Nuova pista a New York City

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I- Il telaio ***
Capitolo 2: *** Capitolo II- I fili ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - La spola ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV- La via più semplice ***
Capitolo 5: *** Capitolo V- La via più semplice, parte seconda. ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI- La sottile linea. ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII- Topi di fogna. ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII- Topi di fogna, parte seconda. ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX- Ragnatele invisibili. ***
Capitolo 10: *** Capitolo X- La mossa dei Bianchi ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI- La scatola dei ricordi ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII- Petali bruciati ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII- La mossa dei Neri ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV- Lealtà. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I- Il telaio ***



 

Capitolo I
Il telaio.




 

Le strade della città erano gremite di gente, le luci colorate che si tendevano da un palazzo all'altro davano una sensazione di festa e di gioia che si sprigionava nell'aria come i profumi dei cibi che salivano in spirali e volute verso il cielo limpido.
Tirava un'aria fresca che aveva portato molti a munirsi di giacche e maglioni, ma senza riuscir a far desistere i tanti che avevano deciso di passare quel sabato sera in giro per la città.
Sorrise ad un gruppo di ragazzi di forse una sedicina d'anni che gli passarono vicino ridendo e scherzando ad alta voce, una delle ragazze notò il suo sguardo e gli sorrise di rimando, imbarazzata, come se volesse giustificare gli schiamazzi dei suoi amici. Le fece un cenno con il capo, scoprì la fila di denti candidi che nascondevano le sue labbra e li sorpassò, continuando a sogghignare per le risatine che le amiche della giovane si lasciavano scappare al suo indirizzo.
Camminò tranquillo tra la folla che occupava la strada interdetta alle macchine e si avvicinò al suo Caffè di fiducia, entrandovi senza difficoltà.
L'ambiente era un piccolo capolavoro di legni scuri, tinte turchesi e specchi sparsi per ogni superficie. Come ogni volta non riuscì ad impedirsi di alzare lo sguardo verso il soffitto cosparso di frammenti riflettenti, piegando le labbra nello scorgere la sua stessa immagine spezzettata in milioni di piccole tessere.
Si avvicinò al bancone e salutò con cortese famigliarità il barista che senza neanche aspettare un suo segnale cominciò a preparare il suo solito caffè ristretto mentre lui si accomodava tranquillamente su di uno sgabello alto, decorato di vernice stinta e graffiata, della stessa tonalità delle pareti del locale.
Il piano del bancone era una lucida lastra di rame piena di graffi e piccole ammaccature dovute al passaggio di tutta la gente che entrava attirata dall'aria magica del locale e ordinava la specialità della casa. Una tazzina di vetro con il manico ed il fondo di metallo gli venne posta davanti e con un cenno del capo la prese ringraziando il giovane e portandosi la bevanda alle labbra.
Il telefono squillò piano, quasi sottovoce, per non disturbare l'ambiente ed i suoi avventori, lo recuperò con un fluido movimento della mano e guardò curioso il numero sul display: non lo conosceva ma di certo quello era il prefisso di Las Vegas, chi lo chiamava dalla città del peccato?
Fece scorrere il dito sullo schermo piatto e abbassò lo sguardo sul suo caffè.
<< Pronto?>> chiese con tono basso ma chiaro, senza lasciar trasparire la sua curiosità.
Dall'altro capo del telefono una voce famigliare e fin troppo conosciuta rispose a quella domanda.
Prese il manico fino tra indice e pollice e fece roteare il liquido scuro, cercando di mescolare quella polvere come gli avevano sempre detto di non fare: era più forte di lui, adorava sentire la consistenza granulosa del caffè sulla lingua, forse era l'unico al mondo.
Annuì piano alle parole del suo interlocutore e ne mormorò qualcuno in una lingua stretta e melodica. Si portò la tazzina alle labbra e bevve tutto d'un sorso, chiudendo la telefonata senza neanche un saluto.
Il suo sguardo si fissò sullo specchio dietro alle mensole cariche di stoviglie elaborate, bottiglie colorate e scatole decorate, oltre tutti quegli oggetti per incontrare il suo riflesso.
Rimise il telefono nella tasca interna della giacca e si sistemò i capelli con un gesto automatico, sorridendo alla sua stessa immagine e a ciò che trasmetteva a chiunque l'avesse vista, conscio di ciò che molti avrebbero potuto pensare.
Lasciò il denaro sul bancone ed uscì dal Caffè per riimmergersi nelle strade affollate e respirare una boccata d'aria fresca mentre estraeva con calma un portasigarette dalla stessa tasca in cui aveva riposto il telefono.
La fine scatolina d'argento baluginò come un lampo tra tutte quelle lampade colorate e rivelò una serie di fini sigarette scure tutte perfettamente allineate.
Ne prese una e se la portò alle labbra con eleganza, lisciandosi la barba curata che incorniciava la bella bocca carnosa. Rimise al loro posto le altre sigarette e cercò l'accendino nei pantaloni. Fece scattare il coperchio ed una fiamma blu brillò tra le sue mani, mentre l'avvicinava alla sigaretta non poté far a meno di passare il dito sul decoro in rilievo.
Sulla pancia bombata dell'accendino era stato inciso a positivo il muso di un cervo dalle corna ramificate. Sorrise a quella visione, la sigaretta si inclinò assieme alla piega delle labbra, sbilanciandosi verso il terreno come un equilibrista che tenta di mantenere la posizione.
Tornò con lo sguardo sulla folla, puntandolo nella direzione dove sapeva esserci il porto, quasi riuscisse a vederlo da lì.
Il suo sorriso non si spense neanche per un attimo, serrò la presa sull'accendino tenendolo al centro del palmo e soffiò via una nuvola di fumo.
A quanto pareva, stava per arrivare una tempesta, il diario era stato ritrovato e nessuno era più al sicuro.

Nessuno.

 

 




 

 

Le strade affollate lo infastidivano come fin troppe cose a questo mondo, ne era perfettamente consapevole, eppure non riusciva a far a meno di guardare male tutte quelle coppiette che gli gravitavano felici attorno ridacchiando e scambiandosi effusioni.
Lui odiava dare spettacolo in quel modo e probabilmente era quello in buona parte a fargli saltare i nervi. Con quale coraggio la gente si metteva a sbaciucchiarsi in mezzo alla strada? Insomma, era una cosa tra loro, se la tenessero per il privato. Poteva capire un bacio al volo, magari un attimo di romanticismo, ma se quei mocciosi davanti a lui non avessero smesso di limonare entro trenta secondi netti li avrebbe sbattuti in prigione per oscenità in luogo pubblico. Lo avrebbe fatto.

Giuro.

Sospirò pesantemente, il problema era quanto lui stesso fosse facilmente turbabile da ogni singola cosa su questo mondo ed il fatto che il suo telefono gli segnalasse notifiche in continuazione non riusciva proprio ad aiutarlo ad accantonare quel turbamento perenne prima citato che si portava appresso da una vita.
Strinse i documenti sotto al braccio e ficcò una mano in tasca solo per trovare a tentoni il pulsante del volume e azzerarlo.
Erano immagini, lo sapeva perfettamente che tutta quella posta non era altro che una sequela di foto e lui non le voleva vedere. Se solo avesse trovato quel dannatissimo pulsante.
Strinse i denti e tolse la mano dalla tasca, si sarebbe congelato le dita ma non avrebbe toccato il cellulare, lo avrebbe ignorato fino a che non sarebbe arrivato a casa.
Era appena uscito dal numero 1 della Police Plaza di Manhattan e l'unica cosa che voleva era tornarsene nel suo appartamento e scappare da quella marea di cuori, orsetti e quant'altro di cui la street era sommersa.
Aveva portato dei documenti importanti al Capo Bureau Blackthorn, tutti i moduli in cui accettava ufficialmente il suo incarico come capo squadra, come diretto superiore e responsabile del nuovo agente operativo appena passato dalla sezione informatica e anche i documenti in cui chiedeva formalmente l'impiego di un consulente esterno, l'ultimo membro della sua curiosa e mal assortita banda.
Si portò automaticamente una mano alla cinta dei pantaloni, lì dove, sotto il maglione, era attaccato il suo distintivo. Il solo sfiorare la forma di metallo gli dava un senso di pace che per troppi mesi gli era mancato, la semplice consapevolezza di essere di nuovo sempre in servizio.
Poteva sembrare un controsenso e forse anche un onere senza fine, ma lui lo aveva sempre saputo e lo aveva accettato sin dal principio, l'idea di essere costantemente un poliziotto dal momento in cui aveva preso il distintivo ed aveva prestato giuramento sino a quando non lo avrebbe riconsegnato. La consapevolezza di potere, di dover, intervenire ogni volta che ce ne fosse stato bisogno lo faceva sentire bene, lo faceva sentire completo e utile. Ecco, proprio utile, era questa la parola chiave. Il suo psicologo sarebbe dovuto essere fiero di lui, aveva appena trovato uno dei famosi “nodi” che reggevano la sua vita e non si era neanche dovuto sforzare più di tanto.
Si passò una mano tra i capelli per toglierseli da davanti al volto, prima o poi se li sarebbe dovuti tagliare o gli sarebbero finiti costantemente sugli occhi e non poteva proprio permettersi di avere la visuale ostruita. Per di più non era proprio da poliziotto portare i capelli lunghi, gli erano cresciuti tantissimo in quei tempi. Già di norma era costretto a tagliarseli circa una volta al mese tale era la velocità con cui si allungavano, aver passato quasi un mese in coma, altri due bloccato in ospedale ed un quarto mese chiuso in casa senza possibilità di fuga se non per raggiungere il tribunale non aveva aiutato. E sia mai che si facesse toccare i capelli da Isabelle, era successo una volta e non sarebbe mai più capitato. Forse avrebbe potuto chiede a Jace, lui si che era bravo con tutte quelle cosa lì, era lui a fare i boccoli a Izzy quando erano piccoli.
Si sistemò distrattamente la sciarpa azzurra che continuava a scivolare lungo la spalla e scostò il bordo della manica del giaccone con un gesto secco, controllando l'ora ed imprecando quando si rese conto che non avrebbe fatto in tempo ad arrivare a casa, posare i documenti, prendere la macchina ed arrivare allo studio del medico in solo mezz'ora. Certo, se solo gli avessero dato quella benedetta autorizzazione a guidare per più di due ore al giorno… ma no, per carità, poteva sollevare dieci chili con un braccio solo, poteva farsi tutta Manhattan a piedi e rischiare un embolo al polmone o una bolla d'aria, ma per carità, lo sforzo di girare il volante fornito di servosterzo era troppo.
Dannata riabilitazione. Lei e i dottori.
Oh, ma mancava poco, ormai aveva ripreso la piena mobilità del braccio e anche se aveva l'obbligo di non sforzarlo troppo la sua presa di servizio era a tutti i modi ufficiale.

E che mi venissero a dire di nuovo che non posso ritornare a lavoro perché in caso di pericolo non posso difendermi e sparare. Sono ambidestro, stronzi.

Alzò un braccio, proprio quello ferito, per chiamare un taxi e ben presto una vettura gialla si fermò vicino a lui.
Gli diede l'indirizzo e si accomodò sul sedile consumato ma pulito della macchina.
Avrebbe voluto finirla anche con quelle stupide sedute dallo psicologo, ma i suoi superiori ed un'equipe di medici erano convintissimi che ne avesse bisogno.
Non era la prima volta che uccideva un uomo, non era la prima volta che sparava con l'intento di eliminare il suo bersaglio, non aveva bisogno di qualcuno che gli chiedesse come si sentiva perché lo sapeva già perfettamente: aveva fatto il suo dovere, aveva salvato delle vite a costo di una, la massa a costo del singolo. Ne era felice? Ne ricavava appagamento? No, certo che no, ma questo non gli avrebbe impedito di dormire, non gli avrebbe impedito di tornare in pista e continuare a proteggere il suo paese. L'integrità del suo senso morale non ne risentiva, la sua coscienza sì e nonostante ciò sapeva che struggersi per questo non avrebbe avuto senso.
Non gli piaceva rifletterci sopra ma spesso lo faceva perché sapeva di averne bisogno, concentrarsi per un attimo su tutto il sangue che aveva sporcato le sue mani e che le sporcava ancora, chiedersi perché lo avesse fatto e darsi una risposta, dirsi che era parte del suo lavoro, che era un'eventualità che aveva messo in conto proprio come la consapevolezza di essere sempre in servizio.
Per quale motivo avrebbe dovuto dire tutte queste cose ad uno sconosciuto quando lui, per primo, ne era perfettamente consapevole? Non cercava di nascondersi dietro a nulla, sapeva che un giorno anche lui sarebbe stato giudicato e che sicuramente la sua anima non avrebbe avuto lo stesso peso di una piuma. Lo sapeva e lo accettava. Tutti avevano i propri demoni e vi convivevano, lo faceva lui come lo faceva il resto del mondo.
La sua mente cominciò a tirar fuori collegamenti che si srotolavano a ritroso nel suo passato lavorativo, i casi chiusi, compreso l'ultimo, il caso Cassell, il suo primo caso, i mesi da Riservista e quelli di preparazione militare; gli anni passati a seguire il suo Capo e imparare il mestiere, quelli passati a riordinare le prove e i casi degli altri e ancora quelli dell'accademia. Che il dottore volesse sentirlo parlare di questo, di ciò che era passato e che lui aveva già ampiamente assimilato?
Dio, sperava proprio di no.
La sua unica consolazione era che quelle sedute sarebbero durate ancora per poco.
Pagò la corsa non appena il taxi lo lasciò davanti allo studio del suo psicologo e fissò il palazzo con aperto astio. Salire quelle scale e arrivare al quinto piano della struttura gli pareva una cosa estremamente faticosa. E non importava che ci fosse un ascensore, era proprio l'idea di doversi sedere ancora su quella poltrona e sentirsi chiedere come si sentisse che lo stancava. Magari quel giorno la solfa sarebbe cambiata.
Lo studio era ampio e dai toni chiari e caldi, era accogliente e pareva più una spa che un centro medico, ma forse questo era tutto dovuto al fatto che si trovasse in un esercizio privato.
La segretaria, una donna sulla cinquantina sempre molto gentile e disponibile che gli ricordava la classica nonna delle favole, pronta a sfornare dolci e dare abbracci soffocanti, gli sorrise come ogni volta e lo invitò ad accomodarsi subito nell'ufficio del dottor Lawson, che lo stava già aspettando.
Cercando di restituirgli lo stesso sorriso, e fallendo miseramente riuscendo solo in quel suo classico ghigno storto, si avviò a passo sicuro verso la familiare porta di vetro opaco e bussò educatamente, aspettando il permesso d'entrare.
<< Prego, avanti.>> gli rispose una voce calma e baritonale.
Afferrò la maniglia e spinse l'uscio. << Buona sera Dottore.>>
<< Buona sera a te Alexander. Entra su, mettiti comodo.>>
Nella stanza elegantemente arredata spiccava la scrivania scura che troneggiava davanti alla fila di ampie finestre a muro che davano all'ambiente tutta la luce naturale di cui necessitava, di giorno. Le prime volte che era stato lì era mattina e tutta quella luminosità lo aveva quasi turbato, lo aveva fatto sentire esposto. Forse il dottore se ne era accorto ed era per quel motivo aveva spostato i loro appuntamenti al pomeriggio.
L'uomo che lo aveva invitato a sedersi era di mezz'età, probabilmente più vecchio di suo padre ma non arrivava di certo ai sessanta. Era di carnagione rosea e la sua figura massiccia trasmetteva una certa fiducia che gli doveva essere senz'altro utile nella sua professione.
Aveva un volto gioviale e sereno, gli occhi nocciola erano costellati da venature più scure e ai loro angoli si aprivano una raggiera di rughe che lo facevano classificare automaticamente come un uomo solito alle risa. Lo suggerivano anche le rughe più marcate che si nascondevano nella barba curata che copriva le guance piene e le labbra morbide. I capelli brizzolati gli davano quel definitivo tocco da intellettuale che veniva completato dai classici occhiali in corno.
Quando Alec si fu accomodato gli fece un cenno con il capo.
<< Vedo che hai dei documenti con te, sei finalmente passato al dipartimento per consegnare le ultime carte? Devo dedurne che presto tornerai in servizio operativo?>> gli domandò come se fosse felice di quella novità.
Lui annuì. << Sì, ho firmato tutti i documenti e a breve prenderò servizio.>>
<< Hai già una data?>>
<< Quando approveranno la mia richiesta per il consulente. Vorrei iniziare sin dal primo giorno con entrambi. Nel frattempo mi preparerò a questa nuova… a questa nuova situazione.>> intrecciò le mani e annuì di nuovo, sembrava quasi si stesse autoconvincendo che quelle fossero le parole giuste ed il dottore lo notò.
<< Devi ancora abituarti al tuo nuovo grado, Tenente? >> rise bonario del leggero rossore che gli colorò le guance, << Oh, non devi vergognartene, è una cosa importante questa. Sei stato promosso di grado per un motivo a dir poco importante, non scordiamocene, e per di più dovrai lavorare per la prima volta con altre persone.>>
<< L'ho già fatto, all'inizio. Ho seguito il Servente Marvin per sei mesi prima di ottenere un caso solo mio, dopo la divisione delle squadre.>> precisò lui.
<< Vero. E ciò mi fa pensare che ancora non mi hai spiegato perché non hai mai avuto un partner o perché non te ne hanno assegnato uno.>>
Alec si strinse nelle spalle. << Eravamo dispari e tre detective dello stesso grado nella stessa squadra non sono una buona cosa. Se non c'è gerarchia tutti tendono a fare di testa loro. Poi ho ingranato con il mio ritmo e vedendo che ottenevo comunque risultati non hanno reputato opportuno darmi un compagno.>> spiegò allora con semplicità.
Il dottor Lawson corrugò le sopracciglia pensieroso. << Quindi il tuo Capo ti reputa più in gamba dei tuoi colleghi, a tal punto da non darti un compagno ma assegnarti direttamente una squadra?>>
Il volto del giovane andò in fiamme non appena realizzò ciò che l'uomo gli aveva suggerito. Si tirò di colpo dritto, sporgendosi verso la scrivania e scuotendo le mani.
<< No! No, assolutamente no! I miei colleghi raggiungono i miei stessi risultati, abbiamo una media degli arresti e dei casi portati a termine e siamo tutti allo stesso livello.>>
<< Mh, tutti come singoli o come squadra?>>
Alec comprese perfettamente ciò che intendeva il medico con quella frase ma scosse ancora la testa.
<< No, io… >> si bloccò, << non so cosa risponderle sinceramente.>>
L'uomo batté un paio di volte le mani << Questo è uno dei punti cruciali delle nostre sedute Alexander, te lo dico sin dalla prima, tu ti sottovaluti. Ti sminuisci e invece sopravvaluti tutti coloro che ti stanno attorno. E se per poco sono anche tuoi amici o tuoi famigliari allora siamo proprio all'apoteosi! >> gli fece un cenno per non farsi interrompere, << Oh, no no, ora mi ascolti. Sei un ottimo detective, hai lavorato per anni da solo e negli scenari più disparati e poi, dopo la tua più che meritata promozione, ti è stata data tanta di quella fiducia da assegnarti una squadra tutta tua. Composta da un novizio e da un consulente non proprio, come dire, “corretto”.>>
Alec abbassò la testa e serrò le labbra.
<< Questo tuo problema di autostima andrebbe affrontato con cura e secondo me avresti dovuto farlo anche prima.>>
<< Non ho problemi di autostima.>> protestò il moro rialzando il capo.
<< Tu e tuo fratello siete entrambi poliziotti. Chi è il più bravo?>> chiese.
<< Siamo in due ruoli diversi. Io sono più bravo ad investigare e lui ad agire.>>
<< Okay, chi di voi due è più bravo a sparare?>> ritorse allora.
<< Jace.>> disse senza esitazione Alec e l'uomo sorrise.
<< Eppure mi pare che sia tuo il titolo di miglio tiratore dell'accademia e miglior tiratore del dipartimento. E mi pare anche che sia tu il cecchino e non lui.>> concluse calmo, come se avesse appena mosso scacco al re.
Alec si morse un labbro e fece per replicare. Poi si sgonfiò e annuì.
<< Capisco che tu lo possa reputare migliore per puro orgoglio fraterno, ma un po' di sana competizione ci sta ragazzo mio, fattelo dire.>> Lo osservò per un attimo. << Ma ora passiamo ad altro. Sei in servizio da Dicembre, seppur obbligato alla scrivania, tra poco però entrerai in servizio attivo. Hai di nuovo la pistola?>>
<< Me la riconsegnano quando riprenderò.>> si rilassò un poco per quel cambio di argomento.
<< E stai aspettando di tornare per farlo assieme alla tua squadra.>>
<< Sì, insomma, tornerò un paio di volte per le ultime scartoffie, per vedere se c'è qualche caso semplice che posso prendere per farli iniziare e poi per il colloquio con gli Affari Interni per Magnus.>> snocciolò con la tranquillità di chi conosce l'argomento di conversazione.
<< Come pensi che andrà il colloquio? Sarà impegnativo?>> domandò allora il dottore.
Alec annuì. << Ho chiesto a Magnus di comportarsi bene. Mi ha detto che farà del suo meglio ma ho come l'impressione che non abbia capito la portata di questa cosa.>>
<< Perché dici così? Non gli hai spiegato tutto? Non posso crederci.>>
<< No, no, gli ho spiegato cosa succederà e che verrà giudicata la sua idoneità a collaborare con la polizia, però… >> sospirò e lasciò cadere le spalle in avanti. Poi si tirò dritto. << Ho come la sensazione che non tutti apprezzino l'idea di averlo proprio al Dipartimento.>>
L'uomo lo scrutò con attenzione, pensieroso quanto lui. << Di preciso, cosa ti preoccupa?>>
Alec si sfregò le mani, strinse le dita le une alle altre e poi le rilassò cercando le parole giuste.
<< Non posso dirle molto, mi spiace, mi è stato ordinato- >>
<< Non voglia sapere nulla sul Caso Alexander, vorrei solo che mi dicessi cosa ti preoccupa. Sono qui per questo, no? E poi ho il segreto professionale dalla mia.>> gli sorrise gentile.
<< Credevo fosse qui per appurare che la sparatoria non mia abbia fatto impazzire… >> rispose piano il giovane abbassando lo sguardo.
Il medico scoppiò a ridere con allegria e scosse il capo. << Oh, ma che puoi affrontare una cosa del genere senza impazzire ne sono perfettamente consapevole. Mio caro ragazzo, queste sedute sono per te, non per me. Siamo qui per affrontare quella matassa di sentimenti e dubbi che ti porti dietro. Quindi: cosa ti preoccupa di preciso?>>
L'altro tentennò, fissò i suoi occhi in quelli caldi e pacati del terapeuta e prese un respiro profondo.
<< Ho il timore che qualcuno, parlando di gerarchia di forze dell'ordine, non gradisca che una potenziale fonte di informazioni come Magnus sia “sprecata” con la polizia e quindi che cerchino una qualunque scusa per spostarlo in qualche altra sede.>> si liberò in fine di quel dubbio che gli martellava il cervello da quando la Signora gli aveva detto di ricordare a Bane quanto fosse essenziale che venisse approvata la sua presenza qui a New York e non in un qualunque altro posto.
Lawson lo osservò con quel suo occhio clinico che spesso teneva celato. C'erano state volte in cui, malgrado Alec avesse mantenuto l'educazione ed il distacco paziente-medico Lawson gli era parso solo un confidente, un buon uomo saggio con cui discutere di qualsiasi cosa e problema, volte in cui si dimenticava che quell'uomo era uno degli psichiatri più famosi di quella parte di emisfero, che era un luminare che per tantissimi anni aveva operato anche come neurochirurgo e che aveva usato questa sua esperienza “pratica” anche come teoria. Volte in cui credeva che se suo zio Max fosse stato ancora vivo quello sarebbe stato il tipo di rapporto che li avrebbe uniti, fatto di sorrisi gentile, battute educate e imbarazzanti solo ed unicamente perché stava parlando della sua vita privata con qualcuno più grande di lui e prese in giro su quanto il suo affetto nei confronti dei suoi fratelli lo rendesse cieco di troppe cose. Ma poi c'erano momenti come quelli, in cui lo fissava come se fosse un reperto medico, quando lo vedeva unicamente come paziente, come caso e non come persona, i momenti in cui lo scrutava come un dottore studia un cancro, come esamina una radiografia, che gli leggeva dentro tutto ciò che neanche lui credeva di avere. Erano i momenti in cui si ricordava perché la sua parcella avesse quel costo esorbitante e perché il suo nome era tra i più citati nei libri di testo e nelle conferenze di tutto il mondo.
Lawson lo osservò finché non ebbe trovato quello che cercava e allora annuì.
<< Di cosa stavamo parlando inizialmente? Di quando saresti tornato in pista e del perché non fossi già rientrato, giusto?>> chiese con una casualità che non poteva esser vera ma a cui Alec non cercò di trovare una motivazione. Non aveva la minima intenzione di chiedergli cosa avesse capito dalle sue parole, gli bastava sapere che avrebbero affrontato il discorso prima o poi, che quell'uomo sarebbe riuscito a tirar fuori la cosa senza che lui se ne rendesse conto e renderlo consapevole di qualcosa che al momento ignorava.
O voleva ignorare.
<< Sì, tornerò operativo assieme ai ragazzi e per il momento cercherò di sistemare tutto al meglio per il loro primo giorno di lavoro.>> si risolse a dire con fermezza.
<< E Magnus e Simon come stanno? Gli hai detto cosa stai facendo?>>
<< Perché dovrei dirglielo? Stanno solo smaniando per sapere la data d'avvio.>> fece confuso.
<< Beh, se un amico mi dicesse che si sta trattenendo dal tornare al lavoro che ama e per cui è disposto a dare la vita, solo per aspettare me e cominciare questo nuovo capitolo assieme, io ne sarei lusingato e molto felice.>> gli spiegò allora Lawson.
Alec scosse piano la testa. << Simon comincerebbe a dire che lo faccio perché gli voglio bene e attaccherebbe con una sequela di frasi sull'amicizia e l'unione e cose così che non finirebbe più.>>
<< E Magnus?>>
<< Lui è già abbastanza montato di suo, non c'è bisogno che gli dia altre motivazioni per fare il gallo del pollaio.>>
Il medico si aprì in un sorriso sornione che ad Alec ricordò troppo quello di suo padre e non gli piacque per niente.
<< Cosa mi dici di voi due? Come hai intenzione di comportarti?>>
Se Alexander era arrossito prima per un semplice complimento, in quel momento sarebbe potuto diventare un campionario di tinte rosse.
Ecco, questi erano i momenti in cui dimenticava di star parlando con un professionista.
Balbettò qualcosa senza senso fino a quando il medico non cominciò a ridacchiare senza cattiveria e Alec lasciò cadere le spalle e la testa in avanti, sospirando. Prese un respiro e ci riprovò con calma, come gli aveva sempre detto l'uomo.
<< Mi comporterò come sempre, come faccio adesso.>>
<< Lascerai quindi che ti abbracci in pubblico o magari ti… >>
<< NO!>> disse di colpo Alexander saltando di nuovo su. << Non lo farà, io non glielo permetterò. Non glielo permetto tutt'ora. Insomma, un conto è se siamo soli e lontani da occhi indiscreti ma… >> scosse la testa << no, sul luogo di lavoro gli ho già detto come deve comportarsi.>>
<< Il tuo capo ti ha detto nulla?>>
<< A che proposito?>> domandò sospettoso.
<< Beh, a proposito della vostra relazione.>>
Il ragazzo lo fissò sbalordito, senza riuscire neanche a muoversi.
<< N- noi… noi n-n-non abbiamo una ree- re-e-elazione.>> rispose con voce tremante.
Lawson lo guardò con la dolcezza tipica di un nonno che guarda il nipote.
<< Ancora non ne avete parlato?>> chiese con delicatezza vedendosi rispondere con uno scuotere di testa. << Dovreste farlo Alexander, vi farà bene stabilire la natura del vostro rapporto.>>
<< Non ne abbiamo veramente uno. Vede noi… non è successo niente. O meglio, non dopo la sparatoria. La seconda, non la prima. Si, è successo una volta sola e… e poi… >>
<< Vuoi forse farmi credere che non vi siete più scambiati neanche un bacio?>>
Alexander chiuse gli occhi, gli faceva ancora strano sentire un uomo, specie di quell'età, parlare con così tanta tranquillità della relazione tra altri due uomini. Gli domandava come fosse il loro rapporto, come si sentisse quando stava con lui, se Magnus lo abbracciava mai, se sentiva il bisogno lui di farlo, se avessero mai dormito l'uno a casa dell'altro o se si fossero baciati. Dio, gli aveva anche fatto una battuta sul vischio quel Natale!
Sospirò e si strinse nelle spalle, un ragazzone di un metro e novanta che cercava di farsi piccolo chiudendosi in quelle spalle da nuotatore che si ritrovava.
<< Sì, è successo… e, lo sa, a Natale abbiamo dormito insieme- solo dormito!>> si affrettò a dire arrossendo e l'uomo gli sorrise, dicendogli che glielo aveva raccontato. << Ma non è che la nostra sia proprio una relazione, ecco.>>
<< Non vorrei contraddirti Alexander, ma invece io credo proprio che sia l'albore di una relazione questa. Capisco le possibili implicazioni, te lo assicuro, ma non pensi che sia ora anche per te di essere felice?>> gli domandò in fine.
Alec lo guardò ma non osò rispondere, così continuò lui.
<< Allora dimmi, tutto ciò, come ti fa sentire?>>

Il moro alzò gli occhi al cielo, esasperato ma sollevato dal mezzo sorriso che era apparso sul volto del suo medico.
Lo sapeva, avrebbe mai smesso di porgli quella domanda?


 






 

Simon spostò lo sguardo dalla sua uniforme al distintivo che spiccava lucido nel riflesso dello specchio. La sua intera figura gli appariva quasi estranea così conciata, non indossava la divisa dalla promozione di Alec, quando il sindaco gli aveva consegnato la targa di riconoscimento da parte della città di New York ed il titolo di Tenente.
Non avrebbe dovuto portarla tutti i giorni in servizio, lo sapeva, essere un detective, seppur di primo grado, aveva il magnifico vantaggio di potersi vestire come si voleva. Anche se Alec portava sempre il tuo perfetto completo da Man in Black. Dio come lo invidiava, lui con la giacca nera e la camicia bianca sembrava solo un pinguino con un cappio al collo.
Si guardò ancora allo specchio e si domandò, non per la prima volta, cosa ne avrebbe pensato suo padre, cosa gli avrebbe detto, se sarebbe stato fiero di lui… probabilmente non lo avrebbe mai saputo ma aveva la vaga sensazione che Malcom avrebbe avuto la stessa identica espressione di Lucian quando gli aveva stretto la mano dopo il diploma.
Lucian Garroway era il patrigno della sua miglior amica, quella sottospecie di sorella mancata che era Clary Fray, e per molti versi era stato anche il suo di patrigno. Era stato Luke ad insegnargli a farsi la barba, lui ad avergli dato una pacca sulla spalla e avergli detto che stava diventando un uomo e sempre lui a fargli i primi imbarazzanti discorsi sulle ragazze e sul sesso.

Sempre meglio che sentirmeli fare da mamma.

Doveva molto al Capitano della Crimine Organizzato e proprio come se fosse stato il suo genitore aveva paura di deluderlo in qualche modo o di coprirsi di ridicolo, la gente si sarebbe ricordata che lui e Luke erano in un qualche modo legati e gli avrebbero rinfacciato la sua inettitudine?
Oh, Simon sperava vivamente di no, anche perché prima di rimproverare Lucian per quanto lui fosse un incompetente avrebbero rimproverato prima qualcun altro.

Il mio Capo!

Alexander non gliene avrebbe mai fatto una colpa se all'inizio avrebbe commesso qualche errorino da poco, magari gli avrebbe fatto passare anche uno o due grandi cazzate, ma non aveva intenzione di scoprirlo e non voleva neanche immaginare la faccia adirata del Tenente. Non voleva immaginarla rivolta verso di lui né tanto meno rivolta verso altri che avevano avuto la faccia tosta di prenderlo per il culo. Lui o Magnus.
Dio, non Magnus, quell'uomo sarebbe stato capace di fare un numero dei suoi e di farsi buttare fuori dal Dipartimento a calci prima ancora di potercisi mettere comodo.
L'unica soddisfazione era sapere che Alec li avrebbe protetti a spada tratta entrambi e senza la minima esitazione. Ancora si domandava come il moro riuscisse a sopportare i peggiori insulti e le prese in giro nei suoi confronti ma andasse su tutte le furie anche solo se qualcuno si sognava di dare del cretino al fratello.
Alexander aveva uno spirito di protezione un po' eccessivo alle volte.

Anche se questo gli ha permesso di salvare la pelle a tutti parecchie volte. Come quando Clary aveva deciso di guidare al rientro dallo Spring Break e Alec glielo aveva impedito legandola ed imbavagliandola.

Sorrise a quel ricordo e si tolse finalmente il cappello, ravvivandosi i ricci castani con un movimento distratto e poggiando con cura il copricapo sul letto. Cominciò a togliersi la giacca tenendo lo sguardo fisso sul calendario appeso alla parete e cercando di fare un rapido calcolo probabilistico su qualche sarebbe potuto essere il giorno della sua presa di servizio, chiedendosi se avrebbero cominciato prima della fine di Febbraio o se avrebbero dovuto aspettare il nuovo mese. Sicuramente prima Magnus doveva superare il colloquio con gli Affari Interni e chissà quanto gli ci sarebbe voluto al Dipartimento e al suo avvocato per mettersi d'accordo sui termini del loro rapporto lavorativo. Forse era già stata fissata, magari poteva chiamare Magnus stesso e chiederglielo.
Si cambiò in fretta, facendo attenzione a non spiegazzare la divisa ma anche cercando di infilarla il prima possibile nella sacca protettiva, conscio che sarebbe stato anche in grado di farla andare a fuoco per errore.
Prese il telefono e cadde con un tonfo attutito sul letto mezzo fatto, se si poteva reputare tale tirar su le coperte e basta.
Ci furono una decina di squilli ma non se ne preoccupò, era Febbraio, c'erano i saldi e si stava avvicinando San Valentino, non voleva neanche immaginare quanta roba avesse comprato l'amico e quanti santi stesse scomodando dal paradiso per riuscire a trovare il cellulare.

<< Porco il d- Sidmund! Toglimi una curiosità, gli ebrei si offendono se bestemmi davanti a loro?>> chiese la voce infastidita e poi improvvisamente allegra di Magnus.
Simon sorrise. << Buona giorno anche a te Mags, come te la passi? Stai di nuovo cercando di farti esplodere l'armadio?>>
<< Il mio armadio non esploderà, o meglio, lo avrebbe fatto se fosse stato solo un armadio, ma per mia fortuna sono stato abbastanza lungimirante da farmi costruire una cabina.>>
<< Intendi dire che hai visto il quantitativo esagerato di roba che già avevi e hai deciso di montare degli scaffali ad una delle camere degli ospiti e requisirla per te invece di sprecare soldi in armadi?>>
<< Non sarebbero stati sprecati e non è “roba”, ma puro stile tessuto solo per esser indossato da me e rendere grazie agli dei della moda.>>
<< Questo è blasfemo.>> gli fece notare ridacchiando.
<< E se tu fossi qui con me potrei farti vedere la vastità del caz- >>
<< Sì, sì, come ti pare. Hai per caso saputo quando devi fare il colloquio con gli Affari Interni? Mi sta prendendo l'ansia per te, voglio entrare in servizio anche io ma finché tu non sei a posto non si può.>> Si rotolò sul letto e l'occhio gli cadde sul suo vecchio poster di Vlad l'impalatore, il vero conte Dracula. Il suo sorriso si allargò quando ricordò che nella camera di Alec ce n'era uno simile, sono con Vanelsing. << Lo sai che io e Alec abbiamo dei poster identici ma solo con personaggi diversi e completamente opposti? Tipo che io ho Dracula e lui ha il cacciatore.>>
<< Di nuovo Severin, la vastità del- >>
<< Forse questo avrebbe dovuto farmi capire dall'inizio che avremmo litigato per la maggior parte dei film. Tu chi preferisci tra i due?>>
Dall'altro lato della cornetta Magnus sospirò infastidito ma comunque conscio di non potersi lamentare: lui interrompeva Samuel ogni due minuti, non poteva criticarlo per aver preso questo suo tratto. Era proprio vero che a passare troppo tempo con qualcuno se ne prendevano le caratteristiche più spiccate ed i modi di fare. Come il fatto che lui ora stesse sospirando affranto come faceva sempre Alexander.
<< Di che film?>> domandò quindi.
<< Vanelsing.>>
<< Huge Jackman, me lo chiedi pure? Però una botta o due l'avrei data volentieri anche alla tipa che muore e a tutte le mogli di Dracula. La cacciatrice pareva una che ama cavalcare e sono sempre stato favorevole alle cose a tre, figurarsi a quelle a quattro. Mi rammarico solo di non aver abbastanza attributi per poter soddisfare tutte quelle donne contemporaneamente. Insomma, ho delle mani magiche e anche la mia lingua non scherza certo però preferirei sentir- >>
<< OKAY! Troppe informazioni tutte insieme! Non che non approvi in pieno quello che stai dicendo bello, ma ho una fervida immaginazione e non so proprio se voglio figurarmi te che fai roba.>>
<< Tranquillo, ti do' tre mesi di lavoro fianco a fianco e imparerai a chiedermi tu i dettagli delle mie avventure sessuali.>>
<< Sì, come ti pare, ma la sai questa data o no?>>
Magnus fece schioccare la lingua in bocca e borbottò qualcosa contro un fattorino che aveva quasi colpito le sue buste. Si avvertì il suono di qualcosa che si sbloccava e Simon attese che l'altro caricasse le borse in macchina e si sedesse con comodo al volante.
<< Metti il vivavoce.>> gli disse subito.
Magnus sbuffò. << Stai diventando come Alexander.>>
<< Ti rendi conto che parliamo sempre e costantemente di lui? Lo tiriamo in ballo in ogni conversazione.>>
L'asiatico smanettò con il telefono e la sua voce arrivò leggermente più lontana. << Inizialmente era la sua mancanza che mi faceva sempre chiedere come stesse, visto che il genio mi mandava solo stupidi messaggini.>>
<< E ora cos'è? Il tuo folle amore?>>
<< Sarebbe la risposta del mio culo quella.>> mise in moto e si immerse nel traffico.
<< Non lo volevo sapere.>> si lamentò Simon con voce lagnosa. << Lascia stare… >>
<< Può darsi che siamo tutti e due innamorati di lui. Insomma, io mi farei volentieri ammanettare da qualche parte per farmi usare come schiavo sessuale, ma temo che il tuo sia tutto un complesso di inferiorità che ti porta ad ammirare il tuo eroe sino ad adorarlo e venerarlo. Solo, fattelo dire Sammy, non lo reggeresti il nostro Fiorellino, l'ho fatto a mala pena io che non sono alle prime armi...se vuoi farti sverginare non chiedere ad Alexander. Potresti rimanere traumatizzato.O rimanerci e basta. >>
Simon fece una smorfia. << E non volevo sapere neanche questo. Grazie Magnus, ora mi immagino Alec con un dannato palo al posto del pene, ogni volta che lo vedrò mi parrà una porno star.>>
<< Sarebbe bellissimo… >> fece Magnus con voce sognante. << Avere anche dei video di quello che fa, intendo… Dio, conosco donne che pagherebbero per avere quella bestia tra le gambe. Anche uomini in effetti, e sia nel senso che vorrebbero averlo loro sia che vorrebbero averlo in loro.>>
<< Perché stiamo discutendo di queste cose? Io volevo solo sapere se avevi la data del colloquio, non conoscere i tuoi sogni sessuali sulle attrici di Vanelsing, su orge e dimensioni degli attributi dei miei amici!>> Simon piagnucolò ancora e si alzò dal letto con uno slancio che non si sarebbe aspettato, fare tutta quella ginnastica stava dando i suoi frutti a quanto pareva.
<< Tu mi hai chiesto chi preferivo, lo sappiamo tutti che sono un maniaco sessuale e che penso sempre al risvolto pratico e piacevole di ogni cosa.>>
<< Questo magari non dirlo alla Herondale, che sei un maniaco sessuale intendo, anche se temo e lo abbia già capito da tempo.>>
<< Basta leggere la mia fedina penale!>> sibilò improvvisamente qualcosa e poi grugnì. << Perché la gente deve essere così incapace alla guida? Chi cazzo gliel'ha data la patente?>>
Simon sbuffò, << Presumo lo stesso tipo che ti ha venduto la tua.>>
<< Ehi, Sigfrido, la mia patente me la sono guadagnata! >>
<< Ma davvero, aspetta che lo metto nella lista delle cose false a cui pretendi che io creda.>>
<< Azz...>> fece allora Magnus con teatralità, << è tanto lunga?>>
<< Non sai quanto, bello!>> il ragazzo rise e poi per l'ennesima volta chiese. << Ma sta data?>>
Qualche borbottio gli fece intendere che l'altro stesse ancora litigando con il traffico e quindi attese con pazienza.
<< Dovrebbe essere il diciotto se non cambiano ancora.>>
Simon annuì. << Sì, prima te la cambiavano perché il tuo avvocato non accettava le clausole e le condizioni per farlo.>>
<< Cristiano dice che più che un colloquio, la lista delle domande che mi avrebbero dovuto fare e degli argomenti trattati pareva più che altro un interrogatorio. Ho già dato prova di essermi largamente fidato della polizia - >>
<< Intendi la prova del conto della lavanderia dove Alec andò a ritirarti il completo?>> insinuò Simon.
<< - e ho anche testimoniato in Tribunale! >> continuò ignorandolo.
<< Grazie tante, andavano a mettere in galera un poliziotto. Che per quanto mi dispiaccia dirlo, quel bastardo di Hodge era un poliziotto...>>
<< Quindi ha fatto bene a ritrattare il tutto, sono un consulente, non un vostro soldatino!>>
<< Oh, te l'ha detto Alec che non ti daranno la pistola? Lucian dice che ha tirato un sospiro di sollievo quando il Capo Blackthorn lo ha informato!>> fece il castano, ignorando anche lui le parole dell'altro come facevano sempre.
Alec sosteneva che per assistere e comprendere una discussione tra loro due servisse avere le orecchie indipendenti, così una avrebbe seguito Magnus e l'altra Simon e poi il cervello avrebbe unito le baggianate che dicevano per trarne qualcosa di vagamente logico e sensato. Forse non aveva poi tutti i torti.
<< Come non posso portare una pistola! E come mi difendo?>>
<< Ma Cristiano il fratello di Raphael? È lui il tuo avvocato?>>
<< Sì, è lui, con un fratello alberghiere con quella clientela un avvocato in famiglia ci serviva. A me non hanno ancora detto niente.>>
<< Ti difenderemo io e Alec, non sei un poliziotto, puoi aver armi per difesa personale ma non puoi sparare a meno che tu non sia in pericolo di vita. Hai il permesso dello Stato? Quindi Cristiano cos'è? Il primo, il secondo? E Raphael si fa aiutare da lui?>>
<< Ma cosa mi difenderete voi! Alexander sarà già abbastanza impegnato a guardare le spalle a te, se pensa anche a me si fa ammazzare! - >>
<< Fa tipo come ha fatto per tutti e due mesi passati?>>
<< - è il secondo, sono in cinque, Raphael è il più piccolo. Tutti maschi, ti rendi conto quella poveraccia di sua madre come stava? Non dirmi che devo chiedere davvero al grande Stato di New York di autorizzarmi a portare un'arma!>>
<< Penso che abbia fatto come ha fatto Maryse, solo che la signora Santiago si deve preoccupare che tutti i suoi figli non mettano incinta nessuna e invece la signora Lightwood si è dovuta preoccupare che nessuno dei figli maschi mettesse incinta una e che la sua unica figlia femmina non ci si facesse mettere.>>
<< Ti sei scordato Fiorellino.>>
<< Per un periodo lo avrà pensato pure di lui. Poi si sarà solo preoccupata che non prendesse malattie veneree… sua nonna Phoebe è molto felice che, parole sue, “almeno uno dei suoi nipoti non ingraviderà nessuna”. >>
Magnus si fermò al semaforo rosso e sistemò meglio il telefono ridendo di cuore.
<< Ma scherzi?>>
<< Ti giuro! Da anche della sgualdrina a Izzy e dello scriteriato a Jace, perché è convintissimo che avrà dei figli prima di sposarsi e quindi a Natale ha detto a Clary che spera che non siano gemelli!>>
Risero insieme mentre Magnus ripartiva e Simon arrivava in cucina, trovandosi davanti al calendario e ricordando il motivo primario della sua chiamata.
<< Quindi il diciotto?>> saltò su all'improvviso.
Un sospiro e Simon poté immaginare l'amico annuire. << Sono sicurissimo che Cristiano non veda l'ora di togliersi sta bega dalle spalle.>>
<< Lui non può stare in sala con te.>> gli fece notare il castano e prima che Magnus potesse rispondere si affrettò a continuare, << Ma credo che invece ci possa essere Alec, visto che dovrà prenderti nella sua squadra penso che abbia il diritto di assistere e farti delle domande.>>
Magnus sbuffò e fece una smorfia che nessuno vide se non il suo lucido volante di pelle viola.
<< Va bene, va bene, ho capito, mi accontenterò del mio bonbon alla crema.>>
<< Sé, evita anche di chiamarlo così, eh.>>
Il suono che arrivò fu palesemente quello di una pernacchia e Simon rise, << Molto maturo da parte sua Mr Bane!>>
<< Taci Lewis, chiamo prettyboy come voglio. E poi la mia maturità è proporzionata alla mia bellezza.>>
<< Ti stai autodefinendo un cesso.>> cantilenò divertito Simon.
<< Cosa di “taci” non ti è chiaro? Beh, in ogni caso sono arrivato a casa, dove impegnerò meglio il mio tempo e non parlando con te … >> lasciò il discorso in sospeso, si piegò verso il telefono e ne lesse i minuti di chiamata. << Quasi quaranta minuti! Soyer stiamo arrivando a livelli insostenibili, se superiamo l'ora sappi che sarai obbligato a venire al mio prossimo pigiama party!>> rise ironico assieme all'altro.
<< Va bene, drama king, ci risentiamo, va e metti in ordine la tua Narnia privata.>>
<< Sì, sì, meno richiami nerd, va bene? Ciao topo da laboratorio, ti saluta anche Presidente.>> concluse Magnus chiudendo la portiera della macchina con un tonfo sordo.
Simon sorrise mestamente. << Ne dubito fortemente, ma apprezzo il pensiero Mags.>>



 



 

Magnus posò le buste nell'atrio per potersi togliere il telefono da quella scomoda posizione tra spalla e orecchio e lanciare l'apparecchio nella tasca del cappotto. Poi riprese tutti i pacchetti vari che aveva abbandonato a terra e li stipò con lui nell'ascensore, attendendo che arrivasse all'ultimo piano del palazzo, dove il suo attico dava bella mostra di sé.
La porta di casa si aprì muovendosi fluida sui scardini ben oliati, senza far il minimo rumore, Magnus se la chiuse alle spalle con un calcio e chiamò a gran voce quella palla di pelo del suo gatto, lamentandosi come sempre di quanto trovasse poco educato da parte sua non correre a fargli le feste ed accoglierlo come il suo degno padrone.
Il gatto lo ignorò bellamente, rimanendo arrotolato sotto le coperte della camera da letto, senza neanche muovere un orecchio per dar l'impressione di aver inteso le parole lagnose e ormai scontate dell'uomo.
<< Certo! Però quando c'è Alexander corri subito qui, eh? Gatto traditore del tuo stesso sangue. Dovresti portare più rispetto e venerazione per il tuo Sommo ed unico signore!>>
Superò a grandi falcate l'ingresso ed il salone, gettando un'occhiata alla cucina ed inevitabilmente al divano e ai tappeti su cui era poggiato e che, come sempre, Magnus sapeva nascondessero tre macchie scure e larghe, in particolare una più delle altre, proprio dietro al divano, coperta dall'angolo estremo del tappeto sui toni dell'azzurro e del crema.
Non indugiò troppo lì davanti, proseguì per la sua strada e lasciò tutti gli acquisti nella cabina armadio, ripromettendosi di metter il tutto a posto prossimamente.
Si diresse poi in bagno, scalciando le scarpe e togliendosi i vestiti per lasciarli cadere a terra senza il minimo interesse, neanche si fosse vantato di esser un dio della moda qualche minuto prima.
Aveva decisamente bisogno di una doccia e poi di mettere qualcosa sotto i denti, possibilmente qualcosa di consistenze, lo shopping lo lasciava col culo a terra, letteralmente.
Aprì la valvola dell'acqua e dopo un attimo si infilò nella cabina ampia dai vetri limpidi che presto si appannarono completamente. Avrebbe dovuto godersi quella mezz'ora sotto la doccia e poi chiamare davvero il secondo dei Santiago, per vedere di che morte doveva morire e se il giorno del suo funerale non fosse stato cambiato ancora. E magari sentire anche cosa fosse quella storia che non poteva portarsi un'arma appresso.
Abbassò la testa lasciando che il getto gli appiattisse tutti i capelli, facendogli colare l'acqua sul volto e costringendolo a soffiare forte dal naso un rivoletto che gli si era insinuato in una narice.
Forse poteva direttamente chiedere ad Alexander per la pistola, o forse no, gli avrebbe sciorinato una serie di leggi e di motivazioni per cui lui non poteva portare un'arma che gli sarebbe venuto i mal di testa.
Poco male, avrebbe rotto le palle a Blackthorn o a Lucian per riuscire ad aver qualcosa con cui difendersi, o avrebbe chiesto a Raphael di chiedere a qualche suo clientuccio facoltoso di fargli ottenere la liberatoria per averne una privata, sì, anche questa gli piaceva come ipotesi. Certo non poteva presentarsi con una delle sue armi personali, che tipo non avevano numero di serie e se non sbagliava facevano parte di uno stock rubato ai Ranger qualche anno prima.
No, decisamente no, la sua bella Colt viola metallizzata non sarebbe mai uscita di casa, peccato.
Sbuffò sonoramente e scosse la testa come un cane, lanciando schizzi ovunque e cercando di togliersi i capelli dal volto per poter vedere dove aveva cacciato il bagnoschiuma l'ultima volta. Prima avrebbe pensato a togliersi il puzzo della città di dosso, a riempirsi lo stomaco e a rompere le palle alla sua famiglia messicana preferita, poi avrebbe pensato ai problemi burocratici.



 






 

L'uomo si rigirò la penna tra le dita, lo sguardo perso su un foglio fitto di linee nere che lui non vedeva davvero. Una sfilza interminabile di parole e fatti che non voleva leggere di nuovo ma che si affollava comunque nella sua mente senza posa, senza dargli un attimo di libertà per fargli capire a cosa stessero andando incontro.
<< Ne siamo proprio sicuri?>> domandò a voce bassa, rivolgendosi agli altri uomini presenti della sala.
Uno dei due aveva l'aspetto di un distinto uomo d'affari, se non lo avesse conosciuto gli avrebbe dato dell'avvocato, con il suo completo scuro e la cravatta perfetta sulla camicia immacolata.
Le rughe sul suo volto suggerivano che non potesse avere meno di cinquant'anni e lui sapeva perfettamente che era proprio quella l'età su cui viaggiava.
Lo vide rimanere immobile, perso come lui in ragionamenti e ricordi che non avrebbe voluto fare, che non voleva rivivere, che credeva di essersi buttato completamente alle spalle. Almeno finché il ragazzo non l'aveva ritrovato.
L'altro uomo, in piedi davanti alla finestra, scrutava il panorama scuro e cupo che quella notte di metà Febbraio portava con sé. La corporatura massiccia ed i capelli castani, tenuti corti e in ordine, gli donavano quell'aura di comando che i suoi vestiti forse non trasmettevano, non come il completo del secondo. La felpa verde militare, così come la sua posa marziale, con le spalle ampie ben aperte, le gambe divaricate e le braccia dietro la schiena, gli ricordavano eventi di una vita passata, sprazzi di un futuro che non si sarebbe mai realizzato e di cui ora tutti e tre ne erano consapevoli.
<< Abbiamo altra scelta?>> chiese questo senza spostarsi.
L'uomo seduto alla scrivania scosse la testa. << Non penso sinceramente. Ho vagliato varie opzioni ma questa attualmente è la più sicura.>>
<< Davvero?>> per la prima volta l'uomo in completo parlò da quando era entrato in quella stanza ed erano finiti i convenevoli. Il suo tono era aspro, ironico, tagliente e duro e ancora una volta fece venir la pelle d'oca al primo, che per una frazione di secondo rivide davanti a lui il giovane che era stato nella vecchia e corrotta New York degli anni '70 e poi degli '80. Anche l'uomo alla finestra dovette provare la stessa sensazione perché fu scosso da un lungo brivido, la posa composta delle spalle divenne improvvisamente rigida e voltò il viso quel tanto che bastava per scrutare con la coda dell'occhio la scena, in particolare l'uomo d'affari, dando agli altri uno scorcio del suo viso serio e dai tratti marcati.
<< Sai bene quanto me che non abbiamo alt- >> provò conciliante il primo, lasciando la penna e protendendosi leggermente verso il piano della scrivania.
L'altro lo troncò sul colpo. << Taci Branble! Possiamo occuparcene noi invece di lasciar fare a terzi. Lo abbiamo sempre fatto, non c'è motivo di delegare.>> batté con forza il pugno sul bracciolo della poltrona e fece girare definitivamente il terzo uomo, che lo guardò per un lungo istante prima di annuire.
<< Sono d'accordo con Burning, siamo in grado di occuparci personalmente di questa cosa.>>
Ma l'uomo alla scrivania scosse la testa. << No che non possiamo, appena questa storia uscirà fuori- >>
<< Ma è già uscita! È già nell'aria! I vicoli bui di New York brulicano di bisbigli e parole dette di nascosto, la gente sospetta, il dubbio dilaga e presto il timore diventerà consapevolezza.>> fece quello in piedi, avvicinandosi al primo uomo e posando una mano sul piano al suo fianco.
<< Ascolta Gash. >> disse serafico Burning a voce bassa, quasi stesse suggerendo qualcosa senza volersi far sentire. Ma non era la segretezza il suo problema, i suoi occhi erano di nuovo divenuti vacui e scrutavano nelle pieghe del tempo, per scoprire cosa sarebbe stato e ricordare cosa fu.
<< È la nostra guerra, nostra e di nessun altro. La lista è uscita fuori e con lei tutti i motivi per cui i nomi che contiene vi sono stati segnati… >> Insistette l'uomo in felpa, il volto serio scoperto da ogni più piccola ombra che avrebbe potuto nasconderne i veri intenti.
<< Il Boss non è e non è mai stato uno sprovveduto.> cominciò Branble chiudendo gli occhi e cercando di venir a ragione. << Ha sempre seguito il suo codice cifrato, non c'è nessuno che possa capirlo perché è suo, suo e personalissimo. Potranno anche darlo a qualche analista e cercare di decifrarlo ma non ci riusciranno perché non lo conoscevano.>>
Gash annuì e fece per parlare ma l'altro lo interruppe con un cenno della mano.
<< Non ci provare. Sappiamo che sono pochi, pochissimi, quelli che conoscevano davvero il capo e che tra di questi neanche la metà potrebbero riuscire a capirci qualcosa.>>
<< Non hanno bisogno della metà di chi lo conosceva un po', gli basta una sola persona che lo conosce da una vita. >> sospirò Burning lisciandosi i risvolti dritti della giacca.
Branble gli diede ragione con un cenno. << So a cosa pensi, suo figlio. Ora che è entrato a far parte della polizia verrà applicato anche per la risoluzione del Caso Circle.>>
<< Il Caso Circle è stato risolto. Su questo non c'è alcun dubbio. Nessuno ci rimetterà più mano perché i colpevoli sono dietro a cemento armato e sbarre di ferro e sotto cinque metri di terra compatta. Il problema non è il Caso, il problema è ciò che fu cercato allora e ciò che fu trovato solo ora. >> ringhiò allora l'uomo, abbandonando i suoi toni bassi. << Il ragazzo non fa ancora parte della polizia, non davvero e mai lo farà, perché è un criminale e la sua fedina penale non potrà mai essere cancellata. Questo può voler dire che aiuterà chi di dovere a scoprire tutti i segreti del Circolo e tutto l'esercito di suo padre, come può voler dire che tacerà su molti nomi per rispetto o per ciò che lo lega ad essi.>>
Gli altri due non osarono parlare e lui si calmò, poggiando la schiena contro l'imbottitura della poltrona verde scuro.
Prese un respiro profondo. << Non cominceranno subito ad indagare sul diario, sono state date disposizioni precise, il quaderno attualmente non è neanche a New York.>>
<< E dov'è?>>
<< Quantico. Lo hanno mandato al quartier generale dell' FBI, ricordiamoci che tra quei nomi ci sono serial killer e assassini a pagamento che hanno fatto vedere le stelle al Bureau più di una volta, non perderanno l'occasione di capirci qualcosa e metterli dietro alle sbarre grazie al libretto degli assegni di Asmodeus e soprattutto senza dover dare altri meriti alla polizia.>> fece spiccio Burning muovendo una mano con noia.
<< Hai pensato all'eventualità che qualcuno già dietro a quelle sbarre possa cantare?>> domandò Gash sedendosi sulla scrivania di Branble e ricevendo in risposta un'occhiata ammonitrice.
<< Giù da qui. >> gli intimò infatti. << E non penso che qualcuno si sognerebbe di tradire il capo.>>
<< Forse un tempo no, ma ora le cose sono cambiate. Potrebbero voler un salvacondotto o magari vendicarsi di colui che non gli ha salvato la pelle.>> l'uomo si strinse nelle spalle ma non accennò a muoversi.
<< Ti sbagli, scommetto che Asmodeus ha ancora molti appoggi e che nessuno si sognerebbe di tradirlo. A meno che non si voglia ritrovare con un cappio al collo dentro la propria cella.
Ti ho detto di scendere, non sei più leggero come un tempo e per di più ti sei seduto sui documenti.>>
<< Che vuol dire che non sono più leggero come un tempo?>>
<< Smettetela di bisticciare come bambini!>> tuonò il terzo.
Gli altri due si zittirono e Gash scese dalla scrivania scivolando lentamente con i piedi a terra.
Fissò l'uomo in giacca e cravatta, lo scrutò con attenzione, cogliendo frammenti di espressioni, rughe marcate e invisibili contrazioni del labbro.
<< Cosa sai che non ci hai ancora detto?>> domandò quasi timoroso di ricevere risposta, ma con un tono di voce fermo e perentorio, di chi è abituato a dare ordini e a vederli eseguiti all'istante. Sapeva con certezza che non avrebbe funzionato su di lui, che non gli avrebbe risposto perché intimorito dalle sue parole ma solo ed unicamente perché voleva comunicare loro la cosa e si era finalmente deciso a farlo.

Il solito vecchio Burning.

<< Ho ricevuto una chiamata.>> cominciò e lasciò la frase in sospeso, come aspettandosi che solo quello potesse spiegare l'arcano e che loro due capissero al volo.
Quando non accadde, continuò. << In molti l'hanno ricevuta.>> altra pausa. << Praticamente tutti.>>
Quella specificazione non piacque a nessuno e Branble si mise ancora più dritto sulla poltrona.
<< Tutti? A me non è giunto nulla.>>
<< Neanche a me.>> fece Gash, poi parve illuminarsi. << Ce l'hai ancora.>> disse come un accusa sorpresa e incredula.
Burning annuì piano. << Non avrei mai potuto disfarmene...>>
<< Ti rendi conto quanto hai rischiato? Avrebbero potuto trovarlo, indagarti, farti un mare di domande e allora la storia sarebbe potuta finire solo in un modo.>> continuò sempre più infervorato l'uomo.
Branble gli posò una mano sul braccio e guardò con apprensione l'altro.
<< Hai davvero rischiato molto. Perché?>> domandò solo.
Burning alzò lo sguardo, freddo e duro come lo era sempre stato. << Sapete perfettamente perché.>>
<< Ci pensi ancora?>> sospirò Gash guardandolo ora privo della rabbia di prima.
L'uomo annuì. << In ogni caso sono stato fortunato. >> sorrise amaramente e abbassò gli occhi mentre una patina di opacità gli calò sulle iridi. << Ho avuto un colpo di fortuna, ma l'importante è che almeno uno di noi l'abbia tenuto, così ha potuto rispondere alla chiamata.>> Si fermò e rialzò la testa per scrutarli nel profondo delle loro anime, per leggere nelle loro menti ciò che nessuno osava dire. << Per fortuna uno di noi l'ha tenuto a portata di mano.>>
Gash abbassò la sua di testa e Branble guardò altrove.
<< Non c'è bisogno che ti spieghi perché l'ho tenuto.>> fece quest'ultimo a voce bassissima.
Burning annuì e guardò l'altro.
<< Io il mio l'ho nascosto, così che nessuno potesse più trovarlo...ma sì, anche io non ho avuto il coraggio di buttarlo.>> poi sospirò e tornò ad incrociare il suo sguardo. << Scusa, non avevo il diritto di scoppiare a quel modo.>>
L'uomo annuì piano. << Siamo tutti con i nervi a fior di pelle. La cosa importate ora è averlo saputo, da adesso in poi possiamo preparaci.>>
<< Direi che dovremmo anche impedire che le indagini inizino subito, non credete?>> domandò Branble lasciandosi sprofondare nella poltrona girevole. << Qualcuno potrebbe consigliare all'FBI di non permettere l'avvio delle indagini finché non sarà stato decifrato il diario.>>
<< Ma serve anche a noi. >> fece giustamente notare Gash.
L'altro annuì. << Potremmo studiarne delle copie.>>
<< E chi è il genio che fotocopierebbe una cosa di quel valore, rischiando che le informazioni giungano a chi ne capisce qualcosa?>>
<< Qualcuno che vuole a tutti i costi sgominare l'intero Circolo.>> sibilò Burning. << Abbiamo tempo, questa volta ne abbiamo da vendere e non sbaglieremo.>>
Si alzò dalla poltrona e si diresse alla finestra dove prima sostava Gash. Fissò il buio e le ombre più dense che si disegnavano tra i palazzi della città.
<< La chiamata è stata fatta, New York sta per ripopolarsi di tutti i demoni del Principe.>>




 


















Salve.
Questa storia è il continuo della long “Una pista che scotta, la cui lettura è consigliabile per comprendere le dinamiche tra i vari personaggi e ciò che li ha portati dove sono ora.
Dopo gli eventi della precedente estate i ragazzi sono pronti ad affrontare la loro nuova vita ed il nuovo lavoro che li aspetta, gettandoli ancora una volta nel mondo dell’investigazione poliziesca in modo ufficiale, con tutte le beghe e le gioie che questo lavoro comporta.
Ma su di loro aleggia ancora il famoso Diario di Asmodeo, ritrovato alla conclusione del Caso Fell, che non aspetta altro che essere aperto e rivelare al mondo tutti i nomi dei seguaci del Principe.
Ritroveremo vecchi e nuovi amici, daremo uno sguardo alle loro vite oltre il lavoro e fin troppo spesso dentro di esso.

Il rating arancione è soprattutto per la presenza di turpiloquio, frasi e comportamenti razzisti, sessisti, possibili scene di violenza, come risse e simili. Si tratteranno anche tematiche delicate, come abusi su minori, omofobia, ricatti, minacce, violenze fisiche, guerra ed ovviamente omicidi.
Nulla verrà descritto nel dettaglio per non turbare i lettori più sensibili e permettere a tutti la lettura, ma è innegabile la presenza futura di quanto sopra elencato.

Per il resto, un ben tornato a chi ha già seguito le avventure del nuovo Tenente Lightwood e della sua squadra mal assortita, un benvenuto a chi li conosce per la prima volta.

TCotD.

[Revisionato]

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Capitolo 2
*** Capitolo II- I fili ***


Capitolo II

I fili


 


 

18 Febbraio.

Spostò il peso da una gamba all'altra, i suoi pantaloni grigi si tendevano ad ogni movimento e se qualcuno non lo avrebbe chiamato entro i prossimi cinque minuti avrebbe dato di testa e preso a pugni il primo che gli sarebbe capitato sotto mano.
Voltò di poco la testa per incontrare il profilo rilassato di Alexander e fece una smorfia frustrato.
No, non avrebbe preso a pugni quel bel viso.
Il giovane se ne stava seduto sugli scomodissimi sedili che si trovavano fuori dall'ufficio di Blackthorn, con le braccia incrociate al petto ampio che tirava il maglione scuro che portava sopra la camicia bianca, le gambe allungate, le caviglie incrociate e gli occhi chiusi. Sembrava che desse per scontato che nessuno sarebbe inciampato in quel chilometro e mezzo di arti inferiori che si ritrovava e Magnus gli dovette dar anche ragione visto che nel corridoio dell'ufficio del Capo della Omicidi non passava anima viva.
Pareva che tutti vi girassero a largo, o per lo meno lo stavano facendo quel giorno, lui non aveva la minima idea di quanto fosse il traffico per quella parte di piano ma poteva ben pensare che tutti lo stessero evitando per via di chi sarebbe passato di lì a breve.

Il Commissario della Polizia nonché Capo supremo degli Affari Interni, la regina di ghiaccio, la Signora di fuoco, la megera che lo aveva guardato con un sopracciglio alzato durante il processo e gli aveva detto quanto fosse ovvio che la gente cercasse sempre di sparargli e ci riuscisse anche visto che si vestiva come una scritta al neon.
Imogen Herondale e lui non è che avevano proprio questo gran ché di bel passato alle spalle, ma Magnus aveva promesso ad Alexander che si sarebbe comportato da persona civile ed educata -Alec gli aveva fatto giurare che lo sarebbe stato per i suoi di standard e non per quelli personali e personalissimi dell'uomo- quindi non avrebbe dato i numeri.
Non se lo avrebbero chiamato entro i restanti- controllò l'orologio- tre minuti.
<< Non ti chiameranno prima se continui a sbuffare e controllare l'orologio in continuazione.>> la voce pacata di Alexander gli arrivò piatta e monocorde alle orecchie come lo era sempre. Quel ragazzo aveva la grandissima capacità di mantenere sempre lo stesso dannatissimo tono di voce, era inquietante e fastidioso, Magnus poteva scommetterci le sue scarpe di Prada che decine e decine di criminali avevano confessato o si erano traditi solo perché esasperati dalla tranquillità e dall'educazione con cui il detective si rivolgeva a tutti.

Tenente.

<< E me lo dici per esperienza o perché ti sto facendo venire il mal di mare?>> chiese sarcastico.
<< Non mi fai venire il mal di mare, ho gli occhi chiusi, non ti vedo.>> gli fece notare.
<< Allora che fastidio ti da?>> rispose subito acido.
<< Avverto il tuo nervosismo oltre che i tuoi movimenti.>> continuò con quel modo così dannatamente lento. << Ti sentiranno sicuramente anche da dentro l'ufficio, penseranno che sei agitato e ti lasceranno più tempo per calmarti sperando che così non te ne uscirai con una cavolata delle tue rovinando tutto.>>
Magnus si bloccò e lo guardò oltraggiato, spalancando la bocca per replicare ma bloccandosi quando Alec aprì finalmente gli occhi e glieli puntò, chiari e accecanti, dritti nei suoi.
<< Farai comunque una cavolata delle tue, abbiamo già messo in conto che risponderai male a qualcuno e questo lo sanno anche gli altri esaminatori. Per questo entro anche io e per questo la Signora non ti porrà domande ma sarà solo presente come osservatrice.>>
<< Perché dai per scontato che risponderò bene a te e che invece a lei avrei risposto male?>>
Alec alzò un sopracciglio. << Magari perché l'ultima volta che vi siete parlati civilmente lei ti ha detto che somigli all'insegna di un Nightclub di quart'ordine e tu che sembra una vecchia falena sotto naftalina?>> chiese retorico.
L'uomo assottigliò lo sguardo fissandolo male. << Grazie per aver specificato che era di quart'ordine.>>
<< Prego.>> rispose secco Lightwood tornando a poggiare la testa contro il muro e a chiudere gli occhi.
Magnus lo guardò quasi oltraggiato, gli ci mancava solo lui che faceva ironia.
<< Avrei dovuto portarmi Sammy, non te. >> gli soffiò contro acido.
<< Così adesso oltre alla tua ansia avresti anche la sua. Puoi sempre chiamarlo e sentirti il suo sproloquio agitato in diretta. >>
<< Magari lo faccio. >>
<< Non sarò io ad impedirtelo.>>
<< Lo sto facendo.>>
<< Sto aspettando.>>
L'uomo continuò a fissare il poliziotto senza però aver il coraggio di tirar fuori il cellulare e chiamare effettivamente Simon. Perché lo sapeva che quel deficiente ora se ne stava a casa sua, o a quella di Clary, a mangiarsi le unghie in attesa che il suo colloquio finisse.

Peccato che non sia neanche iniziato.

Sospirò sconfitto e si avvicinò ad Alec, lasciandosi cadere sul sedile vicino al suo.
Fece una smorfia cercando una posizione comoda.
<< Come cavolo fai a star seduto qui da quando siamo arrivati? Sono scomodissimi. >>
<< Non hai neanche idea di quante ore ho passato su questi sedili e neanche le condizioni in cui ero tutte le volte.>> sospirò Alec con calma. Respirava lentamente, con una scadenza precisa e regolare, Magnus si domandò se non stesse contando i respiri, perché gli ricordava tanto la tecnica che gli aveva insegnato lo psicologo per calmarsi dopo un risveglio turbolento o dopo un malore.
Si stava sentendo male?
<< Ti stai sentendo male?>> chiese a bruciapelo, ignorando per una volta l'accenno a quella vita passata di cui non conosceva praticamente nulla.
Alec alzò un sopracciglio, le palpebre che si tirarono sottili e quasi trasparenti sull'occhio, facendo fremere le ciglia scure.
<< Come?>>
<< Respiri strano.>> disse solo.
<< No, non sto male e non respiro strano.>> aprì gli occhi e lo guardò con attenzione. << Tu ti senti male? >> ritorse.
Magnus scosse la testa. Fece una smorfia e poi la scosse ancora.
<< Mi sto solo facendo mangiare dall'ansia temo. Sai che non sono mai stato nell'ufficio di un poliziotto senza aver fatto qualcosa di male o esser accusato di averlo fatto?>> domandò retorico con disarmante sincerità.
Alexander lo fisso per un breve momento battendo un paio di volte le palpebre, poi abbassò la testa, i capelli a coprirgli il volto, le spalle che si alzavano e abbassavano velocemente, a singhiozzi, ed automaticamente Magnus sentì le proprie labbra tendersi in un sorriso.
<< Sei uno stronzo, stai ridendo?>> fece ridendo a sua volta.
Alec scosse la tesa ma non l'alzò, un suono strozzato, troppo simile ad un singulto divertito, che gli scappava dalla gola.
<< Stia proprio ridendo! Che bastardo che sei, altro che Fiorellino! Stai ridendo di me?>> cercò miseramente di fingersi oltraggiato ma la verità era che quell'attesa, mescolata alla tensione e all'aspettativa di quel dannato incontro gli resero impossibile fingersi serio.
Si ritrovarono come due adolescenti in attesa di esser ricevuti dal preside per qualche bravata, lì, un po' preoccupati dalla lavata di capo che si sarebbero beccati ed un po' divertiti da quella situazione, una risata a metà tra l'isterico ed il divertito che cominciò a diffondersi per l'aria.
Il poliziotto ritirò le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia e abbassando ancora di più la testa, nascondendosi così come Magnus cercava di fare voltandosi verso il muro.
<< Ti giuro che è la verità. >> proruppe allora l'uomo ridendo più apertamente.
Alec voltò il capo e lo scrutò tra le ciocche scure. << E io ti giuro che non fatico minimamente a crederci.>>
Si fissarono in silenzio e poi ricominciarono a sghignazzare.
<< Anche tu sei in ansia come me!>> lo accusò Magnus dandogli uno schiaffo sulla spalla.
<< Oh no, >> fece alzandosi e poggiandosi di nuovo contro lo schienale, << ho paura che tu faccia qualcosa di stupido e che sarò costretto ad atterrare sei uomini prima che ti prendano e ti picchino a sangue. Sai Mags, non so se ne sarò in grado, sappilo.>> lo avvertì sorridendogli con quella sua piega storta delle labbra.
<< Sei persone? Oh, suvvia dolcezza, sono sicuro che hai tutti i muscoli per farlo. E posso dirlo con cognizione di causa.>> ammiccò verso il moro che si tirò di colpo a sedere dritto ed impettito, guardandolo con gli occhi sgranati per quello che aveva appena detto.
Magnus ghignò felice di averlo colto nel vivo, pronto a rincarare la dose e dirgli che-
<< Perché Signor Bane? Il Tenente Lightwood ha dovuto proteggerla da sei individui armati e addestrati che volevano picchiarla a sangue o è stato lei quello che il detective ha picchiato?>>
L'uomo si sentì congelare dalla testa ai piedi, bloccato girato verso Alexander che si era ricomposto a tempo record, alzandosi di slancio e dandogli una pacca sulla spalla per farlo smuovere.
<< Buon giorno Signora.>>
Imogen Herondale se ne stava ferma sulla porta dell'ufficio del Capo Blackthorn, il completo grigio senza la minima piega, dritto come se fosse completamente inamidato. Fissava i due con sguardo serio e tagliente, ma Magnus notò comunque una nota soddisfatta quando scrutò Alexander in piedi e sull'attenti, vestito con il suo abbigliamento sobrio e quasi informale.
Solo in quel momento infatti l'uomo si rese conto che il suo amico non portava il solito completo nero e si accigliò.
<< Perché non hai la giacca e la cravatta?>> chiese ignorando palesemente la donna.
Alec lo guardò come se fosse stupido, alternando lo sguardo da lui alla Herondale in un palese ordine di salutarla.
<< Perché se si fosse presentato in quel modo sarebbe risultato più intimidatorio e questo incontro sarebbe sembrato un interrogatorio ufficiale e non un colloquio. Non so se lo ha notato, signor Bane, ma il suo collega ha una certa reputazione, compresa quella messa in giro dai suoi amici sul fatto che sia un Man in Balck.>> alzò un sopracciglio fine e sbiadito e poi esaminò con attenzione il vestiario di Magnus. << Ah, vedo che oggi è vestito come una persona normale e non come un quadro di Pollock.>>
Alec chiuse gli occhi e alzò la testa verso il soffitto.
No, non poteva mettercisi anche lei, già doveva tenere a bada Magnus, non poteva fare lo stesso con la Herondale.
<< Signora… >> disse quasi implorante, alzando la mano per bloccare l'amico che aveva già fatto un passo avanti, pronto a replicare.
<< Mi dica. >> fece lei con tranquillità.
Alexander le lanciò uno sguardo più che significativo, un “ ma davvero?” che la donna ebbe il buon senso di cogliere anche se un po' infastidita.
<< Bene, direi che è un abbigliamento appropriato, ottima scelta. >> concesse più per Alec che per Magnus stesso.
Lui le fece un cenno di ringraziamento con la testa e poi sospinse gentilmente Magnus verso la fine del corridoio.
<< Possiamo accomodarci? >> chiese educatamente pur già indirizzando l'altro alla sala conferenze del piano.
La Signora annuì. << Sì, accomodatevi, i commissari sono già dentro, manchiamo solo noi.>>
Magnus li guardò senza capire. << Dove dobbiamo andare? Credevo che saremmo stati nell'ufficio di Blackthorn. >>
Alec scosse la testa. << Non è un colloquio di quel tipo, Magnus. Dobbiamo rispettare delle direttive precise, devono esserci dei verbali e anche una registrazione. Il tuo avvocato non te lo ha spiegato?>>
Si incamminarono verso il fondo del corridoio, allontanandosi ancor di più dalla zona degli uffici.
<< Mi ha detto che l'accordo era il più vantaggioso che poteva offrirmi e che non dovevo preoccuparmi di nulla perché c'avresti pensato tu. Ah, a proposito di questo, sei simpatico a Cristiano Santiago, io questa cosa me la farei incidere come epitaffio sulla tomba.>> sorrise e drizzò la schiena, gonfiando il petto ed enunciando con voce solenne. << “Alexander Lightwood, servitore della patria, amato figlio, adorato fratello, fidato amico e Fiorellino. Simpatico a Cristiano Santiago.” . Farebbe il suo bell'effetto.>> annuì cercando di concentrarsi su quello e non sulla stanza dalle pareti trasparenti che vedeva avvicinarsi sempre di più.
<< Certo, ti sei dimenticato anche “coinquilino di Church, gatto indipendente. Portatore di pazienza e di grande sfiga… >> borbottò a mezza voce, cercando di nascondere l'imbarazzo e di non farsi vedere dalla Herondale inutilmente.
La donna alzò un sopracciglio. << Magari evitiamo nomignoli e soprannomi confidenziali e palesemente inadeguati alla situazione. >> fece spiccia superandoli e ponendo una mano sulla maniglia della stanza. Li scrutò con sguardo serio, la faccia una maschera di cera.
<< Non faccia stupidaggini, Bane. >> abbassò la maniglia ma poi ci ripensò, voltandosi di nuovo.
<< Risponda solo alle domande che le pongono e non svaghi. E non renda più difficile di quando già non sarà il lavoro al Tenente Lightwood. Non lo chiami per nome, non lo faccia in nessun modo strano. Dia del lei a tutti. >>
Si voltò definitivamente ed aprì la porta per farlo entrare, esortandolo con un cenno della testa.
Magnus prese un respiro profondo ed entrò indossando la sua miglior espressione rilassata e compiacente, concentrandosi sul salutare educatamente i commissari e il Capo Blackthorn che gli andò incontro per farlo sentire almeno meno accerchiato.
La Signora bloccò Alec sulla soglia, lo guardò con uno sguardo esplicativo.
<< Fiorellino?>> domandò solo.
Alexander divenne in brave rosso come un pomodoro. << Mi creda, è quello più accettabile.>> fece imbarazzato come poche volte nella sua vita.
Lei alzò un sopracciglio e poi scosse la testa. << Se non ti faranno santo Lightwood, ti ci farò io. >>


 


 



14 Novembre.

Si spostò sulla sedia un poco a disagio, non era la prima volta che si presentava in un'aula di tribunale, ma ciò non significava che si sentisse tranquilla. Questa volta, c'era da dire, non doveva difendere strenuamente nessuno, solo dire la verità, solo riportare i fatti che la vedevano coinvolta.
Pose una mano sulla Bibbia e attese che l'agente davanti a lei finisse di elencare tutti i giuramenti da fare.
Annuì brevemente e mormorò un basso “Lo giuro”, poi si riaccomodò.
<< Signorina Loss, grazie per essersi presentata. >> cominciò la donna davanti a lei.
Era alta e dal fisico morbido ma in forma, stretto in un completo scuro e formale, come l'acconciatura e l'espressione concentrata.
Somigliava tantissimo ad Alexander, non ci avrebbe messo molto a definirla sua madre, questo era certo, ma non era neanche lontanamente simile quanto il padre, seduto in prima fila dietro al banco dell'accusa.
Maryse Troublood in Lightwood era decisamente la copia adulta di Isabelle, eppure nello sguardo ardente e serioso Catarina riusciva a scorgere gli occhi dorati di Jace così come la sua stessa determinazione. Quella donna era il modello da cui i figli minori avevano ripreso la forza e la testardaggine e quello da cui il maggiore aveva colto quell'aspetto intimidatorio.
Effettivamente Alec aveva ripreso la figura autoritaria e spaventosa di entrambi i genitori, Catarina ricordò con un brivido le maschere di puro odio che avevano indossato entrambi quando al banco dei testimoni era salito il loro vecchio amico, quello Starkqualcosa che non si ricordava mai.
<< Dovere. >> disse con lo stesso tono basso e un poco apprensivo.
La donna sembrò accorgersene perché le lanciò un'occhiata quasi d'incoraggiamento.
Ma certo, era uno dei testimoni chiave di quel processo, in un modo poi, che neanche lei riusciva ancora a comprendere.
Era la persona che aveva impedito a Valentine Morgenstern di trovare il quaderno del Circolo di Asmodeus.

Un palese colpo di fortuna.

<< Bene. >> fece quella con modo pratico. << Le dispiacerebbe dire alla giuria e a tutti i presenti che rapporto la lega al Signor Bane e come ciò l'abbia coinvolta negli eventi del Caso Fell e poi del Caso Circle?>>
Catarina prese un respiro profondo ed annuì. Prima di entrare in aula aveva parlato con Alexander, seduto ancora su quella maledetta sedia a rotelle, con la bombola d'ossigeno dietro, per colpa di quel frammento che era riuscito quell'Ottobre, neanche tre settimane prima della data d'appello. Sapeva cosa doveva raccontare, cosa interessasse alla giuria e cosa non fosse altro che chiacchiere inutili. Le aveva assicurato che in ogni caso sua madre l'avrebbe guidata ma che se fosse riuscita da sola ad andare al punto cruciale sarebbe stata reputata un testimone ancor più attendibile e sicura. Parlare a vuoto l'avrebbe invece identificata come una persona indecisa e tentennante che cercava di nascondere qualcosa.
<< Certo. Io e Magnus siamo amici d'infanzia, lo conosco da quando sono piccola e così Ragnor. >> sospirò nel pronunciare il nome dell'amico morto, mantenendo però il contegno e continuando tentando di essere più chiara possibile. << Sono stata interrogata su Ragnor dal Detective Lightwood questo Giugno, poco tempo dopo che gli era stato assegnato il suo Caso. Ho apprezzato infinitamente il modo in cui si è approcciato alla vicenda, si è interessato a Ragnor come
vittima malgrado la maggior parte delle persone pensasse che fosse solo un criminale in meno sulla faccia della terra. È stato gentile ed educato, ha cercato di capire il più possibile su come fosse Ragnor e non di trovare un modo per dimostrare che si è meritato quella fine. >>
Maryse si concesse solo di addolcire un poco lo sguardo ma Catarina sapeva che sentirle dire quelle cose la rendeva orgogliosa del figlio. Così come poneva Alec sotto una luce professionale ma anche umana.
<< Dopo quella volta non ho avuto contatti per molto tempo né con lui né con la vicenda.
Mi chiese un parere medico per rivedere dei referti ed avere qualche delucidazione, a me e alla Dottoressa Lightwood, sua sorella. >> fece un cenno verso la ragazza che sedeva tra il padre ed il fratello minore. Di fianco a Max Jace parlava a bassa voce con Alec, seduto sulla sue sedia a rotelle, posto nel corridoio tra i banchi.
<< Perché il Detective ha chiesto proprio a lei?>> domandò Maryse.
<< Voleva un parere professionale, sono un'infermiera, ho lavorato in molti ospedali e in condizioni diverse, ho una buona esperienza.>>
<< Ma perché proprio lei.>> insistette.
Catarina sospirò. << Da qualche giorno, non saprei dire quanti di preciso, il Detective aveva cominciato ad indagare su più fronti. So che aveva il sospetto che ci fosse una talpa nel Dipartimento e non sapeva come mettere al sicuro il Dottor Lewis che lo aiutava nel caso. Così lo portò da Magnus, che si era dimostrato più fidato di quanto non potesse sospettare, credo. >>
<< Mi sta dicendo che un Detective ha portato un tecnico informatico del Dipartimento di Polizia, che poteva accedere a tutte le informazioni dei nostri server, a casa di un noto criminale?>> chiese sibillina.
Per un attimo Catarina si chiese da che parte stava, ma poi si riscosse.
<< No. Alexan- il Detective Lightwood ha capito che Magnus non sarebbe stato di nessun intralcio in questa indagine ma che invece gli sarebbe stato di grande aiuto. Volevamo solo giustizia per il nostro amico, volevamo trovare il colpevole, Alexander lo ha capito e ha capito anche che l'unico posto in cui Lewis sarebbe stato al sicuro era a casa di Magnus, l'ultimo posto in cui una possibile talpa lo avrebbe cercato. Aveva ragione per altro. Si è fidato di noi come persone, non per chi la gente pensava che fossimo.>>
La donna le annuì e poi le domandò cosa avesse trovato in quei referti e Catarina si impegnò a dire nei termini più semplici ma professionali cosa ci fosse che non andava, lasciando tutti i presenti a bocca aperta per ciò che erano riusciti a scoprire.
No, per ciò che
Alexander era riuscito a scoprire. Ciò che trent'anni prima la gente aveva ignorato o era stato degnamente nascosto.
<< Lei ha avuto anche un altro ruolo estremamente importante, giusto?>>
Catarina annuì. << Credo, ma non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo.>>
<< Ci spieghi. >> Allargò le braccia, in un gesto ampio che stava ad indicare tanto lei e la giuria, quanto tutti i presenti.
<< Ero a casa di Magnus, dopo la prima sparatoria in cui è rimasto coinvolto. C'era anche il Dottor Lewis con me, eravamo in comunicazione video con l'ospedale dove si trovavano Magnus e il Detective Lightwood. >>
<< Succedeva spesso? >> la interruppe.
<< Cosa? Le telefonate?>>
<< Il fatto che il Detective si trovasse in ospedale.>> precisò.
<< Oh, sì questo sì. Era stata assegnata una scorta a Magnus, ma- >> si fermò, posò lo sguardo sull'amico, su Raphael al suo fianco, su Quinn nascosta nelle ultime file vicino a Meliorn.
<< Sì, Signorina Loss?>> Il Procuratore la richiamò all'ordine e lei si riscosse.
<< Molti dei nostri amici sono… un po' reticenti verso la polizia. Alexander spesso sostituiva le guardie nel piantonamento per permettergli di far visita a Magnus con più… tranquillità. È stato un gesto di gentilezza, l'ennesimo che il Detective ha fatto verso tutti noi. >>
Ci fu un mormori d'assenso da parte del pubblico e anche della giuria, poi Maryse continuò.
<< Il Detective Lighwood era quindi in ospedale con il Signor Bane, lei a casa di questo con il Dottor Lewis, cosa è successo?>>
<< Stavamo cercando di convincere Magnus a non portarsi troppe cose nella casa sicura, non sarebbe certo andato in vacanza e solo Alexander è riuscito a fargli capire bene la cosa.
Mentre loro discutevano io stavo sistemando un po' di cose lasciate in disordine da quando Magnus aveva lasciato casa e ho trovato degli appunti per alcuni ordini da fare per il suo locale. Gli ho sempre rimproverato di essere disordinato e così ho iniziato a racimolare tutto i documenti per metterglieli a posto. A quel punto ho visto un vecchio scatolone in cui erano riposti tutti quegli oggetti che una volta si trovavano nella cassaforte a muro a casa di Ragnor. >>

<< Quella che il Signor Bane ha svuotato perché contenente oggetti privati del Signor Fell, perché aveva paura che la polizia li rovinasse o perdesse, giusto?>> domandò più per spiegare ai giurati di cosa stessero parlando piuttosto che per saperlo.
<< Esatto. Noi...come ho detto siamo sempre stati un po' reticenti verso la polizia. Dalle nostre parti non era mai un bene vedere un uomo in divisa, siamo prevenuti ma non sempre inutilmente. >> ci tenne a precisare. << In ogni caso, erano album di fotografie, dei vecchi quaderni di appunti di Ragnor, di quando era al liceo, del suo periodo all'Accademia d'arte, cose così. >>
<< Ma c'erano anche degli appunti sui suoi lavori, sulle opere che comprava e vendeva. >>
Deglutì e annuì. << Sì, c'erano anche quelli. >>
<< Anche i più vecchi. >>
<< Sì, uno in particolare aveva attirato la mia attenzione.>>
<< E come mai Signorina Loss, perché di tutti quei quaderni d'appunti ha scelto proprio quello.>>
<< Ragonor era una persona molto precisa. >> cominciò faticando ancora ad usare il passato per riferirsi all'amico. << Quando cominciava a fare qualcosa manteneva lo stesso “stile” per così dire, i quaderni erano quelli classici che può avere ogni studente, monocromatici e lisci, plastificati. Quello che vidi io era ruvido, opaco, in pelle avrei quasi detto. Lo sfogliai e dentro lessi un paio di nomi che ricordavo vagamente, di persone che avevano avuto a che fare con gli affari di Asmodeus e così… per paura che durante l'assenza di Magnus qualcuno entrasse in casa e rovistasse tra le sue cose… ho preso quel quaderno e tutti gli altri, nascondendoli nella borsa e portandoli a casa mia.>>
Terminò chiudendo per un attimo gli occhi. Aveva omesso un bel po' di cose, aveva indorato la pillola più di quanto non potesse fare e ora sperava davvero che quella stupida deposizione finisse.
Valentine Morgenstern era morto, Hodge Starweater aveva firmato un accordo, dovevano solo definire i dettagli e dimostrare che Magnus non era coinvolto, per una volta, in quella vicenda come criminale.
Il Procuratore annuì con vigore e poi si voltò verso la giuria.
<< La Signorna Loss temeva a giusto avviso che qualcuno potesse entrare abusivamente in casa del Signor Bane e “rovistare”. In modo gentile la Signorina Loss ci ha detto che la paura, il sospetto del Detective Lightwood, che fosse un uomo di legge il vero colpevole, fosse poi giusto. La testimone aveva paura che la polizia potesse entrare in casa del suo amico e mettervi delle prove contro di lui. Perché non dobbiamo dimenticarci che il colpevole, l'assassino di ben due vite coraggiose e cadute ingiustamente, era un poliziotto, era il Vice Commissario.
Il suo timore si è rivelato corretto ed è proprio quello che è successo: nel disperato tentativo di dimostrare che suo padre era innocente, con la cieca fiducia che ogni figlio ha verso il proprio padre, Jonathan Morgenstern si è introdotto in casa di Magnus Bane sotto ordine del padre e ha cercato il famose Quaderno del Circolo di Asmodeus.
Sappiamo come è andata. Il Detective Lightwood ed il Signor Bane sono arrivati al loft quando il Detective Morgenstern era già all'interno e Lightwood ha cercato di spiegargli cosa fosse successo, cosa avesse capito. Nel frattempo è arrivato anche Valentine Morgenstern ed ha cercato, a sua volta, di convincere il figlio della sua innocenza.
Ma cosa sarebbe successo se quel quaderno fosse stato in quella casa?
Non potremmo mai immaginarlo: magari il Vice Commissario sarebbe stato ancora più determinato ad eliminare tutti i testimoni, magari suo figlio avrebbe letto quel quaderno e trovato il nome del padre e allora Morgenstern avrebbe cercato di eliminare anche lui. >>
A quelle parole Jocelyn sobbalzò, voltando la testa di scatto per cercare Jonathan seduto in fondo all'aula e lo vide più bianco che mai, fermo lì a rimuginare sulle parole, sulle insinuazione del Procuratore Generale.
<< Il Detective Lightwood ha saputo gestire la cosa, ha convinto il Detective Morgenstern che suo padre fosse il vero colpevole e lui gli ha creduto, è arrivato a sparare a suo padre per salvare delle vite innocenti. Sappiamo che anche il Detective Lightwood ha sparato al Vice Commissario e lo ha ucciso con un colpo alla testa, malgrado fosse gravemente ferito. Sappiamo come il Detective Morgenstern gli abbia prestato soccorso finché non sono arrivate le ambulanze. Ma ancora, signori, cosa sarebbe successo se invece avessero trovato quel quaderno?
La Signorina Loss, per proteggere il suo amico, i suoi amici, ha portato via il quaderno del Circolo di Asmodeus, ha tolto dalle mani di un
vero criminale ciò che cercava da anni e che è costato la vita a tante persone innocenti. Se oggi siamo in possesso di un reperto così importante è solo grazie alla fedeltà che questa donna ha dimostrato verso i suoi più cari amici. >>
Si girò di nuovo verso Catarina e le sorrise apertamente.
<< Quindi lo Stato di New York City le deve i suoi più sinceri ringraziamenti, Signorina Loss.>>


 


 



18 Febbraio.

Catarina si poggiò con la schiena contro il muro del corridoio che portava agli spogliatoi dell'Ospedale. Le faceva terribilmente male la schiena ma forse il fatto che il suo turno durasse da ormai 36 ore non aiutava per niente.
Si stropicciò gli occhi con le mani, passandole poi sul volto stanco e sbadigliando sfinita. Non vedeva l'ora di togliersi quel camice ed andare a casa a dormire.
Gettò un'occhiata al cerca-persone e rimase imbambolata a fissare la data che la macchinetta riportava: quel giorno Magnus aveva l'incontro con la commissione che l'avrebbe reputato idoneo o meno per fare il consulente.
Visti i suoi precedenti Catarina c'avrebbe contato poco, ma si rivedeva nella mente lo sguardo determinato di Alexander che le diceva che sarebbe andato tutto bene e lei, con una facilità quasi disarmante, gli credeva ciecamente.
Se solo pensava a tutto ciò che era successo nella seconda metà dello scorso anno le venivano i brividi e la voglia di nascondersi da qualche parte, al buio e al silenzio, e non uscirvi più. Alexander Lightwood era stato probabilmente l'unica cosa buona capitatagli, a tutti loro per inciso, non solo a lei o a Magnus. Persino Raphael era rimasto colpito da quell'uomo ed era anche simpatico a Cristiano! E lo sapevano tutti che Raph e Chris erano più difficili da accontentare.
Chissà quando avrebbero finito, poteva già chiamarli o era meglio di no?
Si staccò dalla parete con uno sforzo sovrumano e andò finalmente a cambiarsi.
Avrebbe aspettato notizie direttamente da Magnus, sdraiata sul suo letto a dormire magari, rintanata sotto strati e strati di coperte, sì, era il suo piano quello.
Avrebbe staccato la spina dal lavoro e anche da tutta la tragedia che le aveva rubato l'estate, l'autunno ed il suo migliore amico. Doveva solo pensare che ormai era finita, che Ragnor aveva ricevuto giustizia ed ora era in pace.
Magari era proprio giunto il momento che in pace c'andasse anche lei, possibilmente non definitivamente. O forse sì...il necessario che bastasse per riprendersi da quegli eventi catastrofici, gli stessi eventi in cui Magnus si stava ricacciando.
Scosse la testa e si disse di no, non era la stessa cosa, questa volta -la prima- Magnus sarebbe stato dalla parte giusta e nessuno gli avrebbe fatto del male.
A meno che non se ne uscisse con qualche sparata micidiale al colloquio, in quel caso era spacciato.
Chiuse gli occhi e poi il suo armadietto.
Magnus era grande e grosso e vaccinato, poteva cavarsela da solo.
Gettò un'ultima occhiata all'orologio appeso nella sala.
Al limine gli avrebbe curato tutte quelle ferite causate dalla quantità, sicuramente giusta, di pugni che Alexander stesso gli avrebbe rifilato.


 


 




 

Lesse le ultime righe del rapporto che aveva stilato e poi sorrise soddisfatto firmando il foglio.
Anche per quel giorno le scartoffie erano terminate e poteva tornarsene a casa, il suo turno sarebbe finito a breve e a meno che non ci fosse stata qualche emergenza poteva andare a farsi una doccia, che decisamente gli serviva, e poi magari andare a rompere le scatole a qualcuno.
Alzò lo sguardo verso l'alto, trapassando il soffitto e tutti i piani che lo dividevano da quello in cui in quel momento Alec stava portando avanti il colloquio con Magnus e la commissione per l'approvazione della consulenza temporanea.
Diamine, potevano sceglierlo un nome un po' più corto?
Si passò una mano tra i capelli chiari e si domandò se non potesse andare a sbirciare, a vedere attraverso gli spiragli delle tende che sicuramente avevano tirato, cosa stesse combinando Magnus Bane e se il Tenente lo avesse già preso a pugni.
O se lo avesse già fatto la Signora.
Sbadigliò, magari poteva andare a trovare la sorella, o sua madre, era da un po' che non la vedeva, tra un caso e l'altro. Sì, avrebbe fatto così, casa, doccia e poi dritto al vecchio ovile.
Mise in ordine i documenti battendone il taglio sulla scrivania e poi si alzò, tenendoli stretti in mano alla ricerca della spillatrice che, ne era sicuro, doveva essere da quelle parti.
<< Ehi, biondo!>>
La voce del Capo Crouz lo fece saltare sul posto, così impegnato alla ricerca di quella dannata spillatrice che poi, con disappunto, individuò sulla postazione di Mendoza.
<< Sì, capo?>> si voltò verso di lui ed una smorfia gli si aprì sul volto non appena incontrò quello dell'uomo.
Il Capo Crouz era ormai sulla cinquantina abbondante, l'aspetto massiccio ed intimidatorio, le spalle larghe e la postura di un comandante. Teneva i capelli corti, dal taglio militare, ormai di un marrone sbiadito e pieno di fili argentei. Ce lo prendevano spesso in giro, lo paragonavano a tanti altri uomini della sua età lì presenti che avevano ancora tutti i capelli del colore giusto, e l'uomo ci rideva di gusto dicendogli che avrebbe ricordato loro tutto ciò quando sarebbe arrivato il momento, quando i loro di capelli sarebbero sbiaditi e caduti.
La sua espressione seria, sul volto marcato e deciso, però non gli fece venir da ridere, anzi, a fissare quegli occhi scuri e puntati su di lui l'unica cosa che gli venne in mente fu che forse non sarebbe passato da sua madre. E neanche a farsi una doccia.
<< Non fare quella faccia da cerbiatto su un'autostrada, Scheggia, che stia facendo?>>

Mi preparavo per andare a casa, Capo. Cosa che evidentemente non farò.

<< Aspettavo lei per farmi dare una nuova mansione? >> domandò già con le spalle basse.
L'uomo sogghignò davanti a quella scena. << Cosa c'è? Mi è capitato il figlio scansafatiche? Blackthorn si è sempre vantato di quanto tuo fratello sia inarrestabile e tu invece non vedi l'ora di scappare a riposarti? >> lo sfidò certo che avrebbe raccolto la provocazione.
Ed in effetti così fece. << Alec non è un agente della SWAT!>>
Jace incrociò le braccia la petto e fissò male il suo superiore, diviso tra il fastidio di quella precisazione e l'orgoglio verso suo fratello che, sì: era decisamente infaticabile.
Il Capo Crouz si strinse nelle spalle. << Bene, quindi devo chiedere a lui per seguire una pista su uno dei nostri blitz?>>
Lo stava sfidando ancora a dirgli di sì, che doveva chiedere ad un detective e non a lui, ma Jace era tanto orgoglioso dei suoi fratelli quanto lo era di sé stesso e pur sapendo che lo aveva appena incastrato a fare degli straordinari, assottigliò lo sguardo e alzò la testa con fierezza.
<< Solo perché buttiamo giù porte non vuol dire che siamo degli trogloditi che non sanno indagare.>>

<< O mio Dio! Lightwood ha appena usato una parola difficile! Troglodita… sono fiero di te Scheggia!>>
Un uomo di circa trent'anni, massiccio e con una zazzera di capelli corti e ricci, la pelle rosea e punteggiata di lentiggini, entrò nella stanza battendo una mano sulla spalla del Capo e poi allargando le braccia verso Jace che prontamente gli rifilò un dito medio.
<< Fottiti Mendoza, come hai fatto con la mia spillatrice.>>
Quello scoppiò a ridere e abbracciò comunque il biondo, pur contro tutte le sue proteste divertite.
<< Su, non fate i bambini. Capo? Il verbale della scorsa sera. >>
<< Grazie Hoogans. >>
La Hoogans invece era una donna alta e dalla corporatura atletica, tipica di chi è abituato a portare grandi pesi e a combattere tutti i giorni. Malgrado ciò conservava un volto piacevole come la sua intera figura. La pelle mulatta era in perfetto accordo con i capelli neri e gli occhi marroni scuro, privi di qualunque tipo di trucco esattamente come il resto del volto se non fosse stato per le labbra umide di una patina vagamente lucida.
Si avvicinò ai due colleghi e rifilò uno schiaffo in testa ad entrambi, che si divisero e la guardarono offesi da quel gesto.
<< Ehi!>>
<< Lasciate perdere Hoogans. Mendoza, tu molla Lightwood, ha un compito da svolgere! >> La voce di Crouz tuonò nell'aria e tutti si voltarono verso di lui, sull'attenti.
<< Come? Ma se abbiamo appena finito il turno! Che dobbiamo fare ora?>> si lamentò Lorenz Mendoza poggiandosi con un braccio alla spalla di Jace, cosa che risultò vagamente difficile visto che il biondo era più alto di lui e si alzò persino sulle punte per non farsi usare come comò.
<< Smettetela di fare i poppanti, metti i piedi a terra Lightwood e tu, Mendoza, toglitici dai piedi e vattene a casa, è Scheggia che ha qualcosa da fare, non voi.>>
<< Ma se siamo in due facciamo prima, no? >> domandò l'uomo eseguendo comunque gli ordini del Capo.
Lorenz era un rompipalle di prima categoria, forse per questo lui e Jace andavano tanto d'accordo e si stuzzicavano su ogni fronte, dai più importanti ai più stupidi, ma questo non influiva in nessun modo sul suo senso di responsabilità verso il suo distintivo, verso la sua città e verso i suoi compagni. Lasciare che Jace se ne andasse da solo a fare qualcosa accumulando straordinari che non aveva chiesto di fare rientrava tra i suoi doveri verso gli amici, perciò offrirsi di aiutarlo, dar per scontato che sarebbe andato con lui, era la cosa più naturale che potesse fare.
Il Capo però scosse la testa. << No, di questo giro dovrai restare in panchina, va solo lui.>>
<< Se è per il suo caratteraccio posso andare anche io con Lightwood, signore. >> si propose Valerie poggiandosi contro la scrivania di Jace.
Ma di nuovo Crouz scosse la testa. << Deve andare a parlare con qualcuno che non gradirebbe di certo l'arrivo in massa di una squadra SWAT. >> poi cercò tra i fogli che aveva in mano, togliendo quelli che gli aveva consegnato Hoogans e porgendo un piccolo plico a Jace.
<< L'altro ieri l'Alpha Red ha fatto irruzione in una casa in cui si nascondeva uno spacciatore assieme al suo carico di coca. Il tipo era strafatto, non si è accorto neanche che gli hanno buttato giù la porta. L'antidroga lo ha interrogato e Manchester poi si è presentato alla mia porta dicendomi che gli “serviva un Lightwood”. >>
Jace alzò un sopracciglio senza capire.
Manchester? Il Capo dell'Antidroga di New York? Che diavolo significava che gli “serviva un Lightwood”?
<< In che senso? Si sono dimenticati come si svolge un caso? >>
<< Con tutti i fumi di quella robaccia che si respirano… >> borbottò Mendoza sporgendosi per leggere cosa c'era scritto nel file.
<< Il tipo, Scoot o qualcosa del genere, si è messo a sbraitare sul fatto che erano arrivati troppo tardi, che lui la scomparsa del suo amico l'aveva denunciata mesi fa e che non servivano più a niente ormai. >> L'uomo fece un passo indietro per poggiarsi allo stipite della porta a vetri, le braccia incrociate sul petto ampio.
<< Aveva denunciato la scomparsa del suo amico Trevor Potter, ma era anche lui un drogato ed uno spacciatore e la polizia ha pensato che si stesse nascondendo da qualcuno.>> lesse Hoogans superando entrambi i suoi colleghi in altezza. << La sparizione risale allo scorso Luglio- >>
<< Il periodo in cui hanno sparato a Bane. >> disse Jace aggrottando le sopracciglia. << Pensa che la cosa sia collegata? Il giorno della denuncia è di due giorni successivi alla sparatoria. >>
Crouz si strinse nelle spalle. << Non ne ho la più pallida idea, Lightwood, questo devono dircelo i detective. Hanno una pista ma per il momento l'unico che può andare a parlare con questa fonte e ricevere risposte sincere è impegnato ad impedire alla Signora di sbranare vivo un deficiente che dovremmo assumere come consulente e contemporaneamente ad impedire a quel deficiente di dare motivazioni valide per metterlo alla berlina e fucilarlo per le grandissime stronzate che potrebbe sparare. >>
<< Diamine, le voci girano in fretta… >> sospirò Jace pensando a quanto fosse vero e a come fosse quasi ridicolo che tutto il Dipartimento sapesse già che la Herondale e Bane non andassero d'accordo per niente.
<< Quindi ci serve un altro Lightwood che potrebbe ricevere delle risposte degne di questo nome.>>
<< Ma chi bisogna interrogare?>> chiese curiosa Hoogans.
Crouz sorrise. << Interrogare? Nessuno ovviamente o avremmo già provveduto ad una comunicazione ufficiale. >> si staccò dalla porta e diede loro le spalle. << Nel fascicolo troverai le domande da fare al nostro amico. Buona fortuna Scheggia e portagli i saluti del Dipartimento.>>
Se ne andò senza aggiungere altro, con un sorriso beffardo in volto.
I tre lo guardarono andare via e Mendoza sbuffò. << Arrivederci Capo, eh. >>
<< Smettila, lo sai che non saluta mai nessuno.>> lo riprese Valerie.
<< Il Capitano lo saluta. >>
<< Tu non sei il capitano.>>
<< Andate a discutere lontano dai miei bellissimi capelli? Il vostro fiato li danneggia.>> Jace diede una spallata a Mednoza e poi una a Hoogans, facendoli a mala pena ibarcollare entrambi, che per altro tornarono subito su di lui per leggere ancora il fascicolo.
<< Ma chi devi andare a interrogare?>>
<< Ma non lo hai sentito il Capo? Non è un interrogatorio. >>
<< Okay, come ti pare! Con chi devi andare a scambiare due chiacchiere in allegria?>>
Jace lesse i fogli velocemente, ma già il semplice elenco delle domande gli aveva fatto venire qualche idea. Quando poi trovò l'indirizzo del luogo, a Manhattan, East Harlem, sulla centosedicesima, non ebbe neanche bisogno di leggere il nome del suo obbiettivo.

<< E che cazzo! >>


 


 



 


 

Raphael si rigirò l'anello che portava all'anulare della mano destra. Seduto comodamente sulla sua poltrona di velluto rossa, con lo schienale alto e i braccioli imbottiti, sembrava un boss di qualche film dai tratti gotici, forse perché gotico era anche, a grandi linee, lo stile dell'intero palazzo.
Fissò senza vederlo il piano di legno scuro su cui facevano bella mostra di sé un porta documenti, un grande quaderno di pelle con una targhetta dorata con su il nome del suo Hotel ed il computer di ultima generazione che stazionava sull'angolo destro della scrivania.
C'era un portapenne di pelle alla sua sinistra, delle costose stilografiche infilate negli opportuni alloggi ed un bicchiere di cristallo ricolmo di liquido rosso poggiato su un cerchio d'oro.
Alle sue spalle la finestra era coperta da pesanti tendaggi vermigli, dalla trama così fitta da non lasciar trapelare neanche la minima lama di luce. A vederli così parevano talmente spessi che Jace si domandò quanto dovessero pesare e come facevano le stecche di ferro a reggerli senza crollare.
Lanciò uno sguardo sul mobiletto basso che si trovava sul lato destro della stanza, dover erano poste delle bottiglie dall'aria costosa e dei calici così lucidi e fini che ci si sarebbe potuta suonare un'omelia religiosa. C'era anche un vaso ricolmo d'acqua, con dei lunghi giunchi che vi uscivano fuori, abbelliti con quelli che forse erano fiori o forse foglie, degli strani ovali gonfi con delle spine tutte attorno al margine.
Quel luogo era tetro ed incredibilmente lussuoso, ma anche la ricchezza dei materiali e degli oggetti non impediva ai visitatori di sentire un certo disagio.
Il quadro alla parete, che mostrava sicuramente una scena biblica, pareva suggerire che tra quelle mura potesse avvenire qualche strano rito satanico.

Quindi chiamarlo Hotel Dumort è stato del tutto azzeccato.

<< Cosa dovrei saperne io di tutto ciò? >>
La voce di Raphael era tranquilla e bassa, lenta e quasi annoiata. Sembrava esser lì a parlare con lui solo per fargli un favore, unicamente perché si conoscevano e quindi gli aveva concesso l'onore di rispondere alle sue domande.
Domande che Jace era andato a fargli senza distintivo e senza pistola perché, ufficialmente, quella non era una visita di lavoro ma solo di cortesia. Era andato a chiedere informazioni su qualcosa che non lo riguardava direttamente facendo leva sul fatto che potesse, invece, riguardare Magnus.
<< Se non lo sai tu non posso certo dirtelo io. Il tipo che hanno arrestato dice che il suo amico è scomparso due giorni dopo la prima sparatoria a Bane, che era uscito perché doveva fare una commissione importante per una persona importante. L'amico gli ha detto che rischiava di finire nei guai e quello gli ha risposto che aveva le spalle parate da “un uomo in alto e intoccabile”. >>
<< E pensi che quest'uomo fosse Morgenstern e che la commissione fosse uccidere Magnus. >> concluse piatto Santiago, inclinando leggermente la testa di lato.
<< Non sarò un genio in matematica ma qui mi pare proprio che sia un semplice far due più due, non credi anche tu?>> lo sfidò con il suo sorriso beffardo il biondo, sapendo perfettamente di aver ragione. Più si ripeteva quella storia in testa e più gli sembrava estremamente logico.
L'altro uomo annuì. << Sì, sembra abbastanza sensato anche a me. Ciò che continua a sfuggirmi è come io dovrei rientrare in questa faccenda.>> unì le mani e si accomodò contro lo schienale della poltrona imbottita da lord medievale.
<< Perché sai molte cose.>> disse serio Jace.
<< Concesso. Ma non so tutto. Per di più, Lightwood, pensi davvero che se avessi conosciuto l'identità dell'uomo che ha cercato di uccidere Magnus, questo sarebbe ancora vivo? >> domandò allargando le mani in un gesto interrogativo per poi ricongiungerle. Sembrava quasi stesse pregando. << Spero tu non voglia insultare la mia intelligenza e sperare che io ti dia conferma di qualcosa che, primariamente, non ho fatto, e secondariamente, non verrei certo a dire a te. >>
Jace scosse la testa e si sporse verso la scrivania. << Non me ne frega niente di che fine a fatto quel verme. Era un drogato, era uno spacciatore e si faceva pagare per ammazzare la gente, per me puoi anche averlo scuoiato vivo, anche se so per certo che non lo hai fatto.>>
<< Ammirevole, ti fidi così tanto di me?>> il ghigno scintillante che si aprì sul volto di Raphael gli ricordò per un attimo il suo fascicolo, l'accenno al fatto che fosse stato alle dipendenze di un certo Dracula: il suo sorriso era così affilato che Jace non avrebbe faticato a credere che quel giovane uomo fosse a sua volta un vampiro.
<< Non ti allargare Santiago. >> replicò ghignando anche lui, l'espressione furbesca e pericolosa che fece concorrenza a quella del direttore dell'hotel. << So che non lo hai ucciso tu perché sono convinto che ci avresti fatto ritrovare il cadavere, per far saper non tanto a Magnus e a Catarina, quanto ad Alec che quel bastardo era fuori dalla circolazione. >> si passò una mano tra i capelli con un gesto consumato e affascinante che non impressionò minimamente l'altro.
<< È la tua opinione e io non sono nessuno per contraddirla, ognuno ha la propria. >> rispose riprendendo la sua espressione neutra ed il suo tono piatto.
<< Proprio così, sei una persona ben educata vedo. >> lo sfotté beffardo.
<< Mama ha sempre tenuto molto all'educazione, ha fatto un buon lavoro. Lo stesso che la tua ha fatto con i tuoi fratelli, peccato si sia persa poi con te e con Isabelle. >>
La frecciata arrivò dritta dove doveva arrivare ma Jace sorrise lo stesso: aveva tirato in ballo la sua famiglia con semplicità e senza il minimo scherno, rispondendo alla sua battuta con pacatezza non sembrando minimamente infastidito. Voleva forse dire che i toni della conversazione si stavano spostando su un fronte più confidenziale?
<< Cosa vuoi che ti dica? Sono bello da far schifo, non posso essere anche educato. >>
<< Immagino. >> replicò con un sopracciglio alzato e l'espressione schifata. << Allora se non è per questo, perché sei qui a rompermi le palle, Lightwood? >>
Sì, decisamente toni confidenziali.

Batti il cinque bellissimo, quando lo diremo agli altri ci fanno un ovazione.

E sorvolando sul fatto che parlasse di sé con sé stesso si affrettò a rispondere alla domanda, prima di perdere il treno e ritrovarsi di nuovo di fronte quel signorotto gotico che era morto ma non se ne era reso conto.
<< Il tipo ha detto che il suo amico non si preoccupava di niente perché aveva le spalle coperte da uno in alto, quindi noi pensiamo fosse Valentine o al massimo Hodge. >>
<< Il tecnico che ha ucciso il padre di Lewis e tutta quella gente?>> domandò per comprensione.
Jace fece un cenno affermativo con la testa. << Uno dei due, in ogni caso, se non entrambi. E qui entri in gioco tu. Quel tizio diceva di potersi nascondere da qualche parte e non esser mai più ritrovato e qualcuno, ad Agosto, fece una soffiata alla polizia e gli disse che “un uomo in blu” aveva richiesto i suoi servigi per far sparire una persona. >> si fermò e fissò Raphael dritto negli occhi, un contrasto ben abbinato tra quel marrone caldo e scuro e l'oro luminoso dei suoi.
Santiago lo fissò di rimando e ponderò attentamente ciò che gli era stato detto.
Prese un respiro e si staccò dallo schienale.
<< Cominciamo con il dire che se quell'individuo fosse venuto a chiedermi una camera qui in hotel non ne sarebbe più uscito, ma probabilmente neanche ne sarebbe entrato.
Quando ricevo una prenotazione sono solito raccogliere informazioni sul mio cliente, quelle che lui mi fornisce e quelle che vorrebbe nascondere ad ogni coso. Non mi sarebbe servito poi molto per scoprire che era un assassino e che aveva cercato di sparare alla persona sbagliata. Quindi no, non è mai venuto qui a chiedere i miei servigi, così come non li hanno chiesti terzi per lui.
In quel momento non si sapeva ancora chi fosse la talpa al Dipartimento di Polizia, lo avrebbe scoperto Alexander qualche settimana dopo, e quando un uomo in blu è venuto a chiedermi una suite per una persona, ho pensato fosse opportuno informare chi di dovere.>>
<< E non avevi fatto indagini su di lui? >>
<< Certamente, per questo vi ho avvertiti.>> Raphael lo scrutò per un po' e poi lo guardò quasi con accondiscendenza. << Il brutto di voi poliziotti è che credete che tutti abbiano la vostra stessa morale. Se siete entrati nell'arma per proteggere le persone pensate che tutti lo abbiano fatto per lo stesso motivo, credete che lo abbiano fatto per la patria, per la gloria, per la famiglia. Non pensate che non sia così, non lo fate volontariamente, certo, ma non pensate che ci sia chi è entrato in polizia per scappare al suo quartiere popolare, per non finire in una gang, perché non aveva altra scelta. E non pensate neanche che quelle persone possano essere corruttibili perché voi non lo siete e loro sono vostri compagni.
Purtroppo non c'è mai solo una talpa. Non c'è mai un'unica persona che ha le mani in qualcosa che non dovrebbe avere, che le ha sporche o che ha l'anima sporca.
Siamo umani e non lo capiamo finché non veniamo messi davanti alla realtà dei fatti.
Avete trovato due “cattivi” tra di voi e avete dato per scontato che ci fossero solo loro, che nessun altro fa soffiate in cambio di bustarelle, che nessuno abbia problemi di droga, di alcol, di gioco, che picchi la moglie o che abbia commesso qualche crimine. >> sospirò e chiuse un attimo gli occhi, scuotendo la testa come un adulto che spiega un concetto difficile ad un bambino.
<< Valentine Morgenstern non era, non è e non sarà mai, l'unico poliziotto che è venuto o verrà a chiedere il mio aiuto per i motivi più disparati. Non potete prenderli tutti, penseranno sempre di potercela fare e qualcuno lo farà davvero, è la vita.>>
Jace serrò la mascella, serio e colpito a fondo dalle parole del giovane.
<< Mi stai dicendo che il mio dipartimento è tutto corrotto? Che non c'è neanche una brava persona tra di noi? >> lo accusò con la voglia di alzarsi in piedi e prenderlo a pugni.
Lui non li conosceva, non conosceva nessuno di loro, non poteva dirlo, non ne aveva il diritto.
Ma Santiago lo guardò con aria persa, con lo sguardo di qualcuno che ricordava, che sapeva cose che lui non poteva neanche immaginare.
<< Non siamo tutti santi e non siamo tutti demoni. Siamo peccatori che cercando di sopravvivere, Jace, che cercano di andare a vanti. Non giudicherò mai le azioni una persona, le sue decisioni, perché non conosco la sua storia e neanche le motivazioni che l'hanno spina a fare ciò che ha fatto. Posso non essere d'accordo o posso esserlo. Ma non sono cieco e non sono neanche un utopista.
Anche voi uomini di legge siete umani, anche voi avete i vostri difetti e anche voi fate i vostri errori. C'è chi è reticente e chi si pente, questo te lo concedo, ma non credere che ha portare la tua divisa siano solo persone giuste.>>
<< Cosa ne sai tu?>>
<< Cosa ne so? >> sbuffò una risata senza gioia e scosse la testa. << Il semplice fatto che ci sia voluto tuo fratello, contro tutte le opinioni pubbliche, a scovare l'assassino di Ragnor, che tutti avrebbero volentieri dato la colpa a Magnus e avrebbero archiviato il caso, felici che “ce ne fosse uno in meno” e che finalmente Mags fosse dietro le sbarre, anche se per un crimine che non aveva fatto, dovrebbe farti capire che i poliziotti, gli avvocati, il sistema e la giustizia stessa non sono sempre giusti. Solo Dio lo è e ci giudicherà per ciò che abbiamo fatto quando lo incontreremo.>>
Parlò con voce atona, alzando una mano per impedire al biondo di replicare.
<< Non è stato nessuno dei tuoi “demoni” a chiedere il mio aiuto, è stato un altro uomo e non sarò io a dirti chi e perché. Su questo non ci sono dubbi. >>
Jace lo guardò attentamente, studiando la posa eretta delle spalle che nascondeva tutta la stanchezza che vi era dietro. Santiago aveva solo un anno in più di Alec, ma proprio come suo fratello i suoi occhi sembravano nascondere più di quanto non fosse giusto che nascondessero.
Quell'uomo doveva aver vissuto cose che Jace non avrebbe mai vissuto, il peso di una vita faticosa tra criminalità, paura di morire e voglia di vivere; così come Raphael non avrebbe mai compreso il bisogno di rivalsa che aveva animato lui e tutti i suoi fratelli, il peso del loro nome, delle figure perfette ed importanti dei loro genitori. Ciò che forse li accomunava più di ogni altra cose era il senso di impotenza che per tanti, troppi anni avevano dovuto sopportare e che ogni tanto ancora oggi si affacciava alle loro vite.
In quella stanza, in quel momento, c'erano due persone che si mostravano forti ed intoccabili, incrollabili e sfrontate al resto del mondo, ma che come ogni essere umano avevano i loro difetti, i loro dolori, i loro rammarichi e le loro cicatrici.
Il silenzio che si addensò tra di loro fu carico di parole non dette, di discussioni e idee completamente diverse. Jace annuì un paio di volte, come a darsi la forza per far altro, poi si alzò e allungò la mano verso Raphael.
<< Grazie comunque, l'ho apprezzato molto. >> disse sincero seppur adombrato.
Anche Raphael si alzò e gli strinse la mano. << Potrei dirti che è un dovere, ma preferisco dire che dare una mano ad un amico lo è. >> rispose tranquillo, completamente ripresosi dalle sue stesse parole.
<< Come farai ora che Magnus entrerà in polizia? >> chiese poi a bruciapelo.
Santiago si strinse nelle spalle. << Non cambierà nulla, se non l'oggetto delle sue inutili e pedanti lamentele. Il problema è tutto vostro. E poi non ho nulla da nascondere io, sono solo un onesto alberghiere. >> Si concesse un ghigno sarcastico a cui Jace rispose prontamente con uno dei suoi.
<< Continua a ripetertelo, Santiago, magari ci credi poi. Oh! Il Dipartimento ti saluta! >>


 



Si salutarono così, con molto ma nulla di detto e Raphael sprofondò di nuovo nella sua poltrona, afferrando stancamente il bicchiere e mandando giù un sorso abbondante del liquidi denso e rosso.
Osservò la porta chiudersi dietro le spalle del biondo e ascoltò i suoi passi pesanti sul corridoio tirato a lucido.
Gli ci mancava solo un poliziotto convinto che il Vice Commissario fosse l'unico corrotto in quel mondo, con tutti i problemi che aveva in quel momento la visita del Lightwood era stata proprio la ciliegina sulla torta.
Posò la bevanda sul poggia bicchiere e allungò una mano per aprire il cassetto ancora socchiuso della scrivania.
Ne tirò fuori una busta da lettere, sembrava quasi una bolletta a vederla così, bianca e liscia, con su il suo nome scritto sopra, sarebbe stata una busta qualunque se solo al suo interno non ce ne fossero state altre che, come una matriosca, ne contenevano altre ancora sino ad arrivare al messaggio vero e proprio.
I nomi scritti su ognuna di queste si alternavano in una digressione vecchia più di lui, un susseguirsi di proprietari di quel messaggio che si erano alternati, forse per ereditarietà, forse per forza di cose, per esser subentrati con la forza a chi 'cera stato prima di loro.
Il suo di nome era l'ultimo, l'indirizzo quello dell'Hotel Dumort, ma sotto al primo strato c'era una lettera indirizzata ad un vecchio boss di una gang che Raphael aveva provveduto ad eliminare anni prima. Dentro a quella una indirizzata al vecchio capo del tipo, poi una indirizzata ad un altro uomo e così sino a giungere a quella per una persona che Raphael avrebbe preferito non rivedere mai più.

Valdimir Mondscoija”.

Vladimir il Massacratore. Dracula. Il suo primo e più vecchio capo.
Raphael fissò quell'ultima busta che ancora non aveva avuto il coraggio di aprire.
Aveva una vaga idea di chi poteva avergliela mandata e sapere che dopo tutte quelle persone, tutti quei nomi, quei criminali più o meno pericolosi, l'ultimo, quello che era stato designato come il loro erede, era proprio lui, gli fece scivolare un brivido lungo la schiena.
Sapeva dov'era, sapeva cosa faceva e cosa aveva fatto in passato, il mittente di quella lettera sapeva tutto questo di lui e Raphael non si era mai reso conto di nulla.
Si sforzò di ripescare nella memoria tutte quelle volte in cui qualcuno gli aveva fatto una domanda indiscreta, tutte le volte che qualcuno aveva chiesto di lui o che si era sentito osservato, ma in quel momento il suo cervello era impegnato a capre altro.
Era l'ultimo anello di quella lunghissima catena, a lui l'onere e l'onore di ricevere la lettera.
L'aprì con un gesto secco, senza preoccuparsi di aver strappato quel nome che tanto aveva odiato e da lì tirò fuori un cartoncino bianco e anonimo come lo era la busta, se non fosse stato per quella calligrafia corsiva e rotonda, fatta di alte gobbe e occhielli stretti. Conteneva solo una frase ma ebbe il potere di fargli gelare il sangue nelle vene come se fosse davvero un vampiro senza più un briciolo di calore in corpo.

Chiamato all'ordine.”

La chiamata…
Chiuse gli occhi e si lasciò scivolare malamente sulla poltrona, sprofondando dell'imbottitura pregiata. In che cazzo di guaio si era messo? Anzi, no, in che cazzo di guaio lo avevano messo?
Era stato felice di vedere che quel pazzo di Vladimir era uno dei tanti a cui aveva “rubato” il posto, ma ora come ora avrebbe voluto che non fosse mai successo.
A lui l'onore e l'onere di riceve la lettera.
A lui l'onore e l'onere di rispondervi.

La chiamata era ormai stata fatta


 





 

Clary sbuffò annoiata, aspettando con pazienza che Simon uscisse dallo spogliatoio della palestra così da poter finalmente tornare a casa e riposarsi un po'.
L'amico era stato in ansia tutta la mattina per via del colloquio di Magnus, che per altro ormai doveva essere finito o in procinto di finire visto che erano quasi le quattro del pomeriggio. Forse il fatto che né lui, né Alec avessero telefonato per far sapere com'era andata la diceva lunga sulla situazione, o forse erano così impegnati a non far uccidere Magnus che non ne avevano avuto tempo. Almeno non le aveva telefonato Luke, in preda alle risate, raccontandole che pezzo aveva fatto quel matto di Bane.
Voltò la testa la suono della porta che conduceva nella zona riservata ai clienti, Clary ancora non capiva perché non si allenasse in quella della polizia, insomma, va bene che c'era rischio che lo prendessero in giro dalla mattina alla sera, questo sì, ma ormai era stato promosso ad agente operativo, era un detective adesso, quasi… lo sarebbe diventato l'anno dopo se avesse superato brillantemente il periodo di prova, ma questi erano dettagli.
<< Dimmi che ti hanno chiamato.>> fece speranzoso Simon avvicinandolesi con il borsone sulla spalla.
Clary alzò gli occhi al cielo ma non riuscì a non sorridere quando si rese conto che il suo amico stava mettendo su muscoli.
<< Stai diventato un palestrato, questa estate ti ritroverò a fare a gare con Jace a chi ha il bicipite più grande.>>
Simon fece una smorfia. << Mi pare ovvio che vincerebbe lui. Io sono un agente assegnato ad una squadra investigativa mentre lui corre tutti i giorni a sfondare porte e liberare ostaggi. >> si tirò su gli occhiali e poi cercò di farle un sorriso. << Non ti hanno chiamata vero? Neanche a me...>>
<< Sim, è più probabile che chiamino te piuttosto che me.>> gli fece notare sistemandogli il risvolto del giaccone e voltandosi verso l'uscita.
<< No invece. Alec sa che potrei andare nel panico e che lui ha quasi il tatto di Jace e Izzy, se è incazzato poi ne ha ancor meno di loro due, quindi chiamerebbe te, ti direbbe brutalmente che è andata uno schifo e poi ti chiederebbe di dirmelo in modo che non mi faccia prendere da un infarto qui, seduta stante. >> Spinse la porta e la lasciò passare, continuando a borbottare su come sarebbe rovinosamente caduto a terra, come si sarebbe rotto naso, denti, zigomi, labbra, sopraccigli, fronte e pure gli occhiali, di come il suo oculista, in tutto ciò, si sarebbe lamentato del fatto che era il quarto paio che si faceva nel giro di quattro mesi.
La ragazza non lo sentì quasi, registrando solo in sottofondo le sue chiacchiere melodrammatiche.
<< Passi troppo tempo con Magnus, cominci a prendere la sua stessa vena tragica.>> gli fece notare avvertendo una leggera vibrazione nel cappotto e cercando il telefono.
<< Non è vero! Ho sempre avuto una bellissima vena drammatica di mio! Ti ricordi cosa diceva il Rabbino Pope? Diceva che- >>
<< Che se mai avresti voluta fare una vita più agiata e meno pericolosa ti sarebbe bastato andare a lavorare in qualche teatro e scrivere sceneggiature degne di tutte le tue uscite di matto più strane, sì, me lo ricordo. Possiamo discutere su quanto sia ironico il fatto che il tuo Rabbino si chiami “Pope”? >> Gli sorrise al broncio che aveva messo su e poi chiuse con un colpo la chat di una sua amica che si congratulava con lei.
<< Chi è?>> chiese lui allungando il collo per scorgere lo schermo ed ignorando palesemente l'ultima domanda.
<< Davina. >> sorrise Clary, << Si congratula per il lavoro.>>
Anche Simon le sorrise e le mise un braccio attorno alle spalle. << Beh, te li meriti tutti questi complimenti e te ne meriterai ancora di più quando comincerai.>>
<< Sì, è davvero una grande opportunità e la cosa più sorprendente è che l'accademia d'arte abbia dato il mio nome tra quelli di centinaia di altri studenti!>>
<< E che la Lingood Interprice è una delle aziende più grandi che ci siano qui in America! Cavolo Clar! Ti immagini quanto soldi potresti fare? >> le chiese tutto eccitato, anche più di lei.
La ragazza rise di gusto e gli si poggiò contro spingendolo leggermente con fare giocoso.
<< Pensi subito ai soldi tu! >>
<< Ehi! Non sono io quello che sta per andare a vivere con il suo fidanzato e che ha bisogno di soldi!>>
Clary sogghignò. << Ah si? Mi devi dire qualcosa? Tipo chi è il tuo fidanzato?>>
Simon la guardò per un attimo senza capire, poi scoppiò a ridere. << La verità è che io e Jace siamo innamorarti da una vita ma ti usiamo come copertura!>>
La ragazza gli rifilò un pizzicotto che non ebbe lo stesso effetto per colpa degli strati di vestiario che proteggevano i fianchi dell'amico, ma rise con lui fingendosi oltraggiata.
<< Bene! È così che mi trattate voi due? Lo sapevo di aver scelto il Lightwood sbagliato!>>
<< Da piccola avevi più buon gusto in effetti. >> annuì lui.
<< Mi stai dicendo che preferisci Alec a Jace? Già lo tradisci? >> gli domandò alzando un sopracciglio.
Simon si bloccò in mezzo alla strada e spalancò le braccia con fare ovvio.
<< Assolutamente sì! Se fossi stato gay avrei avuto la cotta più colossale del mondo per Alec, penso che avrei anche avuto una cartella piena di sue foto, sarei stato uno stalker!>>
Clary si portò una mano davanti alla bocca, scioccata neanche la metà di quanto non volesse sembrare.
<< Oddio! Devo assolutamente dire al Tenente che ha un pazzo che lo perseguita!>>
<< Un pazzo che tu conosci da una vita e che hai ingaggiato tantissime volte per i tuoi loschi traffici! Sì, sì fingi di essere una brava persona Clary Fray, ma lo sappiamo tutti che in verità sei un boss mafioso nanerottolo e rosso!>>
<< Chi sarebbe il nanerottolo?!>> lo prese a borsate e rise con lui mentre si proteggeva blandamente con le mani.
<< Non io!>>
Risero ancora rincorrendosi come quando erano due bambini e non come i ventenni suonati che sarebbero dovuti essere, fermandosi poi sulla prima panchina libera che ancora ridacchiavano.
<< Senti, >> iniziò poi di punto in bianco Clary. << a te come va a casa con Jordan? Ho sentito Luke dire che Maia si vuole trasferire da lui. >>
Simon annuì. << Sì, vorrebbero andare a vivere insieme anche loro. >> fece una smorfia. << Temo che presto dovrò cercarmi anche io un'altra casa o sarò costretto a fare il terzo incomodo. Jordan ha detto che non devo andarmene, che non è giusto e che non mi daranno fastidio, ma fino ad ora siamo sempre stati solo noi due, come all'università, e so perfettamente che non sarà tutto uguale, che sarò io quello che non dovrà dar loro fastidio poi. >>
<< Kyle è un bravo ragazzo, ma no, non può certo dirti apertamente che te ne devi andare, l'appartamento lo avete affittato assieme. Però forse una soluzione ce l'ho per il momento. >>
Il ragazzo si voltò a guardarla con aria accigliata. << Ovvero?>>
<< Beh, io e Jace non possiamo vivere nel mio appartamento e a Jace tra un po' scade il contratto con il suo. Non sappiamo se riprenderemo l'affitto lì o se ci cercheremo un altra casa ma… sì, insomma, casa mia poi rimarrà vuota, potresti trasferirti lì per il momento e non dovresti pagare nient'altro se non le bollette visto che è casa dei miei.>>
Simon ci pensò un attimo, lo sguardo concentrato. << Sarebbe un po' come tornare a vivere con mia madre, no?>> chiese retorico, ma l'amica scosse la testa.
<< No, io ho un'entrata indipendente e mamma e Luke non ti disturberebbero però… ho solo pensato che per questi primi tempi da agente operativo ti avrebbe fatto comodo aver vicino qualcuno di fidato.>>
Glielo disse con sincera preoccupazione e Simon sorrise abbracciandola.
<< Va bene, ci penserò, te lo prometto. Per il momento però ho ancora casa mia e nessuno me l'ha ancora invasa di reggiseni, trucchi ed elastici per capelli. Quando succederà la tua piccola casetta sarà il primo luogo in cui penserò di rifugiarmi, giuro.>>
Anche Clary gli sorrise e restituì l'abbraccio. Poi sospirò.
<< Pensi che potremmo chiamare Alec o rischiamo di sentirlo tirar giù tutti i santi del paradiso?>> chiese con la voce soffocata contro la sciarpa dell'amico.
<< Beh, potrebbe succedere, ma la cosa importante è non dirlo a Raphael, se no ce lo affoga nell'acqua santa.>>
<< Naa, neanche lui sarebbe così pazzo da uccidere l'unica persona che riesce a tenere Magnus fuori dai guai anche se ci si è tuffato a bomba. >>
<< Vero. Chiamiamo?>>
<< Ma sì, sentiamoci l'esaurimento nervoso di Alexander Lightwood in diretta.>>


 


 


 





La parete a vetri della suite del Bellagio era così tirata a lucido da sembrare inesistente. Se non fosse stato per i riflessi che le luci proiettavano sulla superficie trasparente avrebbe giurato di poter sentire l'aria fredda dell'inverno del Nevada invadere la stanza.
Quel luogo era così luminoso e rumoroso che non credeva ne potesse esistere al mondo uno migliore per tutti loro.
La città del peccato si srotolava attorno all'Hotel come una bestia viva che respira e si muovo di continuo, un grande formicaio in cui tutti i suoi cittadini percorrevano sempre le stesse gallerie e gli stessi snodi, che vivessero lì da una vita o che vi fossero solo di passaggio.
L'animo umano in fine era così semplice, così scontato.
Si spostò dalla vetrata camminando silenziosamente sul tappeto pregiato che attutiva ogni passo, tutti quei suoni secchi che il tacco della scarpa avrebbe scandito sul pavimento di fredda pietra lucida. I suoi colleghi probabilmente a quella stessa ora dovevano aver ricevuto la stessa chiamata che aveva ricevuto lei, indipendentemente dal luogo in cui si trovavano in quel vasto mondo che era il loro parco giochi. Poteva esser stata una telefonata su un vecchio cerca persone mai dimenticato, caricato ogni settimana con paziente calma, o una lettera anonima arrivata sigillata dentro a tante altre. Qualcuno aveva ricevuto un segno, un oggetto, una foto, una firma, ma ognuna di queste “chiamate” erano sorelle e avevano il medesimo compito: richiamarli tutti all'ordine.
Ed un ordine del genere non si poteva ignorare o far finta di non averlo visto.
Arrivò davanti al gigantesco tavolo di vetro che faceva bella mostra di sé al centro della stanza, ai suoi lati erano schierate poltrone comode e dall'aria costosa come ogni cosa in quel Casinò, ma non aveva alcun interesse nel sedersi quanto nell'esaminare per l'ennesima volta quei documenti che erano arrivati direttamente dalla capitale.
I federali si erano già messi in movimento, chissà perché non lo trovava per nulla sorprendente, forse la cosa più fastidiosa di tutti era stato il tempo completamente sbagliato in cui l'informazione era giunta a tutti loro. Troppo tardi per porvi rimedio.
Ma cosa doveva aspettarsi? Quello sciocco, che si credeva tanto grande e furbo, potente ed intoccabile, aveva avuto la fortuna sfacciata e tremenda di beccare l'unico uomo che sarebbe stato in grado di ritrovare la Coppa Mortale e il suo preziosissimo contenuto. Nessuno di loro si era accorto che stavano cercando proprio quella statua e quando l'avevano capito era ormai troppo tardi.
Quantico aveva il quaderno ora e con lui tutti i segreti che il Principe nascondeva, lui e la sua corte.
Sfogliò un plico e arrivò a delle foto, lo riconosceva l'uomo nella prima, doveva aver quasi trent'anni ormai, se lo ricordava a mala pena piccolo e lagnante, ma ormai Magnus Bane era cresciuto e somigliava incredibilmente a suo padre tanto quanto a sua madre. Era lui l'unico in grado di decifrare il codice di Asmodeus, l'unico capace di trovare un minimo di chiarezza in simboli tratteggiati con finta casualità e ripetuti troppe volte su troppi nomi diversi.
Le carte dicevano che stava per entrare a far parte di una squadra investigativa come consulente esterno, che aveva stretto rapporti solidi con gli altri due membri di quella squadra, che uno di loro era quasi morto per salvargli la vita e se quel ragazzo somigliava anche solo vagamente a suo padre ciò poteva solo significare che prima o poi, a sua volta, avrebbe cercato di dare la vita per proteggere quel poliziotto.
Tolse la foto del figlio di Asmodeus e trovò quella dei suoi amici. Una donna con i capelli bianchi, un uomo alto e massiccio su cui era stato fatto un segno nero, ad indicare che era morto. C'era un ragazzo dai tratti del sud che riconobbe e assieme a lui una ragazza dai tratti asiatici di cui ignorava il nome. Ve ne erano altri, alcuni fin troppo noti e altri che aveva visto solo di sfuggita.
Poi la foto di una ragazza con una massa enorme di capelli rossi, affiancata da un biondino e da una giovane molto bella con la chioma nera ed il fisico di una modella.
In una foto tutta per lui spiccava un ragazzo comune, con i capelli ricci e gli occhiali, sapeva che lui era il tecnico informatico che sarebbe stato in squadra con Bane, uno dei suoi nuovi amici.
Superò le foto dei capi della polizia, di quella vecchia strega delle Herondale, cercando l'ultimo tassello mancante, ciò che più importava tra tutti quei volti, l'artefice della risoluzione del Caso Circle e del ritrovamento del Quaderno.
Per ultima, neanche lo avessero fatto apposta, una foto ritraeva a figura intera un giovane di circa venticinque anni. Aveva i capelli scuri e gli occhi chiari, il volto vagamente famigliare era di una bellezza sorprendente, i tratti decisi non distruggevano quell'aria da angelo vendicatore pronto al combattimento e lasciavano trasparire la risolutezza del suo sguardo e la fermezza della sua postura.
Quello era il giovane che li aveva costretti tutti a tornare in superficie, a lasciare il loro bel mondo fatto di gironi infernali e portarli a riveder le stelle.
Osservandolo con attenzione si disse che non sarebbe servito a nulla intimidirlo, minacciarlo, lui o la sua famiglia. Sarebbe stato solo peggio, lo avrebbero colto sul vivo e come una belva si sarebbe girato per morderli e sbranarli. Sarebbe morto pur di proteggere chi amava, lo aveva dimostrato con Bane e di sicuro lo avrebbe dimostrato altre mille volte. Neanche seppellirlo avrebbe fermato ciò che ormai quel ragazzo aveva messo in moto.
Qualcuno una volta le aveva detto che le anime più forti, quelle dei veri guerrieri, non periscono assieme al loro corpo, che tornano sulla terra come angeli di fuoco, incendiati del furore di Dio, pronti a vendicare i torti subiti e a finire ciò per cui erano caduti.
Fu un brivido freddo come la morte stessa a sussurrarle che Alexander Lightwood sarebbe stato proprio questo.
Lasciò i fogli e tornò indietro sui suoi stessi passi, per ammirare ancora quel paesaggio mutevole e colorato.
Il paragone che aveva appena prodotto la sua mente aveva acceso il collegamento verso un ricordo che credeva ormai perduto e che non ebbe altro potere se non quello di scaturir pensieri ancora più tetri. Sperava di sbagliarsi, che non somigliasse proprio a quella persona, altrimenti tutti loro sarebbero stati davvero spacciati.
Avevano atteso per anni nell'ombra, muovendo le fila di un mondo che li credeva scomparsi dalla sua faccia, ma in fine era arrivato il momento di tornare in campo.
Il Diario era stato ritrovato, la chiamata fatta, i giochi si erano aperti.
La prima mossa, spettava al banco.










 









 





Salve
In questo capitolo si ritrovano alcuni di personaggi lasciati nella storia precedente, così come si spiegano un po’ le dinamiche passate, come il motivo per cui Jonathan non riuscì a trovare il quaderno quando ispezionò la casa, chi chiamò il Dipartimento per dire che c’era un poliziotto che voleva sparire e cosa sia successo all’uomo che cercò di uccidere Magnus.
Sono stati presentati altri personaggi che faranno da cornice a questa storia. Manchester (pronunciato con l’accetto sulla prima ‘e’, Manchéster) appare per la prima volta, seppur di sfuggita, nella OS “Tendere una mano”, , piccola fic per nulla impegnativa e non necessaria per la comprensione della storia o del personaggio.

TCotD.

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Capitolo 3
*** Capitolo III - La spola ***


Capitolo III
La spola.


 


 


 

L'incontro era finito ma nessuno osava parlarne al dipartimento.
Non volava una mosca, non erano girate ipotesi su come fosse andata, non c'erano agenti e matricole che facevano scommesse sul sé e quanto Bane sarebbe durato tra i “buoni”.
Il corridoio che dava sulla sala Conferenze della Omicidi era vuoto e silenzioso, specie se paragonato al vociare che lo aveva animato nei giorni precedenti. Ora quel vuoto sembrava quasi surreale, come lo era la legge non scritta e neanche detta secondo cui non bisognava parlare di quella giornata e di tutto ciò che aveva comportato.


 

Malcom Fade si domandava davvero cosa diamine fosse successo in quella sala ma, forse, il semplice fatto che Magnus continuasse a dire che era andato tutto benissimo era una risposta di per sé.
<< Se fosse andato tutto benissimo come dici tu, non penso che quel povero ragazzo ti avrebbe tolto il saluto. >> gli fece notare con garbo, seduto sulla sedia di vimini del locale immerso nel buio delle finestre oscurate. Non che il tempo fuori aiutasse, quel giovedì il cielo era plumbeo e se solo fosse stato un po' più chiaro avrebbe minacciato neve tanto erano compatte le nubi.
Il Pandemonium comunque era mosso da quei placidi e lenti preparativi che lo vedevano attivo ogni giorno, nello svolgere le classiche mansioni come l'ordinare i liquori e le forniture finite, pulire bene i tavoli e lucidare i divani di pelle. C'era un ragazzo arrampicato su una scala piena di glitter -Dio non volesse che Malcom scoprisse il perché, visto che neanche Malcom stesso voleva saperlo- che stava cambiando un faretto, il vetro di copertura blu stretto tra le ginocchia tremanti. Sperava di non dover chiamare l'ambulanza per un infortunio sul lavoro, non avrebbe sopportato quelle dannate beghe anche quando era, tecnicamente in vacanza.
Se ne era prese un bel po' dopo quello che era successo nel corso dello sfortunato e tetro anno passato, decisamente non sarebbe stata proprio la sua annata quella… ma l'importante era che ora fosse lontano da LA e che si potesse godere un po' di sano riposo.
Riposo che ovviamente non avrebbe mai potuto aver davvero, non con i suoi piccoli “demonietti in erba” che gli ronzavano attorno e continuavano a combinare i loro guai come avevano sempre fatto.
<< Alexander l'ha solo presa troppo seriamente. Davvero Mal, ti giuro che sta esagerando. >>
Magnus si muoveva completamente a proprio agio nel suo locale, tenendo in mano due bottiglie di liquore verde, dall'aria opaca e anche vagamente tossica, non avrebbe fatto una piega se avesse scorso un teschio e due ossi incrociati sull'etichetta di quello che presumeva esser Assenzio.
<< Davvero? >> ripeté lui per nulla colpito, prendendo la sua acqua tonica e buttandone già un sorso con calma e classe. Aveva imparato da tempo a non affogare tutti i suoi problemi nell'alcol, soprattutto a non farlo per scappare dalle cazzate che sparava la gente. Se si rimaneva lucidi si potevano scoprire tante di quelle cose, tutti quei piccoli segreti che le persone si lasciavano scappare durante i momenti d'ebrezza. Anche se in quel momento avrebbe davvero gradito aver una vodka invece di una semplice acqua tonica, magari bere sino a perdere i sensi l'avrebbe aiutato a dimenticare la grandissima puttanata che il suo amico aveva fatto e che per altro ancora non si era deciso a raccontargli.
<< Davvero davvero, parola di scout! >> L'uomo si girò portandosi una mano, e la relativa bottiglia, al cuore.
<< Non sei mai stato uno scout, Mags. Ti ci volevano iscrivere ma ti sei rifiutato.>> Gli fece notare con tranquillità, come se stesse parlando con un pazzo o con un bambino.
<< Ero il figlio del Boss del quartiere, non potevo mica andare a fare lo scout con quelli affiliati alla chiesa!>> rispose lui indignato da quell'accusa.
<< Raphael era tra quegli “affiliati alla chiesa”, vorrei ricordarti, e mi pare sia venuto su- beh, non è male come pensavi.>> si riprese in calcio d'angolo e sorseggiò ancora la bevanda. << Quindi che hai combinato sta volta?>> chiese a bruciapelo per impedire a Magnus di attaccare il suo tentennamento sulla sanità di Raphael.
<< Non ho combinato niente! >> insistette lui e Malcom lo guardò sempre più convinto dei suoi sospetti.
<< Te lo giuro, dai!>> l'uomo sbuffò e lo raggiunse, lasciandosi cadere su un'altra poltrona e stappando una delle bottiglie che teneva in mano. << Mi sono contenuto, ho risposto alle domande e ho cercato di non farlo alle provocazioni. Mi sono anche vestito in modo piatto e banale come piace tanto ai poliziotti, malgrado quella stronza di una vecchiaccia mi abbi detto che ero “presentabile”. Quella pu- >>
<< Magnus.>> lo fermò immediatamente l'altro, sporgendosi verso di lui per togliergli la bottiglia dalle mani prima che vi si attaccasse. Lo guardò con sguardo di rimprovero, quella classica occhiata paterna che Magnus aveva imparato a riconoscere e associare a Malcom Fade, e poi sospirò.
<< Quel povero ragazzo voleva trovare un angolo abbastanza appuntito per potercisi rompere la testa e morire di sicuro. Ha detto proprio così. “un angolo abbastanza appuntito su cui sono sicuro che se ci sbattessi la testa nessuno potrebbe salvarmi.”. Io direi che l'hai combinata davvero grossa. >>
Magnus provò ad aprir bocca e protestare, sia contro la confisca dell'Assenzio quanto contro le sue parole, ma l'uomo alzò una mano e lo fermò subito.
<< Per di più, Cristiano non starebbe dando di matto, non avrebbe urlato che la prossima volta, succeda quel che succeda, ti lascerà a marcire in cella e non avrebbe detto che se il Dipartimento ti farà causa si proporrà come avvocato dell'accusa. Oh! E non avrebbe detto a Lightwood che lo difenderebbe, creando anche prove false, se dovesse decidere di ucciderti. Senza contare che gli ha chiesto se conosce un buon terapista perché lavorare con te lo fa diventare necessario.>>
<< Trova che sia una cosa necessaria lavorare con me?>> domandò sbattendo teatralmente le ciglia ma con il solito sogghigno da schiaffi.
<< Ha detto che se la gente passa del tempo con te deve andare in terapia e che capisce perché suo fratello è così toccato. Adesso a quanto pare sa chi deve ritenere responsabile dei problemi mentali e comportamentali di Raphael.>>
<< Raph è sempre stato mentalmente instabile.>>
<< A quanto dicono i fratelli Santiago lo è diventato dopo gli otto anni.>>
<< Non è vero, lo è sempre stato.>>
<< Da quanto lo conosci?>>
<< Da quando aveva otto anni!>>
Malcom scosse la testa sconfitto ma si tirò velocemente indietro quando Magnus cercò di recuperare la bottiglia aperta.
<< Vuoi dirmi che cosa hai combinato?>> gli chiese per l'ennesima volta.
Magnus lo guardò per un po', indeciso su cosa dire, poi si strinse nelle spalle.
<< Te l'ho detto, è andato tutto bene, o almeno all'inizio. Sì, insomma, credo di essermi perso giusto un po' alla fine. Anche se ciò non giustifica assolutamente quello che ha fatto Alexander… >>


 


 

Luke si piegò in due ancora una volta, in lacrime e con le guance doloranti per le troppe risa. Respirava a fatica e a singhiozzi, passandosi le mani sugli occhi per togliersi quel fastidioso strato appannato dalla vista, alzava lo sguardo su Andrew e poi scoppiava a ridere ancora più forte.
<< Avrei voluto vedere te al posto mio. >> fece seccato Blackthorn guardano male l'altro, un'espressione fredda e infastidita dalla tanta leggerezza con cui Garroway stava prendendo la situazione.
Erano nel suo ufficio, lui seduto alla poltrona dietro la scrivania, ingombra di carte e di fascicoli accumulati nel porta documenti deformato per il troppo peso. Afferrò la bottiglia dell'acqua che aveva in precario equilibrio sul bordo del tavolo e ne prese una lunga sorsata, più per occuparsi le mani e non cedere alla voglia di picchiare Lucian che per effettiva sete.
L'altro non accennava a voler smettere di ridere, seduto malamente su una delle poltroncine davanti a lui, si piegava in avanti e poi si ributtava indietro di peso, scivolando sulla seduta in preda alle risate più forti e rumorose. Se qualcuno fosse passato davanti al suo ufficio in quel momento magari avrebbe anche potuto pensare che il suo capo era un comico. O che avevano fatto esplodere una lattina di gas esilarante nella stanza.
Andrew Blackthorn non brillava certo per simpatia e spigliatezza, era sempre stato un uomo buono ma tendenzialmente serio e riservato, di quelli tranquilli che sorridono alle battute, che magari ne fanno anche ma di fini e che pochi comprendono. Non certo come Luke che aveva sempre la risposta pronta e il sorriso stampato in faccia, che era amico di tutti e rideva senza farsi troppi problemi. Forse era per quello che il Capo dell'OCCB andava tanto d'accordo con i mezzani dei Lightwood e lui invece si ritrovava più a suo agio a discutere con il primogenito.
Decisamente Alexander era molto più simile a lui di quanto non lo fossero molti altri agenti del Dipartimento, certo più di suo fratello; per questo non si sentiva minimamente in vena di ridere, comprendendo alla perfezione come doveva essersi sentito il giovane Lightwood, pressappoco come si doveva esser sentito lui.
Gettò un'occhiata a Luke che non la smetteva ancora di ridere e non resistette più: chiuse bene la bottiglietta per evitare che l'acqua gli macchiasse i documenti e poi la tirò dritto in testa al collega che saltò su come una molla, preso completamente alla sprovvista.
<< Hai finito?>> chiese seccato mentre l'altro si chinava a riprendere l'oggetto, ridacchiando ancora a singhiozzo.
<< Sì, sì, la smetto. Non c'era bisogno di passare ai modi forti. >> sbuffò ilare poggiando la bottiglia sul piano.
<< Se avessi usato i modi “forti” te ne saresti accorto. >> sostenne quello, poi ci ripensò. << O forse no, saresti già svenuto a terra.>>
Lucian gli sorrise divertito. << Ricordati che tu sei un timbracarte e che io sto ancora in campo.>> gli ammiccò.
<< Ricordati che dirigo la sezione Omicidi e che posso ammazzarti e far sparire il tuo cadavere senza che nessuno lo scopra.>> gli rispose sempre più infastidito.
Era da quanto erano giovani che Luke faceva pesare la sua presenza massiccia e muscolosa in ogni loro discussione. Era una cosa inconscia, si metteva in mostra, minacciava visivamente l'avversario di non sfidarlo perché lui era più forte e poteva metterti al tappeto. Ma ormai gli anni del liceo, della scuola, erano finiti e dell'Andrew lungo e slanciato, di quella figura magra e filiforme, il palo della luce che pareva potesse esser portato via da un soffio di vento, non era rimasto più nulla. L'uomo lancio uno sguardo serio al collega che recepì il messaggio forte e chiaro e si rimise seduto composto, sospirando quasi infastidito dal poco senso dell'umorismo dell'altro.
<< Va bene, come ti pare. Ma non puoi negare che la cosa sia divertente.>> gli disse comunque alzando le mani.
Blackthorn fece un smorfia. << Trovi divertente il fatto che abbiano dovuto chiudergli la bocca a suon di calci?>> chiese con un sopracciglio alzato.
Lucian sghignazzò. << Gli ha rifilato un calcio sotto il tavolo?>>
<< Non solo uno.>> puntualizzò lui lasciandosi cadere con la schiena contro la poltrona e sospirando pesantemente. << Io ne ho contati sei ma non dubito che Lightwood sia riuscito a dargliene anche di più.>>
<< Quella dannata lingua biforcuta che si ritrova… è sempre stato così sai? Anche da ragazzino rispondeva sempre per le rime e faceva incazzare tutti gli agenti che gli capitavano sotto mano. La sua prima denuncia l'ha avuta per insulto a pubblico ufficiale.>> ricordò quasi con nostalgia passandosi una mano sul mento su cui si potevano veder i primi segni della ricrescita della barba.
<< Sinceramente non me ne potrebbe importar di meno, ciò che davvero mi interessa è che è riuscito comunque a far saltar i nervi alla commissione.>>
<< A tutti quanti?>>
Andrew scosse la testa. << No, per fortuna nostra c'erano due donne e loro le ha conquistate a suon di sorrisi e apprezzamenti per il loro vestiario. È stato molto galante con loro...se solo fosse stato un minimo educato anche con gli altri tre uomini… >>
<< Dovresti aver imparato com'è, no? È un gallo chiuso nel pollaio con altri galli, deve far valere la sua presenza e dimostrare che può tenere testa anche a dei poliziotti.>> gli disse con serietà. Poi sorrise ammiccando. << Anche se ciò comporta farsi prendere a calci da quello che sarà il suo superiore.>>
<< Potrebbe.>>
<< Cosa?>>
<< Non “sarà”, ma “potrebbe” essere il suo superiore.>> precisò lui ancora più infastidito.
<< Vuoi farmi credere che è andata così male?>>
Andrew lo guardò fisso per alcuni secondi, senza distogliere lo sguardo:
<< Se un Tenente prende a calci sotto il tavolo un possibile consulente, come se fossero alle elementari, se deve alzarsi e rimetterlo seduto a forza perché sta urlando in faccia ad un commissario, se deve spingere a sedere a forza la Signora e se poi prende apertamente davanti a tutti a scappellotti l'esaminato, secondo te è andata così male?>>
Lucian sgranò gli occhi incredulo. << Gli ha rifilato uno scappellotto davanti a tutti? >> domandò senza crederci davvero.
L'alto annuì. << E ha anche rimesso a posto il commissario. >>
<< Come?>>
<< Sì, quell'altro inetto, pensava di poter dire quello che gli pareva solo perché Bane vuole entrare nel programma, la conosci la tipologia di persona, sono quelli che se sanno a chi sei collegato e quel qualcuno non gli piace ti gettano contro immondizia senza un reale motivo.>> Blackthorn si strinse nelle spalle e congiunse le mani. << Lo ha fatto davanti alla persona sbagliata. Alexander ha rifilato un coppino a Bane e ha intimato al commissario di fare il suo lavoro o avrebbe potuto trovare decine di validi motivi per sbatterlo fuori dal Dipartimento prima ancora che potesse dire “ma”.>>

Luke non ci poteva credere, aveva sentito bene?
<< Alexander Lightwood ha minacciato un membro della commissione di valutazione? Sei serio?>>
<< Non lo ha proprio minacciato apertamente, i miei uomini non sono impulsivi e rudi come i tuoi.>> frecciò godendo del fatto che l'altro non potesse ribattere. << Sono molti più fini e furbi. Se vuoi le parole precise gli ha detto di fare il suo lavoro, che a tenere al proprio posto il suoi uomini ci pensava lui e che doveva tenere a mente che la maleducazione era solo uno dei tanti comportamenti non tollerati nel dipartimento,che poteva elencargliene degli altri che avrebbe potuto correggere e che se la cosa lo metteva troppo sotto pressione potevano fare una pausa e lui stesso lo avrebbe accompagnato a fare due passi e riprendersi.>>
<< E la Herondale?>>
<< Gli ha detto pressoché la stessa cosa, che non era professionale andare sul personale e che se credeva di essere troppo emotivamente coinvolto per quel ruolo la porta era quella da cui era entrato.>>
<< Cazzo… e io me lo sono perso… però hai detto che Alec ha dovuto calmare anche lei.>> gli ricordò avido di notizie.
Andrew annuì per l'ennesima volta. << Sì, a fine colloquio si sono messi a sparasi battute botte e risposta finché Bane non se n'è uscito con una delle sue e la Signora per poco non lo appende al muro. Alexander si è dovuto alzare dal tavolo, metterle le mani sulle spalle e dirle di sedersi e firmare il verbale perché era ora di andarsene. >> Concluse stanco anche solo da quel riepilogo.
E non aveva neanche riportato tutte le dannate sparlate di Bane. Alle volte si domandava come potesse far Lightwood a sopportarlo, a rimetterlo al suo posto. Ma tanto meglio che fosse capitato proprio a lui o avrebbe dovuto spiegare alla stampa perché uno dei suoi uomini aveva ucciso il suo consulente.
<< E tu in tutto ciò cosa facevi?>> chiese palesemente divertito l'altro.
<< Mi mordevo la lingua e cercavo di non alzarmi per picchiare quei due coglioni in sala.>> rispose con asprezza rivolta tanto verso Bane, che dopo tutto quello che aveva passato al loro fianco aveva comunque deciso di dar spettacolo; tanto quanto verso quel deficiente che si credeva grande solo perché aveva davanti un criminale disarmato. Avrebbe quasi desiderato che Bane gli facesse trovare un comitato di benvenuto sotto casa, magari poteva dargli il suo indirizzo, così, per caso.
La risata di Lucian rimbombò ancora nell'ufficio e Andrew lo guardò malissimo.
<< Ti diverti così tanto...perché la prossima volta non ci vai tu a parlare con la commissione? Anzi, perché non ti metti in mezzo in una discussione tra Bane e la Herondale? >>
<< Perché ci tengo alla vita nel secondo caso e alla sanità mentalmente nel primo. Oh! Alexander come n'è uscito da tutto questo?>>
L'uomo chiuse gli occhi e rilassò le spalle, espirando fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni.
<< Per fortuna non ha già finito le sedute dal dottore… >>

 

 

 

 

 

Fece saettare lo sguardo dalla strada al guidatore di quella vecchia macchina che malgrado gli anni non cedeva di un colpo.
Ancora lo ricordava, era stata comprata che lui aveva nove anni, quasi dieci ad esser precisi, con gli stipendi che Alec aveva guadagnato durante l'estate. Era andato personalmente a scegliersi la macchina tra una serie infinita di vecchi rottami a cui nessuno avrebbe dato un soldo, neanche il venditore stesso, e aveva passato tutto il periodo dell'accademia ad aggiustarla.
Era andato agli addestramenti in bici o con i mezzi, senza mai chiedere nulla ai loro genitori per poter aggiustare prima la macchina ed avere quella comodità che Jace e Izzy invece sfoggiavano neanche fosse scontata.
Ricordava anche di come Alec borbottasse spesso che avrebbe volentieri ficcato un peso in bocca a Morgenstern tutte le volte che si parlava di motori perché questo gli chiedeva come stesse procedendo quel “caso perso” di rottame che si ritrovava.
Era sempre stato molto sensibile agli insulti verso ciò che amava, Alec, non gli importava se insultavi lui, ma non bisognava toccargli le cose a cui voleva bene, che fossero oggetti o persone.
Max questo lo sapeva bene come il resto della sua famiglia ed infatti i suoi fratelli ci avevano giocato su non poco.
Quanto erano a scuola erano andati tante di quelle volte a dire ad Alec che qualcuno li aveva insultati solo per poter vedere, il giorno dopo, il ragazzino fermo a braccia incrociate fuori dall'atrio, pronto ad incenerire con lo sguardo e con la sua altissima figura chiunque fosse stato il malcapitato di turno.
Doveva ammetterlo, un paio di volte lo aveva fatto anche lui, ma come resistere? Insomma, Simon aveva ragione quando diceva che Alec da piccolo sembrava uno Slanderman, metteva paura con quella pelle bianca come un fantasma e la frangia lunga e scura a coprirgli gli occhi neri di occhiaie e poco sonno.
Ma in quel momento, doveva ammettere ancora, suo fratello faceva ancora più paura.
Sembrava quasi che il suo corpo e la sua espressione facciale fossero scollegate: se stringeva il volante con tranquillità e guidava rispettando tutta la segnaletica, comportandosi da vero autista modello, non si poteva comprendere neanche lontanamente come e perché avesse quella faccia funerea.
Il suo volto era contratto in un espressione di pura rabbia, di risentimento quasi, delusione forse. Stava facendo quella cosa che faceva sempre lui con il labbro quando era arrabbiato o soffriva per qualche brutta ferita, lo contraeva in modo così impercettibile che se non si fosse saputo dove guardare non lo si sarebbe notato.
Max però conosceva fin troppo bene suo fratello e poteva dire con certezza che fosse incazzato nero.
Gli aveva chiesto se lo voleva accompagnare alla sede della sua Università per poter finalmente compilare gli ultimi documenti che gli avrebbero permesso di visitare i laboratori governativi in Virginia ma forse aveva scelto il giorno sbagliato.
<< Dicono che cercano nuove leve. >> cominciò cercando di rompere il ghiaccio, << Pensi che abbia qualche possibilità? >> domandò sorridendo.
Alec espirò fortemente e poi prese un respiro profondo.
Stava facendo come gli aveva insegnato il dottore per calmarsi, brutto, bruttissimo segno.
<< Mi spiace Max, ma non credo che per il momento tu abbia abbastanza possibilità di essere preso. Non sei neanche a metà del primo anno, aspetta di dare i primi esami per poter cercare un lavoro. >> gli disse controllando la voce e concedendogli addirittura un sorriso.
Le labbra gli si distesero per un attimo, mentre l'angolo sinistro precipitava verso il basso ed il destro s'alzava nel classico sorriso storto tanto tipico del giovane.
Max vide i lineamenti del fratello rilassarsi e rimanere in quello stato per poco, probabilmente il tempo necessario perché il suo cervello gli riproponesse gli eventi del giorno prima.
Fece una smorfia anche lui. << Diamine, è andato così male?>> chiese senza enfasi.
Alec contrasse di nuovo il labbro inferiore e poi fece un cenno secco con la testa.
<< Sarebbe potuta andare peggio.>> disse solo.

<< Davvero?>>
Annuì.
<< Cavolo… come?>>
<< Sarei potuto esser armato.>> sentenziò solo, sterzando abilmente per superare una macchina che si stava accostando al marciapiede senza metter la freccia.
Sibilò un ringhio verso l'autista del taxi e lo guardò male dal finestrino.
Da come l'auto gialla inchiodò di colpo Max dedusse che almeno uno scorcio del volto furente del fratello il taxista doveva averlo visto.
Si ritrovò a sogghignare divertito e si strinse nelle spalle quando l'altro lo guardò con fare interrogativo.
<< Tu non farle queste cose.>> gli disse serio.
<< Cosa? Imbruttire la gente in macchina o non mettere la freccia?>> chiese con un sorrisetto provocatorio troppo simile a quello di Jace.
<< La freccia ovviamente.>>
Max rise e si sistemò meglio sul sedile del passeggero, carezzando la tappezzeria consunta degli interni.
<< Dici che questo è l'anno buono per farti cambiare macchina? Magari prenderne una più recente?>> fece cambiando completamente discorso.
Alec scosse la testa senza distogliere lo sguardo dalla strada. << Non vedo perché dovrei.>>
<< Magari perché ce l'ha da nove anni e il suo precedente proprietario ce l'aveva da dieci prima di darla a te? >>
<< Max, è una macchina d'epoca.>> sottolineò l'ovvio Alec, lanciandogli uno sguardo confuso, come se non capisse perché gli stesse dicendo quelle cose.
<< Ne sono uscite di più fighe e con lo stipendio che prenderai adesso potresti anche metterti qualcosa da parte e comprarti una Mustang nuova.>>
Alec si mosse quasi a disagio sul sedile della sua di vecchia Mustang.
Quella macchina l'aveva sempre desiderata da che ne aveva memoria. Era stata la prima auto che aveva visto per cui gli era nato in petto il desiderio di portarla, di guidare lontano da tutto e tutti. Era davvero il suo connubio ideale di prestazioni e di storia, correva come una freccia se si premeva l'acceleratore, era bella da far paura e comoda all'inverosimile. Probabilmente se fosse stata di Jace o di Izzy sarebbe stata di un rosso fiammante o di un oro accecante, una faro che pretendeva che tutti gli occhi fossero puntati su di lei, ma Alec apprezzava molto quel blu cupo, quasi nero, con cui l'aveva fatta riverniciare. Ci aveva speso tre stipendi interi da agente semplice per potersi permettere la riverniciatura che diceva lui, nulla di appariscente e dozzinale, una cosa fine, a gusto suo, che qualche anno dopo avrebbe rivisto nella moda della vernice color carbonio.
E sì, forse i sedili e la tappezzeria erano da rifare, ma non aveva toccato la sua macchina per davvero troppi mesi, gli era stato riconcesso di guidare solo da poche settimane e non è che prima avesse avuto così tanto tempo libero da dedicare alla cura e la rifinitura della sua vecchia macchina.
Una vecchi macchina che per altro aveva bellamente infranto tutti i divieti di New York City in quella notte di Agosto dell'anno passato, sfrecciando dal confine tra Queens e Bronks a Green Point ad una velocità folle e con una tenuta davvero notevole.
Forse poteva cambiargli le ruote, le aveva davvero consumate quella sera…
<< Che sia vintage o meno di solito le mettono in esposizione nei garage, la gente non ci va in giro rischiando di rovinarla.>> gli fece notare il fratellino, contento che parlare della macchina gli avesse fatto passar quel brutto grugno dalla faccia.
<< Che senso ha avere una macchina d'epoca e tenerla chiusa in casa? Capisco se non funziona o se si è dei collezionisti, ma la mia va più che bene e non mi ha mai mollato.>> disse con sincerità e anche un pizzico di fastidio all'idea di chiudere la sua prima ed attualmente unica macchina in un garage e di dimenticarsela. Poi si accigliò.
<< Aspetta, sono davvero già nove anni? >>
<< E già bro. >>
<< Non ho mai avuto un'altra macchina… >> fece con tono vago, lo sguardo perso nella luce di posizione dell'auto davanti a loro.
<< L'importante è che ora ne sei consapevole. Pensa a Jace che ha cambiato tre macchine o Izzy che ne ha cambiate sette.>> disse con leggerezza battendogli una mano sulla spalla.
Alec lo fulminò in un secondo prima di riportare l'attenzione davanti a sé. << Izzy ne ha rotte sette, non cambiate. >> serrò un attimo la mascella quando cambiò marcia e a Max non sfuggì.
<< Oh, ti fa male il braccio?>> chiese subito preoccupato.
Alec scosse la testa, << No, ho solo fatto un movimento fatto male, dovevo tirare di polso e invece ho tirato di bicipite.>> spiegò tornando con entrambe le mani sul volante.
<< Non ho la più pallida idea di cosa significhi ma al ritorno guido io.>> disse sicuro delle sue parole, prima che un verso sprezzante lo facesse girare completamente verso il fratello.
<< No che non guidi la mia macchina.>> sentenziò. << Non hai detto che è “vecchia”? Voi giovani siete abituati con il cambio manuale, non ti faccio bruciare frizione e cambio solo perché ho fatto un movimento sbagliato. Sto bene Max, dai, non è la prima volta che mi sparano e neanche la prima in cui devo affrontare una riabilitazione.>>
Lo disse con tranquillità, rimandando ad un periodo della loro vita che Max avrebbe volentieri dimenticato e mai più riportato a galla. Ma non poteva, lo sapeva perfettamente, glielo ricordava la bandiera americana e la foto di suo fratello quando ritornava a casa e lo vedeva lì, immortalato nel tempo con la sua bella divisa militare.
Era già successo, era vero. Gli avevano già sparato, lo avevano già ferito gravemente, ma allora Max non era con lui, nessuno della sua famiglia era con lui. Quella volta loro erano a casa ad attendere notizie, a domandarsi perché non arrivassero altre cartoline, quanto caos doveva esserci se Alec non riusciva neanche a collegarsi un attimo su skipe. Era il tempo in cui sapevano che i soldati non potevano comunicare troppo con casa e che si dovevano accontentare delle sporadiche volte in cui la connessione era abbastanza forte o si trovavano vicino ad un ufficio postale. Quando loro a casa si preoccupavano dei problemi quotidiani ed Alec se ne stava sulla brada di un ospedale da capo a riprender le forze.
Quella volta loro non si erano vissuti la degenza e l'inizio della riabilitazione, quando era tutto più difficile e anche fare un passo era faticoso.
Max per un attimo si domandò cosa dovesse aver passato suo fratello, un quesito che compariva nella sua mente e poi scompariva sporadicamente, magari quando si tirava in ballo l'argomento o quando ce ne era uno collegato. Si domandava se gli avesse detto tutto, se avesse raccontato quello che gli era davvero successo o se avesse indorato la pillola per non farli soffrire troppo. Sarebbe stato perfettamente da Alec e Max non avrebbe fatto fatica a credere che in verità suo fratello nascondeva ancora altri scheletri, del tutto diversi da quelli adolescenziali, nel suo armadio.
Si riscosse dai propri pensieri e lo guardò apertamente, soppesando i suoi movimenti e le sue espressioni, tenendo d'occhio il labbro e quella sua contrazione involontaria.
<< Hai ragione, scusa.>> mormorò poi.
Alec staccò una mano dal volante per poggiargliela sulla gamba e stringere appena in un segno di conforto.
<< Non scusarti, tranquillo.>> gli sorrise storto. << E poi lo sai che sono geloso della mia macchina. Non puoi insultarmela e darle della vecchia e poi dirmi che vuoi guidarla tu.>>
Max accettò volentieri quella scappatoia dai suoi pensieri scuri che gli stava offrendo e gli sorrise di rimando.
<< Hai parlato con il tuo psichiatra di questo attaccamento morboso alla tua auto?>>
Lo vide alzare gli occhi al cielo e automaticamente si ritrovò a sorridere di più.
<< No, non ho bisogno di parlare con il Dottor Lawson di queste cose. Primo, perché non ho un attaccamento morboso alla mia auto. Secondo, perché anche a lui piacciono le macchine d'epoca e finiremo a parlare di quelle per tutta la seduta, che per altro costa un occhio della testa e vorrei proprio evitare di far sapere a mamma che i suoi soldi vengono spesi per discutere di motori e carrozzerie.>> disse Alec lanciandogli uno sguardo d'intesa, fintamente esasperato.
Max sogghignò apertamente. << È uno strizzacervelli, troverebbe il modo di psicanalizzarti in base ai tuoi gusti automobilistici. E poi, guarda il lato positivo: se dicessi a mamma una cosa del genere non c'impiegherebbe un secondo a crederti. Se glielo dicesse Jace penserebbe che è tutta una grande metafora per parlare di donne e lo picchierebbe con la prima cosa che le capiterebbe sotto mano.>>
Alec sorrise ma aspettò di fermarsi al semaforo per voltarsi verso di lui e guardarlo con quegli occhi blu così luminosi da far prendere una boccata d'aria fresca al più piccolo: quando Alec aveva quello sguardo era completamente rilassato e a proprio agio, felice o emozionato per qualcosa.
Ed era sempre una gioia ed un motivo d'orgoglio immenso sapere che bastavano lui e i suoi fratelli per far accendere quella scintilla negli occhi di Alexander.
<< L'importante è che non lo dica davanti a Luke, lui penserebbe sicuramente male e lo direbbe a Clary, saltando le metafore e andando dritto al punto.>>
<< “Tesoro, il tuo uomo parla di donne con il suo psicanalista!”>> scimmiottò Max la voce di Lucian.
Alec sorrise. << Però Jace potrebbe sempre rinfacciargli che Clary parla di uomini con Izzy. Credo che sia meglio parlare di queste cose con un dottore, perché si vede il lato clinico della faccenda, piuttosto che spettegolare con le proprie amiche.>> ammiccò verso di lui e ingranò la prima.
<< A proposito di amiche! Izzy, vuole fare una festa a Clary per il contratto con la Lingood Enterprice. Tu ci sei vero?>> gli chiese quasi più per formalità che per altro.
<< Se non lavoro, sì. >>
<< No che non lavori, Alec! È per domani sera, oggi preparava i particolari con Magnus, la fanno al Pandemonium.>> sparò la frase quasi scocciato e poi si rese conto di aver nominato la sola persona che non doveva nominare.
Alec serrò le labbra e drizzò la schiena. << Solo per un paio d'ore allora.>> disse infatti burbero.
L'altro alzò gli occhi al cielo. << Oh, andiamo! Non può essersi comportato così male!>>
<< I bambini si comportano male, Max, gli adulti fanno i coglioni. >>
Probabilmente il semplice fatto che avesse detto una parolaccia davanti a lui, malgrado gli ripetesse da una vita che ne sentiva ovunque e non ne sarebbe rimasto scandalizzato, avrebbe dovuto fargli capire quanto era stata terribile quella situazione.
<< Cosa ha combinato?>>
<< Te l'ho detto, ha fatto il coglione. Come suo solito.>> non lo guardò in faccia, non gli lanciò neanche uno sguardo di sottecchi, la sua mascella si contrasse ancora di più.
<< Okay, okay, ma almeno è passato?>>
Il verso di puro scherno che si lasciò sfuggire Alec gli fece accapponare la pelle.
Ironia cinica, questo era il segnale per l'ironia cinica del maggiore dei Lightwood, un terribile connubio tra il sarcasmo freddo di Maryse e la cattiveria impietosa di Robert.
<< Oh, ma certo che lo prenderanno, gli serve per poter decifrare quel dannato quaderno. Avrebbe potuto ballare nudo sul tavolo e i federali avrebbero comunque fatto carte false per poterlo far assumere. È meglio averlo come dipendente, altrimenti non potrebbero mai obbligarlo a far ciò che vogliono.>> strinse la presa contro il volante facendosi sbiancare le nocche e Max non osò replicare. << E ovviamente lui lo sapeva, per questo si è permesso di dire tutte quelle cose. Per questo ha avuto la faccia tosta di rispondere male, solo che non ha avuto il coraggio di dirmelo… e vogliamo parlare di quell'altro coglione di un commissario? Un omuncolo che non ha mai avuto potere se non di riflesso dei suoi superiori, che per una volta che si è trovato in posizione di vantaggio ha attaccato senza pensare alle conseguenze. Se avesse provato a dire anche solo un'altra parola lo avrei sbattuto fuori di lì a calci in culo.>>
Il ragazzo annuì a quel piccolo sfogo, conscio di ciò che Alec non stava dicendo apertamente ma tra le righe: il commissario aveva insultato Magnus, Alec già non poteva tollerare una cosa del genere di norma e sicuramente aveva preso le sue difese nel modo più diplomatico possibile. Ma di sicuro Bane non se n'era stato zitto e aveva mandato al diavolo tutti gli sforzi di Alec di calmare la situazione. Chissà quante gliene aveva dette quel tipo a Magnus e chissà quanto si fosse dovuto trattenere Alec dal prenderlo a pugni.
Ancora una volta Max si vide confermare ciò che già sapeva: Mai insultare qualcuno o qualcosa di caro ad Alec davanti a lui.
Ciò però portava indirettamente ad un'altra cosa: voleva forse dire che Magnus era entrato a pieno regime tra la schiera degli “Intoccabili” di suo fratello?
Da quello che gli aveva sempre raccontato Simon, di Izzy e Jace non ci si poteva fidare perché gonfiavano sempre tutto o lo sminuivano a seconda di cosa gli piacesse di più, Alec aveva preso sotto la sua ala l'uomo già da tanto tempo, da quando era andato a cercare il suo aiuto per quella fantomatica registrazione a quando aveva portato Simon stesso da lui. Ovviamente i loro rapporti si erano stretti e ciò era stato più che evidente quando gli avevano sparato la prima volta, figurarsi poi la seconda… eppure gli faceva ancora un po' strano.
Cosa c'era che gli sfuggiva? Che incognita mancava all'equazione?

La macchina rallentò dolcemente sino a fermarsi e Max non si rese neanche conto di esser arrivato a destinazione.
Guardò suo fratello spegnere l'auto e prendere dei respiri profondi, forse per togliersi di dosso l'amaro che gli era venuto nel ricordare quella situazione a dir poco disastrosa.
Rimase con gli occhi puntati sul volante, senza batter ciglio, un fatto che tutti in famiglia reputavano abbastanza inquietante, specie quando rimaneva ad occhi spalancati per ore intere. Poi si voltò verso di lui.
<< Forza, siamo arrivati.>>

 

 

 

 

 

 

Il mare si coprì lentamente di puntini colorati, navi come insetti sulla superficie piatta dell'oceano Atlantico che scemavano ordinatamente verso la vastità di questo o verso l'entroterra.
I cargo erano lunghe linee frammentarie, dove i container disegnavano reticoli perfettamente incastrati tra di loro, un precorso fatto di oggetti celati nelle gigantesche scatole di metallo.
Dall'oblò dai bordi arrotondati non si poteva veder con precisione la massa compatta delle navi, ma anche ad alta quota si distinguevano abbastanza bene i suoi contorni.
Le nubi leggere sfioravano appena il corpo affusolato del piccolo jet, tagliate dalle ali lunghe ed eleganti di quel pezzo di ingegneria di lusso. Le rifiniture dorate risplendevano contro il sole pallido di metà Febbraio, scintillando come il dorso di uno scarabeo multicolore ma di una bellezza diversa da quella delle piccole ali frullanti dell'insetto.
Il metallo candido e lucente aiutava solo quelle luccicanti linee d'oro a risaltare di più, mentre il jet si piegava con dolcezza nella brezza fredda delle alte quote e puntava il muso stondato verso il suolo, diretto al Queens.
Sorvolò la baia e i porti, le infinite distese di cemento che ospitavano gli scarichi e i magazzini, i depositi dei container e delle merci che giungevano da ogni parte del mondo, un tratto di terra sepolta sotto uno strato grigio e macchiato dalla salsedine e dalla ruggine che parve incredibilmente breve quando il jet vi passò sopra, nulla a che vedere con le interminabili camminate su quei porti che parevano seguire la curvatura della terra e continuare per sempre.
L'interfono produsse un leggero segnale acustico e la voce del pilota risuonò chiara e appena contraffatta dal microfono, informando i passeggeri che si stavano preparando per la discesa che sarebbe avvenuta non appena la torre di comando avrebbe dato loro il via libera.
La donna a mala pena sentì la notizia, troppo impegnata a scrutare quel panorama così famigliare che si avvicinava minuto dopo minuto. Seduta sul divanetto, le gambe elegantemente piegate sulla pelle morbida del sofà, in una posizione confidenziale e spontanea ma non per questo meno signorile. Teneva le braccia incrociate sulla spalliera, il volto sporto verso il finestrino, cercando di scorgere cosa ci fosse sotto di loro anche se non sarebbe mai riuscita a vederlo.
Una mano le si posò gentile sulla spalla, facendole voltare a mala pena il viso, senza però staccare gli occhi dal sottosuolo che sfrecciava fuori di lì.
<< Hai sentito il capitano? >> chiese l'uomo con voce pacata e profonda, alzando un dito per toglierle una ciocca da davanti al volto. << Siamo in attesa del via libera, stiamo per atterrare, dovresti mettere la cintura.>>
Solo a quel punto la donna si voltò, gli occhi dal taglio allungato si strinsero in una fessura luminosa e scura, mentre le sue labbra morbide e sporgenti si piegavano verso l'alto dipingendole una curva rossiccia sul volto abbronzato.
<< Siamo già arrivati? È stato un viaggio velocissimo.>> disse lei con voce dolce.
L'uomo annuì, sedendosi al suo fianco e sbirciando anche lui il mondo lì fuori. << Si ha sempre la sensazione che il viaggio sia durato di meno, quando si torna a casa.>> fece quasi in un sussurro, come se fosse una cosa solo per loro.
Lei sorrise ancor di più e ridacchiò. << Non è proprio casa mia, lo sai.>>
<< Ma lo è diventata, no? E poi vuoi dirmi che preferiresti tornare al Keystone State ? >> le domandò sorridendo beffardo, conoscendo perfettamente già la risposta.
La donna rise divertita e poi scosse la testa, una cascata di capelli scuri le scivolò sulle spalle e ancora una volta l'uomo si mosse per sistemarglieli meglio.
<< No, no, credo sia tempo di tornare a casa e non alla mia madre patria.>>
<< Ma siamo in America, questa è tutta la madre patria che puoi desiderare. Finché siamo sotto la grande bandiera degli stati federali puoi reputarti in famiglia.>>
L'altoparlante suonò di nuovo, il via libera era stato dato, il comandante aspettava solo di saper i suoi passeggeri in posizione.
Una hostess si avvicinò nella sua impeccabile divisa bianca e rossa, sorrise ai due a li invitò a prender posto ed allacciare le cinture.
L'uomo si alzò porgendo una mano alla compagna e la condusse sul sedile davanti al tavolo di legno lucido, assicurandosi che la sua cintura fosse allacciata per bene e sedendosi poi a sua volta.
Mentre l'hostess scompariva in cabina di pilotaggio l'uomo si rivolse di nuovo verso la donna.
<< Sei in ansia?>> le chiese senza troppi giri di parole.
Lei scosse la testa. << Non per me, mi preoccupo molto più per voi. >>
Annuì. << Purtroppo non si poteva far altrimenti, il quaderno è stato trovato e la chiamata era inevitabile, lo sapevamo tutti.>> disse prendendole la mano.
<< Se solo fossimo stati più attenti… se la Coppa Mortale non fosse mai stata trafugata a quest'ora non avremo di che preoccuparci. È sempre stata troppo poco protetta.>>
<< Ma era il posto migliore per nascondere il quaderno. >> le fece notare pensieroso. << Non aveva avuto affatto una cattiva idea, nessuno era mai andato a cercarlo proprio lì. È stata una sfortunata coincidenza d'eventi, dal suo furto al suo ritrovamento. Senza contare che per rintracciarla è stata trovata la persona giusta dal committente sbagliato, nel momento sbagliato.>>
<< Non dire così. >> lo riprese lei mentre il jet si piegava per l'ultima volta verso il basso, puntando il muso affusolato verso la pista d'atterraggio. << Se non fosse capitato quel ragazzo a quest'ora dovremmo preoccuparci di una cosa in più e ben più seria.>>
L'altro annuì concedendole ragione. << Ci sarebbe stata la persona sbagliata dietro le sbarre, questo è vero, ma in ogni caso Morgenstern non sarebbe vissuto ancora a lungo, si stava spingendo verso sponde che non avrebbe mai potuto neanche sfiorare. Era solo questione di tempo prima che qualcuno dei ragazzi gli desse il benservito.>>

<< Ha comunque vissuto in pace per quasi trent'anni.>> gli fece notare.
<< Ma, ancora una volta, era troppo ingordo per questo mondo. I poliziotti credono di conoscere le regole del nostro gioco e non si rendono conto che è molto più complesso di quello che appare. Ha decisamente iniziato una partita contro l'avversario sbagliato.>> sorrise ferino, una scintilla pericolosa che s'illuminava negli occhi chiari.
La donna annuì piano, sobbalzando un po' quando le ruote del jet toccarono terra, scivolandovi poi sopra come olio.
<< Ma non ha giocato contro di noi.>> sospirò. << Ha sfidato uno dei suoi e questo lo ha battuto ad un gioco che lui portava avanti da anni.>>
<< I giovani d'oggi sono pieni di sorprese, non trovi? Sono stati decine e decine i poliziotti, i detective, i Commissari che hanno cercato di risolvere il Caso Circle. Poi arriva questo ragazzino che si ritrova in mano un delitto come un altro e da lì tira fuori collegamenti che nessuno aveva mai trovato, vede legami che nessuno aveva mai visto e scopre verità che nessuno poteva immaginare.>> Si slacciò la cintura soddisfatto, sorridendo divertito al suo stesso discorso. << Mi piace, mi intriga, mi affascina.>>
<< Caro… >>
<< Potrei anche conoscerlo, perché no.>>
<< Perché sicuramente avrà visto una tua foto da qualche parte?>> gli fece notare slacciandosi a sua volta e cercando di portarlo a ragione. << Ti riconoscerebbe e se non lo facesse lui lo farebbe chi gli è accanto.>> disse alzandosi e cercando le mani dell'uomo, che le giunsero subito in soccorso.
<< Ha ritrovato il quaderno, ha smascherato sia Morgenstern che Starkweater, come potrei non volerlo conoscere? Lo prenderò da solo, se la cosa può in un qualche modo farti sentire più sicura, ma non intendo scendere in campo senza conoscere la miglior pedina del mio avversario.>>
La donna scosse la testa e si avviò verso l'uscita, dove il capitano li stava attendendo nella sua impeccabile divisa blu.
<< Non mi solleva molto, ma sì, mi faresti un grande favore.>> sospirò e poi sorrise al capitano.
<< La ringrazio molto Philip, è sempre un piacere viaggiare con lei al comando.>>
L'uomo tenne saldamente il cappello sotto braccio e prese la mano della donna per farle un elegante bacia mano. << Il piacere è avere dei passeggeri come voi, Signora. >> Poi si rivolse all'altro uomo porgendogli la mano. << Signore. Spero viaggeremo presto ancora insieme.>>
<< Non credo così presto, Pihilip, abbiamo deciso di rimanere per un po' a casa.>>
Il capitano sorrise. << Non c'è niente come casa, Signore. Vi auguro buona permanenza, sa che le basterà una chiamata e saremo lieti di accompagnarla ovunque.>>
I due superarono lo stuff e la donna si affacciò per prima al portellone del jet.
La scala di metallo scendeva ripida verso la pista, lei la scese con lentezza, facendo attenzione a poggiare tutto il piede sui gradini e allungando la mano, sorridente, verso l'uomo in livrea che l'attendeva alla fine della scala.
Quello che pareva a tutti gli effetti un maggiordomo più che un autista sorrise con sincero affetto alla donna e le strinse brevemente la mano prima di aiutarla a scendere gli ultimi due gradini.
<< Ben tornata a casa Signora! È un piacere riavervi finalmente qui.>>
Lei si voltò verso l'uomo di mezz'età e lo abbraccio di slancio.
<< Timothy! Quanto mi sei mancato! Sei uno dei motivi per cui fremevo di più a tornare a casa.>> gli disse sinceramente ricevendo in cambio gentili pacche sulla schiena ed una risata bassa.
<< Cara! Così lo soffocherai! Come va, vecchio Tim!>> anche l'uomo sceso finalmente dal jet si avvicinò al maggiordomo dandogli una sonora pacca sulla spalla e facendolo un po' traballare.
<< Piano Signore, non sono più giovane come una volta.>> sorrise bonariamente anche a lui prima di lasciarsi abbracciare.
<< Come te la passi qui nella vecchia mela? Ti sei annoiato senza di noi tutto questo tempo?>>
<< Sono passati quasi due anni in effetti dall'ultima volta che siete venuti a New York City, ma la città non è cambiata molto. Sono cambiate di più le persone che la abitano.>> e così dicendo lanciò uno sguardo d'intesa da sotto le folte sopracciglia castane.
L'uomo gli sorrise furbescamente e poi gli mise un braccio sulle spalle, incitandolo a camminare verso la macchina malgrado l'altro protestasse dicendo che sarebbe dovuto esser lui a scortarli e non il contrario.
La donna rise, felice di aver già ritrovato una piccola quotidianità passata e prese a braccetto il maggiordomo, annuendo alle parole del marito che chiedeva di esser aggiornato su tutte le nuove della città.
Lasciarono comunque che fosse lui ad aprirgli lo sportello e farli salire nella macchina di lusso che li attendeva sul bordo della pista, ma lo convinsero a sedere dietro con loro e non vicino all'autista.
<< Ma dimmi, sai niente di lui?>> domandò di punto in bianco l'uomo.
Il vecchio Tim scrutò per un attimo il suo datore di lavoro e poi annuì.
<< Questa volta, Signore, temo di saper anche più di quanto non gradirà saper lei.>>

 

 

 

 

 

La portiera si chiuse con un gran tonfo, la povera golf sussultò alla consueta poca grazia della sua proprietaria e scatto svelta quando quella la chiuse premendo a caso i tasti sul telecomando.
Izzy si spostò una ciocca di capelli da davanti al volto, maledicendosi per aver scelto un gloss quella mattina e maledicendo anche il vento che si era alzato da poco schiacciandogli tutti i capelli sulle labbra e lasciandoceli appiccicati.
Si sistemò meglio il bavero di pelliccia del cappotto e lasciò cadere le chiavi nella borsa aperta che le pendeva dal braccio, maledicendosi anche per aver scelto di mettere delle scarpe con un tacco così fino quando era perfettamente consapevole che si sarebbe dovuta dare alla scalata dei fatidici sei piani di casa del fratello.
Erano quattro dannati anni che dicevano che avrebbero aggiustato quel dannato ascensore, non poteva farsi tutte le dannatissime volte tutte e dodici le dannate rampe per arrivare a quel dannatissimo appartamento, dannazione!
<< Ti sento imprecare anche se non lo fai ad alta voce.>> le disse la sua amica.
Izzy sbuffò e si premette la mano sull'auricolare per controllare che fosse ben inserito nell'orecchio.
<< Taci Ai!>> ringhiò salendo i quattro gradini che la dividevano dal portone e cercando con lo sguardo il nome di suo fratello. Si attaccò al pulsante rettangolare come se non ci fosse un domani, rilasciandolo solo per premerlo con ancor più forza, neanche ne beneficiasse in qualche modo la potenza del trillo.
<< Come vuoi tu tesoro, ti sto solo dicendo di non arrabbiarti, poi ti vengono le rughe, no? Direi che non è il caso di farsi un lifting a ventiquattro anni.>>
<< Lavoro con i morti Ai, al massimo dormo sotto formaldeide se voglio evitare di invecchiare.>>
<< E questa sola affermazione mi fa domandare ancora una volta come sia possibile che tu sia diventata un patologo. Cosa fa la formaldeide? Non fa invecchiare?>> la prese in giro dall'altro capo del telefono.
<< Non permette ai tessuti di deteriorarsi, dai, lo sai che lo so.>> borbottò la more imbronciata.
<< Meno male che non hai continuato con chirurgia...>>
<< Ti ho sentita!>>
<< Vorrei ben sperare ti sto parlando in un orecchio!>> rise quella e Izzy poté immaginarsela perfettamente mentre si dondolava avanti e indietro seduta in equilibrio sulla sedia, con un ginocchio alzato su cui poggiava la guancia e tutta la concertazione sulla bottiglietta di smalto che si stava mettendo.
<< Che colore avevi scelto poi?>> chiese per cambiare argomento. << E perché quel genio di mio fratello non mi apre?>> ringhiò subito infastidita premendo ancora il pulsante.
<< Viola. Perché sa che sei te e non vuole rotture di palle, tesoro. Non mi hai detto tu che ha avuto un periodo un po' stressante? >> chiese l'altra.
Izzy fece un verso sarcastico. << Un periodo? È dallo scorso Giugno che sta avendo “un periodo stressante”, se continua così rimarrà in analisi per tutta la vita, te lo dico io.>>
<< Anche solo per aver due fratelli come te e Jace dovrebbe starci a vita.>>
La giovane fece per protestare ma il beep meccanico del portone la distrasse. << Dio grazie!>>
Entrò nell'atrio lanciando letteralmente la porta alle sue spalle e fissò malamente le scale.
<< Non voglio fare le scale, Ai, vieni qui e portami in braccio sino a casa di quel deficiente che non aggiusta l'ascensore. >>
<< Tesoro, ancora una volta, non lo deve aggiustare lui.>> fece scocciata l'altra.
<< Ma è un dannato poliziotto! Perché non usa il suo distintivo per qualcosa di buono? >>
<< Non so te, ma per “qualcosa di buono” io intenderei rimorchiare, non far aggiustare l'ascensore di casa.>>
<< Tsk, neanche quello fa.>>
<< Io sono sempre disponibile.>> le disse ridacchiando contro l'interfono che crepitò allegramente.
<< Peccato che ti manca una cosa essenziale...>> fece Izzy cominciando a salire le scale.
<< Cosa? Il fascino innato ce l'ho.>>
<< Hai anche un pene?>>
<< No, purtroppo ho un utero, che per altro mi sta distruggendo. Dio, quanto invidio mia madre, voglio entrare in menopausa anche io.>> si lamentò la ragazza.
<< Niente più ormoni che ti fanno essere bella e attiva, tesoro.>> le ricordò Isabelle ridendo a sua volta del tono piagnucoloso dell'amica.
<< Non mi sfidare, sai che ci sono decine di modi per essere reattivi anche in quelle situazioni.>>
<< E noi lo sappiamo perché siamo medici, non perché siamo andate a cercarlo.>>
<< Assolutamente no. E poi, io sono un medico, tu sei una patologa forense.>>
Isabelle si fermò sul pianerottolo del quinto piano e respirò affannosamente. << Scusa? E con questo che vorresti dire?>>
<< Che i medici sono quelli che lavorano con le persone vive, non con quelle morte.>>
<< Siamo tutte e due andate a medicina!>> protestò ricominciando a salire, << Ricordami perché ho comprato queste scarpe.>> sbuffò.
<< Che sono?>>
<< Le Manolo verdi.>>
<< Perché sono belle e perché hai soldi da spendere. Oh, e perché ci rimorchi tantissimo visto che ti fanno uno stacco di gamba da paura.>> dei rumori di fondo si allargarono improvvisamente nella conversazione, sentì la sua amica spostare il telefono da una spalla all'altra e poi continuare. << Sei arrivata, becchina?>>
<< Ah no! Già mi basta quel mezzo zombie che mi chiama enterador, non mi ci servi anche tu. >>
<< Chi? Il messicano tenebroso?>>
<< Ai, tesoro, ti voglio un bene dell'anima, ma davvero, hai dei gusti da schifo in fatto di uomini.>>
<< Ti ricordo che mi sarei volentieri immolata per far capire a tuo fratello se è davvero gay o solo bisessuale, gusti da schifo a chi?>>
<< Alec è la mia versione maschile, è ovvio che sia figo, lo dici solo perché mi somiglia.>> sorrise compiaciuta salendo gli ultimi gradini e arrivando alla porta di casa del fratello.
<< Mi stai dicendo che in verità voglio scoparmi te e che riverso la mia fantasia su tuo fratello?>>
<< Tutti vorrebbero scoparmi!>>
<< E io non ti chiederò perché… >>
Isabelle si voltò di colpo verso l'uscio aperto da cui sbucava la faccia confusa di Simon.
<< Sono arrivata tesoro, ci risentiamo.>> Aspettò giusto il tempo di sentire la ragazza salutarla e le attaccò il telefono in faccia quando cominciò a sproloquiare di far foto ad Alec a petto nudo se ce lo trovava, e sorrise raggiante al giovane davanti a lei.
<< Vuoi forse darmi torto?>>
Simon batté le palpebre arrossendo leggermente e spalancò la bocca pronto a replicare quando un suono sordo attirò la loro attenzione.
Il ragazzo fece una smorfia e si guardò alle spalle.
<< Entra va, magari tu riesci a calmarli. La mia seconda opzione, dopo te, è Max e alle brutte sappi che chiamerò vostra madre.>>

Isabelle alzò un sopracciglio senza capire, entrando nell'appartamento facendo un rumore della malora con quei suoi tacchi a spillo. Non si fermò all'ingresso e si diresse dritta verso il salotto dove Magnus se ne stava a bracia incrociate e palesemente irritato, per non dire offeso.
L'asiatico le fece a mala pena un cenno con la testa e poi la voltò dall'altro lato per evitare di guardare suo fratello, che marciava avanti e indietro per la stanza, consumando il pavimento.
Aveva un aspetto a dir poco terribile, con una di quelle sue vecchie felpe scolorite su cui si vedeva solo per metà il logo dei Clash ormai mangiato dalle decine di lavatrici che aveva affrontato. Teneva le mani sprofondate nelle tasche e Izzy lo sapeva che lo stava facendo solo ed unicamente per tenerle ferme e non sbatterle violentemente in faccia a Magnus.
E se suo fratello era abbastanza incazzato da voler picchiare qualcuno probabilmente il mondo stava per crollare.
<< Che hai fatto?>> chiese immediatamente voltandosi verso Bane.
Lui fece scattare la testa nella sua direzione, un'espressione oltraggiata a storpiargli il bel volto.
<< Perché dovrei esser io ad aver fatto qualcosa?>> chiese con tono acido, assottigliando li occhi.
Izzy lo guardò in modo più che eloquente. << Perché è Alec. E lui non vuole mai picchiare nessuno. O meglio, non deve mai trattenersi fisicamente dal farlo.>> si corresse per giustizia di verità.
In famiglia tutti quanti avevano costantemente la voglia di picchiare violentemente qualcuno che facesse o dicesse cavolate, che non svolge il proprio lavoro, che disturba o che è molesto in qualunque modo. Era un tratto distintivo non tanto dei Lightwood, che erano subdoli e vendicativi, quanto dei Troublood, loro si che menavano le mani. Suo padre diceva sempre di aver conquistato Maryse solo grazie al fatto che era il “più scapestrato” della sua famiglia, quello con l'animo più fomentino. Ma in ogni caso, far venir voglia a Procuratore Generale di prenderti a pugni non era una grande novità. Tutti e quattro loro figli avevano ereditato questo focoso e sanguinolento tratto Troublood e, stupido gioco di parole a parte, Alec era solo stato abbastanza fortunato da aver ereditato anche il sangue freddo ed i nervi saldi. Vederlo così arrabbiato quindi, vederlo trattenersi non tanto interiormente quanto esteriormente, voleva dir solo guai.
Magnus le fece un gesto vago con la mano. << Si sta ancora lamentando per com'è andata la riunione.>>
<< Non era una riunione, Magnus. Era un incontro ufficiale con la commissione per l'approvazione dei Consulenti. Erano le persone che avrebbero dovuto giudicarti idoneo o meno a collaborare con la polizia.>> ringhiò a bassa voce Alec fermandosi e poggiandosi con il sedere contro il bordo del tavolo.
L'altro neanche lo guardò. << Sappiamo entrambi che è andato bene, che mi prenderanno, gli servo troppo- >>
<< Quindi dopo tutto il tempo che hai passato a dirmi di essere in ansia e a sceglier cosa metterti per far bella figura, mi stai dicendo che già sapevi che saresti stato preso e che hai finto di aver paura? >> domandò improvvisamente freddo.
<< Non ho finto e non avevo paura. Era ansia da prestazione, come l'avrebbe chiunque. Ho cercato di presentarmi comunque al meglio perché volevo far vedere che ci mettevo della buona volontà. >>
<< Ma non ti sei preoccupato di tener a freno la lingua perché tanto ti avrebbero preso, no?>>
L'uomo si strinse nelle spalle e scosse la testa con fare annoiato. << Sì, ne ero e ne sono ancora certo. Mi prenderanno. Stanno solo tirando un po' la corda per farmi credere che invece c'è la possibilità che mi rifilino un no.>> si sistemò meglio sul divano consunto e si osservò le unghie curate e smaltate di nero. Un grande classico, il nero stava sempre bene sulle sue mani.
<< Benissimo. >> soffiò Alexander e solo il suo tono gli fece venire un brivido.
Gli ricordò terribilmente la sgridata che gli aveva fatto quando aveva ammesso di aver degli effetti personali di Ragnor e non averglieli mai fatti vedere.
Si arrischiò ad alzare un sopracciglio e gettargli un'occhiata obliqua e ciò che vide non gli piacque per nulla: una maschera di fredda indifferenza.
<< Allora aspettiamo solo di sapere con chi lavorerai.>> tolse le mani dalle tasche e si sedette sul tavolo senza far una piega neanche davanti allo sguardo accigliato di Simon e Izzy.
Jace, che era stato tutto il tempo in religioso silenzio, immobile poggiato allo stipite della porta che conduceva alla cucina, posò lo sguardo sul fratello e aggrottò leggermente le sopracciglia, comprendendo perfettamente ciò a cui si stesse riferendo l'altro.
<< Come scusa? >> chiese Simon battendo le palpebre confuso.
<< Aspettiamo che chiamino e ci dicano chi sarà l'agente a cui verrà assegnato Magnus.>> ripeté con calma Alec.
<< Che diamine vuol dire? Io ho fatto il colloquio per esser inserito nella tua squadra.>> fece quello drizzando la schiena e sedendosi più vicino al bordo.
Alec si strinse nelle spalle e scosse la testa, esattamente come aveva fatto lui e prima che la cosa degenerasse e cominciassero tutti ad urlare, Jace si schiarì la voce facendo saltare sul posto la sorella che lo guardò allucinata.
<< E tu quando sei arrivato?>> chiese con voce acuta.
<< Sono qui da prima di tutti voi, eri solo troppo impegnata per notarmi.>> disse con fare spiccio, poi si rivolse a Magnus. << Quello che Alec voleva dire è che tu hai fatto il colloquio per essere “assunto come consulente” del dipartimento. Spetta poi alla commissione e agli AI decidere dove dovrai essere inserito e sotto il comando di chi. Una volta scelta la sezione il tuo Capo sceglie a chi affiancarti. >>
<< Ma Alec era presente all'incontro così come lo era Blackthorn! Questo vuol pur dire qualcosa!>>
<< Che noi eravamo i suoi “garanti”. Abbiamo fatto la parte dei mecenati che introducono il nuovo membro, ma non abbiamo potere decisionale assoluto.>> aggiunse Alec sempre con quella sua aria pacata.
Jace annuì. << Tecnicamente in questi casi è dato per scontato che il soggetto venga assegnato al dipartimento da cui proviene la domanda o a cui lui fa la domanda, ma non è detto che sia così.>> guardò brevemente i presenti e sospirò. << Tipo, se durante il colloquio la commissione reputa il soggetto più adatto, che ne so, all'antidroga, verrà assegnato lì. Se reputa il soggetto “troppo ingestibile” per i presenti, lo assegnerà a chi è sicuro lo terrà sotto controllo.>>
<< Quello che Jace sta cercando di dirti in modo gentile e con molti giri di parole.>> s'intromise secco Alec.
<< Cosa assurda visto che di solito ha il tatto di un rinoceronte… >> borbottò Izzy.
<< È che se vedono che noi non siamo in grado di gestirti ti mettono dove credono ci sia qualcuno in grado di farlo o non ti accettano come consulente. Ma visto che tu sei tanto essenziale, con tutta probabilità ti prenderanno e ti manderanno alle direttive di qualche federale. Se non ti sbattono direttamente a Quantico. >> finì lapidario e con sguardo impietoso e duro puntato dritto negli occhi verdi e scintillanti di Magnus.
L'uomo lo fissò a bocca aperta e batté un paio di volte le sopracciglia.
<< Mi stai prendendo in giro. Mi state prendendo in giro.>> alternò lo sguardo da un fratello all'altro e poi scattò in piedi. << Non possono assolutamente fare una cosa del genere! Il mio contratto- >>
<< Il tuo contratto non è una cosa definitiva. Erano le premesse base affinché tu accettassi di lavorare con noi. >>
<< Ma era espressamente scritto che sarei stato assegnato alla tua squadra.>> continuò ostinato.
Alec fece un verso sarcastico e alzò le mani al cielo. << Per quanto li riguarda potrebbero anche non formare la mia squadra se gli servisse per mandarti dove più gli sei utile.>> scese dal tavolo e avanzò finché a dividerli non vi fu solo quello basso davanti al divano. << Capisci ora perché ti avevo chiesto di comportarti bene e non come la testa di cazzo che sei stato? Perché se avessero visto che lavoravamo bene insieme non avrebbero avuto il minimo appiglio per poterti spedire con un francobollo in testa dritto all'FBI. >> gli sputò contro glaciale.
Il silenzio che ne seguì fu pensate e freddo come il vento che aveva spazzato New York in quei giorni.
Magnus fissò senza parole il volto paradossalmente pacato ed inespressivo del giovane di fronte a lui. Alexander non gli avrebbe mai mentito su una cosa del genere, non gli avrebbe fatto prendere un colpo solo perché voleva vendicarsi di qualche uscita infelice.
Okay, forse più di qualche, ma a sua discolpa poteva dire che lo avevano provocato e più di una volta. Così come doveva dire che il detective lo aveva difeso ogni volta e aveva reguardito quel cretino a far il suo lavoro o togliersi dai piedi. Sì, aveva fatto ciò che faceva sempre sin da quando avevano cominciato a lavorare assieme: Alexander aveva preso le sue parti anche se avrebbe avuto tutto il diritto di picchiarlo e lanciarlo fuori dalla finestra del quarto piano.
Rischiava davvero di finire nelle grinfie dell'FBI? I federali… Dio, quelli lo odiavano. O lamento odiavano da morire suo padre che in tutta la sua onorevole carriera non si era mai fatto beccare e aveva assoldato e salvato decine se non centinaia di altri criminali, permettendogli di farla sotto il naso proprio a quelli. Lo avrebbero mandato a Quantico? Dove veniva studiato il quaderno di suo padre? Quindi lo avrebbero costretto a lavorare solo su quello? E se si fosse rifiutato? Cosa erano autorizzati a fare i federali? Non lo potevano torturare o minacciare, no? Quella era roba da CIA.
Oh cazzo. Suo padre aveva avuto rapporti con personaggi di tutti i generi e tutte le nazionalità, aveva sicuramente pestato i piedi anche ai servizi segreti, che volessero portarlo in qualche cella sperduta e torturarlo finché non avesse fatto ciò che volevano?
Deglutì sudando freddo ai suoi stessi pensieri. Non doveva farsi dei film mentali al limite delle trame umanamente possibili, ma c'era da dire che aveva sentito racconti di tutti i tipi su quella gente e per di più c'era il piccolo e non insignificante dettaglio che conosceva il genere di persona: gente che odia chi si trova dall'altra parte della propria barricata e che fa di tutta l'erba un fascio, che non è mai disposto a darti una seconda possibilità o il beneficio del dubbio. Era quella gente che aveva subito pensato di incastrare lui per l'omicidio di Ragnor e che ci sarebbe anche riuscita se non fosse arrivato Alexander per pura fortuna.
<< Non pensare troppo Bane, ti fuma il cervello. >> fece Jace sogghignando. Era stato serio abbastanza per spiegare la situazione, ora poteva anche godere un minimo dell'enorme stronzata che l'uomo aveva fatto e di quanto suo fratello lo avrebbe picchiato. Solo un poco, poi sarebbe tornato a preoccuparsi della fine di quello che ormai era diventato pure amico suo.
<< Non sei in Die Hard, smettila di pensare a complotti e corruzione del sistema.>> continuò Alec.
<< Ma sappiamo perfettamente che il sistema è corrotto. >> gli fece notare Magnus fulminandolo.
<< Più del sistema mi preoccuperei della Signora e di quello che ti farebbe se ti togliessero al suo controllo. Vuole smantellare il Circolo in prima persona, non accetterà mai che l'FBI le tolga la possibilità di trovare e mettere in carcere tutti gli uomini che hanno fatto così tanti danni ed ucciso così tante persone nella sua città. >>
Magnus lo fulminò e cominciò a vomitargli addosso quanto tutto ciò non lo aiutasse minimamente, quando la suoneria monotono di Alec si diffuse per la stanza e tutti tacquero.
L'uomo guardò l'altro con volto pallido, tutto il bel colorito della sua pelle finito sotto i piedi assieme alla sua pressione. Girò la testa in direzione dell'affare squillante, pensando forse di prenderlo e rispondere al posto del detective per scoprire subito dove lo avrebbero mandato, ma neanche se fosse stato al pieno della sua forma sarebbe riuscito a superare lo scatto felino che fece Alec. Probabilmente solo Jace ci sarebbe riuscito, ma non osò neanche farsi passare l'idea per l'anticamera del cervello.
Il moro si mosse con velocità e fluidità, battendo tutti sul tempo e stringendo nel palmo il cellulare leggendo il numero luminoso sul display.
Lo videro tutti drizzare la schiena e lasciarsi scivolare per un attimo indosso una maschera di rabbia che non avrebbe dovuto avere.
Ed il semplice fatto che invece di aver paura o esser in ansia Alexander Lightwood fosse incazzato nero avrebbe dovuto esser di per sé un monito a chiunque si fosse trovato dall'altro lato dell'interfono.
Il giovane detective si tirò il cappuccio in testa ed uscì a grandi falcate sul balcone, chiudendosi alle spalle le ante di vetro.
Rimasero tutti in silenzio, immobili e paralizzati, cercando di carpire quante più informazioni possibili da quella conversazione ovattata, ma ciò che più di ogni parola riuscì a far capir loro la direzione che stava prendendo quella conversazione, furono le espressioni di Alec.
Lo videro annuire fermamente, bloccarsi, stringere la mascella e far sparire le labbra in una linea pallida. Arricciò il naso e scoprì i denti. Lo sentirono abbaiare qualcosa di minaccioso e che non ammetteva replica, qualcosa su cui sicuramente gli diedero ragione perché parve calmarsi subito dopo.
Continuò così per un po' di tempo finché non diede loro definitivamente le spalle e si poggiò alla ringhiera, non lasciando neanche uno scorcio del suo volto adirato.
Con un'agilità che nessuno le avrebbe mai dato ma che derivava da anni ed anni di allenamenti, Isabelle camminò sulle punte evitando di far battere il tacco sul pavimento e si avvicinò alla portafinestra spingendola di poco, il necessario per far entrare un filo di vento e la voce dura di suo fratello.
Si girò e si sedette sul bracciolo del divano, in attesa di sentir qualcosa di sensato.

 

<< Sì. >> fece lapidario Alec, poi attese.
Strinse la mano a pungo contro la ringhiera ghiacciata. Non doveva prendersela con lei, la Herondale era solo l'ambasciator che non porta pena, ma ciò non toglieva che fosse abbastanza arrabbiato, un po' come lo era la donna ed un po' con lei stessa che malgrado tutto aveva inscenato quella partita di ping-pong verbale con Magnus aumentando le loro possibilità di fallimento.
Non aveva avuto tutti i torti e sia mai che Alexander Lightwood sbagli a fare un pronostico negativo. Quantico aveva chiamato, aveva provato anche a rinnovare la loro “proposta” di prendere in mano il Caso Circle. No, non si chiamava così, ora era L'Operazione Infernum, uno stupido quanto per nulla divertente rimando al soprannome di Asmodeus, il Principe dei Demoni e quindi dell'Inferno stesso. Avevano detto che questa nuova operazione sarebbe servita per “distruggere” tutti i demoni rimasti nel creato.

 

Come se ci fossero solo loro. Come se il mondo non fosse da sempre malato di ogni tipo di morbo creato da noi umani.

 

<< No. >> ringhiò interrompendola. << Non ne hanno alcun diritto, specie perché ci hanno tolto del materiale importantissimo. Siamo in grado di gestire la cosa ed eventualmente chiamarli qualora ci fosse qualcosa che riguardi loro, l'affare è sul nostro territorio, non tocca ancora il nazionale. >> disse sentendosi dar piena ragione.
Ascoltò la donna spiegare come la commissione avesse reputato Bane troppo esuberante e concordò con lei quando la Signora gli disse che, a suo parere, quel cretino lo avevano mandato apposta per provocare Bane e farlo scoppiare.
Accennò un piccolo sorriso che solo il buio ed il vento videro quando gli disse anche che era davvero soddisfatta di come lo avesse gestito.
<< La ringrazio Signora.>> soffiò in una nuvola di vapore. << Quali sono le direttive definitive?>>

 

Izzy osservò per bene la schiena del fratello maggiore, la vide contratta, la vide rilassarsi e poi contrarsi ancora di più. Non sfuggì a lei come non sfuggì a nessuno il pugno che Alec assestò alla ringhiera, come lo ribatté una seconda volta e come la sua voce risultasse a dir poco amareggiata.
<< Non è minimamente corretto, Signora. Potevano evitare di darmi la promozione se avevano dei dubbi a proposito delle mie capacità gestionali.>>

Simon rabbrividì e Jace s'incupì, marciando sino al fianco della sorella.
<< Se quegli stronzi osano dire che Alec non è in grado di gestire una squadra vado ad aprirgli il culo personalmente.>>
<< Fammi un fischio, porto un po' di quegli attrezzi che uso per aprire il cranio alla gente.>>
<< Mi fido ciecamente.>> disse Alec e tutti si concentrarono di nuovo su di lui.
Ci fu silenzio ma dal movimento repentino che fece il giovane capirono che il discorso doveva essersi spostato verso qualcosa che lo imbestialiva ancor di più delle critiche mosse alla sua professionalità. E c'era una sola cosa che toccasse Alec più del mettere in dubbio il suo esser un buon poliziotto: le persone che amava.

<< Merita questa possibilità perché si è rivelato un'importante aiuto durante tutto il caso.>> parlava sicuramente di Magnus, l'uomo lo sapeva e si sporse verso la finestra cercando di capire qualcosa di più. << Se si preoccupano di come si sia comportato in un ambiente familiare come New York voglio proprio sapere cosa si aspettano che faccia in una ambiente a lui del tutto estraneo e nemico. >>

Simon gli si sedette vicino. << Diamine amico, sembra che stiano parlando di un animale.>> borbottò.
<< Ed io non sono un magnifico animale da palco, Sonny?>> sorrise stentato cercando di alleggerire la tensione.
Il ragazzo gli restituì lo stesso sorriso traballante.

<< Garantisco io per lui. >>
Quelle sole parole ebbero il potere di far congelare Magnus sul posto e di farlo sciogliere allo stesso tempo. Alexander si stava davvero mettendo così in gioco per lui?
Lo guardò anche se non lo vedeva davvero, quella figura nera persa nel buio lattiginoso della notte di quel Febbraio che pareva non voler finire mai. Cosa si stava giocando? La sua reputazione? Una futura possibile promozione? La promessa di eseguire ciecamente un comando in un futuro prossimo?
Alec si tirò di colpo giù il cappuccio e si passò una mano tra i capelli, stringendo il pugno sulle ciocche della nuca e dando quasi uno strattone.
Che stava facendo? Pensò Magnus aggrottando le sopracciglia e cercando lo sguardo di Simon che però pareva sorpreso quanto lui.
Allungò la mano per chiamare Izzy ma lei saltò su facendogli cenno di star zitto ed aspettare e senza più il minimo pudore spalancò la finestra lasciando che il vento freddo ed umido entrasse nella casa.
<< Glielo ripeto Signora, lo dica pure a chiunque voglia: gli affiderei la mia stessa vita, mi fido ciecamente. Me ne prenderò piena responsabilità. Di entrambi.>>
L'ultima affermazione fece sussultare Simon che si bloccò a fissare l'amico con gli occhi sgranati, l'espressione di un cerbiatto davanti ai fari di una macchina, sconvolto dalla realizzazione che quei tipi si erano aggrappati anche a lui per poter togliere Magnus dalla squadra di Alec. Avevano messo in dubbio le sue qualità da leader, la disponibilità di Magnus nel collaborare e le sue doti da agente.
E Alexander aveva risposto a brutto muso a tutto e si era caricato di ogni responsabilità. Per entrambi.
Deglutì a vuoto. Questo voleva dire che alla prima cazzata che avrebbe fatto non sarebbe stato lui a pagarne le conseguenze ma Alec. Che sarebbero stati sempre sotto osservazione e che se Magnus non avesse lavorato come dicevano loro, i federali avrebbero usato tutto ciò che era in loro potere per poter dimostrare che lui ed Alec erano degli incompetenti e che quindi non solo non potevano gestire Magnus, ma non erano adatti neanche per formare una squadra operativa. E forse Simon si stava prendendo un po' troppe responsabilità pensando che non solo il Tenente ma anche lui doveva tener sotto controllo l'amico, ma non riusciva a farne a meno.
Non quando Alec aveva messo come garanzia la sua stessa reputazione.
Non quando aveva accettato di pagare qualunque errore con la sua carriera.
Non quando si era messo, ancora una volta, davanti a loro per proteggerli da tutti i colpi.

 

Dannato super eroe.

 

Quando il moro rientrò nel salotto e si chiuse le finestre alle spalle i suoi vestiti odoravano di aria fresca ed emanavano lo stesso freddo che si era intrufolato nell'appartamento, anche se Simon sapeva perfettamente che il freddo non poteva essere emanato, ma non sarebbero state cose futili come le leggi della termodinamica a farlo deconcentrare dall'aspetto funereo e decisamente incazzato del suo amico.
Izzy lo guardò preoccupata e gli poggiò una mano sulla spalla, mentre Jace si sporse per dargli un colpetto sul polso.
<< Tutto okay bro?>> chiese con voce bassa e grave.
Alec alzò lo sguardo verso di lui e gli fece uno dei suoi tirati sorrisi storti, allungò anche lui una mano e la posò con delicatezza sulla zazzera bionda del fratello, mentre con l'altra strofinò il braccio di Isabelle in un blando tentativo di darle calore. Un calore che forse in quel momento necessitava più a lui che non agli altri.
La felpa scura pareva essersi congelata nelle sue pieghe ed i capelli altrettanto scuri erano scompigliati dalle raffiche impietose dell'inverno.
Avanzò sino a che non si trovò davanti a Simon e Magnus e li scrutò con gli occhi adombrati dalle ciocche troppo lunghe che non si era ancora deciso a tagliare.
<< Se solo oserete far qualche cazzata… >> iniziò con una voce così cupa che pareva salir dall'oltretomba. << Sbatterò te personalmente a Guantanamo, Bane, che tu sia un criminale comune o un traditore dell'America troverò il modo per farti finire nella cella più piccola e buia dell'intero carcere.>> disse fissando Magnus. << E te... ti brucerò il distintivo e farò in modo che tu non possa mai più lavorare con la polizia neanche per vie traverse, neanche se tra te ed il dipartimento ci fossero mille intermediari. Non vedrai mai più nulla che possa ricordarti questo lavoro, Lewis. >> Continuò guardando Simon con la stessa nera intensità.
<< Sono una persona che mantiene le proprie promesse, di qualunque genere siano. Sono stato chiaro?>>
I due lo guardarono pietrificati da quelle minacce che parevano tanto esagerate da esser quasi ridicole, eppure nessuno di loro dubitò neanche per un attimo che sarebbe stato in grado di mantenerle, soprattutto in quel momento. Magari avrebbe chiesto favori a tutti coloro che glieli dovevano, ma avrebbe fatto in modo di realizzarle tutte, anche se poi se ne sarebbe pentito l'attimo dopo.
Annuirono lentamente e con cautela, quasi avessero paura che muovendosi troppo velocemente Alec li avrebbe attaccati immediatamente saltando loro al collo o sparandogli i suoi famosi colpi perfetti al centro della fronte.

Anche lui annuì e poi gli fece cenno di andarsene.
<< Bene. Ora fuori di qui, mi avete fatto venire il mal di testa e voglio dormire in santa pace.>>
Jace ed Izzy iniziarono a protestare per poter rimanere e per farsi raccontare tutto quello che gli avevano detto e ben presto riuscirono a coinvolgere anche Magnus che, ripresosi e realizzato che sarebbe rimasto con i due compagni, cominciò a sparlare su come dovessero festeggiare.
Cosa del tutto inutile visto che Alec li mandò educatamente a quel paese dicendogli di andare a festeggiare, testuali parole, “fuori dai coglioni a lui”.
Isabelle continuava a ridere come una matta, un po' per il sollievo per come si era risolta la situazione un po' per tutto quel teatro surreale che stavano montando e per la quantità vergognosa di parolacce che Alec stava dicendo tutte in un giorno.
<< Diamine bro, continui così e rimetti in paro tutti gli anni che non ne hai dette!>> rise Jace dandogli una sonora pacca sulla spalla ma comunque dirigendosi verso l'entrata a recuperare il suo giaccone. << Festeggiamo per bene domani tutti insieme? >> propose con quel suo ghigno insopportabile ed affascinante in volto.
La sorella scosse la testa e andò anche lei a mettersi il cappotto seguita da Magnus.
<< Oh no, no, no! Dobbiamo festeggiare anche oggi! Che dici Bane, il tuo locale ce lo offre un giro di qualcosa di forte? >>
<< Di forte e di buono, mia cara, solo il meglio del meglio per i miei clienti!>> sorrise beffardo lui sistemandosi il risvolto del cappotto. << Tranne per Samuel che è diventato maggiorenne da poco. >>
Simon sorrise mesto. << Beh, è già un passo avanti. >> disse rivolto ad Alec che si era avvicinato per salutarli.
I fratelli lo abbracciarono e cominciarono poi a scendere la scale, subito dietro di loro Magnus che aveva rifilato una pacca sulla spalla ad Alec ed un occhiolino ammiccante. Non era riuscito a fare nessuna battuta, aveva ancora qualche residuo dell'ansia da smaltire.
Il moro scosse la testa al suo saluto e poi si voltò verso Simon che se ne stava ancora dietro di lui, con il piumino abbottonato, la sciarpa al collo, lo zaino in spalla ed in guanti in mano. Gli occhiali gli si erano già appannati per colpa dello sbalzo termico che c'era tra l'appartamento e la tromba delle scale, ma non era certo quella patina opaca sulle lenti a tenerlo fermo lì.
Alec lo guardò con fare eloquente ma non disse nulla, aspettando che fosse l'altro a parlare quando se la fosse sentita e soprattutto se se la fosse sentita.
Simon deglutì e prese fiato, avvicinandosi di un passo e guardandolo dritto negli occhi.
<< Io… volevo solo dirti che- sì, insomma. Lo sai. Però è meglio che io lo dica, è più corretto. Cioè, è corretto che io te lo dica e non lo lasci sottinteso. >> si fece più vicino sino ad arrivare ad una quarantina di centimetri da lui. Strinse i guanti in una mano sola e alzò l'altra lentamente, vedendosi immediatamente arrivare incontro quella pallida e callosa dell'amico.
Alec gliela strinse e lo guardò calmo e pacato, con quell'aura di tranquillità che lo aveva sempre fatto sentire al sicuro, ascoltato e non di peso, come se gli stessero facendo un favore.
Prese un altro grande respiro e poi serrò la presa. << Grazie. So cosa hai fatto, so cosa significa per te. Quindi, grazie, davvero Alec. Credo tu sia una delle poche persone che mi abbiano mai accordato una fiducia così grande. Ti prometto, ti giuro, che non te ne pentirai.>>
Alzò la mano sino a portarla sotto i loro volti, una stretta sincera e sicura come quella che sanciva un accordo importante.
Alec lo guardò ancora senza parlare, gli restituì lo stesso gesto solenne e piegò il braccio, gonfiando il bicipite e tirando il ragazzo più vicino a lui. Fissò i suoi occhi blu in quelli nocciola dell'amico, sfiorando quasi il suo naso con il proprio, la sua espressione seria.

 

<< Lo so. Non ne ho mai dubitato.>>











 

Salve,
rubo questo piccolo spazio per informarvi che i capitoli di “apertura”, che sono serviti per riprendere le fila della storia precedente, rispondendo a qualche domanda rimasta in sospeso, sono ufficialmente finiti. Dal prossimo capitolo seguiremo i casi della nuova squadra operativa della Omicidi di New York City, con il primo incarico ufficiale del Tenente Lightwood come capo.

 


TCotD.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV- La via più semplice ***


 

Capitolo IV

La via più semplice.

-Prima parte-

 

28 Febbraio, venerdì.

 

 

Quell'edificio aveva sempre avuto un che di inquietante e perentorio. Forse perché era il sancta sanctorum della polizia di New York City, forse perché per anni l'aveva visto come il fulcro di un potere che mai avrebbe potuto avvicinare. La motivazione effettiva non la sapeva ad esser sinceri, ma ritrovarsi lì davanti, in attesa che il camion dei rifornimenti si spostasse e che Luke smettesse di parlare con la guardia al gabbiotto e decidesse di andare a parcheggiarsi, gli fece venire un po' d'inquietudine.
L'uomo seduto alla guida della sua jeep rise alla battuta del vecchio collega della Stradale che per colpa di una gamba rotta si stava scontando i giorni della riabilitazione facendo lavori semplici come quelli che venivano assegnati ai giovani agenti. Lavori che per altro lui si era saltato a piedi pari perché era entrato lì come tecnico e un giorno ne era uscito agente operativo.
Sospirò pesantemente, l'aria che entrava dal finestrino abbassato lo stava congelando ma non poteva certo chiedere al Capitano Garroway di spostarsi e andare a parcheggiare perché lui voleva arrivare al più presto all'ufficio del suo nuovo Capo.
Poggiò il gomito sul bracciolo della portiera e affondò la guancia sulla mano chiusa a pungo. Sbuffò il suo fiato caldo contro il vetro bagnato da goccioline sporadiche di pioggia e fissò la condensa: si sentiva come un adolescente bloccato in macchina con il padre ad aspettare che questo finisse di fare il figo con la gente che conosceva. Forse avrebbe potuto fare un vero atto da adolescente ribelle, scendere dall'auto e avviarsi a piedi, sotto la pioggerella leggera, sino alle porte del Dipartimento.
Lanciò uno sguardo di sbieco a Lucian, no, non poteva farlo, ci mancava solo che la prima volta che si presentava a Blackthorn in modo ufficiale lo facesse bagnato come un pulcino. Perché lo sapeva che se gente come Jace e Alec beccavano la pioggia sembravano attori acconciati ad arte e lui invece sembrava solo un povero sfigato che aveva preso l'acquazzone l'unico giorno in cui non aveva con sé l'ombrello.
Prese il cellulare per controllare i messaggi ma appena si rese conto di cosa stava facendo si sbrigò a rimettere l'oggetto a posto. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era mettersi a scorrere le mail proprio come un ragazzino di sedici anni annoiato.
Dio, quanto era difficile fare la persona seria con tutta quella tecnologia in giro.
Controllò l'ora e alzò gli occhi al cielo, venti minuti, davvero? Si era alzato presto quella dannata mattina, aveva dormito da casa di Clary proprio perché il meteo dava pioggia e Luke gli aveva detto che lo avrebbe accompagnato. Certo, anche questo suonava molto come papà che portava il figlio al primo giorno di scuola, ma aveva pensato di potersi fidare di Lucian sotto questo punto di vista, aveva portato Jonathan e Clary a scuola per tutta la vita. Beh, ora che ci pensava bene, la sua piccola nana rossa aveva smesso di essere in orario e cominciato ad essere schifosamente in ritardo quando il fratello era andato a vivere con il padre e quindi non usciva più con lei la mattina… e in effetti Jocelyn e Luke non erano poi tutto questo gran ché di puntualità… che quella fosse una dote puramente Morgenstern e che solo Jonathan l'avesse ereditata? Sarebbe stata piuttosto divertente come cosa. Anche se ciò significava che Luke sarebbe riuscito a farlo arrivare in ritardo anche in quel caso.
Guardò agitato i numeri che scorrevano lenti e poi l'uomo che parlava placido con il collega.
Lo capiva che quel poveraccio si stesse annoiando a morte ma se preferiva stare in volante poteva non rompersi la gamba facendo… come se l'era rotta? Ah! Eh sì, la BMX era una cosa da lasciare ai ragazzini, se avevi quarant'anni non potevi salirci così, la prima volta in vita tua e pretendere di fare evoluzioni degne di Mat Hoffman.
Sarebbe stato così scortese dirgli che se l'era cercata e che ora doveva lasciar andare loro e la benamata macchina prima che Simon decidesse di infilare una delle sue gambette non più così secche tra i pedali e premere l'acceleratore come se non ci fosse un domani?
Uhg, forse stava passando un po' troppo tempo con Magnus.
Un suono acuto fece saltare tutti e tre.
Dietro di loro, una scintillante Cadillac ATS nera e lucidissima fece lampeggiare i fari, i suoi vetri completamente neri sembravano aver quasi una sfumatura violacea e Simon si ritrovò a ridacchiare divertito come l'adolescente che si era sentito di essere solo poco prima.
La vernice dell'auto era così perfetta, sicuramente cerata in ogni minimo dettagli, che l'acqua gli scivolava sopra senza riuscir a fare la minima presa. I fari lampeggiarono ancora ed il suono acuto del clacson tagliò di nuovo quella pioggia fastidiosa.
Simon si tirò a sedere più dritto, sporgendosi in ogni direzione nel tentativo di trovare l'angolazione giusta per scorgere la targa della macchina.
Scoppiò a ridere non appena ci riuscì e Lucian lo fulminò con lo sguardo.
<< Cosa c'è?>> chiese guardandolo con le sopracciglia aggrottate. Clary aveva ragione da vendere nel dire che il patrigno quando faceva quella faccia pareva un mastino a cui avevano appena soffiato l'osso da sotto il naso.
<< Non la riconosci quell'auto?>> replicò lui continuando a ridacchiare.
Lucian afferrò lo specchietto retrovisore e lo mosse per scrutare il veicolo, che in effetti gli pareva fin troppo famigliare.
<< Non mi dire… >> borbottò mentre finalmente inquadrava la targa.
 

Magnificent”.

 

<< … Bane… >>
 

E se Simon si immaginò Luke nei panni di un atletico Papà di Timmy Turner che fissa male il vicino, né lui né Magnus, che se la sarebbe presa davvero a male se avesse saputo che lo paragonava a Dinkleberg, lo avrebbero mai scoperto.
Loro no, ma il sorrisetto stronzo che tirò le labbra di Alec, così maledettamente simile a quello di Jace, lo fece ridere ancor di più.
Poi la gente si domandava perché loro due fossero amici.

 

 

 

 

 

 

Quando era arrivato davanti ai cancelli del Dipartimento e si era ritrovato una grossa e banalmente verde Jeep a bloccargli l'entrata, Magnus non aveva impiegato poi molto tempo a capire chi ci fosse lì dentro.
Premette di nuovo il calcson e attese che quel rompi palle di Garroway si togliesse di torno e lo lasciasse passare. Tra meno di dieci minuti aveva appuntamento davanti all'ufficio di Blackthorn e non voleva proprio far tardi il giorno della sua convocazione.
Certo, si sarebbe potuto alzare prima e arrivare lì con almeno mezz'ora di anticipo come gli aveva consigliato Alec, che tra parentesi era tornato a parlargli normalmente dopo giorni di silenzio ostico, ma se quel benedetto incontro aveva così tanti possibili risvolti negativi avrebbero dovuto dirglielo fin dall'inizio.
Ebbe improvvisamente il vago ricordo di un Cristiano Santiago piuttosto serio che gli diceva di star attento, che nulla era mai sicuro finché non era messo per iscritto e siglato dalle opportune parti, ma affianco a questo ricordo aveva quello di una delle sue belle cameriere del Pandemonuim che gli sorrideva ammiccante e si sporgeva verso di lui per fargli ammirare tutto il suo delizioso decolté e la ciliegia che stava rossa e lucida incastrata tra quei seni così sodi e alti, strizzati nella divisa del locale… Oh, quello sì che era un bel ricordo, non quella testa riccia e leccata da una vacca di Cristiano. Anche se forse avrebbe dovuto ascoltarlo. Beh, quelle erano beghe burocratiche a cui lui non doveva dar conto, cosa lo pagava a fare un avvocato se no?
Scosse la testa allontanando il pensiero, non era di certo colpa sua, assolutamente no. Mentre invece sarebbe stata colpa sua l'ammaccatura sulla Jeep del cane da fiuto lì davanti se non si sarebbe mosso in fretta.
Con un verso infastidito tirò giù il finestrino, rischiando per altro di rovinare la piega perfetta dei suoi capelli, e si sporse verso l'esterno.
<< Signor Cagnaccio? So che si sta divertendo tanto a spettegolare con il suo amichetto, ma qui c'è qualcuno che dovrebbe andare a lavoro!>> gridò a pieni polmoni, sogghignando quando vide la faccia quasi ferita dell'uomo al gabbiotto al sentir la parola “spettegolare”. Un ghigno che si ampliò quando Luke cacciò fuori a sua volta la testa e gli urlò di stare zitto e togliersi dai piedi prima che lo potesse arrestare.
<< Non puoi mio caro! Il mio contratto implica anche la sospensione di tutte le accuse mai confutate a mio carico!>>
Altri insulti più o meno velati volarono dal veicolo verde, prima che la guardia facesse cenno a Lucian di sbrigarsi ad entrare.
Magnus fissò le luci di posizione della macchia illuminarsi e poi spegnersi quando il motore la fece scattare in avanti. Mise in moto anche lui e si avvicinò con lentezza al gabbiotto sorridendo affabile all'uomo che lo presiedeva e facendogli un infantile cenno di saluto a cui l'altro rispose con aria confusa e anche un po' imbarazzata.
Seguì la jeep sino al parcheggio dedicato ai poliziotti e proseguì verso i posti per i visitatori. Avrebbe voluto far richiesta di un posto per la sua bellissima Cadillac, ma Alexander non gli aveva neanche permesso di consegnare il documento, dicendogli di starsene buono e non cominciare subito a chiedere agevolazioni di sorta, a quanto pareva ai piedi piatti non piaceva per nulla.
Magnus non ne aveva capito il motivo inizialmente, che si sentissero minacciati dall'arrivo della sua costosa e lucidissima automobile? O forse erano così attaccati ai propri preziosi posti auto da non accettare che qualcuno che non fosse “come loro” contaminasse i luoghi comuni?
Mantenendo il suo bel ghigno in volto Magnus si disse che come minimo la Omicidi presto si sarebbe abituata a lui, con le buone o con le cattive. E Magnus conosceva molti modi per farsi amare, conosceva la sottile arte dell'adulazione, del pettegolezzo e soprattutto della corruzione. Certo, cercare di conquistare il favore del quarto piano del Dipartimento di Polizia corrompendo i suoi abitanti quando neanche otto mesi prima il Vice Commissario si era rivelato essere un corrotto convinto non era proprio la cosa migliore da fare, ma Magnus si disse che si sarebbe potuto limitare a qualche comodità in più, nulla di eccessivo.
A meno che non glielo avesse chiesto Alexander. Con lui sarebbe andato sull'eccessivo senza problemi. Anzi! Doveva ricordargli che i favori che gli riusciva meglio fare erano quelli sessuali. Sì, doveva decisamente farlo.

 

 

 

Fece girare un paio di volte la lunga penna tra le dita curate, gli anelli che portava scintillavano ad ogni movimento ed era più quel baluginio luminoso ad aver incantato il suo sguardo che non la stilografica costosa che qualche cliente le aveva regalato.
Non avrebbe mai pensato di ricevere una comunicazione del genere, non in quel modo soprattutto.
Sul tavolo davanti a lei faceva bella mostra di sé una scatola al cui interno ve ne erano delle altre. Ognuna di queste era abbastanza grande per far sì che vi entrasse la successiva ed un oggetto.
Era proprio la presenza di questi che l'aveva lasciata di stucco: uno dopo l'altro si erano rivelati a lei piccoli ninnoli e cimeli che le avevano facilmente ricordato un tempo preciso della sua carriera, una sfida, un affare, un'impresa, un'alleanza, una persona, un giorno, una vita, la sua.
Non le era stato difficile capire cosa significassero, cosa fossero tutti quegli oggetti, ciò che l'aveva più colpita era stata la scelta degli stessi, degli eventi che rappresentavano: Erano stati scelti con cura e se qualcuno dei suoi collaboratori li avesse visti probabilmente non avrebbe capito perché proprio quelle cose significassero tanto. Eppure avevano un importanza così grande, così personale ed intrinseca di emozioni che quasi la lasciò stordita.
Posò la penna solo per poter prendere una vecchia chiave riposta in una delle ultime scatole. Dopo di lei c'erano dei fogli, dei documenti importantissimi, qualcosa che le comunicava nostalgia e al contempo le faceva ribollire il sangue nelle vene.
Un'unica scatola era rimasta chiusa, solo una e non sapeva se aveva la forza ed il coraggio per aprirla.
Prese un respiro profondo, strinse la chiave nella mano e poi la poggiò sul tavolo.
Con mani tremanti, che odiò veder sussultare mentre si apprestava a toccare quel coperchio, tracciò il bordo di una scatola che forse avrebbe potuto contenere dei fiammiferi, grande all'incirca quanto un pacchetto di gomme.
La scatolina era bianca e lucida, la carta plastificata appariva intonsa se non per gli angoli smussati, come se avesse molti anni e fosse stata sballottata in continuazione seguendo il suo proprietario in ogni sua mossa.
Si disse di sbrigarsi, di non farsi prendere dall'ansia per una cosa banale come una scatola. Se dentro c'era qualcosa di pericoloso, se dentro c'era qualcosa di mortale, allora significava che quella era la sua ora, se no avrebbe continuato per la sua strada.
Sollevò il coperchio e per un attimo le luci della stanza scomparvero, cadde nel buio della sua mente e dei suoi ricordi, nel freddo di un pavimento che non credeva di ricordare più, di una voce che pensava non sarebbe riuscita a riconoscere.
Nella scatola, vicino all'oggetto che le aveva tolto tutta l'aria dai polmoni e l'aveva fatta tremare di una rabbia ed una paura che credeva ormai scoparsi, c'era solo una semplice parola.
A quanto pare avrebbe continuato a fare quello che aveva sempre fatto: sopravvivere.

 

 

 

Fermi davanti alla porta dell'ufficio del Capo Blackthorn Simon e Magnus non osavano muovere un muscolo.
La porta era di legno, segno assoluto dei vantaggi di essere capo, indicatore di lusso e superiorità di rango. La maniglia di un freddo color metallico distorceva i loro riflessi come la lucida targa argentea su cui era riportato il nome dell'uomo non faceva.
Magnus alzò un sopracciglio specchiandosi della lastra e sistemandosi un ciuffo scappato dalla sua frangia come se fosse la cosa più importante del mondo. Accanto a lui, Simon si sistemava di continuo gli occhiali sul naso, se li toglieva, li puliva e se li rimetteva.
Probabilmente avrebbero potuto continuare così per tutta la giornata ed uno si sarebbe ritrovato con la frangia unticcia di grasso epidermico e sudore e l'altro con le lenti consumate e la maglia bucata dalla troppa pressione che applicava per lucidare quei piccoli vetrini.
Si erano parlati solo per farsi qualche stupida battuta su Lucian che faceva la pettegola, su come Simon gli fosse grato di aver fatto finire quel supplizio e su come il Capitano avesse ringhiato per tutto il tempo. Poi erano calati nel silenzio più pesante, entrambi più che convinti di non voler essere il malcapitato che avrebbe varcato per primo la soglia dell'ufficio di Blackthorn.
Si lanciarono l'ennesimo sguardo di sottecchi e l'ennesimo sorriso tirato e neanche lontanamente rilassato.
Simon fece scrocchiare le falangi come quando si preparava per lavorare al suo pc ma poi le lasciò ricadere nuovamente lungo i fianchi. Chiuse gli occhi e cominciò a ridacchiare.
Magnus alzò un sopracciglio guardandolo sorpreso.
<< Siamo davvero qui davanti da venti minuti senza trovare il coraggio di bussare? >> chiese continuando a ridacchiare.
L'altro tirò le labbra in un sorriso strafottente. << Già, che assurdità. Non abbiamo neanche combinato niente di male.>>
<< Esatto, dobbiamo ancora cominciare a lavorare. È solo la giornata di formazione.>>
<< Devono solo darci il via ufficiale!>> continuò incalzante l'uomo allargando le braccia, la giacca verde pino che indossava si tirò seguendo alla perfezione le mosse del suo possessore.
<< Immagina quando faremo davvero qualche cazzata!>> rise ancora Simon scuotendo la testa e lasciando che una cascata di ciuffi marroni gli ballassero sulla fronte.
<< Oh! Sì, lì dovremmo aver paura!>>
<< Ma noi non abbiamo paura.>>
<< Certo che no!>>
<< Sarebbe assurdo.>>
<< Assolutamente, è solo il nostro primo giorno.>>
<< Quello in cui entriamo in servizio attivo.>>
<< Che saremo una squadra ufficialmente.>>
<< Potremmo già avere un caso!>>
<< E Alexander magari ci farà la predica perché l'abbiamo fatto aspettare troppo.>>
<< E così arriveremo sulla scena del crimine tutti innervositi perché lui non capirà perché c'abbiamo messo tanto.>> fece Simon abbassando di poco il tono.
<< Non presteremo attenzione a ciò che ci dice perché saremo troppo offesi.>> lo seguì a ruota Magnus.
<< Ci sfuggiranno degli indizi e sfuggiranno anche ad Alec che sarà costretto a fare da balia a noi.>> Continuò l'altro deglutendo a disagio.
<< Allora non metteremo in prigione la persona giusta.>> sbiancò l'asiatico.
<< E a quel punto sarà Alec a sbatterci qui davanti e il Capo Blackthorn ad urlarci contro… >> Simon deglutì ancora asciugandosi il sudore freddo che gli era calato sulla fronte. << Mi spediranno a dirigere il traffico, se mi va bene… >>
<< Mi sbatteranno a Quantico, con i federali… >>
Il silenzio avvolse di nuovo il corridoio. Possibile che nessuno passasse per quelle parti a quell'ora della mattina?
Fu il più giovane ad alzare la testa verso l'amico e cominciare di nuovo a ridere nervosamente.
<< Ci stiamo facendo solo troppe seghe mentali.>> disse ridendo a singhiozzo.
Magnus annuì mostrando un sorriso di plastica. << Davvero troppe, Simon, non c'è nulla da temere.>> Rassicurò lui come sé stesso, vedendo il ragazzo annuire con vigore ma comunque pallido come un cencio.
<< Non succederà nulla.>> ripeté quello come un mantra.
<< Non succederà nulla se non la smettete di fare i bambini ed aprirete quella porta entro i prossimi cinque secondi.>>
I due saltarono sul posto allontanandosi all'uscio dal quale era provenuta la voce imperiosa di Andrew Blackthorn e a cui nessuno di loro riuscì a rispondere.
<< Ci ha sentiti… >> sussurrò Simon terrorizzato.
<< E continuo a farlo, Lewis.>>
Magnus chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, tanto ormai c'erano, no?
Afferrò la maniglia quasi con rabbia e spalancò la porta stampandosi in faccia il suo miglior sorriso accattivante.
Seduto alla sua scrivania, come sempre piena di carte e fascicoli di ogni genere, Blackthorn non alzò neanche lo sguardo da ciò che stava facendo. Pareva che fosse lì già da ore, che stesse facendo quella stessa azione ancora dal giorno prima, leggere e firmare, sbarrare e rinviare al mittente.
Mosse una mano sul piano prendendo alla cieca un fascicolo e aperto a colpo sicuro lesse un paio di righe, cerchiò qualcosa, ci stampò sopra uno dei tanti timbri che aveva davanti a sé e poi lo lanciò con precisione sulla pila più vicina posta sul suo divanetto.
<< Non c'è nessuno motivo di sorridere Bane, è stata ritrovata una donna morta nel suo appartamento, Alexander vi sta aspettando da più di un'ora. E fossi in voi smetterei di usare il cervello per farmi viaggi mentali e lo userei per ragionare sul caso.>>
Alzò la mano sinistra e fece loro cenno d'entrare.
Il sorriso sul volto di Magnus sparì alla velocità della luce mentre sul volto di Simon apparve un'espressione contrita, di chi era certo di aver già cominciato con il piede sbagliato.
<< Scusi Signore.>> mormorò a mala pena.
<< Non siete stati spediti dal preside al primo giorno di scuola, siete adulti e avete un lavoro da fare. Firmate qui e filate dal vostro superiore. >> Prese un altro fascicolo e lo lanciò in cima alla pila sulla scrivania.
<< Sissignore.>> sbuffò Magnus avvicinandosi e bloccandosi poi di colpo.
Blackthorn aveva solo alzato lo sguardo, occhi scuri e penetranti, scintillarono per un momento e lo ammonirono di star attento a ciò che diceva o faceva, gli ricordò quello che aveva combinato con la commissione e in una parte remota della sua testa, del suo inconscio, Magnus ebbe la certezza che in quello sguardo ci fosse anche altro, un'ammonizione ben specifica: “ Non provare neanche a mettere di nuovo Alec nella stessa posizione in cui l'hai messo davanti a quelle persone”, “ attento a quello che fai con lui”, “ se gli fai un altro tiro del genere te la vedrai direttamente con me”.
Magnus deglutì. Tutte quelle frasi sottintese, sussurrate dai riflessi nelle iridi serie, erano le promesse di vendetta di un genitore se si fosse fatto del male al proprio figlio.

Perfetto Fiorellino, pure Blackthorn ti ha preso così in simpatia da volerti proteggere da tutto e tutti.

L'uomo annuì e firmò il documento senza neanche leggere cosa ci fosse scritto sopra, sbrigandosi a passare la penna a Simon per poter filare fuori di lì il prima possibile e raggiungere Alexander. Sperando di non incontrare nel tragitto qualcun altro pronto a fargli la sempiterna ramanzina del “tocca il mio amico e io ti uccido”.
 

 

 

Alec batté nervosamente il piede a terra, si sgranchì le mani e scostò i lembi della giacca per poter controllare che distintivo, pistola e manette fossero al loro posto. Il peso famigliare e confortevole dell'arma contro il proprio fianco gli fece tirare un sospiro di sollievo, gli parve di riavere finalmente tutti i pezzi al proprio posto, gli ingranaggi dei suoi meccanismi erano di nuovo oliati e operativi, era finalmente completo.
Sospirò a quel pensiero: se solo avesse detto al suo medico che dopo sette mesi in cui era stato costretto a letto, alla riabilitazione e al riposo forzato, dopo interventi e processi, solo riavere la propria pistola stretta nella fondina gli permetteva di respirare come prima, beh, forse si sarebbe beccato una paternale infinita. A dir il vero non voleva proprio pensare a cosa avrebbe detto il Dottor Lawson dei suoi pensieri, probabilmente perché era consapevole che il discorso si sarebbe spostato di nuovo sulla sua percezione della vita, del pericolo, del dovere e tutte quelle cose lì.
La verità, nuda e cruda, era che non voleva pensarci, voleva solo ricominciare a lavorare.
Voleva solo poter portare la mano al fianco e sentire subito il calcio della pistola sotto le dita.
La sua bella Glock, che era stata nuova e fiammante quando l'aveva usata durante il Caso Fell, e le sue fidate Beretta, che non lo avevano mai tradito e che ora se ne stavano a riposare dentro i foderi attaccati alle cinghie nel suo cassetto. Una pistola alla volta, non gliene sarebbero servite tre per andare sulla scena di un crimine, soprattutto non di uno come questo.
Lanciò uno sguardo alla grande bolla vitrea che era l'orologio della divisione Omicidi, una cosa di design moderno regalato da un ricco imprenditore sia a loro che alla divisione Persone Scomparse per aver trovato in tempo record la nipote scompara e l'uomo che aveva ucciso la sua migliore amica scambiandola per lei. Era stato uno dei suoi primi casi con una squadra già ben rodata, a cui era stato affidato come assistente per poter imparare qualcosa.
Sorrise al ricordo, aveva a mala pena vent'anni ed era arrivato alla Omicidi da una manciata di settimane, Blackthorn era già Capo della sezione al tempo e lo aveva assegnato per un caso ed uno soltanto, alla squadra di Berry e dei suoi “ragazzi”, tre uomini di circa quarant'anni con più esperienza sulle spalla di molti che erano ancora lì a lavorare.
Berry Petter era un uomo molto tranquillo, suo padre la prima volta lo aveva descritto come una persona “posata”. Pareva quasi un timbracarte, uno di quelli abituati a star in ufficio e far solo lavoro di segreteria, di firmare documenti e autorizzare missioni, un po' come quello che faceva effettivamente il loro Capo. Eppure quell'uomo tanto educato e a modo si era rivelato uno dei migliori istruttori che avesse mai avuto.
Lui e i ragazzi ovviamente.
Gli venne una mezza idea di andare a cercarli e chiedergli qualche consiglio, dopotutto loro tre aveva lavorato assieme per una vita malgrado i loro caratteri completamente opposti, probabilmente erano i più indicati per dirgli come comportarsi, dove mettere il limite da non superare, quando avrebbe smesso di essere “Alec” e quando sarebbe dovuto essere “il Tenente Lightwood”.
Rabbrividì: anche se questa volta la promozione se l'era in qualche modo meritata non credeva sarebbe riuscito a farsi chiamare Tenente, probabilmente avrebbe continuato a presentarsi come il “detective” Lightwood per tutta la vita.
Certo, sia Berry, che Huge, che Gabe lo avrebbero preso in giro fino alla morte ora che anche lui aveva il loro stesso grado, ma almeno sarebbero state prese in giro affettuose.
Storse il naso ai suoi stessi pensieri: che cavolo significava “prese in giro affettuose”? E perché diamine quei due ancora non si vedevano?

Dio, dimmi che non si sono messi a protestare su qualche cavolata. Dimmi che Magnus per questo mese a smesso di far cazzate.

Forse sarebbe dovuto andare a cercarli. Dubitava fortemente che Simon potesse perdersi per il Dipartimento, ma mai dire mai con quei due.
Avrebbe dovuto mettere un micorcip ad entrambi, sì, lo avrebbe decisamente fatto.
Stava giusto pensando a chi potesse chiedere quando un insolito chiacchiericcio gli arrivò alle orecchie, un rumore di fondo che di norma non era mai presente alla Omicidi a meno che non vi fossero famigliari della vittima. Famigliari che si odiavano e discutevano per qualche motivo random.
Alzò un sopracciglio e voltò la testa quel tanto che gli bastava per poter vedere attraverso le pareti di vetro Simon e Magnus avanzare per il corridoio con le teste vicine e le facce imbronciate come- come...due bambini.

In che razza di guaio mi sono andato a cacciare? Ma perché non mi faccio mai gli affari miei e me ne rimango buono e tranquillo a fare quello che ho sempre fatto?

Si passò una mano tra i capelli e poi in faccia, già stanco di quella situazione e da quella giornata ancora non era iniziata. Ed erano solo le…?
<< Avete passato quaranta minuti dal Capo? Cosa siete riusciti a combinare dal cancello al quarto piano? >> chiese loro non appena entrarono nella zona comune delle scrivanie.
Magnus lo guardò quasi oltraggiato mentre Simon gli rivolse uno sguardo imbarazzato.
<< Scusa Alec, è solo che- >>
<< Non è colpa nostra.>> disse di getto l'asiatico avanzando a testa alta e osservando per bene la sala. << Quindi questa è la famosa Omicidi di New York City? Mi aspettavo qualcosa tipo Bones.>>
<< Bones è una patologa forense e lavora al Jeffersonian, Booth invece è dell'FBI. Vuoi andare da lui?>> gli chiese Alec sarcastico alzando di poco l'angolo del labbro quando lo vide sussultare al solo menzionare i federali.
<< Ho sempre preferito Angela. >> fece quello sbrigativo tornando a studiare l'ambiente. Puntò lo sguardo sull'orologio e sorrise. << Almeno c'è qualcuno con un minimo di gusto estetico qui!>>
<< Ce lo hanno regalato, il nostro era un semplicissimo orologio a bottone. >>
Alec si mise ritto in piedi e sistemò la sedia contro la sua scrivania malgrado fosse già perfettamente allineata al piano.
<< Queste qui davanti sono le vostre scrivanie, Simon tu quella alla mia destra, Magnus tu a sinistra.>> spiegò spiccio, nascondendo uno strano senso di soddisfazione nel poter finalmente dare un uso concreto ai due banchi posizionati perpendicolarmente al proprio. Per molto tempo erano stati solo ricettacolo di polvere e punti di appoggio per ammassare scartoffie, documenti, richieste e cose inutili come le tazze del caffè e la brocca che si portava appresso quando faceva i turni notturni.
Da quel momento in poi però nessuno gli avrebbe chiesto se poteva poggiare lì i faldoni di un caso, non avrebbe fatto accomodare i parenti delle vittime o i sospettati davanti a lui per poterli osservare meglio e tener sotto controllo, quel compito sarebbe finalmente andato alla sedia posta vicino alla sua scrivania.
Non si era mai minimamente reso conto di quanto questo piccolo dettaglio lo infastidisse, no, non infastidire, lo… rattristasse? Alec aveva sempre lavorato da solo, se non si calcolano i suoi mesi di formazione, i casi in comune e i tempi dell'esercito, e anche in quei casi più di una volta si era ritrovato da solo davanti al dovere, senza poter contare su una spalla sempre presente. Gli era pesato? Credeva di no. Aveva mai trovato sfiancante non poter discutere con nessuno delle sue teorie? No, ragionava meglio da solo e tra sé e sé, eppure… eppure l'idea di potersi girare in un qualunque momento e chiedere una mano, un documento, un'informazione lo aveva riempito di una segreta gioia che non pensava avrebbe mai provato.
Lì guardò senza vederli davvero e li sentì senza ascoltarli con attenzione mentre discutevano della divisione delle postazioni, mentre Magnus si lamentava del fatto che avrebbe avuto il sole in faccia e Simon gli rispondeva che lui aveva gli occhiali ed avrebbe avuto più problemi se fosse stato lì, che sarebbe stato girato verso l'entrata e non avrebbe potuto fingere di non aver visto passare Luke o Jace. Alec si ritrovò a sorridere sommessamente, un sorriso privato e storto come solo il suo poteva esserlo, tentennante nella sua felicità.
Scosse la testa, i ciuffi scuri gli ricaddero davanti agli occhi e si ripromise per la millesima volta di andarseli a tagliare, poi si sistemò con un gesto automatico la giacca nera e strinse il nodo alla cravatta, schiarendosi la voce nel vano tentativo di attirare l'attenzione dei suoi amici.

Dei miei sottoposti.

<< Ragazzi… >>
<< Non c'entra nulla, perché devo avere questa stupida sedia? Ho già il sole in faccia!>>
<< Allora te la compri da te e te la porti qui, non puoi andare dal Capo Blackthorn e chiedergli di comprarti una poltrona nuova perché questa non è in linea con il tuo stile!>> Simon alzò le mani al cielo e poi se ne portò rapido una al volto per rimettere a posto gli occhiali.
<< Quindi posso fare tutte le modifiche che mi pare?>> chiese Magnus alzando un sopracciglio curato.
<< Certo, tutti noi possiamo fare modifiche. >> si inserì Alec facendo voltare i due verso di lui, uno soddisfatto e l'altro con espressione interrogativa.
<< Davvero? >> chiese infatti Lewis sorpreso.
<< Meno male!>> chiosò invece Magnus prendendo il telefono dalla giacca verde e cominciando subito a scorrere la lista dei contatti alla ricerca del suo arredatore di fiducia.
<< Certo, ad esempio io ne farò alcuni a breve.>> annuì convinto il moro.
<< Oh, ma è magnifico Alexander! E cosa farai? Anche tu dovresti cambiare quella sedia girevole, è terribilmente fuori moda.>>
<< Io pensavo a qualcosa di più pratico e utile. >>
<< Come qualcosa che dimostri la tua attuale posizione? Non lo so, un bel segnaposto in ottone con il tuo nome? >> propose Magnus sempre più coinvolto mentre Simon appariva sempre più confuso.
<< Meglio. >> disse semplicemente Alec avvicinandosi ai due e poggiandogli le mani su di una spalla.
<< Spara fiorellino, siamo tutt'orecchi!>>
<< Pensavo a qualcosa come buttarvi a calci fuori dal dipartimento. Sarebbe estremamente costruttivo e mi permetterebbe di tornare a fare il poliziotto invece che la balia.>>
Le sue mani si sposarono veloci dalle spalle dei compagni alle loro nuche, regalando loro uno scappellotto che dimostrava perfettamente come avesse recuperato la completa forza e manualità al braccio ferito.
I due si piegarono in automatico in avanti sotto la spinta di quel colpo inaspettato e protestarono sonoramente guardandolo scioccati.
<< Fiorellino!>> gracchiò Magnus rimettendosi a posto i capelli indignato.
<< Chiamami ancora così Magnus e ti beccherai il primo richiamo della tua carriera poliziesca. >> lo guardò con uno sguardo serio e risoluto e l'altro non poté far altro che tacere, consapevole di quanto fosse sconveniente chiamarlo in quel modo sul lavoro, sia per rispetto verso la sua posizione sia per evitare che qualche deficiente trovasse terreno fertile per battute sulla sessualità del Tenente.
Annuì sospirando e alzò gli occhi al cielo, giusto per rimarcare che la cosa gli sarebbe costata tanto e lo infastidiva ancor di più.
<< Posso continuare a chiamare Stephen come mi pare pero?>> domandò lamentoso.
<< Andiamo, no! Se mi chiama con dodici nomi diversi poi i testimoni non sapranno mai con chi cavolo hanno parlato!>> il castano si girò verso il suo capo e lo guardò speranzoso.
Alec lo guardò fisso sospirando pesantemente. << Quando vi rivolgerete a sospettati, vittime, indiziati o comunque persone coinvolte nelle indagini e dovrete dir loro qualcosa riguardo ai vostri colleghi, chiunque essi siano, li chiamerete per grado e cognome. Quindi io sarò il Tenente Lightwood, Simon l'agente Lewis e Magnus il Signor Bane, massimo il consulente.>>
<< Perché devo essere solo il Signor Bane? Pretendo almeno di essere il Signor Consulente!>>
Il moro diede loro le spalle senza neanche rispondere mentre Simon assestava un colpo sul braccio a Magnus intimandogli di star zitto e non far arrabbiare Alexander il primo giorno di lavoro.
Si riscosse dalla discussione in labiale che stava avendo con l'amico e si affrettò a seguire l'altro che si stava già dirigendo verso l'ascensore.
<< Abbiamo già un caso, quindi? >> chiese speranzoso. Era vero che si era allenato tanto e che in confronto ad Alec che aveva finito la riabilitazione da un paio di settimane sarebbe dovuto essere più veloce di lui, ma la verità era che con quelle gambe lunghe il detective macinava il doppio delle sue distanze.
<< Non esserne così entusiasta Lewis, avere un caso per noi significa che qualcuno è morto e malgrado sia il nostro lavoro è assolutamente sconveniente mostrarsi così felici. Non farlo. >> lo freddò pigiando i pulsanti di chiamata di tutti e due gli ascensori presenti.
Puntò lo sguardo sulle lastre lucide solo per non girarsi e vedere la faccia impanicata di Simon che chiedeva a Magnus se fosse stato troppo maleducato il suo comportamento.
Si concesse un minuscolo sorriso e drizzò meglio la schiena: forse non sapeva ancora per precisione quale fosse il limite tra l'essere Alec e l'essere il Tenente Lightwood, dove mettere i paletti per distanziarsi dai suoi amici ed essere il loro capo, ma dare risposte così dure e sintetiche, volte a far credere agli altri di aver appena fatto un errore madornale lo divertiva come poche cose.


Dopotutto era sempre un Lightwood, che fosse un uomo di legge o meno, la bastardaggine era nei suoi geni.

 


 

 

Il viaggio in macchina era durato relativamente poco, il traffico era stato clemente quella mattina e l'appartamento della vittima si trovava dalle parti di Tribecca, sulla Chambers St. quindi non troppo distante dal Dipartimento.
Simon aveva passato tutto il tempo a ripetersi le direttive da seguire, le regole base. Aveva consegnato un paio di guanti a Magnus e gli aveva anche provato a dire di mettersi i copri-scarpe, ma se l'uomo aveva ben accettato i primi rimase impassibile sui secondi: erano scarpe italiane quelle che portava, col cavolo che le avrebbe coperte con delle stupide buste con un elastico.
Alec invece aveva guidato in silenzio, senza neanche dare la soddisfazione all'asiatico seduto affianco a lui, di accendere la sirena o le luci.
<< Sono per le emergenze, Magnus, quando bisogna correre davvero, non per saltare la fila al semaforo. >>
<< Ma che ce l'hai a fare se non la sfrutti?>>
<< Non sarai così felice quando dovremmo usarla.>> gli disse pacato l'altro senza staccare lo sguardo dalla strada.
Il collega – che strano suono che aveva quella parola anche se semplicemente detta nella sua testa- lo aveva guardato sollevando a mala pena il sopracciglio.
<< Perché?>>
<< Perché probabilmente verremmo sballottati malamente come successe a me quando andammo a casa sua dopo quella telefonata.>> s'intromise Simon tirandosi avanti sino a sbucare tra i due sedili anteriori.
<< Rimettiti bene, ce l'hai la cintura?>> chiese Alec con ferma gentilezza.
<< Ci sono già stato in macchina con fiorellino quand- Ahi!>> Magnus parlò tranquillamente sopra ad Alec, prima di girarsi indietro ed incenerire il castano con lo sguardo.
<< Ho ucciso per molto meno Lewis, non t'azzardare a toccarmi mai più i capelli.>> fece minaccioso, ma Simon non ne parve poi così sorpreso.
<< Ti tirerò i capelli ogni volta che chiamerai Alec “fiorellino”, alla fine te lo toglierai sto vizio.>> disse soddisfatto. << O ti farò diventare pelato. >> constatò poi pensieroso.
Magnus continuò a fissarlo male, digrignando i denti in una smorfia ferina. << Cosa siamo? Alle elementari? Mi tiri i capelli? >>
<< Sì, siamo alle elementari se tirarti i capelli servirà a non farci fare figure di merda.>>
<< E se io invece ti tirassi una testata sul naso?>>
<< E se io invece tirassi entrambi giù dall'ultimo piano del Dipartimento quando ci torniamo?>> Alec parlò con voce paca mettendo la freccia ed accostando sul marciapiede su cui erano radunate già due volanti della polizia, un'ambulanza, il camioncino della scientifica e quello del coroner.
Si parcheggiò con un movimento fluido e spense la macchina, slacciandosi la cinta e scendendo come se non ci fosse nessuno con lui.
Magnus e Simon si guardarono un attimo interdetti, indecisi se seguirlo o aspettare che fosse lui a chiamarli, pensando che forse Alec li aveva mollati lì in quel modo perché avevano litigato ancora come due mocciosi.
<< Dici che siamo in punizione o ci si è dimenticati?>> chiese titubante Simon sporgendosi verso il finestrino.
<< Dico che forse come servirà del tempo a noi per abituarci alla vita da agenti servirà del tempo a lui per abituarsi al fatto che non è più solo.>> scosse la testa e scese anche lui dal veicolo. << Forza, andiamo prima che il capo si arrabbi o torni indietro mortificato per averci piantato in asso.>>
 

 

 

Alec ascoltò l'agente di pattuglia davanti al portone del palazzo, aveva risposto lui alla chiamata della radio per un 10.52 come assistenza all'ambulanza giunta sul posto che aveva comunicato la presenza di una piccola folla di curiosi attorno al punto interessato.
Si guardò attorno scrutando la strada e tutte le possibili vie di fuga, Chambers St. era un vialone ampio e pieno di svolte ed incroci, un possibile criminale sarebbe potuto scappare in una qualunque direzione, sempre se di questo si trattasse.
<< Cosa abbiamo Capo?>>
Magnus apparve al suo fianco, ricevendo un'occhiata confusa da parte dell'agente che si girò per chiedere tacitamente ad Alec se quello strano individuo vestito con un completo decisamente inadatto per un sopralluogo fosse con lui.
Il moro fece cenno affermativo con la testa, solo questo, poi si congedò e oltrepassò l'entrata del condominio, guidando la sua squadra fin al piano dove si trovava la vittima.
<< Stephanie Gerres, quarantadue anni, sposata con Harold Gerres. È stata ritrovata da un'amica che come ogni giorno veniva a svegliarla alle sette. >> cominciò a sciorinare con professionalità, sebbene si sentisse un poco a disagio a parlare ad alta voce. Di solito era lui quello che stava in silenzio e si faceva dire le generalità del caso, ma per quella prima volta sarebbe toccato a lui, magari più avanti avrebbe mandato Simon a interessarsi e comunicargli cosa avevano scoperto gli agenti sopraggiunti per primi sul luogo.
<< Che razza di amico sei se vieni a svegliarmi alle sette di mattina?>> domandò Magnus storcendo il naso.
<< Evita le battute, stiamo lavorando. >> lo freddò immediatamente. << La vittima era malata, a quanto dice il marito soffriva di pressione bassa, anemia, insonnia, paranoia e anche da alcuni disturbi ossessivi. Prendeva molti medicinali e aveva il terrore di non svegliarsi, così aveva chiesto ad un amica di andare ogni giorno ad accertarsi che si fosse alzata.
Non entrava mai in casa, era sempre chiusa a doppia mandata e bloccata con dei chiavistelli, la donna bussava, suonava il campanello e in rari casi la chiamava. La vittima era così ansiosa da aver paura di non sentire l'amica venuta per lei e quindi di conseguenza si svegliava prima.
Questo avveniva quando il marito era fuori casa, se no ovviamente spettava a lui andarla a chiamare e accertarsi che fosse sveglia.>>
Salì gli ultimi gradini e si avviò per un corridoio che portava ad una delle ultime porte sul piano.
L'uscio era spalancato e marcato con un nastro di plastica giallo su cui erano stampate a lettere nere le iniziali del dipartimento della città e la scritta “zona interdetta”.
Alec allungò una mano per sollevare la banda quando un'altra mano giunse in suo aiuto e la spostò per lui. Un agente in divisa aspettò pazientemente che si riprendesse dallo stupore iniziale e che passasse, come se fosse abituato a farlo con tutti i detective che gli capitava d'incontrare.

No, non con i detective, con i tenenti. Sono un tenente ora.

<< Salve Tenente Lightwood. >> lo salutò infatti formalmente l'uomo, che forse aveva anche qualche anno in più di lui, che probabilmente era anche più grande di Magnus.
<< Non c'è molto da dire apparentemente. >> cominciò immediatamente senza aspettare nessun altro. << La vittima è stata ritrovata da un'amica, come le avranno già detto, non rispondeva ne alla porta né al telefono e si è preoccupata. Ha chiamato un'ambulanza e poi siamo stati chiamati noi. I paramedici sono stati costretti a sfondare una finestra ed entrare dalla scala antincendio. >> spiegò indicando i frammenti di vetro a terra vicino alle imposte del salone. << La donna era nel suo letto, overdose di tranquillanti, non hanno potuto far nulla. Aspettiamo il responso del coroner che la sta visitando ora, ma la morte dovrebbe risalire all'incirca a quattro ore fa. Alle sette e venti è stata effettuata la chiamata al 911, i paramedici sono arrivati in un quarto d'ora circa, hanno dovuto allungare il giro per evitare dei rifacimenti stradali e sono riusciti a raggiungere la vittima attorno alle… sette e cinquantadue, non sono riusciti a trovare qualcuno che gli aprisse la porta per le scale d'emergenza e sono dovuti passare dalla finestra di un vicino. L'hanno lasciata dove l'hanno trovata, non hanno neanche provato a rianimarla, era già morta da parecchio, era sotto le coperte, il medico legale dice che il calore potrebbe aver sballato un poco l'orario anche se era già presente il rigor mortis, ma doveva ancora fare il test, sono sicuro che saprà darle informazioni più dettagliate. >> Terminò quello dopo averlo scortato sino alla porta della camera da letto dove gli uomini della scientifica si muovevano con efficienza data dall'abitudine nell'eseguire sempre le stesse azioni.
Alec studiò la scena davanti a lui con attenzione: il letto matrimoniale era affiancato da una coppia di comodini ed una di lampade da terra. Le coperte spostate mostravano il corpo pallido ed esanime di una donna dall'aspetto malaticcio ma rilassato, probabilmente i tranquillanti avevano fatto il loro dovere facendola addormentare senza che si rendesse effettivamente conto di cosa le stesse succedendo. I capelli chiari erano stati sistemati con attenzione, quasi come se la vittima si fosse acconciata al meglio per il suo ultimo sonno.
Accucciato sul pavimento vicino a lei vi era un ometto di una cinquantina d'anni, pinguto e dalle guance rosee e floride su cui non spiccava neanche la più piccola ombra di barba. Indossava un paio di pantaloni neri dall'aria comoda ed una giacca a vento blu con la scritta “CORONER” in giallo acceso. I piccoli occhietti porcini erano nascosti dietro la linea morbida del viso e la fine intelaiatura degli occhiali rotondi. Si passò il braccio sulla fronte come se controllare il calore corporeo della vittima gli avesse arrecato grande fatica e facendo forza su un ginocchio si rimise in piedi e si voltò verso di lui.
Henry Crocker, soprannominato anche Henry Cracker o “il Kraken”, era uno dei medici legali del Dipartimento, il secondo in carica per la precisione, il braccio destro del “Maestro”, una serie di stupidi ed inquietanti nomi che rendevano ancora più strani tutti i patologi di cui poteva usufruire il corpo di polizia di New York. Da parte sua Alec poteva dire di esser sempre stato piuttosto simpatico all'uomo, che di anni ne aveva quasi sessanta ad esser onesti, forse per il fatto che sua sorella fosse una delle sue dottorande più promettenti, o forse no visto che Jace lo degnava a mala pena di uno sguardo quando capitava in obitorio; probabilmente allora tutta la sua simpatia derivava dal fatto che Alec si fosse sempre comportato nel modo più gentile possibile, attendendo con pazienza i risultati di ogni analisi senza mai metter fretta ai medici e alla sezione scientifica.
Oh, e perché lui continuava a dargli del lei come faceva con i suoi superiori, probabilmente anche per questo.
L'uomo gli sorrise gioviale, tendendo le lisce e lucide guance e allargando le braccia come se volesse abbracciarlo, cosa che per altro fece subito dopo sotto lo sguardo sbalordito di Simon e quelli preoccupati del resto della squadra li presente.
<< Alexander! Ragazzo mio, che piacere rivederti finalmente in pista! Mi era mancata terribilmente la tua silenziosa ed efficiente presenza, gli altri detective non sono bravi come te nel risolvere i casi, sappilo.>> disse allegro stringendo a sé il giovane e battendogli sonore pacche sulla schiena. Poi se lo allontanò e lo scrutò con attenzione, l'occhio clinico puntato sulla sua spalla e sul suo portamento.
<< Direi che hanno fatto un bel lavoro, sia i medici che i fisioterapisti, hai un allineamento a dir poco perfetto.>> gli diede un altra pacca sul braccio e poi alzò lo sguardo dietro di lui, stringendo la presa sul bicipite del giovane che, imbarazzato da quel caloroso ben tornato, stava borbottando ringraziamenti sconclusionati.
<< Loro sono nuovi.>> constatò l'uomo cercando un fazzoletto nella tasca della giacca e asciugandocisi un immaginario sudore sulle tempie. << Anche se forse il giovanotto con gli occhiali l'ho già visto. Sei venuto a far visita alla bella Isabelle per caso?>>
Simon lo guardò senza sapere cosa dire, senza sapere se rispondere e come farlo, il suo sguardo saettava dalla figura ingombrante del medico a quella semi nascosta della vittima che giaceva a soli pochi passi da loro. Era giusto fare conversazioni del genere davanti ad un cadavere?
Aprì la bocca balbettando qualcosa di appena accennato e se fosse stato più attento, se non fosse stato così concentrato sull'idea di essere nella stessa stanza di un morto, avrebbe scorto il lampo di consapevolezza negli occhi di Alec, che si affrettò a chiedere all'uomo di spostarsi nella sala da pranzo.
Il dottor Crocker annuì anche lui comprensivo e si incamminò ondeggiando verso l'altra sala, tendendo comunque la mano guantata a Simon che la strinse titubante e scosso.
<< Prima volta sul campo, vero? >> gli sorrise gentile. Poi si voltò verso l'ultimo membro di quella curiosa banda, un giovanotto che pareva più uscito da un catalogo di moda che non da un ufficio di polizia, e porse la mano anche a lui.
<< Dottor Henry Crocker, da quando la Omicidi si veste così bene? Credevo che solo la Buon costume e i Cavalieri di Gucci vestissero in questo modo.>>
Magnus arricciò le labbra in un sorriso compiaciuto mentre stringeva con vigore la mano grassoccia dell'uomo che stipata in quel guanto di lattice pareva tanto un insaccato.
<< Sono solo un consulente, Dottore. Ma mi parli di questi Cavalieri di Gucci, Alexander non me ne ha mai accennato.>> disse interessato e soddisfatto nel veder ridacchiare il medico.
<< Non farti strane idee, Magnus. I “Cavalieri di Gucci” è un modo un po' offensivo che hanno le altre divisioni nel definire i ragazzi del reparto della OCCB che si occupa di contraffazione di merci di valore. >> Alec distrusse immediatamente tutti i suoi sogni con poche parole e l'uomo lo guardò scontento.
<< Vuoi farmi credere che il cane da guarda si occupa anche di queste cose? >>
<< Cane da guardia?>> Crocker pareva piuttosto interessato al modo del tutto impudente che aveva Magnus di parlare ma il tenente non aveva né il tempo né la voglia di mettersi a spiegargli le circostanze del caratteraccio che si ritrovava.
Lasciò per un attimo i due a chiacchierare come amabili comari e si guardò attorno, allungando quasi distrattamente una mano verso Simon per lasciargli una carezza leggera sul braccio e farlo riemergere dai suoi pensieri.
<< Non ci pensare. >> gli soffiò piano, << So che è difficile da fare, ma non pensare a lei come se fosse stata una persona.>>
Simon sgranò gli occhi a quel consiglio del tutto inaspettato. Che significava che non doveva vederla come una persona? Lo era, lo era stata diamine!
Ma il moro scosse la testa senza neanche guardarlo negli occhi, i suoi erano puntati sulle schegge di vetro sul pavimento, sulla porta aperta da cui erano entrati e su cui era ancora teso il nastro giallo. Volavano sui soprammobili e sulle foto sparse sulle mensole, sulla cucina e sul tavolo vuoto.
<< Non ti affezionare ad una vittima Simon, impara fin da ora a non farlo e tieniti in salvo per quelle due volte in cui te lo concederai.>> continuò a sussurrare con voce lontana.
<< Che significa?>> chiese lui confuso.
Quello si strinse nelle spalle, la giacca nera e dritta, perfetta come lo era sempre stata indosso a lui, si tese per un attimo lasciando lo scorcio veloce della parte inferiore della fondina.
<< Prima o poi capiterà a tutti un caso che ti entra nelle ossa, che non puoi far a meno di prendere sul personale. Succede, non puoi farne a meno, ma puoi far sì che non sia il primo. >> si voltò finalmente a guardarlo e Simon giurò di aver visto la fiamma blu di una torcia brillargli per un attimo negli occhi chiari. << Siamo poliziotti, il nostro compito è consegnare i criminali alla legge, dare giustizia alle vittime, ti sembrerà sempre che il caso a cui stai lavorando sia semplice, sia importante o sia stupido, capiterà che darai più importanza ad uno e meno all'altro. Tutti hanno lo stesso valore, devi impegnarti in tutti allo stesso modo. Ma non cominciare ad empatizzare con le vittime, se lo fai l'assassino avrà un potere non indifferente su di te. Se poi empatizzi con il colpevole, allora sarà anche peggio. >>
Gli diede le spalle lasciandolo lì, in mezzo alla sala a riflettere su quelle parole bisbigliate come un segreto.
Simon lo seguì con lo sguardo, cercando di capire come fosse possibile fare ciò che l'altro gli aveva appena detto di non e fare e come fosse possibile il contrario.
Questo non te lo dicevano durante la preparazione psicologica.
Cercò di riprendere il controllo della situazione e di fare mente locale: alla sua destra Magnus ed il professore di Timmy Turner grasso – diamine quel giorno era tutto una grandissima citazione- discutevano di non sapeva bene cosa, tese un orecchio e scoprì che il centro del loro interesse era Lucian e la sua somiglianza con un cane da guardia. Magnifico, gli mancavano solo quei due che fraternizzavano. Dall'altra parte, ormai giunto in cucina, Alec osservava con attenzione i piani puliti e liberi d'ingombri.
Lewis saltò sul posto e diede una manata a Magnus, richiamando la sua indignata attenzione e precipitandosi a seguire il capo.

Non mi ci abituerò mai.

<< Che vuoi Steven?>> gli chiese seccato l'asiatico.
<< Oh, è questo il tuo nome ragazzo?>> chiese invece il medico sorridendogli curioso.
<< No signore, mi chiamo Simon Lewis, ma Magnus si diverte a chiamarmi con qualunque nome tranne che non il mio. >> spiegò spiccio ed impacciato.
Lui annuì. << Beh, è una grande dimostrazione d'affetto.>>
<< Lei dice?>>
<< Cosa? No, mi diverte solo. >>
<< Vedi Magnus, secondo la psicologia- >> iniziò il dottore avanzando faticosamente con loro.
<< Dottor Crocker mi perdoni l'interruzione. >>
Il terzetto si voltò verso Alec che ora, tenendo l'anta della credenza aperta con una penna, esaminava la serie di stoviglie allineate nel mobile.
<< A che ora è morta la vittima, nel modo più preciso che può dedurre al momento.>>
Simon tirò immediatamente fuori un taccuino nero che si era premurato di andar a comprare assieme a Clary per sembrare più credibile come investigatore. Malgrado fosse ancora un po' stordito dalle parole dell'amico, dalla presenza di un cadavere, un cadavere vero come non ne aveva mai visti, un barlume d'eccitazione si riaccese in lui quando si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto appuntarsi tutti gli indizi per riuscire a trovare il colpevole di quel delitto.
<< È morta tra le 6.40 e le 7 di mattina, ma se vuoi la mia opinione ragazzo, non avrai molto da investigare.>> disse con aria confidenziale. << In ogni caso, vi lascio al vostro lavoro. È stato davvero un piacere conoscerti Magnus, vienimi a far visita ogni tanto, a volte l'obitorio è un vero mortorio! E anche te Steven! >>
<< Veramente sarebbe Simon… >> provò debolmente il ragazzo.
<< Ma mi perdonerete se vi dico che il vero piacere è stato rivedere Alexander all'opera!>> Il dottore lo ignorò completamente e se ne andò verso l'uscita traballando e ordinando a gran voce ai suoi assistenti di preparare il corpo solo quando il detective – il tenente- avrebbe finito il sopralluogo.
Simon lanciò un'occhiataccia a Magnus che invece se la rideva sotto i baffi.
Doveva ammettere che non si sarebbe aspettato di trovare gente così affabile nella polizia, certo, l'uomo era un medico, un patologo che faceva terribili battute su obitorio e triste compagnia dei morti, ma questi erano dettagli.
Il medico pachidermico era anche stato così ardito da abbracciare il suo Fiorellino, il ché era tutto dire. Per di più quel piacevole intermezzo gli aveva permesso di dimenticare dove si trovasse, che fosse su una scena del crimine, che quella era la casa di una normale coppia in cui era stato ritrovato un cadavere.

Proprio come è successo a casa mia.

E non importava che il corpo fosse quello di uno dei proprietari di casa o che non avesse un buco in fronte, Magnus si trovava in un appartamento dove era morta una persona, punto.
Aveva visto lo sguardo vacuo di Simon che per la prima volta posava gli occhi su un cadavere, aveva visto con la coda dell'occhio Alec dirgli qualcosa che pareva averlo occupato abbastanza a ragionarci su da dimenticarsi della vittima per un attimo. Non era una donna morta a spaventarlo, Dio solo sapeva quanti ne aveva visti di morti in vita sua, e non c'entrava niente neanche il fatto che gli ultimi che aveva visto mesi addietro fossero di uno stronzo che non meritava di morire così facilmente e di un altro stronzo che invece non meritava di morire e basta, non c'entrava niente… o almeno così credeva.
<< Allora, cosa si fa adesso? Nei film questo è il momento in cui si cominciano a fare le prime deduzioni, giusto?>> si strofinò le mani e fece un passo avanti, entrando nella cucina che era una zona neutra e che non dava il minimo indizio su ciò che era successo qualche camera più in là.
Si guardò attorno e si bloccò nel ritrovarsi fissato da un paio d'occhi accecanti malgrado non ci fosse molta luce nell'appartamento. Solo una sguardo e Magnus realizzò una sconcertante verità: Lui sa.
Poteva comportarsi con tutta la disinvoltura di cui era capace, nascondere quel fondo d'inquietudine che dava l'idea stessa di un caso di omicidio, ma Alexander lo avrebbe sempre trafitto con quegli occhi cristallini e inscalfibili e gli avrebbe scrutato l'anima senza possibilità per lui di nascondergli alcun ché.

Magnifico.

Lo vide sospirare piano, concedendogli per l'ennesima volta di fingere di credere alla sua aria baldanzosa. Abbassò la testa lasciando che i capelli gli cadessero sulla fronte e poi se li rispinse indietro.
<< Adesso si fa il punto della situazione da cui partiremo per cercare indizi. Cosa sappiamo?>> chiese loro con la sua solita pacata e paziente gentilezza.
Simon saltò su come una molla, concentrato nell'atto di ricordare tutto ciò che il detective avesse detto loro prima.
<< La vittima è una donna di quarantadue anni che soffriva di lievi patologie fisiche e di alcune più pesanti mentali.>>
<< La pressione bassa e l'animina sono cose estremamente fastidiose e anche pericolose Sigfrid, se hai un calo di pressione mentre guidi ti vai a schiantare e ti ammazzi. Se non ammazzi anche qualcun altro… >> lo interruppe subito Magnus.
<< Sono sopravvissuto a te in macchina, la pressione bassa è una cosa da niente.>>
<< Non stiamo qui a discutere della gravità delle malattie della vittima o se fossero o meno più pericolose di altre. Sul fronte medico non ci pronunceremo se non dopo aver letto il referto del coroner. >> li stroncò Alec. Se avessero discusso in questo modo per ogni caso non ne avrebbero mai chiuso uno.
<< Giusto. Il coroner, okay. Allora. >> Simon cominciò ad incartarsi sulle sue stesse parole e l'asiatico alzò gli occhi al cielo prendendo la parola.
<< Soffriva di vari disturbi di cui non discuteremo e prendeva dei sonniferi per dormire. Aveva però il terrore di non svegliarsi e così aveva chiesto ad un'amica di venire qui a controllare ogni mattina alle sette. Ma visto che non era già abbastanza paranoica così aveva anche paura di non sentire la sua amica arrivare e si svegliava prima. Oggi non si è svegliata, non rispondeva al telefono e così l'amica ha chiamato l'ambulanza. I paramedici hanno sfondato la finestra per entrare perché la porta era chiusa con dei chiavistelli. Corretto, tenente? >> concluse sorridendo furbo e battendo le ciglia solo nel vano tentativo di irritare Alexander. Vano, per l'appunto.
Il giovane lo fissò impassibile e poi si voltò verso Simon.
<< Cosa manca?>>
Preso in contropiede l'altro aggrottò le sopracciglia pensieroso. << Nulla, ha detto tutto.>> annuì concorde con un sempre più soddisfatto Magnus.
Il detective della omicidi annuì e si allontanò dal ripiano lasciando l'anta aperta.
<< Perché la donna ha chiamato l'ambulanza e non la polizia? >> chiese poi girandosi a fronteggiarli.
I due lo guardarono sorpresi da quella domanda, poi Magnus si strinse nelle spalle con fare ovvio: << Se era malata probabilmente avrà pensato che si fosse sentita male e che chiamare l'ambulanza fosse la cosa migliore. >>
<< Quando si telefona al 911 risponde un centralino che smista le chiamate ai veri enti. Se una donna denunciasse una situazione come questa le verrebbero richieste le patologie della paziente e sarebbe stata inviata qui l'unità più consona. Se la telefonata è per una donna incinta che sta partorendo non arriva una comune ambulanza ma una così detta “cicogna”, munita di incubatrice. >> cominciò a spiegare, << Quali erano quelle della vittima? Erano tali da necessitare l'intervento di un'ambulanza? Cosa ha detto precisamente la donna al centralinista che ha preso la sua chiamata?>>
Magnus lo guardò serio, domandandosi improvvisamente perché per insonnia, paranoia e pressione bassa fosse stata chiamata assistenza medica e non la polizia. Ma la cosa gli sembrava davvero scontata.
<< Stava comunque male… >> provò vedendosi subito bloccare dallo scuotere di testa di Alec.
<< Pensaci bene. Simon, cosa ti hanno risposto a Natale quando hai chiamato il 911? >> domandò poi girandosi verso l'altro.
A quel ricordo il giovane arrossì e si sistemò gli occhiali sul naso con un gesto nervoso.
<< Non è che lo ricordi tanto bene… >> provò a farfugliare.
<< Ti hanno detto “Qui 911, come posso aiutarla”. È la frase di rito. Dalla risposta che si da' si ottiene l'ausilio di forze dell'ordine diverse. C'è un incendio, arrivano i vigili del fuoco. C'è una rapina, arriva la polizia. C'è un incidente, arrivano polizia e ambulanza. Una donna è chiusa in casa e non risponde alle chiamate di un'amica... >> lasciò al frase in sospeso, attendendo che gli altri la completassero.
<< Chiedo perché ciò la preoccupa, se la donna è in pericolo. Se non ti vuole aprire semplicemente non è una buona scusa.>> fece Magnus.
Alec annuì. << Assicuro di essere un'amica, spiego che prende dei sonniferi per dormire. >>
<< Potrebbe averne presi di più o averli presi più tardi del solito orario e subirne ancora gli effetti. >> s'intromise Simon più coinvolto di prima, come se stesse racimolando i pezzi.
<< Ma se dico anche che soffre di paranoia ? >>
Simon assottigliò le sguardo e poi s'illuminò. << Se una donna è chiuse dentro casa sua e non risponde chiamo i pompieri per far sfondare la porta. Magari mando anche dei paramedici per sicurezza ma...sì, i pompieri sono i primi che mando.>> disse con più sicurezza.
Il moro annuì per l'ennesima volta e lo spronò a continuare.
<< Ma non ha senso, scusate. >> disse improvvisamente Magnus. << Se mi dicono che è chiusa in casa, che è malata, io chiamo i paramedici, non importa che tipo di malattia abbia. Prendeva dei sonniferi gente, c'è rischio che ne possa aver presi troppi proprio com'è successo e che sia andata in overdose!>>
Alec si voltò verso di lui, fissandolo dritto negli occhi per trasmettergli tutta la serietà di quella situazione e cercare di farlo arrivare alla stessa conclusione che lentamente si stava facendo strada in Simon.
<< Solo le procedure standard, è una gerarchia di importanza che viene applicata ad ogni situazione. Una persona intrappolata in un edificio, non importa se volontariamente o meno, in condizioni non gravi, viene liberata dai vigili del fuoco, che hanno attrezzatura ed addestramento adeguati a fare irruzione con la forza in uno stabile. Con le premesse che abbiamo avuto, la descrizione delle patologie della vittima, sappiamo che era paranoica, che aveva bisogno di tranquillanti, una persona che si chiude in casa con chiavistelli e multiple mandate di chiave, cosa ci suggerisce? Ti fa intuire che avrebbe potuto prendere i suoi medicinali ad un orario diverso? Qualcuno di così ansioso da svegliarsi prima della sua sveglia per paura di non sentirla?>>
L'uomo scosse la testa e fece per protestare ma Alec lo bloccò.
<< Esatto. La paranoia ti porta a rifare le stesse azioni più volte per paura di non averle fatte, ma non di saltare quegli orari in cui sai di dover eseguire una data azione. Cosa ci rimane?>> chiese poi rivolto a Simon.
<< Che ne abbia presi troppi?>> provò quello cauto.
Alec gli fece un cenno affermativo. << Che ne abbia presi troppi. Chiamo il 911, gli dico che la mia amica prende dei sonniferi e che ho paura che ne abbia presi troppi, che è paranoica e tutto il resto. Cosa mi risponde il centralino?>>
Vi fu un attimo di silenzio tra i due che subito dopo provarono a chiedere quale marca fosse il farmaco, che dosaggio avessero le pasticche, vedendosi sempre scuotere la testa in diniego.
<< So che non siete abituati a questo genere di ragionamenti, lo farete con il tempo, ma pensateci, so che ci potete arrivare.>>
Simon sospirò e abbassò lo sguardo sul suo taccuino, rileggendo le informazioni che aveva scribacchiato male fino a quel momento.
Poi Magnus alzò le mani in segno di resa. << Okay, mi arrendo, dimmi la soluzione. Andiamo Alexander, la risposta ovvia è che gli dico che ho paura che ne abbia presi troppi!>>
<< Simon. >> disse di colpo il moro voltandosi vero l'altro. << Cosa fate tu, Max e Izzy quando dovete prendere una medicina?>>
L'altro alzò un sopracciglio. << Controlliamo il dosaggio più volte. >> poi vedendo lo sguardo interrogativo dell'asiatico si sbrigò a spiegarsi. << Iz perché è un medico e sa quanto sia importante calibrare bene la dose, io e Max perché è successo un paio di volte che senza occhiali o con quelli della gradazione sbagliata abbiamo letto male.>>
<< E siete paranoici?>> continuò Alec.
<< No, siamo solo attenti.>>
<< Ci stai dicendo che una persona paranoica non avrebbe mai sbagliato la dose, okay. Cosa c'entra con chi è arrivato per primo sul luogo?>> fece l'altro spazientito.
<< Quindi qualcuno l'ha avvelenata? Beh, ci sta tutta, hanno chiamato noi della omicidi…. >>
<< Simon sto per rispedirti in accademia a calci, in che condizioni si chiama la omicidi?>>
<< Quando c'è stato un omicidio?>> disse beffardo Magnus.
<< Quando c'è un cadavere. >> precisò Simon guardando il collega come se fosse scemo. Poi si bloccò sul posto. << La finestra è rotta perché sono dovuti passare di lì per soccorrerla, era tutto chiuso se no.>>
Magnus alzò un sopracciglio. << Mi stai dicendo che l'assassino potrebbe essere ancora qui?>> si guardò attorno con circospezione, prima che Alec gli lanciasse un'occhiata così significativa da farlo zittire.
<< Non riesco a crederci. >> borbottò Simon, << Mags, siamo due deficienti.>>
<< Parla per te Samuel, io son- >>
<< No, ascolta, siamo stati così occupati a cercare di capire perché non hanno chiamato i pompieri che ci è sfuggita la cosa più ovvia di tutti. C'è da dire Alec, che non ce l'hai fatta semplice pure tu, eh.>>
<< Scusate, credevo che almeno uno di voi conoscesse le basi del soccorso Statale. >> sospirò lui accusatorio.
Simon ebbe la buona decenza di arrossire un po' ma poi si riprese e si volse verso Magnus tutto eccitato.
<< Mags, hanno dovuto sfondare una finestra perché l'appartamento era tutto chiuso. Lei era paranoica, viveva male, ha preso più sonniferi del solito, volontariamente e hanno chiamato l'ambulanza perché era il soccorso più indicato in questo momento! La sua amica avrà detto che la vittima poteva aver preso più farmaci del solito, che credeva fosse andata volontariamente, in overdose e se lo ha fatto volontariamente- >>
<< Che sarà lo stesso aggettivo che userò quando mi chiederanno perché ti ho strangolato, che mi hai portato a far tanto volontariamente.>>
<< Vuol dire che si è suicidata! La sua amica aveva paura che si fosse uccisa e per questo hanno mandato subito l'ambulanza, per poterla salvare! >>
Magnus lo guardò per un secondo in silenzio, poi annuì.
<< E sì, siamo due deficienti. Ma ha ragione Sonny Fio- tenente! Non l'ho detto! >> fece subito allontanandosi da Simon prima che potesse tirargli ancora i capelli. << Non ci hai reso la cosa facile, perché non ci hai fatto notare che era tutto chiuso? E perché non ti hanno detto che la tipa credeva che la morta si fosse suicidata?>>
Alec lo rimproverò con uno sguardo freddo. << Si dice “la vittima” Magnus, porta rispetto. Ve l'ho detto mentre salivamo che hanno dovuto far irruzione dalla finestra e lo ha ripetuto anche l'agente che ci ha accolti. E che credevano fosse suicidio a me lo hanno detto appena siamo arrivati, mentre voi dovevate ancora scendere.>> finì lapidario.
<< A proposito di questo, dovevamo seguirti subito o- >> cominciò Magnus pensieroso.
<< Non dovete mai dare per scontato che se c'è un cadavere deve esserci per forza un assassino.
Fate un giro della casa e raccogliete delle prove. Poi torneremo in centrale per interrogare il marito della vittima e l'amica che l'ha trovata. Simon, trova un agente disponibile e fatti accompagnare a prendere le deposizioni dei vicini.>> ordinò ignorando completamente l'asiatico e rimettendosi ad esaminare la cucina.
Simon lo guardò pensieroso. << Non esaminiamo assieme la scena?>> chiese piano.
Magnus invece si lasciò uscire dalle labbra un verso di scherno. << Si è suicidata Steve, che cosa vuoi esaminare?>> fece retorico.
<< Magari tu non lo sai, ma anche i suicidi si devono dimostrare.>> replicò con una punta di acidità.
Alec li lasciò a borbottare tra di loro, portando lo sguardo sul ripiano del lavello.
C'erano tracce d'acqua dentro, probabilmente la vittima si era alzata, era andata a prendere un bicchier d'acqua per ingoiare le pasticche e poi era tornata a letto.
Si sfilò un guanto dalla tasca dei pantaloni e lo usò per prendere un bicchiere da dentro lo scolapiatti, chiamando educatamente un agente della scientifica e consegnandogli la prova, lanciò un ultimo sguardo al tutto e richiuse l'anta per avvicinarsi al frigo, su cui erano attaccati ordinatamente una serie di fogli, una lista della spesa, una brochure di un convegno, ed esaminarne l'interno.
<< Quindi non cerchiamo indizi assieme?>> la voce preoccupata di Simon lo fece riemergere dalla contemplazione di una bottiglia di birra aperta nel portabottiglie. Si voltò verso di lui e scosse piano al testa, concedendogli comunque un mezzo sorriso.
<< È un caso piuttosto semplice, facendo da soli vi allenerete a scovare particolari di ogni genere. In ogni caso, se vi sfuggisse qualcosa, ci sono io. Andate, forza.>> li spronò con un gesto del capo e attese solo che i suoi titubanti colleghi si spargessero per la casa.
Lì tenne d'occhio per un po', specie il colorito pallido di Simon vicino al letto su cui era stata ritrovata la vittima e lo guardo vacuo di Magnus puntato verso i vetri a terra, come se stesse ricordando altri frammenti di altro tipo sparsi per un'altra casa.
Sospirò: prima o poi avrebbero dovuto parlare della sparatoria di quell'Agosto, discuterne con chi era presente aiutava molto, perché aveva vissuto la stessa cosa seppur con emozioni diverse. Accennò un sorriso all'idea di far parlare Magnus e Jonathan...ne avrebbe viste davvero delle belle.
Ora però doveva concentrarsi sul caso e non pensare ai suoi amici, che erano grandi, grossi e vaccinati e potevano badare a sé stessi in una casa piena di agenti e tecnici della scientifica.
Si riconcentrò sulla birra e inclinò leggermente la testa. Con i medicinali che prendeva quella donna non avrebbe dovuto bere alcolici, per lo meno non a ridosso dell'assunzione di quelli. Afferrò la bottiglia e la scosse un poco, facendo creare immediatamente della schiuma. Probabilmente il marito era stato lì la sera prima, Alec non era un grande esperto ma poteva dire di riconoscere una birra aperta da poco e una lasciata in frigo da giorni, come succedeva alle sue per altro. Avrebbe dovuto parlare con l'uomo e chiedergli come gli fosse sembrata sua moglie il giorno precedente, se gli avesse dato modo di intendere che volesse farla finita.
Controllò anche il resto del contenuto e poi si rispostò verso il lavello, fissandolo per un po' senza muoversi, un'espressione crucciata gli si dipinse in volto ed uscì lentamente dalla cucina per arrivare in salotto ed esaminare la scena da quella prospettiva: Sui muri dalle tinte rosate c'erano delle foto che ritraevano la vittima, in un numero maggiore rispetto a quelle che ritraevano solo l'uomo o entrambi assieme. La cosa aveva una sua logica, una donna che teme tutto magari teme anche d'invecchiare e mostrare le sue foto più belle poteva essere catartico, così come poteva esserlo metter in mostra bei ricordi, far i modo che avesse sempre sotto gli occhi momenti felici. Non gli avevano detto molto del carattere della Signora Garres, ovviamente questi erano particolari che spesso passavano in secondo piano nel momento del ritrovamento del corpo, a meno che non ci fosse qualcuno che urlava come un matto che la vittima se lo fosse meritato, ecco.
I due divani disposti uno davanti all'altro erano perpendicolari al camino a gas, il tappeto pareva quasi nuovo ed il pavimento era lucidato alla perfezione. Non c'erano segni che indicassero che in quella casa fosse successo qualcosa se non i vetri a terra che potevano anche esser stati rotti dalla pallonata di un bambino che giocava in strada.
Era assurdo spesso come le case dei suicidi fossero così perfette, come se la vittima volesse lasciare la migliore visione di sé a chi l'avrebbe trovata.
L'idea di base era spesso quella di voler lasciare le proprie cose in ordine, per far sì che i propri cari se ne sbarazzassero velocemente e senza intoppi; per il senso di colpa anche, perché non volevano disturbare oltre. Questo se il suicidio era per depressione o simili. Con il tempo Alexander aveva imparato a distinguere la natura di un così brutale atto contro sé stessi in base a ciò che la vittima si lasciava dietro. Era confusione? Il suicida non aveva nessun tipo di rispetto o affetto verso chi rimaneva, o addirittura loro ne erano la causa, o se no l'impulso era stato così forte, in un momento di così grande disperazione, che neanche si era fermato a pensare. Questo era il genere di morte che non prevedeva un biglietto, quello prima ne prevedeva di rancorosi e accusatori. Ma in questo genere di suicidi di solito si trovavano biglietti piccoli e semplici, un “non ce la faccio più, perdonami”, o lettere lunghe e articolate in cui si chiedeva ammenda per ciò che si stava facendo e si spiegava la situazione.
Alec girò su sé stesso come aveva fatto tante volte sulla scena di un crimine, immerso nella sua solitudine seppur circondato da agenti e tecnici. Girando incontrò la figura slanciata di Magnus che osservava con attenzione una foto della coppia al mare, i volti sorridenti di due innamorati, risalente a circa vent'anni prima, forse.
Dalla porta d'ingresso poteva invece scorgere Simon intento a parlare con una donna di mezz'età in vestaglia, l'agente vicino a lui pareva divertito dalle domande del ragazzo e annuiva di tanto in tanto.
Era strano vedere gente estranea sulla sua scena del crimine ed era ancora più strano pensare che quelle persone rispondessero a lui, tutti quanti, dal primo all'ultimo.
Succedeva anche prima ovviamente, quando era solo il Detective Lightwood la gente rispondeva ugualmente a lui, alle sue domande e alle sue richieste, ma se arrivava un Sergente, un Tenente con un caso o una richiesta immediata di qualunque genere, lui passava in secondo piano perché la gerarchia lo imponeva. Ora invece la gente gli sollevava la banda delimitante, attendeva paziente le sue parole, era...anche prima sì, però… Con un moto di improvviso spaesamento Alec si guardò attorno, fece un altro giro su sé stesso e per un attimo tutto gli parve vacuo.
Quando quel dodici Febbraio gli avevano consegnato il grado di Tenente, quando era salito sul palco con la sua bella divisa blu e si era lasciato appuntare le spille alle spalline, quando il sindaco gli aveva stretto la mano e gli aveva dato quella targa, in quel momento non aveva sentito nulla se non imbarazzo, la cocente angoscia di essere sotto i riflettori e poter sbagliare qualcosa, rendersi ridicolo. Non si era sentito diverso da prima quando aveva sceso le scale e stretto le mani di tutti coloro che riuscissero ad avvicinarglisi, aveva solo abbassato il capo davanti ai flash delle macchine fotografiche e aveva chiesto gentilmente di poter passare.
Neanche quando aveva firmato i moduli per il passaggio di grado, per l'assegnazione della squadra, dei suoi membri, neanche quando aveva affrontato quel disastroso colloquio o quando i ragazzi erano arrivati in ufficio chiacchierando come loro solito. Non era successo in macchina e non era successo una volta nell'edificio. Alexander si rese conto davvero solo in quel momento di cosa significasse essere un Tenente ed avere solo 26 anni, ad aver così tanti compiti, così tante mansioni, così tante responsabilità. Era come tornare bambini ed uscire per la prima volta senza i suoi genitori, come se Maryse lo stesse di nuovo guardando dritto negli occhi dicendogli di stare attento ai suoi fratelli, che li affidava a lui.

 

Mi raccomando, non vi dividere, non andate in giro da soli, non fate gli stupidi, non mettetevi nei guai e soprattutto non allontanatevi mai da vostro fratello. Ditegli sempre dove state andando e ascoltatelo perché ora è lui il capo.” Maryse aveva guardato negli occhi i suoi figli minori, puntando il dito contro Jace che già sogghignava divertito e Izzy che non era più nella pelle, poi un Max di 5 anni che gli stringeva la mano più che poteva e poi aveva guardato proprio lui.
“ Mi fido di te Alexander, so che sai come gestirli, te li affido.”

 

Te li affido.

 

Aveva quindici anni e per la prima volta sua madre gli aveva concesso l'onere e l'onore di portare tutti e tre al parco vicino casa.
Alec si sentì come quel giorno di undici anni prima, improvvisamente investito di tutto il peso del suo titolo.
Sorrise mesto e scosse la testa, per fortuna non si sarebbe dovuto di nuovo preoccupare di Jace che saliva sugli alberi e di Izzy che voleva fare lo stesso. No, si sarebbe dovuto preoccupare di Magnus che faceva domande indiscrete e cercava di far le cose nel modo più veloce anche se illegale e Simon che si impappinava su passaggi e metodi imparati a lezione.
Lasciò quei pensieri da parte e tornò al suo lavoro, marciando dritto verso la camera della vittima ed osservando attentamente ciò che vi era all'interno.
La camera matrimoniale era pulita e semplice, non vi erano troppi ninnoli sul mobile a cassettiera che si trovava vicino alla porta, solo due profumi, uno maschile e uno femminile, uno specchietto, una spazzola e due foto incorniciate, quella del matrimonio e quella che probabilmente era del fidanzamento dei due coniugi. Un grande armadio prendeva un intera parete della stanza, le ante a specchio riflettevano il letto per metà sfatto ed i comodini: quello di sinistra ospitava solo una sveglia ed un pacchetto di fazzoletti, quello della vittima, a destra, una rivista, il cellulare ed un bicchiere vuoto.
Alec rimase per un attimo fermo a fissare quegli oggetti mentre una serie di domande si facevano largo nella sua mente e quasi sobbalzò quando qualcuno gli batté la mano sulla spalla.
Si voltò per ritrovarsi davanti gli occhi ingranditi dalle lenti di Simon, che stringendo il suo fido taccuino da serie poliziesca in mano lo guardava pieno d'aspettativa, pronto a parlare ad un suo cenno.
Il moro annuì e poi chiamò anche Magnus per ascoltare le deposizioni dei vicini.
<< Dicci pure. >> lo spronò con la sua solita voce pacata.
Per un attimo il ragazzo ebbe quasi l'impressione che il suo capo aspettasse solo di sentire se le informazioni che aveva racimolato fossero giuste, come se Alec già sapesse tutto e lo stesse mettendo alla prova. Era una sensazione a metà tra il sorpreso, lo sgradevole ed il rilassato, qualcosa che Simon non seppe interpretare bene e che cercò di farsi scivolare di dosso, così come il pensiero di trovarsi nella stessa stanza in cui era morta una donna.
Magari poteva essersi suicidata davvero, magari non aveva preso quelle pasticche per errore ma di sua volontà, lui non poteva saperlo finché non avrebbero trovato prove a favore di una o dell'altra teoria, ma rimaneva il fatto che qualcuno se ne fosse andato tra quelle quattro mura, sul letto ormai freddo che stava davanti a lui.
Simon era entrato già in una casa in cui era stato commesso un omicidio. Gli faceva brutto chiamarlo così perché gli sapeva di crimine, di sbagliato, di cosa che non sarebbe mai dovuta succedere, eppure sette mesi prima Alexander aveva ucciso Valentine Morgerstern proprio in casa di Magnus, quella stessa casa in cui lui aveva vissuto per quasi un mese e in cui era tornato tantissime volte dopo l'accaduto, la stessa in cui aveva festeggiato il Natale e in cui si era addormentato, sul divano posto sopra il tappeto che copriva la macchia di sangue lasciata dal corpo esanime dell'ormai ex Vice Commissario.
Era stato proprio Alec a sparare, a rendersi colpevole di omicidio, ma per quanto fosse una cosa orribile Simon non riusciva a paragonarlo all'atto di un vero assassino che uccide una vittima innocente. Si rese conto anzi, con un certo disagio che anche il suo amico, che anche il gentile, riservato e giusto Tenente Lightwood potesse essere definito con quel semplice aggettivo: assassino. Quanta era la differenza tra chi premeva il grilletto per difendersi e chi lo faceva per uccidere? Quanto era differente il peso delle due azioni sulle spalle di chi le perpetrava?
Simon non lo avrebbe saputo dire mentre la sua mente si perdeva tra meandri e vicoli bui che si aggrovigliavano gli uni sugli altri portandolo a saltare da un pensiero all'altro, perso in un flusso di coscienza che lo portò a farsi domande che non avrebbe voluto porsi proprio in quel momento.
Magnus gli schioccò le dita davanti al volto e lui si rese conto di aver tenuto il taccuino serrato tra le mani per una manciata di minuti, con lo sguardo perso sulle coperte ammucchiate verso il centro del letto.
<< Sì, scusatemi, mi ero distratto. >> si giustificò in fretta.
Alec lo guardò con quegli occhi da falco, lo sguardo giudicatore di un giustiziere votato alla verità, scrutando ciò che il castano non stava dicendo a loro e ciò che non stava dicendo a sé stesso.
Non distolse lo sguardo e non batté le ciglia neanche una volta, ricordandosi mentalmente che avrebbe dovuto parlare assolutamente al più presto con entrambi i suoi colleghi e cercando di ricordarsi se anche lui fosse rimasto così stordito dalla sua prima indagine sul campo.
<< Allora mettici al corrente di ciò che hai scoperto. >> si risolse comunque a dire risoluto.
Il ragazzo annuì e abbassò lo sguardo sulle pagine imbrattate, tutto pur di non sbagliare e di non continuare a fissare quelle sfere blu che lo incenerivano.

Lightwood di nome e di fatto, ti brucia con una sola occhiata.

Si schiarì la voce e cominciò ad elencare vicini e testimonianze.
In sostanza nessuno aveva sentito nulla: la dirimpettaia era sicura di aver sentito una porta sbattere ma il vicino dell'appartamento di destra aveva detto che sua moglie era uscita presto di casa quella mattina per lavoro. L'orario all'incirca corrispondeva visto che la prima donna non avrebbe saputo dire con certezza che ore fossero quando aveva sentito il tonfo, per di più stava passando l'aspirapolvere-
<< Serio? L'aspirapolvere alle sette di mattina?>> Lo interruppe Magnus alzando un sopracciglio, << Ma questa gente non ha niente di meglio da fare?>>
<< Evidentemente non sanno che esiste un girone all'inferno anche per loro… >> borbottò Alec a mezza bocca.
I due lo guardarono con un sopracciglio alzato ma prima che l'asiatico potesse commentare l'altro gli fece cenno di continuare.
Simon annuì e tornò a leggere le deposizioni.
<< Nessuno ha visto qualcuno di sospetto entrare o uscire dallo stabile, non hanno visto sconosciuti o idraulici o che so io. Nessuno rumore fuori dalla norma, la signora qui davanti passava appunto l'aspirapolvere e l'altro, il Signor Turner- Dio non me ne ero accordo, ma cos'è oggi, una congiura? >> disse sgranando gli occhi.
Alec gli rifilò un sorrisetto dei suoi e stroncò ancora Magnus prima che potesse chieder nulla. L'uomo lo guardò male e arricciò il naso.
<< È già la seconda volta Alexander, me le sto legando al dito.>>
<< Legati anche la lingua già che ci sei e lascia parlare Simon. Continua tu.>>
Simon rise all'espressione oltraggiata di Magnus ma non attese prima di ricominciare a parlare.
<< Dicevo, il Signor Turner aveva la mattinata libera e dopo che la moglie era uscita voleva dormire ancora, quindi si è chiuso in camera sua e ha ficcato la testa sotto il cuscino per non sentire la vicina far le pulizie. Ha sentito come al solito il telefono della Signora Garres squillare alle sette, dopo un po' ha sentito l'amica della donna, la Signora- >>
<< Dows. >>
<< Sì, lei, l'ha sentita suonare al campanello, battere alla porta e chiamare a gran voce l'altra. Visto che la sentiva agitarsi così tanto si è preoccupato ed è uscito per vedere cosa stesse succedendo. Poi è uscita anche la Signora Smith e- >>
<< Ma perché la gente è così banale? Esiste un nome più comune e banale di Smith? Vorrei proprio sapere perché non lo vietano per legge, non ce ne sono troppi in America?>> chiese Magnus irritato.
<< Più di quanti tu possa pensare. >> rispose basso Alec. << Ma non ci interessa.>>
<< Vero! Ci interessa sapere che dopo anche lei è uscita sul pianerottolo, che la Signora Dows ha spiegato la situazione, hanno chiamato l'ambulanza e anche il responsabile del palazzo per trovare le chiavi della scala antincendio che però non sono state trovate. Così il Signor Turner ha fatto entrare i paramedici in casa sua e li ha aiutati a sfondare la finestra con un martello. Da qui in poi sappiamo tutti cosa è successo.>> terminò soddisfatto del suo riassunto.
Alec gli fece un cenno con il capo, lo sguardo sempre fisso ed il volto sempre inespressivo ma calmo, << Bel lavoro.>> sentenziò. << Tu hai notato nulla che ti abbia insospettito Magnus?>>
L'uomo si strinse nelle spalle con noncuranza. << Sembrano una coppia felice, ci sono molte foto alle pareti che ritraggono la donna ma sono tutte costruite, non ce n'è neanche una fatta in modo spontaneo, sono tutte in posa. >>
<< Questo cosa ci dice della vittima?>> gli chiese Alec.
<< Che voleva dare la migliore immagine di sé, classico comportamento da paranoica che non vuole che ci sia nulla che possa dar adito a critiche. Direi che fosse anche una persona un po' superficiale, il profumo che sta sulla cassettiera costa un occhio della testa ma è uscito da qualche mese, è di moda solo ora, ha una rivista di gossip sul comodino ma ce ne sono altre in salotto, era attenta ai pettegolezzi e a ciò che succedeva in giro. Per di più, se mi è concesso fare questa ipotesi detective, anche la sua amica deve essere del genere. Non metto in dubbio l'affetto che le legava, se ce ve fosse poi, ma una donna vestita dalla testa ai piedi con abiti sportivi firmati Vittoria Secret è una che ha soldi da spendere e che si preoccupa di essere sexy anche quando suda. Questo genere di persone raramente si affiancano a caratteri diversi dal proprio, parlo per esperienza. Oh, per di più tutti gli oggetti presenti in casa sono nuovi o puliti e tenuti alla perfezione, di nuovo, voleva dare una bella immagine di sé.>> Si fermò un attimo scrutando anche la camera ma si bloccò davanti allo sguardo sorpreso di Simon e quello… soddisfatto? Eh sì, era divertita soddisfazione quella che brillava negli occhi di Alexander!
<< Perché mi guardate così? E perché tu sogghigni interiormente?>> chiese guardingo.
Simon alternò lo sguardo dall'uno all'altro e poi si rivolse al poliziotto. << Hai mandato me a prendere le deposizioni perché sai che sono più portato per la logica e gli intrecci temporali da trame librarie al limite del possibile e Magnus a gironzolare per casa perché sai che è più bravo a capire le persone? >> la frase aveva un'accezione interrogativa ma a Magnus parve molto più una scoperta fatta sul momento.
Alec concesse ad entrambi un sorrisetto che non li convinse per niente e che fece scivolare loro un brivido lungo la schiena .
<< Sono a capo di questa squadra, è mio compito sfruttare le risorse che ho nel modo che reputo più fruttuoso.>>
<< Un modo carino per dirci che siamo al tuo comando e ci usi come ti pare e piace?>>
<< Uh, mi piace questa cosa, usami come vuoi capo!>> trillò Magnus.
Alec lo fulminò con lo sguardo, tornando serio in un batter di ciglia e poi grugnì qualcosa sul fatto che gli avrebbe fatto passare quel vizio di far battute a sfondo sessuale e prima che Magnus stesso gli dicesse, sorridendo malizioso, che lui non aveva mai specificato nulla di sconcio nella sua battuta e che cominciassero a discutere su quanto fosse esplicito o meno il riferimento, gli chiese di continuare ad esporre le loro teorie.
<< Direi che quello che ha detto Magnus è una buona base per partire, magari potremmo chiedere anche al marito di confermare o meno la descrizione della moglie, anche se non penso che accetterà cose come “superficiale, ossessionata dal mostrare la sua parte migliore come la paranoica che era”. >> fece Simon pensieroso.
Il moro annuì e voltò la testa verso il resto della stanza. << Il marito verrà interrogato in ogni caso. Cosa vedete qui?>>
I due si girarono nella stessa direzione, Simon si ritirò su gli occhiali in un gesto automatico ed indicò il letto con il taccuino. << Metà è rifatto e metà no. >>
<< A destra c'era la vittima ma a quanto pare il marito non ha dormito qui questa notte.>>
Alec annuì. << Aveva un convegno d'aggiornamento Staten Island, cominciava ieri sera. >>
<< E perché di sera?>> domandò giustamente Magnus.
<< Si occupa di inquinamento luminoso, studia le scie delle metropoli e i loro effetti sull'ambiente e la fauna locale, il convegno si apriva con una presentazione sulle sponde del porto. >>
Gli altri lo guardarono straniti.
<< Come fai a sapere tutte queste cose? Perché non ci credo che te le abbia dette tutte il poliziotto con cui hai parlato per cinque minuti senza di noi.>> ribatté l'asiatico alzando un sopracciglio.
Il giovane lo guardò di rimando con un'espressione apatica avrebbe detto chiunque ma che entrambi riconobbero come la faccia del “mi pare ovvio” di Alexander.
<< Ti sorprenderebbe scoprire quante cose si possono dire in cinque minuti e sorprende me scoprire che una persona logorroica come te reputi la cosa impossibile. >> poi fece un cenno verso la porta che conduceva al salone. << C'è il programma dell'evento attaccato al frigo.>>
Il silenzio imbarazzante che lì seguì fu un canestro da cinque punti assegnato ad Alec con la velocità e la precisione con cui la palla era entrata in rete.
Magnus batté le palpebre e poi si voltò. << Vado a controllare l'armadio ed il bagno.>>
<< Guarda negli armadietti se- >>
<< Se ci sono le medicine e quante ce ne sono, si Alexander, questo lo so anche da me.>> replicò piccato scomparendo oltre la porta.
Simon sorrise mesto all'amico e poi gli chiese quasi timidamente se ci fosse altro che gli fosse sfuggito.
<< Nulla di grave, hai notato le cose più importanti e ne hai tratto le giuste conclusioni, con il tempo si diventa più veloci, è la pratica. >> gli batté impacciato una mano sulla spalla per dargli un minimo di incoraggiamento, si sentiva terribilmente suo padre in quel momento, poi fece un cenno con la testa. << Vieni, guardiamo cosa c'è nei cassetti.>>
<< Pensi di trovarci altre pillole?>> domandò di nuovo attento.
<< Se ne ha prese più del dovuto dovremmo trovare un flacone insolitamente vuoto e con una data di prescrizione troppo recente, ma ho già incontrato casi in cui i suicidi si fossero messi da parte delle pasticche per non insospettire chi gli era vicino. Spesso succede anche che nascondano un flacone e tornino dal medico dicendo di esserselo perso, ma questo è il genere di situazione che si può creare solo se la vittima non ha precedenti. Succede a chiunque di smarrire un oggetto una volta, tiri fuori qualcosa dalla borsa, nel mezzo della strada, il medicinale cade e non te ne rendi conto, ma se succede troppo spesso si sospetta una dipendenza o uno spaccio ed i medici sono in genere molto attenti a queste cose. >>
Si piegò sulle ginocchia ed aprì il cassetto della vittima facendo attenzione a non lasciare impronte, all'interno del mobile vi era uno dei classici flaconcini cilindrici arancioni, dei tappi per le orecchie, una mascherina, dei fazzoletti ed altri oggetti vari. Alec scostò la penna e quello che gli parve un cosmetico, forse una cipria come quelle che aveva sua sorella sempre con sé, e tirò fuori una pila di fogli fermati con delle graffette.
Simon gli si sporse sulla testa, sovrastandolo in altezza come in rare occasioni gli era capitato e leggendo quella grafia vezzosa e piena di riccioli e volute: c'erano cartoline scritte da lei stessa, spedite durante vacanze passate probabilmente, alcune in una calligrafia diversa, più semplice, sottile e inclinata, come scritte velocemente, probabilmente dal marito visto che si faceva riferimento a orari di mostre e discussioni. Altri fogli erano appunti su qualcosa che volesse comprare, c'erano ricevute e poi fogli e fogli pieni di quelle stesse lettere elaborate che quasi rendevano impossibile la lettura ma che Simon come Alec, temprati dal fuoco di una vita passata con delle sorelle, riuscirono comunque a distinguere abbastanza da capire che fossero descrizioni di quanto si sentisse male la donna e di tutti i problemi che la sua mente gli riproponeva.
<< Quindi è fatta così la lettera di un suicida?>> soffiò flebile il castano alzandosi e permettendo anche all'altro di fare lo stesso.
<< Consegnale alla scientifica.>> replicò mentre Magnus usciva dal bagno con un'espressione seccata.
<< Ci sono altre due confezioni di medicinali ma una è per il mal di schiena a nome del marito e gli altri sono integratori alimentari, niente flaconcini vuoti. Trovato niente voi?>>
<< Lettere!>> gridò Simon dall'altra stanza.
<< Ottimo, quindi è un suicidio con tanto di biglietto! Abbiamo tutti ciò che ci serviva, no?>>
Si girò verso Alexander ma il moro era perso ad imbustare il bicchiere sul comò. Se lo avvicinò al viso e ne odorò il bordo, forse in cerca di tracce di un odore sospetto.
<< Tesoro, questo tipo di pasticche si ingoiano, non si sciolgono nell'acqua.>> gli disse l'uomo dolcemente avvicinandoglisi. << E credo che raccogliere le prove spetti a CSI. >> continuò sorridendo ed indicando con il pollice gli ultimi uomini della scientifica rimasti.
Alec gli concesse un piccolo incresparsi storto di labbra e poi annuì.
<< Ognuno deve essere pronto a far tutto. Potrebbe aver mischiato più medicinali.>>
<< Ed è così?>>
<< Dimmelo tu.>> Gli porse la busta ancora non chiusa e Magnus afferrò con attenzione il bicchiere, cercando di allontanare la plastica dal vetro senza però toccarlo. L'annusò un paio di volte con espressione concentrata, poi scosse la testa.
<< Sento qualcosa di così leggero e vago che potrebbe benissimo essere il sapone che è stato usato per lavarlo o la plastica della busta.>> ammise riconsegnando l'oggetto ad Alec che lo sigillò e lo strinse in pugno.
<< Va bene anche così, ce lo dirà la scientifica e… Magnus? Non chiamarli CSI, lo capiscono che li stai sfottendo, ci rimangono male, solo tecnici esperti non stagisti.>> lo ammonì con voce morbida, come se gli stesse chiedendo un favore personale e probabilmente era proprio così.
Magnus cercò con lo sguardo Simon che stava parlando con uno di quegli uomini, il tono amichevole e la postura rilassata, probabilmente un suo amico. Si ricordò che anche il loro topo nerd una volta era tra quei tecnici, quei dottori e che anche se avrebbe riso della battuta forse a lungo andare l'avrebbe presa un po' a male, ripensando a quando era anche lui solo un CSI qualunque e non un agente che incastrava i criminali e li sbatteva in prigione scoprendo i segreti delle trame di ogni storia.
Annuì al moro e gli prese la prova di mano, << Allora vado a farmeli amici così quando lì chiamerò in quel modo sapranno che è solo affetto quasi disinteressato. >> Gli diede un buffetto sulla guancia e si allontanò prima che potesse rimproverarlo anche per quel gesto.
Alec si ritrovò a guardarlo allontanarsi con passo sicuro, allargando le braccia e chiamando a gran voce Simon per chiedergli se potesse disturbare il dottore lì presente. L'agente sembrò imbarazzato da quell'appellativo ma l'altro invece gli sorrise radioso e si prodigò immediatamente a presentargli l'amico.
Sorrise anche lui, più per riflesso di Simon, che ogni volta riusciva a regalargli un senso di soddisfatto orgoglio nel vederlo così felice del suo nuovo lavoro. Era stato così anche prima che fosse ufficiale, durante gli allenamenti e le lezioni, quando gli raccontava i progressi ed i passaggi più ostici che non riusciva a capire.
Probabilmente, si disse Alec, si stava rammollendo un po'. O forse nove anni di conoscenza era il limite massimo per cui riuscisse a rimanere immune dalle emozioni altrui.
Abbassò la testa nascondendo il suo sorriso storto sotto le ciocche lunghe e andò a controllare il cassetto del marito che invece i suoi colleghi avevano completamente ignorato. Poteva capirli, sulla prima scena del crimine c'erano sempre due tipologie di persone, principalmente: quelli così scrupolosi che si concentravano su ogni singola cosa perché non volevano tralasciare niente; e quelli così agitati e sovreccitati che puntavano solo su una cosa e si dimenticavano del resto.
Aprì il cassetto e vi trovò dentro il solito caos dato da chi getta le cose lì dentro alla rinfusa, solo per non averle in giro. La signora Garres evidentemente non tollerava il disordine neanche sui comò e il marito si ritrovava a stipare tutto nel nascondiglio perfetto che era quel cassettino di circa trenta centimetri per quaranta.
Scostati i soliti fazzoletti, penne, scontrini, appunti, segnalibri e biglietti vari trovò una bottiglietta a gocce, un collirio forse visto che intravide anche una custodia per occhiali, dei fogli accartocciati e delle ricette mediche. Allungò la mano per prendere gli oggetti ed imbustarli quando qualcuno gli porse una busta.
Alzò il volto per ritrovarsi davanti quello sorridente e rilassato di Chad Jonson, il capo della sezione mattutina della scientifica.
Erano mesi che non vedeva più Chad, i suoi occhiali dalla montatura così fine da sembrare inesistente e che lo avevano portato a chiedergli più di una volta come facesse a non romperseli continuamente giocando con quelle pesti dei figli; con quel sorriso un po' scanzonato, così tipico di chi è abituato a trattare con bambini di tutte le età, specialmente con quelli che portavano il distintivo e battevano i piedi per aver immediatamente le analisi di una prova appena consegnata.
Gli sorrise di rimando e accettò di buon grado la busta per le prove.
<< Grazie. >>
<< Mi stai rubando il lavoro Lightwood? Potevo capire finché eri un detective semplice, ma ora che sei un Tenente nessuno te lo ha detto che queste non sono cose che ti competono?>> replicò porgendogli anche la mano destra per farsela stringere in un saluto deciso e confidenziale.
Aveva passato così tante ore da agente a piantonare il deposito delle prove e ad aiutare i laboratori a portare oggetti di ogni tipo, c'era tornato persino quando lo avevano spostato, solo per usufruire della placida operosità dei dottori che lavoravano con precisione ma senza quella costante ansia di perder tempo come facevano gli altri reparti. Loro erano legati alle tempistiche delle macchine, non erano come i tecnici informatici che dovevano lavorare più velocemente, i poliziotti che dovevano rispondere più in fretta, correre più veloce, se una reazione chimica necessitava di dieci minuti per compiersi dovevi aspettare quei dieci minuti e intanto metterti a far altro, se ne dovevi aspettare trenta la cosa non cambiava, se dovevi aspettare ore non potevi che accettarlo.
Gli mancava in effetti.
<< Non potrei mai, lo sai che non sono laureato.>> gli disse di rimando.
L'uomo alzò un sopracciglio, << Ancora no?>> fece sorpreso per poi ridere all'espressione imbarazzata del moro.
<< Tranquillo, hai tempo, mio padre ci si è iscritto ora, ci credi? Gli ho detto “diamine pa', io ti porti i bambini e tu ti metti a studiare?”, ma sai com'è fatto quel mulo testardo.>> Si piegò verso il cassetto e si tirò vicino una valigetta metallica di medie dimensioni, al suo interno tutti gli strumenti per i rilievi e per la catalogazione delle prove. << Fammi indovinare: vorresti che esaminassimo anche tutto il contenuto del cassetto del marito della vittima, prima le ricette mediche e poi, magari, che te le facessimo avere prima dell'interrogatorio? >> chiese alzando scrutandolo da basso.
Alec annuì. << Basta uno squillo, sai che scendo volentieri a farvi un saluto.>> disse sincero.
Quello gli fece un cenno affermativo. << Anche ai ragazzi farebbe piacere. Magdalen e Daisy si sono messe d'accordo, se scendi verrai travolto da una possibile coppia di gemelli e dalla loro iperattiva madre. >> soffiò via come un segreto.
<< Possibile coppia di gemelli?>> sorrise lui.
<< Beh, o sono gemelli o Daisy ha sbagliato in pieno il conteggio delle settimane, lei e il medico. Ma parlando di bambini appena arrivati… >> cominciò vago. << Quelli che chiacchierano con i miei di bambini sono i tuoi? Ti sei deciso a fare il grande passo e adottare? Ti avverto che è una grandissima rottura.>>
Alec provò a trattenere la risata che gli era risalita in gola ma riuscì solo a trasformarla in una nasale che Chad parve apprezzare molto perché gli rifilò una pacca sulla gamba.
<< Un novizio tolto dal laboratorio ed un ex criminale come consulente.>>
<< I crimini più grandi di Magnus rientrano nell'inquinamento acustico, l'importazione illegale di alcolici e la quantità vergognosa di cose luccicanti che si mette addosso.>>
<< Diamine! E perché non è ancora dietro le sbarre? Io devo farmi una doccia tutte le volte che Cam mi chiede di vestire le sue bambole, perché ci mettono tutti quei brillantini sopra? E perché dovrebbe esserci qualcuno di così pazzo da metterseli volontariamente addosso?>> chiese fintamente sconvolto.
Fu il turno di Alec di battergli una pacca sulla spalla e sorridergli. << Perché se no noi non potemmo lamentarci.>>
<< Ed è rimasta la nostra unica valvola di sfogo, eh? Diamine Alec sei padre e non puoi neanche gioire della felicità di avere un moccioso urlante che ti si fionda contro quando torni a casa.>>
<< Ho avuto i miei fratelli, mi basta quello e i loro futuri figli.>> si strinse nelle spalle ma non si mosse solo perché l'uomo lo fissava con attenzione.
<< Che c'è?>>
<< Come ne stai uscendo questa volta? No, perché l'ultima volta che ti ho sentito dire che ti andava bene non avere una famiglia o cose del genere eri tornato da un anno di fronte. >>
Alec lo fissò di rimando senza sapere cosa dire. Si schiarì la voce e si chiuse ancora nelle spalle, un gesto nervoso così palese e ormai radicato in lui che Jonson non provò neanche a farglielo notare.
<< Dai, lascia perdere per ora. Torna dai tuoi bambini prima che si mettano a litigare con i miei. Poi quando vieni a ritirarti i risultati ci organizziamo anche con gli altri e andiamo a prenderci una birra e- no! Non ci provare Alec, ricordati che Daisy è incinta e che se rifiuterai l'invito c'è rischio che ti scoppi a piangere in faccia e credimi, so di cosa sto parlando.>> lo minacciò con un pennello sporco di polvere per i rilievi.
Al moro non restò che alzare le mani in segno di resa mentre uno strano terrore nel vedere Daisy Travers in lacrime e con un pancione gigantesco si faceva strada in lui. Decisamente non avrebbe voluto assistere alla scena.
<< Hai vinto. Ti lascio lavorare. Grazie, comunque.>> gli parve opportuno dirlo, perché di amici che capiscono quanto qualcosa ti metta a disagio e ti evitino momentaneamente di rispondere alle loro domande non ce ne erano mai abbastanza.
Si incamminò a testa bassa verso gli altri e sospirò quando lì sentì effettivamente bisticciare su quale fosse il laboratorio migliore, se quello informatico o quello scientifico.

A quanto pare Chad aveva ragione.

<< Okay bambini, fine dei giochi, si torna in centrale. Simon non lasciare niente in giro, saluta Paul, continuerete a fare a gara la prossima volta. Magnus, anche tu, smetti di importunare i ragazzi, non ci provare, ti ho visto, chiudi la bocca e fila in macchina.>>
<< Ma Alexander!>>
<< Niente ma, ho detto in macchina. Simon, lo zaino.>>
<< Ce l'ho in spalla!>>
<< E i guanti dove li hai lasciati?>>
<< Possiamo passare prima a prendere qualcosa da mangiare?>>
<< Cosa c'è? Devo portarmi anche la merenda quando esco con voi due? La prossima volta invece di portarvi con me vi lascio all'asilo.>>

<< Alec!>>

 

 

Sarebbe stata una giornata molto lunga.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

<< Sì, ma ci possiamo passare da Starbucks?>>
<< Alec, non trovo un guanto….>>
<< Lo sapevo… >>













 

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Capitolo 5
*** Capitolo V- La via più semplice, parte seconda. ***


!Avviso! In questo capitolo è presente una leggera descrizione di un'autopsia. Malgrado non si scenda nei dettagli e se ne parli in modo vago, se qualcuno non dovesse gradire, dica pure.




 

Capitolo V
La via più semplice.
-seconda parte-

 


 

 

Alec entrò in ufficio con un fascicolo in una mano, lo zaino di Simon in spalla e nell'altra mano un cartone di caffè e un fazzoletto sporco di glassa rosa, la stessa che per altro era ancora mezza sfumata sulla faccia del ragazzo e che invece Magnus cercava di togliesi da sotto le unghie, lamentandosi di quando fosse difficile con quei pezzi di carta straccia che spacciavano per fazzoletti.
Appena avrebbe rivisto Chad Jonson Alec gli avrebbe tirato una testata sul naso, a lui e a quel “i tuoi bambini”. Gliele lanciavano, ne era perfettamente consapevole, la gente gufava alle sue spalle, lo maledicevano, ecco cosa.
Grugnì come commento da una delle domande di Magnus e marciò sino alla sua scrivania, poggiando la borsa su quella di Simon e il caffè sulla propria. Si liberò dei fazzoletti e lanciò la scatola dei suoi in mano al castano quando questo gli passò vicino borbottando che forse doveva andare a lavarsi la faccia.
<< Andate anche a lavarvi le mani, non li toccate i documenti in queste condizioni.>> Appese il cappotto ai ganci attaccati vicino alla finestra e si mise seduto prima che a qualcuno dei due venisse la brillante idea di chiedergli di metter a posto anche i loro di giacchetti.
Magnus arricciò il naso infastidito. << Sono pulite le mie mani, la ghiaccia ce l'ho solo sotto le unghie.>>
<< Non voglio sapere perché la chiami “ghiaccia” e- >>
<< Perché quando si secca sembra congelata? Secondo te la chiamano così per questo motivo, Mags? >>
<< Non ne ho la più pallida idea ma potrebbe essere una valida motivazione.>>
<< - E! Andate a lavarvi le mani. Chiamerò la sala autopsie e chiederò quando eseguiranno la nostra.>> continuò cercando di sovrastare le voci dei suoi amici.
<< Intendi dire che sei già arrivato ad un livello di sopportazione tale che stai per ucciderci e poi suicidarti?>> chiese Magnus battendo le ciglia mentre Simon, cercando di trattenere un sorriso, lo trascinava fuori dalla stanza.
Alec gli lanciò un'occhiataccia abbassando la testa sui fascicoli che aprì con un colpo secco.
<< Non mi tentare. >>

 

Il silenzio fittizio in cui precipitò non appena le voci dei ragazzi scomparvero nel corridoio lo fece sospirare di sollievo. Era pur vero che averli tra i piedi gli dava la sensazione che, qualora ne avesse avuto bisogno, ci sarebbe stato qualcuno pronto ad aiutarlo, ma trovava quella situazione terribilmente simile alla sua riabilitazione: per sopportarla al meglio e trarne il meglio gli sarebbe servito assimilarla un poco alla volta, a piccole dosi.
Un campanello suonò nella sua testa a quella stupida affermazione e si alzò subito in piedi. Incrociò uno dei detective della sezione sulla porta e lo fermò al volo.
<< Parker se vedi i miei uomini puoi dirgli che sono sceso ai laboratori?>>
L'uomo lo guardò sorpreso. << Sì, certo, ma non li ho mai visti… >> disse con voce dubbiosa.
<< Non puoi non riconoscerli, credimi, se sono strani sono miei.>>
Non aspettò che l'altro gli rispondesse e si precipitò verso gli ascensori, premendo la chiamata di tutti e quattro quelli presenti.
Rimase ad aspettare con una calma che stonava con la velocità con cui si era alzato e precipitato fuori dagli uffici, ma essere nervoso e battere il piede a terra non avrebbe fatto girare gli ingranaggi dell'ascensore più velocemente e non gli serviva certo mettere in tiro i muscoli proprio in quel momento.
La sua mente si risintonizzò sulle frequenze del suoi ragionamenti teorici e cominciò a cercare collegamenti tangibili, prove materiali che avrebbero avvalorato la sua ipotesi.
Si infilò con un movimento abitudinario tra le porte scorrevoli prima ancora che queste si fossero completamente aperte e ringraziò il cielo che la cabina fosse vuota. I suoi fratelli gli avevano sempre detto che era spaventoso quando pensava, che tutta la gente che si ritrovava nella sua stessa stanza cercava inevitabilmente di allontanarsi da lui. Non voleva costringere nessuno a dividere un così piccolo spazio vitale con la sua espressione “concentrata”, specie se anche Max gli confermava che faceva venire i brividi.
Alzò la testa per guardarsi sulle lastre lucide di metallo e poi diede le spalle alla porta per potersi specchiare un attimo: certo, aveva i capelli un poco arruffati dal vento, dai bocchettoni dell'aria condizionata della caffetteria e anche dal viaggio in macchina con quei due, e forse aveva anche un po' d'occhiaie ed il suo solito colorito pallido, ma non faceva così paura come millantavano i fratelli.
Il trillo del campanello che lo avvertiva dell'apertura delle porte gli fece lanciare uno sguardo veloce alla pulsantiera, individuando subito il numero illuminato come quello da lui selezionato e si affrettò ad uscire a grandi falcate dall'ascensore, percorrendo quei corridoi che aveva già calpestato così tante volte in vita sua.

Appena era uscito dall'accademia Alec si era timidamente presentato dal suo superiore e gli aveva chiesto un colloquio per discutere delle sue prossime assegnazioni. L'allora Tenente Hobs, ora uno degli uomini in carica per il posto di Vice Commissario della Polizia, lo aveva guardato con un sopracciglio alzato e gli aveva chiesto cosa potesse fare per lui.
La domanda era parsa vagamente ironica e Alec sapeva perché: probabilmente l'uomo pensava che avendo la madre procuratrice ed il padre Capo della OCCB, lui potesse ricavarne qualche vantaggio, ma il punto era proprio lì.
Con voce bassa ma ferma, riuscendo a non balbettare neanche una volta e dandosi un cinque mentale per questo, Alec aveva semplicemente chiesto che non venisse tenuto in considerazione il suo nome.
Non aveva pensato di mentire neanche per un momento e aveva detto chiaro e tondo al suo superiore che molti dei suoi compagni davano per scontato che a lui sarebbe capitato il posto migliore per via del suo nome e dei suoi genitori.

<< E se posso esser franco, signore, non ho la minima intenzione di andare avanti in questo dipartimento sentendomi dire che tutto ciò che otterrò sarà solo per via del nome che porto.>>

L'uomo gli aveva concesso un sorrisetto divertito e gli aveva assicurato che lui non era quel genere di poliziotto, che se fosse capitato nel posto migliore, ovvero subito in volante e non a fare servizio d'ordine negli ospedali, nel traffico o a fare lo smista lettere, sarebbe stato solo ed unicamente perché così voleva la sorte, e in ogni caso si sarebbero alternati tutti in ogni posto disponibile.
Alec si era chiuso la porta alle spalle con la faccia seria e non era riuscito a sciogliersi finché non aveva svoltato l'angolo e si era ritrovato in un corridoio vuoto. Aveva probabilmente fatto la figura del cretino, ma andava bene anche così.
Alla fine era uscito fuori che il suo primo incarico, da matricola neanche diciannovenne, era stare di servizio al deposito prove vicino ai laboratori scientifici.
Quello era stato il periodo in cui aveva conosciuto Chad Jonson, ancora impegnato dell'assurda lotta contro la sua incapacità nel chiedere alla fidanzata di andare a vivere assieme ed il terrore che sua madre se ne uscisse un giorno in modo del tutto inopportuno davanti alla ragazza chiedendogli se aveva trovato quella benedetta casa che tanto cercava.
Chad era solo un giovanotto di ventiquattro anni che faceva il suo lavoro per passione ma con la sempiterna faccia scocciata di chi non ce la fa più a sentire sempre le stesse battute, gli stessi ordini e gli stessi insulti. La loro amicizia era nata a poco a poco, mentre Alec rimetteva a posto i suoi compagni di accademia e per qualche strano motivo, spesso dettato dalla targhetta attaccata al suo petto, spesso per la sua faccia sul muro del poligono, anche gli altri agenti.
Daisy era stata un effetto collaterale per entrambi, una chimica appena assunta dal laboratorio, puntigliosa il giusto per andar d'accordo con entrambi i ragazzi e con la giusta inclinazione a semplificare i ragionamenti perché tanto lo sapeva che il mondo era pieno di analfabeti.
Mentre si avvicinava sempre di più alla sua vecchia “postazione” Alec non riusciva a non pensare a com'erano quei due quando li aveva conosciuti e come erano adesso, Chad sposato e in attesa del terzo figlio e Daisy sposata anche lei e in attesa del primo, o dei primi. Si rese conto che durante quei mesi in cui era stato in congedo forzato si era perso molte cose, davvero troppe malgrado i ragazzi lo aggiornassero di continuo.
Erano andati a trovarlo in ospedale, una volta si erano presentati in massa davanti a casa dei suoi e gli avevano fatto una sorpresa. Chad lo aveva addirittura accompagnato ad una delle corse mattutine di Simon, dicendogli che doveva solo che ringraziare il cielo che la sua piccola Cam stesse mettendo un dente nuovo e le facesse un male cane, svegliandolo agli orari più improbabili.
Si rese anche conto di come fossero diverse le sue amicizie rispetto a quelle dei suoi fratelli o di Magnus, molto meno “appiccicose”, fatte di lunghi silenzi, lunghe distanze ma una sempiterna complicità che faceva in modo di annullare quei vuoti ogni volta che si rincontrassero.
Certo, magari avrebbero potuto dirgli che Daisy era incinta, ma non dubitava che la donna avesse vietato a tutti di farlo perché voleva essere lei stessa ad avere l'onore.
Fermatosi davanti alle porte che davano sui laboratori una viscida realizzazione gli scivolò nello stomaco, fredda come ghiaccio: i suoi amici, i suoi conoscenti, i suoi fratelli… tutti loro stavano andando avanti, stavano “crescendo” e si stavano facendo un futuro. Jace e Clary sarebbero andati a vivere insieme, Chad e Daisy stavano per allargare la famiglia, Max aveva iniziato l'università, ad Izzy rimaneva solo un anno di tirocinio e sarebbe stata una patologa a tutti gli effetti, Simon era passato al campo e lui… lui cosa stava facendo? Certo, era stato promosso Tenente, a ventisei anni poi, ma non riusciva a far a meno di pensare che invece di quel grado si sarebbe dovuto guadagnare quello prima.

Quello che invece gli era stato regalato dal suo primo Caso di rilievo.

Si sentì vuoto per un attimo, non era arrivato dov'era perché era Alexander e non lo aveva fatto neanche perché era un Lightwood.

Sono solo un'enorme bugia.

<< ALEC!>>
Quasi saltò sul posto al sentire quella voce alta e squillante.
Una donna castana, dagli occhi scuri ed il volto ridente, si avvicinò a lui ondeggiando come quella mattina aveva fatto il Dottor Crocker ma al contempo in modo diverso. Dal suo bel metro e sessantasette, ci teneva molto a specificarlo, di florida donna incinta, Daisy Travers lo raggiunse spalancando le braccia e stringendogliele poi attorno alle spalle in un abbraccio soffocante ed un po' ingombro.
<< Piano Daisy, non schiacciare i bambini… >> provò debolmente assestandogli delicate pacche sulla schiena.
La donna si tirò indietro e gli sorrise ancor di più, mettendosi le mani sui fianchi ed accentuando così quell'enorme pancia che si ritrovava.
<< I bambini stanno più che comodi direi, guada quanto spazio si sono presi, ti pare giusto? Sto diventando una balenottera.>>
<< Io ti trovo benissimo invece, non so quante donne incinte di due gemelli sarebbero così. >> la blandì con un timido sorriso che servì solo a farsi dare un pugno su una spalla.
<< Ecco cosa mi era mancato di te Alec, sai come fare un complimento senza scadere ne volgare o nel sessista!>>
<< E per questo si è meritato un pugno?>>Chad si girò sulla sua sedia, posta davanti ad un pc su cui si alternavano linee colorate in picchi discontinui, << Hai già fatto con Craker?>> chiese poi cambiando discorso per nulla interessato alla risposta della collega.
<< Era un pugno affettuoso.>> protestò la donna, << E non chiamare il Dottor Kraken, Craker.>>
<< Veramente è Crocker… >> bisbigliò Alec venendo bellamente ignorato.
<< Come ti pare. Che ti porta da queste parti? Oltre al pancione enorme di Daisy ovviamente.>>
Alec tirò fuori un altro sorriso storto e traballante dei suoi e puntò lo sguardo sui grafici, prendendo tempo per riuscire a spiegare al meglio ciò di cui necessitava.
<< C'erano delle ricette mediche tra le prove che avete preso. >> iniziò partendo alla larga, il che non era mai una bella cosa perché significava che stava per chiedergli qualcosa che, normalmente, la gente avrebbe reputato assurdo o senza senso, qualcosa che avrebbe necessitato lunghe spiegazioni sui ragionamenti contorti del suo cervello che lo avevano portato a quella conclusione.
Normalmente Alec non era uno che si faceva scrupoli nel chiedere ciò che gli serviva, seppur educatamente, o ad illustrare le motivazioni sempre valide che aveva dedotto. Il problema sorgeva con i suoi amici, con quei due in particolare, che da bravi scienziati non si accontentavano mai di un “perché sì” ma indagavano sempre tutti i meccanismi e gli ingranaggi che portavano una macchina a funzionare come si deve.
<< Sì, sia della donna che del marito, esamineremo quelle per prime, loro e i bicchieri.>>
Alec annuì. << Ti ringrazio.>> individuò con lo sguardo la lista delle prove e la scorse velocemente. Afferrò una matita abbandonata sulla postazione e fece dei segni leggeri vicino ad alcuni nomi.
<< Potresti controllarmi subito anche questi due?>>

Voltato di spalle non poté vedere il sorriso enorme che piegò la bocca della sua collega ma poté facilmente intuirlo dall'intonazione della sua voce cantilenante.
<< Oh-oh, il detective Lightwood ha trovato una falla!>>

 

 


 

Non riusciva a capire per quale diamine di motivo Alec fosse scomparso nel nulla. Erano andati in bagno per due minuti, nulla di più che lavarsi la glassa da sotto le unghie e rompere le palle a Sidmund su come solo un bambino poteva impiastricciarsi la faccia in quel modo. Poi erano tornati indietro ed un tipo gli aveva chiesto se loro erano “i ragazzi di Lightwood”.
Magnus aveva visto dei film polizieschi in vita sua, per carità, eppure ancora non si riconosceva in quel termine.
Per tutta la vita lui era stato Magnus Bane, il solo ed unico, il Sommo Stregone di Brooklin, Magnus Bane il figlio di Asmodeus, il Principe dei Demoni, quindi a sua volta principe per natalità. Certo, era anche stato etichettato solo in quel modo, solo “il figlio di Asmodeus” ma tutti, tutti, conoscevano comunque il suo nome. E non dubitava che anche al Dipartimento fosse lo stesso.
O forse no?
Non sapeva se questa cosa gli sarebbe piaciuta, se gli andava bene essere solo uno dei ragazzi di Lightwood, termine a cui, per altro, non poteva neanche dare nessuna connotazione sessuale. Non essere riconosciuto come persona a sé ma come membro di una squadra di cui lui non era neanche il capo gli dava uno strano e pruriginoso fastidio che lo portava a grattarsi il collo come se avesse un qualche sfogo sulla pelle.
Era sempre stato il capo di sé stesso e lo sapeva, lo aveva messo in conto il fatto che adesso avrebbe dovuto rispondere ad altri ma si era stupidamente illuso che sarebbe stato come durante le indagini per il caso di Ragnor.
“Stupidamente” era la parola chiave di tutto quel discorso.
Entrare in un meccanismo più grande di te, ricevere ordini dall'alto e doverli assolutamente rispettare… non erano cose che gli erano nuove, ma quand'era l'ultima volta che le aveva davvero sperimentate? Quanto aveva davvero avuto qualcuno sopra di sé che gli comandava cosa fare e quando senza possibilità di scelta?
All'incirca da quando era diventato maggiorenne, il periodo in cui suo padre gli disse di essersi stufato dell'America e di tutti quegli stupidi problemucci di New York City e aveva cominciato a viaggiare. Fu il periodo in cui lo scettro passò a lui, in cui Malcom gli sedeva alla destra come un fido consigliere e gli impediva di mandare a puttane il lavoro di una vita dell'uomo che gliel'aveva data, la vita.
Il prurito non accennava a scomparire, la consapevolezza che se fosse stato da solo, senza nessun contratto e nessun vincolo avrebbe potuto muoversi liberamente sarebbe durata per sempre ma ci si sarebbe abituato, ci avrebbe fatto il callo e avrebbe imparato ad agire comunque come più gli pareva. Per ora, mentre seguiva Simon che non la smetteva di chiacchierare e di illustrargli le meraviglie dei sotterranei del Dipartimento, si sarebbe limitato a darsi del cretino per come una semplice frase, detta da un uomo che non lo conosceva e che era ovvio l'avrebbe identificato nel modo più semplice come ricollegandolo al suo capo squadra, gli stesse rovinando la giornata più di quanto non avesse fatto entrare in un appartamento in cui era morta una persona.

Solo che nel mio una l'hanno uccisa e in quello invece c'è morta suicida.

Simon svoltò di colpo a sinistra e Magnus quasi inciampò sui suoi stessi passi, perso in ragionamenti tutti suoi e assolutamente inadatti al momento.
Forse doveva ascoltare Alexander e continuare le sedute dallo psicologo anche dopo aver finito quelle obbligatorie dell'ospedale e della polizia. Forse, ma non glielo avrebbe certo detto, non lo avrebbe mai ammesso a voce alta.
Non che gli servisse farlo, quel dannato poliziotto lo guardava in faccia e capiva tutto ciò che cercava di nascondere, tutto quello che non voleva dire o che non aveva detto nelle sue sibilline frasi.
Che stesse diventando una persona scontata? Che Alexander ormai lo conoscesse così bene da leggergli dentro come se avessero passato una vita assieme? Dio, sperava di no o entro la fine di quell'anno gli avrebbe letto la mente e preveduto ogni sua mossa.
<< Quindi dove mi stai portando di preciso?>> chiese interrompendo il flusso inutile di parole di Simon.
Il ragazzo si voltò a guardarlo da sopra la spalla ma non parve essersi reso conto del fatto che lo aveva ignorato per tutto il tempo.
<< Dal Coroner, dal grande Kraken.>>
<< Oh, quell'adorabile ometto con più grasso che materia grigia?>> fece ironico.
<< Non credo che il suo grasso superi la sua intelligenza sinceramente, è una persona acuta e brillante, Alec se può scegliere chiede sempre a lui o ad un altro medico di fare le sue autopsie. Varrà qualcosa penso.>>
Magnus annuì. << Sì, beh, non mi interessa davvero. Chi è l'altro?>>
Il sorriso furbesco che si aprì sul suo volto lo fece accigliare. << Altra.>>
<< La nostra bella Isabelle?>>
<< No, no, Izzy non può condurre un'autopsia da sola, a meno che non sia il medico a dirglielo e la controlli a vista. Non ha ancora proprio il certificato da medico legale, è ancora una tirocinante, un aiuto medico. Insomma, ha 24 anni, praticamente ha finito ieri l'università.>>
Magnus accelerò il passo per potergli star di fianco e scrutarlo in volto. << Eppure mi avete sempre detto che Izzy sarebbe stata un ottimo cardiochirurgo. Cosa c'è? Se sei un Lightwood sali di livello prima del dovuto?>>
Simon ci pensò un attimo e poi scosse la testa. << Sai, fino all'anno scorso credevano che loro zio Max fosse morto d'infarto, per lo stress e tutte le pressioni del caso. >> iniziò con voce distante mentre ripescava ricordi passati e fin troppo recenti. << Eppure non sono mai riusciti ad aver una vera diagnosi, il trauma cranico dovuto alla caduta ha fatto passare in secondo piano la cosa, Hodge confermò che Maxwell aveva accusato un malore ed era caduto, tutto molto vago ma al tempo, come ho detto, nessuno ci fece troppo caso. Maryse per una vita chiese spiegazioni, la sua famiglia non aveva precedenti di infarto e anche quando conobbi io i ragazzi lei ancora non si dava pace.
Credo che Izzy abbia iniziato a pensare di voler fare la cardiologa quando era alle medie, quando ha realizzato che gli anni che si passavano lei e Alec erano gli stessi che passavano tra Maryse e Max.>
<< Tre anni di differenza quasi, giusto? Alexander magri voleva già fare il poliziotto e lei si sarà spaventata all'idea che un giorno potesse sentirsi male e nessuno lo avrebbe potuto aiutare.>>
Simon ridacchiò. << Oh, no, no, Alec non voleva da sempre fare il poliziotto.>>
L'uomo si bloccò in mezzo al corridoio e guardò l'altro a bocca aperta. << Il perfetto detective Lightwood che non sogna di portare il distintivo da quanto è piccolo? Non ci credo.>>
L'altro annuì. << Fallo, Alec amava tirare con l'arco e ha sempre pensato che magari potesse diventare la sua professione. Senza contare che ha un insano amore per l'entomologia, beh, per la zoologia in effetti, o forse sarebbe più preciso dire che ama la natura… pensa che c'è stato un periodo in cui stava ponderando se andare a fare biologia al college.>> sospirò divertito.
<< Ma non ha senso! Come c'è passato da fare il biologo o l'arciere, al poliziotto? Non ci credo Sammy, per me ti ha detto una balla perché si vergognava di dire che era stato il suo sogno sin da quando era piccolo.>>
Simon lo fissò per un lungo momento ed una strana espressione piegò il suo volto.
<< Cosa?>> chiese allora Magnus avvertendo quell'insolito ed inatteso cambio di atmosfera.
<< Tu hai conosciuto Alexander il poliziotto, non l'Alexander adolescente, a dirla tutta quello non l'ho conosciuto neanche io, ma vedi… >> si fermò per cercare le parole giuste e poi sospirò. << Durante il caso di Ragnor- hai presente i progetti di Jocelyn che hanno fatto accendere la lampadina ad Alec?>>
<< Potrei dirti che non sono stati i disegni a sbloccarlo ma sì, diciamo così. >>
<< Beh, all'inizio del caso, credo poco tempo dopo aver interrogato Catarina, durante una serata a casa mia Clary ha portato un paio di vecchi scatoloni per ridere dei progetti da hippie di sua madre. Tra questi c'erano delle foto e in una di quelle foto c'era tutta l'allegra banda prima- prima dell'Operazione Circle, quando erano ancora adolescenti. A guardare i suoi genitori Alec ha… disse una cosa che al momento non sentii davvero ma che a quanto pare ho comunque registrato e che di tanto in tanto mi viene in mente.>>
Magnus si accigliò, gettando un'occhiata in giro per vedere se in quei corridoi apparentemente deserti passasse mai qualcuno.
<< Cosa? Che c'entra con un piccolo Alec aspirante poliziotto?>> lo incalzò un po' infastidito. Quel discorso stava andando a parare da qualche parte che, Magnus ne era sicuro, non gli sarebbe piaciuta per niente.
Simon scosse la testa. << Parlavamo degli stili della nostra adolescenza, dai Izzy e Jace hanno passato il momento ghot e quello emo mentre i loro genitori erano veri punk e così Iz ha detto “come te Alec” e - >>
<< Simon, il punto.>> lo stroncò sempre più nervoso.
L'altro parve sgonfiarsi un po'. << Concedimelo, è proprio una giornata di merda oggi. Un attimo sono in cima alle montagne russe e l'attimo dopo sto sprofondando a terra… credo che sarebbe stato magnifico stare finalmente sul campo e invece- Poi ci si mette anche Alec che mi dice quelle cose e il cadavere di quella donna e- e io - >> espirò pesantemente ma Magnus non provò ad interromperlo o dirgli di smetterla.
Così come lui si era sentito preda di fin troppe emozioni in quella stupida mattinata così doveva sentirsi Simon che per la prima volta vedeva un cadavere, che lo vedeva dov'era morto, che percepiva il corpo come una persona e non come solo un… corpo.
Gli mise una mano sulla spalla con fare rassicurante e si sforzò di sorridergli.
<< Non ti preoccupare Steve, è normale essere confusi. Lo sono io, lo è stato anche Alexander oggi no? Hai presente come si girava per la scena del crimine e quando ci vedeva sobbalzava come se si stesse chiedendo che diamine ci facevamo noi lì? Dobbiamo solo abituarci gli uni agli altri.>>
<< Mi ha detto che non devo pensare che la vittima è stata una persona. Come faccio a non pensarci?>>
Il sorriso sul viso dell'altro si allargò. << Beh, da come salti da un discorso ad un altro direi che ci potresti riuscire benissimo.>>
Simon gli tirò una spinta leggera sul braccio e lo guardò con un mezzo sorrisetto. << Smettila di prendermi in giro dai, sono serio.>>
<< Anche io. Lo penso seriamente, puoi farcela, okay? E sì, il consiglio di Alec è giusto e sensato, non bisogna farsi coinvolgere emotivamente, quindi meglio non pensare che sono state persone.>>
<< Ha detto anche che devo tenermi il coinvolgimento emotivo per uno o due casi di tutta la mia carriera e che non conviene che prenda sul personale già il primo. Che non devo entrare in sintonia con la vittima perché così l'assassino avrà più potere su di me e che- >>
<< E che?>> lo spronò l'altro gentile, consapevole di come dire tutte quelle cose ad alta voce potesse aiutare, specie se davanti a te c'era qualcuno che poteva spiegartene il significato. E anche se erano amici, anche se ne passavano parecchie assieme ogni volta e si comportavano come due bambini, Magnus aveva comunque sette anni più di lui, era comunque “l'adulto” della situazione e voleva aiutarlo come poteva. Era suo amico dopotutto.
<< Che sarebbe stato ancora peggio se fosse entrato in sintonia con l'assassino…. >>
Quella confessione gelò il sangue nelle vene di Magnus. L'uomo si costrinse a ingoiare il groppo che gli aveva appesantito la lingua mentre da qualche parte, negli spazzi più reconditi della sua mente, un campanello suonava in lontananza.
<< Giustissimo consiglio. >> disse con un sorriso plastico. << Cosa disse quella volta Alexander? Quella delle foto?>>
Simon lo guardò di sottecchi e poi sorrise. << Chi è che salta da un discorso all'altro ora?>>
<< Mea culpa Solance. Quindi?>>
<< Qualcosa tipo “Ti pare che faccio qualcosa di testa mia”, ma non ne sono sicuro.>>
<< E tutto ciò era per dirmi che… ?>>
Il ragazzo si voltò a fronteggiarlo e drizzò le spalle cercando di essere più serio e solenne che poteva.
<< Era per dirti che ci sono cosa di Alec, il suo passato, i suoi problemi, i suoi demoni e anche alcuni suoi comportamenti che nessuno di noi comprende o conosce, che Alec non vuole farci conoscere. Quindi non stupirti troppo se ha fatto o fa qualcosa che non ti aspettavi da lui o se non ti aspettavi una certa frase o una certa idea. Lo hai appena conosciuto Magnus, hai appena poggiato i le mani sulla sua superficie, non l'hai neanche intaccata, non sai com'è dentro. Non lo sa nessuno di noi.>>
Magnus lo fissò di rimando e stette in silenzio.
Da qualche parte del mondo, dei cieli, delle profondità della terra o della vastità dell'universo qualche dio annoiato e per nulla misericordioso doveva aver deciso che quel giorno, il suo primo giorno di lavoro, doveva essere all'insegna dell'inquietudine, delle macabre scoperte e delle grandi riflessioni.
Si concesse giusto un attimo per maledirsi e ripetersi che non doveva accettare quel posto, che fin ora, dal colloquio a quella disastrosa giornata, aveva portato solo guai su guai.
Sospirò. Quella sera a casa si sarebbe scolato tutta la bottiglia di Vodka, lo giurava lì in quel momento.
Stirò le labbra perfette in un sorriso sornione. << Nessuno di noi conosce mai veramente fino in fondo che gli è vicino, Savier, è una delle tristi verità della vita, come lo è la morte. Ma smettiamola di parlare di cose tristi, come ci siamo arrivati? Parlavamo della bella Izzy e della sua passione per i morti!>>
Simon lo guardò titubante ma annuì e ricominciò a camminare.
<< Sì. Quando Iz decise di diventare un medico non lo so, ma quando la conobbi io era già una nerd dell'anatomia e delle malattie più raccapriccianti. Credo avesse visto un centinaio di volte tutto ER e Dottor House, forse anche Gray's Anatomy… >>
<< Che mi risulta non valgano come curriculum vitae per poter esser definiti “promesse della cardiochirurgia”.>>
<< No, certo che no, ma la sua conoscenza sui problemi cardiaci era inquietante. Non che ora non lo sia eh, però sentirti una ragazzina di sedici anni che ti spiega perché e per come un cuore smette di funzionare… insomma, io ero anche più facilmente impressionabile perché- >>
<< Perché era bella da togliere il fiato e avevi una cotta per lei?>> chiese Magnus sibillino e sogghignante.
Simon arrossì. << Sfido io a non aver mai avuto una cotta per Isabelle!>>
<< Io non ce l'ho mai avuta.>>
<< Perché eri troppo impegnato a spogliare con gli occhi Alec.>>
<< Non solo con gli occhi se ti può interessare.>>
<< Dio, non lo voglio sapere… già vi abbiamo coperto a Natale, vedi di non uscirtene davanti ad Iz o a Clary, okay?>>
Magnus si strinse nelle spalle. << Io non mi vergogno di nulla.>>
<< Ma va… Comunque, no, non per quello. Non so se te lo ricordi ma prima dello scorso Agosto credevo che mio padre fosse morto d'infarto.>> disse poi con semplicità.

Da quanto avevano scoperto la verità Simon si sentiva molto più a suo agio a parlare di suo padre. Era sempre doloroso pensare a lui, ricordarsi che se non fosse stato per l'onestà di Malcom e per la cupidigia di Valentine ed Hodge, lui sarebbe stato al suo fianco per tutta la vita.
Crescere senza un padre era stata dura, anche se per sua fortuna la sua migliore amica aveva portato con sé la figura spaventosa – ma sorprendentemente protettiva- di Jonathan e quella massiccia e sicura di Luke. Lucian non era stato proprio come un padre, se doveva definirlo con precisione, certo, ormai era quello il ruolo preponderante in cui lo vedeva, ma con l'uomo aveva sempre avuto più un rapporto “zio-nipote”. Era stata la sua figura maschile di riferimento per l'infanzia e tutta l'adolescenza. Era chi lo proteggeva e lo rassicurava, la persona con cui poteva parlare di cose imbarazzanti e far domande stupide senza essere preso in giro.
Con un sorriso si rese conto che verso i suoi diciotto anni quel ruolo era stato in parte preso da Alec, che aveva iniziato a rispondere alle sue sciocche fisime ma non lo aveva mai insultato per questo. Lo guardava storto e gli chiedeva perché fosse andato a rompere le palle proprio a lui, questo sì, ma poi sospirava sconfitto ed infastidito e cercava di aiutarlo. Avrebbe potuto mandarlo via in un qualunque momento ma dopo aver chiacchierato con sua sorella Simon si era reso conto che Alec, malgrado facesse il duro, lo aveva preso sotto le sue gigantesche ali che già ospitavano Jace, Isabelle e Max. Aveva accolto lui e poi anche Clary, Simon poteva vantarsi di essere stato lui il primo perché all'inizio Alec odiava Clary ed il modo in cui faceva diventare stupido Jace, ma in fin dei conti poi anche la sua piccola rossa aveva trovato riparo sotto quelle piume.
Così come l'aveva trovato il giovane uomo vicino a lui.
Magnus fece una smorfia e poi annuì. << Giusto.>>
<< Quando Izzy entrò a medicina tutti si resero subito conto che la sua conoscenza del cuore e di tutto ciò che lo riguardasse era superiore a quella dei suoi compagni. Pare che uno dei suoi professori, un cardiologo per l'appunto, la prese in simpatia e durante le lezioni in obitorio con i cadaveri veri le facesse sempre studiare il cuore dei morti, glielo faceva asportare e poi rimettere al suo posto. Era una vera “promessa” in quel senso.>>
<< Ma poi ha deciso di fare la becchina.>>
<< Questo glielo dice sempre Raphael e lei si trattiene sempre dall'ucciderlo. Non dirglielo in faccia.>> lo ammonì bonariamente il castano. << Credo che abbia deciso di cambiare “obiettivo” quando Jace è entrato prima in accademia e poi ha fatto la richiesta per la SWAT. A quel punto aveva un padre Capo della OCCB, una madre procuratore generale di New York City, un fratello detective e un altro membro della squadra di sfondamento- >>
<< Dio.. li chiamano davvero così? Ma quante battute volano su cosa, come e quanto siano in grado di “sfondare”?>>
<< A detta di Jace, mai abbastanza ma tutte veritiere.>> si strinse nelle spalle. << Quando Jace si è preso il suo primo proiettile lei era ad aspettarlo davanti alle porte del pronto soccorso, era al suo secondo anno di medicina se non sbaglio, Alec era tornato a casa da poco e lei qualche tempo dopo, forse un annetto o due, chiese cosa dovesse fare per diventare patologa. Sta finendo gli ultimi esami di specializzazione, si è messa sotto e ha dato quasi due anni di lezioni teoriche in uno.>>
<< Wow. >> fece Magnus ammirato. << E chi l'avrebbe detto che è Isabelle la più studiosa dei Lightwood?>>
<< Naa, il più studioso è Max, ma lui è un dannato genio, dico davvero, ha una mente matematica da far paura. Anche Jace ha una mente schematica e ottima per i numeri. Quello che invece con la matematica c'ha sempre litigato è Alec da quanto ne so. Aveva sempre voti alti perché Maryse è tipo l'Hitler dello studio, ma non era proprio il suo campo.>>
<< Sorprendente visto che poi si rivela sempre essere una persona che ragiona per logica.>>
<< Non è logica. Alexander è pratico, tutto qui.>> Simon gli fece un piccolo sorriso accennato, come se stesse solo rimarcando l'ovvio e si fermò davanti ad una porta metallica con delle finestrelle di vetro rinforzato con una grata a maglie larghe.
Il corridoio in cui erano ora era molto più vivo di quelli precedenti, forse perché lì c'erano i laboratori informatici, quelli scientifici e quelli balistici. Magnus trovò piuttosto divertente che la zona dedicata al coroner e alle autopsie fosse più vivace, un posto pieno di morti più attivo di tanti pieni di vivi.
Simon premette un pulsante laterale e le porte di metallo si aprirono scomparendo nel muro azzurro sporco.
Gli fece un cenno con la mano e lo invitò ad entrare per primo.
Magnus si sistemò la giacca verde con un colpo deciso ed alzando il mento verso l'alto entrò con la sua solita aria di supponenza.
Una stanza ampia e ariosa, il cui pavimento di linoleum grigio pareva aver visto il passaggio di tantissimi carrelli pesanti e che fece pensare a Magnus quanto dovesse pesare un corpo morto, ospitava quattro scrivanie, delle librerie piene di faldoni e delle sedie. Allineate lungo i muri c'era una moltitudine di porte, alcune a spinta in legno chiaro e altre come quelle d'ingresso. C'era una porta di sicurezza sulla destra, vicino ad una porta di metallo che conduceva ai bagni.
Il soffitto a cassettoni risplendeva delle lucide stecche di metallo che formavano la griglia di quadrati di materiale insonorizzante, alternati con regolarità dai quadrati luminescenti che erano le luci al neon.
Queste rimbalzavano quasi in modo fastidioso su una porta più massiccia delle altre, la cui targhetta rispondeva al nome di “Ufficio del Capo Coroner”. A quanto pare al Dipartimento di Polizia di New York City si identificava l'importanza di un agente da quanto fosse pregiato il legno della porta del suo ufficio.
Alcune persone si muovevano con tranquillità e famigliarità dell'ambiente asettico. Una donna al bancone prendeva nota degli effetti personali di qualche vittima, chiusi dentro gli appositi contenitori. Magnus poté giurare di aver visto un ragazzo in camice entrare in una di quelle tante porte con un barattolo di vetro contente quello che sperava non fosse veramente un cervello.
Simon gli diede una pacca sulla spalla e lo superò avviandosi verso una delle scrivanie a cui era seduto un uomo di circa trent'anni.
Pareva quasi che nessuno si fosse accorto di loro, che la gente lì fosse così abituata a veder entrare ed uscire personaggi di ogni tipo da non curarsi minimamente di chi fossero o come apparissero.
Quindi Ragnor era stato portato lì una volta prelevato da casa sua? Chi di quei dottori aveva avuto l'ingrato compito di fare la famosa incisione ad y sul suo torace? Dietro ad una di quelle porte si nascondevano le celle frigorifere dove era rimasto per tutto quel tempo il suo corpo?
Magnus non sentì l'amico chiedere gentilmente se il detective Lightwood fosse già arrivato e non lo sentì neanche informarsi se la dottoressa Lightwood fosse lì. Rimase con lo sguardo perso nel vuoto, puntato sulla porta in cui era entrato il tipo con il cervello ma che non vedeva realmente.
Fu solo il suono acuto ed assolutamente inadatto al luogo che si rivelò essere la voce di Isabelle a farlo voltare verso di lei.
Le sue labbra si tirarono in un sorriso che non riuscì a trattenere, vedere quella ragazza gli alleggeriva sempre un po' il cuore. Come vedere Biscottino, o Lily o Catarina. Le donne della sua vita erano tutte deputate a farlo sentire meglio, con o contro la sua volontà.
<< Ma guarda chi si vede? Così l'agente Lewis ha deciso di riscendere qui nei sotterranei e onorarci della sua presenza?>> scherzò la giovane ondeggiando sulle gambe lunghe ma stranamente coperte. Magnus ci mise un po' anche a realizzare che Izzy era più bassa del solito e che ciò era dovuto alle scarpe che indossava, degli scarponcini antinfortunistica che evidentemente facevano parte del completo da dottore o tecnico di laboratorio. I pantaloni lunghi e scuri che portava le fasciavano bene le gambe ma non come una seconda pelle, si vedeva che dovevano essere comodi, che dovevano solo darle la migliore libertà di movimento e non intralciarla. Così come la maglia bianca che portava sotto a quella celestina da medico. Aveva visto indumenti del genere indosso a Catarina per una vita e prima che a lei a Diana, la mamma di Ragnor, non avrebbe potuto non riconoscerla neanche volendo, quella era la tenuta di un dottore e Magnus non sapeva se fosse un retaggio dei suoi studi ancora freschi, quando doveva ancora correre a destra e sinistra alla velocità della luce non appena il cerca-persone suonasse, o se anche i patologi, malgrado non necessitassero di velocità assoluta per salvare una vita, indossassero comunque la stessa divisa.
L'avrebbe chiesto alla ragazza più tardi, senza dubbi.

<< Oh, non dire così Iz! Non sono ancora andato dai ragazzi oggi, se Lovelance lo sa mi lincia…>>
<< Scommetto che non sarà così. L'importante è che non ti monti troppo la testa e ti ricordi che c'è qualcuno qui giù a cui non è ancora concesso di veder la luce del sole.>>
<< Non ti stai perdendo nulla tesoro, c'è sempre il solito tempo di merda da inverno Newyorkese fuori.>> Magnus fece un passo avanti e strinse la giovane in un abbraccio saldo. << Niente sole neanche per noi esseri superiori.>>
Isabelle alzò un sopracciglio scettica. << Quindi voi sareste esseri superiori?>>
<< Assolutamente sì.>>
<< Non dirlo troppo ad alta voce, sei in un obitorio, un morto in più o uno in meno non ci cambieranno la vita e potremmo sempre trovare una scusa valida per giustificarci.>> lo minacciò con aria angelica.
<< Non c'è bisogno di tenerlo nelle vostre celle frigorifere, c'è gente che compra i cadaveri non rivendicati da nessuno per venderli alle ditte di trapianti. Ti frutterebbe anche.>>
I tre si voltarono verso la porta principale, posta direttamente di fronte a quella d'entrata, tra le scrivanie allineate.
Alec se ne stava con la spalla poggiata allo stipite metallico, le braccia conserte tiravano la stoffa della giacca sui bicipiti gonfi e sulle spalle larghe. Mosse con un cenno deciso la testa rimandando indietro un paio di ciuffi ed esortandoli contemporaneamente a seguirlo all'interno.
<< Vieni Mags, metti questa, non vorrei che ti colpisse qualche schizzo e ti sporcasse la giacca.>>
Izzy gli passò un camicione blu che Magnus fissò con disgusto, ma lo sguardo più che eloquente di Isabelle seguito da un “potrebbero arrivarti schizzi di viscere addosso, bello” di Simon lo fecero cedere e lasciò che la ragazza lo aiutasse ad indossare quel coso.
Alec non disse nient'altro, camminò sicuro verso uno dei tavoli da autopsia superando senza batter ciglio quello su cui era poggiato un assortimento di organi imbustati e fermandosi davanti al corpo della loro vittima.
Sotto la cappa luminosa della luce della lampada che vi stazionava sopra, coperta sul bacino da un asciugamano bianco, stava sdraiata quella che un tempo era stata Stephanie Garres, il torace scoperto era umido come se fosse stato appena lavato ma la cosa che fece bloccare Magnus e costrinse Simon ad un singulto di disgusto furono i lembi aperti e rovesciati della pelle innaturalmente bianca.
Il dottor Crocker, vestito di tutto punto, con un visore trasparente davanti a gli oggi e gli occhiali tondi scivolati sulla punta del naso grassoccio, era intento ad infilare le mani nel torace della donna. Con uno strattone secco tirò via la parte superiore della cassa toracica e la poggiò in un contenitore metallico rettangolare posto su un carrellino al suo fianco.
Izzy poggiò una mano sulla schiena di Magnus e si voltò per chiedere a Simon se volesse un secchio per vomitare.
Il ragazzo scosse la testa e si piegò per poggiare le mani sulle ginocchi.
<< Poteva almeno avvertirci. >> borbottò tenendo la testa bassa.
Bane diede un paio di colpi di tosse per cercare di riacquistare un po' di sicurezza, scrutando con occhi quasi increduli Alexander avvicinarsi al corpo ed infilarsi un paio di guanti presi da una scatola messa a disposizione di chiunque.
Si fermò dal lato opposto del tavolo d'autopsia e allungò al medico una ciotola su cui quello depositò una massa rossiccia che Magnus non riuscì ad identificare al primo colpo.
<< Posso guardare ora? >> Chiese Simon titubante.
<< Sta tirando fuori il cuore. >> replicò secca Izzy facendo gemere l'amico e sussultare l'altro. << Dai Simon, mi sto perdendo la mia parte preferita.>>
<< Non te lo hanno detto che non è opportuno mostrare così tanto entusiasmo per un cadavere?>> la rimbeccò il ragazzo tirandosi su senza però guardare verso il corpo.
<< Sono una patologa forense, devo per forza entusiasmarmi per queste cose.>>
<< Posso dire comunque che mi fa schifo?>>
<< Andiamo Sim! Non è la prima volta che vedi un'autopsia, non fare il delicato di stomaco ora!>>
<< Potete evitare di bisticciare qui dentro?>> lì richiamò Magnus imponendosi di fare un passo avanti, scostandosi dal tocco rassicurante di Isabelle.
La ragazza si strinse nelle spalle. << Vuoi vedere da vicino?>> gli chiese con gli occhi che le luccicavano.
Magnus scosse la tesa. << Un po' per volta tesoro. Giuro che appena c'è qualcosa di importante mi sforzo e mi avvicino. Vero Septhimus?>> fece poi voltandosi verso Simon in cerca d'appoggio.
Quello annuì freneticamente. << Oh sì sì. L'ho vista intera e a casa sua, non so se ce la faccio subito a vederla morta.>>
<< L'hai vista morta pure prima.>>
<< Sì, ma è diverso. Diamine Iz! Di solito li vedo subito sezionati, mi fa strano averla vista in un contesto normale e ora avercela distesa lì.>>
<< Sì però- >>
<< Smettetela di lamentarvi.>>
La voce imperiosa di Alec li costrinse a girarsi ancora verso di lui. L'uomo teneva con una mano un lembo di pelle più aperta possibile mentre il medico tirava fuori un'altra massa carnosa.
<< Quelli sono i polmoni. >> gli sussurrò Isabelle all'orecchio come fosse un segreto, come se stessero assistendo ad uno spettacolo e non volesse disturbare gli interpreti con la spiegazione di ciò che stavano facendo. << Il destro per la precisione.>>
Magnus invidiò moltissimo la naturalezza con cui Alexander toccava quel corpo, come allungasse svelto la mano quando Crocker gli chiedeva di reggergli quell'organo sollevato per poterlo asportare con più facilità. Si chiese da quando avesse cominciato a farlo e se un giorno ci sarebbe riuscito anche lui.
Si domandò anche se il cuore, il polmone destro o il fegato di Ragnor fossero passati tra le mani grandi, lunghe e callose del detective, se Alexander avesse mai avuto davvero materialmente la vita del suo amico tra le mani. Una vita che ormai aveva abbandonato quegli organi che non erano più altro che carne fredda, ma che rappresentavano comunque i pezzi di un sistema che un tempo aveva tenuto in piedi e fatto muovere il suo amico.
<< Uh, erano un po' rovinati. Questo non è smog, Alexander, questo è fumo. La tua vittima doveva aver fumato da giovane e smesso più tardi. >> parlò per la prima volta il medico.
Il detective annuì. << Aveva dei prodotti per sbiancare i denti nell'armadietto. >>
<< Questo vuol dire che ancora combatteva con i residui della nicotina. Direi che è stata un'accanita fumatrice e che poi ha deciso di smettere per i problemi alla pelle. >>

<< Mags? Tu li avevi visti?>> chiese di punto in bianco Simon.
<< Cosa? Gli sbiancanti?>> domandò di rimando l'uomo vedendosi annuire. << Sinceramente non c'ho fatto troppo caso.>> ammise poi tornando a guardare gli altri due.
Isabelle si era avvicinata al corpo e lo scrutava con attenzione ma in silenzio.

<< Ecco lo stomaco.>> disse soddisfatto Crocker. << Vuoi te che lo apra subito?>>
Alexander annuì. << Se per lei non è un problema ovviamente.>>
<< Certo che no mio caro. Isabelle, gentilmente potresti continuare ad asportare gli organi per me? Ognuno della sua ciotola, se c'è qualcosa di strano o interessante chiamaci subito.>> Si spostò verso un altro tavolo da autopsia vuoto mentre Izzy, al settimo cielo per quella richiesta, prendeva un visore e si metteva i guanti, dicendosi assolutamente disponibile e pronta per prendere il posto del suo superiore.
<< Non si preoccupi, ci penso io!>>
Alec seguì l'uomo vicino alla nuova postazione ed attese che svuotasse la sacca del suo contenuto. Non ne ricavarono molto, dentro vi erano solo liquidi e acidi gastrici, Crocker indicò della schiuma bianchiccia che sicuramente rappresentava ciò che era rimasto delle pasticche ingerite dalla donna ed il detective vi si curvò sopra osservandola con attenzione.
<< Non le pare un po' poca?>> chiese con la sua voce piatta e monocorde. << Il dosaggio di quelle pasticche era di 120 mg l'una, per un'overdose quanto ne sarebbero servite? Sei? Sette?>>
L'uomo ci pensò un po' su ed annuì. << Se si seguono i preconcetti medici sì, si potrebbe dire che nell'ingerire sette pasticche si potrebbe andar incontro ad un'overdose, ma un suicida non va per ipotesi, prende una dose che è sicuro possa toglierlo da questo mondo senza possibilità di salvataggio.>>
<< A meno che non volesse essere salvata.>> S'intromise Magnus da lontano.
Alec lo guardò per un attimo, esortandolo ad andare avanti e magari anche ad avvicinarsi.
<< Oh no, tesoro, non mi ci avvicino al contenuto digerito dello stomaco di un morto, grazie. >> alzò le mani e sorrise ma fece comunque un passo verso di loro. << Abbiamo appurato che la donna era vanitosa e teneva moltissimo al suo aspetto, no?>>
<< Esatto. Per questo deve aver scelto i barbiturici e non una rivoltella in bocca. >> si aggiunse Simon.
<< Quindi è probabile che volesse più attenzioni da tutti. Il marito era andato ad una convention invece di rimanere al suo capezzale a fare il bravo servetto, magari lei voleva farlo sentire in colpa e ha preso una dose che credeva non l'avrebbe uccisa ma che le avrebbe fatto guadagnare un biglietto per l'ospedale, le cure e le attenzioni di infermieri, amici, parenti e soprattutto i sensi di colpa del marito per averla lasciata sola.>> disse stringendosi nelle spalle.
Alexander ci pensò un po' su, la sua espressione indecifrabile e tranquilla come lo era sempre.
<< Potrebbe essere una delle opzioni, chiederemo al marito durante l'interrogatorio.>>
<< Ma avrebbe scritto comunque una lettera d'addio?>> domandò Simon titubante.
<< La messa in scena doveva essere perfetta, non credi Seamus?>>
Il detective li lasciò al loro ennesimo dibattito su quanto fosse opportuno chiamarlo con dodici nomi diversi sul posto di lavoro e tornò a dare completa attenzione al coroner.
<< Continua a sembrarmi davvero poca per sette pasticche.>> borbottò a bassa voce.
Crocker annuì concorde. << Questi sono solo residui ma sì, per un'overdose del genere avremmo dovuto trovare più schiuma. A meno che, seguendo il ragionamento del tuo ragazzo- >>
<< Lo sta dicendo in accezione al fatto che faccia parte della mia squadra o ha parlato un po' troppo con Magnus?>> lo stroncò subito l'agente con sguardo severo.
L'ometto sorrise bonario ma completamente scoperto. << Nessuno ti giudicherebbe, è davvero un bell'uomo, mi ricorda un po' il mio Kaowa… anche se certo, lui è hawaiano.>>
<< Dottore, per favore, mi bastano i miei fratelli che fanno allusioni in ogni momento della mia vita, almeno sul lavoro potremmo farne a meno? Sa come reagisce la gente a queste voci di corridoio, non ho intenzione di lottarvi contro fin dal primo giorno.>
L'altro lo guardò comprensivo e gli diede un colpetto sulla spalla con il polso, un modo per dargli coraggio e cercare di non sporcarlo con il sangue sulle sue mani.
<< Hai ragione Alexander, niente più battute. Se dico “il tuo ragazzo” intendo uno della tua squadra da ora in poi, okay? Ma solo se siamo in servizio, sappilo.>> mise subito in chiaro le cose.
Alec gli sorrise. << Posso accettarlo, al ringrazio.>>
<< Bene. Quindi: se il tuo collega ha ragione e la donna non voleva davvero uccidersi potrebbe aver preso un tot di pasticche prima e un tot dopo, in modo da rafforzare o prolungare solo il suo sonno e non morire.>> guardò Alexander dritto negli occhi e poi sospirò. << Ma non è ciò che tu credi sia successo.>>
<< No. Potremmo guardare in che condizioni solo le pareti dello stomaco? E portare al più presto il suo contenuto al laboratorio d'analisi?>> chiese con educazione.
Il medico annui facendo ballare il doppio mento lucido di sudore. << Certamente, Tenente.>>





Le pareti dello stomaco si rivelarono del tutto sane, se non fosse per quella leggera patina che accomunava tutte le mucose sottoposte da troppo tempo all'assunzione di farmaci di vario genere.
Quando uscirono dalla sala autopsie e Isabelle si fu fatta promettere che quella sera avrebbero festeggiato in onore del loro primo giorno di lavoro, nonché del loro primo caso risolto, Alec camminava con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e la testa bassa, immerso in pensieri tutti suoi, cercando di collegare tutti i pezzi per vedere se il ragionamento filasse.
A voler seguire il giusto metodo di indagine Alec non avrebbe dovuto formulare una vera e propria accusa, che fosse di omicidio, suicidio, morte accidentale o quel che era, finché non avesse avuto tutti gli elementi sotto mano e con ciò intendeva anche deposizioni scritte dei testimoni e dei parenti più vicini alla vittima.
Cercò di non ascoltare le impressioni disgustate e nauseate dei suoi colleghi che camminavano dietro di lui cercando ancora di capire come avesse potuto prendere in mano degli organi veri o assistere con tanta tranquillità allo svuotamento di uno stomaco, magari era qualche gene Lightwood che gli permetteva di farlo? Lo stesso che aveva spinto Izzy a scegliere quella professione? Forse, ma faceva schifo comunque.
Si estraniò momentaneamente dal luogo in cui si trovava, aveva camminato per quei corridoi labirintici per una vita all'atto pratico. Lo aveva portato suo padre quanto era piccolo a sentire le diagnosi della scientifica, lo aveva lasciato nella sala d'attesa dell'obitorio con l'ordine perentorio di coprire tutti i corpi che passavano di lì per evitare che lo traumatizzassero. Un po' come il palazzo di giustizia anche il dipartimento lo aveva visto crescere e sentendo il ronzare insistente della voce di Simon si domandò come fosse riuscito per tutti quegli anni a non incrociare lui, quella testa rossa della sua amica e quel pallone gonfiato del fratello.
La cosa effettivamente non gli interessava molto, anzi, meglio così a dir il vero.
Ciò che attualmente gli premeva sapere poteva dirglielo solo l'uomo che lo aspettava cinque piani più su, nella sala d'aspetto della Omicidi.
Erano davvero troppi mesi che non interrogava più qualcuno e non sapeva se ci sarebbe riuscito subito come faceva un tempo. Le indicazioni di base erano sempre le stesse: mettere a proprio agio l'interrogato, porre domande con educazione, non perdere la calma anche se si aveva davanti un deficiente con addosso tutta la tavolozza di paint che ti parlava del suo gatto, cogliere tutti i minimi movimenti e le contrazioni nervose ed involontarie e, ultimo ma non per importanza, sapere ascoltare.
Entrò dentro uno degli ascensori già presenti al piano e sospirò alzando la testa per trovarsi davanti al suo stesso riflesso e a quello dei suoi amici alle sue spalle. Un baluginio verde lo costrinse ad intercettare lo sguardo di Magnus che gli chiedeva silenziosamente a cosa stesse pensando, dove fosse arrivato con i suoi ragionamenti.
Alec si prese un attimo per studiare la figura dell'uomo parzialmente coperta dalla propria e da quella di Simon. Gli pareva rilassato, incuriosito ma comunque a suo agio.
Si trattenne un verso ironico tra le labbra serrate, certo, Magnus era proprio rilassato, come quando era sulla scena del crimine, sì, certo, come no.
Diede finalmente le spalle allo specchio e attirò subito l'attenzione degli altri.
<< Adesso ci saranno gli interrogatori- >> iniziò lui.
<< Posso far io il poliziotto cattivo?>> lo interruppe subito l'asiatico con la sua solita faccia da schiaffi.
<< - assisterete da dietro il vitro.>> terminò cercando di ignorare sia l'espressione scocciata di Magnus che quella delusa di Simon.
<< Cosa? Andiamo, ci togli anche il brivido delle domande cattive? Anche se devo ammettere di non essere mai stato da quella parte del vetro, o forse sì, non me lo ricordo… magari da piccolo… >>
<< Non possiamo neanche star dentro e star zitti?>> chiese l'altro con fare speranzoso.
Alec scosse la testa risoluto. << No. Lui non sarebbe capace di star zitto o di manifestare in un qualche modo la sua idea e ciò irriterebbe, spaventerebbe o metterebbe subito sulla difensiva chiunque. Tu passeresti la maggior parte del tempo a prendere appunti e interromperesti l'indiziato per chiedergli di ripetere.>>
Le sue motivazioni erano del tutto logiche e giuste ma non riuscirono comunque a togliere quella patina d'insoddisfazione dagli altri due.
<< Ho detto di no.>> rimarcò un attimo prima che Simon potesse chiedergli per favore di farlo entrare ad assistere.
<< Ma non mi porterò dietro il taccuino, lo giuro!>>
<< E io starò zitto!>>
<< Sì, io invece passo le sere al telefono con Jonathan a scambiarci pettegolezzi sulle nostre unità.>> ringhiò sarcastico mandandoli al diavolo quando lo guardarono scioccati. << Ovviamente sto facendo dell'ironia. Perché nessuno capisce mai la mia ironia?>>
<< Perché è troppo sottile, splendore.>>
<< Perché è come quella di tuo padre.>>
<< Ouch! Tiro da centro campo, Sonny!>> fece Magnus alzando la mano per battere il cinque all'altro.
Alec scosse la testa. << Ma soprattutto, perché continuo ad ascoltarvi?>> si chiese tra sé e sé abbassando la testa.
<< Perché ci ami!>>
Il coro delle loro voci esplose oltre le porte aperte dell'ascensore riversandosi dritto nel corridoio della Omicidi e Alec pensò che non sarebbe mai potuto essere così azzeccato quel nome perché degli omicidi, due per la precisione, erano proprio quelli che stava per perpetrare lui.
Gli lanciò un'occhiataccia e si vide rispondere da un sogghigno malizioso ed un sorriso imbarazzato.
<< State. In. Sala. D'ascolto.>> sibilò inacidito.
Li superò ad ampie falcate e fulminò con lo sguardo alcuni colleghi che avevano avuto il coraggio di piegare i propri muscoli facciali in un sorriso strafottente. Li vide congelarsi sul posto e deglutire agitati, evidentemente dopo gli eventi dello scorso Agosto la gente ricordava con più facilità quando fosse propenso Alec a sparare in testa agli stronzi senza preoccuparsi di quale fosse il loro grado nella gerarchia sociale.
<< Da quella parte.>> disse freddo indicando la porta della stanza congiunta a quella degli interrogatori. Non aspettò di vederli entrare e andò dritto nella sala d'attesa dove il marito della vittima attendeva terreo e stanco.
Quell'uomo non doveva aver più di quarant'anni ma Alec aveva imparato che un omicidio, che sia stato commesso, vissuto, che vi sia stata presa parte o semplicemente vi si abbia assistito, invecchiava chiunque, anche un bambino.
L'uomo si passò una mano tra i capelli corti e di un marrone sbiadito, poteva vedere delle striature grigie, capelli bianchi e alcuni che viravano sul rossiccio prima di perdere completamente il loro colore. Portava una camicia di flanella grigia come il colorito insano della sua pelle, probabilmente di norma doveva essere pallido ma in quel frangente era diventato come la sua vecchia maglia. Non sembrava proprio vestito per affrontare il freddo dell'invero ed Alec si domandò se non facesse caldo alla convention dove era stato per forse dieci ore. O se sapere della morte della propria moglie facesse aumentare la temperatura corporea.
Le sue mani erano piccole e pulite, non una sola traccia d'inchiostro le sporcava mentre invece c'era della terra sulle sue scarpe. Ciò che aveva pensato guardando il suo comodino era quindi vero, si ritrovò a constatare Alec, Harold Garres era una persona tendenzialmente disordinata e poco incline a mettersi in mostra, qualcuno a cui non interessava portare una vecchia camicia scolorita e delle scarpe sporche se questi erano gli indumenti con cui si trovava più comodo e che riteneva più caldi, ma che cercava ugualmente di tenersi al meglio. Il taglio dei suoi capelli Alec dubitava lo avesse scelto lui, dalla frequenza con cui ci passava le mani sopra ne trasudava un certo disagio, un'abitudine di tirare indietro le ciocche più lunghe proprio come faceva lui e che ancora non era stata persa.
Probabilmente sua moglie lo aveva costretto a tagliarsi i capelli per andare alla convention, per apparire più “presentabile”.
Il detective si riscosse e fece cenno ad un agente di avvicinarsi.
<< Sì Tenente?>> chiese quello educato.
Alce ignorò il fatto che lo avesse chiamato in quel modo, non ci si sarebbe mai abituato probabilmente, ma si costrinse a non pensarci.
<< Potrebbe informarsi su chi è stato l'agente a scortare qui il Signor Garres e chi lo ha invece prelevato dal lavoro?>>
Il ragazzo, che forse aveva l'età di sua sorella, annuì subito. << A prelevarlo non è stato nessuno. Ha detto di esser stato chiamato dall'amica della moglie. Si è presentato qui da solo, Signore.>>
Alec si sforzò di mostrare al giovane la sua gratitudine con uno dei suoi sorrisi storti, sperando che non lo interpretasse come una smorfia come la maggior parte della gente.
<< La ringrazio agente, mi è stato molto utile.>> si risolse a dire.
Quello drizzò la schiena e accennò addirittura un sorriso a sua volta. << Di niente Signore, faccio solo il mio lavoro. Con permesso.>> e così dicendo si congedò e tornò alla sua postazione.
Anche Alexander tornò sui suoi passi ed esaminò ancora una volta quell'uomo. Il suo vestiario era si spartano, nulla a che vedere con le cose che c'erano nell'armadio della moglie, ma tutto pulito e stirato. Annuì ai suoi stessi pensieri e si decise ad entrare e presentarsi.
<< Signor Garres.>> lo chiamò attirando la sua attenzione.
L'uomo si tirò a sedere composto e poi si alzò porgendogli la mano. << Sì? >>
<< Sono il Detec- Sono il Tenente Lightwood, il caso di sua moglie è stato affidato a me.>>
<< Sì, sì, certo, il Tenente Lightwood, me lo deve aver detto uno dei ragazzi del piano… Dio, sono così giovani, lei sembra così giovane. Non vorrei offenderla ma credevo di trovarmi davanti un uomo della mia età non- >> si lasciò cadere stanco sul divano e scosse la testa. << Mi perdoni, non so che idea mi ero fatto o perché me la fossi fatta.>>
<< Non si preoccupi, è normale. Quando si pensa alla squadra omicidi si immagina sempre un uomo con un lungo impermeabile ed i baffi, vero?>> cercò di risollevarlo un poco, di farlo sentire a suo agio. Lo vide annuire lentamente, così continuò a parlarle. << Mi spiace doverle chiedere una cosa del genere, ma avrei bisogno che lei risponda ad alcune domande su sua moglie.>>
<< Certo, tutto quello che vuole. >>
<< Gliene sarei molo riconoscente, devo chiederle di seguirmi nella sala interrogatori però, purtroppo è la procedura.>>
Garres lo guardò spaesato ma annuì comunque e si volse per prendere il proprio giaccone.
<< Sì, va bene. >>
Alec lo condusse verso la porta dal vetro opaco e si fece da parte per lasciarlo entrare per primo.
Prese un respiro profondo e si chiuse l'uscio alle spalle: iniziavano i giochi quindi.

 


 

Magnus si sporse verso la superficie trasparente che dava sulla stessa, identica stanza in cui era stato interrogato lui quasi un anno prima.
Quella volta non era stato minimamente collaborativo e gli venne da domandarsi se anche l'uomo che ora stava seduto su quella sedia di metallo che una volta aveva ospitato lui, si sarebbe comportato allo spesso modo.
La stanzetta d'ascolto era invece un contrasto quasi fastidioso con la sua metà pubblica: le pareti erano scure e solo la luce dei macchinari illuminava l'ambiente. C'era solo una sedia su cui sedeva un tecnico che dava le spalle allo specchio e teneva delle cuffie alle orecchie. Quando erano entrati Simon l'aveva anche salutato ed il giovane l'aveva guardato sorpreso di ritrovarselo lì. Ad onor del vero Magnus non aveva prestato troppa attenzione alle parole dei due e si era subito avvicinato al gigantesco vetro per studiare quella stanza famigliare.
Quando la porta si era aperta ed un uomo sulla quarantina era entrato con fare perso, stringendo tra le braccia un enorme cappotto verde militare Magnus si era voltato per richiamare Simon e se lo era ritrovato al suo fianco, intento a scrutare attentamente il marito della loro vittima.
<< Sai, non ho mai assistito ad un interrogatorio della omicidi. Luke una volta fece vedere a me e Clary quello di un ladruncolo da quattro soldi, ma diceva sempre che non voleva che sapessimo cosa che poi avrebbero potuto metterci nei guai.>> Bisbigliò il ragazzo.
Lui annuì. << Una delle poche cosa buone del cane da guardia, pensa sempre alla sicurezza di chi non può difendersi.>>
<< Parli per esperienza personale?>>
<< Temo che l'ultimo giorno della mia vita in cui non mi sono potuto difendere fu quando avevo otto anni.>> sorrise mesto.
<< E quest'estate?>> gli chiese di rimando Simon.
Magnus si strinse nelle spalle. << Avevo una pistola, potevo difendermi. Solo che in quel caso non mi sarebbe servito a molto visto che Valentine aveva già deciso di farmi fuori.>>
Simon annuì e riportò la sua attenzione sulla vetrata, una tv che trasmetteva in diretta e solo per loro un evento che non si verificava da un bel po' di tempo: il Detective Lightwood in azione in uno dei campi che più lo mettevano a disagio ma in cui, stranamente, era tra i migliori.
<< Godiamoci lo show.>>

 

 

Quelle sedie erano scomode come le ricordava, ma gli davano anche un certo senso di famigliarità, lo stesso che aveva provato quando aveva rimesso piede al Dipartimento sulle sue gambe, quando aveva firmato i moduli per la ripresa del servizio, quando gli avevano riconsegnato il distintivo o quando, proprio quella mattina, aveva trovato le sue pistole nell'armadietto. Era un ennesimo tassello che andava a combaciare con gli altri, che tornava al suo posto e gli regalava un frammento passato della sua vita a cui presto avrebbe dovuto limare i bordi per permettergli di combaciare con quella nuova.
Persino la sensazione tattile che derivava dal poggiare le mani sulla superficie liscia del tavolo gli dava sicurezza, gli diceva che stava tornando ad essere il detective Lightwood esattamente com'era prima della sparatoria.

E dire che la prima volta non ho sentito tutto questo stacco.

Afferrò alcuni fascicoli che gli erano stati portati prima da un agente probabilmente appena diplomato e li allineò davanti a sé.
Uno era il referto preliminare del coroner, l'altro la cartella medica della donna ed il terzo il sopralluogo della scientifica condito con i resoconti della telefonata al 911, della chiamata alle volanti e per finire il resoconto delle testimonianze dei poliziotti intervenuti. In quei casi sarebbe stato utile avere i verbali completi ma Alec sapeva perfettamente che oltre la scrittura lunga e tediosa di un rapporto c'erano mille altre mansioni per un agente di polizia, specie del distretto di New York.
<< Prima di cominciare, vuole che le faccia portare qualcosa da bere?>> chiese gentilmente all'uomo che scosse la testa.
<< No, la ringrazio ma… vorrei solo- >>
<< Andarsene da qui il più presto? Comprendo perfettamente, purtroppo non possiamo dare neanche un attimo di fiato ai parenti delle vittime e ai testimoni, le prime 24 ore dopo un delitto sono molto importanti, le traccie sono ancora fresche ed i commenti a caldo, non ragionati ed istintivi, sono quelli che ci danno più informazioni.>> paziente come aveva imparato ad esserlo con i suoi fratelli Alexander aprì la cartella medica della vittima e la scorse velocemente.
<< Cominciamo da qualcosa di semplice. Sua moglie soffriva di parecchi disturbi non necessariamente disagianti a livello fisico ma che potevano portarle molti problemi a livello psicologico.>>
L'uomo annuì ma lo fece con una smorfia. << Steph era ipocondriaca Tenente, che alcuni dei suoi disturbi fossero veri non ne ho dubbi, ma spesso tendeva ad esagerare. Lei- ah, era un po' una regina del drama, non so se mi spiego. Soffriva di insonnia, prendeva dei sonniferi per questo, malgrado sia io che il medico le ripetessimo sempre sino allo sfinimento che passare tutte quelle ore al computer o incollata a riviste e televisione non l'avrebbe mai aiutata a prender sonno, fosse bastato così poco.>>
<< Per le altre invece, cosa può dirmi?>>
<< La pressione bassa l'aveva, ne aveva sempre sofferto anche da giovane, ma sono sempre stato dell'idea che fosse la sua alimentazione ad infastidirla maggiormente. Sa, seguiva tutti quei programmi di benessere e cucina… un giorno dovevamo mangiare solo carne bianca, il giorno dopo per mantenere la linea bisognava solo bere acqua piena di sali minerali. C'è stata una volta in cui si era fissata con la frutta esotica.
Era decisa a rimanere in forma ma non voleva andare in palestra perché diceva che la gente la fissava, che se sudava se ne accorgevano tutti, che parlavano male di lei… mia moglie è una bella donna, lo è sempre stata, ed aveva la convinzione che tutte le altre donne avessero costantemente di che parlar male di lei e che gli uomini la fissassero con intenzioni ben poco gentili, se mi spiego.>>
<< Si spiega benissimo. Quindi la sua paranoia era il problema più grande, mi pare di capire.>> Alec prese l'ultimo fascicolo e lo aprì con lentezza, cercando le foto della scena del crimine che ritraessero la parta e l'ambiente circostante.
<< Lo era infatti. Cose come la pressione, l'animina, l'insonnia, ci convive tutto il mondo, ma la paranoia la uccideva.
Tutto ciò che succedeva era stato fatto per metterla in cattiva luce, perché qualcuno la odiava o aveva invidia di lei. Casa nostra doveva essere sempre tutta perfetta, nessun oggetto fuori posto. L'altra sera mi ha sgridato per aver lasciato la bottiglia di birra aperta in frigo, ci crede? Lei non beveva perché diceva che la faceva gonfiare, quindi l'unico che si sarebbe potuto arrabbiare con me ero io stesso per aver fatto svaporare la birra e invece lei era tutta una furia perché non c'era il tappo e se qualcuno apriva il frigo che figura ci facevamo?>> rise senza gioia e si passò la mano tra i capelli, sotto l'occhio attento di Alec che non si fece sfuggire il movimento.
<< Anche il suo taglio è stato un idea di sua moglie?>> chiese a bruciapelo.
L'uomo sussultò sulla sedia e lo guardò con fare stupito. Sorrise. << Beh, lei è davvero un uomo acuto. Sì, Stephanie pensava che se dovevo andare ad un convegno c'era pericolo che mi facessero delle foto e che se per caso qualcuna delle sue conoscenze mi avesse riconosciuto avrebbe potuto aver qualcosa da ridire sul mio aspetto.>>
<< Succedeva spesso? Sua moglie che gli imponeva dei cambiamenti sul suo aspetto?>>
Garres si strinse nelle spalle. << Non ci faccio più caso, è da una vita che succede. Di solito si sente di uomini che rinfacciano alla propria compagna di come non sia più attenta al vestiario come un tempo o cose così, io invece mi sentivo ripetere come fosse assurdo che una persona così ben vestita come lei dovesse esser vista con uno come me… quando usciva poi...>>
<< La porta di casa era sigillata dall'interno infatti. Usciva quanto spesso?>>
<< Veramente poco, giusto per andare a fare qualche visita medica o per andare a comprare qualcosa, per quelle poche corse mattutine con la sua amica e… basta temo.>>
<< Capisco.>> Alexander fissò per una manciata di secondi le cartelle, poi le chiuse con un gesto secco. << Mi racconti com'è andata la sera prima del decesso.>> domandò con tono professionale.
Garres si mosse un poco a disagio e abbassò la testa. Sul naso lungo si poteva individuare una gobbetta bassa, dei leggeri segni ai lati della cartilagine. Si sfregò le mani in faccia e annuì un paio di volte, come a volersi dar coraggio.
<< Dovevo andare al convegno, Steph lo sapeva da moltissimo tempo, mi aveva fatto tagliare i capelli, aveva dovuto scegliere lei cosa mettermi in valigia ma- ma comunque era insoddisfatta della mia partenza. Abbiamo discusso per delle sciocchezze, la birra no? Si è lamentata del disordine che lasciavo e poi continuava a dirmi che la stavo lasciando sola, mi diceva “ e se mi succede qualcosa?”, “e se ho bisogno di te?” e io ero lì a ripeterle che non sarebbe successo niente, che aveva già chiamato Libbie e si erano messe d'accordo. Avevo controllato la sveglia del suo telefono ed era programmata per le sette meno venti. Poi alle sette Libbie sarebbe arrivata e le avrebbe citofonato. Se non rispondeva avrebbe bussato alla porta. Poi telefonato ed in fine chiamato il 911. Era la nostra prassi, era così da una vita ormai.>>

<< Una prassi che la sua amica ha seguito perfettamente, i soccorsi hanno dovuto sfondare una finestra.>>
<< A Steph non sarebbe piaciuto, tutti quei vetri nella stanza… >> disse l'uomo abbassando lo sguardo.
Vi fu un momento di silenzio in cui Alexander fissò Garres, poi sospirò silenziosamente e cercò qualcosa dentro ad una delle cartelline. Ne tirò fuori una lista di nomi e li mostrò all'altro.
<< Questi sono tutti i farmaci ritrovati in casa vostra. C'è qualcosa che manca? Qualcosa in più. Potrebbe sottolineare quelli di sua moglie ed i suoi per favore?>>

 

Simon aggrottò le sopracciglia.
<< In che senso i suoi e quelli della moglie, abbiamo le ricette mediche no?>>
Magnus annuì a mala pena, << Avrà qualcosa in mente, o forse è solo il solito Alexander ed è più scrupoloso di un esattore delle tasse.>> si sporse un poco verso il vetro e socchiuse gli occhi. << Certo potevano stampare quelle cose un po' più piccole, che cavolo c'è scritto?>>
Il ragazzo si strinse nelle spalle e poi si volse verso il tecnico lì presente.
<< Ehi Mark, per caso sai cosa deve fare Alec?>>
<< Si vede che non hai mai assistito ad un suo interrogatorio, Lewis. Non chiede mai nulla a noi, solo di registrare e mandargli una copia del verbale appena è possibile. Ma non ti preoccupare, sa fare il suo lavoro, è un vero piacere stare in sala regia quando lui è dall'altra parte del vetro, non c'è mai un problema di volume, di imprecazioni, liti o risse. >> l'uomo gli sorrise e tornò al suo lavoro.
<< Beh, che Fiorellino fosse bravo a fare il suo lavoro lo sapevamo. Pensa che ha sopportato tutta la storia di Presidente senza fare una piega. Luke mi avrebbe ucciso dopo due minuti.>> non finì neanche di dire la frase che un forte pizzico lo fece piegare su un fianco.
Simon lo fissò con occhi sgranati, le labbra strette e facendo secchi cenni al terzo presente in quella stanza.
<< Cosa? Mi hai fatto un male cane, chi ti ha insegnato a dare colpi del genere?>> chiese l'asiatico infastidito massaggiandosi il fianco.
<< Jonathan è riuscito a spellarmi un braccio con un pizzico, ha stretto così forte che ci sono rimasti i segni dei polpastrelli, ma non è questo il punto. Cosa avevamo detto sui soprannomi?>>
Magnus alzò un sopracciglio, poi capì il problema e sbuffò. << Almeno non mi hai tirato i capelli.>>

<< Posso sempre farlo.>>
<< Non ci provare.>>
<< Tu tieni a freno la lingua.>>
<< Tu le mani a posto.>>
<< Solo se non fai il deficiente.>>
<< Non faccio il deficiente!>>
<< Sì che lo fai!>>
<< Non puoi fermare la mia magnificenza, è il mio animo che brilla e lo fa semplicemente troppo forte perché un topo da laboratorio come te possa comprenderlo.>>
<< Io direi che più che brillare è regredito ai tempi dell'asilo.>>
<< Ascolta Sil- >>

<< La ringrazio Signor Garres, appena avremo nuove notizie la contatteremo.>>

I due si voltarono di scatto verso il vetro per osservare Alexander stringere la mano all'uomo e accompagnarlo alla porta.
<< Cazzo.>>
<< Puoi dirlo forte… diamine ci siamo persi le conclusioni!>>
Magnus fece un respiro profondo << L'importante è che Alec non venga a saperlo.>>
<< Cosa non dovrei sapere?>>
Il detective se ne stava sulla soglia della stanza e li guardava con la sua solita faccia inespressiva, quella che sfoggiava ogni volta che voleva ardentemente prendere per il bavero qualcuno ma era in pubblico e non poteva farlo.
<< Nulla mio caro! Un interrogatorio con i fiocchi! Poi tocca all'amica? >> sorrise immediatamente Magnus allargando le braccia incedendo verso l'amico e gli batté entrambe le mani sulle spalle.
<< Soprattutto le conclusioni finali vero?>> chiese ironico il moro scuotendo il capo e staccandosi dalla porta. << No, la donna è ancora troppo agitata, è a casa sua a riposare al momento.
Forza, andiamo a mangiare, vi aggiorno su quello che vi siete persi.>>
Simon sorrise imbarazzato ma si sbrigò a seguirlo. << Non è colpa mia, se vale.>>
<< Certo che è colpa tua, non sono io quello che ha staccato un fianco all'altro.>> lo accusò Magnus sistemandosi la giacca. << Questa è violenza su collega, esiste qualche legge che lo vieta?>>
<< Mh mh, la stessa che vieta di prendere in giro, insultare, sbeffeggiare o mettere in ridicolo.>>
L'asiatico alzò un sopracciglio, << Perché ho la sensazione che ora arrivi una delle tue rispostacce ironiche?>>
<< Perché cominci a conoscerlo?>> rise Simon voltando la testa verso di lui.
<< Lo conosco molto più… a fondo di quanto non lo possa conoscere tu, caro.>> ritorse quello sogghignando e facendo storcere il naso all'altro.
<< Veramente questo potrei dirlo io di te, ma non il contrario. >> lo frenò subito Alec facendo ridere ancora Simon e costringendo Magnus ad una smorfia infastidita distorta dal divertimento latente che lo toccava.
<< Va bene, come preferisci tu tesoro. Battuta cinica quindi?>>
<< Buon senso.>> disse solo Alec arrivando alla loro postazione e prendendo il cappotto.
<< Non l'ho capita.>> sbuffò Simon imitandolo.
<< Che novità.>> Magnus superò l'amico lanciandogli il giaccone e prendendo le sue cose. Si infilò la sciarpa e poi si voltò verso Alec. << Non l'ho capita neanche io.>>
<< Che novità.>> lo prese in giro il moro. << L'unica legge che c'è è il buon senso, cosa di cui tu sei sprovvisto dalla nascita e che Simon deve ancora imparare ad usare.>>
<< Oh, tu invece sei un campione di buon senso vero?>>
Alec lo fissò dritto negli occhi, un espressione ovvia in viso. << Jace e Izzy.>> disse solo questo ma tanto bastò perché Magnus alzasse le mani in segno di resa.
<< Hai vinto tu.>>

Il moro gli concesse un sorriso storto e si rimise in marcia verso l'ascensore, felice di ritornare alle sue vecchie abitudini e di integrarvi quelle nuove che il Caso Fell gli aveva regalato.

 

 

 


Andare a mangiare un boccone alla vecchia tavola calda in cui si rifugiava da piccolo rientrava tra quelle cose che gli erano incredibilmente mancate durante la sua riabilitazione.
Non era mai stato un tipo da pranzo in compagnia, né a scuola né a lavoro, e una volta cresciuto andare in sala ristoro o addirittura alla mensa dell'accademia era una cosa che lo aveva sempre messo a disagio. Mangiare tra così tante persone che si lamentano del proprio lavoro e che si sentono in dovere di raccontarti quanto è stato duro, quanto loro siano stati bravi a farcela o quanto quel dannato criminale, spacciatore, drogato, pazzo, istruttore o compagno gli avesse dato filo da torcere, non era decisamente da lui.
Alec aveva scoperto “ L'Hidden Coffee” quando aveva 14 anni e non voleva tornare a casa per sentire i suoi fratelli lamentarsi di essersi presi l'influenza perché non si erano voluti mettere un dannato giaccone per giocare con la neve. Il suo nodo celtico della fratellanza prudeva sotto il tessuto del maglione e malgrado avesse detto a sua madre che sarebbe rimasto a studiare in biblioteca doveva comunque mangiare. Alla mensa della sua scuola c'erano i suoi compagni di classe, quei pochi amici che aveva erano a casa belli che felici e quei due-tre che erano ancora costretti nel tetro edificio di pietra stavano con la squadra a cui si erano iscritti.
Oh, e lui era un asociale sociopatico che odiava parlare con la gente e che metteva paura solo a guardarlo, certo, anche questo era uno dei motivi per cui non voleva stare lì.
Quindi, l'Hidden Coffee era stata una piacevole sorpresa, o per meglio dire qualcosa che gli era capitato tra capo e collo.
Per qualche strana ragione a lui sconosciuta Alexander aveva sempre -sempre- attirato gli individui più strani nella sua vita. Dal suo gruppo d'amici, i “secondary characters” come si sarebbero un giorno chiamati ironicamente, ai suoi fratelli che certo non si era potuto scegliere, ai suoi compagni di scuola che, di nuovo, non si era scelto lui, sino ad arrivare ai perfetti sconosciuto. Secondo le regole base dettate ad ogni bambino sulla faccia della terra Alec non avrebbe dovuto parlare con gli sconosciuti, e quella vecchietta che chiacchierava con una fermata dell'autobus animatamente come se la conoscesse da una vita rientrava anche tra quelli che sua madre avrebbe etichettato come “pazzi”, ma Alec non ce l'aveva fatta proprio ad ignorarla e quando passandole vicino nel suo vagabondare senza meta l'aveva sentita raccontare che le sarebbe piaciuto molto continuare a parlare con quel “giovanotto” ma che doveva assolutamente passare a riprendere gli occhiali dall'ottico e poi andare ad aprire il negozio, il suo senso del dovere lo aveva costretto a fermarsi ed informare la signora che lì non c'era più nessuno.
Come di preciso fosse passato dal dare una semplice e gentile informazione, all'accompagnare la vecchietta dall'oculista e da lì ad accompagnarla sino al suo lavoro, gli era ancora ignoto, però almeno lo aveva portato a conoscere l'Hidden Caffee e la sua vecchia e adorabile proprietaria, la signora Dott.
Quel piccolo localetto un po' retrò, con i mobili colorati dipinti a mano e ormai un po' scheggiati, il pavimento di legno scricchiolante e gli specchi ossidati dagli anni, che pareva tanto la bottega di una strega più che una tavola calda, era diventato il suo punto di ritrovo, il suo luogo sicuro in cui nascondersi da tutto e tutti, dove studiare e mangiare con tranquillità.

Aveva portato lì i suoi amici quando avevano un problema, quando c'era da preparare un compito difficile, quando sua sorella si lasciava con il ragazzo o Jace si beccava una punizione epica. Max era seduto al secondo sgabello del bancone a mangiare il suo gelato dopo che il dentista gli aveva messo l'apparecchio.
Dei suoi colleghi invece non c'aveva mani portato nessuno, o almeno nessuno con una pistola ed un distintivo, Chad e Daisy si ovviamente e anche qualcun altro.
Ora invece, dopo aver parcheggiato la macchina qualche traversa più in là, stava per mostrare quella piccola parte di sé, forse una delle più vecchie, anche a Magnus e Simon. Sì, perché in tutti quegli anni di conoscenza lui e la rossa non avevano mai messo piede all'Hidden.
Il ragazzo infatti parve illuminarsi e sorridere raggiante.
<< Non ci credo! Finalmente mi ci hai portato!>> Simon saltellò quasi sul posto quando scorse l'insegna decorata del locale.
Magnus invece si limitò a guardarlo incuriosito, chiedendogli silenziosamente a cosa si stesse riferendo l'altro.
<< Nulla di ché, è la mia tavola calda preferita.>> spiegò con un sorriso storto.
<< È il suo covo! Se avessi un paragone calzante con un supereroe lo farei ma al momento mi viene solo in mente di dirti che casa sua è la Lightwood Tower e questa è la sua casa a Malibù ma non sarebbe esatto. Quindi è più come dire che questo è lo SHIELD, ma non è di nuovo giusto perché lo SHIELD è il Dipartimento. Potrebbe essere la Wain Maison e casa sua la Bat caverna ma suona ancora male… magari se pesco qualcos'altro dall'universo DC trovo la giusta figura che- >>
<< Che cazzo ha detto?>> Lo stroncò l'uomo guardando Alec.
Lui si strinse nelle spalle. << Straparla come sempre. È il mio locale di fiducia, mettiamola così, ci vendo dal liceo e ogni tanto, se serve, porto qualcuno con me. >>
<< Uh-uh, in che senso se serve?>>
<< Se sei triste, malato, hai un problema o ti serve un luogo in cui trovare la pace interiore Alec arriva, ti prende di peso e ti porta qui per risolvere gli interrogativi dell'umanità.>> Simon annuì camminando all'indietro e rischiando di inciampare dopo due passi. Magnus allungò al volo la mano per tirarlo in piedi e alzò di nuovo un sopracciglio.
<< Abbiamo un problema, Alexander?>> chiese all'altro.
<< No, solo che è da troppo tempo che non ci venivo e mi mancava, quindi ho pensato che fosse meglio mangiare qui che ad una qualunque tavola calda vicino al lavoro.>> spiegò con la semplicità e la franchezza che gli erano tanto tipiche.
Un sorriso involontario tese le labbra di Magnus che fece un cenno con la testa e diede uno scossone a Simon. << Questo vuol dire che siamo speciali Steven, ci porta nel suo tempio solo perché ne ha nostalgia e non per un vero problema, è fiducia questa mio caro.>>
Con la coda dell'occhio scorse il leggero rossore che si stava espandendo sulle guance del detective e che questo si affrettò a coprire con la sciarpa azzurra che portava legata al collo.
Alec affondò il viso nella stoffa morbi lasciando a mala pena scoperto il naso e borbottando di smetterla di prenderlo in giro, che era solo una pausa pranzo, ma Magnus non lo stette davvero ad ascoltare, limitandosi ad annuire e sorridere delle battute di Simon, delle rispostacce di Alec e della piacevole confusione che quei due facevano, un rumore di sottofondo che aveva imparato ad apprezzare prima ed amare dopo e che a distanza di appena otto mesi era diventato per lui quasi necessario per sapere che tutto stava andando bene.
Malgrado ciò la sua attenzione era tutta su quel lungo nastro azzurro che circondava il collo pallido e forte di Alexander, finendo un po' dentro al colletto del giaccone e un po' fuori, sui bottoni di sicurezza che coprivano la spessa zip chiusa fino in fondo.
Era uno strano e caldo orgoglio quello che gli riempiva il petto e lo faceva sorridere soddisfatto ogni qual volta l'altro indossasse quell'indumento. Gli faceva venir voglia di assestargli una pacca sulla spalla, di quelle spezza respiro che solo Alec, Jace e il mastino riuscivano a dare, e di rinfacciargli come quell'azzurro gli stesse bene e quale magnifica scelta fosse stata. Tutto solo per vederlo alzare gli occhi al cielo, cercare di trattenere il suo classico mezzo sorriso storto e sentirlo dire esasperato che “Sì Mags, hai fatto davvero un'ottima scelta, quando ti stancherai di sentirtelo ripetere?”. La risposta ovviamente era “mai” visto che Magnus riusciva ancora a provare un piacere infinito nel godere delle sue vittorie passate e soprattutto di quell'espressione a metà tra lo scocciato ed il divertito da quel loro siparietto ormai conosciuto a memoria da entrambi.
Scoppiò a ridere quando sentì Alec minacciare Simon di fargli scendere velocemente tutti e sei i piani di casa sua con un metodo efficientissimo che, alla domanda sorpresa del castano su quale fosse questo metodo, l'altro rispose con un “Lanciandoti nella tromba delle scale”.
Simon si finse imbronciato ricordandogli quanto fosse grande l'affetto che provava per lui e come Alec invece non lo dimostrasse mai, ma c'era un sorriso nascosto dietro quelle labbra arricciate quando il detective aprì la porta del locale per lasciarli entrare per primi.
Uno scampanellio un po' stonato risuonò sulle loro teste e Magnus alzandola vide una vecchia, ammaccata campana d'ottone che doveva aver visto sicuramente giorni migliori, o almeno sperava. Aspetta, erano segni di bruciatura quelli che vedeva sul bordo?

Il pavimento di legno scricchiolò sotto i loro piedi, l'ambiente era calmo, illuminato dalla luce radente che passava tra i palazzi e che si colorava di tinte cangianti attraversando le finestre disegnate del caffè. Ai tavoli un po' scrostati, dipinti con sfumature diverse ma tutte stranamente ben abbinate le une alle altre, erano seduti pochi avventori, tutti tranquilli e immersi nei loro affari.
Fu con un moto di sorpresa che Magnus si rese conto che neanche il bambino seduto vicino a quella che poteva essere la tata o la sorella, aveva in mano un telefono o un tablet. I due parlavano a bassa voce, mangiando torta e facendo dondolare i piedi dagli sgabelli alti con le sedute scoordinate.
Gli specchi che costeggiavano i muri erano macchiati dall'ossidazione, in contrasto con le tovaglie pulite ed i bicchieri lucidi e scintillanti.
Uno sguardo al soffitto e Magnus si ritrovò a fissare tante piccole lampadine che pendevano come stelle da un cielo… lilla?
<< Alexander… ho le traveggole o quello è- >>
<< Alexander! Piccolo monello, sei tornato!>>
La domanda dell'uomo venne brutalmente stroncata sul nascere dalla voce gracchiante e acuta proveniente da una nuvola di pelo che camminava.
Una signora che poteva perfettamente essere andata a scuola con Lincoln si avvicinò a loro con passetti piccoli e svelti. Le scarpe basse e appuntite sembravano essere uscite da un cartone animato, scricchiolavano come il pavimento e attiravano l'attenzione sulle gambette secche e dritte della donna, coperte da delle pesanti calze con un motivo a maglia e conigli.
Magnus storse la bocca e si concentrò sul vestito verde che svolazzava a destra e manca, seguendo i fianchi ossuti della proprietaria, in un contrasto marcato con il lungo golf peloso e rosa che quella sfoggiava con serenità.
Il volto rugoso e simpatico, degli occhiali che dovevano essere spessi almeno un paio di centimetri tanto gli ingrandivano gli occhi chiari e delle sopracciglia disegnate con una matita rosata, lo stesso rosa del golf e lo stesso identico rosa dei suo i capelli.
<< Salve Dorotea, ti trovo bene.>> la salutò con gentilezza e dolcezza Alexander, andandole incontro e regalandole un abbraccio delicato che fece sparire la donnetta dietro a quella montagna che era il giovane.
Le mani rugose batterono sulla schiena ampia del detective per poi afferrarlo per le braccia ed osservarlo con attenzione.
<< Stai bene! Ho letto tutto sui giornali tesoro, ti è andata proprio bene! È venuto qui anche quel tuo amico dottore, con la sua collega, la cara Daisy, hai visto che pancione che ha? Si è preoccupata che non vedendoti io potessi credere che ti era successo qualcosa di male, specie per i racconti dei giornali. Ma stai bene per fortuna! Sì, sì, bene proprio. Ho ridipinto il soffitto, hai visto caro? >>
La vecchietta cominciò a parlare senza posa, saltando da discorso in discorso. Girò attorno ad Alec controllandolo da ogni angolazione e poi si voltò verso di loro e rimase ferma a fissarli con gli occhi sgranati.
<< Nuovi amici? >> chiese sorridendo, le labbra rosa cipria si tesero come una linea accecante tra il reticolo di rughe che erano le sue guance. << Lui è tanto colorato! >> indicò Magnus che provò a presentarsi e ringraziarla per il complimento ma che fu bellamente ignorato, << E lui invece ha davvero un visino gentile!>>
Simon arrossì e lanciò uno sguardo allarmato ad Alec che scosse la testa come a dirgli di lasciar perdere e posò una mano sulla spalla della signora.
<< Quello colorato è Magnus, quello con il viso gentile è Simon. Sono entrambi adulti Dorotea, non trattarli come bambini per favore. Sono colleghi.>> spiegò gentile.
<< Oh! Colleghi? Con la pistola? Di solito mi porti solo quelli intelligenti, non quelli forti.>>
Magnus ridacchiò a quell'affermazione. << Quindi tu rientri tra i forti ma stupidi, Alexander?>>
Il giovane storse il naso ma fu di nuovo la vecchietta a rispondere.
<< Ma no, no mio caro, se mi dici così si vede proprio che non lo conosci Alexander! Lui è più che intelligente! Sai che a quindici anni mi ha riparato la macchina del caffè? Il tecnico diceva che era da buttare, poi lui è arrivato qui di corsa come una furia e mi ha chiesto se poteva rimanere anche se il negozio era chiuso e quando il tecnico se n'è andato mi ha detto che poteva provare lui a vedere cosa c'era che non andava!>> tutta allegra prese sotto braccio i due nuovi arrivati e li trascinò con sé verso quello che sapeva essere il tavolo di Alexander.
<< Davvero? E come c'è riuscito?>> chiese curioso Simon, Magnus invece lanciò un occhiata ad Alec da sopra la spalla mimando un “Lavori di casa, sexy” che fu ripagato da un discreto dito medio.
<< Ha cambiato la centralina, qualcosa così, è andato a cercarmi il pezzo in una discarica di elettrodomestici e alla fine ne ha montato uno di un… cos'era caro? >>
<< Un'idropulitrice credo.>>
<< Non c'è un solo bar in tutta New York City che faccia la schiuma ai cappuccini con una pressione forte come la mia!>>
<< Certo, ci spari dentro un getto in grado di scrostare una macchina… >> borbottò Alec lasciando che Dott portasse i ragazzi a sedere e cominciando a spogliarsi a sua volta.
<< Spero di vedervi ancora qui visto che lavorate con Alexander ora.>> muovendosi con confidenza nell'ambiente che la vedeva praticamente integrata nel suo stesso arredo, sistemò delle posate e dei bicchieri davanti ad ogni posto e riprese al volo Magnus quando stava per sedersi sul divanetto poggiato al muro. L'uomo la guardò perplesso e lei per tutta risposta aggiunse prima un altro bicchiere a quella postazione e poi sorrise: << Quello è il posto di Alexander, tesoro.>>
Il ghigno soddisfatto che si aprì sulla faccia del tenente quando superò l'amico per lasciarsi cadere pesantemente sul morbido cuscino sarebbe dovuto esser immortalato per i posteri, o solo per la disfatta del cuore di Magnus che associava quell'espressione strafottente a cose ben diverse e che rischiava di fargli venire un infarto ogni volta.
E meno male che dovevano comportarsi in modo maturo e professionale.
<< Non sei corretto.>> borbottò prendendo in mano il menù e accomodandosi sulla poltroncina davanti al moro.
<< Non so di cosa tu stia parlando.>> rispose quello tranquillo.
<< Questa è una di quelle situazioni spiacevoli in cui ci si ritrova tra mamma e papà che discutono?>>
Simon si era aggiudicato il posto a capo tavola, in mezzo agli altri due che si lanciavano sguardi degni dei bambini delle medie.
<< No Sonny, non si discute davanti ai bambini, è la regola base dei genitori.>>
<< Ti ci sono voluti solo nove mesi per capirla, ammirevole, il giusto tempo che serve ad una madre per prepararsi alla nascita del figlio..>> lo prese in giro Alec, << Scegliete cosa prendere su, Dorotea è brava in tutto.>>
<< Allora temo proprio che sarò costretto a prendere il panino farcito!>> sorrise entusiasta il castano.
Quando ebbero ordinato il proprio panino farcito, il club sandwich e il solito, Alec prese alcune carte che si era portato dietro e le passò ai colleghi.

<< Da quanto dice il marito l'idea che Magnus si era fatto della vittima è giusta, >> e prima che l'altro potesse esultare compiaciuto, << in parte.>>
<< In che senso?>> chiese quello accigliato.
<< Era molto superficiale ma non era di quelle persone che si mostrano sempre in giro, non usciva quasi mai di casa. >>
<< Quella parte dell'interrogatorio non ce la siamo persa.>> borbottò Simon girando pigramente la cannuccia del suo tea freddo.
<< Solo la parte finale quindi?>> domandò ironico Alec ricevendo in risposta un mugugnio d'assenso.
<< Il signor Garres è miope, i medicinali trovati a casa sono tutti quelli che avevano, le ricette non dicono nulla di strano e sua moglie, per quanto fosse stressata o sotto pressione per qualcosa non gli era parsa prossima al suicidio.>>
<< Potrebbe mentire sui medicinali, hai chiesto al medico?>> gli fece notare Magnus.
Alec alzò un sopracciglio e storse la bocca. << Ovviamente, ma sappiate che queste cose dovrete farle voi in seguito.>>
<< Accertarci che le testimonianze degli indiziati siano corrette intendi?>>
<< Woh woh woh.>> L'asiatico si tirò a sedere più composto e fece saltare lo sguardo dall'uno all'altro. << Da quando stiamo parlando di indiziati? Mi pare che sia più che chiaro ciò che è successo. Il marito la lascia sola per un convegno, lei si sente trascurata, si chiude in casa come fa sempre e decide di prendere un po' di medicinali in più del solito, forse per far preoccupare il marito o forse per farla finita una volta per tutte. Sbaglio?>>
Simon si fece pensieroso e annuì debolmente. << Sì, sembra la cosa più probabile, ma come la spieghi la presenza di poche pasticche nel suo sto- >>
<< Non finire la frase Samuel, non quando stiamo per mangiare.>>
<< Okay, ma Alec non ha detto che parevano poche?>> si girò verso il ragazzo e quello annuì.
<< Sicuramente c'è una spiegazione anche per quello.>>
<< Sentite, secondo ma la costa principale che stiamo sottovalutando sono le lettere. Non le ho lette, e va bene, ma voi avete detto che erano proprio come quelle di un suicida no?>>
<< Hai mai letto le ultime parole di un suicida Magnus? >> chiese asciutto Alec mentre l'altro scuoteva la testa, << Nessuna è uguale alle altre. Sono accomunate da una serie di particolare certo, ma se trovi delle lettere uguali si parla di un serial killer . In ogni caso le ho lette al volo e più che messaggi d'addio parevano le pagine di un diario di una ragazzina liceale con problemi di autostima, di vittimismo e paranoia. Non quelle di una donna adulta che vorrebbe farla finita.>>
<< Aspetta, vuol dire che… non voleva uccidersi davvero? Ha sbagliato le dosi e basta? Dio… questo è ancora più triste...>>
Stettero in silenzio il momento in cui Dott portò loro le ordinazioni e sia Magnus che Simon rimasero immobili a fissare la pila di puncake al cioccolato e il milkshake che la donna piazzò davanti ad Alec.

Il moro alzò lo sguardo che ancora sorrideva felice per il suo piatto ma ebbe il buon senso di arrossire e dare qualche colpo di tosse prima di riprendere a parlare.
<< Comunque, sì, penso che la sua morte sia stata frutto di uno sventurato errore.>>
<< Oh no dolcezza, non te la cavi così facilmente. Adesso mettiamo per un attimo da parte il lavoro e parliamo delle tue pessime abitudini alimentari. >> lo inchiodò Magnus.
<< Questo è il tuo solito? Mi stai dicendo che se mi presentassi qui alle otto di mattina, all'una o alle dieci di sera ti ritroverei a fare colazione?>>
Il borbottio sommesso fu tutta la risposta che ebbero.
<< Come?>> domandò divertito il più grande prendendo in mano una metà del suo sandwch.
<< Ho detto “solo d'inverno”.>> ringhiò Alec, << Ora mangiate e sbrigatevi anche.>>
<< Poi ti lamenti con me che mangio dolci a go-go.>>
<< Io mi lamento con te che mangi dolci in continuazione e poi ti senti male. Mi hai mai sentito lamentarmi di quanto mi avesse fatto male un determinato cibo?>> Lo sfidò drizzando la schiena e affondando la forchetta nell'alta pila. Il cioccolato colava dai livelli di frittelle, mischiandosi con il burro che andava via via sciogliendosi sulla sommità della composizione e che Alec aiutò con una generosa dose di sciroppo d'acero, per il disgusto personale di Magnus.
<< Dio… ma quanta roba ci metti? >>
<< Quella che mi pare.>> e per rimarcare il fatto mise lo sciroppo anche sulla panna che decorava il milkshake. << Tornati in ufficio dobbiamo vedere i referti della scientifica e quello definitivo del coroner. Se tutto fila liscio ce la caviamo con un paio di domande e poi chiudiamo il caso.>>
Magnus annuì masticando lentamente. << Il nostro primo caso risolo in un giorno solo.>>
<< Il Capo Blackthorn ha detto che ci aspettavi con uno già assegnato, te lo sei scelto tu?>> domandò invece Simon sputacchiando briciole di pane ovunque.

Con una coordinazione fenomenale gli altri due presero al volo un tovagliolo e glielo poggiarono ognuno su un angolo della bocca. Si fermarono a guardarsi e poi sogghignarono.
<< Questo si che è essere dei buoni genitori, Fiorellino.>>
<< Smettetela di prendermi in giro!>>
<< Abbiamo avuto la fortuna di incappare in un suicidio, Silvan, cos'altro potevamo chiedere?>>
<< Di trovare la vittima ancora viva?>> fece il ragazzo ironico.
<< Ma così non avrebbero chiamato noi.>>
<< Per l'ultima volta.>> Alec poggiò le posate sul piatto e fissò i compagni. << La Omicidi viene chiamata se c'è un cadavere, se il caso è collegato ad un omicidio o un caso passato o se c'è stato un possibile e sospetto omicidio. Potremmo anche dover ritrovare una persona scomparsa la cui amica viene creduta morta o è stata trovata morta.>> sbuffò in fine.
<< Come successe anni fa alla figlia di quel senatore?>>
La domanda innocente dell'uomo fece gelare il sangue nelle vene agli altri due. Simon rimase con il panino alzato a mezz'aria ed Alec si pulì la bocca per prendere poi un lungo sorso della sua bevanda. Nessuno di loro osò rispondergli e Magnus li guardò senza capire.
<< Ho detto qualcosa di sbagliato?>> quando succedeva che con una sola frase riuscisse a ridurre al silenzio tutti e due? In genere quando si trattava di argomenti delicati e personali, qualcosa che riguardava il passato di entrambi o quello di uno solo che però l'altro ben conosceva. Quando si parlava dei loro famigliari forse o del lavoro.
Una vocina gli disse che era sicuramente quello il motivo, anche perché ricordava qualcosa di vago detto da qualcuno su un caso a cui partecipò Alec agli albori della sua carriera.
A ben pensarci al tenente non dovevano essere nuove situazioni del genere, quella stessa mattina gli aveva raccontato che l'orologio presente al piano della Omicidi era un regalo di un facoltoso designer a cui la Omicidi stessa e la sezione Persone Scomparse aveva ritrovato la figlia.
Aspettò che il moro finisse di bere per riordinare le idee. Si pulì di nuovo la bocca e prese un respiro profondo e controllato.
<< Sì, anche in casi come quello. Per questo invece eravamo semplicemente la squadra meno esperta al momento disponibile e mi hanno chiesto se non mi dispiacesse occuparmene mentre gli altri si concentravano su casi più complessi. È stata una buona battuta d'inizio comunque, aiuta a far l'occhio sui particolari.>>
Una risposta così calma e ponderata gli fece intuire quanto quel discorso dovesse poco piacergli e decise di lasciarlo perdere. Annuì e gli sorrise invece, mettendo poi un broncio infantile ed iniziando a lamentarsi di quanto fosse ingiusto che avessero lasciato a loro la cosa più banale solo perché gli altri si credevano troppo bravi per una cosa del genere.
Simon di fianco a lui ridacchiò nervoso e cercò di riportare l'argomento sul suicidio della signora Garres, domando quando avrebbero dovuto scrivere il verbale e come dovevano procedere.
Il pranzo prosegui senza intoppi ma la mente di Magnus, una piccola parte, quella non impegnata a chiacchierare del più e del meno e a lanciare frecciate gratuite ai suoi colleghi, si domandava perché parlare di quel caso ormai vecchio di anni infastidisse così tanto Alexander.
Mente uscivano dal locare, stretti nei loro cappotti e con le pance piene, Magnus si rese improvvisamente conto di non sapere niente sul lavoro passato del giovane tenente.
Lo guardò con la coda dell'occhio e tutto ciò che riuscì a fare fu domandarsi quanto ancora ci fosse da scoprire in lui.

Che mi nascondi, Alexander Lightwood?

 

 

 

 

 

Le luci violacee illuminavano la lunga e lucida lastra nera che fungeva da piano per il bancone del locale. Magnus riusciva a vederne i riflessi anche da quella distanza e dire che inizialmente avrebbe voluto un materiale che l'assorbisse la luce, non che la rispecchiasse per tutto l'ambiente.
Il suo trono, come amava chiamarlo lui, situato su una postazione soprelevata che gli permetteva di sorvegliare il cuore pulsante del suo regno, ospitava una serie di individui che un tempo mai avrebbe immaginato di veder riuniti, soprattutto non per merito suo e non in modo positivo.
Clarissa Fray, piccola e rossa come solo lei poteva essere, se ne stava seduta con le gambe sul divanetto nero, un cocktail arancione quasi come i suoi ricci in mano, lo muoveva a destra e sinistra rischiando di farlo cadere addosso a Isabelle che le stava seduta vicino, stretta in un vestito di pelle che si abbinava alla perfezione con il locale e che la faceva sembrare una pantera nera. Il generoso scollo le metteva in mostra il seno alto e florido, una pietra rossa grossa quanto il pugno di un bambino adagiata sul solco schiacciato dalla taglia ridicolmente piccola dell'indumento. Con un certo strano occhio critico Magnus si disse che forse, per una donna in carriera come lei, andare vestita in quel modo in locali del genere non le faceva bene. Lui sapeva quante male lingue esistevano e quanto un semplice rumor poteva distruggere la scalata lavorativa di chiunque, anche di un'aspirante patologa forense.
Osservò lei e Clary ridere e chiacchierare del nuovo lavoro della rossa, che tanto la entusiasmava anche se era a tempo pieno e non le lasciava troppo spazio per i suoi progetti personali, di come stessero ancora cercando la casa giusta, lei e Jace, e di come avrebbe voluto colorare le pareti.
Davanti a loro c'erano invece Simon ed il biondo sopracitato, che tentavano inutilmente di convincere Raphael a dire qualche imprecazione in spagnolo, ad insegnargli brutti modi di dire che si sarebbero potuti rivendere in centrale, il tutto mentre il ragazzo li inceneriva con lo sguardo e li ignorava, sostenuto da una ridente Catarina che cercava di sviare l'attenzione di quel duo esplosivo che era la coppia Lewis-Lightwood.
A ben riflettere, Simon era un elemento che creava disordine con chiunque dei Lightwood lo si accoppiasse. Solo Alec riusciva a tenerlo a freno.
Alec che per altro era stato completamente rapito da Lily Chang, che nel suo abito verde veleno scambiava con lui battute al vetriolo su chiunque capitasse malauguratamente sotto la loro vista e su cui uno dei due poteva raccontar qualcosa. Anche loro erano un'accoppiata terribili, specie se si pensava al modo in cui la ragazza pareva essersi affezionata in tempi record al gigante -falsamente- buono.
Ma né i vestiti troppo succinti di Isabelle, l'allegria di Clary, le sparate di Jace e Simon, né i commenti caustici di Alec e Lily avevano attirato la sua attenzione.
Con il suo bicchiere stretto tra le mani in un modo in cui mai lo teneva perché scaldava subito la bevanda, Magnus faceva saltare il suo sguardo dal bancone riflettente alla cupa presenza di Raphael Santiago.
Che Raph fosse cupo, taciturno e costantemente di cattivo umore non era certo una novità, eppure qualcosa non gli quadrava nel suo comportamento. Pareva distante, scostante più del solito, sicuramente perso in ragionamenti tutti suoi.
Aveva forse problemi a lavoro? C'era qualche affare che non gli piaceva o che gli dava delle grane?
Erano tutti lì riuniti per festeggiare la fine del loro primo caso. Fine “teorica” a sentir Alexander ma che lui e Simon avevano già decretato come bello che chiuso, dopotutto cos'altro poteva esserci? Avevano analizzato tutte le prove, fatto gli opportuni controlli ed interrogatori.
Okay, aveva fatto tutto Alec, ma c'era da dire che agiva in automatico e solo dopo aver fatto qualcosa si ricordava che c'erano anche loro due e borbottava che la prossima volta sarebbe spettato a loro farlo, ma questi sono dettagli e non avevano nulla a che fare con il comportamento più sinistro del solito di Raphael.
Con uno slancio ben calibrato si alzò e vuotò il contenuto del bicchiere in un sorso solo, il ghiaccio sciolto aveva annacquato così tanto quel Martini che ormai non sapeva di niente.
Si fece largo tra quelle gambe allungate nel suo privé e diede una manata sulla spalla del messicano.

<< Acompáñame a tomar que beber, muovi il culo su.>>
Raphael lo guardò storto ma neanche quello sembrò lo stesso sguardo assassino del solito.
Si alzò senza dire nulla, senza replicare o dirgli di non rompergli le palle. Lo seguì a testa bassa, perso in ragionamenti suoi e lontani da lì.
Neanche dovettero mettersi d'accordo, si sedettero entrambi al bancone ed il barista gli preparò subito la loro solita ordinazione.
<< Allora? Che hai?>> gli chiese a bruciapelo, sicuro della privatezza delle loro parole sormontate dai bassi che pompavano musica a tutto volume.
<< Ti diverti a fare il detective anche con me?>> gli rispose stizzito l'altro.
Magnus scosse la testa. << Non hai fatto i soliti commentacci, non hai minacciato nessuno di morte, Lily e Alec stanno prendendo per il culo tutto il Pandemonium e tu non te ne sei neanche accorto. Se fossi stato al meglio delle tue condizioni a quest'ora averi un trio di stronzi ad insultare i miei clienti, non solo quei due .>>
Con una smorfia ed un cenno del bicchiere Raphael gli diede ragione. Si guardò attorno con fare vago, lo stesso che però usava quando doveva confidargli qualcosa di importante o pericoloso.

Mi ci manca solo questo.

<< Qualche tempo fa ho ricevuto della posta.>> iniziò vago.
<< Ti hanno minacciato? Non sarebbe la prima volta, ti hanno spedito qualche parte del corpo o hanno evitato di inzupparti la corrispondenza di sangue?>> replicò lui con lo stesso tono.
Raphael si strinse nelle spalle. << Niente sangue, niente minacce. Anche se forse lo era lo stesso in un qualche senso, forse sarebbe stato meglio un dito o una testa.>>
<< Ahi, in che guaio ti sei cacciato?>> fece voltandosi per guardarlo in faccia.
<< Non mi ci sono cacciato da solo, partiamo da questo. Quella lettera è stata una conseguenza di ciò che è stato, di ciò che abbiamo vissuto e di dove sono arrivato.>>
<< “Abbiamo”? Perché il plurale?>>
Il ragazzo rimase poggiato al bancone lucido facendo girare pigramente il cocktail. Gli occhi scuri parevano dello stesso colore del piano, ne riflettevano la tinta cupa ma non le luci che vi si specchiavano sopra. In quel momento Raphael sembrava aver più dei suoi ventisette anni, pareva aver visto decenni e decenni scorrergli davanti, aver vissuto con centinaia di persone di culture e ideologie differenti. Vedere Raphael Santiago pensieroso, preoccupato, era qualcosa che chiunque lo conoscesse un minimo si sarebbe augurato di non veder mai.
<< Ne deduco che a te non sia arrivato nulla.>> disse con voce piatta. Il bordoux nel bicchiere s'arrampicava lungo i bordi e riscivolava ogni qual volta venisse cambiata l'angolazione del suo contenitore.
<< No, cosa dovrei aspettarmi?>> domandò Magnus serio, il tono basso e controllato.
Un verso di scherno lasciò le labbra morbide dell'amico.
<< Nulla. La cosa ha senso, non credo che ti arriverà mai nulla, tu non fai parte di questo gioco, non nel modo in cui ne faccio parte io almeno.>>
<< Raph smettila di parlare per enigmi e dimmi che cazzo sta succedendo. Che posta ti è arrivata? Cosa potrebbe esserci di peggio delle minacce?>> si stava innervosendo, sentiva il formicolio prudergli dietro al collo e sulle clavicole.
Quella giornata non era stata perfetta, era stata un altalena di emozioni e di sensazioni, di momenti di eccitazione e altri di cupa tensione, gli ci mancava giusto l'amico che parlava come la dannata Sibilla.
Finalmente il giovane poggiò il bicchiere sul piano, il vino si quietò lasciando vedere a tutti come fosse stato intoccato. Fissò gli occhi castani in quelli verdi di Magnus cercando di trasmettergli tutta la serietà di quel momento, di quella confessione, di quella frase
<< Ho ricevuto la chiamata.>>
Solo quello, non disse altro, non gli spiegò cosa fosse, perché a lui, perché ora.
Magnus lo osservò ma pareva quasi non riuscire a cogliere tutti i significati di quella frase.
<< La… la chiamata?>>
La chiamata? Cosa diamine era “la chiamata”? Chi doveva chiamarlo? E perché lui avrebbe dovuto capirlo così, al volo?
La chiamata.
La chiamata.
… la chiamata?

Quella chiamata?

La consapevolezza svolazzò davanti al suo volto e gli si poggiò beffarda sul naso.
<< Non vorrai dirmi che- >>

<< Eccovi!>>
Simon si sporse tra loro due chiamando il barista e chiedendogli una birra ed un Long Island, Isabelle dietro di lui se ne stava a braccia incrociate e scuoteva la testa.
<< Anche un Invisibile e una Capiroska, Sim. Ragazzi! Cosa ci fate qui tutti soli soletti quando dovremmo festeggiare la riuscita del vostro primo caso?>>
Magnus si stampò sul volto il suo miglior sorriso falso, sperando che l'alcol nelle vene dei ragazzi e le luci soffuse del locale non lasciassero vedere la tensione che permeava i suoi muscoli.
<< Stavamo facendo chiacchiere amichevoli come sempre, è da un po' che io e questo cretino qui non ci scambiamo i nostri sporchi segretucci.>>
<< Questo perché non mi interessano, così li dici a Catarina.>> Raphael si voltò di nuovo verso il bancone, bevette tutto d'un sorso il contenuto del suo bicchiere e poi lo spinse verso il barista.
<< Per me la serata è finita, me ne vado a dormire.>> sentenziò alzandosi.
<< Oh dai! Non fare così amigo! Dobbiamo festeggiare oggi!>> Simon gli si avvicinò passandogli un braccio attorno alle spalle e probabilmente si sarebbe beccato anche una testata in fronte se in quel momento non fosse arrivato Alexander.

Giusto perché ci mancava qualcun altro.

Magnus gli sorrise ma il moro aveva una strana espressione accigliata, pareva pensieroso e anche infastidito. Strano, pensò l'uomo, lo aveva lasciato che si divertiva tanto con Lily… beh, “divertire tanto” era un parolone ma comunque non credeva che la loro ormai comune amica potesse riuscire a fargli cambiare umore così velocemente, soprattutto non ad Alec che era temprato dagli anni di rispostacce di Jace e Izzy.
<< Simon, lascia Raphael, lo stai infastidendo.>> Si sporse anche lui per poggiare il suo bicchiere sul banco, malgrado Magnus gli avesse ripetuto decine di volte che potevano lasciare tutto nel privé e che se ne sarebbero occupati i camerieri.
<< Qualcosa non va?>> gli domandò il proprietario del locale.
L'altro scosse la testa. << Mi hanno chiamato dal lavoro, >> iniziò con tono basso. Poi si rese conto che la cosa poteva suonare preoccupante e si sbrigò a spiegarsi. << Nulla di urgente, solo i risultati delle analisi della vittima.>>
<< E questi risultati non ti sono piaciuti. Non era quello che ti aspettavi?>>
Alec sospirò. << Al contrario. È esattamente ciò che credevo.>> accennò un sorriso storto e poi sopirò, << Sto tornando a casa, vorrei rivedere un paio di documenti e poi andare a sdraiarmi, non ho mai avuto l'anima del festaiolo, queste cose non fanno per me.>> la sua giustificazione arrivò un po' impacciata assieme ad un vago alone scuro sui suoi zigomi che Magnus identificò come rossore malgrado le luci non aiutassero. Almeno se Alexander arrossiva significava che non c'era davvero nulla di cui preoccuparsi, ma anche che probabilmente aveva intuito che lui e Raphael stavano parlando di qualcosa di privato e che gli dispiaceva di non esser riuscito a tenergli lontano quegli altri due.
<< Ma come?! Anche tu ora?>> Izzy mise su un broncio infantile che non avrebbe sfigurato vicino a quello di un bambino di cinque anni ed il fratello le lanciò un'occhiata valutativa.
<< Quanto hai bevuto?>>
<< Non abbastanza perché tu mi faccia questa domanda.>> gli fece la linguaccia.
Alec sospirò. << Fai come ti pare, sei maggiorenne e responsabile delle tue azioni e decisioni. Io vado a casa, non alzare troppo il gomito, né te né Jace, vi ho avvisati, non venite a lamentarvi con me del dopo sbronza.>> poi guardò anche Simon. << Lo stesso vale per te e Fray.>> lo minacciò.
Il ragazzo alzò le mani in segno di difesa. << Non lo faremo, ma tu mi dici cosa ti hanno detto?>>
<< Domani.>> sentenziò solo. << Chi altro va via?>>
<< Io.>> Raphael si sistemò la giacca voltandosi a fronteggiarlo.
<< Sei venuto con Catarina, vuoi un passaggio a casa?>>
Magnus sogghignò divertito. << Oh, quanta premura Fiorellino, ma non ti preoccupare, al messicano qui basta alzare la cornetta e una limousine correrà subito a prenderlo. È un viziato del cazzo.>>
<< Mai quanto te.>> gli ringhiò di rimando.
<< Ovviamente. Dobbiamo finire il nostro discorso però, ricorda.>>
Gli occhi verdi dell'uomo saettarono sul viso del compagno con una tacita minaccia. Erano stati interrotti probabilmente sul più bello e Magnus sperava vivamente di aver capito male. Aveva bisogno che Raphael gli dicesse a voce cosa stava succedendo, non avrebbe creduto alla sua intuizione finché non l'avesse sentita uscire dalle labbra di altri, ormai certa.
L'altro pareva non aver apprezzato però, il suo di sguardo era duro e freddo, come se non volesse mai più toccare quel discorso in tutta la sua vita o per lo meno finché non avrebbe sistemato le cose. E Magnus sapeva che spesso come sistemava le cose la famiglia Santiago non era mai lecito o legale.
Cercò di fargli capire che voleva aiutarlo, qualunque fosse il problema ma Raphael gli sfuggiva, faceva volare la sua attenzione tra le persone ammassate nel locale e poi, di punto in bianco, come se avesse ricevuto un'illuminazione divina, si volse verso Alexander e lo scrutò attento.
<< Accetterei volentieri quel passaggio, non ho voglia di incontrare qualcuno del lavoro prima di tornarci.>> la sua voce era stata ferma e sicura eppure Magnus vi lesse dentro tutta la bigia che celava. Sarebbero venuti i suoi parenti a prenderlo, i cugini, i fratelli, gente della Famiglia, erano queste le persone che Raphael chiamava quando non voleva aver attorno nessuno, quando non voleva i suoi lecchini o coloro che lo temevano a servirlo e riverirlo.
Chiamare la Famiglia però implicava anche che chiunque fosse giunto in suo aiuto sarebbe stato autorizzato a fare domande, a chiedergli perché fosse di umore più tetro del solito e che ad un suo rifiuto a parlare o ad una risposta non soddisfacente tutto il resto del Clan Santiago sarebbe stato messo a parte della cosa.
Alexander invece non gli avrebbe fatto domande, non gli avrebbe chiesto nulla se non un “ti senti bene?” e la via di casa sua, se voleva che lo portasse all'Hotel direttamente o da qualche altra parte. Alec non avrebbe chiesto nulla. Nulla. A meno che non fosse stato Raphael per primo a chiedere qualcosa a lui.
Sentì prudere sulla punta della lingua una domanda che dovette rimangiarsi a forza. Non poteva neanche chiederglielo in spagnolo perché, per quanto ubriachi, sia Simon che Isabelle lo parlavano almeno in modo basilare. Per altro non conosceva il livello di Alexander.
Fissò gli occhi in quelli del suo vecchio amico e sperò di riuscire a trasmettergli tutti i dubbi ed i quesiti che in pochi minuti avevano popolato la sua mente.

È così grave? È davvero ciò che credo sia? Come ne sei coinvolto? Lo sei a tal punto da dover chiedere aiuto ad un poliziotto? Al mio poliziotto?

Ma Raphael rimase barricato dietro alla sua maschera di ferro e Magnus si ritrovò a desiderare ardentemente che Ragnor fosse ancora tra loro come non lo faceva ormai da un po' di tempo, da quando si era seduto alla tavola di Natale e aveva ascoltato in paziente silenzio la preghiera di quella sera. Si era ripromesso di continuare a vivere e di farlo nel presente, di non trascinarsi dietro il fantasma di Ragnor come un fardello pesante ma di tenere sempre con se il suo ricordo.
Solo lui però sarebbe stato in grado di far parlare il più piccolo dei Santiago in quel momento, quando la risolutezza risplendeva sulla dura patina d'ossidiana che copriva le sue iridi.

D'altro canto, da coma Alec aveva annuito, Magnus poté dire che qualcosa doveva sospettarlo, malgrado non sapesse quale fosse il problema di base.
Se ne andarono poco dopo, mescolandosi alla folla e sparendo oltre le porte nere che permisero alla scura notte newyorkese di fagocitarli nel suo costante fervore.
Ancora una volta pensò che se Ragnor avesse conosciuto Alexander i due sarebbero diventati davvero ottimi amici. Per come erano andate le cose però, Magnus si poteva accontentare di veder il moro detective avvicinarsi a tutti gli altri suoi amici, pur saltando uno dei più importanti.

Fu proprio a quella famiglia mal assortita che si ritrovava che dedicò il suo ultimo pensiero prima di reimmergersi nel vivo del locale: se la chiamata era arrivata a Raphael, quanti altri ne avevano ricevuta una? E soprattutto, perché lui non ne sapeva nulla?

 

 

 

 

 

La luce non penetrava le imposte chiuse e la casa era ancora sprofondata nel buio. Il sole forse era anche sorto ma le pesanti nuvole grigie che coprivano il cielo della città come ogni inverno non lasciavano molto spazio alla stella maggiore all'inizio del suo percorso lungo la propria rotta.
La sveglia non era suonata, impostata per poterlo svegliare un'ora più tardi, ma la triste verità dei fatti era che quella notte aveva dormito poco e male.
Sdraiato sul suo letto, gli occhi fissi nel nulla ombroso della camera, Alec ripensava a tutto e a niente: il suo primo caso dopo l'infortunio, dopo la promozione, dopo la formazione della squadra ed il primo con i ragazzi. Era stato fortunato inizialmente, un suicidio, per quanto fosse una cosa che sinceramente lo rattristava e disgustava in egual misura, era pur sempre un caso unicamente d'accertamento. Si doveva capire come era morta la vittima, se aveva programmato la cosa in un dato modo, quali fossero le cause che l'avevano spinta a farlo e se c'era un biglietto che potesse aiutarli a capire. Semplice, triste ma semplice.
Ovviamente però lui era Alexander Lightwood e ci fosse mai una sola volta in vita sua in cui un caso, un evento o una qualunque azione che lo riguardasse potesse esser facile. La sfortuna era sua fedele compagna da troppo tempo ormai, avrebbe finito per doverla chiedere in moglie.
Invece ogni cosa si era dimostrata più complicata di quanto non sembrasse e ciò che più lo infastidiva era che solo lui se ne era accorto. Magnus e Simon erano felice e sicuri di aver risolto il loro primo caso, Alec non era riuscito a fargli capire che ci fossero delle incongruenze, era stato accusato di essere un perfezionista, che complicava le cose… eppure credeva che parlare del sistema di comunicazione statale, del modo richiesta d'aiuto, fosse la cosa più semplice e invece aveva ingarbugliato le idee a tutti, facendo perdere loro tempo.
Non li aveva aspettati per andare in laboratorio, li aveva praticamente ignorati durante l'autopsia e non aveva detto loro tutto ciò che ne aveva dedotto.
Forse non era ancora tagliato per essere a capo di una squadra.
Forse non avrebbe dovuto avere di questi problemi per la testa.
Sapeva che prima o poi si sarebbe ritrovato a farsi un esame di coscienza come si deve, il dottor Lawson glielo aveva pronosticato, c'aveva ricamato sopra per tutta la giornata precedente eppure non era stato quello a far scattare i suoi dubbi.
Quella notte aveva riaccompagnato Raphael Santiago a casa, non all'Hotel Du Mort ma proprio a casa sua, a Palacio Santiago. Non avevano parlato per tutto il tragitto, gli aveva dato l'indirizzo e poi erano sprofondati in un confortevole silenzio. Solo quando la sua vecchia Mustang si era fermata davanti ad un palazzetto che sarebbe dovuto esser in teoria un condominio ma che evidentemente ospitava tutta la numerosa famiglia del ragazzo, quello si era deciso a dirgli qualcosa.


 

<< Devo farti una domanda, Alexander, e vorrei la risposta più sincera che tu possa darmi.>>

 

Alec rispondeva sempre sinceramente, era una sua spiacevole abitudine che alle volte gli aveva procurato non pochi problemi, prima che imparasse come dire la verità.
 

<< Mi è stato fatto pervenire un messaggio, una chiamata. Questa chiamata potrebbe essere innocua o potrebbe portare gravi problemi di ogni entità. Non posso rifiutarla, non posso sottrarmi.>>
<< Puoi dirmi di cosa si tratta?>> chiese cauto.
Raphael scosse la testa. << Non posso dirti ciò che non so. Per ora sono solo stato avvertito.>>

<< Come posso aiutarti?>>

 

Glielo aveva chiesto senza pensarci, conscio che se la cosa non lo avesse in un qualche modo turbato Raphael non si sarebbe mai azzardato a parlarne con un poliziotto. Ma non era andato alla polizia, era andato da lui, da una persona di cui sapeva di potersi fidare.
Questo gli aveva messo una fastidiosa pulce nell'orecchio: se Raphael cercava una persona corretta forse ciò significava che, ancora una volta, qualcosa nel Dipartimento si stava muovendo.

 

 

<< La chiamata è stata fatta a diverse persone, al momento so per certo che cinque delle mie conoscenze sono nella mia stessa condizione. Non puoi aiutarmi, materialmente, ma potresti fare ugualmente una cosa per me.>>

 

 

Quando si era iscritto all'accademia non credeva che un giorno sarebbe finito immischiato continuamente in cose più grandi di lui.
La sua idea era quella di fare il suo tempo da agente semplice, cominciare a fare la gavetta per entrare alla Omicidi, non all'OCCB come suo padre, e poi aspettare di essere assegnato ad una squadra. Quando sarebbero diventati tutti abbastanza esperti per andare per la loro strada si sarebbero divisi ed avrebbero formato squadre loro. Avrebbe continuato così fino al pensionamento, non aveva neanche mai ragionato troppo sulle promozioni e la scalata ai piani alti del Dipartimento. Invece era stato tutto diverto, non c'era una sola, singola tappa del suo programma ipotetico che Alec fosse riuscito a seguire.
Aveva fatto l'accademia e invece di uscire con un buon voto ed un profilo basso aveva lasciato quelle mura con il titolo di miglior tiratore ed un record ancora imbattuto nonostante fossero passati sei anni. Aveva avuto la brillante idea di aderire ai Riservisti e dopo i sei mesi di addestramento militare era salito su una nave ed era sbarcato in zona di guerra. Era tornato troppi mesi dopo, con troppe cicatrici nuove e ricordi, consapevolezze, che nessun uomo dovrebbe avere, non a 21 anni.
Non aveva avuto una squadra su cui contare, non una tutta sua; non aveva avuto un vero capo ma tanti che si erano susseguiti di volta in volta, da diversi piani del dipartimento stesso e da diverse agenzie nazionali.
Ogni singolo caso su cui aveva messo mano si era rivelato non essere ciò che sembrava, aveva dovuto stringere la mano a senatori e uomini importanti e Dio solo sapeva quanto avesse cercato di rifiutare la promozione a Sergente.
Con un sorriso amaro si rese conto di non essersi mai goduto quel nome allo stesso modo in cui non si stava godendo quello di Tenente.

Non aveva programmato di salire l'ultimo gradino della carriera da Detective a 26 anni, la sensazione spiacevole era quella di sentirsi come un uomo di cinquant'anni bloccato in un corpo da ventenne.
BJ, probabilmente uno degli amici più cari che avesse mai avuto, diceva che fosse normale, che quando torni tra la gente normale dalla guerra ti senti sempre più vecchio e stanco di quando sei partito ma che solo tu lo sai, che per gli altri rimani sempre lo stesso ragazzo, solo con lo sguardo più serio ed il volto più duro.
Alec aveva sempre avuto il volto duro e lo sguardo serio, un comportamento più maturo per la sua età e un'indole da protettore. Aveva sempre prestato la massima attenzione a cose e persone, aveva sempre badato agli altri, ai suoi fratelli.

Ma a casa, non sul campo.

No, sul campo no, sul campo era sempre stato solo o subordinato ad altri.
Ora non era più così.
Si tirò su a sedere e scostò le coperte pesanti massaggiandosi la spalla destra e replicando i movimenti ormai normali della riabilitazione. Era una buona abitudine alla fin fine, gli permetteva di tenere in allenamento le braccia anche senza andare in palestra tutti i giorni.
Cercò di concentrarsi su questo anche mentre si lavava, cercando di evitare il suo stesso riflesso nello specchio, di pensare a tutto, tutto fuorché ciò che lo aveva tenuto sveglio quella notte.
Fece qualche carezza a Church che gli si era andato a strusciare tra le caviglie, neanche avesse capito che il suo umano fosse turbato e avesse bisogno d'affetto. A ben pensarci però, sorrise Alec piegandosi sulle ginocchia per prendere in braccio il gatto, probabilmente era proprio così.

<< Ormai lo sai quando ho bisogno di te, vero?>>
Il gatto cominciò a fare le fusa e gli sfregò il muso sul mento, felice di quella dose di attenzioni mattutine, rigirandosi tra le sue braccia per esporgli la pancia nella più chiara dimostrazione di fiducia che un felino potesse manifestare.
Alec si era sempre preso cura di tutti, lo aveva fatto fin dall'infanzia, con persone e animali, con il suo arco prima, la sua bici poi e la sua macchina ora. Era in grado di farlo, era in grado di accudire tanto quanto di aggiustare e proteggere.
Sorrise al micio e si chinò per dargli un bacio tra le orecchie, sulla fronte e poi sul naso, lasciando che Church gli mettesse le zampe in faccia perché stava diventando troppo invasivo e non gli stava più grattando la pancia come voleva lui.
Si era sempre preso cura di tutti, era ciò che la gente si aspettava e lui non li avrebbe delusi.

Proteggere era il suo destino, scritto nel suo nome, sul suo distintivo e nel su stesso sangue.
Era nella sua indole, ciò che meglio gli riusciva e soprattutto, ciò che avrebbe sempre fatto.

 

 

 

 

Magnus uscì sorridente e soddisfatto dall'ascensore che lo aveva portato al quarto piano del dipartimento di polizia della Grande Mela.
Il giorno prima era stato il primo della sua nuova carriera ed il caso che era stata affidato loro era già bello che risolto, bello che chiuso.
Come un pavone che fa la ruota si diresse verso la sala ristoro tenendo stretto tra le braccia uno scatolone enorme, ignorando gli sguardi dei più e lanciando sorrisi a non finire. Il suo buon umore doveva essere contagioso comunque, perché qualche agente lo salutò con garbo e gli chiese addirittura se gli servisse una mano.

<< Non preoccupatevi ragazzi, non è così pesante. E poi se qualcuno vedesse cosa contiene non sarebbe più una sorpresa!>> fece l'occhiolino ad una ragazza stretta nella sua perfetta divisa ma con la faccia stanca, probabilmente reduce da un turno di notte che non le impedì di sorridere in modo impacciato ed arrossire davanti all'innegabile fascino di quell'uomo.
Per sua fortuna la stanza era vuota e poté chiudersi la porta alle spalle escludendo il resto del piano. Si mise a trafficare tra gli scaffali, contento del proprio operato, finché una voce non lo riscosse.

<< Stai cercando di corrompere i miei ragazzi, Bane?>>
Non aveva sentito la porta aprirsi e neanche richiudersi, eppure Andrew Blackthorn se ne stava poggiato con le spalle al muro vicino all'entrata e lo guardava con un'espressione impassibile.
Magnus sorrise anche a lui. << Sa Capo, se avesse gli occhi blu ed la mascella un po' più dolce giurerei che Alexander sia suo figlio.>>
L'altro annuì. << Non sei il primo che me lo dice. Anche i miei di figli mi chiedevano se non fossimo imparentati.>>

<< E non lo siete?>>
Blackthorn si sedette su una delle poltroncine a ridosso della parete e si strinse nelle spalle.
<< Alla lontana sicuramente, mia nonna era natia dello stesso paese dei nonni materni di Robert.>>
<< Qui sulla East Coast?>> chiese curioso continuando a smanettare con la sua “sorpresa”.
<< Alpi svizzere.>>
La risposta fece voltare di colpo Magnus che guardò sorpreso il superiore.
<< Europa addirittura?>>
<< Prima guerra mondiale.>> disse solo. << Perché sei qui a quest'ora?>>
Magnus si mise dritto e sfregò le mani tra di loro. Si spostò di lato mostrando il frutto della sua opera e << Ta-daaan! Volevo montarla prima che arrivasse Alexander.>> spiegò sorridente ma non ottenne la risposta che si aspettava.
Blackthorn annuì secco ed un sorriso mesto gli tirò le labbra. << Sapevo che non era stato lui a chiamarti.>>
<< In che senso?>>
<< Alexander è qui dalle sei e mezza di questa mattina, ha messo in ordine i documenti e convocato il marito della vittima.>> spiegò tranquillo.
<< Dalle sei? Buon Dio, io e quel ragazzo dobbiamo parlare. Seriamente, come fa a svegliarsi così presto? Deve essersi messo la sveglia minimo alle cinque per stare qui a quell'ora!>>
<< Non credo sia colpa della sveglia.>> Andrew poggiò le mani sulle ginocchia e fece forza per alzarsi. << Dovresti metterla in modo, deve sempre fare un po' di giri prima che il caffè diventi decente.>>
Magnus lo guardò accigliato. << Sì… perché dice che non ha una sveglia?>>
L'uomo lo guardò con qualcosa che gli pareva accondiscendenza e Magnus non seppe se ciò lo infastidisse o lo preoccupasse.
<< Ci sono certe abitudini che non muoiono mai, Magnus Bane. Ti consiglio di lavorare sulla tua “sorpresa” il più velocemente possibile e di filare subito dopo a chiudere il tuo primo caso.>>
<< Lo abbiamo già fatto. Alexander stava preparando i documenti, come ha detto lei e ha convocato il marito della vittima per permettergli di far portar via il corpo presumo… >>
Questa volta il sorriso sul suo volto fu vagamente canzonatorio e quando parlò Magnus poté sentire tutto il divertimento trattenuto che lo animava.
<< A quanto pare non hai ancora capito come funziona questo lavoro. Un caso non è mai chiuso finché non è in una scatola ed il cadavere tre metri sotto terra e certe volte neanche questo basta. Ma non posso biasimare né te né Lewis, è il vostro primo caso dopotutto.>>
<< È stato suicidio. La casa era chiusa, abbiamo trovato le pasticche e le lettere.>>
<< Mh mh. Questo è quello che ne avete dedotto voi due, giusto?>>
<< Alec ha detto che era possibile che fosse proprio- >> cominciò Magnus sempre più infastidito dal ghigno divertito di Blackthorn.
<< Possibile. Questa è la parola chiave. >> mise la mano sulla maniglia e si voltò un'ultima volta per sorridergli ancora più divertito.

Ha lo stesso schifoso ghigno sadico di Alexander. Magari è una cosa che insegnano alla Omicidi.

<< Buon lavoro, Mr Bane, aspetto il verbale definitivo sulla mia scrivania entro questa mattina.>>
La porta si richiuse rapida impedendo a chi era fuori di scorgere cosa stesse succedendo dentro e Magnus si concesse un attimo per fare il verso all'uomo e poi tornare a concentrarsi sulla sua nuova e magnifica macchina del caffè. Una macchina che a quanto pare la sezione omicidi non si meritava, specie il suo Capo ed il suo fastidioso sorrisetto saputo.

<< Dannati piedi piatti.>>

 

 

 

Tenne gli occhi chiusi assaporando a pieno l'aroma forte del caffè e la quantità schifosa di sciroppo al cacao che vi era dentro.
<< Magnus, credo di amarti.>> sentenziò serio Simon abbassando il bicchiere e leccandosi le labbra.
L'altro gli sorrise soddisfatto, in mano una tazza piccola di caffè ristretto e nell'altra la sua termica decorata a rilievo. Con l'anulare continuò a giocare con gli arabeschi lisci che ormai, nel corso dei tre anni da cui aveva quella tazza, aveva leggermente consumato a forza di sfregarvi le dita.
<< Tutti mi amano, Simone.>> gli concesse magnanimo.
<< Ehi! È quasi il mio nome!>> saltò su il ragazzo accorgendosi immediatamente della cosa.
<< Lo è in effetti, solo in un'altra lingua. Italiano per la precisione. Sono stato costretto ad assistere ad abbastanza messe da Guadalupe che ormai un po' di nomi mi sono entrati in testa.>> si strinse nel suo bel maglione nero, la zip diagonale sul collo largo dava un punto di luce fredda che veniva ripresa dalla grande fibbia dei suoi pantaloni di sartoria.
<< Quello è per Alec? Non l'ho ancora visto ma la sua roba è al tavolo.>> Simon si incamminò verso la loro postazione, Magnus lo aveva intercettato appena uscito dall'ascensore e non gli aveva neanche dato il tempo di spogliarsi.
<< Mh, Blackthorn dice che è qui dalle sei e mezza di mattina. Mi sono scordato di chiedergli come facesse lui a saperlo.>>
<< Perché il Capo arriva qui sempre alle sei.>> rispose sicuro l'altro, poi alla faccia perplessa dell'amico si strinse nelle spalle. << Ha moltissimo lavoro da fare, sai, sono anni che vince il premio per il piano più efficiente o come si chiama. Viene assegnato alla divisione che a fine anno dimostra di avere tutte le scartoffie in perfetto ordine.>>
<< In pratica è uno stakanovista. Bello, abbiamo un capo ossessionato dalla perfezione.>> borbottò.
<< Ne abbiamo due a dirla tutta.>> il sorriso contagioso di Simon lo catturò senza possibilità di scampo e Magnus gli sorrise a sua volta poggiando la tazza di caffè al tavolo di Alec e lasciandosi cadere sulla propria di postazione.
<< Verissimo. Blackthorn mi ha anche detto che entro la mattinata vuole il verbale “definitivo”.>>
<< Ma il caso è chiuso.>> fece giustamente notare l'altro accigliato.

<< No, non lo è.>>
Alexander superò la parete di vetro vestito nel suo impeccabile abito da Man in Black. La giacca spessa era lasciata aperta e mostrava la cinta sgombera dalla custodia della pistola e anche dal distintivo.
<< Come sarebbe a dire “non lo è”? Che è successo? È per quella cosa che ti hanno detto ieri? Era Chad?>> domandò a macchinetta il castano tirandosi su gli occhiali e cercando di pulirli dal calore del caffè.
Alec annuì, gettò alcuni fascicoli sulla scrivania e prese in mano la tazza che vi era sopra.
<< Per me?>> chiese rivolto a Magnus e quando questo annuì gli restituì un sorriso grato. << Grazie, ne avevo proprio bisogno. Tra poco arriva il marito della vittima, sarà una cosa veloce e poi potremmo chiudere il caso e- >> si interruppe dopo aver preso una sorsata di caffè e si girò subito verso l'asiatico. << Hai portato una macchinetta nuova?>> sorrise, << Neanche chiudiamo un caso e già cerchi di ingraziarti tutto il piano?>>

Il fatto che Alexander fosse così rilassato, che si fosse accorto del cambio di miscela e che fosse anche disposto a fare delle battute alleggerì la tensione che si era creata alla notizia che la loro deduzione iniziale non fosse giusta.
<< Assolutamente, tesoro. >> tubò Magnus.
<< Ma perché è qui di nuovo? E cosa abbiamo sbagliato?>>
Il moro fece loro cenno di mettersi comodi e si sedette anche lui alla propria scrivania.
<< Ricominciamo dall'inizio, volete?>>
In quelle ore si era convinto di dover dedicare più attenzione ai suoi compagni, di cercare di addestrarli proprio come fin troppe persone avevano fatto con lui. Partire dal principio e rivedere tutte le dinamiche del caso sembrava il modo migliore per introdurli seriamente al suo ragionamento logico, anche se aveva creduto che gli altri già lo conoscessero visto che avevano passato due mesi ad indagare assieme. All'incirca.
<< Spara capo!>> gli sorrise Simon annuendo convinto.
<< Ieri mattina è stata trovata una donna morta nel suo letto. La casa era sigillata dall'interno, i paramedici sono stati costretti a passare per l'appartamento del vicino e a sfondare la finestra.>>
<< E fin qui non ci piove. La donna soffriva di una serie di disturbi, tra fisici e psicologici, ma quello che più le recava danno era la sua paranoia.>> continuò il ragazzo.
<< Suo marito non era in casa perché ad un convegno, la moglie era infastidita da ciò perché credeva che le sarebbe potuto succedere qualcosa e lui non sarebbe stato lì ad assisterla.>> proseguì questa volta Magnus. << È andata in overdose di sonniferi. Probabilmente ne ha presi troppi, volontariamente o meno, ma lo ha fatto. Non abbiamo però trovato contenitori vuoti o doppie ricette.>>
<< Ed il dottor Crocker ha detto che nel suo stomaco non c'era abbastanza, ugh, schiuma?>>
Alexander annuì. << Il film delle pasticche si scioglie a diverse velocità in base a come deve esser rilasciato il medicinale. Quello della signora Garres doveva essere abbastanza rapido perché la donna lo prendeva prima di andare a dormire.>>
<< Quindi il problema è tutto nel contenuto del suo stomaco e nel modo in cui si sono sciolte le pasticche?>> chiese dubbioso Simon. Aveva tirato fuori il suo taccuino nero e lo sfogliava seguendo i loro ragionamenti. << Ma se non ne ha presi troppi come ha fatto? L'overdose è certa, no? >>
<< Lo è. Questo è il punto focale della faccenda.>>
<< E le lettere? Non erano il suo “biglietto”?>> fece notare Magnus.
<< Erano troppe e anche se ce n'era una risalente alla notte prima in cui parlava di quanto si sentisse insicura da sola e di come suo marito fosse egoista per ciò, quella non era assolutamente una lettera da suicida.>> Alec scosse la testa mettendo definitivamente il punto alla questione.
<< Okay, l'ipotesi che volesse solo far sentire in colpa il marito? Che credeva che si sarebbe salvata ma così non è stato?>>
<< Magnus, secondo te, una donna che ha paura di non svegliarsi per rispondere all'amica che è venuta appositamente per svegliarla, potrebbe sbagliare una cosa così importante?>>
<< Si ritorna alla storia della dose da paranoici?>>
<< Esatto.>>
<< Ma se quanto dite voi è vero, com'è morta?>> chiese in fine Magnus incrociando le braccia al petto.
Simon stette in silenzio, rileggendo i suoi appunti e fermandosi di blocco sull'ultima pagina.
<< Alec? Perché ci hai detto che il marito è miope?>> domandò dubbioso.
I due si voltarono verso il tenente e questo sorrise. << Perché aveva delle gocce nel cassetto.>>
<< Hai controllato il suo cassetto?>> fece Simon a Magnus, ma quello scosse la testa.
<< No, l'ho controllato io. C'erano delle carte, una custodia per occhiali e questo flaconcino a gocce. >>
<< Come ci aiuta il collirio? Vuoi dirci che Garres ha sbagliato dare la medicina alla moglie e l'ha uccisa accidentalmente?>> Magnus scosse la testa sempre più dubbioso, << Andiamo Alexander non ha senso! Quell'uomo è un po' sbattuto ma non ha la faccia ne di uno che avrebbe ucciso la moglie né di uno che non sta attento a ciò che gli da.>>
Il moro lo guardo per un attimo senza dir nulla, poi piegò verso l'alto l'angolo sinistro delle labbra.
<< Magnus, hai mai dormito assieme ad una persona che soffre d'insogna?>>
Gli occhi dell'uomo si spalancarono a quella domanda, una lampadina si accese in fondo alla sua mente.
<< Dev'essere terribile, ti sveglia in continuazione, si muove, si lamenta e allora per dormire in santa pace… >>
<< Prendi dei sonniferi anche tu!>> saltò su Simon battendo le mani. << Ha preso il sonnifero del marito! Ecco perché non c'era la schiuma!>>
<< Samuel, dì ancora “schiuma” o fai un qualunque riferimento all'autopsia e ti metto il sale nel prossimo caffè che ti porterò.>> lo minacciò Magnus rilassandosi poi sullo schienale.
<< Mh, no.>>
L'affermazione di Alec fece scattare gli altri due che lo guardarono allucinati.
<< Come no?>>
<< Andiamo Alexander, come diamine ha fatto se no?!>>
<< Questo ce lo dirà suo marito.>>
Il tenente si tirò in piedi e alzò una mano per far cenno all'uomo appena arrivato di avvicinarsi.Il signor Garres sembrava pallido e stanco come la mattina precedente, un certo alone cupo lo copriva, arreso all'idea di doversi di nuovo trovare lì.
<< Tenente Lightwood, è successo qualcosa di nuovo?>> chiese con voce pacata e bassa.
Alec annuì. << Abbiamo capito com'è morta sua moglie, ma ci serve una sua conferma per poter chiudere il caso, per il momento sono tutte supposizioni.>> anche la voce del moro era sulla stessa tonalità dell'altro ma aveva in sé una fermezza ed una gentilezza diverse.
<< Mi chieda pure, cercherò di risponderle nel modo più preciso possibile.>>
<< La ringrazio, si sieda pure.>> quell'ultima parola gli uscì con una punta d'orgoglio che non scappò ai suoi colleghi ma che entrambi non capirono. Alec dal canto suo ebbe il buon gusto di non renderli partecipi della sua felicità nel poter finalmente usare quella sedia.
<< La sera prima che sua moglie morisse lei è partito per un convegno.>>

<< Esatto, credo di essere uscito di casa per le dieci all'incirca.>>
<< Cos'ha fatto, le azioni precise intendo. Avrete cenato, messo a posto la cucina, poi?>>
L'uomo lo guardò confuso, cercando di ripescare tutti i suoi ricordi malgrado fosse certo di aver già risposto a quella domanda.
<< Le ho detto che sarei partito di lì a poco e Steph ha cominciato a lamentarsi del fatto che se proprio dovevo andare avrei prima dovuto controllare che tutto fosse a posto come ogni sera. Così ho fatto.>>
<< Avete discusso per la birra?>> gli chiese dal nulla.
L'altro parve sorpreso. << Sì, sì esatto gliel'ho detto ieri, credo e poi… come ogni sera abbiamo preparato le medicine che avrebbe dovuto prendere.>>
<< E l'acqua? Quella l'ha preparata?>>
<< Sì.>>
<< Due bicchieri.>>
L'affermazione del tenente questa volta suscitò lo stupore anche dei suoi colleghi.
Due bicchieri?
In un flash improvviso Magnus rivide nella sua mente Alec esaminare lo scola piatti, prendere un bicchiere e chiedere che venisse imbustato. Un primo bicchiere, poiché il secondo che avevano prelevato era quello su comodino della donna, con cui presumibilmente lei aveva assunto i medicinali.
<< Come… come fa a saperlo?>> domandò stordito Garres. << Sì, preparavamo sempre due bicchieri, un per me e uno per lei. Ma questo come… ?>>
<< Lei assume dei tranquillanti, verso signor Garres? Delle gocce per la precisione. Hanno fatto effetto la scorsa notte? >>
Con un singulto sconvolto l'uomo divenne una maschera di gesso. Il suo pallore innaturale pareva quello delle pareti stuccate di fresco, così candido che sarebbe potuto sembrar morto.
Si tirò indietro sulla sedia, gli occhi sgranati, la bocca aperta in cerca di ossigeno, poi si piegò in avanti stringendosi la testa tra le mani ed in fine, stanco e sconfitto alzò il capo verso Alexander.
<< La prego… la prego, non mi dica che… è colpa mia? L'ho uccisa io? >>
Il detective gli poggiò con delicatezza una mano sulla spalla. << Non l'ha uccisa lei. Ha detto che avete discusso, Stephanie era infastidita dalla sua partenza. Ci pensi, cos'è successo? >>
Con un tremore accentuato alla mano, Garres afferrò saldamente quella del giovane vicino a lui, gli occhi sgranati e terrorizzati puntati in quelli blu e placidi di Alec.
<< Mi ha detto che non solo la lasciavo sola, ma che neanche mettevo in ordine casa. Lei ha- oddio, ha preso il bicchiere e se n'è andata in camera. Io ho mandato giù il mio ma- non sanno di molto le mie gocce, non cambiano il sapore all'acqua così tanto, ma dovevo accorgermene, non ho sentito quel vago aroma di menta che sento sempre. Non c'ho pensato. L'ho uccisa io. È morta per colpa mia. >>
<< Signor Garres, so perfettamente che questa frase potrebbe sembrarle oltremodo ridicola e terribile in un momento del genere, ma mi ascolti: non è stato lei a dare volontariamente il bicchiere sbagliato a sua moglie. Purtroppo questo è stato un crudele errore e continuerà a pensarci per molto tempo ma non deve farlo con l'idea di aver ucciso sua moglie. Non l'ha fatto, mi ha capito? >>
Magnus guardò si sfuggita il signor Garres sull'orlo di una crisi di nervi, sconvolto tanto quanto lui.
Eppure il suo sguardo rimase fisso sulla figura sicura e calma di Alexander, che continuava a parlare con gentilezza a quell'uomo che, per colpa di una birra non chiusa in frigo, si era distratto il necessario affinché sua moglie prendesse un semplice bicchiere sbagliato e firmasse la sua condanna a morte.

 

 

 

 

Con il plico stretto in mano Magnus bussò alla porta di legno e attese che gli giungesse risposta.
La targa rettangolare che vi era appesa sopra era esattamente come il giorno prima ma a sole ventiquattrore di distanza non faceva più così paura.
Un basso “avanti”, mormorato con palese disattenzione, lo costrinse a distogliere lo sguardo dal suo stesso riflesso e ad abbassare la maniglia per poter entrare.
Lo studio di Andrew Blackthorn non era cambiato di una virgola, esattamente come la porta e come il suo proprietario, sommerso dalle scartoffie e da fascicoli di ogni volume.
L'uomo alzò la testa per vedere chi fosse entrato ma già il solo profumo di quella costosissima colonia lo aveva avvertito che Magnus Bane era arrivato per consegnargli i primi documenti della sua nuova carriera. Gettò uno sguardo anche all'orologio e sorrise.
<< Non sono neanche le undici, avete fatto in fretta. Era suicidio?>> chiese senza entusiasmo.
Magnus scosse la testa e si avvicinò al tavolo senza però sedersi su una delle poltroncine o consegnare i fogli.
<< No, è stato un incidente. Il marito prende dei tranquillanti per poter dormire, ogni sera preparavano due bicchieri d'acqua: in uno l'uomo metteva le sue gocce, l'altro la moglie lo portava in camera e lo metteva sul comò per poter prendere le pillole prima di dormire. Hanno discusso per delle stupidaggini e lei ha preso il bicchiere sbagliato. Quando il marito è uscito lei si è messa a letto, verso le undici, come da programma, deve aver preso i medicinali che hanno reagito con le gocce del tranquillante, una stupida e banale reazione chimica che l'ha mandata in overdose e l'ha uccisa. Niente suicidio, solo uno stupidissimo errore.>>
Strinse le mani e con loro i fogli, Blackthorn lo vide e sospirò.
<< L'ha cosa ti ha turbato? >>
<< Lo trovo solo un modo terribile per andarsene da questo mondo: per sbaglio, per aver discusso su una birra senza tappo.>>
<< Purtroppo in questa professione si impara presto che le morti più orribili sono quelle accidentali. Non per l'efferatezza del crimine ma per le circostanze per le quali accade.>> Allungò un braccio e lo incitò a consegnargli i fascicoli. << Comunque il caso è risolto. Congratulazioni signor Bane, ha appena superato la sua prima prova. Devi solo abituartici, dopo un po' diventa routine.>>
Il modo distaccato con cui lo disse non piacque per niente a Magnus ma lo capì perfettamente.
Quando da piccolo aveva visto per la prima volta un cadavere aveva avuto incubi per settimane. La prima esecuzione gli aveva tolto il sonno che solo uno schiaffone ben assestato da parte di Raphael gli aveva ridato. L'uomo davanti a lui era stato forgiato da eventi ben più terribili, disastrosi e dolorosi di quelli a cui aveva assistito quel giorno e quello precedente, Magnus lo sapeva, era lo stesso per lui. La differenza sostanziale era stata tutta nel vedere il dolore di quell'uomo, nel vedere la consapevolezza che, se solo avesse fatto un po' più di attenzione, avrebbe potuto salvare quella donna che gli rendeva la vita un inferno ma che lui amava comunque.
L'aveva sempre saputo, lo aveva vissuto sulla sua pelle, ma ora la sensazione che gli dava era quella nauseante di un odore troppo forte, di un cibo troppo piccante: la giustizia non è giusta, non è sempre legale e non fa sempre il suo dovere. La fortuna è cieca e colpisce tutti senza discriminazione, siamo solo piccoli esseri in balia del fato e del caso.
Porse quei fogli ricolmi di parole tecniche e di verbali e si congedò silenziosamente, era arrivato a mala pena a metà mattinata e già voleva andarsene a casa. Aveva decisamente bisogno di parlare con qualcuno.
Possibilmente assieme ad una bottiglia di Rum. E in buona compagnia.
Se il primo caso lo riduceva in quel modo non voleva immaginare come sarebbe stato dopo un anno di lavoro lì.

 

Sempre se ci arriverò ad un anno.

 

 

 

 

 

 

 

 

La poltrona girò lentamente, il tessuto morbido dei braccioli si piegò sotto il peso dei suoi gomiti.
Allungò lentamente una mano, l'indice appena proteso per poter scostare un lembo di quel pensante tendaggio che copriva la finestra e la vista di cui si godeva da questa.
Una macchina nera era parcheggiata davanti all'entrata secondaria, quella da cui di solito accedeva lui e lui soltanto, ma se era ferma lì voleva dire solo una cosa e doveva ancora decidere se gli piacesse o meno.
La busta era poggiata sul piano lussuoso, il monitor del computer la illuminava di una fioca luce fredda che la faceva sembrare ancora più estranea a tutto il resto dell'ambiente.
Non aveva nessuna voglia di ricevere ospiti ma sapeva che se quell'auto era lì significava che il suo proprietario sapesse di trovarlo a lavoro.
Girò ancora la poltrona, facendo strusciare le scarpe di pelle lucida sul tappeto che si srotolava sotto la sua scrivania e congiunse le dita pensieroso: cosa poteva esserci di così importante da fargli visita di persona, in pieno giorno tra l'altro! Quelli come loro di solito giravano solo con il buio, uscivano dalle loro tane quando il sole calava e potevano muoversi liberamente con il favore delle ombre e lo sguardo benevolo della luna.
Ma ora l'impietosa stella batteva su di loro nell'alta potenza del suo zenit, mettendoli a nudo davanti agli occhi della gente, svelando ogni piega e ogni macchia della loro pelle, della loro anima: perfetti ed eternamente giovani fuori, marci e logorati dentro, la maledizione di Dorian Gray che li accomunava tutti e li legava allo stesso destino, costringendoli allo stesso giogo.
La catena si stava tendendo, preso non avrebbero avuto più modo di tirare e quella li avrebbe riavvicinati tutti al palo a cui erano stati legati anni addietro e se al sentore della casa, all'idea che il padrone potesse fischiar loro per richiamarli a sé, un cane si sprecava di trascinarsi assieme alla sua pesante catena sino alla cuccia di un altro, questo non voleva dir nulla di buono.
Sapeva perfettamente se la presenza di quella macchina gli fosse gradita o meno, a dirla tutta.
La risposta era no.

 

 

 

 

 

Quando chiuse lo sportello della macchina era ormai a pezzi.
Dopo aver chiuso il caso Garres avevano avuto una regolazione di conti tra bande, dove i poliziotti intervenuti avevano già arrestato i colpevoli che non si erano certo sprecati a tenere la bocca chiusa, il vanto di un omicidio sulle spalle a loro faceva solo che gola, stupidi ragazzini.
Poi c'era stata una chiamata per una sparatoria in un bar. Un cretino con la pistola aveva alzato il gomito e quando la cameriera gli era passata vicino aveva allungato troppo le mani; il proprietario l'aveva sbattuto fuori, quello aveva reagito tirando fuori l'arma ma si era ritrovato davanti uno con una pistola più grande della sua e c'era rimasto secco.
In meno di dodici ore avevano visto più cadaveri, bossoli, sangue e colpevoli di quanti non ne avessero visti in interi mesi.
Sospirò stanco e si diresse a lunghi passi verso casa, deciso a farsi una doccia, mangiare qualcosa al volo e mettersi sotto le coperte ignorando tutto il mondo e persino il suo coinquilino.
Aprì il portone con una spallata e gettò uno sguardo alla cassetta delle lettere più per abitudine che per altro, sospirando ancora quando vi scorse dentro un bel po' di buste.
Prese la sua posta e sperò vivamente che non fossero altre bollette, era andato a pagarne un paio qualche giorno fa, non potevano già avergliene mandate altre.
Quando arrivò a casa appese in malo modo il cappotto e gettò buste e chiavi sul tavolo, dirigendosi direttamente in bagno per farsi la sua meritata doccia, sciogliere i muscoli e mettere il punto a quella seconda, estenuante giornata di lavoro.
Sul piano, sotto una bolletta della luce, la comunicazione della banca per la sua nuova busta paga ed un numero irragionevole di pubblicità, una semplice busta bianca priva di qualsivoglia indirizzo giaceva immobile.
In una scrittura semplice e ordinata, anonima e dritta c'era solo il suo nome.

 

















 

 

Salve, questo angolo autore sarà veloce ed indolore.
Questo capitolo non è ciò che avrei voluto pubblicare. Il capitolo originale e i tre che lo seguivano sono andati persi e ho dovuto riscriverlo ottenendo questo come risultato. Chiedo venia.
Spero che l’autopsia non abbia infastidito nessuno, era molto blanda e poco descrittiva, ma ho preferito lo stesso avvertire. Ce ne saranno altre ma tutte ben o male su questa linea.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI- La sottile linea. ***


Capitolo VI
La sottile linea.

 

 

 

 

Esiste una sottile linea che divide pressapoco tutto ciò che c'è a questo mondo. Ogni cosa che può essere contrapposta a qualcos'altro balla sul filo fine di una lama invisibile che scinde il baratro.
Non esiste nessuna terra ferma, il vuoto è sia a destra che sinistra, sta in entrambe le parti tra cui bisogna scegliere, in cui bisogna lasciarsi cadere. Non c'è appoggio, non ci sono vie di fuga, non c'è nessuna mano tesa pronta ad aiutarti.
È solo un'illusione, una mera e crudele illusione che ci fa credere che possiamo aver una scelta, che ci sia un lato buono ed uno cattivo.
Non esiste, non esiste e basta, questa era la sua certezza.
I colpi si fecero più forti, più vicini avrebbe detto.
L'arma che teneva stretta al petto non era altro che metallo ben forgiato e modellato, incastrato e fissato con attenzione per fa si che funzionasse e che non esplodesse proprio nel momento del bisogno. La teneva serrata nella presa delle mani guantate, come se fosse il suo più grande scudo, la difesa massima che avrebbe impedito a qualunque oggetto di penetrare il giubbotto antiproiettile e di regalargli un viaggio di sola andata per l'altro mondo.
Era ridicolo, incredibilmente ridicolo che ad ucciderti fossero proprio dei minuscoli cilindri di rame pieni di polvere esplosiva, una polvere che per altro non ti faceva nulla di per sé, che serviva solo a quel piccolo oggettino di pochi millimetri di essere espulso con la forza devastante della detonazione da una canna lunga e rigata in modo che suddetto proiettile arrivasse a destinazione con la massima precisione e che facesse il danno più grande possibile.
Era la polvere da sparo che aveva dato vita alle armi da fuoco, ma di fuoco ce ne era ben poco, era il resto che ti fregava.
Qualcuno urlò delle direttive, non riusciva a capirle in mezzo a tutto quel frastuono, tra tutti quei colpi e quelle grida. La terra tremava sotto i suoi piedi e si ritrovò a domandarsi se sarebbe mai finito, se tutto ciò avrebbe avuto un termine o se forse, il punto di chiusura sarebbe calato solo sulla sua vita e non avrebbe mai fatto in tempo a veder l'alba silente di un nuovo giorno.
Forse neanche voleva vederla, non voleva vedere l'alba chiara tinta dei colori densi, scuri e fumosi del sangue e delle macerie. Non voleva respirare aria ferrosa e bruciata, non voleva vedere quante delle persone che erano state chiamate erano a terra, quante fossero ferite, non voleva neanche vedere che ferite ci fossero sul suo di corpo. Non sentiva niente, né dolore né pace, solo il tormento del vuoto riempiva la sua mente.
Forse non voleva vederla quell'alba chiara ora tinta di nero perché assieme a lei sarebbe arrivato il silenzio e fin troppo presto aveva scoperto che il silenzio era più assordante del caos.
Perché nel silenzio stava tanto la verità quanto la morte.

 

 

 

 

 

 

Le lenzuola morbide lo avvolgevano come una seconda pelle. La seta era sempre un'ottima scelta, per qualunque cosa.
Si mosse ad agio nel calore rassicurante del letto, le membra distese e leggermente stanche ma appagate come non succedeva da un po' di tempo. Era la sensazione sottile e confortante che prendeva il corpo dopo un lungo allenamento che però giovava in quanto dispersore di stress.
Era la dolce stanchezza dei piaceri della carne.

Ed io sono un peccatore convinto.

Sotto il tatto sensibile della sua mano scivolò la stoffa pregiata e poi la morbida e soda consistenza di una coscia. Ne palpò la corposità a piena mano, un mugugnio assonato si levò dal suo lato destro e Magnus si decise ad aprire gli occhi solo per studiare la figura distesa di fianco a sé.
La pelle nivea era segnata da piccole macchie rosse, alcune violacee mostravano i segni lasciati dai denti. Il ventre piatto disegnava una curva dolce che proseguiva sino alle ossa sporgenti del bacino. Non riuscì ad evitarsi di seguire quel pendio e di sprofondare la mano tra le cosce bollenti che si contrassero immediatamente stringendolo in una morsa morbida.
Magnus sogghignò e si concesse quel brivido di soddisfazione e goduria che lo prendeva ogni volta che si ritrovava ad esercitare così tanto potere su un altro essere che si concedeva a lui con cotanta facilità.
Si voltò su un fianco solo per godere della vista gloriosa di un seno grande e sicuramente normalmente alto, che ora però si spandeva rilassato sulla cassa toracica piccola. Un luccichio attirò la sua attenzione verso l'ombelico della ragazza, dove spiccava una pietrina rosa.
Un fulmine a ciel sereno gli ricordò invece uno, anzi, due anelli d'argento, dei pricing messi un po' più in alto e appartenenti decisamente ad un corpo molto meno morbido e femminile di quello.
Cercò di concentrarsi sul viso contratto dal piacere della giovane, di cui per altro al momento gli sfuggiva il nome, e sfoggiò uno dei suoi sorrisi più affascinanti.
<< Direi che è un buon giorno questo.>> soffio mellifluo.
<< Potrebbe diventarlo ancora di più.>> gli ansimò quella nell'orecchio, stringendosi a lui e premendogli il generoso seno contro il braccio.
Si strusciò su di lui come un gatto che richiede attenzione, i capelli castani e sbarazzini le contornavano il volto furbesco ed eccitato, esattamente come si ritrovò ad essere Magnus.
Dopotutto, chi era lui per negare un così grande piacere ad una donzella?

Ben tornate vecchie abitudini.

<< Facciamocelo diventare allora.>>

 

 

 

La porta si era chiusa dietro ad Hanna da neanche un paio di minuti quando il suo citofono suonò una sequela di stridule note che no, ancora una volta e anche per la millesima, non erano la Marcia Imperiale.
Magnus sbuffò infastidito e guardò il lungo corridoio dalla porta della sua camera, perché il citofono era così lontano? Avrebbe dovuto far installare una qualche applicazione che gli permettesse di aprire porte, portoni e anche serrande direttamente dal suo telefono.
Poi si ricordò cosa potesse esser fatto da un cellulare, come potesse esser rintracciato e utilizzato da chiunque avesse delle buone basi d'informatica e decise saggiamente di metter da parte la sua idea, forse averebbe potuto optare per un telecomando da lasciare a casa? O un sistema intelligente, tipo quello dei film, perché no, i soldi per farlo non gli mancavano di certo.
Peccato che non ci fosse ancora nulla del genere tra quelle mura e Simon ci stava decisamente prendendo gusto a distruggergli i timpani.
Sconfitto dalla realtà dei fatti cominciò a marciare borbottando verso il fono, i capelli per metà fatti e per metà flosci sulla nuca ancora leggermente umida.
<< Non è la Marcia Imperiale cazzo, quando la smetterai?>> Disse al nulla allungando la mano per rispondere.
Neanche l'avesse sentito il trillo si interruppe immediatamente e Magnus sorrise soddisfatto.
<< Visto Presidente? A quanto pare ho davvero poteri magici!>>
Il gatto neanche aprì un occhio, rimase a sonnecchiare sul divano come quando se ne era andata la loro ospite e l'uomo lo guardò scettico.
<< Potresti rispondere ogni tanto. Church lo fa sempre con Alec, perché tu non ne sei capace? Non lo ripeterò ancora Presidente, ma temo di dover dar ragione a Fiorellino, sei schifosamente viziato.
Ecco, qui l'ho detto e qui lo nego. Non gli daremo mai ragione in faccia, vero piccolo di papà?>> Gli si avvicinò tirandolo su a forza dai cuscini a cui si era ancora con le unghiette fini e letali, Magnus ne sapeva qualcosa su come potessero far male quei dannati artigli, e così come il gatto aveva ignorato lui ora fu la sua volta di ignorare le proteste del felino.
<< No, ti attacchi, non ti mollo.>>
La lotta tra padrone e gatto sarebbe durata probabilmente ancora per mezzora come minimo se il campanello non avesse suonato e Magnus non si fosse reso conto che, in effetti, non aveva più aperto a Simon.
Mollò Presidente che aveva ancora un cuscino attaccato alla zampa e si diresse alla porta perplesso.
<< Come sei entrato? Non dirmi che tutte quelle cazzate sull'imparare a scassinare una porta alla fine le hai messe in pratica.>>
Oltre la soglia di casa Simon gli sorrise un po' spaesato, come se fosse ancora intento a pensare a qualcosa di importante. << Ciao anche a te. Ho avuto un segno del destino, credo che oggi avremo una bellissima giornata di lavoro, o una pessima in effetti, dipende se è per la legge del contrappasso o se invece andiamo per associazioni. Se vedi una farfalla è un bel segno no? Se invece vedi un corvo è brutto, non è che succede il contrario di solito giusto?>>
Il giovane entrò togliendosi subito la sciarpa già snodata, senza notare il sopracciglio alzato dell'altro ma non potendo ignorare i suoi capelli.
<< Non sei ancora pronto? Davvero?>>
<< Scusa Sonny, mi ha confuso il tuo vomitare cose senza senso. Che ti sei fumato questa volta? Il tuo coinquilino non è un poliziotto? Girano comunque droghe pesanti per quella casa? Devo andare a far notare a Garroway quanto ciò sia ridicolo.>> Con un gesto vago della mano Magnus lo invitò a seguirlo mentre tornava in bagno per finire di prepararsi.
Si piazzò davanti allo specchio e attese giusto il tempo di sentir Simon smettere di chiedere a Presidente Miao se quella mattina avrebbe potuto carezzarlo senza essere infilzato.
Dall'esclamazione dolorante che ne seguì l'uomo ne dedusse che no, non era ancora arrivato il giorno in cui l'amico non si sarebbe fatto graffiare dal suo gatto.
<< Illuminami!>> gli urlò dal bagno e Simon si affrettò ad arrivare da lui.
Si fermò perplesso davanti alla placca degli interruttori e aggrottò le sopracciglia.
<< Sono tutti già accesi Mags, non dirmi che ti serve ancora più luce.>>
C'erano volte nella sua gloriosa vita in cui Magnus avrebbe tanto voluto essere circondato solo da scimmie ammaestrate. Se così fosse stato non si sarebbe dovuto stupire delle domande stupide dei suoi maggiordomi o del fatto che fraintendessero i suoi ordini.
Purtroppo però viveva nella società, a detta altrui, sviluppata e progredita ed era costretto ad interagire con altri esseri umani.
<< La luce per me non è mai abbastanza, solo il sole riesce a mettere in risalto tutto il magnifico me.>>
<< Certo, brucia a circ- >>
<< Non mi interessa Sephtimus, davvero, non me ne potrebbe fregare di meno. Intendevo che dovevi illuminarmi sui tuoi, ahimè comuni, sproloqui mattutini.>> specificò minacciandolo con la bomboletta della lacca.
Il ragazzo annuì sorridendo impacciato. << Scusa, non ho ancora preso il caffè, vale?>>
<< Solo un po'.>> gli concesse con un occhiolino. << Quindi?>>
<< Stavo aspettando che tu ti degnassi di venirmi ad aprire.>> iniziò cercando un angolino libero sul piano del bagno ed issandocisi sopra. << Ma prima che rispondessi mi ha aperto la porta una ragazza bellissima, ti giusto Mags, uno schianto. Non me la ricordavo! Insomma, qui dentro vivono solo persone perfette e alla moda? Ho vissuto qui un mese, perché non l'ho mai vista? Pareva una modella di biancheria intima.>> continuò trasognante.
<< Oh, non vive qui, ci ha passato solo una notte, non che mi dispiacerebbe se ce ne passasse altre ogni tanto e sì, in effetti lavora come modella, cos'altro potrebbe fare con quelle curve? Hai visto che davanzale che ha? Potrei poggiarmici sopra.>> il sogghigno malizioso di Magnus si infranse prima contro lo sguardo sorpreso di Simon, poi contro la sua espressione sbalordita.
<< Co-cosa? Aspetta… vuol dire che tu… insomma… >>
<< Ma la sono fatta? Sì, e questa vaga contrazione muscolare che sento ne è valsa tutta la pena.>> Sempre più divertito dalla faccia dell'amico, Magnus si preparò a raccontare per filo e per segno come l'aveva conosciuta e cosa ci avesse fatto soprattutto, anche perché era da un bel po' che non vedeva delle tette tanto perfette per fare una bella spagnola.

Uhg, non ci pensare vecchio mio o traumatizzeremo Sam e per di più dovremmo rifarci la doccia.

Aprì la bocca acconciata in un ghigno ma Simon lo stroncò sul nascere.
<< Ma sei scemo?>>
La domanda arrivò così spontanea e secca che l'uomo si ritrovò senza parole spiazzato da quella nota aggressiva che sentì di fondo.
Simon lo stava… sgridando?
<< Cosa scusa?>> Gli venne spontaneo.
<< Ho chiesto se non sei diventato scemo tutto insieme. Anche se forse sarebbe più corretto chiederti che cazzo ti è saltato in mente.>>
Non si era sbagliato, Lewis sembrava veramente arrabbiato, quanto meno infastidito dalla cosa.
<< Beh, se tu non riesci ad abbordare neanche una balena ed io invece faccio dell'ottimo sesso con una fotomodella non è colpa mia. Dovresti essere felice per me, non schifosamente geloso.>> ribatté con tono acido. Che gli prendeva ora? Non era mai scattato in questo modo per le allusioni, o i racconti, della sua vita sessuale.
Magnus si ritrovò ad essere confuso e a sua volta incazzato per quell'atteggiamento. La sua giornata era iniziata nel migliore dei modi, poi era arrivato lui e aveva rovinato tutto. Cosa ci mancava ora? Alexander che li chiamava dicendo che ci fossero dei problemi gravi?
<< Non è gelosia la mia, razza di deficiente. Sono cresciuto con Jonathan e Jace che non facevano altro che sbattermi in faccia le loro conquiste condendo il tutto con dettagli che mi sarei risparmiato, se dovessi farmi il sangue amaro per ogni volta che mi raccontano ste' cose sarei finito. Ma se mi chiedi una cosa del genere vuol dire solo due cose: o ti ho sempre sopravvalutato e in verità sei un coglione di prima categoria, o sei consapevole della puttanata che hai fatto e stai cercando di sviare. Perché mi rifiuto di pensare che non ti interessino le conseguenze delle tue azioni.>> Simon era sceso dal mobile e ora lo fronteggiava serio, lo sguardo fisso nel suo.
Ancora una volta Magnus non riuscì a capire subito cosa diavolo stesse dicendo l'altro.

Chi era la mente superiore tra le scimmie ammaestrate?

<< Ma cosa diamine stai dicendo?>> si arrese a dire alla fine.
Simon si passò una mano sul volto, come se fosse già stanco di quel discorso.
<< Senti, capisco che le cose non siano proprio le migliori, che ci siano dei problemi non indifferenti e tutto quello che vuoi tu, ma fare così non ti aiuterà. Non aiuterà nessuno dei due.>>
Magnus aggrottò le sopracciglia: nessuno dei due?
<< Ti assicuro che fare sesso giova tanto alla mia psiche quanto al mio corpo.>>
<< Mags, smettila di far finta di non capire.>> borbottò Simon più cupo. La piega che stava prendendo quel discorso non gli piaceva, decisamente.
<< Fai schifo a spiegarti in ogni ambito della tua vita, Lewis. Non sto facendo finta, non capisco davvero che cazzo stai dicendo.>>
Sempre più irritato Magnus sbatté la bomboletta sul piano e lo fissò male. Lo schermo del telefono segnava le otto e venti, avrebbero dovuto presentarsi in ufficio tra dieci minuti e continuando di questo passo lui sarebbe stato così incazzato che neanche avrebbe salutato Alexander quando lo avrebbe visto e Simon intanto continuava a parlare di Dio sapeva cosa.
Davanti alla sua espressione alterata se ne formò una freddamente irosa.
<< Sai, è davvero emozionante il modo in cui tu riesca ad insultarmi ogni volta che apri bocca.>>
<< Non darmi meriti che non ho, ti insulti da solo tutti i giorni della tua vita.>> frecciò cattivo.
Simon lo guardò in silenzio, un'espressione contrita ed un lampo di dolore balenarono per un secondo sul suo volto, poi scomparvero per lasciar posto a qualcosa che sembrava molto delusione e si lasciò sfuggire un verso sprezzante.
<< Ma sì, che ce ne frega di Simon e di quanto possano dargli fastidio certi commenti. Mica è una persona, no? Possiamo prenderlo per il culo quanto vogliamo. È questo il tuo problema principale Magnus, ti credi superiore a tutti, ti credi in diritto di aprire bocca e dargli fiato, dicendo cose crudeli e che la maggior parte delle volte feriscono. Ma non te ne fotte un cazzo, perché tu sei il grande Magnus Bane e puoi fare di tutto, no? Non tieni conto dell'effetto delle tue parole esattamente come di quello delle tue azioni e sai una cosa? Va bene così. Ma quando ti lascerai sfuggire che oggi ti sei fatto una scopata come si deve, quando succederà davanti ad Alec, non pensare che cercherò in qualche modo di bloccarti, di non farti fare questa figura di merda e ti auguro anche di guardarlo dritto in faccia mentre glielo dici, magari per una volta in vita tua vedrai quanto sai fare male alla gente.>>
Gli diede le spalle senza lasciargli la possibilità di replicare. Marciò dritto verso porta, recuperando zaino e tutto il resto.
Solo quando sentì il rumore della zip che si inceppava e le imprecazioni del ragazzo Magnus si riscosse.

Che cosa era successo? Perché gli aveva risposto così? Che c'entrava Alexander?

Come ogni volta che si sentiva confuso, che si ritrovava con le spalle al muro, Magnus si ritrovò a digrignare i denti e metter su la sua miglior faccia rabbiosa per far fronte al nemico e attaccare con più durezza. Non gli avrebbe permesso di lasciare casa finché non si sarebbe spiegato, nessuno gli voltava le spalle in quel modo, nessuno. Gli stupidi che lo avevano fatto non andavano certo in giro a raccontarlo.

Un tempo.

<< Che cazzo c'entra Alexander ora?>>
Un altro verso sprezzante.
<< Ah! Ma sì, certo, pensiamo solo ad Alexander, fottiamocene del fatto che abbiamo insultato ancora uno dei pochi amici che ti sono stati sempre vicino da quando ti ha conosciuto.>>
<< Smettila di fare la vittima, te lo dico ogni giorno che sei stupido.>> lo raggiunse di marcia, proprio come l'altro se n'era andato e lo afferrò per una spalla per farlo voltare verso di lui.
<< Vaffanculo Magnus. >> Simon gli mollò uno spintone allontanandolo. << Solo perché mi insulti tutti i giorni della nostra vita e io ho sempre finto che non me ne importasse niente non vuol dire che sia la verità. Ho passato tutta la scuola a sentirmi criticare nello stesso modo in cui hai fatto tu. “Ti insulti da solo stando ancora al mondo Lewis”, non sono cose belle da sentirsi dire, sai? Ma scusa, tu sei il figlio di un boss mafioso, non avrai mai avuto di questi problemi no? A te i bulli neanche ti guardavano, magari il bullo eri tu.>> Alzò le mani al cielo e riprese a litigare con la zip.
Una punta di senso di colpa si fece strada in Magnus che si ritrovò a deglutire una volta di troppo.
<< Senti, se ti ha dato fastidio mi dispiace, io non- >>
<< Cosa? Non lo credevi? Non pensavi che dire ad una persona che la sua esistenza è un insulto possa ferirla? Cazzo, allora è vero che sei stupido!>>
<< No, non volevo dire- >> provò ancora invano. La situazione gli stava decisamente sfuggendo di mano.
<< Tu non vuoi mai dire niente! Le tue parole hanno sempre un doppio senso! Sei così furbo e bravo a rigirarti le parole, i discorsi come ti servono, eh? >> chiuse finalmente il giaccone e cercò la sciarpa. Magnus la individuò prima di lui e gliela rubò da sotto il naso, facendosi un passo indietro per non fargliela prendere.
<< Sono piuttosto bravo in effetti.>> provò con voce più calma.
Si rese conto improvvisamente di non aver mai litigato seriamente con Simon. Avevano bisticciato molte volte, questo sì. Si erano dati dei cretini e avevano alzato la voce per un paio di cose, ma litigare in quel modo… l'ultima volta che aveva fatto una cazzata Simon era stato terrorizzato per lui e lo aveva stritolato in un abbraccio, ma non lo aveva mai guardato come stava facendo in quel momento. Come se lo avesse ferito una volta di troppo.
Con una strana consapevolezza che non sapeva proprio da dove fosse nata, Magnus si disse che non era tanto l'insulto rivolto a lui ad averlo innervosito, Simon per quanto potesse sempre essere preso in giro non era stupido e lo sapeva che durante i litigi volavano sempre parole più pesanti del necessario, esattamente com'era successo tra lui ed Alexander.
Il nome del giovane gli diede una scosse, una lampadina si accese e Magnus s'accorse che quel comportamento irritato, arrabbiato e deluso era simile a quello di un'altra persona qualora si toccasse un suo caro.
Simon non doveva esserne consapevole, ma aveva lo stesso cipiglio battagliero di Alexander quando aveva difeso entrambi a spada tratta al telefono con la Herondale.
Tutto quel casino era esploso con il suo vantarsi della notte con la bella Hanna ed il ragazzo gli aveva detto che non gli avrebbe impedito di raccontare la cosa proprio davanti al loro comune amico.
Magnus deglutì improvvisamente ancora più a disagio.
<< Ti ci ho già mandato a 'fancu- >>
<< Che cosa c'entra Alexander, Simon?>> chiese interrompendolo e tenendo un tono basso.
L'altro si fermò, non provò a continuare la sua frase ma gli strappo ugualmente la sciarpa di mano ed iniziò ad indossarla con gesti automatici ma non più veloci, ansioso di andarsene da lì. Lo fissò quasi con pena e se Simon Lewis, quel amabile tonto del suo amico – perché questo era Simon per lui, un amico- lo guardava come un adulto che si appresta a spiegare qualcosa di ovvio ad un bambino, voleva dire solo che fosse una cosa molto seria.
<< Davvero Mags?>> domandò con voce piatta.
Lui annuì e Simon sospirò.
<< Secondo te come si sentirà quando saprà che sei andato a letto con la prima che ti è capitata? No, perché se fossi nella vostra situazione a me roderebbe parecchio il culo.>>
L'uomo lasciò cadere le spalle ed accennò un sorriso. << Ma non c'è niente tra me e Alexander.>>
<< Non c'è nulla? Magnus avete un passato di fiducia quando tra di voi ci sarebbe dovuto esser tutto il contrario. È quasi morto per salvarti la vita, tu eri svenuto, non lo hai visto, ma io sì: era un bagno di sangue, hanno dovuto rianimarlo. Jonathan ha avuto degli incubi terribili sulle sue ferite che sprizzavano sangue come fontane ogni volta che lo percorreva una scarica elettrica. Dio santo! Quando si è risvegliato era sollevato di vederti vivo. Battevi i piedi per stare in camera con lui, vi siete baciati a Natale! Vuoi davvero dirmi che non c'è niente tra di voi?>> domandò scettico.
Magnus scosse la testa. << Se è per questo sono anche andato a letto con lui… >>
<< Ed è stato come con .. con lei, come si chiama?>> incalzò duro senza permettergli di tirare il respiro.
<< Simon, senti, era una situazione del tutto diversa. Ciò che c'è stato tra di noi- >>
<< C'è stato? Perché? Non c'è più?>>
<< Non lo so! Va bene? Non ne abbiamo parlato! Dal quel fottuto venticinque Dicembre non ne abbiamo mai parlato. Non abbiamo mai parlato neanche di quella notte. O meglio, lo abbiamo fatto prima della sparatoria e ci siamo quasi presi a pugni.>>
<< E?>> Simon si riavvicinò di un passo, le lenti degli occhiali squadrati ingrandirono i suoi occhi facendoli sembrare ancora più espressivi.
<< Nessuno di noi crede che una notte di sesso comporti automaticamente essere innamorati gli uni degli altri, sarebbe la rovina del mondo se fosse così. Ti immagini- >> provò sorridendo in modo tirato. Si interruppe subito sotto lo sguardo raggelante dell'amico. Sospirò. << Senti. >> iniziò sedendosi sul bracciolo del divano.
Ormai avevano fatto tardi, tanto valeva mettere un punto a quell'assurda conversazione.

E tutto perché Hanna se n'è andata in tempo per incontrarlo.

Adesso gli toccava fare una confessione a cuore aperto a quel ragazzo e pensare che l'ultima persona che lo aveva convinto a farlo era morto da quasi un anno.
<< Non posso negare che ci sia una qualche specie di attrazione tra di noi. Alexander è un bell'uomo, non c'è nulla da dire a riguardo e sì, ci prendiamo molto… >>
<< Non vi “prendete molto”, lui ti fa diventare una persona matura e seria e tu riesci a farlo uscire un poco dalla sua zona di comfort e a farlo sorridere di più. Cazzo Mags! Fai sorridere Alexander Gideon Lightwood! Alec sorride solo alle persone che ama, lo capisci sì? E tu riesci a farlo sorridere quasi con tutti. Oh! E lui riesce a farti ragionare, ti ha fatto fare una valigia normale, ti legge nel pensiero! Come fai a dire che c'è solo una certa attrazione?>> Finì facendo le virgolette in aria con le dita.
Magnus lo guardò perplesso: era davvero così?
<< Non ti darò ragione, sappilo. Ho ammesso che c'è feeling, non mi estorcerai altro.>>
<< Okay. C'è feeling ma vai a letto con la prima che capita.>>
<< Era davvero una bomba sexy.>> si giustificò subito.
<< Più di Alec?>> Simon alzò un sopracciglio sfidandolo a contraddirlo e Magnus fece lo stesso.
<< Mi devi dire qualcosa, Lewis?>> rimbeccò.
<< Finiscila, l'ho già fatto con Clary questo discorso e non ho alcun problema ad ammettere che se fossi stato gay sarei stato stracotto di Alec dal primo momento che l'ho visto. Diamine! Ho avuto una mezza cotta per lui anche se sono decisamente più per il gentil sesso!>>
Sorpreso Bane batté le palpebre. << Sei bisessuale? Davvero? Aspetta. Come diamine ho fatto a non capirlo?>> la sua voce si alzò di un paio di ottave e Simon si strinse nelle spalle.
<< Perché mi vedi come un essere asessuato. Tipo come vedo io mia sorella. Presumo che tu veda così Catarina e Raphael, no?>>
<< Sì… non hai negato!>>
<< Non stiamo parlando delle mie preferenze sessuali ora. Stiamo parlando di te e Alec e del fatto che anche se ti piace lui te la fai con altri.>>
<< Anche questo è importante! E ti ho già detto che io e Alec non abbiamo mai chiarito la faccenda. Poi andiamo, ti immagini? Già non posso usare soprannomi di sorta sul lavoro perché la gente se no lo sfotte, se avessimo anche una relazione come me le terrei le mani a posto? E non credi che sarebbe ancora più in ansia per me?>>
Ci fu un attimo di silenzio.
<< No.>> disse sicuro il ragazzo. << Alec sarebbe preoccupato per te esattamente come lo sarebbe per me, per Iz e per Max. Solo con Jace certe volte cerca di non essere troppo ansioso ma solo perché lui gli ripete che fa parte della SWAT e Alec non può farsi venire un attacco di cuore ogni volta che gli vede un livido nuovo addosso. Dio Mags, te l'ho spiegato, fai parte della truppa ormai, non farebbe differenza, sei già tra i posti più altri nella graduatoria dei pulcini di Alec Chioccia Lightwood.>> scosse la testa sconsolato.
<< Beh… rimane il fatto: non c'è niente che ci lega sentimentalmente.>>
<< Oh, ma sì. Ti dedica le sue ultime parole e non c'è niente che vi lega.>> borbottò Simon riprendendo a vestirsi.
Magnus lo guardò scioccato. Cosa?
<< Cosa? Come lo sai? Io non te l'ho detto. Sono sicuro che neanche Alec lo ha fatto. Come...>> con gli occhi sgranati Magnus rimase imbambolato a fissarlo mente giocherellava con la sciarpa e alzava un sopracciglio.
<< Jonathan?>>
<< Jonathan. A quanto pare voleva tenerselo per sé, ma ha detto che gli pareva che tutti e due ve lo eravate dimenticato e lo ha detto a me. È stato abbastanza strano in effetti, non lo ha voluto dire neanche a Clary e di solito con lei parla praticamente di tutto. Ti sorprenderà forse sapere che ha detto che queste erano “cose da uomini”. Sì, proprio così.>> Si mise bene dritto e sistemò lo zaino in spalla.
Il giaccone gonfio lo faceva sembrare un pupazzo di neve ed i muscoli che aveva messo su con gli allenamenti da agente gli avevano fatto le spalle più larghe, le tiravano dandogli un aspetto più sicuro, più aperto.
<< Dovete parlare, questo è certo. Siete due coglioni, anche questo è certo. Non dirgli cosa hai fatto, ci rimarrebbe male.>>
<< Non dire cazzate, non gliene fregherebbe niente. Hai visto come mi ha trattato ultimamente?>>
<< Buh-uh, povero Magnus, il ragazzo che gli piace non gli ha fatto i complimenti.>> lo prese in giro.
<< Vedi poco di prendere per il culo.>>
<< Non potrei mai farlo, quello è compito di Alec, no? E comunque, se mi dici così vuol dire che non hai capito un cazzo di lui e non sarò io a spiegartelo. Se vuoi vai a parlare con Jace, io per oggi ho dato. Oh! E Alec ti ha “trattato male” perché hai rischiato di farci andare a puttane la squadra.>>
<< Ancora per quello mi tiene il muso?! Senza contare che c'ho già parlato con Jade…. >>
<< Ma davvero? E cosa ti ha detto, sentiamo.>>
Magnus lo guardò truce, << Stai abusando della mia pazienza.>>
<< Tu abusi di quella dell'umanità da quando sei nato.>> replicò con una nota di cattiveria che stupì l'altro.
<< Sono questi i momenti in cui mi ricordo che sei cresciuto anche tu con Morgerstern...>>
<< E non sai che mix letale che sono lui e Alec assieme. Se quei due dovessero fare una fusione rischierebbero di distruggere il mondo a suon di acidità, ironia cinica e cattiveria gratuita. Quindi? Cosa ti ha detto Jace?>> insistette comunque, per nulla colpito dall'occhiataccia ricevuta.
Magnus sospirò infastidito. << Cose del tipo “se credi che per voi ci sia qualche speranza non mollare ma se non pensi che possa andare oltre l'attrazione fisica non lo illudere”.>>
<< Preciso e diretto, sì, proprio da Jase. Beh, dagli retta, non capita spesso che dica cose così sensate sul fronte amoroso.>>
<< Non c'è nessun fronte amor- >>
<< Come ti pare. Parla con Alec. Non dirgli che ti porti a letto sconosciuti, cerca piuttosto di portarti a letto lui o mettete un punto a questa storia.>>
<< Non c'è nessuna storia. Che cazzo hai bevuto sta mattina per colazione?>>
<< Non ricordi?>> Simon gli diede le spalle e si avviò verso la porta. << Non ho ancora fatto colazione.>> Abbassò la maniglia sicuro e si voltò solo una volta fuori dall'appartamento.
<< E comunque, era decisamente da contrappasso.>>

 

 


Il tonfo dell'anta che si chiudeva con violenza non lo sfiorò neanche. Magnus rimase a fissare il punto in cui l'amico era scomparso senza muovere un muscolo.
A quanto pareva quando una giornata partiva bene poi doveva andare di merda, questo era il punto principale che aveva dedotto da tutta quella conversazione. E che non doveva dire, fare o ipotizzare di fare nulla, davanti a Simon, che avrebbe potuto ferire Alexander in un qualche modo.
Oh, e che anche se fingeva il contrario, Simon ci rimaneva male per le battute troppo cattive.
Più il tempo passava più Magnus si rendeva conto di una cosa sconcertante: il bel poliziotto rischiava la vita senza pensarci due volte per proteggere coloro che amava e non si rendeva conto che questa sua strana e pericolosa inclinazione si rifletteva in un qualche modo su tutti coloro che lo circondavano. Ogni persona che entrava in contatto con lui poi era portato naturalmente a difenderlo, magari non sul piano fisico, magari non come faceva lui, mettendosi in pericolo in prima persona, ma pareva che tutti fossero estremamente attenti affinché nessuno lo ferisse emotivamente. Dai suoi fratelli che si preoccupavano per la sua vita sentimentale, al suo Capo e alla Signora che non volevano che passasse guai, che qualcuno lo trattasse male sul posto di lavoro.
Ora ci si aggiungeva anche Simon che, forte del suo nuovo titolo forse, si era eretto a protettore della loro astratta, ipotetica e assolutamente inesistente storia d'amore.
Quale amore poi?
Se l'erano detto chiaro e tondo su quel marciapiede, proprio su quello su cui poggiava l'entrata del suo palazzo: non era stata una notte e via, una da niente, ma non era amore, non c'erano le basi affinché lo fosse.
La loro “relazione” era nata dal bisogno che l'uno aveva dell'altro, non dalla voglia di conoscersi o dall'interesse reciproco. Erano stati costretti a stare assieme, a lavorare fianco a fianco e sì, Magnus aveva trovato un buon amico, un ottimo amico, dove non si sarebbe mai sognato di trovarlo, ma era amore?
Che parola grande e spaventosa, composta a mala pena da una manciata di sillabe ma che implicava tante di quelle problematiche, tanti di quei pericoli, di segreti, di doveri.
Magnus si era sempre innamorato con facilità disarmante, era di quelle persone che salivano in metro, vedeva un bel tipo e già sapeva come si sarebbero sposati, dove avrebbero preso casa e se avessero dovuto discutere per le tende verdi o blu. Poi il tipo scendeva e lui se ne andava con “il cuore infranto”.
Quante volte era stato preso bonariamente in giro da Ragnor per questa storia?

 

<< Ti innamori con la facilità con cui si beve un caffè, Mags.>>
<< Non dire sciocchezze! I miei amori sono impegnati e seri!>>
<< Certo, come no. Ehi, guarda che non è una cosa brutta, anzi, trovo che sia molto bello riuscire a provare sentimenti positivi per chiunque, senza farsi problemi di genere e di aspetto. Davvero Magnus, è una cosa bella, innamorarsi è bello, e sono sicuro che prima o poi incontrerai qualcuno che ti rapirà completamente e non che ti passi di mente non appena arriva alla fermata giusta.>>
<< Oh, ma sì, condisci pure il tutto di belle parole, vai, ma il sunto è che mi stai dando del prostituo.>>
<< Non ho- >>
<< Porque es la veridad.>>
<< Nessuno ha chiesto la tua, stronzo!>>
<< Ti brucia solo perché sai che ho ragione, Bane.>>
<< Okay, okay, pausa. Raphale, per favore, lasciami finire.>>

 

Magnus ricordava discretamente bene il messicano lanciare un lungo sguardo a Ragnor e grugnire prima di stringersi nelle spalle e voltarsi.
 

<< Non ti ho dato del prostituto, ti ho detto sono che non devi vergognarti o negare il fatto che ti innamori facilmente. Ti riprendi anche facilmente di solito, a meno che non siano state storie impegnate… >>
<< So di chi stai parlando, evita eh.>>
<< Va bene, ma rimane comunque vero Mags: è bello riuscire ad innamorarsi facilmente, vuol dire che hai abbastanza amore in te per darlo anche agli altri. Che ne sai? Magari è proprio questo il tuo compito su questo mondo: dare amore a tutti, incondizionatamente, anche se per poco, anche se non richiesto. Far capire a tutti come ci si sente ad essere amati e che lo meritiamo.>>
<< E tu? Quale sarebbe il tuo compito?>>
<< Io… credo che il mio compito sia trovare cose belle e prendermene cura… sì, penso sia così.>>

 

Quel giorno di troppi anni fa, forse addirittura otto, Magnus non gli aveva dato molto peso, ma Ragnor aveva abbassato gli occhi per poi farli saettare velocemente alle spalle dell'asiatico.
Con un certo sconcerto l'uomo si ricordò che dietro di lui se ne stava un infastidito e borbottante Raphael e come succedeva sempre una morsa fastidiosa gli attorciglià le budella.
Prendersi cura delle cose belle… Ragnor aveva sempre paragonato tutti loro ad esseri magnifici, nobili per eccellenza: Regina lo era di nome e di fatto, una sovrana delle fate bella e ammaliante. Meliorn era un cavaliere fedele, Malcom il saggio serio e sicuro. Catarina con la dolcezza e la delicatezza di un fiore, della figura caritatevole sempre pronta ad aiutare. Lui era il principe, come in effetti lo era nella realtà e Raphael…un cherubino, così lo aveva definito da piccolo. Crescendo il messicano aveva cominciato a sentirselo stretto quel soprannome, “il nostro cherubino”.

 

<< Il mio cherubino.>>
 

Sì, se solo ne avessero avuto la possibilità, se solo il fato crudele non avesse deciso che Ragnor e Alexander si sarebbero dovuti conoscere troppo tardi, il poliziotto sarebbe stato sicuramente simpatico al suo amico.
Dopotutto Ragnor adorava gli angeli.
Li adorava come lui, che era invece un demone, forse non avrebbe mai imparato a fare.

O forse l'ho fatto.

Il suo telefono squillò, un messaggio del suo capo probabilmente, per chiedergli dove stesse, se andasse tutto bene.
Un sorriso ironico gli tirò le labbra: era questo ciò a cui erano destinati? A mandarsi messaggi per tutta la vita, a sentirsi da lontano così ché lui potesse mentirgli e Alec potesse fingere di credergli?
Erano state le parole dell'altro e Magnus non dubitava che fosse la verità, che Alexander fosse in grado di capire quando mentisse solo leggendo le sue parole. Dio, magari riusciva addirittura a sentire il tono dei suoi pensieri.
Per quei mesi d'ospedale e di riabilitazione Magnus non aveva mai sentito la voce di Alexander, era dovuto andare al processo per poterne avere l'occasione. Il giovane non si era neanche preoccupato di avvertirlo quando era stato di nuovo male. Però non appena aveva scoperto che volevano farlo Tenente era andato da lui… gli aveva portato il quaderno di suo padre e lo aveva letteralmente ingaggiato per il futuro, per la lotta alla ricerca di tutti i nomi riportati tra quelle pagine.
Da quando aveva conosciuto il bel Lightwood Magnus aveva tralasciato moltissimi dei suoi compiti, se adesso qualcuno gli avesse chiesto come andava la distribuzione d'alcolici sulla East Coast non avrebbe saputo cosa rispondere, però sarebbe stato in grado di dire quanti bottoni c'erano nell'ascensore del Dipartimento di Polizia di New York City.
Era inutile negarlo, Alexander lo aveva rovinato e non solo sul piano lavorativo… la felice uscita con Hanna era stata solo la- quanto? Quarta? Quinta, che si era fatto dopo essere stato dimesso dall'ospedale? Solo cinque donne in otto mesi e neanche un ragazzo. Dio, ogni volta che posava gli occhi su un uomo storceva il naso perché gli mancava qualcosa.

Tipo delle spalle da nuotatore ed una schiena riempita da un paio d'ali chiuse.

Scosse la testa.
No, assolutamente no.
Okay, sì, forse sì, ormai paragonava tutti gli uomini ad Alexander ed inevitabilmente vinceva il moro, ma solo perché le circostanze erano state particolari, null'altro.
E non c'entrava niente neanche che poi si fossero baciati più di una volta. Come al Rockfeller, o a Natale quando li avevano obbligati a quel bacio alla Spiderman, o dopo con l'ombelico alcolico.
Catarina lo aveva guardato con la faccia di una che la sapeva lunga, gli aveva ripetuto per settimane che “quello che c'era stato dopo” non era un obbligo del gioco.
La verità, schifosa e chiara, era che se si fosse ritrovato solo con il tenente non c'avrebbe pensato neanche un momento prima di lanciarglisi contro. Avevano anche un conto in sospeso poi!
Ma no, Alexander lo aveva trattato con gentilezza, con affetto anche, come la mattina del 26, ma non c'erano state altre occasioni, nessun bacio, niente di niente… erano tornati ai mesi autunnali, ai messaggi, all'incontrarsi per un caffè, alle visite al Pandemonium. L'incontro più lungo che avevano avuto era stato quando il ragazzo gli aveva spiegato l'importanza del colloquio, che lui per altro aveva ignorato, ma Magnus si rifiutava di credere che solo quel piccolo episodio, quell'inerzia che era stato il “Bane Show”, come lo aveva chiamato la Herondale, potesse aver messo tutto quel divario.
Ancora una volta, la verità – queste verità scomode cominciavano ad infastidirlo non poco- era che non ci capiva un cazzo del bel detective.

E pensare che lui invece mi capisce così bene…

Una fregatura grande quanto una casa. La cosa certa era che non sarebbe stato lui a fare il primo passo. Lo aveva fatto in quell'afosa serata d'Agosto dell'anno prima e se a suo tempo era stato felice di mettersi a nudo fisicamente non aveva la minima intenzione di farlo anche a livello emotivo, non quando pareva che dall'altra parte non ci fosse interesse.
Ragnor poteva anche credere che lui fosse una persona destinata a dare amore, ma forse aveva trovato qualcuno che non ne voleva, non da lui.
O forse, aveva trovato per la prima volta qualcuno a cui non bastava un po' della sua luce, forse gliene serviva di più, troppa rispetto a quella che lui era abituato a dare a tutti.
Con un sorriso appena accennato Magnus tornò verso il bagno per finire finalmente di sistemarsi i capelli.
Che ironia della sorte: un angelo che non aveva mai ricevuto amore e viveva nell'ombra ed un demone che da sempre ne dispensava a chiunque ed a cui non aveva mai sfiorato l'idea di sottrarsi a quella stessa luce che emanava.
Da quando i ruoli si erano invertiti?
Prima o poi avrebbe dovuto scoprirlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ventiquattro ore prima.

 

Il rumore dei suoi passi era attutito dal lungo tappeto che copriva tutto il corridoio. Ai suoi lati rilucevano le fasce lasciate scoperte di lucida pietra nera. Era un tocco di classe, una cosa del tutto diversa da quell'insulsa moquette che molti palazzi del genere avevano in ogni singola stanza.
Le pareti chiare erano decorate da lampade a braccio, una sola celletta di metallo scuro e opaco contornava i vetri gialli e aranciati che si alternava in disegni a rombi.
Era una sfumatura calda quella che avvolgeva il passaggio di ogni avventore, un tepore che si rifletteva sullo specchio scuro che era il pavimento.
Le scarpe di pelle scivolavano con l'eleganza e la compostezza del loro proprietario, i passi erano misurati e lenti, non aveva alcuna fretta di raggiungere la sua meta, era un moto inesorabile ma quasi sgradito. Trovarsi lì dentro, di persona, era solo la conferma di quanto tutto ciò stesse mandando nel panico tutti loro.
Era successo quasi tre settimane prima, senza che nessuno potesse impedirlo.
Forse avrebbero potuto prevederlo però, anzi, c'era da dire che certamente qualcuno di loro l'aveva fatto seriamente, mentre gli altri lo avevano solo ipotizzato e non vi avevano dato peso.
La persona che avrebbe dovuto incontrare, per esempio, rientrava in una terza ed esigua categoria composta a mala pena da due individui: coloro che non si sarebbero mai aspettati quella chiamata, che non potevano neanche immaginarlo.
Era stata una scomoda eredità per entrambi, un'eredità che per altro non aveva niente a che fare con il legame sanguigno inteso come intendeva la medicina, ma che invece lo era a livello pratico. Il filo che li collegava alla guerra che sarebbe scoppiata a breve era intriso di rosso, come quello della vecchia legenda giapponese.
Peccato che nessun nastro li avrebbe romanticamente collegai alla loro dolce metà, sarebbe stato il sangue, la lotta, la morte ed il potere ad annodarsi attorno al centro del loro animo e a costringerli ad alzarsi dalla loro sedia per poter prendere parte a quell'atto finale.
Ciò che più lo incuriosiva era sapere come avessero reagito entrambi: per uno di loro, per quando sconvolgente, doveva essere stata subito chiara la logica dietro a quella serie di nomi, ma per l'altra parte? Come si era comportata quell'altra povera anima? Probabilmente lo avrebbe saputo solo quando anche l'ultima lettera sarebbe partita.
Erano le regole del gioco, quelle che erano state loro insegnate all'inizio e che, nel corso del tempo, il loro mazziere aveva cambiato con attenzione, notificando ogni modifica.
Sarebbero stati tutti chiamati, prima i più anziani e poi i più giovani, passandosi il testimone gli uni agli altri finché non fossero arrivati a qualcuno che avrebbe potuto raccogliere il vessillo e scendere in campo.
Non ci sarebbero stati vinti o vincitori, sarebbe stata l'apocalisse per tutti loro ed era per questo che si stavano preparando, per la fine di tutti i regni, per risalire girone dopo girone a riveder le stelle. Quando poi ognuno avrebbe vestito la propria armatura non il re, ma il Master, sarebbe sceso tra di loro ed avrebbe fatto l'ultima chiamata.
Dovevano sbrigarsi, dovevano mettersi al sicuro prima che questa fosse fatta o sarebbe stato davvero il loro ultimo giro di ruota.
Inizialmente non voleva crederci, conosceva quell'uomo letteralmente da una vita e se era arrivato a contemplare l'idea di spedire “l'invito finale” significava che voleva chiudere i giochi una volta per tutte. Magari lui era anche già bello che sistemato ma loro altri no, assolutamente no.
Avevano vissuto sino ad ora con la certezza di essere al sicuro, che il suo dannato quaderno era disperso, che nessuno lo avrebbe mai trovato e che, anche nel caso ci fossero riuscito, non lo avrebbero compreso.
La scrittura cifrata di Asmodeus era sempre stata una sicurezza perché la conosceva solo lui. Un misto di troppe lingue, di segni che significavano qualcosa solo per un pazzo come poteva esserlo quell'uomo, per un genio come lui, ma non per i comuni mortali.
Vi aveva scorto dentro parole latine in lettere greche, ebraico e arabo che forse non erano né l'uno né l'altro, caratteri canji, Dio santo, era sicuro di averci letto un'intera frase nella lingua elfica di Tolkien ed Asmodeus gli era scoppiato a ridere in faccia quando glielo aveva chiesto.
Erano passati anni ed il sol ricordo di lui al tempo strideva con la sua immagine di ora.
Quando l'aveva visto l'ultima volta? Si erano incontrati nella sua casa a Parigi a Settembre, quando il figlio dell'amico era appena uscito dall'ospedale ed i loro contatti riportavano tutti le stesse informazioni: Morgenstern aveva fatto il passo più lungo della gamba ma si era ritrovato contro non solo il nuovo Principe, ma anche un poliziotto che non aveva avuto paura di tenere la testa alta. Lo stesso poliziotto che aveva scoperto la verità sull'Operazione Circle e sul quaderno, che aveva ucciso quel vile traditore e che era a sua volta quasi morto per salvare il piccolo Bane. Che ora non era più così piccolo, ma che ugualmente era stato preso sotto l'ala protettrice di quel ragazzo più giovane di lui che si era salvato probabilmente solo per pura forza di volontà.
Se in quei giorni di tranquilla convivenza Asmodeus si fosse degnato di dirgli che aveva deciso di scoperchiare la volta cavernosa del loro personale inferno per chiudere in bellezza la sua carriera e dare per l'ennesima volta uno smacco morale all'Interpol, magari adesso lui non starebbe marciando in quel corridoio che, per quando caldo e accogliente potesse sembrare agli occhi altrui, non riusciva ad ingannare lui: pareva di trovarsi dentro una bara, diretti verso il cupo mietitore.
Sapeva di non dover sottovalutare quel giovane, lo aveva capito anni prima quando era riuscito ad inserirsi in una delle gang più violente e brutali della città ma anche dell'intera nazione, che contava affiliati in ogni Stato, sino a giungere ai vertici ed essere riuscito a vendicarsi.
La porta verso cui era diretto era l'ultima del corridoio, un blocco di legno cupo e rossiccio, la maniglia dorata e lucida come la targa che vi era apposta la centro.

Director”

Bussò educatamente ed attese di ricevere una risposta.
Fece roteare lentamente la testa per sciogliere i muscoli del collo, il colletto della camicia bianca lo abbracciava come se gli fosse stato cucito addosso, la cravatta rossa che pendeva tra i lembi pareva una lingua di sangue che gentile ondeggiava sui bottoni in madreperla.
Un secco permesso ad entrare gli giunse ovattato da dietro il legno trattato, si concesse solo un ultima messa a punto dei polsini e dei relativi gemelli e poi accolse l'invito.
Quella stanza non era cambiata molto dall'ultima volta che vi era entrato, il sapore gotico permeava ogni singolo oggetto, un lusso ricercato e attento che gettava una certa soggezione su chiunque dovesse sostarvi dentro.
Un grande tappeto rettangolare con disegni arabeschi copriva il pavimento, le pareti ospitavano pochi ma magnifici quadri, compreso quello rappresentate la caduta dell'arcangelo più bello di Dio nelle profondità della terra.
Sul tavolinetto dal piano in vetro posto davanti al divano vinaccia, una ciotola completamente decorata a mosaico risplendeva delle sue saldature dorate, spandendo un vago e debole luccichio per quell'antro intimidatorio quando elegante.
Seduto alla sua bella scrivania di mogano c'era un ragazzo di circa venticinque anni, ma lui sapeva perfettamente averne tre in più. Vestiva un completo grigio antrace, la camicia bianca e la cravatta degli stessi toni della giacca. Il suo volto poteva sembrare giovane, forse un po' troppo per qualcuno seduto lì, a capo di una delle imprese criminali più redditizie del paese, ma non andava sottovalutato, era esattamente dove sarebbe dovuto essere o la chiamata non sarebbe giunta a lui.
Le labbra morbide erano rilassata nell'espressione neutra del suo volto: era ovvio che non gli andasse a genio averlo lì, specie per quel preciso motivo, ma le loro preferenze in quanto a compagnia potevano esser messe da parte per un po'.
L'uomo avanzò tenendo gli occhi scuri fissi in quelli altrettanto neri di Raphael Santiago, sulle sopracciglia folte e nette, sui capelli ricci pettinati con cura.
<< Vorrei poterti dire che è un piacere vederti, ma temo di non esser incline ai convenevoli oggi.>> la sua voce bassa gli giunse come una carezza, nessuna traccia di quel bell'accento spagnolo che marchiava molti della sua famiglia.
Non c'era da stupirsi, dopotutto il ragazzo era nato e cresciuto oltre il confine, era cittadino americano in tutto e per tutto. Esattamente come non lo era lui.
Aveva scelto l'America come suo personale parco giochi anni addietro, quando il vecchio mondo aveva cominciato ad andargli stretto ed un amico oltre oceano gli aveva proposto di andare a visitare gli spazzi infiniti e verdeggianti della terra a stelle e strisce.
Alexei aveva poco più di quindici anni all'epoca, nessuna voglia di entrare a far parte dei giri dei suoi famigliari, di studiare in quella misera scuola pubblica e di abbassare la testa sotto i dettami della regina. Fu una salvata, quella discussione fatta quasi per caso, il suo amico gli disse che l'America era proprio ciò che stava cercando, un mondo nuovo per ricominciare da capo, dove non avrebbe avuto nessun passato se non quello che lui stesso si sarebbe portato dietro.

<< Potresti essere chiunque tu voglia, nessuno potrà mai smentirti.>>

Era il lontano 1966, l'anno dei bombardamenti americani in Vietnam, dei colpi di Stato in mezzo mondo, di Sound of Silence, lasciò la sua vecchia Inghilterra subito dopo i mondiali che la videro vincitrice contro la Germania Ovest, in tempo per assistere all'ultimo concerto dei The Doors.
All'epoca quel giovane uomo lì seduto avanti a lui non era neanche nei sogni più reconditi dei suoi genitori.
Sorrise, stava diventando vecchio, era vecchio. Alexei ormai aveva più di sessantanni ma se li portava benissimo, esattamente come l'altro.
Erano simili sotto molti punti di vista: entrambi non dimostravano la loro età, entrambi dovevano ai proprio genitori natali che non gli appartenevano, terre che non avevano mai visto se non nelle cartoline mandate da quei parenti che ancora vi dimoravano o nelle vecchie foto che venivano custodite come reliquie.
Con la calma inesorabile che lo aveva contraddistinto per tutta la sua vita, Alexei si sedette sulla poltrona alla destra del piano levigato ed allungo elegantemente la mano a Santiago.
<< Non avrei mai osato disturbarti in orario di lavoro, se non fosse stato necessario.>> replicò pacato.
<< Ne sono certo, le buone maniere sono, credo, l'unica cosa che neanche la morte riuscirà a toglierti.>> Raphael si sistemò meglio sulla propria poltrona e fece un gesto vago. << Gradisci qualcosa da bere?>>
Alexei scosse la testa. << Non voglio tediarti troppo con la mia presenza, preferirei passare immediatamente al motivo della mia visita.>>
<< Posso immaginarlo.>> replicò quello con una nota infastidita nella voce. << Quelli come noi non escono alla luce del sole se non per assoluta necessità, capisco perfettamente il tuo desiderio di tornare al più presto nell'ombra.>>
Il sorriso che si aprì sul volto silvano dell'uomo scoprì una fila bianca e dritta di denti affilati. Pareva il ghigno di un predatore soddisfatto di ciò che ha visto, o in questo caso, udito.
Annuì, leggeri fili bianchi scivolarono dalla coda bassa che gli poggiava con delicatezza sulla spalla.
<< La gente comune temo non apprezzerà mai il favore delle tenebre come possiamo farlo noi.>>
<< La gente comune continua a credere di essere più protetti esposta alla luce, che nascosta dal buio. Sono sicuro che il motivo per cui sei qui è che anche a te è arrivato un invito che, purtroppo, ti costringerà a camminare sotto il sole.>>
Annuì ancora e intrecciò le mani in grembo, pallide e lunghe, magre come le falangi di uno scheletro. << La chiamata è stata fatta ai figli della notte ma non ci permetterà di giocare nel nostro territorio. Quanti dei tuoi l'hanno ricevuta?>> domandò come se stesse parlando del tempo.
Raphael lo guardò pensieroso. << Due nostre comuni conoscenze, un vecchio mentore, un amico e te. Per il momento il mio conto si ferma a cinque.>>
<< Capisco, il mio attualmente è a undici, quattro di questi non sono miei amici e non sono neanche tuoi. Due conoscenze in comune, come hai ben detto, e posso intuire chi sia il tuo mentore. Puoi ben capire chi altro è coinvolto se ho deciso di farti visita personalmente.>>
<< Posso ipotizzare ma la risposta non mi piace.>>
<< A nessuno di noi piace.>> concesse benevolo.
Lo scrutò per un lungo istante e poi gli sorrise. << Non ti aspettavi la chiamata, vero?>>
Raphael scosse la testa senza neanche provare a negare, non avrebbe avuto senso.
<< Non sono mai stato direttamente sotto il suo comando. Asmodeus ha richiesto i servigi dei clan o delle gang a cui ero affiliato ma mai i miei personalmente. A quanto pare è un'eredità la mia.>>
<< Sgradita, aggiungerei.>>
Lo sguardo del ragazzo si fece duro. << Il mio nome non dovrebbe essere su quel quaderno e coloro che mi hanno passato il testimone non erano, non sono e non saranno mai persone a me gradite. Per di più sono sicuro di essere l'unico che non conosce per via diretta le regole alle quali sta giocando.>> strinse il pungo e poi rilassò la mano come se solo quel gesto avesse sfogato la sua frustrazione. << Sei qui per rendermene partecipe?>>
Se fosse stato possibile uccidere qualcuno con la forza del pensiero Alexei sarebbe già morto, ma da molto tempo e sicuramente non per mano di quel ragazzino, sarebbe arrivato troppo tardi.
Eppure era certo che l'unico desiderio di Raphael Santiago in quel momento fosse prenderlo a pugni in faccia sino a fargli sparire quel dannato ghigno. Non si sarebbe fermato finché non gli avesse fatto saltare tutti i denti e vomitare sangue su quel bel tappeto pregiato su cui poggiavano i piedi, ma ancora una volta per lui non era una novità. Persino Asmodeus c'aveva provato una volta, ma Alexei era decisamente più grande e più forte di lui al tempo.
<< Le regole sono quelle, non c'è nulla da aggiungere. Sono qui per proporti il mio appoggio, il tuo Hotel ed il mio Club sono le roccaforti della città, assieme faremo muro contro chiunque. Il nostro lavoro è simile dopotutto.>>
<< Io faccio sparire le persone Alexei, io vendo sicurezza, anonimato ed una nuova vita. Direi che tu invece fai di tutto per mantenere in piedi quelle che già ci sono.>>
<< Vero, ma non sono forse collegate? L'hai detto tu: io mantengo in piedi le vite di chi si rivolge a me e tu invece le cancelli. Siamo due facce della stessa medaglia.>>
Raphael probabilmente stava calcolando come ucciderlo e non farsi beccare, ma qualcosa nel tono della frase dell'uomo lo aveva catturato.
<< E la seconda cosa?>> chiese lapidario.
<< Non ho detto che ce ne fosse una seconda.>> sorrise quello gentile.
<< Non prenderti gioco di me, sai che non è né consigliabile né utile, specie nella situazione in cui ci troviamo.>>
Alexei annuì sorridendo più apertamente. << Questo è il motivo per cui la chiamata è arrivata a te e non ad altri.>> Batté le mani e si alzò dalla poltrona facendo leva sui braccioli.
Si risistemò la giacca che non presentava che leggere pieghe e allungò la mano verso il giovane.
<< La chiamata è stata fatta a molti di noi in tutto il mondo. Anche coloro che non hanno mai lavorato in questa terra si vedranno presto costretti ad imbarcarsi per raggiungerla. >>
<< Se mi stai dicendo che presto l'America diventerà posto di ritrovo di moltissimi criminali… >>
<< Affaristi, preferisco questo di termine, se non ti spiace. Comunque no, non volevo sottolineare l'ovvio. Ma ognuna di quelle persone sapeva che sarebbe potuto succedere, che prima o poi il Principe li avrebbe richiamati a sé, chiunque abbia incrociato la sua strada almeno una volta nella vita poteva esser chiamato. C'erano solo due persone che non se lo sarebbero mai aspettato perché, proprio come hai detto tu, non hanno mai lavorato direttamente per lui.>>
Raphael rimase con la mano bloccata a pochi millimetri da quella pallida dell'uomo, i suoi occhi fissi in quelli quasi neri dell'altro.
Che diamine stava dicendo? Che significava che c'era qualcuno che non si sarebbe mai aspettato la chiamata?
Due persone. Due.
Uno era lui, ma l'altro?
<< Uno di questi due sei tu.>> Alexei colmò la distanza irrisoria che li separava e strinse la mano ghiacciata in quella altrettanto fredda del giovane.
<< Chi è l'altro?>>
Il suo ghigno perse la sfumatura divertita per prenderne una cupa come quell'ambiente, la crudele aura dei tempi gotici brillò nel suo viso di cera come su quello di un morto.
<< Il suo nome è ignoto, così come la sua identità. Ma, mio caro Raphael, prega che quella chiamata non riceva mai risposta. È l'unico che si può permettere di rifiutarla.>>
<< Com'è possibile? Nessuno può.>> ribatté attento.
<< Noi che sappiamo cosa significhi non possiamo. Questa persona è stata integrata nel gioco per discendenza, esattamente come te, ma non ha la più pallida idea di esser stata scelta e come puoi ben capire Asmodeus non può mica presentarglisi e spiegargli tutto.>>
<< Perché è così importante? Cosa c'entra con tutti noi?>>
L'uomo lasciò la sua mano e si esibì in un lievissimo inchino. La tenda di capelli bianchi gli carezzò le guance asciutte, pallide e polverose come se fossero state ricoperte di cipria.
<< Non si può giocare senza, ognuno deve fare la sua parte. Non sono scacchi, non sono carte, non c'è un mazziere o un Master da battere, il nostro comanda i giochi ma non è il banco.>>
Arrivò sulla porta e si voltò per guardarlo un'ultima volta.
<< Allora a cosa stiamo giocando, se non ad un gioco di strategia?>> chiese alla fine Raphael, arresosi all'idea che Alexei non gli avrebbe mai detto chiaro e tondo di cosa si trattasse, che avrebbe dovuto scoprirlo da solo.
Il sorriso del predatore si aprì di nuovo su quelle labbra mortifere, la maledizione di un'immortalità che portava con sé tutti i segreti del mondo.
<< Oh, ma lo è, eccome se non è un gioco di strategia, ma qui vincerà chi oltre all'intelletto applicherà l'intuito, chi sarà capace di vedere oltre le facciate pulite dietro cui ognuno di noi si nasconderà. Questo, mio caro ragazzo, è un gioco senza tempo e senza soluzione.>>
La porta si aprì girando sui cardini lucenti, l'uomo vi sparì dietro come un prestigiatore che scompare con un numero di magia. Tutto ciò che si lasciò alle spalle fu il suo caratteristico profumo di colonia e due parole che Raphael non riuscì a capire se se le fosse immaginate o se Alexei le avesse seriamente pronunciate.

 

<< Lupus in fabula.>>

 

 

 

 

 

 

Presente

 

Si grattò il fianco senza neanche rendersene conto, la camicia sembrava fargli da patina protettiva e per quanto potesse sfregare le unghie sulla carne non ne ricavava gran ché di sollievo.
Quella mattina alzarsi era risultato più difficile del solito, la sua sveglia biologica aveva deciso che l'orario più consono era di circa settanta minuti inferiore a quello programmato sulla sveglia digitale, ma ormai cominciava a non farci più caso.
Sfregò ancora la mano sul fianco, di certo avrebbe piovuto quel giorno, glielo gridavano tutte le sue vecchie cicatrici e ora che ci pensava, gliene mancava proprio una sulla spalla a fargli scricchiolare le giunture. Avrebbe dovuto accettare l'idea di continuare a fare la fisioterapia affiancata agli allenamenti di potenziamento o non ne sarebbe più uscito da quello stupido circolo vizioso.
Sedendosi con attenzione alla propria posizione Alec si rigirò la tazza di ceramica tra le mani, beandosi del tepore della bevanda bollente ed ispirandone a pieni polmoni l'odore forte e piacevole.
Il silenzio che lo circondava era interrotto solo dal basso brusio dell'ufficio, animato da quel magico momento della giornata in cui i reduci dal turno di notte staccavano per lasciare il posto ai colleghi della mattina ed andare finalmente a riposare.
Quante notti aveva passato lui lì, su quella poltrona, a scrivere rapporti e attendere che qualcuno decidessi di ammazzarsi proprio durante la sua nottata? Probabilmente lo stesso numero di notti che aveva passato sperando che nessuno ci provasse.
Gli omicidi notturni erano sempre delle rogne: nessuno aveva visto niente perché c'era troppo buio, era stata una macchina che andava a velocità inaudita ed era sfrecciata via accecando i testimoni, o magri quei testimoni erano troppo ubriachi e quindi non ricordavano pressoché nulla. Senza contare l'altissima probabilità che si perdessero le prove, che venisse contaminata la scena del crimine, magari la pozza su cui si era parcheggiata la volante era importante, magari qualche barbone favorito dal buio aveva rubato qualche oggetto personale della vittima, erano così tante le dinamiche da prendere in considerazione… persino quella di un tipo che denunciava la morte di un amico che in realtà era vivo.
Gli era capitato nei suoi primi anni da agente: Alec si era presentato a casa dell'uomo che diceva di aver ucciso accidentalmente il coinquilino colpendolo alla testa con una sedia di plastica mentre improvvisavano una lotta stile wresling. In realtà l'altro era solo andato a terra svenuto ma il primo continuava a cercare di sentigli il polso sulla caviglia.
Alexander odiava le false chiamate, specie quelle fatte da ubriachi.
Quel silenzio, quel chiacchiericcio assonnato però, non gli era più comune da un paio di settimane a quella parte. Erano le otto spaccate e di solito i suoi colleghi si presentavano a lavoro per quell'ora, malgrado avessero accordato un salvacondotto sino alle otto e mezza.
In genere quello era il momento in cui il suo telefono cominciava ad esplodere dei messaggi di Simon che si lamentava della lentezza di Luke che si era proposto di dargli un passaggio, della metro o di Magnus che ancora doveva finirsi di preparare. Poi iniziavano i messaggi dell'uomo, tutti rigorosamente vocali perché lui, a quell'ora dell'alba, non aveva proprio la forza di scrivere nulla, su quanto Simon rompesse le scatole e mille altre scuse assurde.
Invece nulla. Niente di niente.
Per un attimo si preoccupò che fosse successo loro qualcosa, ma dopotutto si trovavano a New York, poteva esserci traffico, potevano essersi fermati a comprare da mangiare, Simon poteva essersi scordato qualcosa a casa e Magnus poteva perfettamente passare ore davanti a due completi, indeciso sul da farsi, per poi indossarne un terzo. Sarebbero arrivati, con i solo soliti tempi ma l'avrebbero fatto.
La cosa ridicola era che quando lui aveva cominciato quel lavoro arrivare alle otto equivaleva al ritrovarsi solo perché la squadra era già partita. Aveva perciò preso questa bell'abitudine di arrivare il più presto possibile, prima del cambio di turno, così da evitare agli agenti ormai stanchi e distrutti di dover esser loro a rispondere a possibili telefonate.
Se quella mattina non fosse successo niente, ovvero qualche sparatoria o incidente di cui potevano tranquillamente preoccuparsi gli agenti semplici ed i novellini, avrebbe portato i ragazzi a fare una visita al deposito prove, magari anche a quello dei casi irrisolti.
Leggere vecchi documenti e cercare di trovarne una soluzione era un'ottima palestra. Alexander aveva passato nottate intere in quel freddo e tetro magazzino a risolvere problematiche che altri prima di lui avevano abbandonato per mancanza di prove o perdita di testimoni.
La gente non capiva quanto la parola di un singolo potesse fare per un caso, ne avevano viste tutti a bizzeffe di storie ovvie e chiare come l'acqua sospese per questo motivo, perché il testimone si era ritirato, perché era morto, perché era sparito. Nella maggior parte dei casi se succedeva era perché qualcuno lo aveva minacciato, spesso neanche si sprecavano a farlo, li uccidevano e basta, i testimoni.
Storse il naso quando si ritrovò a domandarsi quanti dei casi chiusi dall'ex Vice Commissario fossero finiti positivamente o negativamente per sua scelta, quante persone oneste finite in prigione, quante morte o scomparse perché fastidiose. Ne aveva parlato con suo padre e l'uomo gli aveva confermato che le probabilità erano altissime, che era stata messa assieme un equipe degli Affari Interni dedicata solo al riesamino di tutti casi di Morgerstern, ma la cosa era delicata, delicatissima: se anche solo uno di loro avesse fiutato qualche dubbio, qualche incertezza da parte della polizia, sarebbe stata la fine: Centinaia di casi riaperti, i suoi e quelli dei suoi sottoposti, dei suoi allievi. Ogni sorta di criminale avrebbe potuto far ricorso e l'avrebbe vinto perché gli avvocati avrebbero concentrato tutte le loro arringhe sul fatto che Valentine avesse distrutto prove che potevano scagionare i loro clienti. La stampa sarebbe esplosa, avrebbe cominciato a chiedere perché si indagasse sul fatto, perché per una questione di contrabbando di opere d'arte di un poliziotto, seppur così in vista, ci si stesse interessando ai suoi lavori conclusi.
Quanto era stata data la notizia della morte del Vice Commissario la Herondale era stata a dir poco perfetta nel gestire, ed insabbiare anche, il tutto: la versione originale asseriva che durante l'Operazione Circle Valentine si fosse appropriato di una cifra considerevole rubandola a dei debitori di Asmodeus. Al tempo se ne era reso conto solo Hodge Starkweather e per farlo stare zitto Valentine gli aveva proposto una parte del denaro. Erano entrambi agli inizi della loro carriera, senza un soldo il poliziotto, il cui padre era morto quasi quattro anni prima lasciandolo al verde, e con il debito scolastico da pagare l'altro. La Herondale aveva assicurato che quell'indegno gesto era stato dettato dalla loro necessità ma che nessuno dei due era giustificabile per ciò che fece dopo. Secondo la ricostruzione dei fatti, Michael Wayland e Stephen Herondale se ne resero conto, chiedendo prima ai due di restituire il denaro, facendo finta che non fosse mai successo e poi minacciandoli di andare a far rapporto quando i due gli dissero che ormai quei soldi erano andati.
Valentine li uccise durante la sparatoria, non era sua intenzione inizialmente ma se li trovò sotto mano e nella follia generale di quella nottata non perse l'occasione per sbarazzarsi di due testimoni inopportuni. Starkweather fece il resto quando altri si resero conto che qualcosa non quadrava.
Parte di quei soldi però Valentine li aveva messi da parte e nascosti proprio nella scultura della moglie che era poi stata rubata dal deposito in cui si trovava durante il divorzio.
Il Vice Commissario l'aveva cercata per una vita ma poi si era detto che tutto sommato era meglio che ogni prova fosse scomparsa, che le banconote con quei precisi numeri di serie non venissero mai ritrovati, questo finché non vide per caso proprio quella scultura in una lista di possibili oggetti nel mercato nero.
Aveva preso contatto con Fell, gli aveva chiesto l'opera, gliel'avrebbe pagata la metà esatta di ciò che c'era all'interno della Coppa Mortale e poi si sarebbe sbarazzato del resto. Fell lo aveva riconosciuto e per evitare di essere smascherato o ricattato, Morgerstern lo aveva ucciso.
Questo era ciò che aveva raccontato Imogen Herondale in un comunicato stampa quando tutto il processo finì, quando l'opinione pubblica aveva atteso fin troppo, esclusa dall'aula di tribunale in cui era stato discusso il crimine a porte chiuse.
Alec non sapeva se esserne più sollevato o se disprezzare completamente la cosa.
Perché la figura di Valentine Morgerstern doveva essere addolcita quando invece era solo un bastardo senz'anima che avrebbe ucciso anche il suo stesso figlio pur di salvarsi e fare fortuna con il quaderno di Asmodeus?
Per il bene superiore. Per non scatenare un'apocalisse nelle prigioni di New York City ed impedire a centinaia di criminali di poter tornare a camminare per le strade da uomini liberi.
Chiuse gli occhi e poggiò la tazza sulla scrivania: l'anno prima, in quello stesso giorno, non avrebbe mai immaginato di potersi trovare in una situazione simile. Ma c'era da dire che niente nella sua vita era mai stato come se l'era immaginato.
Tanto per cominciare non avrebbe mai creduto possibile che quei due deficienti potessero fare più tardi delle otto e… ? Trenta?
Sbuffò contrariato. Dal giorno dopo sarebbero dovuti esser in centrare alle sette e mezza con un margine di mezz'ora che arrivava alle otto. La settimana dopo alle sette e mezza e basta e quella dopo ancora alle sette spaccate. Così imparavano ad abusare del suo buon cuore.
Prese il telefono che aveva lasciato sul tavolo e lo sbloccò velocemente, entrando su Whats App e aprendo la chat comune.

 

 

Little Flower's Squad.

 

Che fine avete fatto? Tra dieci minuti dovreste essere qui.”
Ditemi che state parcheggiando.”

 

Nessuno dei due visualizzò il suo messaggio e soprattutto Magnus non aveva cambiato il nome del gruppo anche se glielo aveva ripetuto fino alla nausea. Avrebbe chiesto a Simon di farlo lui da remoto.
Chiuse la chat e tornò indietro per vedere le altre.
C'erano un paio di messaggi dei suoi fratelli, Max che gli chiedeva se poteva prendere qualcosa dalla sua camera, ma visto che risaliva alla notte prima dedusse che lo avesse già fatto; Jace che gli proponeva il pranzo assieme e Izzy che si lamentava sul gruppo della famiglia di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che Maryse aveva preparato lo spezzatino e chiamato a racconta tutti i figli.
Uhg, se sua sorella aveva voglia di carne, e di qualcosa di così specifico e calorico come lo spezzatino che faceva la madre, significava che aveva il ciclo o che si era mollata con il tipo con cui si stava sentendo.
Per amore dei suoi fratelli aprì la loro chat privata e li avvisò. Il “Oddio, pure lei?” di Jace gli fece quasi venir voglia di avvisare anche Simon di prepararsi ad un paio di sfuriate di Clary che avrebbe sicuramente discusso con il fidanzato per qualche cavolata, ma desistette, glielo avrebbe detto a breve di persona e poi aveva altro a cui pensare in quei due minuti che i suoi colleghi avevano a disposizione per materializzarsi lì prima che cominciasse a preoccuparsi e alterarsi in egual misura.

 

Settimana nera, ho decisamente bisogno di una pausa o il prossimo coltello su cui metterò mani finirà nella schiena di qualcuno, se non direttamente nell'occhio.”
“ Ceni da me?”

 

Alec sorrise a quella frase e si sbrigò a rispondere.
 

Cosa mi cucini di buono? Sono un poliziotto, lo sai che non dovresti venire a dirlo a me se avessi intenzione di uccidere qualcuno.”

 

Vengo a dirlo a te proprio per questo. Mi aiuterai e mi porterai le arance in prigione.
Dicono ce ne sia carenza, poi come te la preparo l'anatra se no?”

 

Non puoi ricattarmi così, sai che non posso mandarti in prigione se minacci di non farmi più l'anatra all'arancia.”

 

Lol.”
Sono una mente malvagia.”
“ Mi ami troppo per permettermi di finire ingabbio, uomo.”

 

Concesso. Ma non dirlo ai miei fratelli.”
A che ora vengo da te?”

 

Quando stacchi, lo so che sei un uomo impegnato.”

 

Prendi poco in giro.”
“ Porto la birra?”

 

Tu mi ami ma io ancora di più <3!”

 

Una risata mal trattenuta gli scappò dalle labbra. Che doveva farci con quel pazzo? Già aveva Jace che lo tormentava, gli ci mancava solo lui.

 

Mi hanno educato bene. E poi lo dici solo perché ti sono utile.”
 

Azz! Così ferisci i miei sentimenti.”
“ Sai che il mio è un amore disinteressato.”

 

Ripetitelo Seth, prima o poi ci crederai.”
“ Torna a lavorare ora, così lascerai in pace me.”

 

Yes man, come comandate voi.”
“ A sta sera!”

 

Chiuse la conversazione senza perdere il sorriso che gli era spuntato genuinamente in volto.
Era davvero da tanto tempo che non passava una serata solo con lui, avevano molto da dirsi, specie chi fosse il tipo che gli ispirava un omicidio a sangue neanche troppo freddo.
Un omicidio su cui non avrebbe investigato prima di aver risolto il problema dei suoi sottoposti scomparsi.
Non una sola risposta sul gruppo, niente di niente. Se stavano di nuovo discutendo di sfumature, di gioielli, scarpe o tv al plasma li avrebbe sbattuti per una notte in cella. Nessuno gli avrebbe detto di non farlo, Luke e Jonathan sarebbero stati i primi ad accorrere ad aprirgli le porte per lanciarci dentro Magnus. La Herondale forse gli avrebbe rubato le chiavi per evitare che lo facesse uscire finite le ventiquattro ore e aveva come la sensazione che Cristiano Santiago non sarebbe accorso a salvare il suo cliente.

<< Lightwood?>>
La voce di uno dei suoi colleghi lo fece voltare verso le pareti di vetro. L'uomo se ne stava appoggiato in bilico, la cornetta di un telefono premuta tra guancia e spalla.
<< Sì?>>
<< Hanno trovato un cadavere mentre pulivano una conduttura ostruita, puoi andare tu o hai già un caso?>> chiese quello svelto scribacchiando qualcosa su un foglio volante, usando il vetro come piano.
Alec scosse la testa. << Solo libero, sto aspettando la mia squadra ma posso andare anche subito lì e farmi raggiungere. L'indirizzo?>> si alzò dalla scrivania e finì il tea in un colpo solo. Si sarebbe strozzato prima o poi ad ingoiare blocchi d'acqua a quel modo, ma fortunatamente per lui avere una gola larga implicava anche aver meno probabilità di soffocare.
<< Aspetta, ora ti do gli estremi.>> l'uomo scrisse ancora, l'espressione concentrata. Molleggiò sulle gambe piegate alzando gli occhi al cielo, probabilmente qualche agente sul luogo stava chiedendo informazioni ad altri. << Sì, sono ancora qui, certo, dove vuoi che vada? Ah, ne siete sicuri? No, ovvio che no. Va bene, arriverà il Tenente Lightwood, il caso è suo, non far toccare niente. Sì, sì, lo so che le sai le basi, ma conosci quelli della viabilità, rompono sempre le palle. Chiamate un paio della stradale, metteteli in fermo momentaneo, toglietegli le pompe dalle mani, fate quello che vi pare ma tutto quel liquame ci serve. Sì, fa schifo, ma serve comunque. Sì, buon lavoro anche a voi.>>
Attaccò il telefono e grugnì infastidito. << Ti conviene sbrigarti, ci sono quelli della manutenzione delle fogne che vogliono liberare tutto il prima possibile e finire il lavoro.>>
<< Come biasimarli?>> replicò gentilmente Alec con un mezzo sorriso storto. << Devono fare ciò per cui sono stati pagati e poi passare al prossimo punto.>>
<< Un po' come noi, no? Si penserebbe che loro ci capiscano, vengono chiamati in continuazione a destra e manca, spesso per un'inerzia, altre volte per un fattaccio e come noi devono vedersela con corpi morti e liquidi maleodoranti.>>
Alec si tirò su il giaccone e l'abbottonò veloce. << Noi non dobbiamo immergerci nel liquame, Satton.>> gli fece notare diligentemente.
L'uomo allargò le braccia. << Grazie a Dio, se no facevo il sommozzatore! Brooklin, Red Hook, Wolcotton Streat, sfocio delle fogne del quartiere, cadavere in avanzata decomposizione, il canale è bloccato da settimane quindi il corpo potrebbe essere lì da altrettanto tempo.>>
<< Se prima non si era bloccato da qualche altra parte.>>
<< Esatto, speriamo di no, se no sarà una rogna. Il coroner è già stato chiamato, non ci sono documenti che possano identificare la vittima ma da quello che gli è rimasto addosso pare sia un uomo. Il resto della telefonata erano imprecazioni contro gli addetti alle fogne, alle piogge, alla neve che è arrivata tardi, alla puzza e a tutte quelle cose che la gente butta nel water ma invece dovrebbe andare in discarica. Ti interessano?>>
Il tenente lo superò stringendo la tazza ancora tiepida in mano. << No, grazie Satton, ne faccio a meno per oggi.>> si diresse veloce verso la sala ristoro per infilare l'oggetto nella lavastoviglie e poi ne uscì a passo celere per raggiungere l'ascensore.
<< Come vuoi tu, ragazzo.>> l'altro si strinse nelle spalle e fece per rimettersi seduto.
<< Satton? Dovrei riuscire io a contattare i ragazzi, ma se per caso uno dei due dovesse arrivare- >>
<< Sì, sì, ti spedisco i bambini direttamente sul luogo della gita.>>
L'ascensore si aprì ed Alec vi scivolò dentro con una smorfia, << Smettetela tutti di chiamarli “bambini”, mi portate sfiga. >> borbottò sommesso, sperando che l'ultima frase non fosse stata udita.
Satton però invece l'aveva sentita eccome e si voltò ridendo divertito.
<< Perché? Non è quello che fai ogni volta? Stargli dietro come se fossero bambini? Hai l'indole del padre Lightwood, scendi a patti con la realtà e accettalo, che poi quando ne avrai di veri di bambini ti rimpiangerai questi.>>
Le porte si chiusero sulla risata dell'uomo ed Alec si imbronciò ancora di più.
Gli portavano davvero sfiga, non era solo lui. O meglio: Alec era sfortunato di natura, questo sì, ma gli altri gliela tiravano proprio.
Ripescò il telefono e a quel punto sperò che i ragazzi non fossero ancora usciti di casa.

 

Little Flower's Squad.

 

Abbiamo un caso.”
Brooklin, Red Hook, Wolcotton Str fine strada, alla fine delle tubature della rete fognaria.”
“ Magnus non metterti roba che ti impedirà di infilare i piedi nella melma.”

Scrisse velocemente un messaggio a Jace, avvisandolo di dove sarebbe andato e che, prima di pranzare, se ancora voleva unirsi a lui, si sarebbe dovuto andare a fare una doccia.
La risposta del moro non tardò ad arrivare, avrebbe portato qualcosa a casa sua, cinese o tailandese?
“Pollo fritto” fu tutto ciò che gli rispose, poi sgusciò fuori dalle porte in apertura e camminò a falcata ampia sino alla sua Mustang, sperando vivamente che non ci fosse traffico e che nessuno di quei due cretini, che normalmente tenevano sempre il telefono in mano, si perdesse il messaggio e si presentasse al dipartimento. Non aveva la minima voglia di sentirli lamentarsi di aver fatto il doppio del viaggio, soprattutto perché poi avrebbe di nuovo dovuto dar ragione a Chad e pure a Satton di questo giro.

I miei bambini…

 

 

 

 

La scena del crimine era stata circoscritta dalla polizia ma i furgoni della ditta intervenuta non erano stati rimossi.
C'era una rada folla nei pressi del nastro giallo, probabilmente perché si trovavano in una zona portuaria, che non vantava un grande via vai di gente ma solo coloro che vi lavoravano. Erano per la maggior parte uomini, poche donne, neanche un ragazzino per fortuna, non voleva certo che la stampa se ne uscisse con qualche articolo su come venivano traumatizzati i bambini per colpa dell'incapacità della polizia di arginare i curiosi.
Questa smania di vedere un corpo poi, Alexander non l'aveva mai capita. Era il gusto dell'orrido, della tragedia, quel tipo di visione da cui non puoi staccare gli occhi neanche volendo e, qualora ci riuscissi, ti rimaneva impresse a fuoco nelle retine e lui sapeva di cosa stava parlando.
Il suo primo cadavere Alec lo aveva visto che non aveva neanche tredici anni, ne aveva dodici e dieci mesi a dirla tutta e sua madre gli aveva dato l'autorizzazione ad andare da solo a comprare una rivista al primo giornalaio che avesse incontrato. Se quella settimana fosse passato suo padre a recuperare il giornaletto, se sua madre gli avesse detto che doveva aspettare anche che scattassero quei due ultimi mesi, o se più semplicemente non lo avesse obbligato a fare la strada principale invece che passare per le solite viuzze che facevano sempre assieme, Alexander probabilmente non si sarebbe trovato sulla 5th Avenue e non avrebbe visto il corpo di quel pony express che aveva fatto un frontale con un bus.
Era malamente disposto a terra, gli arti piegati in posizioni scomode e la faccia macchiata di sangue, aveva gli occhi aperti e vacui e malgrado ci fossero già degli agenti sulla scena nessuno aveva avuto niente con cui coprire il cadavere quella mattina di Luglio di quattordici anni prima.
Trovava quasi ironico il fatto che la prima volta che si era imbattuto in una morte cruenta era stato per andare a comprare lo speciale di National Geographic sugli insetti saprofagi Forse era un segno del destino che lo informava che una volta cresciuto avrebbe sempre avuto a che fare con i morti e con tutti quei magnifici mutamenti chimici e biologici che ne conseguivano.
Allora era ancora indeciso sul da farsi, aveva una collezione di insetti in ambra che sua sorella e sua madre trovavano rivoltati e stava seriamente pensando di seguire i corsi estivi di biologia l'anno dopo.
Effettivamente l'aveva fatto, ripensò chiudendosi la portiera della macchina alle spalle e girando la serratura con un gesto automatico. Si mise le chiavi in tasca e scostò giaccone e giacca per mostrare il distintivo agli agenti che facevano da cordone.
Si era iscritto a quei corsi, ne era uscito con ottimi voti ed il professore gli aveva anche detto che l'avrebbe volentieri aiutato a prepararsi per superare gli esami dei corsi supplementari alla sua futura scuola. Aveva fatto anche quello alla fine, peccato che poi non avesse continuato a studiare e fosse andato all'accademia di polizia senza neanche aspettare di compiere diciannove anni.
Un poliziotto gli andò incontro salutandolo con un gesto del capo. Il cappello blu aveva una leggera patina traslucida ed Alec si rese conto che nell'aria c'era già moltissima umidità.

Esattamente quello che serve alle mie cicatrici.

<< Lei è il Tenente Lightwood?>> domandò quello quando l'ebbe raggiunto.
<< Sì signore, sono venuto appena possibile.>> gli strinse la mano e si fece portare sul luogo del ritrovamento.
<< Mi spiace tenente, ma temo che questa volta non sarà tanto facile riconoscere il cadavere. La corrente della fognatura l'ha spinto fino alla rete di filtraggio e ha spezzato un bel po' di ossa. Il coroner si sta lamentando da quando è arrivato che ci metterà come minimo un'ora per identificare le ferite postume da quelle inferte prima della morte e che ugualmente non sarà possibile definirle con precisione. >> fece l'uomo rammaricato, quasi si sentisse in colpa per non essere riuscito a far qualcosa.
<< La corrente era molto forte?>>
<< Ci sono state delle piogge forti sulla costa, la neve sciolta, la gente che getta nel water cose che non dovrebbe gettare. Abbiamo dovuto chiamare anche la narcotici, c'erano ventidue bustine di una sostanza indefinita, ma non si preoccupi- >> lo fermò subito quando scorse la sua occhiata attenta, << non se lo prenderanno loro il cadavere, a quanto pare qualche tempo fa hanno quasi beccato un sospettato con la droga ma questo l'ha gettata nel tombino, la stavano cercando da allora, sperando che non la trovassero dei senzatetto. >>
Alec annuì, profondamente sollevato, odiava i casi in comune, erano solo una grossa perdita di tempo.
<< Cosa può dirmi del corpo?>> chiese allora.
<< Uomo, tra i venticinque e i trentacinque anni, nessun documento addosso, apparentemente da una prima analisi nessun segno che lasci ipotizzare il motivo della morte. Dev'essere stato in acqua per tantissimo tempo perché i residui di pelle che ha addosso sembrano mummificati e sinceramente non saprei dirle se sono davvero roba sua o se invece sono scarti rimasti impigliati nelle ossa. Non so se le sarà possibile chiedere un test del DNA in quelle condizioni e non so quanto potrà aiutarla la dentatura perché gliene mancano un bel po'.
Gli addetti sono arrivati qui verso le sette circa, era il loro primo incarico della giornata, hanno iniziato a smontare la grata e quando hanno tolto anche le ultime sbarre si sono trovati davanti ad un grumo melmoso. Il corpo era lì in mezzo, hanno scavato un poco e quando il flusso si è riversato a terra si è portato dietro una sorpresa. Dicono di non aver toccato nulla e che non hanno visto traccia di oggetti particolari, armi o simili. I ragazzi della scientifica stanno già facendo i loro prelievi, cercheranno possibili proiettili e anche i frammenti d'osso per la ricostruzione. >>
Alec lo ringraziò con un cenno del capo e si incamminò verso la scena del delitto.
Un grande sbocco di circa un metro e mezzo si apriva da un muro cementato, dal suo interno provenivano voci, rumori e luci ed Alec ringraziò il cielo che fosse già arrivata la scientifica e che avessero subito iniziato a perlustrare la zona.
Come gli era stato detto, a terra, inginocchiato in una pozza di liquami, chino su uno scheletro, se ne stava il Dottor Carson, un uomo di quarant'anni circa, con i capelli scuri e mossi tenuti corti, una tuta blu impermeabile ed un'espressione tutt'altro che felice in volto.
Sul terreno giaceva un ammasso non ben identificabile a primo colpo, un cumulo verdastro-marroncino attorno a cui già si stavano radunando le prime mosche che venivano scacciate malamente dal medico legale. Avvicinandosi Alec poté cominciare a distinguere una forma più arcuata che riconobbe come la cassa toracica, tra le cui costole erano impigliati lunghi filamenti putrescenti e brandelli di quelli che forse un tempo furono i vestiti della vittima.
L'osso pelvico era praticamente spezzato a metà, mancava la parte inferiore della gamba destra ed Alec scorse più di qualche falange persa per ogni arto. Il teschio stava a poca distanza, poggiato su un telo cerato su cui i ragazzi della scientifica radunavano a poco a poco tutti i frammenti ossei ritrovati. Staccato di netto dalla spina dorsale lo fissava con orbite vuote ma piene di fanghiglia, non voleva neanche immaginare ciò che avrebbero potuto tirar fuori da quel cranio, sperava solo che in mezzo ci fossero anche i denti mancanti così da poter ricostruire almeno la dentatura e sperare in un riscontro nel database. Se c'era una cosa che rendeva terribilmente difficile risolvere un delitto era non conoscere l'identità della vittima.
Qualora la si ritrovasse in un luogo sperduto, o alla fine della rete fognaria di Brooklin come in quel caso, non c'era nulla che poteva indicare un possibile sospettato. Si doveva sperare nel trovare del DNA sul copro, che almeno le impronte fossero in buon condizioni per confrontarle con possibili campioni, che avesse indosso oggetti o abiti particolari. Quello era decisamente un caso in cui se non avesse avuto un qualche indizio sull'identità di quello scheletro sarebbe stato costretto ad archiviarlo come irrisolto o addirittura “omicidio a carico d'ignoti”, a suo dire una delle diciture più brutte possibili perché significava che il detective di turno sapesse perfettamente come fossero andate le cose, come e perché era morta la vittima, ma non avesse nessuno a cui imputarlo.
<< Sergente Lightwood! Anzi, no, Tenente ora, giusto?>> il medico alzò la testa e gli sorrise, gli occhi chiari socchiusi contro le prime luci della giornata. << Le stringerei la mano per congratularmi con lei, ma temo che non gradirebbe.>> alzò entrambe verso l'alto e Alec osservo con espressione seria i rigagnoli scuri colare sul lattice dei guanti.
<< Come se lo avesse fatto dottore, la ringrazio.>> si avvicinò di un altro passo e si piegò sulle ginocchia per aver una migliore visuale del cadavere. << Cosa può dirmi del corpo?>>
Un verso sprezzante lasciò le labbra fini dell'uomo, la barba corta e curata seguì la piega insoddisfatta delle guance. << Poco e niente al momento. Le ossa riportano molti danni e non potrò mai dire con precisione se siano stati quelli ad uccidere la vittima o se invece c'è stato dell'altro. Non abbiamo più tessuti, la dentatura dev'essere ricostruita e posso solo dirle il sesso e l'età approssimativa.>> indicò con un gesto vago il bacino rotto e un paio di vertebre e sebbene Alec non fosse in grado di decretare l'età di una persona dalle sue ossa capì subito cosa gli stesse mostrando il coroner.
<< Ha delle lesioni alla spina dorsale, sono postume alle morte secondo lei?>>
<< Al contrario, sono precedenti. Questa è la colonna vertebrale di un uomo che passava molto tempo seduto e chino su un tavolo, ma da quel poco che posso vedere dai denti e da come sono consumati direi che più che lavorare stava piegato ad inalare qualche droga.>>
<< Un drogato… potrebbe essere un ottimo punto da cui cominciare. Controllerò le denunce di scomparsa, anche i centri specializzati.>> rifletté ad alta voce.
Carson annuì senza troppa enfasi, << Dovrà eliminare tutti coloro che risultavano vivi fino a sette mesi fa, questo corpo non è stato ridotto così in poco tempo, e può anche eliminare il Queens, la tubatura non arriva fino a lì, è solo l'arteria principale di Brooklin.>>
Alexander lo ringraziò sommessamente, domandandogli se potesse dirgli altro di utile.
Quello ci pensò un attimo, << Credo fosse moro, da quel poco che è rimasto sullo scalpo almeno direi questo, non è gran ché ma aiuta a restringere il cerchio.>>
Il detective fece forza sulle ginocchia e si rialzò con un movimento fluido.
<< La ringrazio ancora, è molo più di quanto non potessi sperare.>> si congedò con un saluto secco e girò sui tacchi prima di essere richiamato proprio dal medico.
<< Sì?>> chiese sorpreso.
<< Non per farmi gli affari suoi, Lightwood, ma non le avevano assegnato una squadra? Ero davvero curioso di vedere come fossero i suoi uomini, Krocker ne ha parlato bene.>> gli rispose con un tono più leggero rispetto a prima.
Alec rimase per un attimo spiazzato, si era completamente dimenticato dei ragazzi da quando era arrivato sul luogo sino a quel momento.

Dannazione, di nuovo.

Non gli era parso nulla di strano, si era comportato come faceva sempre, raccogliendo notizie e studiando l'ambiente ed il cadavere.

E mi sono dimenticato dei miei colleghi. Magnifico.

<< Devono essersi persi nel traffico, purtroppo non è produttivo farli andare in giro assieme, ma li vedrà in sala autopsie.>> e con questo gli fece un altro cenno del capo e si defilò con finta tranquillità.
Dove diamine erano quei due? Perché dovevano sempre combinare qualcosa?
Ci scommetteva che alla vista del messaggio Simon doveva aver detto a Magnus dove si trovasse il luogo, se già non lo aveva intuito da sé, e che quello avesse iniziato a svuotare l'armadio alla ricerca di calosce di gomma e qualcosa che avrebbe potuto sacrificare in caso si fosse sporcato con il liquame.
Un liquame che per altro emanava un odore terribile e solo quando fu sicuro che nessuno lo guardasse Alec si concesse una smorfia schifata prima di tuffare il naso nella sua sciarpa.
Avrebbe dovuto chiamarli per sapere dove stavano, se erano ancora a casa – cosa inconcepibile che sarebbe valsa loro più di una semplice lavata di capo- poteva almeno evitargli di arrivare fino a lì.
Alle volte aveva come l'impressione che ai due piacesse fare i detective ma non i poliziotti, che andare sulle scene dei crimini, in obitorio o a sporcarsi le mani non gli interessava e che volevano solo cerca indizi, ascoltare testimoni, interrogare sospettati e sbattere in prigione i criminali. Non calcolavano tutto il lavoro di contorno che serviva per arrivare alla fase finale e forse in parte la colpa era anche sua che ancora non riusciva a delegare tutto agli altri.
Drizzò la schiena e si diede dello sciocco: no che non era colpa sua, lui cercava in tutti i modi di essere più comprensivo e attento che poteva, ci stava lavorando certo, non era perfetto, ma ci provava ogni giorno. Se Simon e Magnus non erano pronti ad accettare anche il lavoro pesante allora li avrebbe rimessi in riga. Era Alexander Lightwood, era nato per sopportare i suoi fratelli e guidarli in modo e maniera che non distruggessero loro stessi o il mondo, fin ora si era comportato anche in modo troppo gentile, ma da quel caso avrebbe stretto la cinghia.
Era in grado di gestire Jace e Izzy da adolescenti, di arginare quella calamità naturale che era sua nonna Phoebe, avrebbe potuto far perfettamente lo stesso con i suoi sottoposti. Sì, perché quei due saranno anche stati suoi amici, suoi carissimi amici, ma quando Alec indossava il distintivo, quando riceveva una telefonata e gli veniva assegnato un caso, diventava il Tenente Lightwood e così si sarebbe fatto rispettare.

La sottile linea che divideva Alec dal Tenente gli brillò improvvisamente davanti chiara e luminosa.
Forse, finalmente, Alexander stava cominciando a sentirsi nel suo ruolo.

 

 

 

 

 

 

 

Il telefono squillò basso, il suono scelto era il meno molesto che avesse trovato e questo diceva tanto.
Raphael si alzò dal divanetto su cui si era sdraiato quasi un'ora prima, quando si era tolto la giacca e allentato la cravatta dopo un incontro più che impegnativo con un cliente.
Che diamine credeva la gente? Che facesse magie? Che fosse in grado di farli scomparire dall'oggi al domani? Certo, aveva degli assi nella manica, salvacondotti per quei fedeli che chiedevano sempre i suoi servigi e che potevano pagare tanto quanto il pil annuo di una piccola nazione tutte le sue “offerte”, ma questo non voleva dire che era pronto per usarle per tutti.
Arrivò davanti alla scrivania e non si preoccupò neanche di girarvi attorno per prendere il ricevitore, si sporse oltre il piano e alzò la cornetta.
<< Pronto?>> chiese con voce atona.
<< Señor Santiago?>>
La voce che gli rispose invece era morbida e dolce, seducente e profonda. Pareva un sussurro, la confessione di un peccato detto a tono basso dietro le grate di un confessionale.
Un brivido gli scivolò lungo la schiena e Raphael si ritrovò a doversi sedere su una delle poltroncine davanti alla sua scrivania, la stessa dove solo il giorno prima era seduto Alexei composto e tranquillo e che ora ospitava la sua figura pallida, sudata e ingobbita.
No, non poteva essere, non poteva aver chiamato proprio lui.
<< Sono io.>> si costrinse a replicare con fermezza. Si sistemò meglio sulla seduta morbida, allentando la cravatta e poggiando i gomiti sulle ginocchia divaricate. La testa bassa, la guancia premuta contro il fono ed i capelli che ricadevano in ondeggianti ricci verso il pavimento.
Dio, gli veniva da vomitare.
<< È un piacere risentire la sua bella voce dopo tutto questo tempo.>> continuò l'interlocutore dall'altra parte, Raphael avrebbe giurato di sentirgli tutto il suo sorriso sadico in quelle parole.
“ Tutto questo tempo”, ironia cinica e stronza, era una vita che non la sentiva più quella fottuta voce e avrebbe volentieri continuato a farne a meno.

Merda.

<< Pare sia utile per condurre buoni affari.>>
No, non avrebbe permesso ad un demone del passato di farlo cadere in fallo, di togliergli la terra da sotto i piedi e farlo precipitare di nuovo in quel baratro. C'era uscito, c'era uscito con le sue sole forze, non ci sarebbe mai tornato.
<< Anche il suo acume mi era mancato. Posso quindi sperare di concludere un buon affare con lei, mio caro?>>
Raphael premette la mano contro il microfono e prese un respiro profondo e pesante, poi tolse la mano e alzò la testa, il suo solito sguardo di pietra fisso sulle tende scure, pesanti e tirate come ogni giorno da quando erano state messe.

Un messicano che odia il sole, ha senso?

Se dovevano giocare una partita interna a quella principale non avrebbe lasciato che fossero altri a dettare le regole, avrebbe diretto lui quella manche e avrebbe fatto in modo e maniera di dirigere anche tutte le altre.
<< Dipende da che affare vuole concludere. Come può aiutarla l'Hotel Dumort?>>

 

 

Poggiò la cornetta al suo posto e si lasciò cadere all'indietro sulla poltroncina sgualcita.
La sua nausea era ancora incredibilmente forte e la voglia di correre in bagno per vomitare tutto quello che aveva ingerito nell'arco della giornata gli pareva più che sensata.
Si massaggiò le tempie, facendo poi scorrere le mani tra i ricci sino ad arrivare sulla nuca e passarsi le mani aperte sui nervi tesi del collo.
Gli ci mancava solo questo, non aveva già abbastanza problemi a quanto pareva.
Ma Alexei aveva detto una cosa giusto l'altro giorno: se Raphael non se lo fosse meritato il posto in cui si trovava, l'impero che aveva, la chiamata non sarebbe mai arrivata a lui ma ad altri. Avrebbe saputo gestirlo anche se lo scombussolava anche solo sentire la sua voce, anche solo ricordarsi come era giunto a sentirla, cosa ce lo aveva portato.
Chiuse gli occhi per un momento, il vago eco di una giornata di infiniti anni prima gli sfiorò la mente con la leggerezza di una farfalle e la letalità di uno scorpione.
Non lo credeva possibile ma riusciva ancora a ricordare gli odori, quello della frutta e del legno bagnato da quella stessa acqua che ristagnava a terra tra le cassette e le bancarelle del mercato. Ricordava il sole che spuntava e poi si nascondeva tra le nuvole, il soffio del vento che si incanalava tra i palazzi bassi per poi sgusciare via e lasciare l'afa umida di una giornata di metà Maggio.
La superficie su cui poggiava era metallica e liscia, fredda al tatto, ma che gli dava un po' di sollievo dallo sforzo di sollevare i cestini ricolmi di mele.
Un mano fantasma gli si poggiò in testa e suo padre gli sorrise dai frammenti dei suoi ricordi, il sorriso ampio e allegro, solare come solo Elija Santiago poteva esserlo.

<< Non ti affaticare troppo, niño.>

Ma lui non era affaticato, o meglio, non voleva farglielo vedere. Suo padre non lo portava quasi mai a scaricare la merce con lui la mattina, chiedeva a Cristiano o a Miguel, a suo cugino Ronaldo o allo zio Erique. Raphael era troppo piccolo ancora, o almeno lo era per mettere a posto la frutta, ma non per aiutarlo nella vendita, dopotutto aveva sei anni, aveva imparato a fare le addizioni e le sottrazioni, era bravo con i numeri, con gli affari.
Sarebbe stata la giornata perfetta, la prima di tante altre.
Poi uno stridio di gomme, dei rumori forti e grida.
Non riusciva a vedere gran che da dove si trovava e così si era arrampicato sul piano della bancarella, in tempo per vedere delle macchine imboccare l'entrata della via, prima che suo padre lo afferrasse per la vita e lo riportasse a terra.

<< ¡Está abajo! ¡No te muevas Raphael! ¡Queda abajo!>>
<< ¡Papà!>>

Le macchine avevano travolto alcuni banchi, la gente si era buttata a terra ma Raphael non era riuscito a vedere niente, nascosto dietro alla loro postazione, schiacciato a terra dal corpo del padre che gli faceva da scudo.
Il suono assordante dei colpi di una pistola automatica erano stati superati da quelli di una mitraglietta, le grida delle persone ingoiate dal rombo dei motori modificati.
Quando aveva sentito un enorme botto Raphael aveva osato alzare la testa e guardare verso l'alto, sgusciando fuori dall'abbraccio del padre che non lo trattenne.
Il mercato era distrutto, c'era gente ferita, qualcuno piangeva e c'erano tanti cilindri dorati immersi in pozze d'acqua che lentamente si stavano tingendo di rosso.
Raphael voltò la testa nella stessa direzione in cui le auto si erano fermate, una schiantata contro un muro con i copertoni scoppiati.
Un ragazzo vestito di nero, con la pelle pallida come la morte, era sceso dal veicolo sano tenendo una mano sulla cinghia dei pantaloni bassi e l'altra sull'automatica ancora fumante.

<< Ci vediamo all'inferno, figli di puttana.>>

Poi aveva puntato l'arma contro i finestrini rotti dell'altra macchina ed aveva riaperto il fuoco.
Raphael poteva ancora sentire l'impatto dello zigomo sull'asfalto quando si era rituffato a terra terrorizzato, premendo le mani sulle orecchie e chiudendo gli occhi più forte che poteva.
Si era rialzato solo quando aveva sentito l'auto scomparire sulle ultime note delle grida del suo conducente, le prime volanti della polizia farsi avanti lontane e quasi false come il canto delle sirene.
Si era voltato per cercare suo padre e l'orrore l'aveva divorato.
Elija era nella stessa posizione in cui lo aveva trascinato all'arrivo di quei pazzi, ma i suoi occhi scuri e caldi, tanto gentili e allegri, erano ora vitrei e vuoti, una macchia scura e densa si spandeva lentamente da sotto il suo torace e Raphael non ci mise molto a correre da lui e scuoterlo, chiamarlo a gran voce.

Non era servito a niente. Ovviamente no, suo padre era morto sul colpo, ucciso da un proiettile vagante durante un inseguimento tra bande che avevano sconfinato sino al quartiere messicano.
Si mise a sedere dritto solo per potersi portare una mano dietro alla schiena e sfiorare il punto in cui, lo sapeva, c'era la cicatrice che gli aveva lasciato quello stesso proiettile che aveva ucciso suo padre e preso di striscio lui. In quel momento non se ne era neanche accorto e furono i paramedici a prenderlo in braccio con delicatezza e portarlo sull'ambulanza.
Da qualche parte aveva ancora quella maglia a maniche corte, un tempo verde, su cui spiccava un taglio lungo e sfibrato in una macchia marrone e secca.
Non gli rimaneva nient'altro di suo padre, quel ricordo, l'immagine di lui nel sangue tra pezzi di frutta colorata, macabra somiglianza dei fiori con cui venivano adornati i defunti e i vivi nella vecchia tradizione messicana. Quello ed il rumore degli spari, i bossoli lucidi nel sangue della povera gente innocente, le grida e lo stridio delle ruote.
Sopra tutto quello, lontano, proprio come le sirene delle macchine, con il canto di quelle creature mitologiche, la voce di uno di quei giovani che urlava euforico in un eco infinito segnando il suo destino e futuro.

 

<< I debiti con Dracula si lavano solo nel sangue.>>

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Capitolo 7
*** Capitolo VII- Topi di fogna. ***


Capitolo VII
Topi di fogna.

 

 

 

 

 

La porta della sala conferenze si chiuse con un suono ovattato, ogni voce venne tagliata fuori da quelle quattro mura che di solito erano molto accoglienti ma che in quel momento davano la stessa soggezione di una stanza per interrogatori.
Simon si sedette su una delle poltrone girevoli, le mani congiunte e la testa bassa mentre si dondolava nervosamente a destra e sinistra. Magnus, al lato opposto del tavolo, si fissava le unghie con troppo interesse per sembrar vero.
Alexander dal canto suo se ne rimase fermo davanti all'uscio, le braccia incrociate sul petto tirarono giacca e camicia e Magnus, pur scorgendolo solo con la coda dell'occhio, non riuscì a non notare come sembrasse minaccioso e muscoloso anche solo facendo un gesto tanto banale.
Quando era arrivato in centrale, dopo aver letto i messaggi, non aver risposto ed essersi rifiutato di andare dritto dritto in mezzo ad una fogna, aveva trovato Simon seduto alla propria scrivania, con le spalle al sole pallido di Marzo e gli occhi incollati allo schermo luminoso del computer.
Non si erano rivolti la parola, non si erano salutati o qualunque altra cosa. Magnus non gli aveva neanche chiesto se sapesse dove fosse Alec al momento, si erano solo ignorati.
Questo finché non era arrivato proprio il detective, assieme al suo cipiglio scuro e ad un vago e terribile olezzo di acque sporche.
Si era bloccato ad una decina di passi dalle loro postazioni, li aveva guardati con un'espressione ancora più accigliata e poi aveva solo detto loro di alzarsi e seguirlo.
Alexander prese un respiro pesante e fece scorrere lo sguardo dall'uno all'altro.
Avevano litigato. Poco ma sicuro, così come era sicuro che quello fosse il motivo del ritardo. Quei cretini avevano litigato per Dio solo sapeva cosa sino a dimenticarsi di presentarsi a lavoro ed erano stati abbastanza arrabbiati da non rispondere neanche ai suoi messaggi o alle telefonate.
Non era una novità che discutessero anche dell'aria che respiravano, di solito però continuavano a battibeccare finché lui non li divideva o trovavano qualche altro argomento più interessante su cui si concentravano e, solitamente, si coalizzavano contro di lui.
Quella volta no, dovevano aver litigato di brutto e per una cosa seria.
Improvvisamente Alec si rivide davanti agli occhi Jace e Izzy che si ignoravano e sua madre che sospirava scocciata, arresasi all'idea di dover far da pacere prima che scoppiasse una guerra di dimensioni epocali.
<< Cosa è successo questa volta?>>

Dio, Alec, davvero? Anche le sue stesse parole usi?

Almeno avevano sempre funzionato con quelle teste dure dei suoi fratelli e per quanto tenesse in conto la caparbietà dei suoi colleghi non potevano competere con il sangue Trueblood, i cui discendenti piuttosto sarebbero morti e avrebbero spergiurato sulla bandiera Americana pur di reggere il punto, e con quello Lightwood che avrebbe mandato in fiamme il mondo a suon di cattiveria e gusto di vendetta.
Ci sarebbe voluto un po' ma li avrebbe fatti crollare. Anche a costo di diventare lui il nuovo bersaglio della loro rabbia.
<< Non è successo nulla, Alexander.>> disse con voce disinteressata Magnus.
Il giovane alzò un sopracciglio, scettico. << Non insultare la mia intelligenza, per favore.>>
rispose a tono senza aspettarsi però la reazione dell'altro.
Magnus gli lanciò uno sguardo di fuoco e alzò le mani al cielo. << Oh, mi perdoni detective, non avrei mai voluto insultare la sua superiore mente ad sbirro!>>
L'aveva chiamato “sbirro”? Ora perché lo insultava?
<< Non è quello che ho detto.>> replicò comunque pacato, perché qualcuno lì dentro doveva rimanerlo, specie se Bane aveva deciso di dar di matto come solo lui sapeva fare.
<< Certo che no, che sciocco che sono, non ho capito nulla. Come sempre, vero Lewis?>> ringhio acido.
Ah. Chiamava anche Simon per cognome.
<< Quello che crede di avere una mente superiore e poi fa delle puttanate epiche sei tu Bane, non io.>> frecciò Simon con lo stesso tono acido.
<< Qual è il problema ora?>> si arrischiò a domandare.
<< Cosa c'è? Non lo capisci da te? A quanto mi hanno detto sei così sensibile sotto questo fronte!>>
<< Ma che diamine stai dicendo? Magnus, qual è il problema? Per cosa avete discusso?>> evitò accuratamente di dire “litigato”, perché faceva terribilmente adolescenti e non voleva che lo attaccassero anche per questo.
Magnus lo guardò quasi con odio. Adesso era arrabbiato anche con lui? Beh, magari così non lo sarebbe stato con Simon e avrebbero potuto lavorare in pace.
<< Abbiamo “discusso” perché Lewis non si fa i cazzi suoi.>>
<< Abbiamo discusso perché Bane crede di poter fare e dire quel che cazzo vuole e che le sue azioni non abbiano conseguenze. Perché non pensa prima di agire e pretende che la gente non gli rinfacci le sue puttanate e quando questo succede non lo accetta perché è superbo e ha la coda di paglia!>> Simon si tirò in piedi battendo le mani sul tavolo. << Quando un amico gli fa notare una cosa lui lo insulta sempre e pretende ugualmente di aver ragione anche se sa che non è vero. Poi va bene tutto, ovviamente! Sei tu il grande guru di queste cose no? Sei tu che riesci a tenere in piedi ogni messa in scena! Che cazzo ce ne frega di far male alla gente o di distruggere qualcosa creato con tanta fatica e tempo!>>
<< Non ti riguarda. Non c'è niente da difendere o da tenere in piedi, è solo una tua stupidissima ossessione! Cazzo, ma lasciami vivere la mia vita come voglio! Chi ti credi di essere?>> anche Magnus si alzò a fronteggiarlo sempre più arrabbiato.
<< Credevo di essere tuo amico! E non ti azzardare a dire che non c'è niente da proteggere qui! Ma va pure! Vai a vivere la tua vita come ti pare! Vaffanculo Magnus tu non accetti di aver sbagliato! Non lo fai mai! Non lo hai fatto quando hai scoperto che Alec voleva seriamente trovare l'assassino di Ragnor! Non lo hai fatto quando gli hai detto di avere i suoi appunti e di non aver detto nulla! Non lo hai fatto quando sei andato da Raphael e ti sei fatto sparare! Non lo hai ammesso neanche quando sei uscito dal cazzo di ospedale e non lo fai ora! Non ti prendi le tue fottute responsabilità!>>
Simon era paonazzo in volto e Magnus similmente sembrava sul punto di esplodere.
Alexander fissò sbalordito i suoi colleghi, i suoi amici, senza capire fino in fondo cosa fosse successo, malgrado le parole di Simon gli facessero presagire il peggio.

Che hai combinato, Mags? Simon ti adora, cosa gli hai fatto?

<< Ora basta.>> provò con serietà.
Quel loro litigio doveva aver una base profonda, importante, qualcosa che avesse ferito Simon a tal punto da farlo reagire violentemente, qualcosa che effettivamente doveva esser andato come diceva il ragazzo perché se c'era una cosa che sapeva per certo su Magnus era che attaccava con così tanta cattiveria e violenza solo quando si rendeva conto di aver sbagliato, di aver ferito le persone che amava e che questa consapevolezza ferisse anche lui.
Simon esplodeva quando non ce la faceva più a trattenere il dolore, lo sconforto.
Magnus esplodeva quando rimaneva ferito e non voleva che gli altri, con le loro parole magari giuste, lo ferissero ancora di più.
Non voleva che continuassero ad urlare, Alexander aveva sempre odiato le urla.
Aveva urlato sua madre quando le avevano detto che il fratello era morto. Aveva urlato suo padre, credendo di essere solo, chiuso nel bagno della sua camera quando era stato l'anniversario della morte di Michael ed i sensi di colpa lo avevano colpito più forte del solito.
Era sempre la voce di sua madre quella che urlava dietro una porta d'ospedale il giorno in cui era nato Max, quando tra i singhiozzi e le grida l'aveva sentita dire che “mio figlio è più importante, pensate a lui” e Alec aveva capito definitivamente il senso della frase “gravidanza a rischio”.
Piangeva con singhiozzi esplosivi e distruttivi Jace stretto al suo petto, nascondendo il viso mentre gli diceva che quei bambini avevano ragione, che lui non aveva niente a che fare con la loro famiglia, che era diverso. Aveva gridato Izzy quando al colmo della rabbia gli aveva detto di non voler andare più a scuola perché le ragazze la chiamavano puttana e facevano girare voci umilianti su di lei. Aveva urlato Max quando si era rotto il palco della fiera e lui era precipitato e nessuno riusciva a tirarlo fuori di lì, quella lontana notte in cui aveva creduto che l'avrebbero perso.
C'erano grida nella sua testa provenienti da un paese lontano, in lingue che non avrebbe mia compreso.
Come un bambino, contro la sua volontà, Alec strinse gli occhi cercando di buttar fuori quei suoni.
Dovevano smetterla o gli sarebbe venuta un'emicrania terribile, sentiva già i muscoli tendersi.
<< Ragazzi.>> riprovò con tono più altro, venendo palesemente ignorato.
<< Vi ho detto di smetterla.>>
Ma non si fermavano, continuavano a vomitarsi addosso cose per lui senza senso, sempre più arrabbiati, sempre più coinvolti, urlando sempre di più.
Una fitta dolorosa gli attraversò la tempia, qualcuno dai meandri dei suoi ricordi urlava di muoversi, altre grida gli rispondevano di non poterlo fare, altre ancora che serviva aiuto, di essere aiutate.
Flebile contro tutto quel tornado di ricordi si fece spazio la sua di voce, che cantilenante ripeteva la stessa identica frase senza che nessuno riuscisse a capirla.

 

Meno di me.”

 

Meno di me.

Meno di me.

 

Magnus batté violentemente la mano sul piano del tavolo, urlando che non gli importava dell'opinione di Simon, che si stava inventando tutto.
Il ragazzo gli rispondeva con lo stesso tono alto, una nota quasi disperata nella sua voce arrabbiata. “Non farlo anche tu”, sembrava voler dire quella sfumatura che forse Magnus non riusciva a notare, “Non distruggere anche questo, non distruggere anche il nostro rapporto, ne ho già persi troppi” .Ma ancora l'uomo non lo sentiva, chiuso nella sua feroce lotta per non farsi ferire ancora, per non prendere più colpi di quanto le parole dell'amico già non gli avessero inferto.

 

Meno di me.

 

Meno di me.

 

<< Ragazzi… >> provò ancora Alec sempre più stordito. Cos'era ? Perché gli stava facendo male la testa in quel modo?

Meno di me.

 

<< Per favore, potreste smetterla di urlare e spiegarmi?>>
Per un attimo la vista sfarfallò come una lampadina rotta, il linoleum grigio si tinse d'ocra, poi di sabbia e poi tornò del colore originario.

 

Meno di me.

 

 

Qualcosa si incrinò nella sua mente, un vetro esplose e quella tanto temuta emicrania arrivò con la potenza devastante di un'esplosione. Fu un colpo di pistola che gli trafisse la testa, dritto in mezzo agli occhi come i suoi proiettili facevano sempre.
Solo poche ore prima era stato preoccupato per loro, solo pochi minuti prima aveva creduto di aver trovato il giusto equilibrio tra la loro amicizia e la professionalità. Ma era stata un'illusione, non c'era veramente l'equilibrio, era solo un acrobata che ondeggiava di qua e di là della linea.

 

Meno di me.

 

Meno di me.

 

Meno di me.

 

 

 

<< Meno di me… >>
<< Come ragazzo?>>
<< Meno di me… non so quanto, ma di certo, meno di me… >

 

 

<< Silenzio!>>

La voce profonda e potente del Tenente si frappose tra le urla dei suoi colleghi.
Al di là della porta nel corridoio regnava lo stesso silenzio che Alexander aveva appena intimato.
Simon lo guardò quasi spaventato, quand'era stata l'ultima volta che lo aveva sentito urlare? Urlare davvero, arrabbiato e non per giocare, per farsi sentire sopra il frastuono di un locale.
Si ritrasse inconsciamente e si rimise seduto, la testa bassa come se si fosse reso conto solo in quel momento di ciò che aveva fatto.
Lui lo sapeva quanto Alec non sopportasse le urla, lo sapeva perfettamente eppure lo aveva fatto lo stesso. Si sentì improvvisamente in colpa e non ebbe il coraggio di gettare neanche un'occhiata a Magnus che invece fissava l'altro con gli occhi sgranati.
Alexander era pallido in faccia, quel pallore che di solito preannuncia uno svenimento ma che in lui invece simboleggiava una rabbia accecante come la luce.
<< Non ho idea del perché stiate litigando e attualmente non mi interessa. Siete in un luogo di lavoro, che simboleggia la giustizia e la protezione dei cittadini, non vi è permesso di litigare come due bambini. Qualunque sia il vostro problema lo chiuderete fuori di qui per tutto il tempo in cui lavorerete. Finito l'orario di servizio potrete ricominciare ad urlarvi contro, lontano da me. Se invece volete risolvere la questione e pensate che il mio aiuto possa giovarvi allora parlerete come persone civili.>> Il suo sguardo duro si posò prima su di uno e poi sull'altro.
<< Vi sareste dovuti presentare alle otto. Di solito i poliziotti entrano in servizio alle sei, quando chi fa il turno di notte stacca. Fin ora sono stato gentile con voi e vi ho permesso un normale orario di ufficio, da domani vi presenterete qui al cambio turno. Ora tornate alle vostre postazioni, vi aggiornerò sul caso.>> finì secco.
Magnus incrociò le braccia innervosito. Non solo prima Simon gli rompeva le palle con quella stupida storia, ora ci si metteva anche Alec. Cosa voleva che facesse? Che collaborasse tranquillamente con il ragazzo? Già non riusciva a parlargli senza urlargli contro, figurarsi se poteva lavorarci. Per di più quella piccola precisazione sull'orario: fin ora era stato gentile con loro? Andare a lavorare all'orario di tutti gli altri?
Lui non era uno sbirro, non si sarebbe mai alzato presto per andare a vedere degli stronzi che si erano fatti ammazzare o che avevano deciso di suicidarsi.
<< Alle sei? Davvero Alexander? Pensi che mi alzerò così presto per venire qui a sgobbare?>> disse ironico.
<< Questo è il tuo lavoro ora, quindi sì, verrai qui alle sei o ti prenderai un richiamo disciplinare come tutti gli altri poliziotti.>>
<< Io non sono un poliziotto, non lo sarei neanche per tutto l'oro del mondo. Sono qui solo perché a voi serve il mio aiuto per decifrare il quaderno di mio padre che per altro neanche avete perché i federali ve lo hanno soffiato da sotto il naso. Davvero efficienti come poliziotti, voi del dipartimento di New York, magnifici!>> continuò rialzando la voce.
<< Magnus… >> provò debolmente Simon, tenendo sott'occhio sia l'asiatico che pareva sempre più arrabbiato che il tenente che pareva sempre più congelato.
Fuoco e ghiaccio, una terribile accoppiata.
<< Sei solo arrabbiato con me, lascia stare Alec.>>
<< Oh! Perché, non è anche lui parte integrante del problema? Uh? >> gli ringhiò contro. Poi si voltò verso Alexander. << Oggi la giornata era cominciata benissimo e se solo Lewis non avesse avuto il suo solito tempismo di merda a quest'ora non starei qui a discuterne. Ma no, lui deve sempre stare in mezzo ai coglioni alla gente, chiacchierando a vanvera, facendo domande inopportune. Sono maggiorenne da un pezzo, posso fare quel che cazzo voglio della mia vita senza dar conto a nessuno. E se voglio portarmi a letto una persona diversa a notte lo faccio senza doverti avvertire o chiederti il consenso.>> proseguì sempre più battagliero. << Non ho una fede al dito, non sono fidanzato, se mi si presenta una bella donna disponibile a farsi una sana scopata io me la faccio e tu non devi azzardarti a dire che non posso! E tu- >> si girò verso Alec ed improvvisamente di bloccò.
Il moro lo fissava accigliato, la schiena dritta e le spalle rigide. La sua bocca era una piega dritta e inespressiva come la sua faccia, ma se Magnus avesse creduto a quelle cose sentimentali da teenager avrebbe detto di aver scorto un lampo ferito nei suoi occhi, solo un attimo.
La voce di Simon gli tornò in mente, ricordandogli che non lo avrebbe fermato quando avrebbe detto tutto ad Alec e che gli augurava di guardarlo dritto in faccia in quel momento.

 

Per vedere come fosse bravo a ferire la gente.

 

<< Tu… >> ripeté cercando di riprendere la verve di prima, ormai felicemente scomparsa. << Tu non puoi darmi orari. Io non sono un piedi piatti, sono un consulente, non rispondo alle vostre stesse regole. Non mi sveglio la mattina alle cinque per stare qui alle sei, non trotto per tutta la città seguendo possibili piste e non metto i piedi in mezzo a fogne e sangue. Non vado alle autopsie e non tengo la bocca chiusa davanti a degli stronzi. Chiaro?>> finì minaccioso.
Eppure quel tono che tanti aveva spaventato si abbatté su di un muro invalicabile.
Alexander lo fissava dritto negli occhi, senza batter ciglio, come una statua di pietra.
Con un collegamento del tutto fuori posto Magnus ricordò una di quelle giornate di Luglio passate chiuse nel suo loft con Simon, quando il ragazzo lo aveva costretto a vedere Doctor Who e gli aveva fatto notare come quegli angeli di pietra somigliassero ad Alec quando era arrabbiato.
In quel momento Magnus credette fermamente che se solo avesse battuto le palpebre Alexander lo avrebbe potuto uccidere all'istante.
Era la stessa espressione fredda di quando aveva scoperto gli appunti di Ragnor ma al contempo aveva in sé un po' di quella furia che l'aveva animato quando lo aveva sbattuto contro la portiera della macchina e gli aveva intimato di non fare cazzate, di non salire.
All'ora si era bloccato alla vista di una chiazza livida sulla sua spalla, ora pareva non esserci nulla che avrebbe potuto frenarlo.
<< Questo è il tuo pensiero?>> chiese con voce monocorde. Gli ricordò terribilmente la loro prima telefonata.
<< Esatto, questo è esatt- >>
<< Vai allora.>>
Simon sgranò gli occhi, sperava vivamente di aver sentito male ma a giudicare dallo sguardo scioccato di Magnus Alec doveva averlo detto davvero.
<< Cosa?>> chiese con voce più acuta l'uomo.
Alexander non batté ciglio, continuando a fissarlo in un modo che cominciava ad aver dell'inquietante.
<< Se questo è il tuo pensiero, puoi anche tornare a casa. Sei un consulente, il tuo ruolo è quello di aiutare le forze dell'ordine qual ora esse richiedano il tuo consiglio. Non sei un poliziotto, è giusto, non devi stare alle regole che gli agenti seguono. Non sei costretto a stare qui. Puoi andare.>> ripeté quelle parole con lentezza, con la calma serafica che lo aveva sempre contraddistinto e che aveva fatto saltare i nervi a tantissimi criminali sino a spingerli a tradirsi o confessare.
Non sembrava impressionato dalle sue urla, dalle sue parole, da quegli “sbirro” o “piedi piatti”. Alexander era pacato e tranquillo, aveva ascoltato le sue argomentazioni e gli aveva dato la risposta più logica e pratica.
Senza sapere esattamente cosa dire, indeciso se si sentisse sollevato da quelle parole che lo autorizzavano ad andarsene da lì, o ferito dal fatto che Alexander non avesse neanche provato a dirgli che non era vero, che era uno di loro, della squadra, Magnus si alzò senza proferir suono, sfilò verso la porta e ne uscì lasciandola socchiusa. Dentro di sé, come un eco lontano, si domandò chi di tutti loro avesse riportato le ferite più gravi, Alexander dicerto le aveva ben nascoste, ma temeva che le sue parole lo avessero colpito più in profondità del dovuto. Si sarebbe morso la lingua, aveva messo in dubbio il suo lavoro, al sua efficienza. Ma orami era tardi, barricato dietro il suo orgoglio Magnus non sarebbe mai uscito allo scopero, non contro di loro.
Il silenzio era rotto solo dal vago rumore del traffico della città e della vita che popolava quell'edificio. Simon fissò immobile Alec ma il giovane rimase una statua di pietra, senza dar segno di voler dire o fare qualcosa.
Lentamente l'agente si alzò dalla sua sedia e si avvicinò alla porta, richiudendola con attenzione, cercando di far meno rumore possibile.
Si avvicinò ad Alec e abbassò di nuovo la testa, una mano salì automaticamente a sistemarsi gli occhiali, poi a sfregarsi i capelli.
<< Scusa.>> iniziò piano << Hai ragione, non è stato minimamente professionale ciò che ho fatto.>>
Non ricevette risposta e alzò lo sguardo sull'amico, ancora congelato nella stessa posa. Solo gli occhi blu e taglienti si erano spostati su di lui.
Deglutendo Simon si apprestò a continuare. << Non so se vuoi sapere il perché… forse lo hai capito e io non dovevo… >>
<< Simon.>> lo chiamò allora. Alec sospirò e si sciolse un poco, facendo cenno al ragazzo di risedersi.
<< Non me ne sono reso conto, so che potevo affrontare il discorso diversamente ma appena ha cominciato a vantarsene io… mi sono sentito tradito in un qualche modo, come se mi fossi fidato di lui per tutto quel tempo e poi avesse disatteso le mie aspettative. E lo so che non ho nessuno diritto di farlo ma… ecco io… >> si piegò in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e passandosi nervosamente le mani tra i capelli. << Tu mi hai sempre difeso, a modo tuo spesso, anche se un modo molto efficace e io vorrei solo sdebitarmi con te. Dopo tutto quello… sì, sai, dopo quello, che è successo qualche anno fa, vedervi insieme mi- non lo, ha ragione quando mi dice che non so spiegarmi.>>
Una mano gli si poggiò brevemente sulla spalla e Simon alzò lo sguardo per incontrare quello pacato di Alec.
<< Ti sei spiegato bene. Avresti potuto parlarne con Magnus in modo diverso ma la colpa non è solo tua, è sempre nel mezzo, ricordatelo. Quanto a me e lui, non c'è niente. Non posso accampare pretese di qualche genere, non potevo farlo prima figurarsi ora che sono il suo superiore. Ci sono molte problematiche Simon, che non riguardano nessuno se non me e lui e questo lo dovete capire tutti.>>
Simon lo guardò confuso, cosa intendeva con tutti?
<< Ma voi due… insomma, a Natale….>>
<< Non ho alcuna intenzione di mentire. Sì, c'è stato qualcosa ma ci sono troppi fattori in ballo, non penso sia amore, non penso che abbia avuto l'opportunità di diventare tale e credo che non succederà.>>
<< Cosa?! Ma stai scherzando? Tu e Magnus siete perfetti insieme e poi lui ti ha aiutato con il caso di Rag e poi ci aiuterà con il quaderno- >>
<< Il caso della morte del suo migliore amico e la traduzione del quaderno di suo padre che porterà alla fine alla cattura e alla detenzione di quell'uomo. È lavoro Simon, non potrò permettermi di farmi scrupoli e lasciar scappare un criminale della taglia di Asmodeus solo perché è suo padre o perché lui me lo chiederà. Non gli permetterò di credere che potrò accontentarlo e neanche che non verrà processato in uno Stato in cui è ancora in vigore la pena di morte.>>
L'ultima frase fece sobbalzare l'altro che lo guardò scioccato. Aveva capito bene?
<< In un qualche modo siamo come le acque del Golfo Messicano e quelle del Atlantico: ci possiamo incontrare, ci possiamo toccare, ma non ci mescoleremo.>> si mise in piedi e si sistemò le pieghe della giacca. << Per ora il discorso è chiuso. Siamo al dipartimento, non in un confessionale di qualche chiesa. Dagli un po' di tempo per smaltire la rabbia e poi vacci a far pace, ma fa in modo e maniera che anche lui ti chieda scusa e che capisca che in un'altra ipotetica volta sarà compito suo venirsi a scusare per primo. Per questo caso lavoreremo da soli.>>
Mise il punto a quella chiacchierata ed uscì anche lui dalla sala conferenze, lasciando il ragazzo solo a domandarsi quando e sé le cose si sarebbero mai sistemate.
Nella sua mente si agitavano suoni e dolori che credeva di non poter più ricordare, Alec sperò solo che un'aspirina gli potesse togliere quei fastidiosi fantasmi da davanti agli occhi. Non era tempo di pensare al passato, ora doveva solo indagare il presente.

 

 

 

 

 

 

Quattro rintocchi alle undici, il telefono aveva squillato sino a quel momento ininterrottamente ma sapendo perfettamente chi era a chiamarlo Raphael si era rifiutato di rispondere.
Era consapevole che così facendo se lo sarebbe ritrovato nel suo ufficio entro poco eppure di sentirlo sbraitare anche dall'interfono non ne aveva voglia.
Non si sorprese quindi quando dalla reception gli dissero che il Signor Bane stava salendo da lui e che non sembrava del migliore degli umori. Quando mai quel deficiente si era presentato solo per scambiare due parole e non per chiedergli qualcosa o sottoporgli un problema?
Mai, Raphael non si ricordava un evento del genere.
Sentì i suoi passi marciare nel corridoio, doveva essere davvero incazzato se neanche il tappeto riusciva ad attutire il rumore dei suoi dannatissimi tachi rinforzati, sperava solo che non glielo rovinasse.
Non si sorprese neanche quando la porta venne brutalmente aperta senza bussare e quando si ritrovò stagliato lì davanti un Magnus Bane con un diavolo per capello e l'espressione delle grandi occasioni.
Raphael alzò gli occhi al cielo, quella faccia significava “ho fatto qualcosa che poteva esser innocuo ma visto che sono un coglione l'ho resa una cazzata, ho litigato con qualcuno per questo e ora sono in egual misura arrabbiato e in preda ai sensi di colpa ma non ammetterò di aver sbagliato”.
Il fatto che riuscisse a dedurre così tante cose solo guardandolo davano credito all'idea di sua madre secondo cui sarebbe stato un ottimo prete se solo avesse voluto. Peccato che Raphael usasse questo suo “comprendere le persone” non per liberarli da tutti i mali e amen ma per trarne profitto economico. Ad ognuno la sua comunque.
<< Che sei riuscito a fare questa volta?>> gli chiese atono, annoiato già da quella scena.
Magnus avanzò lanciandosi la porta alle palle e sedendosi di peso sul divanetto.
<< Sono andato a letto con una ieri.>> disse solo.
L'altro sospirò. << Per essere uno che si fa cani e porci ormai dovresti saperlo che non si può capire di essere incinta dopo una sola notte.>> lo prese in giro ironico.
Magnus si voltò tra i cuscini per guardarlo storto. << È uscita di casa nel momento in cui saliva Lewis.>>
<< Hai traumatizzato Lewis? Dio Magnus, quel poveraccio non reggerà così tanti colpi.>>
<< Mi ha letteralmente sgridato perché ho fatto sesso con una sconosciuta.>>
<< Il che ha una sua logica, sai?>>
<< Ha detto che ho fatto una puttanata.>>
<< Vero.>>
<< E che- Cosa?>> l'asiatico si tirò seduto e guardò l'amico con gli occhi sgranati. << Credi che io abbia fatto una puttanata? Perché?>>
Raphael alzò un sopracciglio.
Era stupido davvero quindi, e lui che per tutto questo tempo aveva fermamente creduto che l'altro fingesse.
<< Me lo stai davvero chiedendo?>> gli domandò solo.
<< Certo che sì! Cristo! Tu e Simon dovreste diventare amici del cuore, mi fate le stesse cazzo di domande retoriche!>> s'arrabbiò digrignando i denti.
<< No, semplicemente speriamo fino alla fine che la materia grigia che compone il tuo cervello entri in funzione.>> rispose quello con non-calanche stringendosi nelle spalle. << Ma evidentemente se sei così stupido da non capire… >>
<< Ehi, non sono venuto qui per farmi insultare- >>
<< Io credo proprio di sì invece.>>
<< Non sono masochista!>>
<< In un certo senso sì invece. Vieni da me quando ti serve qualcosa, quando hai bisogno del mio aiuto o di un mio consiglio, o quando sai di aver fatto una delle tue belle cazzate e vuoi che gli altri ti insultino per questo mentre tu continui a tenere il punto fingendo di non sapere di aver sbagliato. Che hai combinato vuoi sapere? Sei andato a letto con una sconosciuta, Lewis ti ha cazziato perché tutti i tuoi amici e tutti i suoi amici credevano che a te interessasse Lightwood grande. Ma a quando pare conquistare qualcuno con cui avere un rapporto fisso è troppo faticoso, quindi preferisci continuare a sbavargli dietro e fargli battute stupide ma sfogare i tuoi istinti sessuali su altri.>>
Raphael si alzò con calma dalla sua poltrona e si diresse verso il piccolo carrello degli alcolici. Stappò una bottiglia di vino rosso e ne versò due calici. Ne poggiò uno sul tavolinetto basso davanti al divano e tenne il suo delicatamente in mano, facendolo roteare nella pancia bombata di vetro.
Magnus non disse niente, rimase in silenzio senza neanche toccare il vino, quando di norma ci si sarebbe fiondato sopra. Lo prese dopo quasi cinque minuti di immobilità, imitando l'amico e facendo girare il contenuto affinché prendesse aria.
<< Anche se mi interessa non vuol dire che io interessi a lui.>> disse infine con voce bassa.
Il messicano lo guardò quasi disgustato. << Sono questi i momenti in cui sono lieto di non essere stato a scuola con te. Se sei così a trent'anni non voglio immaginare com'eri a quindici.>>
<< Già ci conoscevamo quando avevi quindici anni.>>
<< Ma non avevamo un rapporto così stretto, non ero io il tuo confidente romantico.>>
<< Ringraziando Dio.>>
<< Le vie del Signore sono infinite e tutte ugualmente giuste.>>
<< Non cominciare.>>
<< Tu non fare la teenager con il cuore spezzato allora.>>
<< Ma è la verità.>> sbuffò Magnus infastidito. << Non credo di attrarlo sotto quel punto di vista.>>
<< Da come vi siete baciati a Natale non credo proprio sia possibile.>> gli fece notare annoiato.
<< A NATALE! NATALE! Raphael è da allora che non succede nulla. Nulla. Evidentemente non gli piaccio in quel senso.>>
<< Senti, se devi sparar cazzate e piagnucolare perché non vai da Catarina e vi mangiate un po' di gelato mentre guardate Dawdon's Creek?>>
<< Sei il solito stronzo.>>
<< No Magnus, sono solo stufo delle tue continue crisi insensate. Anche quando una relazione potrebbe nascere e fiorire in qualcosa di buono tu trovi un modo per far sì che non succeda.>>
Magnus lo guardò male, << Detto da te poi! Non credo che tu possa parlare dopo quello che è successo con- >>
<< Dì. Dì uno di quei due nomi e ti assicuro che ti faccio un buco in testa, ma a differenza di Lightwood io te lo faccio con un trapano elettrico mentre sei ancora vivo.>> l'occhiata gelida di Raphael gli chiuse la bocca. Quel giorno lo stavano tutti fissando allo stesso modo, rabbia fredda ed inscalfibile.
Magnus sospirò e bevve un sorso di vino. Era pungente e acidulo e non sapeva proprio dire se gli piacesse o meno, non era in vena di degustare nulla.
<< Lui non ha fatto un solo passo verso di me.>>
<< Direi che ne ha fatti un'infinità invece.>> lo stroncò subito l'altro. << Ti ha fatto lavorare con lui, ti ha aiutato con il caso, ti ha protetto. Ti ha difeso in aula e lo ha fatto con gli Affari Interni. Cos'altro deve fare? I tipi come Lightwood non ti chiedono di uscire, non ti regalano mazzi di rose e non ti dedicano canzoni. Fanno queste cose se obbligati, per dovere sociale. Se tu fossi stato una ragazza probabilmente si sarebbe costretto ad esporsi ancora di più perché nato e cresciuto nella convinzione che debba essere l'uomo a fare il primo passo. Ma ringraziando Dio nessuno di voi è una ragazzina con le codine che sogna il principe azzurro, siete due uomini grandi, grossi e vaccinati che stanno lavorando assieme. È il tuo superiore Magnus, ti deve tenere fuori da dai guai in cui sei riuscito a cacciarti prima ancora di entrare in servizio. Le forze dell'ordine alle volte neanche permettono matrimoni e relazioni tra membri della stessa squadra.>> Afferrò una delle poltrone davanti alla sua scrivania e ci si sedette con un gesto fluido, tenendo saldamente il bicchiere in modo da non sballottare ancora il vino.
Magnus lo guardò pensieroso. << Quindi dici che gli piaccio?>>
Silenzio.
<< Fuori di qui.>> disse lapidario rialzandosi subito e dandogli le spalle.
<< Che ho detto ora?!>>
<< Ti ho appena detto che non sopporto quando fai la mocciosa innamorata!>>
<< Non ho fatto la mocciosa innamorata!>>
<< No, hai solo fatto la classica domanda da protagonista romantica di uno scadendo romanzo rosa di serie b!>>
<< Non è vero!>>
<< Sì che lo è!>> Raphael poggiò il bicchiere sul piano e si riavvicinò all'altro. << Siete a-du-lti. Discutetene se la cosa ti interessa davvero.>>
<< Non abbiamo mai avuto occasione di uscire in quel senso. Siamo passati direttamente al sodo. Era un momento particolare e- >>
<< Gesù dammi la forza… se ti sento dire ancora una volta che era un “momento particolare” o che c'erano delle “particolari attenuanti” io ti giuro che chiamo tuo padre. Hai capito?>> lo minacciò serio.
Magnus sgranò gli occhi. << Non lo faresti mai.>>
<< Non sfidare Raphael Jorge Santiago. Non farlo idiota, mai.>>
Si fissarono in cagnesco per un po', poi Magnus sospirò.
<< Credo che la cosa che mi ha sconvolto di più sia stata la reazione di Simon.>>
Raphael annuì. << Certo, per come tiene ad Alexander avrà temuto che la cosa potesse ferirlo. Lightwood non mi pare questo gran esempio di persona che se viene tradita si riprende in fretta.>> borbottò poi.
<< Vero…. Ma sono serio Raph, non c'è niente tra di noi, non ora, sono mesi che mi tratta come tutti gli altri.>> disse serio.
<< Ma davvero? Non mi risulta che si comporti allo stesso modo con Lewis, con lui ha un rapporto molto più simile a quello che ha con sua sorella. Senti, non sono un buon consigliere per queste situazioni, ma ti ho già visto interessato a qualcuno e questa volta mi pare che tu lo sia in modo particolare. Se non avete avuto l'opportunità di vedere se potreste funzionare anche in alto modo magari potreste iniziare a crearvele da soli queste opportunità. Alle brutte c'avete provato e ognuno per la sua strada. >>
<< Non la vedo una cosa tanto semplice. Credo che Alec sia uno che si impegni molto nei rapporti.>>
<< Mh, il tuo perfetto contrario.>>
<< Non è vero!>>
<< Sì che lo è. Com'era? Sei uno destinato a dare amore a tutti?>> chiese sogghignando.
Magnus alzò gli occhi al cielo. << Sì e tu sei una cosa belle di cui prendersi cura.>> rispose senza riflettere. Poi si bloccò. Guardò l'amico che non aveva cambiato espressione, le labbra sempre tirare in quel ghignetto fastidioso ma gli occhi un po' più cupi.
<< A quanto pare non necessitavo di abbastanza cure per far vivere qualcuno.>>
L'asiatico deglutì a sentir quel tono mesto. << Senti… tu e Rag…?>>
<< Smettila di fare lo struzzo. Nessuno ha lo stesso carattere. Lui probabilmente crede che non sarebbe corretto e che visto il modo in cui flirti con tutti e come ti scopi ogni cosa che respiri non ti interessi davvero. Parlaci, è la cosa più semplice. E vai a chiedere scusa a Lewis, non mi va di sentirlo triste a borbottare, è una tale seccatura.>> gli parò sopra ignorando le sue domande, Magnus non poté far altro che annuire e lasciarlo fare.
<< Va bene.>>
<< Dovresti parlare con qualcuno che ci capisce di queste cose, magari che capisce anche la gente.>>
<< Tu lo fa. Guadalupe ne è tanto fiera.>> gli sorrise con affetto.
Raphael scosse la testa. << Che ne capisca qualcosa d'amore, Mags.>>
L'uomo si alzò, non aveva praticamente toccato il vino e lo abbandonò sul tavolino senza il minimo interesse. Si avvicinò all'amico e gli posò una carezza delicata sul volto malgrado quello stesse guardando altrove.
<< Io credo che tu ne capisca molto invece. Anche troppo.>>

 

 

 

 

 


 

Jace sorrise vittorioso alla pila di fascicoli sulla sua scrivania, tutti controllati, catalogati, siglati e in attesa della firma del Capo, probabilmente li avrebbe mollati tutti ad Oliver e sarebbe corso a comprare il pranzo per poi filare da Alec.
Lo aveva sentito poco tempo prima, il loro caso richiedeva parecchia pazienza, doveva essere ricostruito il cadavere, specie i denti per confrontare le impronte con possibili lastre e cercare di capire chi fosse la vittima. Se le cose erano difficili come il fratello gli aveva detto, complice della disfatta l'acqua e tutte le schifezze chimiche o meno che venivano ogni giorno riversate nelle fognature, probabilmente quello sarebbe stato il primo caso archiviato della squadra Lightwood.
Sperò vivamente di no per Alec, sapeva che il giovane ci sarebbe sempre ritornato su ogni tot di tempo per vedere se riusciva finalmente a chiuderlo e non voleva che si spaccasse la testa com'era successo già in passato.
Prese le cartelle e se le mise sotto braccio, marciando verso la scrivania del suo caposquadra che a quanto pareva era del tutto impegnato a litigare al telefono con qualcuno.
Si voltò verso Mendoza alzando un sopracciglio e l'uomo gli mimò con le mani un tre a uno. Un cenno della testa per chiedergli chi e l'altro sillabò solo “mamma”. Jace annuì e si voltò verso Hoogans che li fissava scuotendo la testa per poi sospirare sconfitta. “Katie” mimò lei.
Soddisfatto il biondo puntò sulla sorella del capo e poi si avvicinò ancor di più.
<< Ci sarò ti ho detto… no, non posso arrivare per quell'ora. Perché ho dei turni da rispettare, non come te che fai come ti pare. I miei superiori non me lo permettono, devo fare una richiesta scritta. No, se me lo avessi detto prima ci sarei anche riuscito ma a così breve distanza non posso. Che faccio? Me lo sogno la notte? Andiamo non ho la sfera di cristallo. Non rompermi l'anima. Fai come ti pare allora, vallo a dire a mamma. Ma certo, sei una donna adulta e con un figlio, perché non dovresti lamentarti con mamma del fatto che rispetto i miei orari di lavoro e non ti leggo nella mente? No, mi perderò al tua trionfale entrate in scena...>>
Jace poggiò i fogli sulla scrivania e l'uomo gli fece un cenno con la testa per fargli capire che li avrebbe firmati ma il biondo non si allontanò.
<< Problemi con Penny, capo?>> chiese ad alta voce mentre alle sue spalle Valerie scuoteva la testa tirando fuori il portafogli e Mendoza lo mandava al diavolo.
<< Come sempre, Lightwood. Dopotutto esiste un modo per far capire a tua sorella che devi lavorare e non puoi fare come ti pare?>> chiese retorico allontanando la cornetta dall'orecchio e lasciando che la donna dall'altra parte continuasse ad inveirgli contro.
<< Non ci riesco io che ho tutta la famiglia nella mia stessa condizione, compresa lei e vuoi riuscirci tu? Per cos'è?>>sogghigno poggiandosi alla scrivania e ammiccando al telefono.
<< Vuole mostrarci l'ingresso che faranno al matrimonio… come se me ne potesse fregar qualcosa… >> gli rifilò una smorfia e poi sospirò. << Sono tutti? >> domandò indicando i fascicoli.
<< Certo, cosa pensi, che faccio il lavoro a metà. Servono solo le firme dei grandi capi.>> fece ironico. << Ora, se permetti Oliver, me ne andrei in pausa pranzo, mio fratello ha avuto una giornata di merda e ha bisogno di supporto morale.>>
<< Tuo fratello ha sempre giornate di merda Lightwood, è la maledizione di chi sa lavorare bene.>>
<< Ma le mie giornate non sono tutte di merda.>> gli fece notare l'altro.
<< Infatti tu non lavori sempre bene, razza di pavone biondiccio. Fila da Alexander e salutamelo, è da un po' che non lo vedo da queste parti.>>
Jace rise avviandosi verso gli spogliatoi. << Ha una squadra adesso da gestire e non sono tutti bravi come noi, Finness, penso tu lo abbia saputo, no?>>
<< Come tutti al dipartimento. Ora sparisci prima che cambi idea e faccia rispondere te a Penny.>>
Il ragazzo alzò una mano in segno di risposta e sparì lungo il corridoio.

 

Appoggiato con la spalla contro il battente della porta dell'appartamento del fratello Jace tirò su la busta con dentro il loro pranzo annusando quel vago profumo di pollo tahi che proveniva dall'interno.
Alec gli aprì che aveva ancora i capelli mezzi umidi e gli regalò un piccolo sorriso storto prima di allungare un braccio e tirarselo contro per stringerlo un po'. Gli stampò un bacio su una tempia, mormorandogli di mettersi comodo mentre lui finiva di asciugarsi.
Jace lo fissò annuendo appena, gli era parso un po' giù di corda a dire il vero, doveva essere successo qualcosa a lavoro e forse il fatto che né Simon né Magnus gli avessero mandato messaggi in cui gli chiedevano di comprare da mangiare anche per loro doveva essere piuttosto indicativo.
<< Sei riuscito a convincere quei due che era un pranzo di famiglia o li hai sbattuti in gabbia una volta per tutti?>> domandò cominciando a sistemare le cose sul tavolo.
Il rumore del phon arrivava basso dal bagno e Jace non dubitò che il fratello lo avesse sentito. Lo vide uscire con la testa bassa, abbattuto e provare di nuovo a sorridergli.
<< Hanno litigato.>> disse solo prendendo le scatole e portandole vicino al divano.
Diamine, se voleva mangiare sdraiato allora era proprio andata male.
<< Tutti litigano prima o poi. Ti ricordi quando io e Lorenz ci siamo presi quel richiamo perché avevamo fatto a pugni? Poi è andata meglio, ora siamo addirittura amici.>>
<< Non hanno fatto a pugni.>> spiegò facendogli posto vicino a lui. Jace alzò un sopracciglio, gli stava implicitamente dicendo di non sedersi dall'altra parte del divano, lo voleva al suo fianco?
Una nota d'irritazione gli solleticò la gola: che cazzo avevano combinato quei due per far rattristare Alec in quel modo? Come gli era saltato in mente, qualunque cosa fosse?
<< Che ti hanno fatto?>> gli chiese con tono duro, lasciando perdere il cibo e sedendosi con la spalla premuta contro quella del fratello.
<< A me nulla. Hanno litigato tra di loro. Magnus ha detto che non è uno”sbirro” e che non deve sottostare alle nostre stupide regole. Non seguirà questo caso con noi.>>
<< Se ne è andato?>> Jace rimase a fissarlo sorpreso, specie quando Alec scosse la tesa.
<< Gli ho detto io di farlo. È un consulente, non è tenuto a seguire tutti i casi con noi, ma semplicemente a fornire, beh, la sua consulenza qualora ce ne fosse bisogno.>>
Il moro rilassò le spalle e gettò la testa indietro contro i cuscini del vecchio divano logoro.
Ma Jace non si perse un solo movimento, quello era suo fratello e sapeva che non gli aveva detto tutto, che non era la semplice litigata dei ragazzi ad averlo turbato o il fatto uno di loro se ne fosse andato, c'era altro.
<< Perché hanno litigato?>>
Un risolino sarcastico e per nulla divertito fuoriuscì dalle labbra socchiuse del maggiore.
<< Se fossimo in una commedia romantica la risposta sarebbe ovvia, scontata e banale.>> soffiò fuori.
Jace alzò un sopracciglio, quella sua magnifica faccia da schiaffi che tante aveva fatto capitolare e tanti altri imbestialire fino alla nausea apparve al fratello quasi comica.
<< Hanno litigato per te?>>
Alec annuì. << All'incirca. Non nel senso romantico. O per lo meno non del tipo “conteso”, ma sì, hanno litigato per me. Magnus continua la sua vita di sempre e Simon si è fatto girare perché non vuole che la cosa mi ferisca. Crede che tra di noi potrebbe nascere qualcosa.>> continuò sulla stessa onda sarcastica.
<< Anche secondo me potrebbe, ma se usiamo il condizionale vuol dire che non avete mai parlato o risolto nulla, giusto?>>
<< Cosa vuoi risolvere? Tralasciando il modo in cui ci siamo avvicinati, le motivazioni anche, ponendo che ci siano comunque delle basi per far evolvere la cosa, credi che funzionerebbe?>>
<< Ti prego.>> cominciò Jace prendendo la sua scatola di riso fritto e cominciando a mangiare. << Non rifilarmi una di quelle puttanate sul “veniamo da mondi diversi” e bla, bla, bal. >>
Alec rise e lo imitò. << Che veniamo da mondi diversi è vero, ma come abbiamo già visto in passato possiamo collaborare e anche coesistere per una buona causa. Senza contare che non penso proprio lavorerà per sempre con noi, prima o poi volubile com'è si stancherà e tornerà a fare il suo lavoro. Solo non credevo che sarebbe successo così presto.>> constatò tirando su una manciata di riso.
<< Quindi? Problema di fondo?>> Lo incalzò il fratello mentre l'altro si stringeva nelle spalle.
<< Principalmente ciò ce mi blocca dal fare o dire qualunque cosa è il fatto che siamo colleghi ora, che sono il suo referente, il suo capo e devo preoccuparmi di questo.>>
<< Niente relazioni sul lavoro se si milita nella stessa squadra.>> annuì il biondo.
<< Esatto, non è un punto da sottovalutare e non vorrei che fosse terreno fertile per ripicche da parte dei federali.>>
<< Ci sta tutto. Punto secondo?>>
<< Malgrado possa dire di conoscerlo sotto molti punti di vista essenzialmente di lui non so nulla.>>
<< Questa è facile, uscite insieme, senza lavori e cazzi di mezzo, e vi conoscete poco a poco come la gente normale.>>
<< Si potrebbe fare, sì.>>
<< Altro?>>
<< Non capisco se possa effettivamente essere interessato a me in un senso più profondo che non sia una notte di sesso. O più notti, il senso è quello.>> annuì alle sue stesse parole e si sporse per prendere la bottiglia dell'acqua. Ne prese un sorso lungo e la passò al fratello.
<< Quando eravamo in ospedale e lui si era appena svegliato pareva tenerci molto a te. Sappi che mi sono abbassato a fargli un discorso sentimentale e solo ed unicamente perché il soggetto coinvolto eri tu, Alec.>> ammise con la bocca piena ricevendo una carezza sulla testa come risposta.
Alexander gli sorrise dolcemente. << Lo so che queste cose le fai solo per me, grazie.>>
Come sempre, da quando era bambino sino ad ora, ogni volta che Alec gli dimostrava quel tipo d'affetto, quella fiducia e quella gratitudine tutte per lui, Jace si sentiva il petto gonfio d'un orgoglio caldo e accecante, come fiamme vive e alte.

 

L'amore di un fratello brucia come il fuoco celeste degli angeli.

 

Mandò giù il boccone e sorrise scintillante come solo lui sapeva fare.
<< Certo che sì, bro. Quindi possiamo dire che anche questo problema è inesistente?>>
<< No, mi spiace. È stato lui stesso a dirmi che quello che avevamo fatto non aveva nulla a che fare con l'amore.>>
<< E quando l'avrebbe fatto? E poi chi se ne frega, prima non lo era, ma dopo tutto questo tempo- >>
<< Tutto questo tempo in cui tra noi non è successo nulla.>>
<< Natale.>>
<< Non puoi giudicare il tutto solo da lì.>>
<< Senti, ma non è che stai tirando la corda pure tu? Magnus non è un soggetto sicuro su cui scommettere, per carità, ma non è mica … beh… >> improvvisamente conscio di ciò che stava per dire Jace si bloccò imbarazzato.
Alec sospirò consapevole. << No, questo no. Ma la storia è completamente diversa.>>
<< Sì, ma allora cosa ti blocca a parte il lavoro? Che certo, non è l'ultimo dei punti né il meno importante, ma così mi pare che sia l'unico ostacolo.>>
L'altro sospirò e posò la scatola vuota del riso sul tavolinetto. Si pulì la bocca con un tovagliolo e poi prese la scatola del pollo fritto e le bustine delle salse che versò completamente sopra.
<< Quando finalmente Quantico ci ridarà il diario e potremo cominciare a lavorarci sopra verranno fuori molti nomi che saranno, in un modo o nell'altro, collegati a Magnus. Saranno suoi colleghi, suoi conoscenti, suoi clienti, suoi amici… io dovrò arrestarli tutti, sino ad arrivare a suo padre.>>
<< Conflitto d'interessi. Hai paura che prima o poi ti chieda di lasciar andare qualcuno e che ovviamente non accetterai.>> annuì comprensivo. << Ma puoi parlarne. Con lui.>>
<< Nei mesi di degenza non sapevo cosa dirgli. Mi sono reso conto che fuori dal lavoro e dalle battute stupide non avevamo nulla che ci legasse. Quando salvi una persona, quando rischi di morire con lei, crei un legame indissolubile che va oltre quello che la gente ha di solito. Arriverà il momento in cui quella persona vorrà sdebitarsi, in cui si ritroverà a negare i suoi ideali o le sue idee per ripagare l'aiuto ricevuto. Temo che Magnus lo faccia nel modo sbagliato, forse, perché so che prima o poi lo farà e non voglio una relazione basata su questo. Vorrei costruire qualcosa di serio con un possibile compagno, non una vita legata ad un debito.>>
<< Non penso che Magnus si farebbe ammazzare per te, senza offesa fratello, ma siamo noi i deficienti con la sindrome dell'eroe, che credono che la vita sia una missione e che se questa implica la nostra morte allora l'accetteremo.>>
<< Non è questo il punto.>> si lamentò Alec infilzando il pollo con le bacchette.
<< E quale sarebbe?>>
<< Come posso sapere se il suo interesse è vero o solo dettato da ciò che è successo? Sono il suo fottuto salvatore, tutti gli rinfacciano che sono quasi morto per lui...>>
<< Hai paura che se mai volesse star con te fosse solo ed unicamente perché si sente in debito?>> domandò sorpreso.
<< Ne abbiamo già viste di storie simili, Jace. Cosa gli impedirà, una volta ripagato il tutto, di rendersi conto che ciò che ci ha unito è il lavoro e nulla di più?>> chiese serio.
L'altro ci pensò. << Ormai siamo amici, noi con lui, lui con noi, tu con i suoi amici, loro con te e loro con noi e tutti con tutti. Quindi questo ci sta.>>
<< E va bene. Poi?>>
<< Dovete conoscervi.>>
<< Perché non sappiamo nulla l'uno dell'altro.>>
<< Non devi fare il solito stronzo e non dire le cose.>>
<< Ma questo non sarà possibile: io non potrò dirgli tutto della mia vita e lui non potrà dire tutto della sua a me. C'è sempre questo- >>
<< Conflitto d'interessi. Sì. Non credo sia così bastardo da andare a dire ai suoi amici segreti della polizia ma potrebbe sempre mettere qualcuno in guardia per non farlo beccare, ci sta pure questo.>>
<< Senza contare che stiamo facendo i conti senza l'oste.>>
<< Perché credi davvero che non sia interessato?>>
<< Jace.>> disse allora Alec voltandosi per guardarlo. << Ma a chi è interessato? Al detective Lightwood o ad Alec?>>
Il biondo lo guardò in silenzio, pensieroso. Abbassò lo sguardo sui suoi ravioli e aggrottò le sopracciglia.
<< Questo potrai saperlo solo se gli presenti entrambi, temo.>>
<< E non pensi che scoprendo l'altra parte potrebbe allontanarsi anche dalla prima?>> lo sfidò allora.
Jace fece saettare lo sguardo in quello del fratello, un'occhiata di duro rimprovero.
<< Non sei un cazzo di criminale, ficcatelo in quella testaccia dura che hai una volta per tutte.>>
<< Non lo sono, ma ho fatto cose- >>
<< Te lo hanno ordinato. Era il tuo lavoro. Credi che a me piaccia entrare armato di tutto punto in luoghi pericolosi con l'ordine di sparare a chiunque si frapponga tra me e l'obiettivo?>> chiese secco vedendosi rispondere con lo stesso tono.
<< No, ma a te il Governo non ti ha dato l'autorizzazione ad uccidere a tuo giudizio senza poi chiedertene motivo.>>
<< Era la guerra, cazzo!>>
<< Lo so, Jace, lo so. Ma non tutti sono disposti a condividere la propria vita con un assassino.>>
<< Ma non lo sei!>>
<< Mi ci hanno chiamato, Jace, ed è il titolo più veritiero che mi sia mai stato dato.>> disse risoluto e con calma.
Jace a volte si domandava come potesse parlare di certe cose con così tanta pacatezza.
<< Non sei un assassino...>> ripeté comunque.
<< Tu sei mio fratello, vedi sempre il buono e non vuoi vedere tutto il male. Se ci fosse stata un'altra persona al posto mio, logicamente, avresti accettato questa definizione.>> gli sorrise triste e gli posò un'altra carezza sulla testa. Era una cosa che amava fare sin da piccolo, gliel'aveva trasmessa suo padre che per calmarlo gli carezzava i capelli. A sua volta questa era una pratica che aveva appreso proprio da Maryse, il giorno in cui disperato le aveva confessato di aver litigato malamente con Michael e di non sapere come fare a consolarlo lei gli aveva risposto che suo fratello le si sedeva di fianco e le accarezzava i capelli finché non si calmava. A quanto pare era un metodo comprovato da tutti i membri della sua famiglia.
Tanto calmava chi lo riceveva, tanto calmava chi lo faceva. Era il gesto di consolazione suprema dei Lightwood quello e Jace lo sapeva perfettamente.
<< Non lo sei e basta. Se ti preoccupa il tuo passato ricordati che lui è il figlio di un boss malavitoso. Non puoi aver fatto nulla di peggio di lui.>>
Alec sorrise. << Concesso.>> poi tornò al suo pollo.
<< In ogni caso è una situazione di merda. Presumo che Lewis ci sia rimasto malissimo.>>
Annuì. << Mi ha detto che si sente in colpa, anche tradito da Magnus e che voleva solo difendermi. Ci credi?>>
<< È Simon, certo che ci credo, quel deficiente è bravissimo a farsi sbattere al muro per difendere gli altri. Peccato che poi qualcun altro debba andare a raccattarlo con un cucchiaino. >> sbuffò il biondo infastidito.
Alec non seppe dire se lo fosse di più per la propensione di Simon a farsi prendere a pugni nel tentativo di fare da scudo alla gente o per il fatto che Magnus lo avesse in un qualche modo ferito. Anche se lui e Jace litigavano sempre, se ne tiravano di tutti i colori e spesso li si doveva dividere, Alec sapeva che si volevano bene, che ormai l'unico a poter prendere in giro l'intelligenza di Jace era Simon e l'unico a poter prendere per il culo Lewis era proprio suo fratello.
<< Ripeto: è Simon.>>
<< E vedi di sistemarla pure tu sta faccenda con Bane. Che cazzo, bro, hai una squadra da un mese, non bruciartela subito.>>
<< Sì mamma.>> lo prese in giro bonariamente aspettandosi la spallata che il biondo gli diede.
<< Oh, tralasciando questa storia.>>
<< Mh?>>
<< Sta sera vado da Seth.>> disse improvvisamente Alec sorridendo più apertamente.
Anche Jace si aprì in un sorriso radioso e annuì con vigore.
<< Seth! Questa si che è una bella notizia. Come sta? Che dice?>> chiese entusiasta.
<< Che ha avuto una settimana terribile e che gli serve qualcuno che non gli permetta di uccidere il suo capo, o che lo aiuti, dipende da quanto è grave quello che gli ha fatto. Te lo dirò domani come sta e la prossima volta magari vieni pure tu.>> gli propose felice di quel cambio di discorso.
Jace annuì, poi si bloccò. << A patto che non faccia la dannata anatra. Dio santo, ogni volta che andiamo a cena da lui la fa in mille modi differenti.>>
<< Perché è una delle mie carni preferite e dice che devo assumere il giusto apporto di proteine, minerali e vitamine.>>
<< Sì, sì, si preoccupa per te e ti coccola nello stesso schifo modo in cui fa da quasi dieci anni- >>
<< Sono quasi quattordici a dire il vero… >>
<< Seth ti adora, lo sappiamo tutti, ma secondo me lo fa a posta a cucinare la bestia del demonio quando ci sono anche io. Diamine fratello, ti piace anche il manzo, perché non può cucinarti quello?>>
Alec si strinse nelle spalle. << Puoi chiederlo a lui.>>
Jace fece un cenno vago con la mano ma poi abbandonò comunque la sua espressione schifata per un sorriso soddisfatto.
<< Guarda, mi hai migliorato la giornata, sono proprio felice che vai da lui.>> gli disse infine, poi gettò un'occhiata all'orologio. << Mi sa che ora ci tocca sbrigarci però, credo la pausa pranzo stia per finire. Dove lo hai lasciato Simon?>>
Il moro masticò il suo boccone facendogli cenno di aspettare un attimo.
<< Clary.>> farfugliò << Se lo è venuto a prendere immusonita e poi si è subito preoccupata nel vederlo con quella faccia.>>
<< Siete tutti andati dai vari confidenti quindi? Dobbiamo dedurne che Magnus sia andato a rompere le palle a Catarina o a Santiago?>>
<< Da Raphael sicuro. Catarina lo prenderebbe a calci e poi ha il turno credo.>> Inclinò il cartone per finire anche le briciole di frittura rimaste sul fondo e poi diede una pacca sulla coscia al fratello. << Su, finisci di mangiare, poi Oliver se la prende con me se arrivi tardi.>>
<< Mi ha detto di salutarti,>> rispose con i boccone in bocca. << non se la prenderebbe mai con te, gli stai simpatico, dice che sei nato per compensare la mai coglionaggine. La verità è che vorrebbe avere la mia verve ma è un primogenito e quindi non può essere figo come me. Voi siete solo prototipi, sono i secondi quelli perfetti.>>
<< Izzy direbbe che anche tu sei un prototipo.>>
<< Il semplice fatto che sia nata donna va a mio favore, anche lei è uscita male.>>
<< Sai che è terribilmente sessista questo, sì?>> lo informò alzando un sopracciglio.
Jace si strinse nelle spalle. << Ci sono già tante donne a questo mondo, no? Izzy poteva nascere uomo e avere una vita più facile. Solo il fatto che sappiano letteralmente creare la vita le ripaga di tutte le sfighe che hanno, e pure quello alle volte è solo uno svantaggio visto che anche nel ventunesimo secolo c'è chi muore di parto… >> lo disse con una nota amare nella voce e Alec allungò la mano per stringere la sua.
<< Sì, ma ne salvano moltissime. Generatrici di vita no? C'è un miracolo più grande di questo?>>
Jace sorrise e scosse la testa. << Come fai ad aver fede nei miracoli ed essere gay?>> gli chiese ironico.
<< La fede non ha colore e genere. Non sto parlando di religione poi, no? Dico solo che è magnifico.>>
<< Izzy non ne è d'accordo. Dice che non vuole gonfiarsi come una mongolfiera, farsi visite e prelievi di continuo, soffrire le pene dell'inferno con la possibilità che l'epidurale non funzioni, che ne sia allergica o che debba andare sotto i ferri quando al mondo ci sono già fin troppe vite e non tutte riescono a farcela e probabilmente suo figlio la odierà per gran parte della sua vita come fanno tutti i figli..>>
<< Izzy è per il controllo delle nascite e sai che anche io credo che si dovrebbe far qualcosa a riguardo ma… >>
<< Ma sei gay e la gente ti dice che non puoi capire. Sì, le solite puttanate.>> Strinse di rimando la mano al fratello e poi lo guardò in modo eloquente. << Che schifo bro, una volta parlavamo di sport, di film, di lavoro sì, ma di imprese fighe. Ora invece di relazioni, di maternità, controllo delle nascite, fede e generi. Stiamo invecchiando.>>
Alec sorrise. << No Jace, stiamo solo crescendo.>>

 

 

 

 

 

 

I documenti erano posizionati in modo ordinato sul piano della sua scrivania.
Simon non era ancora tornato ma visto che il caso necessitava di tempo per tutti i risultati scientifici non c'era bisogno che fosse lì nell'immediato, Alec avrebbe potuto controllare le denunce di scomparsa anche da solo, gli avrebbe lasciato da fare quelle che sarebbero rimaste.
Mise da parte tutte le cartelle su uomini afroamericani, asiatici, indiani, doveva concentrarsi su modelli caucasici e basta. Non gli avevano ancora detto nulla sui capelli ma Alec dava per buono che fossero neri, quindi avrebbe cominciato a passare al setaccio prima quelli.
Ci mise quasi un'ora per controllarli tutti, dividendoli per età e stazza, ma tra gli uomini mori, tra i venticinque e i trent'anni scomparsi negli ultimi mesi a New York non c'era nulla, una volta finito di controllare anche gli altri avrebbe ampliato la ricerca a sei mesi prima, poi sarebbe arrivato ad otto e così via di due mesi in due sino ad arrivare agli scomparsi da un anno, anche se dai sei mesi in poi i documenti venivano archiviati e gli sarebbe servito per forza Simon per controllarti tutti.
Sperava vivamente che il tempo fosse più breve o solo un miracolo sarebbe riuscito a fargli scoprire come fosse morto quell'uomo.
Era arrivato quasi alla fine di Novembre quando Simon entrò nell'ufficio arruffato come un pulcino e con gli occhiali appannati. Si sedette silenziosamente alla sua postazione ed Alec neanche alzò la testa dai fogli per chiedergli se si sentisse meglio.
<< Sì, grazie. Parlare con Clary è sempre rilassante.>>
<< Beato te, a me invece fa venire il nervoso con quella sua vocetta.>> borbottò passandogli un plico di fogli. << Scomparsi castani da Febbraio a Gennaio. Controlla che rientrino nelle indicazioni dello scheletro.>>
Simon annuì. << C'è arrivato niente dai laboratori?>>
<< Stanno letteralmente smadonnando per rimettere assieme i frammenti, Isabelle si è andata a rifugiare da papà per avere un attimo di respiro. Pare che le piogge e la neve, unita alle gelate che ci sono state ad inizio anno abbiamo solo che contribuito a distruggere di più lo scheletro. Il dottor Catton ha detto che alle brutte chiameranno qualche specializzando di antropologia e glielo faranno ricostruire a loro.>>
<< La nostra solita fortuna. Tu hai… hai qualche idea su chi può essere?>> Chiese guardando scettico la pila di foto segnaletiche.
Alec a quel punto alzò lo sguardo su di lui con espressione crucciata, << Tra quelli qui presenti o in generale che tipo di persona era?>>
<< La seconda. Oddio, se tu avessi dei poteri paranormali che ti premettessero di individuare la vittima… >>
<< A quest'ora non avrei neanche un caso irrisolto alle spalle.>>
<< Ne hai?>> domandò sorpreso l'altro.
Alec si strinse nelle spalle. << I Jon e le Jane Doe sono tantissimi, non possiamo identificare tutti perché spesso capita che le persone disperse siano immigrate clandestinamente, che siano state addirittura coinvolte in una tratta di schiavi. Alle volte sono semplici senzatetto di cui si è perso ogni contatto, che non ricordavano neanche il loro nome da vivi. È triste ma è così, in America abbiamo uno dei tassi più alti di persone sconosciute ritrovate morte.>>
<< Lui è uno di questi?>>
<< Non credo.>> frugò tra i fogli sino a dissotterrare la cartella del caso. Ne tirò fuori delle foto del cranio e delle ossa lunghe e le mostrò a Simon. << Sono un po' sporche e non è facile notarlo a colpo d'occhio, ma vedi questi segni qui, sulla mascella? Vengono lasciati da interventi odontoiatrici. Mente queste leggere sporgenze sul femore sono segni di rimodellamento da frattura. Se fosse stato un senzatetto non si sarebbe mai potuto permettere le cure mediche, forse solo quelle per la gamba ma non sarebbero così buone. Sono recenti, non credo più vecchie di un paio d'anni, questo significa che durante la degenza è stato sdraiato e non ha dovuto far forza sulla gamba rotta per spostarsi.>>
<< Potrebbe esser diventato un senzatetto dopo la guarigione.>> gli fece notare Simon.
Alec annuì. << Potrebbe ma lo escluderei. Quei pochi denti che ha indicano un massiccio consumo di tabacco e anche di qualche droga più pesante. Per la droga ci servono soldi, se ci si aggiungono le sigarette allora ne serve ancora di più.>>
<< Quindi se aveva tutti quei vizzi doveva per forza aver un reddito dici? Non è un po' riduttivo?>>
<< Non dico un reddito, dico che lavorasse, che potesse permettersi determinati lussi, come un dentista. >>
<< In ogni caso era nelle fogne di sua spontanea volontà o ce lo hanno infilato?>>
Il moro rimise a posto le foto e poi si riconcentrò sulle schede. << Se aveva di che vivere anche una catapecchia avrebbe dovuto averla, un luogo in cui tornare. Dubito che si trovasse lì di sua spontanea volontà, a meno che non ci si nascondesse.>>
Simon si dondolò sulla sedia pensieroso. << Se era un drogato poteva aver avuto problemi con lo spacciatore.>> tentò.
<< Potrebbe, certo. Ho chiesto che per prima cosa si concentrassero sul teschio, non appena avremo quello chiederemo una ricostruzione facciale. Ci vorrà un po' per ottenerla ma dovremmo farcela.>>
<< Perché ci vorrà un po'? Se non abbiamo personale possiamo chiedere a Clary.>> propose drizzandosi a sedere.
<< Impara una cosa Simon.>> fece serio Alec. << Ogni singola analisi, prova forense, autopsia, ricostruzione di ogni tipo, grava sui soldi dei contribuenti. Il dipartimento ha un fondo annuo che non deve superare, per le richieste particolari si deve ottenere autorizzazione. Strumenti come la ricostruzione facciale o determinate e particolari ricerche chimiche richiedono strumenti che costano tantissimo e non sempre li abbiamo. Così dobbiamo appoggiarci ad altri istituti e laboratori e ne deriva che anche questi vanno pagati.>>
<< Anche una ricostruzione facciale?>> chiese perplesso.
Alec scosse la testa. << Quello è un programma computerizzato, lo facevate voi al reparto informatico.>>
<< Davvero? Ma io non l'ho mai fatto!>>
<< Perché non era tua competenza. Ora torna a lavorare.>>
Ripresero a controllar segnalazioni cartacee o al computer, finché verso le tre Simon non andò a preparare qualcosa di caldo da bere e tornò più pensieroso.
Alexander non alzò di nuovo al testa, aveva sentito il cambio d'atmosfera e non voleva che l'altro gli chiedesse se avesse per caso sentito Magnus perché era ovvio che voleva sapere quello.
Ringraziò tutte le divinità che conosceva quando il telefono squillò, nell'esatto momento in cui Simon gli aveva poggiato la tazza davanti al naso e stava prendendo coraggio per fargli quella domanda. Lo vide sgonfiarsi come un palloncino ma per quella volta non se ne dispiacque affatto.
<< Tenente Lightwood.>> rispose automaticamente.
La sua espressione concentrata si rilassò mentre il Dottor Carson gli comunicava che l'uomo doveva essere morto dagli otto ai dieci mesi prima del ritrovamento e che poteva eliminare senza ombra di dubbio persone bionde, rosse e castane dalla sua ricerca. Richiese conferma sull'età e sui suoi sospetti di possibile dipendenza della vittima: a quanto pare doveva essere uno che si metteva nei guai di continuo perché avevano ritrovato molti altri segni di saldatura e scalfittura su varie ossa.
Ce ne era una in particolare sulla vertebra D-9, compatibile con una ferita da arma da fuoco, probabilmente la causa del decesso visto che in caso contrario questo avrebbe fatto dell'uomo un paraplegico.
Alec chiuse la conversazione un po' più leggero di prima, forte di nuove convinzioni.
Informò velocemente Simon e subito il ragazzo avviò una ricerca selettiva sulle persone scomparse, con possibili problemi di droga e denunce per risse o lotte clandestine.
Ne uscì una lista di circa una quarantina d'uomini ed il giovane ne rimase scioccato.
<< Scompaiono davvero così tante persone ogni mese?>> domandò con un fil di voce.
<< Anche di più, ricordati i parametri inseriti. Hai avviato la ricerca per tutto lo Stato di New York, no? Sono moltissimi gli scomparsi, alcuni scappati, altri persi, deceduti, o così distrutti da droghe e alcol da non ricordare neanche chi sono. >>
L'altro annuì e fissò con sguardo vago i nomi. << Chissà se qualcuno li cerca o li aspetta ancora.>>
<< Per questo motivo esiste la sezione Persone Scomparse, per tutti quei famigliari ed amici che ancora aspettano e cercano i loro cari. Questi anni alla Omicidi mi hanno insegnato che prima o poi tutti collaborano con loro, perché può sparire il ricettatore quando l'assassino, il pirata della strada che investe lo sconosciuto, il corpo ritrovato in acque nazionali. La rincontreremo anche noi. >>
Allungò la mano per prendere la sua tazza si tea, sbirciando lo schermo di Simon, fisso su una fila di quattro foto segnaletiche e si bloccò a mezz'aria a fissarne una famigliare. Dove l'aveva già vista?
Era un ragazzo dai capelli scuri e la faccia anonima ma poco raccomandabile, non si sarebbe fidato neanche a chiedergli l'ora ma non si sarebbe ricordato di lui dopo averlo superato per strada. Nell'immagine guardava scocciato l'obiettivo stringendo il classico cartello indicativo in mano.
<< In che ordine sono?>> chiese indicando lo schermo. << Dal più lontano al più recente o il contrario?>>
<< Il contrario credo.>> disse sovrappensiero Simon, controllando velocemente. << Sì, proprio il contrario. Perché? >>
<< La denuncia di quel… Potter. A quando risale?>>
<< Direi che è l'indesiderato numero uno all'incirca dal 1996, ma poi ha sconfitto Voldemort ed è diventato l'eroe del mondo magico.>> scherzò su.
<< Dillo di nuovo e ti chiudo in cella per due giorni.>> lo ammonì subito.
Simon deglutì, certo delle minacce dell'amico, si sbrigò a rispondere alla domanda.
<< La denuncia è stata inoltrata il… 25 Luglio. Cosa ti è venuto in mente? Ehi, Alec?>>
Il tenente poggiò lentamente la tazza a terra, rimanendo con lo sguardo fisso sullo schermo storto.
<< Che è una fortuna che Magnus abbia deciso di non seguire questo caso, soprattutto che lo abbia fatto prima di capire chi fosse la vittima.>>
<< Perché?>> domandò ancora Lewis.
<< La data, Simon.>>
<< Sì, è successo a Luglio ma questo cosa- Oh, aspetta, non mi starai dicendo che… >>
<< Esatto: forse abbiamo trovato il tentato assassino di Magnus.>>

 

 

 

 

 

 

Il portone si aprì con un lungo trillo, nell'ampio atrio si respirava un aria un po' chiusa ma certo più calda e confortevole del vento gelido che soffiava quel Marzo.
Si avviò verso l'ascensore, premette il pulsante rotondo ed attese con pazienza che la cabina arrivasse, alternando la busta con dentro le birre da un dito all'altro, attento a non farla cadere. In tal caso probabilmente Seth lo avrebbe preso a pugni e poi spedito a riprenderne altre.
Quando la luce s'illuminò di verde Alec tirò la maniglia della pesante porta e vi entrò dentro lasciando che si richiudesse piano secondo la resistenza della molla che la reggeva.
L'appartamento del suo amico si trovava al quinto piano, più di una volta avevano ironizzato su come nessuno di loro fosse capace di trovarsi una casa che non fosse più giù di quel piano, anche se lui vinceva su tutti perché aveva l'ascensore rotto.
Probabilmente se Howard avesse fatto un'altra battuta su come quello fosse molto alla Big Bang Theory si sarebbe beccato una scarpa in faccia, ma alla fine il giovane non era lì quella sera e se Alec o chiunque altro si fosse limitato a non tirar in ballo la questione “scale” non sarebbe cominciato l'ennesimo dibattito in proposito.
Quando uscì sul pianerottolo lo trovò illuminato più dalla luce calda e forte che proveniva dall'appartamento aperto che dalle lampade che ne costeggiavano i muri.
Seth se ne stava sulla soglia della porta, uno straccio bianco poggiato sulla spalla, una mano a reggersi contro lo stipite ed il suo classico e bellissimo sorriso ad accoglierlo come sempre.
Senza riuscire ad impedirselo, non che l'avrebbe fatto comunque, si ritrovò a replicare la stessa espressione felice ed aumentare il passo per fiondarsi tra le braccia ora aperte del giovane che lo accolse con un alto ed esplosivo:

<< UOMO!>>

Alec rise stringendo un braccio attorno alle spalle dell'amico e l'altro attorno alla sua vita. Storse un po' il naso quando i ricci scuri gli solleticarono il viso e dal movimento delle guance di Seth anche lui doveva aver trovato fastidiosi i suoi capelli ormai troppo lunghi.
<< Mi sa che ci tocca chiamare Pip e chiederle di tagliarci i capelli a tutte e due eh?>>
Alec doveva ammettere che un sorriso luminoso come quello del suo amico lo poteva trovare solo sul volto del fratello, ma forse era lui ad essere di parte visto quanto volesse bene ad entrambi.
Allungò una mano per mettergli qualche ciocca dietro all'orecchio come aveva fatto sin da quando si erano conosciuti e l'altro lo lasciò fare senza smettere di sorridere, con quelle adorabili fossette sulle guance che, imbarazzante a dirsi ma vero, facevano venir sempre voglia di stropicciargli la faccia e riempirlo di baci, come si farebbe con un bambino con l'espressione da monello.
<< Sono mesi che lo ripeto, me lo ha anche proposto qualche volta.>> gli confessò trascinandolo dentro casa mente quello chiudeva la porta con un calcio.
<< A sì? A me quell'infame non lo dice mai.>>
<< Questo perché hai dei bellissimi ricci e nessuno vorrebbe vederteli tagliare, specie lei.>>
Il ragazzo scoppiò a ridere. << Dici così solo perché mi ami, uomo.>> lo pungolò con il dito e Alec annuì.
<< Certo che sì.>> confermò alzando poi la busta delle birre. << Ho qualcosa per te.>>
<< Uh, busta e non scatola, sei andato a cercare delle buone birre e non quelle in lattina?>>
<< Hai detto che hai avuto una settimana terribile, no? Non potevo portarti della robaccia.>> si giustificò passandogli di nuovo la mano tra i capelli e ricevendo indietro una stretta salda sulla spalla.
<< Vero, ma anche a te non è andata meglio, se non sbaglio. Devo ammettere che quel messaggio mi ha lasciato un po' così. “Cucina di più”. Se fossi una ragazza darei per scontato che ti sei lasciata con qualcuno o che hai il ciclo, ma ringraziando il cielo non è così. Quindi? Chi devo andare a menare?>> domandò alzando un sopracciglio e avvicinandosi alla cucina.
Alexander si spogliò con calma mentre una smorfia infastidita gli tirava le labbra. << I miei sottoposti, ma temo che al massimo potresti picchiare Simon, non penso riusciresti a mettere le mani su Magnus.>>
<< Picchia forte?>> la voce arrivò un po' ovattata dalle mura e dal borbottio delle pentole.
Alec scosse la testa anche se l'altro non poteva vederlo. << No, è solo il figlio di un capo della malavita della East Coast, non ci riusciresti perché avrebbe gente disposta a proteggerlo.>>
<< Tipo te?>>
La testa ricciuta di Seth comparve oltre lo stipite della porta, il volto gentile era atteggiato in un'espressione a metà tra l'interrogativo e l'infastidito, Alec non riuscì a non sorridergli.
<< Era compito mio proteggerlo.>> gli ricordò con calma raggiungendolo per sistemare le bottiglie in frigo.
<< Era compito suo starsene tranquillo e non rompere il cazzo, senza offesa. Ci hai fatti preoccupare tutti Xander, quel tipo può essere figlio di chi gli pare ma dovrà vedersela con tutti noi prima o poi, specie se ha intenzione di rimanere nella tua vita. Lavorativamente o sentimentalmente.>>
Alec sbuffò ironico. << Non so quanta intenzione abbia di fare entrambe le cose.>>
Seth si bloccò, il mestolo dentro una delle cinque pentole sul fuoco. Fece sgocciolare il denso sugo rosato che stava girando e poi si voltò a fronteggiare l'amico. Con il canovaccio sulla spalla e il mestolo di legno in mano poteva sembrare una mamma minacciosa, se non fosse che quello davanti a lui era Seth e diventava minaccioso solo quando impugnava quelle mannaie da macellaio che maneggiava con tanta leggerezza.
<< Ho capito, sta sera cibo magnifico, birra e confessioni a cuore aperto.>>
<< Dio, Seth, no! Già ho parlato con Jace, che per altro ti saluta, non ho la minima intenzione di rifarlo.>> si lamentò il moro aprendo un cassetto per cominciare ad apparecchiare.
<< Non è una richiesta, io devo lamentarmi di quella stronza del mio capo e tu dei tuoi collaboratori, è catartico. E poi mi dici pure come sta Scheggia, è da tanto che non lo vedo, gli è passata l'ansia da anatra alla pechinese o continua a fingersi un vero uomo ma solo lontano dagli stagni?>>
Alec si lasciò sfuggire una risata nasale ma continuò a metter a tavola posate e tovaglioli.
Forse una serata del genere era proprio quello di cui aveva bisogno.

 

<< Che situazione di merda, posso dirlo?>> Seth se ne stava stravaccato sul suo divano, le gambe allungate sul bracciolo e la spalla contro quella di Alec, nella stessa, speculare posizione. Entrambi con una ciotola di crema e brownis in mano, a terra, una bottiglia di birra che si passavano di tanto in tanto.
<< Certo che puoi, è così dopotutto. Ma non posso fare altrimenti, non ora almeno. Sinceramente non so neanche se farò mai qualcosa, ho già abbastanza problemi di mio.>> annuì prendendo una cucchiaiata del dolce ma poi si fermò. << L'hai già finita la panna?>>
<< No, ingordo che non sei altro, tieni.>> prese un cucchiaio della sua panna e lo mosse alla cieca sulla sua testa finché l'amico non gli afferrò il polso per guidarlo verso la propria bocca.
<< Gaffie, però non è colpa mia, non se ne mangia di così buona da nessuna parte.>>
<< Perché è fresca e fatta sul momento. Sono un cuoco di un certo livello, mica un addetto alla frittura da McDonald.>>
<< Non criticarlo troppo, c'abbiamo passato parecchie ore dentro.>>
<< E non le rimpiangi neanche un po'?>>
<< No, non ora che ho la collezione delle statuine della Marvel, tutti quegli happymeal hanno dato i loro frutti… >> disse Alec serio tornando a mangiare. << Comunque neanche a te va meglio.>>
<< Non è davvero il mio capo, capisci la fregatura? Non posso dirgli che non sa fare il suo lavoro perché non lo è, non posso dirgli di andarsene al diavolo perché è la figlia del vero capo e non posso neanche dire che non ci capisce nulla perché fa tanto la grande intenditrice e porta tanti clienti al ristorante.>>
<< Una vera fregatura.>> concordò.
<< Forse cambio locale… >> borbottò il ragazzo e allora Alec si tirò a sedere e lo guardò accigliato.
<< Ma tu adori quel posto, hai faticato tanto per arrivarci, non puoi mollare per colpa della prima deficiente che passa.>>
Seth sorrise. << Amo quando prendi le mie difese in questo modo ed insulti gente random che non conosci.>>
<< Sai che sono un ottimo critico di gente random che non conosco.>>
<< Ma smettila, sei un cuore di panna.>>
<< Passi decisamente troppo tempo con Piper!>> Alec rise tirandosi dietro l'amico che scosse la testa sconsolato.
<< Perché non vieni tu a farmi un'improvvisata? Magari in divisa così la smette di tormentarmi.>>
<< Non sono un gran ché in queste cose, Seth, ma non è che ha un qualche interesse verso di te?>>
<< Credimi, l'unica cosa che sarei disposto a darle in questo momento è un coltello in mezzo agli occhi.>> sbuffò.
<< Come sei volgare… >> Alec storse il naso ma l'altro non sembrò impressionato.
<< Ma sta zitto, sei cresciuto con Jace e Izzy, se tua madre non gli ha pulito la bocca con il sapone è solo ed unicamente perché gliene sarebbe servito troppo.>> e prima che Alec potesse replicare gli alzò il cucchiaino davanti al viso e gli sorrise. << Se vuoi risollevarmi il morale perché non mi racconti qualche bella trama da giallo poliziesco delle tue? Andiamo, hai avuto un caso difficile no? Che mi puoi dire?>>
il detective sospirò pesantemente, domandandosi perché tutti i suoi amici e conoscenti fossero soggetti a così profondi ed evidenti cambi di discorso improvvisi.
Annuì comunque e si sistemò meglio sui cuscini allungando le gambe sul puff su qui Seth aveva appena poggiato le sue e intrecciando le caviglie a quelle dell'amico.
<< Abbiamo trovato un cadavere ad uno sbocco della fognatura, è davvero ridotto male, solo ossa e niente DNA, lo stanno ricostruendo ora ma il decesso è avvenuto mesi fa e purtroppo pare che la vittima potrebbe essere qualcuno che, seppur indirettamente, conosciamo.>> riassunse.
Seth lo guardò sorpreso. << Un altro poliziotto? Diamine uomo, vi stanno decimando.>>
Ma Alec scosse la testa. << No, non un poliziotto. Ti ricordi che a Magnus hanno già sparato prima della volta in cui hanno ferito anche me?>>
L'altro annuì.
<< Tra i possibili uomini che abbiamo selezionato tra gli scomparsi c'è anche il tipo che, presumibilmente, dovrebbe essere stato l'esecutore dell'ordine di Morgersten, l'Antidroga chiese a Jace di andare a parlare con un “amico” che poteva sapere qualcosa, ma dubito che fosse un buco nell'acqua, Manchester è fin troppo bravo per sbagliare in questi casi.>>
Seth lo guardò senza dire niente, poi sospirò. << Certo che è bella intricata la vita di un detective, eh? Vi rimandate sempre le informazioni da una sezione all'altra?>>
<< No, solo che quel caso aveva insospettito il Capo e quindi era andato a chiedere conferma. Ci sarei andato io quel giorno ma avevo il colloquio.>> spiegò poi un po' risentito.
<< Già, il terribile colloquio, lo sbarco in Normadia è stato nulla a confronto… >>
<< Non prendermi in giro.>>
<< Non potrei mai farlo bello, tranquillo.>> li sorrise e gli porse la bottiglia di birra. << Vuoi fare un brindisi alle cose intricate in cui ci ficchiamo sempre e da cui non riusciamo mai a districarci?>> Alec lo fissò inespressivo. << Tu sì che sai come tirarmi su di morale.>>
<< Sono qui per questo, Xander. E perché sai che ti amo più della mia stessa vita.>> sorrise quello battendo le ciglia con fare teatrale.
La spinta che l'altro gli diede era del tutto aspettata ma Seth non cercò neanche di far resistenza, lasciando che Alec lo facesse cappottare sul divano.
<< Sei solo un ruffiano opportunista, altro che amore.>> brontolò pur sorridendo.
Sì, aveva decisamente bisogno di una serata come quella.

 

 

 

 

 

 

Come sempre la sua scrivania era ingombra di carte di ogni tipo e dimensione. I fascicoli si alternavano tra di loro in ordine di importanza e di arrivo. Aveva appena terminato di controllare quelli della scorsa settimana e ora gli toccavano i rapporti della Crimini Maggiori.
Andrew sedeva composto sulla sua poltrona quando qualcuno bussò piano alla porta dell'ufficio.
Con un basso “avanti” neanche alzò il capo per vedere chi fosse entrato ma quando ci mise un po' per sentir l'uscio richiudersi fu costretto a farlo.
Manchester se ne stava in piedi davanti a lui, alle sue spalle Andros Crouz si fece strada sino al divanetto, spostando un paio di faldoni e poggiandoli per terra.
<< Antidroga e SWAT, a cosa devo il piacere?>> chiese già innervosito dalla presenza dei due Capi delle varie sezioni sul suo piano.
<< Tranquillo Blackthorn, non è un piacere per te come non lo è per noi.>> gli disse gentilmente Manchester prendendo posto su una delle poltroncine e sorridendogli quasi dispiaciuto.
<< Avremmo preferito di gran lunga incontrarti per un goccio al bar, ma purtroppo il lavoro chiama.>>
Andrew annuì, << Che succede? Come siamo riusciti a rimaner coinvolti tutti e tre?>> perché era ovvio che se quei due erano nel suo ufficio era solo ed unicamente perché alcune delle loro squadre erano coinvolte nello stesso caso.
<< Qualche tempo fa, il mese scorso, durante un blitz a casa di uno spacciatore abbiamo arrestato un tipo che credeva fermamente che fossimo lì per una denuncia che aveva fatto e non per i pallet di pasticche che nascondeva.>> cominciò Manchester tranquillo senza perder tempo. << L'uomo sosteneva di aver denunciato la scomparsa di un suo amico, anch'esso spacciatore e coinvolto in giri loschi, possibile assassino su commissione. Lo scomparso rispondeva al nome di Trevor Potter, uscito di casa il 21 Luglio e mai più tornato, doveva andar a fare una “commissione importante”. >>
<< Questa data non ti dice nulla? >> Intervenne Crouz.
Blackthorn annuì. << All'incirca a pochi giorni di distanza a quando hanno sparato a Bane la prima volta.>> disse con tono cupo.
<< Esatto.>> continuò il Capo della SWAT. << Hector è venuto a chiedermi in prestito un Lightwood per andare a parlare con il direttore dell'Hotel Dumort, Raphael Santiago, credevamo che magari il tipo lo nascondesse lui, ma come ci ha fatto ben notare- >>
<< Se Potter fosse andato a chiedere protezione a lui Santiago lo avrebbe fatto sparire dalla faccia della terra per farlo ricomparire sciolto nell'acido o qualche metro sotto terra. No, non avrebbe protetto colui che ha tentato di uccidere un suo amico.>> convenne il Capo della Omicidi.
<< Siamo andati a chiedere a Starkweater se avesse ingaggiato proprio Potter e lui ha confermato.>> riprese Manchester fermandosi come in attesa che Andrew continuasse al posto suo.
L'uomo però lo fissò attentamente senza dir nulla se non un: << Abbiamo trovato il cadavere?>>
Crouz sorrise senza gioia e Manchester annuì. << A quanto pare i ragazzi Lightwood hanno la stessa fortuna sfacciata del padre.>>
<< Intendi dire che hanno una sfiga così epocale che potrebbe essere annotata sui libri di storia?>> chiese ironico Blackthorn vedendo Andros sghignazzare annuendo.
<< Il mio si crede invincibile, lo fa anche il tuo Andrew?>>
<< No, peggio, il mio si crede sacrificabile.>> rispose asciutto per poi voltarsi verso l'altro. << Fammi indovinare: è stato ritrovato un cadavere sconosciuto, il caso è stato assegnato a Lightwood e lui lo ha identificato come Trevor Potter.>>
<< Non proprio, lui ha ipotizzato che potrebbe essere Potter ma finché non avremo dei riscontri non sarà possibile dirlo con certezza.>>
<< Va bene, cosa vi preoccupa?>> si arrese infine a chiedere.
Gli altri due si scambiarono una veloce occhiata, poi Manchester, che da sempre era il più calmo e riflessivo, prese la parola.
<< Sta succedendo qualcosa, si stanno muovendo le acque Andrew, lo sai tu come lo sappiamo noi.>>
<< I bassifondi ed i vicoli bui parlano.>> mormorò Andros.
<< Adesso che è uscito fuori un collegamento al vecchio caso Fell credo che sia ora di chiamare i federali e ricordargli che quel quaderno serve a noi, che dobbiamo ripulire New York City una volta per tutte.>>
<< Non lo hanno ancora tradotto, lo sai questo, vero?>>
<< Sì, ma so anche che se non ci muoviamo noi o faranno altri. Stanno tornando personaggi scomparsi da tempo, sono stati avvistati nei pressi degli aeroporti, nelle loro vecchie dimore. Quel tipo, Potter, era solo una pedina, ma si muoveva in un giro di intimidazioni e assassinii su commissione che da sempre vedono coinvolti omicidi e droghe. Dobbiamo trovare i colleghi di Potter.>>
<< Ci saranno sempre altri sicari, altre associazioni ma quella della vostra vittima è piuttosto famosa, ben rodata. La SWAT ovviamente è pronta a sostenere qualunque incursione o missione vi serva, ne ho visti fin troppi uccisi da quella gente.>>
Blackthorn li ascoltò con attenzione ed annuì. << Attualmente non possiamo ancora richiedere il diario indietro, lo so per certo questo, la Signora ci sta provando da mesi, letteralmente. Ma sono d'accordo con voi sull'eliminare più manovalanza possibile prima che tornino i capi a ridirigere lo spettacolo. Siete sicuri che Potter fosse di un giro preciso e non lavorasse da solo?>>
<< Sì, certo, la nostra fonte si trova in carcere al momento, ma attualmente è più che affidabile.>>
<< Cosa avete concesso a Starkweater in cambio di queste informazioni?>> chiese freddo il Capo dell'Omicidi.
Crouz sorrise. << Di non farlo finire in lavanderia con gente contro cui a testimoniato. È un traditore ammazza poliziotti, non gli concederemo neanche un grammo d'ossigeno in più di quanto non gliene serva per sopravvivere e scontare tutte le sue pene.>>
Quella risposta così dura e convinta ridiede un po' di tranquillità all'uomo: era stata suo amico, lo aveva pugnalato alle spalle, aveva pugnalato tutti loro, non meritava nulla neanche in cambio di informazioni del genere.
<< Ditemi cosa avete in mente.>> si risolse a dire.
Manchester annuì. << Operazione congiunta Antidroga-Omicidi, supporto costante della SWAT, se ci dirai di sì passeremo la richiesta con le firme di tutti e tre ai piani alti.>>
<< Presumo vogliate una persona in particolare, tra i miei.>> sospirò allora, consapevole già di ciò che gli avrebbero risposto.
<< Beh, il caso del ritrovamento del cadavere di Potter è del Tenente Lightwood, sarebbe scortese chiedere a qualcun altro, non pensi?>> domandò candidamente Crouz.
<< Penso che quel ragazzo se ne sta vedendo di tutte i colori con la nuova squadra...>>
<< Lo stanno facendo penare?>> s'informò Manchester.
<< Da quel che ne so, Bane ha detto che non vuole sporcarsi le scarpe con le fogne e ha lasciato questo caso.>>
<< Il che potrebbe andare a nostro favore, non credi?>>
<< No.>> scosse la testa. << No, temo che quando saprà chi è coinvolto vorrà tornare in campo.>>
Andros piegò le labbra in un sorriso accennato. << E io invece penso che se vorrà farlo dovrà prima andare a chiedere scusa al tuo ragazzo.>>
Gli altri lo guardarono incuriositi e lui sorrise più apertamente. << Se ho capito qualcosa da quel poco che si sente di Alexander Lightwood, direi che è uno in grado di mettere in riga chiunque. Se ci riesce con suo fratello poi… non credo che Bane se la passerà più facilmente.>>
<< Effettivamente mi è sembrato un ragazzo piuttosto autoritario e attento, nonché con una grande forza di volontà. L'ho visto sparare al poligono con un braccio fasciato ed il busto quando ancora era in sedia a rotelle e doveva girare con l'ossigeno. Tutti centri in tutte le sagome che riusciva materialmente a vedere. Impressionante, malgrado ciò non credevo che avremmo lavorato assieme così presto.>>
<< Allora è vera quella storia? Non se la sono inventate le matricole?>>
<< Chiedi a Pym, o anche ad Andrew, giusto?>>
L'uomo annuì. << Alexander ha sempre avuto un'ottima mira. Non a caso è un tiratore scelto.>>
<< Un cecchino alla Omicidi… fattelo dire, mi pare sprecato.>> commentò Crouz.
<< Almeno siamo sicuri che sia una persona con nervi saldi, pazienza e capacità d'attesa. Non correremo il rischio che salti fuori dal suo nascondiglio perché non riesce a tenere sotto controllo l'adrenalina.>> disse Hector.
Blackthorn annuì stanco di quelle chiacchiere e di quello svagare.<< Servire al fronte gli è stato sicuramente utile, è uno dei migliori tra i giovani.>>
<< Anche tra i vecchi mi dicono.>> sorrise mesto Manchester.
<< Dipende a chi lo chiedi, una persona onesta ti direbbe di sì. Rimane un ragazzo di ventisei anni a cui sono state date molte se non troppe responsabilità.>> Mormorò abbassando la testa, rivedendosi quel corpo esanime davanti, appartenente ad un ragazzo che aveva visto neonato, abbandonato bambino e ritrovato cresciuto tra più ombre che luci. Prese un respiro profondo e poi espirò.
<< In ogni caso, do la disponibilità del Tenente Lightwood e della sua squadra per l'operazione congiunta con l'Antidroga. Quando comincerete?>>
<< Quando avremo i documenti firmati.>> disse semplicemente Manchester alzandosi.
<< E quando andrete dalla Signora?>>
<< Ora.>>

 

 

 

 

 

La stanza era buia ma Raphael sapeva perfettamente dove si trovasse ogni oggetto, come un cieco che conosce l'ambiente in cui vive e sa dove ritrovare ciò che cerca.
Gli bruciavano da morire gli occhi, forse aveva passato troppo tempo davanti al pc quel giorno, o forse era stata la presenza mefistofelica di Bane a renderlo più nervoso del solito.
Aveva giusto bisogno di fiondarsi nei problemi sentimentali di un deficiente che volava di fiore in fiore senza aver il coraggio di fermarsi una volta per tutte. Purtroppo le persone come Magnus non concepivano l'esistenza di qualcuno che non avesse un carattere come il loro o che non rispondesse agli stessi schemi comportamentali.
La cosa, comunque, non lo riguardava e forse per Alexander era anche meglio che stessero lontani e che avessero un rapporto amichevole o anche semplicemente lavorativo, soprattutto in un momento del genere.
Alexei gli aveva fatto pervenire un paio di nomi in più, ma attualmente non gliene sarebbe potuto fregar di meno, non riusciva a far altro che pensare a quella dannata donna e alla telefonata che gli aveva fatto. Era diventato il suo chiodo fisso, un ricordo crudo che ne svegliava altri da tempo assopiti.
Probabilmente c'era anche lei trai nomi di Alexei, ma quello stronzo non glielo aveva detto. Scelta saggia ad essere onesti, visto come aveva reagito alla telefonata probabilmente, se a dirglielo in faccia fosse stato l'uomo lo avrebbe cacciato fuori prima di farsi prendere da una bella crisi di panico in piena regola.
Ora le sue opzioni non erano molte: aveva già stretto un accordo con il Club, sapeva di poter contare sui Chen e anche su Magnus ovviamente, sempre che il cretino capisse finalmente la portata della tempesta in cui stavano entrando e la smettesse di preoccuparsi del fatto che l'uomo che gli interessava, per una volta nella sua dannata vita, non si prostrava ai suoi piedi facendogli intendere quanto lo desiderasse ma si limitasse a comportarsi da persona normale e a trattarlo come tutti.
Rimaneva il fatto che oltre ai suoi amici dovesse correre ai ripari e capire come stessero gli altri.
Per questo ora si trovava al buio, nel salotto di casa sua, con il telefono in mano.
Prese un respiro profondo e selezionò il numero che gli interessava, attendendo con pazienza che il suo interlocutore rispondesse.

 

<< Pronto?>>

 

<< Buona sera, Camille.>>

















 

Salve.
Con questo capitolo si entra in un preciso arco narrativo, se vogliamo chiamarlo così, quello dell’indagine congiunta tra Omicidi ed Antidroga.
Alcuni personaggi, seppur caratterialmente diversi da come sono stati creati, sono originali del mondo di Clare, altri sono OC.
Manchester è il Capo dell’Antidroga, apparso in “Tendere una mano”. Il Capo Crouz, SWAT, è l’uomo che incaricò Jace di parlare con Raphael. Quanto a Seth, lui apre le porte della vita privata di Alexander come ancora non era stato fatto.
Grazie come sempre a chi legge la storia e a chi si ferma per recensire.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII- Topi di fogna, parte seconda. ***


Capitolo VIII
Topi di fogna.
-seconda parte-

 

 

 

 

 

La luce che inondava la stanza lo accecò senza pietà.
C'erano degli strani rumori attorno a lui ma quelle macchie bianche, come una vecchia pellicola incendiata, gli rendevano impossibile vedere alcun ché.
Se avesse dovuto tirare ad indovinare avrebbe detto che erano passi affrettati e lamenti soffocati, il suono del metallo che cozzava con altro metallo, ma di un tipo ben diverso rispetto a quello che era abituato a maneggiare lui.
C'era odore di disinfettante però, quello lo distingueva più che bene, e se sentiva proprio quel pungente e persistente olezzo di pulito voleva dire solo una cosa: era in ospedale.
Un fruscio al suo fianco lo fece muovere, ma ancora il mondo gli appariva sfocato e non riusciva ad aver senso.
<< Ti sei svegliato finalmente.>> gli sussurrò una voce bassa e roca. Pareva quella di qualcuno costretto per troppo tempo a star zitto, forse per sua volontà, forse contro questa.
Era solo una macchia sfocata e rossiccia, vicina ad un'altra bianca, pallida, bruciacchiata. Potevano le due cose coesistere?
Provò a parlare ma non uscì nessun suono dalle sue labbra secche, screpolate, tagliate e ricucite.
<< Stai tranquillo, è normale non riuscire a parlare, non subito.>> poi un verso sprezzante. << Lo senti io che cazzo di voce ho? E sono sveglio da un paio di giorni… >> continuò la macchia rossa.
Voleva chiedergli cosa fosse successo, perché la sua testa martellasse
in modo indecente, neanche un'incudine vi stesse battendo sopra, eppure ogni cosa pareva così faticosa…
<< Si è svegliato?>> chiese una terza voce, un accento più marcato, un timbro caldo e vagamente cantilenante. Pareva preoccupato, apprensivo, gli importava della sua salute. Perché? Chi era?
<< Sì, ma non credo sia del tutto con noi.>> rispose la macchia.
<< Il colpo è stato duro e anche se è forte è ancora giovane, forse troppo… >> bisbigliò
l'altro infine, quasi se lo stesse dicendo da solo, come un memo che non doveva dimenticare.
<< Ma ha fatto il suo dovere, molto meglio di quanto non abbiano fatto altri prima di lui.>>
<< Voi direste che è un eroe, no?>> chiese la voce calda.
<< Sì, diremo così… voi?>>
<< Noi no, anche se ormai è entrato anche nella nostra cultura il vostro ideale di eroe.>>
<< E allora cos'è?>> domandò ancora la macchia rossa con una nota triste a farle da sottofondo.
<< Un beato, infiammato dal fuoco di
Allah.>>

 

 

 

 

 

Essere convocati nell'ufficio del tuo Capo il giorno dopo che uno dei tuoi collaboratori, quello più problematico e che tutti guardavano con più apprensione per altro, se ne era andato indignato da una stupida lite infantile con l'altro tuo collaboratore, che nessuno si sarebbe mai immaginato in grado di tener testa all'altro -sciocchi che sottovalutavano Simon- non era proprio una delle cose migliori che ti potesse capitare.
Se a ciò ci si aggiungeva che la tua vittima corrispondeva, ma non ce ne era la certezza, ad un sicario che aveva tentato di uccidere il sopracitato collaboratore problematico, era logico e ovvio pensare che le cose fossero collegate.
Dall'equazione non bisognava eliminare la grande sfortuna dei Lightwood.
L'unica nota positiva di quella giornata era che il letto di Seth era una delle cose più comode e magnifiche di questo mondo, malgrado Alec ne ignorasse il motivo, e che dopo una notte passata lì sopra poteva anche andare in tribunale, per quanto lo riguardava. Forse avrebbe accettato la sempiterna proposta ad andare ad abitare con lui, sarebbe stata una convivenza felice e fruttuosa sotto ogni punto di vista, non poteva negarlo.
Con un colpo di polso scoprì l'orologio che segnava due minuti all'orario programmato.
Aveva lasciato Simon solo a cercare di ricostruire la possibile vita di quel Potter fino al giorno in cui era scomparso. Se il ragazzo si fosse azzardato a fargli un'altra battuta sul ben più noto Potter, come a suggerirgli che magari era introvabile perché in giro per le foreste inglesi in cerca di horcrux, si sarebbe beccato uno dei classici compiti da matricola: andare a bussare di casa in casa per chiedere se e quando avevano visto l'ultima volta la vittima. Una palla mortale visto che il novanta percento di quelle persone risultavano essere vecchietti che non vedevano l'ora di raccontarti qualcosa o gente che non si faceva gli affari suoi ma che di certo non si era fatta neanche gli affari che interessavano a te.
Alec aveva un enorme repertorio sui segreti di non sapeva lui neanche quante palazzine in tutta la città, alle volte sfoderava qualche storia che a confronto i migliori romanzieri del mondo si sarebbero solo dovuti vergognare.
La targhetta sulla sporta dell'ufficio di Blackthorn era lucida come sempre, Alec poteva scorgervi dentro immagini distorte di tutto l'ambiente. Era lucida quasi quanto quella dello studio del Dottor Lawson, da cui per altro sarebbe dovuto tornare a breve per il consulto mensile, quella di targhetta era proprio uno specchio.
Non sapeva perché la sua mente si stesse concentrando sulle targhette degli uffici e sulla loro lucentezza, ma ciò che era ovvio invece era che mancasse qualcuno all'appello per poter cominciare quell'incontro ed Alec sperava vivamente che questa persona non fosse Cristiano Santiago.
Il ragazzo si sgranchì un po' le gambe, allungandole nello spazio vuoto del corridoio quando dei passi pesanti, marziali, gli giunsero alle orecchie.
Con andatura sicura una figura alta e robusta si guadagnò la scena. Vestito con la divisa d'ordinanza della SWAT Alec non poté non riconoscere il Capo Andros Crouz, colui che dirigeva la sezione di suo fratello.
L'uomo era conosciuto da tutto il Dipartimento, le sue origini miste, padre portoghese e madre greca, gli avevano donato un incarnato abbronzato e caldo, come i suoi capelli neri e mossi e gli occhi verdi, adombrati dalle ciglia folte e dalle sopracciglia spesse. Era imponente, sia per la sua massa muscolare che per il suo portamento ritto e fiero, i pantaloni da combattimento e la maglia nera non aiutavano a mitigare le forme gonfie e prorompenti di quei muscoli ed Alexander si lasciò per un attimo il tempo di pensare che se ma si fosse ritrovato a dover sostenere un corpo a corpo contro quell'uomo avrebbe potuto vincere solo sparandogli in testa come era solito far lui.
Il Capo Crouz gli rivolse un cenno e gli sorrise, la mascella squadrata era ispida di barba corta ma curata, una patina perenne che rendeva le sue guance quasi rossicce per i riflessi che vi si potevano vedere.
Malgrado facesse ancora discretamente freddo l'uomo indossava solo quella semplice maglia nera a maniche lunghe con il logo della SWAT stampato sul pettorale sinistro, probabilmente era per colpa sua se Jace aveva deciso, da quando era stato preso in squadra anni prima, che anche lui doveva vestirsi leggero d'inverno, mettendo in mostra quei muscoli che troppo stesso Alec aveva trovato altri ad ammirare.
Un moto di stizza gli smosse la mente, lo infastidiva che la gente fissasse suo fratello, nessuno doveva farlo.
Si era reso conto con sua sorpresa, nel corso degli anni, che tollerava molto meno apprezzamenti volti verso Jace che quelli volti verso Izzy: che sua sorella fosse bella da togliere il fiato era vero, ma si circondava sempre di gente che poteva mettere al loro posto con facilità, senza contare che essendo una donna – e questo in parte gli dispiaceva ed in parte gli dava sicurezza, Alec se ne vergognava un po', ma era così- sapeva perfettamente quanto la gente potesse essere stronza, cattiva, volgare e pericolosa oltre che invidiosa fino al midollo. Isabelle, in parole povere, sapeva quando e come osare e quando e come fermarsi per non essere additata come “poco di buono”, cosa che l'aveva sempre fatta soffrire da piccola. Non era certo colpa di sua sorella se madre natura gli aveva dato delle curve da capogiro, ma lei le sapeva “dosare”, per così dire, malgrado quello che dicesse sua nonna sul fatto che non sapesse tenere le ginocchia unite.
A ben pensarci era un modo molto elegante di dire la cosa…
Rimaneva il fatto che si “fidava” molto di più di Isabelle sotto quel punto di vista e anche se la teneva comunque sempre sott'occhio, la ragazza si era guadagnata a suon di urla, accuse e rivendicazioni, tutta quell'indipendenza che crescere con due fratelli maggiori spesso toglieva.
Per Jace non era così, Alec lo sapeva e ancora una volta se ne vergognava.
Vedere le ragazze lanciare sguardi affamati in direzione di suo fratello, sentire i loro commenti, vedere le loro mani morte su di lui lo facevano andare in bestia come nessuno poteva immaginare.
Isabelle era un “Guardami. Ammirami, anche da vicino se vuoi, ma non mi toccare”.
Jace era un “Sono qui, bello come il sole. Guardami. Ammirami. Toccami”.
Alec era un “Vi spezzo le mani a tutti quanti”, ma questi sono dettagli.
Forse era perché Jace era il suo fratellino, il primo che aveva visto, che gli era stato presentato. Forse perché erano sempre stati insieme in ogni momento, avevano fatto insieme ogni cosa e vederlo rapportarsi con altri con la stessa intimità, la stessa vicinanza, che un tempo era stata solo per lui lo rendeva nervoso, di cattivo umore. Forse ne era solo terribilmente geloso.
C'era stato un periodo oscuro della sua adolescenza, i suoi sedici anni per la precisione, in cui tutta la sua vita era protesa nell'essere il più distante -fisicamente- da suo fratello. Era stato il terribile momento in cui gli avevano chiesto come sarebbe dovuto essere il suo ragazzo ideale ed in cui, riflettendoci dopo, da solo, nella sua camera, era sbiancato nel realizzare che moltissimi tratti che trovava piacevoli, interessante, intriganti, giusti, disegnavano la mappa perfetta che era la personalità e la presenza di Jace.
Non gli piaceva ricordarlo, non gli piaceva per niente, specie perché gli si chiudeva lo stomaco e si sentiva male, ma era successo. Era stato un lampo a ciel sereno, un terribile momento in cui Alec si era detto che suo fratello fosse il suo uomo ideale ed il terrore era sceso su di lui portandolo a vomitarsi anche l'anima piegato sul water del suo bagno.
Aveva passato ore interminabili, giorni lunghissimi, mesi infiniti a ragionare sul fatto. Gli batteva il cuore all'impazzata ogni volta che Jace lo sfiorava, sudava freddo se erano vicini, gli veniva la nausea se lo abbracciava e si rodeva di acida invidia verde di bile ogni volta che una qualunque ragazza guadagnasse anche solo un briciolo d'attenzione di suo fratello.
Vivere i propri sedici anni convintissimi di avere una cotta per il proprio fratellino, più piccolo di un anno solo, certo, ma comunque il suo dannatissimo fratellino, lo aveva logorato nel corpo e nella mente. Già si sentiva sbagliato di suo, già la società gli ricordava quanto fosse strano essere gay, quanto fosse solo un ruolo caricaturale da film comico o cabaret, doveva anche scadere nell'osceno con una cotta incestuosa? Davvero? Non poteva essere un po' più fortunato per una volta nella sua dannatissima vita?
Più di un anno, questo il tempo che gli era servito per rendersi conto che non era davvero innamorato di suo fratello, che ne era geloso perché lo amava sì, ma non in quel modo. Jace era semplicemente il suo Jace e la gente non doveva rubarglielo perché era quell'anima affine alla sua che da sempre camminava stringendogli la mano, guardando a lui con fiducia e con orgoglio perché Alec aveva deciso di tenerlo alla sua destra come il più fidato dei compagni.
Alla fine aveva capito che il fatto che Jace rappresentasse il suo modello di ragazzo ideale non era strano. Ad onor del vero glielo aveva fatto capire Isabelle quando, raccontandogli dei ragazzini che le facevano la corte in primo liceo, ammise di sentirsi insoddisfatta da quelle attenzioni perché ogni singola volta li paragonava a lui e Jace e trovava sempre qualche difetto.
Izzy guardava a loro due come modelli ideali perché erano i suoi fratelloni, gli “uomini” che gli erano più vicini, che le volevano bene, la conoscevano e la proteggevano pur senza opprimerla.
Così si era scoperto a non volere “Jace” o un ragazzo “come Jace”, ma qualcuno con cui avere lo stesso rapporto di fiducia e spensieratezza che aveva con il fratello.
Contorto e lunghissimo come ragionamento ma almeno c'era arrivato e non era morto di vergogna, imbarazzo e disgusto verso sé stesso.
Oh, ed era riuscito a tornare vicino a suo fratello come lo era una volta, quanto gli era mancato quello.
Batté le palpebre allucinato dalla velocità con cui la sua mente si era addentrata tra pensieri lontani e ancora dolorosi, ferite che probabilmente non si sarebbero mai rimarginate del tutto e avrebbero continuato a dargli quella terribile sensazione di viscido che lo aveva costretto troppe volte a nascondersi ed isolarsi.
Sorrise, o almeno ci provò, al Capo Crouz che lo guardava accigliato.
<< Tutto bene ragazzo?>> gli chiese con voce curiosa.
Alec annuì. << Sissignore, mi scusi, ho avuto un'illuminazione improvvisa a proposito di un caso. Ha per caso detto qualcosa?>> rispose educato come sempre.
Crouz scosse la testa. << No, ti sei solo bloccato a fissare il vuoto. Ti capita spesso? Questi lampi di genio intendo.>> anche l'uomo gli sorrise ma a differenza sua ci riuscì correttamente.
Diamine, forse era davvero fatto male, ma non per i suoi gusti sessuali, proprio prodotto male dall'inizio, che gli mancasse qualche muscolo per sorridere come la gente normale? Magari era rotto.
Provò a replicare il gesto. Niente, di nuovo un sorrisetto storto. << Ogni tanto, non quanto vorrei.>>
<< Beh, speriamo che sia stata una vera illuminazione allora. Su Tenente Lightwood, entriamo, stanno aspettando solo noi.>>
Quindi era Crouz quello che stavano aspettando? Perché il Capo della SWAT doveva incontrarsi con il Capo della Omicidi e con lui? Credeva che la convocazione fosse per parlare del suo caso attuale e di Magnus che se ne era andato e che, tra parantesi, non sentiva da quando gli aveva detto che poteva farlo.
Unire due Capi di due sezione diverse significava null'altro che un incarico congiunto, sperava vivamente che non si trattasse di un'operazione visto che aveva avuto a che fare di recente con una avvenuta trent'anni prima. Malgrado le sue speranze però, se Andros Crouz era lì significava che alla Omicidi sarebbe presto servita una squadra di sfondamento per risolvere qualche problema.

Magnifico, proprio quello di cui avevo bisogno ora.

Si alzò ugualmente in piedi e seguì l'uomo che aveva già bussato alla porta per poi aprirla.
All'interno dell'ufficio il Capo Blackthorn sedeva come sempre dietro alla sua scrivania ingombra di carte ordinate in pile la cui logica era conosciuta solo all'uomo.
Sulla sedia di sinistra, con lo sguardo puntato verso la finestra e le gambe accavallate stava un altro uomo che, malgrado Alexander lo conoscesse di fama, identificò per prima cosa come colui che lo aveva aiutato ad entrare al poligono lo scorso Novembre.
Il Capo Manchester, Hector se non errava, gli sorrise con cortesia ed Alec, di logica conseguenza, comprese che ciò che stava per sentire non gli sarebbe piaciuto sotto molti aspetti ma che sarebbe anche stato il suo primo incarico da Tenente, il primo serio, quello che aspettava per mettersi alla prova e dimostrare di essersi meritato il proprio titolo quella volta.
Dopotutto era un uomo che viveva di contraddizioni, lui.
Una sferzata di brividi gli calò lungo la schiena e con sua somma sorpresa Alexander riuscì ad identificarla con facilità. A quanto pare aveva sbagliato per tutta la vita: il piacere, l'attrazione viscerale verso i pericoli e le difficoltà non erano andati solo ai suoi fratelli.
Forse non aveva tutti i muscoli giusti per sorridere, ma se non fosse stato capace di controllarsi così bene, gli uomini presenti in quella sala avrebbero visto il ghigno pieno d'aspettativa che avrebbe teso le sue labbra.


 

<< Lascia che ti mostri come lavorano i grandi, ragazzino, forse un giorno toccherà a te.>>

 

A quanto pare era finalmente giunto quel momento.

 

 

 

In un modo che gli era tuttora oscuro, quel lato della città, quei vicoli per la precisione, erano sempre stati immersi nell'ombra più fredda. Persino d'estate lo erano, la gente del quartiere vi andava per trovare un minimo di refrigerio, vi si fermavano i camioncini dei gelati esponendo senza paura la merce all'aria pesante d'umidità e vi si ritrovavano quelli come lui.
Non era una cosa fatta di proposito, non era un titolo che si erano cercati e non era una cerchia in cui si entrava facilmente. Erano un gruppo di uomini e donne che si erano trovati accomunati da particolarità ed inclinazioni che gli altri non avevano, che fuggivano dal sole e dalla calca, che non amavano la folla ma poche persone selezionate con cura. Non tolleravano il popolo, la massa, ma solo coloro che più gli erano affini.
Offrivano servizi particolari, alcuni complementari agli altri, alcuni completamente volti al piacere personale, altri ancora alla sopravvivenza.
Era un buisness di esseri unici, era un'intera categoria, una specie, una famiglia, un Clan.
Li chiamavano Figli della Notte, perché la maggior parte di loro agiva quando la stella maggiore calava, meglio ancora se nel cielo neanche la luna splendeva.
C'era stato un tempo in cui anche il suo ex capo, Dracula, era stato definito parte del Clan, un tempo lontano in cui lui veniva chiamato “uccellino” e doveva sottostare ai comandi del suo “creatore”, una persona che poteva decidere qualunque sua azione ma che aveva anche il compito di istruirlo e proteggerlo.
Quello era stato il periodo in cui aveva conosciuto Alexei ed il suo Club, il Club del Clan, un ripetersi di suoni che gli avevano dato l'idea di uno stupido gioco a cui non voleva giocare.
Raphael voleva imparare il mestiere, voleva imparare a sparare, a capire quale fosse l'affare giusto, voleva imparare a diventare spietato come le persone che gli avevano portato via suo padre e vendicarlo: questo era tutto ciò che desiderava, ciò che i suoi fratelli non sembravano voler fare, non nell'immediato.
Era stato il momento in cui si era ritrovato davanti Pierre, con il suo sorriso morbido e lucente e la pronuncia arrotondata su ogni “r”, quelle “s” che scivolavano via tra i denti perfetti, del colore dell'avorio levigato. Nelle sue orecchie risuonava ancora l'eco di quella risata, il suo nome pronunciato come nessuno aveva più fatto in seguito.

 

<< Rafael? Qu'est-ce que tu es en train de regarder? Est-ce qu'il est quelque chose de beau?>>
<< Hermoso.>>
Il giovane rise spensierato, un suono chiaro e cristallino, forte e delicato al contempo.
<< Cos'hai detto? Sai che non parlo spagnolo.>>
<< Ed io non parlo francese.>>

 

Chiuse gli occhi poggiando le spalle contro il muro di quel vicolo che un tempo aveva ritenuto confortevole e salvifico. Quelli erano i giorni in cui arrivare in quel pezzo di strada divorato dai palazzi che vi incombevano sopra significava essere a riparo, significava esser tornato alla base.
Ma ora non c'era nessuno che si poggiava al suo fianco e gettava la testa indietro per riprendere fiato, nessuno che ansimasse tutto lo sforzo della corsa e mormorasse basse e quasi eleganti imprecazioni contro la canna ancora bollente della pistola che non poteva rimetter al suo posto, bloccata tra il bordo dei pantaloni ed i reni.
Non voleva aprire gli occhi, non voleva vedere ancora il vuoto, la desolazione che era condannato ad aver al proprio fianco.
Perché doveva sempre essere solo? Perché non rimaneva mai nessuno?
Era una maledizione, lo sapeva, aveva ragione sua madre: se vendevi l'anima al diavolo poi nessuno che ancora possedesse la propria voleva starti vicino. Ma la donna credeva anche che lui ancora avesse la sua, quindi forse non doveva darle troppo ascolto.
Con un gesto automatico, che non faceva più da moltissimo tempo, si portò una mano al collo, per poi farla scivolare lentamente sul torace. Lì sotto aveva portato per anni la collana con la croce di suo padre, ora vi rimaneva solo la cicatrice, l'ombra di un ferro bollente che lo aveva marchiato come le bestie.
Marchiato con il segno del Signore, ma sempre un marchio restava.
Aprì piano gli occhi, con la lentezza di chi non vuole abbandonare il sonno e gli ultimi strascichi di un sogno che si è amato, di una dimensione dove suo padre era vivo, Pierre gli sorrideva luminoso come la Stella Polare e Ragnor gli poggiava rassicurante una mano sulla spalla.
Era un'ironia terribile quella che lo vedeva perdere le persone più importanti della sua vita sempre con il sole e con il caldo. Ben pensandoci Raphael aveva cominciato ad odiare il giorno proprio per questo, perché era il momento in cui tutte le anime che lo circondavano s'assopivano in silenzio, senza che lui potesse far nulla.
Batté le ciglia cercando di non farsi prendere dai ricordi, di scacciare quei vecchi fantasmi -bellissimi ma ormai scomparsi- dalla vista.
Quando sentì il rumore dei tacchi che calpestavano il cemento duro e crepato del marciapiede gli parve di tornare a respirare, anche se solo per pochi secondi. Si godette l'ossigeno che gli riempiva i polmoni, conscio di doverne far scorta prima di incontrare quella figura che, involontariamente, gli avrebbe tolto il fiato.
Fu la scarpa di lucida vernice blu la prima cosa ad entrare nel liminare del suo campo visivo, poi la caviglia fine velata di grigio, la gamba lunga e la stoffa dritta e senza pieghe del vestito navy ed i lembi del cappotto color fumo. C'era una sciarpa di lana bianca a coprirle il collo fine, ma il viso perfetto e meraviglioso di Camille risaltava comunque su tutti quei toni cupi.
I capelli biondi erano lasciati sciolti sulle spalle, non acconciati alla perfezione come sempre, erano morbidi, erano liberi, erano come Raphael li ricordava, come ricordava lei ogni volta che gli veniva incontro e gli sorrideva, sempre da un passato che pareva lontanissimo ed invece non lo era.

 

Non per noi. Non per me. Per me mai.

 

Eppure come sempre furono gli occhi a fregarlo. Contornati da un trucco leggero, le ciglia chiare erano colorate di nero e donavano al suo sguardo una profondità ulteriore che a Raphael non sarebbe comunque servita. Era l'azzurro accecante delle iridi a stroncarlo ogni volta.
<< Rafael.>> pronunciò in quel modo tanto comune a tutti i francesi.
Il giovane si obbligò a sorriderle. << Camille.>>
Si dissero solo questo, poi rimasero a fissarsi per interminabili minuti.
Erano predatori che si scrutavano a vicenda, che cercavano di ricordare il loro avversario, di richiamare alla mente tutti i punti deboli e quelli di forza, le tattiche giuste per attaccare.
Se lui fosse stato un'altra persona a caso, tipo Magnus, la prossima massa sarebbe stato azzannare la preda dritta al collo. Ma malgrado ciò che dicevano i suoi amici, malgrado nessuno di loro avesse mai capito fin in fondo che genere di rapporto ci fosse tra loro due, di certo non era d'odio o di sfida, non erano nemici, non lo erano mai stati, ma erano risultato dello stesso ambiente criminale, non sociale, quello no.
Camille veniva dalla Francia, dalla sua amata, amatissima Francia, dove tutto era bello ed era arte, dove per le vie camminavano persone estasiate dalla storia che nascondeva ogni oggetto, una poesia ed una fama costruita sul nome di quella che molti reputavano la città più romantica al mondo.
Raphael veniva dai sobborghi del quartiere messicano, senza aver mai visto un solo lembo di quella terra che tutti gli dicevano essergli natia, cresciuto tra l'asfalto, il cemento ed i palazzi popolari.
Ma quanto erano simili invece.
<< Ti trovo bene.>> le disse per amor di verità.
Lei gli sorrise. << Anche tu, te l'ho sempre detto che i completi classici ti donano.>>
<< Un modo come un altro per dirmi che sono antiquato?>>
Camille si bloccò davanti a quel suo tentativo palese di scherzare e subito dopo si sciolse.
L'algida regina, o stronza puttana come la chiamava Magnus, lasciò il posto alla piccola ed impertinente Camille che aveva imparato a conoscere lui.
<< Sai che sono sempre elegante, anche quando insulto la gente.>> disse soddisfatta.
<< Oh, era un insulto? Mi spiace Belcourt, stai perdendo colpi allora, una volta eri più pungente.>>
Lei fece una smorfia teatrale. << Mh, è il jet lag.>> disse alzando il mento con fare altezzoso.
Una minuscola risata sfuggì dalle labbra del giovane che se ne pentì immediatamente quando l'altra gli si avvicinò a grandi passi, l'espressione trionfante.
<< Ma allora sai ancora come si ride!>> cinguettò allungando in fine le braccia verso di lui.
Raphael la strinse in un abbraccio leggero ma fermo, annuendo sommessamente.
<< Certo che lo so, Camillé.>>

 

 

 

 

 

<< È una situazione particolare, delicata anche aggiungerei.>>
<< Si tratta del mio caso, signore?>>
<< Proprio di quello ragazzo.>>
Il Capo Manchester aveva annuito con lentezza. << Lo scheletro di quell'uomo potrebbe essere quello di Trevor Potter e se così fosse questo significherebbe che è stato trovato un assassino.>>
<< Sta parlando dell'uomo che ha tentato di sparare a Bane?>> chiese Alec serio.
Da quando si era seduto la sua mente aveva cominciato a lavorare al doppio della velocità, una cosa che non gli succedeva più da tantissimo tempo. Quasi un anno, circa.
Non era stato difficile capire dove volessero andare a parare: trovavano i resti scheletrici di un uomo, probabilmente uno spacciatore, che riportava danni da morte violenta, omicidio di certo; tra le possibili identità dell'uomo c'era quel Potter, quello per cui Jace era andato a far domande a Raphael, quello che, a quanto dicevano i suoi superiori, Hodge aveva ammesso essere il sicario ingaggiato per uccidere Magnus.
Non lo avevano chiamato perché quel genio di Bane se ne era andato, neanche perché i suoi sottoposti avevano litigato furiosamente e lui era stato costretto a chiuderli entrambi nella sala riunioni. Lo avevano chiamato perché Alec aveva avuto ragione da vendere: avevano trovato il cadavere di Trevor Potter.
Poteva quindi facilmente dedurne che se c'era di mezzo anche l'Antidroga Potter avesse un giro d'affari che coinvolgeva tanto lo spaccio quanto gli omicidi su commissione.
Si domandava solo perché stessero coinvolgendo anche lui e non l'OCCB, che volessero semplicemente spiegargli le cose prima di togliergli il caso? Aveva seriamente sperato che quella fosse la volta buona per dimostrare chi era davvero.
Il suo lavoro rimaneva comunque quello di assicurare criminali alla giustizia e dar finalmente sollievo alle famiglie, se togliergli il caso era la cosa più giusta da fare, malgrado non gli andasse a genio, Alexander avrebbe stretto i denti e accettato.
<< Che ordini ho, signore?>> domandò subito mettendo in chiaro che avrebbe rispettato le direttive senza protestare.
Lo sguardo di Blackthorn gli gravò pesante sulle spalle eppure Alec seppe di aver detto la cosa giusta, che il suo capo era compiaciuto dalla richiesta d'indicazioni. Gli aveva detto che non avrebbe fatto di testa sua, che non sarebbe stata un cosa personale ma che se questa fosse stata invece la motivazione per cui lo avrebbero sollevato dal caso l'avrebbe accettata senza batter ciglio.
Al suo fianco Alec vide Crouz ridacchiare divertito e Manchester sorridergli bonariamente.
<< Il mio queste domande non le fa, dice solo come ha intenzione di agire e poi sparisce. Mi tocca sempre mandargli dietro qualcuno.>> disse con leggerezza Andros annuendo alle sue stesse parole.
Alec cercò disperatamente di non arrossire: stava parlando di certo di quella testa calda di suo fratello. Dio, riusciva a farsi riconoscere sempre.
<< Che Andrew abbia avuto la fortuna di prendere il Lightwood più pacato tra le sue fila non ci sono dubbi.>> rispose Manchester, << Per questo siamo anche convinti, tutti noi, che sarai in grado di gestire questo caso.>>
Sorpreso il ragazzo cercò con lo sguardo il suo Capo che annuì semplicemente, prima di lasciare che fosse l'altro uomo a continuare.
<< Starkweater ha ammesso di aver ricercato Potter in un giro specifico e non di averlo trovato tra i vicoli dei bassifondi.
Sappiamo perfettamente che a New York, così come in molte altre città, sono presenti reti di criminali organizzati che offrono i loro servigi al migliore offerente. Ne abbiamo presi diversi in questi anni ma in un modo o nell'altro chi rimane riesce sempre a nascondersi e a riorganizzarsi da qualche altra parte.>>
Un fastidioso prurito si generò sulle nuove cicatrici di Alec. Riuscivano sempre a scappare?
Prese un respiro profondo per porre quella domanda così scomoda. << Abbiamo un'altra talpa, signore?>>
Manchester scosse la testa. << Non come la intendi tu. Potrebbero essere agenti che alla fine del turno bevono un goccio e parlano troppo. Abbiamo avuto casi in cui un uomo che non era in servizio risultava esser appena entrato al Dipartimento quando invece decine e decine di testimoni potevano assicurare di averlo visto per tutta la serata alla festa del figlio. No, sono solo persone sveglie, capaci e ben organizzate che sanno come raggiungere i loro obbiettivi e non si fanno scrupoli. >>
<< Hanno usato il badge di un collega morto, una volta, non si pongono il problema.>> spiegò Crouz.
<< Con la scoperta del quaderno di Asmodeus però, moltissimi vecchi “membri” di questa rete stanno tornando in questa città e c'è la seria possibilità che riprendano le loro vecchie posizioni.>>
<< Gli ci vorrà però del tempo per riorganizzare il tutto e potrebbe essere la nostra unica chance di catturarli. >> continuò Blackthorn. << Essendo tuo il caso di Potter e dovendo tu indagare sulle cause della sua morte, anche tutto ciò che ne deriverà starà a te. Sappiamo com'è morto, chi lo ha ucciso e come, ma non sappiamo con chi lavorasse, da quanto, perché lo facesse, com'è entrato nel giro.>>
<< Parlando anche di traffico di stupefacenti avrai l'appoggio della mia sezione. Sarà un'azione congiunta, tu ti occuperai degli assassini e noi degli spacciatori, le due cose sono estremamente legate in questo caso.>>
Alexander li guardò attentamente senza perdersi una sola parola di ciò che avevano detto, ma il dubbio gli rimaneva.
<< Perché non è stata coinvolta l'OCCB se questo è un caso di crimine organizzato?>>
Non voleva che gli togliessero quell'opportunità, ma non poteva neanche ignorare la cosa.
Manchester gli sorrise di nuovo. << Questa è una giusta osservazione. Si tratta effettivamente di criminalità organizzata ma il buisness principale rimane quello degli assassinii su commissione e dello spaccio illegale. Il nome di Potter è uscito durante un mio caso e poi durante un vostro caso, se tirassimo in ballo anche l'OCCB ci sarebbe troppa confusione ed il Capo Garroway ha accettato con facilità di lasciarci tutte le beghe del caso. Ci forniranno comunque qualunque informazioni ci necessiti e a tal proposito… >> disse cercando una cartella su tavolo.
Blackthorn lo lasciò fare per un po', poi stanco di vedersi scombinare tutti i fogli gli fece cenno di ritirare la mano e prese lui, subito a colpo sicuro, ciò che serviva.
Porse al Alec una cartella ma non la lasciò subito, puntò gli occhi nei suoi e lo fisso serio.
<< Sappi che è stato scelto lui solo ed unicamente perché sono certo che saresti stato tu stesso a chiederlo. Alcuni pensano che non si dovrebbe avvicinare neanche lontanamente a questo caso.>> e così dicendo lanciò uno sguardo a Crouz che annuì infastidito.
Alexander fece un secco cenno con il capo e poi prese la cartellina marrone in mano.
<< Per qualunque cosa dovrai richiedere alla Crimine Organizzato sarà lui il tuo referente, ti aiuterà in tutto entro le sue possibilità. Non è un'operazione congiunta di tre sezioni, il Capo Crouz è qui perché ci ha aiutato con le domande su Potter fatte a Santiago e sarà di nuovo con noi per accordare eventuali irruzioni e blitz una volta scoperto il covo della rete criminale. Ricorda però che è un caso nostro. Stai indagando su un omicidio che si è rivelato essere più di ciò che non sembrava. Non dimenticarlo.>>

La storia della mia vita: è tutto molto più di quello che potrebbe sembrare.

Non aveva neanche bisogno di aprire il fascicolo, sapeva il nome ed i recapiti di chi avrebbe trovato e la cosa gli andava sorprendentemente bene.
<< Sissignore, non la deluderò.>>
Blackthorn sorrise finalmente da quando era iniziato quel colloquio.
<< Non credo tu ne sia in grado, Lightwood.>>

 

 

 

 

 

Seduta comodamente sul divano del salone del suo amico Camille fece girare pigramente il vino nel calice lucidato alla perfezione. Tra quanto era denso il liquido e quanto trasparente il vetro avrebbe potuto specchiarcisi dentro ma in quel momento il suo aspetto, stranamente, era l'ultimo dei suoi problemi.
Raphael era andato nel suo studio a rispondere ad una telefonata di lavoro e sebbene in altri casi Camille sarebbe stata felice di seguirlo e ridacchiare maleficamente di tutti i problemi che l'altro doveva affrontare, non si era mossa dal sofà e lui non aveva in nessuno modo replicato la cosa.
Da quanto tempo era che non entrava più in casa di Raphael? Da quanti anni?
C'era stato un periodo della sua vita in cui aveva creduto che ci si sarebbe trovata in continuazione, invitata o autoinvitata, un momento in cui non aveva neanche pensato che quella sarebbe stata la sua casa ma magari una villetta elegante e chiara, con un piccolo giardino sul retro in cui far crescere fiori esotici provenienti dalla Provenza.
Non era stato così, evidentemente.
Quando anni fa se n'era andata da quell'America bugiarda, che le aveva promesso tanto ma che l'aveva solo illusa, non aveva progettato di tornarvi così presto.
Certo, erano passati quasi sette anni, ma la cosa non cambiava.
Ne aveva otto la prima volta che era volata oltre l'Oceano per una vacanza, solo per godersi gli Hampton. Poi vi era tornata per altre fughe ricreative, come le chiamava sua madre, ed in fine vi era atterrata per rimanervi che di anni ne aveva diciassette. Era stato un periodo felice, in cui viveva la sua vita adolescenziale senza problemi e pensieri, protetta ancora dalla stessa campana di vetro che l'aveva ospitata a Parigi. Le avevano aperto le porte del Clan, aveva cominciato ad osservare lo Zio nel suo ambiente, mentre stringeva accordi per l'azienda di famiglia, quando ancora ignorava di cosa si occupassero per altro.
Erano stati i giorni in cui aveva conosciuto un piccolo Raphael Santiago appena quindicenne, quando lo chiamava uccellino e lui si arrabbiava ma non poteva dirle nulla, quando le fu messa per la prima volta in mano una pistola, in un campo pieno di bersagli e le fu detto di sparare dove volesse. Un revolver placcato di rosa, con il calcio ospitante proprio quello stesso fiore intagliato. Era la sua arma preferita, non se ne separava mai, neanche in quel momento, che giaceva al sicuro nella sua custodia nella borsa firmata che aveva lasciato sul tavolino.
Erano davvero dei bei tempi… andare alle feste con la sua Famiglia, incontrare Magnus Bane ed i suoi occhi scintillanti come pietre preziose… era così bello, erano stati così bene assieme. Glielo ripetevano tutti, siete bellissimi, tutti, dal primo all'ultimo.
Ma era solo una fiaba, troppo tardi Camille si era resa conto che la sua campana di vetro era trasparente e lucida, che faceva entrare la luce ed i colori ma non lasciava passare i profumi e rendeva ovattati i suoni, e quando era riuscita a sollevare la campana era di nuovo troppo tardi per rendersi conto che oltre la cristallina barriera risplendevano sfarzose sbarre d'oro.
Camille forse era in trappola prima ancora di nascere.
C'aveva creduto, doveva ammetterlo a sé stessa. Aveva creduto fino all'ultimo che vi fosse un lucchetto per aprire la sua prigione ma si era dovuta ricredere quando assieme al vetro era andato in frantumi anche tutto il suo mondo.
La fiaba si era incrinata e lei aveva scoperto che non esistevano i lieto fine.
Era tornata in Francia, a leccarsi le ferite e cercare di ignorare le sue colpe, quei fantasmi che l'avrebbero perseguitata per sempre, additandola come criminale, come il mostro che era diventata, come la sciocca che era sempre stata.

Quanto le fosse servito affinché il suo lago si calmasse e le acque tornassero ad essere placide e lisce come una tavola, sinceramente, non avrebbe saputo dirlo, non lo poteva quantificare. C'erano stati giorni in cui aveva creduto che tutto fosse tornato a posto e altri in cui vedeva solo tempesta.
Alla fine il cielo pieno di scie aree di Parigi l'aveva aiutata a rimettere i pezzi a posto, si era svegliata un giorno e aveva sentito che ormai non le importava più, ormai era tutto passato e non sarebbe mai cambiato nulla.
Allo stesso modo, dopo anni di pace, si era alzata una mattina e la sua domestica le aveva detto che era arrivato un pacco per lei.
Camille era in vestaglia, morbida seta color champagne firmata Chanel, quando la donna aveva portato quell'ingombrante scatola e le aveva chiesto dove volesse che la posasse.
Aveva buttato il tappeto su cui era stata depositata, a dirla tutta gli aveva proprio dato fuoco.
L'elegante quadrato decorato di carta rosea e dorata, in righe larghe e regolari, adornato con un fiocco lucente come tutte le scatole contenenti i suoi abiti e scarpe su misura, l'aveva tratta in inganno. Aspettava un borsa di uno stilista emergente, qualcuno che ben presto lei stessa avrebbe portato all'apice del successo e che poi le avrebbe dovuto eterna gratitudine ma non era certo suo il regalo.
Sciocca, ovviamente non aveva neanche controllato il mittente, ma ugualmente l'avrebbe burlata anche quel piccolo pezzo di carta.
All'interno del pacco aveva trovato carta velina chiara e vaporosa ma più ne toglieva, più scorgeva piccoli pois rossi, una trama apparentemente senza logica che la fece tentennare solo quando, voltatasi per poggiare altra carta sul tappeto, aveva visto come quei pois stessero lasciando il loro colore sugli intrecci beige della stoffa.
Solo allora aveva avvicinato il volto all'interno e aveva capito che il forte profumo che vi proveniva non era dovuto all'eleganza della spedizione ma serviva per coprire un altro odore, uno che Camille non avrebbe mai potuto scambiare per altro.
Aveva tirato via la carta rimasta con foga e più ne toglieva più le pareva pesante, zuppa di rossi decori che provenivano direttamente dal cuore del pacco.
Uno stupido gioco di parole visto che l'organo era proprio ciò che aveva trovato adagiato sul fondo della scatola.
Un enorme cuore gonfio e ancora sanguinolento, dalla cui arteria mozzata fuoriusciva un filo continuo e vischioso.
Non le aveva mai fatto impressione il sangue, anzi, Camille adorava il sangue, lo trovava poetico e terribile al contempo, vita e morte, cura e malattia. Aveva infilato le mani nella scatola senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla massa rossiccia o preoccuparsi di starsi inzuppando le maniche dalla vestaglia del sangue di qualcuno che neanche conosceva. Stringere le dita attorno alla carne ormai morta, come aveva fatto centinaia di volte prima, le era parso astratto ed alieno a lei, così come la sensazione di calore che irradiava, di solito gli organi che toccava erano freddi, tolti direttamente dal contenitore refrigerato o ancora lì adagiati, ma questo pareva appena cavato dal torace di qualcuno.
Quando lo aveva sollevato, facendolo scolare dentro il cartone, aveva notato che da quella che un tempo doveva essere la cavità arteriosa polmonare pendeva un sottile filo argenteo ora sporco.
Aveva abbassato lo sguardo prima sulla scatola e poi aveva cercato il suo coperchio, trovandovi nella parte interna una busta attaccata con lo scotch.
Leggere cosa vi era scritto dentro non l'avrebbe toccata neanche la metà di quanto l'aveva fatto afferrare la catenella con due dita, mentre il cuore stretto nell'altra mano colava le sue gocce scure dentro la manica larga sino ad arrivare al gomito bianco ed ossuto. Ne aveva tirato fuori una collana, una bellissima ed antica collana d'argento con un pendente impressionante che le aveva tolto tutto il fiato dai polmoni e le aveva spento il cervello.
Un rubino grande come una noce brillava inquietante e sanguinolento oscillando lentamente nella sua presa dopo esser stato liberato dal suo caldo e carnoso contenitore.
Non aveva avuto bisogno davvero di leggere la lettera per sapere chi gliel'aveva mandato e cosa volesse.
Era in fine giunto il momento di tornare dalla sua vecchia vita, era giunto il momento di tornare dalla Famiglia.
Il Clan l'aspettava e bramava quel sangue che una volta gli fu consacrato:
il suo.

 

 

 

 

 

Gli faceva male la testa, anzi, sarebbe stato più corretto dire che gli faceva ancora male la testa.
Catarina sembrava piccola e dolce, con quei suo capelli bianchi che ancora portavano le tracce scolorite delle tinta azzurra che si era fatta per le feste natalizie. Con le guance decorate da delicate e quasi invisibili lentiggini, quella pelle pallida come porcellana, che la faceva sembrare così delicata. Nessuno si sarebbe aspettato che quelle mani piccolo ed un po' callose, che tante vite avevano aiutato, fossero in grado di dare gli scappellotti più potenti e dolorosi della storia.
La sua particolarità era che Catarina riusciva a beccare con chirurgica precisione proprio quella fascia di nervi e muscoli che collegavano la testa al collo. Un dolore atroce, davvero.
Magnus si massaggiò la parte lesa e guardò con fastidio l'amica che marciava avanti e indietro per il suo salone, con un cucchiaino in mano con cui avrebbe dovuto girare il proprio tea ma che invece lei usava come una bacchetta. Gli era arrivato anche quello addosso, solo sulle falangi, ma faceva male lo stesso.
Borbottava come una ciminiera su quanto potesse essere stupido, sul fatto che si doveva decidere, che non poteva saltellare da una posizione all'altra – Magnus aveva provato a fare il simpatico e dirle che passare da una posizione all'altra era ciò che gli riusciva meglio. Era stata la motivazione della cucchiaiata sulle dita.­- che doveva fare l'uomo e anche domandandosi perché gli capitasse sempre gente così in mezzo ai piedi.
Dirle che non gli piaceva essere etichettato come “gente in mezzo ai piedi” era stato superfluo, Catarina lo aveva fulminato con lo sguardo e gli aveva ringhiato contro che doveva solo stare zitto e sentirsi anche la sua di sgridata.
Oh, certo, perché Magnus le aveva raccontato sia di quello che gli aveva detto Simon, entrambe le volte, sia di quello che gli aveva detto Raphael, oltre che quello che lui aveva detto a Lewis e anche a Lightwood… ringraziava il cielo che la sera prima fosse stato abbastanza impegnato al locale da non aver avuto l'opportunità di chiamare Malcom, se no sarebbero stati in quattro a fargli la paternale. Ora doveva solo ricordarsi di evitare Lily, la ragazza aveva preso fin troppo in simpatia Alexander, avrebbe rischiato di esser preso a pugni anche da lei e a differenza di Catarina, che era precisa, aveva la forza degli infermieri ma non ne era così propensa, della violenza Lily Chen ne aveva fatto la sua rosa all'occhiello. Quello avrebbe fatto davvero male.
<< Senti, ti fermi? Mi stai facendo venire il mal di mare.>> si lamentò interrompendo l'amica.
Catarina lo guardò malissimo. << Io non mi fermo per niente! Ti rendi conto che hai praticamente dato ai suoi superiori un motivo per toglierti dal suo comando?>> domandò inviperita riferendosi ad Alec.
Magnus alzò gli occhi al cielo. << Tutti in quel Dipartimento mi vogliono lì, non faranno nulla per mandarmi via… >>
<< Non puoi continuare a giocare per sempre sulla tua “importanza” Mags, anche perché mi risulta che attualmente non stai facendo quello per cui sei stato ingaggiato.>>
<< Questo perché quei coglioni si sono fatti fottere il quaderno di papà da sotto il naso.>>
<< Quei coglioni si sono fatti fottere il quaderno dall'FBI, non avevano tutta questa possibilità di scelta visto che Asmodeus ha ben pensato, nel corso della sua onorevole carriera, di andare a rompere le palle anche oltre confine.>> gli fece notare con stizza. << Dovevi litigare proprio con Alec e Simon? Non potevi farlo con un agente a caso?>>
<< Sai che litigo in questo modo solo per cose serie e con persone a cui tengo.>> nell'attimo esatto in cui finì di dire quella frase si morse la lingua, pentendosene amaramente.
Catarina alzò un sopracciglio e gli si avvicinò per sederglisi accanto. << Tesoro, lo senti cosa dici? Tieni a loro, gli vuoi bene… non credi che questo sia il motivo principale della vostra discussione? Ognuno di voi ha reagito in un dato modo perché vuole bene agli altri e non vuole vederli soffrire.>>
<< Non è che Alexander me l'abbia mostrato molto sai? Mi ha solo buttato fuori.>>
<< Gli hai dato dello sbirro e del piedi piatti, gli hai detto che non è il tuo lavoro e che mai lo sarà. Praticamente che stai lì solo per il diario di tuo padre e non perché hai piacere a lavorare con loro, perché ti piace e perché ti ci trovi bene. Lo hai ferito temo, anche se Alexander non è uno che lo da troppo a vedere. In più con quella storia della ragazza… >>
<< Hanna. Si chiama così ed è una ragazza deliziosa, sappilo.>> precisò subito.
<< Più deliziosa dei tuoi amici? Non pensare ad Hanna, pensa al fatto che se fossi stata io a farti quella scenata avresti solo borbottato che era quello di cui avevi bisogno e che lo hai fatto, mi avresti spiegato magari che ti manca qualcosa nella tua vita, magari un compagno su cui contare costantemente e sì- lo so che ci siamo noi, che siamo tuoi amici, però, Mags, non hai una relazione davvero seria da otto anni- >>
<< Non ricordarmelo o ricorderò anche quella stronza.>> Magnus si voltò sprofondando dei cuscini e Catarina annuì.
<< Però è stata lei la tua ultima storia importante, anche se è finita com'è finita.>>
<< Mi ha mollato, dopo tutto quello che era successo!>> strepitò indignato al solo pensiero.
<< Non entriamo nel particolare ora. Rimani concentrato sul presente: Hai litigato con Simon così furiosamente perché lui, come molti di noi presumo -e sappi che mi fa strano dire noi ed intendere anche i Lightwood e Clary- credevamo che presto o tardi tu ed Alec avreste finalmente deciso di darvi una possibilità seria e di smetterla di fissarvi da lontano. Simon mi disse che Alec era molto concentrato sul suo lavoro, che lo aveva preso “sotto la sua ala” come fa con le persone, ma sono sicura che un affetto in più non gli faccia schifo, che apprezzerebbe avere qualcuno come te al suo fianco.>>
Magnus sospirò rassegnato. << Perché pensate tutti così?>>
<< Sinceramente?>> domandò Catarina retorica, << Perché speriamo che finalmente abbiate entrambi qualcosa di bello nella vostra vita.>> disse dolcemente.
<< Ma io ho qualcosa di bello nella mia vita! La mia vita è bella!>>
<< Mags, per favore, hai capito cosa intendo!>>
L'uomo sospirò. Poi scosse la testa stranito, << Non lo so Cat, non lo so. Non ci voglio pensare, non mi va di- non lo so.>>
Catarina lo guardò tentennando. << Hai paura che possa succedere ciò che è accaduto con Camille? Magnus, quella di situazione era particolare, è stato un susseguirsi di eventi terribili, che nessuno avrebbe potuto gestire. Ed eravate anche più giovani, avevate ventidue anni- >>
<< Che sono giusto tre anni in meno di quelli che aveva Alec l'anno scorso, Cat.>> la bloccò subito. << So che era un momento critico e completamente diverso ma ti rendi conto che stiamo andando di nuovo verso un periodo simile? Quando lavoreremo sul diario… senti, davvero, ma non possiamo parlare d'altro? Tipo del tuo turno?>> provò con voce lamentosa.
Catarina sospirò. << Possiamo parlare di come chiamerai Simon per chiedergli scusa e poi di come andrai a scusarti con Alec per averlo mollato nel bel mezzo di un'indagine.>> propose.
L'altro annuì. << Mi sta bene.>> sentenziò cercando una posizione comoda. Poi si mosse di nuovo e si tirò a sedere. << Meglio ancora, ora chiamo Lewis e gli dico se vuole venire al Pandemonuim così ci prendiamo qualcosa da bere, ti piace come idea?>>
Sorridendogli dolcemente, in un modo terribilmente simile a quello di una madre con il proprio bambino, Catarina annuì piano e lo guardò andare a recuperare il telefono lasciato chissà dove.
Sospirò appena rimase sola nella stanza: non si era mai resa conto di quanto dovesse faticare Ragnor a gestire quel maremoto del loro amico, una volta potevano arginarlo in due ma tutte le volte che lei andava all'estero per qualche missione umanitaria era solo Rag quello che rimaneva a tenere in piedi la baracca.
Forse avrebbe dovuto chiamare Malcom e chiedere aiuto a lui.
Decise che quella era la cosa giusta da fare e recuperò il suo di telefono per scoprire di aver delle telefonate perse ed un messaggio.
Accigliata pigiò sulla cartellina gialla e la lista dei messaggi ricevuti apparve mostrando in prima posizione un numero che, malgrado non vedesse più da molto tempo, così tanto da non averlo più in rubrica, ricordava ancora perfettamente.
Nessun preambolo, nessuna frase di rito, quelle che il mittente era tanto solito usare, solo una parola semplice e spiccia:

 

Arrivato.”

 

 

 

 

Simon non aveva capito inizialmente la portata della notizia datagli da Alec finché non era entrato in una delle sale che vedeva sempre chiuse e si era ritrovato davanti un paio di lavagne lucide e bianche. Il tavolo spazioso che occupava la parte centrare della stanza ospitava già un paio di scatole contenenti i documenti più recenti riguardante il loro caso e altri che potevano essergli collegati.
La cosa si era fatta seria quando Alec aveva cercato di fargli capire quanto ampia sarebbe stata l'operazione, quando si fu scusato di averlo trascinato così presto in qualcosa di così impegnativo.
Seduto su una delle sedie lì presenti Simon digitava veloce alcune parole chiave per avviare una ricerca su vasta scala che comprendesse tutto il territorio della città di New York più alcune zone limitrofe in cui era probabile che fossero arrivati quegli uomini.
Con tutti i film e telefilm polizieschi che aveva visto, nonché con gli anni che aveva passato nel laboratorio informatico e per ultimo, ma non meno importante, il Caso Fell e l'Operazione Circle, si presupponeva che la sua mente fosse abbastanza bendisposta verso l'idea di reti criminali ad ampio raggio, ma rimase comunque sorpreso da quello che l'altro gli stava dicendo.
<< Potter faceva parte di una rete nascosta che opera per tutto lo Stato, forse ve ne sono altre, affiliate a questa o questa affiliata a quelle, che operano anche nel resto del territorio nazionale. Ben o male tutti i paesi hanno questo genere di bande, strutture organizzate in cui criminali di vario tipo si riuniscono per riuscire ad ottenere il massimo profitto dalle loro imprese. Vedilo un po' come un'associazione di più strutture per il cui servizio ci si rivolge ad un solo ente.
Ci sono dei capi ovviamente, gente che con tutta probabilità non si sporca mai le mani ma siede comodamente ad una scrivania. Questo genere di persone sono in un certo qual modo le più pericolose, poiché spesso occupano posizioni di spicco o comunque protette all'interno della società. Questi “capi” ricevono richieste di lavoro e le passano a chi di dovere, coloro che sono più adatti o anche semplicemente disponibili al momento. Con Potter dev'essere successa all'incirca la stessa cosa: Hodge si è rivolto a qualcuno del giro e ha chiesto un sicario che, semmai fosse sparito, non sarebbe interessato a nessuno.>>
<< Perché dici così? Pensi che lo abbia specificato?>>
Alec annuì. << Pensa solo alle implicazioni: se Potter dopo aver ucciso Magnus, o dopo non esserci riuscito come è poi successo, avesse scoperto che chi lo aveva ingaggiato era un Ispettore della polizia collegato al Vice Commissario o addirittura se avesse capito che Valentine stesso vi fosse implicato, quanto tempo avrebbe impiegato per andare da uno di quegli uomini ai piani alti e organizzarsi per ricattarli entrambi?>> domandò retorico, poi scosse la testa. << No, gli serviva qualcuno da far fuori non appena il lavoro fosse stato portato a termine, per eliminare ogni prova.>>
<< Niente assassino, niente colpevole, eh?>> disse sovrappensiero Simon annuendo. Digitò qualcosa sul pc e poi tornò a guardare Alec. << Quanto pensi che sia vasta questa rete? Di quanti anni stiamo parlando?>>
L'altro prese un respiro profondo, alzando le sopracciglia in un'espressione che sembrava voler dire “non possiamo saperlo con certezza”. Storse il naso e poi provò ad ipotizzare qualcosa.
<< Non credo che sia sempre la stessa, deve essersi modificata nel tempo, magari chi ne era a capo una volta ora è morto, si è ritirato o è in galera. Possiamo supporre che fosse un sicario che ha conosciuto uno spacciatore, o un altro sicario e che abbiano deciso di aprire un buisness, non posso dirti nulla di certo Simon, anche perché sono convinto che sia una struttura mutevole.
Manchester ha detto che nel corso della sua carriera ha arrestato moltissimi spacciatori che in un modo o nell'altro erano collegati tra loro non solo dal contrabbando di stupefacenti ma anche magari dal rifornitore o dai compratori, gente che spacciava nello stesso vicolo senza farsi la guerra. Alle volte riuscivano ad arrivare un po' più su del pesce piccolo, scoprivano chi era a dividere la merce tra i vari ricettatori, chi la importava o chi la produceva direttamente. Da lì scorgeva la ramificazione di questa organizzazione che, purtroppo, malgrado venisse lentamente distrutta riusciva sempre a riorganizzarsi e a tornare lentamente al proprio lavoro.>>
Simon annuì concentrato, immaginare una macchina del genere in moto faceva pensare che sicuramente chi era al potere erano sempre le stesse persone.
<< Perché non pensi che sia un solo “capo” che dirige da sempre tutto?>>
I tenente lo guardò in modo quasi accondiscendente e Simon arrossì, sospettando di aver appena chiesto la cavolata più grande del mondo.
<< Dopo tutti gli anni in cui ha lavorato qui, gli agenti riconoscevano in Asmodeus il capo della sua impresa?>> chiese gentile.
Il ragazzo fece un cenno d'assenso.
<< Se ci fosse un uomo che, da anni, dirige una rete di spacciatori e assassini, solo questi, e che non ha mai passato il testimone a nessuno, non credi che lo sapremmo? Che qualcuno pur di aver salva la vita avrebbe parlato? Che qualche informatore sarebbe riuscito a farci avere il nome o qualche agente sotto copertura anche. >> scosse il capo, allungando una mano per poggiarla sul piano del tavolo, giocando distrattamente con un angolo di carta. << Non è una struttura fissa, questa è una delle poche certezze che abbiamo.>>
<< Ma se non è fissa, come facciamo a sapere che è sempre la stessa?>>
<< All'atto pratico non possiamo saperlo, ma ci sono delle costanti, dei disegni, che si ripetono, passaggi che, gente come il Capo Manchester che lavora da una vita in questo settore, ha visto avvenire lentamente, evoluzioni basate sulla sconfitta di una tattica, su un arresto di massa. Non è la stessa di vent'anni fa, ma ne è sua diretta discendente. Vedila come un intera specie, una famiglia, che si evolve, che muta secondo le leggi della natura cercando di diventare l'esemplare meglio adattato e quindi più forte per il suo ambiente.>>
Simon sospirò. << Assassini e spacciatori… più che una specie in via d'evoluzione li vedrei meglio tutti come grossi topi di fogna, di quelli giganteschi che ti staccano una mano con un morso.>>
Alec si lasciò sfuggire un sorrisetto storto dei suoi. << I topi di fogna non ti possono staccare una mano, arrivano a mala pena a trenta grammi.>> disse sicuro.
L'altro alzò un spracciglio. << Amico, sei un poliziotto, hai visto dal vivo e non solo in tv come me, ciò che può esserci dentro una fognatura. Come puoi dire che arrivino massimo a trenta grammi? Sono giganteschi!>> gli fece notare scioccato.
<< Sì, ma non sono topi, non è il loro nome.>> continuò quello cocciuto.
<< Preferisci ratti?>>
<< I ratti vanno sino al mezzo chilo.>>
<< Pantegana?>> provò di nuovo Simon vagamente sorpreso dalla piega che stava prendendo quel discorso e dalla sicurezza di Alec che, sorridendo ancora – si stava divertendo, dannazione?- scosse ancora la testa.
<< Le pantegane sono sempre ratti, si chiamano Norvegicus e sono ancora più piccole dei ratti normali, fanno più impressione solo perché hanno un pelo scuro. Non sono gigantesche ed in grado di staccarti una mano, sono tipo chiwawa di dimensione, non hanno la bocca abbastanza larga ed i denti non- >>
<< Che vuol dire che sono come chiwawa? Questo vuol dire che sono davvero geneticamente modificate e che sono così grosse perché mangiano roba chimica che noi buttiamo!>> esplose allarmato Simon interrompendolo.
Ma Alec non sembrava per nulla toccato dalla cosa. Annuì brevemente concorde solo in parte con quel discorso sconclusionato. << Sicuramente l'alimentazione falsata per colpa dei rifiuti umani non aiuta a mantenere una buona forma fisica, i grassi gravano anche su di loro. Ma no, quelle non sono pantegane, i roditori giganteschi di cui parli tu sono le nutrie e possono arrivare anche a - >>
<< Non lo voglio sapere!>> Simon alzò le mani davanti alla faccia e poi guardò male l'amico. << Non voglio saperlo National Gerographic, grazie. Dio santo… ma Izzy l'ha presa da te la passione per le cose strane? Ma poi, non ti piacevano solo gli insetti?>> chiese allarmato.
Alec si strinse nelle spalle. << Tutti gli animali sono interessanti e fare questo lavoro ti porta a dover sapere tante curiosità che poi ti saranno utili per risolvere casi particolari.>>
Stettero un attimo in silenzio, il tempo che servì a Simon per cercare di elaborare quella sfilza di nome e pesi che il moro gli aveva appena elencato a memoria e proprio quando credette di poter tornare a parlare del caso, osservandolo di sottecchi, appena lo vide distratto, Alec se ne uscì a tradimento.
<< Le nutrie vanno dai dieci kg sino ai diciassette nei maschi adulti, sono tipo piccoli castori, lunghi una quarantina di centimetri. Loro hanno dei denti abbastanza grandi per staccarti un paio di dita, e poi hanno le zampe palmate, nuotano velocissimi e ti attaccano anche sott'acqua se credono che tu possa essere una minaccia. >> disse in fretta prendendo poi un foglio per cominciare a lavorare.
Simon lo fissò allucinato, battendo le palpebre, preso in contropiede.
<< Ti avevo detto che non lo volevo sapere!>>
<< Era solo un'informazione, magari dobbiamo entrare nelle fognature e così hai un minimo di nozioni utili per riconoscerle.>> fece l'altro calmo.
<< E no cavolo! Non ci torniamo proprio ora che mi hai fatto venire l'ansia! Diamine Aleeeec!>> piagnucolò il ragazzo. << Adesso oltre all'apocalisse zombie mi devo preparare anche all'attacco delle pantegane geneticamente modificate.>>
<< Nutrie, sono nutrie Simon, chiamale con il loro nome per favore.>>
<< Oh, mi scusi signore, può ripetermi il nome scientifico corretto? Credo di non averlo colto.>> disse ironico, perdendo il sorriso non appena Alec gli rispose con un distrattoMyocastoro Coypus”.
Il giovane agente batté le palpebre e poi scosse il capo. << No, basta, io ci rinuncio. Che ci fai qui al dipartimento? Dovresti andare con Bear Grylls a cercare animali pericolosi per il mondo o ad un convegno di Biologia circondato da altri nerd del settore. Perché non molli tutto e vai all'università?>>
Alec sbuffò. << Cosa c'è? Li chiami nerd solo perché sono più intelligenti di te e per una volta puoi disprezzare qualcuno perché studia più di quanto non abbia fatto tu? >>
<< Li chiamo “nerd” perché è quello che sono. La definizione della parola indica una persona completamente patita ed informata sull'argomento, tecnicamente.>>
<< Ma davvero?>> disse l'altro continuando a sfogliare documenti vari. Stava già cominciando a perdere interesse per la discussione e a concentrarsi sul lavoro.
<< Certo. Io per esempio sono un nerd dei pc, degli zombie, dei videogiochi. Ma si potrebbe dire anche che sono un nerd di “Clary” perché so tutto su di lei meglio di sua madre.>>
<< Questo è inquietante Lewis, sappilo.>>
<< Ma rende l'idea!>>
<< Quindi io sarei un nerd dei rompipalle.>>
<< Visto che sei cresciuto con Jace e Izzy… >>
<< E poi con te e Fray, certo. Ma ciò implicherebbe anche che sono un nerd dei salvataggi, delle parate di spalle, dei protettori e degli stupidi. Oh, e sono anche un nerd degli egocentrici vanesi narcisisti.>>
<< Stai parlando solo dei tuoi fratelli o c'hai messo in mezzo anche Magnus?>> chiese cauto.
<< Sono anche un nerd della pazienza, uno dei gatti e persino degli psicolabili, magnifico, lo scriverò sul curriculum.>> continuò però lui imperterrito senza dar ad intendere che lo avesse sentito.
Simon espirò scontento e si mordicchiò qualche pellicina sul labbro, poi prese coraggio e chiese:
<< Ma Magnus ci lavorerà con noi su questo caso o l'hanno buttato definitivamente fuori?>>
Nei minuti di silenzio che seguirono Simon ebbe il tempo di immaginare tutte le rispostacce e le brutte notizie che Alec avrebbe potuto dargli, ebbe persino il tempo di rimpiangere tutte le volte in cui lui stesso aveva creato suspance attendendo per dire le cose, tipo quando dovette dire ad Alec che Magnus non era davvero ferito ma lo avevano solo preso di striscio. Ecco, forse quello era il karma che lo ripagava con la sua stessa moneta.

 

Questo non è da contrappasso.

 

<< Dovranno passare sul mio cadavere prima di poterlo buttare fuori così facilmente.>> soffiò poi via il tenente. << Quel deficiente deve aiutarci a capire tutti i simboli sul dannato quaderno di suo padre, non può farsi espellere in questo modo, non per una cavolata del genere.>>
Simon annuì mesto. << Non hai parlato più con lui, vero?>>
<< No. Ma non sarò io a farlo per primo questa volta. Ha sbagliato, lo avete fatto entrambi, mischiando vita privata e professionale. Quando entrate in questo edificio, fin da quando varcate il cancello a dir il vero, e tu ed io, nello specifico, ogni volta che scatta il nostro turno o che è necessario il nostro intervento in qualunque modo, entriamo in servizio e dobbiamo lasciare tutti i nostri problemi fuori. >> smise di guardare i fogli ed alzò la testa verso l'amico, che si ritrovò inchiodato da quegli occhi blu così dannatamente intensi da fargli domandare come delle semplici iridi potessero trasmettere tutta quella fermezza e tutta quella forza.
Stupidamente, ma senza poterne fare a meno, richiamava alla mente quello stesso paia d'occhi, solo da una vita fa, quando a coprirli c'erano ciocche scure e lunghe, scompigliate e perennemente in mezzo; quando sotto le rime inferiori folte di ciglia fini e nere, vi erano profonde e violacee occhiaie che in contrasto con la pelle bianca e cadaverica del loro proprietario parevano scavate nella carne, lo facevano sembrare uno zombie.
Erano occhi attenti, scattanti, sempre sul chi va là, pronti a scorgere e affrontare una minaccia, che costantemente correvano a scrutare ciò che si lasciava alle spalle. Erano gli occhi insicuri e spaventati di qualcuno che non sapeva come affrontare la vita, che la temeva perché non era come quella che tutti vivevano, che tutti conoscevano, come la società gliela mostrava. Degli occhi blu come il vetro decorato, ma come quello fragile e forse già crepato. Simon si domandava se quelle crepe, quei profondi solchi che Alec aveva portato sulla pelle, cercando di nasconderli dietro a maglioni informi, un carattere schivo e scorbutico, dietro silenzi infastiditi e lunghe ore in cui usciva di casa e si allontanava da tutti, fossero stati colmati o fossero ancora lì.
Forse la risposta era scontata, dopotutto l'unico modo per aggiustare il vetro, per farlo in modo definitivo, era colarvi dentro altro vetro fuso e saldare le due metà assieme. La colla non sarebbe durata per sempre, avrebbe solo messo un tappo momentaneo, poi la pioggia ed il tempo, i sentimenti e la vita, l'avrebbero consumata e sciolta.
Osservò le spalle ampie e dritte, il capo eretto e quei capelli che malgrado cadessero ancora davanti al suo volto lo facevano in modo casuale, per venir rispinti subito indietro e non per nascondere qualcosa che gli altri non dovevano assolutamente scorgere. Lo guardò con attenzione e si disse che sì, probabilmente Alec era riuscito a colare vetro fuso in ogni sua crepa, le cicatrici rimarginate all'esterno erano specchio di ciò che si era rimarginato all'interno, ma saldare dei cocci rotti non avrebbe mai nascosto il fatto che una volta quelli erano stati tali: solo frammenti distaccati tra loro, che avevano perso schegge importanti che avrebbero riempito ogni vuoto e riportato la superficie all'originaria bellezza.
Guarire significava solo rendere ancora più visibili le vecchie ferite, ora cicatrici che spiccavano su una tela disegnata ad arte.
<< Mi dispiace… non volevo farti- farti star male.>> bisbigliò piano.
Alec scosse la testa. << Non me ne hai fatto.>>
<< Oh, non mentirmi! Okay, non sono bravo come te a capire la gente, ma ho una migliore amica donna ed una sorella, l'ho visto quello sguardo, è stato solo un attimo ma ha fatto tanto male a te quanto lo ha fatto a me.>> sbottò poi abbandonando i toni bassi.
<< Questo non è né il luogo né il momento per discuterne ancora Simon, lascia perdere, non è stato nulla.>> provò ad insistere quello, ma l'altro lo ignorò.
<< No invece! Alec se non ammetti queste cose, se non lo ammetti con me che sono tuo amico poi, con chi lo farai?>> chiese cercando il suo sguardo, quello che prima gli era parso tanto forte e in cui ora rivedeva l'ombra di quello vecchio.
Un attimo, solo un attimo, come sempre. Poi scompariva e tornava il duro Tenente Lightwood, quello coraggioso e pronto a tutto.
<< Simon, sto bene, non ne parlo perché non ne ho bisogno. Siamo una squadra appena formata e anche se siamo amici, anzi, soprattutto per questo era ovvio che prima o poi avremmo discusso per qualcosa, va bene? È logico, lo fanno tutti. Specie se ci sono delle personalità forti ed esuberanti come la tua o quella di Magnus.>> spiegò senza perdere quel classico timbro calmo che lo contraddistingueva.
<< Io ho una personalità forte ed esuberante? Alec ma ti senti? E tu come l'hai?>>
<< Calma e riflessiva. Annoiata spesso e disinteressata quasi sempre. Ti fa strano che qualcuno ti definisca “forte”? Mi pare che tu abbia affrontato egregiamente diverse situazioni difficili.>>
<< Assolutamente no. Quando abbiamo riesumato papà ho singhiozzato come un bambino, avrei avuto davvero bisogno di- che tu fossi li con me… non sapevo come aiutare Backy, anche se c'erano Clary e Luke, e Jace e Jocelyn. Rebecca ha fatto forza a mamma e io non sapevo che- >>
<< Mi dispiace.>>
Quella sola parola ebbe la forza di bloccare il suo sproloqui e costrinse Simon a battere le palpebre, come se non avesse capito cosa avesse detto l'amico.
<< Cosa?>>
<< Mi dispiace. Non so cosa tu abbia provato in quel momento, ma come amico, come responsabile del Caso che aveva portato alla riesumazione, avrei dovuto essere lì con voi. Non ti ho mai chiesto scusa per questo.>>
Simon continuò a sbattere le palpebre incredulo.
<< Jonathan aveva ragione.>> soffiò. << Ha detto che gli hai chiesto scusa per aver ucciso suo padre, che te ne sei preso la colpa anche se era l'unica cosa da fare per un mostro come lui… ora ti prendi anche questa di colpa? Di non essere stato lì? Eri in un letto d'ospedale a combattere contro il tuo stesso corpo… tu hai davvero un'idea falsata delle tue responsabilità.>> continuò concitato, quasi isterico, finché Alec non si sporse per mettergli una mano sul polso e bloccarlo.
<< Sono tuo amico, mi spiace di non essere stato lì. Tutto qui. Per quanto riguarda Morgerstern, ho pur sempre ucciso suo padre. Quando si toglie la vita a qualcuno, anche se è un qualcuno che se lo meritava, si dovrebbe sempre chiedere scusa.>> strinse leggermente la presa e poi la lasciò, abbozzando un sorriso storto ed incerto. << Come siamo arrivati a parlare di questo? Non discutevamo di topi e nutrie?>>
Simon deglutì a disagio ma annuì. << Di cretini a dirla tutta. Ti ho chiesto se Magnus sarebbe stato buttato fuori e tu- >>
<< Non succederà finché ci sarò io, non per una cavolata del genere.>>
<< E non dobbiamo mischiare vita privata e lavoro.>>
<< Mai, è uno degli sbagli più grandi che si possano fare. Niente sentimenti sul posto di lavoro, solo logica e deduzione.>>
<< Ma non lo chiamiamo? Magnus intendo?>> chiese Simon mordicchiandosi le unghie.
Alec si allungò una seconda volta per strappargli la mano di bocca e scoccargli uno sguardo ammonitore. << No. Quando si sarà calmato e avrà capito la portata della cavolata che ha fatto, quando si sentirà pronto per venire qui a chiederci scusa, o quando Catarina lo avrà preso abbastanza a calci, allora sarà reintegrato in questo caso.>>
<< Ma deve chiederci scusa.>> precisò il ragazzo.
<< Quello è d'obbligo.>> poi si ricompose. << Ora vogliamo tornare al Caso e smetterla di parlare di cose di cui non dovremmo parlare?>>
<< Hai cominciato tu con i topi.>>
<< Non ti ci azzardare Lewis, non è solo colpa mia. Io rispondo alle domande che mi fai.>>
<< Se ci fosse stato Magnus mi avrebbe fatto qualche battuta del tipo “topi come te Lewis, come fa Fiorellino a saperne di più sulla tua stessa razza?”.>> disse scimmiottando la voce dell'asiatico e strappando un sorrisetto ad Alec.
<< E avrebbe accusato me di traumatizzargli il “bambino”.>> annuì concorde.
<< Rimani comunque tu il mio papà preferito, che dicesse quello che vuole.>> disse in fine Simon alzando le mani in segno di resa.
Alexander lo guardò per un attimo e poi sorrise un po' di più.
<< Vorrei ben sperare.>>

 

 

 

Erano quasi cinque ore che stavano chiusi lì dentro ad esaminare fascicoli, dividere informazioni e confrontarne altre con quelle digitalizzare negli ultimi anni.
Avere un tecnico informatico tra le proprie fila era sempre una cosa utile, Alec aveva perso il conto di quante volte, negli anni passati, era dovuto scendere nei laboratori per chiedere questo o quello. Da quello stesso seminterrato però gli era arrivata anche, finalmente, la conferma che quello era il corpo di Trevor Potter, come se poi a loro servisse veramente. Era ugualmente una cosa in più, una cosa certa, da aggiungere alla lista. Sì, perché di certezze in quel caso ne avevano davvero poche, non materiali almeno.
Alec si era reso conto di come la maggior parte delle informazioni e delle supposizioni fossero del tutto astratte e che non trovassero nessuna applicazione pratica: era un castello di carte ben costruito, ben congegnato, fatto in modo e maniera che se qualche piano fosse caduto ce ne sarebbero stati altri a sostenerlo. Un sistema che mutava sé stesso in base all'evoluzione dell'ambiente circostante. Ma in quel momento il detective trovò azzeccate ed utili le sue conoscenze sul mondo naturale e animale, poiché ciò a cui si stavano approcciando era un gigantesco formicaio, formato da classi ben delineate e altre appena abbozzate e pronte a cambiare all'evenienza. Alexander odiava gli animali sociali, erano quelli più difficili da debellare e l'uomo ne era un esempio perfetto.
Simon, seduto davanti al suo pc, con una tazza di caffè fumante davanti al naso ed una busta di patatine di fianco, pareva ipnotizzato dalle lunghe stringhe che si rincorrevano sullo schermo. Aveva appena allungato una mano per ficcarsi una manciata di patatine in bocca quando il suo telefono vibrò brevemente. Non lo guardò neanche, si leccò le dita e lo afferrò alla cieca, sbloccandolo con l'impronta digitale e portandolo all'orecchio.
<< Se?>> biascicò masticando e facendo facce strane nel tentativo di togliersi un po' di poltiglia dai denti.
Malgrado si stesse occupando di altro Alec colse perfettamente il sussulto del compagno.
Lo vide alzare gli occhi dallo schermo e drizzare la schiena, rimettendosi seduto bene dalla sua posizione scivolata sulla sedia girevole.
<< Ehi.>> continuò quello deglutendo. << No, sono ancora in ufficio.>> attese una risposta e intanto cercò il suo sguardo. Non gli servì il sillabare muto del nome del suo interlocutore, Alec aveva già capito da sé che era Magnus.
<< Stiamo lavorando ad un Caso un po' particolare… sì, sempre quello della fogna ma si è, come dire, evoluto?>> chiese ad Alec guardandolo dubbioso. Il moro annuì e gli fece cenno di continuare a parlare con tranquillità, lui si sarebbe rimesso a lavorare nel frattempo.
Simon si spinse indietro con la sedia, girando sino a dare le spalle ad Alec e ritrovarsi davanti alle finestre della stanza: poteva vedere la strada circostante per un breve tratto, i palazzi illuminati gli coprivano la maggior parte della visuale ma a lui non interessava davvero, gli serviva solo una distrazione, qualcosa su cui concentrarsi senza vederla davvero.
Diamine, di solito litigava così male solo con Clary e l'ultima volta che l'aveva fatto erano dovuti intervenire Jace e Jonathan per farli riavvicinare, con l'albino sorprendentemente dalla sua parte che aveva preso di peso la sorella e l'aveva costretta chiarirsi con lui.
Sospirò. << Diciamo che si è ampliato. Abbiamo scoperto cose che non ci aspettavamo.>>
Dall'altra parte Magnus eruppe in un verso sorpreso, un po' troppo teatrale, come se stesse cercando di fingere che non fosse successo nulla.
<< Vi lascio per un giorno e scoprite cose assurde su un caso banale come quello?>>
<< Non è banale.>> lo contraddisse mordicchiandosi un labbro un po' in ansia, voltò la testa per cercare lo sguardo di Alec e chiedergli silenziosamente se poteva dirgli qualcosa. Il moro se ne accorse un po' dopo e annuì solo, stringendosi nelle spalle come a volergli dire che tanto, prima o poi, ne sarebbe venuto ugualmente a conoscenza. Simon annuì a sua volta. << Pare che la vittima fosse Trevor Potter. O meglio, non pare, è proprio così.>>
<< E questo nome dovrebbe essermi familiare perché?>>
<< Perché è il tipo che ti ha sparato a Luglio, Magnus.>>
Il silenzio che seguì quell'affermazione ebbe il suono del cigolio ininterrotto della chiamata, poi un sospiro.
<< Quindi ho fatto bene ad andarmene? Non mi avreste comunque voluto su questo caso.>> constatò l'uomo amaramente.
Quel “ ho fatto bene ad andarmene” pareva quasi definitivo, non gli piacque per niente.
Simon scosse la testa, poi si ricordò che l'altro non poteva vederlo e si affrettò a parlare. << No, non riguarda te, ormai è morto non c'è un conflitto d'interesse- >>
<< Sì che c'è, ma non è il nostro caso visto che non indagheremo proprio su di lui ma su altro. Se stessimo seguendo solo il caso Potter di per sé, quello riguardante la sua morte, Magnus non avrebbe potuto partecipare.>> lo informò secco Alec.
Il ragazzo deglutì. << Lo hai sentito?>>
<< Sì, l'ho sentito. Quindi non state indagando sulla sua morte?>> la sua voce si abbassò un po' arrivando strascicata alle orecchie del giovane.
<< No, sappiamo com'è morto, cos'è successo e chi è stato.>>
<< Scommetto il tuo ex capo.>> disse sicuro Magnus, una nota stizzita nella voce.

 

Neanche a me piace bello, non rompere le scatole.
 

Simon si passò una mano tra i capelli e poi prese un respiro profondo ed espirò. << Sì. Comunque non posso darti troppe informazioni se non rientri in servizio.>>
Cercò di essere più spontaneo possibile, di fargli capire che stava cercando di tendergli un ramo d'ulivo, fargli capire che lo rivolevano lì con loro.
Non era bravo in queste cose, ma Magnus tentennò dell'altro lato e gli parve quasi di sentire un fruscio. Che stesse annuendo anche lui?
<< Bene, allora mi toccherà tornare… Tu sei- uhg, sei impegnato? Per stasera intendo, sei libero o hai impegni?>> provò con voce incerta.
Magnus incerto?
<< Sì. Cioè, no. Oddio, sì perché non ho impegni, quindi no, non li ho. No, ecco, sono libero, perché?>> balbettò impappinandosi sulle sue stesse parole.
Dall'altra parte Magnus si morse la lingua cercando di ricacciare indietro l'orgoglio.
<< Okay, capito… >> non provò neanche a prenderlo in giro, neanche se ne era accorto. Si sentiva come un ragazzino che deve far pace con l'amichetto, no neanche: come quando si doveva far pace da adolescenti… Dio che schifo… << Allora… allora vieni da me, stasera? Sto al Pandemonium, sai, devo gestire il mio locale ogni tanto se no penseranno che sono morto.>> si lasciò sfuggire una risatina un po' tirata e Simon, che avvertiva il suo stesso disagio, replicò senza gioia.
<< Certo. Cioè, okay. Verrò volentieri. Tanto tra un po' stacco, passo prima a mangiare un boccone e poi vengo da te. Allora… a dopo?>> chiese titubante.
<< Sì, sì, con calma, come vuoi. A dopo, Simon.>>
<< A dopo, ciao.>>
Il ragazzo riattaccò e si voltò verso Alec. Il moro non lo stava guardando, leggeva documenti, li cerchiava a matita e poi appuntava qualcosa su un semplice foglio a righe.
<< Mi ha chiesto di andar da lui.>> soffiò fuori il ragazzo.
Alec annuì. << L'ho sentito, sembravate due adolescenti innamorati che cercando di accordarsi per la prima uscita.>> rispose quello atono.
Simon arrossì e spalancò la bocca. << Non è vero! Non lo sembravamo era solo- >>
<< Strano?>> Chiese allora il detective alzando un sopracciglio ma non il volto, << Lo era, ma almeno ha avuto il coraggio e il buon senso di chiamarti per organizzare un incontro e chiarire la cosa.>>
<< Dici che è per quello?>> borbottò poco convinto.
<< Non fare il ragazzino, certo che è per quello. Sembrava una discussione tra persone normali e non una telefonata tra logorroici incalliti, ti ha anche chiamato per nome, non ha organizzato un incontro all'ultimo sangue per decidere chi dei due ha ragione. Ha parlato con Catarina.>> continuò Alec sicuro.
<< Come puoi dirlo? Insomma, io speravo che ci fosse arrivato da solo, non che lo avessero spinto a farlo… magari è così.>>
<< Ha parlato ieri con Raphael e oggi con Catarina.>> ripeté l'altro. << Santiago mi ha chiamato per chiedermi se dovesse mandarmi suo fratello per discutere dell'accordo lavorativo e Catarina mi ha mandato un messaggio qualche ora fa dicendomi che il suo amico è un coglione ma che lo avrebbe fatto ragionare come si deve.>> Alzò finalmente la testa e lo guardò dritto negli occhi.

 

Dannati fari blu, ti scrutano l'anima e non gli puoi mentire, non gli puoi dire di no.

 

<< Se lo dici tu… >> tentennò comunque.
<< È così. Preparati e vai a casa, chiudo io qui. Goditi la serata e cerca di non peggiorare la situazione. Sei autorizzato a picchiarlo sia da me che da Raphael e Catarina.>>
Detto ciò abbassò la testa e tornò a lavorare, come se nulla forse.
Simon rimase per un po' a fissarlo, indeciso se seguire quel palese ordine o dirgli di no, che non poteva lasciarlo solo a mettere in ordine quella roba, perché sapeva perfettamente che sarebbe rimasto a lavorare fino a tardi e che probabilmente la mattina dopo lo avrebbe ritrovato nella stessa posizione.
Eppure voleva anche alzarsi e andare al più presto a chiarire quella faccenda. Se ci fosse riuscito per bene il giorno dopo, a sgridare Alec per non essere tornato a casa e a prenderlo in giro perché portava sempre lo stesso completo e quindi non si notava se si fosse cambiato o meno, sarebbero stati in due e questo, ad onor del vero, era qualcosa a cui teneva molto.
Nella sua onorevole vita da venticinquenne Simon aveva fatto parte di molti gruppi e in fondo di nessuno. Aveva la sua famiglia che si era sgretolata e poi ricomposta con membri diversi ed eclettici. Aveva incontrato i suoi amici, la sua vecchia band del liceo, Jordan e Maia; aveva fatto amicizia con Izzy e con Jace persino, poi con Alec e i suoi di strani e assurdi amici, ma non si era mai sentito parte integrante di qualcosa di più grande finché non era entrato al Dipartimento come un tempo aveva fatto suo padre. Quell'ultimo anno però gli aveva fatto capire che anche nel laboratorio informatico era parte di tutto e di niente. Certo: gli mancavano i suoi colleghi, le sessioni di ricerca lunghe giorni e il battere incessante delle dita sui tasti di plastica, ma anche lì non avevano un solo scopo, una sola missione, erano all'ordine di troppe cose tutte assieme e spesso tutte diverse.
Lavorare con Alec per un singolo caso, concentrarsi su quello e null'altro lo aveva fatto sentire come un ingranaggio utile ed essenziale, qualcosa che non poteva essere sostituito da uno dei suoi colleghi: era lui, solo lui e i suoi amici gli si affidavano con cieca certezza.
Magnus era un altro ingranaggio, uno diverso da loro ed inserito quasi per caso all'interno della macchina che erano diventati lui ed Alec, ma che si era dimostrato sorprendentemente in perfetta armonia con loro, che aveva funzionato e funzionato anche bene. Erano solo due giorni che non lavoravano più assieme eppure già gli mancava.
Forse era perché aveva visto troppe figure della sua vita andarsene o presentarsi a lui senza essergli legati da quel sottile filo che è il sangue. Forse era tutta colpa della mancanza di suo padre nella sua vita, Simon non lo sapeva ma sapeva invece che ogni volta che qualcuno se ne andava lui soffriva questa partenza più di quanto non facessero gli altri.
Quindi si alzò e sorrise apertamente ad Alec, che gli stava dando la possibilità di togliersi subito quel peso dalla coscienza e mettere in chiaro tutto con il loro amico.
Rimise le sue cose nello zaino e quando si avvicinò al compagno per salutarlo gli poggiò una mano sulla spalla.
Alec alzò la testa per regalargli uno di quei suoi piccoli e sorti sorrisi, condito con un “buona fortuna e divertiti” di rito, ma non ne ebbe il tempo perché Simon si abbassò e lo strinse in un abbraccio caldo e affettuoso.
<< Vado a mettere le cose a posto capo, domani ti riporterò anche quell'altro pazzo, te lo assicuro.>> Sorrise strizzando gli occhi e serrando la presa su quelle spalle da nuotatore.
Non si aspettava che Alec lo ricambiasse, sapeva che i suoi abbracci erano solo per le situazioni importanti, ma la mano che gli si poggiò sulla schiena e che poi risalì sino alla sua spalla per stringerla gli scaldò il petto come se lo avesse abbracciato a sua volta.
<< Non ne dubito Lewis. >> disse con voce bassa, << Ora fila a fare il tuo lavoro e lasciami fare il mio.>> terminò però con un tono più duro e perentorio.
Simon scattò sull'attenti e sorrise raggiante. << Sissignor Capitano!>>
<< Non ti dirò “non ti ho sentito bene”, quindi sparisci e porta quella stupida spugna lontana da me.>> con un verso stizzito Alec lo cacciò fuori dalla sala che ancora rideva.
Guardando quella porta richiudersi il giovane si sentì improvvisamente positivo e pieno di energie.

 

Andiamo a riprendere per le orecchie quel cretino!

 

 

Farsi una doccia, mangiare un boccone e poi andare al Pandemonium. Questo era il programma di Simon e arrivare a casa e trovare Jordan intento a preparare proprio la cena, con Maia seduta sul tavolo a leggere chissà cosa sul telefono, fu per lui un gran sollievo.
<< Vai a far pace con Bane?>> gli chiese il coinquilino.
La ragazza alzò un sopracciglio. << Perché avevate litigato?>> domandò curiosa.
Simon inclinò la testa cercando le parole giuste. << Diciamo che l'ho quasi beccato con una tipa e che lui ha cominciato a vantarsene… >>
<< Quando tutti sanno che sbava dietro ad Alexander per altro.>> precisò Kyle mettendo le verdure nei piatti. << Maia, scendi da lì e apparecchi? Io sto inpiattando e tu sei ancora lì a far nulla.>>
<< C'è Simon che apparecchia, vero?>> sbuffò la ragazza passandosi una mano tra i ricci folti e gonfi.
Il ragazzo ridacchiò e annuì. << Certo, ma cosa farete quando non sarò più qui? Toccherà a te apparecchiare se farai cucinare sempre Jordan, è questa la regola.>>
Maia si strinse nelle spalle. << Sono sempre stata una fan del “mangia direttamente dalla padella seduta sul divano”, lo convertirò.>> gli disse come se fosse un gran segreto facendolo ridere.
Kyle scosse la testa guardandola male. << Non ci provare, sai che ho dalla mai anni di lavoro con il Capo Garroway. Sono riuscito a far mangiare lui in modo decente, posso fare lo stesso con te.>>
Mentre i due continuavano a battibeccare Simon sorrise e prese il suo piatto, sedendosi dietro a Maia e godendosi quel piccolo show.
<< Comunque.>> disse poi la ragazza scendendo dal tavolo. << Se sbava dietro al Lightwood buono- >>
<< Ehi, non è che gli altri sono cattivi… >> protestò debolmente Lewis.
<< Come ti pare, lui è quello riuscito meglio, non come qui rompipalle dei fratelli. Ma se sbava dietro di lui, perché va con altre? E poi, Bane è bisessuale? Diamine, con un culo come quello di Alec io avrei rinunciato all'altro sesso!>> continuò sedendosi anche lei al suo posto.
Jordan la guardò accigliato. << Come scusa? Pensi che Alec abbia un bel sedere?>>
<< Perché? Tu no? Andiamo, è palese. Simon?>>
<< Concordo con Maia, scusa Kay. >>
Il ragazzo alzò le mani in segno di resa. << Basta, ci rinuncio, non vi voglio sentire. Diamine, ci sono stato in accademia con lui, è come se ci fossi andato a scuola insieme, non me le dite ste' cose.>> si lamentò poi.
<< Dovresti esserne ancora più cosciente invece! Lo avrai anche visto nudo.>>
<< Maia, sei la mia ragazza, pensiamo di andare ad abitare assieme e mi ti metti a parlare del sedere degli altri uomini chiedendomi anche come sono da nudi… >>
<< La mia è curiosità pura e semplice.>> si strinse nelle spalle con noncuranza. << Dopotutto Alec è un bel ragazzo. Peccato sia gay.>>
<< Maia...>> ripeté Jordan storcendo il naso, << Per favore, dai.>>
<< Come ti pare. Simon? Allora? Che combina Bane?>>
<< Il coglione. Perdonate il termine.>>
<< Sono un poliziotto, ho sentito di peggio… ma non mi pare strano che Bane faccia danni.>>
<< No.>> concordò Simon. << Oggi mi ha chiamato, finito qui vado da lui al Pandemonium e ci facciamo due chiacchiere.>>
<< Mh, come le bambine per bene.>> ridacchio Jordan beccandosi un pugno sulla spalla dal coinquilino. << Ehi! Non dico che sia un male. Ricordati che alla base di ogni buon rapporto c'è fiducia, fedeltà e sincerità. E sai che per qualunque cosa sono qui per aiutarti Sim, siamo amici.>>
Simon sorrise sinceramente al ragazzo e gli allungò una pacca sulla spalla.
<< Lo so, sei il mio Sponsor.>>
<< E non hai neanche dovuto sviluppare una qualche dipendenza e finire in riabilitazione.>> mugugnò Maia masticando tranquilla.
Il suo ragazzo alzò gli occhi al cielo. << Come sei drastica.>>
<< Però io ti ho conosciuto proprio così.>> sorrise Simon, << Nei gruppi d'ascolto.>>
Jordan si voltò verso di lui e annuì concorde, << Il caro vecchio Praetor Lupus.>>
<< Sì, bei tempi quelli… te li ricordi ancora Kyle?>>
<< Non siamo mica così vecchi, amico, non esagerare.>> il ragazzo rise e intimò all'altro di finire ciò che aveva nel piatto e sbrigarsi, o sarebbe arrivato al Pandemonium quando Bane sarebbe stato già bello che sbronzo.
Simon ingollò un bicchiere d'acqua e si alzò da tavola lasciando piatto e posate nel lavandino.
<< Poi li lavo io i piatti.>> provò a dire, ma Jordan scosse la testa e indicò la sua ragazza. << Tocca a Maia oggi.>>
<< Perché a me?>> domandò quella arricciando il naso e Simon li lasciò a battibeccare come facevano sempre, sicuro che dopo sarebbero stati entrambi lì, uno di fianco all'altra, con le mani nel lavandino zeppo di schiuma a parlare del più e del meno e schizzarsi a vicenda come due ragazzini.
Si infilò svelto in camera per darsi una sistemata e poi uscì con la stessa velocità, salutando gli altri a gran voce per superare le loro e ricevendo un “Fai attenzione e chiaritevi” da Kyle ed un “Divertiti e non far cazzate” da Maia.
Se non gli rispose “Sì, mamma, sì papà” fu solo ed unicamente perché sarebbero stati capaci di chiuderlo fuori casa per ripicca.

 

 

 

Il Pandemonium era gremito di gente come ogni sera da quando era stato aperto.
Quello era il locale che suo padre, anni ed anni fa, aveva regalato a sua madre, dicendole che era tutto per lei. All'epoca non erano ancora sposati e dietro a quel bancone era stata anche la madre di Malcom assieme a Malcom stesso, che prendeva i bicchieri vuoti e li lavava alla velocità della luce.
Ora c'erano affascinanti baristi vestiti di pelle e a torso nudo che servivano le bevande ed i cocktail, e seducenti bariste in gilet lucidi che facevano roteare bottiglie colorate sulle teste acconciate ad arte.
C'erano camerieri e cameriere più svestiti che altro, con pantaloni a vita bassa e gonnelline minuscole sopra i body viola e luccicanti in cui stringevano tutte le loro belle forme.
Magnus lo ammetteva senza problemi: per lavorare nel suo locale dovevi essere bello, fascinoso, sensuale e capace di gestire la gente che ti si avvicinava troppo.
Certo, i bodyguard alla porta e sparsi per ogni angolo strategico delle sale, nonché vicino al bancone, erano un buon deterrente per tutti coloro che credevano di poter tutto in quanto consumatori, ma lì non era il cliente ad aver sempre ragione, era solo lui.
Qualcuno lo chiamava “Boss”, ma a Magnus aveva sempre stonato, gli ricordava il modo in cui i tirapiedi di suo padre chiamavano l'uomo e la cosa, se da una parte gli faceva piacere perché lo faceva sentire al suo stesso livello, dall'altra lo infastidiva perché non voleva essere come lui, o meglio, non voleva i suoi stessi titoli. Magnus voleva essere di più, voleva superarlo, voleva essere chiamato come nessuno aveva mai fatto con suo padre.
Essere definito “Sommo Stregone” era stato uno dei suoi successi più grandi, anche perché, modestie a parte, era davvero in grado di procurarsi qualsiasi cosa volesse. Spesso era per vie traverse, no, non nel senso illegali, era ovvio che si procurasse tutte le sue merci sotto il naso della legge, ma con “vie traverse” intendeva che delegava ai suoi colleghi, ai suoi amici, ai suoi soci.
Era davvero da troppo tempo che non si occupava più personalmente di un ordine o di una spedizione, aveva chiesto al suo direttore di sala di occuparsene ma molto spesso chiedeva direttamente a Meliorn che, abituato alle commissioni assurde di Quinn, era in grado di sistemare tutto in pochissimo tempo.
Avrebbe dovuto fargli un regalo un giorno di quelli.
Adocchiò la finestra che dava sulla sala sottostante, dove centinaia di corpi si strusciavano gli uni contro gli altri al ritmo dei bassi potenti. Aveva fatto istallare le vetrate nel salotto dove riceveva i suoi ospiti, perché il suo ufficio era sacro e privato, solo per lui e nessun altro.
Si bloccò constatando che, a dirla tutta, Alexander c'era entrato subito in quel suo spazio personale, ce lo aveva portato lui stesso per ascoltare il messaggio di segreteria di Ragnor. Non lo aveva fatto passare per l'intermezzo della sala a vetri.
Poggiò il braccio contro il vetro e poi vi premette la fronte, avvertendo quel leggero fresco che gli diede un po' di sollievo. Che temperatura c'era nel locale? Forse avrebbe dovuto far abbassare l'aria o sarebbe scoppiato un incendio. Sperò che le ventole di raffreddamento della console e delle casse funzionassero a dovere.
Si perse con lo sguardo su quella marea di corpi in movimento, un'onda continua che saltava e si dimenava al tempo di musica, sino ad arrivare all'entrata principale dove entravano alla spicciolata poche persone, forse i clienti fedeli che non potevano esser lasciati fuori anche se si era arrivati al numero massimo di persone secondo i piani di sicurezza ed evacuazione. Mh, forse avrebbe dovuto aprire anche le altre sale, doveva parlare con Denzel e discuterne per bene.
Dalla porta nera a molla, su cui spiccavano dei grandi maniglioni antipanico, entrò poi una figura che pareva quasi fuori luogo.
Anche dalla sua posizione così lontana, Magnus poté vedere gli occhiali di Simon e distinguere una scritta bianca sulla t-shirt che si intravedeva sotto al giaccone aperto. Aveva rinunciato a sciarpa, cappello e guanti e l'uomo credette fermamente che dopotutto le sue continue lamentele su quanto quelli non fossero indumenti adatti ad una discoteca avessero fatto effetto. Un po', però, se ne dispiaceva quasi: Simon infagottato di tutto punto sembrava un bambino troppo cresciuto e Magnus, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva sempre avuto un debole, un'inclinazione sarebbe stato meglio dire, per coloro che avevano bisogno del suo aiuto e che apparivano piccoli ed indifesi.
Deformazione professionale, sicuramente. E ancora più sicuramente derivante da Lily e da Catarina, che essendo più piccole di lui aveva sempre sentito il dovere di proteggere. Anche se poi Lily tirava fuori il suo bel coltellino a farfalla e ti apriva la pancia con un gesto solo al grido di “harakiri!”. Prima o poi avrebbe trovato al forza ed il coraggio di farle notare quanto fosse di cattivo gusto, ma quella ragazza era il cattivo gusto su due piedi quando si trattava di insultare, criticare e fare affermazioni scomode, quindi era una battagli persa in partenza.
Vide il buttafuori parlare accigliato con Simon ed indicargli proprio la vetrata. Quando il giovane alzò la testa gli fece cenno di salire da lui e si allontanò dalle finestrone.
Magnus si guardò attorno senza sapere cosa fare ed era così stupido visto che in vita sua aveva litigato con tantissime persone, con Raphael ci si era anche picchiato e quel nano messicano gli aveva rotto il naso con un pugno degno di un pugile. A ripensarci gli faceva ancora male.
Decise di sedersi su uno dei divani e aspettare che l'amico circumnavigasse tutta la folla e si arrampicasse fino a lì.

 

Quando la porta si aprì dopo un timido bussare Magnus si ritrovò a fissare Simon attraverso uno spiraglio socchiuso. Rimasero in stallo così a fissarsi, poi il giovane entrò e si richiuse la porta alle spalle.
<< Sei stupido, lo sai vero?>> chiese Simon a bruciapelo.
Magnus alzò un sopracciglio. << Quanto te?>>
<< Io sono solo un po' lento a capire le cose. Sei tu quello che fa le cazzate e poi si aspetta che gli altri applaudano.>>
Si guardarono ancora e poi l'uomo annuì sconfitto. << Questo è il momento in cui ti chiedo scusa, vero?>>
<< Questo è il momento in cui mi offri da bere, mi dici di mettermi comodo e ammetti di aver fatto schifo. Poi mi darai ragione e chiederai scusa.>> sorrise Simon avvicinandosi a lui e lasciandosi cadere sul divano.
Magnus alzò un sopracciglio. << Sei mi- >>
<< Non ci provare, Magnus. Sono un agente di polizia, non sono minorenne. Una vodka lemon, grazie.>>
L'asiatico sbuffò ma si alzò ugualmente per arrivare al ricevitore e ordinare i drink per entrambi.
<< Quindi… >> iniziò passando il peso da un piede all'altro. << Credo di aver esagerato, per come ti ho trattato.>> si fermò come se volesse sapere se stava andando bene e Simon annuì.
<< Sì, anche io ho esagerato. Ma mi è sembrato che tu stessi prendendo in giro Alec e non voglio che rimanga ferito ancora da qualcuno.>>
L'altro lo guardò curioso. << Ancora?>> chiese perplesso.
<< Non parleremo di Alec ora, ma di te che sei interessato a lui e nonostante questo ti fai altra gente.>> fece secco il castano.
<< Okay, ma ci torneremo. >> lo avvertì serio. << Ho esagerato, non ti dovevo urlare contro in quel modo e soprattutto non ti dovevo insultare.>>
<< Questa è tutta farina del tuo sacco o te lo ha detto Catarina?>>
<< Un po' mia un po' sua, lo confesso. Ma è vero. Ci credo seriamente. Ma capisci anche me, non credo che potremmo avere nessun tipo di rapporto- >>
<< Oh, non cominciare! Già ho Alec che dice che è difficile, non attaccare la stessa solfa. La verità è che dovreste parlarne con calma e capire cosa volete fare su questo fronte, perché che vi piacciate è ovvio.>>
<< Ma se non me lo fa mai capire!>>
<< Ma chi pensi di aver davanti? Alec non si butta a capofitto in una relazione, non flirta davanti a tutti e non ti ha complimenti su come sei bello oggi. Lo capisci che non è fatto per queste cose?>>
<< Dov'è il “non parliamo di Alec”?>>
<< Non ne sto parlando in quel senso. Magnus, ascoltami.>> fece il ragazzo sedendosi sul bordo del divano. << Alec non si imbarcherà mai in una storia che sente che potrebbe finire male, non lo farà se non vede interesse dall'altro lato- >>
<< Non vede interesse? Che diamine devo fare, scusa? Andare sotto casa sua a fargli una serenata? O appendere uno striscione melenso in cui gli dico che mi sono ancora l'unica notte di- >>
<< NO! No e non lo voglio sentire. È come se Backy venisse a raccontarmi delle sue avventure, non me lo dire dannazione!>>
<< È una cosa naturale perché ti fa così tanto effetto?>>
<< Tu non dirlo e basta, okay? E no, non devi dirgli che te lo sogni la notte. Penso che questo lo spaventerebbe un po'. Solo… perché non- sì, perché voi non… dannazione Mags, dovete mettervi a tavolo e conoscervi bene!>>
<< Ma lo conosco, diavolo! Insomma, so quanti tatuaggi ha, dove li ha, quando li ha fatto e perché anche! So persino perché il suo gatto si chiama Church! Che non gli piacciono i ghiaccioli agli agrumi, che detesta l'ananas e il mandarino soprattutto. Che si finisce sempre il cioccolato a gelato ma che se ha davanti un dolce composto se lo mangia tutto perché va mangiato così. Mi ha minacciato di spalmarmi la bavarese caffè e cioccolato in faccia se non me la fossi manata come si deve! E mette una quantità vergognosa di zucchero nelle bevande, ma poi se gliele dai amare se le beve comunque.>> cominciò a ruota libera l'uomo. Poi qualcuno bussò alla porta ed una bella cameriera con i capelli rossi ancheggiò sino a loro per portargli due grandi bicchieri decorati con scorse di limone.
Attesero in silenzio che la donna se ne andasse, anche se Magnus non si risparmiò i suoi soliti sorrisi e sguardi ammirati.
Quando la porta si richiuse aveva perso quella verve che lo aveva animato fino a quel momento.
Simon sospirò. << Sai cose che si imparano vivendo nello stesso ambiente, ma se ti chiedessi qualcosa di più personale?>>
<< Tipo la sua famiglia?>>
<< Tipo i suoi amici Mags, me ne sapresti nominare due?>>
Magnus batté le palpebre. << Perché? Alexander ha degli amici?>> chiese genuinamente colpito.
Simon alzò gli occhi al cielo. << Sì, gente che lo andava a trovare in ospedale ai normali orari di visita e che tu probabilmente non hai mai incrociato.>>
<< Allora come posso conoscerli?>>
<< Lui conosce i tuoi.>>
<< Ma io dei miei gliene ho parlato e glieli ho presentati, lui non lo ha fatto.>> gli fece notare piccato.
<< Magari perché in quel momento lui era il detective Lightwood e non aveva alcun motivo di presentarti i suoi amici?>>
Magnus rimase fermo a fissare l'altro, il bicchiere appena preso in mano era un freddo pungente ma che non lo toccava.
Deglutì. << Mi stai dicendo che non lo conosco. Che non posso interessarmi a lui finché non saprò chi è?>>
L'altro scosse ancora il capo. << No, certo che no. Succede a tutti di prendersi una sbandata per qualcuno che si conosce a mala pena, dico solo che… tu hai conosciuto Alec in un ambiente e uno soltanto, il suo, sì, ma lavorativo. Già vederlo a Natale dovrebbe averti fatto capire quanto possa cambiare da situazione a situazione.>>
<< Sì… era molto più tranquillo, quasi timido alle volte, spaesato quando giocava a carte e poi bam!, tornava ad essere l'Alexander perentorio che conosco i… o.>> la frase sfumò alla fine assieme alla realizzazione del concetto.
Magnus aveva conosciuto il detective e poi il fratello e amico protettivo, ma non sapeva nulla di come fosse Alec con i suoi amici, lontano da un luogo in cui doveva essere il più grande ed il più responsabile, in cui non doveva difendere tutti e prendere decisioni difficili ed immediate.
Prese un sorso del cocktale e lanciò uno sguardo di sbieco a Simon. Sentiva la matita sciogliersi con il calore della stanza.
<< Cosa consigli di fare, tu che lo conosci bene?>>
Simon gli sorrise felice di quella domanda. << Par- >>
<< Ah no! No! Non mi dire ancora “dovete parlare”.>> disse scimmiottando la sua voce con un ché di isterico. << Perché è la volta buona che ti picchio e sono cresciuto in mezzo a gente che sapeva fare a pugni!>> lo minacciò.
Simon sbuffò un verso sprezzante. << Sono sopravvissuto a Jonathan e poi ai Jace, ormai sono immortale.>> disse serio, poi bevve anche lui qualche sorso del drink, strizzando gli occhi al sapore forte della bevanda. << Ho detto vodka lemon, non vodka pura con decorazioni al limone!>> lo guardò male e Magnus si strinse nelle spalle.
<< La prova che sei ancora piccolo per queste cose.>>
<< Lo sono per gli alcolici ma non per darti consigli sentimentali? Diamine Bane, stai messo male.>>
Magnus grugnì. << Taci e dimmi che devo fare.>>
Il ragazzo sorrise e mandò giù un altro sorso. << Sii te stesso, interessati di più a lui- NO! Lo so che già lo fai, non intendevo quello. Dicevo, interessati di più alla sua vita, a lui-lui. >> Il suo sorriso si ampliò. << E chiedigli scusa per l'uscita sullo “sbirro”, ci rimane male quando la gente lo insulta con il suo stesso lavoro.>>
Magnus mugugnò qualcosa che pareva molto un verso insofferente ma alla fine annuì lasciandosi cadere sul divano e chiudendo gli occhi. Ne aprì solo uno e fissò male Simon.
<< Sto perdendo colpi. Prima Raphael e poi te… adesso mi ci manca solo Lily e poi ho fatto la scorta di gente completamente inadatta a dar consigli sentimentali che mi da comunque consigli sentimentali.>>
<< E che ci azzecca.>>
<< Questo è da vedere, non montarti troppo la test, Sonny.>>
<< Uh, mi hai chiamato con un nomignolo, allora mi vuoi di nuovo bene!>> il sorriso ampio del ragazzo contagiò anche l'altro che sbuffò ma sorrise a sua volta.
<< Assolutamente no, Steve, faccio solo il mio lavoro da genitore.>>
<< Preferisco Alec.>>
<< Non ti chiederò scusa dopo questa.>>
<< Oh, invece lo farai. Ora con me e domandi con Alec altrimenti te lo scordi il Caso Potter.>>
Un altro verso infastidito, poi Magnus decise di porre la fatidica domanda.
<< Solo una cosa .>>
<< Dimmi.>> fece pronto l'altro.
Magnus si tirò a sedere e lo fissò serio negli occhi:
<< Quanto stai rompendo il cazzo, ad Alexander, con continue citazioni random non richieste?>>
Il sorriso allegro di Simon si tinse di un certo velo di divertimento che lo vece sembrare ancora di più un ragazzino fiero della sua bravata.
<< All'incirca 9 e ¾!>>

 

 

 

 

 

 

 

La vecchia casa non era cambiata minimamente dall'ultima volta in cui era stata lasciata. Il pesante portone si frapponeva ancora tra l'esterno, dove vi erano il patio ampio ed i gradini decorati, e l'anticamera temperata in cui gli ospiti avevano sostato sorseggiando aperitivi in tranquillità.
Il pavimento di marmo brillava come se fosse appena stato levigato, dimentico di tutti gli anni e le persone che lo avevano calpestato, dei tacchi e delle ruote, dei pacchi, dei giocattoli e delle mani piccole e perennemente sporche di quei bambini che vi avevano gattonato sopra, che erano caduti e si erano rimessi in piedi.
La scalinata larga si apriva luminosa nel suo corrimano dorato, sotto di lei l'ingresso arioso e sopra un parapetto di in ferro battuto lasciava intravedere i corridoi e le porte del secondo piano, ancora più su quelle del terzo.
La struttura ne ospitava ben cinque di piani, compresi di mansarda, ma volendo si sarebbe potuti scendere per altri due sottolivelli. Il terreno su cui era stata edificata si trovava in una zona di lusso del quartiere e nessuno aveva mai osato metter piede neanche nel giardino della villetta.
A vederla da fuori, con i suoi muri color crema ed il tetto rossiccio dava l'impressione del vero sogno americano, peccato che nessuna bandiera sventolasse attaccata alla sua asta.
Il muro alto che la costeggiava era doppio, fatto di muratura spessa fuori e di arbusti sagomati dentro, ed il nero cancello grezzo pareva l'unica via d'ingresso a quel mondo.
Se lo era lasciato alle spalle così come il vialetto lastricato e le piante curate, così come i gradini, il patio e l'anticamera. Aveva salito con lentezza quelle scale che un tempo aveva percorso velocemente, marciando verso qualcuno che la chiamava o incorrendo qualcuno che le scappava. Aveva tenuto praticamente tutti i bambini che avevano varcato la soglia di quella dimora, stretti in braccio per non fari inciampare sui gradini, verso la scalata ad un piano superiore, ad una camera dei giochi, alla sala cinema, ad un salottino o alla stanza dove i più grandi si riunivano per studiare.
Sfiorando con le dita il corrimano freddo aveva salito ancora quella rampa, camminando ad agio sulla pietra chiara per poi arrivare sui tappeti lunghi e morbidi che coprivano il pavimento del secondo piano.
Gettando un'occhiata per quegli ambienti ora tanto bui e silenziosi ricordò un tempo in cui erano stati animati da ogni genere di personaggi.
Fu un flash quello che le passò davanti, un ragazzino di circa quindici anni che rincorreva un bimbetto urlante di appena due, gridando a gran voce che non se lo sarebbe perso.

 

<< Sì Miss! Lo riprendo subito, Miss! Non lo faccio scappare!.>>

 

Alle sue spalle, che salivano anche loro le scale con fare un po' circospetto e titubante, due giovani che invece di anni dovevano averne come minimo venticinque e che si guardavano attorno come se non sarebbero dovuti essere lì. Il bambino di due anni li individuò subito e sorrise allungando le braccette cicciottelle verso il primo della piccola fila.

 

<< Fuke!>>
<< Mi spiace signorino, è Fluke!>>


Gli pareva di sentirla ancora quella risata, peccato che ormai invece fossero passati anni. Così come gli pareva ancora di vedere l'altro giovane avvicinarlesi e chiederle cosa dovevano fare, che erano stati indirizzati da lei per aver istruzioni.
Se non ricordava male dovevano organizzare una festa di compleanno… già, così tanto tempo fa.
Sorrise malinconica e svoltò a sinistra per poter salire anche l'altra scalinata che l'avrebbe portata al terzo piano, per raggiungere il grande bagno che, ne era sicura, avrebbe trovato ancora tutto funzionante e perfettamente lucidato.
La malinconia lasciò il posto alla soddisfazione quando vide le sue convinzioni realizzarsi: l'ambiente era ancora perfettamente curato, proprio come lo ricordava. Persino la vasca idromassaggio, un diamante di quasi tre metri, era al suo posto, scintillante e pronta all'uso.
Si poggiò le mani sui fianchi ed annuì, sarebbe andata a controllare anche tutte le stanze e gli altri servizi, presto quella casa si sarebbe nuovamente popolata ed era compito suo accertarsi che gli ospiti avessero tutto quello di cui necessitavano.
Finalmente sarebbe tornata al lavoro e con sua grande sorpresa si rese conto di quanto le fosse mancato.

 

Edom House riapriva i battenti.


















 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX- Ragnatele invisibili. ***


 
Capitolo IX
Ragnatele invisibili.

 

 

 

La domenica era un giorno fantastico, un giorno in cui le strade erano leggermente meno affollate del solito e non c'erano tutti quei ragazzini che dovevano andare a scuola o tutti i pendolari che dovevano raggiungere l'ufficio.
La domenica era ancora più bella se nel tuo turno mensile ti avevano messo di riposo proprio in quel giorno.
Alexander si stiracchiò come un gatto al sole, rigirandosi tra le coperte calde e sprofondando il viso nel cuscino spiegazzato.
Si sarebbe dovuto alzare, mettere qualcosa sotto i denti e poi decidersi a fare qualche lavatrice e a stirarsi un paio di camicie, soprattutto quelle.
Si issò sulle braccia allungando un occhiata al telefono più per abitudine che per altro. Avere una domenica libera era raro, davvero rarissimo ed i primi tempi, quando aveva iniziato a lavorare ai vari casi, Alec si era dimenticato di aver un giorno di riposo, rimanendo ostinatamente chiuso in ufficio o intrappolato nel solito via vai lavoro-casa. Poi un giorno aveva incontrato suo padre per i corridoi del Dipartimento e l'uomo, conscio che quella giornata doveva esser libera per lui, gli aveva chiesto cosa ci facesse ancora a lavoro, se ci fosse stata un'emergenza.
Alec era caduto dalle nuvole: come che ci faceva lì, ci lavorava? Ah… era il suo giorno di riposo? Davvero? Non se ne era accorto.
Neanche dieci minuti dopo Robert lo aveva scortato fuori dall'edificio, dove un giovane Jace fresco di ammissione alla SWAT lo guardava scuotendo la testa, incredulo di fronte allo stacanovismo del fratello maggiore.
Aveva però ormai imparato a rispettare quelle giornate, a sfruttarle come si deve, anche solo per riprendere fiato e tirar fuori la testa da quel fumo asfissiante che era lo star a continuo contatto con morti violente e dolore della gente. Forse lo aveva imparato proprio dopo il servizio militare.
Gettò le gambe fuori dal letto come se pesassero tantissimo, alle volte gli tornava alla mente il formicolio ed il fastidio che lo avevano seguito durante i mesi sulla sedia a rotelle. Non gli piaceva ricordare quei giorni, quando si era sentito inutile, impotente, di peso per gli altri. Gli era sembrato di esser tornato alla sua adolescenza, ogni cosa che provava a fare non era mai abbastanza, poteva sempre essere migliore e fatta meglio. Erano stati anni terribili per lui, non c'era altro da dire, invece di godersi la gioventù si nascondeva e tremava all'idea che qualcuno potesse capire, che gli si leggesse in facci, che gli altri lo scansassero per questo.
Quanto gli ci era voluto per capire che il suo orientamento sessuale non incideva in nessun modo su chi era, su come si comportava, su cosa avrebbe potuto fare nella vita? Davvero troppo tempo, un Natale che pareva lontano ere geologiche e che lo vedeva esplodere sotto tutte quelle pressioni, sotto tutte quelle richieste di essere perfetto sì, ma seguendo modelli di perfezione diversi per ogni singola persona che lo guardava.
Ora, a quel ricordo, sorrideva triste e comprensivo, abbastanza maturo per capire quanto quel dolore fosse inutile ma sensato, quanto aver avuto al suo fianco delle persone care e fidate era valso come una boccata d'aria dopo esser andato a fondo. Come una giornata di riposo dopo infiniti turni di lavoro e sofferenza.
Guardò di nuovo il suo telefono, indeciso se fare o meno quella telefonata, anche se forse era meglio aspettare, con il fuso orario che li divideva avrebbe finito per svegliare tutta la palazzina.
Cercò così le ciabatte per trovarne una occupata da qualcuno che conosceva fin troppo bene. Sin da quando era piccolo Church aveva preso l'abitudine di dormire nelle sue pantofole. Forse perché erano grandi, morbide e calde, gliele aveva regalate suo fratello Max, tutto contento per averle trovate imbottite ma non ridicole, fatto sta che erano diventate il letto preferito di Church, ed il fatto che ormai sia le scarpe che il gatto avessero quasi sei anni, e che per altro Church non entrava più per bene della ciabatta ma si limitava a dormirci con il muso o il sedere dentro ed il resto del corpo arrotolato su sé stesso, non interessava minimamente a nessuno. Né ad Alec, né a Church e né tanto meno alla ciabatta. Non si era mai lamentata lei.
Si abbassò per prendere il gatto in braccio, ricevendo una mera resistenza visto che ancora sonnecchiava immerso nel suo mondo, se lo strinse al petto e si lasciò ricadere con la schiena sul materasso. Rimase a sentire il felino far le fusa per un po', domandandosi quando gli sarebbe ricapitata una situazione del genere quando avrebbe cominciato ad indagare sulla rete criminale.
Ancora gli faceva strano pensare che se ne sarebbe occupato lui e non la Crimine Organizzato, ma aveva ben capito che quella era la sua opportunità per dimostrarsi al livello del suo titolo e, c'aveva riflettuto per bene, doveva esser anche in un qualche modo collegato al quaderno di Asmodeus.
La situazione era capitata a pennello, forse per colpa della proverbiale fortuna che lo perseguitava da quanto era nato, eppure alle volte Alec si ritrovava a pensare che tutte le cose, tutti gli eventi, si incastrassero così bene che dovevano esser per forza opera della stessa persona.
La rete criminale di cui avevano parlato per tutti i giorni precedenti ne era un chiaro esempio: Alec sapeva che non c'era sempre lo stesso capo, che non era una singola persona a muovere le fila e che non era neanche la medesima organizzazione, ma era possibile che solo ora l'Antidroga decidesse di sgominare quella sottocultura di omicidi e spaccio che da sempre soffocava la città?
Alexander non si illudeva, sapeva che una volta messi in prigione i responsabili e gli affiliati dell'odierna associazione la droga non sarebbe scompara delle strade di New York City, sapeva che ci sarebbero sempre state altre bande, altre imprese criminali, eppure sapeva anche che eliminando questa la situazione si sarebbe quietata momentaneamente, mettendo a dormire tutti quei piccoli spacciatori che temevano per la propria salvezza.
Ben riflettendoci, fino a quel momento aveva interpretato la rete come un'organizzazione mutevole, che ad ogni cambio di Capo si modificava ed evolveva con colui che saliva al potere. Probabilmente cambiava la sede di ritrovo, cambiavano i codici per mettersi in contatto, cambiavano le gerarchie e magari anche i metodi d'azione, ma era davvero sempre la stessa? Offriva davvero gli stessi servizi?
Forse stava sbagliando approccio, forse stava sbagliando tutto. Presupponeva che quel gruppo agisse come una vera e propria agenzia, con regole, livelli, lavori assegnati a un affiliato o all'altro, e se non fosse stato così?
Improvvisamente Alec si domandò se non avessero mai sgominato davvero quel giro perché non facevano tutti conto ad un unico capo, improvvisamente si chiese se invece non fossero un'associazione di più “imprese”.
Il miagolio di Church, che aveva trovato del tutto fastidioso il fatto che il giovane avesse smesso di carezzargli il pelo, lo tirò fuori dai suoi pensieri, facendogli alzare la testa per fissare il proprio petto, da cui il fatto lo fissava intensamente senza batter ciglio.

<< Mi concili le idee, Church, forse dovrei portarti con me a lavoro. Sei fonte di ipotesi sensate molto più di quanto non lo siano i miei colleghi.>> gli disse grattandogli le orecchie.
Già, più dei suoi colleghi… di cui uno prendeva tutto sul personale e apocalittico e l'altro tutto sul personale e drammatico. Formare quella squadra era stata probabilmente la sua idea peggiore, molto più che farli conoscere, avrebbe dovuto continuare a farsi aiutare com'era stato per il caso Fell, senza che fosse davvero ufficiale.
Dannato lui e quella sua mania di fare sempre le cose per bene, come le regole comandavano.
Sospirando si tirò a sedere tenendo sempre il gatto stretto a sé, Church si rigirò pigramente e sgusci via dalle sue braccia, per poi stiracchiarsi e sedersi sul piumone, leccandosi tranquillamente la pancia.
Alexander lo invidiò tantissimo, sarebbe stato magnifico se il suo unico pensiero in quel momento fosse stato farsi una doccia, ma purtroppo per lui doveva pensare anche alla colazione e poi alla sua prossima meta.
Si alzò e sospirò di nuovo, l'ultima cosa di cui aveva voglia era andare a far visita al Dottor Lawson.




 

Sedersi su quella poltrona, dopo quasi un mese che non lo faceva, gli diede la sgradevole sensazione che l'uomo di fronte a lui potesse leggergli negli occhi il disagio provato e tutte quelle cose che non avrebbe voluto dirgli.

<< Non sta andando per niente bene la nuova squadra, vero?>>
La voce del dottor Lawson era sempre bassa e profonda, con un nota comprensiva di sottofondo che lo faceva rassomigliare molto ad un nonno che guarda il nipote già sapendo la marachella che sta per confessare. O almeno questo era il tono che teneva con lui: Alexander si sentiva in colpa ogni volta che gli posava lo sguardo addosso, ogni volta che silenzioso gli diceva “io già lo so, devi solo liberartene tu”. Non riusciva ad essere scontroso perché forse la figura di un nonno per lui era quella che non andava contraddetta, o per lo meno era stato così con il padre di sua madre. Alec aveva ricordi sbiaditi del nonno, certo più chiari e vividi di quanto non ne avessero gli altri, più di Max che non lo aveva mai conosciuto, ma restava il fatto che nei suoi ricordi il nonno diceva una cosa e quella era, non gli si doveva disubbidire, era così punto e basta.
A ben pensarci non sapeva neanche perché.
Rimaneva il fatto che Lawson usava quel tono con lui -probabilmente non anche con altri pazienti che ne sarebbero stati irritati- e funzionava, quasi quanto il tono colloquiale e amichevole.
Lasciò cadere le spalle e scosse la testa.
<< Non siamo neanche ad un mese e hanno già litigato. Non sono arrivati sulla scena del crimine, quando sono tornato in ufficio loro si ignoravano e sono stato costretto a chiuderli in sala riunioni perché si stavano saltando al collo. Si sono urlati contro senza ascoltarsi davvero a vicenda, ho provato a fermarli, Magnus si è arrabbiato ancora di più e se n'è andato. Non lo sento e non lo vedo da mercoledì mattina.>>
L'uomo annuì. << Sono cinque giorni. Simon anche?>>
<< No. Catarina, l'amica infermiera di Magnus, ha parlato con lui e lo ha fatto ragionare. Così Magnus ha mandato un messaggio a Simon e si sono incontrati giovedì sera al Pandemonium per parlare.>>
<< E tu lo sai perché?>>
<< Perché quando gli ha telefonato era con me in ufficio.>> rispose accigliato.
L'altro scosse la testa. << Perché sai che è stata Catarina, intendevo.>>
Alec alzò le sopracciglia sorpreso. << Oh, perché mi ha mandato un messaggio e me lo ha detto.>>
<< Catarina.>> ripeté il dottore per sicurezza.
Il giovane annuì sicuro. << Sì, mi ha detto che lo aveva fatto ragionare. Lo fa spesso, quando Magnus combina qualcosa lei ci parla o lo sgrida direttamente e poi mi manda un resoconto dell'accaduto.>>
<< E questo lo fai anche tu con lei?>>
<< Non è mai successo, le ho mandato una volta un messaggio per dirle che mi pareva un po' turbato, per la sua prima scena del crimine, ma tutto qui.>> si strinse nelle spalle e prese a giocherellare con il bordo della felpa larga e scura che portava. Era blu ad onore del vero, del blu scuro e pesante delle divise degli ufficiali di polizia, Alec aveva sempre amato quel colore, era la sua preferita e lo si poteva facilmente capire dall'usura dei polsini e dal modo in cui ugualmente era tenuta con attenzione.
Lawson fissò le sue dita sfregare quella stoffa consunta, proveniente da un'altra epoca non storica, ma di Alexander. Quando era entrata a far parte della vita del poliziotto? Quanto valeva per lui? Che significato aveva portarla in quel momento?
Sicuramente doveva essere dei tempi dell'accademia o giù di lì, gli calzava un po' larga ma non eccessivamente, forse una taglia in più; se l'avesse comprarla prima a quell'ora sarebbe stata in un cassetto, al sicuro ma non indosso a lui. Il fatto che se la fosse messa per quella seduta significava anche che si sentisse a disagio più del solito, che necessitasse di un'ulteriore protezione dal mondo, dalla verità, dalle azione della gente, da qualcosa che lo aveva ferito e che, quella volta, il giovane non riusciva ad arginare solo dietro la sua scorza dura e graffiata.
La personalità di Alexander era come un'armatura a placche: ogni placca diceva qualcosa di lui e se la si guardava da vicino ci si rendeva conto che era fatta di tante scaglie diverse ma tutte inesorabilmente saldate tra di loro.
Non penetrava il sole, non passava l'acqua, non vi filtrava l'aria, dentro la corazza nulla poteva intaccare il micromondo che vi viveva ed il microclima necessario affinché continuasse a vivere.
Fuori le scaglie splendevano in rilievo, annerite, scheggiate, graffiate, ammaccate, ma tutte unite e impossibili da smuovere. Componevano le placche grandi e modellate che abbracciavano quel corpo, lunghi ed opachi segni di saldatura a rilievo segnavano i punti in cui era stato necessario ricucire uno strappo, dove era stata aggiunta una nuova placca per difendere quella precaria che vi era sotto.
Nel micromondo un pezzo di cielo era caduto ma un'entità superiore si era affrettata a ripararlo.

 

Aggiusta il cielo.

 

Lawson una volta aveva chiesto al suo paziente di svelargli qualche segno particolare che aveva il suo corpo e con sua grande sorpresa l'uomo in giacca e cravatta davanti a lui il ragazzo, aveva solo 22 anni- gli aveva detto di aver dei tatuaggi.
Ben riflettendoci, sul momento, si era dato dello sciocco: era un riservista, un militare, un marines, era ovvio che avesse tatuato addosso come minimo il simbolo del suo squadrone o il suo numero. Ma Alexander lo aveva stupito e gli aveva raccontato che il primo se lo era fatto a quattordici anni, di nascosto dai suoi genitori come gli altri sei che erano venuti dopo.
Tra questi tatuaggi, tra il nodo celtico della fratellanza, tra la fiamma di una torcia che simboleggiava la sua famiglia, la "lightwood" che avrebbe illuminato la sua strada e la sua vita, -“Che in verità ho impiegato fin troppo per accendere. Per moltissimi anni ho preferito vivere al buio”- , tra i nomi dei suoi fratelli, tra la freccia sul suo bicipite e la croce di cui non aveva mai spiegato il significato, c'era una frase, fine, scritta lungo la sua spina dorsale, che si intravedeva a mala pena tra quelle ali che ora aveva e che il tatuatore era riuscito a celare in mezzo alle piume:Aggiusta il cielo”.
Al vecchio medico era capitato spesso di ritrovarsi a pensare ai suoi pazienti, di vedere un oggetto e di ricordare o capire qualcosa a loro inerente, ma solo dopo quasi quattro anni di conoscenza aveva collegato quelle parole, rivelate forse alla sesta seduta, con ciò che il giovane era, con il modo in cui affrontava la vita.
Alexander aggiustava ciò che gli capitava sotto mano, non aveva il cuore di buttare nulla, affezionandosi anche alle sue cicatrici più profonde perché erano parte di lui, perché erano collegate al bene quanto al male e perché, malgrado il ragazzo dicesse il contrario, Alexander non poteva smettere di soffrire, non poteva smettere di espiare le sue colpe.
Così creava il suo mondo personale, quello in cui vivere e in cui agire secondo le sue regole, senza mai dimenticare quelle degli altri, chiuso in quella bolla trasparente e impenetrabile, metallica e fragile, indistruttibile e rotta, ed ogni volta che c'era un terremoto, ogni volta che riceveva un colpo troppo pesante, un frammento del suo cielo cadeva e lui lo rimetteva al suo posto.

 

Aggiusta il cielo.
 

A guardarlo da dentro, non si sarebbero viste le spesse placche metalliche della sua armatura, si sarebbe visto solo un cielo infinito e contenuto al contempo entro una barriera viva e umana. Forse anche troppo umana ma mai abbastanza.
Lo psicologo guardò quel ragazzo, quell'uomo, che ormai conosceva fin troppo bene e gli sorrise mesto.
<< Per cosa hanno discusso?>> chiese in un soffio gentile e confidenziale.
Alexander si mosse a disagio, strinse i pugni sui polsini logori, un gesto così palesemente nervoso che Lawson già sapeva quale sarebbe stata la risposta: gliel'aveva data senza parlare.
<< Come mai?>> continuò quindi.
L'altro prese un respiro profondo. << Simon è andato a prendere Magnus ma ha incrociato una sua… conquista di una notte. Si è arrabbiato e ha messo su una discussione a cui Magnus non si è sottratto, anzi.>> la sua voce era flebile e lasciava passare tutta la sua voglia di starsene zitto e buono.
Lo rivide per un attimo alla loro prima seduta, quasi quattro anni prima, un ragazzo con i capelli dal taglio militare, corti ma non abbastanza per un membro dell'esercito, come se se li fosse lasciati crescere senza un senso preciso. Ricordava le strisce blu che uscivano dal colletto della camicia, quelle che reggevano la fasciatura che gli copriva il torace. Lo ricordava con lo sguardo lontano, il blu del cielo senza luna macchiato dal rosso e dall'ocra, dai colori violenti di una terra che pareva non riuscire mai a trovar la pace, vessata da troppe genti e troppe guerre non sue.
Ripensandoci indossava quello stesso maglione, solo che al tempo vi spiccava una scritta la cento, bianca ed opaca.

Marines.

 

<< Simon ha cercato di fargli capire come la cosa avrebbe potuto ferirti?>>
<< Non mi ha ferito.>> il suo tono divenne improvvisamente duro e serio, quella luce sabbiosa nei suoi occhi spazzati da un profondo freddo, da un'oscurità in cui Alexander sguazzava, in cui viveva mille volte meglio che alla luce. << Ho parlato con Simon, ho parlato con mio fratello e con i miei amici, non venga a dirmi anche lei che le azioni di Magnus mi hanno ferito perché non è così. Non abbiamo nessun vincolo, non abbiamo nessun legame, non ci sono parole dette o non dette. Da Natale è tutto congelato. Io sono il suo superiore, il mio compito è quello di dirigerlo al meglio e di non farlo finire nei guai. Non mi deve nulla.>> lo disse con asprezza e con ferocia, un'azione così palesemente difensiva che Lawson non cercò minimamente di non farglielo notare.
<< Questo tuo rifiutarti di accettare i tuoi interessi- >>
<< Non sto rifiutando nulla, non mi sto difendendo.>> Alec si tirò a sedere composto, la schiena dritta, le spalle rigide, le dita abbandonarono i polsini e anzi, se li tirò leggermente su, lasciandole intravedere pallide ma forti e ferme. Ferme come lui e le sue parole.
<< Non mi sentirà negare il mio interesse verso Magnus: lo trovo un uomo attraente e abbiamo dei precedenti, seppur minimi, che fanno presupporre che potrebbe nascere qualcosa di buono da una possibile relazione. Ma voglio essere anche il più obbiettivo possibile e questo mi porta a ragionare sul fatto che non lo conosco davvero e- mi faccia finire! Non lo conosco davvero ma lui ancor di più non conosce me. È figlio di un malavitoso, lo è lui stesso seppur non con la stessa ferocia di suo padre ma ciò che ha fatto non è nulla, nulla, in confronto a ciò che ho fatto io. Devo aver la certezza di poter esporre la mia storia a qualcuno che non scapperà e attualmente non ho il tempo per costruire una relazione solida, per conoscere qualcuno. È la nostra chiave di volta per riuscire a smascherare i colleghi del padre, non posso dare a nessuno ulteriori appigli per portarlo via da qui, dal Dipartimento, da me, più di quanti già non ne abbiano e lui… Dio santo, lui non è collaborativo. Non parla mai seriamente, fa sempre battute, sempre doppi sensi e io sono cresciuto con il re e la regina dei doppi sensi ma non- non ce la faccio.>>
Finì la sua arringa con la stessa forza con cui l'aveva iniziata e Lawson non ebbe nulla da ridire perché effettivamente se c'era una cosa che ad Alexander non si poteva negare era quanto fosse obbiettivo, freddo e lucido nel giudicarsi. Alle volte lo era anche troppo.
Compreso che su quel fronte non avrebbe ottenuto nulla di più per quella volta, e più che deciso a chiedergli comunque un altro incontro quel mese, il dottore espirò piano mantenendo la calma ed annuì.
<< Cosa ti ha turbato allora della discussione dei tuoi colleghi?>>
Visto il cambio di rotta Alec si rilassò leggermente, ma la sua posa, le sue mani ferme immobili sulle cosce, non mutarono minimamente.
<< Hanno urlato.>> il giovane disse solo quello e lo psichiatra annuì.
<< Stai avendo di nuovo quegli incubi?>>
<< Non sono incubi dottore, sono ricordi. È inutile classificarli come frutto della mia immaginazione quando so perfettamente che sono veri. Ma sì, quelli.>> disse freddo.
L'uomo lo studiò attentamente e prese un foglio dalla sua scrivania, vi scrisse sopra qualcosa e tornò a fissare i suoi occhi amichevoli, ora seri e concentrati, in quelli blu dell'uomo davanti a lui.
<< Chiamare le cose con il loro nome è il primo passo per accettarle.>>
Alec fece un singolo cenno affermativo con la testa. << È l'Iran.>> continuò prima che glielo chiedesse. << L'attacco al villaggio che presiedevamo.>> si fermò e cercò di chiamare alla mente anche gli altri sogni che di recente gli rendevano difficile riposare come si deve. << Il mio primo obiettivo, quando eravamo tra le montagne in appostamento. Il bombardamento. >> finì affievolendo al voce.
<< Le tue emicranie come vanno?>> gli domandò l'altro preoccupato.
<< Le sopporto, ho i medicinali con me ma preferisco non prendere nulla. Ho come l'impressione che mi rendano lento e non mi facciano capire tutto.>>
<< Sei consapevole che non è null'altro che questo vero? Una sensazione.>>
<< Lo so, ma se posso sopportare il dolore perché dovrei imbottirmi di farmaci?>>
L'uomo sospirò. << Prendere dei farmaci controllati da un medico, con la giusta prescrizione, non porta ad esserne dipendenti, né ad essere dei drogati.>>
<< So anche questo, ma- >>
<< Ciò che è capitato a lui non capiterà anche a te, Alexander, ne sono sicuro. Ho assoluta fiducia in te e nella tua forza di volontà, perciò promettimi che se le emicranie dovessero aumentare di frequenza o di intensità me lo dirai e accetterai di prendere i farmaci opportuni.>>
<< Non voglio diventare schiavo di una pasticca… >> soffiò neanche fosse una cosa da non dire.
Lawson a quel punto si alzò in piedi e fece il giro della scrivania, poggiandovisi contro e tenendo il foglio di carta stretto in mano. << Non ti succederà. Noi medici siamo qui proprio per questo, per far sì che le medicine facciano il loro lavoro, nel miglior modo possibile, nel minor tempo possibile e senza danni collaterali. Tieni, >> gli porse il foglio, << non sono medicine, è la ricetta di un infuso di erbe che aiuta a rilassare i nervi, bevine prima di andare a dormire, ti aiuterà.>>
Alec si lasciò sfuggire uno sbuffo ed una smorfia storta, << In pratica non mi da una medicina chimica ma me ne da una omeopatica?>> domandò con una nota divertita nella voce.
Lo psichiatra si tirò indietro con un'espressione quasi schifata. << L'omeopatia è buona per molte cose Alexander ed è una valida sostituzione a creme contro contusione o rilassanti, ma ti prego, non chiamarla “medicina”, perché non lo è.>>
Alexander prese il foglietto e annuì. << Mi spiace, non volevo offenderla.>>
Il dottore gli assestò una pacca sulla spalla e poi tornò al suo posto. << Non mi hai offeso per nulla, tranquillo. In ogni caso, credo che dovremo rivederci anche la prossima settimana, così magari parleremo con comodo di ciò che hai detto a tuo fratello e anche al tuo amico. Chi era poi?>>
<< Seth. E Jace.>>
<< Mh, sì, i tuoi “uomini”, no?>> sorrise.
Alec invece fece una smorfia. << La prego, così la fa sembrare una brutta cosa.>>
L'altro rise bonario, << Lo è solo se lo pensi. Stai pensando male?>>
<< Questa è la brutta influenza i Magnus, sono così abituato ai doppi sensi celati in ogni sua frase che li trovo ovunque.>>
<< Anche con i tuoi amici?>> domandò allora.
Scosse la testa. << No, loro sono come appaiono, è per questo che gli voglio bene.>>
Il sorriso di Lawson si ampliò divenendo quasi dolce. << Sono sicuro che loro te ne vogliono altrettanto.>>

 

 

Quando scese i due gradini che lo avrebbero portato sul marciapiede ingombro di folla Alec si disse che forse non era vero che la domenica c'era poca gente in giro, c'erano meno macchine la mattina e basta, alle undici la strada era ancora troppo affollata.
Pescò il cellulare dalla tasca e controllò che nessuno lo avesse chiamato. C'erano un paio di notifiche da qualche chat, quella dei suoi fratelli che discutevano di Dio solo sapeva cosa, quella con Chad in cui discutevano su cosa regalare a Daisy e poi c'era anche quella di Carla che si lamentava del fratello, e quella del fratello che si lamentava di lei, ma perché dovevano lamentarsi con lui? Cos'era? Erano tornati al liceo?
Sbuffò indeciso su quale messaggio aprire prima quando una strana sensazione gli strisciò lenta alle spalle.
Alzò di colpo la testa, scrutando la folla certo che in mezzo qualcuno lo stesse fissando. Era stato troppe volte nel mirino di qualcuno per non riconoscere il peso di uno sguardo troppo interessato.
Fece vagare gli occhi da un lato all'altro della strada finché non ne incontrò un paio azzurri, accecanti in chiarezza quanto in freddezza.
Una donna lo scrutava attenta dall'altro lato del vialone, accosta al muro della palazzina per non intralciare il passaggio. Indossava un lungo cappotto bianco immacolato, così come lo era la sua borsa e come lo erano le sue scarpe. I lunghi capelli biondi le ricadevano come onde sulle spalle minute, sulla linea strutturata della giacca. Il volto delicato, la pelle chiara, di una tonalità di un rosa così pallido da sembra fatta di cipria. Le labbra carnose erano rilassate, di un color carne più cupo che risaltava tra quelle guance candide, così come gli occhi ed il trucco semplice ma scuro che li decorava.
Sembrava un fiocco di neve, le mani graziose e le gambe lunghe e longilinee come i bracci di un cristallo volande che fievole volteggiava in aria per poi toccare terra.
Ma tra quel tripudio di bianco candido e immacolato, innocente e freddo, vi era una macchia, un pugno forte, un lume accecante che catalizzava tutta l'attenzione.
Adagiato sui seni prosperosi, vestiti di una morbida scollatura elegante ma lasciati scoperti dai lembi chiari del giaccone, vi era una scintillante pietra rossa, come il fuoco, come l'amore, come la rabbia, come il sangue.
Alec rimase imbambolato a fissare quello che pareva un rubino abnorme e limpidissimo, che catturava in sé tutta la luce che gli abiti bianchi attiravano. Probabilmente, se fosse stato interessato al gentil sesso quella sarebbe stata la prima cosa che avrebbe notato, ma ugualmente si sentì attratto da quella pietra enorme.
Alzò lo sguardo stupito e si ritrovò a ricambiare quello freddo ed acuto della donna.
Un sorriso curvò le belle labbra ma se anche per tutti i presenti parve sensuale e accattivante ad Alec diede la stessa sensazione di essere immerso nel ghiaccio.
Rimasero a fissarsi per un tempo indefinito, fino a quando una macchina bianca come le vesti della donna non si fermò proprio davanti a lei e quando ripartì quella era scomparsa. Non si mise neanche a cercarla in giro, Alec seguì con lo sguardo la Mercedes bianca ed i suoi finestrini oscurati, era certo che dietro ad uno di quelli ci fosse la bionda.

Non sapeva chi fosse, né cosa volesse da lui, ma una cosa era certa: un fiocco di neve macchiato di sangue non era mai una buona cosa.

 

 

 

 

Raphael rimase impietrito al telefono, non poteva crede a quello che la donna gli aveva appena detto
<< Tu hai fatto cosa? >> domandò lentamente.
Dall'altra parte arrivò un suono indistinto ma sicuramente divertito. << Ho detto che ho visto il detective, anzi, no, è un Tenente vero? Non sembra avere neanche trent'anni, è arrivato così in alto per le sue capacità o per il suo nome? >>
<<
Per ciò che sa fare, anche se non sono riuscito ad ottenere grandi informazioni sul fatto. Ma questo non importa, Camille, vai via di lì, non parlarci. >> le disse segretamente allarmato.
Gli ci mancava solo lei che decideva di farsi una passeggiata per New York City alla ricerca di quello che, Raphael lo sapeva perfettamente, sarebbe stato l'uomo che le avrebbe dato la caccia quando si sarebbe reso conto di ciò in cui era coinvolta.
<< Non l'ho fatto, l'ho solo guardato. È un bel giovane, davvero particolare. Mi ricorda i film daltri tempi, quando l'uomo era misterioso ma a modo e non un bad boy come ora. >>
<<
Lascia stare i film e lascia stare a che lui. Camille non ci scherzare, Alexander non è un poliziotto che puoi corrompere, non chiuderà un occhio se sei nel suo mirino. Non lo farà perché sei una bella donna e neanche perché gli offrirai qualcosa che desidera tantissimo. >>
<< Incorruttibile, capito, non mi metterò nei guai. Anche se adesso che l'ho visto capisco perché Magnus ha perso la testa per lui. >> la sua voce si affievolì e poi prese un respiro. << Lo hai preso in simpatia? >>
Raphael non rispose, rimase in religioso silenzio per interminabili minuti, il rumore della linea come unico sottofondo.
<< Lo hai notato anche tu? >> chiese con un fil di voce.
Immaginò Camille annuire e già si aspettava la risposta che ne conseguì .
<< Oui mon Cher. Oui. >>
<< Cosa ne pensi?>> chiese con voce rauca, quasi gli si fosse improvvisamente seccata la gola.
Non poté certo vederla, ma Camille si strinse nelle spalle e poi voltò il capo verso il finestrino. Davanti a lei un lucido vetro nero la divideva dall'autista.
<<
Non lo so, Raphael, non so davvero cosa pensare. Se fossi una brava persona gli augurerei di non somigliargli per niente.>>
<< E invece cosa gli consigli ora?>>
Stava in piedi davanti alla finestra del suo salone, le tende erano tirate come in ogni singola stanza di quella casa, del suo appartamento vicino a Palacio Santiago.
Non era mai andato a vivere lì da solo, lo aveva lasciato ai suoi fratelli e cugini, a chi avrebbe messo su famiglia e avuto bisogno di una mano dalle matrone e dagli anziani padri che ridevano assieme ai nipoti delle loro marachelle, scappando con loro da mogli, nuore, figlie e sorelle arrabbiate.
Era comunque rimasto in zona, a pochi portoni di distanza ad esser sinceri, non si era allontanato da quel quartiere malfamato malgrado potesse tranquillamente vivere nei suoi lussuosi appartamenti all'Hotel.
Sbirciò oltre la pesante tenda color granada, scrutando la strada in attesa di veder comparire i suoi ospiti, attendendo con pazienza e senza fretta che Camille gli rispondesse.

<< Gli augurerei di somigliargli ma non fino alla fine. Non finisce bene la gente come loro, giusto?>>
<< È già diventata “la gente come loro”? Quindi pensi si somiglino?>> chiese grattando con l'unghia sul vetro lucido. La minuscola macchiolina era fuori dannazione.
Un fruscio. << Questo me lo devi dire tu, mon cher, lo conosci a differenza mia.>>
<< Lo vorresti conoscere?>>
<< Ne varrebbe la pena?>> ribatté lei curiosa, senza cercare minimamente di nascondere né questo né il suo scetticismo.
Raphael non disse nulla, prese un bel respiro e poi annuì. << Sì.>>
Un basso risolino senza gioia arrivò dall'interfono. << Gli stai dando molta importanza.>>
<< Si merita il mio rispetto, quanto meno.>> disse espirando l'aria presa prima, le spalle si abbassarono un poco e il giovane camminò ad agio verso il divano. << Ha fatto molto per Ragnor.>>
<< Solo per questo?>>
<< Non so se ricordi quanto- >> iniziò lui già innervosito dal dover tirar fuori quel discorso. Ma Camille lo stroncò sul nascere.
<< Lo so. Non trattarmi come una stupida che non capisce nulla e a cui dev'essere spiegato tutto. Io ricordo, ma pare che tu ti sia dimenticato quanto mi dia fastidio.>> replicò lei seccata.
Raphael si domandò se fosse possibile per loro fare una conversazione normale senza dover tirar in ballo qualcosa del loro passato. Probabilmente no. Probabilmente questo era quello che facevano tutte le persone che un tempo erano state tanto amiche e vicine e che si rivedevano dopo troppo.
<< Sì, hai ragione. È uno dei motivi per cui hai rotto con Magnus, no?>>
Un verso quasi schifato. << Mettiamo in chiaro questa cosa una volta per tutte: se l'ho lasciato un motivo c'è. Non è stata solo colpa mia, eravamo una coppia, le cose si fanno in due e tu sai perfettamente quanto Magnus possa essere- >>
<< Infantile? Stupido? Egocentrico? Rancoroso? Invidioso? Accecato dai suoi desideri e spesso cieco a quelli degli altri? Convinto di essere l'unico a soffrire o ad aver il diritto di arrabbiarsi perché è un fottutissimo bambino viziato o perché è sempre stato associato al nome di suo padre che gli apriva tutte le porte? O magari malfidato, per nulla collaborativo e con una tendenza alle cazzate e al dramma da far invidia ad una tragedia Shakespeariana?>>
L'attimo di silenzio che seguì le sue parole fu tutto ciò che servì a Camille per scoppiare a ridere di gusto, costringendo in un qualche assurdo modo anche Raphael a piegare le labbra divertito.
<< Oh, Rafaél! Me lo dimentico sempre che tutto il bene che vuoi ai tuoi amici è proporzionale a quanto sono pericolosi per la società e la sanità mentale collettiva.>>
<< Spero tu ti renda conto che questo include anche te.>> le disse continuando a sorridere.
Camille annuì. << Je le sais, je le sais. Ti sei scelto dei begli amici.>>
<< Mi spiace deluderti, ma né te né Magnus siete stati una mia scelta. Direi che siete più classificabili come imprevisti, spiacevole conseguenze ed incidenti di percorso.>>
<< Aw, anche io ti voglio bene.>> gli disse lei civettuola. << Ma parlando di incidenti di percorso… glielo hai detto?>> domandò curiosa.
Raphael allungò le gambe davanti a sé, poggiando il gomito sul bracciolo e premendo la guancia contro il telefono. << Che sei qui? No, non gli ho detto nulla. Perché ho la sensazione che lo farai tu?>>
<< Perché sei una persona trés intelligent. Credo sia giunto il momento di farci due chiacchiere come si deve o continuerà a farmi passare per una puttana per tutta la vita.>> concluse con fastidio.
<< Ma lo sei.>> le fece notare pacato il messicano.
<< Certo che lo sono, ma non nel senso sessuale del termine. Sono una stronza puttana perché ho un carattere di merda, sono una millantatrice, una sibilla, un'arrivista e un'affarista fredda e senza scrupoli, ma certo non la do' via per soldi.>> concluse lei tutta convinta.
A Raphael venne da ridere: gli era mancata Camille, soprattutto quella parte di lei, quella che spesso gli ricordava Lily. Oh, aspetta, Lily.
<< Neanche Lily sa che sei qui.>> la informò di getto.
Camille aggrottò le sopracciglia e poi annuì. << Questo spiega molte cose. Mi occuperò anche di lei, tranquillo.>>
<< Non fate danni.>>
<< Certo mamà. Ora ti lascio, mon cher, sono arrivata a destinazione.>>
<< Devi vedere Saint Cloud?>> le chiese improvvisamente attento.
<< Oui. Sono arrivata qui già da un paio di giorni e non l'ho ancora visto. Pian piano mi toccherà far visita a tutti, sai com'è la prassi quando si ritorna a casa… >> lasciò la frase in sospeso e Raphael sapeva perfettamente cosa ci fosse di non detto.
C'era che quella, l'America, era stata casa di Camille ma non lo era più da tempo, che ora, come alla sua nascita, casa sua era Parigi e tutto ciò che vi gravitava attorno o vi si agitava dentro. C'era che far visita ad ogni singolo membro del loro Caln significava dire a tutti che ora anche lei era lì e che era pronta rimettersi in affari, nel giro, nei guai. Non si poteva passare solo per un saluto e poi via, a godersi le spiagge della costa Est e gli hotel di lusso. C'era da partecipare alle riunioni, alle cene, ai gala, alle feste e alle lotte. C'era da prendere una posizione e c'era anche il fatto che tutti si aspettassero di conoscere già la tua decisione.
C'era che ormai di veri parenti nella loro famiglia, Camille non ne aveva più nessuno, che forse aveva lui e basta e c'era un motivo per cui aveva lasciato New York così tanto tempo fa.
Camille si stava godendo le sue ultime ore di aria, stava guardando per l'ultima volta il cielo chiaro e luminoso della mattina, ma presto il sole le sarebbe stato di nuovo fatale, presto sarebbe ridiscesa nelle cripte che ospitavano loro ed i loro segreti e sarebbe tornata a venerar la notte ed il buio.
Camille era di nuovo ridiscesa tra i Figli della Notte e Raphael sapeva che per lei sarebbe stato ancora più difficile di quanto non lo sarebbe stato per chiunque altro di loro.
Perché una volta assaggiata la libertà, nessuno riesce a tornare in gabbia.


 

 

 

Comodamente seduta sul divano del salotto, Catarina fissava Raphael senza vederlo davvero.
Era arrivata circa dieci minuti prima e questo era stato tutto il tempo di cui aveva necessitato l'altro per metterle un bicchiere di vino in mano e sganciare la bomba più devastante che teneva nel suo arsenale.
Non poteva crederci, non era possibile, non ora, non con tutto quello che stava succedendo e che dovevano affrontare. Ma forse era proprio quella dannata situazione ad aver richiamato persino Lei a New York.
La città non le era mai parsa così piccola.

<< Mi stai dicendo che anche lei ha ricevuto questa… chiamata, come è successo a te e che per questo è tornata in America?>> chiese con voce flebile.
Raphael annuì, poggiato ancora contro la finestra chiusa, la spalla premuta contro il vetro gelato.
<< Anche se la sua di chiamata è stata decisamente più cruenta nella mia… >> rifletté lui sovrappensiero.
<< Ma perché non ci hai detto nulla? Perché non ci hai avvertito quando ti è arrivata- cosa? Una lettera? Una missiva? Un pacco?>> continuò ora più allarmata.
<< Una lettera, sì. E per inciso, a qualcuno l'ho detto, ma è stato fin troppo stupido per capire cosa fosse davvero. Così come sono stato sciocco io a credere che anche lui l'avesse ricevuta.>>
La donna si agitò sul posto, cercando una posizione comoda che non poteva trovare, non in quella situazione. << Lo hai detto a Mags?>>
<< Sì, ma come sempre è duro di comprendonio. È estremamente intelligente per tante cose e completamente ottuso per altre. Se ti consola, non ne sa nulla.>>
<< Non è per nulla consolante.>>
<< Ma è già qualcosa.>>
Malcom era rimasto in silenzio sino a quel momento, facendo roteare piano il vino nel calice lucido, conscio, a differenza di Catarina, sia di quale poteva esser stata la chiamata di Belcourt, sia quali conseguenze la cosa comportasse.
<< Se non ha ricevuto nessun segno vuol dire che non ne sarà coinvolto. Sarà comunque toccato dalla guerra, ma non scenderà in campo.>> la sua voce era lenta e decisa, quasi stesse scandendo con attenzione le parole per farle permeare al meglio nella mente dell'amica.
Non era rimasto sorpreso dalla confessione di Raphael, anzi: chiamare qualcuno che sai potrebbe esser coinvolto e che sai anche esser stato tuo amico era una mossa più che intelligente e decisamente da Raphael. Dopotutto l'aveva fatto anche lui, figurarsi se sarebbe andato a far la paternale a quello che, a conti fatti, era il ragazzo di cui si era preso meno cura durante la sua adolescenza.
Da Magnus a Lily, da Ragnor a Catarina, persino Meliorn era stato suo protetto come invece Santiago non lo era stato. Veniva da un quartiere diverso, da una realtà diversa e poi Asmodeus non gli aveva mai chiesto di stargli attento o di tenerlo d'occhio. Raphael aveva la sua enorme famiglia e tutta la rete di conoscenze che ne derivava. Aveva il suo popolo in campo straniero, in parole povere non era affar suo.
Lo aveva conosciuto che era già grande, non lo aveva visto crescere se non di sfuggita, quando lo incrociava con Rag, o a litigare con Magnus. Forse solo quando Lily aveva iniziato a poter far di testa sua il messicano era diventato più presente in quel loro strano quadretto, ma a quel tempo Mags era grande e Malcom aveva ampiamente adempiuto ai suoi doveri di babysitter.
Gli si era quindi sempre rapportato in modo diverso, era più indulgente con lui perché non aveva il potere di bacchettarlo, gli si era sempre posto da amico, non da guida, non da persona adulta che devi ascoltare. La sua telefonata non lo aveva certo sorpreso: essere “amici” come lo erano loro implicava che se si aveva un problema si chiamava l'altro per un consiglio, ma che quell'altro non aveva il diritto di dirti che avevi fatto una cazzata a meno che non l'avessi fatta talmente tanto epica da risultar impossibile ignorar la cosa.
Tra tutti i suoi demonietti, Raphael apparteneva decisamente ad un altro girone.

<< Sì, ma questo non significa che non possa succedere in futuro. Magari lui sarà l'ultimo ad essere chiamato.>> insistette Catarina.
<< Speriamo di no, farebbe solo danni.>> borbottò invece Raphael. Si diede una spinta con la spalla e tornò verso di loro. << Attualmente i problemi sono altri. Camille è tornata, questo vuol dire che prima o poi Magnus se ne renderà conto.>>
La donna annuì, << Quella stronza…sarà di nuovo pronta a rovinare la vita a Mags. >>
<< Io non la giudicherei così velocemente, Catarina.>> Malcom la guardò quasi con una nota di rimprovero negli occhi, << Ricorda che noi conosciamo solo una versione dei fatti e sappiamo quanto Magnus sia bravo ad omettere le cose per risultare sempre vincitore.>>
Catarina si voltò a guardarlo sconcertata. << Come puoi dire una cosa del genere? Lo ha mollato dopo tutto il casino che si era alzato, quando lui le aveva chiesto solo di restargli vicino! Aveva appena preso davvero in mano le redini dell'impero di suo padre e lei invece se ne scappa in Francia, lontana dai problemi!>> alzò la voce infervorata, poggiando il bicchiere sul bracciolo del divano.
Malcom si strinse nelle spalle e fece per parlare, ma la voce glaciale di Raphael lo precedette.

<< È questo quello che ti ha detto Magnus? Che lei non voleva i problemi derivanti dal suo nuovo ruolo e che lo ha lasciato solo a gestire tutto?>>

Raphael era nato e cresciuto in America e malgrado fosse sempre vissuto in mezzo alla comunità messicana il suo accento non usciva mai allo scoperto, una perfetta pronuncia anglosassone addirittura lo contraddistingueva dagli altri ed era stato uno dei primi punti di contatto tra lui e Ragnor. Ma in quel momento il sibilante accento delle terre infuocate del sud, dove un tempo avevano dimorato antiche culture e popoli potenti adoratori del sole, era tornato in tutto il suo splendore accecante.
Raphael era arrabbiato e Catarina non ne capiva il motivo, specie perché non lo aveva mai sentito difendere così Camille.
<< Io… sì, questo è quello che disse Magnus. Camille fece sparire tutte le cose dal suo appartamento e lasciò l'America senza dir nulla. Mags ne rimase- >>
<< Non è affar mio cosa sia successo tra quei due e come ci rimasero male. Ma credimi Catarina, spero vivamente che Magnus non sappia davvero il motivo per cui Camille se ne sia andata così e che creda che sia perché non voleva sopportare tutto il pandemonio che si è alzato dal passaggio di testimone ufficiale. Lo spero per lui.>>

Il suo tono freddo non ammetteva repliche, così come metteva il punto definitivo a quel discorso.
<< Se la vedranno loro due.>> si intromise Malcom guardingo, studiando l'espressione granitica del padrone di casa. << Ora dobbiamo parlare di altro, cose più importanti. Se Belcourt è qui significa che il Clan è di nuovo unito, mancava solo lei, no?>> domandò rivolto al giovane. Quello annuì.
<< Bene, un fronte è già unito.>>
<< Che fronte?>> chiese Catarina ancora turbata dalla reazione dell'amico. L'aveva visto inalberarsi in quel modo per poche, pochissime persone e una di queste era Ragnor. Illuminata da quel pensiero si voltò di scatto verso Raphael e lo scrutò sbalordita: che Camille fosse l'altro punto scuro della sua vita?
Catarina amava davvero tanto Raphael, così come amava Magnus e aveva amato Ragnor come l'avrebbe sempre amato­- ma c'erano delle cose di quello schivo ragazzo messicano che ancora non conosceva.
A quanto pare tanto lei amava il suo amico tanto lui amava il buio e le sue storie.
<< Forse non dovresti sentirle queste cose.>> le disse dolcemente Malcom, ma lei scosse la testa.
<< Ti ricordo che anche a me è arrivato qualcosa.>>
<< Ma non è una chiamata, gracias a Dios.>>
<< No, ma dice che è “Arrivato” e visto il mittente può trattarsi solo di una persona.>>
<< Sei sicura che il numero fosse quello?>> chiese l'uomo sporgendosi verso di lei.
Catarina annuì mentre recuperava la borsa e ne tirava fuori il cellulare. << L'ho chiamato troppe volte per essermelo dimenticato. Magari prima non avrei saputo dirtelo a memoria, ma appena l'ho visto l'ho riconosciuto.>> selezionò il messaggio e voltò il telefono verso di lui.
Raphael non si mosse, lui quel numero non lo avrebbe mai potuto ricordare.
<< Sì. >> sentenziò Malcom. << è decisamente il suo numero. Non credevo che l'avrei rivisto in questo modo e per questo motivo.>>
<< Quindi cosa pensi che sia?>> s'intromise Raphael.
<< Un avvertimento dato da un amico. Ci ha informati che ciò che faremo da oggi in poi dovrà calcolare anche la sua presenza.>> rispose Malcom. << Sapeva che tu l'avresti mostrato a noi, forse sperava anche che tu lo mostrassi a Magnus.>>
Catarina scosse la testa. << Assolutamente no. Se l'avessi fatto adesso saremmo tutti in pigione per i motivi più svariati. Se non tre metri sotto terra direttamente.>> concluse abbassando il tono di voce. << Quindi cosa dobbiamo fare?>> si riprese poi.
<< Tu nulla.>> disse subito Raphael. << Non hai ricevuto la chiamata e non fai parte di nessuna famiglia, quindi non ti immischierai in questa faccenda più di quanto non lo farai già per colpa nostra.>>
<< Non credo spetti a te deciderlo e ti vorrei anche ricordare che sono più grande di te. E che so difendermi.>> replicò infastidita.
<< Di poco. Per di più saprai anche come tener in mano un bisturi, ma mi duole informarti che una lama non batte un proiettile. Se ti ritrovasse coinvolta in uno scontro a fuoco, e prima o poi succederà, non avresti di ché proteggerti.>>
Il ragionamento di Raphael filava ma Catarina non avrebbe mai lasciato i suoi amici nei guai, non se di quella portata.
<< Raphael ha ragione, Cat.>>
<< Malcom!>>
<< Mi spiace cara, ma è così. Puoi difenderti da un problema, da un criminale anche, comune, ma non puoi far nulla contro i mostri che stanno per farsi vivi. Saremo tutti più tranquilli nel sapere almeno te lontana dai guai. Sei rimasta pulita fino ad ora, non entrare nel fango adesso.>> le sorrise gentile, cercando di convincerla in ogni modo.
Catarina sospirò. << Quindi non conta il mio messaggio?>> provò un'ultima volta.
<< No cara, non te lo ha mandato il Capo. Catarina, ascoltami, è decisamente meglio per te e per noi. Meno pedine ci sono in gioco meno vittime rischiano di esserci.>>
<< “Pedine”? Malcom questo non è un gioco, è la realtà! Rischiate di morire, di finire in prigione per il resto dei vostri giorni se vi dice bene!>>
<< Non siamo mai finiti dietro le sbarre.>> iniziò Raphael,<< Tranne Magnus, ovviamente. Comunque non ci finiremo ora. Questo è davvero un gioco, Catarina, il più delicato e difficile a cui potremmo mai partecipare, ma non cambia la sua identità. Anni addietro, prima che noi nascessimo, prima che anche Malcom entrasse in questo circolo vizioso, Asmodeus iniziò una partita, decidendone le regole e arrogandosi la possibilità di cambiarle quando voleva. Personalmente non le conosco neanche tutte, queste regole, e molti si sono rifiutati di dirmele. >> lanciò uno sguardo a Malcom come a fargli intendere che dopo avrebbe chiesto anche a lui. << E con “regole” intendo proprio quelle: ci sono cose che si possono o non possono fare, in determinati momenti o situazioni. Siamo divisi in “squadre”, ci chiamano Famiglie, Branchi, Clan, Popoli, Casate. Ognuno di noi ha una differente fazione e ruolo. Lo chiamiamo gioco perché lo è. La chiamata serve ad informarci che siamo giunti alle ultime battute di quest'opera, che presto dovremmo scendere in campo e combattere. Chi prima lancerà i dadi prima potrà muovere. >>
L'espressone sul suo volto era neutra e quasi preoccupante, ma Catarina non dubitò neanche per un secondo delle sue parole.
<< Posso almeno sperare che se avrete bisogno d'aiuto verrete da me?>> domandò ormai arresa.
Malcom le sorride. << Posso assicurarti che verremo da te solo ed unicamente se sapremo di non metterti in pericolo. Ma sì, se mi servirà un medico sarai la prima a cui penserò.>>
<< Io non posso, mamà s'arrabbia se non vado da mio cugino Rodrigo quando sto male, dice sempre “cosa l'abbiamo a fare un medico in famiglia se poi non lo sfruttiamo?”, ma sappi che saresti comunque la mia prima scelta, mio cugino è un cane.>> disse invece Raphael.
Un sorriso leggero tese le labbra di Catarina, per il momento quello poteva bastare.
Forse era davvero una cosa più grande di lei – di tutti loro- e doveva tenersene fuori il più possibile. Non voleva immaginare quali fossero le “regole”, come bisognasse agire, quanto sangue avrebbe sporcato le mani dei due uomini davanti a lei e di molti altri che conosceva.
Magari sarebbe stato loro utile un aiuto dall'esterno, qualcuno imparziale e soprattutto neutro che avrebbe solo fatto il suo dovere: come infermiera nessuno poteva obbligarla a non far il suo lavoro, a non cercare di salvare delle vite.
Dalle loro parole ne dedusse che presto New York City sarebbe diventata un pandemonio in terra, che le strade sarebbero state battute da demoni infernali tornati in superficie, da fazioni diverse che un tempo avevano combattuto sotto lo steso vessillo per lo stesso signore. Ogni angolo sarebbe stato un punto salvo per nascondersi, dietro il quale moderni cowboy sarebbero stati pronti ad armare la propria pistola e sparare a sangue freddo al nemico.
Osservando i suoi amici Catarina si domandò improvvisamente una cosa: Se loro erano i banditi, i popoli che presto avrebbero fatto fuoco e fiamme di quella città, chi sarebbe stato lo sceriffo, pronto a riportare l'ordine?

 

 

 

 

 

Fare la strada dallo studio a casa sua, la sua vecchia casa, non era poi così impegnativo. Se il dottor Lawson costava quello che costava non ci si poteva mica aspettare che vivesse in periferia e per fortuna non abitava neanche dall'altra parte del Parco. La 5th Avenue era abbastanza vicina, per di più ad Alec non pesava minimamente camminare, non dopo esser stato così tanto tempo seduto.
Erano passati mesi da quando aveva lasciato la sedia a rotelle, qualcosa di meno da quando aveva lasciato definitivamente le stampelle, che per altro erano ancora sotto il letto della sua vecchia cameretta, sempre a portata nel caso fossero servite quando ancora stava dai suoi.
Probabilmente, tra tutte le case della sua famiglia, quella più adatta alla degenza sarebbe stata quella di Jace, che vantava un bell'ascensore funzionante. L'appartamento di Izzy era al secondo piano di una palazzina da tre, quindi niente oltre alle scale per salire. Quello di casa sua era rotto dall'alba dei tempi, ed Alec proprio non voleva ricordare come fosse successo, ed infine l'ovile non aveva uno straccio di ascensore in cinque piani, sei se si contava il seminterrato, di casa.
Già portarlo oltre quei quattro gradini che c'erano all'entrata era stato terribile. Jace, Simon, Izzy e pure Jordan, chiamato per l'evenienza, si erano quasi rotti qualcosa per riuscire a portarlo su con tutte le bombole dell'ossigeno e la sedia.
Poi era arrivato Seth, aveva guardato tutti con una faccia accigliata quanto interrogativa e aveva domandato per quale dannato motivo non avessero messo semplicemente una rampa sui gradini.
Max rideva ancora quando si tirava in ballo l'argomento e l'avrebbe fatto per molto tempo. Di solito la battuta iniziava con “Quanto ci mettono due poliziotti, un ingegnere informatico e un patologo forense a portare una sedia a rotelle oltre quattro gradini?” e poi da lì giù a litigare su come, quando e perché avrebbero dovuto procurarsi una rampa.
Alec era perfettamente consapevole che a Natale la cosa sarebbe entrata di diritto nella lista delle grandi cazzate fatte dai Lightwood nel corso della vita.
Rimaneva il fatto che fosse rimasto per mesi nella camera degli ospiti del piano terra, che in realtà era la stanza degli armadi dove erano riposti i cambi delle biancherie per la casa e i loro abiti più importanti. C'erano le toghe dei diplomi, l'abito da sposa di Maryse e le divise d'onore di Robert e pure la sua. C'erano persino i loro vestiti del Prom.
Avevano aggiunto un letto, comprato e montato per l'occasione ed era diventata praticamente la sua prigione per quasi tre mesi.
Quando era tornato in camera sua, oltre quelle due rampe di scale, aveva tirato un sospiro di sollievo. Quando era tornato a casa sua si era quasi messo a piangere al pensiero di esser solo e non doversi aspettare incursioni a sorpresa da nessuno visto che per entrare sarebbe dovuto andare ad aprirgli il portone.
Per un periodo ogni volta che qualcuno lo informava che gli avrebbe fatto visita Alec chiudeva gli occhi e si domandava cosa avesse fatto di male nella vita.
Probabilmente era stata la stessa domanda che si faceva da una vita.
Le strade semi popolate della città però lo aiutavano a pensare ad altro, a distogliere l'attenzione da tutti quei problemi che gli affollavano la mente, tutti quei ricordi, lasciando il posto ad altre domande e altri pensieri.
Come quell'angolo di strada. Alec si bloccò nel mezzo del marciapiede per poi spostarsi velocemente di lato ed evitare così di dar fastidio.
Il marciapiede grigio sporco era lo stesso di tanti anni fa e persino la vetrina che vi stava davanti non era cambiata nei colori ma solo nell'allestimento interno. Le scalette che portavano al piano seminterrato e quelle che invece conducevano al portone della casa di fianco. Una volta c'erano stati dei gerani sulla finestra dell'edificio, ma l'implacabile tempo newyorchese non era così clemente con quei delicati fiori.
Si ritrovò a sorridere e alzare lo sguardo al cielo, non c'era il sole splendente di quella volta e non vi era neanche qualcuno finito a terra per evitare una bici. A ben pensarci molte delle “prime volte” di Alec erano avvenute per colpa di un pony-express: il suo primo cadavere, la sua prima cotta, la sua prima realizzazione, il primo incontro. Dannazione, magari portava sfiga ai ragazzi delle consegne, o magari il Mondo non sapeva come rompergli ulteriormente l'anima e gli mandava moderni “messaggeri” con casco e protezioni a portargli delle nuove in sella al loro cavallo meccanico. E diamine, più meccanica di una bici non c'era neanche una moto, quelle ormai si reggevano di elettronica e di ingegneria avanzata.
Con una smorfia insofferente sul viso riabbassò lo sguardo sul terreno. Fare pensieri così filosofici sul Fato o chi per lui che ti manda a dire qualcosa non era proprio nelle sue corde, di solito tirava fuori argomentazioni terribili e soprattutto catastrofiche. Meglio lasciar perdere il destino e i pony-express, anzi! Chissà se sulla Weast Coast il tempo era bello, chissà se telefonando avrebbe disturbato o meno.
Neanche si rese conto di aver tirato fuori il cellulare dalla tasca, si ritrovò a fissare lo schermo nero e tentennò per un attimo. Erano le dodici passate lì, c'erano circa quattro ore di distacco da una costa all'altra, magari alle tre lì la gente era al mare a fare surf sui cavalloni invernali alti sette metri.
O magari poteva fare una prova e al massimo lasciare un messaggio.
Gli parve quasi di sentire la voce di Lawson che gli ripeteva di non partire sempre dal presupposto di star disturbando la gente, ignorando lo sguardo furbo di suo fratello che dal passato dei suoi ricordi ripeteva che chiedere è metà parte di ottenere, così come aveva insegnato loro nonna Phoebe. Lui non era mai stato bravo in quelle cose, nel chiedere, ma forse poteva fare un eccezione. Sbloccò il telefono con rinnovata decisione, aprì la rubrica e fece scorrere la lista fermandosi a colpo sicuro. Il pollice rimase per un po' sollevato sopra quel numero, tremando leggermente. Rialzò la testa per guardarsi attorno, gli ci sarebbero voluti almeno venti minuti di camminata veloce per arrivare a casa, ma se se la fosse presa con comodo avrebbe avuto tutto il tempo di farsi una chiacchierata come si deve.
Annuendo interiormente poggiò il dito sul display e si portò il telefono all'orecchio, il cuore in gola nell'attesa come se stesse commettendo un crimine. Come se fosse tornato bambino e si vergognasse ancora a morte di telefonare a qualcuno, spaventato dall'idea che potrebbe essere una terza persona a rispondere e non quella che si voleva sentire.
Poi il ritmico ripetersi di quel tuu monocorde finì ed Alec trattenne il respiro nell'attesa di sentire chi avrebbe trovato dall'altra parte.

<< Pronto? >>
La gola secca lo costrinse a deglutire, ma le sue labbra si tesero traditrici e non ci fu niente da fare, il sorriso che gli si aprì sul volto era quello del sollievo nell'aver trovato al primo colpo la persona giusta e della felicità di risentire qualcuno di caro dopo molto tempo. Effettivamente era da Natale che non si sentivano.
<< Ehi.>> cominciò bloccandosi quando sentì la sua voce tremolare per l'emozione. Come un dannato moccioso.
Dall'altra parte qualcuno rise in modo basso, divertito e privato, ma maledettamente famigliare.
<< Sei felice di sentirmi o hai avuto di nuovo la brillante idea di telefonarmi mentre stai correndo?>> Domandò l'interlocutore.
Alec scosse la testa. << Mi sono fermato per telefonarti.>> gli confessò con voce leggera e ferma.
<< Non hai investito nessuno questa volta?>>
Non riuscì a trattenere quella risata nasale per cui spesso era stato preso in giro e scosse ancora la testa lasciando che i capelli si scompigliassero più di quanto già non lo fossero.
<< Non sono io quello che investiva la gente, di solito la salvavo. A differenza di qualcuno che invece andava sempre salvato.>>
Una risata proruppe anche dall'altra parte. << Ah! Questo è un tiro da centro campo, Xander.>>
Alec sorrise a quel nome, mettendosi una mano in tasca e ricominciando a camminare verso casa, ad agio e con tranquillità.
Dopotutto, per quel giorno, per quella domenica, aveva tutto il tempo del mondo.


 

 

Chiuse la telefonata e rimise il cellulare nella tasca del giaccone, aprendo il cancelletto nero che delimitava quella piccola porzione di praticello ora sbiadito dal freddo che anticipava i “gradini maledetti”.
Era l'una e cinquanta, forse sua madre l'aveva dato per disperso o forse l'aspettava solo al varco per fargli una lavata di capo come non ne riceveva da quando era piccolo.
Suonò il campanello ed attese che gli aprissero, quella mattina non si era portato le chiavi appresso e si rimproverò per questo: non si poteva mai sapere se servissero o meno, specie perché non avevano una chiave nascosta o qualcosa del genere. Oh, e perché il codice di sicurezza dell'allarme era cambiato e i suoi ancora non glielo avevano detto, certo, anche per quello.
Un rumore di passi proveniente dall'interno gli rivelò, prima ancora che la porta si aprisse, chi fosse arrivato. Ebbe appena il tempo di chiedersi cosa ci facesse suo padre a casa che l'uomo apparve sull'uscio con un vecchio maglione vedere bottiglia indosso ed una forchetta ancora in mano.
Alec alzò un sopracciglio.

<< Scusa, stavate mangiando?>> Chiese dispiaciuto battendo i piedi sullo zerbino e seguendo il padre in casa.
Lui scosse la testa. << No, a dirla tutta sto preparando ora.>>
<< “Stai”? Mamma ti ha lasciato cucinare?>> fece Alec sorpreso.
Robert scosse la testa. << No, o poi dovrebbe ammettere che sono più bravo di lei. È corsa in ufficio, un sospettato voleva fare un accordo in cambio di una confessione.>> disse semplicemente tornando in cucina.
Alexander si fermò in anticamera per appendere il giaccone e svuotarsi le tasche, soppesando il telefono in mano e concedendosi un piccolo sorriso storto dei suoi prima di raggiungere il padre.
Un profumo invitante arrivò dritto dalla pentola che bolliva sul fuoco, non gli ci volle molto per identificare la zuppa di zucca in quel denso composto aranciato che scorse oltre il coperchio.
<< Ti piace, no?>>
La domanda dell'uomo lo fece voltare: ogni volta che era suo padre a dover cucinare cercava sempre di far loro i piatti che preferivano. Quando poi c'era uno solo dei suoi figli si concentrava soprattutto su quelle pietanze che gli altri non amavano troppo. Le zuppe rientravano tra quelle cose che tutti in famiglia mangiavano ma che, per così dire, se non c'erano non venivano richieste. Tranne da Alec ovviamente. Brodi, minestre, zuppe calde… Alexander aveva sempre amato la consistenza morbida e vellutata di quei piatti, che gustava senza l'aggiunta dei sempiterni crostini di cui andava matto Max, o delle spezie di Izzy o della pasta che Jace preferiva per asciugare il più possibile il composto. Suo padre lo sapeva, così come conosceva alla perfezione le preferenze di tutti, eppure continuava a chiedere se una cosa andasse bene oppure no, come se avesse l'eterno terrore di far qualcosa di sbagliato.
Si guardarono in silenzio e quando Alec vide quel leggero rossore colorare le guance dell'uomo seppe che ve ne era uno identico sulle proprie.
Mettere assieme i due più timidi della famiglia non era mai una buona idea, specie perché loro due, malgrado gli anni e tutto ciò che avevano condiviso tra di loro come segreti inviolabili, continuavano a sembrare due cactus che non sapevano come toccarsi.
Alexander annuì così a suo padre e tentò un sorriso, storto come quello sul volto dell'altro.
<< Certo papà, lo sai che l'adoro.>>
Anche Robert annuì, impacciato e rigido come lo era in ogni suo approccio affettivo ai figli, specie ad Alec, e tornò ad apparecchiare la tavola della cucina, borbottando che avrebbero mangiato lì perché sarebbe stato sciocco apparecchiare la tavolata infinita della sala da pranzo.
In un susseguirsi di cenni di testa, azione di cui entrambi sembravano vivere e che pareva essere la risposta giusta a tutto, il giovane si congedò per andare a lavarsi le mani e quando tornò trovò già servito in tavola.
Mangiarono in silenzio per un po', le solite chiacchiere gentili ed inutili s'accesero sino a quando suo padre non gli chiese come fosse andata da Lawson.

<< Devo rivederlo tra due settimane. Mi ha dato una tisana rilassante da prendere per aiutarmi a dormire.>> disse flebilmente sbrigandosi a riempirsi la bocca per non dover aggiungere altro.
Robert si bloccò con in cucchiaio in aria. << Non riesci a dormire?>>
<< Sogni.>> bofonchiò solo, ma suo padre non ci cascò.
<< Del Medio Oriente? I sonniferi non fanno effetto?>>
<< Non voglio prenderli.>> sentenziò già innervosito dalla piega del discorso. Con suo padre non poteva fingere nulla, lui era stato sotto consulto psichiatrico e anche sotto farmaci pesanti, lo sapeva che i medicinali funzionavano e che se non li prendevi eri tu che non volevi guarire, lo sapeva fin troppo bene.
<< Alexander, se non dormi non sarai abbastanza lucido sul lavoro.>> gli disse subito infatti, ma Alec non era una testa dura meno dei suoi fratelli, era semplicemente uno con cui si poteva discutere. La maggior parte delle volte.
<< Non li prenderò. Non è così insopportabile, dormo tutte le ore che devo, solo in modo un po' agitato.>>
<< Quanto è “un po'”?>>
<< Lo sai.>>
<< No, non lo so Alexander.>> il suo tono perentorio gli ricordò quello per le grandi sgridate di quando era piccolo. Lo vide poggiare la posata sul piatto ancora mezzo pieno e cercare i suoi occhi, ma Alec sapeva che nel momento in cui gli avrebbe concesso il suo sguardo sarebbe stato perso.

Sono ancora quel ragazzino convinto che se venisse fissato dritto negli occhi tutti i suoi segreti verrebbero rivelati.

<< Non posso sapere come e quanto dormi male se non me lo dici e la tua inclinazione a minimizzare tutto ciò che ti riguarda, nel bene e nel male, non aiuta per niente. Cos'hai?>>
Ancora non lo guardava, Alec continuò a tenere ostinatamente gli occhi sulla zuppa arancione che fumava nel suo piatto.
<< Ho sprazzi di ricordi… >> iniziò con voce flebile. << Vengono innescati da qualcosa che succede. Rumori, suoni, parole. Qualche giorno fa Magnus e Simon hanno litigato, si sono urlati contro. Ho sognato il risveglio al campo medico.>>
Probabilmente Robert avrebbe capito tutto anche solo se gli avesse detto “hanno urlato”, ma apprezzò molto lo sforzo che fece il figlio per tirarsi fuori di bocca tutte quelle poche ma importanti parole.
Fin da quando era piccolo, quand'era solo un infante in fasce, Alec aveva avuto quasi paura delle urla. Quando l'avevano portato in camera di Maryse, appena nato, era calmo e rilassato, così piccolo, tutto raggomitolato su sé stesso. Ma non appena il pianto di un bambino era arrivato dal corridoio aveva iniziato ad agitarsi, a muoversi inquieto sino a cominciare a piangere lui stesso.
L'aveva visto tapparsi le orecchie quando un minuscolo Jace aveva urlato a pieni polmoni per la fame, lo aveva visto nel panico perché non sapeva – lui piccolo bambino di un anno e mezzo- come calmare il fratellino. Aveva visto quanto fosse quasi sofferente delle urla di Isabelle, che voleva tutte le attenzioni su di sé e lo ricordava con lo sguardo pieno di terrore ed il volto impassibile quando lui era uscio dalla sala operatoria per annunciare a tutti loro che sia il piccolo Max che la mamma stavano bene.
Alec aveva sempre avuto un pessimo rapporto con le urla. Quando era tornato dal fronte i primi mesi non si poteva neanche chiamare a gran voce qualcuno da una stanza all'altra, non si poteva neanche urlare a qualcuno che lo volevano al telefono.
Era migliorato con il tempo, ma le urla aveva comunque mantenuto un posto terribile e al contempo importante nella sua vita.
Un Alec che urlava, per esempio, era un Alec che stava per spezzarsi, che era al culmine della sua paura, della sua impotenza, che temeva di non riuscire in ciò che doveva fare, di non esserne all'altezza.
Era una debolezza.
<< Perché hanno litigato?>> gli chiese allora e Alec alzò finalmente gli occhi su di lui, lo sguardo beffardo e stanco al contempo.
<< Pare la domanda del mese.>>
<< Dammi la risposta del mese allora.>>
Quello sospirò. << Simon ha incontrato una conquista di Magnus, ha pensato che questo potesse danneggiarci, glielo ha detto nel modo sbagliato e Magnus gli ha risposto nel modo sbagliato. Hanno discusso anche in Dipartimento, Bane ha detto delle cose che poteva risparmiarsi e io gli ho detto che effettivamente era così, quindi poteva anche andarsene e seguire solo i casi che voleva.>>
<< Questa è la versione concisa ma completa?>>
<< Ovviamente.>>
Robert annuì. << Posso presupporre che la paura di Lewis fosse per te? >>
<< Mh.>> Alec riabbassò la testa sul piatto e riprese a mangiare. << Non ti ci mettere anche tu papà, per favore. Ho sentito lui, Jace, Seth, Izzy e pure Lawson.>>
<< E ti hanno detto tutti ben o male la stessa cosa?>>
<< Che devo parlare con lui, conoscerlo se mi interessa davvero ma- posso sperare che tu almeno capisca?>> chiese speranzoso guardandolo di sottecchi.
L'uomo lo guardò di rimando e poi annuì lentamente. << Non è una situazione facile, ma per il bene della squadra dovreste chiarirvi. C'è un motivo se i rapporti tra colleghi sono vietati, ecco cosa succede.>>
<< Io lo so e speravo che lo capissero anche gli altri. Eppure pare che tutti credano che sia estremamente facile risolvere il problema.>>
<< Questo perché pensano al piano affettivo. Magari pensano anche a dei precedenti?>> gli domandò poi alzando un sopracciglio.
Le guance di Alec divennero rosse in un batter d'occhio, annuì in modo sconnesso e abbassò la testa, balbettando parole senza senso.
<< Ti posso ricordare che i tuoi fratelli mi hanno fatto la telecronaca di Natale.>>
<< I miei fratelli sono dei fottuti traditori del loro stesso sangue!>> Lo disse con veemenza ma si morse subito la lingua quando realizzò che stava parlando con suo padre e doveva mantenere un certo linguaggio.
Robert però sorrise mesto e un po' dispiaciuto. << Colpa mia… >>
<< So anche questo, i geni del ficcanaso dovevano essere di mamma, tutti noi saremmo stati degli splendidi avvocati.>> ammise a voce bassa.
<< Tua madre infatti voleva fartici diventare.>> gli ricordò ancora.
<< Già, temo di averle, ugh… notificato la mia contrarietà in modo un po' eccessivo quella volta...>>
Suo padre sospirò e annuì. << Ricordo bene. >> disse solo. Poi prese un respiro profondo. << Quindi la storia dei medicinali, degli incubi e magari anche di Bane è legata a quello?>>
Alec lo guardò a occhi spalancati. << No! Dio santo, no, assolutamente no. Sarebbe sciocco dire che non abbia mai influenzato le mie decisioni, ma… Papà, ascolta, ci sono cose del mio passato che io non sono pronto a condividere. Non le ho dette a Lawson posso andare a dirle a lui? Non le sa Simon, non le sanno Jace e Izzy, figurarsi Max. Alcune non le sa neanche Seth. Non posso caricare una persona di queste cose quando non ci conosciamo davvero, vorrei avere alle spalle uno straccio di rapporto d'amicizia prima di sganciare la bomba… letteralmente. >> finì di nuovo abbassando la testa.
L'altro annuì ancora. Era un gesto così comune ad entrambi che avrebbero potuto tenerci una conversazione a forza di cenni di capo.
<< Sì, ti capisco.>> sussurrò. << Vorrei solo- vorrei solo vederti felice, Alec e se Magnus Bane ti rende felice vorrei che tu non scappassi.>>
Un sorriso amaro si aprì sul volto pallido del giovane. << Una notte assieme e un caso alle spalle non fanno la felicità di nessuno.>> ammise stanco anche di provar vergogna.
<< Però ti attira.>>
<< Fascino del proibito? >> provò a scherzarci su rimestando la zuppa nel piatto. << Ha il suo fascino, sì, non lo negherò. Eppure non so fino a che punto possa esser giusto per me. Specie in questo momento.>>
Robert si tirò indietro sulla sedia ed incrociò le braccia al petto.
<< Come tuo superiore ti direi che hai ragione: non è adatto a te, non è adatto al lavoro che fai ed è vietato intrattenere rapporti sentimentali sul luogo di lavoro. Gli sei già affezionato, così come a Simon, questo è di per sé un problema, perché in caso di pericolo so che rischieresti il doppio per salvarli, ne hai già dato prova. Quindi il mio consiglio, come Comandante della Polizia, è di parlare con lui, spiegargli la situazione e dirgli che sei disposto a dargli la tua amicizia ma che non potrà esser nulla di più finché lui sarà al servizio del Dipartimento o sarete nella stessa squadra.>> iniziò serio.
<< E come padre?>> chiese invece Alec.
<< Come padre ti direi che sì, forse non è adatto a te, ma che per dirlo con certezza bisognerebbe “provare”. Dovete ugualmente parlare e chiarire il concetto, devi spiegargli cosa ti trattiene e cosa comporterebbe un vostro avvicinamento. Ti direi di essere felice o per lo meno di provare ad esserlo ma che se sei convinto che non faccia per te… >>
Alec espirò pesantemente, una smorfia a deformargli il viso. << Perché deve essere così complicato?>>
<< Perché è amore.>> gli rispose l'uomo con semplicità, sorridendogli comprensivo.
Il figlio lo fulminò. << Non ci provare papà.>>
<< Non ho detto nulla che non sia verità.>>
<< Non buttarla sull'amore, colpo di fulmine e simile per- >>
<< Cosa ti è piaciuto di lui?>> gli chiese a bruciapelo.
Alec si bloccò la lingua stretta tra i denti e le sopracciglia crucciate.
Ripensò a tutto ciò che sapeva di Magnus, tutto ciò che avevano condiviso e alla fine non poté che rispondergli sinceramente, come sempre nella sua vita.
<< Mi ha ricordato quando avevo diciassette anni, voi non sapevate nulla ma i ragazzi sì e quando uscivamo mi sentivo libero di fare e dire tutto ciò che volevo. Ma non è proprio così, con lui spesso le parole le devi dosare e anche bene.>>
<< Ma ti ha fatto prendere una boccata d'aria. >> si riavvicinò al tavolo e vi poggiò i gomiti spora. << Per ora non possiamo dire o fare nulla, finché non parlerete seriamente. Dopo che l'avrete fatto ti giuro che ascoltò tutto ciò che vorrai dirmi e ti darò il consiglio più imparziale che potrò mai darti.>> poi gli sorrise, con quello stesso sorriso storto che gli aveva passato una vita fa. << Ora finisci di mangiare, ti si sarà freddata la zuppa, non era la tua preferita?>>
Malgrado avesse dovuto riaffrontare quel discorso, malgrado fosse andato lì per parlare di tutt'altro, Alec restituì a suo padre l'immagine speculare del suo sorriso e annuì.
<< Lo sai che è la mia preferita.>>
<< Sì, certo che lo so.>>

 

 

 

 

 

Alla fine era riuscito a dire a suo padre anche ciò che stava per iniziare a lavoro. Ovviamente, perché altrimenti non sarebbe potuto essere, Robert già sapeva qualcosa, del fatto che questa Operazione fosse sotto mano di Antidroga e Omicidi e come Alec si era interrogato ancora sul motivo per cui non fosse stata coinvolta l'OCCB, suo padre aveva definitivamente e con brutale schiettezza messo a fuoco la situazione: Si trattava della ricerca di reti criminali in cui sicuramente anche poliziotti ed ex poliziotti, consenzienti o inconsapevoli, avevano preso parte e l'OCCB era stata a suo tempo non solo la sezione di suo padre stesso, ma anche quella di Valentine. Gli Affari Interni si domandavano ancora se ci fossero “adepti” dell'ex Vice Commissario e se fosse saggio metter loro a disposizione un'opportunità del genere.
Non era un segreto per nessuno che la Crimine Organizzato vantasse il più alto numero di infiltrati degli AI, così come molti sospettavano che Valentine avesse influenzato un po' troppe persone.
Quella di cui si fidavano di meno, ad esempio, era la stessa che ora se ne stava poggiata alla ringhiera delle scale del suo condomino, a fumare come una ciminiera.
Alto e lungo, magro da far paura, la sua figura spiccava per tetra presenza, il cappotto lungo lo faceva somigliare ad un becchino e in modo del tutto sciocco Alec si disse che almeno non era solo lui a sembrarlo quando indossava una palandrana nera.
Attorno al collo e sulle spalle pendeva mollemente una sciarpa grigia, dello stesso colore fumoso delle spire della sua sigaretta.
I capelli bianchi erano però più corti di come li ricordava, rasati corti sulla nuca, con un unico ciuffo più lungo che gli copriva gli occhi e che il giovane scacciava via con gesti secchi del capo. Con quel taglio sembrava ancora più magro ed emaciato di quanto non fosse mai stato, pallido come un fantasma, come i suoi capelli, come la neve ed il celo che prometteva bufera.
Le guance scavate, le labbra fini e screpolate, parevano quasi bianche, mentre l'unica nota di colore era data dalle iridi verde bosco e le profonde occhiaie violacee che vi stavano sotto.
A terra, vicino alle sue scarpe scure, c'erano già quattro sigarette ma Alec non dubitava che anche quelle sull'asfalto lì di fronte, mischiate alla fanghiglia e alla sporcizia delle strada, potessero esser sue.
Gli si avvicinò ad agio, studiandolo da lontano e pensando a come da tutta quella storia fosse, ironicamente, uscito fuori peggio il biondo rispetto a lui. Non se ne sarebbe dovuto stupire ed in fatti non lo fece.

<< Buona sera.>> disse con il suo consueto tono di voce monocorde, senza alzar la voce per farsi sentire meglio.
L'altro si girò di scatto, il viso affilato fu scosso da un brivido e poi quella sua classica, fastidiosa e spiacevole smorfia gli piegò i lineamenti. Un ghigno beffardo mostrò i denti leggermente ingialliti dal fumo.
<< Lightwood, te la sei presa comoda, credevo di doverti aspettare qui tutta la notte.>>
La voce di Jonathan invece era più rauca e forte, come se si stesse sforzando di replicare il modo in cui aveva sempre parlato.
Alec aveva la vaga sensazione che dalla morte di suo padre il ragazzo avesse perso quella sua smodata voglia di dar fiato alla bocca.
<< Sono stato dal medico e poi dai miei, sai com'è quando torni a casa.>> rimase sul vago, non specificò che avesse solo incontrato Robert, non voleva in alcun modo rincarare la dose.
<< Lo strizzacervelli?>> chiese quello con una punta di disgusto.
Fu il turno di Alec di sogghignare. << Sì, lo stesso che ha in cura te.>> lo sottolineò quello, perché se doveva sentirsi dare del pazzo avrebbe fatto in modo che l'altro si ricordasse che erano sulla stessa barca.
Jonathan parve rendersene perfettamente conto e fece un'altra smorfia. << Lawson è una spina nel fianco, non so perché ci torno.>>
<< Perché è bravo.>> disse solo lui.
Il biondo prese una boccata dalla sigaretta e annuì. << Purtroppo non posso dissentire.>>
<< Ti ci trovi bene?>>
<< Come ci si troverebbe chiunque con uno che fa più domande del dovuto su cose private e a cui non hai la minima voglia di pensare. Sì, diciamo di sì.>> borbottò.
<< Ma non credo tu sia qui per ringraziarmi per averti consigliato un buono psichiatra.>> disse pacato Alec cercando le chiavi di casa nelle tasche del giaccone.
Non vide l'espressione di Jonathan ma poté immaginarla dal tono della sua voce. << Non chiamarlo così in pubblico, dì solo “dottore”.>>
<< Ti ripeto che non c'è alcun motivo di tenerlo nascosto, lo sappiamo tutti che sei uno psicopatico.>>
<< E tu cosa saresti allora?>> gli chiese con sfida soffiandogli il fumo in faccia.
Alec si strinse nelle spalle. << Un sociopatico psicolabile con manie di sacrificio e un problema da stress post traumatico.>> gli rispose franco, ridendo interiormente della faccia sconcertata dell'altro, << O almeno così dicono.>> si difese infine alzando le mani in segno di resa.
<< E tu non hai problemi ad ammetterlo?>> indagò cauto.
<< Chi mi conosce sa che non sono pericoloso, chi invece non mi conosce e ha a che fare con me la prima volta si comporta sempre in modo educato, cerca di non contraddirmi e di non farmi arrabbiare. Direi che va a mio vantaggio.>>
<< Forse dovrei cominciare a dirlo in giro anche io.>> fece all'ora Jonathan.
<< Mh, non so se ti conviene, a te crederebbero tutto, mi spiace.>>
Gli diede una pacca sulla spalla e poi salì i gradini che l'avrebbero portato all'entrata. Inserì la chiave e si girò verso di lui.

<< Se non sei qui per ringraziarmi o per parlare dei nostri disturbi, presumo che tu sia qui per l'Operazione Congiunta.>>
Jonathan s'irrigidì all'istante, gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con veemenza sotto la scarpa.
<< Sono il tuo agente di collegamento con l'OCCB. Inizialmente non potevo credere che mi avessero affidato un caso del genere, ma poi mi hanno detto chi era il referente principale, che era tutto in mano a te e ho pensato che forse fossi stato tu stesso a chiedere di me.>> stava facendo un enorme sforzo nel dire quelle cose, a provare a ringraziarlo in un certo suo modo contorto, ma ci stava riuscendo e Alec non aveva la minima intenzione di rendergli il tutto più difficile.
<< L'operazione è mia, sì. Ho trovato il cadavere che ha fatto partire il tutto, ma non sono stato io a chiedere di te.>> lo vide serrare la mascella e si sbrigò a continuare. << Non ne ho avuto occasione e tempo, il Capo Blackthorn mi ha consegnato la tua cartella dicendomi che sapeva che se non ti avesse assegnato da subito a questo caso sarei stato io a richiedere il tuo aiuto.>> lo guardò dritto negli occhi, rimanendo serio come la situazione chiedeva. << Questa è una grande opportunità per entrambi. Per riabilitare i nostri nomi seppur in modo diverso.>>
Un verso sprezzante lasciò quelle labbra fini. << Non dire cazzate, tu non hai niente da riabilitare.>>
<< Ti ricordo che sono Tenente a ventisette anni. La gente ti guarda e vede tuo padre, la gente guarda me e vede il mio, solo che in te vedono i suoi errori, in me vedono un raccomandato. Abbiamo entrambi qualcosa da riabilitare.>> sentenziò duramente.
Jonathan lo guardò con una scintilla pericolosa nello sguardo. << Mamma mi ha proposto di cambiare cognome, di prendere il suo.>>
Forse un'altra persona non avrebbe capito il perché di quella rabbia serbata in una sola occhiata, specie se abbinata ad una frase del genere, ma in un qualche modo assurdo e ad Alec oscuro, lui lo capiva con la stessa semplice e immediata facilità con cui i pazzi si capivano a vicenda.

 

Forse perché se vivi nel buio poi riconoscerai sempre chiunque vi abbia vissuto a sua volta.
 

<< Tu cosa gli hai detto?>>
<< Di no ovviamente. >> sputò fuori sempre più arrabbiato. << Non ho intenzione di rinnegare ciò che sono stato fino ad ora. Non ho più tre anni, non andrò a nascondermi dietro la gonna di mia madre perché il mondo è cattivo con me e mi giudica, non sono un fottuto ragazzino e soprattutto, io non sono mio padre.>>
Quell'ultima frase fu detta con orgoglio e convinzione, ma anche con consapevolezza, con un peso invisibile che Alec sentì anche su di sé, così come sentì quell'ingombrante sentimento gonfiargli il petto.
L'aveva ascoltato, allora.
Alexander annuì con un solo cenno deciso del capo, gli occhi blu dritti e fieri in quelli verdi e ardenti di Jonathan.
<< Bene, allora vuoi rimanere qui al freddo o preferisci salire a prendere un caffè e sentire ciò che ho da dirti sul caso, Morgenstern?>>
Il ghigno di Jonathan era inquietante come quello di suo padre, ma su di lui Alec sarebbe stato pronto a scommettere anche in quel momento.
<< Puoi giurarci, Lightwood.>>

 

Fin da quando era piccolo Alec aveva imparato a tendere le mani verso i suoi fratelli, per consolarli, per tranquillizzarli o farli ridere, per invogliarli ad andare verso di lui o per riprenderli al volto quando cadevano.
L'aveva continuato a fare per tutta la vita, non solo con loro ma anche con gli amici che erano venuti dopo e nessuno aveva mai scansato quella mano.
In quell'infernale anno passato aveva teso il braccio anche verso il giovane uomo davanti a lui e seppur aveva dovuto attendere tanto con l'arto sospeso nel vuoto, alla fine ne era valsa la pena.
Perché per un motivo e in un modo a lui sconosciuto, Alec ispirava fiducia, protezione, giustizia e nessuno riusciva mai a rifiutare un po' di luce che, paradossalmente, Alec stesso non aveva mai usato per rischiarare il suo cammino.
Ma come ogni Lightwood lui era un faro nel buio, un'opportunità, ed ora che Jonathan aveva accettato il suo aiuto, gli si era affidato, ora che aveva stretto la sua mano, Alexander non l'avrebbe più lasciata.

Sino alla fine e forse anche po' dopo.


 


 


 

Il piano era vuoto in quel momento ma l'uomo non si era posto il problema di esser visto, in ogni caso non avrebbe dovuto dar spiegazioni a nessuno.
La segretaria di solito andava via alle otto di sera, subito dopo il suo capo e Burning contava proprio su questo: quella donna era l'unica persona dei cui spostamenti si fosse precedentemente accertato, se l'avesse visto lì a consegnare documenti si sarebbe offerta lei stessa di farlo e addio piano.
Avrebbe dovuto prendere per un orecchio Branble e Gash e costringere uno di loro ad intrufolarsi nella stanza, ma il primo era impegnato quella sera ed il secondo avrebbe dato troppo dell'occhio, specie con ciò che c'era in ballo di quei tempi, quando qualcosa di quel calibro era in moto.
Arrivò davanti alla porta giusta e bussò educatamente, nel caso in cui vi fosse qualcuno dentro. Provò ad aprire la porta e la trovò chiusa. Un sorriso sinistro si aprì sul suo volto mentre con non-calanche si metteva la cartella sotto braccio e tirava fuori dalla cover del suo telefono due gancetti uncinati.
Ci mise pochissimo a scassinare la serratura e ancora una volta pensò a quanto fosse ridicolo che non vi fossero telecamere sul piano, che non ce ne fossero proprio in quel corridoio. Ma la verità era che non conveniva a nessuno aver delle testimonianze video o audio di ciò che avveniva lì, sarebbe stato solo un problema, dati sensibili alla portata di tutti.
Entrò con tranquillità nella stanza, la prima regola per non dare dell'occhio, per non esser subito identificati come soggetti sospetti era quella di comportarsi come se si avesse tutto il diritto di star lì, di fare ciò che si stava facendo. Più si era sciolti e convinti, meno la gente si sarebbe ricordata di te, vecchi trucchi del mestiere che avevano sempre funzionato.
L'ufficio era ampio e di giorno sicuramente ben illuminato, era pulito e ordinato ma Burning fece comunque attenzione a non far troppo rumore, non si poteva mai sapere le microspie dove fossero nascoste, se ci fossero effettivamente e soprattutto di chi fossero.
Camminò con leggerezza, come un ballerino sulle punte delle sue scarpe lucide, scivolando con eleganza sul legno levigato.
Osservò la scrivania da lontano, certo che ciò che stava cercando non sarebbe mai stato in un posto tanto banale come un cassetto. No, doveva aver una postazione più sicura, impensabile… o magari estremamente scontata.
Volse il capo verso la libreria e vi si avvicinò come un predatore sulla propria preda, tirando fuori un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e prendendo delicatamente in mano la grande cornice che troneggiava davanti all'enciclopedia di legge, regalo del Sindaco di quasi dieci anni prima.
Entro i bordi metallici un ragazzo di forse diciotto o vent'anni massimo, sorrideva all'obbiettivo. I capelli biondi erano scompigliati ad arte, gli occhi chiari luminosi come solo quelli di un giovane spensierato potevano essere. Voltò la foto e l'aprì con attenzione, sorridendo sinistro quando dietro alla sottile tavola di legno trovò dei fogli ripiegati. Quelli erano solo la prima parte, lo sapeva fin troppo bene.
Rimise la foto al proprio posto, riposizionandola con attenzione, poi guardò le altre e prese quella che raffigurava quello stesso ragazzo, solo cresciuto, in abito elegante, stretto ad una donna dalla folta chioma castane, il sorriso dolce ed emozionato, vestita di bianco e con un enorme bouquet in mano. Anche dietro a quella c'erano altre carte. Così come ve ne erano dietro alla foto del ragazzo in divisa, di una donna austera stretta nella sua di divisa d'alta onorificenza, che stringeva la mano ad un Senatore. Dietro ad ogni foto c'era un pezzo di quel puzle e Burning non poteva credere che fosse tutto così semplice, doveva esserci per forza un inghippo di qualche tipo.
Lo trovò quando si rese conto che tra le pagine numerate ne mancavano alcune risalenti alla seconda metà degli anni ottanta. Ciò significava che il suo proprietario le stesse visionando proprio in quel momento e che il giorno, la settimana, il mese dopo sarebbe tornato a metterle a posto e avrebbe cercato le altre. Quando si sarebbe accorto che mancavano, allora, avrebbe cambiato il nascondiglio degli unici frammenti che gli erano rimasti e avrebbe saputo che altri a sua volta sapevano e che probabilmente il suo gesto aveva appena messo in pericolo tutto il delicato castello di carte che era stato costruito con il tempo.
Probabilmente non avrebbero più visto le pagine degli anni ottanta, non avrebbero scoperto di cosa parlassero, chi vi fosse scritto dentro, ma avere il resto della panoramica valeva la perdita di circa quattro anni.
Rimise anche l'ultima foto al suo posto, quella in cui due ragazzi stavano sull'attenti uno vicino all'altro, infilò tutte le pagine piegate nella cartellina che aveva con sé ed uscì dall'ufficio, richiudendolo con attenzione.
La serratura era intonsa, neanche un graffio a segnare l'infrazione.
Le labbra si tirarono in quello che sarebbe dovuto essere un sorriso di vittoria ma che invece apparve solo come il ghigno appagato di una belva che aveva appena affondato le proprie fauci nel collo della sua preda, storto e pericoloso come quello di un diavolo tentatore che ha visto il suo protetto scivolare nell'oblio.

Dopotutto, uno dei soprannomi di Burning era proprio quello del demonio.


 


 

 

Aveva staccato tardi quella sera. Di solito la domenica era una giornata in cui c'era meno gente al locale perché il giorno dopo sarebbe ricominciata la settimana e tutti sarebbero tornati al lavoro. Invece quella notte pareva che tutta NY avesse deciso di darsi alla pazza gioia, come un popolo che festeggia gli ultimi attimi di libertà prima del ritorno del tirannico signore.
Magnus c'aveva pensato un bel po', a quello che gli aveva detto, anzi, a quello che non gli aveva detto Raphael, alle voci che giravano, al fatto che Malcom non fosse ancora tornato alla soleggiata città degli angeli e anche a ciò che gli aveva detto Simon.
I demoni del Principe si stavano riunendo, uno dei suoi migliori amici era stato coinvolto nella cosa, l'uomo che l'aveva praticamente cresciuto non accennava a tornare a casa sua non che a Magnus desse fastidio averlo attorno, tutt'altro- ed il suo collega lo informava che avevano ritrovato il cadavere del suo ex tentato assassino, che per altro si collegava a qualcosa di molto più grande di loro.
Se questi non erano tutti segni che il Fato gli stava mandando per fargli capire che presto sarebbe scoppiato il finimondo, Magnus non sapeva proprio cos'altro potesse aspettarsi.
Ultimamente la sua mente era continuamente sotto stress e l'idea di rivedere tanti amici – e non – persi nel corso del tempo lo eccitava e disorientava allo stesso tempo.
La cosa più preoccupante era che ignorava il suo ruolo in tutto ciò, sempre che suo padre avesse pensato ad un ruolo per lui o invece, come suo solito, lo avesse riposto nel ripiano più alto della cristalleria per far sì che nessuno lo toccasse. Anche quella era un'opzione, ma ormai Magnus aveva quasi trent'anni e non voleva più fare la bella statuina che prende polvere nell'attesa che il suo proprietario decida di metterla alla portata e alla vista di tutti.
Era un uomo e sarebbe sceso in campo come tutti gli altri suoi fratelli. Solo che se un tempo era stato sicuro che avrebbe vestito la nera armatura ora si ritrovava a pensare che forse qualche parte di essa sarebbe stata chiara, se non tutta grigia.
Poco da fare, si disse sorridendo beffardo, quella mandria di pazzi che era la famiglia Lightwood -e lui se ne intendeva di pazzi quindi poteva dirlo con cognizione di causa- l'aveva irrimediabilmente corrotto.
Si poteva dire “corrotto” quando si passava dal male al bene?
Probabilmente no, ma non gli interessava, il verbo “corrompere” era uno dei suoi preferiti.
E a proposito di corruzione, si sarebbe dovuto procurare una scatola formato gigante di pasticcini per l'indomani e magari presentarsi alle sei di mattina davanti la porta di qualcuno per obbligarlo a parlare lì su due piedi e non rimandare la cosa.
Stava giusto pensando di chiedere ad uno dei suoi di recapitare una lista con tutti i gusti che voleva alla pasticceria, quando notò qualcosa di strano vicino alla sua macchina.
Le semibuio del parcheggio coperto la sua Cadillac scintillava come una gemma nel suo nero cofanetto di velluto. Proprio sulla lucida lastra del cofano stava seduta elegantemente una donna, le gambe lunghe erano velate di nero, gli stivaletti poggiavano con delicatezza sul metallo verniciato e cerato. Teneva le mani poggiate all'indietro, il gonfio pellicciotto bianco la faceva sembrare una diva del passato e lasciava intuire il fisico curvilineo che il giacchetto nascondeva. Teneva gli occhi chiusi, in equilibrio sul nasino perfetto un paio d'occhiali tondi dalle lenti blu, il collo da cigno coperto dalle morbide onde dei suoi capelli biondi.
Sembrava si stesse godendo una musica che solo lei sentiva, qualcosa di estremamente bello che le rievocava ricordi cari.
Anche se non l'avesse riconosciuta a prima vista, il profumo che si era spanso per l'ambiente grande e vuoto, come feromoni ipnotici, che gli arrivava sottile, quasi fosse un miraggio, un'illusione, non l'avrebbe mai tratto in inganno.
Il sangue gli si gelò nelle vene, la sua mente andò in blackout e tutti i suoi centri nervosi si spensero. Per poi riaccendersi di rinnovata foga, rabbia, rancore, dubbio e paura.
Forse era davvero l'odore tossico della sua pelle quello che avvertiva, forse era quello che l'aveva ingannato anni addietro e per conseguenza il suo corpo reagiva come quello di un animale, rilasciando l'acido olezzo del disprezzo e della furia, compagno del sapore bilico che gli invase la bocca.
Mosse qualche altro passo e la donna si accorse di lui.
Voltò il capo vero Magnus e lo fissò da dietro le lenti colorate, la luce assente nel parcheggio rendeva impossibile vedere davvero le sue iridi nascoste da quei cerchi blu ma lui sapeva che fossero azzurri e cangianti, freddi come il ghiaccio e limpidi come il cielo a primavera.

 

Erano stati il suo cielo di primavera, quando la brezza fredda dell'inverno ancora ti sfiora ma la natura rinasce forte e vigorosa nell'eterno ciclo della vita.
 

Le labbra carnose e perfette della donna si piegarono in un sorriso che Magnus, con orrore, si rese condo di non saper più interpretare e se aveva perso questa sua dote significava che già partiva svantaggiato.

<< Bon soirée, Magnus. Ti trovo bene.>> disse con la sua voce da sirena. Il suo nome pronunciato da quella bocca era ancora la bugia più bella che potesse sentire.
La guardò con attenzione e cercò di individuare qualche punto debole, qualcosa con cui avrebbe potuto attaccarla se ce ne fosse stato bisogno. Ma ancora una volta, Camille si dimostrava un'inscalfibile regina di ghiaccio.
<< Tranquillo, non voglio saltarti alla gola. Sono vestita di bianco.>> gli sorrise divertita e Magnus tentennò: l'aveva notato, era stato impossibile per lui non accorgersene, per di più quelle parole… era il loro segnale universale, era il loro “non sono qui per ferirti”, perché il bianco è puro e gli abiti bianchi si sporcano con una facilità disarmante.
Era stata una battuta che per tutta la loro relazione aveva significato una conferma, un'affermazione, che in pochi capivano. Hai qualche affare?” le chiedeva lui, e lei gli faceva l'occhiolino e rispondeva “Sono vestita di bianco, mon cher.” e così Magnus sapeva che non sarebbe andata a rischiare la vita, che per quella volta sarebbe tornata con le mani immacolate come il suo vestito.
Camille non era lì per combattere, per ferire. Era lì per parlare con lui.
<< Non sapevo fossi tornata.>> si risolse comunque a dire, senza volergli dare la vittoria di quella sua affermazione.
Camille continuò a sorridere. << Non si saluta più? Dove sono finite le tue buon maniere?>>
<< Fare conversazione in un parcheggio desolato con una come te non è qualcosa che ti spinge ad usare le buone maniere.>> le rinfacciò.
Ma ancora una volta la donna indicò il suo pellicciotto. << Cos'altro vuoi come prova che non cercherò di ucciderti?>>
<< Potresti sempre prendermi un rene.>>
<< Mi sporcherei così.>>
Quel piccolo botta e risposta lo lasciò stremato, la contrazione rigida dei suoi muscoli lo stava affaticando più di quanto non facesse quella luce sfarfallante con i suoi occhi.
<< Perché sei qui?>> si arrese a chiederle.
Camille scivolò giù dal cofano come acqua sulla cera, fluida ed elegante, cadendo in piedi sui tacchi in raso come un gatto sulle zampe morbide.
<< Non è che abbia avuto poi molta scelta. Fosse per me sarei rimasta a Parigi, ma qualcuno mi ha fatto recapitare un regalo e non ho potuto far a meno di venir qui per ringraziarlo di persona.>>
Si muoveva anche come un felino, un felino fatto di cristallina acqua di fonte e se Magnus era rimasto imbambolato a fissarla camminare o se il suo cervello avesse captato qualcosa e stesse lavorando per capire cosa fosse il regalo di cui parlava, tutto s'arrestò quando la donna scostò di poco i lembi della pelliccia e lasciò intravedere sul vestito di broccato bianco e argento un grande e scintillante pendente rosso.
Contro la sua volontà Magnus fece un salto indietro, improvvisamente conscio del fatto che quel regalo fosse di suo padre, che l'aveva cercata in Francia per portare anche a lei la chiamata, per richiamarla all'ordine e farla tornare trai membri del Clan. Ma più di tutto, conscio del nome di quella gemma e della sua sanguinosa storia.
Non voleva neanche immaginare in che modo Camille l'avesse trovato, ma se ricordava bene quella leggenda e la ricordava eccome visto che era stato lui a ricercare proprio quella pietra- significava che la donna l'aveva tirato fuori dal cuore di un angelo.

O da quello di una persona.

<< Anche tu hai ricevuto la chiamata.>> non era una domanda ma Camille annuì ugualmente.
<< Tu no, invece. Dico bene?>> replicò calma e melliflua come solo lei poteva essere. Se fosse rimasto a sentirla parlare ancora un po' avrebbe usato la sua malia su di lui e l'avrebbe convinto a far di tutto.
Purtroppo non si sarebbe potuto sottrarre presto a quel canto melodioso.
Per sua fortuna quella notte Camille aveva tutt'altro in mente.
<< Cosa ne sai?>>
<< Non si mette il cristallo in mezzo alle lame, Magnus.>> c'era una nota di stanchezza nella sua voce, come se le desse fastidio ripetere sempre le stesse cose.
Cose che in effetti, a suo tempo, avevano ripetuto sino alla nausea.
<< Cosa sta succedendo?>> le domandò. << Perché anche te?>>
<< Perché quando i Principi decidono di metter il punto al proprio regno richiamano tutti i loro servi e coloro che hanno gravitato attorno alla loro corte. Richiamano gli amici ed i conoscenti e mettono al sicuro tesori e progenie. Non è quello che tuo padre ha sempre fatto?>>
<< A modo suo.>> concesse tirandosi leggermente indietro con la schiena quando la donna gli si fermò davanti.
<< Cosa vuoi da me, Camille? Non abbiamo più niente da dirci.>> si decise in fine a dirle con tono duro e fermo.
Ma lei sorrise, le labbra rosee si tesero scoprendo le file candide e appuntite delle zanne di un predatore veterano, di un vampiro che sa come stillare anche la più infinitesimale goccia di sangue dalla sua vittima senza però ucciderla, tenendola per sempre nel limbo tra vita e la morte.
<< Oh, Magnus, è qui che ti sbagli.>> voltò il capo verso le grandi aperture del parcheggio, da dove si potevano ammirare i palazzi ed il cielo in cui solo un fino spicchio di luna risplendeva tremulo. << La notte è lunga e noi abbiamo tanto di cui parlare. È ora di mettere un punto a questa storia, non credi?>>

 

Il vento cominciò a tirare ad alta quota, le nuvole bianche coprirono la luna, oscurando l'ultimo frammento di luce di quel cielo nero come inchiostro.
Quando anche il più piccolo raggio dell'astro minore veniva celato e la città cadeva nelle tenebre i Figli della Notte uscivano dalle loro cripte per rendere omaggio al buio e finalmente per tornare a vivere.

 

 

 

 










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Capitolo 10
*** Capitolo X- La mossa dei Bianchi ***


Capitolo X

La mossa dei Bianchi.
 




Marzo era freddo a New York, non c'era da stupirsi che le finestre della stanza fossero opache, congelate nella brina che vi si era posata sopra durante la notte.
Se non fosse stato una persona precisa e non avesse cercato un parcheggio coperto per la sua cara Mustang probabilmente sarebbe dovuto scendere un ora prima per scongelarla, per lo meno per togliergli tutto il ghiaccio dai vetri e per lasciare il motore in caldo per un po', aveva appena ricominciato ad usarla – più di due mesi ad onor del vero ma ancora gli pesava tanto il tempo passato a far da passeggero- non aveva la minima intenzione di romperla subito.
Quando gettò i piedi oltre il brodo del letto però, tutti i pensieri dedicati alla sua macchina scomparvero a favore di una realizzazione sorprendente: Church non era né sul letto con lui né nelle sue ciabatte. Dov'era? Lo aspettava sempre la mattina.
Si alzò stranito da quella mancanza, avvertendo nell'aria già qualcosa che non andava. Cosa si sarebbe dovuto aspettare, poi? Quel lunedì avrebbe cominciato a lavorare sul Caso Congiunto, poteva iniziare tutto bene? Poteva andare tutto come da programma? Assolutamente no o lui non sarebbe stato Alexander Gideon Lightwood.
Infilò le ciabatte e cercò una felpa da infilarsi al volo, doveva andare a riprendere la sua vestaglia a casa dei suoi o non ne sarebbe uscito da quella storia di brividi mattutini.
Si arruffò i capelli infilandosi la sua amata felpa blu alla velocità della luce, un senso d'inquietudine lo stava animando e si domandò se fosse assurdo esser preoccupati così per un gatto, se stesse impazzendo o se il suo sesto senso fosse diventato paranoico.
Arrivò in camera da pranzo e tutti i suoi timori si placarono per un momento: Church era seduto davanti alla porta di casa, la coda avvolta attorno alle zampe. Voltò la testolina verso di lui, mosse poco le orecchie ma non miagolò, quasi non volesse farsi sentire. Neanche Alec disse nulla, alzò solo un sopracciglio e indicò l'uscio, ricevendo in risposta un muovere di coda tipico di quando il felino era inquieto o pronto ad attaccare.
Con un riflesso involontario Alec si portò una mano alla cinta, quasi si aspettasse di trovarvi una pistola. Tornò sui suoi passi, rientrando in camera e prendendo la pistola, la sua bella Beretta, infilata nel cassetto e tornando con passo felpato alla porta.
Spostò delicatamente Church, allontanandolo da lì anche se il gatto sembrava piuttosto agguerrito e intenzionata a presiedere il forte cono lui. L'unica cosa che gli mancava era che, in caso di pericolo, Church fosse a tiro per un qualunque attacco, malgrado ciò apprezzò la forza di volontà dal felino e gli regalò una carezza sulla testa.

<< Tranquillo, ci penso io.>> soffiò con un fil di voce.
Si avvicinò poi alla porta e osservò dallo spioncino il piano apparentemente vuoto.
Non c'era nessuno, né lì né sulle scale, ma Alec avvertiva la presenza di qualcuno: chi diamine poteva esserci? Si stava nascondendo? E perché dovevano sempre capitare tutte a lui?
Si poggiò con le spalle alla porta e scivolò a terra, pensando seriamente di abbassarsi a cercare di veder qualcosa da sotto l'uscio, malgrado fosse più che consapevole che non si vedesse nulla.
Stava prendendo in considerazione anche l'idea di spalancare la porta e controllare palesemente se ci fosse qualcuno, tanto alla fine dei conti aveva una pistola in mano, poteva difendersi, quando sentì un rumore, come di- vetro? Vetro e liquido che ci sciacquava dentro? Come una bottiglia?
 

Bottiglia? Alle sei di mattina?

 

Chi cavolo era il deficiente che si attaccava ad una bottiglia a quell'ora? Quel palazzo era pieno di vecchie coppie o famiglie, lui ed un altro paio di persone erano gli unici a viver soli, conosceva la gente del condominio e nessuno aveva mai alzato il gomito in quel modo, anzi, nessuno aveva mai alzato il gomito, era anche per quello che aveva scelto proprio quell'appartamento. E poi, ma davvero, l'unica volta che qualcuno voleva ubriacarsi lo faceva al suo piano? Davanti al suo appartamento? Chi diavolo, lucido o anche ubriaco, decide di darsi all'alcolismo e di farlo proprio davanti alla porta dell'unico poliziotto dell'edificio?
A meno che non fosse un suo condomino, magari era un suo amico, o uno dei suoi fratelli.
Che Jace avesse di nuovo litigato con Clary? No, sarebbe andato a picchiare un sacco da box, non a bere e soprattutto non avrebbe aspettato lì fuori, avrebbe bussato svegliando tutti. Izzy avrebbe fatto la stessa cosa e Max non si muoveva mai da dov'era quando si ubriacava.
I ragazzi invece, come i suoi fratelli, non si sarebbero fatti scrupoli a chiamarlo, glielo aveva fatto promettere lui stesso di esser informato ogni volta che stavano male e poi gli sarebbero già arrivate telefonate e messaggi da mezzo mondo.
L'unica possibilità rimasta era-

Si alzò di scatto, afferrò la maniglia e tolse i blocchi con la mano con cui ancora reggeva la pistola. Spalancò la porta e abbassò lo sguardo verso il pavimento, poi alla sua destra ed il respiro gli si bloccò in gola quando i suoi sospetti si rivelarono corretti.
Ma dopotutto: poteva mai sbagliare lui quando si parlava di sfiga?
La risposta era ovviamente, no.
Si voltò verso la figura seduta a terra, la bottiglia di vodka in mano, una scatola bianca al fianco e lo sguardo perso. Non aveva una bella cera e sicuramente non doveva esser lì da poco.
Che cosa era successo?
Espirò pesantemente senza essersi reso conto di aver trattenuto il respiro sino a quel momento, poi esalò con voce bassa:

 

<< Magnus, che hai combinato?>>

 

 

 

 

Aveva continuato a studiare l'uomo seduto davanti alla porta di casa sua in attesa che quello gli rispondesse.
Magnus pareva quasi non averlo sentito ed Alec stava per ripetergli la domanda quando un verso flebile scivolò fuori dalle labbra secche dell'altro.
Il giovane aggrottò le sopracciglia. << Come?>> chiese avvicinandosi e piegandosi sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza.
L'altro rise amaramente.<< Una cazzata, Alexander, ecco cosa ho combinato. Non ho capito un cazzo. Anzi, pare che questa sia la cosa che mi riesce meglio: non capire mai un cazzo di quello che la gente dice e delle situazioni in cui mi ritrovo.>>
Alec sospirò pesantemente e allungò la mano per tirargli indietro il ciuffo che gli si era afflosciato triste sulla fronte.
<< Stai bene? Fisicamente intendo.>> domandò scrutandolo con attenzione.
Magnus si strinse nelle spalle. << Sono stato peggio.>>
<< Riesci a stare in piedi?>>
<< Penso di sì, ma al momento vorrei solo rimanere qui ad autocommiserarmi in santa pace.>> sbuffò rannicchiandosi su sé stesso.
Alexander lo guardò con fare scettico. << No, non vuoi farlo.>>
<< Certo che voglio, non cominciare a fare il saccente pure tu, ne ho abbastanza di gente che mi dice come mi devo comportare, cosa devo fare, cosa voglio e cosa capisco o meno.>>
<< Io invece credo proprio il contrario, che tu non voglia autocommiserarti ma ragionare lucidamente, magari anche con un aiuto.>> replicò con voce pacata come sempre.
Magnus lo guardò male. << E cosa te lo fa pensare, di grazia?>> lo sfidò con una nota acida.
<< Il fatto che sei qui da me e non a casa tua, dove saresti potuto rimanere solo a bere quanto ti pare e piangerti addosso senza che nessuno di potesse vedere.>> ripose lui logico e scontato.
Certo, era ovvio che Alexander l'avesse capito ed era anche ovvio che lo avesse accettato prima di quanto non l'avrebbe fatto Magnus.
Farsi aiutare… Magnus lo voleva davvero?
L'uomo avvertì qualcosa di rigido toccargli la spalla e poi il braccio solido e caldo di Alec passargli attorno al torace e tirarlo su di peso.

<< Su, andiamo.>> gli disse l'altro.
Per un momento Magnus pensò di ributtarsi di peso a terra, solo per sottolineare il fatto che non voleva il suo aiuto, che in verità si era sbagliato, cocciuto come sempre in tutto. Poi si ricordò che era stato lui ad andare da Alec, non il ragazzo a disturbarlo a casa sua, l'esatto contrario in effetti, e come stoccata finale si rese conto che il braccio con cui lo stava reggendo non solo era quello destro ma che reggeva anche una pistola in mano.
Si sentì in colpa da un lato, stavano per affrontare un'operazione particolare, che avrebbe potuto comportare chissà quante ritorsioni, Alec doveva aver avvertito in qualche modo - con i suoi sensi da ragno forse, Simon avrebbe avuto un buon paragone fumettistico da fare- la sua presenza e non vedendo nessuno da dentro era stato costretto ad aprire la porta e affrontare chiunque vi fosse.
Grugnì, non doveva farsi prendere dai sensi di colpa anche per quello.
Si mise più dritto che poté e voltò la testa verso il pavimento.
<< La scatola.>> disse solo e l'altro annuì.
<< L'ho vista, ora la prendo, prima è meglio che ti metta seduto. Stai solo attento a non far cadere la bottiglia, c'è Church in giro, non vorrei che si facesse male.>>
Magnus annuì e sospirò, lasciando che il detective lo conducesse sino al vecchio divano di pelle coperto di pile e lo aiutasse a sedercisi.
Si assicurò che stesse bene, Magnus vide l'occhiata valutativa che gli lanciò, così come vide quella che lanciò al gatto ed il suddetto felino camminare ad agio sino a loro e salire con un balzo elegante sul tavolinetto.
Alec fece marcia indietro ed andò a recuperare la scatola, mentre Church lo fissava con quei penetranti occhi blu, come quelli del suo padrone, dritti su di lui.

Magnus sorrise mesto. << Mi stai facendo da guardia?>>
L'occhiataccia che il gatto gli rifilò gli parve troppo simile a quelle del padrone.
<< Chi dei due ha ripreso dall'altro?>> domandò sempre al felino.
<< Church da me, temo.>> Alec rispose per il suo gatto, chiudendosi la porta alle spalle e posando il pacco sul tavolinetto affianco a lui. Dove fosse finita la pistola, quando l'avesse posata o dove l'avesse messa, Magnus non lo sapeva e neanche gli interessava, anzi, era felice che quell'affare non fosse in giro.
<< Sono pasticcini.>> disse estemporaneo l'uomo.
Alec annuì. << Lo so, riconosco l'incarto. È la mia pasticceria preferita.>>
<< Questo lo so anche io.>>
<< Grazie del pensiero, allora.>>
Il silenzio li avvolse con pesantezza eppure Magnus si sentiva stranamente tranquillo e a proprio agio su quel divano, così chiuse gli occhi e si rilassò.
Si accorse di aver ancora la bottiglia stretta in mano solo quando Alec gliela sfilò con delicatezza e la poggiò sul tavolo.
<< Stia bene? Vuoi un bicchier d'acqua e un'aspirina?>> la sua voce pacata era come un balsamo per la testa confusa di Magnus. Avrebbe voluto chiedergli di continuare a parlare, ma in quei giorni aveva ascoltato troppe persone e adesso toccava a lui dir la sua.
<< Ho rincontrato Camille.>> iniziò ignorando del tutto la domanda dell'altro. Temeva che se non avesse iniziato a parlare non avrebbe mai più trovato il coraggio di farlo. Era un “ora o mai più”, si disse. << È arrivata a New York per affari, non ci sarebbe venuta mai di sua spontanea volontà. Sta succedendo un casino, Alexander, non puoi neanche immaginarlo.>>
Alec lo osservò sedendosi sul divano affianco a lui ma non parlò, malgrado avrebbe voluto dirgli che forse un'idea ce l'aveva eccome.
<< Non so se te lo ricordi, è la mia ex. È stata la relazione più importante che io abbia mai avuto, anche se ce ne sono un paio che concorrono, certo… ma lei è stata speciale perché… perché era come me.>> l'altro sospirò ed aprì gli occhi solo per cercare la bottiglia. Il suo sguardo però non individuò il collo trasparente cinto da un nastro blu, ma un altro tipo di blu, più profondo e al contempo limpido: gli occhi di Alexander lo avevano calamitato come una falena con il fuoco.

 

Come una torcia nel buio della notte.


<< Sai, è figlia d'arte come me. Non è americana, è francese in tutto e per tutto, arrivò qui per “imparare il mestiere”, ma la verità era che si voleva solo divertire. >> Riprese a parlare con voce lontana, cercando di ricordare ma di non farsi sopraffare da quelle stesse immagini, dai suoni e le emozioni provenienti da una vita ormai passata, da un prima enorme e così concreto da sembrare indefinito. << Ho vissuto sotto una campana di vetro per tanto tempo, Alexander, e non ho mai pensato che esistesse al mondo qualcuno nella mai stessa condizione finché non ho incontrato lei e ho capito che le sue, di condizioni, erano anche peggiori.
Non era solo sotto una campana di vetro, la sua era di cristallo e attorno al cristallo c'erano delle sbarre d'oro. Ed è bellissimo l'oro ma quelle erano pur sempre sbarre e dopo le sbarre c'erano le guardie che la proteggevano. L'unica figlia femmina di un impero molto simile a quello di mio padre ma totalmente diverso e forse… no, non è peggiore, sono brutti entrambi sotto diversi punti di vista. Ma lei… lei era bellissima… la donna più bella che io abbia mai visto, aveva una voce magnifica, il modo in cui pronunciava il mio nome. Inizialmente lo faceva alla latina, mi chiamava Magnus con la gn e io ridevo e le dicevo che non si pronunciava così e lei invece mi diceva che doveva per forse essere così perché in latino quello era il titolo dei “Grandi”. Mi faceva l'esempio di Alessandro Magno, non è divertente? >> rise senza gioia, il volto piegato da una nota di dolore ancora presente, palpabile, una ferita che si era rimarginata con fatica e che ora qualcuno aveva riparto con chirurgica precisione.
<< Siamo stati assieme per anni, anni Alec, mi pare di esserci stato per tutta la vita. Sino al 2007.
Poi tutto è crollato. Non so se te lo ricordi, eri adolescente all'epoca, ma ci furono una serie di sparatorie, di guerre di strada, New York non è mai stata così pericolosa e… successe di tutto, alla fine dell'anno mio padre e molti altri se ne andarono da qui. Alcuni oltre oceano altri no, ma lontani dalla città, tutti. Con loro Camille.
Papà mi aveva affidato tutto il suo lavoro, mi aveva detto “ti aiuteranno gli altri, ora sei tu il boss!” e io c'ho anche creduto, e ho creduto anche che fosse quello il problema, il motivo per cui Camille se ne era andata e invece no… ho sempre pensato che la colpa fosse tutta sua e invece è anche mia, che non ho capito un cazzo.>>
Finì amaramente di parlare ma non staccò mai neanche per un secondo gli occhi da quelli di Alec.
Ad essere onesti a quell'epoca Alec era in Accademia e le faide tra le bande, tra nemici che si contendevano lo stesso business, se le ricordava anche fin troppo bene. Quante volte aveva dovuto fare la posta davanti alle celle o alle sale interrogatorio piene di criminali mal messi o appena medicati? Ma quello non era certo il momento di dirglielo, quindi annuì.
<< Cosa non hai capito?>> chiese cauto.
Magnus sbuffò. << Pensavo che se ne fosse andata perché non voleva essere nel mirino di tutti quelli che avrebbero ambito al posto di mio padre e quindi attaccato me. Invece mi ha lasciato perché sono figlio di mio padre. Sono successe delle cose… la storia è troppo lunga da spiegare ora e… non avevo capito nulla, non sapevo nulla, nessuno me lo ha detto ma- il sunto è che mio padre fece una cosa che portò ad una grave perdita per il Clan. Camille mi accusa di questo, me e papà.>>

Alec aggrottò le sopracciglia: il Clan? Che diamine era il Clan? Non si stava mica riferendo a-
Il ragazzo sentì un brivido freddo colargli lungo la schiena ma rimase impassibile nella sua smorfia interrogativa, sperando che Magnus gli spiegasse da sé cos'era questo Clan di cui parlava.
Ma quando l'altro non aprì bocca fu lui a domandarglielo direttamente.
<< Il “Clan”, Magnus? Di cosa stai parlando? Di un'associazione a delinquere?>>
L'uomo rise di gusto, Alec lo osservò con attenzione, cercando di non perdersi neanche una mossa, di captare subito qualunque segno di cedimento, di qualunque tipo.
<< Una specie.>> continuò lui ridendo. << Sì, potremmo chiamala “associazione a delinquere” ma è molto più di classe. Diciamo che è… l'unione di molte persone facoltose che si aiutano a vicenda nei loro affari. Sì, mettiamola così, che sembra quasi legale come cosa.>>
<< Riunirsi in gruppi e associazioni non è illegale, ma presumo che lo sia ciò che fanno.>>
<< Ugh, sì direi che spesso lo è ma non sempre. Certo deplorevole la maggior parte delle volte. >> mugugnò Magnus. Tirò via le scarpe e poi si rannicchiò sul divano in cerca di una posizione comoda. << Mi hai fatto aspettare tantissimo, sappilo, ho il culo piatto ora ed è tutta colpa tua.>> lo accusò con una delle sue occhiate migliori.
Alec alzò un sopracciglio senza farsi impressionare. << Avresti potuto suonare il campanello, bussare, chiamarmi al telefono. Senza contare che il tuo sedere non può risentirne per così poco.>>
<< Ehi! Dovrebbe essere bene dell'umanità il mio culo, non so se hai visto com'è!>> rimbeccò ancora riprendendo un po' di quella verve che aveva perso prima.
<< Certo che l'ho visto.>> sbuffò invece Alec ma se ne pentì immediatamente.
Magnus lo guardò senza muoversi, sorridendo in modo tirato, cercando di non far vedere il suo disagio e soprattutto di ignorare il rossore che si era andato ad espandere sulle guance dell'altro.
Alec sospirò. << Scusa. Stavi dicendo su questo Clan?>> chiese gentile ma Magnus non ci cascò.
<< Non scusarti, a dirla tutta l'idea era di venire qui per parlare proprio di questo.>> Ammise cercando di schiarirsi un po' le idee, dopotutto neanche aveva bevuto troppo quella notte.
<< Mh, intendi l'elefante nella stanza?>> chiese il detective, Magnus quasi sorrise quando avvertì quella nota insicura ed imbarazzata nella sua voce, a quanto pare non era l'unico a non voler affrontare il discorso.
<< Direi che l'elefante è anche rosa, con un tutù e balla la samba.>>
<< Perché per forza rosa?>> fu l'unica cosa che replicò l'altro e a quel punto Magnus scoppiò davvero a ridere, di tutto cuore, sinceramente.
<< “Perché per forza rosa”? È davvero questo tutto quello che riesci a dire?>> lo sfidò con le lacrime agli occhi ad un piacevole fastidio alle guance.
<< Già. >> la sua flebile risposta lo costrinse alla serietà.
Davanti a lui Alexander teneva la testa leggermente abbassata, i capelli scuri e lunghi ormai gli ricadevano sul volto, gli sfioravano la macella e lambivano il muscolo teso tra collo e spalle. Teneva la schiena incurvata, come se un peso enorme gli gravasse addosso ma non avesse la minima intenzione di lasciarlo cadere, di farsi schiacciare.
C'era stanchezza, imbarazzo e resa in lui, ma c'era anche il fuoco dei guerrieri, quello di chi non ha intenzione di soccombere e che lotterà sino alla fine, un connubio così deliziosamente contraddittorio da poter germogliare e sopravvivere solo in quel paradosso vivente che era Alexander.
Lo guardò deglutire un paio di volte, cercando le parole giuste, le mani poggiate immobili tra le sue gambe, l'ombra dei capelli a tirargli una tenda sugli occhi.
<< Partiamo a ritroso?>> propose il giovane con voce bassa ma ferma.
Magnus annuì.
<< Inizio io?>> chiese ancora e l'altro si domandò se non gli stesse concedendo un po' troppo visto ciò che aveva fatto. Eppure non riuscì a non annuire di nuovo, senza sapere se lo faceva per sentire al più preso ciò che aveva da dirgli o per codardia, per rimandare le sue scuse al più tardi possibile.
L'orgoglio era un involto amaro di spine graffianti da ingoiare senza alcun aiuto.
Ma come era solito fare da una vita, Alexander gli aveva porto una mano ed un aiuto che malgrado tutto Magnus non avrebbe mai ammesso ad alta voce di volere, di necessitare.
<< Mi spiace se ti ho dato l'impressione di non volerti nella squadra, non ti stavo cacciando.>> disse subito il detective mettendo le cose in chiaro.
Quella sola frase però aveva avuto il potere di far esplodere un'eruzione cutanea su ogni cellula epiteliale del corpo dell'altro, che mandando giù quel groppo pungente chiuse gli occhi ed alzò una mano per bloccarlo.
Era un uomo dopotutto, grande, grosso e vaccinato, doveva prendersi le sue responsabilità, specie nei confronti di qualcuno a cui teneva.
<< Quella è stata colpa mia. Ero arrabbiato per ciò che mi aveva detto Simon e ho riversato il tutto su di te, ti ho aggredito e tu sei stato anche fin troppo calmo e gentile, fossi stato al tuo posto mi sarei appiccicato al muro da solo.>> grugnì infastidito.
Alec parve sorpreso da quell'ammissione ed il timido sorriso storto che gli inclinò le labbra fu la conferma che aveva detto la cosa giusta.
<< Conoscendoti, se lo avessi fatto, avresti tirato fuori qualche battutina delle tue.>>
Un altro ramo d'ulivo porto sopra la linea della trincea che li divideva.
Magnus sorrise. << Oh, no, in quel momento ero abbastanza incazzato per rigirarmi e cercare di appendere te da qualche parte.>>
<< Sono più alto e più forte.>> gli ricordò. << Ma rimane il fatto che il motivo per cui eri arrabbiato, la litigata con Simon, fosse indirettamente colpa mia.>> tornò immediatamente serio e Magnus sospirò perché non poteva dargli torno ma non voleva neanche arrivare subito al dunque, a ricordare quell'attimo in cui aveva visto un'ombra passare sugli occhi del compagno. La verità era che Magnus era stanco di parlare, di ricordare, specie in quel momento, quando era stato costretto a tornare indietro nel tempo e a rivivere qualcosa che sperava di aver dimenticato.
Non potevano neanche rimanere sospesi così per sempre però e nessuno gli avrebbe impedito di far valere le sue motivazioni.

<< Ti ha dato fastidio?>> chiese allora guardandolo in faccia.
Alec si strinse nelle spalle. << Sei libero di fare tutto ciò che vuoi, sei adulto e capace di far le tue scelte.>>
<< Magnifiche parole Alexander, ora rispondi alla mia domanda.>> lo incalzò.
<< Te l'ho detto. Non c'è niente che mi debba dar fastidio.>>
<< Ma lo ha fatto?>>
<< Non ce ne sarebbe stato motivo.>>
<< Non mi interessa ciò che sarebbe dovuto essere. Ti ha dato fastidio?>> Magnus si sporse verso di lui, abbassando la testa per poter scorgere il suo sguardo… sfuggente.
 

E Alexander non aveva mai evitato il suo sguardo, neanche nei momenti più imbarazzanti.
Magnifico, gli aveva dato fastidio eccome.

 

Magnus sospirò. << Lo ha fatto.>> sentenziò sicuro.
<< Non ho alcun diritto di esser infastidito.>> sussurrò invece l'altro.
<< Lo avresti avuto se solo non avessi fatto finta di nulla per mesi.>> incrociò le braccia al petto e si rimise dritto, scrutandolo con sguardo critico, come quello di un genitore che sgrida il figlio.
A quel punto Alec alzò il capo e lo guardò a sua volta, gli occhi induriti da cosa di preciso Magnus non avrebbe saputo dirlo, ma erano decisamente battaglieri.

Finalmente.

<< Non ho fatto finta di nulla.>> iniziò serio. << Forse non ti sei ben reso conto della situazione in cui ci troviamo.>>
<< Ah no! Non venirmi a dire anche tu che non capisco e che- >>
<< Sono il tuo superiore Magnus, se scoprissero che ci fosse qualcosa tra noi saremmo passibili di richiamo e tu potresti essere riassegnato.>>
<< Non nasconderti dietro al lavoro, dimmi che altro c'è perché sono sicuro che c'è qualcosa che non mi dici e se non lo fai io non posso capire.>>
Alexander rimase immobile, non il più minimo movimento, Magnus credette persino che avesse smesso di respirare.
Invece Alec pensava, ragionava su ciò che l'altro gli aveva appena chiesto, su tutto quello che gli avevano detto i suoi amici, suo fratello, il dottor Lawson e pure suo padre.
Poteva dir qualcosa, poteva parlare? Poteva mostrare una parte di sé a quell'uomo davanti a lui?
Non lo sapeva, non con certezza. Aveva imparato a conoscerlo e sapeva quanto ci si potesse affidare a Magnus e su cosa, eppure quella sensazione, quel disagio latente che lo accompagnava dall'infanzia e che lo portava a star sempre a qualche metro di distanza da tutti, non voleva saperne di andarsene.
Ma non poteva neanche tacere, si era ripromesso anni addietro che non avrebbe più tenuto la bocca chiusa né per paura né per far felici gli altri.
La verità era come la legge: era dura ma era la verità.

<< Non ti conosco.>> appena l'ebbe detto si rese conto di quanto potesse essere ambigua ed alzò la mano per interrompere eventuali proteste. << Ti ho conosciuto in un ambito particolare, ho imparato a convivere con te, a vivere, ad esserti amico e preoccuparmi per te. Sei parte dei miei amici, della mia cerchia se vogliamo chiamarla così, non sei da meno degli altri e spero che questo tu lo comprenda; non si può parlare di qualcosa di più, questo è ovvio, ma… ci sono cose del mio passato che non conosci, che molti non conoscono e che non posso ancora spiegare a nessuno e tu invece sei un ficcanaso di prima categoria. Con questo non voglio dire che ti impicceresti degli affari miei e mi costringeresti a confessare, ma semplicemente che potrai aspettarti da me completa sincerità su praticamente tutto ma mai tutto assieme, mai nell'immediato. Per di più, tu conosci solo Alexander il detective, non conosci me e per come sono davvero potrei tranquillamente non essere il tuo tipo di persona.>>
Prese un respiro profondo, gli pareva di non essersi spiegato per niente, di aver detto solo una marea di parole senza senso e per lui le parole valevano tantissimo.
<< Il mio carattere, i miei modi di fare, sono completamente diversi dai tuoi. Non mi butto in acqua senza aver controllato di non poter affogare, che non ci siano squali. È una metafora terribile ma è la verità. Nella mia vita privata non sono come sul lavoro, ho- ho faticato per trovare la forza e la sicurezza che ho come agente, alle volte ancora non la ho come persona temo, sono uno di quelli che preferiscono il buio alle luci della ribalta, in ogni senso, anche quando sono nel privato, quando devono aprirsi con un amico. L'ho sempre fatto e sempre lo farò. >> la sua voce s'affievolì e per la prima volta Magnus lo guardò con occhi del tutto diversi.
Davanti a lui ora c'era un ragazzo di ventisei anni, timido, taciturno e scostante, che preferiva star in silenzio e defilarsi, nascondersi anche da chi avrebbe potuto volergli bene – da chi già gliene voleva- perché non era sicuro, perché nel suo armadio c'erano scheletri che non aveva ancora la forza di tirar fuori, tra le cui bianche membra ancora pulsava un vecchio cuore malato.
Davanti a lui c'era un Atlante che reggeva il peso della volta celeste da solo, non perché qualcuno non gli avesse mai proposto d'aiutarlo, ma perché lui non voleva che altri soffrissero la sua stessa stasi, lo stesso fardello.
Come aveva fatto a non rendersi conto che Alexander non stava evitando lui ma sé stesso?
Si ritrovò a sorridere mestamente, Simon aveva ragione, Catarina ne aveva e anche Raphael.

<< Va bene.>> disse attirando la sua attenzione e facendolo accigliare.
<< Va bene?>> chiese quello di rimando, stupito.
<< Va bene, sì. Forse l'avranno detto anche a te fino allo sfinimento, ma mi spiace ammettere che avevano ragione, dovevamo solo parlare. È il mio turno ora, vero?>> sorrise improvvisamente animato. << Allora per cominciare scusa per l'uscita dello “sbirro” e tutte quelle cose lì. Adoro lavorare con te e Sonny, anche se mi fanno schifo le melme ed i corpi morti. Ero solo incazzato e quando mi arrabbio- >>
<< Straparli e lo fai solo per ferire gli altri? Sì, lo so.>>
Magnus rise. << Sai Fiorellino, pare che tu mi conosca tanto bene ma che io non conosca te.>>
Anche se non lo fece, ad Alec scappò quasi un sorriso alla menzione di quell'improponibile nomignolo. << Semplicemente tu sei come ti mostri ed io mi mostro come vorrei essere.>> disse calmo.
L'altro lo fissò per un attimo in silenzio, gli occhi verdi come quelli dei gatti e altrettanto attenti, luminosi e scintillanti. Magnus non poté far altro che sorridere ancora ed annuire.
<< Allora pare proprio che non ci resti null'altro da fare che conoscerci, davvero. Sarei curioso di vedere com'è Alec. >>
Il moro sbuffò una risata. << Non credo sia come te lo aspetti, ma sì, forse ci conviene.>> convenne.
<< Per il resto… >> fece l'asiatico lasciando la frase in sospeso. << Come dovrei comportarmi sul lavoro? Insomma, devo essere algido e con una scopa nel culo come la Herondale?>>
Questa volta Alec rise apertamente e come sempre quando accadeva, e quando era merito suo, Magnus se ne compiacque forse un po' troppo.
<< Non fraintendermi tesoro, non che non mi piacerebbe…la scopa intendo... >>
<< Dio, Magnus, non dire queste cose sulla Signora!>>
<< Perché? Ti indigna?>>
<< Mi fa venire la nausea il sol pensiero.>>
<< Tu non pensarci allora!>>
<< Me lo hai appena detto tu!>>
Si fissarono e poi scoppiarono a ridere assieme, come non facevano da Gennaio.
Alec scosse la testa per riprendersi e poi prese un bel respiro.
<< Non devi comportarti in modo rigido, sii te stesso ma non troppo irriverente per favore, stiamo sempre lavorando.>>
<< Quindi niente battute a sfondo sessuale davanti ad indiziati e testimoni?>>
<< Neanche sulle vittime, non si parla male dei morti.>>
<< E se sono stronzi bastardi assassini o stupratori?>>
<< Loro sì.>> convenne annuendo. << Ma ricordati di co- >>
<< Comportarmi bene, si daddy.>>
Alec lo fulminò con lo sguardo. << Non ti azzardare a chiamarmi così.>>
Magnus sfoderò il suo miglior sorriso seducente. << E in privato posso?>>
Le guance del giovane si colorarono di rosso, Magnus rimase a godersi quella sfumatura tirata su tela bianca finché un tarlo nella sua testa non gli sussurrò che malgrado stessero di nuovo ridendo come un tempo, a conti fatti, non avevano risolto nulla.
<< Quindi?>> chiese deciso a chiarire la questione una volta per tutte.
<< Quindi cosa? Non mi ci puoi chiamare e basta, è ridicolo.>>
<< Non quello, Alexander. Voglio davvero conoscerti, voglio davvero vedere oltre il detective e oltre il fratello maggiore, oltre il figlio perfetto e l'amico protettivo. Voglio vedere te.>>
Alec batté le palpebre senza sapere cosa dire. Chiuse un attimo gli occhi e se li massaggiò con delicatezza, poi sospirò: cosa voleva lui?
 

<< Sei felice Xander?>>
<< Perché me lo chiedi?>>
<< Perché ti conosco.>>

 

Glielo avevano chiesto tutti, dal primo all'ultimo. Gli avevano chiesto come si sentisse, cosa provasse, cosa volesse fare, perché non si decidesse a darsi un'opportunità. Perché non lo faceva?

 

<< Allora? Sei felice sì o no?>>
<< Io… >>
<< Sai qual è il primo passo per essere felici?>>
<< Volerlo?>>

 

Deglutì a disagio, non si rese conto di star sfregando il polsino della felpa, non si rese conto neanche dello sguardo carico d'aspettativa di Magnus.
Voleva davvero ricominciare tutto da capo? Ricordava fin troppo bene come fosse finita l'ultima volta, quella prima e quella prima ancora.
Ricordava fin troppo bene e… faceva ancora fin troppo male.
Ma se c'era una cosa che ricordava ancor meglio del dolore era una domanda, timida, innocente, sussurrata come un segreto, come la confessione di un peccato ad un uomo di fede fatta nel silenzio e nel fuoco di una terra che aveva visto troppo e ancora troppo avrebbe dovuto vedere. Si mischiava a ricordi sfocati di una vita passata, di un tempo in cui era lui ma ancora non lo era, prima ancora di diventare una crisalide, quando ancora era null'altro che un bruco.
Quale fosse la risposta giusta, forse, lo sapeva già, forse l'aveva sempre saputo.

<< Quindi… è una situazione delicata, che va affrontata con attenzione viste le molteplici implicazioni che potrebbe portare, tutti i problemi… >> aveva la bocca completamente asciutta e più si ripeteva in mente ciò che voleva dire più si rendeva conto di che grandissima puttanata fosse.
<< I problemi ci saranno sempre, Alec, ma c'è anche una soluzione, no? Di solito sei tanto bravo a trovarle.>> sorrise tirato Magnus.
L'altro annuì piano. << Temo che la soluzione sia solo una.>> disse in fine prendendo fiato e coraggio assieme.
L'uomo lo guardò improvvisamente apprensivo, l'aspettativa di prima macchiata da una delusione latente che già si faceva largo in lui.
Lo sapeva, Magnus lo sapeva, come poteva sperare che andasse diversamente? Era sempre stato terribilmente sfortunato sul fronte sentimentale, pareva non esser fatto per storie serie, destinato a bruciare tutto in una sola volta e mai lentamente come una candela.
Avrebbe affrontato la cosa da persona adulta però, da uomo.
<< Quale sarebbe?>> chiese drizzando la schiena e adocchiano la bottiglia di Vodka lasciata sul tavolo. Decisamente non aveva bevuto abbastanza, si sarebbe dovuto scolare tutta la distilleria illegale di Quinn, ecco cosa. Il coma etilico voleva, non doveva ricordare neanche chi era, neanche come si chiamava e soprattutto doveva dimenticare la patetica figura che aveva fatto andando da lui, ubriaco ma non così tanto, prima a parlargli della sua ex e poi a parlare di loro.
Che poi, ad essere onesti, non ne avevano parlato chiaramente, nessuno dei due era riuscito a mettere da parte abbastanza orgoglio per dire “ehi, mi interessi, davvero, credo che tu mi piaccia decisamente a livello sentimentale e penso anche che visti i nostri trascorsi di baci rubati potremmo essere una di quelle coppie melense che si baciano di sfuggita quando credono che nessuno li veda mentre in realtà tutti sanno che stanno lì ad amoreggiare. Che dici, ci proviamo?”.
Okay, ennesima ammissione, Alexander una cosa del genere non l'avrebbe mai detta, ma restava il punto: c'avevano solo girato attorno malgrado il ragazzo si fosse spinto sino a dirgli – ancora come avevano già fatto praticamente tutti- che non si conoscevano davvero. E Magnus cominciava ad averne piene le palle di questa storia, poteva sempre conoscerlo, mica stava per partire per il Vietnam!
Va bene che lavoravano assieme, va bene che era timido e che non voleva dirgli tutto ciò che aveva passato, ci sarebbero arrivati pian piano, perché davvero, Magnus non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che aveva incontrato qualcuno che lo capisse così a fondo e così bene e non dubitava che anche Alec, solo Alec, gli sarebbe piaciuto da impazzire. Aveva ammesso da sé che si comportava “come avrebbe voluto essere”: come poteva non piacergli qualcuno che nella vita cercavi di essere la migliore versione di sé? Era assurdo e stupido pensare il contrario, anche se poteva capire i dubbi e le incertezze di una persona timida, perché ormai l'aveva appurato che Alec lo fosse anche fino al midollo, ma bastava guardalo in faccia per capire che non poteva non piacergli ogni versione di lui.
Quanto gli sarebbero piaciute tali versioni era secondario, ma se solo gli avesse dato l'opportunità di farlo glielo avrebbe dimostrato, avrebbe anche potuto farlo uscire da quella specie di guscio che si portava costantemente addosso, ma l'altro preferiva accampare scuse e non chiudere quella dannata bocca e lasciarlo inveire contro cotanta stupidità, no, lui doveva continuare a parlare, ma non era uno da poche parole?
Ma poi, che stava dicendo?

<< Eh?>> chiese in modo brusco, forse troppo visto che il ragazzo fece una smorfia e si tirò indietro.
<< Scusa, se no- >>
<< No, non ho proprio capito che hai detto, non ti stavo ascoltando, ero perso in ragionamenti miei.>>
 

Magnifico Magnus, diglielo pure, così sì che gli dimostri quanto sei interessato a lui.
Vabbé, tanto ha già scelto per entrambi, no?

<< Ma in ogni caso sono sicuro che ciò che hai detto sia giusto, quindi va bene, come vuoi. >> disse in fretta agitando una mano in aria.
Non aveva ancora aperto i pasticcini, magari invece che un coma etilico poteva andare in overdose di zuccheri…
<< Ne sei sicuro?>> chiese titubante Alec.
<< Certo, sicurissimo.>> replicò senza guardarlo ma sporgendosi verso la scatola dei dolci.
Se solo avesse continuato a guardare Alec avrebbe visto la sua espressione smarrita lasciare il posto ad una scettica, quella classica da “mi stai prendendo in giro?”. Ma non lo fece ed il detective incrociò le braccia al petto e parlò con tono neutro e noncurante.
<< Perfetto allora, temevo ti avrebbe dato fastidio spostarti così lontano.>>
A quella frase Magnus lasciò perdere i pasticcini e si voltò di scatto verso di lui.
<< Cosa?>> chiese allarmato.
<< Sì, è lontano ma è la soluzione migliore.>>
<< No, aspetta, di che stai parlando?>>
Alec alzò di nuovo il sopracciglio. << Non hai detto che tanto sei d'accordo?>>
<< Mi stai facendo pagare il fatto che non ti ho ascoltato? Davvero Alexander? Ci abbassiamo a queste cose da mocciosi?>> lo schernì assottigliando lo sguardo.
Per tutta risposta Alec si strinse nelle spalle.
<< Cosa vuoi farci? La colpa è tua.>>
<< Mia?>>
<< Sì.>>
<< E perché? Sentiamo un po', che ho fatto sta volta?>> alzò la voce e anche le mani al cielo ma l'altro non si scompose.
<< Non sono io quello che stava ignorando l'altro mentre quello gli stava chiedendo un appuntamento.>>
<< Non è che non ti stavo ascoltando perché non mi interessasse, ero solo perso in pensieri miei, considerazioni. A te non capita mai?>>
<< Non in questi casi.>> sogghignò Alec.
<< Oh, ma certo, certo che no. Il perfetto Alexander non sbaglia mai.>>
<< Non ho detto questo.>> continuò il giovane sempre più divertito.
A Magnus invece stava solo salendo un nervosismo epocale. Prima Camille, poi lui, chi gli mancava? C'era altra gente in fila?
<< Ovviamente, ho di nuovo capito male io.>> ringhiò inacidito.
<< Secondo me non hai proprio capito, è diverso.>>
<< AH! Direttamente così? Non posso arrivare a seguire i tuoi sublimi ragionamenti?>>
<< Forse ragioni anche troppo in verità. Magnus, che ti ho detto?>> gli stavano quasi facendo male le guance per trattenere il sorriso che, prepotente, voleva uscire allo scoperto.
Ma Magnus era partito per la tangente, faceva sempre così, e quella volta ugualmente alle altre lo guardò male e gli rispose a tono: << Che non ho capito cosa sua grazia mi ha detto.>>
<< E prima cos'ho detto?>>
<< Che non credi di essere perfetto.>>
<< E prima ancora?>>
<< Alexander, 'sto gioco mi ha già rotto il cazzo.>> lo avvertì l'uomo.
<< E allora vedi di fare mente locale e di ricordare cosa ti ho detto e cosa hai palesemente ignorato due volte.>> disse in fine sorridendo apertamente.
Più che un sorriso era un ghigno soddisfatto e Magnus se ne rese conto.
<< Perché sorridi come una iena?>>
Alec rise e scosse la testa. << Che c'è? Non mi hai sentito neanche alla seconda e stai prendendo tempo?>> domandò allungandosi sul tavolo e aprendo finalmente l'incarto dei mignon. Ne prese a colpo sicuro uno nero ed arancio e se lo infilò in bocca con facilità.
Dopotutto cosa mai poteva essere un piccolo pasticcino a confronto con venti marshmallow stipati tutti assieme?
Distrattosi di nuovo per colpa di quel dolce e di quelle labbra che, malgrado stesse masticando, fossero comunque tese e ridenti, Magnus cercò di fare mente locale il più velocemente possibile, rifacendosi a ritroso quel botta e risposta sino ad arrivare al-

<< Che è colpa mia.>> disse lentamente mentre la sua mente processava una frase, una parola, in particolare. << Che tu non ignori la gente quando questa… ti sta...chiedendo un…appuntamento?>>
Con gli occhi sgranati si ritrovò a fissare quelli luminosi e vivi dell'altro, rilassati come se ciò che gli aveva appena detto non fosse il passo più lungo che avessero fatto da quel Natale.
<< Mi stai prendendo in giro?>> chiese comunque scioccato.
<< No, è la cosa più logica da fare, l'unica direi.>> disse con non-calanche Alec.
<< E la storia di andare lontano?>>
<< Abiti a Brooklin, il Nascosto è piuttosto lontano da lì, ti toccherà prendere la macchina o la metro.>> spiegò ancora tranquillo e sogghignante.
Somigliava a Jace in maniera spaventosa in quel momento, o forse era il biondo che somigliava a lui… che cosa inquietante…
<< Tu- >> cercò di parlare ma cosa volesse dirgli non lo sapeva neanche lui.
Alec in tutta risposta prese altri due pasticcini colorati e si infilò in bocca anche quelli. Una macchiolina verdastra gli si sfumò sulle labbra e Magnus la fissò senza vederla.
Gli aveva appena chiesto un appuntamento. Non “un caffè” o “un uscita”, aveva usato proprio quella parola: Appuntamento.

Cazzo.
 

Si riscosse solo quando il giovane mangiò altri dolci, per poi prenderne uno con la panna, intingerci il dito dentro ed allungarlo verso il gatto.
<< Tieni Church, è la tua preferita.>> gli disse gentile ed il felino sembrò essere della stessa opinione perché leccò via tutta la crema e poi gli si strusciò contro facendo le fusa.
Mentre i due “padroni di casa” continuavano a mangiare Magnus non riuscì a dire una sola parola.
Alec lo guardò con la coda dell'occhio, mordendosi la lingua per non ridere, ancora.
<< Non farmi ripetere qualcosa che ti dico sempre.>> fece richiamandolo al presente.
L'altro alzò un sopracciglio.<< Cosa?>>
Il bel volto da angelo di Alec si contrasse in un'espressione furba e per nulla rassicurante, Magnus avrebbe potuto paragonarla a molte altre che aveva visto ma solo quelle dello stesso giovane avrebbero potuto reggere il confronto.
Aveva sempre creduto che Alexander fosse il “bravo ragazzo” e che i suoi fratelli invece fossero “usciti male”, dannatissimi straviziati supponenti e vanitosi che non erano altro – non che lui fosse meglio, ma Magnus almeno lo ammetteva-, ma più passava il tempo più si convinceva che forse, invece, Jace ed Izzy, e con loro Max, avessero solo che ripreso dal fratello maggiore. Solo che Alec sapeva come mascherarlo e gli altri neanche ci provavano.
Il suo ghigno prometteva di tutto, avrebbe anche potuto regalargli punizioni e ferite, così come ogni buon angelo vendicatore fa, ma quella volta, la sua promessa, gli ricordò tutt'altro che dolore.

<< Che a quanto pare riesco a farti star zitto in modi che non avrei mai immaginato.>>

Magnus lo guardò a bocca aperta, sentendo solo di sfuggita la sua voce pacata avvertirlo che sarebbe andato a lavarsi e poi sarebbero andati dritti in ufficio.
Lo seguì con lo sguardo senza preoccuparsi di fingere di non star fissando quella schiena mastodontica e quel magnifico sedere fin troppo coperto dal pigiama, ma non riuscì a proferir parola.

Dopotutto, non era anche Eros un angelo?

 

 

 

 

 









Il ragazzino si rigirò sul letto, dando le spalle alla sponda libera e voltando la faccia verso il muro. Afferrò il suo cuscino e se lo tirò via da sotto la testa, abbracciandolo e sprofondandoci contro il naso.
Non poteva essere, non poteva essere anche questo, non a lui, perché tutte a lui?
Stringendo i denti e serrando gli occhi con forza, si nascose meglio rannicchiandosi il più possibile.

<< Perché non posso essere felice anche io?>>

Forse, sarebbe bastato volerlo e smettere di aver paura. Forse non sarebbe mai servito a niente.


 








 

 


 

 

Avevano messo in chiaro parecchie cose, nel tragitto da casa di Alec al dipartimento.
Primo: avrebbero lasciato le loro questioni personali fuori dal luogo di lavoro.
C'era stato bisogno di precisare che “luogo di lavoro” era ogni posto in cui andavano finché erano in servizio. Ergo, non si poteva discutere, immusonirsi come i bambini o litigare per cose loro se stavano svolgendo un'indagine.
Magnus gli aveva detto di sì, che poteva farlo, mica era stupido, ma Alec ne dubitava.
Sia del fatto che potesse riuscirci, sia che non fosse stupido, ma se lo tenne per sé e non disse nulla.

 

Secondo: sarebbero ripartiti da zero. Questo significava non rinfacciarsi cose fatte in passato e-

 

<< No, Mags, non potrai tirare in ballo né la casa sicura né Natale. Ho detto di no, non cominciare. Taci e ascolta. >>
<< Ma che taci! Non trovo assolutamente giusto dimenticare cos- >>
<< Mi dicesti che non era “nulla”, che non si poteva parlare di sentimenti, che non dovevo farmi strane idee perché era solo un modo per passare il tempo e sfogare la tensione. Sei stato tu a non volerne parlare subito in quel momento perché ti imbarazzava. Ora lo fai valere come nulla.>>
<< E se non fossi d'accordo?>>
<< Non sei d'accordo?>>
<< No.>>
<< E allora ti attacchi al cazzo.>>
<< ALXANDER!>>

 

<< … in senso figurato o concreto? Perché per il concreto- >>
<< Stai-zitto.>>

 

- non calcolare le azioni che avrebbero potuto spingerli vicini ­- << Ti ho detto di no! Smettila.>>, << Non lo trovo giusto!>>- e ricominciare a comportarsi come prima che sparassero a Magnus. Quei giorni erano la linea di confine entro cui poteva rimanere. Il loro rapporto sarebbe ripartito da lì, quando erano amici senza benefici o implicazioni.


Terzo: nulla di serio o di impegnato, avrebbero preso le cose alla lontana e alla leggera. Dovevano conoscersi e non avrebbero concretizzato nulla ­- cosa che per altro portava al punto quattro- perciò se ad uno di loro so fosse presentata una buona occasione avrebbero potuto coglierla, non avevano vincoli di nessun tipo se non quelli di correttezza e decenza. Ed educazione.

<< Sono una persona educatissima.>>
<< Sono sicuro che se lo ripeterai abbastanza volte alla fine ci crederai anche tu.>>
<< Alexander, sei una persona estremamente cattiva tu invece, te l'ho mai detto?>>
<< No, non lo hai fatto. Ma guarda il lato positivo, hai già scoperto qualcosa di nuovo.>>
<< Che sei un sadico bastardo l'avevo capito anche quando mi hai attac- >>
<< Nessun riferimento postumo!>>
<< E comunque sono educato.>>
<< Trovo sorprendente che tu stia insistendo su questo e non sul fatto che non sei “decente”.>>
<< Ma io non sono decente, devo ricordarti come ti ho s- >>
<< NESSUN RI-FE-RI-ME-NTO!>>

Quarto: niente contatto fisico troppo intimo, quindi niente baci, amoreggiamenti veri e niente sesso.

 

<< Orale o completo?>>
<< Entrambi.>>
<< Ma non è giusto!>>
<< Sono le regole.>>
<< Le stai facendo solo tu!>>
<< Perché sono io la persona adulta, matura e responsabile tra i due.>>
<< Che sei bello che maturo lo so anche io… >>
<< Sto per darti un pungo.>>
<< AH! Sapevo già anche che eri violento a letto! BONDAGE! AHIO! Mi hai picchiato davvero!>>

 

La regola era ferrea e ineludibile e si collegava alla terza che permetteva ai due di vivere tranquillamente anche altre relazioni se queste gli fossero andate a genio.
No, non era una roba da ragazzini, da Sleepover Club con le regole per non essere buttati fuori dal gruppo. Non era neanche una cosa stupida, visto il soggetto implicato. Ovviamente si parlava di Magnus, certo, non di Alec. Sì, non se la sarebbe presa a male se si fosse sbattuto la prima che gli capitava davanti e no, neanche se si fosse sbattuto il primo che capitava, o se si fosse fatto sbattere lui stesso… no? I ragazzi se li poteva fare ma loro non potevano farsi lui? Perché cavolo gli stava dicendo queste cose? Erano affari suoi cosa voleva o meno fare con le sue conquiste e-

<< Andiamo Fiorellino, dopo aver conosciuto la tua arma da cecchino chi regge il confronto?>>
<< Questo. È per questo che abbiamo stabilito delle regole, per le tue infelici uscite. Regola numero due.>> rimbeccò Alec guardandolo male.
Magnus alzò gli occhi al cielo, fissando il tettuccio scuro dell'auto. << Niente riferimenti a ciò che è stato. >>
<< Regola numero uno?>>
<< Niente battute a sfondo privato se siamo in servizio.>> rispose lui laconico.
<< E quando siamo in servizio?>>
<< Dalle sette di mattina alle otto di sera. Che poi, parliamone, abbiamo dei turni di merda. Chi cazzo sta dieci ore a lavorare?>> domandò rigirandosi sul sedile e guardando accigliato l'altro.
<< Chi ha la lunga, Magnus. Le persone comuni quindi.>> Alec non spostò lo sguardo dalla strada ma alzò un sopracciglio per rendere meglio l'idea.
<< Hugh, dovrò farlo anche io?>>
<< Vuoi lavorare con me?>> chiese di rimando il moro.
Magnus a quella domanda sogghignò. << Con te? Non con te e Simon?>>
<< La squadra è mia, quindi devi principalmente lavorare con me.>>
L'altro fece una smorfia. << Non mi piace quando rispondi in modo pronto e maturo alle mie battute e allusioni, facendole diventare quasi domande serie.>>
Fu il turno di Alec di sogghignare. << Dopotutto sono io quello maturo, no?>>
Si strinse nelle spalle ed entrò nel parcheggio dello stabile, andando a fermarsi nei posti dedicati ai detective della sezione Omicidi.
Magnus non rispose, si limito a fargli il verso in silenzio e a slacciarsi la cinta, passandosi una mano tra i capelli per sistemarli un poco ed avere un aspetto decente. Non che lui fosse mai meno di magnifico, ma aver vicino un Tenente pettinato di tutto punto, con la sua divisa da Man in Black e soprattutto senza una mezza bottiglia di vodka in corpo, lo faceva sentire leggermente scombinato.
Sentì a mala pena il ragazzo dirgli di sbrigarsi, che erano in ritardo, e si controllò i denti per assicurarsi che fossero quanto meno puliti. Il suo alito puzzava comunque d'alcol, ma i pasticcini avevano mitigato di tanto la cosa, gli sarebbe bastato un tazzone di caffè ed un pacchetto intero di gomme da masticare.
Uscì finalmente dalla macchina sotto lo sguardo di rimprovero di Alec e gli fece la linguaccia giusto per dimostrargli che non era lui l'unica persona matura della squadra.
Vedere l'altro scuotere la testa e alzare gli occhi al cielo, intimandogli solo di comportarsi come si deve e non fare cavolate subito, gli lasciò in petto una sensazione di tepore, come quando dopo tanto tempo si torna a casa, alla propria vita e alle proprie abitudini.
Aveva passato a mala pena un mese a lavorare davvero con lui e poi cinque giorni senza sentirlo né vederlo, lui, il dipartimento, il parcheggio classista solo per i poliziotti e quella marea di divise blu che lo circondavano, eppure gli era mancato tutto terribilmente.
Se era vero che quello non era il suo mondo, che era e sarebbe sempre rimasto un demone in terra, Magnus aveva appena scoperto cosa rappresentava, cosa incarnasse, lui stesso su quel mondo.
Fissando Alec entrare con disinvoltura oltre le porte a vetri, l'uomo si disse che lui non poteva esser altro se non il demone della nostalgia e del rimpianto. Ma se il rimpianto era una cosa terribile, la nostalgia, si era reso conto, non era sempre così terribile, alle volte era solo la prova dell'affetto che si provava verso luoghi e persone, verso oggetti e vite vissute per circa trenta giorni festivi esclusi.
Sì, si disse entrando dietro al collega, la nostalgia poteva esser bella, specie quando finalmente la si appagava tornando lì dove meglio si viveva.




 







Stava per succedere qualcosa di terribile, ormai ne aveva la certezza.
Le cose erano iniziate bene per poi precipitare in una manciata di minuti. Poco era il tempo che serviva affinché tutto capitolasse senza posa, affinché la mano impietosa di un dio tiranno distruggesse ciò che l'equilibrio e la natura avevano costruito con tanto impegno.
Se avesse dovuto giudicare quella giornata solo dalla mattina avrebbe detto che fosse un buon giorno per lavorare, per far finalmente quello per cui era andato sino a lì, ma il sole bugiardo l'aveva ingannato ed ora poteva solo che assistere alla disfatta di tutto.
Aveva mandato da lui il suo araldo accecante e glielo aveva mosso contro, fingendo inizialmente che fosse lì per porgerli un segno di pace, per fargli abbassare la guardia com'era successo in realtà. Era stato sciocco, non aveva colto i segni, ed ora non gli rimaneva che soccombere sotto il peso della sua stupidità.

 






 

Simon si rispinse gli occhiali sul naso e sorrise un po' tirato al giovane vicino a lui.
In piedi, immobile, con lo sguardo torbido come i boschi bagnati, fisso e alienato dall'ascensore in cui si trovavano, Jonathan scrutava la lucida lastra senza vederla davvero.
Era diventato più magro quell'anno, Simon ricordava ancora la preoccupazione di Clary nel vederlo mangiare sempre meno, anzi, nel non vederlo mangiare per niente.
Anche se era un amorale figlio di puttana, Valentine era stato per Jonathan un padre come non era mai stato per Clary, che invece era stata cresciuta egregiamente da Luke.
Vero anche che Mr Morgenstern non aveva mai fatto mancare nulla al figlio più grande, non lo aveva mai trattato male, sino alla fine almeno, e non aveva fatto nulla per lederlo in nessun modo. Magari non avrebbe vinto il premio “padre dell'anno”, ma aveva svolto il suo ruolo, in modo un po' freddo, quasi più come un mentore con il proprio allievo, ma rimaneva il punto.
Che Jonathan avesse cominciato ad essere silenzioso, più cupo del solito, apatico e decisamente più irritabile del normale il che era tutto dire visto quanto fosse normalmente uno stronzo iracondo venuto dritto dall'inferno Dantesco- ignorando la gente e rispondendo a monosillabi, era comprensibile quindi.
Simon poteva capirlo, non fino in fondo forse, perché anche se aveva perso suo padre non aveva avuto il tempo – per fortuna o sfortuna, l'ironia dettava la risposta- di conoscerlo a fondo e di potersi affezionare a lui anche come persona e non solo come il suo papà. Rimaneva il fatto che Simon non era per niente stupito dal radicale cambiamento avvenuto nel ragazzo e a differenza della sua amica e di sua madre, sapeva che a Jonathan serviva solo il suo tempo per elaborare il tutto: poteva essere ancora un giorno o sarebbero potuti essere i prossimi dieci anni, ma alla fine ce l'avrebbe fatta.
Quello che lo turbava, in tutto ciò, era il modo in cui fissasse malissimo le porte dell'ascensore.
Era uno sguardo fisso e un po' perso, questo sì, tipo lo sguardo di qualcuno di arrabbiato con qualcun altro che intanto fissa una terza persona e sa che quella non ha colpe e infatti neanche la sta veramente guardando ma comunque la fissa malissimo e forse Alec aveva ragione doveva imparare a respirare anche mentalmente quando parlava perché gli stava mancando il fiato per quel dannato monologo interiore a flusso di Joice!
Simon lasciò andare l'aria che aveva trattenuto fino a quel momento e si mosse inquieto sul posto.

<< Ma sei così ansioso tutti i giorni della tua vita, o è un'esclusiva per quando sei solo con me?>>
La voce del giovane era annoiata e tagliente al contempo e Simon si domandò come fosse possibile.
Non riuscì ad impedirsi di sussultare, girandosi verso di lui e sorridendogli tirato.
<< Non sei tu- non solo per lo meno, ho solo una brutta sensazione su oggi, tutto qui, eh eh… >>
Jonathan si voltò verso di lui. << Perché hai una brutta sensazione?>>
<< Oh, nulla di che… >>
<< Non fare il poppante, non puoi dire una cosa e poi rimangiartela.>> il biondo assottigliò lo sguardo, facendo un passo avanti per fronteggiarlo.
A Simon risultò naturale alzare le mani in segno di resa, grato allo scampanellio che subito dopo lo informò di essere giunto al suo piano.
<< Non è niente, davvero. Capita la mattina che ti alzi con il piede sbagliato, no?>> disse retorico uscendo sul corridoio. Deglutì a disagio quando si rese conto che l'altro l'aveva seguito.
<< Non me la racconti bene, nerd, quando fai quella faccia stai nascondendo qualcosa.>>
<< Non è vero, cosa dici... >>
<< Sì che è vero, ti conosco da quando sei nato, non provare a fregarmi.>> Jonathan non lo mollò di un passo, fermandosi davanti alla sua scrivania con le braccia incrociate.
Simon provò a sorridergli, incerto e traballante, cominciando a mettere a posto cose già in ordine e ad allineare fogli e cartelle stipate nel porta documenti di plastica.
<< Vero, sì, però non è che hai poi passato così tanto tempo con me, magari ti sbagli no?>>
<< Lewis, sei stato in casa mia da quando sei venuto al mondo sino a quando non ho cambiato casa, ti venivo a prendere all'asilo assieme a Clary. Non-provare-a-fregarmi.>>
<< Giuro che non lo sto facendo, ma non saprei spiegartelo.>>
<< Balle. Sputa il rospo.>> lo freddò in fine.
Il ragazzo lasciò cadere le spalle sconfitto. << Okay, ma non mi picchiare.>> chiese poggiando le mani sullo schienale della sedia e mettendola tra lui ed il biondo, come fosse una difesa.
<< Dipende dalla grandezza della cazzata che stai per sparare, non assicuro nulla.>>
L'altro sospirò. << Sei gentile oggi.>>
Jonathan annuì e rimase in attesa, le braccia incrociate ed il fianco appoggiato al bordo della scrivania di Alec.
<< Forza, che aspetti?>> disse scocciato.
<< L'ho fatto.>>
<< Cosa?>>
<< Te l'ho detto.>>
<< Non è vero.>>
<< Ma sì, che sei gentile oggi.>>
Il giovane lo guardò male. << Io sono sempre gentile.>> asserì secco. Poi tacque.
Simon alzò un sopracciglio. << Ma se non ci credi neanche tu, perché lo dici?>>
<< Gentile forse no, ma sono educato.>>
<< Di solito sei intrattabile e mi prendi costantemente in giro.>>
<< Tu te le cerchi, è questo il problema. Servi le battute su un piatto d'argento. Non è colpa mia se sei stupido.>>
<< Ecco, vedi! Di solito sei così!>>
<< Non è vero!>>
<< Sì che lo è!>>
<< Vaffanculo allora! Se non ti va bene la prossima volta ti faccio venire a piedi e non mi preoccupo più se ti vedo con quella cazzo di faccia costipata!>>
Jonathan ringhiò contro l'altro guardandolo male, uno sguardo che divenne solo più furente quando Simon, con faccia stupita ed un mezzo sorriso incredulo sul volto, gli chiese a bassa voce:
<< Ti sei preoccupato per me? Davvero?>>

Probabilmente Jonathan avrebbe preso il primo oggetto che gli fosse capitato, disgraziatamente la pistola che portava alla cinta, e glil'avrebbe lanciata in pieno volto se solo in quel momento le porte dell'ascensore non si fossero aperte lasciando entrare nel piano un vociare concitato di due persone che, ormai da parecchi giorni, non si rivolgevano più la parola.
 

<< Ti dico che è una puttanata.>>
<< Linguaggio.>>
<< Oh, scusa Cap! Non lo farò più.>> fece una ironica, << Ma tu devi smetterla di prendermi a schiaffi.>>
<< Tu te li chiami, se fai il cretino devo riportarti all'ordine.>>
<< Non ho fatto il cretino, è la vecchia maledetta che non ha senso dell'umorismo.>>
<< Questo! Questo è uno di quei comportamenti che non puoi avere sul posto di lavoro! E non chiamare la Signora in quel modo!>>
<< Ma tu, hai sentito quello che mi ha detto?>>
<< Ero vicino a te mi risulta.>>
<< Mi ha dato della rivista di moda anni '90! Faceva prima a dirmi che le faceva schifo al cazzo come sono vestito, almeno non mi avrebbe paragonato ad uno dei periodi più neri della moda mondiale!>>
<< Almeno non ti ha detto “inizi del 2000”… >>
<< Beh questo è vero ma- O mio Dio, Alexander… TU SEI CONSAPEVOLE CHE QUEL PERIODO E' STATO PEGGIO DEGLI ANNI '90! Oh, tesoro! Sono così fiero di te!>>
<< REGOLA NUMERO UNO!>>

Simon e Jonathan guardarono accigliati l'inizio del corridoio, così come molti altri poliziotti lì presenti, battendo le palpebre quando videro Alec e Magnus arrivare assieme, il primo con la sua solita aria torva e seriosa ed il secondo quasi commosso ma palesemente irritato dall'ultima frase.

<< “Regola numero uno”? Di che diamine stanno parlando?>> chiese Morgenstern rivolto al collega.
Simon scosse la testa allibito. << Non ne ho la più pallida idea… però sono venuti a lavoro assieme, avranno fatto pace!>> concluse emozionato, battendo le mani e precipitandosi verso gli altri due.
<< Avete fatto pace?!>> disse ad alta voce.
<< Sì Lewis, ci siamo stretti il mignolino e abbiamo siglato la nostra pinkypromise. >> fece Alec con voce monocorde, guardando male il ragazzo.
Alzò poi lo sguardo e si ritrovò a fissare gli occhi verdi di Jonathan, puntati dritti su di lui.
Si guardarono senza dirsi nulla, capendosi alla perfezione e scambiandosi solo un cenno con la testa.

<< Sì, sì, diciamo che abbiamo fatto pace. Anche se sarebbe più corretto dire che ci siamo comportati da persone mature abbiamo deciso di mettere da parte i nostri problemi per il bene della squadra, della tua emotività, della mia pelle, del cuore del capo Blackthorn e della salute mentale di Alexander. Lo stress di questa situazione mi avrebbe fatto venire le rughe premature.>> si lagnò Magnus con una smorfia, per poi far l'occhiolino a Simon e battergli una mano sulla spalla.
<< Quindi è andata bene alla fine.>> fece quello sollevato.
<< No, è una merda, in effetti. Ma su più fronti devo dire, non solo su questo. Ho rivisto la mia ex.>> gli disse con leggerezza.
Simon sgranò gli occhi. << La stronza?>>
<< Ti ringrazio per averla chiamata così e non “puttana”. Mi ha rimproverato, dice che faccio girare strane voci su di lei ma anche se è una bestia di Satana non è una prostituta. Devo dargliene atto.>>
<< Mh… è andata peggio di quanto non credessi. Vuoi parlarne?>>
<< Oh, no. Ne ho già parlato con Alexander, in un certo senso. Poi abbiamo svagato ma mi sono liberato un po' all'inizio. Sai come funziona parlare con me, iniziamo a discutere dei miei anni ribelli e finiamo ad elencare i migliori tendaggi per un vero gazebo in stile indiano.>> si strinse nelle spalle con non-calanche, ma Simon ormai lo conosceva e sapeva che per quanto potesse fingere, Magnus era rimasto turbato dall'incontro con la malefica ex e che quello che aveva detto ad Alec non era abbastanza per farlo sfogare. Certo non metteva in dubbio che l'uomo ad un certo punto avesse svagato in modo imbarazzante. Non metteva neanche in dubbio che fosse stato una merda visto che odorava vagamente di alcol ed un po' di pasticcini.
<< Sei passato a prendergli i dolci? Diamine, allora ti volevi scusare per bene!>>
<< Io faccio sempre tutto per bene, Sonny. Quindi, ora poserò il cappotto e poi andrò a bere un caffè come si deve, fatto bene, con la mia magnifica nuova macchina del caf- >>
La voce gli morì in gola quando si rese conto di chi c'era nella stanza con loro, vicino alla loro postazione.
Jonathan non lo stava neanche guardando, teneva lo sguardo su Alec, i due erano impegnati in un muto discorso da cui tutti gli altri erano tagliati fuori ed in un qualche modo Magnus ne fu turbato: sia perché di solito era con i loro amici più cari – lui e Simon, pure Jace di solito- che Alec aveva quel comportamento, sia perché vederlo dopo mesi e mesi che ogni tanto una testa bianca come il sale spuntava nei suoi ricordi, riversa a terra nel suo salotto, dove ora c'era il suo magnifico tappeto, lo fulminò sul posto.

<< Che ci fa lui qui?>> chiese serio rivolto a Simon.
Il giovane si strinse nelle spalle e scosse la testa. << Mi ha dato uno strappo, stavamo parlando quando siete arrivati.>>
<< E da quand'è che te e Morgenstern parlate?>> Magnus alzò un sopracciglio scettico e Simon storse il naso.
<< Per tua informazione succede da più di ventiquattr'anni a questa parte.>> borbottò lui, memore ancora delle parole del biondo. << Senza contare che la Omicidi ha sempre avuto il caffè migliore, anche prima che arrivassi tu. Il che è ridicolo visto che tecnicamente sono quelli della OCCB che devo fare gli appostamenti più lunghi ed estenuanti. O la Crimini Maggiori. E sono quelli della sezione Persone Scomparse che invece stanno in giro come trottole a tutte le ora e hanno bisogno di caffè per rimanere svegli. La Stradale ha la sua caffetteria di fiducia, cioè, ogni pattuglia ne ha una, quindi qui di caffè ne prendono poco perché se lo portano da fuori. Alla fine, qui alla Omicidi, la gente fa turni di lavoro anche normali, per dei poliziotti intendo, tanto la gente è già morta e la maggior parte dei colpevoli non cerca di fuggire oltre il confine. È Alec che- >>
<< Steven, cosa ti fa pensare che m'interessi qualcosa di quello che sai dicendo?>>
<< Tu puoi sviare il racconto drammatico del tuo incontro con la tua ex e io non posso parlare della qualità dei caffè del dipartimento? Davvero?
Noi nei laboratori avevano le merendine migliori e le bibite energetiche, comunque.>>
<< Concessa la prima e assolutamente irrilevante la seconda. Se è qui solo perché stava parlando con te, ora perché lui e Alexander si stanno fissando intensamente in quel modo?>> continuò guardingo.
Simon sorrise. << Che c'è? Sei geloso perché ora che ha fatto pace con te sta parlando con altri?>>
<< Non stanno parlando, si stanno fissando.>> precisò cocciuto.
<< Ovvero “stanno parlando” a modo loro. Luke dice che hai tempi dell'Accademia, quando dovevano fare qualcosa assieme, si fissavano male per cinque minuti e poi facevano le stesse identiche cose, come se si fossero messi d'accordo.>> raccontò il ragazzo tornando alla sua postazione e lasciandosi cadere sulla poltrona girevole.
Magnus alzò un sopracciglio. << Mi stai dicendo che erano amici?>>
<< Assolutamente no! Si odiavano profondamente ma a quanto pare sanno comunicare. Qualcosa di maschile e testosteronico che viene condotto tramite onde odio e disprezzo immane. Non andavano molto d'accordo già dai tempi del liceo in fondo, quindi in Accademia le cose peggiorarono solo. >> disse spaparanzandosi e portando le mani dietro alla testa.
L'uomo invece lo fissò sorpreso. << Andavano al liceo assieme?>>

<< Se è per questo siamo anche entrambi dotati d'udito.>>
Alec lanciò un'occhiataccia a Simon, che immediatamente si mise composto, e poi fece a Magnus cenno verso la sua scrivania. << Prendete le vostre cose, abbiamo una stanza assegnata, lavoreremo lì, ci servirà molto più spazio di questo.>> disse secco.
<< Torniamo nella saletta della settimana scorsa?>>
<< “Stanza assegnata” intende che sarà nostra fino a nuovo ordine e che possiamo farci tutto quello che ci pare?>>
<< Posso portare un paio di schermi?>>
<< Posso portare lì la macchina del caffè così non mi devo alzare?>>
<< Possiamo montare un paio di lampade? La luce lascia a desiderare.>>
<< Ma avremo anche la lavagna? Come nei film?>>

<< Dio, Lightwood… fanno sempre così?>> Jonathan guardò quasi disgustato gli altri due ed Alec si strinse nelle spalle.
<< Uno lo conosci da quando è nato e dell'altro saprai vita, morte e miracoli raccontati direttamente da Lucian. Mi hai davvero fatto questa domanda?>>
Morgenstern tirò le labbra in una linea piatta. << Mh, domanda inutile, sì… >>
<< Ma ci stai ignorando!>>
<< Congratulazioni Bane, sei più sveglio di quanto credessi.>> disse con il suo solito fare strafottente Jonathan.
Magnus lo guardò malissimo ma l'altro non si scompose, anzi, sorrise. << Oh, ti prego, ho passato quasi sei anni della mia vita a stretto contatto con Lightwood, pensi davvero di essere in grado di uccidere la gente con lo sguardo come fa lui?>> chiese divertito.
<< Non ha tutti i torti… >>
<< Sta zitto Severin!>>
<< Quando avete finito possiamo andare.>> s'intromise Alec.
<< E se non avessimo finito?>>
<< Alzi comunque il sedere e ti muovi.>> lo ghiacciò.
Magnus incrociò le braccia al petto e lanciò anche a lui un'occhiataccia. << Ti stai di nuovo comportando da stronzo.>> lo informò.
<< Dov'è la novità?>> chiese Morgenstern poggiando con tranquillità il braccio in testa a Simon.
Per tutta risposta Alec si limitò ad indicare il biondo con il dito, dandogli perfettamente ragione, poi prese dei documenti sul tavolo, gli diede uno sguardo per controllarli e fece cenno agli altri di seguirlo.
Magnus storse il naso, lamentandosi che doveva ancora prendere il caffè, mentre Simon cercava di togliersi di dosso Jonathan che invece gli camminò affianco con li gomito cocciutamente poggiato sul capo del più piccolo.
<< Dai, Jonathan, devo andare a lavorare, vuoi lasciarmi in pace?>>
<< Non mi pare che ora tu stia lavorando e non mi pare neanche di starti impedendo di seguire il tuo capo.>> sogghignò quello.
<< Sì, ma questo è un club privato, caro.>> fece Magnus afferrando Simon per la maglia e lanciandolo dentro alla stanza in cui era appena entrato Alec. << Quindi: buona giornata!>> gli fece un occhiolino e poi gli chiuse la porta in faccia.
O almeno ci provò.
Il piede di Jonathan si frappose tra l'anta e l'uscio, bloccando con prepotenza il gesto altrettanto violento di Magnus. Probabilmente il tonfo della porta si sarebbe sentito per tutto il piano.
L'uomo fece per protestare, guardando seriamente e anche vagamente in cagnesco l'altro che invece sorrideva tranquillo e senza un solo problema al mondo, anzi, stava… stava gongolando? Per cosa?
Magnus aprì bocca per dirgli di togliersi dai piedi, quando la voce di Alexander lo fece voltare.

<< Magnus, fai entrare Jonathan, dobbiamo lavorare.>>

Lui e Simon si erano già sistemati al grande tavolo centrare alla stanza. Alle spalle del tecnico le vetrate erano semi coperte delle tende grigio chiaro, la luce entrava delicata e filtrata sia dalla finestra opaca che dalle nubi che occupavano il cielo quel giorno, ma questo non impedì agli occhi di Alec di brillare sicuri e imperturbabili quando sia Simon che Magnus lo guardarono con fare scioccato ed ugualmente interrogativo.
Se l'uomo si fosse girato avrebbe potuto vedere anche come quella luce bassa e lattiginosa illuminasse in modo inquietante il sorriso soddisfatto di Morgenstern.
Senza aspettare la minima reazione dagli altri Jonathan spinse con leggerezza la porta e sgusciò dentro passando tra lo stipite di metallo e l'asiatico, ancora imbambolato lì vicino.
<< Che vuol dire?>> chiese senza capire.
<< Quello che ho detto. Dobbiamo lavorare. Ti ho accennato le generalità di questa indagine, stiamo indagando su uomini che, letteralmente, organizzano crimini. Il Caso è nostro perché abbiamo trovato il cadavere e perché abbiamo i giusti agganci per continuare ad indagare, ma non possiamo fare tutto da soli. Se dovessimo coinvolgere tutte le sezioni del Dipartimento saremo in troppi, ma non cambia il fatto che ci servano tutte le conoscenze possibili: Noi indaghiamo alla “luce del sole”, l'Antidroga con i suoi agenti sotto copertura, la SWAT pronta ad intervenire in ogni momento e la Crimine Organizzato con un agente di collegamento che si unirà alla squadra.>>
Il silenzio si fece spesso e pensante, acuito dall'incredulità dei presenti.
Jonathan avanzò nella stanza sino a fermarsi al fianco di Alec, alla sua destra come se fosse il suo più forte e fidato affiliato.
<< Salve, sono l'agente di collegamento. A quanto pare dovremo lavorare insieme per un bel po'. >>
Il ghignò che gli si aprì sul volto, Magnus lo sentiva perfettamente, reclamava a gran voce d'esser tolto a suon di sprangate sui denti.

Si preannunciava un Caso difficile oltre ogni limite e di certo non con una compagnia semplice.
Alec si domandò se la cosa più complicata sarebbe stata districare quell'intricata rete di criminali o far si che gli altri lavorassero tranquillamente senza uccidersi a vicenda.




Quella che era cominciata come una bella giornata, con tanti buoni propositi, che poi era lentamente scivolata nell'inquietudine, si dimostrò per quello che in realtà era: una grandissima apocalisse annunciata. E dire che lui le apocalissi, le invasioni aliene e lo scoppio di virus che trasformano la gente in zombie lì vedeva sempre a metri e metri di distanza… questa volta aveva ritardato troppo ma alla fine Simon aveva avuto perfettamente ragione.

Oddio, morirò.











Seduti tutti attorno al tavolo, Magnus e Simon da una parte e Jonathan – soddisfatto e ghignante- vicino ad Alec dall'altra, il Tenente aveva distribuito dei fascicoli e cominciato a spiegare la situazione.

<< La cosa è abbastanza chiare in linea teorica: esiste un gruppo di uomini, come un'associazione, che perpetra azioni più o meno legali e di dubbia moralità. Non sono sempre azioni criminose ma spesso deplorevoli, che hanno come obbiettivo denaro e potere.
Questa rete pare aver radici molto profonde, il Capo Manchester ha detto di aver sempre combattuto contro questo genere di persone e di avervi visto, in qualche modo non convenzionale, un disegno dietro. Non sono sempre le stesse persone, non si passa il testimone e non si eredita il posto, vedetela come una serie di agenzie che svolgono un lavoro particolare e che al momento del bisogno si riuniscono e si danno manforte le une con le altre. A chi spaccai serve di eliminare un concorrente? Chiama “l'agenzia” deputata agli omicidi e questa gli risolve il problema, concedetemi l'esempio.
Il problema di organizzazioni fatte così, ad isole separate, collegate solo da patti di non belligeranza e di aiuto reciproco, è che nel momento in cui se ne smantella una le altre non affiorano in superficie. Sono comparti stagni che chiudono i ponti e continuano per la propria strada.
Quando viene catturato il capo di una data “isola” i membri che sono sfuggiti all'arresto si riorganizzano e rimettono su una nuova agenzia, riprendendo le file di quella vecchia ma modificandola, correggendo le falle che l'hanno fatta cadere.
Tutto chiaro sino a qui?>>
I ragazzi lo ascoltavano con serietà, gli occhi fissi su di lui, senza perdersi neanche una parola di quello che diceva.
Alec guardò uno ad uno i suoi colleghi, fermandosi in fine su Magnus, inchiodandolo per assicurarsi che capisse cosa stava per dire, che lo capisse sino in fondo e avesse la possibilitàcome gli concesse con il primo caso- di dirgli subito tutto ciò che sapeva o fargli capire che glielo avrebbe detto in seguito, ma che l'avrebbe fatto.
Non gli avrebbe permesso il contrario.
 

<< Ma, Alec,>> chiese Simon accigliato. << Non avevano detto che fosse una sola agenzia che muoveva tutto?>>
Il moro spostò per un attimo lo sguardo sull'altro. << Così la teoria non fila. Se ci fosse un unico capo le metodologie in ogni azione sarebbero simili, anche se in modo infinitesimale. Ma così non è e quando cade un capo, magari legato allo spaccio, non crollano anche tutti gli altri. Senza contare che se ci fosse un solo superiore sarebbe una persona con troppo potere e sarebbe impossibile non averne mai sentito parlare. Magari sarebbe un imprenditore, un politico, un filantropo o chicchessia, ma lo conosceremo, avremmo dei sospetti. In più non credo che sarebbe così facile da uccidere, mentre noi sappiamo che questi “capi” cambiano perché finiscono dietro le sbarre.>>
Simon annuì concorde con quella spiegazione più che logica ed Alexander tornò a concentrarsi su Magnus che nel mentre aveva seguito lo scambio di battute come Jonathan.
<< A questo punto, come vi ho detto, la mia idea è che si tratti di più persone facoltose che si riuniscono in un'unica associazione. >> scandì bene le parole e non mosse lo sguardo da quello verde chiaro del collega.
Le pupille di Magnus si fecero improvvisamente più piccole e se la luce fosse stata un po' più forte probabilmente anche gli altri si sarebbero resi conto che era impallidito, ma solo Alec che vi stava facendo caso lo vide e non gli piacque perché significava solo una cosa:


Ho indovinato. Lo sa.


Cercò di comunicargli con lo sguardo che, malgrado lui non avrebbe detto niente davanti agli altri, poi ne avrebbero parlato in privato e continuò a spiegare il caso, le prove già in loro possesso, i vecchi arresti ed i collegamenti che si snodavano nel tempo, andando a ritroso, sollevando da dentro le scatole accatastate a terra, pile di fascicoli su fascicoli e dividendoli per crimine.
C'erano gli spacciatori, gli omicidi su commissioni, quelli per il territorio, le lotte di potere, gli attentati, le minacce ed i rapimenti, i furti di varie entità e l'elenco di quelle persone prese e torturate per farle parlare, tutto ciò che sapevano.
Magnus era rimasto impietrito, nella sua retina era ancora impresso a fuoco il blu accecante degli occhi seri e severi di Alexander, ma questo non gli impedì di notare una cartella corpulenta proveniente dalla OCCB su cui spiccava una data bene chiara, Giugno 2007 .
Fissò quell'ammasso di fogli senza vedere altro se non quella scritta frettolosa a penna nera, leggermente sbafata ed in una calligrafia che non conosceva – a differenza di Jonathan che la conosceva sin troppo bene- chiedendosi quanto sapesse effettivamente Alec e quanto invece gli avesse confermato lui con il suo comportamento e la sua espressione.
Perché lo sapeva che il detective si era reso conto che stesse sudando freddo, che fosse più in ansia che mai, che gli si fosse aperta una voragine nello stomaco e che aveva solo voglia di vomitare tutto.
Il sapore della vodka gli risalì prepotente alla bocca e Magnus si maledì di aver bevuto anche solo un goccio.
Ad esser onesti, si maledì per tante, troppe cose.
Ascoltò pietrificato il detective spiegare come si sarebbero divisi il lavoro, che per prima cosa avrebbero dovuto studiare per bene tutti quei documenti, fare una cernita tra ciò che reputavano collegato e cosa invece non lo era. Nomi ricorrenti, eventi ricorrenti, metodologie, luoghi, armi, tutto ciò che poteva puntare in una sola direzione andava appuntato sulla lavagna in un grafico temporale che avrebbe aiutato a chiarir loro le idee.
Lo vide prendere pacchie cartelle e passarle a Jonathan, sulla prima in cima spiccava la data del 1980. La seconda pila invece iniziava dal 1989 e Magnus deglutì, conscio che lì in mezzo vi fossero gli albori della sua vita criminale, oltre che ben dieci anni di cose da leggere e controllare. Per un momento sperò vivamente che quegli anni capitassero a lui, così come a Morgenstern erano capitati gli anni d'oro del padre, ma Alec mise la pila da parte e subito dopo ne prese un'altra su cui capeggiava un fascicolo del 1999, di fianco a quello uno su cui spiccava la scritta 2010.
La voglia di vomitare di Magnus stava salendo a poco a poco, assieme alla realizzazione che qualunque di quelle cartelle gli fossero arrivate in mano sarebbero state difficili da sopportare.
Poteva capitargli l'inizio del suo lavoro, quando era poco meno di un ragazzino, quando aveva scorto l'apice di quella rete che lui conosceva fin troppo bene: quella sarebbe stata la cosa più leggera. Ma potevano toccargli anche i primi anni 2000, dove in mezzo spiccava il maledettissimo 2007 e tutto quello che si era portato dietro. In fine vi erano i fascicoli dal 2010 in poi, quindi dentro vi avrebbe trovato anche gli atti della morte di Ragnor, sicuramente, e non sapeva se poteva riesaminare tutta quella roba e vedere le foto del cadavere, della casa a soqquadro, non sapeva se avrebbe sopportato il verbale di quella notte d'agosto.
Era un vicolo cieco: se gli fossero capitati i primi qualcuno avrebbe letto del 2007. Se gli fosse capitato quello allora altri avrebbero letto dei suoi primi passi nel mondo del crimine. Se in fine non gli fosse capitato nessuno avrebbe dovuto rivivere quei mesi infernali.
Forse avrebbe potuto chiedere quelli dati a Morgenstern, ma così lo stronzo avrebbe letto cose troppo delicate che lo riguardavano e per di più si sarebbe dovuto riscontrare con la morte del padre. Il padre di Simon non era morto verso il '96? Quando Simon aveva circa cinque anni?
Ovunque si girasse, comunque guardasse quella stupida assegnazione di tempi, c'era qualcosa che stonava e lo faceva in modo dannatamente stridente.
E a quanto pare Alexander doveva aver pensato esattamente la stessa cosa.

Sia mai che non capisce tutto al volo.

 

Alec fissava quelle tre pile di documenti chiedendosi per quale dannato motivo non potesse leggerle tutte da solo. C'avrebbe impiegato quattro giorni, va bene, una settimana, ma almeno non si sarebbe trovato in quella situazione.
Assegnare a Jonathan gli anni '80 gli era sembrato più logico e giusto nei suoi confronti: in questo modo avrebbe potuto vedere dove e come suo padre era cambiato, avrebbe potuto capirci molto di più – e sicuramente meglio- di quello che avrebbero potuto far loro. Perché era indubbio che Valentine avesse avuto le mani in pasta anche con quell'associazione fantasma che ora stavano inseguendo, se era davvero vasta e ben radicata come credeva doveva per forza essere così.
Non voleva assegnare a Simon gli anni '90 soprattutto perché non si faceva ancora massiccio uso di tecnologia, non come se ne sarebbe fatto negli anni 2000-2010, dove sicuramente lui avrebbe fatto più progressi degli altri più velocemente, ma se doveva essere sincero non voleva che né lui né Magnus vedessero cos'era successo a cavallo tra l'inizio e la prima decade del nuovo secolo.
La “zona buia” di Alec andava dal 2006 al 2012, ma certo non poteva mettersi a smistare così quelle cartelle, avrebbe dato troppo dell'occhio.
Guardò i suoi colleghi e ci pensò su seriamente, cosa fare? Lasciare che Magnus vedesse come era diventato Sergente? Come era tornato dal Medio Oriente? Perché era sicuro che in un qualche modo anche lui fosse in quei fascicoli, specie per la prima pallottola di Jace.
La seconda pila avrebbe implicato anche il Caso Fell e il Caso Circle e Alec non sapeva proprio come comportarsi.
Fissò quelle cartelle, quelle date scritte a penna sulla carta grezza e alla fine prese la sua decisione.
Per quanto si potesse fidare di Magnus non gli avrebbe fatto vedere quel lato di sé, non glielo avrebbe neanche fatto scorgere da lontano, fatto intuire tra i verbali di sparatorie e ordini di servizio.
Spinse verso l'uomo i fascicoli degli anni '90 con sicurezza. Magnus fece una smorfia ed Alec non ebbe bisogno di chiedergli perché, ne avrebbero parlato in seguito.
Prese poi la pila del 2000 e la passò a Simon, che probabilmente non si era reso conto del grandissimo atto di fiducia che Alexander aveva appena fatto nei suoi confronti: lì dentro avrebbe trovato i rapporti dei primi lavori dei ragazzi dell'accademia, persino i suoi, i primi arresti degli spacciatori e dei ladruncoli -quando la criminalità era esplosa aiutata dalla tecnologia- compresa la nota d'interesse che un colonnello della Marina aveva lasciato al suo superiore dopo averlo visto sparare.
Per sé tenne quei dannati anni che andavano dal 2010 a data odierna, lì avrebbe trovato un po' di quegli scheletri che si portava costantemente addosso e che la sera riponeva con cura nell'armadio.

A quanto pare, per dimostrare finalmente di essere degno del suo distintivo, Alexander avrebbe dovuto rivivere eventi che avrebbe preferito cancellare dalla memoria dell'umanità.






 

In piedi davanti alla macchinetta del caffè ancora lucida e fiammante, Magnus attendeva con pazienza che la bevanda arrivasse a giusta temperatura.
Se gli fosse stato possibile c'avrebbe messo dentro anche almeno due dita di rum, ma vista la nausea che gli era presa prima al sol ricordare eventi passati questa non era una buona idea.
Alla fine aveva avuto “fortuna”, per così dire, ma si era ugualmente maledetto quando si era reso conto che, con tutta probabilità, le sue azioni criminali non sarebbero rientrare in quei fascicoli, o che sarebbe bastato dire che lui non c'entrava niente per convincere i suoi amici - non era certo che valesse lo stesso anche per Jonathan- ad accantonare le cartelle che lo riguardavano.
Era ovvio che in alcune cose il nome dei Bane sarebbe uscito fuori, suo padre aveva lavorato con tutti, anche quando la gente lo credeva ormai fuori dal continente lui era ancora lì, a muovere le fila di un impero che gli sarebbe sempre stato fedele.
Quante volte gli aveva detto che gli avrebbe passato il testimone ma poi aveva ugualmente continuato a gestire tutto lui? Alle volte Magnus si domandava se, ad oggi, fosse diventato davvero lui il “capo” o se fosse ancora Asmodeus a detenere lo scettro e la corona, a sedere sul trono anche se lontano chilometri.
Forse era ancora così, sì, perché Magnus non aveva alcuna voglia di doversi occupare di tutto, quindi aveva trovato dei fedeli e fidati bracci destri – si poteva dire così? - e questi si erano rivelati esser nulla di meno degli ex fedelissimi di suo padre. Quindi era quello il punto? Magnus veniva visto ancora come un principe e non come il re in carica? Suo padre gli faceva ancora credere che fosse lui il boss mentre invece continuava a fare il suo lavoro?
Magnus non aveva mai avuto problemi troppo gravi con i suoi sottoposti, la cosa di cui si occupava maggiormente era l'importazione illegale di alcolici di ogni tipo, di ogni gradazioni. La sua specialità poi era del tutto diversa da quella di suo padre: mentre Asmodeus creava mondi, li modellava a suo piacimento e li popolava delle creature che più gli gradivano, Magnus era sempre stato un mago nel trovare, recuperare e procurare cose di ogni tipo. Che fossero oggetti di lusso, edifici, somme di denaro, che fossero partite di droga o riciclo di soldi sporchi. Magnus poteva trovare tutto, poteva avere tutto e così i suoi clienti. E riusciva in questo proprio perché aveva tanti amici sparsi in ogni ambiente, qualunque ambiente.
La cosa gli era sempre parsa magnifica sotto ogni punto di vista, per lo meno sino ad ora.
Il Clan.
Alexander stava cercando il Clan e con lui tutti i Figli della Notte.
Per sua grandissima sfortuna molti dei suoi amici facevano parte di quella famiglia oscura e potente.
Doveva preoccuparsi per il ragazzo? Per ciò in cui si sarebbe tirato dentro? Questa volta non doveva lottare contro poliziotti corrotti e potenti, non avrebbe avuto la giustizia dalla sua, l'opinione pubblica. Non sarebbe bastato difendere i suoi cari, non sarebbe bastato difendere sé stessi.
Tra quella gente c'era chi era capace di farti sparire, chi di farti comparire dove non eri mai stato. C'era chi ti poteva procurare soldi, divertimento, sballo, vita. Era un Élite di primo ordine, messa in piedi da uomini che avevano le spalle coperte dal denaro, dal potere, dalla politica e da altri come loro. Come poteva Alexander, da solo, combattere contro tutto questo?
Per un attimo gli venne voglia di tornare in sala e dirgli di lasciare perdere, di affidare il Caso a qualcun altro perché così si sarebbe solo firmato la sua condanna a morte, ma poi avrebbe dovuto spiegargli il perché di quella sua affermazione e allora cosa gli avrebbe detto?

Scusa Alec, è che conosco alla perfezione tutta la gente che vuoi scovare e sbattere in gabbia e posso dirti che molti di loro sono amici, se non parenti, se non loro stessi, di uomini pubblici di potere e di grande importanza, non potresti mai farli fuori legalmente, ti distruggerebbero in meno di un secondo.

Oh, sì, così era perfetto, Alexander docile e pauroso com'era avrebbe subito fatto dietro front e mollato.

Che situazione di merda.

 

<< Tutto bene?>>
La voce pacata e gentile che lo riscosse era proprio quella che non voleva sentire in quel momento.
Alec gli si avvicinò ad agio, prese una delle tante tazze blu del dipartimento e l'affiancò alla sua nera dal bordo giallo. Lo spostò con delicatezza, premendo semplicemente la mano sulla sua spalla e poi tolse la brocca del caffè dal supporto.
<< Pensavo volessi un caffè fatto per bene, non un caffè americano.>> gli disse senza guardarlo, concentrato a versare la bevanda nelle tazze.
Magnus storse il naso. << Dov'è finito il tuo spirito patriottico? Dovresti difendere a spada tratta i prodotti e le ricette americane.>>
<< Il caffè è americano, ma dell'altra America, così come lo è la sua preparazione. È solo una cosa che abbiamo rubato ad un paese che ha molta più storia pregressa di noi.>> rispose lui.
L'altro si accigliò. << Anche noi abbiamo la nostra storia.>> gli fece notare.
<< Dopo la “scoperta” però, non mi pare che a scuola ci insegnino cosa successe prima dell'arrivo dei coloni, come se tutto ciò che è degno di nota fosse partito da loro. Si studiano le vecchie civiltà, quelle nel vecchio mondo, ma neanche così bene, devi essere fortunato ed avere un buon insegnate, ne no niente. Siamo un po' egocentrici, non credi? Insegniamo ai nostri bambini solo le nostre lotte e non quelle dei popoli che ci hanno preceduto.>>
Ripose la caraffa al suo posto e zuccherò le bevande come se queste conversazioni fossero all'ordine del giorno.
<< Perché mi dici queste cose?>> chiese quindi Magnus.
<< Sei tu che hai parlato di patriottismo del caffè, ti ho solo detto la mia.>> gli porse la tazza e si poggiò poi al bancone, guardandolo da sopra il bordo di ceramica smaltata.
Quegli occhi blu erano inquisitori e fermi, eppure così gentili, come se stesse aspettando solo lui, gli stesse concedendo del tempo per dire qualcosa che, prima o poi, avrebbe per forza dovuto confessare.
Magnus non lo sapeva se glielo voleva dire, se voleva spiegare e Alexander lo sapeva bene.
<< Io conosco la storia passata, mia madre è cresciuta in una Riserva… >>
Alec annuì. << Mi avevi accennato al fatto che fosse Nativa.>>
Ci fu silenzio dopo quell'affermazione, tutti e due si concentrarono sul bere il loro caffè e non pensare ad altro, o per lo meno questo era quello che cercava di fare Magnus.
Se non avesse aperto bocca, si disse, non avrebbe fatto alcun danno.
Peccato che non potesse controllare anche quell'altra, di bocca.

<< Chi altro c'è dentro dei tuoi?>>

Quella domanda gli fece andare di traverso il caffè, la sua gola si contrasse ed il liquido si compattò come un corpo solido, facendogli esplodere un dolore lancinante nella faringe.
<< C- come?>> chiese gracchiando.
<< Il Clan.>> disse solo Alec. Sorseggiò ad agio la bevanda bollente e si leccò le labbra, senza cercare di nascondersi dietro al bordo della tazza. Lo fissò dritto negli occhi per vedere, per non perdersi neanche un segnale, perché non poteva perdersi nulla.
<< Alexander, non credo che- >> “questo sia il luogo esatto per parlarne? Ho paura che potrebbe entrare uno dei tuoi colleghi, Simon anche, o Dio non voglia quel bastardo di Morgenstern, e sentire ciò che ti dovrei dirti? Non posso dirtelo davvero?” qual'era la cosa giusta da dirgli?
<< La tua ex. >> continuò tranquillo il moro.
Magnus deglutì, glielo aveva detto quella mattina, si era fatto sfuggire quella dannata parola solo due ore prima.
<< Raphael.>>
A sentire il nome dell'amico sobbalzò, fissando con serietà e durezza quegli occhi blu, che gli restituirono uno sguardo altrettanto serio ma per nulla intimidito.
<< Lily anche presumo.>>
Quello invece lo lasciò senza parole: come poteva saperlo?
<< Ho dimenticato qualcuno? >> chiese più pro-forma che per altro.
Magnus posò la tazza sul piano e prese un respiro profondo. << Perché loro?>>
<< Forse volevi chiedermi “come lo sai?”.>> lo corresse.
L'uomo fece una smorfia infastidita. << Lo voglio sapere?>>
<< Mi è bastato pensare al loro lavoro, a quello delle loro famiglie. Per la tua ex me lo hai detto tu.>>
<< Lo so che te l'ho detto io. Solo non pensavo che fosse… inerente al caso.>>
<< Non lo sapevo neanche io, se la cosa può consolarti, non prima che tu lo dicessi.>> lo confortò con un piccolo sorriso storto.
Magnus sospirò ancora e chiuse gli occhi. << Se stiamo davvero dando la caccia a loro… >>
<< Non posso assicurarti che non verranno indiziati. Non posso prometterti che se i loro nomi spunteranno durante l'indagine non troverò il modo di scoprire di quali crimini si sono macchiati e di farli pagare per questo. So che sono tuoi amici Magnus, in un qualche modo lo sono diventati anche per me. Ma non posso evitare di fare il mio lavoro solo perché porta ad una conclusione che non mi piace.>>
Glielo disse così come faceva per ogni cosa importante: con voce ferma ma pacata, educato e al contempo schietto, diretto. Non lo avrebbe mai illuso dicendogli che tutti i suoi amici sarebbero stati al sicuro, non lo avrebbe mai fatto, lo sapevano entrambi. Alexander era un poliziotto, era l'angelo vendicatore ed inquisitore che tutto osservava e che poi concedeva il suo giudizio finale con sincera, ligia e lecita giustizia.
Magnus lo fissò di rimando e poi fece un singolo segno secco con la testa.
<< Questo lo so, non te lo chiederei mai. Ma sappi che qualora venissero indiziati farò di tutto per scagionarli, anche aggrappandomi al più piccolo dei fatti, alle incongruenze minuscole, ad un fascicolo lasciato per più di un'ora alla portata di tutti, al ragionevole dubbio. Farò di tutto per salvare i miei amici. >> disse sicuro, poi piegò le labbra in un accenno di sorriso. << Ma rispetto il tuo lavoro e questo “di tutto” che farò sarà sempre e solo legale. Se dovrò combatterti, se dovrò combattervi, te, Simon e il Dipartimento, lo farò sul vostro stesso campo, non sul mio. Ma lo farò.>>
Rimasero a guardarsi dritti negli occhi, nessuno dei due intenzionato ad abbassare lo sguardo, consci dell'importanza di quelle parole, di quelle affermazioni fatte da entrambi i fronti.
Poi Alexander si esibì in un altro dei suoi sorrisi storti e per un attimo Magnus si domandò cosa ci fosse da sorridere.
<< Sappi che sono un agente quasi maniacale nel controllo delle prove. Sono un osso duro sia sul campo che al banco dei testimoni.>> disse con una nota divertita nella voce.
Magnus sbuffò una risata nasale. << Oh, me lo ricordo. Facevi paura su una sedia a rotelle e con l'ossigeno, non voglio immaginare cosa tu possa fare al pieno della tua forma. Ma anche io sono un osso duro, so affrontare dei processi, so anche qualcosa di giurisprudenza.>> lo avvertì.
<< Sì, ma non credo che tra i due sia tu quello che secondo i piani famigliari doveva fare l'avvocato.>>
Magnus alzò un sopracciglio. << Dovevi fare l'avvocato?>>
<< Già. La storia di come ho detto a mia madre che non ne avevo la minima intenzione te la racconto un'altra volta magari.>> così dicendo si versò un'altra tazza di caffè e gli diede una pacca sulla spalla. << Su, torniamo a lavoro ora. >>
Si avviò verso la porta e vi si fermò ad aspettarlo.
Magnus non si mosse subito, riprendendosi anche lui del caffè e impegnandosi nel cercare dove diamine fosse il suo zucchero di canna, quando la voce dell'altro lo richiamò.
<< Magnus?>> disse piano.
L'uomo si produsse in un verso indistinto ed interrogativo, che serviva solo a spronare l'altro ad andare avanti.
<< Non mi sarei aspettato nient'altro da te, sappilo.>>
L'asiatico si bloccò che stava sulle punte dei piedi, una mano attaccata all'anta del mobile per cercare di scorgere se dietro all'ammasso di scatole del tea, del caffè e di biscotti dal dubbio contenuto energetico ci fosse il barattolo del suo dannatissimo zucchero di canna biologico.
Voltò la testa con lentezza, rimanendo in quella buffa posizione e scrutando l'espressione seria e sincera del collega.
Gli sorrise spontaneamente, perché sapeva che quelle parole significavano “fiducia”, significavano che il detective era venuto lì per parlare con lui lontano da orecchie indiscrete e per chiarire la sua posizione, ma che fosse anche sicuro che lui avrebbe rispettato il suo lavoro, la sua posizione, il suo dovere.

Il loro lavoro.
 

<< Ovvio che te lo aspettavi, dolcezza, mi conosci bene dopotutto, no?>> trillò allegro.
Alec per tutta risposta gli lanciò uno sguardo omicida, poi arricciò il naso che si portò dietro il labbro superiore in una smorfia schifata.
<< Non chiamarmi in quel modo.>>
<< Preferisci che torni a Fiorellino?>> lo provocò l'altro.
<< Preferisco invece che questa diventi la regola numero cinque.>> risposte Alec incrociando le braccia al petto, la tazza blu poggiata sull'avambraccio sinistro, stretta tra le dita lunghe e ruvide.
Fu il turno di Magnus di fare una smorfia schifata. << Che dici, vuoi scriverci un manuale con tutte le stupide regole che mi proporrai?>>
<< Non tentarmi.>> borbottò Alec dandogli le spalle. << E muoviti, dobbiamo esaminare delle cartelle.>>
<< Non può farlo Sonny con una ricerca incrociata?>>
<< Alcuni documenti non sono inseriti nel database e poi i computer non hanno il criterio giusto per una ricerca così specifica. Simon dovrebbe creare un programma da zero, basato su linee guida studiate a punto. Ci metteremo più tempo a selezionare solo queste che ha leggere tutti i fascicoli. Per di più, la mente umana è più incline a vedere collegamenti non logici.>>
<< Quindi cosa faremo?>> domandò affiancandolo. << Leggeremo tutta quella roba, ognuno di noi segnerà qualcosa sulla lavagna e poi? Che proponi? Metterci lì a ricontrollare singolarmente tutto e dare i numeri come al bingo per vedere quali Casi si collegano agli altri?>>
Alexander scosse la tessa e si infilò una mano in tasca, scostando il bordo della giacca nera e perfetta.
Magnus avrebbe dovuto chiedergli quale fosse la sua lavanderia prima o poi ma temeva che il detective gli avrebbe risposto che se li stirava da solo i vestiti.
<< Controlleremo tutti i Casi, li appunteremo e poi useremo un criterio di base per collegarli. A quel punto potremo usare i programmi di Simon.>>
<< Questo mi pare già più convincente. Dopo di ché?>> insistette lui.
<< Dopo di ché faremo la nostra prima mossa.>>











 

Il vecchio appartamento si trovava ad Harlem e forse non era il luogo migliore per una come lei, se ne era innamorata a prima vista e l'aveva fatto ben tredici anni prima.
Era un attico, grande e spazioso, con delle enormi finestre inclinate che seguivano la forma del tetto spiovente di un edificio degli anni venti. Era stato ristrutturato da capo a piedi e reso a prova di bomba. Letteralmente, le pareti avevano più sbarre di ferro di quante non ne avesse la Torre Eiffel.
Era il suo bunker soprelevato, la sua torre di Raperonzolo da cui nessuno avrebbe mai potuto portarla via. Non più ormai.
C'era stato un tempo in cui aveva sciolto la sua lunga chioma bionda per far salire colui che credeva avrebbe amato per tutta la vita. Camille non era mai stata una persona troppo romantica, non in modo fiabesco, sapeva che l'amore era grande ma non durava sempre per l'eternità, sino al giorno della tua morte e amen. Era conscia che un sentimento grande e potente come quello non potesse essere imbrigliato da un solo essere, che era mutevole e si espandeva verso ogni dove, scivolava via come acqua fresca, ardeva come fuoco e solo raramente rimaneva stabile come la terra.
Ma anche la terra viene scossa dai terremoti e dalle eruzioni, percossa dai tornado, frustata dagli tsunami. Anche ciò che pare fisso poi si muove.
Trovare il vero amore, quello che ti avrebbe messo la fede al dito ed una catena d'oro al cuore, era così raro e difficile che spesso la gente finiva per passare la sua vita assieme a qualcuno per cui nutriva un grandissimo affetto ma solo un normale amore.
Quando aveva conosciuto Magnus, quando lo aveva conosciuto davvero, aveva creduto di essere uno di quei privilegiati che, casualmente, era inciampato nella sua metà della mela.
Avevano passato anni magnifici, dettati da un ritmo incalzante e da un'affinità sorprendente che aveva trovato solo con un altro paio di persone, ma ora, a mente lucida, Camille aveva capito che anche lei era rimasta vittima del sortilegio che incantava tutti: il loro era stato un amore esplosivo e mutevole, duraturo ma non eterno e lentamente si era trasformato in affetto. Magari avrebbero potuto passare davvero la vita assieme, a ridere, a prendersi in giro, a far danni e a riparare in modo così perfetto da risultare sempre immacolati. Avrebbero potuto gestire un mondo sotterraneo ed oscuro, assieme, certo lei aveva molto più polso fermo e intuito negli affari di quanto non ne avesse Magnus, ma lui era così bravo a trattare, a scorgere i desideri degli altri... Erano una squadra perfetta e avrebbero continuato ad esserlo per sempre se solo lui non l'avesse tradita così miseramente.
In piedi davanti alla vetrata lucida Camille poteva veder nel suo riflesso lo sguardo sgomento di Magnus quando gli aveva spiegato tutto, quando aveva detto la verità, quando gli aveva puntato in faccia quello sgradevole faro carico di luce rancorosa e rabbiosa.
Il vedere degli alberi attorno a casa prese una sfumatura più chiara e poi dorata, le iridi di Magnus erano sempre state così belle che solo la natura avrebbe potuto eguagliarle, ma le fronde non avrebbero mai emanato lo stesso senso di stupore, non si sarebbero mai incrinate della stessa colpevolezza.
Aveva creduto, per anni, che quel momento l'avrebbe liberata, che quando si sarebbero trovati faccia a faccia e lei gli avrebbe finalmente detto tutto, il peso terribile, opprimente e pungente che le gravava sul petto, come la morsa di una Vergine di Norimberga, si sarebbe finalmente allentato.
Non credeva che il dolore sarebbe sparito, che la rabbia sarebbe scomparsa, ma almeno non gli avrebbe corrotto l'anima sino alla fine dei suoi giorni.
Sciocca. Forse era davvero una bambina viziata che credeva ancora fermamente di aver sempre ragione.
Strinse le mani attorno alle braccia, il pullover rosato era di morbida lana e le spesse maglie erano lisce sotto i suoi polpastrelli. Le unghie lucide tinte di un rosso cupo erano un contrasto perfetto, una macchia di sangue rappreso sulle sue mani.
Se solo la gente avrebbe potuto vederle davvero… le unghie di Camille erano dipinte di un bianco immacolato a confronto con la sua epidermide, ormai macchiata a vita del sangue che le si era insinuato tra i reticoli della pelle, assorbendone il colore come un tessuto dalla trama fitta sporcato per sempre d'inchiostro.
Era una di quelle cose che non lavavi via neanche con la candeggina e Camille poteva dirlo con cognizione di causa visto che al termine del suo primo lavoro avevano dovuto portarla in ospedale, tanto si era scorticata le mani cercando di togliere il sangue che ancora vi vedeva sopra.
Ricordava la presa gentile di due mani morbide e sicure, la sua voce cantilenare come una nenia che non c'era niente, non c'era più niente, che erano pulite, bianchissime, che il sangue che vedeva ora era il suo perché si era bruciata strati e strati di pelle sino ad arrivare alla carne viva.
Il sorriso rassicurante di Pierre era impresso a fuoco nella sua mente proprio come lo erano gli occhi carichi di sconcerto di Magnus. Proprio come lo erano quelli pieni di dolore di Raphael, come lo erano tante, troppe cose. Come le voci, le grida, come il cuore ancora caldo ma morto che aveva tirato fuori da quella scatola, grondante e sanguinolenta custodia del gioiello che scintillava ora a suo collo.
Con un moto di rabbia Camille strinse la prese sino a conficcarsi le unghie nella pelle: Asmodeus aveva avuto il coraggio di chiamarla, di farlo in quel modo, Lei, dopo tutto quello che le aveva fatto, quello che le aveva tolto.
Lo aveva detto a Magnus e forse, prima o poi, l'avrebbe confessato anche a Raphael: se avesse mai avuto l'occasione di trovarsi davanti al Principe, anche a costo della sua stessa vita, l'avrebbe ucciso senza pietà.
Ma forse, Raphael già lo sapeva e condivideva il suo stesso pensiero, seppur con minor ferocia.
 

Il suono prolungato del campanello la fece voltare vero l'ingresso. Sospirò pesantemente e si sistemò i vestiti, mandando indietro i capelli con un gesto automatico.
Sapeva chi avrebbe trovato dietro alla porta, lo aveva invitato lei, insistendo perché si vedessero a casa sua e non al Club. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era di vedere ancora la sua famiglia.
Quando aprì, dritto impeccabile sulla soglia, con una bottiglia di vino in mano, se ne stava un uomo dall'età indefinita, congelato nel tempo come una statua, come se avesse smesso di invecchiare.

Come un vampiro.

I capelli bianchi e lunghi legati in una coda morbida ed adagiati sulla spalla, il completo di un rosso Tiziano denso e le scarpe color testa di moro: Alexei De Quincey era davanti a lei in tutto il suo splendore e la fissava con un sorriso gentile in volto.
<< Buona sera, Camille.>> la salutò galante.
La ragazza gli sorrise di rimando, arricciando le labbra in quello stesso sorriso che tutti le dicevano essere ammaliante e che le riusciva naturale. << Buona sera a te, Alexei. Prego, entra pure.>>

 



<< Quindi questa è la situazione?>>
<< La chiamata è arrivata a tutti, Camille.>> annuì lui comodamente seduto sul sofà.
<< Chi sono questi “tutti”? Sono stata via per molto tempo, non so chi altro si è aggiunto.>>
<< Tutta la vecchia guardia. Tutti i miei, tutti i tuoi. Ci sono delle nuove entrate ovviamente. I Chen sono coinvolti, Raphael è l'unico dei Santiago chiamato, sai che sono un gruppo a sé e che non si sono mai voluti immischiare in quel senso con Asmodeus. Senza contare che sono abbastanza sicuro che Guadalupe sarebbe capace di uccidere Asmodeus con un coltello da burro se provasse a metter i pericolo i suoi ragazzi.>> disse con tranquillità l'uomo. << Quinn e il suo popolo, la chiamata è arrivata a lei e ad un paio di suoi sottoposti alti in grado, forse persino a Meliorn, ma non è nulla di certo, non vengono a confessarsi da me.>>
<< No, non lo fanno. Sono come una razza a parte loro, Quinn ha il suo giro ed il suo impero, non gli interessa il resto. Credevo che si fosse affrancata dal Principe però, che avesse ripagato il suo debito.>> ragionò Camille accavallando le gambe e cercando una posizione più comoda.
Alexei scosse la testa. << Nessuno paga mai fin in fondo il suo debito con Adam, non l'ho fatto io che gli sono sempre stato socio e non servitore, non lo hai fatto te a cui non ha mai davvero concesso nulla, pensi che possa farlo Quinn? Con ciò che ha alle spalle?>> chiese retorico.
Camille non poté che dargli ragione. << Come siamo messi allora?>>
<< Attualmente le chiamate sono tutte state fatte. I Figli della Notte sono riuniti, deve tornare Saint Cloud dal Brasile, ma è questione di giorni.>>
<< Sì, l'ho sentito, me lo ha detto papà.>> fece sovrappensiero.
L'uomo alzò un sopracciglio. << Non vi sentite più voi? Pensavo che appena avrebbe saputo della tua chiamata ti avrebbe contattato.>>
Camille fece una smorfia. << Io e zio non ci parliamo più come un tempo, lo sai.>>
<< Sì, lo so, e permettimi ancora una volta di dirti quanto mi dispiaccia.>>
Un sorriso tetro e senza gioia tese le belle labbra della bionda. << A chi non dispiace? Persino il colpevole se n'è pentito amaramente. Trovo ironico come l'unica persona che fosse unanimemente ben amata e apprezzata da tutti, quella che anche i rivali preferivano non toccare, sia poi stata la prima a lasciare questo mondo.>> convenne con asprezza.
Alexei rimase per un attimo in silenzio. << Gli porti ancora tanto rancore?>> All'occhiata interrogativa di lei continuò. << A Raphael.>>
Con gran sorpresa del suo ospite Camille scoppiò a ridere di gusto.
<< Oh, Alexei, non ho mai portato rancore a Raphael, come avrei potuto? Era l'unico che poteva capirmi, è stato l'unico che ha condiviso il mio dolore e la mia rabbia.>> poi la sua voce si affievolì. << Non potrei mai rinfacciargli nulla.>>
<< Lui ancora se ne colpevolizza.>>
<< Lo so, ma ora smettiamola di parlare di queste cose. Noi siamo riuniti, gli altri popoli?>> chiese riprendendo un tono fermo e serio.
Alexei annuì, far parlare lei o Santiago di quella macchia scura nel loro passato era praticamente impossibile, si augurava per il loro bene che almeno ne parlassero assieme.
Non era mia stato un tipo troppo sentimentale, ma c'era da dire che quei due li aveva visti crescere e diventare i forti ed indipendenti adulti che ora erano. Non aveva avuto figli, mai ne aveva desiderati, ma Raphael e Camille erano stati i bambini che più aveva apprezzato nella sua vita.
 

Ad essere onesti, ne aveva apprezzati tre un tempo.
 

Si sporse per prendere il bicchiere del vino e ne bevve un sorso ad agio, poi si rimise con la schiena poggiata ai cuscini.
<< Il popolo delle Fate è al competo. I Figli della Luna anche.>>
Camille fece una smorfia. << Anche loro? Dio, non li avete ammazzati in tutti questi anni?>>
<< No, lo sai che si riproducono come conigli.>>
<< Mh, gli altri?>>
<< Lilith deve arrivare.>> Alexei sganciò quella bomba così, senza batter ciglio, ma osservò con attenzione gli occhi azzurrissimi di Camille sgranarsi e la presa sul suo bicchiere farsi più serrata.
<< Cosa?>>
<< Credevi seriamente che Adam non avrebbe chiamato una delle sue amiche di più vecchia data? Credo sia stata la prima che ha chiamato e penso che l'abbia fatto lui stesso, di persona.>>
<< E Quinn lo sa e non ha battuto ciglio?>>
<< Lo sospetta, ma finché non se la ritroverà davanti non potrà averne la certezza. A me non ha chiesto niente e io non sono certo andato a darle conferme.>>
<< Mi pare giusto, quindi?>>> lo incalzò sempre più innervosita da quella storia. Mancava solo che quel mostro di Lilith tornasse a New York.
<< Siamo tutti pronti, in attesa che qualcuno spari il colpo di partenza. Edom House ha riaperto i battenti, non so chi di noi sarà il primo ad esser convocato, ma finché Asmodeus non torna in patria non potremo far nulla. Da quel che sappiamo, Timothy ha rimesso a lucido i suoi destrieri, sono giorno che quei dannatissimi corvi gironzolano per la città, penso stiano andando a ricordare a tutti che questo posto ha un Re e che sta per tornare.
Anche gli Insetti sono di nuovo in giro, non sono al nostro livello ma sono ugualmente un pericolo, non hanno la nostra stessa “condotta” e nemmeno le nostre stesse regole, purtroppo sono mine vaganti tanto quanto lo sono i cani sciolti.>>
<< Dobbiamo solo aspettare che arrivi il Principe e che ci dica cosa fare? Stai scherzando? Non abbiamo nessun indizio? Ci ha chiamati tutti, dopo anni ed anni, per cosa?>>
<< Probabilmente per mettere la parola fine a questa commedia e calare finalmente il sipario.>>
Il sussurro dell'uomo si spanse per l'aria neanche fosse un gas velenoso.
Camille lo guardò con occhi vitrei, sperando vivamente di aver capito male.
Prese un respiro profondo e si umettò le labbra, anche se sapeva di averle colorate, il sapore pastoso del suo rossetto non fu neanche lontanamente percepito dalle papille gustative, non arrivò al cervello che era tutto proteso verso una sola ed unica verità.
<< Vuole venderci tutti… vuole distruggere il suo impero per far sì che nessuno lo abbia più?>>
Alexei scosse la testa. << No, non è così, lo lascerà nelle mani del figlio quando sarà- >>
<< Lo diceva anche anni fa!>> saltò su alterata. << Diceva che ai suoi diciotto anni gli avrebbe lasciato tutto e invece non era così! L'ha detto quando aveva 23 anni, lo ha detto anche dopo! Ma non è mai così! Un re non ce la fa a lasciare il suo trono quando è perfettamente consapevole di poter ancora regnare! Alexei, questo non è uno spettacolo! Non c'è da abbassar il sipario! Sono le nostre vite, così ci sta mettendo in pericolo. Non chi ha chiamati qui con gentilezza, non l'ha fatto come una rimpatriata, non ha detto che aveva un lavoro per noi: ci ha presi uno ad uno, ha scavato nei nostri passati e ci ha mandato un messaggio, il più crudele e doloroso che avrebbe potuto mandarci per obbligarci a venire qui. Che cazzo ha in mente?>> La sua voce era salita di almeno due ottave, ma rimaneva minacciosa come il sibilo del vento che va intensificandosi inesorabilmente.
Aelxei non poteva dargli torto, non poteva cercare di calmarla o indorarle la pillola. Camille ormai era grande, gestiva i suoi affari a Parigi e anche oltre la Manica, poteva sapere la verità, quella stessa che per ora custodivano soltanto lui, Saint Cloud e altre cinque persone.
Dopotutto, il sette era il numero perfetto, ma l'otto era l'infinito.
<< Mancano ancora due persone alla chiamata.>> disse allora tirandosi a sedere e guardando la donna dritta negli occhi. Camille lo osservò con attenzione. << Ascoltami bene e ricorda che questo dovrà rimanere un segreto e non sto scherzando: difenderai questa notizia come se andasse della tua stessa vita, chiaro?>>
Lei annuì.
L'uomo prese un respiro profondo, lo sguardo serio e duro come poche volte Camille aveva potuto scorgerlo. << Asmodeus cominciò una partita anni fa, prima ancora che diventasse ciò che è ora, quando era un ragazzino, quando lo conoscevano solo con il nome di Adam e Bane non era altro che un cognome curioso. Non aveva sottoposti, io stesso non ero ancora arrivato in America. Trovò pane per i suoi denti, qualcuno che non abbassava la testa anche se riusciva a metterlo nelle situazioni peggiori, anche se riusciva a scatenargli contro le bande del quartiere. Hanno la stessa età ma paradossalmente l'altro ha vissuto una vita molto più dura e non credere che sia per ciò che gli faceva passare Adam. Sono diventati rivali con il passare degli anni e poi si sono divisi inesorabilmente. Adam è diventato ciò che conosci oggi mentre l'altro… non si sa molto di lui, non posso dirti molto di lui in effetti. Tieni solo a mente che se è stato in grado di reggere il peso della continua e serrata lotta contro il Principe dei Demoni non può essere niente di meno che una persona da non sottovalutare.
Si sono affrontati per tutta la vita ma pare che l'altro stia arrivando al capolinea. Adam non vuole distruggere il suo impero, non vuole farci morire tutti alla luce del Sole, sta raggruppando il suo esercito per poter ferrare l'attacco finale e vincere definitivamente quella partita iniziata che era solo un ragazzino. Sta chiudendo i suoi di conti, non i nostri, ma ciò non gli impedirà di sacrificarci tutti, uno per uno sull'altare della vittoria, non si farà scrupoli se ciò gli permetterà di battere definitivamente l'altro.>>
Camille lo guardò scioccata, battendo le palpebre nel tentativo di capire, di comprendere.
C'era qualcuno di così folle da esser rivale del Principe dei Demoni Asmodeus da quando erano piccoli?
Chi era questo pazzo? Perché non ne aveva mai sentito parlare? Come poteva essere tanto forte da tener testa a Bane? E soprattutto: questo significava che anche lui aveva il suo esercito?
<< Sta per arrivare anche altra gente? Non può aver collaboratori a New York City, non c'è nessuno di così pazzo qui da mettersi contro Asmodeus, la criminalità è votata tutta a lui, anche chi non è al suo servizio non gli è certo contro.>>
<< No, il suo esercito non è di qui, non è gente che conosci, ma questo ci porta ad un ultimo e focale punto di questa faccenda.>>
<< C'è qualcosa di peggio?>>
<< Solo di più importante.>> disse secco.
Camille attese che l'uomo continuasse e poi, al limite della sopportazione chiese temendo la risposta. << Ovvero?>>
<< Anche lui ha fatto la sua chiamata e in tutte le mosse che ha fatto in questi anni in cui questa partita a scacchi è andata avanti, è stato così abile da riuscir a far evolvere le sue pedine: ha trasformato un pedone in un cavaliere e poi in una torre, sino a farlo diventare un alfiere e ora una regina. È questo che dobbiamo preoccuparci, lo sia che le regine muovono quanto vogliono e in tutte le direzioni, non le si può fermare a meno che non le si uccida.>> terminò cupo.
La donna rimase pietrificata sul posto, il bicchiere ancora stretto in mano, non si era neanche resa conto di essersi tirata in avanti sino a sedersi sul bordo del divano.
Guardò Alexei con ansia e deglutì a fatica il groppo sabbioso che le si era fermato in gola.
Aveva ancora più paura di prima a porre quella domanda, ma non poteva certo evitarla per sempre.
<< Sai… sai di chi si tratta?>> chiese con voce flebile e a mala pena udibile, tremando al pensiero di una pedina così forte da esser diventata regina, qualcuno che solo la morte avrebbe potuto fermare e forse neanche quella.
Alexei scosse piano la testa. << Nessuna certezza ma un'ipotesi.>>
<< Dimmela allora, terrò gli occhi aperti su di lei.>>
L'uomo annuì.








 

Il rumore del bicchiere che si infrangeva a terra rimbombò come lo scoppio di una bomba, come l'esplosione di un proiettile in una calda ed afosa notte d'Agosto, quando neanche la Luna osava guardare la terra.
Il vino si riversò a terra, schizzando le scarpe beige della donna, puntinandole le gambe di gemme rosse come rubini che si sciolsero in rivoli di sangue, macchiando ancora una volta la sua pelle di un fluido denso e corposo che non sarebbe riuscita a lavar via troppo facilmente.
Il tappeto bianco tra i due divani si tinse di rosso.



 






 


 

 

<< Sono vestita di bianco, Cherie.>>

 

 















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Capitolo 11
*** Capitolo XI- La scatola dei ricordi ***


Capitolo XI
La scatola dei ricordi.

 

 

Il suono secco del metallo che scattava al suo posto risuonò nell'aria come aveva già fatto diverse volte.
Camille controllò che il caricatore fosse ben inserito e fece scattare la sicura su e giù, sincerandosi che anche quella fosse al suo posto. Ripose la pistola nera e lucida nella fondina dal motivo a trapunta, sull'incrocio di ogni cucitura una minuscola perla bianca brillava, le due “C” intrecciate di Chanel rispecchiavano le luci della stanza arredata con gusto ed eleganza un po' troppo sfarzosa per molti.

Assicurò la cinghia attorno alle spalle e in vita, passando le dita sotto la spessa e resistente pelle nera che le abbracciava i seni ed andava ad incrociarsi sulla pancia. La maglia di un tetro grigio-azzurro le stava ben aderente addosso, il tessuto spesso era quasi grezzo al tatto, ma andava bene, così come andava bene la sua pesantezza. Non erano riusciti a convincerla a mettersi un giubbotto antiproiettile ma quella maglia in fibre rinforzate era stata un compromesso che Camille non aveva di certo schifato.
Sui pantaloni neri, all'altezza delle cosce, erano strette due fasce che reggevano i caricatori di riserva, si sentiva come un soldato che stava per partire per la guerra, ma in fondo non era tanto lontana dalla verità, quel giorno
erano di scorta a Saint Cloud e al suo delicato “tesoro”, dovevano essere armati sino ai denti e pronti a tutto.
Mise il piede sul bordo del tavolino di cristallo, senza preoccuparsi di romperlo o di graffiarlo, stringendo di nuovo i lacci e le fibbie dei suoi scarponi con la punta di metallo e mettendoci sopra il pantalone a forza. Le mancava solo che si slacciassero quei dannati fiocchi e che lei cadesse come una poppante nel mezzo della festa. Perché Camille stava dando per scontato che quei schifosi bastardi avrebbero messo loro i bastoni tra le ruote e che ci sarebbe stato da menar le mani.
Controllato il vestiario fu il turno della treccia alta che poco prima Louanne le aveva fatto, una pettinatura stretta e marziale che forse si scontrava troppo con la sua solita aria da bambolina ma che era risultata la più comoda ed adatta.
Era davanti allo specchio quando con la coda dell'occhio scorse un movimento al limitare del suo campo visivo. Poco dopo l'immagine di Pierre apparve chiara alle sue spalle.
Il ragazzo la guardò dritta negli occhi attraverso il riflesso perfetto di quella lastra immacolata.

<< Sei sicura di farcela?>> le chiese solo.
Camille storse il naso. << Ho fatto di peggio, non saranno un paio di proiettili volanti sparati da quei bastardi a farmi fuori.>> gli rispose con decisione.
Il ragazzo annuì passandosi una mano tra i capelli. << Hai ragione, ma sai che mi preoccupo sempre, tra te e Rafael prima o poi mi manderete al creatore.>> le sorrise mesto.
Il suo volto pareva illuminarsi ogni volta che le labbra si tiravano in quella curva dolce e rosea, Pierre era probabilmente una di quelle rarissime persone che sorridevano sempre per davvero, un sorriso che arrivava agli occhi e non poteva reputarsi falso. Anche quando era macchiato dalla preoccupazione come in quel momento.
Quell'affermazione però lasciò Camille insoddisfatta. << Ti preoccupi per lui?>> domandò quindi con una nota indispettita nella voce.
Ma Pierre non si fece trovare impreparato e fece un passo avanti per posarle le mani sulle spalle ed avvicinare il proprio volto a quello della ragazza. Strusciò con la punta del naso contro la sua tempia e poi gliela baciò.

<< Il y n'a pas besoin de faire ainsi, tu sai que tu es ma préférée, tu sais que je t'aime. Tu es et sera toujours tu mon amour unique.>>











 

La luce che filtrava in quel momento dalle finestre mezze chiuse indicava che il Sole era ancora alto nel cielo, ma i pomeriggi inverali erano così mutevoli e corti che il detective non si sarebbe stupito di veder quelle lame chiare sporcarsi presto di toni caldi per poi scurire nella notte prematura di ogni singolo giorno di quella stagione.
Alec distolse lo sguardo dal riverbero che si rifletteva dal vetro sino alla sua postazione al tavolo e ridiede completa attenzione ai moduli davanti a lui.
Verbali. Erano due giorni che non faceva altro che leggere verbali su verbali provenienti da anni passati e neanche tanto amati. Alle volte si domandava perché si fosse fatto così male da solo, prendendo proprio quella fascia, ma poi si ricordava a chi altri sarebbe potuta capitare e sospirava affranto. Teoria del male minore, una sua cara, carissima amica di vecchia data, quasi un primo amore adolescenziale. O infantile visto che fin dalla più tenera età Alexander si era ritrovato a scegliere se cadere e sbucciarsi un ginocchio fosse meglio che far cader Jace e far sbucciare un ginocchio a lui. Jace avrebbe fatto quella faccia costipata di quando voleva piangere ma si voleva anche mostrare forte, avrebbe rifiutato di farsi mettere un cerotto perché lui era grande ormai, avrebbe gonfiato le guance e si sarebbe strappato le pellicine delle labbra. Senza contare che avrebbe dovuto spiegare a mamma che il fratellino si era messo a correre anche quando lei gli aveva ripetuto più volte che non poteva farlo. Se invece fosse caduto lui si sarebbe pulito la ferita, c'avrebbe messo sopra un cerotto e poi si sarebbe chiuso nel suo bel mutismo da dolore come faceva sempre, terminando il tutto dicendo banalmente alla mamma che era inciampato. A lui avrebbe creduto. Questo era un male minore.
Il Dottor Lawson preferiva chiamarlo “spirito di sacrificio” o “propensione al masochismo protettivo”, una frase che suonava malissimo a suo dire, ma andava bene comunque, presupponeva.
Perciò lui era un masochista con tendenze potenzialmente pericolose. Perché più andava da quello psichiatra e più la sua situazione pareva peggiorare? Ad ogni seduta scopriva un modo nuovo e peggiore per chiamare i suoi problemi, era davvero incredibile.
Strinse la presa attorno alla penna ed appuntò un paio di nomi sul blocco notes che aveva di fianco, gettando una rapida occhiata a Simon per controllare a che punto stesse con l'inserimento dei dati già elaborati da quegli altri due imbecilli.
Jonathan e Magnus, neanche a dirlo, non avevano perso tempo in quei giorni ed erano riusciti a dimostrare quali grandissimi coglioni fossero entrambi a suon di battute, insulti velati – e neanche così tanto da parte di Magnus, Alec doveva ammettere che Jonathan era molto più fine sotto questo punto di vista, ma cosa ci poteva fare?- rivangare passate esperienze e azioni dell'altro e, non per ultimo, un magnifico tiro di carte di panini finito con Alexander che prendeva entrambi per il bavero della giacca e li buttava fuori dalla sala. Uno rispedito al suo piano e l'altro a gestire il locale che si lamentava di trascurare troppo.
E pensare che aveva lavorato in situazioni decisamente peggiori, ma Morgenstern e Bane messi assieme erano peggio di una mandria di bambini dell'asilo e lui aveva Izzy e Jace a casa, sapeva di cosa stava parlando.
I due per ora erano stati “congedati” per un paio di giorni, giusto per far schiarire le idee ad entrambi. Alec sosteneva che fossero come alimenti dannosi per un intollerante: se li si assumeva in modo continuo portavano solo problemi, ma assunti ogni tanto a piccole dosi potevano essere tollerati dall'organismo senza andare in saturazione. Simon gli aveva dato completamente ragione.
Lo stesso Simon che in quel momento si tirò indietro con la schiena e si tolse gli occhiali, massaggiandosi con delicatezza gli occhi.

<< Ci sono talmente tanti nomi, date ed eventi da controllare che ormai sono sicuro che l'Antidroga non se ne sia voluta occupare solo perché gli avrebbe dato troppe rogne. Questa non è una dimostrazione di fiducia bello, questo è “scaricare le rogne ai novellini”.>>
<< Io non sono un novellino.>> disse piatto Alec continuando il suo elenco.
Simon fece una smorfia. << Ma la tua squadra è nuova.>>
<< Sì, ma né io né Jonathan siamo novellini. Tecnicamente non lo sei neanche tu visto che hai passato quasi cinque anni qui in Dipartimento.>>
<< Mi stai dicendo che l'unico pivello qui è Magnus?>> domandò sorridendo divertito.
Alec annuì. << Lui su tutto il fronte e tu per questa sezione.>>
<< Oh, andiamo! Avevi appena detto che non lo ero!>>
<< Che non lo eri “tecnicamente”. Impara ad ascoltare la gente, Lewis.>> l'angolo destro delle sue labbra si alzò un poco, ma Simon era alla sua sinistra ed il profilo coprì quel piccolo accenno di divertimento.
Quando Alec si rese conto che l'altro non sarebbe tornato subito al lavoro sospirò e chiuse la penna con uno scatto. Si voltò verso di lui girando sulla sedia e fissò gli occhi sullo schermo.
<< Che hai trovato per ora?>> chiese cercando di farlo distrarre un poco, seppur parlando sempre di cose utili.
Simon sospirò. << Da questi dati pare che New York City sia un covo di drogati.>>
<< Non è tanto distante dalla realtà come cosa, ma ci sono città, contee intere e anche Stati messi peggio di noi.>>
<< Uhg, rassicurante Alec, davvero tanto.>> storse il naso disgustato.
<< Continua.>> fu la risposta imperativa dell'altro.
<< Allora: ci sono moltissimi luoghi della città che sono da sempre zone di spaccio, famose alla polizia locale. Non si riesce mai a liberarle del tutto. Qui dalle parti del Queens, guarda, ci sono delle gang che tengono i loro traffici.>> indicò una mappa con il dito e poi cambiò pagina. Alec scosse la testa.

<< Non credo sia quello che interessa a noi, si sono susseguite molte gang diverse da quelle parti, il confine con i ponti per il Bronks non è mai un bel luogo, là i capi cambiano perché vengono uccisi da chi vuole prendere il loro posto, non perché la polizia li ha incastrati dopo anni di indagini.>>
<< Cosa vuoi di preciso? Cosa devo cercare?>>
Il moro ci pensò su un attimo, posando lo sguardo su quella lista infinita e su quelle che Simon già aveva inserito nel suo database temporaneo.
<< I parametri sono sempre gli stessi: luoghi in cui sappiamo si riuniscano molti esponenti della criminalità organizzata ma che non vengono quasi mai presi. Credo ci serva come minimo uno stacco di cinque, sei anni. Se quella gente è davvero furba come crediamo, se sono davvero una sotto-rete urbana che si modifica con il tempo ma che non è collegata in modo “vitale” alle altre, allora non possiamo aspettarci che i vertici cambino troppo spesso.>>
<< Certo, >> concordò Simon ricominciando a battere sulla tastiera del portatile, << se dietro c'è una grande e precisa organizzazione, dei patti e degli accordi, significa che chi comanda deve essere sempre lo stesso o troppo spesso ci si ritroverebbe a rivedere le regole di non belligeranza.>>
<< Esatto. Mettiamo anche in conto che oltre questo gruppo ce ne saranno altre decine scollegate, che magari non hanno niente a che fare con la nostra rete o che addirittura ne sono nemici.>>
<< Quindi luoghi comuni, associazioni che non cambiano troppo spesso. Quando cade un capo ne spunta subito un altro ed il sistema si modifica per correggere la falla. Elimino le gang?>>
<< Sì, non è l'organizzazione che cerchiamo no, è comunque una gerarchia ma molto più sofisticata.>>
<< Come Las Vegas? Tutti i casinò si fanno gli affari loro e quelli più potenti non si vanno a rompere le scatole a vicenda ma si aiutano invece a far affondare i nuovi arrivati o quelli ormai troppo vecchi per combattere?>>
Alec lo guardò accigliato e poi annuì. << Questo non l'avevamo messo in conto.>>
<< Cosa?>> chiese Simon distratto continuando a correggere l'algoritmo di base del suo programma. Era ancora sperimentale ma i ragazzi del Laboratorio Informatico lo stavano aiutando tantissimo a farlo funzionare, chissà che un giorno non sarebbe diventato il più utilizzato del dipartimento.
<< La fedeltà che queste persone possono avere le une verso le altre.>> rispose secco Alec alzandosi. << È davvero un punto fondamentale, ben fatto Lewis.>>
Il ragazzo si girò a guardarlo senza capire, alzando un sopracciglio. << Ma io non ho detto nulla...>>
<< Ancora meglio, di solito hai buone idee quando non ci pensi.>>
Simon lo guardò oltraggiato. << Mi hai appena insultato?>>
<< Stai anche diventando più ricettivo.>> notò a mala pena Alec. Si piegò verso il monitor e poi indicò la zona di Brooklin che, a ben vedere, entrambi conoscevano più che bene. << Questa zona in arancio, è un punto caldo?>>
<< Non solo mi hai insultato, hai anche fatto del sarcasmo e ora una battuta stupida!>> disse sempre più stupito, ignorando cosa contenessero i confini aranciati di quella mappa.
Lo scappellotto che si beccò subito dopo era del tutto giustificato.
<< Ho solo associato il colore ad un pericolo più altro, idiota. Allora? Hai usato colori a caso o più è caldo più c'è attività nella zona?>> insistette lui senza scomporsi minimamente.
Simon si massaggiò la testa indolenzito. << Ha un senso, sì, ho seguito le gradazioni termiche.>>
<< Bene.>>
<< Bene?>> chiese curioso guardando Alec affaccendarsi per la stanza alla ricerca del cappotto.
<< Bene.>> ripeté lui. << Prendi la tua roba e copriti bene, andiamo a vedere.>>
<< Cosa?>>
<< Ti stai rincretinendo lì davanti, andiamo a fare un po' di lavoro sul campo prima che quegli altri due deficienti tornino e ci rovinino tutto.>>
<< Andiamo solo noi? Aspetta, e tutti questi altri documenti? Dobbiamo inserire un botto di altri fattori!>> cercò di fermarlo prendendo in mano tutti gli altri fascicoli ed alzandoli verso di lui come a voler sottolineare la cosa.
Alec neanche lo degnò di uno sguardo. << Sì Lewis, andiamo solo noi, dobbiamo sfruttare questo attimo di pausa prima che quei due tornino. Il lavoro di una squadra è più rapido perché ci si divide i compiti, questo significa che non saremo mai tutti e quattro assieme se non in questa stanza, sarà davvero difficile aver bisogno delle abilità di tutti contemporaneamente. Ci divideremo in coppie e spero tu sia ben consapevole del fatto che non ci capiterà più di star soli noi due. Ti devo insegnare quello che so il prima possibile.>>
Simon batté le palpebre ed annuì mesto riposando i fogli sul piano. << Suona molto romantico come lo hai detto, sappilo. Non staremo più soli noi due… sì, decisamente romantico. Perché non staremo più assieme? Le coppie saranno fisse?>>
<< Di solito funziona così, ci si affianca al compagno di squadra che ci bilanci meglio, ma la nostra non è una formazione definitiva, al termine del Caso Jonathan tornerà alla OCCB. Nel frattempo faremo a turni, capiterai con Magnus o Jonathan, dipenderà dall'occasione.>>
<< Sì, ma perché non con te?>> insistette chiudendo il pc ed infilandolo nello zaino. Alec già lo aspettava sulla soglia, la mano sulla maniglia, impaziente che l'altro si muovesse.
Il moro alzò un sopracciglio, la sua espressione ricordò a Simon le occhiate sprezzanti, infastidite e quasi schifate che il giovane rifilava a lui e Clary i primi tempi. Decisamente di disapprovazione.
<< Vuoi forse che metta in coppia assieme Morgenstern e Bane? Davvero? >> disse sarcastico.
<< Oh, già, non sarebbe un bell'affare, a questo non avevo pensato.>> asserì involtandosi nella sciarpa ed abbottonandosi bene il cappotto.
<< Questo perché tu non pensi mai, Lewis.>>
<< Ehi! Ma se mi hai appena detto che quando non penso ho le idee migliori!>>
<< Le idee, non i ragionamenti, quelli per farli devi per forza pensare. Hai preso i guanti?>> chiese poi estemporaneo.
Simon alzò gli occhi al cielo sbuffando.
<< Sì, papà.>>
Il secondo scappellotto della giornata se lo meritava tanto quanto il primo.

 

 


Le strade a quell'ora del pomeriggio erano sempre un po' trafficate. I ragazzi che uscivano da scuola, gli uffici che chiudevano, la gente che si affrettava per le strade tra compere e commissioni. La loro meta si trovava a Prospect Heights, non era un brutto quartiere, di quelli dove ci si aspetterebbe di trovare criminali di ogni genere, ma la vicinanza al Prospect Park e anche alla costa era sicuramente un buon motivo per far affari da quelle parti, c'erano molti posti in cui ci si sarebbe potuti nascondere.
Alec scese dalla macchina accompagnando la portiera e fulminando con lo sguardo Simon che invece la lanciò con poca grazia.
<< Te la fai a piedi sino al Dipartimento se sbatti di nuovo la portiera in quel modo.>> lo minacciò.
Simon sorrise dispiaciuto. << Beh, sarebbe magnanimo da parte tua, la fermata della metro non è tanto lontana.>>
<< Ti toglierei tutti i documenti, il portafoglio e la carta per la metro prima.>>
<< Questo è crudele, io te lo dico.>> il ragazzo storse in naso ma si affrettò a seguire il collega che marciava sicuro verso il lato opposto della strada. << Sei sicuro che sia qui?>>
<< Sei sicuro delle indicazioni che mi hai dato?>> gli chiese Alec facendo una smorfia infastidita.
Non attese neanche la sua risposta, voltò a destra ed attraversò la strada, diretto verso un vicolo che si apriva tra i palazzi della sponda opposta.
<< Non capisco.>> ricominciò il più giovane. << Sono tutte belle case, non sembra proprio un quartiere malfamato in cui spacciare con tranquillità.>>
Alec gli diede ragione con un cenno della testa, infilandosi per un attimo nel vicoletto solo per costatare che fosse cieco e desse sul muro di una palazzina.
Non c'erano case popolari, erano tutte piccole casette a schiera, condomini da tre, quattro famiglie, i più grandi avevano a mala pena quattro piani e le macchine parcheggiate sui marciapiedi erano tutte in buone condizioni, auto normali, alcune più costose delle altre ma mai in grande contrasto: non c'era l'auto di lusso del capo e quelle scassate dei tirapiedi, che si fossero sbagliati? Non era possibile, la mappa redatta dai dati dei ragazzi segnava la zona come arancione, quindi con continuo ed elevato movimento.
Si gettò un'occhiata alle spalle, si stavano allontanando dal parco, forse si sarebbero dovuti inoltrare lì, ma anche quel luogo Alec lo sapeva relativamente tranquillo, conosceva abbastanza quella zona, c'era un Ospedale Pediatrico, ci avevano portato Max quando era piccolo.
Qualcosa non gli quadrava, si fermò e fece cenno a Simon di far lo stesso, avvicinandosi ad un muretto basso e poggiandoci la mano sopra.
<< Prendi il pc.>> disse secco.
Simon annuì e fece come richiesto, prendendo subito la mappa della zona ancora evidenziata in arancio.
<< Perché proprio Carroll St?>>
Il ragazzo batté sulla tastiera ed ottenne subito la lista dei dati inseriti, una lunga stringa di dati in blu sullo sfondo nero. << Oh.>> disse allora.
<< “Oh” cosa?>>
<< Metà anni '80, qualche palazzina indietro c'era la casa di uno spacciatore, di un capo a dirla tutta. Ci fu un blitz e la SWAT e l'Antidroga entrarono in casa sua trovando tutta la sua scorta pronta alla vendita, era un intero edificio pieno, ce ne erano chili e chili ad ogni piano.>> spiegò girandosi verso l'alt e ritirando la testa tra le spalle sotto lo sguardo gelido di Alec. << Forse dovevo controllare prima invece di dirti di venire qui e basta.>>
<< Forse?>>
<< Dovevo e basta.>>
<< Impara questa cosa Lewis, prendila come una regola d'oro: informati sempre perfettamente sul luogo che stai andando a visitare, devi saperne tutto. Oggi stiamo solo seguendo una pista, domani potremmo dover fermare un omicidio o salvare una vita e l'essere arrivati a Carroll Streat invece che alla strada successiva potrebbe costarci caro.>> disse freddo il moro. << Non importa se le informazioni le hai elaborate tu o meno, un nostro errore è nostro e basta. Sono stato chiaro?>>
<< Chiarissimo.>> soffiò via Simon con un filo di voce, mortificato da un errore così grossolano.
<< Controllo meglio?>> chiese piano.
Alec espirò tutta l'aria nei polmoni, le labbra strette in una linea piatta. << Zona di spaccio odierna, non di vent'anni fa. Azzardati a dirmi che vent'anni fa non erano gli anni '80 e ti do un pugno.>>
Troncato sul nascere Simon abbozzò un sorriso incerto. << Stai diventando violento, lo sai sì?>>
<< Lo sono sempre stato, non te ne sei mai accorto semplicemente perché non passavi tutto questo tempo con me.>>
<< Già, fa un po' strano in effetti… però devo imparare dal migliore, no?>>
<< Non arruffianarti, Lewis, guarda cosa dobbiamo fare e poi facciamolo. E ricordati questa regola.>>
Simon sospirò ma annuì, almeno una mezza battuta gliel'aveva fatta. << Ultimamente ti piace inventare regole su regole, vero? Magnus se ne lamenta in continuazione, le sue sono le stesse mie?>> chiese curioso mentre restringeva la ricerca inserendo i parametri temporali.
La risposta che ebbe indietro un un sarcastico grugnito.
<< Cosa?>>
<< No, non sono assolutamente le stesse. Lui attualmente ne ha cinque.>>
<< E perché non sono le stesse? Non fai favoritismi, vero? Oddio, no, aspetta, se i favoritismi sono verso di me va bene, ma voglio anche sapere che regole ha Mags. Io ho quella del “controlla tutto dieci volte prima di darmi un'informazione”- >>
<< Prima di dare a chiunque un'informazione, si deve essere sempre sicuri di ciò che si dice agli altri.>>
<< E Mags non deve farlo?>>
<< No che non deve, ti sembro così stupido da dare a lui il compito di indirizzare altri agenti verso una meta?>>
Simon annuì. << Concesso, concesso. Quindi lui che deve fare? No, perché non vorrei che poi a me quelle regole le rifili dopo, posso impararle fin da subito e non fare quegli errori.>>
Alec sospirò e gli fece cenno con la testa di sbrigarsi, infilando le mani nel giaccone e poggiandosi con la schiena al muretto. << Credimi, non c'è possibilità.>>
<< Nessuna nessuna?>> indagò il ragazzo voltandosi verso l'amico.
L'altro si strinse nelle spalle. << A meno che tu ed io, soprattutto io, non ci scoliamo due tre bottiglie di rum, o forse anche qualcosa di più, non c'è pericolo che le stesse regole andranno applicate anche a te.>> disse con una tranquillità invidiabile.
<< Perché? Eddai Alec, lo sai che sono una curioso come una bertuccia, non dirmi le cose a metà!>>
Lo vide roteare gli occhi verso l'alto e poi scuotere piano la testa. << Hai intenzione di saltarmi addosso e passare una notte di sesso sfrenato con me?>>
La domanda fu detta con così tanta semplicità ed in modo così inaspettato che Simon rimase con le mani infreddolite bloccate a pochi centimetri dalla tastiera, gli occhi sgranati puntati in quelli azzurri e totalmente a proprio agio di Alec.
Deglutì a vuoto, facendo scorrere lo sguardo sulla figura del compagno e poi riportò l'attenzione al suo volto. Scosse lentamente la testa boccheggiando come un pesce.
<< Hai intenzione di farti sbattere contro un muro e poi su un letto?>> chiese ancora Alec e Simon, di nuovo, scosse la testa.
<< Hai intenzione di attentare alla mia persona in modo fisico o verbale?>>
<< I…no… >>
<< Allora non ti servono quelle regole.>>
Ci fu un attimo di silenzio, Alec si voltò verso la strada, studiando le macchine che vi passavano pigre.
<< Hai dato a Magnus delle regole sul sesso? Cioè, che gli limitino tutti gli “attacchi” su quel fronte?>>
<< Sì.>>
<< Aspetta: è così che voi due avete risolto! Con delle stupide regole su come comportarsi? DIO! Alec! Credevo che vi sareste saltati addosso e- >>
<< Sono un suo superiore, così come per te, perciò ti dico di star zitto e lavorare, i miei problemi privati li gestisco come mi pare e piace e non sono tuo interesse.>> gli disse spiccio.
<< Sì che lo sono! Siete miei amici e lavoriamo assieme!>>
<< Proprio per questo abbiamo deciso che non tirerà mai in ballo i nostri trascorsi, non mi chiamerà con nomi imbarazzanti, potrà andare a letto con chi gli pare e nel frattempo noi ci conosceremo poco a poco come la gente normale. Contento? Ora lavora, dove dobbiamo andare?>>
<< Può farsela con chi gli pare? Ma Alec, Magnus va con cani e porci! Potrebbe rimanere invischiato in una relazione di qualunque tipo e non volerci rinunciare e così direbbe automaticamente no a te!>>
<< Complimenti Lewis, con una frase sei riuscito a dare del prostituto a Magnus, del facile e volubile e a dire che una possibile relazione “normale” con me non vale come una di puro sesso, grazie.>> Allungò una mano e gli chiuse di scatto il pc, schiacciandogli quasi le dita. << Lascia perdere la nostra vita privata, se proprio vuoi farmi questa filippica lo farai fuori dagli orari di lavoro. Ecco, sei stato accontentato, ora hai una regola come Magnus: non si parla di fatti privati durante l'orario di servizio, regola numero uno.>>
Gli diede le spalle e continuò a camminare nella direzione in cui, lo sapeva, prima o poi avrebbe incontrato la Settima strada. << E potevi farmi parcheggiare a metà strada, la Carroll copre sette isolati solo a Brooklin!>> grugnì ad alta voce.
Simon si affrettò a rimettere il pc nello zaino e a seguire il ragazzo. << Prendiamo la macchia?>>
<< No, ora te la fai a piedi.>>
<< Ehi! Sono allenato io, ti ricordo che andavo a correre tutte le mattine, non sono io quello che potrebbe risentirne.>>
Solo dopo che l'ebbe detto Simon si rese conto di quanto fosse stata crudele come affermazione. Alec lo fulminò e arricciò in naso in quel modo inquietante che gli tirava su il labbro e gli scopriva i denti. << Se hai appena insinuato che io non sia ancora in grado di reggere i ritmi normali a cui è sottoposto un qualunque agente di polizia, che non mi sia ancora ripreso, ti conviene correre Lewis, perché ho di nuovo la pistola e come sempre il brutto vizio di sparare in testa alla gente.>>
Mortificato, ancora, il ragazzo abbassò la testa. << N-no io- >> sospirò. << Scusa, non ne sto facendo una giusta oggi.>> disse abbattuto.
Di fianco a lui Alec alzò di nuovo gli occhi al cielo: okay, Simon era un cretino ma lui sapeva sopportare decisamente di peggio e poi averlo attorno triste e sconsolato gli dava il nervosismo.

Che è proprio una cosa che mi manca e di cui ho bisogno, no?

<< Hai individuato la zona?>> disse allora per cambiare argomento, sperando che almeno quello l'avesse fatto e non dovesse di nuovo riprenderlo. E lui che credeva che quell'esplorazione sarebbe stata tranquilla con solo Simon al seguito.
L'altro fece un cenno d'assenso. << Sì, ma è dopo la Settima, potevamo decisamente prendere la macchina.>>
<< Se qualcuno l'avesse visto prima, già.>>
Simon sbuffò gonfiando le guance come un bambino ed Alec finse di non guardarlo, continuarono a camminare fino a quando il primo non riconobbe una strada che, da ragazzino, aveva percorso fin troppe volte con il suo vecchio camioncino scassato.
Strizzò gli occhi e si mise una mano sulla fronte, neanche dovesse schermarsi da qualche luce troppo forte, poi sorrise e allungò una mano per afferrare la manica del giaccone dell'altro.
<< Alec!>> chiamò improvvisamente allegro.
<< Mh?>> chiese lui con poco trasporto.
<< Guarda dove siamo! Te lo ricordi?>> diede le spalle alla strada e allargò le braccia come a voler sottolineare qualcosa, forse l'ovvio per lui.
Alec si limitò alla sua solita faccia inespressiva. << No.>>
L'altro si sgonfiò appena. << Eddai! Pensaci, dove siamo?>>
<< Non cominciare.>>
<< Forza! È facile!>>
Grugnì. << A Brooklin.>>
<< E cosa c'è qui vicino?>>
<< Casa di Clary vicino al parco. Casa tua a qualche isolato di distanza. La St. Xavier's più avanti, verso Gowanus. Continuo?>> fece quello scocciato.
<< Sì, sì, hai ragione su tutti i fronti, ma ti sei dimenticato una cosa!>> indicò dietro di sé. << Il Java!>>
Alec lo guardò male. << Dimmi che non stai per farmi una citazione su Star Wars.>> lo minacciò velatamente, senza riuscire però ad intaccare la sua gioia.
<< No, no! Andiamo amico! Era il locale dove suonavo di tanto in tanto con i ragazzi della band!>>
<< Intendi quella che non ha mai trovato un nome?>>
<< Sì!>>
<< Quella di cui non ho mai visto neanche una performance?>> alzò un sopracciglio e Simon realizzò che no, in effetti Alec non era mai andato a vederlo suonare, non erano ancora così amici al tempo e lui aveva ben altro a cui pensare in quel periodo.
Fece una smorfia. << Diamine Alec, perché non sei mai venuto a vederci?>> chiese ugualmente risentito.
<< Perché avevo gli affari miei e non eravamo ancora amici?>> rispose lui infatti.
Simon sorrise. << “Ancora”, hai detto la parola giusta, ma ora invece siamo amiconi!>>
<< Non ci provare Lewis- >> cercò di difendersi Alexander allontanandosi un poco, ma l'altro l'afferrò per il braccio e se lo tirò vicino.
<< Quindi ora posso farti vedere le registrazioni!>
<< Non credo proprio.>>
<< Devi anche vedere il Java però! È il locale dove Clary e Jace si sono baciati la prima volta.>>
<< Non mi interessa.>>
<< E poi ci vanno tantissimi ragazzi! Magari il proprietario sa qualcosa!>>
Il moro soppesò quelle parole. << Te la sei tenuta come ultima possibilità per convincermi.>> disse sicuro torcendo il naso.
Simon annuì e allora Alec non poté che dirgli di sì.
<< Ma ti avverto, Lewis: hai già fatto danni oggi, il semplice fatto che questo sia il tuo vecchio quartiere e che tu non ti sia reso minimamente conto di dove mi stessi portando non gioca a tuo favore, vedi di non far altre cavolate.>>
La mano del castano scattò alla fronte come gli avevano insegnato in accademia e sorrise raggiante.
<< Sissignore!>>
<< E non chiamarmi così, dannazione!>>
<< Capitano? Capo? Signore? Tenente? Signore Capitano Capo Tenente?>>
<< Toglimi una curiosità.>>
<< Dimmi!>>
<< Riusciresti a parlare anche senza tutti i denti in bocca?>>
<< Ehm… sinceramente non lo so… >>
<< Bene, vediamo di non scoprirlo oggi allora.>>

 

 










A quell'ora del pomeriggio il locale era vuoto e l'unico fermento veniva dai camerieri e dai baristi che iniziavano a preparare tutto l'occorrente per quella sera.
Era da un po' che Magnus non si occupava pienamente del suo bambino, come lo chiamava lui, c'era stato quel momento in cui se ne era andato dal dipartimento, che malgrado fosse molto vicino gli pareva tanto lontano, e poi niente, era ricominciata la solita routine.
Da quanto tempo era che non si sedeva sulla sua pedana rialzata ad osservare il marasma di persone che si contorceva a tempo di musica sulla pista? Da quanto non faceva lui stesso un ordine di qualche liquore? E da quanto tempo era che non si occupava più degli “affari di famiglia”?
Questa era la cosa che più lo sorprendeva: Magnus aveva aspettato letteralmente una vita per poter entrare in gioco e seguire le orme di suo padre, per dimostrargli di essere anche lui all'altezza delle aspettative, della posta, e poi? Poi aveva incontrato un bel moro alto una pertica e si era perso.
E non solo la sua altezza poteva essere paragonata a quello…
Con un sorriso sornione Magnus affondò nella poltrona di vimini che aveva tanto voluto, presa direttamente dal set de “la famiglia Addams”. Aveva sempre avuto un debole per Morticia, specie quando la vedeva seduta lì, bella e letale, nera ed elegante. Ah, era stata una dei suoi tanti amori adolescenziali e non solo.
Alzò le gambe per poggiarle sul tavolino e gettò un'occhiata alla poltrona vicino alla sua. Era vuota ovviamente, Malcom era in giro per la città a farsi gli affari suoi e Catarina era di turno al pronto soccorso, non c'era nessuno dei suoi amici che potesse occuparla e fargli un po' di compagnia, specialmente in quel momento.
Anche se si era dimenticato della “retta via” per un po', divertendosi a giocare al poliziotto, Magnus non aveva mai smesso di tendere un'orecchia verso il chiacchiericcio costante che saliva dal suo mondo, rimanendo aggiornato sulle novità e di quei tempi ce ne erano state molte, fin troppe ad essere onesti.
La prima cosa lampante, che non aveva necessitato di spiegazioni, era stato il ritorno dei corvi di Tim. Aveva passato tutta la sua vita a bordo di quelle vetture nere e lucide, girando per la città come li aveva visti girare in quei giorni. C'era stato un momento in cui vedere una macchina di lusso passare per New York City non aveva significato più niente se non la ricchezza del suo proprietario, Magnus sapeva riconoscere un corvo quando ne vedeva uno e sapeva che quelle vetture non erano ciò che lui credeva. Giusto un paio di settimane prima però una Mercedes color inchiostro aveva attraversato la strada all'incrocio con l'Ottava, i finestrini neri come la carrozzeria non gli avevano lasciato alcun dubbio: Timothy aveva rimesso in strada i suoi destrieri e questo poteva solo significare che stesse preparando il terreno per il ritorno di suo padre.
Era arrivata dopo la notizia che Edom House era stata riaperta e allora Magnus, se si era prima ostinato a dirsi che non era così, che Asmodeus l'avrebbe avvistato se fosse tornato in patria, non aveva avuto più dubbi. Ma chi diamine aveva riaperto casa sua?
Quella villa troppo perfetta persino per la Grande Mela era rimasta chiusa per anni, durante i quali solo Timothy stesso e la servitù vi entravano per tenerla a lucido e funzionante. Non si sapeva mai quando suo padre potesse decidere di tornare e tutto doveva essere al meglio, sempre.
Magnus aveva smesso d'andarci ben presto, se in un primo momento rientrare tra quelle mura gli aveva permesso di non sentire la mancanza della sua famiglia dopo un po' gli aveva cominciato solo a dar il nervoso, a ricordargli che era stato lasciato indietro, tecnicamente, per mandare avanti l'impero dei Bane ma che suddetto impero non era mai stato davvero nelle sue mani. Tutto il resto crollava e rimaneva solo la grande verità che un non più adolescente, ma comunque giovane, Magnus si era ritrovato a vivere: era solo.
Inizialmente aveva accettato la cosa, se il capo doveva scappare qualcuno doveva rimanere a comandare ma Asmodeus non gli aveva mai veramente passato il testimone e Magnus non era stato davvero mai utile per il suo scopo.
Detto così pareva terribile ed un po' lo era. Forse lui c'aveva messo del suo, con la sua melodrammaticità e tutte quelle cose lì, forse non aveva mai voluto ascoltare davvero suo padre e le sue motivazioni, ma questo non cambiava che, proprio come un bambino, Magnus si fosse sentito tradito da una promessa fatta sin dalla più tenera età.

<< Un giorno tutto questo sarà tuo.>>
<< Come Simba?>>
<< Sì, all'incirca mostriciattolo.>>

Non era stato suo, non lo era neanche per sbaglio. Altro che Simba, non aveva neanche Scar in mezzo ai piedi, lui, ma direttamente Mufasa redivivo e mai morto.
Sbuffò.
Prima i corvi, poi casa, sapeva che la chiamata era giunta a tutto il Clan, sapeva che ormai mancavano poche persone lì nella city, ma ciò che ancora non capiva era perché suo padre stesse sollevando tutto quel polverone. Non voleva neanche immaginare quanta gente avesse coinvolto, perché fare “la chiamata” proprio in quel momento, senza nessun motivo, senza nessun avviso.
Che fosse successo qualcosa che non sapeva?
Un altro sbuffo, sarcastico questa volta, scappò dalle labbra dell'uomo.
Lui non sapeva mai tutto, glielo aveva dimostrato Camille quattro notti prima quando gli aveva raccontato cosa fosse successo quel giorno di primavera di una vita fa.
Se ci ripensava gli veniva ancora la nausea. Magnus si tirò a sedere in modo composto portandosi una mano alla bocca dello stomaco. Non voleva ricordare le facce dei suoi amici, non voleva ricordare un Raphael in lacrime ed una Camille urlante. Non voleva ricordare il mutismo di Saint Cloud e neanche la faccia impassibile di suo padre quando gli aveva comunicato che il Clan si era scontrato contro il Branco e che c'erano state delle vittime.
In un primo momento non aveva capito perché Asmodeus l'avesse avvertito, l'unico motivo possibile per quell'interessamento sarebbe stata la morte di qualcuno che lui conosceva e Magnus davvero non voleva pensarci. I suoi timori erano stati tutti per Camille, che quella mattina l'aveva salutato vestita di scuro, in modo che eventuali macchie di sangue non fossero ben visibili. Poi aveva pensato a Raphael, a quel coglione con cui litigava sempre ma a cui voleva fin troppo bene.
Quando suo padre gli aveva detto che non si trattava di nessuno dei due aveva allora temuto per i Chen, per qualche altro amico, per Alexei anche. Non gli era passato neanche per l'anticamera del cervello che tra i caduti vi fosse Pierre. Non poteva essere, nessuno avrebbe mai voluto ucciderlo, lo amavano tutti, persino quelli del Branco volevano sempre far affari con lui perché gli piaceva.
Eppure era stato il suo il corpo che aveva visto steso nella sala autopsie del Clan. Era la sua Camille quella piegata sul corpo freddo del biondo, che si disperava come mai l'aveva vista fare.

Come mai aveva fatto neanche per lui.

Se in un primo momento una fitta d'invidia l'aveva preso dritto al petto poi aveva realizzato quanto stupido e sterile fosse quel sentimento. L'aveva realizzato davanti al lutto del Clan, di Saint Cloud che carezzava impotente la testa del ragazzo, come se lui potesse ancora sentire quel tocco.
Chiuse gli occhi e cercò di scacciare via quei ricordi. C'aveva messo molto per non vederseli comparire davanti ogni notte, ogni volta che si addormentava o quando ripensava a Camille. Ora tutta quella storia invece stava riportando a galla ricordi e ferite dolorose, fin troppo per tutti quanti avrebbe aggiunto.
Si ributtò indietro con la schiena e alzò gli occhi verso il soffitto. Le luci erano tutte accese e Magnus si beo per un attimo della cecità che gli dava fissare quei faretti. Macchie chiare gli distorsero la visuale, come una pellicola bruciata. Si concentrò solo su quello, lasciando la mente libera di vagare.
Cosa stava succedendo? Perché suo padre aveva messo su quello spettacolo? Perché non gli diceva mai niente?
Anche se cercava di negarlo questo era ciò che più lo feriva: suo padre non gli diceva mai niente e se lo faceva non era mai tutto.
Come quando l'aveva mandato dall'altra parte della città proprio il giorno dell'incontro tra il Clan ed il Branco.
Proprio come quando gli aveva detto che avrebbe lasciato a lui il titolo ma non gli aveva ceduto lo scettro.
Esattamente com'era successo quando sua madre si era ammalata.
Sempre silenzi, sempre mezze verità, parole non dette, dette sottovoce in modo che parte di quelle lettere si perdesse e lui non capisse mai fino in fondo.
Alle volte si domandava perché avesse passato tutta la vita a dirgli che un giorno avrebbe preso il suo posto, a crescerlo come un vero Bane, quando poi era evidente che non volesse avere un successore.
Quelli erano i momenti in cui Ragnor gli mancava di più, quando i suoi problemi, tutte quelle parole sussurrate, gli gravavano troppo sulle spalle e l'unica cosa di cui aveva bisogno era un volto amico che gli posasse una mano sul braccio e gli dicesse che avrebbero superato tutto, assieme. Come mai suo padre gli aveva insegnato a fare.
I momenti in cui gli mancava di più il sorriso dolce di sua madre che gli ripeteva di non prendersela, che Asmodeus era fatto così.

<< Non devi arrabbiarti od offenderti, tesoro. Tuo padre ti ama tanto quanto ti amo io, solo che abbiamo modi diversi di dimostrartelo.>>
<< Mi mente! Mi dice che potrò scegliere come fare e poi scopro che ha già programmato tutto! Non gliene frega niente di ciò che voglio io!>>
<< Non è vero, non pensare questo di lui è solo… tuo padre non ha avuto un'infanzia felice Magnus, vuole solo che la tua lo sia, cerca solo di far il meglio per te… >>
<< E allora che mi lasciasse vivere!>>
<< Non ci riesce. Lui vorrebbe darti tutto ciò che desideri ma non ce la fa a cedere il posto, a rallentare il passo. Questo è un suo grandissimo difetto, lo fa con tutti, vede la cosa che reputa più giusta e conveniente e la sceglie anche se magari gli altri non la vedono allo stesso modo. Lui si fida di te, vorrebbe davvero lasciarti tutto ciò che ha, ma ha lottato talmente tanto per arrivare dov'è ora da diventare restio ad abbandonare il trono.>>
<< Ma allora non mi illudesse! Tu lo difendi, lo giustifichi, apri gli occhi mamma, è solo un grandissimo egoista!>>
<< Amore mio… >> disse la donna carezzandogli il viso con dolcezza. << Non sono dei grandissimi egoisti tutti coloro che amano?>>

Non lo sapeva, non sapeva come sua madre potesse aver visto questo in lui, una persona che vorrebbe sol il meglio per gli altri quando a Magnus era chiarissimo che in realtà Asmodeus volesse il meglio -tutto­- per sé.
L'ampia sala da ballo del Pandemonium non gli era mai parsa così vuota e desolata, abbandonata da tutti, dalla vita fremente e gioiosa che l'animava di solito.
Adesso il suo locale era la perfetta trasposizione del suo animo: vuoto e solo.
Con un sorriso amaro Magnus si rese conto che abbandonare quel suo mondo oscuro era stato così facile per lui perché non ci si era mai sentito davvero a suo agio, non aveva mai avuto modo di adattarcisi come lui preferiva ma solo come suo padre credeva fosse meglio. Non era mai stato davvero suo quel mondo e ora, quando qualcuno aveva aperto uno spiraglio nella coltre nera per portare un po' di giustizia legale in quel luogo, lui ci si era aggrappato con forza e si era issato verso quella frattura.
Ilsottomondo sarebbe sempre rimasta casa sua, quella che gli aveva dato i natali e riempito infanzia ed adolescenza, ma forse il figlio del Principe dei Demoni, che da tempo Principe non era più ma vero e proprio Re, non era fatto per restare al buio, doveva uscire fuori alla luce e risplendere come era giusto facesse.
Magnus era il demone del rimpianto e della nostalgia, non si era mia reso conto però di essere anche come la natura, come il verde florido e ruggente delle sue iridi: necessitava del sole per vivere.
Il telefono vibrò e apparve l'immagine di Simon ed Alec ad una scrivania intenti a mangiare biscotti, il nome dell'ex tecnico che lampeggiava allegro.
Magnus sorrise: magari invece del calore cocente ed accecante della stella maggiore sarebbe fiorito sotto i raggi gentili e pallidi della luna e sotto la scia frizzante e viva di una stella cometa.

 


 













Il Java Jones non era cambiato molto da quando Simon aveva smesso di andarci tutti i pomeriggi della sua vita.
Da piccolo era il suo luogo preferito per far colazione e merenda, per studiare un po' in compagnia e non nel silenzio di casa sua.
I primi anni erano sua madre o Jocelyn a portare lui e Clary al Java, poi era toccato a Rebecca e Jonathan, che per un motivo a lui completamente ignoto erano sempre andati d'accordo e che anche quelle volte lo erano nel dire che non gli andava di portarsi i fratellini dietro quando andavano al locale con gli amici.
Avevano dovuto aspettare i tredici anni per poter arrivare a piedi da soli al Java, dove comunque l'avrebbero raggiunti i fratelli o i genitori, ma era stata comunque una grande conquista.
A rivedere quelle pareti aranciate, i mattoni a vista e le lampade di metallo che pendevano dal soffitto Simon si sentì riportato indietro nel tempo, un senso di nostalgia dolce l'avvolse mentre poggiava la mano sulla spalliera di una sedia. Neanche l'arredamento era cambiato ed il piccolo palchetto all'angolo della sala aveva le solite tende rosse e spesse attraverso cui lui e i ragazzi avevano sbirciato tante volte.
Respirando a pieni polmoni quell'aria calda e profumata Simon si avviò con passo deciso verso il bancone, gettando a mala pena uno sguardo indietro per controllare che Alec l'avesse seguito.
Il moro osservava con fare attento il locale, forse perché era la prima volta che ci metteva piede dentro, di solito rimaneva fuori, in macchina, ad aspettare che Jace e Izzy avessero salutato tutti per poterli riportare a casa. A ben vedere Simon non avrebbe saputo dire quanto volte avesse sentito i due Lightwood dire che era proprio ora d'andare perché il fratello maggiore li aspettava fuori. Anche quando Jace stesso ebbe preso la patente era Alec che andava a prenderli e li riportava a casa. Una volta forse aveva riportato anche loro, silenzioso e cupo come un autista stanco all'ultima corsa del suo turno.
Quando erano dei ragazzini Alec gli aveva sempre incuto una certa paura: lo vedeva attraverso il finestrino della macchina scura ed elegante di Maryse, con i guanti con le mezze dita stretti attorno al volante ed il cappuccio della felpa calato in testa. Non li degnava di uno sguardo, non si girava neanche a controllare quando i fratelli sarebbero usciti dal locale o se ad aprire la portiera erano stati loro o qualche malintenzionato. Ad oggi sapeva che probabilmente già all'ora sarebbe stato in grado di staccare la testa a morsi a chiunque gli fosse capitato a tiro, ma a quel tempo era solo fermamente convinto che quel ragazzo dal volto ignoto fosse così spaventoso e facesse così tanta paura che persino i criminali ci pensavano due volte prima di attaccarlo.
In effetti doveva essere una somma delle due cose.
Gli ci erano voluti un paio d'anni per incontrare davvero Alec, quando si era ritrovato davanti quel ragazzo esageratamente alto, completamente vestito di nero con il volto imperturbabile. L'aveva associato ad uno Slenderman quella volta e vedere un essere del genere in quel collegio medievale e gotico non gli era risultato minimamente difficile. Certo, poi si era mosso come un dannato ninja e aveva fatto scappare a gambe levate i due cretini che stavano importunando lui e Clary guadagnandosi il rispetto, la gratitudine e l'ammirazione di entrambi, ma quando avevano avuto modo di conoscerlo davvero Simon si era ripetuto che la sua prima impressione fosse più che giusta: quel ragazzo faceva paura, poteva staccarti una mano a morsi ed era decisamente uno Selnderman della malora. Oh, e riusciva a sputar fuori frasi così taglienti, acide e fatali che Jace ed Isabelle a confronto erano dilettanti, dilettanti.
Il loro rapporto era andato solidificandosi, o creandosi ad esser onesti, con il tempo. Ora Simon poteva dire con certezza di essere un suo grande amico, e che il ragazzo lo fosse per lui, ma vederlo muoversi in quel modo per un locale che un tempo Simon aveva paragonato alla stregua di casa sua gli fece ricordare fin troppo bene che il bel rapporto che aveva con Alec non era sempre esistito, che c'era stato un periodo in cui lui e Clary non era mal sopportati ma direttamente odiati dal poliziotto.

<< Io e i ragazzi abbiamo suonato qui per caso la prima volta. Una band aveva lasciato i suoi strumenti perché non avevano spazio dove metterli e noi abbiamo detto al barista che sapevamo suonare. Lui ha detto che non ci credeva e ci ha sfidati a prendere in mano chitarra e bacchette e fargli sentire qualcosa. Banalmente, Smell Like Teen Spirit. Fu un successone.>>
Alec annuì senza guardarlo. << Ripetizione degli stessi accordi, voci strascicata e urla sul ritornello. Non penso che Kurt si sia rivoltato nella tomba ma neanche che abbia apprezzato.>>
<< Ehi! Eravamo bravi! E poi era la canzone del mio anno!>>
<< Dio Simon, non ricordarmi che è passato così tanto tempo… >> borbottò lui sedendosi ad uno dei tavolini attaccati al muro.
Simon alzò un sopracciglio. << Perché, vuoi farmi credere che te la ricordi?>>
Alec alzò gli occhi al cielo mentre si toglieva il giaccone per poggiarlo vicino a lui sulla seduta del divanetto. <> domandò senza troppa enfasi.
<< Mi stai davvero dicendo che ti ricordi le cose successe quando avevi, quanto? Quattro anni?>>
<< Ho una buona memoria. Chi è il capo del locale? É qui?>> Alec stroncò subito sul nascere qualunque tipo di domanda su cos'altro ricordasse o meno e volse lo sguardo sulla zona circostante.
Non c'era gran confusione ma i tavoli erano per la maggior parte pieni ed i due camerieri di quel pomeriggio si affaccendavano da un tavolo all'altro sorridendo cordiali e sbuffando di spalle a quei clienti troppo fastidiosi o pretenziosi.
Il detective alzò la mano per far cenno ad uno di loro ed un ragazzetto di forse diciotto anni, con i capelli castani e corti ed una spruzzata di lentiggini sul volto si avvicinò veloce.
<< Salve, ben venuti al Java Jones, volete qualcosa da bere o siete qui per mangiare?>> chiese educato.
Simon si mise sull'attenti e domandò cosa ci fosse di buono da mangiare ed il cameriere iniziò ad elencare tutte le torte ed i panini che avevano.
Lasciandoli alle loro chiacchiere su cosa fosse più buono tra un club sandwich alle melanzane ed uno con il prosciutto – e Alec non aveva nulla contro le melanzane, ma era ovvio che un toast a tre piani con formaggio filante battesse a mani basse un panino con verdure grigliate- il moro ricominciò ad esaminare il locale, riportando alla mente le descrizioni che i suoi fratelli, allora adolescenti, gli facevano di quel posto, di dove si sedessero di solito, di cosa ordinassero e di come fosse buona la birra anche se Alec non si fidava di quei due quando si parlava di birra, non ne capivano nulla, erano più da superalcolici shakerati con scenici movimenti entro ad un ambiente nero illuminato la luci stroboscopiche.
Il tavolino prediletto doveva essere quello che faceva angolo dalla parte opposta alla loro, quello con la spalliera alta ed imbottita dove, se non ricordava male, Jace aveva baciato Clary. Sì, perché purtroppo per lui si era dovuto subire anche quel racconto, dettagliatissimo poi, di come fosse stato bravo a cogliere il momento giusto, di come l'avesse inchiodata contro lo schienale e bla bla bla.
L'unica cosa che riuscì a pensare all'epoca era che, per sua fortuna, aveva superato quel momento buio della sua vita e che aveva qualcuno che gli voleva bene al proprio fianco. Se solo Jace avesse deciso di provarci con Clary due anni prima probabilmente Alec avrebbe passato la sera a fumare come una ciminiera se non a vomitarsi l'anima.
Distolse ugualmente lo sguardo da quel tavolo, ora occupato da un gruppetto di ragazzi del liceo, e la sua attenzione andò al bancone dove stava lavorando un giovane di media altezza, i capelli scuri erano tenuti corti, un ciuffo un po' più lungo sulla fronte come una frangia leggera e scomposta. Aveva gli occhi nocciola ed un sorriso gentile in volto, ma si vedeva che non doveva aver passato bei momenti, la sua pelle era cosparsa di piccole macchioline più scure, che potevano essere cicatrici dell'acne così come potevano essere i residui di una qualche dipendenza.
A vederlo così, magro ma non magrissimo, con la felpa larga che gli cadeva un po' sulle spalle, Alec avrebbe detto con certezza che quell'uomo non avesse avuto problemi né con il fumo né con l'alcol. Era un ex drogato ed il detective sperò tantissimo in quell' “ex” che la sua mente gli aveva suggerito in automatico.
Si alzò dal tavolo chiedendo scusa e ordinando per sé un cappuccino. Con la stessa sicurezza che prima aveva avuto Simon si avvicinò al bancone, abbozzando un sorriso un po' incerto.
<< Salve.>> disse con un tono abbastanza alto da farsi sentire dal barista.
Lo vide drizzare un poco la schiena e votarsi di colpo, come se avesse riconosciuto la voce che l'aveva chiamato.
L'uomo lo guardò con gli occhi sgranati e poi si aprì in un sorriso ampio e sincero.
<< Alec! Il detective Alec se non sbaglio. È davvero un piacere rivederti amico, come va?>>
Jacke Montgomery era una vecchia conoscenza di Alec, anche se dire così non era propriamente corretto. Di certo quel giovane lo ricordava anche Catarina visto che era stato commediante nel loro primo incontro al Downtown, quando era caracollato nella sala d'attesa nel pieno di un principio di overdose. Alec aveva aiutato le infermiere a soccorrerlo e a prestargli le prime cure, era rimasto in attesa che gli facessero la lavanda gastrica e che si svegliasse perché se ne sentiva responsabile: lui l'aveva sorretto e messo sulla barella, gli aveva tenuto la mano mentre lo portavano in una delle sale, doveva sapere come stesse, se poteva chiamare qualcuno per stargli vicino.
Alla fine della giornata l'aveva lasciato con sua madre che si era profusa in mille ringraziamenti e si era fatto promettere che sarebbe andato in un centro per la disintossicazione. Poi era successo quello che era successo e tutte le sue promesse di controllare che effettivamente un Jacke Montogomery fosse entrato in terapia in una delle tante strutture della Grande Mela erano andate a farsi benedire.
Rivederselo davanti un po' dimagrito e provato ma non più pallido come la morte e reduce di una dose troppo massiccia gli fece tirare un sospiro di sollievo.
<< Jacke, giusto? Dovrei essere io a chiedere a te come va, ti trovo bene.>> glielo disse con sincerità e vide l'altro annuire.
<< Sono nove mesi che sono pulito, è stato difficile ma dopo quella volta sono venuti i miei fratelli a prendermi di peso e portarmi in un clinica. Non mi hanno mollato un attimo ma ora ho il gettone, ne ho un bel po' ad essere onesti!>> si frugò nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori un gettone da poker su cui c'era un trenta disegnato sopra.
Quello era il simbolo materiale di tutti coloro che avevano una dipendenza e che erano riusciti a resistere per trenta giorni senza cadervi. Alec ricambiò quel sorriso orgoglioso con uno più delicato ma quasi fiero.
<< Ne sono davvero contento, specie per te. Non vivi meglio ora?>> gli chiese scontato facendo ridere l'altro.
<< Sappi che questa è la stessa domanda che mi fa mia madre!>>
Alec arrossì, senza riuscir a mantenere quella facciata seria e distinta che di solito lo caratterizzava, borbottando qualcosa che suonava molto come un commento sul fatto che con tutta la gente di cui doveva prendersi cura lui ogni giorno forse aveva preso un po' i modi di una madre.
Jacke in ogni caso si poggiò al bancone continuando a sorridere. << Ma dimmi, cosa ti porta qui? Non mi pare che tu fossi di queste parti e sono sicuro di non averti mai visto prima al Java.>>
Alec annuì. << Sto facendo delle indagini, sono in servizio tecnicamente ma una pausa caffè non la si nega a nessuno, specie a chi non è abituato a questi ritmi.>> e così dicendo accennò a Simon, ora seduto solo al tavolo a smanettare sul pc.
<< Hai un nuovo compagno di squadra? Ho letto qualcosa sulla storia del Vice Commissario, era collegato ad un giro di malaffare uscito fuori con la morte di un ricettatore, era il tuo caso vero? Non ho visto tue foto sui giornali ma credo che non ci siano molti Detective Alexander Lightwood al Distretto.>>
Un altro cenno con il capo. << Era il mio caso, sì.>>
<< Beh, è stato chiuso nel migliore dei modi ma a te non è andata troppo bene.>>
<< “Non troppo bene” è un eufemismo, ma sono cose che vanno messe in conto quando si sceglie questa professione.>> si strinse nelle spalle e fece un cenno con il capo al cameriere che aveva preso la sua ordinazione e che ora la reggeva su un vassoio assieme ad un'altra tazza fumante ed un panino al formaggio.
<< Glielo lascio qui o lo porto al tavolo?>> chiese il ragazzetto vedendolo intento a parlare con il barista.
<< Lascia pure a me, Pet, ci penso io. Tu stai un attimo qui?>> disse Jacke prendendo il vassoio e cedendo il suo posto al banco.
Si avviarono assieme al tavolo e Simon alzò subito la testa, accigliandosi ma salutando comunque l'uomo.
<< Lui è Simon Lewis, il mio collega. Questo invece è Jacke, una mia vecchia conoscenza.>>
<< Salve… >> disse Simon tentennante.
Jacke gli sorrise. << Hai una faccia famigliare sai? Sei venuto altre volte qui?>>
Il ragazzo annuì. << Sì, sono di queste parti, da ragazzino venivo qui a suonare con la mia band.>>
<< Allora ti avrò visto sicuramente sul palco, come si chiamava la band?>>
<< Dipende dal periodo.>> disse serafico Alec prendendo il suo cappuccino e zuccherandolo con attenzione.
Jacke alzò un sopracciglio senza capire e Simon si affrettò a spiegare. << Non abbiamo mai trovato un nome definitivo, lo cambiavamo in continuazione.>> ammise un po' imbarazzato.
L'altro parve però illuminarsi a quella risposta e batté le mani come se si fosse ricordato di qualcosa di importante. << Ma certo! Eravate i… Zombies Lord? No, no, aspetta, i Blood- no, Hungry Panda?>>
Simon sospirò ancora più imbarazzato. << Tutti e tre a dir il vero… C'è stato un periodo in cui il nostro front man era fissato con i panda, non abbiamo mai capito il perché.>>
<< Era il tipo che infilava “lombi” in ogni singola poesia che scriveva? Avevamo anche la serata per i poeti amatoriali qui, poi si è un po' persa quando il proprietario del locale si è ammalato, era lui che l'aveva istituita.>> disse Jacke rivolgendosi ad Alec.
Lui annuì così come Simon. << Sì, avevo sentito che non stesse bene.>>
<< Ormai sono un paio d'anni che è morto, ma era vecchio, aveva ottantatré anni. Adesso il Java è del figlio, Vinc, io andavo a scuola con il nipote, David, lo si vedeva spesso qui.>>
<< Sì, sì, era il ragazzo che ci aiutava sempre a mettere a posto luci ed acustica.>>
<< Esatto. Certo, è un bel salto da aspirante rock star a poliziotto.>> notò l'uomo sedendosi a capotavola.
Simon si strinse nelle spalle. << A dirla tutta ho fatto l'università prima, sono laureato in informatica. Poi sono stato preso al Dipartimento e da quest'anno sono alla Omicidi con Alec.>>
<< Wow, decisamente un grande passo. È un peccato però, secondo me avreste potuto anche sfondare un giorno, se aveste trovato il giusto produttore, eravate bravi. Credo che Maureen abbia ancora la registrazione di qualche canzone, forse quella sui guerrieri beati o sui beati guerrieri.>>
Alec alzò lo sguardo verso Simon, lo fissò per un attimo e poi disse: << Non ti azzardare a farmela sentire. Nega. Tu non hai mai fatto musica che io potrò ascoltare.>>
Jacke scoppiò a ridere e poi si alzò, << Se non ti dispiace vorrei andarla a chiamare, credo abbia avuto una mezza cotta per il vostro bassista al tempo.>> Non lasciò loro neanche il tempo di rispondere, si diresse verso la porta sul retro che dava sulla cucina e lì sparì.
Simon era diventato paonazzo, Alec lo guardò scocciato. << Fammi indovinare: eri tu il bassista?>> Il ragazzo annuì e poi affondò il volto nel panino, prendendone un morso un po' troppo grande nella speranza di soffocare sul posto e non dover parlare con una ragazza che un tempo, quando era più nerd e sfigato di quanto non lo fosse in quel momento, aveva avuto una cotta per lui.
<< Fio chfe imbfaraffo… >> masticò a forza.
Il collega non batté ciglio. << Ricomponiti rock star, sta arrivando una ragazza bionda e quasi imbarazzata quanto te. >>
Simon si voltò di scatto, trovandosi davanti quella che doveva essere Maureen.
Doveva avere all'incirca ventidue anni, forse qualcosa di più, i capelli lunghi fino alle spalle, biondo cenere, gli occhi scuri e le ciglia lunghe. La pelle rosea ed il naso leggermente all'insù la facevano sembrare un piccolo cerbiatto, le orecchie un poco sporgenti la rendevano ancora più indifesa e dolce di quanto non apparisse grazie alla sua figura minuta, stretta in un maglioncino viola che le copriva le mani e le cadeva morbido sui fianchi.
Sorrise impacciata e si voltò verso Jacke con gli occhi sbarrati, borbottando un tenue “ Idiota, era lui il bassista”.
L'uomo rise divertito. << Beh? Non era il tuo sogno quello di conoscere uno dei… ?>>
<< Dì un nome a caso, tanto va bene comunque.>> sussurrò Alec tornando a bere ma lanciando uno sguardo alla ragazza.
Aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi ma se il suo volto era così emozionato il corpo diceva invece che era in guardia, quasi in ansia. Cosa c'era che la preoccupava? Fece vagare lo sguardo sul suo collega e poi sul tavolo, dando mentalmente dell'idiota a Simon quando vide il suo distintivo mal nascosto dentro lo zaino aperto.
Era logico che una ragazzetta che viveva in un quartiere abbastanza tranquillo si facesse venire qualche scrupolo nel vedere due poliziotti, in borghese poi, nel locale in cui, evidentemente, lavorava. Questo gli fece tornare in mente il modo in cui Simon l'aveva convinto ad una visita.
Alzò la testa verso Jacke e lui lo guardò curioso.<< Ti spiace se ti faccio qualche domanda su questo quartiere? Possiamo parlare in privato?>> chiese poi con più delicatezza. Doveva chiedergli dove fossero i luoghi principali d'incontro di spacciatori in quella zona e magari chiederglielo davanti ad una collega non era proprio il massimo, magari neanche sapeva della sua dipendenza.
Lui lo guardò accigliato. << Certo, certo, ma Maureen è proprio di queste parti, io abito verso il confine con il Queens, vengo qui solo per lavorare.>>
<< È successo qualcosa?>> chiese preoccupata la ragazza.
Simon scosse la testa. << Stiamo solo indagando su- >> si bloccò e cercò lo sguardo di Alec, lui sospirò.
<< Siamo della sezione Omicidi, stiamo cercando informazioni sulla nostra vittima e viste le sue attitudini stiamo controllando varie zone della città in cerca di qualche riscontro.>> disse diplomatico.
<< Un omicidio? Non è successo qui spero… >> fece Maureen rabbrividendo.
Alec scosse la testa, << Sempre a Brooklin ma sulla costa, il corpo è stato ritrovato vicino alla zona portuale.>>
<< Ci vanno i drogati lì.>> la voce di Jacke giunse bassa ma decisa, guardò Alec dritto negli occhi e annuì. << Maureen sa, possiamo parlarne anche con lei davanti.>>
La bionda lo guardò stringendo le labbra e poggiandogli una mano sul braccio per fargli forza.
<< Vado a fare prendere un po' di caffè, va bene?>> gli chiese con gentilezza.
Lui le sorrise. << Perfetto, grazie.>>


Da quelle parti il nome di Potter - << Come Harry? Il maghetto?>>, << Sì, ma non ha avuto la sua stessa fortuna.>>, << O un vecchio saggio barbuto che lo aiutasse.>>, << Va bene, finiamola con le citazioni.>>- non era mai uscito. La zona limitrofa a quella portuale era da sempre stata un covo di delinquenza per ovvi motivi: navi merci che arrivavano da ogni pare del mondo, specie dal golfo e dall'Europa, grandi magazzini in cui stipare ogni genere d'oggetto, gente fin troppo alla mano e sottopagata, bisognosa di denaro e quindi facilmente corruttibile. C'erano i marinai e gli scaricatori che lavoravano lì da una vita ma c'era anche tanto via vai, gente che lavorava una stagione e poi cercava fortuna altrove.
Il parco invece era un punto debole solo la notte, la mattina ed il pomeriggio era pieno di persone che facevano joking e di bambini, c'era un ospedale pediatrico vicino, c'erano delle case storiche, le scuole, solo che come ogni parco quando calava la sera cominciavano ad esserci troppe ombre dietro cui nascondersi, ma questo era comune purtroppo.
Se c'erano mai stati edifici dove era risaputo vi fossero criminali o associazioni a delinquere loro due non lo sapevano, Maureen aveva a mala pena ventitré anni, lavorava al Java e sognava d'aprir una pasticceria un giorno, Jacke voleva solo rimanere pulito e vivere una vita piena e libera, non essere più schiavo di una pasticca o di una siringa.
<< In ogni caso ho ancora molti amici in quei giri, posso chiedere se conoscono questo Potter e se l'hanno mai visto in giro.>>
<< Non potei mai chiederti una cosa del genere, rischierei di mandarti a cercare informazioni tra persone ancora dipendenti e sapere di più su Potter in questo modo non vale i tuoi nove mesi pulito.>> disse serio Alec scuotendo la testa.
<< Ma posso chiedere in consultorio. Alla chiesa dove vado per le sedute c'è gente che sta a contatto con i drogati tutti i giorni, ci sono gli sponsor, i terapisti. C'è gente che ci prova a rimanere pulito ma non ce la fa e quindi torna un giorno dicendo che c'è ricascato, che è andato di nuovo dal suo spacciatore o dall'amico che ha la roba. Non mi andrei ad infilare in situazioni pericolose, chiederei solo in giro se qualcuno conosce quel ragazzo perché è morto e non riescono a trovare nessuno, potrebbe funzionare?>> propose convinto l'uomo.
La faccia di Alec era impassibile, Maureen continuava a mescolare il suo caffè e solo Simon parve prendere seriamente in considerazione l'opzione.
<< Potrebbe funzionare, gli daremo una foto, magari potrebbe non dire che è morto ma che è scomparso e lo stanno cercando.>>
<< La notizia della sua morte è già trapelata, i suoi amici lo sanno, non credo che quello che i ragazzi hanno arrestato abbia evitato di dirlo a qualcuno. Se dovesse incontrare malauguratamente qualcuno che sa della morte di Potter e che ha qualcosa da nascondere Jacke potrebbe finire male. Quella gente non ci mette molto a decidere se ucciderti o meno.>> fissò Montgomery dritto negli occhi << Non sono persone a cui piacciono gli informatori, a nessuno piacciono e so di cosa sto parlando. Non permetterò che un civile completamente scollegato dalla situazione rischi così tanto. Grazie per l'offerta ma no, sapere dove comprava la roba Potter non ci serve così tanto da rischiare la tua vita, ormai è morto e l'unica cosa che dobbiamo fare è dargli giustizia.>>
L'uomo annuì, forse un poco sconfortato, come se ci tenesse a dar una mano ad Alec, << Va bene, ma posso sempre chiedere ai responsabili? Potrebbe esserti utile?>>
Alec scosse la testa. << Puoi darmi i nomi dei consultori più frequentati, di quelli più malfamati e di qualche responsabile di cui ti fidi, ma non parlarci tu. Sono serio Jacke, non hai nulla a che fare con queste persone, non immischiarti in un gioco più grande di te solo per aiutarmi, non hai nulla di cui sdebitarti.>>
Gli occhi blu del detective trafissero quelli scuri dell'altro che abbozzò una smorfia, colto nel segno.
<< Tu hai aiutato me.>>
<< Ti ho solo portato su una barella e fatto compagnia sino all'arrivo dei tuoi parenti, non sono andato in giro a rischiare la vita.>>
<< Sì, ma vorrei ugualmente aiutarti, dev'esserci un modo per- >>
<< Rimanere pulito, darmi i nomi che possono essermi utili e rimanere al sicuro. Il modo migliore per aiutare un detective della omicidi è non far sì che abbia altro lavoro da fare.>> disse serio e secco, stroncandolo sul colpo.
Se Montgomery ne fu ferito non lo diede a vedere, ma annuì e s'alzò per andare a prendere carta e penna.
Maureen lo guardò andar via e sospirò pesantemente. << Grazie per averlo dissuaso. Non vorrei che ci ricadesse.>> ammise a voce bassa.
<< Non succederà, te lo assicuro.>>
<< Ma perché vi interessa tanto sapere dove comprava la droga questo tipo? Pensate che sia stato il suo spacciatore ad ucciderlo?>> chiese guardinga.
Alec scosse la testa. << Abbiamo già un sospettato ma una buona indagine deve prendere in considerazione tutte le possibilità. Se poi durante le nostre ricerche troveremo anche uno spacciatore ed il suo giro di clienti e fornitori allora sarà solo di guadagnato.>>
Il Tenente continuò a rispondere in modo educato alle domande preoccupate della ragazza e Simon lo fissò quasi a bocca aperta.
Da che lo conosceva Alec era sempre stato uno che diceva la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, giurando su bibbia e bandiera americana e amen. Stupidamente non aveva mai considerato che ai sospettati, ai testimoni e chicchessia non si poteva mai dire tutto, alle volte non si poteva dire niente, specie la sopracitata verità. Eppure sentir Alec mentire con così tanta semplicità, omettere e modificare l'ordine o la realtà degli eventi lo lasciò comunque un po' interdetto: se era così bravo a farlo durante il lavoro, chi gli diceva che non lo fosse anche nella vita privata?
Jace e Izzy avevano sempre detto che il fratello non sapeva mentire, che gli si leggeva in faccia quando stava dicendo una bugia, con quell'espressione costipata che faceva, ma ora Simon credeva che neanche loro lo conoscessero abbastanza bene. O forse Alec mentiva in modo diverso sul lavoro e in privato, non lo sapeva. Di certo i ragazzi lo conoscevano bene ma… come un fulmine a ciel sereno Simon si ricordò del periodo in cui aveva cominciato a vedere più spesso il ragazzo, quando era un insopportabile musone che freddava tutti con quello sguardo di ghiaccio e di disprezzo, che pareva quasi schifato di averti vicino, che stesse facendo quello sforzo immane solo per i fratelli. E invece in quel momento era un groviglio di sentimenti negativi e dolorosi di cui lui e Clary erano stati messi a parte solo perché i Lightwood avevano deciso di spiegargli cosa fosse successo a Natale, perché il fratello maggiore e la madre non si parlavano più.
Tutti quei pensieri erano decisamente fuori tema e lo stavano facendo distrarre dal punto principale. Non si era neanche reso conto che Jacke era tornato con la lista di nomi ed uno sguardo fin troppo dispiaciuto. Maureen gli aveva strofinato una mano sulla schiena, cercando di consolarlo in qualche modo.
Simon li fissò allontanarsi, notando di sfuggita Alec lasciare i soldi sul tavolo e afferrare il foglietto.
Si rivestirono con calma e salutarono i due senza avvicinarsi.
Quella situazione, quella giornata, gli parve improvvisamente surreale, come se qualcosa non andasse bene, se mancasse un pezzo o fosse messo al posto sbagliato. Si voltò più di una volta a fissare la porta del Java Jones che lentamente perdeva le sue scritte e diventava solo un'immagine sfocata prima d'esser coperta dal palazzo dietro cui svoltarono.
Il volto di Alec era funereo, come la maschera mortuaria di un guerriero dell'antichità.
Betté le palpebre e abbassò la testa, c'era qualcosa di sbagliato in tutto, qualcosa che gli sfuggiva. Ma cosa?




 













Accavallò le gambe cercando più stabilità ed un minimo di comodità sulla seduta alta dello sgabello di metallo lucido. L'acrilico del cuscino strideva ad ogni minimo movimento e cambio di pressione, ma ormai era talmente tanto abituata a sentire quel rumore che neanche ci faceva più caso.
Tenne stretto nella mano destra il telefonino mentre la sinistra volava alla bocca, l'unghia corta e colorata a battere sui denti incisivi.
Sotto i suoi occhi le pagine e i nomi scorrevano veloci, uno dopo l'altro, senza neanche dar l'opportunità di capirne il senso. A lei non serviva più, ormai sapeva quando fermarsi, riusciva a leggere qualcosa anche in mezzo a quell'infinita cascata di lettere e colori.
Alzò il dito dallo schermo e sospirò quando vide ciò che le interessava. Cliccò velocemente sulla casella dei messaggi e scrisse quanto doveva prima di chiudere il tutto, scendere dallo sgabello scomodo e mettersi l'oggetto in tasca. Forse avrebbe fatto prima a tenerlo in mano vista la velocità con cui ottenne risposta, che in ogni caso non la stupì per niente.
L'incontro era stato fissato tra due giorni, lo sapeva perfettamente e non poteva rimandarlo solo perché uno dei suoi uccellini le aveva comunicato che qualcuno stava cercando informazione su un tipo che un tempo aveva lavorato per loro, i suoi colleghi le avrebbero detto di sbrigarsela al più presto o di farlo fare ai suoi tirapiedi ed in effetti così avrebbe fatto di solito ma non quella volta: non erano strozzini o gente a cui il suo ex dipendente doveva dei soldi, era stata la polizia in persona ad andare a bussare alla porta di casa sua, alla sua Brooklin.
La donna guardò la finestra dell'ampia sala e gettò il telefono sul divano senza neanche controllare di averlo centrato, lo sapeva per certo, lei non sbagliava mai mira.
Si avviò a grandi passi verso l'appendi abiti e prese la lunga giacca di pelle opaca che vi era posta sopra, infilandola con gesti secchi ed allacciando la cinta scura in automatico.
Imboccò l'uscita senza voltarsi indietro neanche una volta.
Lo schermo del telefono s'illuminò mostrando le anteprime delle conversazioni. Sopra all'avviso della batteria mezza scarica c'era l'ultimo messaggio ricevuto.

 

Ovviamente, io so sempre tutto, cherie.”












 

La stanza non era ariosa: decine e decine di file di scaffali di metallo erano allineati perfettamente gli uni agli altri, alti sino al soffitto ed inchiodati a terra da bulloni grandi come tappi di bottiglia.
L'aria era stantia, le luci erano tubi biancastri che mostravano segni d'annerimento come le scatole metalliche in cui erano riposti, dall'entrata se ne potevano vedere alcuni, pochi, sfarfallare ormai sul punto di rompersi o di staccarsi dal supporto che li collegava alla rete elettrica.
Su ogni scaffale erano riposti scatoloni di cartone grezzo su cui erano stampati dei riquadri bianchi scritti con pennarelli e penne di vario genere, ma mani diverse tra loro ed epoche vicine e lontane.
All'entrata, vicino alla rete, al gabbiotto degli agenti di sicurezza, erano posti grandi banchi vecchi ma puliti, di un grigio scolorito che non aiutavano a capire se fosse anch'esso metallo o una formica ormai macchiata dal tempo. Sul tavolo posto a circa sei metri dall'entrata vi erano una giacca ed una cartellina marrone chiaro, nel corridoio dirimpettaio a quel piano due figure alte controllavano una sponda per uno alla ricerca di qualcosa di preciso.

<< Non posso credere che sia già stata messa via.>> sbuffò Jonathan accucciandosi sulle ginocchia per controllare la seconda fila. << E non voglio neanche credere che siano già riusciti a farla sparire.>>
<< L'omicidio è avvenuto due settimane fa e la conclusione è stata decisamente veloce. >>
<< Sì, ma questo non vuol dire che debba già esser finita non si sa dove. Chi l'ha consegnata? Scommetto Lewis, lo sia che inverte il sei ed il nove? Potrebbe aver sbagliato tranquillamente data.>>
Alec sospirò, << Non ti chiederò perché sai questo di Simon- >>
<< Perché mia madre e Luke fanno schifo a matematica e toccava a me correggere i compiti di quel cretino e di Clary.>> disse ignorando palesemente le sue parole.
<< Ma sì, lo so. Sbagliò a prendere la candeline per i diciannove anni di Jace.>>
<< Ed è stato lui a portare la scatola delle prove qui.>>
<< Ed è stato lui a portare la scatola delle prove qui, sì.>>
<< Avremmo dovuto esaminarla prima.>> gli fece notare.
<< Scusa Morgenstern, ero troppo impegnato a dividere te e Magnus che vi lanciavate il cibo.>> fece sarcastico il moro passando alla fila successiva.
<< Ha cominciato lui con quella dannata carta, stava mangiando dei biscotti al cioccolato, hai una vaga idea di come sia diventato il fascicolo che stavo leggendo?>> gli chiese retorico.
<< Probabilmente come il mio visto che ero seduto affianco a te.>> sospirò. << Senti, non dovete essere amici, ma almeno cercate di collaborare, di non rallentarci. Non lavorerete mai assieme, di questo puoi star sicuro, ma quando sarete costretti a coesistere nella stessa stanza, cerca di trattenerti, dimostra chi è il poliziotto tra i due.>>
Jonathan si voltò a guardarlo con un sopracciglio alzato. << Dio… si vede proprio che sei fratello maggiore, queste sono le classiche stronzate sul “sii superiore, tu sei il più grande e bla bla bla” che ti sparano i genitori per farti smettere di litigare con i tuoi fratelli.>>
Alec annuì. << Esatto, vedi di accontentarti di questo e di darmi retta o finisci a fare un appostamento con lui e se uno dei due dovesse morire non sarà colpa mia.>>
<< Morirebbe lui.>> specificò supponente l'altro.
<< Sarebbe comunque una vittoria per l'inquinamento acustico mondiale, indipendentemente da chi morirebbe.>> rispose laconico.
L'altro alzò gli occhi al cielo e si poggiò con la schiena alla mobile. << Cosa c'era nella scatola?>>
<< Quella del ritrovamento del corpo? Nulla ovviamente, solo brandelli di tessuto e scartoffie.>>
<< E allora perché la cerchiamo?>>
<< Perché dobbiamo avere tutte le prove in mano. Se ti stai annoiando puoi andare a cercare quella dell'arresto del suo amico.>> si frugò nelle tasche dei pantaloni e ne estrasse un foglietto piegato con attenzione. << Settore F, 55-894- 02. 01- 15- 16. Hai una buona memoria o ti serve scritto?>>
Jonathan gli diede le spalle e si incamminò verso il settore indicato. << Buona memoria, ci sono stato anche io in volante a prendere le targhe al volo. In ogni caso siamo solo noi due, quindi se grido mi senti.>>
Alec alzò una mano come in un cenno d'assenso, anche se il compagno non poteva vederlo, e tolse un paio di scatole per controllare quelle che vi erano dietro.
Gli ci vollero una ventina di minuti e le ultime tre cifre del codice dell'altra scatola ripetuti ad alta voce a Jonathan che si ostinava a chiedergli “sicuro che è 94?” prima che entrambi si ritrovassero sul bancone iniziale, cartella firme alla mano e buona pazienza per iniziare a cercare tra le prove.
La scatola dell'omicidio di Potter era leggera e la maggior parte dei documenti al suo interno riportavano rinvii alla banca dati, all'archivio, al caso di scomparsa e alla più che voluminosa cartella di Starkweater, con annessa autorizzazione per esser consultata. Quella di Jonathan invece fu decisamente più fruttuosa e lì costrinse a tornare indietro a prendere anche le altre.

<< Ci sono dei mobili in deposito, ma sembrano puliti.>>
<< Possiamo mandarci Bane a guardare, il suo amico si intendeva di cose d'arte no?>>
<< Dubito che una cassettiera economica interessasse a Ragnor Fell.>> gli fece notare Alec in modo distratto.
<< No, ma scommetto che entrambi sapevano come modificare un mobile o dove cercare scomparti segreti. Non era un indagine molto importante, avranno aperto i cassetti e basta, non credi?>>
Alec annuì. << Tentar non nuoce. Trovato nulla?>>
<< A parte lo schifo? No. Tu?>>
<< Stessa cosa.>>
Il Tenente prese una serie di fogli di quaderno tenuti assieme con una graffetta e cominciò a sfogliarli, controllando attentamente che non vi fosse niente di sospetto.
Jonathan rimise nella scatola tutte le cose esaminate e la richiuse, afferrandola per le maniglie e tirandola su di peso.
<< Odio i drogati, mai una volta che si lasciassero scritto qualcosa di utile dietro, neanche un dannato appunto su quando devono vedere lo spacciatore e tutto questo per cosa? Una dose, scappare dalla realtà e vendere l'anima al diavolo per una vita di malessere e continua astinenza. Come si può vivere in questo modo?>> parlò con tono quasi disgustato, rivolgendosi ad Alec e a nessuno, ma il moro si voltò ugualmente a guardarlo con espressione seria.
<< C'è chi ci capita per errore, chi è così stupido da farlo perché lo dicono gli amici, chi lo fa per superare qualcosa o chi è costretto a prendere un farmaco e poi non riesce più a smettere. Si chiama “dipendenza” proprio per questo motivo, perché poi la tua vita dipende da quella sostanza.>>
<< Fa schifo lo stesso.>>
<< Non credi che sia un po' come fumare? Anche quella è una dipendenza.>> gli fece notare.
<< Sì, ma il fumo te lo vende lo Stato, c'è un mercato dietro, è difficile smettere perché te lo fanno vedere ovunque. La droga no. Quanto devi cadere in basso per affidare tutta la tua vita ad una sostanza che ti illude solo per un po' di non aver più problemi? Mi disgusta solo pensarci.>> Scosse la testa con una smorfia schifata e poi si voltò. << Vado a posare questa roba e prendere le ultime scatole.>>
Alec lo vide andare via, lo sguardo perso nel vuoto, a fissare la sua immagine senza guardarla veramente, senza aver nulla da rispondere davvero.
Già: quanto dovevi cadere in basso per diventare dipendente da qualcosa?

<< Non così tanto, purtroppo… >>

 
















Jonathan poggiò con mala grazia la scatola a terra e prese una delle tre che non avevano ancora esaminato. La tirò sino al bordo del ripiano ed aprì il coperchio per controllare che dentro vi fosse effettivamente qualcosa di utile o se avrebbe passato altri trenta minuti a paragonare liste, verbali e cianfrusaglia inutile. Scostò meglio in coperchio quando vide una scatoletta argentata con su impresso qualcosa: che fosse il simbolo della droga che vendeva? O forse del suo capo.
Afferrò quello che pareva un porta pastiglie e l'aprì premendo sul bottone centrale mezzo rotto.
Niente, tra i vari comparti non c'era niente, il disegno intravisto non era altro che un'ammaccatura.
Masticò una mazza imprecazione e sospirò stanco. Sapeva che Lightwood aveva chiesto a lui d'accompagnarlo a rivedere le prove perché era quello con più esperienza, ma in quel momento avrebbe tanto voluto cedere il suo posto a Lewis o magari a Bane. Ma avrebbero fatto solo più danni che altro, quindi gli toccava far valere la sua anzianità e beccarsi anche il lavoro tedioso come quello.
Ributtò la scatola di metallo dentro a quella di cartone, gettandovi anche un'occhiata quando vide qualcosa cadere a causa dell'urto. Un dado da gioco imbustato, un barattolo di vetro da prove con dentro quelli che parevano denti – e che Jonathan non aveva la minima intenzione di toccare- ed un paio di fogli scappati da una cartellina mal piegata. Tirò fuori i fogli per rimetterli in ordine, battendone il taglio inferiore sul bordo della scaffalatura, quando un fogliettino più piccolo scappò via, scivolando sul pavimento ed infilandosi sotto al ripiano della parete opposta.
Jonathan alzò di nuovo gli occhi al cielo, tendendoli fissi e minacciosi verso il soffitto di cemento.
<< Non sono un santo, ma infamate piccole così sono peggio di quelle grandi. Già lavoro con Bane, ma la vuoi dare una po' di tregua? Direi che quest'anno in quanto a Karma mi sono rimesso in paro, no?>> borbottò gettando i fogli sul piano e accucciandosi a terra per riprendere il foglio. Che poi, era solo un quadrato di carta, che male avrebbe fatto a lasciarlo lì? Magari era il biglietto da visita di qualche club, o i punti di qualche scatola. Si stava anche sporcando i pantaloni così, pensò inginocchiato sul pavimento con il braccio infilato sotto al mobile.
Toccò alla cieca il piano sporco e polveroso finché non sentì l'angolo ruvido di un cartoncino di carta. Esultò mentalmente e lo tirò fuori trascinandolo, storcendo la bocca quando si rese conto d'aver raccolto tutto il sudiciume che si era depositato sul terreno in quegli anni.
Si tirò su spolverandosi i pantaloni e poi cercando di pulire il quadrato di carta addosso alla rastrelliera, arrendendosi poi a doverlo fare con le dita.
Stava già maledicendo tutto quello che poteva venirgli in mente quando la sua mano si bloccò, così come i suoi occhi verdi fissi sul cartoncino, cupi come la boscaglia di notte.
Sul ritaglio di carta, spessa, ruvida, di un viola pesante e cupo, era stampata in rilievo, nera come l'inchiostro, una rosa mezza chiusa, perfettamente liscia ed in contrasto con la grana della carta. Non vi erano foglie, solo un singolo ramo curvato ad onda che nascondeva parte delle sue spine dietro ad un petalo più aperto.
Non vi era nient'altro. Non un nome, non una dicitura, un numero, un simbolo riconoscibile. Non era un locale, non era un'agenzia. Non era niente. Non era niente per chiunque avrebbe trovato quel pezzetto di carta ma non per lui.
Chiudendo la mano a pungo Jonathan chiuse anche gli occhi, ritrovandosi a ringraziare lo stesso cielo contro cui si era appena lamentato per aver fatto sì che trovasse quella cosa lì, da solo e non davanti ad Alexander.

Perché lo so, lo so che si sarebbe subito reso conto di qualcosa.

Riaprì gli occhi, una luce decisa traspariva dal suo sguardo.
Mise la scatola già controllata al suo posto e prese quella mezza aperta, mettendosela sotto braccio e marciando verso il tavolo dove l'attendeva il collega.
Alec non alzò la testa, china sulla lista degli oggetti ritrovati, ma lo sentì perfettamente arrivare.

<< Cominciavo a pensare che ti fossi perso. Credo di aver sentito un paio d'imprecazioni, che hai fatto?>> chiese senza davvero molto interesse.
Jonathan poggiò la scatola e prese la sua giacca. << Mi è quasi caduta una prova.>>
Solo a quel punto l'altro lo guardò. << Dove vai?>> chiese inizialmente, poi osservò meglio la sua espressione e si fece più serio. << Hai trovato qualcosa?>>
<< Che cazzo Lightwood, ma cos'hai? Il radar? Dio, se questa è tutta colpa dei tuoi fratelli sono davvero felice di averne una sola e di essere cresciuto quasi come un figlio unico.>>
<< Evita di fare ironia. Che hai trovato?>> domandò posando la penna e girandosi verso di lui con il busto.
Jonathan gonfiò i polmoni, quasi dovesse prendere coraggio per parlare.
<< Ho trovato qualcosa ma non so ancora cosa.>> ammise.
<< Cosa?>>
<< Non voglio creare aspettative ne metter ansia a nessuno. Controllerò e poi ti dirò, sto andando ora.>>
Alexander aggrottò le sopracciglia e fece per parlare, ma l'altro lo bloccò subito.
<< So che è chiedere tanto ma- fidati di me, solo questo.>>
Vi fu un attimo di silenzio tra di loro, poi il Tenente annuì.
<< Mi fido, portami dei risultati Morgenstern, nel bene o nel male.>> disse con voce ferma ed autoritaria.
Un ghignò divertito si aprì sul volto del detective della Crimine Organizzato, che sbuffò una risata nasale e scosse un poco la testa, facendosi scivolare sulla fronte i capelli fini e bianchi della frangia.
<< Sissignor Capitano.>> fece eseguendo un perfetto saluto militare.
Alec alzò un sopracciglio. << L'ho detto a Lewis e lo ripeto a te: non dirò “non ti ho sentito bene.”>> disse incrociando le braccia al petto.
Ignorando come sempre il commento dell'altro Morgenstern sogghignò più apertamente e ripeté a voce più alta e canzonatoria << SISSIGNOR CAPITANO!>> prima di pararsi con la mano dal pacchetto di filtri che il moro gli aveva lanciato in faccia.
<< Che fai? Tiri le prove?>> domandò raccogliendo l'oggetto e rilanciandolo.
<< Il prossimo sarà il portacenere di coccio se non sparisci dalla mia vista entro dieci secondi netti e non mi porti delle nuove.>>
<< Certo, tutto io devo fare, mi pare giusto.>> si lamentò dandogli le spalle e avviandosi verso l'uscita. << Firmi anche per me, vero Lightwood?>>
<< Sono io il capo, devo farlo per forza Morgenstern.>>
Jonathan gli sorrise divertito, se quel taglio strafottente che gli si apriva sul volto poteva esser reputato un sorriso. Ad Alec il novanta percento delle volte gli faceva venire solo una gran voglia di picchiarlo sino a fargli saltare tutti i denti, ma purtroppo era lui il più grande – e il più maturo anche- lì dentro.
<< E non fare danni! Se ci sono problemi chiamami. Chiama me! Non Simon!>>
<< Sono stronzo Lightwood, non stupido.>> gli urlò di rimando il biondo, ormai oltre il blocco e già a metà del corridoio che portava al Deposito Prove.
Alec lo osservò sparire dietro l'angolo e poi sospirò, poggiandosi con la schiena alla spalliera della sedia e massaggiandosi le tempie.
<< Meno male che almeno lo sa.>>












 

L'aereo di linea si fermò sulla pista con la stessa delicatezza con cui la donna si ritrovò a sospirare.
Camille osservò l'ambiente circostante senza troppo interesse, gli occhi chiari che vagavano placidi da un punto all'altro senza soffermarsi su nulla.
Attese che il portellone venisse aperto, la scala allineata e che i primi passeggeri comparissero sulla soglia dell'aereo.
Stretta nel suo cappotto cammello la bionda batté il piede a terra, la scarpa laccata color carne quasi scivolò sul piano liscio ma lei non ci fece caso. Si domandò piuttosto perché di tutti i voli che avrebbe potuto prendere Saint Cloud avesse deciso proprio per un banalissimo volo di linea. Aveva a disposizione Jet privati e compagnie degli emiri, tutto, eppure preferiva volare con la gente comune.

Come se chi di dovere non sapesse ugualmente quali sono i suoi spostamenti.

Non le interessava neanche quello alla fin fine, non le interessava nulla, rivedere quell'uomo dopo tutto quel tempo non era poi una delle cose che aspettava di più. Non che lo odiasse, sia ben chiaro, solo… le riportava alla mente brutti ricordi, le faceva dubitare anche delle sue stesse parole perché effettivamente, un poco forse, Camille l'aveva odiato e lo odiava ancora.
C'era stato un tempo in cui aveva adorato quell'uomo, lo Zio Cloud era stato il suo preferito, era stato l'uomo che le aveva permesso di arrivare in America e di farlo da sola, sul suo bell'aereo privato certo, ma senza la presenza opprimente dei suoi genitori o di troppe guardie. Solo un agente di scorta, il personale del jet e nulla di più. A lui Camille doveva la sua prima boccata di aria fresca ma era anche verso che, di controparte, era anche il responsabile di tutto ciò che era successo dopo proprio per lo stesso motivo per cui era anche il suo benefattore: Era stato Saint Cloud a convivere i sui a farla volare lì, era stato lui a dire a suo padre che “era un buon momento per farle conoscere l'ambiente”. Era stato lui a scegliere i ruoli di tutti, a dare ad ognuno di loro la propria posizione in quel palazzo di cristallo che più che una piramide pareva un castello pieno di torri e dislivelli.
Con la freddezza e la logica a Camille non c'era voluto molto per capire, razionalmente, che l'uomo non era stato il colpevole ed il fautore di tutti i suoi mali, ma era la parte emotiva quella che dava problemi, quella con cui non ci si poteva discutere.
La presenza alta e imponente di Louis le si palesò vicino con la furtività che la donna aveva sempre apprezzato in lui. Le sorrise con cortesia e l'avvisò che Saint Cloud era arrivato, che si stava già dirigendo verso l'auto.
Non se ne era accorta, troppo persa a fissare tutto e nulla, interessata ad ogni cosa e niente.
Annuì e lo seguì con aria quasi annoiata, quella classica dei ragazzini che non vogliono andare a salutare l'ospite appena arrivato ma che sono costretti a farlo, qualcosa che Camille credeva di essersi scrollata da dosso da molto tempo. Evidentemente certe cose non cambiavano mai.

<< Aspetta in macchina, vuoi un momento?>> gli chiese con la sua voce fredda e bassa.
Camille sospirò. << No, i cerotti vanno tolti con decisione o la pelle tirerà di più.>>
L'altro annuì. << Direttive?>>
<< Come sempre, Louis. Controlla che non ci siano intoppi e soprattutto tieni d'occhio tutte le macchine nere che vedi.>> disse secca incamminandosi verso l'uscita. Il suono dei suoi tacchi era assorbito dal vociare dell'aeroporto e quasi si domandò per quale diamine di motivo l'avesse fatta aspettare dentro la sala d'attesa quando invece di raggiungerla lì era andato direttamente alla macchina.
<< Sospetti dei Corvi?>> domandò Louis ma lei lo sentì a mala pena, fermandosi di colpo e voltandosi per guardarlo.
<< C'è l'autista?>>
<< Ovviamente.>>
<< È ancora in macchina?>> incalzò.
<< Sa come deve comportarsi, deve rimanere al suo posto, pronto per ogni evenienza.>> annuì.
Camille sogghigno. << Mandagli un messaggio, voglio sapere cosa sta facendo mio zio.>>
Louis la guardò accigliato ma non espresse in altro modo il suo stupore per quella richiesta. Erano anni che lavorava con Camille, da quando era ancora lì in America, ormai sapeva come si comportava, come pensava ed agiva e non gli fu troppo difficile capire cosa le passasse per la mente.
<< Pensi che stia contattando lui?>> domandò invece.
Uno sbuffo divertito ed un'occhiata complice. << Ha voluto che mi allontanassi dalla macchina, per quanto ne so potrebbe anche aver nascosto semplicemente una valigia più in fondo rispetto alle altre, ma mai dire mai.>>
Louis estrasse il telefono dalla tasca della giacca e digitò velocemente un messaggio conciso e breve.
<< Ci riferirà.>>
<< Perfetto, non diamogli più tempo di quanto non gliene abbiamo già concesso.>>

 

 














 

Simon infilò la chiave nella toppa della porta proprio nel momento in cui suonò il telefono. Clary, che se ne stava poggiata al muro con le mani occupate dai cartoni della pizza, alzò un sopracciglio come a volergli chiedere chi fosse a quell'ora.
Era passato a prenderla alla sede della L.E. dopo aver staccato dal lavoro, da quando l'amica era stata risucchiata nel vortice della nuova casa, ricerca di appartamenti, di possibili arredi e quant'altro, con la complicazione del nuovo lavoro, si erano visti sempre di meno. Poi era arrivato il Caso congiunto e allora le cose erano diventate ancora più difficili. Passare una serata assieme, solo loro due, come non facevano da tempo, era proprio ciò che serviva ad entrambi.

<< Sarà mamma, si sarà scordata di dirmi qualcosa, poi la richiamo.>> disse semplicemente tirandosi su lo zaino con un colpo di spalla prima che scivolasse a terra e riversasse lì tutto il suo contenuto.
Clary gli sorrise. << Non ti sei ancora imparata a chiuderlo quello zaino, eh?>>
<< E non imparerò mai a quest'età ormai. Sto invecchiando Clary, ormai sono quasi vicino ai primi capelli bianchi.>> fece melodrammatico, senza riuscire a nascondere il piccolo sorriso che gli era fiorito in volto.
La ragazza rise. << Certo, vecchissimo!>>
<< Ehi! Ho un quarto di secolo!>>
<< Anche io se è per questo, mi stai dicendo che sono vecchia?>> lo sfidò staccandosi dal muro e sporgendosi in avanti, minacciosa neanche un quarto di quello che voleva sembrare.
Simon si strinse nelle spalle. << Attenta Clary Fray, con i capelli rossi si vede subito se ce né uno bianco, io comincerei a cercare una tinta adatta.>> girò la chiave e spinse la porta, lasciando entrare l'altra che alzò il naso al soffitto e marciò indignata nel salotto per poi dirigersi in cucina.
<< Fingerò di non averti sentito.>>
<< Dovresti dirlo anche a Jace, rischia anche lui ma almeno essendo biondo si nota di meno. Ehi! Magari diventi come tuo fratello, ti immagini bianca-bianca?>>
Dalla cucina arrivò uno sbuffo sarcastico. << Giuro che se aggiungi un'altra parola faccio cadere la pizza su Chewbecca.>>
<< Poi ci litighi tu con Maya perché il tappeto ha una macchia?>> le domandò da lontano posando zaino e cappotto in camera.
La risposta che ebbe gli arrivò attutita e non la comprese, ma doveva essere qualcosa come “le spiegherò il perché e mi darà ragione”, quindi non si pose il problema di chiederle di ripetersi.
Andò a lavarsi le mani e quando tornò in salone Clary aveva già portato tutto e si era accomodata sul divano, prendendo possesso del telecomando e della TV.
Simon già sapeva che si sarebbero ritrovati a vedere per l'ennesima volta qualche film che conoscevano a memoria per poterlo criticare a piacimento e ripetere le battute assieme agli attori, gli veniva da sorridere solo al pensiero: una serata tranquilla, vecchio stile, come non ne passavano da troppo tempo. Era esattamente ciò che ci voleva.
Quello e un po' di sane chiacchiere da migliori amici.

<< Quindi mi stai dicendo che si sono messi a lanciarsi le carte?>> chiese Clary mandando giù l'ultimo sorso di birra.
Simon annuì. << Ad onor del vero ha cominciato Magnus, ma lo sai com'è fatto Jonathan, le cose non te le manda a dire e non si tira indietro se gli imbratti i documenti di briciole.>>
<< Già, ti ricordi quando ci ha buttato i compiti di matematica nel trita rifiuti perché avevamo poggiato le coppe del gelato sui suoi appunti di storia e glieli avevamo macchiati?>>
<< Diamine se non me lo ricordo! Abbiamo dovuto rifare tutto da capo! È stato crudele, neanche ci ha aiutati a rifarli!>>
<< Jon è così, dente per dente, fino all'osso.>> disse Clary scrollando le spalle. << Quindi come se la sta cavando a lavoro? Se glielo chiedo io mi dice “tutto bene” e non aggiunge altro. Se chiedo a Luke mi dice la stessa cosa ma… va davvero “tutto bene”?>> domandò poi con una nota d'apprensione nella voce.
Simon poteva capirla perfettamente: tra lui e Jonathan non c'era mai stato tutto questo grande amore, sapeva che il ragazzo l'aveva sopportato per una vita solo perché era il miglior amico della sua sorellina e che più che altro non era propriamente affetto quello che legava lui ed il primo dei fratelli Morgenstern. Jonathan era una persona particolare, forse perché a differenza di Clary lui era cresciuto con una madre e due
padri, forse perché aveva sempre sentito la mancanza di Valentine -malgrado fosse un mostro e tutto- e non aveva neanche mai accettato sino in fondo la presenza di Luke al fianco di sua madre, al posto di suo padre vicino a Clary. Rimaneva il fatto che fin da piccolo Jonathan aveva dimostrato “affetto” e “amicizia” per pochissime persone. Certo: era sempre stato circondato da amici a scuola e fuori, bello, popolare, ricco, affascinante e in grado di menar le mani come un qualunque teppistello all'evenienza per poi fare il volto da bravo bambino con adulti ed insegnanti, ma di amicizie vere Simon non sapeva quante se ne era portato dietro, se se ne era portate dietro. Jonathan aveva questo strano modo di dimostrare che ti voleva bene, o quanto meno che teneva a te: invece di abbracciarti, di dirti chiaramente quanto valessi per lui, di fartelo capire, se rientravi nelle sue grazie tu diventavi sua proprietà. Simon questa cosa l'aveva imparata ben presto, quando un biondino di circa sette anni aveva cominciato a lanciargli palle di neve in faccia o a calciargli il pallone addosso quando vedeva che Clary gli dedicava troppe attenzioni. Era sempre lei il motivo scatenante di ogni azione di Jonathan, non sopportava che sua sorella avesse occhi per qualcuno che non fosse lui e questo lo portava ad attaccare, ad annientare, chiunque si mettesse tra lui e lo sguardo adorante che la sorellina gli rivolgeva ogni giorno. Simon era malauguratamente una della barriere più comuni e quindi sempre obbiettivo del ragazzino. A conti fatti aveva capito cosa fosse il “bullismo” grazie alle magnifiche pallonate di Jonathan Christopher Morgenstern e alla sua gelosia per la sorella.
La cosa che più l'aveva sorpreso era stata però un'altra a cui non aveva fatto caso troppo presto e che ad esser sinceri era stata Rebecca a fargli notare. A parte il fatto che il ragazzino non lo maltrattasse mai troppo in presenza di sua sorella – piccolo stronzo furbo- Jonathan tendeva a diventare vagamente aggressivo ed intimidatorio se erano altri ad accanirsi su di lui. Era stato uno shock rendersene conto ma alla fine aveva capito: Jonathan dimostrava così quanto ci tenesse a te, insultandosi, facendoti capire che lui poteva distruggerti, che ti aveva in pungo, che ti conosceva meglio di chiunque altro, umiliandoti per farti capire che lui ti era superiore, ma arrabbiandosi in modo spaventoso se erano altri a far lo stesso.
Jonathan era un'incognita grandissima, era un controsenso vivente e Simon, così come Clary e come tutti gli altri, sapeva che non era una cosa positiva, che molti dei suoi comportamenti erano sbagliati, che sfioravano il malato forse, ma non voleva essere così drastico. In ogni caso sapeva che era particolare, che “era fatto così” e malgrado ciò non lo giustificasse minimamente per tutte le volte che l'aveva fatto volare a terra facendogli rompere gli occhiali Simon non poteva non tenere in conto anche tutte le volte in cui il ragazzo si era palesato alto e minaccioso contro quei ragazzini che lo tormentavano. Poteva ancora sentire la sua voce ringhiare un bassoNon vi azzardate a toccarlo, Lewis è mio”.
Un brivido d'inquietudine lo scosse a quel ricordo. Jonathan reputava lui, come tutte le altre persone della sua vita, di sua proprietà, un contorto ragionamento che lo portava a dire che lui poteva far di tutto a quelle persone – perché erano sue- ma che gli altri non dovevano neanche pensarci.
Gli venne naturale contrapporlo ad un'altra persone, che sorprendentemente faceva un ragionamento simile ma inverso: nessuno poteva toccare le persone che amava, nessuno poteva amarle perché già lo faceva lui.
Contorti, controversi, e controsensi. L'elenco delle parole non aveva molto senso forse, non era grammaticalmente corretto ma suonava bene e rendeva l'idea di quanto quelle due persone così diverse, come giorno e notte, vivessero la propria vita su una linea di condotta personale e personalissima: solo che Jonathan, con tutti i suoi atteggiamenti decisamente non “giusti” - il ché era un eufemismo- rendeva anche il solo contatto con lui del tutto spiacevole. Il ragazzo era come una pianta carnivora: sembrava bellissima e ti invogliava a toccarla, ma appena di poggiavi sulla parte rosea e carnosa della sua bocca stringeva i denti e ti azzannava senza pietà, avvelenandoti e rendendoti per sempre una sua preda.
L'altro invece era una pianta grassa: lo vedevi da lontano che non ti conveniva toccarlo, che non voleva essere toccato, che ti avrebbe ferito con spine grandi e acuminate. Non aveva bisogno di molta acqua, poteva sopportare temperature cocenti come solo le mattine del deserto potevano essere ed il freddo gelido che imperversava la notte, ma se avevi la pazienza di avvicinarti poco alla volta, con cautela, avresti assistito alla fioritura dei boccioli più incantevoli e grandi. Solo per un giorno, certo, ma sarebbero rimasti per sempre nei tuoi ricordi.
In quel momento, tutti quei pensieri che si stavano affollando veloci nella sua mente gli diedero quasi le vertigini, troppe considerazioni e troppi ricordi che si collegavano per fili sottili gli uni agli altri. Simon sorrise a Clary, che ancora lo fissava in attesa di una risposa, imponendosi di non vedere quanto Jonathan e Alec camminassero sul filo dello stesso precipizio, solo sporti verso baratri diversi, ma di tranquillizzare il più possibile l'amica. Renderla partecipe della somiglianza appena vista tra suo fratello ed un amico che, lo sapevano entrambi, per quanto fosse magnifico non era proprio il miglior modello di superamento felice dei traumi non gli pareva una cosa molto producente.
Cosa si diceva in quei casi? Perché non facevano dei corsi a scuola per arginare la logorrea mentale ed i flussi di coscienza e rimanere concentrati sull'argomento?

<< Se ti preoccupa che i suoi colleghi possano dire o fare qualcosa… >> iniziò titubante.
<< È esattamente quello di cui mi preoccupo.>>
<< Non siamo più a scuola, Clary.>>
<< Disse quello che finché non ha portato un detective pluripremiato al poligono è stato brutalmente preso in giro da dei mocciosi che si credevano più fighi di lui.>> lo fulminò con lo sguardo.
<< Sai com'è fatto tuo fratello, non permette a nessuno di mettergli i piedi in testa.>> provò ancora.
<< Non mi stai dicendo come lo trattano.>> gli fece notare innervosita.
<< Come sempre Clary, come sempre. Non lo so, non sono mai salito da lui da quando sono arrivato alla Omicidi, non so dirtelo. Posso invece dirti che da noi nessuno gli dice niente.>> le sorrise rassicurante.
Clary sbuffò e incrociò le braccia al petto. << Certo che no, c'è Alec che guarda tutti male. Dopo quello che è successo- >> si bloccò un attimo e poi sospirò << dopo quello che è successo con Valentine avranno paura che a farlo arrabbiare potrebbe sparar a tutti loro.>> terminò amareggiata, forse per il pensiero a quello che per la biologia era suo padre o forse per l'idea che la gente doveva essersi fatta del loro amico.
<< Nessuno pensa che Alec sia pericoloso.>> disse piano passandole un braccio attorno alle spalle e tirandosela contro. << Credo che abbiano molta più paura che il Capo Blackthorn s'incazzi perché hanno fatto saltare i nervi ad un neo Tenente che altro.>>
Clary annuì. << Quindi me lo sta trattando bene?>>
Simon sorrise alla sua amica: forse non si somigliavano molto fisicamente e caratterialmente, forse erano cresciuti assieme ma divisi, ma c'erano delle cose che Jonathan e Clarissa avevano come fotocopiate nel loro DNA. Che fosse l'arcata sopraccigliare, il sarcasmo cattivo e spietato che tiravano fuori quando erano messi con le spalle al muro, quell'ardore di spirito che non permetteva mai loro di smettere di provare o quello strano e contorto senso di protezione che avevano l'uno verso l'altra.
Perché anche la sua piccola e rossa amica era peculiare come il fratello, pronta a lasciar volare libera una persona certo, ma tenendola d'occhio, cercando di non abbandonarla, andando ad intromettersi poi anche contro la sua volontà per salvare la situazione.
Forse neanche se ne rendeva conto eppure lo faceva spesso, lo diceva spesso: quella è mia madre. Quello è mio fratello. Sei il mio migliore amico. Me lo sta trattando bene?
Simon si trovò di nuovo a paragonare uno dei due fratelli Morgenstern-Fray ad uno dei Lightwood. Gli tornò in mente la volta in cui Jace e Jonathan avevano fatto a pugni non sapendo che l'uno fosse il ragazzo e l'altro il fratello di Clary. Quando era arrivato Alec e li aveva divisi di peso, lanciando Jace a terra alle spalle e tirando uno spintone ben ponderato a Jonathan senza però fargli male, permettendo così ai docenti di trascinarli in direzione, Clary aveva iniziato una sequela infinita di domande come “Me lo fate vedere? È mio fratello. Ho il diritto di vedere come sta. Dovete farmelo vedere”, mentre Izzy si era limitata a chiedere “Come è conciato? Ce la fa a camminare o è ridotto troppo male?”. Era un paragone stupido, poteva capire che la mora fosse abituata a quelle situazioni e che al suo fianco avesse la presenza silenziosa ma rassicurante di Alec, eppure… eppure il timore che Clary aveva per Jonathan e che Jonathan aveva per Clary era quasi-

morboso.

Non voleva pensarlo, ma lo pensò.
Strinse un po' di più la ragazza e gli poggiò la guancia sulla testa.
Aver il continuo terrore di essere divisi dal proprio fratello doveva essere una cosa terribile, non sapeva come si sarebbe comportato lui se Rebecca, durante la loro infanzia, avesse passato la maggior parte del tempo a far avanti indietro da un'altra casa, da una vita che non condividevano e che non avrebbero mai potuto condividere.
Forse era quello il problema di tutto, forse era la paura di non vederlo tornare a casa, di perdere quel pezzo fondamentale della sua famiglia che mai avrebbe potuto tradirla. Perché Jocelyn e Lucian l'amavano come solo dei genitori sapevano fare, ma come Clary sapeva bene come purtroppo anche lui sapeva bene- spesso i genitori, mamma e papà, non rimanevano sempre vicino a te, spesso dovevano o decidevano di abbandonarti per tanti di quei motivi che gli sarebbe servita una vita per elencarli tutti, dai più seri ai più futili.
Ma Backy non l'aveva mai abbandonato finché non era stata sicura che ci fosse qualcun altro a prendersi cura di lui Alec, i ragazzi- e Clary, così come Jonathan, non avrebbe mai abbandonato il fratello se non avesse saputo che era al sicuro, che nessuno poteva fargli del male.

Ancora.

<< È Alec.>> disse solo.
Clary annuì. << Sai che Jon ha accettato di andare dallo psicologo dopo aver parlato con lui?>>
<< Di che ti stupisci? Riesce a far ragionare Jace e Izzy, tiene a bada Magnus, può convincere anche l'America ad eleggerlo come prossimo Presidente.>> sorrise cercando di alleggerire la tensione.
Anche lei lo fece. << Parli da amico o parla quella cotta latente che ti porti dietro da una vita?>> lo provocò girandosi nel suo abbraccio per pungolargli i fianchi.
Simon si ritrasse con un dignitosissimo urletto sorpreso, cercando di afferrare le mani piccole e veloci dell'amica.
<< La mia non è una cotta! È un'ossessione come ne avevo per Batman!>>
<< Questo non depone a tuo favore.>> gli fece notare mentre lui riusciva finalmente a bloccarle i polsi e le soffiava in faccia per dispetto. << A proposito di Magnus! Lui e Alec hanno risolto o si stanno ancora girando attorno come due cani?>>
<< Secondo me sono più gatti furastici.>>
<< Sì, come ti pare. Allora? Alec lo tiene ancora lontano? Jace dice che ha un mucchio di motivazioni valide dalla sua ma che quando ne hanno parlato ha comunque asserito che fossero un botto di cazzate per farlo smuovere.>> insistette Clary.
<< Diciamo che hanno chiarito, a modo loro. Alec gli ha messo delle regole tipo, tra cui una che riguarda contatto fisico e allusioni sessuali- >>
<< Come se Magnus potesse evitarle.>>
<< e poi ricominceranno tutto da capo. Letteralmente. Tipo che ripartono da prima della Casa Sicura.>>
Clary inarcò un sopracciglio. << Perché? Cos'è successo alla casa sicura?>> poi si bloccò. << Oddio. No. Non me lo dire! Allora non è un santo!>> saltò su facendo cadere le due bottiglie di birra vuote e continuando a saltellare sul poso. << LO SAPEVO! AAAAH! GRANDE ALEC!>>
Simon la guardò nel panico, incapace di arginare quel tornato rosso. Cosa poteva fare? Farle promettere di non dire mai ad Alec che l'aveva scoperto se no l'avrebbe ucciso? Di non dirlo neanche a Jace se no l'avrebbe detto ad Alec e allora l'avrebbe ucciso? Di non dirlo- Dio santissimo non voglia!- a Izzy se no l'avrebbe detto a Jace che poi l'avrebbe detto ad Alec che poi l'avrebbe ucciso?
Oddio, in tutti gli scenari moriva sempre e lo faceva sempre in malo modo e per mano di un Alexander incazzato nero.
Deglutì. Cosa poteva fare?
Mise su la sua miglior faccia contrita, non che in quel momento dovesse sforzarsi tanto, e pregò che qualcuno là su gliela mandasse buona per una volta.
<< Clary, Clary, ti prego, abbassa la voce. Non dirlo a nessuno. Se Alec scopre che sai che si sono baciati- >>
<< Baciati?>> La ragazza smise di saltare e si voltò di colpo verso di lui.
Interiormente Simon tirò un sospiro di sollievo e si appuntò di ringraziare Magnus e pure Alec stesso per quell'amabile lezione che gli avevano dato: non dire cazzate, non sei capace. Ometti, ometti sempre, non è mentire è solo non dire le cose completamente. Ometti.
Omettere aiuta sempre.
<< Solo baciati?>> chiese delusa.

Scusa Clary, questo è un segreto che probabilmente dovrò portarmi nella tomba.

Non prestò troppa attenzione a quello che l'amica stava dicendo, le sue lamentele sul fatto che neanche Alexander Lightwood potesse essere un monaco buddista – e Simon si astené dal dirle che i monaci non erano poi tutto questo esempio di purezza e simili ma che anzi, facevano anche di peggio- limitandosi a sorriderle e guardarla raccogliere le bottiglie e marciare verso la cucina, continuando a borbottare come una pentola.
<< Non mi porti più notizie emozionanti!>>
<< E tu passi troppo tempo con Jace! Alec ha ragione è una pettegola!>>
Sorrise e si chinò per prendere i cartoni della pizza quando vide il telefono abbandonato sul tappeto e si ricordò della telefonata.
Dannazione, se era sua madre chi l'avrebbe sentita? Erano quasi le undici e mezza, non era il caso di richiamarla in quel momento.
Sospirò, prese il telefono e andò in cucina, dandosi il cambio con l'amica che tornò in salone per buttarsi di peso sul divano e continuare la sua eterna lamentela.
Simon piegò i cartoni e li buttò nel secchio, poggiandosi poi con la schiena al ripiano dei fornelli e sbloccando il telefono.
Con sua grande sorpresa non fu il numero di sua madre a comparire tra le notifiche ma un numero sconosciuto che gli aveva lasciato un paio di messaggi. Aggrottò le sopracciglia e aprì la chat.
Un sorriso stupido e lievemente imbarazzato si aprì sul suo volto mentre scorreva quelle poche frasi, senza accorgersi che Clary era tornata da lui non sentendolo rispondere alle sue domande.

<< Sim? Tutto- oh.>>
A quello il ragazzo alzò lo sguardo incontrando gli occhi vispi e complici di Clary.
Dannata rossa, lo sapeva che gli bastava guardarlo in faccia per capire cosa pensava.
Clary incrociò le braccia la petto e sorrise maliziosa. << C'è niente di nuovo che dovresti dirmi?>>
<< Non era mamma la telefono.>> sorrise di rimando.
<< Questo l'avevo capito.>> sciolse la posa e scivolando scalza sul pavimento vecchio si avvicinò all'amico e lo prese per un polso. << Quindi? Chi ti chiama?>>
Simon si lasciò riportare in sala da pranzo senza opporre resistenza e senza riuscire a togliersi quel sorriso stupido dalla faccia. Guardò la giovane che aspettava paziente ed emozionata e si voltò meglio verso di lei per spiegarle tutto.
Clary lanciò un gridolino entusiasta, comprendendo i movimenti dell'altro e classificandoli come la preparazione ad un racconto abbastanza lungo, articolato e sicuramente frammentato da pensieri e sensazioni amplificate all'inverosimile, tra una risata ed una battuta stupida, proprio come facevano da piccoli, proprio come quella volta in cui aveva avuto il coraggio di chiedere un appuntamento ad Izzy e la sera era andato a dormire da lei per raccontarle cos'era successo.
Jace diceva che erano lui, Iz e suo padre il grande Triunvirato del gossip, ma anche lei e Simon non scherzavano se si parlava delle loro esperienze.
Senza contare che rivedere quel sorriso, quell'espressione imbarazzata ma felice sul volto del suo miglior amico le metteva addosso una felicità riflessa che forse non avrebbe dovuto provare o che forse era giusto e lecito che provasse. Non sapeva quale delle due opzioni fosse quella giusta ma non le importava davvero saperlo, le bastava veder Simon felice per esserlo anche lei, almeno un po'.

<< Te lo ricordi il Java, sì?>>
<< E chi se lo scorda!>> rispose lei annuendo con vigore, i ricci che le rimbalzavano sul volto e sulle spalle. << Dobbiamo tornarci un giorno di questi.>>
Anche Simon annuì. << Beh, pare che anche il Java non si sia dimenticato di noi, o per lo meno non si è dimenticato di me e dei ragazzi.>>
<< Non dirmi che c'è ancora qualche pazzo che si ricorda nei NinjaStereoDuck!>>
<< Più dei Panda a dir il vero, ma sì, c'è qualcuno… >>
<< Una ragazza?>> indovinò subito Clary.>>
<< Anche. Il barista all'inizio che poi è andato a chiamare una ragazza che lavora lì e che a quanto pare ci seguiva e che, beh… >>
<< Beh?>>
<< … a quanto dice lui aveva una cotta per il bassista… >> disse con voce falsamente vaga.
Clary scoppiò a ridere, intermezzando urletti divertiti ed eccitati, sporgendosi verso l'amico al suon di: << Adesso devi raccontarmi tutto!>>
Simon rise con lei, posò il telefono ripromettendosi di rispondere il giorno seguente a Maureen e dirle che sarebbe andato volentieri a prendere un caffè con lei.
Certo, magari prima avrebbe chiesto ad Alec se non era tipo illegale perché lei li aveva comunque “aiutati” in un certo senso, ma era più una conferma a ciò che sapeva già che cercava e Simon sapeva che avrebbe potuto andar a prendere tutti i caffè che voleva con quella ragazza.
Così, tra un'interruzione e l'altra, tra qualche vecchio aneddoto e domande su quanto fosse cambiato il locale, su come fosse questa Maureen, quando Jordan e Maya tornarono a casa, quasi alle tre di mattina, trovarono i due amici addormentati sul divano, la TV ormai in sten-by e le bottiglie di birra vuote ancora sul tavolo della cucina.
Jordan sorrise a quella vista e fece cenno a Maya di andare avanti.

<< Vado a prendere una coperta.>> mormorò la ragazza camminando in punta di piedi.
Il fidanzato annuì. << E io mando un messaggio a Luke e gli dico che la sua bambina dorme da noi.>>
Anche nel buio del corridoio Jordan riuscì a vedere il sorrisetto diverto di Maya mentre scuoteva la testa rassegnata.
<< Perché non abbiamo ancora una casa nostra ma già due bambini a carico?>> gli domandò flebile nel silenzio della casa.
Jordan si strinse nelle spalle inviando il messaggio e bloccando il telefono. << Per far pratica? Te l'ho mai detto che voglio tantissimi bambini? Anche adottati eh, non mi crea nessun problema, anzi. Però ne voglio tanti. Una cucciolata intera!>> sorrise andandole incontro mentre lei sistemava la coperta su due addormentati.
Maya scosse di nuovo la testa. << Sì, ma poi ci passi tu la notte in piedi, papà orso.>>

<< No, non orso, mi vedo più come un lupo. Che dici?>>
Con uno sbuffo sarcastico gli diede una spintarella e tornò verso la loro camera.
<< Basta che mi fai dormire e non ululi alla luna.>>
Jordan si trattenne a mala pena dallo scoppiare a ridere. Lanciò un ultimo sguardo agli amici e sorrise mesto nel vederli così rilassati e tranquilli, non riuscendo però a trattenersi dal posare una carezza affettuosa sulla testa di Simon, sporgendosi poi per togliergli gli occhiali e metterli al sicuro sul tavolo.
<< Beh, direi che non me la cavo male dopotutto, no? >>

Il sorriso pacifico che Simon gli restituì, nel sonno, valse più di qualunque assenso.

















 

Con le mani immerse nel cappotto scuro e lungo Jonathan rimase a fissare l'edificio degli anni settanta che si stagliava davanti a lui.
La strada non era vuota, c'erano delle macchine che passavano di tanto in tanto, qualcuno che usciva dal portone e se ne andava, qualcuno che entrava, ma non si poteva dire che ci fosse proprio vita.
Pareva una via come tutte le altre, alcune finestre delle case limitrofe erano accese, segno che qualche ritardatario era ancora impegnato nei propri affari o qualche sonnambulo non riusciva a dormire. Alle quattro di mattina, con tutta sincerità, sarebbe piaciuto anche a lui infilarsi sotto le coperte e di certo non c'avrebbe messo molto a sprofondare in un sonno dettato dalla stanchezza di quei giorni, ma purtroppo per lui da quando aveva trovato quel quadrato di carta non aveva fatto altro che rimbalzare da un angolo all'altro della città, rincorrendo informatori o amici che gli dovevano un favore, così come gente che sapeva qualcosa e che lui poteva facilmente convincere a parlare.
Alla fine era arrivato lì, davanti a quel palazzo apparentemente anonimo ma che Jonathan sapeva nascondere più segreti di quanto non desse a vedere.
Tirò fuori dalla tasca il cartoncino e lo fissò alla poca luce che gli giungeva, lì fermo vicino al muro, lontano dai coni di luce dei lampioni.
Non disse una parola, non lasciò neanche che il fiato caldo si spandesse nell'aria con una nuvola sbiadita.

 

A quanto apre il suo debito con il karma non era stato ripagato, non a sufficienza, ed il destino aveva deciso che per lui fosse arrivato il momento di scoperchiare definitivamente il suo Vaso di Pandora e dopo quello che aveva passato nell'anno precedente Jonathan era più che convinto di non essere ancora pronto per farlo, che fosse presto, troppo presto.

Ma forse, fosse stato per lui, il momento giusto non sarebbe mai arrivato.

 

 

Tra le dita fredde ed ossute, bianche come i suoi capelli, su un cartoncino viola pesto, la rosa nera lo fissava in silenzio.



































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Capitolo 12
*** Capitolo XII- Petali bruciati ***


Capitolo XII
Petali bruciati.






Due colpi secchi, il rumore sordo delle nocche che impattano contro una superficie solida.
Il suono si propagò per l'anticamera e poi per la sala, raggiungendo appena l'unica stanza occupata. Ci fu una pausa di pochi minuti e poi altri due colpi, in sequenza, più forti dei primi.
Nella camera una figura distesa mugugnò qualcosa, la voce soffocata dalla stoffa che gli copriva la bocca, il buio delle finestre chiuse e delle tende tirate che impedivano anche a qual si voglia stimolo luminoso di giungere all'occupante di quelle quattro mura.
Altri colpi, quattro, poi uno più pesante.
Ma nessuno poteva sentirli.







C'era stato un tempo in cui le strade di New York City erano state calcate da vere e proprie razze di diversa provenienza. Non ci si riferiva alle invasioni, ai coloni e agli stranieri, ma ad Americani, o persone che lo sarebbero diventate prima o poi, che si erano giurate fedeltà e sterminio sull'asfalto rovente e crepato della Grande Mela, sotto l'ombra dei palazzi popolari, dei mastodontici ponti e degli edifici storici.
C'era stato un tempo in cui vedere una vistosa pelliccia era stato sinonimo di Branco, vedere lunghi trench neri simbolo di Clan, vaporose vesti velate e fiorite indice di Popolo.Non era più così, non lo era dagli anni '80, quando Asmodeus aveva lasciato quelle terre per andare altrove, a gestire traffici più importanti, più pericolosi, più redditizi.
Alexei si sistemò con un gesto lento la cravatta attorno al collo, facendo attenzione a non tirar troppo il tessuto perfettamente stirato della camicia. Livellò i due lembi e compì le stesse mosse che ripeteva ogni mattina da anni: afferrò la parte più corta con la sinistra e la più lunga con la destra, le invertì. Passò la destra sopra la compagna e poi sotto, controllando che non si piegasse, poi un altro giro, l'indice sinistro premuto sopra il primo intreccio. Il lembo squadrato passò nel cappio e poi tra il primo ed il secondo giro di stoffa. Tirò con attenzione e sistemò il suo semplicissimo nodo, elegante e sobrio.
Il tessuto vinaccia, lucido di raso, brillò alla luce naturale che entrava nella stanza.
Gettò un occhio fuori dalla finestra, respirando piano: il cielo era di un azzurro tenue ma non prometteva neve, il che era già un enorme passo avanti.
Non aspettò che qualcuno entrasse nella stanza per avvertirlo che la macchina fosse arrivata, l'ora era quella prestabilita ed Alexei sapeva di poter contare su poche costanti nella vita, tra le quali rientrava la puntualità dei Corvi.
Scese ad agio le scale che l'avrebbero condotto fuori dal Club, lontano dai suoi collaboratori nella carrozza nera che l'attendeva con pazienza.
Lo accolse il silenzio della Hall, la sala vuota, il personale tutto indaffarato nei propri compiti. Non si sprecò d'avvertire qualcuno e a mala pena rivolse uno sguardo d'intesa al portiere.
Sotto il sole pallido di fine Marzo l'uomo s'avvicinò alla macchina di lusso, concedendosi un sorriso appena accennato quando vide chi gli stava tenendo la portiera aperta.
Un uomo adulto, anziano avrebbero detto altri, ma Alexei sapeva che solo otto anni li dividevano e quindi non aveva tutta questa gran voglia di etichettarlo come tale.
Alto e distinto, con i capelli grigi pettinati con cura, così come i baffi ed il pizzetto che gli copriva il mento. La pelle chiara era appena colorita dal freddo, il lungo cappotto nero ed opaco, di spesso panno felpato, gridava la sua appartenenza ad un determinato status così come un tempo avevano fatto i loro trench di pelle.
Indossava dei guanti bianchi, da maggiordomo, così tipici da identificarlo subito come la figura perfetta di un personaggio conosciuto. I suoi occhi erano schiariti dal tempo, li ricordava di un marrone denso, che infondevano sicurezza, efficienza. Era ancora così, ma ora sopra quella corteccia di quercia si era depositato uno strato di ghiaccio che la rendeva opaca.

<< Timothy. >> salutò solo l'uomo.
L'altro gli sorrise. << Alexei.>> fece un cenno con il capo e poi lo invitò a salire in macchina.





<< Hanno risposto tutti alla chiamata.>> asserì con sicurezza De Quincey, comodamente seduto sul sedile posteriore della vettura.
Davanti a lui Timothy stirò appena le labbra. << Avevi forse qualche dubbio?>>
<< Non mancano i pazzi a questo mondo. Ci sono persone che, come me, hanno risposto per educazione, chi l'ha fatto per fedeltà e chi per timore, ma non dubito che ci sia qualcuno così sciocco da sentirsi superiore e credere di poter evitare questo impaccio.>>
<< Tu l'avresti potuto evitare?>> domandò l'altro.
<< Se avessi voluto sì, ma perché perdermi lo spettacolo? Il nostro Clan è sempre stato in buoni rapporti con Asmodeus, fin dagli albori. Siamo ben organizzati, sappiamo come muoverci, possono crollare le torri ma questo non indebolirà le mura. Lo sai tu, lo so io, lo sa Asmodeus.>>
<< Posso concedertelo, ma sono ugualmente convinto del fatto che avrebbe trovato un modo per farti partecipare.>>
<< Con le buone o con le cattive, lo so. Ma non vado sottovalutato neanche io.>>
<< Assolutamente.>> sorrise gentile il maggiordomo.
Alexei scrutò quello che, ad occhio e croce, poteva definire suo amico, ma non disse null'altro. Lo ricordava ancora Tim, quando l'aveva conosciuto, quando era arrivato dall'Inghilterra negli anni sessanta. Ricordava quel giovane con i capelli scuri che gli arrivavano alle spalle, la frangia che oscurava a tratti la vista ed i perenni guanti senza dita indosso.
Aveva un'immagine impressa a fuoco nella mente, quella di un Tim di vent'anni che estraeva dalla tasca del giaccone un accendino argentato, sulla superficie impresso un disegno intricato che, ad oggi, sapeva perfettamente cose fosse ma al tempo non riuscì a cogliere.
Se lo vedeva ancora davanti mentre si chinava verso un ragazzetto poco più giovane, con un ciuffo sparato in aria di capelli neri e lucidi, permettendogli di accendere la sigaretta che teneva tra le labbra. Lo sguardo si concentrava sulla bocca del giovane, dove una macchia sbafata di rossetto segnava una linea verso il mento.
Le dita gentili e chiare di Tim erano andate a togliere con delicatezza quel residuo e Asmodeus – ancora Adam all'ora- gli aveva sorriso grato, gli occhi luminosi come quelli di tutti i giovani appena usciti dall'adolescenza e convinti di avere il mondo ai propri piedi, di averlo in pugno.
Solo che Adam non lo credeva semplicemente, lui lo progettava.
Ora quel ragazzino con una macchia di rossetto sul mento era un uomo che intimoriva interi Stati e che mai era stato catturato: il giovane che si prendeva cura di lui era un vecchietto che ancora stringeva saldamente tra le proprie mani le redini di tutti i cavalli del Principe.
Alexei passò la mano sul sedile senza neanche rendersene conto.
Tim era stato il loro guidatore, il loro “pilota”, quello che sfrecciava tra le strade con la sua macchina nera come un carro funebre, pronto a trasportare chiunque ovunque. Pronto a giungere in soccorso del suo capo ad un solo cenno, come una divinità pagana che faceva emergere la propria biga dalle ombre del sottosuolo.
Ne era passato di tempo, ne erano cambiate di cose. Non sapeva da quanto Timothy avesse smesso di guidare, quando avesse iniziato a sedere semplicemente vicino all'autista o al fianco del passeggero. Probabilmente quando Adam se n'era andato e solo il piccolo Magnus Bane era rimasto nella Grande Mela, forse aveva rinunciato al volante per tener compagnia a quel ragazzino sui sedili ora vuoti e silenziosi di quelle macchine troppo lussuose e troppo protette.

<< Siamo i primi a tornare ad Edom House, è cambiato qualcosa?>> chiese d'improvviso.
Timothy scosse la testa. << Assolutamente nulla.>>
<< Ci degnerà della sua presenza o se ne uscirà con un'altra stupida telefonata alla Charlie's Angels?>>
Ci furono lunghi minuti di silenzio, interrotti solo dai vaghi suoni che provenivano dall'esterno della vettura.
Poi un rumore indistinto, come d'aria che sfuggiva da una fine apertura. Sempre più forte, mentre Tim abbassava la testa e Alexei si apriva in un sorriso divertito.
<< Dio Tim, non avremmo mai dovuto fargli vedere quel dannatissimo telefilm.>> disse ghignando. L'altro non si trattenne più e scoppiò definitivamente a ridere. << Era il suo preferito, come avremmo potuto impedirlo?>>
<< Andò anche a letto con una delle attrici, no?>>
<< Andò a letto con tutte e tre e tutte rigorosamente vestite come i loro personaggi!>>
<< Era un fatish puro quello. Guardando indietro non mi sorprende minimamente di come sia venuto fuori il figlio!>>
<< Ci siamo illusi che il sangue di Ann avrebbe un po' mitigato quello di Adam, ma non ha minimamente funzionato.>>
I due continuarono a ridere allegri, come non succedeva loro da tanto, troppo tempo.
Fu Alexei il primo a riprendersi, cercando di scacciare dalla mente tutti i ricordi che per quanto piacevoli ora stonavano con le tinte cupe che stava prendendo quella storia.
<< Cos'ha in mente, Tim? Perché proprio ora?>> domandò a bassa voce.
Il sorriso sul volto dell'altro uomo si spinse ma non andò via, rimase una piega triste e pallida sotto i baffi chiari.
<< Credo che tu lo sappia, o quanto meno lo possa intuire.>> disse mesto.
<< Allora è vero? Ho sentito girare delle voci, molte voci, ma nessuna conferma definitiva. Volevo la tua parola.>>
<< L'hai avuta, Alexei, è esattamente quello che si dice in giro.>>
<< Questo è il motivo, è l'incipit della storia, ma la trama? >>
Timothy sospirò, sistemandosi i guanti bianchi col fare distratto di chi è abituato a ripetere da anni la stessa azione.
<< Purtroppo, la trama è la più vecchia del mondo. Due esseri si incontrano all'albore della loro vita ed intrecciano un qualche tipo di legame, non importa di che genere esso sia, l'importante è che questo li unisca inevitabilmente. Con il proseguire degli anni questi due esseri si dividono, finendo su fronti diversi, animati da spiriti e desideri diversi, o forse dal medesimo rielaborato con altre parole. Il tempo continua a scorrere, i due fanno la loro vita, creano il proprio impero, il proprio esercito, fino a quando non si giunge alla resa dei conti. Uno dei due inizia a spegnersi e l'altro capisce che è giunto il momento di tirare le somme e chiudere la partita.>> raccontò con la voce di un saggio cantastorie.
Ma Alexei queste cose le sapeva, le sapeva benissimo. C'era anche lui, quarant'anni prima, quando la storia era arrivata al bivio ed i protagonisti avevano scelto strade differenti, l'altro non gli aveva detto nulla di nuovo.
<< Vuole sacrificarci tutti?>> chiese con un fil di voce.
Tim scosse la testa. << No, Alexei, non vuole sacrificarci tutti. Vuole solo muoverci contro le pedine del suo nemico e vedere se saranno i nostri pedoni, le nostre torri, i nostri cavalli ed alfieri a cadere, o se saranno i suoi.>>
<< Ha così tante persone al suo seguito?>>
<< Ne ha poche ma devote e la devozione spesso è un'arma molto più potente della paura. Se chi ti comanda lo fa con il terrore non può non aspettarsi un tradimento alla prima buona occasione, ma se invece chi ti è servo lo è in modo devoto… >>
<< Questo servo farà di tutto per te, anche se non glielo chiederai.>> annuì mesto. << E il Clan è la prima fila a muovere.>> concluse.
Tim fece un cenno con la testa, accondiscendente. << Siete il gruppo meglio organizzato, siete anche il più stabile, per di più, l'uccellino di uno dei vostri luogotenenti è stato così stupido, o sfortunato, da ottener l'incarico di uccidere proprio Magnus Bane.>> fece notare con una strana inclinazione dura nella voce.
Alexei sorrise. << Mi pare che tuo nipote stia bene, che non si sia fatto neanche troppo male. So che deve la vita ad un poliziotto, e che poliziotto…ha tenuto testa a Morgenstern, ha scoperto il marcio che aveva coperto anni addietro. È stato davvero un peccato, per quel diavolo bianco, se solo Raphael fosse stato in affari anche al tempo… >>
<< Probabilmente non sarebbe morto nessuno. Rimane il fatto che uno dei vostri- >>
<< Non era dei nostri. Sai come funziona il Clan, ognuno pensa ai suoi famigliari, ognuno pensa alla sua bottega. Quel tipo, era uno degli uccellini della Rosa Nera.>> disse secco.
<< Oh, lo so, ne sono ben consapevole. È anche per questo che siete stati chiamati subito.>>
<< Quindi non mi sbagliavo, non è solo cortesia.>>
<< Anche. Avremmo dovuto disinfettare tutta la casa per convincervi ad entrare dopo il Branco.>>
Una smorfia schifata tirò le labbra dell'uomo. << Quella gentaglia. Sono persone di quel tipo che infangano i nostri commerci ed i nostri lavori, quelli che contrattano con chiunque, che non hanno uno stile, una morale...>> lasciò la frase in sospeso, come se non trovasse altre parole per definire quelle persone, ma Timothy sorrise divertito scuotendo piano la testa.
<< Perché Alexei, voi avete una morale?>> chiese beffardo.
<< Di certo ne abbiamo più di quei cani.>>
<< Certo, certo.>> fece l'altro alzando le mani in segno di resa. << Inizierete ugualmente voi, siete la prima e più scintillante pedina.>>
<< Non mi adulare. >> rispose stando al gioco. Reclinò leggermente la testa sino a poggiarla contro il sedile, la postura più rilassata, un curioso controsenso visto ciò che stava per chiedere al suo compagno. << Ma contro chi giochiamo? Chi è che l'altro ci muoverà contro per primo?>>
La macchina svoltò con un movimento fluido, Alexei avrebbe saputo dire con certezza dove fossero in quel momento ma non era ciò che gli interessava, non era il tempo che aveva ancora a disposizione per parlare con il vecchio amico e non lo era neanche il traffico della city.
Sul sedile davanti al suo Timothy intrecciò le dita, i guanti bianchi opposero una mera resistenza, una frizione che scivolò via sotto la forza della stretta delle falangi.
<< Questa, amico mio, è una domanda a cui non sarò io a rispondere.>






Nel grande ufficio arioso non c'era mai stata tutta la confusione che regnava in quel momento.
La porta era chiusa a chiave, vietando l'accesso a chiunque, persino per le questioni più urgenti. Non era professionale, non lo era minimamente, ma non le importava, non le importava nulla.
Aprì la cornice e quasi lanciò a terra il riquadro di sughero che teneva la fotografia ferma. Dopo di quello non vi era altro se non la liscia e bianca superficie plastificata, una scritta a penna un po' sbafata che recava l'anno, il luogo e le persone ritratte nella foto.
Con un moto di rabbia scagliò anche la parte in vetro contro il pavimento, il rumore della lastra che andava in frantumi non era nulla paragonato alla rabbia che le stava mondando dentro.
Non poteva essere, nessuno sapeva che aveva quelle fotocopie, nessuno sapeva che il Quaderno era stato duplicato, nessuno!
Ma invece qualcuno c'era, si era accorto del trucco ed era andato a recuperare il doppio. Ogni singolo nascondiglio era stato scovato, tutti i fogli rubati senza lasciar alcuna traccia.
Aveva controllato bene, eccome se l'aveva fatto: la maniglia della porta priva di graffi, la serratura non forzata, le finestre chiuse. Nessun altro documento era stato trafugato, il ché la diceva lunga sull'importanza che quei quattro fogli avevano per il ladro: si sarebbe potuto impossessare di informazioni riservate e pericolose, di accordi con criminali, di pagamenti indebiti, di scandali politici… invece aveva ignorato la sua scrivania e a colpo sicuro aveva trovato tutte le copie del Quaderno di Asmodeus, tutte, dalla prima all'ultima, tranne …
La donna sospirò pesantemente passandosi una mano sulla fronte e poggiando l'altra sul fianco. Rilassò la schiena lasciando che si ingobbisse sotto il peso della stanchezza, della frustrazione e dell'ira cocente che le stava bruciando in petto come fuoco vivo. Volse di poco la testa, senza abbandonare la sua posa, ma individuando subito quei fogli piegati in quattro che ora giacevano mezzi aperti sul piano di legno.
Gli anni '80. Tutto ciò che le rimaneva erano gli anni '80 della vita di un criminale raccolta per massimi capi e abbreviazioni al limite del possibile, piena di lettere puntate, di parole in altre lingue, di simboli che, palesemente, non potevano significare ciò che la gente comune attribuiva loro. La cosa più frustrante era che quegli anni erano anche gli unici che lei già conosceva, di cui sapeva di più.
Le era rimasto solo un ricordo striminzito e neanche lontanamente degno dei reali fatti accaduti di una vicenda che lei stessa aveva vissuto in prima persona.
No, a lei interessavano gli anni '70, le interessavano i '60, i '90 e gli anni 2000. Sì, perché su quel dannato quaderno c'erano anche gli albori di quel nuovo secolo che aveva promesso tanto e mantenuto praticamente nulla.
Espirò pesantemente dal naso e si piegò sulle ginocchia per recuperare la foto ora in frantumi.
Scostò con attenzione i frammenti di vetro e tirò su il foglio, girandolo per poter osservare personaggi di una vita passata usciti di scena da troppo tempo.
Un sorriso triste le tirò le labbra, un mormorio impercettibile che sarebbe potuto essere un ennesimo sospiro o uno “scusa” soffiato al nulla.
Non si curò di raccogliere la cornice, o di ammucchiare i vetri, si limitò a poggiare la foto sulla scrivania, vicino ai fogli mal piegati, e lanciare un'occhiata valutativa alla stanza: doveva decisamente mettere in ordine prima che qualcuno avesse bisogno di chiederle consiglio.
Avrebbe passato tutta la mattinata a rimettere a posto quelle carte con tutta probabilità, ma il fatto che fosse domenica l'aiutava in qualche modo. Sperava vivamente che nessuno l'andasse a cercare in ufficio, malgrado la presenza del Capo in un giorno feriale avrebbe potuto insospettire qualcuno.






Quando il cellulare aveva preso a vibrare Simon non aveva capito immediatamente cosa fosse successo. Poi si era ricordato improvvisamente della sveglia, posta alla spaventosa ora delle dieci di mattina di domenica, e se in un primo momento si era anche maledetto di averla impostata ben presto si era ricreduto ed era caracollato fuori dal letto alla velocità della luce.
Dei suoi coinquilini neanche l'ombra, ma Simon certo non li poteva biasimare: era il loro unico giorno libero, anzi, per Jordan non era neanche così scontato avere una domenica di pace, così come non sarebbe dovuto esser scontato per loro.

Ma stiamo seguendo un caso un po' così, che non necessita di correre dietro ad un assassino pronto a svanire nel nulla, quindi il nostro giorno di riposo settimanale ce lo possiamo anche prendere senza vergogna.

Lui, dal canto suo, aveva tutta l'intenzione di godersi a pieno quella giornata, iniziando nel migliore dei modi: doccia, colazione e poi un consulto telefonico con Clary per del sano trainig psicologico e per decidere cosa mettersi per quella sera.
Oh, sì, perché non voleva sbagliare, non ad un primo appuntamento.
Se quando era un adolescente con gli occhiali da nerd – che aveva ancora- e i segni dell'acne – che aveva ancora anche loro- gli avessero detto che una bella ragazza bionda, dal volto gentile, i modi timidi ed il sorriso imbarazzato gli avrebbe chiesto esplicitamente un appuntamento perché si era presa una sbandata per lui quando l'aveva visto suonare con i ragazzi un pezzo dei Beatles, beh… non c'avrebbe minimamente creduto. Ma tant'era che una bella ragazza bionda, dolce e timida gli aveva proprio chiesto un appuntamento perché aveva una cotta storica per lui dai tempi della band. Così adesso Simon si trovava sotto la doccia, tutto allegro e fischiettante, a prepararsi per quell'incontro inaspettato ma molto, molto gradito.
Da quanto tempo era che non usciva più con una ragazza? Che non ci usciva seriamente e non ci flirtava blandamente? Davvero troppo. Probabilmente da prima del Caso Fell, quando quella con cui si sentiva l'aveva piantato in asso perché non pensava fosso il tipo giusto per lei.
Già, Simon non aveva mai avuto troppa fortuna con le ragazze, non aveva avuto molta fortuna con le storie romantiche in generale: prima Clary, di cui era stato innamorato all'incirca dall'asilo sino ai suoi sedici anni, un tempo davvero notevole e ammirevole per cui sperava almeno di ricevere un riconoscimento, non diceva una medaglia o una coppa, ma diamine, almeno un attestato di resistenza!
Poi c'era stata Izzy, ma non prendersi una sbandata per Izzy era impossibile. Simon ci scommetteva che un tempo anche un giovane Jace si fosse detto che, se non fosse stata sua sorella, si sarebbe preso una mezza cotta per lei. I fratelli Lightwood erano schifosamente belli, tutti in modo diverso ed ugualmente affascinante: c'era lo sbruffone, il figo della situazione, quello bello e impossibile che aveva tutte ma non era di nessuno. C'era la pantera nera, ammaliatrice, sensuale e seduttiva, una dominatrice con la frusta ed i tacchi a spillo che si vestiva di un abitino bianco succinto con tanto d'aureola e ali piumate. E poi c'era il bello e tenebroso, quello scostante, intoccabile, su cui si vociferava tanto ma che nessuno aveva mai avuto il privilegio, la fortuna o anche solo la forza di sfiorare.
A pensarci a mente fredda Simon si domandava come avesse fatto a sbavare dietro ad Izzy e non anche ad Alec. A Jace era ovvio, si era posto subito come persona insopportabile, come uno di quei classici bulli che a scuola lo spingevano contro gli armadietti, ma Alec era pure un ninja!
Okay, forse era rimasto più colpito da Izzy perché aveva sedici anni e le tette di una di venti, ma quelli erano dettagli, la ragazza metteva sempre quelle magliettine così scollate, così aderenti… chissà come riusciva a passare sotto il naso di Maryse… e sotto quello di Alec anche. Un Alec che probabilmente era stato il principio e la cagione della sua bisessualità nel momento in cui aveva cominciato a frequentare loro due, anche se Simon cominciava a credere che interrogarsi sull'origine della propria sessualità e ragionare su cosa del suo amico – e capo- avrebbe potuto ispirarlo non era una buona idea. Non la mattina del giorno del suo appuntamento, no signore.
Forse avrebbe potuto parlarne con Magnus, insomma, lui c'era pure andato a letto con Alec, avrebbe capito la sua cotta platonica per il loro comune amico e ne avrebbe discusso con serietà e fervore. Ed una buona dose di malizia, ma poco contava.
Pensandoci si disse che non avevano mai finito, o anche iniziato, il discorso sulla sua bisessualità. Ad essere onesti Simon non poteva proprio definirsi bisessuale, sia perché non era mai stato con un uomo, sia perché quando gli si presentava l'occasione oltre a sbavare un po' dietro a muscoli e phisique du role aveva sempre preferito approcciarsi alle ragazze. Che fosse quindi bicurioso? Forse doveva definirsi così, sì, o magari etero insicuro. Oh! Al diavolo, che gliene poteva fregare di aver un etichetta? Insomma, sarebbe stato bello poter sfoggiare la propria bandiera al prossimo Pride, che non si sarebbe perso per niente al mondo perché ci sarebbe stata anche Sua Grazia Suprema, Sua Altezza Reale Phoebe Lightwood, ma questi, ancora una volta, non erano altro che dettagli. Avrebbe rubato la bandiera bi a Magnus, o se ne sarebbe comprato una sua… ma perché pensava a queste cose proprio il giorno in cui doveva uscire con Maureen Brown?
Sospirando pesantemente spense l'acqua e cercò a tentoni l'accappatoio fuori dalla doccia.
Dove diamine era? Eppure gli era parso di averlo lasciato sul lavandino…
Forse stava ragionando così tanto sulla propria sessualità solo per colpa di quella ragazza.
Era imbarazzante anche solo da pensare, ma se era davvero tanto che non usciva seriamente con qualcuno era altrettanto il tempo passato dall'ultima sana nottata di divertimento vissuta con un volto sconosciuto random.
A Simon non piaceva aver rapporti occasionali, si sentiva in difetto, in imbarazzo, non sapeva dove mettere le mani, se una cosa sarebbe stata gradita o meno, ma ogni tanto, un puro sfizio sessuale, ci stava. Solo che non faceva per lui, proprio no.
Certo, pensare al sesso ad un primo appuntamento non era proprio il massimo, non era certo Jace lui, e non pensava neanche che la dolce e timida Maureen fosse una del genere, però…
Sbatté la testa contro il muro piastrellato della doccia: doveva assolutamente chiamare Clary e farsi una chiacchierata come si deve con lei, di certo l'avrebbe aiutato a dissipare tutti quei dubbi e tutte quelle stupide fisime che gli stavano venendo.
Il panico da primo appuntamento non era proprio quello che gli serviva.
Sperava solo vivamente che non fosse con Jace…







Edom House era esattamente come se la ricordava. Pulita, linda, luminosa, perfetta.
Se si osservava con attenzione il pavimento si poteva quasi vedere il riflesso fumoso e sfocato di chi vi camminava sopra.
Alexei aveva passato anni in quella casa, accumulando giorni su giorni sino alla chiusura di quei battenti, all'abbandono del castello da parte del re.
Quando ciò era avvenuto il piccolo principino aveva lasciato da molto il nido paterno e si era ritirato nel suo attico a Brooklin, Greenpoint, non troppo lontano dalla casa base che invece si trovava dietro al grande parco del quartiere. Non c'era rimasto davvero nessuno ad abitare quelle mura così sfarzose e magnifiche, pregne di ricordi, di voci, di colori. Soprattutto il rosso.
La casa era stata comprata negli anni settanta, pronta ad ospitare quello che sarebbe diventato un impero senza precedenti nella storia di New York City, un regno sterminato fatto di patti di sangue e giuramenti di fedeltà eterna e servile. La ricordava vuota, sgombra di ogni mobilio, ricordava ancora i muratori portar via i loro attrezzi, il piastrellista posare l'ultima riga del mosaico della cucina, l'idraulico salire veloce la scalinata coperta di celofan per poter andar a controllare che le tubature fossero tutte pronte per il montaggio della vasca.
La ridicola vasca di Adam fatta a diamante. Dio...quanto ce lo avevano preso in giro, un enorme blocco di pietra viola. Erano tutti sicuri che avrebbe sfondato il pavimento e sarebbe crollata per tre piani sino al seminterrato. Lilith aveva riso così forte quando lui aveva chiesto ad Adam se almeno avesse fatto rinforzare il pavimento, con conseguente sguardo interrogativo dell'altro, che Tim aveva dovuto batterle una mano sulla schiena per non farla soffocare con la sua stessa saliva. Erano bei tempi quelli, a ricordarli così, quando tutti loro erano ancora giovani e pieni di vita, di idee, di speranze, di voglia di fare.
Volevano essere grandi, essere i migliori, diventare conosciuti, temuti, ottenere finalmente quel potere che non avevano avuto da piccoli, sollevasi dalla polvere, dalla miseria e dall'anonimato in cui erano nati e cresciuti.
Com'era finita poi?
I loro affarucci da niente si erano trasformati ben presto in qualcosa di importante, di serio, di pericoloso. Erano arrivati i primi ingaggi, i lavori in collaborazione, i rischi, le lotte, le perdite, la morte… ben presto quello sparuto gruppetto di ragazzini cresciuti nel Bronks, troppo vicini al Westchester e troppo lontani dalla scintillante Manhattan, immigrati in America come i clandestini durante la Seconda Guerra Mondiale, che per tutto quel tempo avevano fatto fronte comune, aveva iniziato a sciogliersi.
Lui e Tim erano i più grandi, era stato semplice, logico, se l'erano aspettato tutti che sarebbero stati i primi a trovare una propria professione, un proprio impiego, lontano dalla banda. Ma se lui era riuscito a comprare il suo Club, se era riuscito ad aver sotto di sé tutti quei collaboratori, a diventare il capo di sé stesso, Tim non aveva avuto il minimo interesse nel farlo.
La verità era che come tutti si erano aspettati che Alexei sarebbe stato il primo a volar via - “voli via dal nido, uccellino?”- tutti erano certi che Timothy mai e poi mai avrebbe lasciato il fianco di Adam. L'aveva protetto sin da quando era piccolo, non l'avrebbe abbandonato neanche quando sarebbe diventato il più potente uomo della terra. E così era stato.
C'era una nostalgia sottile e tetra che permeava quei pavimenti, le immagini che riflettevano non gli parevano quelle di chi vi camminava sopra ma i fantasmi di una vita passata, una vita in cui scappare e fregare la polizia era il gioco del venerdì sera, dove incontravi la pattuglia di turno e l'avvertivi che avrebbero trovato un cadavere perché qualche stronzo aveva avuto la cattiva idea di mettere le mani addosso alla donna del tuo amico e loro non facevano una piega. La giustizia legale era per la gente comune, la giustizia privata era per gente come loro, una semplice e mai scritta legge che tutti accettavano e rispettavano.
Poteva quasi vedere tutti coloro che negli anni si erano affrettati per quelle sale, per quei corridoi, dalla servitù ai membri dei vari gruppi. Se socchiudeva un po' gli occhi poteva vedere il riflesso di un uomo sulla trentina, pallido e stempiato, con i capelli cortissimi e gli occhi di ghiaccio, una croce appesa al collo ed una fialetta con il suo sangue subito appesa sotto.
L'anima maledetta di Dracula si aggirava per quelle stanze come quella di altri centinaia di dannati che avevano avuto la sfortuna di legarsi al Principe.
Se poi avesse gettato uno sguardo alle sue spalle, spiando quella porzione di lucido marmo con la coda degli occhi, avrebbe potuto vedere i passi infermi di un bambino che ben presto sarebbero diventati quelli insofferenti di un adolescente al cui seguito avrebbero trottato un ragazzo serio ed alto, una ragazzina albina, una piccola cinesina con un coltellino rosa in mano. Si sarebbe aggiunto il passo lento, cadenzato ma sicuro di un ragazzetto dai ricci neri, affiancato da un bel giovane biondo e da un'altra biondissima e bellissima ragazza stretta al braccio di questo. Dietro di loro li avrebbero seguiti una giovane donna dai capelli rossi, un giovane uomo dagli occhiali in corno ed il ciuffo castano striato di biondo. Avrebbe visto quella che si preannunciava essere la prossima grande guardia dell'Edom House. Quella che una mattina di primavera aveva distrutto brutalmente con un colpo al cuore di quel gruppo che tanto aveva promesso e che poi, un po' come loro, si era sciolto come la neve a Marzo.
Quanto aveva brillato nel loro futuro, quando di quell'oro scintillante non si era rivelato che mero riverbero di una luce infame ed ustionante.
Ma ora era lì e presto ogni cosa si sarebbe risolta. Forse era finalmente giunto il momento di dar pace agli spiriti, di lasciar riposare una volta per tutte i morti.
La porta di legno chiaro si aprì davanti a lui, i due battenti si schiusero rivelando la sala delle riunioni che spesso era stata luogo di gioie e di risa ma che ora emanava la stessa luce fredda delle cripte, lo stesso aroma fumoso di cera ed incenso, proprio come ci si sarebbe aspettati che fosse la tana di un demone, il luogo ideale dove accogliere una setta di vampiri, di creature oscure che scappavano la luce ed il calore, la gioia e la vita.
Figli della Notte pronti ad affrontare l'inizio di quell'alba.
L'inizio della fine.








Il locale era buio e silenzioso, erano giorni che non apriva le imposte e la cosa non lo infastidiva minimamente.
Aveva passato mesi interi rintanato in casa, nella sua camera ad esser precisi, quell'enorme sala di un ancor più enorme appartamento a due piani che era sempre sembrato troppo vuoto e che ora lo era davvero.
Sua madre gli aveva detto di venderlo, di usare i soldi che ne avrebbe ricavato per comprarsi un appartamento tutto suo, magari più piccolo, magari meno freddo ed asettico. Doveva averla guardata con un'occhiata davvero spaventosa perché la donna si era fatta piccola, chiudendosi nelle spalle ed abbassando la testa.
Non avrebbe mai venduto casa sua, i suoi ricordi, il suo passato. Non l'avrebbe fatto solo per liberarsi del fantasma di suo padre che ancora aleggiava su di lui.
Jonathan poteva giurare di sentirlo ancora, di vedere la sua ombra strisciare silenziosa sulle pareti del corridoio, lungo la scalinata che portava alle camere. Poteva sentire i suoi passi felpati in cucina e se fissava per abbastanza tempo la soglia della sua porta, sino a farsi sfocare la vista, poteva vederlo comparire lì con una tazza di caffè in mano, lasciargliela sul bordo del tavolo ed andarsene silenzioso com'era arrivato.
Mai una volta che lo avvertisse, mai una volta che volesse un grazie, pareva quasi che non volesse dimostrare troppo affetto, troppa attenzione. Non si voleva esporre suo padre, non voleva diventare come Lucian, ecco cosa.
Molte volte si era domandato come fosse stato l'uomo prima di tutto quel casino, prima che suo padre, suo nonno, morisse in quella cantina. Si era chiesto che vita avrebbe vissuto, come sarebbe stato, come sarebbe diventato. Erano tutti interrogativi a cui non avrebbe mai dato una risposta ma erano lì, che lo aspettavano nel buio delle ombre di quei mobili costosi e lucidi.
Nella casa c'era un vago odore stantio di alcol e polvere, residui dei suoi pasti precotti o del takeaway e– e l'odore di casa, l'odore che aveva sempre associato a sé stesso e suo padre.
Valentine era stato un bastardo senza possibilità di redenzione, aveva tradito la bandiera, aveva tradito la patria, il distintivo, i suoi amici.

Ha tradito me, era pronto ad uccidermi se mi fossi messo contro di lui.

Eppure non poteva far a meno di sentirne la mancanza.
Non voleva ammetterlo davanti a sua madre e sua sorella, non voleva dirlo a Lucian, non ne aveva parlato con nessuno dei suoi amici. Aveva spiccicato due parole in croce con Lightwood e qualcosa in più con il terapeuta ma… Dio, se ne vergognava così tanto. Gli mancava un criminale, gli mancava un assassino.
Seduto sul divano di pelle bianca, che aveva convinto lui suo padre a comprare, perché Valentine ne voleva uno in tessuto e soprattutto lo voleva verde, Jonathan si passò le mani sulla faccia e sospirò pesantemente. Non sapeva che ore fossero, non sapeva neanche se era già sorto il sole o meno, probabilmente sì. Se ne stava lì da un tempo indefinito a fissare quel rettangolino di carta con quella stupida rosa disegnata sopra.
L'aveva riconosciuta appena l'aveva vista, non l'avrebbe scambiata per nulla al mondo, neanche fosse stata fatta dalla mano di un grande artista.
In sé per sé la rosa era anche banale, la cosa che saltava di più all'occhio era la mancanza di foglie, ma per il resto nulla di eclatante: una stupidissima rosa fatta in grafica e stampata in rilievo su un cartoncino.
Una rosa nera.
Quanti anni erano passati? Davvero un'infinità visto che risaliva ai suoi tempi da agente semplice. Quasi sei anni prima. Una vita. Un tempo in cui tutto era diverso e nulla pareva sul punto di distruggersi, quando le crepe non si vedevano e neanche si intuivano ed il ghiaccio pareva più solido della terra stessa.
La sua prima azione come agente in prova alla OCCB, allora non era altro che un agente di pattuglia assegnato a supporto in previsione di entrare nella divisione giusta, quella che desiderava più di ogni altra.
Era stato così emozionato per tutto il tempo che persino suo padre gli aveva detto di darsi una calmata, ridendo in quel modo basso e quieto che gli era proprio. Il caso poi sembrava piuttosto semplice: un sito internet, ai suoi albori, che prometteva servigi di ogni tipo, compresi quelli che implicavano l'eliminazione di una persona.
A pensarci ora avrebbe dovuto far quel collegamento non appena si era iniziato a parlare di omicidi su commissione, ma la storia della rosa nera gli era passata completamente di mente, o forse aveva solo deciso di spingerla più in là possibile, nei meandri nel suo passato, per dimenticarla, per non dover più affrontare quei fantasmi.
Non era colpa sua, di questo Jonathan ne era perfettamente consapevole, lo sapeva con certezza anche perché non era stato lui ad indagare, non gli era stato permesso di far altro se non di eseguire gli ordini, vista la sua posizione poi, eppure… eppure gli pesava ancora, dopo tutti quegli anni ancora faceva male guardare indietro e rivivere quella notte, rivedere quel lago rosso su cui galleggiavano corpi esanimi e che inevitabilmente si collegava ad un'altra notte, dove sempre il sangue ed il pallore della morte avevano fatto da protagonisti.
Chiudendo gli occhi e facendo scrocchiare il collo con un suono sinistro e secco, Jonathan si impose di prendere un respiro profondo, come gli aveva insegnato il medico, e di far mente locare, di ricordare anche quello che non voleva ricordare perché sarebbe stato essenziale, tutto lo sarebbe stato.



Sei anni prima.



Aprile era agli sgoccioli, la giornate cominciavano a farsi sempre più calde ma il vento continuava a tirare freddo.
Sua sorella si lamentava in continuazione del fatto che il sole la illudesse, che si potesse star così caldi alla luce della stella maggiore ma che non appena si finiva all'ombra arrivava immediatamente il freddo. Ad esser onesti Jonathan non avrebbe però saputo dire se quelle lagne provenissero proprio da quell'anno o da altri, da tutti o da uno in particolare, Clary si lamentava sempre delle temperature, non gliene andava mai bene una e agognava sempre quella della stagione successiva. Anche se poi, arrivata quella tanto attesa, stava di nuovo lì a sbuffare perché il sole le faceva uscire troppe lentiggini, il sudore era insopportabile, si bruciava subito, quando poi finiva l'estate era tutto un piagnistero su come l'umidità le rendesse i capelli ancora più crespi, come la pioggia non cessasse mai, come le temperature si fossero abbassate troppo in fretta. Clary Fray e le stagioni non andavano d'accordo o più semplicemente a sua sorella piaceva lamentarsi di tutto, anche se all'apparenza non sembrava e si spacciava per una piccola ed adorabile fatina dei boschi.

Jonathan sospirò scuotendo la testa, infastidito dal ricordo della voce petulante della ragazza che gli perforava il timpano dal telefono.

<< I miei capelli sono un disastro! Perché deve piovere così tanto? Sai come diventano i miei ricci? Non è giusto, perché sono stata l'unica ad ereditarli?>>

Ringraziando il cielo! avrebbe voluto urlargli, se fosse toccato a lui avere i capelli della madre sarebbe sembrato un ballerino da disco dance, o un putto, dipendeva dai punti di vista.
Come per rassicurarsi su quei pensieri si passò una mano tra la zazzera perfettamente liscia e setosa, appena lavata e pronta per ospitare il cappello blu della sua divisa da agente.
Malgrado le lamentele della sorella, quelle giornate per lui era davvero importanti, che piovesse o ci fosse il sole, erano la sua prova, la prova generale per vedere se sarebbe potuto finalmente entrare nella Crimine Organizzato.
Era da più di due settimane che girava per la città cercando informazioni utili, guidando come un autista professionista per detective e agenti di grado superiore. Gli piaceva farlo? Non molto.
L'avrebbe comunque fatto? Certo che sì.
Alla gavetta non si scappa, glielo ripeteva anche suo padre e se lo diceva lui…
Jonathan sorrise al suo riflesso nello specchio, raddrizzando la targhetta con il suo nome, già perfettamente dritta, e aprendo ancora di più le spalle, preso da un moto d'orgoglio.
Stava lavorando per ottenere il lavoro dei suoi sogni, non poteva che esserne fiero, malgrado la fatica e i compiti del tutto inutili che gli venivano affidati. E nessuno poteva dire che non stesse dando il suo meglio o che fosse avvantaggiato: si era ritrovato a portare fotocopie, a preparare caffè, a fare tutto ciò che ogni agente avrebbe fatto, non era un privilegiato, o meglio, lo era di certo, ma faceva ugualmente tutto ciò che gli chiedevano. Non aveva ricevuto nessuna grazia, nessun calcio in culo per arrivare dove voleva, se lo stava guadagnando, con le sue sole forze, non con una raccomandazione di suo padre o del suo patrigno, era solo merito suo.
Un'altra ventata di puro orgoglio gli smosse il petto e fece allargare il suo sorriso.
Sì, stava andando dove sarebbe voluto rimanere per sempre, quella non era altro che la prima parete su sui si sarebbe arrampicato per arrivare al suo obiettivo.

Peccato che non avesse messo in conto quanto fosse pericolosa la scalata, quanti alpinisti, anche esperti, erano caduti e sarebbero continuati a cadere nella continua lotta contro la gravità, le intemperie e la malvagità umana.

I problemi erano iniziati con il ritrovamento di un corpo un un vicolo di Red Hook, Brooklin.
A primo impatto non era parso nulla di strano, il cadavere era di un maschio bianco, trentadue anni, un uomo anonimo, che lavorava in un grande magazzino come contabile da circa cinque anni. Non aveva precedenti se non qualche multa per aver parcheggiato nel posto sbagliato ed una per esser passato con il rosso. Non era sposato, si vedeva con una ragazza ma non era ancora nulla di serio, non aveva figli, non aveva problemi finanziari, era una persona nella norma, che guidava una macchina di seconda mano e metteva da parte i soldi per andare in vacanza. Non aveva nemici, non aveva avuto problemi con gente poco raccomandabile… eppure era steso a terra, il torace crivellato di colpi, portafogli, soldi, carta di credito, documenti, tutto era al suo posto.
I detective della Omicidi erano stati piuttosto chiari a riguardo, le uniche opzioni che avevano erano tre: o il ragazzo era capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato, magari scambiato per un altro; o era stata la vittima di un'iniziazione di qualche gang del luogo; o senza rendersene conto aveva fatto un torto a qualche pazzo.
La storia della rapina finita male era ovviamente da escludere visto che nessuno dei beni della vittima era stato preso. Era da escludersi anche una resa dei conti, il ragazzo non era un drogato che doveva soldi allo spacciatore. Avrebbero indagato in modo più approfondito ma il Detective lo escludeva.
Non poteva essere un serial killer?

<< Un serial killer? No ragazzo, non penso, o per lo meno al momento non abbiamo in mano prove che lo dimostrino, né per quanto riguarda la vittima né per crimini avvenuti nelle vicinanze. Di casi simili ce ne sono a milioni purtroppo ma per nostra fortuna non stiamo parlando di un pazzo che va in giro ad ammazzare gente per gusto.>> aveva detto l'uomo.
<< E su commissione, invece?>>
Berry Petter, un Tenente di quelli con i fiocchi a sentir in giro, aveva buttato lì la domanda come se fosse stata del tutto casuale, ma Jonathan aveva imparato, e sicuramente così avevano fatto anche tutti gli altri agenti che avevano avuto il piacere di conoscere l'uomo, che quanto il Tenente Petter ipotizzava qualcosa, lanciava una parola nel vento, era meglio prestagli ascolto.

Di lì a poco la caccia ad un assassino si era trasformata in qualcosa che nessuno di loro si sarebbe mai aspettato e che costrinse la Omicidi a cedere il caso alla OCCB.
Davanti agli occhi degli agenti della Crimine Organizzato si era svelata una fitta trama di contatti informatici, nascosti nelle profondità di quello che qualcuno chiamava deepweb e che agli agenti più anziani non piaceva per niente. L'idea di una rete di criminali che si tenevano in contatto tramite siti internet a cui era difficile accedere, che nessuno conosceva e che permetteva loro anonimato e sicurezza aveva gettato nel panico non poche persone.
Era la prima volta che una cosa del genere accadeva? No, certo che no, ma se ne era sempre sentito parlare in modo astratto, quasi come fosse una leggenda metropolitana. Nell'epoca in cui il mondo informatico diventava più forte ogni giorno forse non si era ancora ben capito quanto questo grandissimo meccanismo avrebbe potuto portar del male assieme a tutto il bene che già aveva fatto. Jonathan non se ne interessava poi molto, era nato al passo con la tecnologia, aveva studiato, imparato ad usare un computer, ma attualmente ciò che più gli premeva era entrare in azione, scoprire chi fossero i membri di questo sito, del “Night's Children”, che sfoggiava temi scuri ed icone semplici, stupide immagini di profilo con riproduzioni caricaturali di vampiri fatti di pixel bianchi e goccioline di sangue che apparivano e scomparivano ad intermittenza. Non gli interessava tanto il catalogo delle offerte, voleva i clienti ed i venditori.
Per giorni aveva ascoltato rapito ed affascinato le ipotesi dei suoi superiori, aveva osservato ogni singolo movimento, ogni parola, si era comportato come un vero agente della OCCB avrebbe dovuto fare, era stato esemplare ed aveva seguito gli ordini con una puntualità ed uno zelo che non erano passati inosservati.
Forse, si sarebbe detto in seguito, se all'ora non fosse stato così intraprendente, se non fosse stato l'agente perfetto, non sarebbe finito lì quella notte, non l'avrebbero scelto come agente di supporto, non avrebbe visto quello che aveva visto, non avrebbe provato la cocente e dolorosa sensazione della sconfitta, della distruzione totale del proprio lavoro, non avrebbe morso la polvere e non avrebbe mai assaggiato il sapore del sangue. Forse se non fosse stato l'agente perfetto non gli avrebbero concesso quel privilegio, forse non avrebbe mai visto quella dannata rosa, forse non avrebbe mai serbato nella mente quel ricordo così preciso, così fresco.
Ma le cose non vanno mai come dovrebbero.

Quella notte del 28 Aprile Jonathan non sarebbe neanche dovuto esser in servizio.
Aveva avuto il turno di mattina, dalle sei alle cinque, preciso come un orologio svizzero e ad esser onesti cominciava a sentire il peso della giornata sulle spalle.
Suo padre si era affacciato in ufficio solo per chiedergli come stesse andando, una cosa che succedeva di rado vista l'alta possibilità di incontrare Lucian per quei corridoi. Che i due avessero litigato era cosa risaputa, ma Jonathan non aveva mai ottenuto una risposta sufficientemente appropriata, solo vaghi rimandi ad un caso troppo pesante, che aveva mandato in fumo la vita di molti. Se ci si aggiungeva il fatto che Luke e Valentine erano stati migliori amici, che il primo aveva fatto da testimone al matrimonio del secondo con la donna con cui poi si sarebbe sposato lui anni addietro… beh, Jon era rimasto piacevolmente sorpreso dalla visita del padre e sapere tutte quelle cose, tutte quelle informazioni al momento inutili, rendeva solo più speciale il gesto dell'uomo. E non c'entrava nulla quella piccola scintilla di boriosa soddisfazione che gli aveva fatto pensare che suo padre facesse certe cose solo per lui e non per sua sorella; non era più un bambino di dieci anni che gongola perché è il preferito di uno dei genitori, doveva lasciar perdere quegli stupidi pensieri infantili e decidersi ad andare a casa, in tempo per la cena che Valentine si era proposto di fare lui stesso, evento davvero raro visto quanto fosse maniacalmente perfezionista l'uomo in cucina e quanto questo portasse a tempi di realizzazione lunghissimi. Per fortuna suo padre se ne era andato due ore prima di lui.

<< C'è una buona possibilità che oggi riesca a mangiare prima delle dieci.>> aveva detto con un ghigno divertito al suo collega.
Il giovane aveva ridacchiato aprendo la porta dell'ufficio. << Non so se mi diverta più l'idea di te che aspetti la cena con il broncio di un poppante affamato o immaginare il Vice Commissario che prepara la cena e si incazza se sbaglia di qualche grammo una dose.>>
Jonathan avrebbe voluto replicare dicendogli che sicuramente era molto più divertente vedere suo padre minacciare di morte la bilancia o domandare con un filo di voce alla carne perché fosse così ostinata a perdersi la panatura, ma fu interrotto dal suono secco della porta antincendio che si spalancava.
Direttamente dalla tromba delle scale uscì un ragazzetto affannato, la divisa da recluta stropicciata dalla corsa. Percorse a gran velocità il corridoio fiondandosi nella stanza del Capo Garroway senza neanche bussare e se tutto il casino che aveva fatto non era bastato ad attirare l'attenzione su di sé, quell'unico gesto così insubordinato ebbe il potere di congelare l'intero piano.
Pochi minuti, voci concitate ma non abbastanza alte da essere intese, poi la porta dell'ufficio si era spalancata di nuovo e Lucian Garroway era apparso sulla soglia come un militare pronto all'assalto, la posa rigida delle spalle, il petto ampio a tirar la camicia chiara e lo sguardo duro e deciso.

<< Tutti coloro che si stanno occupando del caso del Night's Children, chiamate a casa e dite che farete tardi, abbiamo una pista.>>



Una soffiata, era questo che avevano ricevuto. Il ragazzo aveva avuto la sfortuna di capitare al reparto mobile nel momento in cui una delle volanti aveva telefonato per avvertire della cosa.
Avevano arrestato un teppistello di una banda locale più che nota, gente abituata ad entrare ed uscire di prigione almeno due volte a settimana festivi compresi. Il giovane doveva aver sentito qualcosa, lo stralcio di una conversazione tra i due poliziotti che aspettavano rinforzi per poterlo portare alla centrale, e a quanto pareva aveva deciso di buttar finalmente un fiammifero su quella scia di benzina che il caso del sito internet stava lasciando dietro di sé da mesi.
Visti gli interessi della banda probabilmente quei “Night's Children” dovevano esser loro rivali, in ogni caso l'arrestato aveva gentilmente e candidamente consigliato alla polizia di mandare delle pattuglie a Murray Hill, nel Queens, e di farlo anche piuttosto in fretta: se fossero arrivati in tempo avrebbero potuto vedere con i loro occhi uno dei “bambini della Notte” in azione.
Tutte le volanti della zona, con personale qualificato ad ogni evenienza, quindi con i più alti in grado, erano state dirottate verso il quartiere indicato per aver conferma della soffiata ed accertarsi che non fosse solo una trovata per allontanare gli agenti da possibili zone calde. Il fatto che Lucian avesse ordinato a tutti di recarsi nella zona era stato piuttosto indicativo.
Quando Jonathan era salito in macchina non aveva pensato neanche per un secondo di avvisare suo padre: Valentine probabilmente aveva saputo della cosa prima ancora del suo Capo, alzare la cornetta sarebbe stato solo uno spreco di tempo.

<< Almeno quanto tornerai a casa sarai sicuro di aver la cena pronta.>> aveva scherzato il suo amico.
In quel momento Jon gli aveva sorriso divertito.
Qualche ora dopo avrebbe preferito rimaner a digiuno per settimane.



Erano arrivati sul luogo in venti minuti scarsi, correndo come matti per le strade della città ad un orario in cui tutti staccavano dal lavoro e tornavano a casa. Era un momento propizio quello, c'era più gente del dovuto in giro ma il risvolto positivo dell'aver così tanti occhi ed orecchie a disposizione era anche quello di generare disordine ordinato, flussi di persone che seguivano le linee guida delle arterie stradali per ritornare in centro o uscirvene. Jon aveva imprecato a mezza bocca ed il Sergente seduto di fianco a lui, uno dei principali detective di quel caso, aveva annuito concorde. Il suo collega, sul sedile posteriore, aveva rincarato la dose quando la radio aveva cominciato a gracchiare ordini di spartizione degli agenti.

<< La prossima a destra, Agente, veloce, con la sirena accesa ce lo perdoneranno un rosso ignorato.>>

Un altro rumore gracchiante e dal centro di comando avvertirono di una possibile sparatoria in corso nella zona.
Jonathan pigiò il piede sull'acceleratore e sfrecciò via sulla strada trafficata, i suoni dei clacson a seguirlo come la scia delle grida indignate lanciate dai guidatori. In quel momento lo scontento dei cittadini era l'ultimo dei loro problemi.

Come si fosse ritrovato dal superare una berlina bianca che gli aveva fatto un dito medio molto poco elegantemente, al ritrovarsi in un vicolo secondario di Murray Hill, circondato da case apparentemente tranquille e del tutto normali, Jonathan non l'aveva capito. Gli mancava il passaggio dall'essersi fermato vicino ad una delle volanti già presenti, tre, al momento in cui si era accucciato dietro allo sportello aperto della propria macchina per evitare dei proiettili vaganti.
Nella penombra del pomeriggio, stesi sull'asfalto freddo e macchiato di rosso, ben quattro poliziotti apparivano immobili.
Era una scia di cadaveri che portava fin dentro ad una casa a tre piani, con i muri azzurrini ed il tetto bianco. Le luci nell'abitazione erano spente, le tende tirate così come quelle degli edifici vicini. Jonathan aveva riflettuto al volo sull'opzione di andare a controllare che nessuno del vicinato fosse ferito o uscisse di casa, ma aveva sperato anche nel buon senso della gente e nel rumore sordo e penetrante di colpi d'arma da fuoco provenienti da quella piccola villetta innocente.
Aveva parcheggiato velocemente, la macchina di traverso per ostruire maggiormente la strada, aveva staccato le chiavi dal quadro senza neanche tirare il freno a mano ed era uscito dalla vettura con già la mano sulla pistola e la fondina aperta.
Avrebbero dovuto aspettare rinforzi, la SWAT magari, ma il Sergente ordinò loro di star in guardia e coprirgli le spalle mentre lui si avvicinava per controllare i corpi a terra.
Ciò che ne era conseguito era avvenuto in un battito di ciglia. La porta principale si era spalancata, una forma indefinita si era affacciata sulla soglia ed uno scintillio cupo aveva preannunciato lo scoppio del proiettile che aveva preso alla nuca l'uomo.
Il susseguirsi d'eventi era stato fulmineo, l'altro Sergente aveva ordinato di chiamare rinforzi, aveva alzato la pistola e sparato sicuro verso l'aggressore, costringendolo a rientrare in casa e chiudersi con forza la porta alle spalle.
Jonathan era scattato in avanti, pronto a soccorrere il suo superiore malgrado sapesse già che non ci fosse più niente da fare. Il suo collega invece era corso alla radio, chiedendo immediato supporto, la voce piena di un panico che non avrebbe dovuto provare ma in cui ogni persona sarebbe caduta alla vista di quella carneficina.

<< Morgenstern!>> tuonò l'altro. << Copri l'uscita posteriore, non possiamo lasciare che quel bastardo scappi!>> nella sua voce si poteva sentire tutta la rabbia, la frustrazione ed il dolore di qualcuno che aveva appena perso un amico caro, più di uno. << Non muoverti per nessun motivo al mondo, non lasciar passare nessuno e se quel figlio di puttana esce, spara per uccidere. >> concluse con ferocia.
Senza neanche rispondere Jonathan era corso sul retro, i piedi ben piazzati a terra e la pistola puntata contro la porta perfettamente illesa.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, se il Sergente avesse deciso di fare irruzione o aspettare i rinforzi.
Ciò che avrebbe ricordato per il resto della sua vita sarebbe stato la sequenza di colpi, troppi, forse di una semiautomatica. Aveva sentito i brividi scuotergli i muscoli, aveva visto la pistola tremare leggermente ed aveva rafforzato la presa. Respiri profondi e lenti, svuotare i polmoni prima di sparare, tenere gli occhi puntati sull'uscita.
Urla, non capì se del Sergente o del suo collega e poi dei movimenti, passi che si avvicinavano alla sua postazione. Subito dopo la porta si aprì e quando gli venne chiesto Jonathan non seppe dire cosa avesse detto in quel momento, se avesse intimato all'uomo di fermarsi o se avesse fatto fuoco nell'immediato.
Un colpo secco gli arrivò alla testa, sopra l'orecchio, fu così violento che un attimo prima premeva il grilletto e l'attimo dopo era a terra, una figura scura ad incombere sopra di lui.
<< È ancora vivo?>>
<< Sì, ho lisciato la tempia, deve essersi mosso per sparare.>>
<< Quello che è, finisci il lavoro.>>

Erano più di uno? Quindi il bastardo era rientrato per chiedere aiuto, per chiamare i suoi. Allora era vero, erano un'organizzazione ben strutturata, non erano dei criminali di bassa categoria.
Le loro voci sembravano abbastanza giovani, potevano avere la sua età, forse qualcosa in più o in meno ma Jonathan non riusciva ad aprire gli occhi, per quanto ci provasse sentiva le palpebre troppo pesanti, la testa pulsava, il mondo girava.
Ma anche se fosse riuscito a vederli non sarebbe cambiato nulla, non avrebbe potuto mai raccontare a nessuno.
Sentì un suono metallico che identificò subito come una sicura disinserita, avrebbero sparato anche a lui alla nuca, proprio come al Sergente.
A cosa dovrebbe pensare una persona prima di morire? Non dovrebbe rivedersi tutta la vita? O forse quello valeva solo se si stava morendo lentamente?
In ogni caso, l'avrebbe scoperto a breve.

<< No.>>

No?
Una terza voce si aggiunse alle altre, questa però era diversa, più bassa, più acuta, ma anche più delicata era… femminile?

<< Come no?>>
<< No. Lui non lo toccate.>>

Altri movimenti indefiniti, qualcuno lo sfiorò, una mano piccola e morbida, decisamente appartenente ad una donna.

<< Ma è- >>
<< Ho detto di no. L'incarico è mio, decido io e l'agente… J.C. Morgenstern, non lo toccherà nessuno.>>
<< Perché? >> chiese solo una quarta voce.

La mano delicata gli spostò qualche ciocca dal viso, lasciandogli una leggera carezza sulla fronte.

<< Diciamo che… sto contraccambiando una vecchia gentilezza. I debiti vanno estinti il prima possibile.>>

Cosa? Lui aveva un debito con quella ragazza? Ma la sua voce… non la ricordava, poteva essere quella di una persona qualunque, dove l'aveva incontrata? Perché gli aveva fatto una gentilezza?

<< Come ti pare, ma lo dici tu agli altri.>>
<< Ovviamente.>> un'altra carezza, << Stammi bene J.C. >>


Era riuscito a mala pena a socchiudere gli occhi, scorgendo un gruppo di figure scure, tre più grandi di una, la donna probabilmente.
Non era riuscito a vedere i loro volti, non era riuscito a vedere il colore della pelle degli uomini, aveva visto solo delle mani piccole e pallide tirare su la felpa nera ed infilare una pistola nel bordo dei pantaloni. Vicino al calcio, al centro della fascia renale, una piccola rosa nera senza foglie.
Poi la rosa era diventata una macchia indistinta ed il riverbero di luce delle sei di pomeriggio si era trasformato nel buio della sera.


Quel caso era finito così, con otto agenti e tre civili morti, nessuno era mai riuscito a trovare l'aggressore, la ragazza con la rosa sulla schiena pareva essersi volatilizzata nel nulla.



Presente.



Non avevano mai trovato il colpevole. Quella era stata la sua prima grande sconfitta e lui ne era uscito vivo solo ed unicamente perché era stato mandato sul retro perché miglior tiratore della squadra, solo perché il suo comportamento al limite della perfezione era stato ammirato dai due Sergenti che l'avevano preso come agente personale. Solo ed unicamente perché la ragazza con la rosa nera aveva deciso di pagare un debito di cui lui non aveva memoria.
Non gli costava minimamente ammettere che in tutta la sua onorevole vita non si era proprio fatto araldo di buone azioni dei confronti degli altri. Certo, aveva sempre protetto sua sorella e quel coglione di Lewis come meglio poteva, aveva dato una mano a Rebecca quando gli serviva perché all'atto pratico erano cresciuti assieme. Aveva aiutato qualcuno dei suoi amici, ma tutti, dal primo all'ultimo, li conosceva così bene da poterli identificare anche solo dalla voce e tutti avrebbero potuto giurare che fosse estremamente difficile ricevere un atto di gentilezza disinteressata da parte sua a meno che non ci fosse dietro un qualche tipo di legame. Quindi cosa gli sfuggiva?
Per anni si era interrogato su chi potesse essere la ragazza, quando, dove e cosa poteva aver fatto per lei e quando il caso era stato ufficialmente archiviato come “Irrisolto”, dopo un paio di sedute di routine dallo psicologo, Jonathan aveva accantonato quel pensiero martellante per ritirarlo fuori solo di tanto in tanto, spesso quando si riavvicinava la data di quel massacro da cui lui era uscito come unico superstite.
Ma ora, dopo così tanto tempo, a distanza di una vita, aveva iniziato a porsi un'altra domanda: e se il debito non l'avesse avuto con lui ma con suo padre?
Riconoscere Valentine Morgenstern non era così difficile, lo si vedeva sui giornali, alla TV… lo scorso anno non si sarebbe mai posto il problema, ma dopo quello che era successo, ora che sapeva… suo padre era corrotto, lo era stato prima ancora che lui nascesse, possibile che avesse avuto qualcosa a che fare con quella donna, quell'assassina, che magari l'avesse lasciata andare per soldi, per informazioni, perché gli conveniva e che quella, riconoscendo al volo il nome, la somiglianza, avesse deciso di togliersi quel conto in sospeso in quel modo?
E se lui fosse stato l'unico sopravvissuto di un massacro solo perché suo padre aveva lasciato libera un'omicida che, se invece fosse stata messa in prigione, non avrebbe ucciso nessuno?
Era questo? Lui era vivo solo ed unicamente per questo motivo?

<< Cazzo.>>

Ringhiò tra i denti mettendosi le mani in faccia. Premette le dita sugli occhi sino a cominciar a sentire un fastidioso formicolio e poi, con uno scatto di pura rabbia, afferrò la prima cosa che gli capitò sotto mano e la scagliò verso il centro del salone.
L'urlo mal trattenuto che eruppe dalle sue labbra fu seguito subito da un altro e un altro ancora, finché Jonathan non tirò un violento calcio al tavolino posto davanti al divano mandandolo a gambe all'aria.
Il silenzio che ne seguì fu lo stesso che aveva avvolto la casa per tutti quei mesi, la stessa aria stantia lo attendeva dopo quell'inutile sfogo, lo stesso buio, lo stesso divano di pelle bianca che in quel momento avrebbe solo voluto pugnalare sino a farlo scoppiare, esattamente come si sentiva lui in quel momento.
Con lo sguardo fisso nel vuoto Jonathan si ritrovò a sorridere tetramente: aveva due possibilità, entrambe molto valide, ma che necessitavano d'esser attuate in una precisa sequenza. Si era giocato la terza opzione andando a vedere quel dannato palazzo e ora non gli rimaneva altro da fare se non fare quella chiama. Non aveva la minima voglia di parlare con quella donna, non di nuovo, non dopo tutto quello che era successo, ma proprio come aveva pensato la notte prima era giunto il momento di mettere il punto definitivo a quella storia, di saldare del tutto il suo debito con il karma e pagare le conseguenze di un altro che invece era stato saldato sei anni prima.
Si alzò dal divano di scatto e si diresse verso l'angolo bar: gli serviva decisamente qualcosa di forte per calmare i nervi ed evitare di mandare a 'fanculo anche la Herondale.





Le sedie erano comode, ben distanziate le une dalle altre per dar un vago senso di spazio ma anche per far sentire tutti i membri del Clan abbastanza vicini da potersi spalleggiare a vicenda.
Era una pura ed effimera impressione, null'altro che una condizione mentale ma Tim lo sapeva, sapeva che questo genere di cose era proprio quello che piaceva al suo Capo.
Teatralità. Inganni visivi, olfattivi, sensoriali, psicologici.
Seduti attorno alla lunga tavolata c'erano tutti i membri di spicco del Clan dei Figli della Notte, ognuno araldo incrollabile di una delle tante isole che componevano quel gruppo così ben assortito, una di quelle corde che creavano la rete perfetta che in tutti quegli anni non si era mai sciolta, non aveva mai ceduto ai pesi che vi erano stati caricati sopra. Oh, ce n'erano stati di nodi che erano saltati, Timothy ne aveva visti così tanti, ma la bravura dei Figli della Notte era proprio tutta lì: riparare la ragnatela prima che un'altra mosca potesse passarci in mezzo indenne, prima che un passo mal calibrato facesse cedere un altro filo. Come ragni di una sola nidiata correvano a metter in salvo le proprie tele e a creare nuovi collegamenti con quelle dei loro vicini, espandendosi, tessendo la trama fitta di un disegno che, alle volte, neanche Asmodeus era riuscito a vedere. Alzò lo sguardo opaco verso il capo opposto della tavolata, lì dove sedeva tranquillo e rilassato il Ragno Re, il primo di quelle bestie sanguinarie che avevano imparato a vivere con i buio e a vederci attraverso.
Alexei non batteva ciglio, sorrideva affascinante come sempre ai suoi colleghi, seduti al suo fianco per la metà del tavolo che era stato loro destinato, lasciando i consueti tre, quattro posti vuoti per distanziare gli ospiti dal padrone di casa.
Non pareva minimamente turbato, sicuro di sé come forse pochi altri potevano esserlo in quella sala, per i peccati che si portavano dietro, per l'inesperienza e la giovane età. Quelli erano pesci piccoli ma velenosi, che nascondevano i loro uncini avvelenati sotto le spoglie di giovani ancora non adulti o di adulti ancora troppo giovani, gente che non aveva ancora avuto modo di fare la muta e poter finalmente esporre le proprie armi.
E poi c'erano i pesci di mare aperto, quelli che avevano indosso più cicatrici che armi ma la cui corazza risplendeva come la più lucida delle armature, intonsa e perfetta. Coloro che erano stati i primi ad affiancarsi al Ragno, a cui lui stesso aveva insegnato a tessere le fitte trame dei loro loschi affari.
Li contò uno ad uno, controllando che non vi fosse nessun ritardatario o magari qualcuno da andar a recuperare perché se l'era fatta sotto.
Che Alexei ci sarebbe stato non ne aveva dubbi, era andato lui stesso a prenderlo senza dirgli nulla e l'aveva ugualmente trovato pronto ad attenderlo, come ai vecchi tempi, stesso orario, stesso luogo, stessa strada, stessa meta.
A capo del Clan e anche del suo Club, il luogo del peccato di New York City, un piccolo angolo di LasVegas nella Grande Mela, di perdizione e di oblio. Tutto era concesso nel Club, ogni desiderio, anche il più perverso, poteva esser realizzato alla giusta cifra ed era così famoso per i suoi servigi che da tutti gli States gli uomini più facoltosi volavano sino a lì per aver ciò che volevano.
Al suo fianco stava poi Saint Cloud, perfetto nel suo completo ghiaccio, con gli occhi azzurri tanto simili a quelli della nipote puntati sulle candele al centro della tavolata, perfettamente a suo agio con l'attesa.
I Belcourt, di cui Saint Cloud aveva iniziato a farne parte quando più di trent'anni prima sua sorella maggiore sposò il rampollo della famiglia, avevano questa innata e magnifica capacità d'attesa.
Timothy aveva avuto modo di apprezzarlo già anni addietro, quando durante le prime azioni da poco conto, quelle tipiche che si affidavano ai novellini, mentre tutti quanti si guardavano intorno ansiosi, impazienti, con i nervi a fior di pelle, Camille era l'unica calma, l'unica che poteva attendere anche ore e ore senza impazzire, senza doversi fare una passeggiata, con l'unico bisogno di accavallare e scavallare le gambe di tanto in tanto per cambiare posizione.
Inizialmente ne era rimasto sorpreso, poi si era dato dello sciocco, immaginando che fin da piccola alla bionda fosse stata insegnata l'importanza dell'attesa.
Una volta Adam gli aveva confessato come ammirasse quella loro dote, perché sì, anche lui era paziente, ma di certo non riusciva a star fermo come un morto a fissare il nulla come facevano loro.
Allora gli aveva chiesto secondo lui come ci riuscissero e Tim si era stretto nelle spalle:

“ Quando si parla di vita non si può essere impazienti credo. Penso che ce l'abbiano nel sangue.”

Il suo capo aveva riso moltissimo per quella battuta anche se in realtà non era altro che una costatazione. Rimaneva però la pura e semplice verità: tutti i membri del Sang Vivant conoscevano il valore dell'attesa, sapevano come rapportarsi al tempo che passava lento ed inesorabile. Era la vita quella che i Sang Vivant vendevano, era la promessa di giorni in più, di giri d'orologio da sommare a quelli che il proprio quadrante malandato avrebbe potuto ancora offrire. Più ore, più mesi, più anni, una seconda possibilità di vivere fino a quando il creatore non sarebbe arrivato a bussare alla loro porta perché ormai vecchi e non perché malati.
Quella che un tempo era stata la piccola e dolce Camille ora sedeva alla sinistra dello zio, vestita di rosa, un contrasto così femminile con il completo azzurro dell'uomo da sembrare quasi forzato. Erano colori tenui, un rosa cipria che la faceva sembrare ancor di più una bambolina di porcellana, ormai cresciuto ma ancora ugualmente delicata e bellissima.
Teneva lo sguardo sulle sue unghie perfette, il capo leggermente chinato verso il basso, ma Tim non aveva il minimo dubbio che malgrado le apparenze, il disinteresse che emanava, la donna tenesse ugualmente le orecchie tese. Se era rimasta anche solo un poco ciò che era da bambina, da adolescente, non sarebbero riusciti a prenderla di sorpresa neanche se avessero fatto scoppiare un petardo sotto la sua sedia, probabilmente ne sarebbe solo stata infastidita.
Direttamente davanti a Saint Cloud c'era un vecchietto tutto curvo, con il volto rugoso e gli occhi a mandorla così fini da sembrar quasi chiusi. Uno spicchio di luce tagliava la pelle grinzosa, come il personaggio di una storia mistica, la caricatura del classico vegliardo cinese nei film di serie b. Il signor Chen, il capofamiglia Chen, era seduto al fianco di suo figlio maggiore, Heiji Chen, il padre della dolce Lily.
Loro rappresentavano un'altra faccia del Clan, così simile al Club di De Quincey ma al contempo così diverso da sembrare tutto un altro mondo. Proprio come Alexei vendevano un pezzo di LasVegas ma non quella viziosa e maledetta, quella dei peccati di gola, di lussuria e di ira, L'Impero era la società di gioco più redditizia del paese, che gestiva un giro di tornei di ogni tipo.
Se il Club dava l'opportunità di fare tutto, l'Impero ti dava l'opportunità di permetterti tutto.
E se in tutti questi anni nessuno era ancora riuscito a capire come la loro rete riuscisse a riciclare tutto il denaro sporco che girava tre le loro ragnatele, forse ciò che si diceva sugli asiatici e sulla loro precisione maniacale non era così lontano dalla realtà.
Alla destra dei Chen Raphael Santiago fissava con serietà il centrotavola, lo sguardo concentrato sul nulla proprio come Belcourt e Saint Cloud, ma non c'era di ché stupirsi visto che, a suo tempo, il ragazzo fu assegnato proprio ad un membro dei Sang Vivant per il suo “tirocinio”.
Un membro di quella famiglia di cui ancora si sentiva la mancanza, il vuoto del suo posto pesante e palese malgrado fosse occupato da una bellezza letale come Camille.
E per finire, alla destra dei Chen, l'ultimo anello di quella catena perfetta che formava il grande Clan.
Vestita completamente di nero e di pelle, proprio come un tempo si vestivano tutti i suoi simili, se ne stava una giovane dall'aria infastidita, le sopracciglia chiare aggrottate, forse perché non era solita fare questi incontri, forse perché consapevole che quella era una riunione ufficiale che dava finalmente inizio alle fasi finali di una partita iniziata prima ancora che lei nascesse.
O magari perché l'uomo che tra poco si sarebbe seduto all'altro capo del tavolo non era semplicemente uno dei criminali più proliferi del mondo, ma anche il padre del tipo che uno dei suoi uccellini aveva cercato d'uccidere.

Se Magnus è vivo lo dobbiamo solo ad uno stupido riflesso e al poliziotto con cui stava al telefono.

Probabilmente il tipo che aveva sparato, quel Potter, era strafatto di qualcosa quel giorno e aveva sbagliato mira, o Magnus era stato davvero in grado di muoversi in tempo per far sì che quel proiettile lo prendesse solo di striscio, ma rimaneva il fatto che per ben due volte il figlio del capo aveva rischiato di morire e che in entrambi i casi i responsabili erano stati fatti fuori da altri e la vita del futuro erede del principe la dovevano solo ed unicamente all'intervento di un uomo di legge.

E ovviamente di tutti coloro che potevano capitarti, Magnus, ti è toccato proprio quel ragazzo.

Timothy sospirò chiudendo un attimo gli occhi stanchi, sapeva perfettamente che nessuno dei presenti avrebbe osato far nulla anche se li avesse lasciati tutti soli per un'ora intera. Probabilmente avrebbe ritrovato Camille e Saint Cloud nella stessa identica posizione in cui li aveva lasciati, il Signor Chen a meditare, Heiji a chiacchierare con Alexei, Raphael ad imprecare in spagnolo contro qualcuno che non stava facendo il suo lavoro e la Rosa Nera a giocare con il suo cellulare. Ma era sicuro, sicurissimo, che nessuno avrebbe osato crear noie di ogni sorta, chi per disinteresse, chi per rispetto e chi, semplicemente, perché non ne aveva motivo. Forse solo il vecchio ragno si sarebbe divertito ad infastidire la scorta, come aveva sempre fatto anche in passato.
Il vecchio autista si sgranchì le ossa delle mani come era solito fare da ragazzo, ricevendo in cambio un leggero bruciore che una volta non avrebbe mai avvertito ma che ormai non gli dava pace. Erano le giunture a fregarlo, la cartilagine stava cominciando a cedere come in ogni buon settantenne che si rispetti. C'erano alte probabilità che se Adam non si fosse deciso ad arrivare al più presto Timothy si sarebbe visto costretto a sedersi, cominciavano a dargli fastidio anche le ginocchia.

Il suono deciso di una porta che si apriva attirò immediatamente l'attenzione di tutti, una donna dai lunghi capelli neri tenuti legati in una coda morbida si avvicinò a Tim e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, poi sorrise ai presenti e se ne andò veloce com'era arrivata.

<< Ci sono problemi?>> domandò la Rosa Nera incuriosita.
Alexei abbozzò un sorriso indulgente. << Nulla di cui preoccuparsi, se fossero stati problemi seri non avresti visto lei qui.>> disse tranquillo.
La ragazza si girò verso di lui, togliendosi dalla fronte qualche ciuffo della frangia. << Non credo di averla mai vista.>> ammise senza vergogna.
<< Certo che no, non eri neanche nel giro quando fece le sue ultime apparizioni pubbliche. Ti basti sapere che è una stretta collaboratrice di Asmodeus.>>
<< Come una segretaria?>>
L'uomo rise e persino Camille non riuscì a trattenersi dall'arricciare le labbra divertita.
<< Oh, cherie, direi che ci sei andata molto vicino e che hai anche fatto un colossale buco nell'acqua. Ma credimi sulla parola: se c'è anche lei, allora sarà tutto molto più interessante del previsto.>>

E se c'era un'altra cosa che Timothy aveva sempre apprezzato enormemente di Camille era la sua capacità di fiutare i guai, i guai grossi, anche a chilometri di distanza.
Ancora una volta, non si era sbagliata.




Il tonfo, quella volta, fu più forte e potente. Sordo e secco. Preciso e sicuro.
Decisamente scocciato e con una vaga nota di frustrazione di sottofondo.

<< Ora gliela sfondo questa cazzo di porta.>>

Erano le undici di mattina, aveva saltato il suo solito giro per presentarsi lì e quel deficiente neanche si degnava di aprirgli.
Con un respiro profondo Alexander chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro la porta, ancora viola ma non della stessa sfumatura che aveva l'anno precedente.
Ce la poteva fare, doveva solo prendere un altro respiro e suonare di nuovo il campanello. Se non avesse funzionato quello avrebbe bussato, se no si sarebbe attaccato al telefono o avrebbe denunciato un possibile infarto e avrebbe aspettato l'arrivo dei vigili del fuoco e dell'ambulanza pronta per portare quel grandissimo coglione fuori dalla sua dannatissima casa.
La verità era che stava passando troppo tempo con Jonathan, con Magnus e soprattutto con Jonathan e Magnus assieme, e che questo si traduceva con un esplosione di cattiverie e battute acide che ormai lo avevano contagiato. Ma era anche altrettanto vero che tutta quella situazione cominciava ad avere del ridicolo.E che lui di cattiveria e battute acide ne aveva già di suo più di quanto non si potesse immaginare.
Si rimise dritto in piedi e premette con forza il pollice sul campanello, come se la spinta supplementare avesse potuto farlo suonare ad un volume più alto.
Dall'interno dell'appartamento tutto ciò che ricevette fu il tonfo, palesemente Presidente Miao, di qualcosa che saltava in aria e poi riatterrava sul parquet.
Almeno uno dei due inquilini di quella casa era sveglio.

<< Ti prego Miao, vai a svegliare quell'altro deficiente.>> mormorò scoraggiato.

Gli diede altri cinque minuti di grazia e poi picchiò contro la porta, ancora. E ancora.
Se ci fosse stato suo fratello al posto suo probabilmente gli sarebbe scoppiata una vena, ma Alec aveva anni ed anni di addestramento da primogenito e sapeva che in questi casi la cosa giusta da fare fosse solo una: se con i pugni non funziona, vacci di calci. E probabilmente la pedata che rifilò alla porta non la scardinò solo ed unicamente perché aveva mirato appositamente al lato posto alla serratura. Così come sicuramente era stata avvertita da tutta la palazzina.
Quando non ricevette ancora risposta sospirò, dispiaciuto di dover far alla fine una cosa del genere. Non era proprio da lui, ma se Magnus aveva la testa così dura.
Prese un bel respiro, posò i cartoni con la colazione a terra e prese il suo portafogli, estraendone due ferretti con cui riuscì facilmente ad aprire la porta. Avrebbe dovuto dire a Magnus di prendere qualche sicura in più, si aspettava almeno altri due blocchi dopo quello che era successo quell'estate.
Entrò con disinvoltura, come se non avesse appena scassinato la porta di casa di uno dei suoi sottoposti, posando le bevande sul mobiletto all'ingresso e avanzando verso la camera da letto.
Presidente Miao era fermo lì davanti, palesemente infastidito sia dalla quantità inaudita di rumore fatto da Alec sia dal fatto che il suo umano lo avesse chiuso fuori.

<< Perdona il caos di prima, Miao, adesso gli diamo una bella lezione, che dici?>>

Abbassandosi per grattare velocemente la testolina del felino Alec aprì la porta della camera da letto come se dentro non vi fosse dovuto essere nessuno, e in effetti era così visto che, tecnicamente, l'uomo che se ne stava sprofondato nel letto, con una bella mascherina sugli occhi e i tappi alle orecchie, avrebbe dovuto esser in piedi, in cucina, a far colazione con lui.
Non era andato a correre per andare da lui a portargli il dannato caffè, non era andato a correre per evitare di arrivare lì con i morsi della fame e lo stomaco che chiacchierava da solo e Magnus cosa faceva? Sceglieva proprio quel giorno per mettersi i tappi.
Scrollando la testa l'uomo avanzò verso l'altro, scostandogli qualche ciuffo dalla faccia e osservando perplesso la mascherina su cui erano disegnati un paio d'occhi decisamente da manga… forse avrebbe dovuto fare una foto e mandarla a Simon? Forse sì, magari ora lo faceva.
Tirò fuori il cellulare dal giaccone e scattò una foto al volo, giusto per aver materiale di ricatto in futuro.
Ad essere onesti, ora che si trovava nella camera da letto di Magnus, mentre lui dormiva, intrufolatosi come un ladro, si sentiva un po' in colpa. Ma gli bastò sentire un grugnito dell'uomo per far passare tutto: dormiva alla grossa mentre lui era stato lì fuori ad aspettare per ore. Senza più un briciolo di pietà Alec cercò il cellulare di Magnus, lo sbloccò facilmente con la stessa identica password che aveva da minimo un anno e smanettò un po' sul dispositivo. La gente era abbastanza convinta che oltre le banali azioni utili per il proprio lavoro, Alec non fosse minimamente portato per la tecnologia ma le cose erano ben diverse, semplicemente, i computer, lo annoiavano. Era cresciuto nell'epoca dei primi cervelloni, ricordava schermate scure e scritte chiare, anche se solo vagamente, aveva assistito alla nascita e l'ascesa dei pc portatili e tante di quelle altre tecnologie che a pensarci lo facevano sentire più vecchio di quanto non fosse. Anche se ormai andava per i trenta… Dio santissimo, c'era già arrivato? Com'era successo?
In ogni caso, anche se non gli piacevano, se preferiva leggere, nuotare, correre, tirare con l'arco o farsi i beneamati fatti suoi, Alec un computer lo sapeva usare, non ai livelli di Simon, ma ne era perfettamente capace. Così com'era capace di giostrarsi si un qualunque cellulare e far rimpiangere al suo proprietario di non avergli risposto, soprattutto dopo il polverone che si era alzato tra di loro e la guerra civile che aveva creato. Almeno quello glielo doveva no? Ne aveva fatti di passi in avanti, ne aveva ingoiati di rospi.
Annuendo alle sue stesse argomentazioni Alec mise il cellulare vicino a Magnus, spalancò le tende, tirò su le serrande, accese tutte le luci e, poco onorevolmente c'è da dire sfilò un solo tappo dall'orecchio dell'uomo, trattenendo il fiato quando lo vide muoversi e schiacciare la guancia contro il telefono. Oh beh, quello era il karma.
Uscì dalla stanza, facendo attenzione a riportar fuori Presidente Miao e spingendolo in cucina, dove avrebbe sentito il meno possibile la confusione che si sarebbe propagata a breve per la casa.
Prese la colazione, uscì e si richiuse la porta alle spalle. Poi prese un respiro profondo e chiamò Magnus.
Uno squillo. Due squilli.
Un rumore sordo scoppiò da dentro l'appartamento e Alec trovò che quello fosse il momento opportuno per suonare il campanello e bussare alla porta.

Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi, aveva rinunciato ai suoi soliti giri, aveva cambiato caffetteria perché Magnus ne preferiva un'altra, il Dottor Lawson l'aveva chiamato per prendere appuntamento il prima possibile e il prima citato deficiente si era messo i tappi per non essere disturbato quando gli aveva palesemente detto che quel fine settimana avrebbero fatto colazione assieme.

Il grido acuto che sovrastò l'allarme antiaereo ed il tonfo che ne conseguì gli diedero un minimo di sollievo e di pace.

<< I miei occhi! Chi cazzo ha acceso la luc- AH!>>

Magnus che cadeva a terra, probabilmente inciampando nel casino che lasciava sul pavimento e nelle troppe coperte tutte di seta e tutte scivolose, fu solo l'ennesima prova che il karma esisteva davvero.

E che era una puttana.



Massaggiandosi ancora la spalla Magnus tenne lo sguardo fisso su Alexander che tranquillo si aggirava per la cucina, scaldando cornetti e cercando fazzoletti.

<< Una volta erano qui, sbaglio?>> gli chiese aprendo una delle tante ante della dispensa. Magnus mugugnò, aveva messo a posto un po' di cose durante la sua degenza, o per dirla con le parole di Catarina: si stava talmente tanto annoiando chiuso lì dentro senza poter far nulla di divertente che aveva finito per farsi prendere dalla sindrome della casalinga disperata. E purtroppo Magnus aveva visto Desperate Housewives e sapeva perfettamente quanto la sua cara amica avesse ragione.
Quindi aveva ragione anche Alexander, i tovaglioli una volta erano lì, ma visto quanto li usasse di solito Magnus, li aveva spostati più in basso.
Non che avesse comunque voglia di dirglielo, era ancora profondamente arrabbiato con sé stesso, per aver lasciato le serrande aperte, le luci accese e per essersi messo male i tappi, e con Sidmund, che probabilmente era il responsabile del cambio della sua suoneria, una di quelle cose profondamente infantili che sicuramente gli aveva fatto per ripicca per… uno dei dodicimila motivi per cui bisticciavano costantemente come mocciosi.
Gli avrebbe messo qualcosa di assolutamente imbarazzante come colonna sonora alla prima occasione.
In ciò almeno c'era una cosa positiva: il culo di Alec era sempre bello.
Inclinando leggermente la testa Magnus studiò con attenzione il modo in cui i jeans si tiravano proprio lungo la cucitura centrale delle gambe, chissà come ci sarebbe stato Fiorellino con un perizoma, magari poteva chiedergli di indossare uno dei suoi… magari quando sarebbero tornati ad avere un rapporto più intimo… e non poteva neanche rinfacciargli nulla di passato per colpa delle stupide regole! Almeno gli aveva portato la colazione, ma non gli avrebbe ugualmente detto dove si trovavano i tovaglioli.

<< Ah, eccoli.>>

Troppo tardi, dannazione.
Alexander si voltò verso di lui con tranquillità, come se fosse normale per lui stare lì, muoversi in quegli ambienti, ed in effetti così era stato, per tutta la durata del caso di Ragnor, ma poi era successo tutto quello che era successo…
Magnus aggrottò le sopracciglia e si mise seduto in modo più composto: dopo la volta in cui si era presentato in casa sua per attendere la telefonata degli Affari Interni Alec non era più rientrato lì dentro. Non gli aveva chiesto all'ora come si sentisse, se tornare di nuovo sul luogo in cui, all'atto pratico, era morto gli avesse fatto venir ancora qualche brivido o se Natale gli fosse bastato e avanzato come “momento di debolezza”. Se era così, beh, cazzo, l'agente A era davvero più cazzuto del previsto.

<< Non sei vestito da Man in Black oggi.>> fu la prima, intelligentissima, cosa che riuscì a dire.
Alec si voltò a guardarlo, la sua solita espressione pacata ed inespressiva. << Non sono in servizio.>>
<< Quindi ammetti di essere un Man in Black?>>
<< No.>>
<< Mi è venuto in mente ora che sei l'agente A. O forse L… non me lo ricordo, come si chiamavano per iniziale del nome o del cognome?>>
<< Nome, J era James. >> rispose tornando a controllare i cornetti nel forno. Chissà perché non aveva usato il microonde.
<< Ho pensato “diamine, è più cazzuto del previsto”, poi mi sono ricordato che non solo so perfettamente quanto sei tosto, ma che ho anche visto che sei decisamente cazzuto e che quindi sto facendo pensieri assolutamente inutili.>> continuò con disinvoltura.
Un leggero rossore si allargò sugli zigomi di Alec, che pensò bene di non voltarsi e renderlo palese.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. << Magnus hai bevuto ieri?>> chiese piuttosto.
<< Io bevo sempre. Minimo due litri al giorno, rendono la pelle giovane e tonica, contrastano le rughe ed evitano la possibilità di redenzione idrica.>>
<< Di alcolico.>>
<< Anche quello, gli alcolici sono una mano santa per la redenzione idrica, ti mandando di continuo in bagno, anche se il fegato a lungo andare non apprezza molto.>> e prima che Alec potesse replicare. << Mi sento un po' stordito in effetti, ma conto sul fatto che dopo aver mangiato e aver guardato per un altra mezz'ora il tuo bel fondo schiena mi sarò ripreso a pieno. Devo comprare un perizoma blu.>> annuì a sé stesso.
Ci fu un lungo momento di silenzio, il timer del forno suonò ed Alec tolse i cornetti dalla teglia, lì poggiò nel piatto e poi si sedette davanti a Magnus, la faccia inespressiva e perfettamente calma. Afferrò il suo cornetto e vi diede un morso, staccandone all'incirca un terzo in un solo colpo.
Masticò con calma, prese un sorso di cappuccino e si asciugò la bocca.
<< Non ti chiederò perché, quindi mangia.>> sentenziò in fine spingendo il piatto verso Magnus.
L'uomo annuì. << Non te lo saprei neanche spiegare, forze. Mi ero quasi dimenticato delle magnifiche performance della tua bocca.>>
<< Magnus, ti avverto- >>
<< Intendevo a livello… culinario? No, nutrizionale? A livello di mangiare? Sono più dislessico del solito questa mattina, è che svegliarmi in modo così violento mi destabilizza… Ma te lo godi mai un cornetto? Lo finisci sempre in tre morsi?>>
Alec si strinse nelle spalle e staccò un altro morso abnorme. << Alle volte me ne bastano due.>>
Magnus annuì. << Le sveglie violente mi distruggono.>>
<< Lo hai già detto.>>
<< Simon la pagherà cara.>>
<< Lo hai chiamato con il nome giusto.>>
<< Ma bevi anche le cose in due sorsi?>>
<< Io e i ragazzi facevamo a gara a chi riusciva a bere tutto d'un fiato una bottiglietta d'acqua, in genere Izzy si strozzava dopo tre sorsi, Jace finiva per ingoiare l'acqua in blocco e farsi male, Max se la sbrodolava a dosso e io vincevo. >>
<< Perché hai la gola larga.>>
<< Grazie per averlo ricordato senza fare battute.>> gli sorrise alzando di poco il bicchiere di carta verso di lui.
Magnus annuì ancora. << Le sveglie violente mi distruggono.>>
<< Mags, lo hai già detto, di nuovo.>> gli fece notare aggrottando le sopracciglia.
<< Ho bisogno di una doccia, ghiacciata.>>
<< Sembra sensato.>>
<< Le sveglie violente fanno schifo.>> mormorò ancora alzandosi dallo sgabello e strusciando i piedi verso il bagno. << Schifo.>> ripeté come in trance.
Alec sorrise dietro il cartone della tazza. << Come il karma.>>
<< Uh?>>
<< Nulla, vatti a fare quella doccia, facciamo due passi poi, vuoi?>> domandò con fare angelico.
In ogni caso, Magnus era troppo tramortito per poter notare quella palese presa in giro.


L'aveva fatto aspettare quasi venti minuti, il che era un tempo ridicolo rispetto a quello che impiegava di solito, ma quando era uscito dal bagno, con un turbante azzurro in testa e l'accappatoio giallo canarino Alec si era detto che forse, il tempo d'attesa, era compensato da quella cacofonia di colori.
E poi era lui quello che non sapeva abbinarli.
<< Ora, Fiorellino bello, mi sento rinato.>> disse allargando le braccia ed entrando in sala neanche fosse una star di Hollywood.
<< Vuoi fare colazione, finalmente?>> gli chiese di rimando l'altro continuando a grattare la schiena a Presidente Miao.
Magnus lo guardò male, decisamente infastidito dalla poca attenzione che Alec stava dedicando alla sua magnifica persona quasi seminuda.
<< Davvero? Sono in accappatoio, appena uscito dalla doccia, tutto bagnato, e tu mi parli di colazione?>> domandò scettico.
Alec si strinse nelle spalle. << Ho fame, se non mangi tu il tuo cornetto lo farò io.>>
<< E lo farai in due morsi perché hai la bocca grande. E larga. E profonda.>>
Il moro alzò a mala pena un sopracciglio. << Sto per chiamarti e far ripartire la sirena antiaereo.>>< lo minacciò senza muovere un muscolo.
In broncio di Magnus fu degno di quello di un bambino, mentre marciava in cucina per prendere il suo caffè, borbottando sulle ingiustizie della vita.
<< Non lo accetto Alexander, sappi che non lo accetto.>> continuò a mugugnare, tornando in salotto con la sua colazione in mano.
Si sedette di peso vicino ad Alec, facendo scappar via Presidente Miao alla velocità della luce, e tutto incartato nel suo asciugamano giallo prese un lungo sorso della bevanda ancora calda. << Ma di che sono fatti questi bicchieri? Brucia ancora.>> si lamentò.
<< Vuol dire che la prossima volta lascerò che ti si freddi.>>
Magnus si voltò a guardare il compagno fingendo la sua miglior espressione sorpresa.
<< Alexander! Mi tieni in caldo la colazione, ma questo è amore vero!>> disse portandosi la mano con il cornetto alla fronte in modo teatrale. << Per questo tuo grande ed onorevole servizio alla patria, ti concederò un morso della mia brioche.>> proseguì allungando il dolce verso di lui. << A patto che tu riesca a mangiarne metà in un colpo.>> concluse ammiccando.
Alec lo fissò indeciso se alzarsi ed andarsene o rispondere a tono, lasciando il tempo a Magnus per sorridere con fare divertito e sventolargli ancora il cornetto sotto il naso.
<< Ho scoperto di recente che ami far colazione ad ogni ora, quindi ora ti chiedo, gentilmente, invece di fare la persona matura ed educata, quello coscienzioso dei due e tutte quelle cose lì, agisci come faresti con Jace, o con i tuoi amici. Che per altro, Fiorellino, scoprire che hai una vita sociale che esula dalla tua famiglia e dagli accolli epici che sono gli amici dei tuoi fratellini mi ha sorpreso tantissimo, non credevo tu avessi queste capacità!>>
Il moro continuò a fissarlo, ora palesemente sorpreso. << Intendi stringere amicizia con la gente? Per chi mi hai preso? Per un asociale?>>
<< Esattamente! Sono piacevolmente stupito del contrario.>> e prima che potesse dir altro. << Cornetto? Come se fossimo vecchi amici?>> propose ancora.
Ad Alec non rimase altro che sospirare e scuotere la testa. << Sicuro? Vuoi davvero che ti risponda come farei con uno dei miei amici?>>
Magnus annuì e Alexander non poté far altro che stringersi nelle spalle. << Okay.>>
Si sistemò meglio sul divano, girandosi verso l'altro e guardandolo con serietà. << Ma sappi che è a tuo rischio e pericolo.>>
<< Perché?>> chiese quello curioso e divertito.
<< Perché potrei staccarti un dito.>> rispose con tranquillità Alec, prima di afferrare il polso di Magnus e dare un morso al cornetto, lasciando a mala pena la base del dolce tra le mani del proprietario.
Magnus fissò quello che rimaneva della sua colazione, alternando lo sguardo dalla crosta del croissant ad Alec con le guance piene come quelle di un criceto.
<< Mi hai divorato il cornetto!>> strepitò indignato Magnus, poi si bloccò, ammiccando al moro. << Ehi, mi hai divorato il cornetto… >> sorrise sornione alzando le sopracciglia. << Gran Canyon… Ouch!>> si ritrasse di colpo dopo lo scappellotto di Alec.
<< Niente riferimenti sessuali!>>
<< Mi hai fatto male!>> si lamentò Magnus rimettendosi dritto il turbante.
L'altro alzò le sopracciglia. << Me lo hai chiesto tu.>> sentenziò sicuro.
<< Non di picchiarmi! Diamine, se avessi saputo prima che ti piaceva il sadomaso mi sarei portato qualche gioco in vali- AHIO!>> ripeté a voce più alta.
<< Non quello e niente-riferimenti-passati.>> Lo fulminò. << Hai detto tu: come se fossimo vecchi amici. Per una volta che faccio quello che mi chiedi ti lamenti anche.>>
Magnus lo guardò sbalordito. << Aspetta, quindi tu, con i tuoi amici, ti rubi il cibo, li colpisci nel momento in cui sono più vulnerabili, li maltratti e ci fai a pugni? Alexander! Ma allora ti comporti proprio da maschio! Hai delle amicizie maschili normali!>> disse battendo le mani allegro.
Alec continuò a guardarlo con la stessa espressione burbera. << Lo sai che ciò che hai appena detto e profondamente omofobo e che è una battuta che mi sarei aspettato da un uomo etero con palese paura di sembrare gay? >>
Magnus storse la bocca. << Dio… sono sembrato etero per un po', no no no. Scusa dolcezza, il mio bispirt mi sta prendendo a calci.>>
<< Meriteresti di peggio.>> Annuì. << E poi certo che ci faccio a pugni con i miei amici, cos'altro dovrei farci? >>
<< Parlare?>>
<< Facciamo anche questo, anche se non troppo… in genere Seth parla abbastanza anche per me, è una cosa comprovata dal liceo, ci siamo allenati molto per questo. >>
Al sentir nominare una persona nuova Magnus si tirò su a sedere, dandosi una spinta con la schiena contro i cuscini del suo morbido e nuovissimo divano ed osservando con avida attenzione il moro. D'altro canto Alexander aveva parlato senza riflettervi troppo sopra, esattamente come avrebbe fatto con chiunque gli avesse posto quella domanda.
L'asiatico fissò l'amico per una manciata di secondi, annuendo ai suoi stessi pensieri. Gli diede una poderosa pacca sulla coscia, che fece saltare Alec che non se l'aspettava minimamente, e poi saltò in piedi.
<< Facciamo così: adesso io vado a vestirmi, poi andiamo a prendermi la colazione, visto che qualcuno se l'è mangiata al posto mio, e mi racconti un po' di questo Seth, ti va?>> chiese ammiccando.
Alexander lo guardò senza batter ciglio, un po' crucciato da quell'improvvisa voglia di vestirsi che gli era presa. Non che desiderasse che Magnus rimanesse in accappatoio tutto il giorno, buon Dio, assolutamente no o l'avrebbe tormentato di continuo, però di solito rimandava all'infinito la cosa. Annuì comunque, visto che l'altro era ancora fermo ad aspettare una sua risposta, e lo seguì con lo sguardo quando Magnus scomparve oltre il muro.
Che forse l'uomo avesse deciso di smetterla di fare l'adolescente gongolante e pieno di dubbie battute a doppio senso e di iniziare a fare quella maledetta cosa che tutti continuavano a dirgli di fare?
Alec si lasciò cadere contro i cuscini, sempre troppi, che occupavano quel divano, gettando indietro la testa e fissando il soffitto chiaro senza reale interesse.
Si sentiva come se improvvisamente gli fosse calata addosso una strana stanchezza, come se non andare a corre quella mattina non lo avesse avviato a dovere. Gli tornarono in mente i giorni della degenza, quando si svegliava presto ma sempre stanco, quando si riaddormentava in ogni momento sfiaccato dall'assenza stessa di fatica.
Ecco, in quel momento Alec si sentiva proprio sfiaccato e non aveva la minima idea del perché. Probabilmente se alla prossima seduta ne avesse parlato con il Dottor Lawson lui sarebbe stato in grado di dargli una spiegazione più che soddisfacente, ma per ora, solo con sé stesso, poteva solo ipotizzare che l'avvicinarsi della tanto decantata “chiacchierata per conoscersi” gli stesse facendo venire voglia di andarsene, di non farlo, di rimanere rintanato nel suo bel mondo fatto di lavoro, famiglia, guai della famiglia, amici e guai degli amici. Poche persone, che comunque erano troppe, e sempre gli stessi eventi che ben o male si ripetevano.
Solo pochi minuti prima aveva detto a Magnus che lui non era un asociale ed era vero, Alec non aveva problemi a parlare con la gente… a patto che vi fosse qualcosa da dire. Non amava molto le folle, non sopportava le persone urlanti, non tollerava le urla e basta e di certo non attaccava bottone con il primo capitato solo perché era lì e gli andava di fare due chiacchiere, ma questo non significava che fosse asociale, no?
Quello che tutto il mondo gli aveva sempre rimproverato d'essere invece era distante. Alec era fatto così, prima che qualcuno potesse dirsi davvero suo amico, potesse davvero avvicinarsi a lui, doveva passare molto tempo o doveva succedere qualcosa che li rendeva più uniti di quanto non avrebbero potuto essere. Lavoro, casualità, disgrazie… nelle disgrazie Alec ci sguazzava, era lì che spesso trovava gli amici migliori, vedi il suo primo giorno di liceo, la storia della palestra, gli amici dei suoi fratelli e poi i ragazzi della missione. Poteva inserirci senza ombra di dubbio anche Mangus nel reparto “disgrazie”, perché conoscersi a causa della morte del migliore amico di lui non poteva che essere reputata tale. Eppure… eppure poteva bastare, poteva andar bene anche così, anche con quello che avevano. Perché era seduto su quel divano? Perché aveva scassinato la porta di un uomo e gli aveva combinato quel casino solo per far colazione e conoscerlo? Perché non potevano restare a quello che erano stati in quei mesi di calma piatta?
Un prurito fastidioso si sostituì alla stanchezza, un nervosismo che non era da lui ma al contempo lo era maledettamente.
Ne aveva parlato fin troppo con tutti e sapeva che, logicamente, era la cosa giusta da fare, ma ora che si avvicinava quel fatidico momento, ora che avrebbe dovuto parlare a Magnus di Seth… era il suo migliore amico, era la prima persona che aveva saputo, dalle sue stesse labbra, che era gay, la prima che era venuta a conoscenza di tutte le sue paure, dei suoi dubbi, del terrore che lo attanagliava ogni qual volta qualcuno lo guardasse più a lungo. La paura che potessero vedere, che la gente lo sentisse, lo percepisse… Seth era un tassello importante della sua vita, era stato il primo ragazzo, dopo Jace, con cui aveva sentito un legame forte e stretto, speciale. Stava davvero per raccontare chi fosse quello che, all'atto pratico, considerava come un fratello?
Diamine, eppure con i ragazzi non era stato così difficile, anzi, era risultato del tutto naturale parlare di loro. Forse perché c'era anche Simon e lui non era materialmente capace di tenere quella bocca chiusa?
La verità sconcertante che gli si aprì davanti agli occhi, mentre senza pensarci prendeva a sfregare tra pollice e indice il bordo della sua maglia, era che finalmente, dopo tutto quello che era successo, dopo tutte le belle parole, Alec avrebbe dovuto parlare, non di un caso, non di un evento distaccato, non di un protocollo, di una logica decisione, oh no, Alec avrebbe dovuto parlare di sé. E sì, doveva raccontare chi era Seth, ma dirlo a Magnus non sarebbe stato l'equivalente di dirgli qualcosa sul proprio conto? Aveva imparato quanto l'uomo fosse sensibile sotto quell'aspetto, come riuscisse a comprendere al meglio gli animi, le situazioni, i legami, le sensazioni. Lo aveva guardato in faccia e gli aveva letto la mente, lo aveva affiancato, gli aveva sorriso riconoscente e gentile, conscio che in determinati momenti, delicati più di altri, per Alec più del contatto fisico era importante quello visivo. Magnus lo aveva capito, esteriormente, in modi che molte persone non erano mai state in grado di fare, ma farlo entrare anche sottopelle, sotto le sue squame, alzando un poco una delle placche della sua corazza per far si che l'altro potesse spiarci attraverso… era davvero quello che voleva?
Deglutì a vuoto: stava davvero per ricominciare tutto quel calvario? Quello in cui si sarebbe mostrato frammento per frammento finché di lui non sarebbe rimasto che lo scheletro macilento che si portava dietro da una vita? Avrebbe davvero dovuto ricominciare tutto da capo?
Conoscere sé stessi, accettarsi, aver coscienza di sé, quello era un conto… ma le opinioni degli altri? Non che Magnus avrebbe mai potuto criticare le sue, esigue, bravate giovanili, ma quando sarebbe arrivato a raccontargli le cose più pesanti? La domanda era: la vita del figlio di un boss, anzi, Del Boss della malavita, del Re dei Demoni, ere peggiore, aveva più macchie della sua? Mentre ascoltava il suono secco dell'armadio chiudersi, avvertendolo dell'imminente arrivo di Magnus, Alec sapeva già la risposta.

<< Pronto e operativo, Capitain! Hai ancora quella fame pazzesca che rischierà di farmi perdere un dito?>> domandò allegro l'altro.
Alec scosse la testa e si tirò a sedere, senza ascoltare minimamente lo sproloquio dell'amico che faceva la paternale al gatto e si lamentava di non aver chiuso quella finestra o quella tenda. Non gli prestò la minima attenzione neanche quando uscirono sul pianerottolo e Magnus si fermò a chiudere la porta a tripla mandata. Rimase in religioso silenzio, a fissarlo, a fissare la sua schiena ed il cappotto nero con quell'enorme pellicciotto sul cappuccio.
Sembrava la figura di un personaggio dei cartoni, del classico cattivo vestito di pelle, con gli stivaloni ed i modi ambigui, avvolto nella sua lunga cappa che celava armi di ogni genere. Ma Alec era perfettamente consapevole che quella fosse pura apparenza, che Magnus non era assolutamente come suo padre, non era un “cattivo”.
Mentre si avviavano verso l'ascensore, mentre l'altro continuava a parlare e lui continuava ad annuire, Alec si disse che se qualcuno li avesse visti da fuori non avrebbe capito assolutamente nulla di loro.
Un poliziotto ed un criminale.
Uno vestito di blu, l'altro di nero.
Una corazza inscalfibile che nascondeva il suo proprietario ed un corpo esposto alla luce, senza la minima protezione.
Uno scheletro secco e tremante, fragile come il cristallo ed una perfetta struttura di diamante. Perché forse era la carne morbida quella che vestiva Magnus, ma Alec sapeva che dentro di lui c'era la forza devastante di un sole, della natura, della vita.
Lui non era così, forse la sua corazza poteva brillare come una stella, ma il brutto di quei bellissimi e lontanissimi astri non è solo nella distanza che li separa da chi li ammira. La tristezza si annida nella consapevolezza che di essi si può ammirare solo la luce riflessa, quella che un tempo avevano sprigionato con tanta forza e che ora non esiste più, ultimo brandello rimasto di un'esistenza finita di cui solo i posteri conosceranno la veridicità.
Se qualcuno li avesse potuti vedere davvero, ma davvero, avrebbe scorto un'armonia di pietre inondata di luce e null'altro che una fredda roccia che ormai, da tempo, aveva cessato di emanare la propria.
Se solo qualcuno fosse stato in grado di vedere davvero, si sarebbe accorto che mentre Magnus camminava su un sentiero di smeraldi Alec lasciava dietro di sé solo impronte insanguinate.

La vita del figlio del Re dei Demoni era peggiore, aveva più macchie della sua?

Sul riflesso delle lucide porte di metallo Alec fissò il denso liquido rosso che lo imbrattava da testa a piedi.
Un sorriso obliquo ed inquietante gli tirò le labbra.


Ovviamente la risposta era no.





Quella stanza non gli era mai piaciuta per fin troppe ragioni: per prima cosa si trovava sopra a tutto, isolata quasi fosse una cella di detenzione e non l'ufficio del Commissario della Polizia di New York City o quello del Direttore degli Affari Interni.
La seconda cosa che l'aveva sempre infastidito era il lungo corridoio vuoto che bisognava percorrere per arrivarvi, abbellito, se così si poteva dire, da freddi e seriosi ritratti di grandi agenti del passato e di eroi morti in servizio. C'era solo la scrivania della segretaria, annessa al piccolo ufficio aperto alle sue spalle, che dava un minimo di senso di “vita” in quel luogo.
L'ufficio in sé, poi, lo odiava ancora di più. Probabilmente il suo strizzacervelli gli avrebbe detto che lo odiava inconsciamente perché era il ruolo a cui suo padre aveva sempre ambito, per sé nel futuro immediato e per lui in quello a venire.
Che andasse a fottersi, lo strizzacervelli e pure suo padre: il suo odio era perfettamente conscio e quel posto, a capo di tutti, come burattinaio supremo, lui non lo voleva e mai l'avrebbe voluto.
Il fatto poi che fosse un ufficio estremamente formale, dotato di quel sottile lusso che i capi dovevano assolutamente dimostrare neanche fossero nel settecento e dovessero impressionare tutti con un cazzo di muro di porcellana in stile barocco – e che sua sorella e sua madre non rompessero le palle se quello non era il periodo giusto, era solo un dannato esempio – non migliorava la situazione.
La verità estremamente ironica e divertente era che Jonathan era cresciuto nel lusso, aveva deciso di abbandonare la confortevole casetta nei sobborghi di Brooklin, dove aveva tutto quello che gli serviva, per andarsi ad arrampicare sull'alto nido di un condor imponente e magnifico con le manie di una gazza ladra. Jon era uscito dalle case più popolari per stare nell'oro, per stare con suo padre, il suo vero padre, quello che capiva i suoi ragionamenti, i suoi scatti d'ira, la sua mente contorta tanto quanto la propria. Ma quanto lo disgustava ora… quanto lo disgustava quell'eccesso sul posto di lavoro, ecco.
In più ci si metteva quella stronza della Herondale, che lo guardava sempre come se fosse la reincarnazione di suo padre, del demonio, del diavolo, di Belzebù e di Mefisto in persona. Non lo aveva mai chiamato figlio di Satana ma probabilmente solo perché un minimo di religiosità l'aveva anche lei. Si poteva dire così? Era una parola esistente? Che cazzo! Non gli interessava neanche quello. Era solo arrabbiato, innervosito oltre ogni limite perché stava per andare di nuovo a parlare con lei, stava per andare di nuovo a confessarle quanto le sue azioni, le sue idee e la sua storia si fossero rivelate fallate, marce, sbagliate. Certo, quella volta non era stata colpa sua, non completamente, il problema non era nel fatto che molti erano morti e lui invece era rimasto in piedi, il problema era che probabilmente Jonathan si trovava ancora a questo mondo solo ed unicamente perché suo padre aveva fatto un favore ad una criminale.
Era vivo perché Valentine aveva fatto una delle sue deplorevoli azioni, era vivo solo perché c'era stato un torto, c'era stata un'ingiustizia. Chi era il morto che non aveva avuto giustizia? Chi il delinquente che non era finito dietro le sbarre? Era stata davvero la malavita che cercava di combattere da quando si era arruolato che gli aveva concesso la grazia di un'esistenza lunga e – quasi – felice?
Non lo voleva sapere, più si avvicinava all'ufficio della Herondale e più c'era una parte di lui che, come un bambino, batteva i piedi e diceva che non voleva, che doveva tornare indietro, che non gli sarebbe piaciuto quello che gli sarebbe stato detto, quindi tanto valeva non ascoltarlo. Ma dall'altro lato c'era anche quella sottile passione per il macabro, per l'orrore, per le cose brutte che tutti quanti covano in sé, ciò che spinge le persone ad interessarsi così tanto alla cronaca nera, a voler sapere tutti i dettagli di quella morte scabrosa, di quel delitto violento… era un'ossessione che ogni essere umano portava nel suo patrimonio genetico, la violenza aveva forgiato il loro mondo e continuava ad essere il fulcro e Jonathan, umano come ogni altro suo simile, viveva tra il desiderio infantile di fuga e quello sadico, masochistico di sapere, di sentirsi dire da un'altra persona che era ancora vivo solo perché suo padre era stato un mostro.
Quello era un punto che anche il suo analista aveva toccato, l'uomo gli aveva fatto notare, con finta leggerezza ben ponderata, che spesso quando ci capita qualcosa di brutto, quando ci viene fatto un torto o quando ci sentiamo in colpa, oscilliamo tra il non volerne più parlare e il volerlo fare in continuazione. Jonathan non poteva in alcun modo ripagare tutti degli sbagli di suo padre, ma si incolpava di non aver capito e come punizione aveva scelto proprio quella: l'infinito ripetersi di accuse, di ingiurie, di insulti non tanto contro suo padre quanto contro lui stesso.
Era nocivo forse a lungo andare, una cosa sciocca e autodistruttiva ma alle volte gli pareva così giusto, così… catartico…
Forse era solo lui ad essere pazzo e questo non era altro che l'ennesimo comportamento malato che suo padre gli aveva passato… o forse, visto come erano andate a finire le cose, quella era una tara genetica tutta di sua madre.
Jonathan espirò fortemente dal naso, gettando uno sguardo alla scrivania vuota e ricordandosi che sì, erano le fottute dodici di domenica mattina e non c'era nessuno dei lavoratori d'ufficio, ma contava che la Herondale, stronza come solo lei poteva esserlo, fosse lì anche quel giorno per guardarlo malignamente e infilare ancora di più il coltello nella piaga, anzi, in quella ferita aperta su cui già da solo aveva versato sale e acqua ossigenata.
Bussò alla porta senza neanche preoccuparsi di farlo piano, due colpi secchi e senza pietà, esattamente come sarebbe stata la donna con lui.
Quando la voce del Commissario lo esortò ad entrare Jonathan sorrise cupamente.

Era ora di riaffacciarsi sul patibolo per una nuova prova della sua impiccagione.


Il silenzio che l'aveva accompagnato per il corridoio ora si era impossessato della stanza.
Il Commissario Herondale l'aveva lasciato parlare senza mai interromperlo, neanche per qualche delucidazione o quando lui stesso si era reso conto di aver sbagliato orari o nomi.
L'aveva accolto con freddezza, come sempre d'altronde, guardandolo come se da un momento all'altro si sarebbe potuto aprire una zip sulla schiena e rivelare che il suo aspetto non era altro che un fantoccio dentro cui si nascondeva il caro vecchio Valentine.
Jonathan aveva sorriso beffardo a quel pensiero, mentre lei lo scrutava attentamente: Lightwood aveva avuto ragione da vendere quando gli aveva detto che loro non erano i loro stessi padri, ma che avrebbero pagato sempre i loro errori.
Di certo, quella stronza della Herondale non gli avrebbe mai permesso di dimenticare le colpe del suo.
Ma c'era da dire che quella mattina sembrava decisamente presa da altri problemi.
Entrando Jonathan non aveva potuto far a meno di notare che nessuna delle foto che di solito adornavano la libreria a parete era al suo posto. Erano invece tutte ammucchiate le une sopra le altre sul tavolino basso davanti al divanetto che si trovava sul lato opposto e solo una, voltata a faccia in giù, era posta sulla sua scrivania. Un'altra cosa che Jon non aveva potuto ignorare erano i vetri a terra. Non ci voleva un genio per fare due più due, ovviamente, ma la domanda principale non era “perché si sono rotte le fotografie”, quando più: Cosa era successo di così terribile da far andare su tutte le furie la Herondale fino a spingerla a gettare a terra le sue preziosissime foto?
Probabilmente non avrebbe mai avuto risposta a questa domanda, anche se un fastidioso prurito gli suggeriva che era una cosa importante, qualcosa da non dimenticare. Anche se gli scocciava ammetterlo, e doveva farlo solo a sé stesso al momento, quindi la cosa era davvero fastidiosa, Jonathan si disse che la cosa migliore da fare era accennare l'accaduto a Lightwood, magari quando sarebbe andato a dirgli che cosa ci faceva nell'ufficio del Commissario a mezzogiorno di domenica mattina del loro primo fottutissimo giorno libero dopo settimane ininterrotte di lavoro.
La donna davanti a lui continuava a non aprir bocca, presa da ragionamenti suoi che Jonathan non sapeva se volesse o meno venirne a conoscenza.
La risposta era, prevedibilmente, no.

<< Ricordo il caso, non è facile dimenticare la carneficina che ci fu. Ricordo anche la tua deposizione ma non ricordo assolutamente l'accenno ad un tatuaggio. Perché?>> chiese con calma.

Leggasi tra le righe: “lo raccontasti per primo a tuo padre e lui ti disse di non dire nulla, so che è così, ma voglio sentirlo dire da te”.

Sta' stronza…


Purtroppo però, Jonathan non poteva accontentarla e farla godere ancora di più di quel sadico piacere nel sapere che Valentine era stato immischiato anche in quella faccenda. O per lo meno, non in quel modo, per il resto Jon credeva fermamente lo stesso.

<< La mia prima deposizione fu al Capo Garroway, mi chiese più e più volte se fossi sicuro di aver visto una rosa, ma una volta fatto il sopralluogo, controllato la visibilità all'ora dell'accaduto e tenendo conto del colpo alla testa che avevo ricevuto, tutti furono più che concordi nel dire che me lo dovevo esser immaginato, che magari ho sovrapposto qualche ricordo a quel momento. Mi dissero che ne avrebbero tenuto conto ma che probabilmente avevo preso un abbaglio.>>
Lei rimase impassibile. << E lo hai dimenticato.>>
<< L'ho messo da parte. I miei superiori dicevano che non era importante, che non era possibile che avessi visto una cosa del genere malgrado sapessi perfettamente cosa avevo visto.>>
<< Fino a quando non hai trovato un biglietto da visita, viola, con su quella stessa rosa durante i controlli di routine per il nuovo Caso Congiunto tra Antidroga e Omicidi.>> continuò quasi sembrasse scettica.
Jonathan annuì solo.
<< Quello che non capisco, agente Morgenstern, è perché sei qui solo a parlarmene, devo dedurre che hai tenuto la cosa nascosta al suo superiore? Per quale motivo?>>
Oh, era questo il gioco a cui voleva giocare? Perché non lo hai detto ad Alexander? Okay, allora avrebbe giocato, ma non le sarebbe piaciuta per niente la sua risposta.
Jonathan si mise più comodo sulla sedia, pronto a sganciare quella bomba che lo rendeva segretamente tronfio di quanto accaduto:
<< Ho detto a Lightwood che avevo un sospetto, ma che era una cosa decisamente incerta e che non potevo assicurargli che c'entrasse effettivamente con il caso. Lui mi ha guardato in faccia, ha annuito e mi ha detto di muovere il culo e portargli dei risultati.>> disse ghignando.
La Herondale sorvolò molto elegantemente sul suo linguaggio scurrile e alzò un sopracciglio.
<< Ebbene? Hai ottenuto dei risultati?>>
Questa volta Jonathan dovette scuotere la testa. << Non dove sono andato a cercare ed era il posto in cui avrebbero potuto darmi più informazioni. >> cominciò tenendosi sul vago. Se la Herondale era anche solo un po' il poliziotto che tutti credevano fosse, e se avesse per un attimo accantonato l'odio abbastanza immotivato che provava nei suoi confronti, forse non gli avrebbe chiesto nulla in più. In effetti lo lasciò continuare con un cenno del capo.
<< Perciò sono venuto direttamente qui, a chiederle se quel vecchio caso dell'omicidio senza movente, secondo lei, possa essere in un qualche modo collegato a quello recente che ci è stato affidato.>>
<< Perché non sei andato da Garroway?>>
<< Perché mi avrebbe detto che sono paranoico. >>


E mi avrebbe anche costretto a dirgli perché mi sta andando il sangue al cervello. Avrei dovuto per forza accennargli almeno qualcosa per togliermelo dal cazzo e poi avrebbe capito tutto, chiamato Lightwood, dettogli che non ero affidabile sotto questo punto di vista, che la stavo prendendo sul personale… mi avrebbe tolto dal caso credendo di farmi un favore ma complicandomi invece la vita.


La Herondale fece una smorfia, come se quella, effettivamente fosse la risposta più ovvia del mondo. Poi si poggiò con le spalle allo schienale della poltrona ed intrecciò e dita.
<< Ti parlerò molto francamente, Morgenstern: questi due casi hanno molte cose che coincidono tra di loro, il sospetto di una rete di criminalità organizzata ma con membri non dipendenti gli uni dagli altri, omicidi senza risoluzione, senza senso e senza giustificazione. Figure misteriose che fanno il loro lavoro e poi scompaiono, come killer su commissione, impossibili da ricollegare al loro reato perché privi di movente. Ci sono le basi affinché si possa dire che sono collegati e se così fosse - >> disse fissandolo dritto negli occhi. << sono più che certa che l'uomo giusto per scoprirlo sia colui che è a capo della tua squadra. Parlane con il Tenente Lightwood, indagate, arrivate a delle conclusioni e comunicatemele, di qualunque genere esse siano. È tutto.>> concluse secca.

Jonathan la guardò per un attimo interdetto, nascondendo tutta la sua frustrazione dietro alla famigerata faccia da poker che suo padre gli aveva dato la grazia di ereditare.
Non gli aveva detto nulla su di lui, non gli aveva detto che probabilmente era vivo solo per merito delle malefatte di Valentine, non aveva infierito e al contempo non gli aveva detto che cazzo fare. Era stata solo un enorme perdita di tempo, gli aveva detto di andare da Alexander e basta, di fare esattamente ciò che avrebbe comunque fatto.
E se ci fosse andato il moro a chiedere informazioni? Se fosse andato Alec a chiedere un consiglio, a spiegare la situazione? Lo avrebbe liquidato in due minuti come aveva fatto con lui o sarebbe stata più gentile, più empatica? Jonathan poteva perfettamente immaginare la risposta, poteva tranquillamente figurarsi la scena di una Imogen Herondale rilassata e piacevolmente colpita dal fatto che il ragazzo avesse deciso di chiedere a lei e non al padre.
Ma Jonathan non poteva più farlo, non poteva più andare a chiedere a suo padre un consiglio, non poteva andare neanche da Luke perché- perché non era più la stessa cosa, non lo sarebbe mai più stata e questo era quando.
Con un moto di rabbia silenziosa Jonathan si alzò dalla poltrona ed annuì, dandole le spalle e avviandosi a passi decisi verso la porta.
Un suono sinistro lo fece fermare, quando si rese conto di aver calpestato un frammento di una delle cornici.
Rimase fermo, immobile a fissare quella polvere lucida e bianca.

<< Ha ancora dei vetri per terra, stia attenta.>> disse con freddezza. Poi aprì la porta e ne uscì lasciando che sbattesse contro lo stipite immacolato.

Dentro l'ufficio Imogen sollevò delicatamente la foto che aveva sulla scrivania, suo figlio e suo nipote la fissavano seri, impettiti il giorno del loro diploma.
Negli occhi azzurri di Stephen poté quasi leggere un ammonimento severo, qualcosa che le fece scivolare nello stomaco una sensazione simile al disagio.
William invece le trasmetteva tutt'altra sensazione, nei suoi di occhi leggeva rimorso, forse perché sapevano tutti quanto, a suo tempo, Will riuscì ad essere disgustosamente duro con quella che, con tutta probabilità, era la persona che aveva meno colpe di chiunque altro in quella storia.
Suo nipote, dai lontani anni settanta, la pregava di non fare il suo stesso errore, di non partire prevenuta verso qualcuno che non aveva fatto nulla, il cui unico crimine risedeva in colui che gli aveva dato i natali.
E forse Imogen era sempre stata troppo dura con quel ragazzo, forse non essendo riuscita ad avere la sua vendetta su Valentine si accaniva su Jonathan, così dannatamente simile a suo padre, con quello sguardo fiero, strafottente… era il completo opposto di Alexander, un ragazzo tanto a modo, rispettoso, gentile e- e con gli occhi blu così simili a quelli dei suoi ragazzi…
Come se avesse dovuto mandar giù un boccone amaro, Imogen ammise a sé stessa che più del comportamento esemplare di Alexander Lightwood, più del coraggio che aveva avuto nell'andare a farle le domande più fastidiose ma giuste, più del modo in cui trattava tutti, per la sua idea che non si era colpevoli fino a prova contraria quando lei, oh, lei lo sapeva che spesso non c'erano prove per la cattiveria e l'orrore della gente… più di tutto questo, quello che lo aveva resto a conti fatti il suo preferito era ciò che, a suo tempo, aveva fatto in modo che Imogen perdonasse immediatamente Robert.
Gli occhi blu più sconvolgenti che avesse mai visto, divenuti in un attimo solo il mero fantasma di ciò che erano stati. Occhi tanto blu che neanche il suo Steph aveva, neanche quel piccolo terremoto di Will.
Jonathan non meritava tutto il suo odio, questo era certo, ma lei era una vecchia stronza e ormai era troppo tardi per cambiare.
Fissando il pavimento, lì dove il frammento di vetro si era polverizzato, Imogen si disse che, almeno, qualcuno che guardasse con imparzialità quel ragazzo c'era e anche se era triste che fosse una persona tanto giovane a riuscirci e non lei, sperò ugualmente che potesse bastare.




Stare stravaccati su una panchina al centro di Central Park non era proprio la sua idea di “fare una passeggiata”, ma Alec pensò che, dopotutto, con Magnus non si poteva mai dire quanto i piani fatti sarebbero stati seguiti o meno. O se sarebbero anche solo stati presi in considerazione, c'era da dire. L'uomo se ne stava tranquillamente seduto con le gambe allungate verso il bordo del laghetto, il cartone vuoto del caffè in una mano, l'altra sprofondata nella tasca del piumino.
Non avevano parlato di molto se non della sua apparentemente insaziabile fame, cosa del tutto giustificata, secondo Alec, dal suo continuo movimento. Le battute su quell'affermazione si erano sprecate, ma un paio di richiami all'ordine ed un sonoro schiaffone sul ginocchi, dritto sul nervo, avevano zittito Magnus con estrema facilità.
Ora se ne stavano lì, in silenzio, in attesa di cosa Alec non lo sapeva. O meglio: lo sapeva ma sperava di non arrivarci. Evidentemente Magnus era di tutt'altro avviso.

<< Allora. Tu conosci molti dei miei amici, o per lo meno io ne parlo in continuazione e quindi all'atto pratico è come se li conoscessi di persona, mentre per te, beh, la storia è decisamente diversa, vero fiorellino?>> iniziò ammiccando.
Alec alzò gli occhi al cielo. << Ce la fai a chiamarmi con il mio nome di battesimo?>>
<< Intendi dire che ti piace “Alexander”? Non ricordo chi, se te o Sonny, una volta mi diceste che lo reputavi un nome da vecchio e che preferivi di gran lunga “solo Alec”. È cambiato qualcosa o sono io che sono speciale?>> chiese battendo le ciglia con fare teatrale.
L'altro rimase impassibile. << È cambiato che un deficiente mi chiama in modi estremamente imbarazzanti ed un nome che sembra provenire dritto dal settecento è meglio di “fiorellino”.>>
Magnus sbuffò. << Ogni tanto potresti reggermelo il gioco.>>
<< Poi non sarebbe più divertente però.>>
Sorrise. << Touché.>> si stiracchiò un po' sulla panchina, poggiò il cartone al suo fianco e volse la testa verso il poliziotto. << Quindi? >>
<< Cosa?>>
<< Oh, non usare questo trucchetto con me tesoro, sai di cosa parlo.>>
Alec si strinse nelle spalle. << Non credo ci sia nulla da dire.>> fece evasivo.
L'asiatico non se la bevve minimamente. << Alexander, dolcezza, chiunque ti vede a primo colpo pensa che tu sia un automa, e non lo dico con cattiveria eh, ma sei così rigido e formale… poi ti conoscono un po' meglio, così chiuso e riservato come appari, e tutti pensano che sicuramente sei una di quelle persone che alle feste rimaneva addosso al muro, cercando di sparire nella tappezzeria. Uno di quelli che ha degli amici solo perché quelli sono talmente tanto dei rompicoglioni che non gli hanno dato la possibilità effettiva di scegliere se essere o meno amici davvero o che sono degli sfigati che nessuno si calcolava. Quindi, ora, per difendere il tuo onore e anche perché dobbiamo “conoscerci” - gli fece l'occhiolino – tu mi racconti come hai conosciuto i tuoi besties. >> concluse sorridendo.
Alec si accigliò, decisamente contrariato da quella terribile definizione di sé. << Tanto per cominciare, non cercavo di sparire nella tappezzeria.>> disse serio sotto lo sguardo scettico di Magnus. << Ci riuscivo perfettamente. Tantissime volte i ragazzi sono usciti a cercarmi mentre io ero sempre nello stesso identico punto in cui mi avevano lasciato. Una volta hanno anche fatto spegnere la musica e accendere le luci perché nessuno, nessuno, riusciva a capire dove fossi.>>
Lo sguardo di Magnus passò da scettico e divertito. << E dimmi, dove ti nascondevi? Tanto per sapere i tuoi posti preferiti e quindi andare a colpo sicuro nel caso in cui dovessi cercarti, sai.>> disse con un ampio sorriso che a stento riusciva a trattenere la risata che gli stava salendo dalla gola. Alec riassunse la sua espressione seria, quella degli interrogatori, il che rendeva tutto ancora più comico. Prese un respiro e:
<< Esattamente dove mi avevano lasciato: su una sedia vicino alla finestra che dava sul giardino. Sono rimasto immobile per un'ora e spicci mentre tutti continuavano a cercarmi. Ma il fatto che molti di loro non avessero la più pallida idea di come fosse fatta la mia faccia ha aiutato molto, probabilmente quei due che mi hanno visto mi avranno scambiato per uno troppo ubriaco per aiutare con le ricerche.>> annuì convinto.
A quello Magnus non si trattenne più e gli scoppiò a ridere in faccia.
<< Andiamo! Io sono fiero dei danni che facevo alle feste, del fatto che tutti si ricordassero di me per quanto fossi magnifico! E tu mi dici che sei fiero di come nessuno ti notasse?>>
Con il suo volto impassibile una faccia da poker fenomenale che però, Magnus ne era ben consapevole, il detective non sfruttava mai per giocare a carte visto ciò che era in grado di fare, quello lo trapassò con un solo sguardo.
<< Ti sei mai reso conto, durante il caso, di quante volte io sia entrato ed uscito da casa tua senza che te ne accorgessi?>>
Magnus smise di ridere. << Come potrei essermene reso conto se non me ne sono accorto? >>
chiese retorico. Poi si bloccò. << Aspetta: entravi ed uscivi da casa mia? Senza dirmi nulla?>>
<< Ero in casa quando tu e Simon avete fatto quella maratona dei Power Ranger.>>
L'altro lo guardò allibito. << Non ci credo, stai bluffando! Eravamo soli.>>
<< Hai detto “Io porto decisamente meglio sia il rosa che il giallo, perché poi devi essere così banale da dare il giallo alla ragazza asiatica e il rosa alla bianca?”>>
Che fosse rimasto a bocca aperta, a fissarlo senza parole, Alec ebbe il tatto di non farglielo notare. << Porco cazzo! Ma cosa sei? Uno stalker?!>> gracchiò.
<< Secondo te come facevamo io e Jace a sapere sempre tutto dei ragazzi di Izzy? Lui la teneva d'occhio da vicino e io pedinavo il tipo.>>
<< Mi sai prendendo per il culo.>>
<< L'ho fatto anche con Jace quando cambiava ragazza ogni giorno, avevo paura che andasse in un bordello o che ci lavorasse magari.>>
<< Cazzo!>>
<< E con Clary una volta. Perché non mi fidavo di lei.>>
<< E lei lo sa?>>
<< Ovviamente.>> disse come se la cosa fosse scontata. << No.>>
Magnus annuì, pensieroso. << Perché so per certo che questa cosa dovrebbe inquietarmi mentre invece mi fa solo venir voglia di ridere e di sapere tutte le storie di pedinamenti che hai alle spalle? Ti è stato utile per la polizia di certo.>>
<< Non sai quanto. E credo che ti faccia ridere perché lo avrai fatto anche tu.>>
<< Yup, ma il novanta percento delle volte mi beccavano. A meno che non fossi “in missione segreta”, in quei casi avevo sempre qualcuno vicino a me che mi riprendeva per un orecchio. C'era Camille… lei è spaventosa, rimane ferma immobile per ore e ore, in attesa, sembra una pianta carnivora che attende solo che un insetto le si posi tra le fauci… sì, fa davvero paura.>> disse rabbrividendo.
Alec lo guardò interessato, completamente dimentico del fatto che avrebbe dovuto parlare lui quella volta e non l'altro.
<< La conosci da tanti anni, vero? Avete… lavorato assieme?>> domandò con cautela.
Magnus annuì. << Da quando avevo diciassette anni. Dio… sembra un'eternità.>>
<< Lo è, è una vita fa ormai, davvero una vita fa. Quasi non mi ricordo com'ero a quell'età.>>
Gli occhi felini dell'uomo saettarono su di lui con la stessa curiosità di un animale. << Perché dici così? È stato un brutto periodo per te?>>
Alexander si prese il suo tempo per rispondere, pensandoci con attenzione, valutando quanto quelle parole potessero contenere del vero e del falso.
<< Non proprio. >> si risolse a dire in fine, cullato nel silenzio fittizio che li aveva avvolti.
Di fianco a lui Magnus attendeva con pazienza, conscio che con le persone come lui bisognava aspettare che si aprissero quando e come volevano loro. Con un sorriso beffardo si disse che forse, tra tutti i suoi amici, Raphael era di certo quello che più somigliava al Detective per tanti motivi diversi.
Forse un giorno anche quel cretino di un un messicano si sarebbe aperto con lui con la lentezza e l'incertezza con cui lo stava facendo Alexander, anche se con anni e anni di ritardo.
<< Non proprio in che senso?>> chiese per incoraggiarlo.
Alec si strinse nelle spalle. << Non avevo detto ai miei che ero gay, non ancora. Papà di certo già lo sapeva, mamma invece aveva iniziato a parlarmi dei corsi di preparazione per l'università e per il college. Però… avevo superato uno scoglio abbastanza alto, era già un passo avanti.>>
<< In che senso?>>
<< Io- >> la parole gli morirono in gola quando si rese conto di cosa stava per dire, di cosa stava per confessare.
Dio santissimo, come erano arrivati lì? La fascia che andava dai suoi quindici ai diciannove anni non doveva neanche essere nominata e invece… cosa poteva dirgli? Che a diciassette anni si era messo l'anima in pace, aveva accettato di farsi portare in locali “misti”, lo disgustava anche solo pensarlo, non erano più ai tempi della segregazione razziale, non c'erano più locali “misti” o per “bianchi o neri”-


No, però ci sono ancora i gay pub, i luoghi in cui si riuniscono solo i membri della comunità LGBT e quelli in cui ci vanno solo “gli etero” per rimorchiare, siamo ancora più divisi di quanto non crediamo, solo che ora puntiamo più sui nostri gusti che sul colore della pelle. Non che questo non sia ancora un grande classico. Dio, che schifo.


Voleva dirgli davvero che in uno di quei locali aveva rincontrato la ragione e il principio di tutti i suoi effettivi problemi? Che fino all'anno prima si era vomitato l'anima in bagno ogni settimana tormentato e disgustato da sé stesso e da ciò che credeva di provare? Voleva davvero cominciare così?


Una mezza verità Alec, ometti, non mentire, ometti solo.


<< Diciamo che era da poco che l'avevo detto ai miei amici, un vero caos all'inizio, poi si è sistemato tutto. >> sorrise con affetto a quel pensiero. << Una manica di deficienti, pare che io non sia in grado di scegliermi persone normali da aver vicine.>>
<< Ehi!>> protestò Magnus punto sul vivo.
Alec lo liquidò con una smorfia. << A te non ti ho scelto e non sei neanche normale, non azzardarti a dire nulla.>>
<< Okay, non interromperò il racconto. È qui che conosci Seth?>>
<< No, Seth l'ho conosciuto molto prima. Compagni di banco, era l'unico posto libero credo, non ho controllato sinceramente. Speravo vivamente che fossimo dispari e che nessuno si sedesse vicino a me, ero già abbastanza inquietante all'ora perché succedesse.>>
<< Che qualcuno ti evitasse?>>
Alec annuì. << L'estate tra i miei tredici e quattordici anni mi ha fatto diventare più alto, più pallido e più cupo, come sia stato possibile poi è un mistero, Jace diceva sempre che se fossi diventato un po' più serio mi sarei trasformato in una statua.>>
<< La solita delicatezza… >>
<< Aveva ragione, alle medie non ho brillato per carattere o per gioia, anzi ero- sono stato per molto tempo piuttosto timido.>>
Magnus alzò un sopracciglio. << Ma dai, non l'avrei mai detto, tu timido, assurdo!>> fece ironico.
<< Fai poco lo spiritoso, sono migliorato tantissimo.>>
<< Perché sei cresciuto, funziona così.>> disse con tono più dolce.
Ma Alec scosse la testa. << Ho solo visto che fine fa la gente timida a questo mondo. Ti auguro di non vederlo mai.>>
L'uomo si accigliò, lo sguardo di Alec era perso in ricordi che lui non poteva vedere, non poteva sapere. Aveva davvero molta voglia di chiedergli di più, di domandargli a cosa si riferisse, anche se poteva immaginarlo, ma si frenò. Un passo alla volta, un anno di vita alla volta, anche un mese alla volta, o un giorno se avesse voluto. Magnus aveva tutto il tempo del mondo per scoprire il passato di Alexander e se questo gli avrebbe dato la possibilità d'ascoltarlo Magnus sarebbe stato capace di tacere per sempre. Perché anche se nessuno ci scommetteva un soldo lui era più che bravo ad ascoltare, lo era sempre stato, sin da bambino quando sua madre gli ripeteva quanto fosse basilare per un rapporto di qualunque tipo, specie per il matrimonio.


Amare una persona significa ascoltarla anche quando l'unica cosa che vorresti fare è urlarle contro che ha torto marcio, qualunque sia la motivazione.


E a Magnus piaceva ascoltare, ascoltare e aggiungere dettagli, fare domande, limare i particolari e creare una storia, un futuro, assieme.
Non aveva mai avuto una famiglia di sangue molto numerosa, i genitori di sua madre erano morti prima che lui nascesse, il padre di suo padre non se lo ricordava neanche lui tra un po' e la nonna… lei la ricordava vagamente, giusto un poco. La sua famiglia erano i suoi amici, gente che aveva camminato da sempre con lui, gente che aveva imparato a camminare con lui, Lily aveva imparato anche a gattonare per inciso, e gente che invece gli si era affiancata con gli anni. Di questi non sapeva tutto, non al principio, ma poi aveva chiesto, si era fatto raccontare, si era immerso in un mondo che era il suo ma visto da un'altra prospettiva, la stessa scenografia vissuta da personaggi diversi e così aveva imparato a vedere le persone, a conoscerle, a capirle.
Di Alexander aveva capito che dietro alla facciata del poliziotto senza macchia e senza paura c'erano decisamente più macchie e più paure del previsto e la cosa, in parte, lo lasciava perplesso, con uno strano disagio in petto. Era ovvio che il giovane non volesse mostrarsi troppo, era ovvio che ci fossero cose del suo passato di cui si vergognava ancora, di cui aveva ancora timore, di cui si portava addosso la croce senza un motivo apparente. Ma era anche ovvio che avesse un cuore grande, un animo gentile, altruista e sì, timido di sicuro e non la timidezza dolce dei bambini, la sua era proprio quella scaturita dal non sentirsi a posto, nel luogo giusto.


Non sentirsi giusti.


Che sensazione orribile doveva essere…
Senza incrociare il suo sguardo gli diede un leggero colpo di gomito, attirando la sua attenzione e richiamandolo dai luoghi sperduti in cui si stava lentamente calando.

<< Cosa faceva al tempo una persona timida? Come hai conosciuto davvero Seth?>>
Alec sorrise con un pizzico di nostalgia. << Si nascondeva, soprattutto. Cercavo di essere invisibile, a pensarci ora è una cosa assurda ma al tempo avevo il terrore che qualcuno potesse rendersi conto che ero gay anche solo standomi vicino. Così il primo giorno di liceo mi misi al secondo banco, vicino alla finestra, e pregai con tutto me stesso che la classe fosse dispari, in modo da metter abbastanza paura agli altri per non farli sedere vicino a me.>>
Magnus ridacchiò. << Perché ho la vaga sensazione che non funzionò?>>
<< Perché fu così. Seth entrò poco dopo di me, si guardava attorno titubante, credo che entrambi avevamo la stessa identica faccia. È rimasto un po' a controllare i banchi, a decidere dove sedersi, poi ha puntato dritto verso di me e mi ha chiesto se il posto fosse libero o se lo stessi tenendo per qualcuno. Il resto, come molte altre situazioni, è storia.>> concluse stringendosi nelle spalle.
<< Siete diventati amici così? Sedendovi allo stesso banco?>>
Alec annuì. << Gli dico sempre che se avesse avuto un po' più di coraggio e si fosse andato a sedere vicino ad una ragazza o a quelli che poi sarebbero diventati i “fighi” della classe io e lui non ci saremo mai conosciuti.>>
<< Ed è vero?>>
<< Probabilmente. Seth è una persona comune, come molte altre – non te lo immaginare come Simon, so che lo stai facendo, ma non è un imbranato nerd che straparla a buffo. È una persona allegra, positiva, che ha una gran pazienza ma quando la perde non ragiona più. Sappi che è l'unico in grado di terrorizzare Jace con un piatto e che sa affilare benissimo i coltelli.>>
Magnus rabbrividì. << Dio santissimo, non dovremmo mai fargli conoscere Lily allora.>>
<< Una Lily già la conosce, la mia Lily intendo.>>
<< Altri amici? Alexander, sei l'amico gay di qualcuno?>> chiese alzando un sopracciglio.
Alec però lo guardò scettico. << Non sono neanche l'amico gay di mia sorella, posso esserlo di qualcun altro? È vero che le ragazze mi raccontano cose più imbarazzanti rispetto a quelle che raccontano agli altri, ma alla fine sappiamo sempre tutto di tutti.>>
Con un sorriso morbido a piegargli le labbra Magnus si voltò meglio di fianco, poggiando un braccio allo schienale della panchina e reggendosi la testa guardò Alec colpito da un leggero e piacevole calore.
Era strano, terribilmente strano, sentire Alexander parlare della sua vita privata. Di certo il suo era uno dei ragionamenti più assurdi del mondo, ma aveva quasi sempre avuto l'impressione che oltre la sua vita lavorativa, oltre i suoi fratelli, i colleghi e gli amici dei fratelli Alec non avesse nessuno. Aveva sentito il nome di Seth, aveva sentito un accenno ad altri nomi ma non aveva mai chiesto nulla, non sapeva quanti fossero i suoi amici, non sapeva a che livello fossero quelle amicizie e neanche se c'era qualche suo ex tra di loro. Ma sentirlo parlare, scoprire piccoli frammenti, tessere di un puzzle ancora troppo grande perché potesse vederlo nella sua interezza, gli scaldava il cuore, lo riempiva di un'oncia di orgoglio e qualche spruzzo di felicità.
Dopotutto, conoscere nuovi amici, distribuire il proprio amore fra la gente, era una delle cose che gli riusciva meglio, quando poi questo amore in un qualche modo era ricambiato, le cose miglioravano incredibilmente.
<< Quanti siete?>> domandò allora sorprendendo il ragazzo. << Intendo, noi siamo: io, Caterina, Raphael, Lily, Malcom, Quinny, Mel, c'era Ragnor, ci sono alcuni amici un po' meno stretti di cui non ti ho ancora parlato ma di cui saprai presto vita morte e miracoli… Voi quanti siete?>>
Con sua sorpresa Alec ridacchiò divertito.
<< Che c'è di tanto divertente?>> chiese ancora.
<< Quanti siamo… quando ero più piccolo non avrei mai creduto di poter dire di aver molti amici, non ero minimamente capace di far conoscenza con gli altri e ora- ora se non conto Simon e Clary, che purtroppo non posso più far a meno di catalogare come tali, se non conto i ragazzi del Dipartimento o te. >> e qui accennò uno dei suoi soliti sorrisetti storti. << Beh, siamo un bel po'. C'è Seth, Piper, Dawson, Howard, Sabrina, Christoper, Lily, Andy, Georgina e Carla. Siamo una decina alla fine, ma la verità è che qui, a New York, siamo rimasti davvero in pochi.>>
Il volto disteso del giovane lasciava trasparire una leggera nostalgia ed un affetto ben più forte. Magnus l'osservò senza sapere cosa dire, non credeva che fossero così tanti gli amici di Alexander e non riusciva a capire se lo sconvolgesse più il numero, il tono con cui aveva detto i loro nomi o il sorriso soffice che gli piegava le labbra. No, era decisamente una sorpresa, perché si era sempre immaginato l'adolescenza di Alec come un luogo buio e solitario, un cammino privo di luci, di compagni con cui percorrerlo?
Continuando a tenere gli occhi puntati sul viso dell'amico – Alec stesso lo aveva appena definito così, ah! - Magnus cercò di carpire anche la più piccola informazione dalla sua postura, dalla sua espressione.
Era rilassato, a suo agio, esattamente com'era lui stesso quando parlava dei suoi di amici.
Allora perché quella sensazione d'inquietudine, di disagio, di malessere, non voleva saperne di scollarsi dal fondo del suo stomaco?
<< Ad essere onesti,>> proseguì di punto in bianco Alec senza notar minimamente quegli occhi indagatori che lo scrutavano, << Carla, Andy e Georgina sono più piccoli di noi, di quattro anni, ma spesso quando uscivamo tutti assieme loro venivano con noi, anche solo per poi andarsene per fatti loro. Alla fine sono diventati… parte del gruppo? Non so come spiegartelo, ad un certo punto non era più “ Ma ci dobbiamo portare dietro i ragazzini?” ma un “ Ehi, dove sono i ragazzini?” >>
<< E che fine anno fatto? Hai detto che siete rimasti in pochi.>>
Alec annuì. << Proprio qui in città siamo solo io, Seth, Piper, Sabrina e Chris, ma gli ultimi due sono spesso fuori per lavoro, NYC è solo “la casa base”, poi sono sempre in volo.>>
Magnus sorrise. << Letteralmente o in modo figurato?>>
<< Letteralmente. Sabrina è l'assistente di un fotografo, quindi lo segue di continuo nei suoi viaggi. Chris invece più in modo figurato, è un macchinista, guida i treni delle linee intercontinentali. La beffa sta nel fatto che sua madre voleva che facesse il medico.>> ammiccò.
L'altro lo guardò perplesso: per cos'era quel alzare di sopracciglia?
Il poliziotto sembrò notare la sua faccia interrogativa. << Voleva che facesse il medico. >> ripeté piano, con tono ovvio. << Christopher.>> sottolineò. Poi vedendo la sua faccia ancora confusa sospirò. << Passi troppo tempo con Simon ma ugualmente non ce ne passi abbastanza. Chris è il fratello maggiore di Carla.>> concluse come se quello avrebbe potuto spiegare tutto. << Continuo a non capire. Tutte le madri vorrebbero un figlio medico.>>

<< La mia no, o avvocato o giudice.>> si strinse nelle spalle. << Ma non te la spiego se non la capisci, sappilo.>>
Ci fu un attimo di silenzio, poi Alec cedette. << Va bene, ascolta, è nero.>>
<< Cosa? Il tuo humor?>>
<< No, cretino, Chirs, è di colore, è afroamericano.>>
<< E questo mi aiuta perché?>>
L'altro sospirò pesantemente. << Mi stai deludendo Magnus, te lo dico fin da subito. Andiamo! È di colore, si chiama Christopher, sua sorella si chiama Carla e sua madre voleva che facesse il medico! Chi è?>>
<< Il tuo amico?>>
Alec lo guardò con la sua solita faccia impassibile, scuotendo impercettibilmente la testa.
<< Non ti facevo così stupido.>>
Magnus spalancò le labbra in una smorfia assolutamente indignata, pronto a lanciarsi in un'arringa lunghissima e infervorata su quanto in verità lui fosse un genio, di troppe cose e decisamente incompreso, e che solo perché non capiva i suoi stupidi indovinelli, fatti su persone che non conosceva, non significava che fosse stupido. Ma ancora una volta il karma, la fortuna, la Dea bendata o chi per lei aveva deciso di posare una mano sulla fronte di Alec e di risparmiargli le certe due ore di sibili, gridolini indignati e sproloqui sulla sua magnifica persona.
Il telefono del detective squillò in quel preciso momento, facendo muovere il proprietario dalla sua immobilità da delusione.
Alec infilò la mano nella tasca esterna del giaccone e ne estrasse il cellulare. Sullo schermo un numero senza nome che fece alzare un sopracciglio al moro.

<< Pronto?>>
<< Salve, sto cercando Mr Night.>> disse sicura la voce dall'altra parte.
Magnus, aveva avvicinato l'orecchio al telefono venne spinto indietro da una gomitata. Alec lo guardò male, intimandogli di farsi gli affari suoi e di non impicciarsi.
<< Mi scusi, potrebbe ripetere?>>
<< Non ci posso credere, ti sei salvato con una chiamata sbagliata?>> chiese l'altro scocciato.
<< Starei cercando Mr Night, il suo superiore mi ha detto di chiamarla per parlarle direttamente.>>
Con un'espressione dispiaciuta, che non fece altro che far alzare a Magnus gli occhi al cielo, Alec scosse la testa.
<< Mi spiace, temo che abbia sbagliato numero.>>
<< Oh, mi scusi per il disturbo allora.>> rispose lo sconosciuto con tono morbido e basso.
Chiunque fosse quell'uomo doveva esser abituato a parlare con gli altri, al suo posto probabilmente Alec si sarebbe maledetto una decina di volte e poi avrebbe borbottato qualche scusa mista ad insulti verso sé stesso.
<< Nessun problema signore, le auguro buona giornata.>>
<< Anche a lei, Sir.>> e attaccò.
Staccando il telefono dall'orecchio Alec aggrottò le sopracciglia.
<< Che c'è? Non dirmi che era una cosa seria.>> sbuffò Magnus stravaccandosi sulla panchina.
Alec scosse la testa. << Aveva sbagliato numero.>>
<< E allora cosa ti ha fatto rimanere di sasso così?>>
Il moro si voltò lentamente verso il compagno, l'espressione ancora perplessa. << Mi ha chiamato “Sir”. >>
Sbuffando ancora l'asiatico si strinse nelle spalle. << Non ti ci hanno mai chiamato? Tipo, sei mai stato in Inghilterra? Lì può capitare ogni tanto, se sei nell'ambiente giusto. Magari era proprio inglese.>>
Anche Alec si strinse nelle spalle. << Mai uscito dall'America.>> e prima che un Magnus scioccato potesse replicare. << Non per vacanze o per andare in Inghilterra almeno, dove sono stato non venivi certo chiamato “signore”. Mi ha fatto strano, tutto qui, non è tipo un titolo nobiliare?>>
<< Non proprio, non è Lord o cose simili, è più un titolo di rispetto, dato a persone facoltose.>>
<< Capito. Spero riesca a trovare il numero giusto allora, a quanto pare aveva urgenza di parlare con questo Mr. Night.>>
<< Uh-uh che nome losco! Fa tanto spia, o a gente segreto!>>
Alec sospirò si batté la mani sulle cosce e fece forza per alzarsi. << Curioso che a dirlo sia qualcuno che di cognome fa Bane.>>
Magnus gli sorrise. << Disse Mr Light- wood. >> ammiccò balzando in piedi. << Dove si va ora?>>
Il volto del giovane ebbe un guizzo che l'altro non riuscì ben ad identificare: piacere? Felicità? Impazienza? Fame?
<< Al Nascosto ovviamente.>> rispose con la sua solita voce monocorde.
Fame, decisamente.
L'uomo alzò gli occhi al cielo sbuffando. << Quando eri un adolescente dovevi essere il tormento di tua madre.>> poi si rese conto di ciò che aveva detto e si voltò di scatto verso il collega. << Non- non in quel senso! Nel senso che scommetto fossi un pozzo senza fondo al tempo.>>
Alexander lo guardò per un attimo senza dir nulla, poi scosse la testa. << Non sono un pozzo senza fondo, è che con il lavoro che faccio consumo moltissimo. Tu non hai fame ora?>>
<< Fiorellino mio bello, ti rendi conto che hai fatto colazione due volte e l'ultima neanche un'ora fa?>>
Alec scrollò la testa e gli diede le spalle, avviandosi verso l'uscita del parco. << È questo il mio segreto Mags, io ho sempre fame.>>

Magnus lo fissò per un interminabile minuto, rimanendo fermo immobile. Quando poi scattò verso di lui un sorriso beffardo gli illuminava il volto.
<< Questa di citazione l'ho capita! Altro che “non posso che considerarli amici quei due rompipalle” sei assolutamente l'amico ideale di Stewy! Sei un nerd! Un nerd con i fiocchi dire!>>
<< Chi fa citazioni ora? Non avevamo detto che quelle a tema potteriano erano bandite?>>
<< No, hai detto che non dovevamo più far battute sul magico Potter che sniffava metropolvere.>>
<< Dio… ma non poteva cercare di ammazzarti uno con un nome più banale?>>
<< Solo il meglio per Magnus Bane!>>
<< Se fosse stato il meglio a quest'ora non saresti qui.>>
<< Alexander!>>




La donna aprì con tranquillità la porta, rimanendo per un attimo sull'uscio per ascoltare ciò che le stavano dicendo dal corridoio. Annuì un paio di volte e sorrise gentile, congedandosi con un cenno del capo ed entrando nella stanza mezza oscurata.
L'unica fonte di luce proveniva da un grande schermo piatto su cui era trasmessa in tempo reale la ripresa di una stanza dei piani interrati, dei sotterranei, come preferiva chiamarli Lui.
L'immagine era chiara e nitida, i colori risaltavano brillanti, le luci attaccate ai muri generavano curiosi giochi d'ombre su tutti i presenti. Nessuno di loro pareva intenzionato a muoversi o ad andarsene: c'era una ragazzetta che giocava con il telefono, due uomini che chiacchieravano a bassa voce coinvolgendo di tanto in tanto un vecchietto dagli occhi socchiusi, altri tre in perfetto silenzio e inquietante immobilità.
Senza battere le palpebre la donna volse il capo verso l'unico spettatore di quel programma, seduto comodamente sul lato destro del divanetto, poggiato con un'eleganza che gli era innata al bracciolo squadrato.

<< Ti stai godendo lo spettacolo?>> chiese andandosi a sedere al suo fianco.
L'uomo annuì. << Sei stata fantastica, ti hanno riconosciuto quasi tutti, tranne la Rosa Nera.>>
<< Mi pare abbastanza ovvio, non mi ha mai vista, non può sapere chi sono e che ruolo ho.>>
<< No. >> ammise lui senza staccare gli occhi dal televisore. << Non può. Non sarebbe così tranquilla se no, non credi?>>
Con un sospiro annoiato si lasciò cadere contro la spalliera. << Anche se, tecnicamente, era un suo sottoposto, la colpa non è sua. Sappiamo come funziona il Clan, sappiamo che ogni membro è responsabile delle proprie attività ma che non sono tutti strettamente controllati. Tutti hanno dei pesci piccoli che servono solo a far numero e che, a conti fatti, non sono neanche stati menzionati ai capi.>>
L'altro sorrise. << Come sei magnanima. >>
<< Sono solo realista.>> si strinse nelle spalle. << Gli altri stanno per arrivare.>> disse poi d'improvviso, cambiando completamente argomento.
<< Avremo modo di vedere anche loro, uno per volta.>> con un cenno della mano indico pigramente lo schermo. << Per ora abbiamo altro a cui pensare, le prime pedine si devono muovere o il gioco rimarrà per sempre fermo al via.>>
<< Ci sono direttive precise?>> chiese lei voltando il capo verso l'uomo.
Questo annuì. << La Rosa Nera tira per prima, se fa un buon punteggio di dado potrebbe anche vincere questo turno, ma non sarei così ottimista.>>
<< Perché dici questo? Mi pare sia piuttosto brava in quello che fa.>>
<< Vero, ma non ha la stessa esperienza degli altri. Guarda Camille. >> gliela indicò. << Se lei e la Rosa Nera dovessero trovarsi faccia a faccia sarebbe il cadavere della più piccola quello su cui la sua rivale ballerebbe. È brava, ha spirito d'iniziativa, non ha paura di sporcarsi le mani e di dire ciò che pensa, di dirlo nel modo giusto. Ma non ha alle spalle lo stesso bagaglio che si porta la principessa. Camille se la mangerebbe viva.>>
<< E pensi che potrebbe farlo anche chi le verrà messo contro in questa partita?>>
L'uomo sorrise divertito. << Oh, assolutamente sì. Deve giocarsi bene le sue carte o rischierà che la sconfitta, per lei, coinciderà con la fine della sua libertà, se non della sua vita. >> disse in tono vago, senza distogliere lo sguardo. Sulla cornea lucida brillava il riflesso freddo dello schermo.
<< Però? Sento che c'è un “però”.>>
<< Però potrebbe darci anche tante soddisfazioni, ha deciso di fare un gioco pericoloso.>>
<< Tutto qui lo è, non c'è nulla di semplice in questa guerra.>> gli fece notare lei.
Ma l'altro scosse ancora la testa, sempre più divertito dalla piega che avrebbe potuto prendere quella storia. Era ovvio che sapesse qualcosa che la sua compagna non sapeva e lei se ne era resa perfettamente conto.
<< Cosa non mi stai dicendo?>> chiese con voce calma, senza fretta, così come aveva imparato ad essere, nervi saldi e sangue freddo.
<< Che la ragazzina, lì, ha deciso che la sua prima e ultima battaglia se la gioca contro due giocatori diversi.>>
Al silenzio che ricevette l'uomo si girò finalmente verso la sua interlocutrice.
<< Non so ancora dirti se sia pura ingenuità, stupidità o un grande colpo di genio, ma pare che la nostra cara Rosa Nera sia riuscita a mettersi contro la sua pedina avversaria e un giocatore aggiuntivo.>>
<< Non si batterà in un uno contro uno come previsto?>>
<< No, c'era un altro segugio che ha fiutato il suo odore ed è stata lei stessa a lasciargli una traccia.>>
<< E dove sarebbe la possibile intelligenza?>>
<< Sta nel fatto che se dovesse batterli entrambi avrebbe eliminato due pedine molto forti.>>
ghignò. << Ma non credo succederà.>>
<< Sono troppo forti?>> domandò l'altra con una nota di stupore nella voce gentile.
I suoi occhi apparivano quasi bianchi, il riflesso dello schermo inghiottiva l'iride e la pupilla come il buio fa con ciò che lo circonda.
<< Sono i mastini dell'angelo.>>





Si mosse nervoso sulla panca del locale. Era arrivato con quasi mezz'ora d'anticipo e malgrado si fosse ripetuto più volte di rimanere ad aspettare fuori, il freddo di Marzo l'aveva fatto desistere. Battendo le dita sul piano graffiato del tavolino Simon si allungò leggermente sopra la marea di persone che quel giorno affollavano il bar in cui si era dato appuntamento con Maureen. Piccola com'era, così timida e tremante, la ragazza si sarebbe potuta tranquillamente mimetizzare con la folla e non trovarlo mai.
Stava quasi pensando di uscire fuori ma questo avrebbe implicato la perdita del tavolo e fare una fila chilometrica per poi sedersi al bancone dove non c'era un minimo di intimità era davvero l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Già si sentiva abbastanza in ansia così come stava, figurarsi poi dover parlare con una ragazza che, tecnicamente, aveva avuto una cotta per lui proprio davanti a baristi e persone in genere di certo più spigliate di lui.
Sospirando si disse che il training con Clary non era servito proprio a nulla. Che tristezza.
Un guizzo color crema attirò però la sua attenzione: muovendosi con fare titubante, stretta nel suo cardigan chiaro quella che aveva tutta l'aria di essere Maureen si guardava attorno come se stesse cercando qualcosa.
Simon rimase imbambolato senza saper cosa fare. Doveva chiamarla? Non l'avrebbe mai sentito in tutto quel frastuono. Forse sbracciarsi? Sarebbe passato per un cretino però
Indeciso sul da farsi si tirò in piedi e alzò un braccio, in attesa che i loro sguardi s'incontrassero in quel locale strapieno.
A vederla così, tutta chiusa in sé stessa, con il maglione che le arrivava alle ginocchia e la giacca di pelle di almeno due taglie più grande indosso, probabilmente anche di taglio maschile da come le stava larga sulle spalle, pareva una bambina che aveva perso di vista i genitori.
Quello era senza ombra di dubbio un pensiero davvero poco gentile, ma non appena la ragazza riuscì a scorgerlo Simon si disse di accantonare le sue inopportune considerazioni e di concentrarsi solo sul suo appuntamento.
Con un sorriso impacciato i due si salutarono, mentre il giovane poliziotto invitava l'altra a sedere e già balbettava qualche frase sconnessa su quando fosse stato difficile vederla tra tutti, se avesse trovato parcheggio o su cosa volesse da bere.
Seduti l'uno davanti all'altra rimasero tutta la serata a chiacchierare di tutto e nulla, dei bei vecchi tempi della Band-dai-mille-nomi, a conoscere frammenti di quel passato che entrambi avevano vissuto sulle stesse scene ma con copioni diversi.



La luna calava su New York City, lo skyline s'illuminava come il cielo stellato che la Grande Mela non poteva vedere, le nuvole coprivano di tanto in tanto il pallido astro gettando macchie d'ombra sull'asfalto ormai freddo.


Il telefono squillò insistentemente, costringendo la giovane donna a non ignorarlo.
Con tono freddo ed infastidito rispose al suo interlocutore.

<< A te la prima mossa. Iniziano le danze.>>



E in quelle ombre, in quelle pozze d'oscurità che s'alternavano sulle strade della città che non dorme mai, il Clan tornava a camminare, a cacciare, a vivere.












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Capitolo 13
*** Capitolo XIII- La mossa dei Neri ***


 
Capitolo XIV
La mossa dei Neri.








 
Passato.

Al mondo nulla è bianco o nero. Nulla si fonda sulla base di un assoluto stato di giustizia o ingiustizia. Nulla era buono o cattivo.
Al mondo ogni essere oscillava sulla sottile linea della duplicità, senza esclusione alcuna. Così l'uomo nasceva già nel peccato originale ma puro e senza colpe. Si cominciava sin dall'inizio a raccontare ad ogni bambino come dovesse comportarsi, cosa andasse bene fare e cosa non andasse, come ogni persona dovesse dimostrare qualcosa alle altre.
Sii buono.
Comportati bene.
Devi aiutare.
Devi ascoltare.
Devi stare zitto.
Devi parlare solo se interpellato.
Devi dire la tua.
Non devi dire la tua.
Devi alzarti e correre.
Devi star seduto ed attendere.
Devi fare qualcosa per gli altri.
Devi fare ciò che gli altri si aspettano da te.
Su questa rigida via venivano posti tutti i bambini, tutte le persone, gli uomini che mai avevano calcato la terra. Da qui in poi quegli esseri dovevano scegliere cosa fare, sa abbassare la testa ed obbedire sempre, se farlo solo alcune volte, se farlo solo quando era giusto, se non farlo mai.
Ma cos'era giusto? Cos'era sbagliato?

La bambina abbassò la testa, nascondendola tra le gambe piegate al petto, proteggendosi con le mani piccole e pallide, sporche di pennarello.
Oh, come si era arrabbiata mamma, non aveva macchiato solo la pelle ma anche i polsini della maglietta giallo limone che le aveva messo quella mattina. Ma in fondo la bambina sapeva che la mamma non era arrabbiata proprio con lei, sapeva che aveva avuto una giornata pessima al lavoro e che quella sfuriata di prima era stata esagerata, solo l'ennesima goccia che aveva minacciato di far traboccare il vaso. Sapeva che quando avrebbe smesso di discutere con la nonna sarebbe venuta da lei a scusarsi, a coccolarla, a chiederle cosa volesse per cena.
Però in quel momento sentiva solo le urla della nonna, che le ripeteva quanto non andasse bene qualcosa che la bambina non capiva, che invece la mamma aveva fatto male.

Sbagliato.

Gridava che sua nuora doveva ascoltarla, fare come diceva lei, che ne avrebbe parlato con suo figlio, il suo papà, e che allora c'avrebbe pensato lui a rimettere in riga la moglie. Al suo posto, dove era giusto che fosse, come gli aveva insegnato suo marito, il nonno che mai aveva conosciuto.
La bambina, ad essere onesti, non vedeva l'ora che il papà tornasse, perché sapeva che lui avrebbe sistemato ogni cosa, che non avrebbe fatto come diceva la nonna ma che avrebbe aiutato la mamma a fare tutto ciò che non le riusciva per mera mancanza di tempo.
Non vedeva l'ora che tornasse papà, che finalmente la nonna se ne andasse da lì, che la smettesse di dire che quando mancava il figlio lei doveva per forza di cose stare costantemente da loro perché la sua mamma era una buona a nulla.
La sua mamma era la mamma migliore del mondo. Era una brava persona. L'aiutava, l'ascoltava, sapeva quando rimaner solo in silenzio a coccolarla o quando parlare a vanvera riempiendo il vuoto della casa silenziosa e desolata. Riusciva a stare tanto zitta ma poi, quando doveva, sapeva parlare e sapeva farlo bene. Era sempre così logica e convincente. Era perfetta.
E lo era anche papà. Sì, anche il suo papà con lo sguardo stanco ed il sorriso dolce, che scattava da una parte all'altra dell'America dietro al suo capo, un uomo d'affari facoltoso e sempre tanto impegnato.
La bambina lo sapeva che suo padre mancava così spesso da casa solo per colpa del lavoro, sapeva anche che non era una colpa, ma che lo faceva per loro, per il suo futuro, per mandarla alle scuole giuste.
Però… però quando c'era lui casa era bella e rumorosa, piena di luce e di gioia, la stessa che sua nonna riusciva a risucchiare via solo con la sua presenza.
Non la voleva lì, quella donna era cattiva, lo era soprattutto con sua madre e a lei invece diceva tante cose strane, come che doveva lasciare i suoi giochi ai bambini, che non doveva giocare con loro ma stare solo con le femmine, che con i maschietti non doveva litigarci perché loro erano più forti. Le diceva che le avrebbe insegnato – almeno a lei – quale fosse il posto di una donna.
La bambina la odiava, la odiava da morire. Avrebbe fatto di tutto per non averla più intorno, di tutto.
La sua migliore amica, la piccola Céline, bionda e timida, con gli occhietti azzurri e le ciglia chiarissime come la sua pelle, sempre a testa bassa e balbettante, le raccomandava di non farsi sentire mai quando diceva quelle cose.
Céline non aveva una famiglia bella come la sua, perché sì, sua nonna era cattiva e le rovinava la vita, ma i suoi genitori le volevano bene e facevano di tutto per lei, per renderle quella vita grigia più colorata possibile.
I genitori di Céline, no.
Sua mamma era molto malata, rimaneva sempre a letto, sempre per più tempo. Non aveva la forza di far nulla, non aveva la forza neanche di rispondere a suo marito.
Ecco, il padre di Céline era tutto ciò che il suo non era e mai sarebbe stato, e quanto ne era felice.
Se infatti un uomo come lui avesse anche solo intuito i pensieri della bambina, quelli così cattivi verso sua nonna, così insubordinati, di certo avrebbe fatto una brutta fine. Si sarebbe ritrovata quegli stessi brutti lividi sulle braccia che aveva la sua amichetta.
Pensare al fatto che ci fosse qualcuno messo peggio di lei, qualcuno che lei amava, che sentiva vicina, l'aveva in qualche modo calmata. Il pensiero egoistico umano, quello che dice “c'è di peggio, per fortuna io non sono in quelle condizioni”, era potente e rigenerativo come una pomata lenitiva su un livido. Ti faceva sentire forte, ti faceva credere che il dolore se ne sarebbe andato via e non sarebbe più tornato, che bastava pochissimo per farlo svanire.
La bambina si asciugò le lacrime forte di una nuova convinzione: se non poteva far nulla per aiutare la sua piccola amica, in quella bruttissima situazione, poteva far qualcosa per tirar su di morale la sua mamma, abbattuta dalle parole cattive della nonna.
La mamma l'avrebbe protetta, sarebbe stata orgogliosa di lei, che si era eretta forte e coraggiosa contro la strega cattiva.
Si era alzata dal suo nascondiglio ed era andata in cucina ad aiutare la persona che preferiva al mondo. Avrebbe cominciato dalla mamma, l'avrebbe aiutata a sconfiggere nonna e poi, diventata più forte, avrebbe aiutato Céline a sconfiggere il suo papà così cattivo.

Quella sera la mamma le aveva lavato via tutto il pennarello dalle mani e le aveva sorriso piena d'orgoglio.
«Quando papà chiamerà gli diremo che non deve preoccuparsi per noi, che siamo coraggiose e che riusciamo a tener duro anche aiutandoci solo a vicenda.»
«E papà sarà felice? Non è che si arrabbia perché ho detto alla nonna che non farò più quello che mi dice? Perché le ho detto che non ti deve più parlare così?»
La madre le aveva sorriso dolcemente. «No tesoro, anzi, sarà felice che tu, già a quest'età, sia riuscita a fare qualcosa che lui ha imparato a fare solo di recente.»
«Davvero? Cosa?»
La donna si era fermata per asciugarle le manine, soddisfatta nel vedere la pelle morbida e rosea ora tutta pulita e profumata, come la saponetta ovale che le aveva strofinato con attenzione sui palmi. Le baciò le mani facendola ridere e poi le carezzò con gentilezza la guancia paffuta.
«Riuscire a dire di no quando si deve, riuscire a combattere anche se si è più deboli, anche se non si hanno le spine, mia piccola rosellina.»



 




Presente.



L'attico di quel palazzo si trovava al ventiduesimo piano, un'altezza notevole ma di certo non una delle più grandi di New York City.
Il corridoio che dava sulla porta d'ingresso era vuoto, abbellito solo da alcuni quadri moderni e da dei grandi vasi pieni di rami bianchi. Era freddo e pulito, di quella tipica eleganza che piaceva tanto ai ricconi di ogni genere, qualcosa che di certo avrebbero apprezzato anche i suoi genitori, visto quando piacesse loro il rigore e le linee semplici.
Non era mai salito sino a lì, non ne aveva mai avuto motivo e mai era stato invitato, ma quella volta la situazione era diversa, quella volta l'avevano chiamato, avevano chiesto esplicitamente di lui.

Aveva chiesto.

Bussò alla enorme porta blindata, suonare il campanello gli sembrava inutile, sia perché si aspettava che il suo ospite fosse lì ad aprirgli nell'immediato, sia perché quella nana rossa gli aveva messo l'ansia quando gli aveva detto che sarebbe stata la prima persona invitata in quella casa da- dannazione, sette mesi? Erano già passati sette mesi? Quand'era successo?
Alexander sospirò e poggiò per un attimo la testa contro il legno laccato, scostandosi quando sentì dei passi ovattati arrivare dall'altra parte della parete.
Quando Jonathan gli aprì Alec provò il fortissimo impulso di chiedergli se stesse bene, il suo viso pallido era tirato ed aveva l'aria di uno che non dormiva da giorni, forse settimane, forse da quei dannati sette mesi.


«Ce l'hai fatta.» disse solo con voce piatta.
Alec annuì. «C'era traffico sulla sesta.» rispose con lo stesso tono.
Il biondo si fece da parte e lo fece entrare. «Colpa di quel concerto, stanno deviando tutte le vie più trafficate.»
«Finirà anche questo.»
Quella conversazione aveva un che di surreale, così come l'aveva quel posto che pareva non veder la luce del giorno da secoli. Come l'antro oscuro di un mostro che teme la luce della stella maggiore Casa Morgenstern era sigillata in ogni sua finestra, ogni suo spiraglio. Erano chiuse le serrande, erano chiuse le finestre, chiuse anche le tende e chiuse tutte le porte. L'ombra grigiastra che permeava ogni cosa non era altro che il pallido e finto riflesso della giornata di sole che splendeva fuori da quelle mura fredde e sterili, che puzzavano di polvere e di stantio come le soffitte.
Alec però non fece commenti, rimase in piedi al centro della sala d'ingresso attendendo che Jonathan tornasse da ovunque fosse andato, la cucina probabilmente, con due bicchieri ed una bottiglia di bourbon.

«Se non ti piace c'è la tequila.» disse l'altro indicandogli con un cenno l'enorme divano verde che troneggiava al centro del salone.
Il moro scosse la testa e si accomodò, togliendosi lentamente la giacca e la sciarpa scura, piegando entrambi con cura e ponendoli vicino a sé, come se non volesse occupare troppo spazio in quella dimora troppo grande e troppo vuota.
Alec era cresciuto in una casa a cinque piani, malgrado la mansarda non fosse utilizzata così tanto. Ognuno di loro aveva avuto il suo periodo “in piccionaia” come la chiamava nonna Phoebe, un momento della loro vita in cui starsene sopraelevati, lontani da tutti e tutto, anche dai comuni oggetti di tutta la vita, rimanendo appollaiati davanti alla grande finestra che apriva quel varco di luce proprio nel punto più alto del muro, scrutando la vita dall'alto, li aveva fatti sentire sicuri, malinconicamente incompresi ma anche melanconici e solitari come i personaggi di un romanzo.
L'attico in cui abitava Jonathan era proprio ciò che era stato un tempo per lui la soffitta, solo che il giovane vi viveva, solo e isolato, non come aveva fatto lui nei magici momenti dei suoi diciassette anni ma come faceva chi stava cercando di scappare da qualcosa e per farlo ci si era chiuso dentro. Era malsano e non parlava solo del fatto che tra quelle mura pareva esserci solo ossigeno ormai inutilizzabile, ma soprattutto del fatto che Jonathan lì dentro si allontanava da tutti piangendo un dolore ed un tradimento senza lacrime e al contempo torturandosi per le colpe che non aveva, per quel “non aver capito” che era costato tanto a tutti e che il fantasma di suo padre, che ancora camminava silenzioso per quelle camere, gli ricordava con cruda e dolce pena.
Non sapeva cosa dirgli, in verità avrebbe voluto consolarlo, dirgli ancora una volta che non era colpa sua, che non avrebbe potuto comunque fare nulla ma sarebbero state solo le ennesime parole vuote dette da qualcuno che non poteva capire il suo vero dolore.
Alec aveva sofferto tanto in vita, era inutile negarlo, non avrebbe avuto senso. Aveva sofferto per quegli anni di solitudine in cui gli pareva di non riuscire neanche a respirare, che non vi fosse abbastanza aria per permettere anche a lui di vivere, quando la lingua non ne voleva sapere di muoversi nella bocca e le corde vocali non riuscivano a vibrare neanche una parola. Aveva sofferto vedendo i suoi fratelli crescere e correre lontani da lui dopo aver cercato per tutta la vita di non farli cadere, di stare al loro passo… ma come si può star dietro a due stelle impazzite? Dopotutto, si era sempre detto, le stelle sono palle infuocate, piene di vita, di forza, brillano nell'oscurità dell'universo e spandono le loro radiazioni per anni luce; come poteva lui, semplice e pallida luna, astro dipendente da un pianeta che l'attraeva a sé impedendogli di andare alla deriva e di morire in una disastrosa collisione con qualcosa di più grande e potente di lui, compararsi agli astri splendenti? Neanche era in grado di brillare di luce propria, doveva per forza elemosinare il riflesso di una stella maggiore, abbastanza vicina per sfiorarla con i suoi raggi.
Oh, ne aveva impiegato di tempo a trovare quella luce… ne aveva impiegato di tempo per rendersi cono che non erano persone ma eventi, emozioni, sensazioni, quelle di cui rifletteva la luminosità. C'aveva impiegato così tanto tempo che nel mentre era riuscito a cadere ancora più in basso e più rovinosamente di quanto non avesse mai fatto prima. Nel processo che l'aveva portato ad accettare la sua condizione di satellite solitario Alec aveva sofferto la possibile perdita di un fratello, l'aveva sofferta due volte. Aveva sofferto il dolore negli occhi delle sue stelle, quello nella voce di sua madre, quello nei silenzi di suo padre. Aveva sofferto la partenza di quella famiglia allargata che si era riuscito a costruire neanche lui sapeva come. Aveva sofferto l'allontanamento dal suo solo all'apice della curva più lontana della sua orbita. La guerra che gli aveva dato tutto quello che non voleva e tolto tutto quello a cui teneva. Aveva sofferto perdite che mai avrebbe accettato ed aveva accolto dolori che tutti fuggivano solo per sentirsi più vero, un po' più umano. Alec aveva sperimentato la sensazione della vita che scivola via dal corpo ben tre volte ed era stato pronto ad accettarlo ogni volta.
Ma mai, mai qualcuno di coloro che tanto faticosamente aveva imparato ad amare, o qualcuno che, amare, era stato facile come neanche respirare lo era, l'aveva tradito come Valentine aveva tradito suo figlio.
Alexander guardò Jonathan mentre versava quell'alcolico brunastro nei due bicchieri e si disse che no, non avrebbe ripetuto le solite parole di rito, non gli avrebbe detto di uscire da quell'antro e tornare a vivere in tutto e per tutto perché, per prima cosa, non poteva neanche lontanamente immaginare come si dovesse sentire mese dopo mense Jonathan a convivere con il fardello che portava sulle spalle; e seconda cosa, perché conosceva il sadico e masochistico piacere che derivava dal rimanere chiuso nella propria cripta assieme a tutti i propri demoni attendendo solo che la morte calasse la sua scure su di te. Sapeva quanto pensare di essere un mostro sapesse di giusto, di corretto e sapeva ancor di più che godimento poteva pervaderti le membra quando qualcuno ti dava ragione, quando tutti smettevano di essere così schifosamente finti e delicati con te e cominciavano a dirti la verità, quella cruda e brutale, quella fatta di marchi a fuoco che ti sarebbero rimasti per sempre addosso come stigmate di una croce che mai, mai, avresti portato abbastanza a lungo sulle tue spalle.
Solo che tutte queste cose, in un qualche modo, Alec le aveva già affrontate nel suo percorso psicologico, aveva già ammesso le sue colpe e trovato qualcuno abbastanza intelligente e capace da dirgli che sì, aveva le mani sporche di sangue ma che questo non lo rendeva né meno uomo né meno mostro: spettava solo a lui decidere se voler tornare ad essere umano o se invece vestire di manti neri e sinistri artigli.
Non poteva più sperare di aver un'aureola scintillante in testa, ma poteva scegliere se lasciar che sul capo gli crescessero delle corna o null'altro che capelli.
Quando aveva ripensato con calma a quel paragone, una volta tornato a casa, Alec si era sentito solo terribilmente confuso e aveva passato la settimana seguente a tastarsi il capo con fare pensieroso.
Continuò ad osservare il ragazzo finché quello non gli porse uno dei bicchieri. Per allora Alec aveva deciso che non si sarebbe comportato diversamente dal solito solo perché si trovava nel luogo di pianto del collega, che farlo sarebbe servito solo a farlo incazzare e, soprattutto sarebbe stata una grandissima mancanza di rispetto.
Non che lui e Jonathan si rispettassero molto di più che per quel che concerneva il loro lavoro e i loro ideali. Neanche sempre per quelli visto che spesso si sparavano frecciate avvelenate per le loro decisioni.
Prendendo un respiro profondo Alec bevve a mala pena un sorso e poi posò il bicchiere sul tavolino.


«Cosa succede?» domandò con voce ferma e atona, senza la minima inclinazione.
Era l'Alec di sempre e Jonathan parve apprezzare la cosa.
«Davvero? Non mi dici nient'altro?» lo provocò.
«Tipo?»
«Tipo che non mi fa bene vivere qui, che dovrei andarmene e “ricominciare a vivere”.» spiegò semplicemente.
Alec si strinse nelle spalle. «Mi pare che tu stia ancora respirando, vieni in ufficio, rompi le palle come sempre, quindi a vivere vivi. Non sono la tua balia e neanche tua madre, ma se proprio ci tieni a farti dire qualcosa: apri quelle finestre, questa casa puzza, non so neanche come sia possibile che ci sia abbastanza ossigeno per due persone.»
Jonathan sogghignò. «Stronzo frigido-»
«Posso presentarti qualcuno pronto a dissentire.» disse solo.
«Non mi interessano le tue avventure sessuali. E poi casa è enorme, c'è ossigeno per mezza Mela qui. Ma forse non sei abituato a questo lusso.» disse ancora provocatorio.
L'espressione di Alec non mutò di una virgola. «Non giocare al ricco viziato con me Morgenstern, entrambi i miei genitori hanno lavori decisamente più che remunerativi. Vivrai anche in un attico ora, ma ricorda che sei cresciuto a Brooklyn, io in una villa a cinque piani con tanto di seminterrato, giardino e garage.»
Per un attimo ci fu silenzio, poi Jonathan scoppiò in quella risata da iena che, in qualche oscuro motivo, fece piegare le labbra di Alec in un ghignò storto e predatorio.
«Dio santissimo Lightwood! Non facevamo stupide gare del genere dal liceo.»
«Intendi dalla volta che sono stato messo in punizione per colpa tua?»
Jonathan sorrise allargando le braccia in un gesto scenico, il bourbon che oscillava pericolosamente nel bicchiere. «Non è stata solo colpa mia, ricordati che le risse si fanno in due.»
«Quindi farti prendere a calci in culo per tutta la palestra tu la chiameresti rissa? Strano, mio padre mi ha accusato di averti brutalmente picchiato senza motivo.»
Il biondo ridacchio come un moccioso. «Ti ha accusato? Magnifico! Mio padre mi ha chiesto come fosse possibile che quello con il naso rotto fossi io.»
Detto ciò si lasciò ricadere sul divano, sprofondando nei cuscini e finendo il contenuto del suo bicchiere in un colpo solo.
Alec storse il naso ma non disse nulla, non su quello.

«Perché mi hai chiesto di venire qui?» domandò serio.
Jonathan non lo guardò, gli occhi puntati sul pavimento, o forse sul muro, più probabilmente in un nulla che solo lui riusciva ad individuare.
«Perché devo raccontarti un paio di cose e non voglio che qualcuno lo sappia.» disse a bassa voce, la sincerità disarmante di quel tono così pesante.
Il detective si mise meglio sul divano, poggiando una mano su quella stoffa verde e resistente, notando solo in quel momento come essa sembrasse essere l'unica nota di colore di quella casa, per il resto completamente avvolta nel grigiore che permeava anche il suo proprietario.
«Stiamo parlando di lavoro o di qualcosa che ti riguarda in prima persona?»
Il silenzio di Jonathan fu più che esplicativo.
«Entrambi.» annuì Alec. «Parla.»
L'ultima parola fu un imperativo a cui neanche il diavolo in persona sarebbe riuscito a sfuggire.


La storia non cambiava da qualunque punto di vista la si provasse a prendere.
Ciò che era successo sei anni fa era ben o male di dominio pubblico e Alec ne conosceva anche qualche dettaglio di troppo grazie ai suoi genitori e anche grazie a Lucian, che più di una volta si era presentato per chiedere consiglio a sua madre.
Quello che ovviamente gli era sfuggito era la presenza di quella ragazzetta, perché nei verbali si parlava si tre uomini ed una donna di età non meglio specificata, e del tatuaggio che l'allora Tenente Garroway aveva chiesto a Jonathan di non citare nel suo rapporto per il semplice fatto che, in una situazione come quella, non era possibile vedere nulla. Jonathan aveva comunque messo una postilla in quelle pagine di racconto, in cui spiegava di aver visto il disegno di quella che gli era parsa una rosa ma che, viste le circostanze non fu minimamente preso in considerazione.
Ciò che non sapeva invece era come l'agente Morgenstern fosse arrivato nell'edificio dove era andato a cercar informazioni e perché fosse così sicuro di trovarle lì.

«Una soffiata di anni fa.» disse evasivo senza guardarlo in faccia.
Alec non ci cascò e puntò lo sguardo da falco dritto sul volto dell'altro. «Era un contatto di tuo padre.» non era una domanda, era una semplice constatazione dei fatti.
Jonathan digrignò i denti ma annuì. «Se te lo avessi detto mi avresti costretto a portarti con me.»
«L'avrei fatto, sì.»
«Non avrebbero parlato con te davanti.»
«Con te che sei apparso su tutti i giornali come il figlio devoto costretto a sparare al padre per la giusta causa invece hanno parlato?» la nota sarcastica e dura nella sua voce fece abbassare la testa al biondo per la frustrazione.
«Non sapevano nulla, me lo hanno assicurato e-»
«Dei criminali da cui ti mandava tuo padre per avere soffiate ti assicurano che non sanno nulla e tu giustamente gli credi.» quel discorso cominciava ad avere qualcosa di surreale e Jonathan si stava sentendo come un moccioso sgridato dal proprio genitore. Paragone schifoso vista la sua situazione ma assolutamente azzeccato.
«Lì conosco, va bene?» disse aggressivo.
Alec non si scompose neanche di una virgola. «Questo sì che migliora la tua situazione.»
Jonathan alzò gli occhi al cielo lasciandosi sfuggire un ringhio di pura frustrazione.
«Ascolta.» iniziò rabbioso. «Non li conosco perché sono amici miei, è gente che non fa traffici proprio legalissimi ma che- Ah! Ma ti pare che ti debba venire a dire come lavora la Crimine Organizzato? Sono accordi particolari e non venire a farmi la morale sul fatto che non dovremmo scendere a patti con i criminali solo per trovare i pesci più grossi perché così alimentiamo comunque l'illegalità! Tu non sai cosa voglia dire dover aver a che fare con quel tipo di gente, non è il tuo lavoro, tu-»
«In effetti non ho sempre il piacere di trattare con “quella gente”, la maggior parte delle volte che la conosco io è già morta.» l'assoluta apatia che emanava la sua voce colò sul pavimento come un rivolo più denso di fumo, bloccando per un attimo Jonathan prima che riprovasse a prendere la parola.
Alec fu più veloce, nonostante la lenta fermezza delle sue parole.
«Quello che non riesci a capire, di questa situazione, non è il problema dell'alimentare la piccola criminalità a sfavore della comunità lecita e legale della nostra città. Gli accordi della OCCB non sono affar mio. Il mio compito è trovare gli assassini. Voi agite per impedire gli omicidi, io per risolverli. Voi lavorate con le persone, io con i cadaveri.
Il problema che si sarebbe potuto creare non è neanche inerente al fatto che quella gente te l'abbia presentata tuo padre, chi ti abbia mandato da loro, perché probabilmente ti hanno dato davvero giuste informazioni per un altro, ipotetico, accordo, questa volta stipulato con tuo padre.
Il problema, Morgenstern, sta nel fatto che sei in una squadra, che mi sono fidato di te quando mi hai chiesto di farlo ma che, volontariamente, hai omesso di dirmi che il luogo in cui stavi per andare avrebbe potuto lasciarti libero anche dentro un sacco nero.» lo sguardo freddo di Alexander lo scavò nel profondo, esaminando ogni più piccola piega del suo animo, pesando le intenzioni, le azioni ed i risultati.
Ciò che ne ricavò fu una risposta più che semplice: non lo stava rimproverando per esser andato a rischiare la propria vita, lo stava rimproverando perché prima di farlo non l'aveva avvertito.

Figlio di puttana.

Jonathan si ritrovò suo malgrado a sorridere storto, un qualcosa che, probabilmente, aveva un po' ripreso proprio da Lightwood.
Avevano passato una vita ad incrociarsi su ogni via percorsa ma erano bastate quelle settimane a stretto contatto per attaccargli alcune delle sue maledette abitudini. Per far sì che Jonathan potesse intuire le parole dietro i suoi sguardi silenziosi e fermi, freddi come il cielo terso la notte.
E proprio come succedeva quando la stella maggiore era ormai sparita e le stelle brillavano timide e fioche contro le luci accecanti della città, Jonathan si ritrovò a prendere una boccata d'ossigeno, di quell'aria fresca e rigenerante che solo la notte può donarti. Gli sembrava quasi di aver passato gli ultimi mesi stipato dentro ad un locale con troppa gente, troppo calore, troppa luce, troppi rumori. C'erano le centinaia di persone che lo guardavano con diffidenza, le moltitudini di voci che gli ronzavano attorno, di sé, di ma, di forse; c'era il calore opprimente della colpa, del senso di inadeguatezza, della sua famiglia – quello che ne restava almeno – che si era stretta attorno a lui per tenere i cocci uniti senza rendersi conto che c'era già della colla tra quei frammenti e loro, con quella presenza opprimente e apprensiva, la stavano facendo sciogliere. C'erano i riflettori puntati su di lui, altro calore che non permetteva a quel mastice biancastro e mal messo di fissarsi tra le crepe ancora malamente unite e i pezzi più grandi che continuavano a minacciare di cadere. C'era lo sguardo della Herondale che era accecante come il flash dei giornalisti, come i fari di uno stadio, opprimente come l'abbraccio di sua madre, doloroso come il suo sguardo, impietoso come Jonathan necessitava fosse ma non al modo in cui aveva bisogno. C'era tutto questo in quel locale straripante di persone, di attenzioni, di aspettative, di malelingue, di idee già fatte, già assicurate, già scritte.
C'era tutto quel mondo così soffocante e poi- poi, proprio come succedeva quando eri ad una festa a cui non avresti mai voluto partecipare, Jonathan aveva scorto da lontano la porta sul retro, lontana da tutti, grossa e rassicurante con i suoi maniglioni antipanico.
Si era allungato verso quella porta a Natale e aveva goduto del freddo del metallo spesso, respirando quell'aria un po' più fresca che proveniva dritta da sotto l'uscio. C'era stato poi un momento in cui la folla lo aveva ritirato dentro ma poi, di nuovo, ancora una volta, una mano bianca come quella di un fantasma si era allungata verso di lui. Aveva atteso paziente che trovasse il giusto equilibrio per districarsi da quei corpi ed arrivasse ad afferrarla. Non gli aveva aperto la porta, no, non l'aveva fatto, ma lo aveva ritirato vicino alla maniglia e aveva lasciato che fosse lui stesso a premere su di essa e caracollare fuori, sull'asfalto un po' umido ma così refrigerane.
Gli occhi blu di Alexander Lightwood erano stati il riflesso di quel cielo notturno che gli aveva offerto finalmente la possibilità di ricominciare a respirare, di far abituare la gola al freddo pungente dell'inverno ed i polmoni ed il sangue alla salvifica presenza dell'ossigeno.
Lightwood gli aveva dato fiducia, un qualcosa che di solito la gente era veloce a negargli o che, in contrapposizione, gli aveva sempre dato solo in virtù del suo nome.
Avrebbe cercato lui in ogni caso, avrebbe richiesto la sua presenza perché sapeva quanto voleva continuare ad essere un Morgenstern pur non essendolo più. Gli aveva dato fiducia quando l'aveva lasciato andare per la sua strada, a seguire la sua pista, ed ora, nel momento di pausa in cui si tiravano le somme, stava continuando a guardarlo con la stessa fiducia e con un qualcosa di nuovo.
Jonathan era un membro della sua squadra, Alexander teneva in conto la sua salvezza quanto quella degli altri.
A conti fatti, Jon non poté far altro che alzare le mani ed accettare una sconfitta che non ne aveva minimamente il sapore, che sapeva molto di più di aria fresca e pulita, condita da una nota piccante di una rivalità mai apertamente detta che sempre li aveva legati e sempre l'avrebbe fatto.
Per quella volta decise che chinare il capo non sarebbe stato segno di debolezza, per quella volta quelle parole non gli avrebbero bruciato se non nel tentativo di trattenere una risata forse fuori luogo.

«Va bene, me lo sono meritato. Chiedo scusa, capo.»

Il sorriso di Alec, storto e sbilenco, con l'angolo sinistro che precipitava in basso ed il destro che s'alzava verso lo zigomo, fu solo l'ennesima sferzata di vento che gli carezzava la pelle gentile dopo tutto quel caldo soffocante.
«Molto maturo da parte tua ammetterlo, agente.»
Il tono monocorde pervaso da una nota di ironia quasi famigliare, neanche lontanamente canzonatoria.
«Quando va detto, va detto. Che nessuno osi insinuare che Jonathan Christopher Morgenstern non sia in grado di riconoscere i suoi errori e correggerli.» disse sicuro, guardandolo dritto degli occhi.
Il cielo notturno si dissipò di quelle poche nuvole rimaste ed il sorriso fine della luna brillò.
«Che nessuno osi dire che i miei agenti non sappiano trovare le falle e aggiustare il tiro.»
«Solo il meglio, non siamo mica matricole.»
«No, non lo siamo più. Siamo poliziotti.»
«Facciamo rispettare la giustizia.»
«Proteggiamo la gente e troviamo verità.»
«Che ci piacciano o meno.»
Quell'ultima frase gli valse uno sguardo più penetrante degli altri, la loro lunghezza d'onda sovrapposta e non più parallela.
Alexander si alzò e lo fissò dall'alto, come un cavaliere che scende da cavallo per offrire una mano al compagno disarcionato durante uno scontro. Non vi era armatura scintillante, ma nessuna protezione sembrava servire alla Luna, che tanto aveva visto la sua pelle colpita e ferita ma ancora brillava stoica ed immortale nella buia infinità dell'universo, come una piccola fiamma che illumina il cammino degli eroi.

Luce nel buio.
Lightwood.


«Preparati, abbiamo un caso da risolvere ed una rosa da trovare.»
Detto ciò prese il proprio bicchiere e ne versò metà nel suo, bevendo poi d'un sorso ciò che ne rimaneva.

Quando Alec se ne fu andato, con l'accordo di vedersi al Dipartimento, Jonathan fissò la bottiglia di bourbon ed i due bicchieri.
Il suo bicchiere era vuoto, quello del suo collega pieno. Ma Alexander aveva smezzato il liquore e aveva di nuovo riempito quel calice.
Jonathan lo fissò per un momento, poi lo raccolse e lo posò sul mobile, deciso a non berlo.
Il bicchiere era vuoto e ora invece, grazie a qualcuno, conteneva di nuovo qualcosa.
Alec non gli aveva dato la soluzione a tutto, non aveva avuto pietà di lui, non lo aveva trattato come l'origine di tutti i mali come aveva fatto la Herondale, come una bambola di cristallo come faceva la sua famiglia.
Aveva versato un po' del proprio bicchiere nel suo, ora stava a lui decidere se vederlo mezzo pieno o mezzo vuoto.
Tornando sui suoi passi superò il divano e si diresse sicuro verso le finestre, tirando le tende, aprendo i vetri e alzando le serrande.
Il vento freddo di marzo era stato mitigato da quello più clemente d'aprile.
L'aria fresca si infranse sul suo corpo, permettendo ai polmoni di riempirsi di tutto l'ossigeno che quella casa non aveva più, penetrando nel salone, nella cucina, sino a risalire le scale e giungere in quelle camere che un tempo avevano ospitato una famiglia che ora non c'era più.

Dopo tutti quei mesi Jonathan e la sua casa tornarono a vivere.

Il bicchiere poteva ancora essere mezzo pieno.









Con il passare degli anni Alec aveva imparato che i crimini erano tutti terribili in modo diverso.
I suicidi e gli incidenti erano quelli più tristi, forse perché si parlava di persone addolorate che non erano riuscite ad uscir fuori da un periodo, o una vita, troppo scura, o perché si parlava di morti avvenute per colpa di uno scatto d'ira da parte di una persona che mai ne aveva avuti, per una spinta troppo forte, per il gioco innocente di due bambini che poi si era trasformato in tragedia.
Quando poi la morte riguardava dei bambini la cosa peggiorava in modo quasi disgustoso. Vedere quei corpi così piccoli, così indifesi… non importa che avessero due anni o dodici, prima di una certa età ci si ritrovava a pensare che dovevano essere stati spaventatissimi, che non avevano capito nulla di ciò che gli era successo, dai nove, dieci anni in su invece il problema era l'inverso, sapevi che probabilmente avevano compreso ogni cosa, che c'era stato un momento in cui avevano capito che sarebbero morti.
Le violenze fisiche, stupri e torture, ti facevano venire l'amaro in bocca, la voglia di vomitare, di buttare altro schifo su quello che già ti si parava davanti agli occhi.
Le morti violente, incidenti stradali, mutilamenti, cadute da altezze considerevoli, quelle ti facevano venire uno schifo diverso rispetto alle violenze, ti facevano vedere i corpi come ciò che erano: carne da macello, nulla di più, nulla di meno. La fortuna dell'uomo era stata solo quella di esser risultati come la specie più intelligente – neanche troppo – o sarebbero stati alla stregua del bestiame.
Ma se c'era una tipologia di omicidio che gli faceva salire la rabbia pura, la nausea, il voltastomaco, e l'indescrivibile necessità di prendere a pugni qualcuno fino a farlo svenire, fino a farlo diventare uno di quei crimini da morte violenta, beh, quelli erano i casi a grande risalto mediatico.
Anche questi si dividevano a loro volta in due categorie: quei casi che venivano presi a cuore dai giornalisti, omicidi perpetrati in modo particolarmente violento, casi in cui la famiglia della vittima chiedeva la giustizia che non aveva avuto, sparizione di bambini, donne incinte, gang e simili; e gli omicidi di persone famose o quanto meno molto conosciute.
Alec odiava i primi perché sembrava che fossero più importanti di tanti altri casi esattamente identici, o peggiori anche, passati in sordina, ed i secondi perché i giornalisti, le male lingue, i roumors non facevano altro che intralciare il suo lavoro e metter in giro false voci che depistavano le indagini. In quei casi era difficile condurre un interrogatorio, cercare una persona, portarla alla centrale anche per la più stupida domanda di routine. Era successo che delle prove sparissero, che oggetti inutili ma presenti sulla scena del delitto fossero rivenduti, che fan dell'orrore si presentassero in massa nel luogo in cui si era perpetrato il crimine. E più era efferato, peggio era.
Quando era arrivato al Dipartimento e la segretaria del Capo Blackthorn l'aveva chiamato con quell'espressione tirata in volto, Alec aveva capito immediatamente che quel caso non gli sarebbe piaciuto. Quando aveva visto il volto scuro di Blackthorn aveva capito anche perché non gli sarebbe piaciuto.
Alexander odiava i casi ad alto risalto mediatico. Era riuscito a scampare l'ultimo solo ed unicamente perché era in ospedale a combattere per la sua stessa vita.

Il famoso ristorante da tre stelle Michelin era situato a West Village, sulla Hudston St. .
Hugh Cobe era uno di quei chef divenuti famosi alla vecchia maniera. Niente programmi in tv, niente libri, niente gare e concorsi. Si era formato in un'accademia di alta cucina, aveva lavorato per mezza Europa, partecipato alla realizzazione di più banchetti per i reali di ogni dove, tornando poi in America per aprire il suo ristorante, uno ed uno soltanto.
Era famoso per i suoi filetti, che fossero di pesce o di carne aveva poca importanza: in quanto a cuocere tagli spessi e delicati di ogni tipo lui era il migliore.
O almeno questo era quello che aveva detto loro Magnus.
Jonathan, che si era guadagnato il posto vicino al guidatore e ancora sfoggiava quel sorrisetto soddisfatto, annuì concorde.

«Ma anche le sue crudités non avevano nulla da invidiare ai piatti cotti.»
Magnus alzò un sopracciglio, passando sotto il nastro giallo che delimitava il marciapiede e gran parte della strada di quell'isolato al passaggio pubblico. «Sei stato qui a cena?»
«Pranzo. Era decisamente più tranquillo, c'erano meno coppiette e meno vecchi ricconi che alzavano troppo il gomito sino a diventare molesti con le loro stupide risate.» disse semplicemente stringendosi nelle spalle.
Quella mattina Jonathan sembrava più rilassato del solito, Magnus se ne era reso ben conto e per una volta aveva deciso di non tirare la corda.
«Concesso. Anche perché i vecchi ricconi girano sempre con qualche bella bambina al braccio e fin troppo spesso sono decisamente troppo giovani.» fece un verso schifato.
Simon si tirò su gli occhiali con il dorso della mano, guardando curioso l'amico. «Scusa, non eri tu quello che cambiava accompagnatrice ogni giorno?»
«Più ad ogni ora del giorno, ad essere onesti, ma io non sono mai andato con minorenni… cioè, quando lo ero anche io sì, ma mai minorenni-minorenni.» mise in chiaro annuendo.
Fu il turno di Jonathan di alzare un sopracciglio. «Perché, ci sono minorenni più minorenni di altre?»
«Assolutamente, non me la sono mai fatta con ragazzine di quattordici anni.»
«Neanche quando ne avevi tu quattordici?»
«No, a quei tempi mi facevo le sedicenni. O mi facevo fare dai sedicenni.» ammiccò.
«Diamine Mags! Sei stato precoce!» disse Simon sorpreso.
«Certo che sì, Steve, ma mi hai visto? Sono un figo da paura ora, immagina che sex-symbol che dovevo essere da piccolo, mi cercavano tutti!» con un sorriso compiaciuto fece l'occhiolino a Simon e si girò baldanzoso verso Jonathan per chiedergli quando lui fosse entrato nel magico mondo del sesso, ma il fatto che il biondo non si fosse intromesso nei suoi vaneggiamenti avrebbe dovuto far scattare qualcosa sia nella sua di mente che in quella sia Simon.
Morgenstern teneva lo sguardo fisso davanti a sé, cercando palesemente di non mostrarsi troppo divertito. Al suo fianco Alexander fissava gli altri due con un'espressione così glaciale che avrebbe potuto tranquillamente far nevicare di nuovo.
«Un'altra parola non inerente al caso e mi aspetterete sui sedili posteriori di una volante finché non avrò finito di esaminare la scena.»
Simon incassò la testa nelle spalle e si nascose dietro a Magnus che invece regalò al Detective un sorriso accecante.
«I sedili posteriori sono quelli che preferisco! Non rischi di dare culate al volante e far partire il clacson!» trillò allegro.
«Sono a tua disposizione allora, chiedi all’agente Peterson se può aprirti la sua voltante e digli di inserire il blocco bambini. Ti veniamo a prendere appena avremo finito.» il suo di tono era invece calmo e basso, come se stesse parlando del tempo e non dell’imbarazzante punizione di un uomo adulto per non esser riuscito a tenere la lingua a freno.
Alexander avanzò sicuro superandoli, salì le scale della lussuosa entrata e, mostrano il proprio distintivo all’agente sulla porta, scomparve nel ristorante.
Gli altri tre rimasero fermi sul viale senza saper cosa fare. Magnus alzò un sopracciglio scettico.
«Pensate che mi stesse prendendo in giro o che dicesse sul serio?» chiese dubbioso.
Morgenstern si strinse nelle spalle. «Tu lo sai?» e si avviò anche lui verso la scena del crimine.
Simon gli sorrise incoraggiante. «Scherzava, sicuramente scherzava. O forse no, non lo so… noi facciamo finta che non sia successo nulla ed entriamo lo stesso, va bene?»
L’altro sbuffò. «Dovremmo regalargli qualcosa tipo un collare che si illumina ogni volta che fa una battuta o risponde con sarcasmo.» borbottò seguendo l’amico.


Il ristorante era sicuramente elegante, con superfici lucide e tovaglie candide. Le ampie vetrate davano una sensazione di grandezza che andava ad accumularsi a quella scaturita dalle notevoli dimensioni dell’ambiente e dei soffitti alti da cui pendevano lampadari a specchio dal profilo di design. Alle pareti pochi quadri ritraevano scorci della città con uno stile moderno, sui mobili posti sotto di essi composizioni floreali fresche coloravano quella sala che sarebbe stata se no solo bianca e metallica.
Non vi erano clienti, quel giorno tutto il locale era stato prenotato per un’importante riunione d’affari.
Alec osservò con attenzione la disposizione dei tavoli, spostati in modo da permettere ad una lunga tavolata unica di svettare nel mezzo della sala principale, proprio sotto la ghiera di luci poste a cerchio nel centro.
La tovaglia immacolata strideva terribilmente con le macchie di sangue che si trovavano sul pavimento, impronte di scarpe di varie forme e dimensione, tutti coloro che si erano affrettati attorno alla vittima quando questa era caduta a terra agonizzante. I piatti dai bordi dorati, i bicchieri lucidi, il vino bianco, le posate splendenti, la zuppa color crema… ogni cosa era perfettamente integrata in quell’ambiente dove quel colore così vivido, così violento risaltava con maggior forza. Il cadavere era riverso in una pozza del suo stesso sangue. Non era stato spostato dal punto esatto in cui era caduto ma ovviamente i commensali si erano affrettati a girarlo nel tentativo di salvare il famoso cuoco da quell’inevitabile morte.
L’uomo era ora in posizione supina, gli occhi sbarrati puntati verso quelle luci accecanti che, come un aureola, lo illuminavano dall’alto. Portava ancora la sua divisa da chef, ora intrisa di sangue, ma non vi erano segni di proiettile, non vi erano ferite da arma da taglio o da arma contundente, nulla che potesse giustificare quell’enorme perdita di fluido. Il viso mortalmente pallido era imbrattato tanto quanto le sue vesti, le labbra viola spalancate, bocca, denti, mento, guance e collo completamente coperti di rosso, come li avesse immersi in una latta di vernice.
Non vi erano segni particolare, nessuna petecchia significativa, nessun livido evidente, guardandolo così, prima ancora di sentire il parere del coroner, Alec sapeva già che quell’uomo doveva esser morto d’emorragia interna. Cosa l’avesse provocata era il punto focale della faccenda.
Attese in silenzio che il medico finisse di esaminare il cadavere e gli fece un cenno con il capo quado questo si volse verso di lui, un sorriso affabile sul volto gentile.

«Buon giorno Lightwood, è la seconda volta che devo darti il “ben tornato”, vi hanno riassegnato ai casi comuni?»
Il dottor Carson inclinò leggermente la testa, socchiudendo gli occhi chiari, infastidito da quella luce così forte che sembrava puntargli contro come un faro.
Anche Alexander si ritrovò a lanciare un’occhiata sbieca all’anello di lampadine e si sposò subito dopo, facendo attenzione a non toccare impronte e macchie, schermando come meglio poteva il medico legale con la sua alta figura.
«Ti ringrazio.» gli disse quello gentile.
«Di nulla. Non credo che questo caso sia poi così comune, sbaglio?»
Carson scosse la testa, i capelli scuri, corti e mossi, parvero quasi ondeggiare morbidi sul capo del dottore. La sua pelle chiara appariva giallina sotto quell’illuminazione e ancora una volta Alec si voltò a guardare il soffitto, l’espressione crucciata.
«Queste luci erano così forti anche quando è arrivato lei?» domandò curioso.
L’uomo annuì. «Sì, ma sono del parere che siano stati i primi agenti arrivati sul posto a chiedere di alzare l’intensità, forse per esaminare meglio il corpo.»
Il tenente non rispose subito, guardandosi in giro pensieroso.
«Siamo in pieno giorno, le finestre sono lontane, è vero, ma l’ambiente è arioso e chiaro, pieno di superfici lucide, riflettenti… perché hanno acceso le luci?» chiese più a sé stesso che agli altri.
«Trovato già qualcosa che non ti quadra?» Jonathan gli si affiancò silenzioso, rivolgendo poi un saluto al medico legale e puntando gli occhi sul cadavere. «Un mucchio di sangue, vedo.»
«Non sei abituato a vederne così tanto? Non dirmi che alla Crimine Organizzato non vi capitano mai scene del genere.» lo punzecchio Magnus, seguito da Simon che, con circospezione, camminava sulle punte per evitare di toccare qualche impronta.
Il biondo si lasciò sfuggire un suono sprezzante. «Certo che vediamo scene sanguinolente, ma l’ultima volta che ne ho vista una con così tanto sangue è stato co-» si bloccò. Non disse altro ma il suo sguardo volò veloce su Alexander che, ritto come un fusto, esaminava ora le luci, ora il tavolo, ora il corpo, saltando da un punto all’altro come se vi fosse un collegamento diretto, un filo che solo lui riusciva a vedere e che legasse le tre zone.
Magnus trattenne il fiato quel tanto che bastava per rendersi conto che il detective non li aveva sentiti. Simon, dietro di loro, deglutì un paio di volte e l’espressione dura di Jonathan suggellò la chiusura di quel discorso prima ancora che fosse aperto.
Nessuno di loro voleva rivangare quella storia, nessuno di loro voleva ricordare che l’ultima scena del crimine con così tanto sangue, con non una ma ben due vittime riverse in una pozza rossa fosse stata a casa di Magnus, che una di quelle vittime, uno di quei corpi, aveva rischiato d’esser Alec stesso. I medici non avevano voluto dir loro quanto sangue avesse perso quella notte, forse solo il diretto interessato lo sapeva ma si premurava di tenerlo per sé.

«Simon?» chiamò d’improvviso Alec.
«Sì?» saltò su lui guardandolo spaesato.
«Vai a chiedere agli agenti se quando sono arrivati le luci erano già così forti, se non sono stati loro scopri chi.»
«Roger!» disse subito facendo per andare, poi si bloccò e guardò l’amico. «Ma non dobbiamo esaminare il corpo? Vorrei sentire cos’è successo.»
Il moro annuì. «Non c’è molto da dire ora come ora. Non ci sono segni di violenza, non ci sono ferite. Solo l’autopsia saprà dirci cosa ha scatenato l’emorragia.»
«È davvero morto così? Per emorragia interna?» chiese Magnus quasi disgustato.
«Non è una bella morte, rientra di sicuro tra le più spiacevoli.» annuì il medico. «Posso solo presupporre che debba esser stato un composto in grado di perforare le pareti dello stomaco, creare ulcere… non è una certezza, solo una vaga idea di cosa potrebbe essere stato. Quest’uomo non è morto soffocato nel suo stesso sangue solo ed unicamente perché è fuoriuscito con tale violenza da non dargli il tempo di sentire la mancanza d’ossigeno. Credo comunque che, malgrado il tutto, riuscisse ancora a respirare.»
«Non ci sono petecchie negli occhi.» disse sbrigativo Alec prima che Magnus formulasse la domanda.
Carson annuì. «Posso farlo portare via? Prima tornerò in obitorio prima saprò dirvi qualcosa.»
Alec fece un cenno vago, qualcosa che fece intuire al medico di dover aspettare ancora un attimo, poi si rivolse a Magnus. «Chiedi la lista dei lavoratori presenti, Jonathan, tu dei commensali.»
Magnus mise su un falsissimo broncio infantile. «Perché a me la servitù?»
«Perché non sai come trattare la gente di un certo rango, a differenza mia.» ammiccò il biondo.
L’altro alzò un sopracciglio in segno di sfida. «Credi davvero a ciò che stai dicendo?»
«Tu riesci a fingere di esser completamente asservito a qualcuno della nobiltà, mastro Bane?» lo scimmiottò continuando sul filo delle sue lamentele. «E soprattutto, riesci a correre abbastanza velocemente da non farti prendere da un qualunque oggetto Lightwood deciderà di lanciarti dopo quella bell’uscita infelice?» domandò stringendosi nelle spalle, un gesto del tutto in contrasto con il ghigno sadico che aveva in volto.
Magnus fece una gran fatica ad ignorare quel “mastro Bane”, specie quando avrebbe voluto specificare che lui era un principe, non un qualunque manovale, ma la realizzazione di aver detto, forse, qualcosa di troppo davanti al detective bastò a non farlo replicare e girarsi lentamente verso di lui.
Alec lo fissava impassibile, non una sola emozione gli passava in volto, non un tremito, non uno sguardo diverso che non fosse quello di ghiaccio con cui guardava tutto ciò che non gli interessava o che, peggio ancora, lo irritava. E quel commento sulla servitù doveva averlo irritato parecchio visto il brivido di freddo che gli era colato lungo la schiena.
Ma Magnus era tanto bello quanto stupido, o forse sarebbe stato meglio dire che fosse un amante della bella vita tanto quanto lo fosse del pericolo, e con un sorriso smagliante si rivolse intrepido al suo capo: «Vuol dire che lui sa leccare il culo meglio di quanto non lo sappia fare io? No, perché su questo potre-»
«La lista del personale.» ripeté con calma mortifera Alec.
«Sempre io?»
«Ora.»
«Comunque possiamo tutti ammettere che se dovressimo seriamente fare una gara di-»
«Magnus?»
«Sì, capitano mio capitano?» chiese battendo le ciglia lunghe.
«Perché ti vedo ancora qui davanti a me?»
A quella domanda Jonathan alzò gli occhi al cielo e, afferrato malamente l’uomo per il collo del cappotto, lo trascinò via prima che il Tenente Lightwood riuscisse ad estrarre la pistola da sotto il giaccone chiuso. Non aveva dubbi che sarebbe stato estremamente veloce anche in quello e per quanto vedere Bane con un buco in testa sarebbe potuto risultare anche divertente, non aveva la minima voglia di ritrovarsi con un secondo cadavere ad inzozzare la scena di un altro crimine, con un superiore tutto sommato buono ma, di certo, che non sarebbe stato troppo facile da ammanettare da arrestare, con un doppio caso da risolvere e con quelle lunghissime e pallose sedute in tribunale. Non metteva in dubbio che Alec si sarebbe subito preso le sue responsabilità e che si sarebbe consegnato alla giustizia senza neanche voler un appello, ma non dubitava neanche che l’intero dipartimento di polizia non lo avrebbe perdonato. O fatto una statua nel caso di Luke, ma questi erano dettagli.
«Forza, signore supremo delle puttanate, a te il personale di sala e di cucina e a me i pezzi grossi, così ha detto il capo.»

Alexander sentì a mala pena le proteste di Magnus su quanto al massimo fosse il signore supremo delle puttane e non delle puttanate – e questa battutina gli sarebbe costata davvero cara poi – e su come gli stesse sgualcendo il cappotto con quella presa da scimmione.
Il detective riportò lo sguardo sul cadavere, presto dimentico dei suoi colleghi, e lo esaminò ancora senza muoversi dalla sua posizione.
Da lì poteva immaginare perfettamente il cuoco alzarsi da tavola, magari dopo aver dato qualche colpo di tosse. Forse aveva accusato qualche fastidio, aveva riconosciuto un sapore scorretto, aveva chiesto scusa ai suoi ospiti e, spostata la sedia con un po’ troppo impeto, data la posizione discostata rispetto al tavolo in cui si trovava, si era avviato verso la cucina ed il corridoio che dava sulla zona aperta solo al personale.
Quanti passi aveva fatto? Non era molto alto, forse sul metro e settantacinque, di certo più basso di lui e anche di Jonathan. Probabilmente era riuscito a farne otto, massimo dieci, doveva ricordarsi di chiedere a qualcuno, aveva cominciato, o continuato?, a tossire, sputare sangue, finché l’emorragia aveva avuto la meglio ed il sangue era fuoriuscito con prepotenza.
Alec alzò lo sguardo sul soffitto, osservò uno dei faretti posti sulla vittima e, stringendo gli occhi per combattere la forte luce, riuscì a scorgere delle piccole perle lucide e rosse. Com’era possibile?
Abbassò lo sguardo, lo rialzò, girò su sé stesso e poi si bloccò. Tenne gli occhi fissi sulla vittima, ignorando l’occhiata interrogativa del dottor Carson e si disse che qualcosa gli mancava, qualcosa che avrebbe dovuto veder subito ma che gli era sfuggito.
Doveva far mente locale, ricominciare da capo.

«Potete allontanarvi tutti dalla scena del crimine, per favore?» chiese con voce ferma ma gentile.
Il medico legale continuò a fissarlo curioso ma annuì e si alzò da terra, facendo cenno ai suoi sottoposti di portar via la barella e ai tecnici della scientifica di posare ciò che avevano in mano e far un passio indietro.
«Preferisci che il locale sia vuoto o solo questa zona?» domandò tranquillamente, come se fosse abituato a situazioni del genere e in effetti il dottor Carson lo era, lo era eccome.
Nella sua lunga carriera gli erano capitati tutti i possibili tipi di poliziotto, detective e dirigente presenti al numero 1 di Police Plaza. Da chi voleva assoluto silenzio a chi voleva fotografato anche il granello di polvere, da chi pretendeva che neanche lui toccasse il corpo finché non fossero stati terminati tutti i rilievi e chi chiedeva di portare subito via la vittima, prima ancora di sentirsi dire a che ora fosse morta. Alexander, in passato, gli aveva già fatto una richiesta simile. Se lo ricordava ancora, piccolo di volto, troppo giovane per non esser solo una semplice recluta. Lavorava ancora con Benny e i suoi ragazzi, forse era proprio uno dei loro primi casi, quando si erano resi conto che le nuove leve erano dispari e non si poteva assegnare un altro ragazzo a qualche sergente o tenente. Petter aveva accettato di buon grado di prender con sé e la sua squadra già più che collaudata quel ragazzino altissimo, pallido come un morto, con i capelli neri sempre ordinati e gli occhi così blu da sembrare finti.
Si ricordava come, giunti sulla scena del crimine, i tre detective avessero subito capito cosa fosse successo, uno schema già visto fin troppe volte purtroppo, molto confuso all’inizio ma estremamente facile da riconoscere dopo: una resa dei conti fin troppo sanguinolenta, tipica di una gang che in quel periodo stava mettendo a ferro e fuoco il Queens. Petter aveva chiamato Lightwood, che come ogni pivello che si rispetti non era ancora coinvolto nella vera risoluzione del caso e veniva mandato in giro a trottare dietro deposizioni secondarie, scartoffie e caffè, e gli aveva detto di non andar a fare il suo solito giro ma di guardare la scena del crimine e dirgli cosa fosse successo.
Alexander aveva buon occhio già all’epoca, da quel che sapeva sulla sua famiglia – informazioni che erano cresciute in modo esponenziale da quando Isabelle era entrata nel loro laboratorio – era abituato a star dietro ai danni dei suoi fratelli e scorgere le minime avvisaglie di un qualunque problema. Porgli quella domanda, per molti agenti senior lì presenti, era parsa quasi una cattiveria al tempo, ed il giovane “pivello in prova”, come lo chiamava bonariamente Gabe, aveva cercato di dare il meglio di sé per non sfigurare davanti ai suoi superiori.
Carson se lo ricordava bene, sorprendentemente più di quanto avrebbe creduto possibile: si ricordava Alec che girava la testa a destra e manca, la strada, il muro, la porta, la vittima, il muro, i palazzi, le lampade, la vittima, il coltello, la strada. Aveva fatto un giro su sé stesso, poi si era fermato, aveva aggrottato le sopracciglia e voltatosi verso Petter gli aveva lanciato uno sguardo imbarazzato, le guance rosse come quelle di un bambino preso in fallo.
Tutti ben o male sapeva cosa avrebbe detto, si immaginavano quella voce bassa, quasi sussurrata ammettere di non saper cosa fare, e invece l’allora piccolo agente Lightwood li aveva sorpresi tutti.

«Potrei chiederle di far allontanare, solo per un momento, tutti dalla scena? Se non è di troppo fastidio per la scientifica ed il coroner.»

Aveva domandato con fare timido, imbarazzato da quella sua stessa richiesta che poteva sembrar così supponente.
Gli occhi a palla di Berry Petter, di tutti i presenti, sarebbero dovuti esser immortalati all’epoca.
Alla fine Lightwood aveva letto bene la scena, aveva fatto i collegamenti giusti, seppur non tutti precisi e diretti, seppur non sempre completi, ed era riuscito a dare, a grandi linee, una visione generale di un evento che la maggior parte di loro già conosceva. Non era stato perfetto, questo no, c’era stato un periodo in cui l’impassibile Detective Lightwood aveva dato le sue risposte e le sue spiegazioni con aria remissiva, temendo di dire la stupidaggine più grande del mondo, di esser deriso, di gettar fango sul nome della sua famiglia, sull’operato di suo padre.
Puntando gli occhi chiari su Alexander, Carson sorrise quasi nostalgico, come crescevano in fretta i ragazzi, persino le reclute prima o poi diventavano tenenti.
Avanzò verso il detective e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Prenditi tutto il tempo che ti serve, Lightwood.»
Lo sguardo limpido del giovane valse quanto le sue parole educate e sincere. «Grazie Dottore.»

Quando tutti si furono mossi, lontani dalla luce accecante di quell’aureola di faretti, Alec stesso fece un passo indietro ed osservò di nuovo la scena, imponendosi di riguardarla senza pregiudizio alcuno: cosa vedeva?
Nell’ampio salone i tavoli più o meno grandi erano stati spostati per far spazio, nella zona centrale, ad una lunga tavolata bianca, immacolata. Ogni singolo oggetto posto sopra quella tovaglia candida era luminoso e chiaro, non vi erano colori scuri, non vi erano colori forti, solo il bianco, l’oro, l’argenteo del metallo ed i luminosi riflessi di vetri e cristalli.
Le sedie erano scompostamente allontanate dal tavolo, era logico presupporre che nel momento in cui il famoso cuoco era crollato a terra agonizzante molti dei commensali, se non tutti, si fossero alzati per soccorrerlo. Un paio di sedie erano girate completamente, forse qualcuno si era riseduto sentendosi male, forse qualcuno aveva avuto un mancamento ed era stato riaccompagnato al proprio posto, un bicchiere al centro della tavolata, era stato abbandonato vicino al bordo, quindi sì: sicuramente qualcuno aveva accusato la vista del cadavere e del sangue e si era dovuto risedere. Doveva chiedere a Jonathan chi fosse.

«Qualcuno vada dall’agente Morgenstern e gli chieda di scoprire l’esatta posizione di tutti i commensali a tavola e chi si è sentito male oltre la vittima. Parlo di mancamenti, giramenti di testa, nausee, le classiche conseguenze da shock, grazie.» Disse con voce sicura e non troppo alta. Vide una divisa blu muoversi veloce ed apprezzò la rapidità nell’eseguire quell’ordine. Si stava lentamente abituando alla reattività che avevano ora tutti gli altri nei suoi confronti, dopotutto ad ognuno di loro, così come a lui a suo tempo, era stato insegnato a non far attendere mai troppo un Tenente.
Tornò a guardare la tavola.
Tutti gli altri bicchieri erano ai loro posti, le posate ancora nel piatto o poggiate di fianco. Non c’erano macchie di alcun tipo, le zuppe avevano tutte lo stesso colore. Si avvicinò a piano e, chinandosi leggermente su tutti i piatti, annusò il contenuto, lasciandosi per ultimo quello della vittima, posto a capotavola. Nulla, avevano tutti il medesimo odore e certo Alec non sarebbe stato così stupido da assaggiarle. Lanciò quindi uno sguardo al vino, due bottiglie erano state aperte e poste nelle rispettive metà del tavolo, ciò stava a significare che per quanto fosse stato un pranzo importante, con persone facoltose in un ristorante decisamente costoso e lussuoso, doveva esserci una certa conoscenza pregressa tra i commensali, qualcosa che permetteva loro di versarsi il vino a vicenda e di non necessitare di un cameriere pronto a farlo per loro.
Chiese anche quello ad un altro agente, di andare da Magnus e da Simon e chiedere rispettivamente al primo di informarsi sul menù, la composizione delle portate, l’ordine d’uscita, e al secondo di scoprire se ci fosse del personale presente durante il pranzo, fermo a vigilare che tutto andasse bene e a servire gli ospiti in caso di bisogno. Erano rimasti soli? C’era un occhio esterno che, con una visuale privilegiata, aveva notato nulla di sospetto o quanto meno strano?
La giovane recluta che prese il suo ordine gli assicurò che sarebbe tornata a breve con tutte le informazioni e gli chiese addirittura se non le volesse scritte.
Alec le sorrise, quel suo stentato tirar di labbra storto e insicuro, e la ringraziò. Apparentemente il tentativo riuscì bene.
Cos’altro avevano condiviso tutti? Il vino sicuramente, forse un aperitivo o un antipasto che era già
stato portato via, bisognava bloccare la cucina, sperando che i primi patti tornati dalla sala non fossero già stati lavati.
Quando ebbe la conferma che una delle prime cose fatte appena giunti sul luogo del delitto fosse stato proprio quella di fermare qualunque attività del personale, Alec tornò subito con lo sguardo alla tavola imbandita.
La zuppa posta a capotavola, dove sedeva giustamente Cobe, era all’incirca allo stesso livello delle altre, se la sostanza che aveva provocato l’emorragia si trovava dentro quel piatto la vittima non si era accorta di nulla prima che i sintomi cominciassero a presentarsi.
Vicino al piatto il cucchiaio lucido spiccava leggermente sporco, il tovagliolo accartocciato doveva esser scivolato giù dal tavolo ed ora si trovava mollemente abbandonato sul pavimento.
Alexander si affiancò alla sedia e misurò a piccoli passi la distanza tra quella ed il cadavere, attento ad evitare le ben tre, quattro, sette, otto, dieci- quindici? Quindici serie di impronte?
Era giusto pensare che almeno due fossero dei paramedici che erano intervenuti per primi, c’erano poi almeno tre paia di scarpe femminili, due maschili, l’impronta dalla forma allungata ed il tacco squadrato, scarpe eleganti senza ombra di dubbio, altri potevano sembrare mocassini? Impronte parziali di stivali, anfibi probabilmente, ed in fine scarpe antinfortunistica, da ginnastica e sandali, sicuramente di qualche membro della cucina accorso ai primi segni d’allarme. Molte persone a cui requisire le scarpe quindi, e visto che erano presumibilmente di un certo livello sociale il povero disgraziato a cui sarebbe toccato quel compito ingrato, Jonathan visto che già aveva interagito con i presenti, avrebbe dovuto far appello a tutta la sua pazienza. Alle brutte si sarebbe presentato lui stesso per convincerli.
Con un respiro più pesante degli altri tornò ad osservare la vittima.
La posizione non era ovviamente cambiata, l’uomo era ancora riverso supino, girato dai suoi soccorritori nel vano tentativo di salvarlo, con le vesti bianche imbrattate di sangue, il volto cinereo, le labbra bluastre colorate di rosso e le pupille dilatate.
Alexander si fece un po’ più vicino, aggrottando le sopracciglia quando si rese conto di un particolare che aveva dato per scontato fino a quel momento: Cobe indossava la casacca da chef, immacolata se non per il sangue, e se lanciava uno sguardo verso le porte spalancate della cucina poteva vedere perfettamente un grembiule appeso ad un gancio lì vicino.
Piegandosi sulle ginocchia e poggiando il braccio sul destro il detective riuscì finalmente ad avere una visione più ampia del tutto.
La vittima, come chef e proprietario del ristorante, doveva esser stato presente sia in cucina che a tavola, questo significava che, potenzialmente, le possibilità per avvelenarlo si erano appena duplicate. Qualcuno poteva avergli chiesto di assaggiare una preparazione che ancora non era arrivata in sala, o magari di provare un vino appena aperto, per quanto ne sapevano poteva anche aver chiesto un semplice bicchiere d’acqua, una pastiglia per il mal di testa. Poteva essersi ferito con un arma avvelenataimprobabile visto che non aveva ferite evidenti e fresche visibili – poteva essersi punto con un qualche ago, ma Alec dubitava fortemente che nel menù ci fosse quel famosissimo e leale pesce palla che piaceva tanto alle serie poliziesche.
Inclinando la testa per osservare il viso della vittima da un’altra prospettiva Alec controllò che non vi fossero segni di bruciatura o irritazione alle narici: poteva aver inalato qualcosa? Storse il naso ai suoi stessi pensieri, se così fosse stato tutto il personale di cucina sarebbe stato contaminato e per fortuna non gli era proprio parso di vender nessun altro accasciato a terra tossendo sangue.
Sospirò, non era un’eventualità da sottovalutare però, avrebbe comunque chiesto a tutti i cuochi e gli aiutanti di sottoporsi a visita medica e analisi specifiche. Se poi si fosse scoperto che la vittima aveva assunto la sostanza letale in altro modo, beh, tanto meglio, ma di certo non avrebbe corso il rischio di una seconda, terza o anche quarta vittima.
Con quella luce così forte però Alec poté notare con facilità la leggera ricrescita della barba dell’uomo, null’altro che un alone appena accennato ma, più che uniforme, avrebbe detto decisamente a macchie. Non era strana come cosa, Alexander avrebbe potuto citare il nome di almeno cinque persone che non avevano la sua stessa fortuna di sfoggiare, se volevano, una barba fitta e piena su guance e collo, gli bastava pensare a Simon, ora chissà dove in quel locale, che non riusciva a farsi crescere in modo decente neanche i baffi, o Jonathan anche, che con quella peluria così chiara e fine riusciva solo a contornare la mascella, o anche Jace, però… perché gli pareva così strano allora?
Si alzò in piedi e fece vagare lo sguardo per la sala, accecato ancora dalla potenza dei faretti che non erano stati minimamente abbassati. L’ambiente era elegante, il pranzo formale ma non troppo, di certo un incontro lavorativo ma tra persone che, ben o male, dovevano conoscersi.
Riportò gli occhi blu sulla vittima.
Se era un evento di lavoro, se tutti erano vestiti per bene, d’alta classe, alla moda, se Cobe faceva avanti indietro dalla cucina, per preparare personalmente tutte le portate, se si premurava di esser pulito e lindo, dando l’immagine del cuoco perfetto… perché non si era fatto la barba quella mattina? Perché sua moglie non glielo aveva fatto notare? C’erano stati degli imprevisti forse, qualche ritardo? Persino lui l’avrebbe fatto. Alexander si sforzava ogni singolo giorno di radersi alla perfezione per mantenere un certo aspetto rispettabile e formale, qualcosa che anche un cuoco della levatura di Hugh Cobe avrebbe dovuto fare, e le uniche occasioni in cui non si radeva erano quelle in famiglia – neanche troppo visto che sua madre e sua nonna ci tenevano tanto – le uscite con i ragazzi, quando non aveva voglia, quando non doveva far bella figura, quando-

Non mi interessa ciò che sto per fare, quando non mi va di presentarmi in un dato luogo e quindi non mi va neanche di sforzarmi di far bella figura.

Aggrottando le sopracciglia scure Alec si schermò dalla luce con la mano ed una domanda si fece largo in lui: che la vittima non avesse piacere di fare quel pranzo?
Sapeva per certo che l’uomo non voleva aprire altri locali, quindi non doveva impressionare possibili finanziatori. Sapeva che aveva un unico ristorante, quello, che era il suo gioiello e trattava come un essere vivente. Di catering non ne faceva praticamente nulla, aveva fatto giusto qualcosa per un senatore e solo ed unicamente perché era un vecchio amico che gli era stato fedele fin dagli esordi. Persino all’insediamento del Sindaco aveva rinunciato. Era un cuoco vecchio stampo, un uomo che aveva avuto fortuna e gran da fare in giovane età, in Europa, e che una volta in America aveva semplicemente deciso di dedicarsi al suo ristorante e nulla di più.
Quindi le possibilità al momento erano due: o quello era un pranzo fra amici e Cobe aveva deciso di preparare personalmente tutte le portate per puro piacere e affetto verso i commensali. O, proprio come faceva lui durante le feste, non aveva alcuna voglia di stare a quel tavolo e aveva usato la scusa della cucina per potervisi allontanare il più possibile.
Che fosse una persona schiva, che non amava chiacchierare e che odiava i convenevoli era cosa risaputa, o almeno questo era quello che Alec era riuscito a capire tra il gossip insensato di Jonathan e Magnus e quelle informazioni di base che gli erano state comunicate prima in centrale e poi una volta arrivati sul posto; quindi la seconda opzione era possibile. Ma tutte queste non erano altro che supposizioni, se non avesse parlato con i testimoni non avrebbe cavato un ragno dal buco.
E per quale diavolo di motivo quei dannati faretti erano ancora così forti?
Il detective lanciò uno sguardo penetrante alle luci sul soffitto, che se fossero state in grado di comprendere ed agire probabilmente si sarebbero spente all’instante per la vergogna o la paura, e lasciò per un attimo che quel fascio luminoso lo accecasse. Quando abbassò gli occhi cercando un agente il suo mondo divenne tutto macchie e contrasti, dove solo i colori chiari erano visibili e gli scuri non erano altro che una macchia bluastra.
Continuando di quel passo si sarebbe sciolto tutto il ghiaccio nei porta bottiglie ed avrebbe inzuppato la tovaglia.
Quelle luci, i riflessi del sole che rimbalzavano su ogni superficie lucida, star in quella posizione, lì dove tutto convergeva, gli stava facendo avvertire un calore fastidioso.
Si volse dando le spalle alla vittima, pronto a chiedere ad un uomo in divisa di recuperargli Lewis e di far spegnere le luci, quando ciò che vide lo lasciò interdetto: il dottor Carter si stava tamponando la fronte con un fazzoletto, l’agente vicino a lui si era tolto il cappello e sbottonato i giubbotto d’ordinanza.

Fa davvero così caldo sotto questi faretti.

La realizzazione lo colpì come uno schiaffo in pieno viso.

Fa troppo caldo. È fatto apposta?

«Spegnete immediatamente quelle luci e tirate le tende, ora.» la sua voce risuonò forte e perentoria, così potente in quel brusio basso ed incredulo che accompagnava ogni scena del crimine, che qualcuno saltò su sorpreso.
Un tecnico della scientifica si mosse velocemente, annuendo e asserendo si aver visto il pannello di controllo, superando i suoi colleghi rimasti imbambolati e sfrecciando davanti a Magnus che aveva appena fatto capolino dalla cucina.
L’uomo lo guardò curioso e poi si rivolse al detective.

«Che c’è che non va?» domandò sicuro che Alexander avesse i suoi buoni motivi per chiedere una cosa del genere.
«Le luci sono troppo forti, sembra che siano state impostate in questo modo di proposito.»
«Di sicuro è così, per illuminare al meglio la tavolata, non vedi che servizio splendente che c’è sopra?» disse avanzando nella sala e facendo cenno a qualcuno, nei locali del personale, di aspettare.
Alec annuì. «E tu mangeresti ad un tavolo del genere, con delle luci così forti puntate sulla testa, quando tutto attorno a te riflette con questa intensità il minimo raggio?»
Magnus ci pensò su, entrando sotto il cono di luce e alzando un sopracciglio. «Diamine, non mi ero reso conto che fossero così forti, sembrano i fari di un palcoscenico.» constatò sorpreso.
«Stai pensando ciò che credo tu stia pensando?»
Il dottor Carson si avvicinò ai due, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Alec che annuì lesto.
«So che potrebbe sembrare paranoico, ma visto che non abbiamo trovato nessun’arma del delitto e si presuppone che la vittima sia morta d’emorragia per colpa di un farmaco ingerito in qualche modo-»
«Presupponi che la sostanza si trovi su questo tavolo e che come molti composti del genere una prolungata esposizione al calore possa scioglierla e farla evaporare e allora anche se la rintracciassimo nel sangue della vittima non potremmo che presupporre il luogo, l’oggetto in cui si trovasse prima dell’assunzione.» Carson gli sorrise. «Previdente come sempre detective, posso portare via il cadavere ora? Le serve per altri rilievi?»
Alec scosse la testa. «Se la scientifica ha finito potete portare la vittima in obitorio. Grazie dottore.»
L’uomo gli fece un cenno del capo e sorrise di nuovo. «Non c’è di che.» poi si rivolse a Magnus. «Ascolta con attenzione ciò che sentirai dire da questo giovane, nei casi così intricati è quasi più bravo che in quelli da manuale.» e detto ciò fece cenno ai suoi assistenti di preparare la barella e si concentrò sul suo lavoro.
Magnus lo osservò divertito e poi alzò lo sguardo su Alec. «I casi intricati, eh? Sappiamo già per certo che questo lo è? Non potrebbero avergli somministrato qualche droga prima del pasto, lontano dalla cucina? O che ne so, magari si drogava e gli hanno messo qualcosa nella sua siringa mattutina?»
Il moro scosse piano il capo. «Non credo sia così semplice, ma potrebbe essere solo una mia impressione.»
«Mh, le tue non sono mai solo impressioni. C’è qualcosa che ti ha colpito ma non hai ancora tutte le informazioni giuste per dire se è una cosa seria o meno. Ti conosco fiorellino.» concluse ammiccando divertito.
L’occhiataccia che gli arrivò di rimando gli fece storcere il naso e mugugnare avvilito.
«Oh, dai! M’è scappato!» provò a giustificarsi.
«Fattelo scappare di nuovo e la minaccia del sedile posteriore della volante diverrà realtà.» lo avvertì serio.
Magnus però si illuminò come un albero di Natale. «Quindi prima era solo una minaccia! Non parlavi seriamente!» saltellò deliziato dalla scoperta.
L’altro non si voltò neanche a guardarlo. «Tutte le mie minacce sono serie, Bane. Tu dovresti saperlo meglio di molti altri.» e con quelle parole si incamminò verso la cucina, passando vicino ad uno dei lunghi mobili su cui erano posti grandi e prominenti vasi stracolmi di fiori.
L’asiatico fissò la sua schiena imbambolato, ragionando sulle sue parole finché non ne venne a capo nel suo personale e personalissimo modo.
«EHI! Dov’è finita la regola numero due! Perché vale solo per me? Alexander? Alec?! EHI! Non mi ignorare! Sto parlando con te, Lightwood!»


Nella cucina la situazione era tranquilla ma prevedibilmente tesa.
L’intero staff se ne stava a testa bassa, poggiati contro i banconi, al muro, seduti su uno sgabello senza dir una sola parola. Regnava il silenzio più totale ed Alec si domandò se tutto quel riserbo fosse dovuto al rispetto che avevano per il loro defunto capo o per altri motivi. In ogni caso l’avrebbe scoperto a breve.
Scandagliò i presenti con attenzione, dividendo personale di sala e quello di cucina, per poi fermarsi su un giovanotto che doveva avere all’incirca la sua età. Se ne stava in piedi davanti ai fornelli, dando le spalle a questi, su cui erano posate pentole accuratamente coperte dai rispettivi coperchi. A differenza degli altri non cercava appoggio su nessuna superficie, non aveva l’aria di qualcuno che aveva appena visto morire un uomo, che aveva appena visto un cadavere. Il suo sguardo era perso sul pavimento ma non teneva la testa bassa, anzi, rimaneva quasi ostinatamente dritto e sull’attenti, come se si aspettasse da un momento all’altro di ricevere qualche ordine.
Non ci volle un genio per capire che quello doveva essere Andrew Forscue, l’aiuto cuoco, il braccio destro di Cobe, il suo allievo più capace.
Alexander si presentò con il suo solito tono basso e monocorde, rassicurante nella sua educazione e nella sua calma. Gli occhi dello chef s’alzarono subito verso di lui e con un cenno del capo gli diede ad intendere di aver capito che il detective volesse parlare per prima cosa con lui.

«Andrew Forscue,» disse a mezza bocca, «se vuole c’è una saletta per le pause, da quella parte.» continuò indicando una delle porte alle spalle del detective.
Alexander annuì. «Se vuole mostrarmi la strada.» rispose gentile.
Forse il cuoco non aveva la stessa faccia scioccata di chi, tra i suoi colleghi, aveva visto il cadavere, ma era certo che la morte dell’uomo fosse stata un bel colpo per lui.
La sala in cui si fermarono non era altro che un salottino con un angolo bar e divani ad “L”, qualcosa di assolutamente sobrio ma che lasciava comunque intendere un certo comfort, soprattutto per esser un luogo dedicato completamente al personale. C’era una finestra che dava verso il vicolo che divideva il palazzo da quello adiacente, qualcuno avrebbe potuto dire che non fosse la vista migliore, ma in un caso di omicidio la possibilità che qualcuno in pausa avesse visto un possibile sospetto sgattaiolare dietro al locale era quanto mai utile e realistica. Sulla parete di destra c’era una seconda porta dall’aria resistente, con una lunga maniglia verticale.

«Lì ci sono lo spogliatoio ed i bagni. Lo spogliatoio è in comune, poi ci sono due porte che danno sul bagno delle donne a sinistra e degli uomini a destra. Dento ci sono anche le docce.» spiegò Forscue notando lo sguardo di Alec. Il detective gli fece un cenno di ringraziamento con il capo: quell’uomo era un buon osservatore, o come minimo era abituato a prestare attenzione ai movimenti e ai comportamenti degli altri, dei suoi superiori avrebbe scommesso: era sicuramente un punto a suo vantaggio.
Forscue si lasciò cadere di peso all’angolo del divano, una scelta che per quanto inconscia fece nascere quasi un moto di dispiacere in Alexander. Era abbastanza ovvio che malgrado l’apparenza stoica il cuoco si sentisse ferito, se non spaventato, dall’intera situazione. A colpo sicuro Alec avrebbe detto che non era il tipo di sottoposto che odia il proprio capo, tutt’altro.
«Se per lei va bene salterei i convenevoli.» iniziò con tono fermo.
Forscue alzò gli occhi verso di lui, limpidi, di un bel nocciola freddo, occhi che di solito dovevano esser vivaci e svegli ma che in quel momento gli parvero confusi e vacui.
«Sì. Sì, gliene sarei grato. Senza offesa, detective, ma ho sempre odiato gli estranei che fanno le condoglianze, mi sembra terribilmente ipocrita come cosa.»
Alec lo fissò senza mutare espressione, ma dentro di sé poteva quasi sentire un sopracciglio inesistente alzarsi interessato: le condoglianze di un estraneo… Forscue si aspettava che qualcuno, chiunque conoscesse un minimo lui o il suo capo, andasse a porgergli i propri ossequi per la perdita subita. Era forse ovvio e scontato che molti l’avrebbero fatto, come succedeva quando si perdeva un collega, e forse per lui che era un poliziotto sembrava ancora più ovvio. Lavorando a stretto contatto con una persona, condividendo tempo, pensieri, preoccupazioni, mettendo la propria vita nelle mani dell’altro si creava un legame stretto…Alec ebbe il vago sospetto che per quel giovane la morte di Hugh Cobe fosse stata un duro colpo esattamente come lo sarebbe stato per ogni agente che perdeva il proprio compagno.
Anzi, no.

Come ogni agente che perde il proprio mentore.

Quello era un punto da tenere a mente.

«Certamente. Cominciamo dal principio: mi parli del pranzo di oggi, di cosa si trattava, quando e come è stato organizzato, se sa qualcosa dei commensali e poi anche del menù.»
Forscue annuì piano. «A Cobe non piacevano troppo gli eventi privati, credo che sia importante che lei lo sappia.» disse subito con inaspettata severità. «Cobe non era uno di quei chef stellati che una volta arrivato in cima alla vetta crede che solo la gente che viaggia in limousine e veste d’oro da capo a piedi sia degna di mangiare qualcosa toccato da lui, no, gli piaceva cucinare e gli piaceva farlo di continuo. So cosa gli racconteranno gli altri, chi è qui da meno tempo, o sua moglie e i suoi amici.» s’interruppe un attimo, come per assicurarsi che il detective seguisse bene il suo discorso. «Gli diranno che era sempre nervoso, che s’arrabbiava per niente, che cucinare per lui era stressante quando iniziavano ad arrivare tanti ordini e che quindi era meglio per lui far pranzi del genere ma non è vero, okay? Cobe era solo un uomo molto- non mi viene il termine giusto…»
«Passionale? Era una di quelle persone che si infervora per qualcosa a cui tiene? Magari che si lamenta in continuazione di chi gli sta attorno e di ciò che fa ma che non lascerebbe le redini a nessuno, neanche in punto di morte?» provò lui.
L’immagine di sua madre che non faceva altro che metter in riga i suoi stagisti, che minacciava tutti di sbatterli fuori dalla sala o dall’ufficio, che ringhiava quanto quel lavoro la stesse facendo diventare matta, apparve subito nella sua mente. Seguita poi dalla faccia soddisfatta che faceva ogni volta che vinceva un caso o si scopriva che, come ovvio, avesse avuto ragione lei fin dal principio.
Forscue gli lanciò uno guardo quasi grato ed Alec capì immediatamente di essersi guadagnato un po’ della sua fiducia.
«Proprio così. Si lamentava dei ragazzi, diceva che non erano abbastanza veloci e precisi, diceva a me che gli stavo sempre in mezzo ai piedi e che neanche se avessimo avuto una cucina grande quanto tutto il ristorante sarebbe riuscito a fare un passo senza avermi alle costole. Però se qualche cliente faceva commenti negativi e senza fondamenti ai piatti preparati da uno chiunque di noi s’arrabbiava da morire e ci difendeva a spada tratta e quando stava provando un piatto nuovo o una delle preparazione che mi erano più ostiche mi chiamava e mi diceva che doveva starlo a guardare e che dovevo rimanergli appiccicato finché non avessi imparato come fare. Cobe era solo un gran brontolone, sembrava la caricatura di un fumetto alle volte.» concluse con un mezzo sorriso affettuoso.
Alexander non faticava ad immaginare che le cose fossero effettivamente così. A quanto pareva Hugh Cobe era stato un mix perfetto di sua madre e suo padre e se la cosa da una parte gli metteva una certa ansia, dall’altra lo aiutava moltissimo: conoscere la vittima, la sua psicologia, i suoi comportamenti, era una delle cose più importanti.
«Amava il suo lavoro, era puntiglioso, voleva che le cose fossero fatte per bene e malgrado potesse esser burbero teneva a ciò che faceva e anche al suo staff, dico bene?»
«A modo suo. Cioè, sì, teneva a noi, al ristorante, ai piatti, al cibo. La sua filosofia era “minima manipolazione”, ogni ingrediente ha una sua identità e per apprezzarlo al meglio è importante sentirlo da solo. Non era uno da grandi dichiarazioni o dimostrazioni d’affetto, ma te lo faceva capire con tante piccole accortezze. Per esempio, era lui quello che ti medicava se ti ferivi, persino il personale di sala, una volta Eddy, uno dei camerieri, è scivolato sul vino caduto ad un cliente e si è fatto male al gomito per parare la caduta e non far rompere l’altra bottiglia che aveva in mano, ed è stato Cobe a trascinarlo qui e fare quanto poteva per aiutarlo. Lui- come glielo spiego? Ci sceglieva uno per uno, nessuna delle persone che troverà a lavorare qui, compreso chi oggi non era di turno, è stato scelto dalla moglie o dal capo sala, tutti da Cobe.»
Con un movimento fluido Alec si appuntò qualcosa sul taccuino e puntò lo sguardo dritto in quello di Andrew Forscue. «Perché ho l’impressione che lei stia cercando di mostrarmi tutti i lati positivi del signor Cobe e di giustificare quelli negativi?» domandò con tranquillità, come se stesse chiedendo qualcosa di banale.
Il giovane prese un respiro profondo, lo trattenne per un po’ e poi espirò rumorosamente.
«Il pranzo di oggi…Cobe non lo voleva fare.» iniziò tentennante. «È stata la moglie ad insistere tanto, vede- quelli nell’ufficio di Cobe sono degli investitori, lo ha sfinito con tutte quelle stupide storie che gli servivano finanziatori, che dovevano mostrarsi di più al pubblico, che dovevano crescere, cose del genere.»
«Il ristorante era in cattive acque?» chiese mascherando la sua sorpresa.
La reazione dell’altro fu però così esplosiva e genuina che Alec non riuscì a rimanere del tutto imperturbabile.
«NO! È questo il punto! No, non siamo in cattive acque, non abbiamo bisogno di denaro, non ci sono conti in sospeso, bollette arretrate, tasse da pagare. I fornitori vengono pagati puntualmente tutte le settimane ognuno il proprio giorno. Ogni mese tutti noi riceviamo il nostro stipendio e se abbiamo bisogno di fare straordinari ci basta andare da Cobe e dirglielo e lui ci assegna un paio di mansioni extra, ci fa fare qualche ora in più sul turno e poi ci arrivano i soldi in busta paga. È tutto regolare, le merci sono sempre le stesse, della stessa ottima qualità e glielo posso assicurare perché come aiuto cuoco è mio compito ricevere i fornitori e controllare che sia tutto in ordine. Non c’era motivo di fare questa cosa.» disse infervorato.
Nella sua voce Alec poteva sentire rabbia, sconcerto, sicurezza ed insicurezza in egual misura. E rispetto, rispetto e fedeltà, qualcosa che non andava mai sottovalutato.
E poi quelle ultime parole: “non c’era motivo di fare questa cosa”, dava perfettamente la misura di quanto Forscue avesse in conto il pranzo di quel giorno, di quanto lo reputasse importante.

Di quanto fosse d’accordo con la persona che l’ha organizzato.

La moglie.

«Quindi è stata una decisione della signora Cobe, giusto?» riportò il discorso sul binario principale.
L’altro annuì. «Sì. Si è presentata un giorno qui in cucina, di solito non ci entra mai perché Cobe non vuole gente a curiosare tra i fornelli, dice che non è “pulita” come lo siamo noi altri. Non sua moglie in particolare, ma tutti dico.» farfugliò impicciandosi con le parole. Si massaggiò la fronte e poi sospirò. «Ha detto di avere una notizia fantastica, davvero incredibile, che era ora di spiccare il volo, di guardare avanti, sognare in grande. Ha subito visto la faccia scura di Cobe, perché lui aveva già capito dove stava andando a parare, ne avevano già discusso in passato, e così si è affrettata a correggere il tiro dicendo che aveva degli amici importanti che sarebbero venuti in città e che voleva organizzare una cena di lavoro per fargli vedere come lavoriamo, fargli conoscere l’ambiente e tutte quelle cazzate lì.»
«Questo quando è successo? L’organizzazione dell’evento intendo.»
Il giovane ci pensò su per un po’, l’espressione crucciata di chi cerca di ricordare le cose con precisione. «Come minimo due settimane fa, forse qualcosa di più.»
«Il signor Cobe ha accettato quindi.» notò con voce piatta.
Forscue annuì. «Ci si è messo di mezzo anche quell’altro deficiente, il suo amico, Kevin J.»
Alec annotò il nome. «“J” come?»
«Solo J.» rispose stringendosi nelle spalle. «Se ricordo bene la storia, suo nonno era orfano, l’hanno lasciato in un convento durante la guerra con qualcosa tipo una lettera con su il suo nome e quella J puntata. Quindi è rimasto J.»
Il detective annuì e continuò con le domande di rito e con quelle più specifiche.
Non gli era sfuggito come il cuoco avesse parlato della moglie della vittima e del suo amico: non aveva mai nominato il nome della donna e aveva mal apostrofato l’uomo. Se aveva capito qualcosa di Andrew Forscue era che non aveva peli sulla lingua e che quella faccenda gli aveva acceso una rabbia di fondo che forse non si era ancora sopita. All’aiuto cuoco di Hugh Cobe non piacevano né la consorte di questo né il suo amico, perché?
Con le orecchie ben aperte e recettive ad ogni errore, ogni ripetizione e ogni tentennamento, Alexander cominciò ad impilare i primi mattoni che avrebbero costruito le basi di quel caso.
Il pranzo era stato organizzato dalla moglie, Felicia Cobe, supportato con grande trasporto dal signor J ed aveva avuto come ospiti degli investitori direttamente da Seattle e Las Vegas. Le portate erano state decise con largo anticipo, perché la signora Cobe desiderava che i loro commensali assaggiassero determinati piatti, i più complessi e difficili da realizzare, quelli che di solito Cobe stesso snobbava perché reputava le preparazioni troppo intricate solo uno spreco di tempo. Dal racconto che gli fornì Forscue nessuno in cucina sembrava troppo felice di quella situazione non tanto per la cosa in sé quanto per il nervosismo che aveva creato nel loro capo. Così come il personale di sala, che si era visto ripetere in continuazione quanto fosse importante che tutto fosse perfettamente al proprio posto.
Dalla tovaglia alle stoviglie, dalle tende alle sedie, dalle luci ai fiori. A detta dell’aiuto cuoco, tutti, che più chi meno, avevano i nervi a fior di pelle e non vedevano l’ora che quella giornata infernale finisse.
Certo, non così.

Mentre ascoltava tutto lo staff della cucina Alec si convinse sempre di più della sua idea principale: gli altri cuochi e gli assistenti avrebbero potuto replicare alla perfezione le portate richiese da Felicia Cobe ma il marito aveva insistito affinché fosse lui stesso a prepararle non perché volesse impressionare gli ospiti ma per aver una scusa per andarsene da quel tavolo.



Martin Stevenson, un uomo sulla cinquantina, dagli occhi calanti ed il volto stanco fu l’unico a dirglielo esplicitamente.
Lui e Cobe erano colleghi da una vita, avevano fatto le scuole preparatorie assieme, si erano divisi per poi rincontrarsi a Londra quando avevano ventisette anni.
A differenza di Cobe però Stevenson non aveva né la voglia né la caparbietà per arrivare nei grandi ristoranti, era una persona molto più tranquilla, che amava cucinare e voleva farlo con altrettanta tranquillità, senza dover sopportare il peso schiacciante dell’alta critica.

«Ai tempi dell’accademia non eravamo proprio amici, però andavamo d’accordo. Credo che lei possa ben capire cosa intendo, quei classici compagni con cui fai due chiacchiere in allegria, ci fai qualche progetto, chiedi i compiti e ti fermi volentieri a parlarci se li rincontri dopo anni per strada.» raccontò con voce calma ed un poco triste.
Alec annuì. «Ed è quello che è successo? Vi siete incontrati per le strade di Londra e avete deciso di lavorare assieme?»
L’uomo scosse la testa e si passò una mano tra i capelli corti ed ispidi, una volta dovevano esser stati di un bel marrone vivo ma ora sembravano sbiaditi come una stampa lasciata per troppo tempo al sole.
«Ci siamo incontrati per caso ad un pub, che non è proprio una strada,» sorrise mesto. «abbiamo chiacchierato del più e del meno, ci siamo raccontati le nostre avventure in quei sei anni che non c’eravamo visti. Lui era tirapiedi, come lo chiamavamo noi, in un ristorante molto quotato. Nessuna stella ma ottima posizione vicino al parlamento e clienti di spicco. Stava imparando il mestiere dal vivo, sul campo e ricordo ancora quella faccia da schiaffi che aveva quando mi disse che un giorno il suo capo avrebbe pregato in ginocchio per aver un posto nel suo di ristorante e lui gli avrebbe risposto che “non era qualificato”. Il tipo glielo diceva sempre quando Hugh si proponeva di far lui qualche piatto.» scosse la testa e sospirò. «Io lavoravo in un ristorante molto più tranquillo, di quelli in cui ci puoi trovare qualunque tipo di clienti. C’era sempre molto lavoro, il cibo era buono e semplice, ci venivano le famiglie, i gruppi di amici, le squadre di calcio dei vari club. Non me la passavo per niente male al tempo e così ci salutammo con la promessa di farci un’altra birra ogni tanto. Siamo rimasti in contatto così per qualche anno, succedeva che ogni due, tre mesi, ci incontrassimo per raccontarci come andavano le cose e lamentarci di lavoro, donne e affitto.
Io rimanevo sempre affezionato al mio bel ristorantino di quartiere, sono un tipo abitudinario e anche un po’ pigro, Hugh mi ci ha preso in giro fino alla morte.» e si bloccò.
Alexander non disse niente, rimase in silenzio per tutto il tempo che servì all’uomo per riprendersi da quel modo di dire che ora calzava fin troppo bene. Quando Stevenson si riscosse prese un’aria più risoluta.
«Cobe invece era andato avanti in quegli anni, si era fatto un nome, era stato preso in ristoranti più quotati, i primi con qualche stella. Era apparso su riviste del settore, aveva buone critiche ed il suo massimo picco arrivò quando fu preso nello staff ufficiale della casa reale.
Avevamo trentatré anni quando decise che ne aveva abbastanza di star alle dipendenze degli altri e che voleva gestirsi da solo. Un giorno si presentò alla porta del mio appartamentino, ero vicino al Tamigi, credo di non aver abitato mai in un luogo più umido di quelle quattro mura, ma Hugh mi si attaccò al campanello e quando andai a vedere chi fosse che mi disturbava nel mio unico giorno libero mi ritrovai il suo faccione crucciato davanti al naso che mi diceva che voleva tornare in America e aprire il suo ristorante e che mi si sarebbe portato dieto.» rise divertito al ricordo. «Mi disse proprio così “Torno in America Martin, voglio lavorare in un posto tutto mio. Mi servirà una buona squadra per iniziare, qualcuno che conosco e so come lavori, quindi mi ti porto dietro, se non hai nulla in contrario.”»
«La vostra era una bella amicizia.» constatò con gentilezza il detective.
L’altro annuì. «Siamo diventati davvero amici poi, sì. Tornati qui non aveva più contatti e sebbene le sue referenze fossero ottime Hugh non aveva intenzione di tornare a lavorare sotto qualcuno, voleva le redini in mano.
Fu difficile aprire il locale, non perché vi fossero problemi, ma perché per quanto fossimo preparati a tutto quanto avevamo sempre entrambi lavorato il posti già ben avviati e trovare fornitori, macchine, location e staff fu una bella rogna, ma alla fine ci riuscimmo e Hugh decise di chiamarlo “One” non per vanto o chissà quale stupida idea di superiorità. Il nome dovrebbe essere molto esplicativo.» disse guardando il tenente come se la risposta fosse ovvia.
E per Alec, dopo tutto quello che aveva sentito, lo era.
«Perché era l’unico che avrebbe mai avuto, solo uno.»
Stevenson annuì soddisfatto da quella risposta. «Quando dovevamo ancora mettere tutte le carte a posto è tornato qui a New York un vecchio amico di Hugh, Kevin J. Erano stati vicini di casa, si conoscevano dall’infanzia e anche se si erano allontanati fisicamente più di una volta non avevano mai perso i contatti. Kevin ha studiato economia e commercio, non poteva scegliere una materia più azzeccata visto quello che ci serviva, così ci ha aiutato con le ultime carte, controllando che tutti i conti fossero in regola e mettendo su carta una specie di programma guida per le entrate e le spese.»
«Presumo che il signor J sia diventato socio del ristorante come voi.» disse attento alla risposta, che in effetti non si aspettava.
Il cuoco scosse la testa. «No, Hugh non glielo propose e lui non lo chiese. Non lo ingaggiammo per fare il lavoro, semplicemente tornò qui e, mentre aspettava che gli venisse ufficializzato il contratto con l’azienda per cui lavorava al tempo, gironzolava da queste parti più per noia che per altro. Così, visto che non aveva nulla da fare, chiese come potesse dare una mano e finì in mezzo alle scartoffie.»
«Quindi chi sono i soci del ristorante?»
«Hugh era il proprietario, possedeva il 75% di tutta la baracca. Quando si sposò passò a Felicia il 20% rimanente.»
Alexander lo guardò con curiosità. «Mi perdoni, credevo che anche lei fosse un azionario.»
Martin scoppiò a ridere divertito e scosse la testa. «Beh, i ristoranti non funzionano come le aziende, non ci sono della azioni su cui investire nel modo “canonico” ed io non ho mai avuto la testa per queste cose. Ma sono stato coinvolto in quest’impresa prima ancora che diventasse concreta e sebbene abbia sempre detto a Hugh che non volevo nulla se non un posto di lavoro in un ambiente tranquillo, dove poter cucinare cose genuine e non quella roba intricata e impossibile che va tanto di moda nei ristoranti di lusso, alla fine, quando abbiamo firmato le carte e il mio contratto, ho scoperto che il 5% era mio. Hugh mi disse di vederla come una ricompensa, una piccola rendita per quando sarei andato in pensione.
Era una persona un po’ particolare, con quel suo carattere burbero e quel dannato broncio da moccioso, ce lo prendevo sempre in giro, però- era una brava persona. Testardo, fedele fino alla fine. Era uno che abbaiava tanto ma quando decideva di mordere era solo per ciò che valeva davvero.»
Quelle parole attirarono l’attenzione del detective, Alec si fece più dritto sulla poltrona e scrutò il cuoco dritto in viso. «Cosa intende?» chiese con voce ferma.
Stevenson sospirò. «Non era uno che veniva alle mani, non faceva cattiverie gratuite e se facevi un errore era capace di darti mille possibilità se credeva ne valesse la pena. Ma non passava su tutto. Quello che intendo dire era che se c’erano problemi legali Hugh non si faceva scrupoli a metterti davanti alla realtà dei fatti e affrontarla nel modo più chiaro e giusto possibile.»
«Era una persona giusta?» domandò senza riuscire a trovare il termine più corretto.
L’altro annuì. «Era fedele. Si ricordi questo, per favore, Hugh Cobe era un uomo giusto e fedele, che teneva alle cose e alle persone anche se non lo dava a vedere, che era pronto ad aiutarti malgrado lo facesse lamentandosi e insultandoti per la tua stupidità. Ma se tradivi la sua fiducia, se non gli davi la stessa fedeltà che lui dava a te…» lasciò la frase in sospeso ma Alexander aveva capito alla perfezione.

Quando finì di interrogare tutti i cuochi, gli aiuto cuochi ed i camerieri Alec aveva ben chiaro chi fosse la vittima e anche quale fosse il probabile motivo per cui era stato ucciso.
Mentre si dirigeva verso la sua macchina, tallonato da Simon che gli domandava perché non volesse interrogare i commensali lì sul posto e cosa doveva dir loro di fare, nella sua mente c’era solo una domanda:
Chi aveva tradito Hugh Cobe a tal punto da portarlo a prendere provvedimenti così seri da doverlo uccidere?

Una vocina nella sua testa, così simile a quella del personaggio di una vecchia serie tv che guardava da bambino, gli disse con certezza: "è sempre il maggiordomo!"
E se non c’era il maggiordomo, poteva essere solo la moglie.








 


Passato.

La bambina si sistemò meglio il maglioncino bianco e guardò con apprensione la sua amichetta.
Céline era ferma immobile a guardare il cancello della scuola e lei poteva capirla: era la prima volta che tornava a scuola da quando la sua mamma era morta e forse le faceva davvero brutto sapere che quando sarebbe tornata a casa lei non ci sarebbe più stata. Ma lei non l’avrebbe lasciata lì da sola, erano amiche, erano migliori amiche per sempre, e così come aveva implorato la sua di mamma di portarla al funerale della signora Montclaire ed aveva tenuto la mano di Céline per tutta la funzione, così avrebbe fatto in quel momento.
Si avvicinò alla sua amichetta e le prese la mano con delicatezza, attenta a non farlo con troppa foga perché Céline si spaventava sempre quando qualcuno faceva movimenti troppo veloci vicino a lei, aveva dovuto imparare anche ad abbracciarla piano perché se le correva incontro e la stringeva forte lei si rannicchiava su sé stessa e si copriva il viso con le braccia.
Non sapeva perché facesse così ma la cosa le faceva venir sempre una profonda tristezza, la stessa che poteva leggere negli occhi della sua mamma quando era lei a scorgere la bambina saltare sul posto o tremare. Di solito, a quel punto, dopo la tristezza gli occhi della mamma diventavano seri, faceva la stessa faccia che faceva ogni volta che la nonna la sgridava e le ripeteva che doveva starsene al suo posto. Era “l’espressione dura”, così la chiamava papà, ma la piccola non aveva ancora capito cosa intendesse con quella parola.
Non l’avrebbe capito ancora per un bel po’ d’anni.
Stringendo piano quella mano piccola come la sua la bambina sorrise all’altra.

«La maestra ha detto che se non ti senti bene, se sei triste o ti viene da piangere, non ti devi trattenere. Ha detto che devi andare da lei a dirglielo e allora ti accompagna fuori dalla classe e state un po’ lì finché non ti calmi. Ha detto anche che se vuoi posso uscire con te ci porta dalla Signora Miller e stiamo con lei un po’. La Signora Miller ci farebbe anche il tè, come fa a tutti i bambini che hanno il mal di pancia.» le sorrise incoraggiante e Céline le lanciò uno sguardo timido da sotto le ciglia bionde, annuendo piano.
«Vieni davvero con me?» domandò con la vocetta acuta ma bassa.
La bambina annuì convinta, sforzandosi di sorridere ancora di più. «Certo! Ovunque vai, per sempre. Siamo migliori amiche per la vita, no?»
Céline accennò un timido sorriso, poi uno un po’ più convinto. «Sì. Insieme per sempre.»











 
Presente.


Durante tutto il tragitto di ritorno sino all’arrivo in ufficio non si era fatto altro che parlare del caso.
La maggior parte delle domande poste dal detective trovarono velocemente risposta grazie agli interrogatori preliminari degli altri: esattamente come Alec, anche Magnus aveva avuto l’impressione che tutto il personale fosse nervoso per quel pranzo. L’unico vero cuoco in cucina era Cobe, era lui che anche per quest’occasione si sarebbe dovuto occupare di cucinare effettivamente i piatti, ma c’erano sempre stati Forscue e Stevenson a preparare gli ingredienti e le preparazioni antecedenti a quella complessiva. A quanto pareva il menù richiesto dalla signora Cobe includeva moltissimi alimenti che necessitavano di un trattamento specifico prima di poter esser aggiunti al piatto principale ed erano stati incaricati i due aiuto cuochi di occuparsi di queste, mentre di tutte le cose più semplici come il taglio delle verdure e simili si erano occupati due aiutanti, tali Smith e Kolivan. Loris Gomez e Samantha West erano invece gli addetti alla preparazione dei dolci, a cui avrebbe sovrinteso poi Stevenson, che a quanto pareva aveva una certa inclinazione per la pasticceria.
In sala la situazione era stata calma e senza nessun intoppo: dopo l’arrivo dei commensali era stato servito l’aperitivo, che Cobe non aveva bevuto perché rimasto in cucina. Si erano tutti accomodati a tavola e solo allora lo chef si era presentato. L’antipasto era andato alla perfezione, un qualcosa composto da qualche mouse e delle cruditè, a detta dei camerieri Cobe aveva parlato poco e niente se non per spiegare com’era stato fatto il patto e per informare tutti i presenti che era stato scelto da sua moglie, lui avrebbe preferito qualcosa di molto più semplice.
Quella battuta era stata interpretata come nulla di più che un gioco, ma il maître, aveva asserito con estrema sicurezza che non lo fosse, che quello era solo il modo spiccio e secco di parlare ed il fatto che i commensali l’avessero presa sul ridere era stata una fortuna.
Aveva quindi lasciato la maggior parte della conversazione a sua moglie, come faceva sempre del resto, e non appena tutti avevano terminato il loro piatto si era alzato immediatamente per preparare la zuppa.

«Non era il piatto principale.» disse Magnus con certezza. «Una zuppa raramente lo è, serviva solo per aprire ancora di più lo stomaco ai presenti. Di solito è una tecnica che si usa nei grandi ristoranti e per quanto l’One rientri tra i migliori in città non è proprio nel suo stile. Nessuno me lo ha detto esplicitamente, non so a te Alexander, ma credo che anche questa imposizione sia stata di sua moglie. A quanto pare non ha semplicemente scelto i piatti ma anche lo stile del pranzo.»
Alec aveva annuito senza staccare lo sguardo dalla strada, di fianco a lui Jonathan controllava silenzioso le deposizioni dei commensali.
«Ci sono due critici e qualche investitore, gli altri non sono stati troppo chiari sulla loro posizione, hanno solo detto di essere amici di Felicia Cobe e che li aveva invitati per questo pranzo di presentazione.» aggiunse a mezza bocca.
Il tenente, anche senza guardarlo in volto, intuì l’espressione crucciata del collega.
«Cosa non ti convince?»
«Parecchie cose, ad essere onesti.» iniziò alzando la testa per guardarlo. «Lui non voleva fare il pranzo, lo ha costretto la moglie, ma la maggior parte delle decisioni nel ristorante le prendeva sempre e comunque Cobe, cos’è cambiato questa volta? Perché lo ha convinto?»
«Possiede il 20% del locale, magari ha giocato su quello.» propose Simon sporgendosi verso i sedili anteriori.
Magnus scosse la testa. «È una possibilità ma non era minimamente nello stile di Cobe cedere in questo modo su qualcosa che non apprezzava. Penso che sia servito come minimo anche l’intervento di una terza persona e visto che tutto il personale era fedele al loro capo…»
«Il misterioso signor J?» propose Lewis.
Jonathan annuì. «È l’unica possibilità.» disse solo fissando il profilo serio di Alec.
Lui non si mosse di una virgola, ma il biondo capì perfettamente che il detective la spensasse come lui.
Sogghignò. «Quindi anche tu pensi male.» mormorò piano mentre alle loro spalle Magnus e Simon discutevano di possibili alimenti avvelenati e di quali avrebbero potuto camuffare, se non coprire, il sapore di un possibile veleno.
«Le luci? Alle fine abbiamo capito chi le aveva accese?» chiese Morgenstern poggiando la tesa contro il sedile.
«Non proprio. Uno dei camerieri giura di averle impostate ad una luminosità molto più bassa, gli ospiti cosa dicono?»
«Che non si sono accorti di nulla, troppo scossi per dire qualcosa di utile.» grugnì l’altro.
«Quindi l’ipotesi che la sostanza che lo ha ucciso fosse presente sul tavolo e potesse evaporare o sciogliersi è ancora valida?» domandò Magnus tornado a prestar attenzione ai due.
Alec annuì. «Nulla è da scartare finché non si prova il contrario.»



Seduto sul divano di casa sua Alec fissò i documenti sparsi sul tavolino basso e sul cuscino al suo fianco. Non avrebbe dovuto portarsi il lavoro a casa, lo sapeva fin troppo bene. Dai suoi genitori ai suoi fratelli, dagli amici ai superiori, fino ad arrivare al suo psichiatra, tutti gli ripetevano in continuazione che doveva staccare la spina, che gli serviva un momento della giornata in cui non fosse circondato da morte, dubbi e assassini.
Passandosi la mano sul volto stanco rimise in ordine i pensieri.
Cobe era morto per emorragia interna, il coroner gli aveva confermato quella sera stessa che ad uccidere l’uomo era stata una massiccia dose di anticoagulante. Banale pur nella sua estrema efficacia. Come l’avesse assunto sarebbe toccato a lui scoprirlo.
L’indomani sarebbero arrivate le cartelle mediche, i dati finanziari e avrebbero dato il via agli interrogatori, non voleva neanche immaginari quanto avrebbero rotto le scatole tutti gli invitati per riavere indietro le loro scarpe. Avere una sorella come Izzy – e due rompipalle modaioli come Jonathan e Magnus – l’aveva temprato quel tanto che bastava per saper riconoscere alcune delle marche più costose del mercato: di certo un suo stipendio non gli avrebbe mai permesso di comprare le scarpe di nessuna delle persone presenti.
Le analisi del sangue dei dipendenti non mostravano nessuno segno d’avvelenamento e probabilmente i laboratori dell’ospedale gli avrebbero spedito le analisi dei commensali in mattinata.
Sospirò ancora stropicciandosi per l’ennesima volta il viso. Doveva ancora chiamare Seth, sentire Jace che quel giorno doveva andare a parlare con il proprietario dell’appartamento che lui e Clary volevano comprare e magari fare anche uno squillo ai suoi per sapere come stavano. E per farsi dire quanto già sospettassero di tizio o di caio e quanto si sbagliassero i media.
Aveva già detto di odiare i casi ad alto profilo?
Lasciandosi cadere contro lo schienale del vecchio divano il detective chiuse gli occhi e respirò a fondo.
Quel caso non gli piaceva per molti aspetti e non solo perché riguardava un personaggio mediamente famoso. Hugh Cobe era uno chef rinomato ma non si era mai esposto troppo al pubblico, quindi, per fortuna, molti dei problemi che si avevano di solito con le “star” con lui si potevano evitare, ma questo non significava che dovesse abbassare la guardia. Il problema principale però stava in tutt’altro: per la prima volta da tantissimo tempo stare su una scena del crimine gli aveva lasciato addosso un senso d’inquietudine che non riusciva a giustificare. Non era paura, non era ansia, o la pressione di una corsa contro il tempo, quello che lo infastidiva, che gli faceva rizzare i peli sulla nuca, era la mancanza di qualcosa, o forse la presenza di troppe cose. Non riusciva a dirlo.
Tutto era perfetto, tutto era immacolato. In quell’ambiente, nel luogo sacro di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita alla cucina, non vi era un singolo elemento che comunicasse calore. Era tutto così freddo, bianco, luminoso. Non c’erano piante vive, solo fiori grandi ed appariscenti che ingombravano i mobili. Ed era vero, per come glielo avevano raccontato, Cobe era quel genere di uomo che non amava i fronzoli e le decorazioni obsolete, eppure i piatti cerchiati d’oro, i lampadari a specchio, i cristalli e persino la ghiera di luci sulla tavola centrale erano di per sé troppo decorative. I fiori poi… si sarebbe immaginato qualche pianta aromatica, qualche piccolo cespuglio…
Grugnì e aprì gli occhi fissandoli al soffitto. Si stava attaccando a delle cretinate ed aveva la vaga sensazione che fosse tutta colpa di quei due deficienti che discutevano di design, e pensare che si odiavano pure, non voleva immaginare i danni che avrebbero fatto se fossero stati amici.
Represse un brivido di terrore e tornò a chiudere gli occhi, immaginando la scena come l’aveva vista quella mattina.
L’ambiente luminoso non necessitava di luci aggiuntive. Le luci sul tavolo erano state impostate ad una luminosità più bassa ma poi erano state alzate. I paramedici giuravano che quando erano arrivati sul posto erano già così forti, ma finché non fossero arrivate le analisi dal laboratorio non avrebbe potuto dire se quel particolare fosse obsoleto o se fosse stato fine a qualcosa. Probabilmente il suo cervello ci sarebbe rimasto incastrano finché non avesse trovato la soluzione più logica.
Ricordò anche la sua sorpresa nel trovare quei faretti punteggiati di rosso: quanto doveva esser stata forte l’esplosione emorragica per arrivare a quell’altezza? Se fosse stata recisa un vena l’avrebbe capito, ma così non aveva senso.
Ad essere onesti, nulla pareva averlo.
Si rimise seduto per bene e prese le foto della scena del crimine e degli indizi, tra i quali c’erano anche le foto dei commensali e del personale di sala che si era sporcato di sangue.
Fu un dettaglio da poco che attirò di colpo la sua attenzione: in una foto era ritratta una donna castana, di cui non vedeva completamente il volto, che indossava una collana argentata abbinata a degli orecchini azzurri, probabilmente zaffiri visto il livello degli ospiti. Indossava un vestito color crema che le fasciava con gentilezza il fisico morbido, la parte bassa completamente zuppa di sangue, probabilmente assorbito dal tessuto quando si era inginocchiata vicino alla vittima.
L’altra foto ritraeva invece un uomo sulla cinquantina, di bell’aspetto, dal fisico asciutto ed il volto mascolino per quanto tirato in quel momento. Anche il suo completo era macchiato di sangue, lo erano le ginocchia e gli stinchi, i polsini della camicia e quelli della giacca.
Ciò che legava quelle due persone però non erano le tracce rosse di cui erano imbrattati, non erano i volti tirati, né il fatto che avessero presenziato entrambi al pranzo con delitto e che avessero cercato di prestar soccorso alla vittima. Ciò che li legava era il color crema dei loro vestiti, i gioielli azzurri di lei intonati alla cravatta di seta lucida di lui. Perfettamente abbinati.
Ciò che li legava li avrebbe fatti schizzare in cima alla classifica dei sospettati se già non ci fossero stati.
Alexander lasciò cadere le foto sulle altre, prese il cellulare e cliccò il primo numero che gli capitò in coda tra quelli che si era ripromesso di chiamare.
Mentre il suono della linea gli squillava nell’orecchio, Alec si domandò perché Felicia Cobe e Kevin J si fossero presentati a quel pranzo con vestiti abbinati.
La vocina nella sua testa riprese a cantilenare:


“È sempre il maggiordomo!”
“E se il maggiordomo non c’è?”
“Allora è il coniuge!”










La stanza degli interrogatori era sempre la stessa. Alec ci aveva passato tanto di quel tempo, presiedendola da fuori, osservandola da dietro un vetro, accostato alla parete e poi sempre più vicino al tavolo sino a sedersi dando le spalle allo specchio, che avrebbe quasi potuto dire che fosse l’ambiente più famigliare dell’intero Dipartimento per lui.
In quella stanzetta di appena quattro metri quadri per tre, con una sola finestra posta all’angolo superiore destro ed una telecamera puntata al centro dall’angolo opposto, si erano seduti centinaia di migliaia di personaggi. E la sua stima non era per nulla gonfiata.
Era lì che Alec aveva scortato per la prima volta un indagato, quando la divisa da matricola ancora gli sembrava rigida indosso, ed era sempre lì che aveva interrogato da solo il suo primo sospetto.
Aveva imparato nel corso degli anni che la sala interrogatori poteva divenir più o meno intimidatoria dal modo in cui un sospettato vi veniva portato, dal modo di porsi dell’agente o del detective che avrebbe dovuto porgergli delle domande e dal tono stesso di quelle domande.
Lì dentro aveva conversato con i famigliari delle vittime, con le vittime stesse che erano state così fortunate da salvarsi e che dovevano lasciare la loro deposizione in modo formale, registrate e documentate come legge voleva.
Una delle cose più importanti poi era come veniva trattato l’indagato stesso, di questo, Alec ne aveva fatto un verso pallino. Per quanto una persona possa aver la coscienza sporca se quando si sarebbe seduta su quella sedia il detective incaricato l’avesse trattata con gentilezza e tranquillità, senza dar l’impressione di sospettar in alcun modo di lei, allora era più che probabile che si sarebbe fatta scappare anche dettagli che in altre situazione avrebbe preferito non menzionare.
Era un po’ una regola d’oro quella e così, quando si erano ritrovati davanti alla famigerata porta, Alec aveva gentilmente chiesto ai suoi colleghi di assistere dall’altra stanza.
Jonathan aveva alzato un sopracciglio pallido e l’aveva squadrato dalla testa ai piedi.

«Vuoi entrare da solo? Ho già parlato con tutti loro, mi conoscono, saranno di certo più rilassati con un volto amico.» gli fece giustamente notare.
Alec annuì semplicemente, senza replicare, allungando una mano verso Simon per farsi consegnare le cartelle. Il suo cellulare vibrò attirando per un attimo la sua attenzione. Controllò velocemente il messaggio arrivato e si rinfilò il telefono in tasca mantenendo quell’espressione neutra che aveva da quando era arrivato in ufficio quella mattina.
Magnus lanciò uno sguardo a Jonathan e si sporse leggermente in avanti, le mani sui fianchi a sollevare la giacca e metter in mostra la sua bella camicia di sartoria.
«Quindi Morgenstern entra con te?» chiese.
«No. Entrerò da solo, voi assisterete dalla sala registrazione. Simon, se Jonathan non l’ha già fatto, fatti consegnare tutti i nominativi e controlla la loro situazione finanziaria, i loro lavori, l’immagine pubblica. Cerca qualunque riferimento alla vittima, al suo ristorante o a famiglia ed amici.»
Si voltò ed entrò nella stanza senza voltarsi.
Simon fissò la porta battendo le palpebre senza capire.

«Scusate… è successo qualcosa e me lo sono perso?» domandò quindi perplesso.
Morgenstern fissò la porta chiusa senza batter ciglio. «Che cazzo ne so io?»
«Potrebbe aver capito qualcosa che a noi è sfuggito? Di già?» disse Magnus con tono lagnoso.
Jonathan scosse la testa. «Non sarebbe così difficile, ricorda che lui ha interrogato il personale-»
«L’ho fatto anche io se è per questo, ma a parte gente scioccata e traumatizzata dal proprio capo che vomitava sangue e dal primo cadavere della loro vita, qualche piccola insoddisfazione per il carattere burbero del cuoco e qualche piccolezza-» venne brutalmente interrotto dal biondo, esattamente come aveva appena fatto con lui.
«E di nuovo Bane, è abbastanza normale, quella che hai fatto tu è un primo interrogatorio a caldo, ma è ovvio che lo shock non ti faccia collegare bene le cose. Probabilmente gli interrogatori singoli che ha sostenuto Lightwood ieri sono stati molto più efficaci perché era la seconda volta che ripetevano la storia e soprattutto, erano soli.» sbuffò con una smorfia ovvia. «Quello che non capisco è perché non vuole che stia lì dentro con lui, ci ha già riferito quello che gli avevano detto.»
«Forse non ti reputa all’altezza?» insinuò maligno il consulente.
Stranamente però Jonathan non raccolse la frecciata, anzi, scosse ancora la testa ma con fare serio.
«No, mi ha lasciato fare ben di peggio, per questo mi pare strano.»
Fu il turno di Simon di guardare storto il collega e chiedergli con cautela. «Cosa intendi con “ben di peggio”?»
Per un attimo Jonathan si immobilizzò, o forse fu per minuti interi, in quel momento il poliziotto poté sentire i secondi scorrere lentamente come la sabbia di una clessidra ostruita.
Giusto, doveva ancora raccontare anche a loro tutta la storia del biglietto e della rosa, magnifico. Alexander era entrato in casa sua, l’aveva in qualche modo convinto a riaprire le porte di quella vita in cui si era chiuso da solo, ma questo non significava che tutti i suoi problemi, i suoi errori, i passi falsi ed i fantasmi che abitavano con lui fossero spariti. Solo perché lui gli aveva dato fiducia e aveva guardato oltre tutto lo schifo di cui si era circondato non era detto che anche gli altri l’avessero fatto. O l’avrebbero fatto.
Si schiarì la voce e si volse anche lui, dirigendosi però verso la porta della sala adiacente.
«Ve lo racconto dopo con calma.» poi si fermò, indeciso sulle parole da usare. Sospirò. «Vedete di non scappare subito, ci metto due minuti tanto.»
«È grave?» domandò serio Simon, sporgendosi inconsciamente verso di lui.
Jonathan non seppe né dissentire né annuire. «È complicato.» decise di dire in fine.
Magnus lo guardò in cerca di qualche indizio, la cosa gli puzzava di bruciato e lui era davvero bravo a fiutare guai, specie se erano grandi e pesanti come nuvoloni pieni di pioggia, e lo sguardo cupo di Morgenstern prometteva temporali per tutto il fine settimana.
«Va bene, dopo meeting in saletta e confessioni a cuore aperto mentre ci mettiamo lo smalto e mangiamo i cetrioli che dovremmo tenere sulle occhiaie. Ora però andiamo a vedere cosa ha partorito la mente stakanovista del nostro tenente in una notte sola invece di dormire.»




Seduta davanti a lui, in modo composto ma palesemente stanco, stava Felicia Cobe.
Come ci si poteva aspettare dalla moglie di uno chef così famoso e quotato, Felicia appariva come la perfetta donna dell’alta borghesia, con un completo impeccabile, eleganti gioielli, il fisico morbido, la pelle di un bel rosa che nell’insieme aiutava a rendere la sua figura sana. Alec non aveva altro modo di definirla: non era una super sportiva, non era una magra e slanciata modella, ma ci scommetteva quello che aveva che la donna seguisse una sana dieta alimentare, che stesse bene a livello fisico quanto a quello mentale. Teneva un portamento eretto, le mani curate poste con grazia sul tavolino, un anello con una grande pietra ad adornarle la mano sinistra.
Osservò i suoi capelli lucidi e di certo acconciati da qualche parrucchiere più che competente, magari quello che si trovava all’isolato vicino al ristorante, se aveva sentito bene Magnus – ed era un po’ impossibile non sentirlo con quel tono di voce – doveva esser molto quotato dalla gente più “in”.
Il suo trucco era perfetto, gli occhi chiari risaltavano nella corona di ciglia nere e lunghe.
Non portava il rossetto, questo Alec lo notò e lo classificò immediatamente, perché di solito sua sorella lo metteva sempre, anche quando andava a qualche cena importante ed ora lui si domandava se le fosse sfuggito o se non lo mettesse mai. Era così importante? Probabilmente sì, la signora Cobe doveva esser sempre perfetta, o almeno questa era l’idea che si era fatto di lei tramite le parole degli altri, una donna sempre efficiente, impeccabile per gli standard dei clienti che si susseguivano nel loro locale.

In quello di suo marito, che ora le appartiene.

Era inevitabile pensare una cosa del genere, la donna in quel preciso momento possedeva tutti gli averi di suo marito, a meno che non ci fosse un testamento che dicesse il contrario ed Alec ne dubitava al momento. Non aveva elementi a sufficienza per dire se la vittima fosse o meno una persona così previdente da lasciar scritte le proprie volontà già alla sua età. Con tutta probabilità le successione legale avrebbe consacrato Felicia Cobe come la nuova signora dell’One.

«Buon giorno Signora Cobe, sono il Tenente Lightwood, mi occuperò del caso di suo marito.» disse con voce pacata e monocorde, priva di qualunque sentimento.
Si accomodò sulla sedia davanti a quella della donna e con tranquillità sistemò le cartelle sul tavolo, senza aprirle.
Felicia Cobe lo guardò per un attimo interdetta, forse, come molti altri prima di lei, sorpresa nel trovarsi davanti un uomo giovane a cui associare una carica che in molti non raggiungevano in un’intera carriera. In ogni caso non durò a lungo, Alec ragionò che devesse essere abbastanza abituata a trattare con ragazzetti che, grazie ai propri soldi o al nome della sua famiglia, reggevano nelle proprie mani le redini di grandi imperi, certo qualcosa di più importante del semplice titolo di tenente.
La vide annuire leggermente e sorridere in modo tirato.
«Non so cosa potrei dirle più di ciò che ho già detto al suo collega. Sono piuttosto impegnata e se me lo concede vorrei solo tornarmene a casa.» rispose comunque con decisione.
Alexander non si fece minimamente toccare da quel tono. La signora doveva saper come farsi rispettare, come imporsi, il semplice fatto che avesse sposato un uomo difficile come Cobe ne era la prova, ma lui era abituato a ben di peggio ed il semplice fatto che la donna fosse in una posizione “di rilievo” non l’avrebbe esentata dall’esser interrogata. Anche se le era appena morto il marito.
Poteva sembrare una cosa crudele, cinica e assolutamente di cattivo gusto, eppure Alec sapeva quanto le prime ore fossero importanti in un caso, sapeva quante mogli e quanti mariti si disperavano, piangevano, svenivano anche per la morte del proprio coniuge quando poi erano stati loro stessi ad ucciderlo. E purtroppo per la signora Cobe, di tutti i racconti che aveva sentito ce ne erano stati davvero pochi che non le avessero mosso almeno una critica.
Per educazione annuì comunque.
«Posso capirla.» disse secco e la vide rilassare le spalle. «Sarò il più conciso possibile.» continuò dopo una breve pausa. La donna si irrigidì.
«Non le pare eccessivo? Mio marito è appena morto e voi mi trascinate qui per interrogarmi di nuovo, come se potessi dirvi qualcosa di diverso!» sibilò con acredine.
Ancora una volta, Alec non si fece sfiorare dal tono della sua testimone.
«Esattamente signora. Ha già riportato la sua deposizione a caldo, ora, avendo già superato la notte, le sarà più semplice e naturale ricordare altri dettagli.» aprì la prima cartella davanti a sé e la scrutò fugacemente. «Mi parli del pranzo.» continuò con la sua voce più neutra.




«Che diamine sta facendo?» domandò Magnus sporgendosi in avanti.
«Quindi non è solo un’impressione mia, è davvero più freddo del solito.» mormorò Simon lì di fianco.
A braccia incrociate, con il fianco poggiato sul bordo del tavolo, Jonathan fissava la schiena dritta e le spalle ampie di Alec. Non sembrava in nessun modo innervosito o anche solo dispiaciuto per ciò che stava vivendo quella donna, per un folle momento gli parve di esser tornato indietro nel tempo, rivide la recluta Lightwood, ferma ed immobile davanti a qualunque foto, qualunque cadavere, qualunque crimine. Implacabile e imparziale. Bane aveva ragione: che diamine stava facendo? Voleva fare il poliziotto forte e freddo, voleva dimostrarsi degno del suo ruolo davanti a qualcuno d’importante? No, non era da lui. La soluzione allora era una sola.
«Deve aver scoperto qualcosa che non ci ha ancora detto. Credo che la stia mettendo alla prova.» sentenziò.
«E cosa avrebbe scoperto?»




«Suo marito non era entusiasta di questo pranzo?» chiese senza guardarla in faccia, segnando velocemente una correzione sulla bozza delle testimonianze.
Felicia Cobe si lasciò sfuggire un verso sprezzante. «Certo che no! Era d’accordo, aveva persino deciso di preparare lui stesso ogni portata.» replicò quasi fosse un affronto.
Alexander annuì. «Mi è stato detto il contrario. È possibile che suo marito ne fosse infastidito e che le abbia nascosto la cosa per non darle dispiacere?»
«Assolutamente no! Le ho detto che era d’accordo con me.» insistette lei.
Alec annuì ancora. «Capisco. I commensali sono tutti vostri conoscenti?»
«Sì.» disse lei poggiando i gomiti sul tavolo e massaggiandosi le tempie.
«Quali sono i suoi e quali quelli invitati da suo marito?»
A quella domanda però la donna si bloccò. Lo guardò per un tempo indefinito, assottigliò gli occhi e gli domandò quasi con rabbia. «Cosa vuole da me?»
Gli occhi azzurri di Alexander con quella luce artificiale sembravano altrettanto finti, delle lenti di vetro inscalfibili e fredde. Fissò la signora Cobe senza il minimo risentimento, senza batter ciglia, senza nessun’espressione.
«La verità. Suo marito è stato ucciso e lei nega anche una cosa insignificante come un disaccordo su di un evento organizzato nel suo locale.» non disse altro, non aggiunse che se gli mentiva su una cosa così banale avrebbe di sicuro potuto mentirgli su altri fronti, ma così come l’avvertirono i ragazzi dietro lo specchio l’avvertì anche la donna.
Un brivido le passò sulle braccia e la maschera di compostezza s’abbassò per mostrare la rabbia crescente che andava accumulandosi in lei.
«Sì! È vero! Contento? Hugh non voleva fare questo dannato pranzo! Lui ha sempre odiato stare in mezzo alla gente, preferiva starsene chiuso in cucina a far i suoi piatti, non ad interagire con i suoi commensali, con la gente che permetteva al ristorante di andare avanti.» strepitò esasperata. «Gli ho detto decine, centinaia di volte, di aprire un nuovo ristorante, che potevamo aprirne uno in ogni città dello Stato e vivere di rendita per il resto dei nostri giorni, e lui cosa mi rispondeva? Che non gli andava, che aveva il suo ristorante e che non aveva senso averne dodici se poi potevi cucinare solo in uno! Mi riceva “Sarebbe come avere dieci cucine in casa, cosa ci fai?”. Non aveva un minimo d’ambizione! Poteva aver il mondo ai suoi piedi, cenare con i personaggi più di spicco della società, vestire i completi più eleganti e invece preferiva starsene stretto in quella sua divisa, chiuso in cucina ad urlare contro i suoi cuochi!»
Alexander la lasciò gridare senza interromperla. Sapeva fin troppo bene che uno degli stadi di una perdita affettiva era la rabbia e benché suonasse cattivo da parte sua, in quel momento gli faceva molto più comodo una vedova furiosa che una in lacrime. La rabbia scioglieva la lingua più del vino.
«Avete discusso molto durante la settimana?»
Lei sbuffò. «Oh no, Hugh non è tipo da fare scenate lui- borbottava, sbuffava, se gli chiedevo se aveva deciso di preparare il menù che gli avevo richiesto diceva che lo sapeva lui e a me non doveva interessare.»
«Sembrava diverso dal solito questa mattina?»
La donna scosse la testa. «Era da un po’ di tempo che si comportava diversamente ma- non era per il pranzo, lo faceva da un po’ di mesi, era- era solo più nervoso del solito. Rispondeva a monosillabi, non che fosse una novità, ma persino con Kevin non parlava più come prima. Sembrava che le uniche persone con cui avesse piacere di parlare fossero i ragazzi della cucina e della sala.» ammise a mezza bocca.
Alexander segnò anche quello sul foglio davanti a lui.
«Mi racconti come sono andati gli eventi.»
«Non sono cambiati rispetto a quello che ho raccontato al suo collega.» lo rimbeccò lei acida.
«Al mio collega ha anche detto che suo marito attendeva con ansia questo pranzo e che era molto felice di poter cucinare per i suoi commensali.» le fece notare pacatamente.




«Dite che si alza e lo picchia?»
«Sai perfettamente che neanche Jade può picchiare Alec, figurarsi se ci riuscirebbe lei.» disse Magnus alzando un sopracciglio scettico. Si volse poi verso Jonathan. «Tu l’avevi capito subito che il marito era contro il pranzo?»
Il biondo annuì. «Non ne avevo la certezza, ovviamente, ma come vi ho detto sono stato diverse volte al suo ristorante e l’immagine di un Hugh Cobe che non vede l’ora di preparare cibo per una ristretta cerchia di signorotti che lo sommergeranno di domande e soprattutto con cui mangerà lui stesso mi pareva piuttosto insolita. Non ne avevo le prove all’inizio, ma come ci ha detto Lightwood il personae lo credeva e aveva ragione da vendere.»
«Quindi si torna al delitto più vecchio del mondo.» sospirò Simon.
«Potere?» domandò Magnus.
«Vendetta?» provò Jonathan.
«Amore!» rincarò la dose il primo.
«Soldi.» replicò il secondo.
Simon li guardò male e poi si voltò di nuovo verso il vetro.
«Vi odio, rivoglio Alec.»




«Gli ospiti sono arrivati in orario, Hugh non si è neanche degnato di uscire dalla cucina per salutarli, ha mandato Hamilton, il maître, a dire che non poteva abbandonare i fornelli perché era in un momento delicato di una preparazione. Ovviamente gli altri gli hanno creduto, solo io e Kev abbiamo capito cosa c’era sotto, ma l’importante è che se la siano bevuta loro.
Abbiamo servito l’aperitivo e io ho parlato un po’ della gestione del locale, dei clienti più facoltosi, tutte cose che la gente ama sentir raccontare.
Hugh è arrivato in sala solo per dirci di sederci, aveva ancora la divisa e Johanna, una delle invitate, la signora Jefferson, ha avuto la brillante idea di fargli i complimenti per quanto fosse immacolata e tutti gli altri l’hanno pregato di non andare a cambiarsi, che quella era la vera divisa di un grande chef e che era emozionante. Tutte assurdità, ma Hugh ha preso la palla al balzo ed è rimasto con quella addosso. È stato servito l’antipasto, ed è andato tutto bene. Poi lui si è alzato ed è andato in cucina con la scusa della zuppa. È tornato assieme ai camerieri, si è seduto, ha spiegato com’era fatto il piatto e poi abbiamo mangiato. Esattamente come ho detto al suo collega.» ripeté per l’ennesima volta.
E per l’ennesima volta Alec la guardò impassibile. «Al mio collega non ha detto che suo marito ha salutato gli ospiti solo dopo l’aperitivo.»
La donna fumò di rabbia. «Si comporta così con tutte le vittime?» ringhiò.
Sul volto del detective nulla si mosse, neanche le labbra s’allargarono più del dovuto.
«Perché si reputa una vittima, signora Cobe?» domandò piatto.
«Non so se si è reso conto che mio marito è appena morto!»
«Certo che sì. Infatti, la vittima ora è dal coroner. Lei è una testimone, signora, non la vittima. E per rispondere alla sua domanda: no, non potrei farlo, le mie vittime non rispondono alle mie domande, sono morte.»
Quell’ultima frase ebbe il potere di gelare la donna. Alec la osservò tirarsi indietro sulla sedia e poggiare le spalle allo schienale. Abbassò il capo e scosse la testa.
«Mi sto comportando come se mi stesse accusando di qualcosa, vero?» chiese poi con un filo di voce.
Il detective scosse la testa. «No signora, si sta comportando come qualcuno che vuole nascondere qualcosa.»
Gli occhi scuri di Felicia Cobe si posarono tentennanti su di lui. «Cosa glielo fa pensare.»
Un leggero fremito di labbra fu la cosa più simile ad un sorriso che il giovane avesse mai fatto fino a quel momento.
«La prego di non prenderla come un’offesa, ma nella mia carriera ho incontrato vedove distrutte dal dolore, altre addolorate ma resistenti, stoiche. Altre ancora disinteressate, felici.»
«E io in che categoria rientro?»
«Tra quelle dispiaciute.» disse semplicemente. «Da quanto tempo ha una storia con un altro uomo?»




«Wo-wo-wo. Fermi tutti. Questa dov’è uscita fuori?» Magnus si tirò dritto con la schiena e poi grugnì infastidito. «Perché non ci dice le cose?»
«Non lo so, pettegolezzi?»
«Li ho interrogati anche io i cuochi, nessuno mi ha detto che pensava che la moglie del capo lo tradisse!»




La signora Cobe batté le palpebre. «Come…?»
«Non porta la fede. Indossa l’anello di fidanzamento perché sfarzoso, un pezzo molto elegante credo, ma non la fede, una semplice fascetta d’oro senza nessun valore estetico.» spiegò con calma.
La donna strinse la mano al petto e abbassò lo sguardo verso di essa.
«Non me ne ero neanche accorta.» mormorò.
«Perché non la reputa più una cosa essenziale.» disse con semplicità Alec. «Posso presumere che il suo amante sia il signor Kevin J?»
Ancora una volta l’altra lo guardò sorpresa. «Chi glielo ha detto? Chi le ha detto tutte queste cose? Lo ha saputo da qualcuno dello staff?» incalzò improvvisamente rianimata.
Alec scosse la testa. «L’aiuto cuoco, Fortcue, mi è sembrato estremamente fedele a suo marito ma poco a lei. Quando si ha una così alta idea del proprio superiore, del proprio mentore, si tende ad aver rispetto e attenzione anche di chi è importante per lui. Probabilmente il signor Fortcue ha intuito un cambio d’atteggiamento nei suoi confronti, o nei modi di fare di suo marito, è stato puro istinto, non penso che sappia. Il signor J invece mi è stato nominato spesso in associazione a lei e difficilmente a suo marito, eppure erano loro ad esser amici. Non porta la fede e ieri lei ed il signor J eravate vestiti abbinati.»
Per la seconda volta nel corso dell’interrogatorio, Felicia Cobe, sconcertata da quell’elenco di piccolezze che ora sembravano così enormi, gli pose la stessa domanda.
«Cosa vuole da me?»
Ed Alec gli diede la stessa risposta.
«La verità, signora.»
La donna chiuse per un attimo gli occhi e poi li riaprì sospirando.
«Volevo molto bene a mio marito, l’ho amato per moltissimo tempo.» Iniziò guardandolo negli occhi, cercando di fargli capire che stesse dicendo il vero.
Alec annuì ma non disse nulla.
«Ma Hugh era un uomo difficile, molto riservato, sempre silenzioso, immerso nel lavoro. Borbottava più che parlare, aveva sempre qualcosa che non gli andava bene e ho sempre avuto l’impressione che tenesse più al suo ristorante che a me.»
«Non mi deve nessuna giustificazione, signora.» le fece notare Alexander con pacatezza.
Lei strinse le mani l’una all’altra. «Io- Kevin era un grande amico di Hugh, erano stati vicini di casa da piccoli e…lui c’era sempre…»
«Quando è cominciata la vostra relazione?» domandò allora.
Felicia Cobe lo fissò con sguardo quasi implorante, ma Alexander non abbassò il suo, non le diede la minima via di fuga.
Sconfitta, la donna s’arrese. «Abbiamo avuto diversi flirt nel corso degli anni, nulla di serio sino a- ad un paio d’anni fa. Io e Hugh avevamo discusso, o meglio, io litigavo e lui stava zitto, come sempre.»
«Di cosa avete discusso?»
Un verso sarcastico sfuggì dalle labbra della Cobe. «Del ristorante, ovviamente. Erano già anni che cercavo di convincerlo ad aprirne un altro, ma lui era testardo come un mulo e non voleva saperne. Non si rendeva conto dei profitti che avremmo potuto ricavarne, la sua fama gli avrebbe permesso di aprir locali in tutti gli States ma lui non voleva e- così gli disse che ne avrei aperto uno tutto mio e sa lui cosa mi disse? “Se credi di esserne capace Felicia, fai pure”. Tutto qui! Solo questo!»
«Era presente anche il signor J? O lo ha chiamato lei?»
«Perché dà per certo che non sia stato Hugh a chiamarlo?» gli domandò alzando un sopracciglio.
«Perché da ciò che mi è stato dato ad intendere suo marito non era un uomo che chiedeva aiuto.»
Un ennesimo sospiro sconfortato sfuggì dalle labbra tirate di lei. «Fu Kev ha chiamare Hugh, per puro caso. Lui gli disse che avevamo discusso, non so cosa gli raccontò di preciso, quando Kevin mi raggiunse io gli riraccontai ogni cosa e- e lui mi consolò, fu dolce e gentile come Kevin era sempre stato, com’è sempre stato. Da lì, ho capito che provavo qualcosa per lui ma inizialmente cercammo di restare più lontano possibile l’uno dall’altra ma non servì a nulla. Ci siamo innamorati.»
«Crede che suo marito sospettasse qualcosa?»
Felicia Cobe lo guardò per un istante prima di scoppiare a ridere con un fare quasi isterico.
«Hugh non si accorgeva mai di nulla che non fosse inerente alla cucina. Ho cambiato decine di volte il design della sala e non se n’è mai reso conto, non ha mai detto né che gli andava bene né che lo odiava, sembrava che non esistesse neanche la sala per lui, il suo lavoro finiva non appena il piatto superava le porte. No, assolutamente, Hugh non sospettava nulla.»




«Così la mogliettina affranta metteva le corna alla vittima con il suo migliore amico. Diamine Sonny, ti ci sei davvero avvicinato quando hai detto che era il delitto più antico del mondo!»
«E non c’entra neanche la prostituzione.» annuì Jonathan sogghignando.
Simon però neanche li ascoltò, continuò a fissare la schiena di Alec cercando di capire cos’altro sapesse che non aveva ancora detto a nessuno di loro. Perché ormai ne aveva la certezza, Alexander sapeva qualcosa che non aveva ancora chiesto alla donna e che probabilmente credeva lei gli stesse nascondendo volontariamente.
«State attenti, credo che ci manchi ancora un pezzo.» disse infatti agli altri due che lo guardarono incuriositi.
«Non ti convince la storia del loro grande amore? In effetti non capisco perché se non vedeva nulla di positivo in lui lo abbi sposato.» concordò Magnus pensieroso.
«Soldi? Potere? Fama?» elencò spiccio Morgenstern come se fosse ovvio.
Magnus annuì. «Sì, c’avevo pensato anche io, ma questo significherebbe che Kevin J non è stato il primo dei suoi amanti, si aggiungono un numero indefinito di potenziali colpevoli, se qualche vecchia fiamma vedeva Cobe come d’intralcio nella sua relazione con la moglie e in ogni caso perché non ha chiesto il divorzio? Possiede il 20% del locale, anche solo rivendendo la sua parte a terzi avrebbe fatto una fortuna.»
«Forse hanno un accordo prematrimoniale.» suggerì Jonathan attento.
Simon scosse la testa. «Stiamo ancora aspettando i documenti dai legali della vittima, ma quando i due si sposarono l’One non era ancora un ristorante di fama, avrebbe anche potuto fallire dall’oggi al domani per un qualunque motivo, non avrebbe avuto senso fare un accordo prematrimoniale sul… beh, sul nulla.»
«Di nuovo, Sonny ha ragione.»
«Non si può mai sapere cosa passi per la mente della gente, per ora possiamo solo fare supposizioni.»




«Ha detto che nell’ultimo periodo però si comportava diversamente.» riprese Alexander cercando le deposizioni dello staff: tutte quante erano concordi nel dire che lo chef fosse piuttosto nervoso per quel pranzo, ma solo alcune specificavano che il cambiamento sembrava essersi avviato già da prima.
Felicia Cobe annuì. «Quasi dall’anno scorso. L’anno prima ancora ebbe una violenta polmonite che lo costrinse a letto per mesi, al tempo lasciò la cucina in mano a Martin Stevenson, un suo vecchio amico dell’accademia che ha rincontrato a Londra e con cui ha aperto il locale in pratica.»
«So che possiede il 5% del locale.»
La donna sbuffò, palesemente infastidita. «Quando a suo tempo gli chiesi perché non potevamo dividere la proprietà dell’One a metà mi disse che una piccola parte era già nelle mani di un suo amico. Inizialmente credetti si riferisse a Kev ma poi scoprì che era quello sfaticato di Martin.»
«Non sembra piacerle molto.» notò monocorde.
«Oh, non è lui che non piace a me, sono io che non piaccio a lui. Ho la sensazione che non abbia mai apprezzato il mio interesse per il locale così come quello per Hugh. Quando il nostro rapporto cominciò a diventare più serio venne a dirmi di pensar bene a quello che volevo nella vita, che Hugh non era un uomo facile, che la vita non era sempre rose e fiori e che dovevo esser certa della storia in cui stavo andando a cacciarmi.»
Questa Alec si concesse d’alzare un sopracciglio. «Le disse che faceva male a sposare Cobe?»
«No, no non mi ha mai detto una cosa del genere. Mi fece una stupida metafora sul cibo, dicendo che anche il ristorante in cui hai desiderato andare per tutta la vita prima o poi potrebbe portarti un piatto salato o potrebbe non ripagare le tue aspettative.»
«Ma lei la vide come una minaccia?»
«Neanche, mi sembrò molto più una provocazione.»
Il detective annuì. «Quindi suo marito stette male, lasciò il ristorante in mano al signor Stevenson e quando poi vi tornò era cambiato?» provò ad indovinare.
Anche la donna annuì. «In un certo senso sì. Era ancora più schivo, più chiuso del solito. Poi per un periodo tornò tutto a posto e dopo ancora si riallontanò sia da me che da Kevin.»
«Ma continua ad affermare che suo marito non sapesse nulla della vostra relazione.» concluse poco convinto. «Aveva avuto problemi con il ristorante? Legali, finanziari, con il personale?»
Scosse il capo. «No, nessun problema del genere, era tutto a posto. E forse… forse se non l’avessi obbligato a fare quel pranzo sarebbe ancora vivo.» mormorò in fine.
Alexander la fissò e chiuse i fascicoli. «Ho imparato, nel corso degli anni, che una morte, di qualunque tipo sia, anche se viene scampata una volta non ritarderà per sempre. Non poteva saperlo, se doveva andare così suo marito sarebbe potuto morire in molti modi diversi.»
«Quindi lei non crede che io sia colpevole?» gli domandò sorpresa.
Ma il volto del tenente era una maschera di cera e Felicia Cobe seppe già cosa le avrebbe risposto prima ancora che quello aprisse bocca.
«Quello che credo io è irrilevante, nessuno è colpevole fino a prova contraria, questa è la legge. Ciò non toglie che, allo stato attuale delle cose, lei ed il signor Kevin J siate in cima alla lista degli indiziati.»




Quando su quella sedia si sedette Kevin J Alexander aveva dovuto affrontare una nuova diatriba sul fatto che non volesse nessuno in sala interrogatori con lui.


«Andiamo Alexander! Capisco che tu non voglia questa piaga di Morgenstern-»
«Vaffanculo, Bane.»
«Posso capire che tu non voglia me – anche se no, non lo capisco – perché con la mia folgorante bellezza ed il mio charme potrei intimorire o affascinare gli indiziati.»
«Questa sì, che è una signora puttanata.»
«Ma almeno il piccolo Steven, portalo con te, come imparerà il mestiere se no?»
La sviolinata di Magnus fu seguita dall’ennesimo insulto di Jonathan e dall’annuire concitato di Simon che cercava di fargli gli occhi dolci.
Ma lui era cresciuto con Jace, Izzy e Max e dire che fosse temprato dal fuoco di mille battagli era un eufemismo.
Ovviamente non riuscirono minimamente a convincerlo.
«Pessime argomentazioni e pessima esposizione. Ringrazia di non essere un avvocato, Mags, mia madre ti avrebbe distrutto senza neanche doversi alzare dal banco.»




L’uomo davanti a lui sembrava tranquillo nel complesso. Era palese che fosse rimasto in qualche modo toccato dalla morte violenta del suo amico, ma proprio com’era successo per la vedova, Alec ebbe la netta sensazione che più che triste, disperato o addolorato, fosse solo dispiaciuto.
Forse un tempo c’era stato un sincero sentimento d’amicizia tra di loro ma ora come ora non vi era nulla che potesse ancora chiamarsi a quel modo. E se l’aveva capito Alec con un solo colpo d’occhio, dubitava che tutto lo staff e magari anche gli invitati non avessero anche solo intuito il cambiamento di sentimenti che univa quelle tre persone.

Due allo stato attuale delle cose.

«Buon giorno Signor J, sono il Tenente Lightwood.» ripeté quelle parole in modo meccanico, così come aveva già fatto per la signora Cobe.
Sapeva per certo che i due non si erano sentiti, erano riusciti ad incastrare gli interrogatori in modo tale che non appena Felicia Cobe era uscita da quella sala e si era diretta per il corridoio di destra, da quello di sinistra era immediatamente spuntato Kevin J, scortato da un agente.
L’uomo gli fece un cenno del capo. «Kevin J, solo “J”, so che è strano ma è una lunga storia.» sorrise affabile. «Ma le giuro che non sono un Man in Black.> scherzò ancora.
Poi si dovette rendere conto che quello vestito come il personaggio di un film era il detective Lightwood ed il sorriso sul suo volto si spense un po’, divenendo più incerto.
«Scusi, parlo un po’ a sproposito quando sono preoccupato.» si giustificò subito.
Alexander non gli fece notare quanto quella frase fosse compromettente, al contrario, esattamente come non aveva fatto con Felicia Cobe, si sforzò di farsi vedere comprensivo.
«Non si preoccupi, sono abituato a parlare con testimoni scioccati da ciò che hanno visto. Un delitto si ripercuote in modi differenti su ogni persona.»
Kevin J annuì sollevato. «Ammetto che è stato un duro colpo. Hugh… lui, insomma, com’è morto? Non ci hanno ancora fatto sapere nulla.»
Ci hanno”, ovviamente riferito a lui e alla signora Cobe.

Che a quanto pare giocano appaiati questa partita.

«Emorragia interna. Gli è stata somministrata una massiccia dose di anticoagulanti. Ma non deve temere nulla, tutti voi commensali siete già stati sottoposti ad analisi, i cui risultati dovrebbero arrivarmi a breve, ed in ogni caso in questo edificio ci sono molti validissimi medici.» lo disse con gentilezza, come se lo stesse consolando, ma il solo riferimento ad un possibile avvelenamento anche agli altri ospiti fece irrigidire ugualmente l’uomo.
«L-lei dice?»
Alexander aggrottò le sopracciglia. «Per la validità dei medici? Assolutamente, ognuno dei nostri coroner è laureato con ottimi voti alla facoltà di medicina.»




«Se sta facendo una recita, dio santissimo, lo sta facendo davvero in modo fantastico. Quel tipo tra un po’ ci sviene lì sul tavolo. Che ha intenzione di fare il nostro capitano?» domandò Magnus divertito.
«È tenente, il “capitano” è il prossimo grado che può prendere.» sbuffò Morgenstern. «E penso che stia cercando di far abbassare la guardia a Mr “è-una-storia-lunga” facendo il buono e caro.»
«Poteva farlo anche con la moglie…» borbottò Simon.
Ma il biondo scosse la testa, seguito subito da Magnus. «Quella donna è abituata a trovarsi in posizione di comando, se Alexander si fosse mostrato troppo sottomesso se lo sarebbe mangiato, non gli avrebbe detto niente e alla prima domanda scomoda si sarebbe indignata per l’insubordinazione.»
Jonathan alzò un sopracciglio. «Ma dai, allora anche tu pensi ogni tanto?»
«Solo nei giorni infrasettimanali dispari.» sorrise plastico l’altro.




«Potremmo essere tutti avvelenati?» domandò ancora l’uomo.
Alec si strinse nelle spalle. «Ne dubito, ma sarebbe stato comunque molto più efficiente ed intelligente uccidere tutti, avrebbe reso più difficile l’identificazione della vera vittima designata, del colpevole e del movente.»
Kevin J annuì non toppo convinto. «Se ne è certo…»
«Assolutamente. Possiamo passare alle domande? Potrebbe dirmi in che rapporti era con la vittima?»
L’altro si mosse un poco sulla sedia per accomodarsi meglio, intrecciò le dita e prese un respiro profondo.
«Io e Hugh eravamo vicini di casa quando eravamo piccoli, siamo stati a scuola assieme finché lui non ha scelto l’accademia culinaria e poi è partito per l’Europa. Siamo sempre rimasti in contatto ma non ci vedevamo da molto tempo quando sono tornato anch’io qui in città e l’ho aiutato a tiare su l’One.» spiegò con calma ed uno strano tono accomodante, quasi cercasse di raccontare al meglio una storia.
Alexander però non ne rimase troppo impressionato: aveva aiutato Cobe a tirare su l’One? Dov’era finito il “stava aspettando di poter cominciare a lavorare e nel mentre si annoiava bazzicando per il cantiere”? Era davvero interessante vedere come le storie mutassero a seconda della persona che le raccontava, ma anche a questo Alec era ormai avvezzo.
«Non avevo capito che lei fosse un azionario. Quindi saprà di certo dirmi se c’erano problemi finanziari, con dei fornitori, qualche bega legare che potrebbe aver scatenato attriti e possibili ritorsioni da terzi.»
Come se avesse appena scoccato una freccia dritto al centro del bersaglio, Kevin J si lasciò sfuggire una contrazione quasi nervosa del volto.
Alexander sogghignò internamente.
Diamine, stava passando troppo tempo con Magnus e Jonathan.

«No, io non sono un azionista, come dice lei. Ma i ristoranti non sono come le aziende commerciali, non si è proprio “azionisti” si è co-proprietari.»
«Quindi lei è un co-proprietario?»
Di nuovo la leggera contrazione della mascella. «No.»
Alec aggrottò le sopracciglia. «Mi perdoni, non mi ha appena detto che ha aiutato la vittima a tirar su il suo locale? Non è logico pensare che l’abbia ripagata in qualche modo?»
Il signor J strinse le mani tra di loro ed espirò fortemente. «No, Hugh non mi ha mai ripagato in nessun modo. Al tempo aspettavo che il mio contratto iniziasse così mi sono offerto d’aiutare come potevo. Non volevo soldi in cambio.»
Il detective annuì. «Provava risentimento per questo nei confronti della vittima?»
A quella domanda l’uomo non rispose immediatamente, rimanendo in parte stupito da un quesito così specifico e palesemente accusativo e dal fatto che il poliziotto l’avesse portato lì senza neanche farglielo sospettare.
Non era un ragazzino come tanti che ha ricevuto una gratifica per un qualche motivo assurdo, sapeva il fatto suo.
«Non parlerei proprio di risentimento. Hugh mi ringraziò e a me al tempo bastò così.»
«Ma ad un certo punto non le è più bastato?»
L’altro scosse la testa. «Di nuovo, non proprio. Ho avuto qualche problema finanziario in passato, Hugh mi ha aiutato un paio di volte, nulla di troppo esorbitante ovviamente ma lavoro in borsa, sa come sono gli andamenti esteri e quelli statali, vero?» Alec annuì spingendolo a continuare. «Gli ho sempre restituito tutto, sempre, ma negli ultimi tempi era diventato più difficile-»
«Farsi prestare i soldi o ridarli?» chiese a tradimento.
J si fermò. Lo osservò a lungo. «Entrambi.» ammise a bassa voce, poi si lasciò sfuggire un suono decisamente sarcastico. «Non che lui lo sapesse ovviamente. Mi diceva sempre di no, che doveva pensare al suo locale e non poteva aiutarmi sempre.»
«Quindi era la signora Cobe a prestarglieli. Il marito si rendeva conto delle mancanze? È per questo che litigavano?»
Alec annunciò il suo scacco al re da lontano ed il volto sorpreso di Kevin J gli fece intuire che anche l’uomo l’avesse sentito.
«Glielo ha detto Felicia?» domandò a sua volta senza cercare più di girare attorno all’argomento.
Il detective si strinse nelle spalle per poi rielencare le stesse cose dette alla donna.
«Lei non porta più la fede, strano per una vedova addolorata che la signora Cobe non sembra affatto essere.»
«Solo questo? L’ha capito da questo?»
«Vi riferite a voi stessi come una coppia, come un duo. Questo è piuttosto indicativo. E, se permette, se volete tenere nascosta la vostra relazione dovreste evitare di vestirvi abbinati.»
Con uno sbuffo divertito l’uomo si lasciò cadere contro lo schienale della sedia ed abbandonò le braccia lungo i fianchi.
«Avevamo comprato quei vestiti assieme, non mi ero neanche accorto che fossero abbinati, ma ora che me lo fa notare…»
«Inconscio, estremamente potente e spesso compromettente.» disse solo lui con voce piatta. «La vostra storia andava avanti da due anni e la signora Cobe le prestava il denaro necessario per sopperire ai suoi cattivi investimenti. E lo faceva con i soldi del marito temo.»
A quella frase l’altro sembrò rianimarsi un po’. «Era anche denaro di Felicia.» la difese subito.
Alexander alzò un sopracciglio. «Mi permetta, signor J, ma da quanto ne so la vedova Cobe non ha mai lavorato davvero nel locale. Era la vittima a pensare a tutto, sbaglio? Quindi quei soldi erano di Felicia Cobe tanto quanto lo sono i soldi di un miliardario della propria moglie.»
Era stata un’osservazione davvero crudele da parte sua, ne era consapevole, ma ancora una volta aveva la netta sensazione che gli stessero nascondendo qualcosa ed il modo migliore per capirlo, a quanto pareva, era rendere chiaro all’altro che lui sapeva e che non si sarebbe fatto fregare dalle loro belle parole.
E Kevin J non doveva essere proprio uno stupido perché si rese conto che il giovane uomo davanti a lui non avrebbe accettato le sue scuse. O meglio, le avrebbe ascoltate ma ne avrebbe tratto le giuste conclusioni, avrebbe letto tra le righe. Ed ora come ora, tra le righe, c’era scritto che lui e Felicia erano amanti, che avevano entrambi qualcosa contro Hugh, che la donna usava i soldi del ristorante per pagare i suoi affari falliti e che faceva tutto sotto banco perché il marito – la vittima come ripeteva in continuazione il tenente, che mai aveva chiamato Hugh Cobe con il suo nome – non approvava.

«Hugh non sapeva di noi.» disse come risposta a tutti i suoi ragionamenti.
Il volto impassibile del detective parlava per lui. «La vittima e sua moglie discutono circa un anno fa, lei chiama il suo amico proprio dopo la lite e invece di andare a parlare con lui si fa dire dove si trova sua moglie e va a consolare lei. Inizia la vostra storia ed il caro amico che le ha sempre prestato denaro ogni qualvolta ne avesse bisogno, perché da quanto ho capito la vittima non era una persona veniale, improvvisamente si rifiuta di farlo. Lei comunque sopravvive ad ogni fallimento grazie alla sua amante ma ufficialmente per altri motivi. La signora Cobe diventa sempre più insistente con l’idea di aprire altri ristoranti, tanto da voler organizzare un pranzo di “prova” presumo. La vittima si allontana sempre di più da sua moglie, non vuole neanche accordarle quel pranzo privato, ma lei lo convince del contrario. Nonostante questo la vittima è nervosa per settimane, non si presenta neanche ad accogliere i commensali e cerca di scappare in cucina non appena ne ha la possibilità, lasciando lei e la signora Cobe a fare i padroni di casa.» si fermò e scrutò con sguardo freddo ed acuto il bel viso dell’uomo davanti a sé, ora una maschera cinerea.
«Mi perdoni di nuovo, signor J, ma vorrebbe davvero farmi credere che la vittima fosse così ottuso da non rendersi conto di tutto questo? Un cuoco di alto livello, uno chef del suo calibro che riesce a trarre il meglio da ogni luogo in cui ha lavorato, da ogni persona che ha al suo fianco, che è famoso per esser capace di esaltare al massimo i singoli alimenti, senza trucchi o inganno?
Aveva una considerazione così bassa di quell’uomo?
Se permette, mi azzarderei a dire che chi non ha capito nulla, chi non ha visto e non sapeva, eravate lei e Felicia Cobe.»
Nella sala interrogatori scese il silenzio più assoluto. Dietro lo spesso vetro a specchio i tre colleghi del detective si ritrovarono a sorridere divertiti da quella scena.

Scacco al re.





Non appena ebbero finito con gli interrogatori della giornata tutti e quattro si ritrovarono davanti alle loro scrivanie.
Alexander e Simon spostarono una lavagna fino al muro a loro più vicino e Magnus insistette per essere lui ad attaccare foto e scrivere informazioni.

«Hai una grafia orribile, piena di fronzoli inutili, non si capirà nulla.» si lamentò Jonathan, giusto per fare qualcosa.
Magnus, in modo molto maturo, gli fece il dito medio.
«Buoni voi due.» tuonò la voce profonda di Alec. «Dobbiamo metterci a lavorare, non voglio sentirvi litigare come mocciosi.»
«Ha cominciato lui.»
«Come non detto.» grugnì a mezza bocca.
Simon si passò le mani sui jeans e sorrise ai suoi colleghi. «Chi lo vuole un caffè? Credo che ci vorrà un bel po’ per sbrogliare questa matassa, vero?» propose.
Magnus annuì. «Grazie Sigfrido, con la mia macchinetta, per favore.»
Jonathan alzò solo una mano, mentre Alec annuiva ringraziandolo mestamente. «E credo anche che il capo qui debba metterci a parte di un po’ di ragionamenti suoi, vero?» chiese inclinando la testa verso il moro.
Il detective si sedette alla sua postazione, alla sua destra Magnus era ancora intento ad attaccar foto di possibili indiziati. Sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Togli gli invitati, Mags. Non serve averli lì, occupano solo spazio.»
L’uomo si volse a guardarlo curioso. «Già li elimini a priori?»
L’altro gli fece cenno di sì. «Per ora la pista migliore è quella della moglie e dell’amico, seguiremo questa e se non ci porta a nulla riprenderemo in mano anche gli altri invitati, ma dubito fortemente che c’entrino qualcosa.»
«Istinto o speranza?» domandò Morgenstern dondolandosi sulla sedia vicino alla scrivania di Alec.
«Una buona parte di entrambi. Tra di loro non c’è il mandante dell’omicidio e neanche l’esecutore, non ne avrebbero avuto la possibilità. Sono tutti amici di Felicia Cobe, la maggior parte di loro sono arrivati in città solo per questo pranzo.»
«Che fortuna.» sbuffò ironico Magnus.
«E non hanno moventi, sì, lo penso anch’io.» concordò.
Simon tornò con le quattro tazze stretta in una presa precaria, poggiandole con delicatezza sul primo piano disponibile e distribuendole ai legittimi proprietari.
«Perciò il movente è “soldi e amore”? Dici che Cobe lo sapeva?»
Alexander bevve un sorso del suo caffè e lasciò andare un sospiro più pesante.
«Tutti coloro che ho interrogato non hanno quasi mai parlato di Felicia Cobe, chi lo ha fatto è stato solo per citare il fatto che avesse obbligato il marito a fare quel pranzo. Forscue e Stevenson, anche se il secondo è stato molto più sottile, mi hanno dato ad intendere che non avessero una grande stima della donna, avete sentito anche voi cos’ha detto le signora Cobe stessa e quello che ha invece detto il signor J.»
«Erano i classici amanti che inizialmente sono pentiti e dispiaciuti di tradire l’amico barra marito ma che poi si attaccano ad ogni comportamento “sbagliato” di quello per odiarlo.» convenne Magnus stringendo la tazza viola tra le mani, riscaldandosele un po’. «Sì, hanno dei comportamenti troppo espliciti, non penso proprio che quel poveraccio non l’abbia notato e per di più, se non l’avesse fatto da solo, sarebbe bastato vedere come l’intero staff si comportava con i due. Scommetto che Forscue li guardava male ogni volta che entravano nel locale, mi sembra un fedele cane da guardia.»
«Senza dubbio gli era fedele, ma non sottovalutare anche Stevenson. Erano amici, Cobe gli chiese di ritornare in America e lasciare un lavoro che amava e in cui si trovava a proprio agio, gli ha chiesto di lasciare una sicurezza per un’incertezza. Doveva aver grande considerazione di lui e penso che Stevenson lo ripagasse con fedeltà e sincerità.» continuò Alexander.
Jonathan passò lo sguardo dall’uno all’altro. Fedeltà e sincerità. Che parole spaventose.
Si riscosse. «Quindi pensate che se anche Cobe fosse stato davvero così ottuso c’avrebbe pensato il vecchio amico ad aprirgli gli occhi.» concluse. «Bene, fila come ipotesi. Potremo rinterrogarlo e chiedergli conferma, specie ora che sappiamo della tresca.»
«C’è già nel programma, domani verranno a dare la loro deposizione ufficiale i membri dello staff, mando una notifica ai due informandoli che li rinterrogheremo entrambi?»
«No, non ce n’è bisogno.»
Magnus batté le mani. «Ottimo, allora ci dici cosa sai di più di noi?»
Alexander prese un respiro profondo ed annuì. «Sono arrivati i fascicoli medici di Cobe, anche quelli finanziari.»
«E dentro c’erano informazioni che ti hanno fatto accendere una lampadina, giusto? Svelaci l’arcano, o sommo signore dei casi intricati!» proclamò con fare melodrammatico alzando la sua tazza in aria come fosse un oggetto di scena.
Il detective lo ignorò. «Ho ragione di sospettare che Cobe fosse a conoscenza della relazione tra moglie e amico da almeno subito dopo la sua malattia. La polmonite che ebbe due anni fa lo costrinse a visite mediche intensive nella ricerca di un qualunque problema che impedisse la veloce riabilitazione. Pare che avesse delle matasse sospette nei polmoni, non appena scenderemo in laboratorio chiederò al Dottor Carson di spiegarci meglio la patologia, ma all’atto pratico gli rimaneva poco da vivere.»
Gli altri tre lo guardarono stupiti e Jonathan annuì. «Non ha detto nulla a nessuno. Non si è fidato neanche di sua moglie perché già sapeva che lo tradiva.»
«No alla prima e sì alla seconda. Un mio amico lavora in un ristorante, il proprietario era a sua volta amico di Cobe e pare che nell’ambiente tutti sospettassero che lo chef non fosse più al massimo della sua forma, malgrado lui negasse sempre come suo solito ed i suoi dipendenti asserissero lo stesso.»
Simon sorrise. «Hai sentito Seth?»
Magnus invece drizzò le orecchie, non era la prima volta che il discorso “Seth” usciva fuori per caso ed ogni volta gli sembrava di scorgere un pezzetto in più del passato di Alec.
Persino Jonathan alzò un sopracciglio e abbozzò un sorriso divertito.
«Seth? Seth Cohen? Quello che veniva a liceo con noi?»
«No James, quello è il personaggio di O.C.» replicò l’asiatico con stizza.
«Sta zitto, Bane. Lo chiamavamo tutti così perché è castano, riccio e nerd. E perché era amico di quello tenebroso che tutti sapevano saper menare le mani.» ghignò ammiccando verso Alec.
Il diretto interessato lo fissò con espressione neutra. «Sì, parlo di lui. Lavora al Kennedy.»
Jon fischiò. «Beh, era bravo ai fornelli il nerd, quando ci fu il festival scolastico la tua classe vinse non so quanti premi.» ricordò quasi con nostalgia.
Alec annuì. «Maggior afflusso di visitatori, maggior “ritorno” di visitatori. Minimo spreco del materiale acquisito, il premio per il menù più vario, quello per i migliori piatti caldi e freddi e miglior dessert. Credo anche il premio per lo stand più efficiente.»
«Vinceste anche quello per le divise migliori, avete battuto le cheerleader, tua sorella era nera.»
«E Jace riuscì comunque a dire che era merito suo perché aveva fatto da modello a Pip.»
I due giovani si scambiarono uno sguardo d’intesa che proveniva da un passato in cui d’intesa, tra di loro, non ce n’era praticamente stata. Per un attimo Simon e Magnus si sentirono tagliati fuori da un mondo e da una realtà che non avrebbero mai compreso, un luogo in cui Jonathan era il borioso ragazzino viziato che cecava ancora di imparare come comportarsi tra la gente in della Grande Mela e Alexander era il cupo Slender man che incuteva paura e si mimetizzava tra le ombre. Un passato che ora pareva lontano anni luce.
Poi Alec si riscosse. «Se alcuni chef sospettavano qualcosa non dubito che anche altri lo facessero, così come non dubito che lo staff lo sapesse. O per lo meno sospettasse.»
«E quei due?» chiese Simon.
«Probabilmente hanno chiesto spiegazioni e si sono sentiti rispondere che non aveva nulla. Cobe era un uomo adulto e responsabile, aveva il diritto di chiedere al medico curante di non divulgare alcuna informazione e lui aveva l’obbligo di farlo. In ogni caso, visto quanto sono convinti che la vittima fosse così ottusa da non rendersi conto che il suo migliore amico e sua moglie lo tradivano, dubito che avrebbero potuto intuire qualcosa.»
«Quindi era malato, ha scoperto che la moglie e l’amico lo tradivano e non ha detto nulla a nessuno.»
«Ma qualcuno lo doveva pur sapere. Se mancava dal lavoro per qualche visita medica… doveva esserci qualcuno che gli copriva le spalle.» fece notare Lewis sedendosi alla sua scrivani. Alzò lo sguardo sul tenente. «Stevenson? Mi pare il più adatto.»
Alec annuì. «Sicuramente. Dubito che l’abbia detto a Forscue, penso sarebbe diventato molto apprensivo, Cobe era pur sempre il suo mentore, il suo metro di paragone a tutto.»
«Cieca fedeltà, di nuovo.» mormorò Magnus.
A sentire quella parola ripetuta per la seconda volta Jonathan si mosse inquieto sulla sedia. Di fianco a lui Alexander gli lanciò una lunga occhiata penetrante e poi annuì.
«Vogliamo affrontare qualche discorso prima di dedicarci completamente al caso?» domandò quasi con casualità.
Magnus e Simon si voltarono a guardarlo curiosi, poi il più giovane spostò lo sguardo sull’agente della Crimine Organizzato.
«Dovevi dirci qualcosa tu, vero? Ci avevi detto di non scappare subito dopo gli interrogatori.»
Morgenstern fece una smorfia insofferente, ma la presenza silenziosa e solida di Alec al suo fianco gli diede quasi forza: sembrava quasi che gli stesse dicendo d’aver approvato la sua iniziativa, il fatto che ne avesse già parlato con i ragazzi senza che fosse dovuto intervenire lui sin dal principio.
Perché poi Jonathan avesse bisogno dell’approvazione di quello stronzo rompi coglioni di Lightwood, lo stesso che gli aveva rotto il naso, con cui era finito in punizione troppe volte, con cui s’allenava con un po’ troppo impeto in accademia e che, da sempre, non aveva potuto soffrire esattamente come Alec non poteva soffrire lui, gli era completamente oscuro.
E preferì ignorare la voce dello strizza cervelli che gli domandava sé, avendo cercato l’approvazione di suo padre per tutta la vita, ora che l’uomo era morto la sua attenzione, la persona di cui doveva guadagnarsi quella dannata approvazione, non fosse proprio colui che l’aveva salvato.
Guardò Lightwood senza vederlo davvero, pregando chiunque fosse ancora disposto ad ascoltarlo che quel dannato medico si sbagliasse.
Probabilmente, invece, aveva pienamente ragione.

Fanculo!

«Forse è meglio cercare un luogo più tranquillo.» si limitò a dire.




In qualunque modo la si raccontasse, in qualunque situazione, partendo dal principio o dalla fine, ricordando come tutto era nato al tempo o come era stato rivangato da una stupida scatola delle prove, la situazione non cambiava. Era già la terza volta in un periodo troppo breve che Jonathan si ritrovava a pensare a questa cosa.
Comunque la si veda, nulla cambia.
Nulla.
Era stato assegnato ad un caso. Era stato elogiato per la sua efficienza e premiato con un posto d’onore al servizio di uno dei responsabili del caso. Aveva eseguito tutti gli ordini alla lettera, era arrivato sulla scena del crimine. Aveva visto corpi di colleghi a terra. Aveva visto morire quelli che erano arrivati con lui. Aveva comunque, di nuovo, eseguito gli ordini e alla fine, malgrado fosse nel posto giusto al momento giusto, aveva fallito.
Si era salvato solo ed unicamente per un qualche debito che una ragazza sconosciuta aveva nei suoi confronti, o forse in quelli di suo padre, non ne aveva la più pallida idea.
Tutto ciò che gli era rimasto di quel caso erano dei documenti, una cicatrice ormai scomparsa e l’immagine di una rosa stampata a fuoco nella memoria.
La stessa, identica rosa che aveva rivisto su quel foglietto.

Simon lo fissò senza dir nulla, allibito. Probabilmente ricordava quel periodo, ricordava quel caso specifico e ricordava anche la corsa che si era fatto Luke all’ospedale.
Probabilmente, ma questo Simon non lo disse, ricordò anche Valentine superare Luke di gran carriera nel corridoio dell’ospedale e quasi slittare sul linoleum lucido, rischiando di lisciare la porta e sbattere dritto contro il muro.
Perché c’era stato un momento in cui Valentine Morgenstern aveva tenuto ai suoi figli – a Jonathan in particolare – più che ad ogni altra cosa al mondo, prima che venisse vinto dalle sue stesse manie, dai suoi stessi demoni. Forse aveva continuato ad amare suo figlio fino alla fine e forse, forse, forse, forse, Jon si era sbagliato, tutti loro si erano sbagliati e Valentine non gli avrebbe mai sparato.
Lewis continuò a guardarlo e se Magnus ed Alec notarono il suo tentennamento, se notarono il modo in cui l’ex tecnico allungò la mano cercando quella del biondo per dargli e farsi dare un muto conforto, nessuno di loro lo disse.

«Direi che sei stato piuttosto fortunato.» mormorò piano Magnus. «Chiederò in giro se qualcuno sa qualcosa a proposito di una ragazza bionda con un tatuaggio con la rosa, di certo nel mio ambiente sapranno darci più informazioni. La troveremo, stanne certo.» asserì serio.
Poi un brivido gli fece venir la pelle d’oca.
Voltandosi verso Alec si ritrovò quegli occhi accecanti puntati contro ed una bolla di calore e d’orgoglio gli scoppiò nel petto. Alexander lo guardava come probabilmente in pochi l’avevano guardato nel corso della sua vita. Era serio, composto ma in un qualche modo sembrava brillare di sicurezza, di forza, di fiducia.

D’affetto.

Magnus non sopportava Jonathan e la cosa era reciproca, ma un’altra cosa che non sopportava erano le stragi senza senso e quasi una decina di poliziotti uccisi solo perché avevano risposto ad una segnalazione di colpi da arma da fuoco rientrava decisamente tra le stragi immotivate. Certo, aveva assistito lui stesso a scene del genere, a scontri tra le bande quando suo padre era ancora in città e dettava il bello ed il cattivo tempo, ma per quanto al tempo odiasse i poliziotti come forse null’altro al mondo, vederli trucidati senza pietà e senza motivo lo disgustava.
Magnus accettava la morte di un individuo solo se strettamente necessaria, se aveva tradito, se aveva a sua volta ucciso, ma doveva sempre esserci un motivo dietro. C’erano centinaia di modi diversi per far soffrire una persona, mandarla al creatore era troppo semplice.
Negli occhi di Alexander vide quanto quelle semplici parole, quel limitarsi ad ascoltare e proporre una soluzione, fosse valso più di qualunque dichiarazione scritta, più dell’indignazione.
Mags odiava Jonathan ma l’avrebbe aiutato a far giustizia per i suoi colleghi – per i suoi amici così come Alec aveva aiutato lui. In tutti i modi.
Dentro di sé l’orgoglio ruggì forte e potente: Alec era fiero di lui.

«Grazie.»


La voce di Jonathan era bassa ma arrivò perfettamente alle orecchie di tutti.
Aveva stretto la mano di Simon di quell’attimo di conforto reciproco e poi aveva incrociato del braccia al petto, libero di un peso enorme ma comunque non ancora a proprio agio a discutere del caso.
«Non ti è mai capitato di sentir parlare di un personaggio simile?» domandò allora Simon.
Magnus si scambiò un’occhiata con il tenente, doveva parlare? Doveva dir loro tutto quello di cui avevano parlato? Accennare anche solo al fatto che la rete che stavano cercando, il Clan, era composta per la maggior parte da suoi amici e che con tutti probabilità, malgrado non conoscesse di persona quella donna, sarebbe stato perfettamente in grado di dirgli a quale sottoclasse appartenesse?
In quel momento si ritrovò nella scomoda posizione d’esser fedele ad un sistema che conosceva dalla sua nascita e l’esser fedele a quella stessa persona che gli aveva appena dimostrato il suo orgoglio e la sua approvazione.
Prese un respiro profondo, tra di loro, tra i bambini, non c’era più nessuno dei suoi amici, ma era pur vero che quella gente componeva una parte del Clan.

Ma è anche vero che il Clan è organizzato in modo e maniera che alla caduta di un capo clan non cadano anche tutti gli altri.

E Magnus sapeva per certo che se il capo dei bambini avesse parlato ci sarebbero stato come minimo altri quattro vampiri pronti a staccargli la testa.
Uno di loro l’avrebbe fatto anche nel modo più chirurgico e preciso possibile.
Deglutì e poi annuì, una passo per un passo, una mano per una mano, questo almeno glielo doveva.
«Non proprio di lei nello specifico, ma so che c’è una rete di criminalità organizzata che prende il nome di Night’s Children,» Jonathan sussultò, «in cui un tipo del genere potrebbe rientrare perfettamente. Sono tuttofare, vengono ingaggiati su commissione e fanno qualunque cosa venga loro richiesta. Vedeteli come un esercito: c’è un luogotenente con la sua squadra, ognuno prende degli ordini e chi riesce a portare a termine il maggior numero di vittorie vince notorietà e potere.»
Morgenstern lo fissò allibito. «Erano loro…» mormorò.
«Cosa?»
«Erano loro, cercavamo loro quando- quando ci fu la sparatoria e io vidi la ragazza con il tatuaggio della rosa. I criminali che cercavamo erano una rete organizzata che si teneva in contatto tramite uno stupido sito web con temi gotici e-»
«Vampiri?» domandò a bruciapelo Magnus, senza riuscire a controllarsi, come se già sapesse la risposta.
Il silenzio che ne seguì servì ai presenti per assorbire al meglio tutte le informazioni apprese in così poco tempo.
Alexander fu il primo a riscuotersi. Si passò le mani sui pantaloni e si alzò, voltandosi verso Jonathan.
«Ora abbiamo una pista. Sappiamo che probabilmente la ragazza che hai visto era un membro dei Night’s Children, che potrebbe essere ancora viva o meno.»
«Ma se Jonathan ha trovato quel biglietto…» disse piano Simon.
Alec scosse la testa. «Non possiamo saperlo per certo, in gruppi come quelli non è raro che tutti i membri portino un tatuaggio, un marchio identificativo. È possibile che la ragazza con la rosa fosse sotto il comando di un capo che usava proprio quel simbolo per distinguersi dai suoi “colleghi”.» lanciò uno sguardo a Magnus che annuì.
«Alle volte, quando il luogotenente passa a miglior vita, sale un nuovo leader ma mantiene il simbolo del vecchio capo. Altri lo cambiano per affermare la loro superiorità, ma spesso è più un passaggio di testimone. Lei probabilmente aveva il marchio della sua banda, magari anche gli altri l’avevano.»
«Rimane il fatto: abbiamo delle certezze, i Night’s Children ancora esistono, sono ancora attivi. Potter e il suo amico dovevano essere dei tirapiedi di questa rosa e c’è la possibilità che gli agenti e le vittime morte per mano loro possano finalmente aver giustizia.» fissò gli occhi blu in quelli verde cupo di Morgenstern, lo sguardo serio, «Risolveremo anche questo caso. Ora sai che è tutto vero, che avevi ragione tu. Potrai portare a termine la tua prima indagine con la Crimine Organizzato.»
Il lampo fiammeggiante che s’accese nelle iridi di Jonathan valse più di mille parole.

Finalmente avrebbe potuto affrontare i suoi demoni.
E sconfiggerli definitivamente.




Giù in laboratorio non ebbero la stessa fortuna che avevano appena avuto. Chad non riuscì a confermare nessuna delle loro ipotesi, non gli svelò segreti nascosti in grado di far crollare l’assassino e neanche di permetter loro di trovarlo. A conti fatti li distrusse su tutti i fronti.

«Niente.» ripeté ancora. «Mi spiace Alec, dico davvero, Carson me ne ha parlato quando sono andato a prendere i campioni dell’autopsia, sia la storia delle luci che quella dei cibi, ma non c’è assolutamente nulla in nessuna pietanza, in nessun alimento e in nessuna bevanda. Ho persino analizzato il tovagliolo della tua vittima e le posate. Niente, il nulla assoluto se non quello che ci si aspetterebbe.» sospirò sconsolato.
Alexander annuì, ignorando le imprecazioni di Jonathan in sottofondo e le lamentele di Magnus su come fosse possibile che un perfetto caso da avvelenamento non lo fosse davvero.
Simon invece se ne stava in piedi vicino al tenente, la faccia accartocciata in un’espressione sconfortata.
«Proprio niente-niente? Davvero? Diamine Chad! Ci hai smontato tutto!»
Il dottore si strinse nelle spalle. «Però avevate ragione sull’anticoagulante.» provò a consolarlo.
«Certo, peccato che non abbiamo la più pallida idea di come cazzo l’abbia preso.» ringhiò Morgenstern.
«O di chi glielo abbia dato quando.» continuò Magnus.
Era incredibile quanto quei due fossero sulla stessa lunghezza d’onda quando c’era da lamentarsi.
Alec continuò ad ignorarli. «Il dottor Carson ti ha dato anche tessuti da analizzare?»
Chad annuì. «Cisti. Non chiedermi per quale malattia, non ho chiesto e neanche mi interessa saperlo ad essere onesti, ma sono grosse cisti, in una c’ho trovato tracce di dente, quelle bastarde sanno essere ancora più inquietanti di quanto già non sembrino.»
«Quindi niente tumori, niente cancro. Aveva delle cisti ai polmoni.» ripeté lentamente il moro.
L’altro annuì. «So che in genere questo genere di cose si risolve con un intervento, asportandole, ma Carson sembrava piuttosto infastidito dalla fatica che aveva dovuto fare per toglierne un paio, presumo che anche un chirurgo l’avrebbe trovato difficile. E lui avrebbe anche dovuto farlo con un paziente vivo.» abbozzò un sorriso passandogli un fascicolo. «Ci sono tutti gli oggetti esaminati e tutti i risultati. Daisy ha avuto una mezza crisi isterica e li ha elencati in ordine alfabetico.» aggiunse veloce prima che Alec potesse chiederlo.
Il detective gli regalò un piccolo sorriso storto e iniziò a scorrere la lista, una pergamena infinita di alimenti, spezie, composti chimici, fiori commestibili e fiori da esposizione, prodotti per la pulizia, per l’ambiente, divise, coltelli. Alexander batté le palpebre e sospirò.
«Grazie lo stesso Chad, siete stati anche incredibilmente veloci per tutta questa mole di roba.»
«Ricordati Cam che sta mettendo i denti ed una donna incinta di due gemelli che non riesce a dormire e pensa bene di rimanere in laboratorio fino a notte fonda.»
«Spero che tu sia riuscito a convincerla a tornare a casa.»
«Ho dovuto chiamare sua madre, ti rendi conto? E stavo per chiamare anche la mia, tanta era la disperazione.» raccontò esausto.
Magnus, che non aveva smesso un attimo di lamentarsi, aguzzò l’udito e si fece più vicino.
«Ed il marito?» domandò curioso.
Chad e Alec si lanciarono uno sguardo comprensivo. «Conoscendo Daisy gli avrà urlato contro così tanto che si sarà andato a nascondere in un angolo rivedendo tutte le decisioni della sua vita.» disse sicuro il moro.
Chad scosse la testa. «Poveruomo, penso che dopo i gemelli avrà crisi di panico violentissime ogni volta che vedrà una donna incinta.»
Alexander sorrise. «Chiederò asilo politico a lui quando sarà mia sorella ad essere incinta, o la compagna di mio fratello.»
Con un brivido identico Jonathan e Simon si voltarono verso il detective, il primo con espressione disgustata e il secondo terrorizzata.
«Dio no!»
«Non mi ci far pensare, non ci voglio pensare. Oddio, pensi che lo faranno davvero?» chiese Simon voltandosi verso il biondo.
«Pensa a cosa gli ha detto mia nonna questo Natale.» replicò Alexander salutando il collega e avviandosi verso l’uscita dei laboratori.
Magnus gli trottò vicino allegro. «Intendi la previsione dei gemelli?» domandò ghignando.
«Quali gemelli?! Di che cazzo state parlando? Ehi! Quali gemelli!»
La voce di Jonathan fu smorzata dalle porte scorrevoli che si chiudevano.
Il ghigno di Magnus non accennò a scomparire.







Tornare a casa quella sera fu come spegnere la radio dopo ore passate ad ascoltarla.
Nel silenzio della macchina, nel brusio della metro, nel rumore di fondo della strada, non vi erano voci che parlavano le une sulle altre, che cercavano informazione invece di darne, che omettevano cose importanti o imbarazzanti. Nessuna coppia d’amanti imbrattati di sangue che cercano di aiutare colui che li tiene divisi, nessun fedele seguace che guarda i luoghi a lui più cari spaesato dall’assenza del maestro, nessun amico che, tristemente, cerca di far capire a terzi ciò che non sa per certo ma ha intuito da tempo.
La fortuna di aver trovato subito una buona pista per quel caso stava sfumando nella difficoltà di trovare il modo, il tempo, l’arma.
L’indomani sarebbero ritornati tutti in ufficio, tutti al quarto piano del Dipartimento di Polizia, tutti a far il loro lavoro, a studiare, a chiedere, a scoprire. Ma per il momento la giornata era finita e potevano concedersi di vivere almeno un poco.



Simon s’arrampicò per le poche rampe che dividevano casa sua dall’entrata del palazzo, deciso a soffrire la fatica di quei gradini solo per poter continuare a chattare in santa pace, come non sarebbe riuscito a fare in ascensore dove non prendeva la linea.
Sorrise come un imbecille allo schermo dove, in alto a sinistra, brillava l’icona di una ragazza bionda con un cerchietto con le orecchie da gatto. Maureen gli aveva mandato un messaggio per sapere come stava, se il caso procedeva bene, se stava lavorando tanto. Era sciocco forse ma avere qualcuno che si interessava a lui in modo così genuino e disinteressato gli scaldava il cuore, lo faceva sentire apprezzato.
Erano davvero mesi che non usciva più con una ragazza, che non si interessava più a qualcuna. Da quando Alec lo aveva tirato fuori dal suo laboratorio per portarlo a casa di Magnus e dare il via a quella folle alleanza che si era poi trasformata in qualcosa di molto più importante, di molto più significativo.
Gli piaceva, gli venne improvvisamente in mente, l’idea di poter raccontare ai ragazzi di Maureen durante la pausa, mentre facevano qualche noioso appostamento o attendevano una chiamata. Gli piaceva l’idea di chiedere a Magnus consigli che sicuramente non sarebbe mai riuscito a mettere in pratica, farsi dire quale regalo fosse meglio. S’immaginava Alec arrivare in suo soccorso non appena le troppe idee dell’altro l’avrebbero sommerso e dirgli di essere semplicemente sé stesso, di rilassarsi e godersi la giornata. Dio santissimo, gli piaceva persino l’idea di raccontare tutto a Clary e Jocelyn con Luke e Jon che facevano battutacce dalle altre stanze!
Sospirò felice. Sì, era un po’ prematuro da dire forse, ma non vedeva l’ora di far conoscere a Maureen gli altri. Magari avrebbe potuto iniziare con qualcosa di soft, di casuale… come una rimpatriata con i ragazzi della band o con Clary, Izzy e Jace in nome dei bei vecchi tempi!
Sorrise ancor di più e, facendo forza sul corrimano, piroettò sul pianerottolo leggero come una piuma.
La giornata era stata massacrante e piena di sorprese, non tutte belle, ma ora che era a casa, con il suo cellulare in mano e l’ipotesi di rimanere tutta la notte a parlare con una ragazza carina come se fosse ancora un adolescente gli gonfiava il cuore e gli faceva dimenticare tutto l’orrore che aveva visto.
L’amore rendeva davvero stupidi.








Il vecchio appartamento non era altro che la mansarda del palazzo in cui viveva sua madre. Jonathan aveva vissuto in quell’edificio a Brooklyn per anni, ma non c’era niente da fare: l’attico a Manhattan era il suo vero habitat naturale.
Con un sorriso beffarlo Jonathan sbuffò, a quanto pare era proprio figlio di suo padre.
Per un motivo a lui sconosciuto, quella volta, il pensiero non lo infastidì. Non lo innervosì e non lo rese triste.
Forse qualcosa era davvero cambiato.
Con un altro sbuffo, questo palesemente annoiato, il giovane si sdraiò meglio sul piccolo divano basso di sua sorella, osservandola saltellare a destra e sinistra nel vano tentativo di dar un bell’aspetto alla tavola e alla cena. Non appena aveva saputo che il caso a cui stava lavorando - « Il tuo primo vero caso con Alec! Questo è davvero un nuovo lavoro, non quell’altra roba!» - coinvolgeva un grande cuoco, aveva deciso di rendere ogni cosa più raffinata e bella possibile.
Una cazzata se chiedevano a lui, ma erano dettagli.

«Quindi, posso finalmente sapere per quale motivo sto rischiando l’intossicazione alimentare?» domandò placido.
Clary si voltò a fulminarlo. «Non rischi nulla, non sono Izzy. E poi vorrei solo dar un aspetto migliore a ciò che preparo, si mangia anche con gli occhi, no?» sorrise.
Jonathan si strinse nelle spalle. «Così dicono.»
«Oh, andiamo! Dammi un mino di fiducia! Chissà che bei piatti avrai visto oggi, non ti è venuta voglia di mangiare sempre così?» lo sfidò a contraddirla.
Ma il fratello la fissò disinteressato, arcuando un sopracciglio fine e bianco. «C’era un cadavere Clary, non sono andato lì per piacere. E se proprio ti interessa c’era solo una zuppa a tavola, una semplicissima e sbiadita zuppa color crema. Stop.»
Smontata dalle sue parole la ragazza lo raggiunse di gran carriera sedendoglisi vicino. O forse sarebbe meglio dire “buttandosi di peso sul divanetto”.
Jonathan sobbalzò e la guardò male. «Se si sfonda non te lo ricompro e impedirò anche a Luke di farlo.» la minacciò.
Clary lo ignorò scacciando quell’ipotesi con un gesto della mano. «Allora? Com’è stato? Come si lavora sul campo con Alexander Gideon Lightwood?»
«Dio, me lo scordo sempre che ha il nome di un cavaliere cristiano della prima crociata.» gongolò divertito.
L’altra gli diede un pugno sulla spalla. «Io trovo che sia molto più simile ad un titolo nobiliare. E comunque non hai risposto alla mia domanda.»
«Cosa vuoi che ti dica? Va bene, non fa cazzate, non si spreca in giri di parole, non si crede dio sceso in terra. Quando divide i compiti è veloce e sintetico, riesce a tenere Bane al guinzaglio e a recuperare Lewis quando ne fa una delle sue.»
«E pare anche che sia riuscito a conquistare la tua fiducia.» gli fece notare dolcemente, accoccolandosi contro di lui.
Jonathan strinse la sorella in un abbraccio e le posò un delicato bacio in testa.
«Più che altro, credo che sia il contrario.»

La fiducia delle persone si guadagnava un passo alla volta, lentamente e con perizia, ma in quel momento non sembrava più un’impresa così insormontabile perché sapeva che a casa sua, quella vera che nonostante tutto non avrebbe mai rinnegato – proprio come il suo nome – c’era un bicchiere ad attenderlo e Jonathan aveva deciso di vederlo mezzo pieno.







Le chiavi giravano veloci attorno all’anello lucido, seguite da quei due-tre portachiavi che amava cambiare in continuazione a seconda delle ultime mode, per essere sempre abbinato in tutto e per tutto.
Canticchiava il ritornello di una canzone appena ascoltata in radio, forse era Leto? Diamine, l’aveva appena ascoltata, gli rimbombava in testa, ma non aveva la più pallida idea di chi fosse a cantarla.
Sbuffando arricciò il naso e salì i pochi gradini del portone seguendo il ritmo che sentiva nelle orecchie.
Magnus si mosse a tempo di musica mentre infilava la mano della grande tracolla di pelle che aveva acquistato solo pochi giorni prima, rimpiangendo quasi di non aver seguito il consiglio di Simon e aver attaccato le chiavi di casa a quelle della macchina. Aveva replicato che così, in caso gli avessero rubato un mazzo avrebbe perso anche tutto il resto, ignorando completamente il fatto che nessuno sano di mente sarebbe andato a rubare proprio a lui, anche se qualcuno aveva provato a far bene di peggio, e che in ogni caso entro poche ore avrebbe riavuto tutto. E poi non voleva dar ragione a Simon.
Doveva vendicarsi ancora della suoneria cambiata, il nerd si sarebbe pentito d’essersi messo contro di lui.
Lasciando ricadere la testa all’indietro rilasciò un suono frustrato, non ci vedeva nulla, forse si sarebbe convenuto accendere la torcia. Nel mentre poteva anche chiamare Malcom, quell’uomo era un maledetto jukebox vivente, era peggio di Shazam e Magnus non credeva molto alla storia che andava raccontando, di quanto fosse divenuto bravo a ricordare e distinguere le canzoni perché sentiva quelle nei locali dove lavorava sua madre e riconosceva le sue canzoni, assolutamente no, era solo un dannato ossessivo compulsivo musicale, ecco.
La cosa era al contempo divertente e triste, soprattutto perché gli ricordava che un tempo Mal era stato un bambino spaventato e solo, costretto a seguire la madre nei posti in cui lavorava perché non potevano permettersi l’affitto, figurarsi una babysitter.
Scosse la testa e con questa i pensieri negativi che stavano iniziando ad accumularsi. Se pensava a Malcom da piccolo pensava alla madre e se pensava alla zia poi pensava alla propria di madre e di conseguenza a suo padre e al suo regno. Dal regno al Clan, dal Clan a Camille, a quella notte di pochi giorni prima, alla scoperta agghiacciante di cos’era successo anni fa. Camille, la lotta tra bande, Pierre, Raphael, Raphael da piccolo, giovane, un bambino al servizio di Dracula, vampiri…

Night’s Children.

Quindi erano loro i primi ad esser stati mandati in campo? Suo padre aveva davvero “chiamato” tutti i suoi vecchi alleati per farli ridiscendere sulle strade asfaltate di New York City?
Ma perché, perché ora? Sembrava quasi che glielo avesse fatto apposta: non rompeva le palle per anni e poi, quando lui perde un caro amico, quando ne trova degli altri, quando può finalmente ficcanasare un po’ anche nel mondo tutto luci, nuvole e cori angelici che era “la giustizia”… Asmodeus ricompare e getta un ombra scura e pesante su tutta la sua vita. La morte di Ragnor ed il ritrovamento del suo quaderno, compresa la morte di Morgenstern, erano stati un ottimo incentivo, ma continuava a sembrargli tutto così maledettamente perfetto.
Se qualcuno fosse andato a dirgli che in realtà ogni singolo avvenimento degli ultimi due anni fosse stato progettato da suo padre non avrebbe minimamente stentato a crederci.
Per sua fortuna, e per quella di tutto il mondo, Adam Bane non era in grado di manipolare il futuro. Non fino a quel punto per lo meno.
Rimaneva il fatto che presto o tardi si sarebbe ritrovato davanti i nuovi bambini.
Non aveva avuto il coraggio di dirlo ad Alec e agli altri, non ne aveva neanche la piena certezza dopotutto, ma se c’era una cosa che accumunava tutti i membri dei Night’s Children era proprio la loro età: nessun adulto poteva entrare in quel mondo, solo i più piccoli venivano reclutati, gli adolescenti allo sbaraglio. Se poi eri così forte o fortunato da superare l’adolescenza, d’arrivare ai venti e magari anche ai trenta, allora o eri baciato dalla dea bendata o eri un mostro.
Non credeva che la ragazza con la rosa fosse ancora viva, Morgenstern se la ricordava minuta perché era piccola d’età e Magnus era più che sicuro che non doveva aver fatto una bella fine.
Quella era una delle parti più crudeli dei Figli della Notte, i loro bambini venivano arruolati spesso quando erano ancora troppo piccoli per finire in prigione. Raphael era stato un bambino della Notte, Dracula uno dei tanti mostri che avevano sfruttato mano d’opera di ogni età senza batter ciglio.
Lily e tutti i suoi cugini erano stati bambini della Notte.
Camille e Pierre lo erano stati. Perché quando entravi nel Clan, qualunque fosse la tua famiglia di provenienza, se non superavi una certa età, eri un bambino. Solo un bambino.
In un momento di stanchezza Magnus poggiò la testa contro il portone.
Il tipo che aveva provato a sparargli, quel Potter, doveva esser entrato al servizio di qualcuno del Clan quando era ancora piccolo. Forse era un adolescente e non proprio un bambino nel verso senso del termine, ma cambiava poco: in un momento di immaturità, di instabilità emotiva, fisica, famigliare, qualcuno aveva teso una mano a Potter promettendogli tutto ciò che non aveva mai avuto a patto d’esser fedele ed eseguire gli ordini, di qualunque tipo.
Aspettò che i brividi di disgusto o di rabbia gli scuotessero il corpo ma ben preso Magnus si rese conto che quell’idea, qualora anche si sarebbe scoperta vera, non lo toccava in nessun modo.

Perché ci sono cresciuto in mezzo, perché per me è normale. Se sei piccolo ed entri al servizio del Clan sei non sei più figlio dei tuoi genitori ma non lo sei ancora neanche della Notte. Sei solo uno dei suoi tanti bambini, sei solo uno dei tanti tuttofare che si sporcano le mani quando i membri effettivi dei vari sotto-Clan hanno altro da fare o non vogliono problemi.
Sei un soldato bambino votato alla morte.


E se a suo tempo era stato sicuro per Camille e per Pierre, per Lily e per i Chen, realizzò che Raphael sarebbe potuto esser uno dei tanti bambini caduti e dimenticati per sempre.
Doveva dirlo agli altri, e con ciò intendeva gli altri di entrambe le sue fazioni, i suoi colleghi e la sua famiglia. Doveva dire ad Alec che la ragazzina con la rosa era sicuramente morta, che forse aveva lasciato a sua volta una bambina da qualche parte e che solo lei avrebbe potuto dirgli qualcosa della madre – perché Magnus non si era dimenticato dei racconti dei suoi amici, di quali fossero alle volte gli ordini da eseguire – che se volevano trovare qualcosa su Potter forse dovevano cercare tra i ragazzi scomparsi dieci, quindici anni prima, per capire come fosse entrato nel giro.
Dirgli che quando sarebbero arrivati al centro, al nucleo, alla base dei Night’s Children si sarebbero ritrovati davanti nient’altro che questo: bambini.
Con gli occhi spalancati Magnus fissò il pavimento senza vederlo.
Non sentiva niente, non gli veniva la nausea, non provava pena. Cosa c’era di sbagliato in lui?

È solo la gerarchia, è così che funziona nel Clan. Loro hanno i Night’s Children, il Branco ha i suoi Cuccioli, il Popolo i suoi Bimbi Sperduti. È così che funziona. È il cerchio della vita, della nostra vita, del nostro sottomondo.

Aveva lasciato la mano nella borsa senza più cercarvi dentro. Mosse di poco le dita, null’altro che un riflesso incondizionato, ed avvertì la consistenza liscia e solida delle chiavi. Le tolse dalla tracolla con lentezza, guardandole come se fosse la prima volta che le teneva in mano, così assorto dal fissare i giochi di luci ed ombre sulle rientranze nel metallo da non accorgersi del suono di una portiera che si chiudeva con delicatezza alle sue spalle.
Non sentì neanche i passi leggeri che gli si avvicinarono, o il fruscio degli abiti, il rumore della suola di cuoio che poggiava sui gradini freddi.
Una mano guantata di nero si strinse sulla sua spalla.

Magnus non se ne era quasi accorto.









Serrò la presa e spinse il pesante portone.
Non avevano fatto chissà quale sforzo fisico, non erano scattati come molle da una parte all’altra della città, non avevano inseguito criminali nel traffico di Manhattan o a piedi per interi isolati, ma quella sfilza infinita di interrogatori, con quelle persone così boriose e piene di sé, che pensano di potersi permettere confidenza o toni leggeri solo per i loro conti in banca… Alec l’aveva già detto che odiava i casi con alto profilo mediatico?
Farsi tutti quei scalini gli sembrò quasi rinvigorente, poter finalmente sfogare un po’ di tensione nervosa, di energia compressa per tutto il giorno su di una sedia di plastica, tanto da iniziare a ponderare l’idea di farsi una doccia, prendere la borsa ed andarsene in palestra. Ma forse Church avrebbe apprezzato aver un po’ di compagnia per quella sera e forse, ma solo forse, tirar pugni ad un sacco da boxe o sollevar pesi pensato di schiantarli in testa ai testimoni non era proprio positivo per il suo equilibrio mentale.
O forse lo era eccome, sfogare la rabbia repressa, no?
Dio santissimo, doveva chiamare Lawson e farlo al più presto.
Quando riuscì a chiudersi la porta alla spalle Alexander si trovò immerso nell’oscurità del suo appartamento, in cui la luce filtrava solo dalla trama delle serrande, creando movimenti incostanti dettati dal traffico della città.
Non accese nessun interruttore, camminò ad agio fino al tavolo e vi poggiò i documenti e le cartelle che stringeva sotto il braccio, cercando di non farli rovinare a terra quando si rese conto di averli messi sopra un’altra pila di scartoffie.
Con un leggero sfarfallio ed un tonfo secco, ed una mezza imprecazione a bocca chiusa, i nuovi fogli caddero oltre il bordo del tavolo, andando a fermarsi tra una zampa ed il muro.
Arresosi alla sua sfortuna Alec accese la luce della cucina e si chinò per riprendere i documenti e anche qualche cartaccia che si erano trascinati dietro. Storse il naso quando si ritrovò in mano un paio di buste, di cui una della sua banca che si sbrigò ad aprire.
Tirò un sospiro di sollievo quando lesse il semplice saldo del mese alla volta del suo nuovo stipendio ed abbandonò tutto sul piano per andare a spogliarsi e mettersi comodo.

«Church? Sei in camera? Puoi uscire dalla mia ciabatta, per favore?» domandò al gatto trovandolo come sempre a sonnecchiare sulla pantofola imbottita.
Il gatto aprì un occhio, sbadigliò, si tirò in piedi per stiracchiarsi e si avvicinò ad Alexander per farsi coccolare un po’.
«Tutto bene? Hai fame?»
Il miagolio basso che gli arrivò di rimando lo fece sorridere. «Mi cambio e mangiamo allora.»

Tornato in cucina con il gatto che gli camminava di fianco, Alec riempì la ciotola a Church e cominciò a preparar qualcosa anche per sé, ingannando l’attesa mettendo in ordine le carte.
Il giovane detective aggrottò le sopracciglia quando s’accorse di una seconda busta, sempre bianca e senza fronzoli, proprio come quella della banca, ma con il suo nome scritto a penna sul retro. Con una punta di curiosità andò a recuperare il tagliacarte in salotto, deciso a non rovinare né l’involucro né il contenuto della missiva, e l’aprì con cura.
Rimase a fissare l’interno della lettera senza realmente cosa vi fosse, sembrava quasi…

Una lettera dentro ad una lettera?

Fece per tirarla fuori quando il timer del forno scattò e in contemporanea iniziò a squillare il telefono.
Alec saltò sul posto, lasciando la lettera e correndo a recuperare il cellulare sul divano e a tirar fuori la sua cena prima di doverla rifare da capo.

«Ja?» domandò stringendo l’apparecchio tra la spalla e l’orecchio.
«È fatta! Bro è fatta! Hanno accettato l’offerta che abbiamo fatto la settimana scorsa! Domani firmiamo i documenti e finalmente avremo casa!»
La voce eccitata ed altissima di Jace gli perforò il timpano ma non poté far a meno di sorridere.
«È una notizia fantastica Jace, congratulazioni, ora sei davvero un bambino grande.» gli rispose con più tranquillità.
La risata del fratello fece allargare il suo sorriso.
«Sono sempre stato un bambino grande io! Porto la pistola e pure il fucile, sono molto più bambino grande di te.» replicò per pura provocazione.
Alec alzò gli occhi al cielo.
«Ho già troppi figli perché tu possa superarmi.» gli fece notare.
Jace rise ancora. «Quello che vuoi, comunque casa è mia! O lo sarà a breve.»
«Spero tu ti sia reso conto d’esser passato, nel giro di due frasi, da l “abbiamo casa” a “casa è mia”. È bello vedere come tu ti sia già dimenticato di Clary.» poi fece una pausa e sogghignò. «Ottima scelta per altro, se chiedi a me.»
Probabilmente se Jace avesse riso un’altra volta con quell’intensità il cellulare sarebbe esploso, ma Alec si disse che valeva la pena rischiare per poter sentire suo fratello così felice.
«La nana rossa lo sa? O posso presumere di essere il primo privilegiato?» domandò poi togliendo la carne dalla teglia e passandola nel piatto.
Non poteva vederlo ma giurò di sentirlo ghignare. «Clary è l’amore della mia vita e tutte quelle cose sdolcinate lì, ma sei stato tu il primo a sapere che ero riuscito a prendere questa di casa, quindi mi è sembrato logico e giusto dirti anche per primo dell’altra.»
Alexander si poggiò al tavolo e abbozzò uno di quei suoi famosi sorrisi storti e dolci che solo pochi eletti meritavano. «Grazie, allora.» soffiò con più delicatezza.
«Ma quale grazie e grazie, sono io che dovrei ringraziare te per avermi sopportato con tutto lo stress di prestito, banche, mutui e ristrutturazioni.»
«Sai perfettamente che per qualunque cosa tu, o i ragazzi, abbiate bisogno ci sono sempre.»
«Lo so, Cap.» rise ancora il biondo.
Il maggiore invece scosse la testa, recuperò al volo la bottiglia dell’acqua e si sedette a tavola.
«Allora, vuoi raccontarmi tutto o devo tirarti fuori la storia con le pinze?»
«Che storia vuoi che ci sia? Mi ha chiamato e mi ha detto che la nostra offerta era la migliore.» si fermò. «Io l’avevo detto a Clary che se avesse lasciato fare a me c’avrei messo due secondi, ma lei all’inizio ha per forza voluto coinvolgere Luke. Perché lui sa come si compra una casa, perché sa come si mette a posto, perché può consigliarci se va bene o meno per noi. E cazzo, allora chiamo anche papà e mamma, visto che anche loro hanno comprato una casa, l’hanno sistemata e avendo quattro figli sanno cos’è meglio per loro, no? Non ho niente contro Lucian, sia ben chiaro, ma vorrei fare questo genere di cose con la mia ragazza, non con suo padre. E soprattutto vorrei essere io a scegliere casa mia. Ti ricordi quella nel Queens? Quella con il giardino condominiale enorme? Ecco, sai perché non l’abbiamo presa? In pratica…»
Alexander mise il vivavoce e poggiò il telefono sul tavolo, annuendo alle parole del fratello e mugugnando versi d’assenso per spingerlo a continuare il discorso, per dirsi concorde con le sue idee e manifestare il suo disappunto quando fosse necessario farlo. Lasciò che gli raccontasse tutto di nuovo da capo, come se non l’avesse vissuto con lui o non l’avesse accompagnato a visitare tutte le case da solo prima di andarci per la visita ufficiale con Clary – e Luke – e si godette la sua cena con il sottofondo della voce animata di Jace, che ora si stava ufficialmente godendo gli ultimi giorni nel suo appartamento da scapolo.
Sorrise infilandosi una forchettata generosa in bocca e si sporse per grattare l’orecchio di Church quando questo saltò sul tavolo, cercando di bere l’acqua fresca nel suo bicchiere.
Avrebbe finito di mangiare, cambiato l’acqua nella ciotola del gatto, sentito suo fratello lamentarsi, criticare e poi emozionarsi per ogni cosa e si sarebbe sorbito anche il piano con cui avrebbe detto a Clary che finalmente casa era loro.
L’angolo destro delle sue labbra s’alzò mentre il sinistro s’abbassava. Era una serata di normale amministrazione, una di quelle in cui gli pareva di non aver mai vissuto nessun evento oscuro del suo passato, una di quelle in cui si sentiva un normale ventisettenne come tutti gli altri. Senza se e senza ma.
Non c’era nulla che potesse disturbare il suo piccolo idillio, persino il caso Cobe non gli sembrava più così pesante. L’indomani sarebbe tornato in ufficio, avrebbe interrogato di nuovo il personale assieme ai ragazzi e avrebbero scoperto la verità sulla morte di quell’uomo. Tutti assieme, come una vera squadra. Avrebbero portato a termine quel primo compito e si sarebbero dedicati al Caso Congiunto, aiutati dalle informazioni che Magnus si era deciso a condividere con loro.
Quando sentiva i suoi fratelli, quando li sentiva così felici, andava tutto bene, gli sembrava quasi di essere invincibile.


Sul tavolo, tra le scartoffie ed i documenti, la lettera dentro alla lettera era stata completamente dimenticata per la seconda volta.











La poltrona era morbida e di classe, anche se forse quell’intero ambiente era un po’ troppo lussuoso. Era il classico ufficio di un uomo che aveva soldi a palate e voleva che tutti se lo ricordassero, qualcuno che amava sguazzare nel lusso, nell’opulenza, nell’autocelebrazione.
La giovane seduta davanti alla grande scrivania dal piano di cristallo, elemento decisamente pacchiano per i suoi gusti, era completamente diversa dall’uomo, completamente estranea a quel luogo.
Doveva aver massimo ventott’anni, di certo qualcosa di meno, ma non pareva proprio una ragazzina. Non era tanto il suo aspetto a dar quest’idea di lei quanto il suo portamento, la sua espressione fredda e concentrata, la voce tagliente e disinteressata, come se tutto quanto non la toccasse, come se non ci fosse alcun modo per metterla a disagio. Era una donna abituata al peggio, temprata da eventi, da azioni, che l’uomo poteva facilmente sfigurarsi.

Forse perché era stato lui stesso ad ordinargliene molti.

Vestiva completamente di nero e di pelle. I pantaloni aderenti si nascondevano dentro i New Rock alti e borchiati, dal carrarmato massiccio e la punta di ferro. Alla vita era legata una cinta da cui pendevano delle catene, un marsupio squadrato era ora schiacciato tra il fianco magro della giovane e il bracciolo della poltrona. La maglia nera e larga ne copriva una seconda a rete fitta, al collo un collare di pelle nero da cui, in completo contrasto, pendevano delicati ciondoli a forma di goccia rossa.
Sulla pelle pallida come quella di un morto – di un vampiro – la trasparenza della pietra giocava riflessi inquietanti ed i capelli biondi che teneva poggiati sulle spalle parevano macchiati da schizzi di sangue.
Il viso fine non era particolarmente interessante, forse era proprio questo suo aspetto animo che le aveva permesso di diventare una dei migliori, una degli imprendibili.

Vampiri veri e propri, che escono solo di notte e vivono nel buio, muovendosi tra le ombre e nutrendosi del sangue delle loro vittime. Non fanno differenza, non fanno sconti, è sopravvivenza per loro.

L’uomo sorrise affabile dalla giovane donna, le mani incrociate e poggiate sul tavolo lucido.

«Il pagamento è stato effettuato, la banca mi ha appena comunicato il completamento della transizione.» spiegò con voce calma e controllata, il tipico tono di chi è abituato a parlare in pubblico, a farsi ascoltare, a farsi obbedire.
Lei fece a mala pena un cenno con il capo, non sembrando minimamente impressionata.
«Quando anche la mia banca comunicherà l’esito positivo del pagamento potremo considerare l’affare concluso.» replicò con altrettanta calma.
«L’accordo sarà concluso quando otterrò ciò che voglio, mia cara.»
Ma la ragazza sogghignò, muovendo solo l’indice per far segno di no. «Se era questo ciò che volevi dovevi specificarlo all’inizio del contratto, non alla fine.»
Una leggera vibrazione le fece abbassare la testa sul telefono che teneva in mano, un vecchio modello a conchiglia con il pannello a scorrimento, un qualcosa che non si vedeva più da anni ormai.
Sullo schermo esterno brillò l’icona a pixel sgranati di una busta da lettera.
Il sorriso della bionda sembrò terribilmente simile a quello di una iena.
«Ora, il nostro accordo è concluso. È sempre un piacere fare a fari con te.» gli disse alzandosi in piedi e stiracchiandosi.
Non porse la mano all’uomo e lui non la porse a lei, rispondendo con uno stesso ghigno privo di risentimento.
«Sto diventando vecchio a quanto pare, non riesco più a metter le clausole giuste al posto giusto.» ironizzò. «Presto potrebbero servirmi alcuni dei tuoi bambini della Notte.» le disse poi più serio.
L’altra annuì. «Sai come contattarci e sai quel è il nostro onorario.»
Arrivata sulla porta si girò per fargli un beffardo cenno di saluto.
«Rosa Nera.» disse educatamente, con quel suo solito tono mellifluo.
«Re degli Insetti.»


Quando la porta si chiuse l’uomo perse immediatamente l’espressione rilassata e piegò le labbra in un ringhio da belva.
Odiava quel nome. Odiava quel titolo.
Erano anni ormai che nessuno lo chiamava più così, anni che aveva impiegato a cancellare quell’orribile nomignolo dalla bocca di tutti e mettervi il nome altisonante, famoso e pulito che brillava sul palazzo della sede centrale della sua industria.
Poi di punto in bianco, da un giorno all’altro, senza avviso, aveva ricevuto una chiamata.

“Un regalino per il Re degli Insetti chiuso nel suo formicaio.”


Questo quello che aveva trovato scritto su di un semplice riquadro di carta di riso posto sotto la giara che aveva trovato nel pacco recapitatogli.
Una giara in cui erano stati stipati a forza insetti saprofagi di ogni tipo. Lunghi lombrichi arrotolati su sé stessi, stretti tra millepiedi, schifose blatte piatte e trasparenti e altri esseri disgustosi di cui ignorava il nome.
Li aveva fatti buttare, il più lontano possibile dai suoi uffici, dal suo palazzo.
Se non fosse stato un “regalo” di Asmodeus, e l’uomo sapeva perfettamente che lui era l’unico a cui era permessa fare una cosa del genere, gli avrebbe dato fuoco. Ma liberarsi in quel modo di un oggetto datoti proprio dal Re – un vero Re, un Re con un titolo altisonante e potente, terribile, spaventoso - era una condanna. A cosa non lo si poteva sapere con certezza, ma lo era.
Ora la giara era posta dentro all’armadio di quello stesso ufficio, svuotata e pulita da quello schifo per ospitare un più ordinato e rappresentativo formicaio in teca.
L’uomo si alzò ed andò ad aprire proprio l’armadio, per poter osservare le sue formiche muoversi nella grande giara scintillante. Sul fondo della stessa, proprio sotto a tutto, sapeva esserci ancora il cartoncino di carta incollato.
Fissò il formicaio senza muoversi.
Se anche la Rosa Nera lo aveva chiamato così significava che sapeva della sua chiamata e se lo sapeva lei lo sapeva tutto il Clan.
Se il Clan sapeva allora significava che tutti loro erano stati convocati.
Se erano stati convocati significava che erano i primi a giocare.
Richiudendo le ante dell’armadio si avvicinò alla grande parete di vetro che s’affacciava sulla città.
Aveva lottato per anni per cancellare quel nome disgustoso dalla bocca di tutti, per far sì che lo considerassero un uomo potente e pericoloso come ogni altro. Ma era bastato poco, pochissimo, per far sapere anche ai più giovani quale fosse l’appellativo che il Re gli aveva dato.
In un secondo era tornato ad essere null’altro che il Re degli Insetti.

Se c’era una cosa che Asmodeus gli aveva sempre fatto capire chiaramente, era che per quanto potesse anche avergli dato il titolo di regnante, rimaneva comunque un insetto.

E gli insetti, i veri Re, li potevano schiacciare sotto la suola della propria scarpa in qualunque momento.

























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Capitolo 14
*** Capitolo XIV- Lealtà. ***


Capitolo XIV
Lealtà.
 
 
Il traffico gli era parso particolarmente denso quella mattina, la marea di taxi gialli aveva bloccato le strade larghe della Grande Mela, una schiera di luci rosse di stop incolonnate le une dietro le altre. Alec era riuscito ad arrivare in ufficio in tempo solo perché usciva sempre presto di casa, l’ansia costante del ritardo codificata nel suo DNA e nei ricordi d’infanzia in cui sua madre gli urlava contro che tardare anche solo di un minuto poteva permettere alla difesa o all’accusa di arrangiare una nuova prova, una nuova teoria.
Mai dare un attimo di vantaggio ai tuoi avversari, di qualunque tipo essi siano.
Forse era proprio in virtù di tutti questi insegnamenti che Alec aveva imparato ad amare sport solitari e calmi come il tiro con l’arco. In quello non c’era l’ansia del tempo, non c’era l’ansia della velocità. Certo, non potevi rimanere le ore su di una sola freccia, ma questo non significava ci fosse una pressante e costante corsa come nel nuoto.
Alexander ricordava con affetto ma anche con un po’ di fastidio quegli anni passati a macinare chilometri su chilometri in una piscina azzurra di mattonelle quasi fluorescenti, con il tanfo del cloro che gli bruciava le narici e lo assuefaceva ad ogni altro odore. Ricordava il suo allenatore sulla sponda, che camminava ad agio mentre lui invece doveva correre, doveva nuotare più veloce. Maggiore estensione delle braccia, colpi più potenti dei piedi. Si respira poche volte, bisogna farsi bastare quella boccata piena d’acqua che si prendeva ogni due andate. Forse era per quello che il suo stile preferito era sempre stato il dorso, un’andatura che gli permetteva di rimanere fuori dall’acqua, lo sguardo puntato verso il soffitto e le luci accecanti che si riflettevano malamente sulle lenti leggermente oscurate dei suoi occhialetti. Non c’era fine con il dorso, non lo vedevi mai il muro finché non lo toccavi, finché non lo intuivi.
Peccato che a lui toccasse sempre lo stile a farfalla quando facevano le dannate staffette…
Stiracchiò il collo entrando nell’ascensore, doveva decisamente tornare a fare un po’ di ginnastica seria, qualcosa che andasse oltre gli esercizi di riabilitazione. Magari sarebbe potuto proprio tornare in piscina, per nuotare finalmente al suo ritmo e non a quello di un cronometro.
O magari, giusto per aver un po’ di compagnia, sarebbe tornato sul ring assieme a Jace. O, se proprio voleva far un colpo di matto, avrebbe chiamato Howard e chiesto a lui quando sarebbe venuto a far una visita alla casa base per riaffacciarsi alla vecchia pista.
In ogni caso, qualunque sogno di gloria avrebbe dovuto attendere la fine del caso Cobe e di tutto quello che ne sarebbe derivato. Ancora prima però, c’era qualcos’altro che doveva trovar risoluzione al più presto.
Uscito dall’ascensore s’incamminò per il lungo corridoio senza neanche fermarsi un attimo alla sua postazione. Sapeva per certo che l’uomo che stava cercando era già nel suo ufficio e prima che potessero arrivare le nuove pratiche della giornata avrebbe potuto rubargli un attimo del suo prezioso e sempre scarso tempo.
Con un cenno del capo salutò la segretaria del Capo Blackthorn e bussò educatamente alla porta, attendendo il permesso per entrare.
Quando la voce dell’uomo lo esortò ad entrare Alexander prese un respiro profondo e mise su la sua espressione più professionale: la giornata era appena iniziata.
 
 
Blackthorn era seduto dietro la sua scrivania, sempre ingombra di carte e fascicoli, alcuni abbandonati sopra la tastiera del computer, altri addirittura sul telefono.
Alexander rimase impassibile, in attesa di un altro ordine per poter spostare le pile di fogli sulle poltrone e poggiarle in un qualunque altro posto.

«È una cosa così lunga da richiedere un posto in cui sedersi o possiamo risolverla velocemente, Lightwood?» domandò l’uomo senza alzare la testa dai documenti.
Alec si mise quasi sull’attenti. «Potrebbe essere una questione lunga ma non ho bisogno di sedermi, Signore.» rispose prontamente. «Ma necessiterei della sua attenzione, questo sì.» aggiunse con un leggero cenno del capo.
Blackthorn annuì. «Inizia allora.»
Alec annuì. «Durante le indagini sul caso Potter sono venuti alla luce collegamenti con vecchi casi, sia della Omicidi che della Narcotici. Esaminando vecchie prove l’agente Morgenstern è entrato in possesso di un oggetto, un biglietto da visita simile a quello dei club, dimensioni quadrangolari, viola, carta spessa con su impressa una rosa stilizzata in nero, che gli ha ricordato un vecchio caso a cui partecipò. In cui rimase coinvolto ad esser precisi.»
«Il caso degli assassini su commissione? La strage del Queens?» domandò alzando la testa dai fogli, senza però posare la penna.
Un altro cenno del capo e Blackthorn lo esortò a continuare.
«Presumo ricorderà che Morgenstern rimase coinvolto in una delle sparatorie finali del caso.»
«Fu praticamente l’unico a salvarsi in quella casa.»
«Così come asserì a suo tempo, mi ha raccontato di esser stato mandato sul retro dell’abitazione, qui è stato colpito alla testa da uno degli aggressori, ma invece d’esser ucciso è stato “graziato”.»
Blackthorn alzò una mano interrompendolo. Gettò la penna sul tavolo e si massaggiò gli occhi già stanchi ad inizio giornata.
«Per favore Lightwood, non dirmi che avete scoperto che il criminale che lo graziò aveva affari con suo padre e solo ed unicamente per questo motivo lo ha risparmiato e non dirmi che avete scoperto che tipo di affari erano. Sono solo le sette e quaranta di mattina.»
Alec drizzò la schiena ancor di più, stirando le labbra in un’espressione che d’espressivo non aveva assolutamente nulla. Andrew si ritrovò a fissare il volto di cera di una maschera funebre e seppe per certo che quello che Alexander stava per dirgli si sarebbe piaciuto ancor meno di quello che lui stesso aveva pronosticato.
«No Signore. Nulla di tutto questo. Morgenstern ha accennato alla questione, si è posto parecchie domande a proposito ma non abbiamo nessuna prova che l’aggressore fosse in qualche modo in affare con Valentine Morgenstern.
Il punto focale di questa faccenda riguarda il biglietto trovato tra le prove provenienti dalla casa di Potter, quelle che la Narcotici ha ispezionato quando hanno fatto irruzione dell’appartamento della vittima e del suo coinquilino mesi dopo la scomparsa di Potter.
Morgenstern giura che il disegno sul talloncino viola sia lo stesso che la ragazza che lo risparmiò aveva tatuato sulla schiena. Gli dissero di non inserire questo particolare nella sua deposizione, e malgrado Morgenstern lo fece ugualmente, nessuno gli diede mai peso perché, viste le circostanza, tutti i detective e gli esperti erano concordi nel dire che con la luce presente sulla scena e la confusione data da un colpo alla nuca non c’era nessuna certezza che avesse effettivamente visto quel tatuaggio o che se lo fosse immaginato.» 
Blackthorn lo guardò con attenzione: gli piaceva decisamente meno. Se quanto affermato da Morgenstern fosse risultato vero significava che quella banda, in affari almeno sei anni prima, era ancora attiva e forse era cresciuta a tal livello da potersi permettere un club o un night con il suo logo.
«È legato al caso Potter in modo diretto?» domandò quindi.
Il detective non mosse neanche un muscolo, parve non respirare neanche. «Potrebbe essere legato ad un giro ancora più grande. Una rete criminale collegata a molte altre.»
«L’Operazione Congiunta con la Narcotici.» sospirò.
«Bane ci ha dato un nome. Se stiamo parlando della stessa banda, e ci sono buone possibilità che sia così Capo, siamo davanti ad un gruppo noto come Night’s Children, lo stesso del caso di Morgenstern.»
Andrew annuì. «Sì, ricordo quel nome. Ricordo anche quello stupido sito web, a suo tempo cercammo anche noi della Omicidi di trovare qualche collegamento con alcune morti apparentemente insensate.» sospirò. «Chiudete al più presto il caso Cobe e poi dedicatevi a questa pista, farò in modo che non vi vengano assegnati altri lavori nel mentre. Ma se dovesse andare troppo per le lunghe e non dovreste riuscire a trovare collegamenti verrete riassegnati al lavoro sul campo. L’Operazione Congiunta è importante ma purtroppo la gente non smette di uccidersi a vicenda solo perché siamo impegnati in altri casi.»
Anche Alec annuì, perfettamente concorde con le parole del suo Capo, ed attese che l’uomo dicesse altro prima d’esser lui stesso a continuare quella conversazione, seppur con un nuovo argomento.
Blackthorn lo conosceva orami da una vita: aveva visto Alec bambino, l’aveva visto liceale e poi matricola. Era nel suo dipartimento che aveva mosso i primi passi da agente semplice, guadagnandosi tutti i suoi gradi, seppur così velocemente. Non gli sfuggì quindi la sua postura rigida, dritta e solenne. Se avevano appena parlato di qualcosa di così spiacevole quanto un collegamento con un caso irrisolto ormai chiuso da anni – qualcosa che a quanto pareva riusciva benissimo ad Alexander – sicuramente ciò che avrebbe voluto dirgli poi non gli sarebbe ugualmente piaciuto.
 
Ed è già la seconda volta nel giro di pochi minuti che succede. Si preannuncia una giornata magnifica.
 
«Cos’altro c’è che ti turba?» domandò quindi con fare quasi rassegnato.
«So che non ho il diritto di chiederle una cosa del genere, ma gli sarei davvero grato se, per il momento, potesse evitare di mettere il Commissario Herondale a parte di quanto le ho appena detto.»
L’uomo rimase per un attimo immobile, alzando lentamente lo sguardo, sorpreso da quella domanda assolutamente insensata e strana, se non sospettosa, postagli da quello che, a conti fatti, reputava uno degli agenti più integerrimi dell’intera stazione. Se non il più integerrimo.
Ma, ancora una volta, Andrew conosceva il “suo Lightwood” e sapeva perfettamente che il giovane gli avrebbe chiesto una cosa del genere solo in due casi: o sospettava che la Herondale c’entrasse qualcosa con quel caso o voleva proteggere qualcuno, forse persino dalla donna stessa. E visto che Andrew sapeva per certo che il suo superiore non aveva nulla a che fare con quel caso, la risposta logica era solo una.
«Perché?» domandò serio, aspettandosi già il tipo di risposta che avrebbe ricevuto.
Alec strinse le labbra, le contrasse in un modo che sapeva quasi di rabbia, quasi di risentimento.
 
Tradimento.
 
Ma non del tipo di cui si era macchiato Valentine, in questo caso era un tipo ben diverso ed il Capo Blackthorn, ex detective, lo poteva vedere chiaramente.
C’erano solo due persone contro cui la Herondale sarebbe potuta andare in modo crudele e diretto, solo due persone che rientravano al contempo nella cerchia dei “protetti” di Alexander Lightwood.
Qualcosa gli diceva che non si trattava di Bane.
 
«L’agente Morgenstern è andato ad informare la Signora degli sviluppi del caso e delle possibili implicazioni. Non ha ricevuto una risposta professionale e non voglio che i miei colleghi, i miei agenti, si ritrovino nella spiacevole situazione d’esser trattati in modo non professionale in una situazione del genere.» rispose secco il detective.
Andrew lo studiò in silenzio, poi annuì. «Te lo ha detto Morgenstern?»
«Nossignore. L’ho dedotto da me. L’agente Morgenstern non ha detto nulla di specifico. Ha detto che è stata solo una perdita di tempo.»
 «Cosa credi possa avergli detto la Signora?»
Alexander lo fissò senza battere le ciglia, alle volte era davvero inquietante, come lo era suo padre quand’erano sotto copertura, come lo era un volto fumoso del suo passato che Andrew non riusciva a mettere a fuoco.
«Nulla.»
La risposta del giovane fu lapidaria e senza possibilità di replica ed il Capo della Omicidi capì perfettamente cosa volesse dire.
 
Morgenstern è andato dalla Herondale per fare la cosa giusta, per dimostrarsi l’agente onesto e attento che troppi lo accusano ancora di non essere, ma anche per aver un consiglio, un’indicazione da qualcuno di decisamente più saggio ed esperto di lui.
Ed Imogen deve avergli detto esattamente ciò che crede Alexander: nulla.
Non si è sbilanciata, non gli ha dato consigli, non gli ha detto cosa fosse giusto fare o meno. Gli avrà detto di parlarne con i suoi diretti superiori e basta.

 
Andrew rifletté su quanto questo evento, quanto l’aver fatto la cosa giusta anche senza ricevere come minimo un segno d’apprezzamento, doveva aver infastidito Morgenstern. L’agente non era suo padre, questo no, ma era palese che alcune caratteristiche della sua personalità erano pressocché identiche a quelle del loro vecchio amico. Andrew ricordava perfettamente come Valentine avesse sempre avuto bisogno di un ideale, di un obbiettivo prefissato da raggiungere per poter andare avanti. Non era tanto difficile ripescare vecchie immagini dal loro passato, il modo in cui Val si impegnasse anche nelle cose che non amava, che non gli piacevano, che reputava inutili ma che altri, invece, credevano essenziali: in quei momento non aveva bisogno di grandi apprezzamenti, di grande ammirazione, necessitava solo di qualcuno di fidato o di più grande che lo guardasse negli occhi che gli facesse un cenno con la testa, che accennasse un sorriso. Che gli facesse capire che sì, aveva effettivamente fatto bene.
Con il tempo la cosa era diventata sempre più palese, sempre più necessaria. Dopo l’Operazione Circle, dopo le morti dei loro amici e la fuga di Asmodeus, per ogni caso, per ogni impiego, Valentine aveva bisogno che qualcuno gli assicurasse d’aver fatto bene. Ad oggi Andrew non sapeva se fossero stati sensi di colpa, se dopo quello sporco tradimento Valentine si fosse pentito e sentisse il costante bisogno d’esser approvato da tutti.
Era ovvio che Jonathan avesse ereditato quel tratto, forse abituato sin dall’infanzia a sentirsi chiedere se le azioni di suo padre fossero perfette e giuste come quelle di madre e patrigno, o forse ricevendo cenni di benevolenza per ogni sua scelta fatta.
Era altrettanto ovvio che Imogen Herondale non gli avesse dato questa soddisfazione, non gli avesse detto che aveva fatto la cosa giusta ad andare a parlare con lei. Era ovvio che non avesse fatto alcun ché.
Guardando Alexander si rese però conto che, a differenza della donna, a differenza di quanto non avessero fatto loro a suo tempo, lui non avrebbe alimentato quel bisogno costante d’approvazione ma non l’avrebbe neanche ignorato.
 
È stato fatto “un torto” ad un suo collega, ad un suo sottoposto, qualcosa che lo ha messo a disagio, che lo ha sconfortato forse, e lui non l’ha accettato. Non lo accetta. Non lo accetterà in futuro.
 
Benedetto Lightwood, giusto e leale fino alla fine. Fino alla morte.
 
«Se l’agente Morgenstern è già andato a parlare con la Signora non vedo per quale motivo dovremmo metterla a parte di qualcosa di cui è già a conoscenza.» gli disse accennando un piccolo sorriso, qualcosa di impercettibile che il ragazzo scorse ugualmente e lo fece rilassare un poco nella sua rigida postura. Era rimasto in piedi, immobile, per tutto il tempo.
 
Ha fatto la sentinella in Afganistan, vestito di tutto punto e sotto il sole cocente, questo dev’esser nulla per lui.
 
Alle volte era incredibilmente facile dimenticarsi che quel giovane dagli occhi cangianti e la palle pallida aveva servito la bandiera anche con un’altra divisa indosso. Alexander aveva visto l’orrore della guerra tra popoli e quello della guerra privata, della morte di massa e di quella mirata, per interesse, per rancore, per soldi. Forse quello era uno dei motivi per cui era sempre così protettivo verso tutti i suoi colleghi, verso tutti coloro con cui aveva collaborato.
Il sorriso sul volto dell’uomo si fece più morbido ed aperto.

«Tienilo d’occhio, però. Ho la sensazione che questa storia lo tocchi più di quanto non voglia dare a vedere.»
«Si sente responsabile in un qualche modo. È il suo conto in sospeso, più di quanto non lo sia suo padre.»
Blackthorn annuì, non si aspettava una citazione così esplicita a Valentine ma era del tutto lecito che Alexander pensasse una cosa del genere e che la confidasse a lui.
Con un altro sorriso appena accennato, Andrew si rese conto d’esser una persona affidabile, qualcuno di cui anche il sospettoso e sempre attento Alexander Lightwood si fidava. Oh, se solo quel ragazzo avesse potuto anche solo intuire tutte le ombre che si nascondevano dietro di lui, dietro quella scrivania e quelle lunghe ore di lavoro. Stava ancora scontando la sua pena, le sue colpe, alternandosi tra i massacranti turni in Dipartimento e quella casa costantemente in disordine in cui ancora risuonavano i passi incostanti di tanti bambini.
Era anche per loro che lo stava facendo, per i suoi figli. Perché un giorno qualcuno avrebbe potuto rinfacciargli tutti i suoi errori e loro avrebbero potuto replicare, dimostrare quanto avesse lavorato sodo per ricucire tutti gli strappi, per lavarsi via il sangue dalle mani.
Andrew Blackthorn era una persona affidabile ed era orgoglioso di esserlo, d’esserlo diventato nonostante tutto.
 
«Tutti noi abbiamo un caso del genere. Conto sul fatto che la tua squadra l’aiuti a mettere un punto alla faccenda. Quanto avrà superato anche questo potrà dedicarsi al suo lavoro e alla sua carriera come meglio crede.» annuì alle sue stesse parole. «Mi aspetto anche aggiornamenti sul caso Cobe, al più presto. Se ricevo un’altra telefonata da qualche personaggio illustre che vuole sapere chi è il mostro che ha ucciso il suo cuoco di fiducia la passerò a te, sappilo.» terminò riprendendo in mano la penna e abbassando lo sguardo sui suoi fogli.
A quel palese congedo Alec rispose con un cenno rigido della testa, nascondendo alla perfezione quanto quella minaccia l’avesse toccato più qualunque altra cosa avrebbe potuto dirgli: Alexander odiava il contatto con pubblico, media e personaggi pubblici forse solo come lui e suo padre facevano.
«Sarà fatto Capo, buona giornata.»
 
  

 
Passato.
 
Il rumore dei singhiozzi era straziante, le faceva venire la pelle d’oca e al contempo una voglia irrefrenabile di tapparsi le orecchie per non sentire più niente. Avrebbe voluto mettere la testa sotto la sabbia, come facevano gli struzzi. Che poi, non riusciva proprio a capire come potessero riuscirci: cosa facevano? Semplicemente caricavano il lungo collo come fa un boxer con un pugno e colpivano il terreno entrandoci dentro con un unico colpo?
Quel pensiero la fece rabbrividire ancora.
Un pugno.
Con mani tremanti, cercando di essere più delicata possibile, la bambina premette la carta imbevuta d’acqua sulla guancia della sua amica. Il piccolo volto pallido di Céline era macchiato da un enorme ematoma rossastro e pulsante, che già iniziava a volgere verso le prime sfumature violacee. Era un rosso intenso e ben diverso da quello che le colorava il naso e gli occhi a forza di piangere. Diverso dal colore che avevano assunto le sue labbra, lucide e spellate, bagnate di lacrime, di moccio e della saliva che le sfuggiva tra un singhiozzo e l’altro.
Non le faceva schifo, si rese conto la bambina, quello che animava il suo corpo era dolore riflesso, dispiacere, pietà e rabbia, tanta, tantissima rabbia.
Come aveva potuto farle una cosa del genere? Come aveva potuto colpirla così forte?
Se fosse stato un loro compagno di classe a farlo, o comunque uno dei bambini della loro scuola, un loro coetaneo, era sicura che il livido non sarebbe stato così grosso. Che la pelle delicata non si sarebbe riempita di venature, spaccandosi lì dove le nocche dovevano aver impattato con più violenza.
Céline era caduta. Aveva sbattuto la testa, sulla tempia sfoggiava un rossore inquietante come quello del suo livido. Aveva delle sbucciature sulle mani perché aveva cercato di difendersi, di coprirsi. Aveva i vestiti sgualciti e le ginocchia rigate di sangue per tutte le volte che era caduta sull’asfalto durante la sua folle e forse sciocca corsa verso casa sua.
In quei giorni precedenti Rose era stata felice, soddisfatta, contenta. Era stata orgogliosa di sé perché i turni di lavoro dei suoi genitori non combaciavano bene con la sua uscita da scuola ma sua madre aveva detto che si fidava a lasciarla un paio d’ore da sola, senza doverla così costringere a restare al doposcuola o a casa di uno dei vicini.
Era sola anche quel giorno, come ogni giovedì, e per la prima volta dall’inizio di quella sua nuova routine, di quelle sue otto ore solitarie settimanali, desiderava con tutta sé stessa che uno dei suoi genitori tornasse prima dal lavoro, che non la lasciasse sola, che non pensasse che stava crescendo e poteva cavarsela. Desiderava che suo padre e sua madre sentissero quella strana sensazione che sentono tutti i personaggi dei libri, dei film e dei cartoni quando qualcosa va storto e che la chiamassero, che corressero da lei per puro sesto senso.
Ma non poteva succedere, loro non sarebbero tornati se non tra più di un’ora e Céline l’aveva implorata di non chiamarli, le aveva stretto le mani attorno al polso e le aveva gridato di non farlo, di non dirlo a nessuno, di non abbandonarla. E lei l’aveva accontentata, terrorizzata all’idea di far solo peggio in quella situazione troppo delicata per delle bambine di undici anni.
Rose buttò la carta nel water e ne prese un altro pezzo per imbeverlo di disinfettante.
«Questo brucia un po’ però se lo fa vuol dire che sta pulendo la ferita.» ripeté a bassa voce il mantra che le riproponeva sempre sua madre.
Céline annuì, tirando rumorosamente su con il naso. Batté le palpebre un paio di volte cercando di contrastare la visuale sfocata dalle lacrime e allungò la mano verso il rotolo abbandonato per terra, srotolando un bel po’ di carta per soffiarcisi il naso.
«Vuoi bere un po’ d’acqua? Così magari non ti fa più male la gola?» propose l’altra ancora.
Ma la bambina scosse la testa, muovendo a mala pena la bocca per dire che voleva starsene lì, starci per sempre.
Fecero proprio così, rimanendo ferme in silenzio, senza sapere cosa fare.
Era ovvio che Céline avesse paura di tornare a casa. Se suo padre le aveva rifilato quel colpo solo per aver dimenticato di chiudere una finestra non voleva neanche immaginare cosa sarebbe successo al ritorno dopo una fuga di quasi sei isolati. Ma dovevano solo tener duro per un altro po’, poi sarebbero arrivati i suoi e avrebbero aiutato Céline come meglio potevano. Ne era sicura.
 
La sua sicurezza vacillò prepotentemente quado la porta di casa si aprì e sulla soglia apparve sua nonna.
Rose la fissò con astio, domandosi come fosse riuscita ad entrare sé il figlio le aveva ripreso la copia delle chiavi che possedeva. Conoscendo sua nonna e quanto fosse infida, la bambina non ci misi molto a capire che doveva essersene fatto un secondo paio. Avrebbe detto subito tutto a suo padre, chiedendogli di cambiare tutte le serrature di casa. Avrebbe rinunciato anche ai suoi regali di compleanno per tutta la vita se la spesa fosse stata troppo costosa. Tutto pur di tenere quel mostro di donna fuori dal suo posto sicuro.
Quella la fissò senza dire una parola, una smorfia infastidita sul volto rugoso e arcigno, così differente da quello della sua vicina di casa che di rughe ne aveva anche il doppio ma malgrado sembrasse un chicco d’uva passa secco era decisamente più gentile e buono del suo.

«Papà non vuole che entri qui.» le disse allungando istintivamente il braccio per tirarsi Céline dietro la schiena.
La donna sbuffò. «Mi darà ragione quando saprà che sono entrata per restituire una figlia a suo padre.»
A quelle parole Rose poté sentire perfettamente le mani della sua amica stringersi sulla sua maglia.
Deglutì: il padre di Céline era lì? Era fuori? Era vicino? Cosa doveva fare? Era un adulto, anzi, erano in due e sua nonna, per quanto vecchia, aveva sempre avuto una presa d’acciaio.
Doveva fare qualcosa, pensò velocemente, doveva proteggere Céline in tutti i modi.
Prese coraggio e alzò la testa. «Céline non può andare a casa con lui. Sta male, non può viaggiare. Può rimanere a dormire qui questa notte e domani la riportiamo noi a casa.» ribatté decisa.
«A me pare che la bambina stia benissimo.» le fece notare la donna avanzando.
Rose fece un passo indietro e spinse l’amica verso le scale.
«No, non sta per niente bene. Non lo vedi che è ferita? Ha mal di testa e tantissima nausea, se va in macchina vomita.» disse salendo un paio di gradini.
«Questo sarà un problema di suo padre e non tuo.»
«Ma non la vedi?» sbottò arrabbiata. «Ha un livido enorme in faccia! Ha battuto la testa! È piena di graffi e di ferite!»
«Un motivo in più per consegnarla a suo pad-»
«Ma è stato lui a ridurla così! È stato lui a picchiarla e farle quel livido!» gridò con quanto fiato aveva in gola, ferma sulla scala, le braccia spalancate per impedire alla donna di allungare anche solo una mano verso la sua amica.
Non voleva dirglielo e non l’avrebbe mai fatto se non fosse stato necessario, ma alla fine non aveva avuto altra scelta se non dire la verità. Chi mai avrebbe mandato un bambino assieme ad un genitore violento?
 
«Significa che se lo meritava.»
 
Quella parole la lasciarono di stucco. Gli occhi sgranati puntati verso il volto impassibile quasi accusatorio di quell’orribile donna.
«Se un padre picchia suo figlio vuol dire che se l’è meritato. I genitori, quelli veri, sanno come farsi rispettare. Bisogna stare al proprio posto, fare quello che ti dicono. La tua amichetta deve aver disobbedito a suo padre, deve aver fatto qualcosa di sbagliato e ora, dopo un bel ceffone, non lo farà più. Ha imparato la lezione. Se anche tuo padre avesse dato a te e a tua madre qualche bel ceffone ogni tanto, ora avrebbe una famiglia decente e non questa cosa
La spintonò di lato e afferrò malamente il polso fino e delicato di Céline, lasciandole subito segni rossi sulla pelle pallida.
Rose provò ad allungarsi, a prendere la sua amica ma uno di quei fantomatici “ceffoni” arrivò anche a lei, facendola cadere da quei tre gradini che ormai la dividevano dal pavimento.
Il sorriso soddisfatto e compiaciuto di quel mostro, il rumore delle scarpe di Céline che stridevano contro le mattonelle, le grida ed i singhiozzi della sua amichetta, furono quello che sognò per i mesi successivi.
Quella fu la prima volta che desiderò fare del male a qualcuno, fargliene sino a sentirlo urlare e pregare come aveva fatto Céline.
Quello fu l’esatto momento in cui decise che un giorno avrebbe ucciso sua nonna e che l’avrebbe fatto lentamente e fra atroci sofferenze come i criminali nei film.
Si sarebbe vendicata per tutto il male che aveva fatto a lei, a sua madre, a suo padre e ora anche alla sua amica.
 
Non aveva idea che sarebbe successo così presto.
 

 
Presente.
 
Alec batté le palpebre una sola volta. Un unico battito e poi aggrottò le sopracciglia. Malgrado ciò il messaggio che brillava sullo schermo del suo telefono non accennava a cambiare o a ricevere rettifiche.
Sulla chat faceva bella mostra di sé l’immagine di profilo di Magnus, correlata al nome decisamente più sobrio con cui Alec l’aveva registrato sul suo telefono. Sotto la barra superiore un paio di messaggi più vecchi, risalenti al giorno prima, e poi quell’ultimo:
 
-Magnus:
“Fiorellino mio bello adorato sorgi e splendi in questo nuovo magnifico giorno [sole][cuore luccicante][faccina sorridente]”
“So che questa notizia ti spezzerà il cuore e che ti struggerai di dolore per tutto il giorno ma mi duole informarti che non potrò rallegrare la tua giornata e dare un senso alla tua vita oggi. [faccina triste] Eventi più grandi di me mi tengono lontano da te, mio bel cavaliere dall’armatura splendente che galoppi incontro la sole sul tuo cavallo bianco.”
“E sappiamo bene quanto tu sia bravo [faccina che ammicca] a cavalcare [cavallo]”


“In pratica quei deficienti dei miei dipendenti hanno fatto casino e ora me ne devo occupare io.”
“Che la pago a fare la gente se poi mi fa danni, Alexander? Perché tutte a me? Sono un brava persona io.”


“All’incirca.”
“Più o meno.”
“…”
 
“Okay, quello era il momento giusto per dirmi che non è così e che sono una persona magnifica sotto ogni aspetto e punto di vista.”
 
 
-Tu:
“Non mentirò così spudoratamente.”
 
 
Si sbrigò a digitare per prima cosa.
 
-Tu:
“Problemi gravi? Hai bisogno di una mano?
Se pensi di sì, chiama Cristiano. Non fare nulla che né io né lui faremo.”

“Non fare nulla e basta.”
 
Lasciò il telefono sulla scrivania e sistemò la pistola nel cassetto. Poi riafferrò lo smartphone e andò a prepararsi un caffè.
 
 
-Magnus:
“AH! Così mi ferisci Fiorellino! [cuore spezzato]”
“In pratica non posso fare niente.”
“Tu e quel rompipalle di un Santiago mi rovinate sempre tutto il divertimento.”
“Tutti i Santiago mi rovinano sempre il divertimento, ad essere onesti. E anche i Lightwood non scherzano.”
“Povera Guadalupe, non se ne salva uno dei suoi figli. Che vita infame che ha avuto quella donna.”

 
“Non è comunque un problema che non abbia già affrontato in passato.”
“Sono un bambino grande io, che ti credi? [cuore][cuore][cuore]”

 
“Di a Sidmund che papà non lo ha abbandonato e allo stronzo platinato di non cantar vittoria e godersi la giornata perché domani tornerò più carico che mai.”
 
-Tu:
“Cristiano è il tuo avvocato, non ti rompe le scatole per nulla.
Sappiamo tutti quanto la tua idea “divertimento” possa esser pericolosa.”
“In ogni caso, se ti serve una mano, chiama.”

 
“E Simon non può sentire la mancanza di papà. Sono qui.”
 
 
Non aspettò una risposta, chiuse la chat, bloccò lo schermo ed infilò il telefono nella tasca dei pantaloni, ignorando le vibrazioni dei nuovi messaggi e preparandosi il suo meritato caffè prima di mettersi a lavoro.
Quella giornata sarebbe stata davvero pesante, dovevano visitare un bel po’ di posti e parlare con fin troppe persone.
Quando tornò alla scrivania e depositò per la seconda volta il telefono sul piano non poté evitare di gettarci un’occhiata. Un sorriso storto ed appena accennato gli tirò le labbra: sotto una valanga di messaggi che non avrebbe letto spiccava un cuore gigante.
Era certo che Magnus se la stesse ridendo alla grande, ovunque si fosse cacciato.
 
 
 
Andrew Forscue era arrivato in perfetto orario, probabilmente anche in anticipo visto il leggero nervosismo che cercava malamente di nascondere.
Alexander lo guardò con tranquillità, cercando di capire cosa potesse renderlo tanto agitato quando, al loro primo incontro, gli era sembrato uno che non mandava le cose a dire, che non aveva problemi a parlare ma solo tanto interesse a farsi capire.
Seduto al tavolo degli interrogatori, con le spalle allo specchio, il detective inclinò leggermente la testa.
 
«C’è forse qualcosa che le preme dirmi, signor Forscue?» domandò con gentilezza, il tono volutamente basso e pacato.
Dietro di lui, poggiato all’angolo della stanza, Jonathan alzò un sopracciglio, fissando il giovane interrogato come un gatto fissa il topo ormai in trappola.
Forscue ricambiò lo sguardo del biondo, un’improvvisa scintilla di sfida a brillargli negli occhi freddi, poi scosse la testa e si concentrò sul detective.
«No, niente di importante, o meglio, niente di pressante.» disse con una smorfia. «So che dovrebbe farmele lei le domande, detective, ma posso fargliene una io prima?» chiese subito dopo.
Alec poggiò le mani sul piano, la posa rilassata e accomodante, del tutto in contrasto con quella che aveva tenuto con la signora Cobe e Kevin J. Al contrario di loro sembrava quasi che Alexander volesse mostrarsi amichevole, coinvolto. Jonathan si domandò se fosse perché davanti a lui c’era qualcuno all’incirca della loro età o se fosse per come l’aveva trattato la prima volta.
In ogni caso, non gli restava che aspettare e vedere.
«Prego, chieda pure.» rispose con garbo.
Forscue si sistemò meglio sulla sedia, sfregando le mani con ansia.
«Avete parlato con sua moglie?» iniziò titubante.
Alec annuì. «Sì, sia con lei che con il signor J.»
«E…avete capito che…?»
«Hanno una relazione?» domandò Jonathan da dietro.
Forscue si girò di scatto verso di lui, gli occhi sgranati e l’espressione tradita. «Cosa?»
L’agente sorrise maligno. «Ops.» ghignò puntando lo sguardo in quello di Alec. L’occhiataccia che ricevette lo fece ridacchiare malgrado la consapevolezza della lavata di capo che si sarebbe preso non appena il testimone fosse uscito dalla sala interrogatori.
«Dalla nostra prima conversazione mi aveva lasciato intuire che ci fosse qualcosa che non andava tra il signor Cobe e sua moglie. Non era questo quello che voleva dirmi?» lo richiamò all’attenzione Alexander.
Forscue si rigirò verso di lui e fece una smorfia tirata. «Non proprio, no. Avevo capito che tra di loro le cose andassero male, ma credevo che fosse solo per i soldi. Cobe non parlava certo delle sue vicende famigliari in cucina e per quanto riguarda J… beh, quell’uomo ha sempre avuto un costante bisogno di denaro per rimediare ai suoi cattivi investimenti, io…credevo che fosse per quello che spalleggiava Felicia, non perché- ve lo hanno detto loro?» domandò poi incredulo.
Lightwood scosse la testa. «Sono stati messi davanti all’evidenza dei fatti e non hanno potuto negare. Perché la preoccupava sapere se avevamo o meno parlato con la signora Cobe?»
Il giovane prese un respiro profondo e si frugò poi nelle tasche del giaccone, tirandone fuori una lettera ripiegata malamente più volte. Non ci pensò due volte a passarla direttamente al detective.
«L’ho trovata sotto la porta di casa mia questa mattina. Non nella cassetta delle lettere, non davanti alla porta o sotto lo zerbino, proprio dentro casa, come se qualcuno ce l’avesse infilata per non farla vedere ad altri. Lo so che le sembrerò paranoico ma ho avuto proprio questa impressione: chi me l’ha portata voleva assicurarsi che arrivasse direttamente a me.» guardò Alec con attenzione, l’ansia che gli si leggeva in faccia finalmente giustificata. «Dopo di me dovrete parlare anche con Martin, Stevenson, no? Quando ho visto chi me la mandava ho fatto uno squillo a lui e mi ha detto che ha ricevuto la stessa lettera.»
Alexander annuì brevemente, le orecchie tese verso il giovane e gli occhi incollati alla missiva.
Non era nulla di strano o di preoccupante, una semplice busta da lettera di buona fattura al cui interno vi era un foglio singolo, di carta spessa e di qualità, su cui era riportato un breve messaggio.
Data la morte del signor Cobe, Bernanrd Mendez, dello studio legale “Mendez St.”, convocava Andrew Forscue nel suo ufficio per faccende legali legate al ristorante.
Con un gesto fluido rinfilò il foglio nella sua busta ed allungò il braccio verso Jonathan. L’altro si frugò nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto o di qualcosa con cui prendere la busta e, trovato un guanto accartocciato, se lo infilò alla bene e meglio per afferrare l’oggetto e portarlo in laboratorio. Quando la porta si chiuse alle sue spalle Alexander tornò a guardare Forscue.


«Glielo restituiremo alla fine delle indagini, se non le dispiace. Non credo sia una prova importante o cruciale, né tanto meno che vi troveremo qualcosa di particolare sopra se non le sue impronte, le mie, quelle del mittente e del postino, è pura routine.» spiegò in breve. «Ora mi dica perché questa lettera le ha fatto pensare alla vedova. Posso presupporre che si tratti della lettura delle ultime volontà del signor Cobe?»
Forscue annuì. «Ascolti, so- lo so che ogni cosa che dico mi fa sembrare più…contrario, a Felicia Cobe, ma cerchi di capire anche il mio punto di vista…»
«Me lo spieghi con calma e non si preoccupi di come apparirà. È il mio lavoro leggere tra le righe.» lo incoraggio con tono gentile.
Il giovane annuì. «Come le ho detto prima e anche l’altro ieri, sapevo che c’era qualcosa che non andava, che era lei a voler spingere per quel pranzo, che Cobe non era d’accordo, ma non immaginavo che lei lo tradisse.» sbuffò, «Certo, questo spiega perché negli ultimi… cazzo! Due anni? È da due anni che quei due se la fanno alle spalle del capo? Davvero?»
«Non è una cosa recente, no.» annuì Alec.
Forscue digrignò i denti. «Le ho detto che è stato Cobe a sceglierci, vero? Uno per uno. Beh, tutti quanti abbiamo paura che adesso che lui è morto e tutto il locale diventerà di proprietà di sua- moglie, chiunque non le stia simpatico o era troppo fedele a lui verrà licenziato.»
«E lei è pur sempre il suo apprendista. Capisco, certo. Pensa che la convocazione da parte dell’avvocato sia per licenziarvi?»
L’altro scrollò le spalle. «Non mi vorrà certo ancora lì, specie quando scoprirà quello che ho detto su di lei, durante gli interrogatori e nel corso degli anni. Ma sa cosa? Non me ne frega niente. Quella donna lo ha tradito per anni, lei e quell’altro se ne stavano sempre nel locale a dettar legge come se fossero i padroni… e io da bravo deficiente non mi sono mai accorto di niente.»
«Non è certo colpa sua se la moglie del suo capo lo tradiva, e mi risulta che invece avesse intuito qualcosa.» gli fece notare.
«Sì, ma non ho capito. Cobe- lui era un mastino, davvero, era burbero e tutto quello che vuole ma- forse il mio è solo attaccamento, non lo so, non glielo so spiegare, ma avrei dovuto far di più. Lui mi ha accolto all’One quando ero a mala pena uscito dall’accademia. Mi servivano soldi, dovevo ripagare il prestito statale, dovevo trovarmi casa, avevo davvero bisogno di un lavoro e mi sono presentato lì per consegnare il mio curriculum anche se non avevo mai lavorato in un ristorante stellato. E le assicuro che nessuno sano di mente avrebbe mai accettato qualcuno come me, al massimo avrei potuto fare il lavapiatti ed ero disposto a fare anche quello. Ma Cobe mi disse che non c’erano “lavapiatti” nel suo locale perché in cucina tutti fanno tutto e che se volevo entrare a far parte della sua squadra avrei dovuto farlo anche io. Capisce cosa intendo? Ho passato mesi a lavare e tagliare verdure, anche a pulire le padelle, ma lo facevo assieme agli altri. All’inizio neanche mi faceva affilare i coltello, beh… ad essere onesti non me lo fa fare ancora, non lo fa fare a nessuno.» disse sorridendo mesto a quel ricordo.
Alec lo guardò per un lungo momento e provò a sorridergli in quel modo impacciato e storto che solo lui sapeva fare.
«I coltelli erano solo di sua competenza?» domandò anche se non gli sarebbe servito a nulla scoprirlo.
Forscue scosse la testa. «Dio santissimo, no, no. Sapeva come fare ma se lo trovavi ad affilare coltelli era solo dopo l’orario di chiusura. È Martin quello addetto alle lame. Lo vedi e sembra un tipo alla mano, uno gentile che non farebbe male ad una mosca. Poi scorpi che sa affilare un coltello da macellaio in neanche un minuto e che una volta se l’è costruito da solo un dannato coltello da sfilettatura perché non ne trovava uno come diceva lui.» poi si bloccò, adombrandosi d’improvviso. «Sono sicuro che cercherà di mandar via anche lui.» borbottò.
«Felicia Cobe? Crede si voglia liberare del signor Stevenson?»
«Credo? Ne sono più che certo, detective. Non l’ha mai sopportato. Dicono che sia perché prima del matrimonio le chiese se avesse davvero capito chi stava per sposare e se c’avesse pensato bene.»
Alec annuì. «Me ne ha parlato, l’ha presa come una minaccia.» disse studiando con attenzione la reazione del giovane.
Quello rise senza divertimento. «Chi è in torto sente tutto come una minaccia.» rispose lanciandogli uno sguardo più che esplicativo.
Alexander non poté che dargli ragione.
«So che ne abbiamo già parlato precedentemente ma mi servirebbe di nuovo la sua deposizione circa gli eventi di ieri. Se le viene in mente qualcosa di nuovo, o delle rettifiche da fare a ciò che ha detto in precedenza, lo faccia senza paura, può succedere di non accorgersi subito di qualcosa o di ricordarlo più tardi, a mente fredda.»
La versione di Forscue però non cambiò di molto. Precisò alcuni orari, alcune persone che avevano fatto qualcosa, commentò alcune voci o suoni che aveva sentito provenire dalla sala e nulla di più.
«Mi conferma quindi che tutti i conti erano in positivo.»
«Sì, so che avete preso la documentazione che era al ristorante ma se vuole le porto anche quella che ho a casa io, forse qualche fattura me la sono portata via e non me ne sono accorto.»
«La ringrazio.» annuì. «Saprebbe dirmi verso che ora è arrivato al ristorante il signor Cobe?» domandò controllando i suoi appunti, tutti i dipendenti asserivano d’averlo già trovato in cucina.
Forscue storse il naso in un’espressione che parlava già di per sé.
«Cobe era sempre il primo ad arrivare, era lui che apriva il locale, lui e nessun altro. Le uniche volte che quelle porte non sono state aperte dalle sue mani era quando si assentava per qualche visita. Ma anche lì, spesso arrivava presto al lavoro, apriva, iniziava a preparare le cose, supervisionava tutti, poi ad una certa ora usciva, andava dal medico e ritornava.»
«Parla del periodo in cui gli fu diagnosticata la polmonite?»
«Quello è stato davvero un brutto periodo. Sembravamo una classe di scolaretti che avevano perso di vista la maestra.» disse ridendo. «Se non fosse stato per Martin saremmo tutti impazziti, penso. C’era sua moglie ovviamente, ma lei non sa come si gestisce un ristornate, non sapeva rispondere alle nostre domande, se un cliente faceva un appunto gli dava subito ragione e dava alla cucina tutta la colpa, ci faceva rifare i piatti e li scalava dal conto. Credo che abbia “offerto” più calici di vino lei in quel periodo che Hamilton in tutta la sua permanenza all’One. E lui è il nostro maître dall’inizio.»
Alexander notò come, dalla rivelazione del tradimento di Felicia Cobe, Forscue non riuscisse neanche più a pronunciare il suo nome. Non voleva chiamarla “Signora Cobe” perché l’avrebbe legata indissolubilmente al suo defunto capo, ma al contempo non aveva la famigliarità giusta per chiamarla con il nome di battesimo. La fedeltà di quell’uomo era quasi esagerata.
«È stata lei ad aprire il locale, in quel periodo?»
La risata che Forscue non riuscì a trattenere gli esplose quasi in faccia. Doveva aver detto qualcosa di davvero divertente.
«Dio ce ne scampi! No, no! Non credo che quella donna abbia mai avuto le chiavi del locale in mano. Cobe poteva sembrare uno che non s’accorgeva di nulla, che non si interessava a nulla che non fosse la cucina, ma la verità è che era un osservatore nato. L’One era il suo bambino, lo trattava meglio delle persone, quasi meglio di come trattasse il cibo. Era un uomo lungimirante ed evidentemente deve averci davvero visto lungo, non si è mai fidato abbastanza di sua moglie da dargli le chiavi in mano.»
«Lei poteva averne una copia.» gli fece notare.
Forscue scosse la testa. «Avrebbe dovuto aver anche il codice per l’antifurto, quello per aprire la cantina, quello dell’ufficio e quello della cucina. Da lì, per farci cucinare, avrebbe dovuto aver la chiave della dispensa e non era nel mazzo delle altre.» gli disse sorridendo quasi orgoglioso di quel fatto.
Alexander alzò un sopracciglio. «Mi spieghi.»
«Abbiamo milioni, davvero detective, milioni di dollari di vini nella cantina. La gente facoltosa vuole la bottiglia più costosa, non gliene frega niente del gusto, sono pochi quelli che distinguono un vino pregiato da uno buono. Però per accontentare la clientela toccava averli, anche se il capo preferiva cucinarci col vino, piuttosto che berlo. E poi in tanti gli regalavano bottiglie costose. Ma la cucina… quella era davvero importante per lui. Quindi chiave e codice per entrare lì e chiave per entrare nella dispensa. Abbiamo tagli di carne e di pesce davvero prelibati. E se il pesce va via in fretta, ce lo portano fresco ogni giorno, la carne può rimanere anche per più tempo.»
«Ma la chiave non è nel mazzo delle altre.» ripeté Alec. «Dove quindi?»
«Neanche io dovrei saperlo, ma una volta eravamo solo io e Cobe e lui mi ha mandato a prenderla. È nell’armadietto di Martin, che ha un lucchetto a combinazione come tutti gli altri.» spiegò con semplicità e soddisfazione. Doveva essere un segreto bello grosso quello, qualcosa che aveva riempito d’orgoglio il cuoco quando il suo capo l’aveva informato.
«Stevenson godeva di grande fiducia da parte del signor Cobe.» notò con voce monocorde.
Forscue annuì con vigore. «Assolutamente. Facevano una strana accoppiata, sa? Uno pareva sempre arrabbiato e l’altro costantemente annoiato. Sembra che Martin non abbia mai voglia di fare nulla, che per lui tutto sia semplice, che non bisogna agitarsi o simili. Ha presente il classico stereotipo del fattone? Quello che ti dice che nulla è tanto importante da farti scoppiare una vena?»
«Ho presente il tipo, sì. Ma per quello che ho potuto constatare, il signor Stevenson non è così.»
«No, non è per niente. È solo un tipo tranquillo che ha imparato che “farsi scoppiare una vena” non aiuta a risolvere i problemi.»
«Lui e Cobe erano molto uniti?»
«Non proprio. Gliel’ho detto, fiducia assoluta, il solo ad avere le chiavi della dispensa, ma non li definirei uniti. Erano buoni amici ma non avevano un rapporto troppo intimo. Non erano amici della domenica, non facevano vacanze assieme. Per lo meno non se c’era la moglie del capo, visto che quei due non potevano vedersi. E poi Hugh non si è mai preso un giorno di ferie se non per la polmonite.»
«Sa se assumeva farmaci, se aveva qualche vizio? Fumava? Un bicchiere dopo il lavoro, dopo i pasti, cose del genere che si ripetevano giornalmente?»
«Non ricordo se me lo ha già chiesto lei o l’altro agente, ma no. Il fumo rovina gusto e olfatto, se si prendeva una birra, un bicchiere di vino o simili era con noi dopo aver messo in ordine la cucina ma non era una cosa abituale. Per i medicinali… so che ne ha presi ma non saprei dirle se lo faceva ora. Il capo è sempre stato molto riservato, ti dava tutto della sua vita tra i fornelli ma non di quella privata.»
Alexander annuì. «Un’ultima domanda: mi assicura che tutti i presenti, i fornitori e le merci sono le stesse di sempre? C’era un nuovo corriere, un fattorino mai visto, una scatola diversa dal solito anche solo per un’etichetta, qualche sigillo rovinato…»
Con un sospiro pesante Andrew Forscue scosse la testa. «Mi spiace, vorrei dirle di sì ed indicarle il bastardo che ha fatto questo a Hugh…ma non c’era nulla di diverso dal solito, tutto perfetto come sempre. L’altro ieri era- era un giorno come un altro di lavoro, solo poco gradito.» terminò abbassando il capo. Lo sentì tirare su con il naso e poi guardarlo dritto negli occhi.
Aveva uno sguardo fermo, triste ma deciso, lo sguardo di qualcuno che spera in qualcosa pur avendo la completa certezza che ciò non sia possibile.
«L’hanno proprio ammazzato, quindi? Non è stato un incidente, cause naturali?»
Alexander aveva dato quella notizia centinaia di volte, il tempo non lo rendeva più semplice.
«Mi spiace, signor Forscue, Hugh Cobe è stato ucciso, ma le assicuro che sono più che intenzionato a scoprire chi è stato.»
 
 
 
Quella mattina Martin Stevenson sembrava più stanco rispetto alla volta precedente.
Non si era perso in chiacchiere, anche se il suo viso era rimasto sempre bonario e rilassato si era dimostrato attento e accurato nel riportare per la seconda volta gli eventi e a precisare particolari dimenticati.
Aveva subito consegnato la sua lettera a Jonathan, per nulla spiegazzata e inserita addirittura in una cartellina per tenerla al sicuro.
Non aveva nulla di differente rispetto a quella di Forscue, se non fosse per le terribili condizioni in cui si trovava quella del giovane, e chiedeva a Stevenson di presentarsi nello studio legale per discutere di questioni inerenti al ristorante. L’unica nota nuova era un appunto in cui l’avvocato ricordava al cuoco di dover esser presente anche per le future questioni legali inerenti il ristorante, in quanto proprietario di una percentuale sul locale.

«Lei è già stato dall’avvocato Mendez?» domandò Alexander scrutando con attenzione l’uomo.
Quello annuì. «Sì, firmai il contratto da lui e ci tornai per altre vicende legate al ristorante.»
«Vicende di che genere?»
«Oh, quando Cobe rifece l’assicurazione, dovevo firmare anche io. Credo una volta anche per delle fatture particolari per la nuova cella frigorifera? Ci sono ganci in grado di reggere il peso di uno squalo lì dentro, posso capire che lo Stato voglia qualche assicurazione legale su chi le compra.»
«Foscue mi ha detto che lei è l’addetto ai coltelli, ha un regolare porto d’armi bianche?»
Stevenson rise divertito. «So che le potrà sembrare assurdo, tenente, ma ai cuochi non è richiesto il porto d’armi se si dimostra che i coltelli li si usa in cucina. Non abbiamo bisogno di permessi speciali come gli atleti. Ci vengono richiesti solo per viaggi in aereo o su nave, o se bisogna spedirli.»
Fu il turno di Alec di annuire. «Malgrado ciò sono innumerevoli i casi d’omicidio avvenuti con utensili da cucina. Fortunatamente non è questo il nostro caso o lei sarebbe in cima alla lista degli indiziati.» lo informò senza mezzi termini.
Stevenson lo guardò improvvisamente cupo. «È sicuro allora, lo hanno ucciso? Assassinato?» gli chiese serio.
«Purtroppo sì.»
«Se le chiedessi com’è morto me lo direbbe? Se ha sofferto?» continuò l’altro.
Alec fece un lieve cenno con la testa. «Avvelenamento. Non nel senso stretto del termine, gli è stato somministrato un forte anticoagulante.»
«E ha sofferto molto?»
Il detective lo fissò in silenzio, senza batter ciglio. «Aveva perso conoscenza, ma è morto soffocato.»
Non c’era bisogno di dire altro, di specificare quando fosse terribile una morte del genere.
«Capisco, grazie.» mormorò appena.
«Mi ha detto che lei e Cobe eravate amici di vecchia data, si confidava con lei?»
Stevenson sospirò. «Se ha già parlato sia con Felicia che con Kevin e mi sta chiedendo questa cosa significa che quei due hanno avuto almeno la decenza di non nasconderle la loro relazione?»
«Se lo sapeva perché non me l’ha detto?» chiese pacato.
L’uomo accennò un sorriso. «Rispetto?»
«Non voleva che il giorno della sua morte la gente sapesse che il signor Cobe era stato tradito?»
«Le posso far notare che ha subito pensato che il mio rispetto fosse per Hugh e non per Felicia?»
«Non vi piacete, me lo ha ripetuto più di una volta.» gli rispose a tono, facendolo sorridere con un po’ più di convinzione. «In ogni caso, la signora Cobe e il signor J sono alquanto palesi.»
«Glielo ha tirato fuori con le pinze, tipico di quei due. So cosa sta per chiedermi e sì, Hugh sapeva che Felicia e Kevin lo cornificavano allegramente. Solo uno stupido avrebbe potuto pensare di scappare dall’occhio di falco di Hugh Cobe.» poi, notando il volto inespressivo di Alexander ridacchiò. «Due stupidi, a quanto pare.»
«Da quanto era a conoscenza della loro relazione?»
«Io o Hugh?»
«Entrambi.»
Stevenson sembrò pensarci su. «Dopo il famoso litigio ho sospettato qualcosa, non so se Hugh avesse già capito ma volesse ignorare la cosa o meno. Di certo lo sa da dopo la malattia.»
«La signora Cobe ha affermato che, per un periodo, le cose sembravano tornate come prima.»
L’uomo annuì leggermente. «E per un po’ è stato così. Penso abbiate parlato con il suo medico o che comunque foste a conoscenza delle sue condizioni.» chiese discreto.
«Le cartelle mediche dovrebbero arrivare in giornata, ma il medico legale ha già effettuato l’autopsia, riscontrando gravi danni ai polmoni.»
«Sono come delle masse tumorali, ma non proprio dei tumori, noduli o cisti enormi che si avviluppavano ai polmoni. Me lo ha detto, il temine medico, ma non riesco proprio a ricordarlo.» sorrise amaramente. «La polmonite fu provocata da quelle, è stata una conseguenza indesiderata. Quando riuscì ad uscirne per un po’ tutto tornò alla normalità, ma poi, durante una visita di controllo, trovarono di nuovo queste masse. Il medico gli disse che si sarebbe dovuto far operare, che si sarebbe potuto salvare solo così.» mormorò in fine.
Il detective captò un “ma” non detto in quella frase, come se Stevenson non avesse voglia di raccontare il resto della storia. Così lo incoraggiò.
«Ma?»
Lo sguardo che l’altro gli lanciò era quello tipico di chi sa di non esser riuscito a fregare il proprio interlocutore.
«Ma l’operazione era rischiosa, la posizione delle cisti era particolarmente ostica e c’era la seria possibilità che non funzionasse, che non bastasse o che, addirittura, avrebbe dovuto ricevere un trapianto di polmoni. Hugh era uno di poche parole, pratico, questo lo descrive meglio di molti altri aggettivi. Hugh era pratico e quando il dottore gli disse che l’operazione era rischiosa, che avrebbe potuto esser vana e che a quel punto solo un trapianto sarebbe servito, beh, lui semplicemente chiese quanto gli rimanesse e decise che quel tempo gli sarebbe bastato.»
«Non voleva farsi operare?»
Stevenson scosse la testa. «La preospedalizzazione, il ricovero, la degenza e poi la riabilitazione, l’avrebbero tenuto lontano dalla cucina per troppo tempo. Mettersi in lista per un trapianto avrebbe ne avrebbe richiesto ancora di più e a quel punto sarebbe stato probabilmente troppo debole per cucinare. No, tenente, assolutamente no. Mi disse che la sua vita se l’era fatta e che si sarebbe goduto quello che gli rimaneva come avrebbe voluto: cucinando.»
Alexander annuì piano, pensieroso.
Cobe era malato, aveva una scadenza già annunciata e aveva deciso di finire i suoi giorni facendo ciò che più amava. Ma se la sua situazione era così critica, perché sua moglie non gli aveva detto nulla? O meglio: perché Cobe stesso non aveva detto nulla alla moglie?
«Sa perché la vittima non abbia comunicato la notizia a sua moglie?» chiese anche se una vaga idea poteva già essersela fatta.
Stevenson confermò solo i suoi sospetti. «Sapeva che Felicia e Kevin lo tradivano, sapeva che se fosse diventato troppo debole per poter dirigere il ristorante questo sarebbe definitivamente caduto nelle mani di quei due e, anche se non me lo ha mai detto esplicitamente, credo temesse che lo facessero dichiarare incapace di intendere e volere, magari con la scusa dei medicinali, e preso anche la sua parte del ristorante.»
«Temeva che potessero sottrargli la proprietà del ristorante?» domandò accigliato.
L’altro si stinse nelle spalle. «Sono solo mie supposizioni, detective, non mi ha mai detto nulla esplicitamente.» poi parve tornargli in mente qualcosa. «Però… prima della storia del pranzo, Hugh mi pareva molto concentrato su qualcosa. Aveva la stessa faccia di quando venne a dirmi che voleva aprire un ristorante in America. Era determinato. Aveva qualcosa per la testa. Poi Felicia gli ha parlato del pranzo e tutto è andato… com’è andato.»
«Il signor Cobe aveva fatto testamento, presumo?»
«Sì, ma da quel che so io voleva rifarlo. Andava spesso dall’avvocato, credo stesse preparando i documenti del divorzio. Voleva fare in modo e maniera che, alla sua morte, Felicia non avesse il potere di richiedere anche il suo 75% di proprietà sul locale. Per quel poco che mi ha detto, se le cose fossero andate per il verso giusto, Felicia avrebbe rischiato anche di perdere quel 20% che le era tanto caro.» concluse l’uomo fissandolo dritto negli occhi, senza remore, senza pentimenti.
Alexander resse il suo sguardo con serietà, con quel volto così inespressivo ma solenne che tanto sarebbe stato bene su di una statua.
«Spero lei si renda conto che mi ha appena fornito un movente più che valido per arrestare Felicia Cobe.»
Martin Stevenson annuì, un singolo cenno secco con il capo.
«Non c’è pietà per chi tradisce.»

Quelle parole rimbombarono nella testa di Alec per tutta la giornata, probabilmente le avrebbe ricordate per tutta la vita.
 



 
Simon alzò lo sguardo dal computer, tirandosi su gli occhiali con un gesto distratto ed automatico.

«Abbiamo nuove piste?» domandò sporgendosi verso il tenente.
Alexander annuì. «Forscue non ci ha detto nulla di troppo rilevante, in realtà. Fortunatamente Stevenson è stato più attento ed era anche più vicino alla vittima.»
Jonathan si lasciò cadere sulla sua sedia, posta davanti alla scrivania che avevano trascinato davanti a quella di Alec, ed incrociò le braccia al petto.
«Decisamente. Quel Forscue, era sicuramente molto attaccato al suo capo, ma non è mai stato in grado di capire quando quello fosse vicino a Stevenson.» asserì con una smorfia di disapprovazione.
«Dovevano essere entrambe persone molto discrete.» convenne Alec.
«Cosa sappiamo quindi?» chiese ancora Simon.
«Che a differenza di quello che credevano la mogliettina ed il migliore amico, il nostro caro cuoco sapeva eccome che i due gli mettevano le corna.» iniziò divertito il biondo. «Lo sapeva talmente bene che stava preparando i documenti per il divorzio.»
Simon alzò le sopracciglia, lasciandosi scappare un fischio di sorpresa. «Diamine, è peggio di una telenovelas!
Lei lo tradisce con il suo migliore amico, crede che il marito non sappia nulla ma in realtà lui sa tutto e vuole chiedere il divorzio-»
«Va addirittura dall’avvocato cercando un modo per estrometterla del tutto dal ristorante e toglierli anche quel 20% che si è presa con il matrimonio.» precisò Jonathan.
«-vuole anche togliergli le sue quote sul ristorante! E mentre il marito tradito prepara la sua rivincita, muore.» Lewis rimase per un attimo in silenzio, aspettando che i suoi colleghi lo correggessero su qualche punto. Quando non lo fecero prese un respiro profondo.
«È una mia impressione o la cosa sembra troppo “conveniente” per essere un incidente? Per esser una concomitanza d’eventi?»
«Che sia omicidio non c’è alcun dubbio.» disse Alec esaminando le cartelle che aveva trovato sul tavolo. «Che sia troppo perfetto per non dubitare della signora Cobe anche.»
Jonathan emise un grugnito infastidito. «Perché la gente deve essere così palese? Andiamo, almeno provaci a mascherare la cosa! Assolda qualcuno per ammazzarlo invece di farlo morire davanti a tutti quei testimoni che potevano giurare che stesse benissimo solo un attimo prima! Una rapina finita male avrebbe portato meno sospetti su di lei e sul suo amichetto.»
«Per nostra fortuna, purtroppo, le persone tendono ad essere banali o troppo macchinose. Entrambe le situazioni vanno a loro svantaggio.»
«In ogni caso abbiamo avuto la dimostrazione che anche commissionare un omicidio non ti assicura né la riuscita del piano né la salvezza.» disse Simon stringendosi nelle spalle. Poi s’illuminò. «A proposito di omicidi su commissione andati male-»
«No, non abbiamo grandi novità sul Caso Congiunto.» borbottò Morgenstern.
L’altro fece un smorfia ma scosse subito la testa. «No, comunque non volevo chiedere questo.» si voltò verso Alec. «Mags?» domandò solo.
A quella domanda il moro alzò gli occhi dai fascicoli, la mano che correva inconsciamente alla tasca della giacca in cui teneva il telefono. «Mi ha mandato un messaggio questa mattina, ha avuto dei problemi con il locale, oggi non sarà dei nostri.»
«Che problemi?»
«Non ha specificato, ha solo detto che non è nulla di cui preoccuparsi e che se n’è già occupato in passato. Qualcosa contro la gente che lavora per lui e non fa le cose come dovrebbe.»
«In pratica, qualcosa di illegale.» sintetizzò Jon, «Posso dirlo a Lucian e spedire ad arrestarlo?» chiese battendo le ciglia in modo infantile.
Alec lo guardò quasi schifato. «Sei inquietante, smettila. E comunque, ti ricordo che ha un accordo con il Dipartimento, non andrebbe in prigione in ogni caso.»
«Ma potrebbe farlo alla fine del suo accordo. O pagare una bella multa.» continuò quello sognante sfregandosi le mani. Fece anche per prendere il proprio cellulare ma l’occhiataccia di Alexander lo fece desistere.
Sbuffando infastidito, come un bambino a cui era stato appena negato un gioco, incrociò di nuovo le braccia al petto e guardò il suo capo.
«Cosa vogliamo fare, allora?» domandò scocciato.
«Essere professionali e risolvere il caso sarebbe un buon inizio.» lo redarguì.
Jonathan alzò gli occhi al cielo ma non protestò, mettendosi seduto ben eretto e poggiando le mani sul piano.
Se Alec approvò quell’azione non lo diede a vedere.
«Andiamo a parlare con l’avvocato Mendez, chiederemo a lui dei documenti del divorzio e delle pratiche legali che Cobe stava portando avanti per riprendere la quota di sua moglie.» Si alzò dalla poltrona, ripescando la pistola dal cassetto e sistemando per bene il distintivo. «Simon, i controlli incrociati sui dipendenti e sui fornitori?»
Il giovane batté veloce sulla tastiera del suo portatile. «Nulla di strano o di sospetto. Non sono tutti degli angioletti immacolati, questo no, ma non ho trovato niente di serio o interessante.»
«Esplica.» disse l’altro secco.
«Multe, ritardi nel pagare le bollette, parlo di piccole more per aver superato la scadenza, non rifiuto di pagamento. Pare che Forscue da giovane si sia passato qualche nottata in cella per insulto a pubblico ufficiale, ma da quando ha iniziato l’accademia di cucina sino a quando ne è uscito ha imparato a non rispondere male alla gente.»
«Se ci fosse Bane qui ci direbbe che quegli agenti se lo dovevano esser sicuramente meritato.» ghignò Jonathan. «Spesso è vero.» concluse quasi gongolando.
Alec neanche lo guardò. «Fingerò di non averti sentito nominare Magnus l’unico giorno in cui è assente, come se ti mancasse.» frecciò freddo.
Il biondo lo guardò scandalizzato ma non osò rispondere.
«Per i fornitori: abbiamo qualche fattorino arrestato in gioventù, e non solo fattorini eh. Poi c’è un tipo che si è fatto una paio d’anni per una rissa-»
«Wow e a chi l’ha dato il pugno?»
«Nipote di un avvocato. Ma si tratta comunque delle solite cose. Risse da bar, tamponamenti, incidenti perché il guidatore era al telefono o distratto, ha ignorato le segnaletiche, è passato con il rosso. Sono centinaia le persone che lavorano in ogni filiera e non possiamo sapere con certezza chi sia entrato o meno in contatto con la vittima, ma, di fatto, non abbiamo nulla che non rientri “nella norma” per così dire.»
«Legami con bande?» domandò Jonathan.
«Non è quella la direzione giusta.» affermò sicuro Alec. «La vittima era una persona onesta, o quanto meno con sani principi, non avrebbe mai preso accordi con una gang, non era nel suo carattere.»
«Magari è stato minacciato.» propose ancora il biondo.
Alec scosse la testa. «So che questo è il tuo campo e ti viene naturale pensare in quella direzione, ma non è il nostro caso. Cobe era stato gravemente malato, ha scoperto di aver poco tempo ancora da vivere, che fossero stati anni o mesi non lo possiamo dire. Sua moglie lo tradiva con l’uomo a cui aveva prestato sempre grandi somme di denaro. Prepara il divorzio e gli viene somministrato un forte anticoagulante che provoca emorragie interne. Non è lo stile di una gang.»
Jon dovette dargli ragione, ma ugualmente non parve convinto e per Alec non fu difficile notalo.
«Cosa c’è?» gli chiese infilandosi il cappotto.
Il biondo abbassò un attimo il capo, pensoso. «Il veleno di solito è un metodo femminile.»
«È più usato dalle donne, sì. Per quanto una donna possa esser forte non sempre può aver la meglio in un combattimento corpo a corpo. Ma non si tratta di veleno.»
«Non lo è, no, ma è una forma di avvelenamento. Chiunque deve averlo ucciso doveva sapere l’effetto che avrebbe avuto.»
«O magari non pensava che sarebbe successo, o che sarebbe stato così violento.» propose Simon.
«Fare supposizioni, ora come ora, non ci aiuta. Se vagliamo troppe ipotesi senza delle basi su cui poggiarle non faremo altro che confonderci da soli. Morgenstern, io e te andremo da Mendez, ci saprà sicuramente dire di più. Lewis, ricerca a tappeto, chiunque abbia studi o formazioni mediche, abbia famigliarità con medicinali, possa accedere a farmacie e depositi. Controlla anche chi assume anticoagulanti, ricette mediche e medici firmatari. Cerca anche se, di recente, sui giornali si è parlato di questi medicinali o di qualche morte sospetta avvenuta per colpa di questi.»
«Credi che ci sia qualcuno che ammazza la gente così? Tipo un serial killer?» domandò Simon sorpreso.
Alexander abbozzò a mala pena un sorriso. «No, nessun serial killer. Ma come ho già detto, la gente non ha molta fantasia. Se è la prima volta che si uccide si tende a farlo nei modi più diretti o semplici. Arma da fuoco, accoltellamento, armi contundenti, veleno vero e proprio. Se fosse stato un cocktail di farmaci già sarebbe stato più normale, ma l’anticoagulante è troppo specifico.»
«Pensi che qualcuno possa aver letto un articolo e preso ispirazione?» chiese Jonathan.
Il moro annuì. «È un omicidio premeditato.»
Morgenstern ghignò. «E gli unici che, attualmente, ricaverebbero qualcosa da una disgrazia del genere sono la moglie fedifraga e l’amico traditore. Beh, non ci rimane che scoprire come hanno fatto, allora.»
 

 
 
L’ufficio in cui furono fatti accomodare era sobrio e funzionale.
Alec aveva passato tutta la sua infanzia nello studio di un avvocato, di un procuratore, per poi farvi più di una semplice incursione anche durante l’adolescenza e gli anni dell’accademia. Ma l’ufficio personale di Maryse Trueblood in Lightwood era decisamente più formale e quasi minaccioso rispetto a quello dell’avvocato Mendez.
Lo studio di sua madre era stato arredato per mostrare a chiunque vi entrasse che, lì dentro, non si scherzava, che la serietà camminava di pari passo alla legge, all’integrità, alla spietatezza. Non c’era posto per sentimenti impietosi, per il dispiacere per l’avversario: il Procuratore Generale di New York City non perdonava, applicava la legge così com’era, senza sconti.
Per Alec era sempre risultato piuttosto ironico questo punto: sua madre non risparmiava nessuno, così come ogni buon avvocato che aveva conosciuto, ma la verità era che la loro professione si basava su accordi e cessioni, su attacchi violenti e quasi crudeli e accorate arringhe in cui anche il peggiore dei criminali poteva passare per innocente vittima del fato. Se c’era un motivo specifico per cui non avrebbe mai accettato di fare questo lavoro era proprio quello: Alexander non sarebbe stato in grado di fingere, non qualora fosse stato consapevole della colpevolezza del suo assistito.
L’aria che si respirava nello studio di Bernard Mendez era del tutto diversa però. Non si sarebbe minimamente stupito se, a stringergli la mano di lì a poco, fosse stato un vecchietto curvo e rugoso che, con tutta probabilità, era vecchio già all’epoca di Kennedy.
L’avvocato Mendez, in effetti, non si discostava troppo da quell’immagine. Era un uomo sull’ottantina andante, qualcuno che, palesemente, non si occupava più delle cause in prima persona ma trattava contratti, testamenti e accordi. Non era un uomo da pulpito, o per lo meno non lo era più.
Proprio come il suo ufficio Mendez era sobrio e pratico, doveva esser stato molto distinto da giovane ma il peso degli anni si poteva leggere nelle rughe profonde e nelle spalle leggermente ricurve. Gli occhi scuri erano scoloriti dall’età, un po’ come la poltrona di pelle, perfettamente tenuta, su cui si accomodò facendo loro cenno di fare lo stesso.
Le mani dalle unghie curate erano piene di rughe, centinaia di grinze che s’intrecciavano le une alle altre e che somigliavano in modo quasi ironico alle screpolature sulle cerniere dei libri esposti nelle grandi librerie. Alexander si ritrovò ad apprezzare quel piccolo dettaglio: significava che tutti quei tomi costosi non erano lì solo per far bella figura ma che erano stati utilizzati, consultati sino a rovinarne la rilegatura in pelle.


«Prego detective, chiedetemi tutto ciò che volete sapere, cercherò di essere il più esaustivo possibile.» disse con tono calmo.
Alec lo ringraziò con un cenno del capo. «Il signor Cobe era suo cliente da molto?»
«Era mio cliente da quando aprì il ristorante, sì.»
«Quindi ha sempre curato lei tutti i suoi interessi legali?»
«Assolutamente. Dalla licenza per la ristorazione a quella per la compravendita all’ingrosso. Tutti i contratti con i fornitori e con i dipendenti.» annuì indicando una pila ordinata di cartelle beige.
«Anche la cessione del 20% a Felicia Cobe dopo il matrimonio?» domandò senza nascondere minimamente la direzione in cui stava portando quella conversazione.
Mendez lo fissò attento da sotto le ciglia ormai biondicce. «Quello e anche i documenti per il divorzio. Presumo che per voi non sia una sorpresa, dico bene?»
Alec asserì con il capo. «Ne siamo a conoscenza. Il signor Stevenson ci ha informati della decisione del suo datore di lavoro. Da quanto la pratica è avviata?»
L’uomo pescò a colpo sicuro una delle cartelle e la porse ad Alexander, che la esaminò con attenzione pur continuando a prestar orecchio alle parole dell’avvocato.
«Il signor Cobe è sempre venuto da me ogni qual volta trovasse necessario spostare grandi somme di denaro. Non era un esperto di borsa, quindi era più che comprensibile la sua perplessità nel volersi assicurare che i suoi prestiti fossero, per così dire, “legali” e soprattutto non danneggiassero il ristorante Non era una persona molto attaccata al denaro, ma era attento ad aver sempre una certa somma per poter supportare qualunque imprevisto. Questo è un piccolo studio, non abbiamo grandi affiliati ma siamo in grado di offrire sostegno ai nostri clienti sotto ogni punto di vista. Il secondo plico di fogli è relativo alle ricerche di mercato e ai traffici bancari. È stato redatto dal nostro contabile, il signor Davis. Se può esservi utile si trova nell’ufficio in fondo al corridoio.» spiegò indicando vagamente i fogli interessati.
«Sa dei prestiti che il signor Cobe faceva a favore di Kevin J?» chiese Jonathan sporgendosi per leggere i dati più interessanti. Alec gli passò la cartella, sicuro che l’altro ne avrebbe capito più di quanto non avrebbe mai fatto lui: finché si trattava di leggi e cavilli legali Alexander era abituato a seguire anche le più contorte trovate, ma i numeri e i problemi bancari non erano propriamente il suo pane quotidiano. Morgenstern, a differenza sua, era sempre stato estremamente portato per la matematica, ricordava ancora le gare di simulazione di gioco in borsa che facevano alla Idris, sarebbe stato davvero un ottimo agente.
Il giovane si mise a controllare con attenzione tutti i dati ed Alec riportò la sua, invece, su Mendez.
«Certamente. Come so che dopo la malattia che l’ha colpito due anni fa, e che lo portò a fare testamento, smise di prestare denaro al suo amico. Questo non impedì alla signora Cobe di continuare a farlo, secondo lei, alle spalle del marito.»
«Cobe sapeva che la moglie prestava denaro al Kevin J?»
Mendez annuì. «Quando si sono sposati hanno deciso di creare un conto congiunto, ma ciò che la gente non comprende è che, anche se si chiede discrezione alla banca, se l’altro cointestatario si presenta in sede e domanda un resoconto degli spostamenti finanziari, questo gli venga dato senza problemi. Non mi è stato detto direttamente dal signor Cobe, ma mi è stato dato ad intendere che sospettava che sua moglie aiutasse il loro comune amico a restituire i suoi affari fallimentari senza dirgli nulla. Ha chiesto più di un controllo dei fondi, ne abbiamo noi la documentazione ufficiale, il signor Cobe ha preferito lasciarli qui.»
«Faranno parte delle prove che avreste portato per il divorzio?»
«Che “porteremo”, tenente.» specificò l’avvocato.
Alec lo guardò sinceramente sorpreso. «Come?»
Mendez intrecciò le mani annuendo con serietà. «Era desiderio espresso del mio cliente che tutta la proprietà per cui aveva lavorato duramente nel corso della sua vita fosse sottratto alle mani di sua moglie. Nelle richieste del divorzio, quelle che la parte lesa di solito è portata a chiedere per diritto di risarcimento dei danni morali, fisici ed emotivi, il signor Cobe non chiedeva la proprietà della casa coniugale, o delle macchine, dell’appartamento a Los Angeles, di quello in Canada. Non chiedeva la proprietà di nessuno dei bene che vengono solitamente richiesti. Il signor Cobe richiedeva solo la cessione delle quote del suo ristorante. Era intenzionato in tutto e per tutto a riprendersi ciò che era suo, soprattutto visti i modi in cui la signora Cobe si era sempre relazionata all’One.»
«Non voleva che la sua creazione fosse anche solo in minima parte appartenete alla moglie, è logico, ma non vedo come questo possa esser possibile.» disse sinceramente.
L’avvocato gli sorrise. «Vede, quando avviene un divorzio solitamente chi “prende” gli alimenti è chi ha la disponibilità economica minore e la necessità maggiore. Le faccio un esempio: nel caso ci siano bambini, gli alimenti e la spartizione dei beni avviene, in un mondo ideale, in modo che i figli della coppia possano continuare a godere del medesimo stile di vita seguito sino a quel momento. Devono essergli assicurati un domicilio, una casa, alimentazione, vestiario, cure mediche ed educazione. Gli alimenti non vanno necessariamente alla madre ma al genitore che ne ottiene la patria potestà o che ne ha l’affido maggiore. Quando si tratta di personaggi il cui conto è sostanzioso, il discorso non è molto diverso: chi percepisce un minor stipendio o ha un reddito personale minore riceve gli alimenti e questi devono essere proporzionati allo stile di vita, al tenore di vita, che il coniuge sosteneva durante il matrimonio. La signora Cobe, allo stato attuale delle cose, non ha reddito. Tutti i suoi proventi derivano dal ristorante, di cui possiede il 20% della proprietà, ma avendo un conto cointestato con suo marito le somme provenienti da entrambi i possedimenti si fondono in uno.
Se Hugh Cobe avesse divorziato semplicemente da Felicia Cobe avrebbe perso quel famoso 20% e sarebbe anche stato costretto a sostenere spese tali per assicurarle di continuare a vivere come aveva sempre vissuto.»
«Avrebbe anche rischiato di dover cedere una percentuale alla signora.» mormorò pensieroso.
Mendez annuì. «Questo, in caso di divorzio consensuale o nel caso fosse stata la signora Cobe a richiederlo e quindi ha dettar le prime regole. Sarebbe potuta scoppiare una vera e propria faida in cui entrambi avrebbero potuto impugnare ottime prove a loro valore.»
«Ma in questo caso il divorzio non sarebbe avvenuto per disaccordi o simili, c’è di mezzo tradimento e anche, probabilmente, appropriazione indebita di denaro.» concluse Alexander. «Ottime prove a suo favore per spingere la moglie ad accettare l’accordo senza andare in aula.»
«Se fossimo stati costretti a rivolgerci ad un giudice e ad una giuria, senza ombra di dubbio, avremmo vinto la causa. Un uomo con un carattere chiuso non è una scusa abbastanza valida da contrapporre al tradimento di un marito malato con il suo migliore amico che necessitava denaro.»
«Non proprio l’immagine di dama di classe che la signora Cobe vuole dar di sé.» sbuffò Jonathan riconsegnando le cartelle con i conti. «Avevate trovato il modo per riottenere il sua parte?»
«Più di uno. La prima opzione era quella che vi ho illustrato prima: il signor Cobe avrebbe lasciato casa e beni alla moglie in cambio della sua quota. Nel caso in cui la signora Cobe avesse rifiutato saremmo andati in tribunale. Nel caso estremo in cui neanche un giudice ci avrebbe dato ragione, avremmo ricorso ad un approccio un po’ più, come dire…finanziario?» sorrise guardandoli con furbizia. «Avremmo riunito i titolari delle quote del ristorante e votato per l’uscita della signora Cobe dall’accordo.»
«E sarebbe stato riconosciuto da un giudice? Non si tratta di compagnie azionarie, sarebbe stato legale o avrebbero potuto farvi causa?» domandò Alec.
«Avrebbe potuto, il processo sarebbe stato molto più lento e macchinoso ma, nel peggiore dei casi, l’avremmo costretta a vendere a ribasso la sua quota.»
Alexander osservò l’uomo con attenzione, lo sguardo affilato di chi sta soppesando tutte le possibilità e le ragioni.
«In caso di morte prematura del signor Cobe, come vengono gestite le proprietà?»
Mendez sospirò. «Allo stato attuale delle cose, con un’indagine in corso, come lei ben sa, i beni sono congelati e alla signora Cobe viene concessa solo una minima erogazione di denaro necessaria per le spese di tutti i giorni.»
«Che per una donna sposata con l’uomo che possedeva uno dei ristoranti più rinomati e costosi della città ammonta a…?» domandò Jonathan ironico.
«Diecimila dollari alla settimana.»
Alexander non fece una piega, ma la minuscola contrazione delle sue sopracciglia fu più che esplicativa. Morgenstern, più diretto, non si limitò a così poco e alzò direttamente le sue.
«Cos’è, il tuo e il mio stipendio messi assieme di cinque mesi?» chiese al collega.
Alec fece a mala pena una smorfia con le labbra, «Facciamo quattro, a ribasso.» borbottò. «Sa se può prelevarli in qualunque momento?»
«Ogni settimana che passerà, sino alla fine dell’inchiesta, la lettura del testamento e poi la causa per il divorzio, la sua carta sarà sottoposta a limite d’erogazione.»
Il moro annuì. «Cosa può dirci del testamento invece?» cambiò discorso.
L’uomo davanti a loro intrecciò le mani e prese un respiro profondo.
«Allo stato attuale delle cose verrà aperto e letto domani mattina, alle undici e mezzo, in questo studio. È richiesta la presenza della signora Cobe, dell signor Stevenson, il signor Forscue e il signor Hamilton.»
«Il maître?» domandò stupito Jonathan.
«Lui ed il signor Davis di cui vi parlavo prima sono stati testimoni della firma.»
«Perché è più conveniente che non siano persone interessate o citate nel testamento a fare da testimoni, certo.» annuì poi.
«Ovviamente domani siete attesi anche voi, la polizia è autorizzata a presenziare alla lettura del testamento in caso di morte sospetta.»
«Ci saremo. Può dirci altro, per ora?» chiese Alexander fissando l’uomo negli occhi.
Conosceva bene gli avvocati ed era palese che Mendez non stesse mentendo, ma stesse omettendo qualcosa.
L’avvocato dovette capirlo perché annuì con fare pensoso.
«In serata dovrebbero arrivare altri documenti inerenti al caso del signor Cobe. Non sono stato informato della loro provenienza, è stata solo fatta una telefonata da un ufficio di Londra in cui ci veniva comunicato che, come da accordi con il defunto, alcuni documenti sarebbero pervenuti per la lettura del testamento. Purtroppo, ignoro la natura di questi.» disse con sincero rammarico.


 
 
Jonathan chiuse la portiera della vecchia Mustang di Alexander con un ché di frustrato.
Il detective della Omicidi lo guardò con un silenzioso rimprovero nel volto inespressivo e l’altro alzò gli occhi al cielo allacciandosi la cintura.
«Per quale cazzo di motivo la gente deve sempre complicarsi la vita? Scommetto che quei documenti parleranno di altre proprietà e stronzate simili.»
«Se così fosse avremmo ancora più prove contro la signora Cobe, più beni possedeva il marito più ne eredita lei.» fece notare mettendo in moto e discostandosi dal marciapiede dove avevano parcheggiato.
«Quindi siamo tutti d’accordo che è stata lei? O quel J.» disse con gesto vago della mano. Si voltò di scatto verso il finestrino ringhiando ad un’utilitaria che si era avvicinata troppo al semaforo e poi riportò la sua attenzione su Alec. «O che, in ogni caso, è colpa loro. Magari l’hanno fatto assieme.»
«Se è stato uno dei due sono sicuro che l’altro lo sappia.» affermò secco. «Ma dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi che abbiano chiesto a terzi di farlo.»
Jonathan l’asciò andare indietro la testa. «Chi è ora che pensa troppo ai complotti? Omicidio su commissione? Proprio come quello del Caso Congiunto?»
Alec scosse il capo. «Pensavo a qualcosa di più banale come pagare il medico di Cobe affinché, all’ultima visita, gli somministrasse qualcosa di troppo.» disse con semplicità.
«Mh, ci sta. La possibilità che sia stato qualcuno del ristorante?»
«Scarsa se non nulla. Tutti erano più che fedeli a Cobe, o in ogni caso non apprezzavano troppo la moglie.»
«Dir loro di dover portare qualcosa, una medicina magari, a Cobe mente invece era l’anticoagulante? Magari chi l’ha fatto non parla per paura d’esser accusato di concorso in omicidio.»
Ancora una volta, Alec scosse la testa. «E perché non ne avremmo trovo traccia nello stomaco?»
«Va bene, ma ascolta: se l’anticoagulante è stato somministrato endovena, per prima cosa, dovremmo trovare tracce di fori, seconda cosa, vuol dire che lui ne era consapevole. Se così non fosse avrebbero dovuto sedarlo e poi fargli un’iniezione, perché scommetto che se fosse stato semplicemente addormentato si sarebbe svegliato non appena l’ago gli avrebbe penetrato la pelle.»
«Se l’ago fosse stato abbastanza fino e la puntura fosse stata fatta in un punto nascosto potremmo averla persa.»
«Ma resta il fatto che se ne sarebbe accorto. Non siamo in un romanzetto spionistico da quattro soldi, non ci sono spie russe che sparano aghi avvelenat-» si bloccò osservando il modo in cui Alexander aveva drizzato la schiena. «Oh no, no. No, no, no, no. Non accetto che uno come te possa pensare ad una cazzata simile, Lightwood, mi rifiuto!» quasi urlò indignato.
Alec gli lanciò un’occhiataccia. «Non penso ad una spia russa, deficiente.» lo freddò subito, «Ma la tua idea non è così impossibile, né così assurda. Se vista nell’ottica giusta.» specificò.
Jonathan lo guardò scettico. «Mostramela.»
Il detective sbuffò infastidito: con Morgenstern era sempre così, sempre scetticismo e corse folli per chi arrivava prima alla soluzione giusta. Ma erano adulti ormai e Alec doveva comportarsi come tale, non avrebbe potuto attaccarlo al muro del corridoio degli armadietti per poi scaraventarlo in palestra per aver detto una parola di troppo con quella sua faccia da cazzo e l’espressione strafottente. Anche perché, per una volta, il suo scetticismo era quasi giustificato. Quasi.
 
«Sappiamo che l’anticoagulante gli è stato somministrato per via venosa, non è passato per la bocca, o comunque non è arrivato nello stomaco. Non è stato ingerito in nessun modo, il coroner ce ne ha dato la conferma. Se escludiamo la possibilità, esistente ma pur sempre difficile, di un assunzione per assorbimento cutaneo, che non credo sia possibile in questo caso, rimane l’iniezione.
Non ci sono segni evidenti sul corpo, ma potrebbe trattarsi di un ago microscopico, magari proprio di un ago.»
«Se t’azzardi a dirmi qualcosa tipo “fuso avvelenato” alla bella addormentata mi butto dalla macchina in corsa.» l’avvertì Jonathan.
Alec gli lanciò un’occhiata penetrante. «Vuoi che acceleri così da assicurarti come minimo qualche osso rotto o preferisci che mi avvicini ad un tir, così siamo sicuri che ti metterebbe sotto?»
Il biondo ghignò. «Alle volte mi manca tanto il vecchio Lightwood stronzo, sono quasi commosso dal rivederlo spuntare così, quando meno me l’aspetto.» disse fingendo d’asciugarsi una lacrima.
L’altro alzò gli occhi al cielo, ma proseguì con il suo ragionamento. «Guardiamola da quest’ottica: se Cobe si fosse accidentalmente punto con qualcosa non l’avrebbe certo detto a qualcuno. Capita di continuo che si abbia l’impressione d’esser punti, di aver una spina sotto pelle. Potrebbe addirittura aver lasciato una bolla o un’irritazione passata sott’occhio perché simile al morso di un insetto.»
Jonathan lo ascoltò con attenzione e poi annuì. «E stando noi cercando una puntura di siringa potremmo anche averla notata ma ignorata. Una bolla di zanzara… certo, fa ancora freddo, quindi la vedo davvero difficile come cosa, ma se si avverte una puntura e non si vede nulla che possa averci ferito…»
«La soluzione logica che dà il nostro cervello è quella. O ancora meglio, non si pone problemi, si massaggi la parte lesa e riporta la sua attenzione su qualcosa di più importante.»
«Come la poca voglia che hai di vestirti a festa per andare a cucinare per un branco di possibili imprenditori per tua moglie e il suo amante.» concluse lui. «Che vita di merda quella di coppia, l’ho sempre detto che il matrimonio non dovrebbe esistere. A cosa serve? Non siamo più nel medioevo, io ho i miei beni e tu hai tuoi, viviamo assieme senza vincoli legali e quando la chimica svanisce ognuno per conto suo.» sbuffò infastidito.
Alexander lo guardò di sfuggita con la coda dell’occhio, domandandosi se stesse parlando così in virtù del tradimento di Felicia Cobe o se si riferisse ai suoi genitori.
Da quello che gli era stato dato ad intendere, ciò che aveva sentito nel corso degli anni e ciò che Clary e Simon avevano raccontato, Jonathan aveva sofferto molto la separazione dei genitori. Aveva vissuto con sua madre per tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza, la custodia affidata facilmente a Jocelyn per via delle conseguenze, ancora evidenti, dell’Operazione Circle, su Valentine. Ma per quanto ne sapeva, Jonathan non aveva mai davvero smesso di vivere con suo padre. Passava i pomeriggi o i weekend con lui, le feste, le vacanze. Valentine l’andava a prendere a scuola, gli mostrava il suo studio, il suo mondo. E quando era stato abbastanza grande per decidere per sé, aveva fatto le valigie da Brooklyn per trasferirsi a Manhattan.
Non sapeva che rapporto avesse veramente con suo padre e non era suo interesse saperlo perché, cose del genere, erano già delicate normalmente, nel suo cosa lo erano ancora di più, ma gli augurava sinceramente di riuscir a superarle in qualche modo la cosa. Se Jonathan avesse portato ancora rancore verso sua madre per aver divorziato avrebbe solo continuato a vivere una vita piena di rabbia e solitudine.
Con sua grande sorpresa, Alec si ritrovò a sperare anche che, nel momento in cui Jonathan avesse trovato qualcuno abbastanza pazzo da volergli rimanere vicino, il passato dei suoi genitori non avrebbe prevaricato la sua possibilità di legarsi a quel qualcuno, di avere una famiglia nel senso più classico del termine o meno. Perché Morgenstern aveva appena detto, implicitamente, d’esser sicuro che prima o poi l’amore tra due persone sarebbe terminato.
Un sorriso amaro premette per tirargli le labbra, ma Alec lo ignorò: se solo l’altro avesse saputo che spesso, invece, anche se scompare “la chimica”, anche se l’amore più comunemente inteso scompare, l’affetto ed in sentimenti che ti hanno legato profondamente a qualcuno non svaniscono mai, mai per davvero.
Sospirando controllò velocemente l’ora, costatando che fosse più che appropriato andare in pausa pranzo prima di rientrare in ufficio.
Senza dir nulla imboccò la svolta per il ponte di Brooklyn, diretto a colpo sicuro verso il Nascosto. Gli ci voleva decisamente qualcosa di buono, ad entrambi.
 
 
 
Jonathan prese un lungo sorso di milk-shake, non più titubante come l’era stato solo pochi minuti prima quando Alec aveva ordinato il pranzo per entrambi senza chiedergli minimamente una preferenza.
 
«Non posso credere di star mangiando hamburger e milk-shake come nei più banali film adolescenziali.» mormorò posando il bicchiere alto ed asciugandosi le mani dall’umidità del vetro.
Alec alzò un sopracciglio. «Ti ricorda i tempi andati? Non sei poi così vecchio, sono i capelli bianchi che ingannano.» gli disse con una punta di sadica ironia nella voce.
Jonathan lo fulminò. «Sono albino, non vecchio. Un giorno tutti i tuoi bei capelli neri diventeranno sbiaditi e smorti e tu dovrai convivere inevitabilmente con questo cambiamento, mentre io non batterò ciglio.» gli rispose a tono.
«Io almeno li avrò ancora, i capelli.»
«Anche io.»
«I capelli albini sono più delicati e fragili di quelli normali, come la vostra pelle, vi manca la melanina.»
«Non ti facevo così esperto di capelli, hai una passione segreta, Lightwood?» lo provocò addentando il suo panino.
Alec si strinse nelle spalle. «Piper, una mia compagna di classe.» disse solo.
L’altro alzò un sopracciglio. «Jasper? La nipote del parrucchiere delle star?»
Con un cenno poco convinto mandò giù un paio di patatine. «Cormac Jasper è un barbiere, non ti conviene chiamarlo “parrucchiere delle star” in sua presenza, se la prende molto.»
«Era comunque un parrucchiere, sbaglio o ha lavorato anche per la Casa Bianca?» domandò ripescando vecchi ricordi tra tutte le voci che giravano all’Idris al tempo del loro liceo.
Quel dannato edificio che pareva al contempo un castello ed una caserma era sempre stato popolato dalla crème della crème dei figli di papà della Grande Mela e non solo. Era sicuramene il liceo più facoltoso dello Stato di New York, ma ospitava anche ragazzini figli di politici e star del cinema.
Il requisito più importante per entrare, però, rimaneva lo stesso da secoli: soldi e fama.
Non era strano quindi che i figli di chi, normalmente, sta dietro le quinte, frequentassero i figli di chi invece era sempre sotto i riflettori. Piper Jasper ne era un esempio lampante: il suo bisnonno aveva un barbiere d’alta classe alla fine dell’ottocento; il figlio, il nonno di Piper, aveva continuato il lavoro del padre sino ad arrivare a prestar servizio nella casa più famosa di Washington, occupandosi persino di Kennedy stesso e, qualche volta, di sua moglie. Il padre di Piper era poi stato un ottimo affarista, aprendo saloni in tutta America, riuscendo ad ottenere contratti con grandi case produttrici, accumulando ricchezze e notorietà e soprattutto la stima e l’adorazione dell’élite della società.
Un parrucchiere di fiducia è pur sempre un confidente, in qualche modo.
Non c’era da stupirsi quindi che anche una ragazzina “non famosa” come Piper Jasper avesse potuto permettersi la retta da capogiro della Idris, dove le altre ragazze la guardavano con un misto di superiorità ed invidia che era proprio a tutti coloro cresciuti credendo di essere i migliori e di avere tutto per poi rendersi conto che c’era, e ci sarebbe sempre stato, qualcosa che a loro mancava.
Forse la Jasper non aveva un genitore politico, attore, sportivo, ma fin da piccola aveva girato libera per i saloni della sua famiglia, conoscendo e vendo coccolata da star e personaggi di spicco.
 
Alec annuì. «Sì, ma ci tiene molto a farsi chiamare “barbiere”.»
Jonathan alzò le mani. «Come ti pare, dubito che lo vedrò presto.» poi prese un altro sorso di frullato, stupendosi di come latte e fragola non facesse schifo abbinato a carne, formaggio, bacon e insalata. «Parlando di cose più interessanti del tuo vecchio gruppo di sfigati.»
«Hai paura che di questo passo finiremmo per parlare anche del tuo gruppo di bulli?» alzò un sopracciglio l’altro.
Jon scosse il capo. «No, non me ne fotte niente e basta.» disse sincero. «Dicevo. Parlando di cose serie: i responsabili del nostro terribile legame famigliare vogliono dare una festa per la casa nuova.»
Alec annuì sconfortato. «Non hanno neanche finito di firmare le carte, tra un po’. Jace mi ha chiesto di andare a dargli una mano a montare la cucina.»
«Che secondo me è un’enorme puttanata, non possono chiamare qualcuno che lo faccia di mestiere invece che affidarsi ad amici e parenti?» si lamentò riprendendo a mangiare.
«Non vorrei dirlo-» iniziò il moro.
«Ma lo farai lo stesso.» biascicò masticando.
«-ma questa è palesemente colpa di Lucian. Sa com’è fatto Jace, se non si fosse messo a dire che tutti i lavori in casa sua li aveva fatti lui, dando palesemente ad intendere che lui ne sarebbe stato in grado e mio fratello no, ora non saremo in questa situazione.» disse secco, una nota infastidita nella voce calma.
Jonathan non poté far altro che annuire, anche perché era perfettamente d’accordo con lui. «Luke è un rompi coglioni di prima categoria che vuole per forza fare l’uomo alfa della situazione e dimostrare che ce l’ha più lungo e più grosso degli altri.»
«Quanta finezza…» ironizzò Alec.
«Ma è la verità.» si pulì la bocca e accartocciò il tovagliolo. «Se c’è Clary di mezzo devono sempre dimostrare chi dei due sa “proteggerla” meglio. È ridicolo.»
«Ma lo fanno lo stesso. Presumo che sarai d’accordo con me nel dire a quei due che devono chiamare dei professionisti e nel dire a Lucia di farsi gli affari suoi?» domandò per pura educazione.
«Non porterò nulla di più pesante di una scatola di libri o di ciarpame di mia sorella.» asserì con sicurezza lui.
«E io non porterò nulla di più pesante di qualche manubrio di mio fratello.»
«Posso concedergli di aiutarli con la lavatrice se si portano quella della vecchia casa e non se ne comprano una nuova.»
«Per il divano e la rete del letto ci penseranno i traslocatori.»
«Il tavolo anche.»
«Siamo d’accordo, quindi.»
«Siamo d’accordo.»
I due presero i loro frullati e li fecero scontrare gentilmente, prendendo poi una generosa sorsata di quel liquido rosero dolce e cremoso.
Jonathan sorrise beffardo. «Sai, è bello vedere che su una cosa almeno abbiamo le stesse idee.»
Alec accennò un sorrisetto storto. «L’importante è che gli altri non lo vengano a sapere.» gettò poi un’occhiata al vecchio orologio posto sopra il bancone e sospirò. «Finisci quelle patatine, Morgenstern. Già Lewis romperà le palle non appena saprà che siamo venuti qui al Nascosto senza di lui, non voglio sentirlo lagnarsi anche perché siamo arrivati in ritardo lasciandolo solo in ufficio.»
 
 

 
Il nuovo appartamento di Clary e Jace si trovava in una zona estremamente comoda, sia per quanto riguardava il collegamento della metro, sia per quanto riguardava negozi e servizi utili.
In quel momento però si trovavano tutti a casa di Jace, nella zona ovest di Brooklyn, proprio vicino al famoso ponte, a festeggiare l’acquisto fortunato di quello che, si sperava, sarebbe stato il solido punto di partenza della loro vita assieme.
Alexander sorrise mestamente a Maya quando questa, passando dalla cucina al salotto, gli porse una bottiglia di birra fredda.
Doveva essere una cosa tranquilla, fra pochi intimi, ma come sempre quando si parlava di quei due avevano finito per rendersi conto che le persone con cui volevano festeggiare quel traguardo erano un po’ più del previsto.
Sedute sul divano che Alec stesso aveva aiutato ad incastrare nell’ascensore e poi trascinare in casa, c’erano Clary, sua sorella e Valerie Hoogans, che discutevano proprio del trasloco imminente, di cosa avrebbero portato dall’una o dall’alta casa e cosa avrebbero acquistato di nuovo.
Maya, che gli era appena passata davanti, si era fermata tra Simon e Lorenz, l’altro collega della squadra di Jace, offrendo anche a loro un paio di birre fresche. Tra la porta finestra ed il balcone se ne stavano invece Oliver Finness, il capo squadra di Jace, Jordan, Jonathan e Benjamine, un agente della stradale che aveva fatto l’accademia assieme a suo fratello.
C’erano un paio dei colleghi di Clary, Max che chiacchierava con tranquillità con Seth e alcuni ex compagni di classe di Jace.
Sarebbero dovuti essere giusto cinque e invece erano più di una sedicina di persone.
Scuotendo la testa, ormai rassegnato all’incapacità di suo fratello e della sua degna compagna di organizzare una festa senza far troppi danni, prese un sorso della sua birra, assaporando con piacere quel retrogusto di cereale che per tanto tempo aveva dovuto evitare.
Non era un grande bevitore Alec, aveva una bella soglia di resistenza ma non per questo ne abusava come avevano fatto in gioventù – e ogni tanto ancora facevano – i suoi fratelli, e quando il medico gli aveva dato il via libera per poter bere qualcosa di alcolico, con moderazione, non aveva sentito il bisogno impellente di andarsi a fare una pinta da qualche parte. Rimaneva il fatto però, che quel sapore maltato, che era forse stata una delle cose più semplici a cui rinunciare, gli trasmettesse un messaggio chiaro, seppur non fosse quello più eclatante: Stava bene, si era ripreso, poteva ricominciare a permettersi quei piccoli vizi che la gente dava per scontato e che a lui erano stati negati per salvaguardare la sua stessa vita.
Non era nulla, era sciocco, era inutile e la birra, gli alcolici in generale, non erano mai stati una di quelle cose per cui andava matto, ma quello stupido collegamento d’idee aveva il potere di farlo sentire un po’ più libero, un più sano.
Scrollò con un gesto la manica della camicia, non aveva avuto il tempo di passare a casa a cambiarsi, optando così per abbandonare semplicemente la sua cravatta nel cassetto della macchina, e controllò l’ora. Erano quasi le undici e mezza e l’indomani si sarebbe dovuto alzar presto per ricominciare ad indagare sul caso Cobe.
Guardò Simon e Jonathan, sperando, più per il primo che per il secondo, che dopo quella serata sarebbe stato perfettamente operativo come sempre.
Bevve qualche altro sorso e s’avvicinò a suo fratello, scompigliandogli piano i capelli e dandogli un bacio in testa a tradimento.
 
«Che fai? Non dirmi che te ne stai andando!» domandò Max sottraendosi veloce dalla presa del fratello.
Alec annuì, abbracciando Seth e dandogli la sua birra. Il ragazzo gli portò una mano dietro il collo e se lo avvicinò per scoccargli due baci sulle guance. «Vuoi compagnia, uomo?» gli chiese bevendo la sua birra.
Il moro gli sorrise sbilenco. «Voglio andare prima a controllare una cosa, ma se vuoi venire a dormire da me sai che puoi sempre farlo.» gli rispose tranquillo.
Seth abbozzò un sorriso. «Vai a cercare prove per scoprire chi mi ha ammazzato uno dei miei miti culinari?»
«No, il lavoro domani mattina, solito orario d’ufficio. Voglio andare a vedere se c’è qualche cadavere da raccogliere al Pandemonium o se Magnus ha già fatto sparire tutto.»
Max rise. «E se li trovassi davvero?»
«Sarebbe la volta buona che Bane ci mostrasse quanto Cristiano Santiago gli vuole bene e quanto profumatamente lo paga.»
«Okay, ritiro la mia offerta di compagnia e la rimando a quando avrai chiuso il caso e Bane avrà messo a posto i suoi loschi affari. O a quando avrai il pomeriggio anche tu.» ammiccò con la bottiglia.
Alexander annuì. «Concesso.»
Salutò una seconda volta i due e poi tutti coloro che incontrava per la strada verso Jace.

«Oh, andiamo! Già te ne vai?» chiese quello lamentoso.
«A differenza tua io ho un lavoro costante, non aspetto che qualcuno mi chiami per buttare giù una porta e poi tornarmene in caserma tranquillo.» lo prese in giro abbracciandolo.
Oliver lo guardò male. «Spero tu sappia che ogni volta che suona l’allarme prego che tuo fratello non torni indietro.» disse seriamente stringendogli la mano. «O che lo faccia privo di sensi.»
«Credo sia un po’ la speranza di tutti.» sorrise di rimando, ignorando le proteste indignate di Jace.
Salutò anche gli altri e poi guardò con fare eloquente Jonathan. «Se Lewis sarà così distrutto da non lavorare alla solita velocità te ne riterrò colpevole.»
Quello assottigliò lo sguardo. «E perché? Di grazia.»
«Perché finché è al lavoro è un problema mio, finito il turno mi pare che Rachel l’abbia affidato a te e non a me.»
Jonathan ringhiò. «Fanculo Rach. Seh, eviterò di farlo ubriacare e lo spedirò a calci in culo a casa allo scoccare della mezzanotte, va bene fata madrina?»
Lo scappellotto che gli arrivò, veloce e letale, se lo meritava tutto.
«Te ne vai davvero?! Ma Aaaaaaaleeeeeec! Non è giusto! Non ci vediamo mai ultimamente!» piagnucolò Izzy lanciandogli le braccia al collo e alzando i piedi da terra per gravargli addosso con tutto il suo peso.
Alec la strinse con delicatezza e diede anche a lei un bacio in testa. «Perché siamo due persone adulte che lavorano costantemente, Iz, è una buona cosa.»
«Mica tanto.»
«Dai, tanto ci vediamo tutti questo weekend per il trasloco, no?» domandò Clary spuntando da dietro l’amica.
A quelle parole però i due fratelli maggiori della coppia si volsero in contemporanea per guardarsi con fare risoluto. Poi Alec si rigirò verso Clary:
«Nessuno di noi farà nulla finché chi di dovere, ovvero una ditta specializzata, avrà ridipinto le pareti, messo a posto tutte le forniture e portato e montato i mobili. No!» bloccò le proteste della ragazza sul nascere. «Non mi interessa cosa stai, o state per dire. Nessuno di noi rischierà di morire folgorato per mettere a posto la linea elettrica, nessuno allagherà casa per sistemare le tubature e nessuno replicherà la lotta di vernice che c’è stata in questo appartamento. E, cosa più importante, nessuno di noi s’incollerà e monterà nessun mobile o ceramica. Sono stato chiaro?» chiese con fare minaccioso guardando prima Clary e poi Jace, Izzy aggrappata ancora alle sue spalle si lasciò sballottolare da una parte all’altra ridacchiando divertita.
«E non ce ne può fottere un cazzo neanche che Luke dica che ha fatto tutto lui a casa.» precisò Jonathan. «Perché è una puttanata e perché abbiamo dovuto chiamare idraulici e piastrellisti non si sa quante volte nel corso degli anni perché lui aveva fatto le cose alla cazzo di cane.»
Jordan scoppiò a ridere divertito, seguito a ruota dagli altri ragazzi e da Oliver, che batté loro le mani colpito.
«Cazzo Jace, a quanto pare questi due hanno finalmente trovato qualcosa su cui essere d’accordo!»
Le risate degli invitati coprirono i balbettii indignati di Clary e le proteste accorate di Jace, che giurava di essere in grado di fare tutto.
Alec si chiuse la porta di casa di suo fratello alle spalle che ancora li prendevano in giro.
 
 
 
Il viaggio sino al Pandemonium non fu troppo lungo, per quanto New York City fosse la città che non dorme mai, la sera di un giorno infrasettimanale di Marzo assicurava una certa libertà per le strade, seppur una difficoltà maggiore nel trovare parcheggio. Ma come Magnus gli aveva detto per telefono il locale era chiuso, le vie che lo costeggiavano, di solito brulicanti auto di ragazzi impegnati a bere e ballare, occupate da pochi veicoli sparsi.
C’era un ché di strano nel trovarsi in quelle strade vuote, nel sentire il silenzio del quartiere immerso nella quiete della notte e non si bassi potenti che facevano vibrare anche le spesse pareti del locale. Pareva un luogo senz’anima, un animale sopito, una cittadella diroccata.
Alexander scese dalla macchina in religioso silenzio, accostando con delicatezza la portiera e facendo scattare piano la serratura. Non c’era nulla che non andasse in quel posto, ma qualcosa gli suggeriva di non rompere la tranquillità che per una volta aveva graziato quel piccolo angolo di città.
Eppure c’era qualcosa che non andava, lo sentiva nell’aria fredda e ferma, nel ronzio dei lampioni, della linea elettrica. Lo percepiva nei delicati echi di televisori accesi nelle case, dal sibilo continuo dei sistemi di sicurezza, nelle spie rosse che di tanto in tanto lampeggiavano ritmicamente, nel lontano scivolare di gomme sull’asfalto.
I suoi occhi scrutarono con attenzione ogni dettaglio, ogni angolo, ogni finestra, ma nulla sembrava discostarsi dal classico aspetto che avrebbe dovuto avere una via cittadina allo scadere della mezzanotte. Nulla, se non il Pandemonium silente ed immobile. Poteva un semplice locale, che mai aveva visto chiuso da quando conosceva Magnus, falsare in quel modo la sua percezione di un ambiente?
Senza neanche rendersene conto Alec si portò una mano alla tasca dei pantaloni, sollevando di poco la giacca nera ed il cappotto pesante, un gesto che poteva sembra di pura noia ma che in realtà l’avvicinava alla pistola ben conservata nella fondina.
Era un detective della omicidi, era stato un riservista, non poteva certo farsi crescer l’ansia per una strada vuota.
A passo deciso ma non troppo affettato s’avviò verso le grandi porte a molla del locale, lì dove le maniglie dorate luccicavano ai riflessi dell’illuminazione cittadina. Non provò a bussare, o a premere il pulsante del citofono quasi invisibile tra i decori delle pareti, spinse con semplicità l’uscio ed entrò nel locale buio.
La lama di luce dei lampioni illuminò per un attimo la pista desolata ed il bancone vuoto, scomparendo lentamente fino a quando la porta non si fu chiusa del tutto con un tonfo lieve ed il classico clic metallico.
L’intera sala calò nell’oscurità ed Alec ebbe bisogno di un momento per far sì che la sua vista s’adattasse a quel nuovo ambiente. Piano piano iniziò a scorgere le deboli luci dei neon violacei che segnalavano i percorsi da seguire, che delimitavano la pista, i gradini e le rampe per salire nei privé inferiori.
Doveva esserci per forza qualcuno nel locale, o nessuno si sarebbe mai azzardato a lasciarlo aperto in quel modo. Era anche vero che nessuno sano di mente si sarebbe messo a rubare nel locale del figlio del Re dei Demoni, quindi, in un qualche modo assurdo e sciocco, Alec poteva perfettamente immaginare Magnus vantarsi di poter lasciare ogni porta aperte perché, tanto, il suo nome avrebbe protetto lui e tutte le sue proprietà.
Con un sospiro ed un lieve scuotere di testa il detective si augurò che non fosse quello il caso e che avrebbe potuto trovare qualcuno, anche un semplice inserviente, pronto a dirgli quale fosse stato il problema tanto grande da tener le porte del Pandemonium chiuse e se fosse stato risolto o meno. Sperando anche vivamente di non incorrere in una bella sessione di tortura o interrogatorio, sarebbe stata davvero una gran noia dover arrestare tutti, probabilmente avrebbe anche dovuto sparare a qualcuno.
Camminò ad agio, immerso in quel silenzio quasi piacevole ora che si trovava all’interno di quel locale che, volente o dolente, era divenuto per lui abbastanza famigliare. Seguì le linee luminose incastonate nel pavimento di cemento levigato, girando attorno alla pista principale, dietro la postazione del dj, diretto verso le stanze posteriori, dove si trovavano i privé più grandi, le piste secondarie e le scale per gli uffici al piano superiore.
Per un attimo carezzò l’idea di prendere il cellulare ed avvertire Magnus della sua presenza lì, chiedergli se non si fosse dimenticato le chiavi per chiuderlo e fosse stato costretto a tornare a casa per prenderle. Un pensiero sciocco, una domanda retorica e sciocca, qualcosa che avrebbe detto ad un amico per prenderlo in giro.
Sorrise mesto a quel pensiero, forse poteva farcela a vederlo come un amico qualunque, come qualcuno da conoscere meglio, qualcuno che sarebbe potuto diventare qualcosa di più con tempo e pazienza.
Aveva appena estratto il telefono dalla tasca quando un rumore attirò la sua attenzione.
Aggrottando le sopracciglia e tendendo le orecchie Alec poté giurare d’aver sentito qualcuno imprecare a bassa in modo sommesso, tra sé e sé.
Si diresse a colpo sicuro verso le stanze sul retro, quelle in cui si trovavano camerini e spogliatoi, i locali caldaia e quelli con i quadri elettrici. Nel corridoio scuro proprio una delle ultime porte era aperta, Alec poteva sentire il tramestio tipico di chi lavora provenire dall’interno della sala e vi avvicinò con cautela, sperando di non spaventare chiunque vi fosse all’interno.
Arrivato sull’uscio della porta bussò gentilmente allo stipite scuro.
 
«Mi scusi?» domandò con voce bassa.
 
Nella stanza anch’essa buia, illuminata solo dalle dannatissime luci viola che Magnus aveva voluto per forza al posto di quelle rosse d’emergenza, un uomo di non meno di quarant’anni era piegato davanti al quadro elettrico, con un paio di pinze in mano e del nastro isolante tra i denti.
Quando l’uomo si volse, preso comunque di sorpresa, Alec sentì quel minimo di imbarazzo e timidezza che l’aveva assalito prima, pensando di star disturbando un povero tecnico costretto a lavorare in quelle terribili condizioni, scivolare via. Sull’occhio sinistro dell’uomo c’era un piccolo visore monoculare notturno, simile a quelli che lui stesso aveva usato in Medio Oriente durante le missioni notturne.
Da quando gli elettricisti giravano con attrezzature del genere?
 
«Buona sera.» rispose quello una volta ripresosi. Aveva una voce calda e morbida, un po’ roca e bassa, confortevole. Alec batté le palpebre, cercando di metter a fuoco il suo volto con quel minimo di luce assolutamente inutile: forse era un pensiero meschino, ma si ritrovò a domandarsi come qualcuno con una così bella voce fosse finito a far l’elettricista.
«Mi spiace deluderla ma il locale è chiuso, temo d’essere l’unico rimasto.» continuò quello sorridendo, o almeno così gli parve.
Alec annuì. «Sono un amico del proprietario,» si sentì in dovere di specificare subito, «mi aveva detto d’aver avuto problemi al lavoro ma non mi ha specificato di che tipo.»
«Era venuto a controllare che il signor Bane non avesse fatto danni? Scommetto che non si è più fatto sentire per tutta la giornata e che l’ha fatta preoccupare.» asserì con tono scherzoso.
Nonostante la situazione particolare, Alec si ritrovò ad accennare uno dei suoi sorrisi più timidi: detto da uno sconosciuto suonava così stupido ed imbarazzante.
«Già, lo conosce bene.» disse schiarendosi la voce.
L’uomo annuì. «Oh, eccome. Quando ha qualche problema tecnico è me che chiama.»
Anche Alec non riuscì a far altro se non annuire, allungando poi una mano verso li tecnico.
«Alexander Lightwood.» si presentò con educazione.
Con un altro sorriso aperto, quasi accecante nonostante il buio, l’uomo rispose alla stretta.
«Anthony Hatt. Mi spiace abbia fatto tutta questa strada per niente, Alexander.»
Alec deglutì ritraendo con lentezza la mano. Il modo in cui aveva pronunciato il suo nome era sembrato quasi aristocratico, come fosse un titolo nobiliare.
«Ero di strada e almeno ora so che Magnus è a casa. Posso darle una mano in qualche modo?» domandò gentilmente, togliendosi il cappotto e poggiandolo su di una sedia.
«Mi farebbe davvero un grande favore! Venga, le faccio vedere.»
Rimasero per un po’ a discutere di fili e di interruttori, non che Alexander fosse un esperto, ma qualcosa aveva imparato dopo tutte le volte che aveva dovuto rimetter a posto il quadro elettrico della Signora Dott.
Parlarono piano del più e del meno, sussurrando quasi tanto era il silenzio all’interno di quella sala quadri.

«Posso chiederle che lavoro fa?» domandò d’improvviso l’uomo.
«Sono un agente di polizia.» disse semplicemente il giovane.
L’altro si voltò, scrutandolo da dietro la lente notturna che ancora non si era tolto.
«Tipo quelli che stanno sulla volante o quelli d’ufficio?»
Scosse la testa. «Nessuno dei due, a dir il vero. Sono un detective della omicidi.»
Con sua sorpresa l’uomo scoppiò a ridere. «Ed è amico di Magnus Bane? Buon dio ragazzo, lei è davvero sfortunato!»
Alec sorrise sbilenco. «Purtroppo, non sempre gli amici si possono scegliere, spesso ci si deve accontentare di quelli che ti capitano.»
«Ma lei lo sa, sì, chi è Magnus Bane, cosa ha fatto lui, cosa ha fatto e fa tutt’ora suo padre…» fece il signor Hatt con tono vago.
Il detective annuì con un singolo cenno secco. «Il mondo non si divide in bene e male assoluti, in bianco e nero. Ci sono tante sfaccettature, tante sfumature. So quello che ha fatto Magnus in passato e ciò che potrebbe fare in futuro, ma credo anche che non sia mai troppo tardi per tendere la mano a qualcuno e mostrargli una via migliore.» disse con sincerità.
«Quella della legge?» chiese l’uomo.
«Quella della giustizia. La legge non è giusta e spesso, ammetto con rammarico, neanche onesta. A noi non resta che provare a fare del nostro meglio, a migliorare noi stessi e aiutare chi ci sta attorno a far lo stesso.»
Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, a mezzanotte passata, solo con uno sconosciuto nel Pandemoniumo, uno sconosciuto che poteva perfettamente essere un elettricista di giorno ed uno spacciatore di notte, per quanto ne sapeva. Poteva essere uno della cerchia di Magnus e quasi sicuramente era così, o non l’avrebbe certo chiamato per aggiustare le cose nel suo sancta sanctorum del piacere e dello svago.
«Lei è una brava persona, detective Lightwood, glielo hanno mai detto?» domandò con quella sua bella voce il signor Hatt.
Se l’avesse potuto vedere, e probabilmente poteva grazie al visore, l’uomo si sarebbe accorto del lieve rossore che aveva colorato a chiazze le sue guance.
«È capitato.» ammise piano.
Una mano gli si poggiò su di una spalla ed Alec si volse a guardare i contorni, ora più nitidi, del volto davanti al suo. Aveva avuto ragione all’inizio, doveva avere più di quarant’anni, sicuramente era sui cinquanta. Aveva lineamenti marcati ma non rozzi, decisi ma quasi morbidi, sembravano modellati a mano da un artista sapiente. Il naso dritto, la fronte ampia ed i capelli tirati indietro e schiacciati dall’elastico del visore. L’unico occhio scoperto era leggermente socchiuso, forse nel tentativo di metter a fuoco meglio il mondo, forse per mancanza d’occhiali, ma ciò che spiccava di più sul viso ben rasato era il sorriso ampio e affascinante.
«È un bene che una persona così saggia e giudiziosa sia finita al fianco del signor Bane, magari potrà mettergli un po’ di sale in quella zucca paiettata che si ritrova.» gli fece l’occhiolino e le rughe d’espressione quasi si fusero con la linea di congiunzione delle due palpebre. «Vado a riavviare il pannello del bar, quando le dico di tirare su le leve lo faccia.»
Si alzò dandogli un ultima stretta sulla spalla ed uscì dalla stanza.
Non appena la voce calda del signor Hatt gli intimò di alzare le leve dei contatori Alec lo fece all’istante e si ritrovò accecato dall’improvvisa luce bianche che invase tutto il locale.
«Tutto a posto in pista?» domandò il giovane a voce alta, chiudendo gli attrezzi nella sacca lasciata lì per terra, il logo sbiadito di quello che sembrava un orizzonte in tempesta e poche sporadiche lettere ancora leggibili, ed alzandosi da terra. Si spazzolò i pantaloni e raggiunse il tecnico nella sala principale. Probabilmente non aveva gridato abbastanza per farsi sentire, ma non aveva la minima voglia di farlo.
Quando arrivò all’ingresso si dovette schermare gli occhi con una mano, avanzando a piccoli passi, lasciandosi guidare ancora dalle luci di posizione viola, le uniche che non gli ferissero lo sguardo.
In poco tempo si ritrovò al centro della pista, tutte le luci ed i fari puntati su di lui, annullando la sua ombra e creando un leggero contrato di bianchi sovrapposti a terra, lì dove la sua figura tentava di proiettarsi sul pavimento.
«Signor Hatt?» domandò strizzando gli occhi. «Signore?»
Ma nessuno gli rispose, nessuna voce calda e confortevole, nessun sorriso affascinante o risata chiara e rombante. Non c’era nessuno nel Pandemonium, solo lui, tanto che per un attimo, Alexander si domandò se non se lo fosse immaginato quell’elettricista, se non fosse stato un miraggio, un illusione.
 
 
Da solo al centro della pista da ballo, Alexander se ne stava immobile e perplesso, le pupille ridotte al minimo per sopportare il cambio di luminosità.
Nella profondità oscura e silenziosa dei una notte senza musica e corpi caldi ammassati gli uni contro gli altri, investito dalle luci bianche dei potenti fari, Alec si mostrava come tutti l’avevano sempre visto: senza ombre.
 
 
 
 
Ma sciocco è l’uomo che ripudia il buio alla ricerca della luce, perché non sa che senza d’esso il suo candido baleno non avrebbe ragione d’esistere.
 
Mai credere alle apparenze. 



 
 
 
 

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