Cool Kids

di walls
(/viewuser.php?uid=193082)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Electric Souls ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno - Screwed Up ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due - Bound To You ***



Capitolo 1
*** Prologo - Electric Souls ***


 








 

Prologo – Electric Souls

 







Nuovo messaggio
ore: 00.37 - Da: +44 071925238

“Ho bisogno di te, ti prego”

 

Solo, nella tarda serata di un umido febbraio, uno strano ragazzo di appena diciotto anni continuò a mettere velocemente un piede dopo l’altro, con lo sguardo basso sull’asfalto umido e un gran mal di testa a stringergli le tempie.
Un passo, due, dieci, cento.
Lo smartphone, imprigionato dentro le tasche dei suoi jeans stretti, non smetteva di vibrare, e così il suo giovane cuore, sfinito, gonfio di un'ansia che non gli apparteneva: era fastidiosamente strano provare emozioni del genere. Sentiva puntata addosso come un’infinità di riflettori: nonostante nessuno dei radi passanti accennasse a lanciargli più che un misero sguardo, aveva l'insopportabile sensazione che in quel momento chiunque incrociasse il suo cammino avesse voglia di sapere di più, di provare ad ascoltarlo o, peggio ancora, di capirlo, come se all’improvviso – nelle prime ore di un nuovo giorno, proprio mentre voleva che nessuno gli stesse vicino – ogni abitante della città si fosse reso conto di quanto lui fosse, in realtà, fragile.
Ma se c’era una cosa che nessuno della famiglia Miller sopportava, beh, era proprio quella, e lui, Daz, da bravo figlio di suo padre, non faceva eccezione; dimostrarsi debole agli occhi degli altri o, nel suo particolare caso, passare per un ragazzino ancora troppo attaccato alla convinzione che, se ce ne fosse stato bisogno, qualcuno gli sarebbe andato incontro, pronto a tendergli una mano, era vergognoso.
Se i suoi genitori lo avessero visto in quel momento, pensò, era sicuro che non ci avrebbero messo molto a sgridarlo per il suo comportamento: a loro dire, Daz era ormai “Un adulto!” e dunque aveva il sacrosanto dovere di cavarsela col solo aiuto delle proprie forze; delle consolazioni di Aaron Knight, che sapevano essere il suo migliore amico, della sua banda di amici scapestrati, e persino della sua stessa famiglia, insomma, avrebbe dovuto necessariamente fare a meno. Era la cosa più giusta e soprattutto più utile per lui, se l’era ripetuto. Tante e tante volte, come un mantra. Avrebbe dovuto concentrarsi su se stesso, stringere i denti e affrontare tutto di petto, come ribadiva spesso il suo vecchio, senza pretendere di avere qualcuno disposto a stargli dietro in ogni momento.
Era un concetto abbastanza semplice, in fondo, cosa ci voleva? Bastava restare al proprio posto, senza fidarsi mai troppo di nessuno, combattendo le proprie battaglie armato di autostima, un po’ d’arroganza e nient’altro: sua madre glielo diceva da quando era piccolo. Era quella la ‘ricetta del successo e dell’autoaffermazione’. Non era stato proprio quello, dopotutto, l’atteggiamento che aveva permesso a lei e a suo marito di realizzarsi nella vita come nella carriera? Avevano rinunciato a tutto, a tutti, e adesso avevano una casa enorme, due figli splendidi ed un’importante azienda da gestire: glielo aveva ricordato ogni volta che ne aveva avuto occasione e lui, che ai tempi era solo un ragazzino, a lungo andare aveva finito per crederci e convincersene sul serio.
Quella sera, comunque, con le mani affondate nelle tasche del parka scuro e le guance appena arrossate dal vento, Daz ci aveva riflettuto parecchio – come accadeva spesso negli ultimi tempi - e, considerati i recenti avvenimenti che avevano sconvolto la sua vita, era arrivato alla conclusione che tutto quel respingere, quel costringersi alla solitudine, a conti fatti, non era servito proprio a niente. Era riuscito a farlo sentire uno schifo, semmai, ma di certo non lo aveva aiutato: ogni volta che aveva rifiutato l’appoggio di qualcuno, ogni volta che aveva lasciato fuori chiunque dalla sua sfera personale, invece di farsi forte della propria indipendenza, aveva sentito soltanto il disperato bisogno di piangere, e di conseguenza punirsi proprio per quella stessa reazione immatura.
Si sentiva intrappolato fra gli estremi di sé stesso che più detestava, il Daz estremamente sensibile e il Daz ostinatamente orgoglioso, e quel principio di autosufficienza che aveva tentato di imporsi negli anni, in definitiva, non aveva fatto altro che complicare le cose.
Ora però, per via di nuove consapevolezze acquisite col tempo, o forse per un senso di responsabilità che mai gli era appartenuto prima di quel momento, sperava di essere finalmente pronto a diventare una persona diversa da quella che i suoi genitori avevano plasmato, ma soprattutto di aver capito la sua vera natura; improvvisamente, era un ragazzo nuovo, uno che voleva - doveva - rimediare prima che fosse troppo tardi, uno deciso a spogliarsi delle proprie insicurezze e smascherarsi di fronte al mondo...
Ma come poteva lui, uno che fino al minuto precedente aveva girato per la città come un fuggitivo e che ancora non sapeva come cazzo funzionasse la vita, pretendere che quel nuovo modo di fare risultasse credibile e venisse accettato dall’oggi al domani?
La prospettiva di passare le settimane a venire cercando di ricomporre il puzzle delle proprie relazioni interpersonali lo spaventava a morte: se evitare i suoi amici ad ogni costo aveva comportato una fatica immensa, Daz sapeva che cercare di riconquistarne la fiducia avrebbe richiesto un sacrificio ancora maggiore e, proprio per questo, imprecò sonoramente squarciando il silenzio di quella placida notte.
Poco dopo, controllò che l’incrocio davanti a sé fosse sgombro, poi l’attraversò, immettendosi in una delle poche strade principali in grado di portarlo verso la periferia senza troppi percorsi complicati.
Tutta quella storia lo stava facendo impazzire. I suoi, la maturità alle porte, la comitiva… Lei.
La sola cosa che gli premeva, in quel preciso momento, era sfogarsi: decise che ne aveva abbastanza della sua stupida vita perfetta solo in apparenza. Anche se qualche giorno prima, con Logan Reese - un compagno della scuola privata - , aveva sostenuto l’esatto contrario, adesso che non era in compagnia poteva ammetterlo liberamente: avrebbe di gran lunga preferito abbandonarsi fra i cuscini del suo divano guardando un film d’azione o discutendo di calcio con Aaron e Leo, piuttosto che costringersi a sopportare ore ed ore di musica assordante e chiacchiere inutili in compagnia della sua famiglia. Perché alla fine, anche dopo aver cenato in un ristorante rinomato, dopo aver discusso con qualche ragazzina altolocata, il discorso ricadeva sempre sui soliti, banali argomenti e allora tutti gli sforzi messi in atto per mantenere intatta quella facciata di sicurezza e benessere si disperdevano nel fumo scenico impiantato sotto le casse dei locali lussuosi che i suoi genitori si ostinavano a proporre. Non ce la faceva più. Non era quella la sua vita, e non lo era mai stata.
Daz accelerò ulteriormente il passo, alternando sguardi diffidenti a lunghi sospiri mentre calava il cappuccio della giacca sui capelli neri: se le gocce d’acqua che avevano colpito la punta del suo naso dritto non mentivano, di lì a pochi secondi sarebbe scoppiato un temporale.
Senza pensarci ancora, si accucciò contro il cancello d’ingresso di un condominio lungo la strada, sfruttando la tettoia sporgente per ripararsi dalla pioggia che imperversava sempre più violentemente, e infine sfilò dalla tasca il cellulare, risoluto nel controllare di aver scritto bene ogni parola nel messaggio di risposta a quello che aveva ricevuto una decina di minuti prima. Quasi non riusciva a credere di essersi finalmente sentito in grado di mettere un punto a tutta quella tragedia. Ci aveva pensato così a lungo; si era impegnato talmente tanto nell’obbligarsi a lasciare andare anche l’ultima persona che lo teneva legato ad una vita diversa, dalla monotonia, che il non esserci riuscito, in qualche modo lo sollevava. Era come se un macigno enorme avesse smesso di pesargli sullo stomaco nell’esatto momento in cui aveva premuto INVIO e lo avesse lasciato libero di respirare di nuovo.
Daz sospirò ancora, scaricando così tutta la tensione residua, ed estrasse dal pacchetto di Camel che portava con sé una sigaretta, socchiudendo gli occhi. Il cellulare cominciò a squillargli nella mano libera dopo pochi istanti. Lesse distrattamente il nome del mittente e, solo dopo aver sistemato la sigaretta fra le labbra, portò il telefono all’orecchio.
«Dimmi», proruppe, senza nemmeno dare al suo interlocutore il tempo di presentarsi.
Il ragazzo dall’altro capo della cornetta sbuffò, come se stesse andando di fretta ma proprio non riuscisse a concepire una risposta del genere.
«Molto amichevole, Milly, davvero», commentò. «Anche per me sentirti è sempre un piacere».
Daz incurvò le labbra, osservando distrattamente alcune gocce di pioggia cadere dal bordo della tettoia: «Mi hai chiamato solo per ricordarmi quanto sono insensibile?» domandò, senza alcuna intonazione particolare.
Aaron Knight, dall’altra parte, sospirò nel modo più teatrale possibile, rispondendogli stancamente di no e dichiarando a gran voce il suo disappunto:
«Mi piacerebbe sapere dove cazzo sei finito, in realtà.»
«Ti interessa?», ribatté l’altro, determinato a non voler dare informazioni.
«Ascolta, hai seriamente rotto le palle. Ti prego, esci da questo stato di apatia e torna fra noi: certo che mi interessa.» Aaron sembrava insofferente. «Stiamo andando giù al faro, comunque; ovunque tu sia, ci piacerebbe davvero molto se ci raggiungessi», confessò, evidentemente stanco di dover formulare ogni giorno inviti più o meno impliciti come quello.
Daz, in risposta, respirò forte contro il microfono: nonostante le chiamate incessanti, l’ultima volta che era uscito con i suoi compagni senza sentirsi costretto risaliva a molti mesi prima; dentro di sé sapeva che non sarebbe stato accolto come un tempo, e la cosa lo sconfortava al punto da voler rinunciare nuovamente a quel confronto sofferto, sebbene sperato… Eppure, si disse, se voleva sistemare la questione, da qualche parte doveva pur cominciare.
«D’accordo..» acconsentì qualche secondo più tardi, stringendo le labbra attorno al filtro della sigaretta con forza. Era ancora molto combattuto. «Ma non voglio domande, ok?» si sentì di chiarire.
Aaron non rispose subito, ma dal tono sostenuto della sua voce Daz capì che quella piccola, inaspettata concessione aveva sortito un effetto altrettanto insperato.
«Come ti pare».

 

Nuovo messaggio
ore: 01.16 - A: +44 071925238

“Dammi ancora un po'”







 

«Dobbiamo andare, dai, muovi il culo».
Gale Malek sorrise, le labbra sul collo caldo di una delle ragazze più belle del Cardinal Newman, un liceo privato prettamente femminile, e gli occhi scuri leggermente dilatati, puntati in direzione di chi gli aveva parlato. Indossava un maglioncino grigio scuro anche quella sera, come sempre quando si trattava di partecipare a feste di relativa importanza, e un paio di pantaloni neri, strettissimi, strappati all’altezza delle ginocchia ossute.
Si voltò appena, i capelli spettinati sulla fronte: «Il tuo tempismo mi sconvolge», mormorò, pacato.
Charlie Davies, tranquillo quanto lui, sollevò un angolo della bocca, alzando un bicchiere di Vodka liscia sotto le luci a intermittenza del locale dove avevano deciso di passare la serata.
«Mi dispiace, principessa, ma la festa è finita» lo informò, raggiante. «E Leo ha già vomitato abbastanza, per oggi, quindi direi che possiamo fare ritorno a casa» concluse, serafico.
Gale rise piano, annuendo. Lasciò scivolare le dita piene di anelli dai fianchi della ragazza che gli stava tenendo compagnia per l’occasione, vagamente dispiaciuto, e riservò un’occhiata molto eloquente al suo amico.
«Vorrei salutare questa donzella come si deve, se la cosa non vi reca troppo disturbo, Sua Maestà, Re dei Rompicoglioni».
Charlie posò il suo drink su un tavolo nei dintorni, ravvivando i capelli mossi. «Vado a raccogliere Leo dal pavimento», sorrise. «Aaron dice che “Hai dieci minuti per raggiungerci in macchina”.». «C’è anche Daz», aggiunse poco dopo, in un evidente tentativo di persuasione.
L’altro ragazzo, benché sorpreso dalle informazioni appena ricevute, alzò le spalle senza mostrare la propria curiosità e si limitò a sorridere, pensando che se nessun altro avesse avuto la faccia tosta di interromperlo ancora una volta, avrebbe sprecato molto meno tempo di quel che gli era stato concesso così ingiustamente. Allungò di nuovo le mani verso i fianchi di quella che sapeva chiamarsi Gin Hawke, le maniche del maglione arrotolate sull’avambraccio, e le riservò un’occhiata piuttosto compiaciuta prima di voltarsi a fronteggiare il proprio amico ancora una volta.
«Dammene venti».
«Quindici».
Gale storse impercettibilmente le labbra piene, suo malgrado divertito: «Andata!» confermò, e solo allora il più piccolo dei due si sentì libero di lasciare l'altro finalmente in dolce compagnia, avanzando nel fumo che circondava i loro corpi solo dopo avergli raccomandato di ‘usare le dovute precauzioni’. Lui, dal canto suo, si limitò ad incassare la pessima battuta, guardando negli occhi la ragazzina che stringeva.
«Non vuoi che me ne vada?», le domandò, sentendo la presa delle sue mani aggraziate stringersi sulle proprie spalle.
Gin scosse la testa, accucciandosi contro di lui, improvvisamente meno maliziosa di quanto fosse stata durante lo svolgimento della festa: «Resta qui, stai con me tutta la notte.», gli disse, accarezzandogli la guancia con fare spaventosamente innocente.
Gale si morse le labbra, imbarazzato da quei gesti intimi. Scostò di poco il suo corpo imponente da quello minuto e morbido della ragazza, cercando di essere il meno sgarbato possibile: nonostante fosse ormai diventato più che bravo a dissimulare, a fingere di essere davvero il diciannovenne spezza cuori che tutte idolatravano, non si sentiva ancora in grado di mentire riguardo a certe cose: non avrebbe mai illuso una ragazza al punto da presentarsi come un possibile, futuro fidanzato, e nemmeno si sarebbe approfittato della situazione; non mentre lei a stento era in grado di intendere e volere, almeno, e lui si definiva troppo buono per spingersi oltre una semplice serie di preliminari senza il suo consenso.
«Non posso» sussurrò quindi, come confidandole un segreto all'orecchio. «Devo tornare a casa».

Gin sembrò spiazzata, ma non si mosse: «Non ti piaccio?», domandò, con le labbra gonfie e il vestito leggermente tirato sulle cosce magre.
Gale scosse la testa, passando una mano fra i capelli color pece per non darle la possibilità di impossessarsene e, in qualche modo, convincerlo a darle retta. Se lei avesse insistito ancora, pensò, con quegli occhi magnetici e quelle tacite promesse siglate con delle carezze piuttosto esplicite, non ci avrebbe messo molto a cedere nonostante i buoni propositi.
«Sei bellissima,» rispose quindi con sincerità, riavvicinandosi piano mentre Gin sembrava perdere lucidità man mano che il volume della musica in sottofondo aumentava. «Ma hai sedici anni, sei ubriaca, e io non sono così stronzo», concluse.







Perdonami.

Noah era seduto in sala d’aspetto, le mani ancorate al tessuto soffice del sedile che lo sorreggeva.
Stordito, come se una campana di vetro lo separasse dal resto del mondo, si sentiva fuori luogo; le ombre di infermieri e agenti della polizia sfrecciavano davanti ai suoi occhi chiarissimi, sbiadite in una scia di voci concitate.
Perché si era lasciato andare in quel modo, lasciando che la rabbia prendesse il sopravvento? Perché non aveva provato a parlarle, invece di costringerla a tornare a casa con lui? Perché la ami, si rispose, quasi inconsciamente; lo aveva fatto per quello, non potevano esserci altre motivazioni, eppure in quel momento gli sembrò che i suoi princìpi non fossero solidi abbastanza per giustificare le azioni che lo avevano portato fino a quel punto: cosa cazzo gli era passato per il cervello?
L’eco delle voci e dei passi nel corridoio dell' Emergency Room del Royal Sussex County Hospital si fece pian piano più ovattato, come se quella domanda appartenesse ad un altro mondo, lontano anni luce, e non ai suoi pensieri. Medici, pazienti, barelle, sangue, sirene. Tutto era privo di consistenza.
A dispetto di ciò che credeva, però, il tremito che scuoteva il suo corpo era maledettamente reale: aveva freddo. Era così ghiacciato da battere i denti in maniera incontrollabile e non riuscire a trovare conforto nemmeno sotto le spesse coperte di lana che gli erano state gettate addosso al suo arrivo in ambulanza.
Noah si guardò le mani, intorpidite e incrostate di sangue: sotto le unghie, resti di legno e fango. Per un fugace momento, prima di accertarsene distendendo e piegando le dita esili, aveva creduto di averne perso la sensibilità.
«Signor Martin?»
Qualcuno doveva avergli appena rivolto la parola, forse un’ infermiera.
«Signor Martin, mi sente?»
Il ragazzo fece segno di sì, muovendo la testa in modo che un ciuffo di capelli lisci e biondissimi ricadesse sulla fronte. La stava ascoltando davvero, adesso? Forse. Non ne era sicuro.
«Il medico arriverà a breve per visitarla, la prego di restare qui».
Non vado da nessuna parte.
Noah annuì di nuovo, e ottenne in risposta un sorriso che non seppe come interpretare, prima che la donna sparisse e lasciasse spazio a due uomini che portarono fuori dall’ ultima stanza del corridoio una barella, carica del corpo dell’unica persona al mondo a cui lui realmente tenesse. La fissò.
Perdonami.
Con la mente, tornò alla prima volta che l’aveva vista, piccola e indifesa: gli occhi scuri semichiusi, la bocca carnosa piegata in un sorriso beato, le mani paffute. Erano passati anni da quel momento, anni in cui aveva fatto di tutto per renderla felice, tenerla fuori dai guai; anni in cui l’aveva vista cambiare, crescere e trasformarsi in una donna: i suoi occhi sempre più chiari, le labbra che avevano smesso di incurvarsi in sorrisi allegri per premersi passionalmente su quelle dei ragazzi che lui meno sopportava, le discussioni, le feste, il dolore, l'amore
E pianse.

Era cominciato tutto da lì.

 

 




Buonasera a tutti! :)
Non so bene da dove partire per spiegare il  perchè di questa pubblicazione, ma... Eccomi qui, pronta a provarci di nuovo.
Inizio col dire che avevo postato questa storia un paio di anni fa su Efp, ma in una categoria differente, senza più aggiornarla - il che potrebbe interessare a pochi ahah -, però mi sento in dovere di precisarlo per questioni di correttezza nei confronti di chi già la seguiva.
Smisi di postare per due semplici motivi:
1) perché sentivo che le cose mi stavano sfuggendo di mano e,
2) perché ritenevo di non avere la maturità necessaria per affrontare determinati argomenti e gestire certi personaggi.
Ora, a distanza di tanti e tanti  mesi, non penso di aver raggiunto chissà quale alto livello di scrittura, ma mi sento più sicura di quello che sto elaborando perchè lo sento più mio: spero che questo basti.
Detto questo, e passando al capitolo, consiglio di vederlo più come un 'pre-epilogo' che un prologo a tutti gli effetti... Mi spiego meglio! ahah
Ho preferito che la storia partisse quasi dalla fine, e non dal principio, in modo da ripercorrere insieme le tappe che l'hanno sviluppata e, ovviamente, incuriosirvi di più.
Non fatevi ingannare dai toni drammatici ;)

Concludo nella speranza che il tutto possa piacervi e che lasciate qualche commento, positivo o negativo che sia, per aiutarmi a crescere.

..Ah, dimenticavo! Ringrazio
Breo Saighead per il banner, e tutte le ragazze che tengono a questa storia da tempi immemori, ormai, per il sostegno immutato <3333


Un bacio,

L.

 


 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Uno - Screwed Up ***


 








 

Capitolo Uno – Screwed Up
(circa cinque mesi prima)




 

Il cappuccino di quella mattina bruciava decisamente più del solito, al punto che la signora Martin si vide costretta ad avvolgere la sua tazza fumante in un paio di tovaglioli bianchi per non scottare i propri polpastrelli già sensibili, e quando i capelli mossi rischiarono di scivolare nella bevanda mentre portava il caffelatte alle labbra, Mace evitò l'ennesima catastrofe della giornata infilando prontamente un paio di ciocche color grano dietro l'orecchio. Solo pochi minuti prima, stirando, si era scottata una mano.
La donna sospirò, il capo chino sul bancone della cucina e la consapevolezza di essere un completo disastro ad incurvare le labbra sottili. Era incredibile con quanta facilità riuscisse a mettersi nei guai pur compiendo pochi, essenziali, gesti quotidiani; i suoi figli non facevano che ripeterglielo, e lei, suo malgrado, non poteva che essere d’accordo con loro.
A quell’ora del mattino, la casa era immersa nel silenzio. Nella stanza, la fioca luce dell’alba filtrava attraverso le persiane accostate, irradiando di fasci luminosi ogni ripiano che riuscisse a raggiungere, e profilava i mobili di un oro tale che Mace non riuscì a distogliere lo sguardo, incantata: quella di essere proprietaria di una casa così confortevole e accogliente, era una sensazione talmente meravigliosa da togliere il fiato; la ripagava di tutti gli sforzi fatti per acquistarla e dei sacrifici che continuava a compiere per mantenerla.
Con un passo verso i fornelli, posò la propria tazza usata sul fondo del lavandino vuoto, salvo lavarsi successivamente le mani e lanciare un’occhiata fugace all’orologio digitale che svettava sopra gli armadietti che costituivano la dispensa, dirigendosi verso il soggiorno. Lì si lasciò cadere sul bordo del divano, chiudendo gli occhi nella speranza di riuscire ad addormentarsi: dopo una nottata passata fra computer e scartoffie in ufficio, un po’ di sano riposo era quello che ci voleva per riacquistare le forze.
«Mamma?»
Mace sobbalzò guardandosi attorno, spaventata da quel richiamo.
La figura che aveva solo vagamente notato prima di gettarsi sul bracciolo, adesso cominciò ad agitarsi, liberando le gambe dal groviglio di lenzuola entro cui erano avviluppate, e un paio di occhioni assonnati sbucarono da quello che lei sapeva essere il copridivano, ora compresso e ridotto ad un piccolo cuscino di fortuna.
Paige Martin sbadigliò, facendo scorrere le dita sottili sul viso arrossato sotto lo sguardo intenerito di sua madre. «Ciao» mormorò, inumidendo le labbra leggermente più gonfie del solito. «Pensavo fossi ancora a lavoro».
Mace sorrise, accarezzandole con dolcezza i capelli arruffati: «Sono tornata da poco», disse.
«Capisco». Paige batté le palpebre un paio di volte, il pigiama a trama floreale largo sul corpo esile e le braccia stese sopra la testa nel tentativo di scaricare la tensione accumulata durante la notte. Mace la guardò a lungo, studiando ogni dettaglio del suo viso mentre le scivolava accanto, sul divano: le iridi ambrate erano contornate da ciglia più scure, che crescevano in lunghezza al di sotto di un paio di sopracciglia scure perfettamente definite; i capelli di un castano dorato, morbidi, e il naso dritto spruzzato di lentiggini chiare. Era bellissima, nel fiore dei suoi quindici anni.
«Cos’avete fatto ieri sera?» le domandò, accucciandosi contro di lei.
«Ho invitato Ollie e Vic. Abbiamo cenato, e poi siamo rimaste in soggiorno a guardare un film finché i loro genitori non sono venuti a prenderli». Paige sventolò una mano smaltata di rosso a mezz’aria, come a voler sottolineare la relativa importanza del suo racconto. «Niente di eccezionale, insomma».
Mace annuì, «Spero solo che tu abbia lasciato tutto in ordine», e sospirò. Allungate le gambe toniche su quel che rimaneva del giaciglio improvvisato su cui sua figlia aveva evidentemente dormito, incrociò le braccia al petto e gettò la testa all’indietro in un moto di stanchezza. Aveva davvero, davvero bisogno di riposare.
«E Noah?» domandò tuttavia, curiosa di sapere cosa ne fosse stato del suo primogenito.
La ragazzina corrugò la fronte, mordendosi il labbro inferiore, assorta. «Credo che fossero le quattro, quando è rientrato, e c’era anche Charlie con lui, come sempre. Vuoi che vada a svegliarli?» si propose, palesemente elettrizzata al solo pensiero.
Mace la spiò di sottecchi. Che l’idea di dar fastidio a Noah, magari saltandogli addosso proprio mentre era nel bel mezzo di un sogno, l’allettasse a tal punto? Non ne era troppo convinta: nonostante fosse a conoscenza del rapporto precario che vedeva i due fratelli costantemente schierati l’uno contro l’altra, dubitava che le intenzioni di sua figlia prevedessero dei semplici dispetti. Dopotutto, quel povero ragazzo non aveva ancora potuto fare nulla che potesse incrinare il suo umore.
«No, lasciali dormire… Sali in camera e avverti solo tuo fratello che sono tornata», rispose dunque, cauta, mentre cercava di capire quale fosse il reale motivo di tanta irrequietezza.
Paige annuì mestamente, nascondendo per un secondo il viso dietro le coperte leggere prima di tirarle via con un calcio vigoroso e dirigersi verso la scalinata che portava al piano superiore.
«Va bene», asserì, salendo con calma i primi gradini.
Ma l’espressione sul suo viso, dapprima gioiosa, era cambiata.







 

Noah era ancora sdraiato di traverso, il petto scoperto e i muscoli poco scolpiti dell’addome che andavano contraendosi al ritmo dei suoi respiri irregolari, probabilmente dovuti alla mancanza d’aria che il cuscino premuto sul viso imponeva; le gambe nude poggiavano sulle lenzuola ammucchiate alla fine del letto e le braccia erano piegate sotto la testa, in una posizione che sembrava del tutto naturale: Charlie fu felice di constatare che il proprio brusco risveglio non avesse disturbato affatto il sonno del suo migliore amico.
Seduto sul bordo dello stesso letto, alzò di poco lo sguardo fino ad incontrare il proprio riflesso nello specchio affisso alla parete di fronte, e corrugò le sopracciglia di fronte a quello che non era decisamente un bello spettacolo. Sul viso, un lieve accenno di barba - che prima d’allora non aveva mai lasciato crescere - gli donava un’espressione assente e gli occhi, stanchi, erano contornati da solchi scuri quanto le sue iridi. La stanza stessa, osservò, immersa nella penombra, dava anch’essa l’impressione di essere trasandata: vestiti e cibo erano sparsi ovunque, il letto era un disastro, e nell’aria aleggiava un’insopportabile odore di chiuso.
Charlie si chiese come avessero potuto ridursi in quel modo, dal momento che nemmeno Noah gli era sembrato tanto a posto, quando avevano fatto il loro (pietoso) ingresso in casa Martin la sera precedente. Erano devastati, e non ricordarne il motivo era di certo la cosa che più lo preoccupava: perché, quando, ma soprattutto come fossero tornati a casa, rimaneva un mistero. Ricordava vagamente di aver messo piede in una discoteca del centro e aver ballato con un paio di belle ragazze, poi di essere andato incontro ad un tripudio di colori, di fanali e… vetri, forse?, ma le immagini che la sua memoria metteva a disposizione erano insufficienti, e in più di pessima qualità; Charlie non avrebbe saputo dire se quella fosse stata la realtà o solo un altro dei suoi sogni sfrenati. L’unica verità che sapeva essere tale, al momento, era esclusivamente il fastidioso mal di testa che lo opprimeva.
«Dormito male?»
Il ragazzo scosse la testa, facendo scorrere le dita affusolate tra i capelli biondo scuro nell’inutile tentativo di placare il dolore alle tempie, e sorrise al riflesso della ragazzina che lo guardava a braccia conserte attraverso lo specchio, indisponente: «E’ stata la notte peggiore di tutta la mia vita» ribatté, «Comunque grazie per l’interessamento, piccolina».
Paige alzò gli occhi al cielo, sforzandosi di celare quanto più possibile il suo fastidio nell'udire quell'ultima parola: mentre la porta aperta alle sue spalle cigolava silenziosamente, decise che sarebbe stato meglio ripagarlo con la stessa, sottile ironia piuttosto che dare in escandescenza alle prime ore del mattino e rischiare di svegliare Noah. Non aveva proprio voglia di litigare.
«Questo perché tu sei un grande uomo vissuto, giusto?» lo sfidò, inarcando le sopracciglia spesse in modo provocatorio. Lui rise piano, gli occhi scuri fissi nei suoi. «Hai sempre la risposta pronta» disse, come se quel dato di fatto fosse lampante, ma impossibile da accettare. «E’ assurdo» aggiunse, studiando i dettagli della sua espressione vittoriosa.
Paige curvò gli angoli della bocca, la testa inclinata di lato in un moto di autostima: «Lo so..» concordò, lasciando volutamente che la frase si dissolvesse nel silenzio.
Charlie ne approfittò per prendere un lungo sospiro e voltarsi completamente, mettendo da parte il loro discorso almeno per un primo momento. «Se tu non fossi così esasperante, probabilmente saresti la mia ragazza» ragionò piuttosto, gli occhi che si alzavano per scontrarsi con i suoi senza la superficie dello specchio a fare da filtro. «Dico davvero» aggiunse, quando lei storse la bocca, evidentemente contrariata.
«Non mi metterei con te nemmeno se fossi l’ultimo essere di sesso maschile al mondo».
«Ah, davvero?» chiese lui, apparentemente tranquillo. La ragazzina annuì: «Puoi starne certo».
«Come mai?»
«Sei troppo fastidioso per i miei gusti».
Charlie sembrò sorpreso. «Capisco» disse, con un tono di voce abbastanza equivoco.
Paige gonfiò le guance, l’espressione corrucciata di chi non è in grado di analizzare la situazione a fondo: «Come, prego?» chiese, stupita dal fatto che Charlie Davies, supremo vincitore di stupidi battibecchi, per una volta gliel’avesse data vinta senza tante storie. «Stai scherzando?»
Lui scosse la testa: «Assolutamente».
«Eppure mi sà tanto di presa in giro...»
Questa volta il ragazzo sorrise, i denti bianchissimi in bella mostra: «Infatti lo è».
Senza alcun preavviso, Charlie afferrò Paige per le braccia facendo scontrare i loro corpi ancora caldi di coperte, e la tenne stretta per un lasso di tempo che parve interminabile mentre lei si dimenava, pregando sottovoce (e inutilmente) di essere liberata: «Perché?» le sentì chiedere ad un certo punto, stremata.
«Perché non è vero che sono troppo fastidioso per i tuoi gusti e, anzi, ti piaccio da morire» sussurrò lui schietto, per niente toccato dai modi scortesi che la più piccola dei Martin non mancava mai di riservargli. «Direi che sei semplicemente troppo orgogliosa per ammetterlo» continuò, incastrando meglio le mani dietro la schiena della ragazzina.
Paige rabbrividì inevitabilmente – più per gli spifferi, si disse, che per altro -, aggrappandosi alle sue spalle: «Lasciami», protestò. Charlie si morse le labbra.
«Io sarò anche fastidioso, ma tu sei veramente bella» esordì all’improvviso, sottovoce, non riuscendo a smettere di guardarla. «Magari saccente, testarda e un tantino antipatica...» provò ancora, ma fu costretto a bloccarsi nel bel mezzo della sua appassionata confessione quando Noah, dall’altro lato del materasso, tossicchiò in un tacito ammonimento. La ragazzina arrossì di colpo e spinse via l’amico di suo fratello, cercando invano di non fare altro rumore.
Sciogliendosi in fretta dalla presa di quell’abbraccio un po’ maldestro, arretrò di parecchi passi con le dita che correvano a sistemare il pigiama paurosamente accartocciato sui fianchi, e s’ inumidì le labbra, disperata: quei pochi centimetri che li avevano divisi erano stati il fattore determinante per scatenare una serie di sensazioni che Paige reputò decisamente poco piacevoli.
«Sei uno stupido, Creep!» bofonchiò a mezza voce, alludendo esplicitamente a quei suoi comportamenti per niente adeguati. Charlie le sorrise con noncuranza, avvolto nella sua t-shirt grigia e smessa: a guardarlo, con quelle mani sulla nuca e lo sguardo malizioso, si sarebbe potuto dire che molestare ragazzine in piena crisi adolescenziale fosse uno dei suoi passatempi preferiti.
E tu resti bella.







 

Non si preoccupò nemmeno di alzare lo sguardo, quando accadde. Lo scricchiolio sinistro delle assi del parquet era cessato nell’esatto momento in cui il peso di un pugno si era abbattuto con violenza sulla porta della sua stanza; sapeva che non poteva trattarsi di un errore. Il familiare percorso fino alla sua camera era stato tracciato dagli stessi passi malfermi e impetuosi che, almeno in genere, preannunciavano l’inizio della fine: sperare che dietro quello strato di costoso legno lavorato non si celasse la figura autoritaria di Alan Miller sarebbe stato assurdo, nonché inutile.
Daz sospirò lentamente, le labbra serrate in una linea dura. Nonostante non fosse decisamente una situazione nuova per lui, il fastidioso tremolio che si stava diffondendo tra i nervi delle sue mani tradiva una certa inquietudine: i palmi aperti contro la superficie della scrivania erano tesi, impazienti di torturare qualsiasi cosa pur di azzardare un movimento, eppure così immobili da sembrare elementi di una statua. Con il passare del tempo, era diventato un vero maestro nel confinare le proprie emozioni; aveva imparato a controllarsi, dosando la forza con la temperanza, e a trattenersi senza altro che non fosse un po’ di volontà, almeno quando il caso lo richiedeva: reagire, si ripeteva, avrebbe significato solo conseguenze peggiori. O almeno, così pensava.
«E’ chiusa» proruppe, tenendo lo sguardo ancorato alle pagine del libro che stava leggendo. «E non ho intenzione di aprire» concluse, quando suo padre tentò inutilmente di forzare la porta.
Alan emise un grugnito, e Daz se lo figurò mentre allentava il nodo alla cravatta nel vano tentativo di sciogliere i grumi di rabbia accumulata nel tempo. Non avrebbe resistito a lungo.
«Giuro su Dio che se non esci di lì entro due secondi, rimarrai chiuso nella tua stanza a vita!»
Il ragazzo alzò un sopracciglio, colpito dalla tenacia di un uomo che solo di rado si concedeva una sana arrabbiatura, e scosse la testa, esponendo i capelli nerissimi alla debole luce che le persiane riuscivano a filtrare. Tamburellò piano le dita, quasi a considerare la gravità della minaccia che gli era appena stata palesata, ma non si mosse. Restò fermo sulla propria sedia girevole, respirando lentamente.
«Esco quando mi pare», mimò con le labbra, volutamente sordo alle minacce di suo padre.
«Devi smetterla di fare il ribelle! Questo tuo comportamento infantile non ti porterà da nessuna parte!»
Nemmeno il tuo, se è per questo.
«Apri questa porta e prenditi carico delle tue maledette responsabilità, Daz!» lo sentì urlare. «Hai distrutto una macchina, la scorsa notte, e il proprietario non l’ha presa per niente bene – ma come avrebbe potuto? Cinquemila sterline di danni!»
Daz continuò a non rispondere: per quanto il suo reato fosse grave, proprio non sentiva la necessità di giustificarsi, né di dare una spiegazione che fosse più o meno ragionevole. Sapeva benissimo ciò che aveva fatto, e non se ne pentiva. Di tutti i casini che aveva combinato, quello era sicuramente l’unico per cui mai avrebbe provato rimorso, perché era il solo ad essere stato messo in atto per una giusta causa: ne era fiero al punto da non voler nemmeno coprire le ferite che i parabrezza infranti dell’auto avevano impresso sulle sue nocche, ora rosse e gonfie. Si era trattato di semplice orgoglio.
«Mi stai ascoltando, imbecille
Alan, adesso, aveva alzato ulteriormente la voce, arrivando a ad usare toni poco educati; cosa che, fra le mura della loro lussuosa villa, era accaduta poche altre volte.
Daz indurì la mascella, mentre un secco “no” fuoriusciva dalle sue labbra contratte. Non lo stava ascoltando, e non l’avrebbe fatto mai: distruggere quell’auto era stato un gesto efferato, ne era consapevole, eppure l’aveva privato del senso di impotenza nei confronti di una persona che aveva fatto di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote. Era stato più forte di lui, non se ne faceva una colpa. Quel bastardo se l’era cercata; le paternali sarebbero servite a poco.
«Apri questa porta del cazzo o la sfondo, ragazzino, stavolta hai superato il limite!»
Daz socchiuse gli occhi. Insisti?, «Ti ho detto di no».
Fu questione di pochi secondi, poi la porta prese a tremare violentemente.

 

 


 

 

 

«E adesso?»
«Ha un sopracciglio spaccato, ma è una cosa con cui dice di poter convivere».
«Non mi riferisco a quello».
«…»
«Gale, davvero, cosa le dirà?»
«Non vuole parlarne».
«Ma lei ha il diritto di saperlo!»
«E’ solo una macchina, Leo, ti prego! E poi - »
«Sai perfettamente che non è quello, ciò di cui stiamo parlando».
«E tu sai ancora meglio che non sono cose che ci riguardano!».
«Io credo.. Solo.. Insomma, perché non riesce ad essere responsabile?».
Un sospiro. «Mettiamoci l’anima in pace: ho provato a farlo ragionare ed è inutile».
«.. E se ci parlassi io?»
«Non che dubiti delle tue capacità, ma non credo sia una buona idea».
«…», «…»
«Gale, tu credi che lui mi odi ancora?»
«Leo...»
«No, io non-»
«Devo andare».



 



 

«Che testa di merda, eh?»
Leo Tomlinson bloccò lo schermo del proprio smartphone gettandosi di peso sul letto appena rifatto e, in attesa di una risposta che sapeva non sarebbe arrivata, prese a rigirarlo fra le mani con aria assorta, quasi sperando che quel movimento frenetico lo aiutasse a riflettere.
Senso di colpa.
«Voglio dire, che cazzo di bisogno c’era?» continuò, voltandosi in direzione delle persiane.
Aaron restò in silenzio, le braccia conserte e lo sguardo cupo: nonostante ci stesse rimuginando da ore, ormai, immobile fra la scrivania e la finestra più grande della sua camera, nemmeno lui aveva saputo dare una spiegazione a ciò che era successo. Quando, quella mattina, aveva ricevuto un messaggio pressoché telegrafico dal diretto interessato, si era semplicemente limitato a divulgare la notizia, ma non aveva ritenuto necessario prendersi la briga di chiedere: sebbene morisse dalla voglia di conoscere i dettagli della storia, conosceva Daz da troppo tempo, e l’esperienza gli aveva insegnato che ogni tentativo di informarsi su qualunque evento alterasse gli equilibri già precari della sua vita era vano.
Non avrebbero mai ottenuto le risposte che cercavano.
«E poi spiegami che senso ha scriverci, se dopo non ha nemmeno voglia di parlarne!»
Leo si era alzato, e ora aveva ripreso a misurare il perimetro della camera a grandi passi. Aaron lo osservò a lungo, incerto di sapere a quale dei suoi mille pensieri dar voce, poi sorrise a labbra chiuse.
«Sembri sua madre» disse alla fine, optando per la leggerezza di quella battuta.
In realtà, aveva riflessioni ben più serie e complicate da esprimere, ma doveva trattenersi.
Leo ricambiò il suo sguardo, furtivo: «Tu non sei preoccupato?»
Amore.
L’altro si strinse nelle spalle, assorto. «Un po’..» ammise, ma il fischio basso e prolungato che udì pochi secondi dopo lo trattenne dal proseguire la conversazione: il fratellino, James, che per la notte aveva ceduto il letto a Leo, aveva appena richiamato la loro attenzione, avvertendoli della propria presenza. Non si erano nemmeno accorti che avesse bussato più volte, prima di fare capolino nella stanza.
«Il pranzo è pronto» lo sentirono dire, con quella sua vocina squillante. «Mamma e papà ci aspettano di sotto. Tu non hai fame, Ronnie?».
Aaron gli sorrise, allargando le braccia perché il piccolo potesse saltargli addosso e abbracciarlo come ogni mattina, dandogli il buongiorno con un bacio. Leo, che prima di quell’interruzione aveva aperto la bocca per dire la sua, si zittì e abbassò lo sguardo con una piccola fitta al petto.
«Fame? Mangerei anche te! Forza piccola peste, scendiamo».
Famiglia.

 


 

Buonasera!
Aaaallora, da dove comincio? Innanzitutto, spero di essere stata abbastanza puntuale nel postare: se non sbaglio, dovrebbe essere passata poco più di una settimana dalla pubblicazione del 'prologo', e ho fatto davvero di tutto per non prolungare ulteriormente la vostra attesa! 

Per quanto riguarda il capitolo, diciamo che mi sono volutamente matenuta su una narrazione che fosse abbastanza 'soft', piuttosto che entrare da subito nel vivo della vicenda, perché la cosa che mi premeva maggiormente era presentare tutti i protagonisti (eh già, sono sei! ahah) e dare una visione sommaria della situazione senza però raccontarvi troppi dettagli. Vi basti sapere che ci sono moooolte questioni sottintese, e che piano piano dovreste riuscire a cogliere e collegare tutte le informazioni necessarie per capirci di più ;)
Mi auguro con il cuore che possiate appassionarvi alla vita di questi ragazzi come ho fatto io in questi secoli di stesura e progettazione!  

Chiudo sperando in qualche commento (ripeto, accetto tutto, anche/soprattutto critiche, se lo ritenete!) e ringrazio tutti coloro che mi hanno dato fiducia inserendomi fra le ricordate/preferite/seguite. 


Alla prossima!
Un bacione,

L.

 

 


 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Due - Bound To You ***


 








 

Capitolo Due – Bound To You




 

Quando si erano conosciuti, molti anni prima, Aaron ricordava di aver pensato che Daz Miller dovesse essere il bambino più malinconico della Terra. La sua casa, gli aveva detto dopo appena qualche minuto di conversazione, sorgeva ai piedi delle colline che si ergevano morbide intorno al perimetro della città, in una ricca zona periferica dove tutti i prati venivano periodicamente tagliati con cura, le villette erano sempre impeccabili nella loro statuaria eleganza e nell'aria aleggiava un allegro profumo di fiori d'arancio. Eppure qualcosa, nelle frasi e nello sguardo di quel bambino, gli aveva lasciato pensare che tutto quel discorso accorato non fosse che il riflesso di un pensiero che non gli apparteneva fino in fondo e questo, in qualche modo, lo aveva turbato.
«Mamma e papà sono imprenditori, hanno un'azienda di vini davvero famosa» lo aveva sentito continuare, apparentemente fiero di raccontare al suo nuovo compagno di giochi quale fosse la storia della sua gloriosa famiglia, «e ho un fratello più grande che si chiama Drew ed è super intelligente!», gli aveva detto in conclusione, posizionando il modellino della sua macchina sportiva alla partenza di un'immaginaria pista da corsa.
Aaron lo aveva studiato per un po', la propria piccola Ferrari ancora fra le mani paffute, con un' evidente curiosità scolpita nei grandi occhi verdi: avevano cominciato a parlare da molto ormai, circa un'ora, eppure non aveva ancora imparato davvero qualcosa che riguardasse Daz in prima persona. Avevano parlato della scuola, dei giocattoli che lui era riuscito conquistare dopo una marea di suppliche ai suoi genitori, gli aveva raccontato delle torte buonissime che sua nonna Theresa era in grado di preparare e di quella volta in cui si era nascosto dentro al forno per farle uno scherzo; presa un po' di confidenza, poi, si erano divertiti molto e avevano riso, spensierati, ad alcune sciocche battute sulle loro piccole coetanee,  sugli studi disperatissimi del fratello di Daz e l'ossessione per il fitness di Catherine, sua madre, eppure Aaron non aveva colto una sola informazione che avesse potuto rivelargli un dettaglio in più di quel suo nuovo amico. Gli sembrava così... solo. E tuttavia non una persona banale. Fu proprio questo, forse, a spingerlo nel tentare un nuovo approccio per soddisfare il suo profondo interesse.
«Non mi hai detto quasi nulla di te» gli fece notare allora, concentrato e avvilito allo stesso tempo, nel pieno di una gara che entrambi si stavano sforzando di vincere: nella loro fantasia, ormai, mancavano soltanto pochi giri del percorso prima che uno dei due potesse tagliare il traguardo e diventare il campione della corsa automobilistica di quel pomeriggio, per cui quello gli era parso il momento più adatto per intervenire. «Parli tanto dei tuoi, ma di quello che fai o ti piace non so nulla. Come sono i tuoi amici? Simpatici, cattivi? Giochi a calcio? Qual è il tuo colore preferito?».
Daz di colpo sussultò, come se una scossa di carica elettrica avesse appena trapassato il suo corpicino, e la sua Jaguar andò involontariamente fuori pista, decretandone l'esclusione dalla competizione. «No, che palle!» esclamò, tradito dalle sue improvvise emozioni. Aaron gli sorrise, benevolo. «Tranquillo, è stata colpa mia» ammise, e lentamente arrestò la corsa del proprio veicolo in modo da dare all'altro il tempo e il modo di rimettersi in carreggiata.
Daz ci mise un po', assorto com'era nei pensieri che quella sfilza di domande aveva generato nella sua mente, ma riposizionò l'auto nel punto esatto in cui ricordava fosse avvenuto lo sbando, poi guardò il ragazzino che gli stava di fronte con un'aria stralunata. Si rese conto di non avere la minima idea di cosa rispondere.
«Non ho molto da dire» soffiò infatti poco dopo, abbassando la testa sebbene non si sentisse affatto a disagio. «Faccio parte della mia famiglia, sono in terza elementare come te e un giorno sarò direttore della nostra impresa». Poche, essenziali, notizie.
Aaron, pregno di quella curiosità che da sempre caratterizzava la sua natura, restò terribilmente deluso da quello sterile annuncio. «E basta? Questo è tutto?» insistette.
Daz alzò le spalle, senza una particolare espressione sul viso. Del resto, cosa avrebbe potuto rispondere? Non aveva nonne di cui raccontare, non praticava alcuno sport, e a scuola non aveva troppi amici con cui condividere giochi o passare il tempo.
«Sì, è tutto» disse, anche lui un po' triste nel realizzare quella verità. L'altro ragazzino tacque, sinceramente dispiaciuto.
Qualche minuto dopo, comunque, quando i genitori di entrambi li raggiunsero dalle loro panchine per fare ritorno a casa dal parco, Aaron si sentì in dovere di chiarire una questione, stringendo Daz in un abbraccio genuino che sapeva di promesse.
«Ci vediamo domani, stessa ora» pronunciò, solenne. «E porta la tua bicicletta. Ci sai andare, in bici, vero?». L'altro annuì, confuso da quell'affetto inaspettato e quei modi di fare così spontanei.
«Bene,  uno a zero per me! Ora so qualcosa! Voglio scoprire quanto più posso di te, e non mi va che tu stia sempre da solo. A partire da oggi, io sarò il tuo migliore amico».
Daz lo guardò interrogativo, quasi spaventato da una pretesa tanto inopportuna, ma non disse niente: in fondo, quello strambo ragazzino si stava dimostrando molto gentile nei suoi confronti. E così si salutarono; lui titubante, e l'altro felicissimo, determinato a perseguire il proprio folle, presuntuoso intento.
Da quel momento in poi Aaron, pur sapendo che per realizzare quella sua pazza idea non sarebbe bastata una vita intera, aveva continuato a mantenere il suo giuramento e la loro amicizia era sorprendentemente cresciuta di anno in anno, fortificandosi non senza difficoltà e litigi che spesso li avevano tenuti lontani per qualche tempo.
Eppure, a distanza di quasi dieci anni, alla luce dei fatti recenti e mentre nella penombra della sua camera guardava nostalgico alcune foto di gruppo dove Daz compariva accanto a lui, quasi sempre con un mezzo sorriso malinconico, si chiese se davvero fosse riuscito nella sua impresa di renderlo una persona felice, senza riuscire a darsi una risposta.






 

«Hai finito?»
Noah non rispose. Sotto la doccia si massaggiò il viso, poi passò le mani fra i capelli pieni di shampoo, cercando di portarne via quanto più possibile sotto un getto rilassante di acqua calda. Di sottecchi, cercò di guardarsi nello specchio affisso proprio sulla parete di fronte alla cabina, sopra il lavandino, spiando ciò che poteva attraverso la nube di vapore che aveva riempito la stanza: il bagnoschiuma scivolava lento lungo le linee del suo corpo snello ma ancora acerbo, dai pettorali appena accennati, passando per i fianchi stretti, fino a delineare le caviglie sottili, sperdendosi ai suoi piedi. Con i polpastrelli tracciò il contorno dei propri zigomi pronunciati, delle labbra impreziosite su un lato da quel piccolo piercing circolare, del naso dritto spruzzato di lentiggini chiare. Non sapeva dire di piacersi davvero. Alla sua età, nel pieno dello sviluppo che caratterizza i ragazzi di diciotto anni, molti dei suoi coetanei erano già praticamente uomini: muscolosi, fieri, duri; sui volti di alcuni, addirittura, baffi fitti e tracce di una barba che si sarebbe infoltita sempre di più. Persino i suoi amici dimostravano qualche anno in più.  Lui, invece, constatò deluso, era ancora soltanto un ragazzino. Sebbene fosse diventato più alto rispetto alla maggior parte dei suoi compagni e ne fosse intimamente fiero, Noah non aveva notato nessun segno di un cambiamento tangibile nel proprio fisico: era ancora lo stesso, banale biondino ch'era sempre stato, con i suoi grandi occhi chiari e la corporatura esile.
Sbirciando meglio, notò poi l'espressione corrucciata che il suo viso aveva assunto a quel pensiero. L'età non aveva sortito alcun effetto  nemmeno dal punto di vista caratteriale, a quanto pareva; restava lo stesso ragazzo insoddisfatto e intrattabile di sempre.
«Allora? Ci vuole molto?»
Noah inspirò ad occhi chiusi, cercando di trovare la pace in un sana boccata d'aria prima di esplodere in un istintivo «Non rompermi i coglioni!» all'ennesimo urlo della sorella, che altro non fece se non confermare le teorie sulla propria, complicata adolescenza.
«Sei lì dentro da più di mezz'ora, deficiente!» lo aggredì Paige dall'esterno, sinceramente stanca di quell'attesa: dopotutto, nel pomeriggio, ancora prima che lui avesse potuto prendere qualsiasi decisione su come passare la sua serata, lei era stata chiarissima per quanto riguardava i propri impegni. «Devo uscire con Peter Taylor, cazzo, lo sapevi, e adesso per colpa tua farò sicuramente ritardo!».
Suo fratello restò ancora una volta in silenzio, completamente sordo alle sue proteste; tuttavia, dopo qualche istante, a giudicare dai rumori che poteva udire, lui ruotò la manopola rossa in modo che l'acqua non fluisse più, e successivamente infilò un accappatoio, prima di scendere dal piatto doccia nella più totale tranquillità con uno sciabordio lieve: dalla lentezza disumana con cui si muoveva, era chiaro che non avesse alcuna intenzione di favorire quell'appuntamento per lei così importante. Paige batté due volte i pugni sulla porta. Era ingiusto che quell'idiota si comportasse in quel modo, in particolar modo pur sapendo quanto lei ci tenesse.
«Ti odio!» urlò più forte che potè, sull'orlo delle lacrime.
Fu solo allora che Noah si degnò di uscire dalla stanza  tenendole aperto il passaggio con il palmo aperto contro la porta massiccia: «Addirittura piangi?» sorrise, soddisfatto della reazione che aveva innescato. Paige alzò verso di lui gli occhi color nocciola, ora lucidi e pieni di collera. Possibile che si divertisse così tanto nel darle il tormento?
«Sei veramente uno stronzo,» disse, tremante, e nell'entrare finalmente nel bagno lo urtò violentemente con la spalla destra. «Uno stronzo dispettoso» aggiunse, a denti stretti.
Il fratello la osservò a lungo, stretto nella sua vestaglia di spugna azzurra, ad un tratto turbato, senza scostare neanche un secondo lo sguardo dai gesti sapienti che le mani di quella ragazzina avevano iniziato a compiere sui propri capelli: arrotolavano, esperte, piccole ciocche color grano attorno alla ceramica di una piastra, poi le tiravano in giù creando un effetto morbido e naturale che, osservò lui, le donava molto. Il trucco che lei doveva aver applicato sul viso in precedenza, notò poi, era tenue, sfumato con toni caldi che scolpivano perfettamente la pelle chiara, e gli occhi erano stati allungati con una sottile riga di eyeliner nero, ora leggermente sbavata per colpa sua. Noah pensò che, anche con quella piccola imperfezione, quella sera Paige fosse davvero bella. Più del solito, insomma.
E fin troppo.
«Dove credi di andare conciata così?» chiese allora, guardandola quasi con disgusto in un moto di gelosia malcelata.
La ragazzina controllò allo specchio che tutto, sul suo volto, fosse in ordine; poi, non riscontrando grandi particolarità nel suo operato, passò ad analizzare il proprio outfit, timorosa di aver sbagliato qualcosa nell’accostamentamento dei vestiti: indossava un semplice maglioncino color panna a maniche lunghe leggermente accollato, infilato dentro una gonna di jeans a vita alta, sfilacciata lungo tutto l'orlo. Al di sotto, un paio di collant neri sufficientemente velato avvolgeva le gambe snelle mentre, ai piedi, le sneakers firmate Puma che Ollie le aveva regalato per il suo ultimo compleanno, ancora nuove, venivano esibite in tutta la loro novità. Paige davvero non capiva a cosa diavolo si stesse riferendo suo fratello.
«Emh... a fare un giro?» azzardò allora, retorica, ma soprattutto sicura che non ci fosse nulla di sbagliato nel modo in cui si era preparata per la propria uscita.
Noah storse le labbra, innervosito dalla sua indisponenza: «Vai a cambiarti» le ordinò con voce alta ma ferma. «Sembri una vecchia».
Paige, contro ogni previsione, decise di ignorarlo, pur sentendo bruciare tra le viscere il fuoco di un'offesa così schiva: dentro di sé, stabilì che non aveva voglia di sprecare altro tempo prezioso per questioni inutili come quella. Dopotutto, non era certo la prima volta che veniva ingiustamente rimproverata da suo fratello per il suo modo di vestire e comportarsi.
«Avete finito di beccarvi, voi due?» Sua madre comparve proprio in quel momento affacciandosi dalle scale, attirata dai toni gravi che aveva sentito dal piano inferiore, mentre Noah si scostava indignato dalla porta in modo da lasciare a sua sorella lo spazio necessario per passare nel corridoio: con la mamma ad assistere, pensò, non valeva la pena di continuare a discutere. Paige, dal canto suo, non si lasciò sfuggire l'occasione per approfittare di quel secondo di distrazione e sfilare a tradimento la cinta che teneva chiuso l'accappatoio del fratello, ora libero di svolazzare e scoprire ogni parte del suo corpo. Con quel colpo di cannone, la guerra che era stata implicitamente annunciata trovò la propria effettiva dichiarazione.
Noah scattò quasi all'istante, imbarazzatissimo, imprecando a pieni polmoni mentre sua sorella tentava la via della fuga.
Mace, triste spettatrice, guardò i suoi figli rincorrersi fra le stanze della zona notte, entrambi ancora molto giovani e incredibilmente immaturi, con rabbia e un pizzico di apprensione: nonostante quello che stava vedendo non le piacesse affatto, aveva timore che un suo intervento fisico non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose, rischiando di travolgere o farsi travolgere da qualcuno e farsi male nella foga del momento. Uno dei due, osservò con orrore, durante l'inseguimento aveva fatto quasi cadere una cornice dalla consolle addossata al muro: Paige era riuscita appena ad afferrare il chiodo di pelle nera appeso alla maniglia della sua stanza che Noah le era subito saltato addosso, slargandole il maglioncino chiaro con uno strattone che l'aveva fatta barcollare.
«Dio Santo, basta!» urlò Mace a quel punto, severa e frustrata. «Siete insopportabili!»
Noah strinse i denti, completamente fermo nell'accappatoio ormai ridotto ad uno straccio: sua sorella, sebbene si fosse di colpo immobilizzata sul posto, stava continuando a tirarne il tessuto dalla manica per ritrovare l'equilibrio perduto. «Piantala, stupida» ringhiò, a bassa voce.
Mace era disperata. Con grandi falcate si avvicinò ai suoi figli e, imperiosa, li divise, ordinando al primogenito di rimettere in ordine sia il bagno che il corridoio, e alla più piccola di cambiarsi immediatamente. «E' ovvio» aggiunse poi, per non dar modo che si fraintendessero quelle sue richieste «che nessuno dei due uscirà, questa sera. E nemmeno quelle a venire. Mettetevi pure comodi nelle vostre camere».
I due fratelli si guardarono, allibiti, sollevando proteste all'unisono, e Mace trovò davvero fastidioso il fatto che si trovassero ad essere sempre stranamente concordi, in contesti del genere.
«Quando imparerete a comportarvi da persone civili, allora ne riparleremo» concluse, stroncando sul nascere ogni eventuale supplica: anche se soffriva nel dar loro quella punizione, sebbene entrambi fossero ormai decisamente grandi per riceverne, sentiva di non avere altra scelta se non quella di forzarli a restare in casa a riflettere sulle proprie azioni. Paige s'imbronciò, le braccia stese lungo i fianchi e le mani chiuse in due pugni stretti. Sembrava essere sull'orlo di una crisi isterica, e questo intristì sua madre nel profondo.
«Aspetto questo giorno da settimane, mamma, e adesso vuoi dirmi che devo rimanere chiusa in questo posto con lui?» le domandò, lugubre, indicando il fratello che, a sua insaputa, si stava chiedendo esattamente la stessa cosa.
La madre annuì decisa, incrociando lo sguardo irato di Noah prima che lui girasse i tacchi per tornare nella sua camera da letto con uno schianto sonoro della porta: se anche la reazione dei suoi figli a quell’ aspro rimprovero avesse fatto tremare il suo cuore colmo d'amore, non lo diede a vedere. Si congedò con una seria ammonizione nei confronti di entrambi, poi tornò di sotto a passi lenti.
Mezz'ora più tardi, però, piegata su una pila di vestiti appena stirati da riporre nei vari armadi della casa, Mace pianse silenziose lacrime amare, chiedendosi come si sarebbero evolute le dinamiche all'interno della sua  famiglia ormai spaccata se solo Dio avesse concesso qualche anno di tempo in più a Luke, suo marito, prima di strapparglielo via con una malattia che tutti loro, neppure lottando insieme, erano stati in grado di sconfiggere.


 


 

 

Bastarono pochi minuti perché il suo battito cardiaco e il respiro tornassero ad essere regolari. Il rossore sulle guance era quasi del tutto svanito, affievolendosi pian piano, e come unica testimonianza di quel piccolo momento di debolezza appena vissuto, non le restava che qualche lacrima intrappolata fra le ciglia curve di mascara.
Paige strinse un altro po' le ginocchia al petto, ancora tremante, e chiuse gli occhi: una volta gettati all'aria i vestiti che aveva scrupolosamente scelto per quella serata così speciale, furiosa e sconvolta, aveva trovato conforto soltanto in quell'angolo specifico della sua camera, accovacciandosi fra i cuscini morbidi della panca incassata sotto la finestra, e solo lì si era sentita libera di prorompere in un pianto senza freni, mantenendo quella posizione fetale fino a quando non era riuscita a calmarsi completamente. Nascosto sotto il palmo della mano sinistra, aperto contro il tessuto vellutato della seduta azzurra, riposava il cellulare con il quale in precedenza aveva tentato di farsi strada nel buio della stanza, ora rischiarato a malapena  dai raggi lunari che s'insinuavano dai vetri: durante il suo sfogo, completamente inopportuno, lo smartphone non aveva fatto altro che illuminarsi fastidiosamente a intermittenza, segnalando la presenza di chiamate e messaggi ai quali lei non aveva avuto intenzione di rispondere. Se per timore o per rabbia, non sapeva dirlo.
Si guardò intorno, sconfortata come poche altre volte nella sua breve, seppur intensa vita, e stringendo i denti nello sforzo di confinare dentro di sé le proprie irruente emozioni, trovò tutta quella situazione terribilmente crudele e ingiusta: a conti fatti, chi ci aveva rimesso davvero, quella sera, era proprio lei. Lei, che ora se ne stava rintanata fra le mura sicure della sua stanza, mentre Noah, pur condannato alla stessa pena, rideva allegro al piano di sotto, felice che i suoi amici avessero comunque trovato un modo per passare il sabato sera insieme senza che lui fosse escluso: solo una decina di minuti prima, l'intera comitiva aveva fatto irruzione con nonchalance in casa loro, trascinandosi dietro birre e svariate confezioni di cibo cinese ben imballato, accompagnati da un'intensa puzza di fumo, pungente testimone di quella cattiva abitudine a tutti loro comune, all'insegna del relax più totale.
Paige si morse le labbra, traendo dall'invidia di quel pensiero la forza per sbloccare lo schermo del telefono, pronta a  leggere rapidamente i nomi dei mittenti di alcuni dei messaggi che aveva ricevuto nella speranza di non dover sopportare l'ennesima delusione anche da parte di quell'unica persona da cui lei si aspettava delle conferme e, specialmente in quello specifico momento, comprensione. Con sollievo, cercando tra i messaggi più recenti, scoprì che le sue aspettative non erano state deluse: quelle frasi di conforto tanto desiderate e sofferte erano proprio lì, vivide, tangibili, digitate con tutta la dolcezza di cui solo lui era capace.

 

Messaggio ricevuto
Ore: 8.20 p.m. - Da: Pete  

“Tesoro, ci vuole ancora molto?
Sono sul vialetto."



Messaggio ricevuto
Ore: 8.34 p.m. - Da: Pete  
“Ci sei? Sto provando a chiamarti..."



Messaggio ricevuto
Ore: 8.44 p.m. - Da: Pete  
“Dalla finestra ho intravisto te e tua madre,
e dalle vostre espressioni
immagino che tiri una brutta aria in casa.
Non so se aspettarti ancora oppure andare via... a malincuore.
Per favore, dimmi qualcosa”



Messaggio ricevuto
Ore: 9.13 p.m. - Da: Pete  
“Mi dispiace molto che il nostro primo appuntamento ufficiale sia andato in questo modo. Qualsiasi cosa sia successa,
spero che non abbia nulla a che vedere con me, perché mai
vorrei essere la causa della tua sofferenza, anche se in realtà penso di sapere qual è il reale motivo e,
in ogni caso, so per certo che non é colpa tua..
Appena puoi, ti prego, scrivimi."


Messaggio ricevuto
Ore: 9.57. p.m. - Da: Pete  
“... Sappi che sono molto legato a te, Paige. 
Di qualunque cosa tu abbia bisogno, io sono qui.♥️
"



 


Paige sorrise a labbra chiuse, sognante, soffermandosi per qualche secondo su quell'unica emoji e, più in generale, sulla delicata confessione che fino a quel momento le era stata in qualche modo preclusa, forse a causa del velo di imbarazzo e insicurezza che entrambi avevano tessuto in quel primo mese di frequentazione: tutt'e due, infatti, sebbene sicuri del sentimento che li univa in maniera totalizzante, erano così dolcemente coinvolti l'uno dall'altra che il pensiero di azzardare una qualsiasi mossa che potesse anche solo per sbaglio rischiare di incrinare il loro rapporto rappresentava una minaccia tale da spingerli, il più delle volte, a non agire e non confrontarsi, nemmeno se questo avesse comportato una dichiarazione genuina o una carezza in più. Fu, dunque, grata che in questo senso a  fare il primo passo fosse stato lui, sollevandola da una sorta di responsabilità che spesso, negli ultimi tempi, aveva sentito gravare sulle spalle esili e a suo avviso troppo inesperte per sopportarne il peso.
Uno strano tepore le colorò le guance di un rosa pallido.
 


Messaggio inviato
Ore: 10.01 p.m. - A: Pete  
“Grazie per aver capito e, soprattutto, scusami, ma ero davvero troppo arrabbiata per badare al cellulare. Come penso tu abbia capito, di mezzo  c'è la mia famiglia...Ancora.
Ad ogni modo spero davvero che potremo rifarci al più presto e che non mi odi per essermi comportata in modo così infantile.
Oltre a questo, voglio dirti che sono felice che questa situazione ci abbia portati ad una 'svolta’, se così si può chiamare...
anche io sento di essere legata a te.
♥️”


 

Aveva composto quel messaggio con impazienza ed estrema sincerità, ma soltanto quando si trattò di inviarlo davvero Paige si concesse qualche istante di riflessione, respirando profondamente: era giusto esporsi in quel modo? Davvero la loro relazione poteva definirsi "sbloccata" e pronta a maturare in vista di qualcosa di più serio sulla base di un semplice dettaglio?
Da brava adolescente innamorata, si era lasciata subito andare a mille fantasie, frenetiche e romantiche, basandosi sulla propria impulsività senza darsi né dare il tempo di metabolizzare e gestire quella nuova intesa che si era inevitabilmente creata fra loro, e immediatamente dopo era lì, pronta a smentirsi, sminuendo da sé i propri pensieri. Era giusto, allora, pensare di poter passare così presto da quel rapporto a tratti ancora acerbo e formale, ad uno più impegnato senza delle reali fondamenta?
Paige si diede della stupida, ed eliminò di fretta l'ultima parte del testo, scritto in modo davvero troppo avventato, sostituendolo con una frase di circostanza e augurandogli una buona notte con la promessa che il giorno dopo, a scuola, si sarebbero incontrati: per quanto ne fosse contenta, per quanto lo avesse desiderato a lungo, convenne con se stessa che fosse il caso di aspettare ancora, tutelarsi, prima di sbilanciarsi a sua volta e correre il rischio di farsi travolgere dalle emozioni ed essere considerata immatura oppure superficiale e frivola. Certo, avrebbe potuto concedersi una confessione meno esplicita, magari anche meno banale di quella che aveva scelto, eppure il suo buon senso le suggeriva di attendere ancora e tacere, schiavo di un pensiero radicato a fondo in lei: nonostante sapesse quali significati sottesi quella piccola ammissione racchiudesse per entrambi e che lui stesse aspettando un segnale altrettanto importante da parte sua, lei decise di tenere quella piccola soddisfazione per sé, aggrappandosi  alla consapevolezza che quando fosse arrivato il momento adatto, avrebbe saputo manifestare i propri sentimenti e la propria felicità senza timore, ma soprattutto con la sicurezza che sarebbe derivata dalla presenza fisica di lui quando questo fosse accaduto. Per quanto fosse impacciata, infatti, e tremasse all’idea di palesare la propria intima emotività di fronte a Peter, Paige non si era mai tirata indietro di fronte a dimostrazioni maggiormente concrete, preferendo di gran lunga vivere determinate situazioni in prima persona, saggiando ogni sfumatura di un’emozione reale, positiva o negativa che fosse, piuttosto che celarsi dietro lo schermo freddo e inerte di un cellulare.







Il salotto di casa Martin sembrava, in definitiva, un campo di guerra: cadaveri di scatole ancora umide per quello che era stato il loro contenuto e scheletri di bottiglie di birra giacevano sulle poche porzioni di pavimento scuro lasciato libero dai divani in pelle bordeaux, disseminato di briciole e piatti colmi di avanzi. Dalla televisione, un film d'azione di recente uscita riempiva l'aria con spari assordanti e musica incalzante, come a voler contrastare il chiacchiericcio allegro che si sollevava dal gruppo di ragazzi sparso nella stanza.
Gale si stiracchiò pigramente, sazio e soddisfatto, seduto a gambe incrociate sul tappeto morbido che copriva buona parte della stanza e la schiena appoggiata alla poltrona dov'era seduto Noah. Accanto a lui, Charlie, sdraiato a pancia in su, scorreva la timeline di Facebook discutendo nel frattempo con Leo e Daz su quanto l'ultima partita giocata dal Liverpool contro il Manchester United fosse stata insoddisfacente dal punto di vista tattico. Aaron, a quanto pareva, era l'unico a non essere presente. Chissà per quale motivo, poi.
«Che ore sono?» proruppe ad un certo punto, scompigliando i capelli mori e distendendo le gambe, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Noah, incastrato fra i cuscini, abbassò lo sguardo verso di lui, essendo l'unico ad aver colto quella domanda nel frastuono generale: con un deciso movimento del polso sinistro, tatuato e marcato da una piccola croce filiforme, scostò il tessuto del maglioncino nero e scoperse il quadrante del proprio orologio. «Quasi l'una» rispose subito dopo, con uno sbadiglio prolungato. 
Gale lo ringraziò con un cenno del capo, poi rivolse lo sguardo oltre la persiana alla sua destra, scrutando l’oscurità di quella notte con occhi sospettosi. Il vento, quel vento caratteristico degli inizi del mese di  ottobre, che fino ad allora si era aggirato attorno alle case senza lasciare traccia delle sue lievi folate, all'improvviso aveva cominciato a soffiare con più insistenza, aprendo violentemente i battenti delle finestre chiuse per metà e facendo ondeggiare le tende pesanti semplicemente sfiorandole: era stato proprio lui, con la sua brezza pungente, a scoraggiare qualsiasi iniziativa che prevedesse di lasciare le mura calde e accoglienti di quella villa, costringendoli a rinunciare al loro consueto giro fra i pub del centro in favore di un’allegra cena tra amici. La proposta era stata avanzata da Charlie che, appresa la notizia del castigo di Noah e informato sulle condizioni meteorologiche, aveva prontamente escogitato un modo per aggirare entrambi i problemi, trasformando l'inconveniente in vantaggioso.
Sebbene lui non potesse saperlo, Gale gli era estremamente riconoscente. 
Il ragazzo sospirò, le iridi scure ancora puntate verso qualcosa di imprecisato al di là dei vetri ampi: grazie alle brillanti risorse del suo amico, aveva trovato un modo efficace per evitare di aggirarsi in determinate zone della città, scongiurando di conseguenza qualsiasi possibilità di incontrare ancora la ragazza che da un paio di settimane aveva preso a pedinarlo a tutti gli effetti, portandolo all’esasperazione.
«Che c’è? Temi di vederla spuntare da un cespuglio?» lo prese in giro Leo dall’altro lato della stanza, notando la sua espressione amareggiata e stanca, come ad averlo letto nel pensiero. Gale accennò una risata spenta, scuotendo la testa: «Non mi sorprenderebbe» ammise, cupamente sincero.
Victoria Smith, ormai, era arrivata a rappresentare un vero e proprio incubo.

«Stiamo parlando sempre della psicopatica del molo, giusto?» s’intromise Daz a quel punto, divertito come poche altre volte, portando quello specifico ricordo all’attenzione di tutti: una volta esaurite le opinioni positive riguardo la Premier League e appurato che Creep ancora continuasse a voler imporre le proprie obiezioni senza realmente ascoltarlo, aveva spontaneamente rivolto la sua attenzione altrove, giudicando le battute su quell’ argomento così scottante molto più stuzzicanti e leggere. Noah gli lanciò uno sguardo d’intesa e annuì, mordicchiando il piercing con gli incisivi. «Non avrei saputo definirla meglio» si complimentò, approvando la sua scelta.
Gale osservò entrambi, intrattenuto da quello scambio scherzoso, poi alzò gli occhi verso il soffitto a nascondere il fastidio e l’imbarazzo, come colpito dalla memoria che aveva appena attraversato la sua mente: ricordava perfettamente l’episodio del Brighton Pier a cui i suoi amici facevano riferimento, e avrebbe davvero preferito che tutti i dettagli di quel pomeriggio estivo non fossero ancora così vividi.
Charlie, che fino a quel momento si era astenuto da qualsiasi commento, a quella sua reazione scoppiò a ridere di gusto insieme agli altri, portando una mano all’addome per tentare di placare la propria ilarità: «Dio, non ditemelo, quella che si mise ad urlare di gioia quando lo vide sulle montagne russe al molo e supplicò il giostraio di fermare la corsa per farla sedere accanto a lui?» domandò, pur sapendo benissimo quale fosse la risposta.
Gale mostrò il dito medio, sentendosi arrossire per la vergogna, ma non lo smentì né si unì all'allegria che quell'annedoto aveva prodotto riempiendo la stanza. In realtà, pur essendo stati realmente quelli gli sviluppi della vicenda, c'erano parecchi particolari che lui stesso si era premurato di omettere, quando era accaduta: anche se gli occhi degli altri Victoria era apparsa soltanto come una ragazzina apparentemente sconosciuta che aveva affossato la propria dignità dinnanzi alla città intera per ciò che sembrava un banale colpo di fulmine, lui conosceva la verità. Semplicemente, non l'aveva divulgata, preferendo negare di conoscerla quando tutti gli avevano chiesto se ci avesse mai avuto a che fare, pur sapendo che quella scelta avrebbe portato a delle conseguenze, come aveva previsto, dal risvolto decisamente negativo. 
Nel pensare a come si erano presentati la prima volta, non molto tempo prima, verso la fine del mese di agosto, Gale si ritrovò involontariamente a sorridere, nostalgico, salvo pentirsi e cambiare espressione quasi all'istante per il modo in cui comunque ed inevitabilmente continuavano a trattarsi anche a distanza di tempo, nonostante gli iniziali buoni propositi che li avevano mossi.
L'aveva incontrata al N°32, un piccolo café sulla Lane, durante una mattina assolata in cui aveva deciso di studiare  per gli esami di ammissione al college al chiuso e lontano dall'afa estiva che ancora si faceva sentire, confortato  dalle temperature decisamente più piacevoli che il locale climatizzato offriva. Lei gli si era avvicinata in punta di piedi, timorosa di disturbarlo, con i lunghi capelli rossi ad incorniciarle il volto tondo e fiero, un top nero che metteva in evidenza il seno piccolo ma sodo, e un taccuino alla mano per chiedergli se volesse qualcosa da bere o sgranocchiare: appena sollevato lo sguardo dal libro di architettura poggiato sul tavolino in legno, aveva subito notato i suoi lineamenti armoniosi, impreziositi da un paio di vivaci occhi verdi, e il suo corpo morbido, invitante, le aveva sorriso, preso alla sprovvista ma compiaciuto, poi aveva ordinato una Coca Cola senza  pretese e l'aveva vista tornare dietro al bancone con un'aria parecchio soddisfatta dopo aver sfiorato casualmente la sua mano con la scusa di dover spazzare via delle briciole.
Gli era bastato quel semplice dettaglio, per capire cosa in realtà lei desiderasse da quel contatto all'apparenza innocente, e quando lei era tornata da lui con un bicchiere colmo di ghiaccio, una lattina e un numero telefonico scarabocchiato velocemente sul tovagliolo che la accompagnava, a confermare quel suo pensiero, Gale l’aveva ringraziata senza dire niente, certo che quel gesto avesse siglato un tacito accordo per cui lui avrebbe cominciato a frequentare il bar più assiduamente e lei si sarebbe impegnata a servire sempre il suo tavolo, sfruttando quelle possibilità per  approfondire la loro
conoscenza senza impegno. Qualche settimana dopo erano finiti a letto, entrambi sicuri di aver imparato del proprio partner quel tanto che bastava perché si potesse sfociare in altro senza doversi sentire troppo in imbarazzo, poi lui aveva cominciato a farsi vedere meno, com'era giusto che fosse, ritenendo che quella piccola parentesi potesse chiudersi semplicemente così, con l'appagamento del loro reciproco desiderio: evidentemente, non aveva valutato bene le proprie mosse, né aveva messo in conto le intenzioni più profonde e serie di Victoria. Dal momento in cui lui aveva smesso di rispondere alle sue chiamate ed era sparito dalla circolazione, infatti, lei non si era data pace, approfittando di ogni momento libero per darsi alla sua ricerca tramite social, e quando lo aveva trovato, intorno alla fine di settembre, ancora arrabbiatissima ma pur sempre presa, gli aveva chiesto spiegazioni circa il suo comportamento, forse sperando in un semplice momento di smarrimento. Gale, sebbene non se ne vergognasse affatto, messo alle strette, aveva dovuto dirle la verità, assicurandole che da parte sua non ci fosse mai stato nessun sentimento vincolante. Ed era stato così che la sua estrema sincerità aveva trasformato una banale scappatella in un problema irrisolvibile: Victoria l'aveva presa malissimo, mandandolo al diavolo con la promessa che prima o poi avrebbe pagato caro lo scotto di quella che per lei era una colpa imperdonabile, e si era rivelata - suo malgrado - una persona di parola, poichè spesso e volentieri era sbucata fuori dal nulla, ad orari e in luoghi impensabili, pronta ad umiliarlo in pubblico con scherzi o situazioni che lo avevano fatto vergognare a morte. 
Gale si maledisse a voce alta, come se il fluire dei  pensieri lo avesse portato ad una percezione più profonda dei propri errori, e nel passare una mano tra i capelli distogliendo nuovamente lo sguardo dalla finestra, arrivò alla conclusione che non avrebbe sbagliato mai più, perché aveva imparato la lezione e ne aveva tratto un insegnamento prezioso per la propria sanità mentale: capì che se in futuro non si fosse lasciato andare con una persona che gli avesse mostrato anche solo un minimo di interesse sentimentale, non solo avrebbe ripreso a dormire sonni tranquilli, ma non avrebbe mai più avuto bisogno di guardarsi attorno angosciato durante la giornata e, soprattutto, avrebbe smesso di osservare con sospetto ogni arbusto che crescesse sul suolo britannico nel dubbio che fra i suoi rami si celasse il motivo dei suoi tormenti, nonché delle sue figuracce atroci.


«Era una lepre, quella, vero
 

 

 

Buoooongiorno! (:
Come promesso, ho cercato di essere regolare con gli aggiornamenti e (pur non essendoci riuscita del tutto) oggi torno a postare con  soli due giorni di ritardo. 
Considerando che l'attesa di questo capitolo dura da circa due anni, direi che è un record in ogni caso ahahah


Che dire? Con "Bound To You" ho voluto spiegare con maggiore chiarezza quali sono le relazioni che legano i protagonisti, e non solo: mi sono concentrata molto anche sull'aspetto introspettivo di alcuni personaggi, perché vorrei davvero che coglieste alcune sottigliezze vitali per lo sviluppo della storia. Mi rendo conto di risultare troppo prolissa, a volte, e vi chiedo perdono per questo,  ma credetemi quando dico che è necessario ;)
Per il resto, vorrei lasciare a voi le considerazioni, perché sono davvero curiosa di capire quali idee vi siete fatti su ogni singolo personaggio nel corso di questi capitoli "introduttivi".


Ringrazio ancora una volta tutti per aver letto e preferito/seguito/ricordato!
Spero che questo capitolo non vi abbia deluso e che vorrete farmi sapere cosa ne pensate con un commento (:
Vi auguro un buon proseguimento!

Un bacione,

L.

 

 


 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3802056