimamente per esempio, mi piaceva comprare un libro al centro commerciale e poi sedermi al bar all’ingresso, quello vicino al McDonalds. Ci ho buttato ore dei miei pomeriggi a contemplare quella porta, senza neanche provare a contare quante volte venisse aperta.
Tutto questo mi aiuta a ristabilire il mio precario equilibrio con l’universo, un equilibrio instabile appeso ad un filo di bava di ragno sempre sul punto di spezzarsi. E qui si ritorna all’universo e alle stelle. Strano, come sbatto incessante contro lo stesso vetro. Sarà per quella natura vagamente classicista che riverbera ancora in me. In una puntata di Big Bang Theory, quando Penny desidera comprendere la Fisica, per spiegarla Sheldon fa ripartire il discorso almeno una decina di volte e sempre dallo stesso momento: quello in cui, nell’antica Grecia, due filosofi ciabattanti alzano per la prima volta lo sguardo al cielo.
Non credo di avertelo mai detto, che mi piacciono le stelle. Forse te l’ho accennato, magari ti ho gettato là che mi sarei voluta comprare un telescopio, per poter vedere meglio il Triangolo Estivo a luglio, quando Altair e Vega e si riavvicinano e, per un solo giorno all’anno, lei può smettere di tessere albe e tramonti e attraversare il fiume d’argento per incontrare di nuovo il suo amato. Ma no, non credo di averti espresso nemmeno questo particolare desiderio. Così lo dirò ora, mi piacciono le stelle. Guardarle è come guardare al passato, non ti annienta sapere che ogni luce che vedi è lo spettro di tredici miliardi di anni di esistenza?
Guardare il cielo è guardare indietro nel tempo, per questo ho pensato a te, perché sono una nostalgica e ho questa tendenza a vivere nel passato, perfino in un passato che non ho conosciuto e riesco comunque a rimpiangere. Conosci la favola di Riccioli d’Oro?
Non sto delirando, ma non riesco a trovare un modo più lineare di spiegarmi se non questo. Ci sono ovviamente cinquantamila versioni di questa favola come di ogni altra, ma la base è pressappoco la stessa e piuttosto che ripiegare sulla povera vecchia impalata al campanile, preferisco la versione più docile e accessibile della bimba che finisce nella casa dei tre Orsi, Mamma papà e cucciolo. Se ricordi, prova le tre sedie, tutte e tre, e solo dopo sceglie quella giusta per lei. La stessa cosa con il latte, una tazza è troppo calda, l’altra è troppo fredda, ma la terza è quella giusta. La stessa condizione si manifesta nella scelta del letto, né troppo morbido né troppo duro.
Nell’astronomia esiste una zona chiamata Fascia di Goldilocks, o Riccioli d’Oro per l’appunto. Prende il nome dalla fiaba naturalmente, non è un caso che me ne sia uscita con questa storiella per bambini. Il telescopio Kepler, ormai dal 2009 ha avuto come missione questa: cercare i Pianeti Goldilocks, ovvero i pianeti situati in una fascia potenzialmente abitale. La fascia perfetta dove, per usare la fiaba, la sedia non è troppo alta o troppo bassa, il latte non è troppo caldo o troppo freddo e il letto non è troppo duro o troppo morbido. Dove le condizioni insomma, sono esattamente quelle che devono essere perché possa esserci vita.
Le relazioni umane sono come un pianeta Goldilocks, se ci pensi. Tutte le condizioni devono essere incredibilmente, perfettamente concomitanti, perché tutto funzioni. E infatti, in quasi dieci anni, Kepler ha scoperto solamente 2342 esopianeti potenzialmente abitabili. Una miseria, in tutta la Via Lattea, ma non potrebbe essere altrimenti, se le condizioni devono essere una simultaneità di coincidenze perfette.
In una vita, quanti incontri perfettamente perfetti abbiamo? Proprio quelli giusti, né troppo né troppo poco?
Analizzando la questione da questa prospettiva, capisco perché eravamo un fallimento a prescindere. Non solo i momenti non sono mai stati quelli giusti, quelli perfetti per come eravamo noi, ma le nostre stesse personalità non erano quelle semplicemente perfette per potersi comprendere. E se prima pensavo fosse colpa tua o colpa mia, ora capisco che, banalmente, non eravamo un Goldilocks, non potevamo scegliere. Ci siamo semplicemente ritrovati in un contesto che non poteva permettere la vita, siamo stati come la maggior parte dei pianeti della via lattea, sterili l’uno per l’altro.
Sembra un’altra realizzazione banale, per me non lo è, anzi, è stata fondamentale per accettare che avercela con te è futile, che la maggior parte delle colpe che ti ho imputato non sono reali, che sperare che un giorno le cose possano sistemarsi ancora è altrettanto stupido. Suppongo tu sia ampiamente oltre la faccenda, sei la lepre in questa storia ed io la tartaruga, mi muovo lentamente in spazi infiniti e, come nel paradosso di Zenone, per quanto veloce avanti a me ci sarà subito un altro infinito in cui incappare. Anche se infiniti più piccoli dei precedenti, sempre infiniti restano, spazi troppo immensi perché mi sia possibile assimilarli.  È tutto molto lento e insormontabile per me, si dice che il tempo permetta di scordare, ma se si vive fuori dal tempo la questione si fa più spinosa e problematica ed allora bisogna agire tempestivamente, recidere le radici di un Baobab che potrebbe, altrimenti, distruggere un intero, piccolo pianeta. Per questo sono qui a condividere riflessioni che sembrano insensate, perché devo fare la giardiniera di me stessa, come sempre, il tempo non lo farà per me.
 Non ho mai condiviso i miei ricordi con te. Non quelli che ti riguardano. In realtà sono una persona che parla tanto, tantissimo, riempie i vuoti momentanei ma, a conti fatti, non dice realmente nulla. Sterile come uno dei tanti pianeti nell’universo, niente di trascendentale.
Così, non ti ho mai detto che quel giorno a D****, quello della pompa di benzina, anche io lo ricordo bene, è uno dei momenti più belli che ho diviso con te. Per ragioni diverse, ma nell’insieme anche per quella ridicola disperazione di non avere idea di cosa stessi facendo. Mi ha sorpreso che per te fosse spassoso o assurdo, ahimè è praticamente lo spirito con cui mi approccio ad ogni cosa, difficilmente so che cosa sto facendo. Comunque, forse non ricordi che quella notte ci eravamo ritrovati a dormire in sala, su un materasso gettato a terra. Io avevo fatto i miei soliti capricci, mi è sempre piaciuto fare i capricci con te e non avrebbe potuto essere altrimenti in effetti, perché anche seccato o intestardito, alla fine mi hai assecondata ogni volta. Perciò ti eri rassegnato e mi avevi letto Geronimo Stilton, giusto qualche riga, rifiutavi di emettere i versi scritti, ma dopo molte insistenze avevi squittito. Ci ho riso per mesi, ti guardavo e pensavo a quando avevi squittito, pur di far cessare i miei assilli. Il giorno dopo, a seguito dell’imbarazzante momento in cui avevo aperto la porta di Selene e Nicola mentre si dedicavano ad attività decisamente più produttive, mi avevi impedito di dare un passaggio a chiunque, avevi preteso che scendessimo insieme, da soli. Eri turbato e non ne ho mai scoperto la ragione, sospettavo volessi parlarmi di qualcosa di cui alla fine non hai detto nulla. Però quella giornata l’abbiamo passata in macchina, per ore a chiacchierare, fino al pomeriggio.
Avevamo disegnato sulla condensa del parabrezza, vicino a casa tua.
Sei l’unico con cui abbia mai potuto parlare tanto anche di nulla, temevo sempre di stancarti o che non mi sopportassi, eppure restavi fino alla fine e, per motivi inspiegabili, mi davi retta.
Sei anche l’unico che è riuscito a vedere in me una persona migliore di quella che sono in realtà, mi hai idealizzato ed io ho sempre aspettato il crollo, l’attimo in cui avessi aperto gli occhi e avessi visto che essere umano terribile ci fosse, di fronte a te. Tragicamente incapace e inadatto, una bambina, perché questo sono sempre stata: una bambina.
Quel processo evolutivo basico, insito nella nostra natura, pare non essersi risvegliato in me. Guardo la mia scrivania ed è un disastro di pennarelli e raccolte di anni di accaparramento compulsivo, le mie mani hanno le unghie corte e sono sporche di grafite o colori, persino il mio aspetto trasandato è rimasto legato agli anni novanta della mia infanzia. Sono circondata di fiori alle pareti, di peluche e vinili. Perciò eccomi qui, esattamente come mi hai lasciata. Fa paura, vedere quanto io riesca a restare sempre uguale a me stessa, non dovremmo mai Essere, l’Essere non esiste, esiste solo il divenire. Guardando me stessa però, vedo uno statico Essere. Non so cambiare, credo di non sapere nemmeno come si cambia. Quando sei tornato, la mia paura più grande è stata questa, essere diversa eppure non esserlo abbastanza, essere ancora esattamente la stessa ragazzina che avevi conosciuto al liceo, sentimentalmente goffa e stitica, totalmente incapace d’impegnare se stessa in qualunque cosa avesse una scadenza oltre il giornaliero. Una paura lecita, la mia, credimi, perché io quella ragazzina lo sono ancora, non so diventare adulta, io vivo il momento e lo vivo pure male, so solo barcamenarmi nel quotidiano e non mi accorgo del tempo che scorre. Esiste un immenso buco nero che risucchia chiunque rientri nella mia sfera personale.
Inizialmente è un’esperienza affascinante, tutti vogliono vivere fuori dal tempo e provare l’ebrezza di estraniarsi da tutto, perciò risulto particolarmente interessante e in molti rimangono intrigati. È solo una facciata però, un momentaneo cedimento a qualcosa di diverso dal banale, un evento atipico in un panorama ormai imparato a memoria. Solo che bisogna avere porti franchi e sicuri a cui essere affrancati, per avventurarsi in sicurezza nel mondo dei Faerie, o si rischia di essere risucchiati dal mio Non-Essere. Starmi vicino, a lungo, si fa pesante, il vero vuoto puoi osservarlo solo se ti avvicini. Tu non lo hai mai fatto, c’è sempre stata una sottintesa distanza tra di noi, che sapevamo incontrarci solo nel mondo delle idee, quindi questo Nulla deve esserti sfuggito. Io so esattamente cosa sono, sono abbastanza rassegnata a me stessa e mi sono sempre accettata. La paura però che qualcun altro non possa accettarmi ammetto che non sono pronta a gestirla. Credo sia una sorta di odore, la solitudine che uno si porta addosso, quando è diversa gli altri la fiutano e respingono, è normale, istinto di conservazione. Sono oggettivamente scollata da tutto ciò che è fuori da me, questo lo sai senza bisogno di dirlo, lo hai visto negli anni come per gli altri è difficile rapportarsi a me. La paura però che tu non potessi accettarmi, quella era troppo soverchiante: da ragazzini era tutto molto affascinante, ma era legato ad un’ingenuità puerile. Si cerca sempre ciò che si scosta dalla media, si pensa di volere essere diversi quando si è innocenti. È solo nel tempo che emerge il desiderio morboso di rientrare perfettamente in un parametro, per non sentirsi separati dal resto. Per cui, un futuro di qualunque tipo, come può comprendere una persona statica come me?
Gli anni possono essere lunghissimi mentre li si vive e si cerca in qualche modo di farsi strada a tentoni verso un futuro ignoto, ma quando ci si ripensa, tempo dopo, sembrano volati. Vivere proiettati nel futuro induce una certa irrisolutezza, un costante vagare con lo sguardo; ma se non si pensa al futuro, si rischia di perdere facilmente di vista le occasioni importanti e le possibilità. Perciò ci si guarda intorno, si vaga costretti a fare una scelta improvvisata dopo l’altra. Non è così con lo sguardo retrospettivo. Non si vaga con lo sguardo, quando ci si guarda indietro. I ricordi si limitano a muoversi lungo la linea della vita così come è stata”.
 
Ecco, è proprio lì che sono posati i miei occhi, seguono la linea di ciò che è accaduto, inseguono la luce delle stelle fino al brodo primordiale, rimangono incantati davanti ai Pilastri della Creazione. Ho avuto paura di quanto tu mi avessi idealizzata, lo ammetto.
Mi avevi scritto che ti affezionavi alle mie sciocchezze, ci ho visto una certa Sindrome di Stoccolma in tutto questo, però non ti ho detto che anch’io ero affezionata alle tue insicurezze. Adoravo, per esempio, quando ti offendevi e fingevi di opporti, mettevi una sorta di broncio risentito che crollava poco dopo o, più raramente, giorni dopo, se sentivi la tua virilità offesa e volevi farti valere. Lo adoravo perché alla fine mi stavi dietro e allora sentivo che mi volevi un po’ di bene. Non ho mai afferrato del tutto certe tue reazioni, spesso mi smarrivo nei tuoi repentini cambi d’umore da mestruato in astinenza da dolci, ma ehi, eri spassoso anche se mi facevi arrabbiare, era più il tempo che trascorrevo a ridacchiare tra me e me che non quello passato a fingere di starti punendo.
Davvero, perché perdessi tempo ad assecondarmi non l’ho mai capito. Ti ricordi quella volta a Milano, quando eravamo stati braccati da un venditore ambulante? Non ricordo di che libro stessimo parlando, ricordo però che eri confuso dalla reazione della donna del racconto e mi avevi chiesto un’opinione, come se la mia chiave di lettura potesse avere un senso universale per ogni figura femminile. Mentre ne discutevamo, si era avvicinato questo adorabile negretto con i suoi libri di ricette e ci siamo messi a conversare del più e del meno: di dove fosse, il suo nome, la sua storia. Mi spiace di averla scordata, sai? Mi succede troppo spesso, di fermarmi ad ascoltare storie casuali ed è un peccato che poi più frequentemente di quanto vorrei, io le dimentichi. Alla fine, comunque, ti avevamo convinto a prendere due libri di ricette che non avresti potuto fare nemmeno volendo, visto che alcuni ingredienti erano effettivamente irreperibili.
Mi avevi fulminato, quando l’avevo spalleggiato per farti comprare anche il secondo. Però poi l’avevi preso le stesso. Mi avevi detto che me le avresti fatte assaggiare, ma ne abbiamo dette tante di cose e quasi nessuna era vera, quindi non starò qui a recriminare nulla. Ho sempre usato queste promesse culinarie come pretesto per costringerti a non sparire, ma erano nodi troppo deboli per poterti frenare ed io non sono mai stata brava a intrecciare corde più spesse per trattenere le persone che amo. È sempre stato più facile lasciarle andare al largo che provare a farle restare. Non ci ho mai nemmeno provato, a trattenerti sul serio, per me è più facile quando fate un passo indietro, mi sollevate dal peso di dover fare qualcosa di diverso da ciò che la mia natura esige per allietare qualcun altro.
Mi avevi scritto che ero io ad avvitare la lampadina, ma la verità è un’altra: hai fatto più sforzi di quanto non ti sia reso conto. Sei sempre tornato, hai sempre fatto il primo passo e non te ne sei mai accorto, io però l’ho visto, l’ho apprezzato. La goffaggine con cui verificavi quanto potessi essere furiosa con te mi ha sciolto nella tenerezza troppe volte, c’era qualcosa di adorabile, un po’ infantile. L’ansia che si prova verso un adulto quando si è piccoli, non verso un’amica. A rivedere con lo spettro del presente tutto il passato lo capisco, sono stata terribile. Mi hai detto che ti ho aiutato, ma se l’ho fatto nemmeno ne sono stata consapevole, non sono capace di dirigere i miei sforzi verso una causa.
Ci hai tenuto in piedi per anni e siamo crollati quando non hai più avuto il coraggio di farlo. Perciò, come vedi, sei stato tu a tenere quella lampadina accesa per tanto tempo, per entrambi. Il mio amor proprio non mi ha mai permesso di scendere a compromessi con il senso di mancanza.
Mi hai detto tante cose, alcune mi sono rimaste impresse più di altre.
Mi hai detto che ti distruggevo, ed io pensavo esagerassi, che fosse il tuo melodramma interiore da adolescente inquieto a enfatizzare ben altri malesseri. Forse però, ti facevo del male davvero. Una delle prime cose che mi hai detto è che essere mio amico era troppo difficile.
Era la fine della quinta ginnasio, ti era uscito così, in un messaggio, un commento casuale probabilmente, perché nei giorni seguenti ti ho portato rancore e tu non ne capivi il motivo, come se quella frase non avesse realmente peso. Per te, probabilmente, non ne aveva, ma per me è diventato un mantra con cui ho convissuto tutti gli anni a seguire. Suppongo sia quello che succede quando le cose le dicono persone che hanno un qualche valore.
È strano però, che abbiano inciso di più le cose negative che positive. Il tuo Te adolescente mi ha dato molto da riflettere, mi ha detto le cose più belle che mi siano mai state dette ed anche le più orribili, e da brava accaparratrice ho sempre messo tutto nel sacco e non ho perso nemmeno una sillaba nel tempo.
In realtà è facile capirne la ragione, avevi sottolineato l’ovvio, avevi solo detto a voce quello che andavo ripetendomi da quando ero bambina, ma l’orgoglio ne era uscito un po’ ammaccato, perché ci piace troppo negarci le cose che non vogliamo, anche quando sono troppo evidenti ed ingombranti per poter fingere non siano nella stanza. Eppure tu non avevi cognizione delle parole che avevi usato, eri perplesso, me lo avevi confidato al compleanno di Chiara, sullo scivolo del suo garage, che non avevi assolutamente idea del perché me la fossi presa tanto. Stavo aspettando che ti tirassi indietro e speravo non lo facessi, avevi riconfermato semplicemente un disagio già presente, non era stata colpa tua.
Lo avevi detto con leggerezza, ma quanto è stato vero?
Con altrettanta leggerezza, sulle scale dell’albergo mi avevi detto che ero più importante dei tuoi migliori amici, ed ero stata felice, che angoscia sapere che anche quella felicità era insensata.
Eppure ti volevo bene, non è assurdo che l’affetto non abbia mai senso?
Sono sensibile ai cambi di equilibrio, proprio per quella staticità reiterata di cui sopra, quindi basta un niente per spaventarmi, a volte mi rendo conto che sono lontanissima dall’essere umana, sono più simile ad un animale scostante, forse è la sindrome d’abbandono con cui potrei riempire un’enciclopedia e far impazzire Freud, il banale nodo della questione. Alla luce di questa ansia costante che tengo a bada con la brachicardia indotta, posso affermare che di colpe non ne hai avute nemmeno tante, sicuramente la metà di quelle che ti ho imputato per odiarti. Perché odiarti è fondamentale nel mio processo di giardinaggio, ma credo di aver deciso di potarti troppo tardi, nel mentre avevi già piantato radici e debellarti è difficile. Per diserbarti devo scavare più a fondo, odiarti in maniera superficiale e improvvisata non basta.
Anche perché non so odiarti, paradossalmente.
Eccoci qui perciò, risolviamo la questione, buttiamo un po’ di diserbante. Il mio diserbante sarà il non detto.
 
Fa abbastanza freddo anche stasera, dalla finestra di camera mia si vede il tramonto, te ne eri accorto? Da sempre mi sono seduta su questo davanzale, non so come riesca a starci ancora, sebbene il mio culo sia tipo raddoppiato rispetto a quando ero bambina. Prima ci ascoltavo i Nirvana, e mi sentivo eccezionalmente trasgressiva, anche se poi tra le mani stringevo un libro che rovinava l’immagine da dura indipendente costruita con tanta fatica. A volte mi sdraiavo, è capitato che mi addormentassi in precario equilibrio qua sopra, adesso non potrei più. Mi ammazzerei sicuramente.
Però chiudo gli occhi lo stesso ed ora mi concedo del deprimente slow core o Colin Hay (e quando Maggie vince su Ramble On, qualcosa non sta funzionando), e il calore del sole mi brucia la pelle, nonostante sia primavera e sia debole riesce a darmi fastidio. Mi concentro, immagino l’anima come un pezzo di carta, penso a come sarebbe se prendesse fuoco e il giorno bruciasse l’orlo della mia anima.
Il vento che soffia fra i rami, se chiudi gli occhi, fa lo stesso rumore della risacca marina. Mi sembra quasi di trovarmi a plage du ***, se uso l’immaginazione posso rivedere le luci della baia di ***** riflettersi sulla battigia lustra d’acqua salmastra. Perdonami se glisso sui nomi, la verità è che questo posto è il mio rifugio dal mondo, e lì che vado a nascondermi a volte, tra manciate di case di un paesino del nord della Francia sconosciuto ai più, perciò non lo condivido volentieri. Se un giorno dovessi sparire, so che quasi sicuramente è lì che vorrei ritirarmi e in quel caso solo Gaia potrebbe ritrovarmi. Questo mi consola molto, mi fa sentire più sicura.
Lì, oppure a Budapest, ad ammirare il Danubio dalla cittadella. Non sai cosa sia la vera bellezza se non hai visto Pest di notte, se non hai mai visto il Parlamento screziare le acque del fiume dal bastione dei Pescatori, se non ti sei mai seduto sulla struttura del quarto Ponte, a contare i traghetti che passano sotto di te, a sentire quel vento.
Ricordi che sono una nostalgica?
Un’incarnazione del Le Mal du pays di Liszt, quel pungolante dolore del ritorno, del nostos. Puntuale come la nota malinconica del suo pianoforte cerco di tornare in luoghi che, paradossalmente, non sono veramente casa, ma nella cui bellezza ho trovato una rassicurante certezza.
In questo momento lo sono particolarmente, è là che vorrei essere, che avevo previsto di essere da qui ad un mese. È un grande dispiacere sapere che starò lontana da Budapest ancora molti mesi, è passato più di un anno dall’ultima volta e mi sento un po’ smarrita.
Ci eravamo lasciati al non detto, giusto?
Ci ho riflettuto, per qualcuno che vive il tempo a ere geologiche e non ha la percezione del suo scorrere, il tempo non è la soluzione per abituarsi. Ciò che non dirò rimarrà con me, e se poi mi opprimerà in futuro, non potrò dirlo a nessun altro, non sarà mai liberatorio, perché sono parole destinate a qualcuno che non c’è più. Avrò perso l’occasione.
Per orgoglio mi è successo spesso in passato, e succede che accidentalmente io inciampi in sciocchezze arretrate e mi chieda, quasi per caso: ma se lo avessi detto? Se fossi stata diversa? Se avessi parlato, che male ci sarebbe stato?
Il male è che sono un animale ferito per gran parte della mia esistenza, per questo mi proteggo. Ci sono colpi che non saprei incassare, sono una vigliacca e una debole. In questo caso specifico però, parlo in retrospezione. Cosa intendo?
Beh, semplice: anche dopo anni, non ho mai ammesso nulla nella mia vita, neanche per errore. Ho pensato di farlo, di confessare certe verità quasi per caso, gettate lì, solo per il gusto di tirarle fuori, di dirle ad alta voce. Perché diavolo, non avevano più valore, quindi perché no?
Alla fine non ci sono mai riuscita, l’umiliazione credo. E anche altro, qualcosa di primordiale e personale, troppo personale per trovare le parole anche tra me e me, su un foglio. Non voglio dirlo, non ne ho la forza. Questo, questo lo terrò per me.
Ti basti sapere che anche così, non ho mai ammesso nulla, perciò questa è una novità a cui mi sto spronando, voglio fare quello che hai fatto tu. Voglio scoprire se ammettere ciò che non ho mai ammesso, che mi sono negata fino allo sfinimento, sarà il diserbante di cui ho bisogno. Certamente, eliminerà tutti i dubbi, anche quelli immeritevoli che non hanno ragione di esistere, perché nulla li ha mai realmente motivati se non una fantasia galoppante.
Ti presento S*****, Ale. Non quella che hai conosciuto, l’altra: quella che tengo nello sgabuzzino e non conosce nessuno. Quella che difendo con una cattiveria mordace e meschina: non potrei fare altrimenti, lei è una massa informe e inorganica di dolore e traumi irrisolti, non le permetto mai di entrare in contatto con il mondo, io sono il suo tramite. Gestisco la sua emotività, la regolo perché lei non sopporta le emozioni forti, non teme la solitudine ma non regge i rifiuti, il dolore la rende instabile. È a lei che mi dedico, è per prendermi cura di lei che perdo tempo e occasione di concentrarmi sugli altri.
Non è stata molto amata, le ho promesso che l’avrei amata io, più di qualunque cosa, sempre. Ogni mio sforzo è volto a proteggerla, a compensare fallimenti e carenze. Sembro pazza, ma non so spiegarti altrimenti che vivo di antitesi, sono una cosa e il suo opposto, è questo che rende difficile interagire con me.
Non posso spiegarti cosa ha significato crescere come sono cresciuta io, è troppo personale e complicato, posso solo dirti che ci sono cose difficili da perdonare e ancora più difficili da minimizzare, e sebbene io riesca a comprenderle ora, questo non mi ha salvata. Il tempo logora tutto e crescere è solo sentire la solitudine pesare addosso, crescere è una fame d’amore costante e insoddisfatta, è un digiuno d’affetto che consuma fino alle ossa. Basta il pensiero di una debolezza che mi ha fatto soffrire per rigettarmi nel baratro del malessere, perché la mancanza di amore avvelena lentamente. Nessuno è realmente senza amore, ovvio, ma saperlo serve a poco, bisogna sentirlo, tatuarselo addosso, o è del tutto inutile, essere amati e sentirsi amati sono due cose diverse.
Ed ecco perché la amo più di tutto, perché ho visto che le mancanze altrui l’avrebbero annientata e non sarebbe stato giusto, che fosse amabile o meno non era una sua colpa, semmai una condizione senza scelta.
Tutto questo perché, ti domanderai.
È abbastanza ovvio, puoi arrivarci, probabilmente già lo sai, ma voglio permetterle di dirlo: la S***** informe era innamorata di te. Altrettanto ovviamente, non le avrei mai permesso di spingersi tanto in là e di farsi tanto male, è per proteggerla che ho sentito il bisogno di starti lontano, è per lei che ho provato immenso sollievo quando Giulia è entrata nella tua vita.
Ho potuto fermarla così, mettere un punto a fantasticherie che non solo non erano possibili, ma anche lo fossero state non sarebbero state permesse, non da me. È per darle una lezione anche, che sto scrivendo. L’ho zittita molte volte, ma questa volta le radici sono più profonde appunto, perciò forse ha ragione lei, devo gettare questo enorme macigno nel lago per vederlo affondare lontano da me. Allontanarsi dal processo d’identificazione, per liberarmi di te devo liberarmi delle parti di te che mi sono rimaste attaccate addosso, devo tirartele dietro, diciamo così. Devo fare in modo che tu te le riprenda.
L’idea me l’hai data tu, scrivermi ti ha liberato, giusto?
Io non rimetto a te la scelta, contrariamente a ciò che avevi fatto tu, io conosco già la risposta, l’ho sempre saputa: non solo la tua, ma soprattutto la mia. Voglio solo ammettere la verità, per renderla reale e andare oltre. Ho bisogno di andare oltre al fatto che per te ho provato un affetto che non mi aveva mai smosso per nessuno. Perché sai, è così raro per me, che attaccarmici con la memoria è consequenziale, ma attaccarmi a questa reminiscenza allontanerà la possibilità che possa ricapitarmi in futuro, con qualcuno di più idoneo magari.
Tutti aspettiamo il nostro Riccioli d’oro, no?
Credo di aver detto tutto. Ah, giusto, un’ultima puntualizzazione. Non leggere nulla di ciò che ho fatto in passato in relazione all’esistenza di questo stato emotivo, sarebbe un’interpretazione distorta. La mia rabbia nei tuoi confronti non è mai stata da amante, solo da amica tradita. Questo affetto non ha interferito mai nel nostro legame, il fatto che provassi per te un sentimento non ha mai significato che io volessi donartelo, non ho mai pensato di cederti nulla che fosse mio. Paradossalmente, ne ero gelosa, mi sembrava già così tanto essere capace di provare qualcosa di simile, mi ci sono crogiolata, non avrei messo quella ritrovata capacità nelle mani di qualcun altro, sarebbe stata ingestibile, mi si sarebbe ritorta contro. Proprio come da bambini, era una cosa solo mia e con il senno di poi, avevo ragione a viverlo come un evento raro e incredibile, visto che non è più ricapitato.
Non so se veramente troverò il coraggio di spedire questa lettera. Però, se ci riuscissi, quanto sarebbe bello: già solo a vederla nero su bianco, questa piccola umiliazione, questa debolezza, mi fa sentire un po’ più forte, mi dà l’impressione di poter passare sopra a questo fallimento personale, l’essermi infatuata del mio migliore amico. Che schifo di cliché.
Se riuscirò a spedirla, se la riceverai, significa che sono diventata abbastanza forte da riuscire a sopportare di poter ammettere qualcosa che mi ha ferito. Allora, forse, potrò pensare di essere finalmente una potenza anch’io, solo un po’ più lenta degli altri a manifestarsi in atto, e mi sarebbe di grande conforto.
Mi aprirebbe delle possibilità.
Il più bel ricordo che ho con te non puoi conoscerlo, in quel momento dormivi. Stavamo tornando da Pompei, l’andata era stata un incubo, avevo condiviso il sedile con il grande Tommy che mi aveva compressa in un angolino. Al ritorno però ti eri voluto sedere accanto a me. In quel periodo eri fissato con Mayer, era il tuo modello di vita in pratica ed io neanche lo conoscevo. Fatto sta che, prima di addormentarti, avevi diviso le cuffie con me: la cartella comprendeva pochi brani e Free Fallin’ era andata a ripetizione per qualcosa come tre ore, mentre tu sbavavi, leggermente chinato in avanti con la bocca socchiusa.
Io sono rimasta sveglia quasi tutto il tempo, ma non l’ho cambiata, ho appoggiato la testa sulla tua spalla e l’ho ascoltata fino alla nausea. Non sono mai stata brava ad entrare in contatto con gli altri, non sono mai nemmeno riuscita ad abbracciarti spontaneamente almeno che tu non me lo chiedessi. Però i tuoi abbracci mi sono sempre piaciuti, e così ho approfittato di un te dormiente senza sentirmi in difetto. All’epoca poi ero completamente innocente nei tuoi riguardi, per questo Free Fallin’ rimane per me particolarmente commovente, mi ricorda un momento intonso e tenero.
 
Eccoci qui, sono stata meno evocativa, poetica – e “americana” aggiungerei – di quanto a tuo tempo non lo sia stato tu. Forse però, sono riuscita ad essere più distorta e contorta di te.
Probabilmente avrò meno effetto, sono troppo scarna e allucinata per riuscire a scavare la realtà con l’immagine e le parole, come fai tu. Sono più brava a restare sulla spiaggia, a contemplare la vita da lontano, non riesco a invischiarmi mani e braccia in questo calderone disastroso e appiccicoso che è il mondo, come ti ho visto fare.
La vita è un anelito potente, lo percepisco, ma per me è troppo. Troppe strade, troppe scelte, troppe complicazioni. Non sono mai riuscita ad imitarti, anche se debole ti ho visto provare, gettarti in quel volo folle e radente che è la vita. Forse, ti ho visto schiantarti, sicuramente accadrà ancora e ancora. Prima di concludere e salutarti definitivamente ci tenevo a dirti questo: ti ho invidiato.
Io soffro di vertigini, quel salto non lo farò mai, e per questo credo di doverti anche delle scuse: dall’alto della mia perfetta morare ti ho fatto sentire in difetto, in passato, ti ho giudicato. Non te ne fregherà granché a questo punto, ma voglio ammettere anche questo. I miei paletti sono rigidi come me, ho dei punti fermi che non sono validi nel mondo vero, sono ideali, e io stessa posso aggrapparmici perché non attraverso la realtà, le cammino accanto, la osservo soltanto. Per questo giudicare per me è facile, sono un giudice imparziale, sembro giusta, sembro assoluta. Ho perso il conto delle volte che mi è stato detto, me lo dicono tutti, un confronto con me è quasi biblico, la mia è una verità incontestabile.
Ma non è una verità applicabile alla vita.
Ti ho invidiato davvero, sei imperfetto sotto ogni punto di vista, le due debolezze ti rendono meschino come pochi, ma forse ha ragione Gaia quando mi dice che l’umanità sta nella meschinità, non negli atti ideali. Che, paradossalmente, i miei ideali mi rendono poco umana.
Inizio a vederci un senso, tu sei una forma di umanità assoluta, pura, per come ti barcameni a fatica nella tua esistenza tentando sempre. Sì, ti invidio, io aspetto, non so neanche cosa. Ci sono persone che per la vita non sono tagliate, forse entrambi rientriamo in questa categoria, siamo inadeguati, per questo non ci siamo lasciati andare nel tempo, abbiamo riconosciuto nell’altro la medesima inettitudine.
Però ti sei tuffato, e questo cancella qualsiasi giudizio io possa aver emesso, qualsiasi peso possa averti scaricato addosso. Non è vero nulla Ale, sei orribile, sei meschino ed egoista e fragile di una fragilità che ti farà commettere le più grandi scemenze della tua vita, ti condannerà a vivere situazioni infelici probabilmente. Ma sei uno che tenta.
Quindi, sentiti libero da qualunque emozione negativa di cui io ti abbia investito, se ancora ti trascini qualche rimasuglio di colpa o di mancanza nei miei riguardi, per quanto ormai non credo sia così. Non ho più rancore per te, ed ogni racconto deve giungere alla sua conclusione. Abbiamo condiviso tanti anni, voglio una conclusione positiva, uno scioglimento che ci permetterà di salutarci serenamente per strada, semmai ci incontreremo.
 
“C'è qualcosa che odia i muri,
fa gonfiare il terreno gelato sotto di loro,
rovescia il masso portante sotto il sole;
rende perfino affannoso il respiro
se due passano fianco a fianco.
I cacciatori fan la loro parte passando
non avevano lasciato pietra su pietra
per stanare il coniglio dalla tana
e accontentare i loro cani uggiolosi.
Parlo piuttosto di respiri che nessuno
ha mai visto né sentito,
ma quando arriva il momento di costruire
noi li troviamo là.
Lascio che il mio vicino oltre la collina
se ne accorga, così noi due c'incontriamo
camminando lungo il confine
e lo rimettiamo in piedi di nuovo
e teniamo quel muro tra noi due
quando ce ne andiamo.
A ognuno i propri massi caduti prima.
Alcuni come pagnotte altri quasi palloni
c'inventiamo una magia per tenerli insieme:
“State lì finché non ci voltiamo!"
Usiamo le nostre dita rozze per sistemarli.
Oh! una vera partita all'aria aperta.
Uno per lato. Si gareggia per poco:
Dove ci troviamo non c'è bisogno di un muro:
lui è tutta una distesa di pini e io
un frutteto con alberi di mele.
I miei alberi non attraverseranno mai
per mangiare le sue pigne, gli dico.
Ma risponde "Un buon steccato fa buon vicinato"
Un salto sarebbe mio danno, e mi chiedo
se posso convincerlo: "perché fa buon vicinato?
Non serve forse per le mucche? Ma qui non ce ne sono.
Prima di costruire il muro avrei voluto sapere cosa
chiudevo dentro o lasciavo fuori,
e a chi recavo offesa.

Qualcosa odia il muro, lo vuole abbattere"
 
Ora posso davvero ritirarmi, scusa se questa volta sono stata io a spezzare il silenzio, sarà l’ultima, lo giuro.
A quarant’anni al traguardo, forse.
Grazie e stammi bene, ovviamente!
 

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