Tornare a Berlino

di ONLYKORINE
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - 9 agosto 1981 ***
Capitolo 2: *** Buon compleanno ***
Capitolo 3: *** Chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere ***
Capitolo 4: *** L'insolazione ***
Capitolo 5: *** Il falò sulla spiaggia ***
Capitolo 6: *** Berlino ***
Capitolo 7: *** La prima sera ***
Capitolo 8: *** Il segreto di Christa ***
Capitolo 9: *** Fidarsi di te ***
Capitolo 10: *** Nel bosco ***
Capitolo 11: *** Anche Wolfrun ha un segreto ***
Capitolo 12: *** A casa di Louis ***
Capitolo 13: *** La prova di fiducia ***
Capitolo 14: *** Tegel ***
Capitolo 15: *** Battaglia ***
Capitolo 16: *** Ultimo giorno ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo - 9 agosto 1981 ***


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TORNARE A BERLINO

 

I personaggi della saga di BERLIN sono di proprietà di Fabio Geda e Marco Magnone e l’opera, di mia invenzione, è stata scritta senza scopo di lucro.

 

PROLOGO 9 agosto 1981

 

Wolfrun danzava sulla spiaggia e Jakob la osservava da lontano. Lo faceva tutte le sere d’estate. Poi lei si sarebbe spogliata dal vestito leggero e si sarebbe tuffata nell’acqua. Lui sospirò. La caletta era praticamente nascosta e la si poteva vedere solo dalla collina dove si trovava il ragazzo.
Gli piaceva andare lassù, dove non si avventurava mai nessuno, quando aveva voglia di pensare. E l’anno prima aveva scoperto Wolfrun su quella spiaggia, a ballare. Ormai erano quasi tre anni che abitavano lì, sull’isola greca. Con suo padre ed Eleni. Con Anneke e Clara, la loro bambina, sua sorella.
Anche se, ogni tanto, a Jakob mancava Berlino. Ci tornava quando Alexis partiva col Pegaso e lo lasciava nella sua vecchia città per qualche giorno, riportandolo a casa quando tornava indietro.

 

Il giorno dopo Jakob avrebbe compiuto diciotto anni. Quando era arrivato sull’isola con suo padre, Wolfrun e Anneke, i ricercatori erano riusciti a sintetizzare l’antidoto per il virus creato da Andreas e avevano iniziato a distribuirlo. Erano tornati a Berlino e avevano iniziato anche lì la vaccinazione. Nessuno si era più ammalato.
Poi lo avevano distribuito anche in altri luoghi. Presto il virus non fu più un problema, ma la ripresa di tutto il resto era stata lenta.
Sull’isola loro erano fortunati, non mancava niente. Ma a Berlino avevano dovuto ricostruire tutto. Qualche adulto era tornato: qualcuno di Atlantis, qualcuno che si era nascosto; ma era stato l’impegno dei ragazzi a salvare la città.
Poi erano arrivati gli altri: i militari. Gli inglesi, gli americani, i russi.

 

Quando il vestito di Wolfrun volò sulla spiaggia e lei si tuffò nel mare, Jakob riprese il sentiero e tornò indietro. Era troppo lontano per vedere qualsiasi cosa, ma la sua mente riusciva benissimo a riempire quei vuoti. La pelle della ragazza era appena dorata in quanto, essendo di carnagione chiara, il sole non la faceva diventare scura come succedeva alle altre ragazze dell’isola e lui lo sapeva bene.
Sospirò ancora. Il suo corpo non era più spigoloso come quando erano scesi dal Pegaso, ma si era riempito nei punti giusti. Le sue gambe si erano allungate e lei era cresciuta anche se era comunque più bassa di lui. E sorrideva. Wolfrun sorrideva.
A Jakob piaceva quando lo faceva. La guardava di nascosto e fingeva che sorridesse per lui. Il suo primo sorriso, Jakob lo ricordava ancora, era comparso sul suo viso quando suo padre le aveva chiesto se volesse vivere con loro.
Avevano costruito una casa vicino alla spiaggia e una stanza era stata dedicata a lei e Anneke.
Sembrava che Wolfrun avesse fatto pace con il mondo, e iniziato a vivere davvero.

 

Rientrò in casa con il buio. “Sei da solo?” Eleni, con sguardo stanco, stava sistemando la cucina. Annuì. La donna guardò verso la porta d’ingresso, come se aspettasse qualcuno.
Suo padre entrò nel salottino mettendosi un dito sulle labbra.
“Le bambine dormono” sussurrò, come se fosse un segreto.
“Anche Anneke?” chiese Eleni. Sebastian annuì, si avvicinò a lei e le accarezzò la pancia, appena accentuata.
“Ti serve una mano?” Eleni scosse la testa e gli fece cenno di sedersi.
“Dov’è Wolfrun?” chiese suo padre. Jakob scosse le spalle, nessuno sapeva che lei fosse alla caletta. Né che lui lo sapesse. Sebastian lanciò uno sguardo alla moglie e lei fece un’espressione strana. Il ragazzo seguì tutto.
“Cosa c’è? È successo qualcosa?” Jakob era più curioso che preoccupato: in fin dei conti l’aveva appena vista.
Eleni alzò le spalle e suo padre sospirò. “Hai presente Georgos? Del nord di Lemnos?” Jakob annuì distrattamente alle parole del padre, con un brutto presentimento. Sebastian sospirò.
“Sembra abbia intenzioni serie.”
Qualcosa si incrinò dentro di lui.

 

***

 

Wolfrun si sentiva benissimo. Era buio e si stava incamminando verso casa. Casa. Non sapeva l’ultima volta che aveva definito casa un luogo. Di sicuro non Tegel e probabilmente neanche Charlottenburg.
Casa era quella costruzione poco più in là della spiaggia dove viveva con Anneke e gli altri, dove si addormentava felice, dove dava da mangiare alle galline, dove spazzava il pavimento e lavava i piatti. Oh, se lo avessero saputo i ragazzi di Tegel! O i suoi genitori…
Senza accorgersene alzò gli occhi al cielo. Mamma e papà... Dorothea… Sospirò.
Non lo avrebbe mai detto, ma non avrebbe lasciato quel posto per nessuna promessa di felicità. E, forse, per nessuna certezza.
E poi lì c’era Jakob, Jakob che l’aveva salvata. Tutte le volte.
La prima volta fisicamente, dal lago ghiacciato, insieme a Ziggy. Poi quando l’aveva convinta ad andare con Anneke dai ricercatori per studiare l’antidoto. Aveva salvato tutti, non solo lei. E quando le aveva detto che non poteva stare da sola. Che sarebbe diventata secca e vuota. Lui non poteva saperlo ma era stata la volta che l’aveva salvata davvero. Perché lei si sentiva proprio così: secca e vuota e da tanto tempo. Da quando era morta Dorothea, forse.
Aveva giocato contro la morte in quella assurda battaglia contro se stessa, mettendo in pericolo anche gli altri.
Finché non aveva rischiato davvero di morire, morire senza che potesse fare niente. E perdere un’altra cosa preziosa. Pensò ad Anneke. Se lei fosse morta, quel Natale, chi si sarebbe occupato di lei?

 

In soggiorno le luci erano accese. Entrò in casa silenziosamente. Jakob e suo padre stavano giocando a carte ed Eleni, che le sorrise quando aprì la porta, era seduta sul divano a lavorare a maglia.
“Wolfrun, hai i capelli bagnati?” Sebastian, il padre di Jakob, era protettivo nei suoi confronti come avrebbe dovuto esserlo suo padre. Lei sorrise e si passò una mano sui capelli.
“Appena un po’. Non preoccuparti”. Salutò Eleni toccandole una spalla affettuosamente e augurò la buonanotte a tutti.
Passò silenziosamente in camera dalle bambine e baciò Anneke sulla testa. Si avvicinò anche a Clara. Piccola, tenera e paffutella Clara. Si chinò anche su di lei e le baciò una guancia. Che bella sensazione i baci.
Quando si chiuse la porta della sua stanza alle spalle, sospirò e si sedette sul letto. Anneke le mancava fisicamente, da due notti dormiva in camera con la piccola Clara e a lei sembrava di essere priva di un arto. Prima o poi doveva succedere, lo sapeva. Ma dopo tutto quel tempo che dormivano insieme… Sospirò ancora e andò alla finestra. Il cielo era limpido, scuro e bellissimo.
Qualcuno bussò alla porta. Magari Eleni aveva bisogno di qualcosa. Ma quando l'aprì si trovò di fronte Jakob.

 

“Jakob! È successo qualcosa?” Il ragazzo dovette fare uno sforzo per parlare.
“No… Pensavo di aspettare con te il nuovo giorno. Io…” incominciò, ma lei non lo fece andare avanti in quella brutta imitazione di conversazione.
“Vieni dentro”. Lei, per fortuna, aprì di più la porta e si spostò per farlo passare, comprensiva.
Il giorno dopo avrebbe compiuto diciotto anni. Il compleanno del miracolo. Nessuno di loro pensava di raggiungere i diciotto anni e avevano iniziato a chiamare così quel compleanno, a Berlino. Lo avevano fatto per ogni diciottesimo: quello di Nora, di Louis e degli altri.
Sentirono Sebastian ed Eleni andare a letto. Jakob voleva aspettare il nuovo giorno con lei. La stanza non era tanto ampia e il letto occupava quasi tutto lo spazio essendo così grande. Un piccolo armadio e una parte di specchio sulla parete opposta -Eleni aveva detto che una ragazza non poteva stare senza uno specchio, mah...-, per terra un tappeto colorato e vicino al letto un comodino, su cui c’era un libro, la torcia e una spazzola.
Jakob la guardò passarsi una salvietta sui capelli umidi e allungarsi a prendere la spazzola.
“Alexis passa da Berlino, la settimana prossima” dichiarò Jakob, notando distintamente quando lei si irrigidì. La spazzola si fermò nell’aria e lei sospirò silenziosamente. Ma lui la conosceva bene e quando riprese a pettinarsi, notò che lo fece con un po’ troppo vigore.

 

Wolfrun non voleva tornare a Berlino. Non ne aveva bisogno e non ci era più andata. Non aveva lasciato niente per cui valesse la pena tornare. Ma Wolfrun sapeva che Jakob, invece, aveva una questione in sospeso e ogni volta che Alexis passava da Berlino, lui tornava in Germania. Per lei. Per Christa.
Jakob aveva parlato di Christa per tutti e tre i giorni del viaggio verso l’isola, quando erano arrivati. E poi ancora il giorno dopo e la settimana successiva. Era stata una mazzata, ascoltarlo. Noioso e borioso, come tutti i ragazzi di Gropius, aveva raccontato di come Christa avesse ucciso la pantera. O di come avesse camminato sui carboni ardenti -e Wolfrun c’era quando era successo, non aveva bisogno di sentirlo raccontare ancora!-
Christa, che li aveva aiutati a cercare Andreas, che era coraggiosa, altruista e tutto il resto…
All’inizio era stato solo seccante, ma poi, quando Wolfrun aveva iniziato a guardare Jakob con occhi diversi, come lo guardavano le ragazze dell’isola, anche solo sentirla nominare e sapere che lui pensava ancora a lei, era diventato un veleno iniettato in vena.
Ma Wolfrun se n’era fatta una ragione. Davvero. Anche se, ogni volta che lui nominava Berlino sentiva morire un pezzo di sé, sapeva che le cose stavano così e non poteva farci niente. Però non riusciva a capire perché non fossero tutti tornati là, a Berlino, da Christa. Jakob, suo padre ed Eleni. Forse Eleni aveva insistito per tornare a casa sua, ma la ragazza ne dubitava. Eleni era una persona molto comprensiva.
“Quanto starai via?” gli chiese alla fine, ma non riuscì a guardarlo e lo spiò dallo specchio.

 

Jakob non era sicuro che fosse il momento giusto. Ma se avesse aspettato il momento giusto, non l’avrebbe mai fatto.
“Perché… non vieni anche tu?” propose. Lei si irrigidì ancora. Ma questa volta fu molto più brava a nasconderlo e a riprendersi.
”Non voglio tornare a Berlino.”
Lui sospirò e chiese ancora: “Non ti piacerebbe vedere com’è adesso? Come sono sistemati gli altri? Ciò che è stato ricostruito? Sai, al posto di…”
Lei lo interruppe, girandosi a guardarlo. “Non mi interessa sapere com’è. O cosa fanno gli altri. Sono amici tuoi, non miei”. Gli lanciò un’occhiata delle sue e si rigirò verso lo specchio.
Wolfrun non era il tipo che si guardasse indietro. Lei andava avanti per la sua strada, sempre. Non aveva bisogno di confrontarsi continuamente con le cose vecchie. Un po’, Jakob, la invidiò.
Ma questa volta non poteva lasciarla lì da sola. Da sola con Georgos. E se fosse vero quello che aveva detto suo padre? Se lui volesse davvero… Non riusciva a crederci. Se lei avesse scelto di sposare Georgos mentre lui non c’era?
Avrebbe potuto non andare a Berlino, certo, ma si sentiva in colpa verso gli altri. Lui lì con suo padre e la sua famiglia e loro là, a ricostruire tutto. Certo, non che loro ce l’avessero con lui o qualcosa di simile, probabilmente era solo un suo problema. Jakob si sentiva fra due fuochi e non sapeva quale scegliere: Wolfrun, la ragazza che si era buttata nel fiume gelido per salvare Anneke o i suoi amici a Berlino?
Beh, ormai stavano tutti bene. Tutto era tornato quasi alla normalità, sia a Berlino che lì sull’isola. Jakob si sentiva fortunatissimo, l’aver scoperto che suo padre fosse vivo, aver trovato l’antidoto al virus e vivere quella nuova vita sull’isola. Quella sua vita così felice.
Senza scordare lei: Wolfrun. Quella Wolfrun così uguale e diversa da quella conosciuta a Berlino. Quella Wolfrun di cui gli altri ignoravano l’esistenza e che lui invece conosceva così bene. E la vedeva tutti i giorni, viveva con lui, lì nella stanza accanto alla sua.
All’inizio era stato difficile, vivevano nell’albergo di Eleni e la ragazza era sempre con i ricercatori che studiavano Anneke. Era tornata cattiva, come a Berlino durante la battaglia di Natale. Riusciva sempre a criticare qualcosa o a detestare qualcos’altro. Jakob non capiva come facessero gli altri a sopportarla. Erano arrivati alle mani, più volte, nonostante lui cercasse sempre di non infierire su di lei, visto che era pur sempre una ragazza.
Poi, un giorno, uno dei ricercatori spiegò a Jakob che Wolfrun non era cattiva, era solo spaventata; lui aveva iniziato a interpretare i suoi atteggiamenti diversamente e a comportarsi in maniera diversa. E lei era cambiata. Ai suoi occhi aveva iniziato a diventare maledettamente affascinante. Continuava a chiedersi perché non se ne fosse accorto prima.
Poi, piano piano, man mano che i problemi si erano rimpiccioliti, lei si era riempita di vita e aveva iniziato a sorridere e non solo con Anneke. E ora era bellissima. E non era l’unico a essersene accorto, notò Jakob, pensando a Georgos.
Ora aveva paura che nel momento in cui fosse tornato, lei non ci sarebbe stata più, magari si sarebbe trasferita insieme all’idiota del nord e lui non se lo sarebbe mai perdonato. Doveva convincerla ad andare con lui.

 

“Quanto starai via?” richiese Wolfrun, prima di sedersi sul letto. Jakob si avvicinò e le si sedette di fianco.
“Non lo so…” La ragazza annuì, pensierosa e lui continuò: “Ascolta…”
“No. Non parliamo di Berlino” lo liquidò lei. Non era pronta ad affrontare l’argomento con lui. Il ragazzo annuì e non disse niente. Wolfrun gli diede qualche pacca sul ginocchio, dicendo: “Bravo”, e Jakob le prese la mano quando lei la tirò via. Incuriosita, si voltò verso di lui.

 

Poteva chiederle di non andare via con Georgos? Poteva chiederle di aspettarlo? Poteva dirle quello che sentiva? Poi il suo sguardo divenne triste, sussurrò: “Non voglio parlarne…”, e guardò verso la finestra. Ok. Non avrebbe parlato di Berlino.
Sorrise al buio e le raccontò di quello che aveva sentito al molo quella mattina.

 
Wolfrun ascoltava il ragazzo rapita dalle sue parole, come al solito. Cercò di non sembrare troppo stupida, ma non riusciva a togliere gli occhi da lui, nonostante il buio. Anzi, per fortuna, che c’era buio! Così non se ne sarebbe accorto. Ma il suo viso nella penombra era affascinante, con quel misto di mistero e assoluto carisma.
Oh, santo cielo. Iniziava a essere come le altre. Quelle stupide oche che ronzavano intorno ai ragazzi. Pensava di essere fuori da quelle questioni, immune agli ormoni, e invece… Guardò verso la finestra per darsi un po’ di contegno e Jakob seguì il suo sguardo.
“Penso che sia passata la mezzanotte. Come si dice? Tanti auguri?” disse e gli diede un pugno affettuoso sul braccio.
“Grazie. Ho una cosa per te” rispose il ragazzo e le allungò qualcosa che lei non riusciva a vedere bene, nel buio della stanza. Le loro mani si toccarono quando lo prese. Poi lui si avvicinò al comodino e afferrò la torcia, l’accese e lei riuscì a vedere cosa le avesse dato: un cavallo. Un pezzo di legno, rettangolare, scolpito a bassorilievo con la testa di un cavallo. Ci passò le dita, accarezzandolo.
“Cos’è?”
Oh che domanda idiota!

 

Jakob sorrise imbarazzato.
“Dovrebbe essere un cavallo…” Non era molto bravo: Spyros gli stava insegnando a intagliare il legno, ma lui era alle prime armi, più che ramoscelli e altre cose per necessità non aveva mai intagliato niente. Mai fatto cose artistiche.
Probabilmente era stata una cattiva idea. Ma lei sorrise. Non si sarebbe mai abituato a vederlo succedere.
“Sì, sì, è un cavallo si vede. Perché mi hai fatto un regalo? È il tuo compleanno non il mio”. Il ragazzo alzò le spalle.
“Volevo farlo” rispose imbarazzato e guardò verso la finestra.

 

Wolfrun corrugò la fronte. Non si erano mai scambiati regali. Lei odiava i regali, le ricordavano il Natale in Germania. E poi non era neanche il suo, di compleanno!
Però non era un regalo come gli altri che aveva ricevuto. Questo era bello. Le ricordava Ziggy. Ziggy, il suo fidato cavallo, che era rimasto a Berlino.
“Grazie. È… bello…” Faceva ancora fatica ad ammettere le cose che le facevano piacere, ma questa volta si sforzò perché sapeva che lui se lo meritava. Jakob si distese sul letto. Mah… cosa stava facendo?
“Vieni qui” disse, battendo la mano sul copriletto al suo fianco. Lei, lentamente, si sdraiò vicino a lui e il suo cuore iniziò a battere fortissimo quando le prese la mano.
Le aveva fatto un regalo perché non si sarebbero visti più? Per questo? Le stava dicendo addio?
“Hai intenzione di rimanere a Berlino… Per sempre…?” sussurrò lei. Lui si girò, ma non si vedevano molto, al buio.

 

“No. Certo che tornerò. Tornerò qui” disse, un po’ confuso dalla domanda. Tornerò da te.
 Wolfrun annuì ma Jakob non poteva vederla e nel buio allungò una mano e le accarezzò una guancia.
“Mannaggia. Stavo già pensando di prendermi la tua stanza” replicò lei scherzosamente. Lui rise.
“Il tuo letto è più grande del mio, ti conviene stare qui.”

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***Eh niente... non so ancora dove mi porterà questo viaggio... Non sono rimasta soddisfatta del finale di Berlin, quindi ho iniziato a pensare a qualcosa di mio... non so se vi piacerà, ma se vi va, leggete e fatemi sapere.

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Capitolo 2
*** Buon compleanno ***


 

Buon compleanno

 

Quando si svegliò, Jakob non capì subito dove fosse. La stanza era diversa. Forse perché non era la sua stanza? Eh, già, era la camera di Wolfrun e lei dormiva sdraiata accanto a lui. Si erano addormentati.
Guardò la finestra. Era quasi mattina, infatti il cielo era più chiaro e la stanza meno buia. Si alzò piano per tornare in camera sua.
Chissà cosa avrebbe detto suo padre, se lo avesse saputo. Stava per aprire la porta quando si voltò di nuovo verso il letto.
Wolfrun era rilassata nel sonno, gli occhi chiusi, il viso disteso, le labbra semiaperte. Non resistette. Non lo avrebbe mai saputo nessuno. Si avvicinò e la baciò sulle labbra. Lei si mosse e sorrise. Ma continuò a dormire.
Perse ancora qualche secondo a guardarla e poi uscì.

 

***

 

“Wolfrun!”
Una piccola furia di sei anni le saltò addosso, sul letto. Anneke, in camicia da notte, saltava sul materasso, cantandole una canzoncina inventata. Wolfrun si tirò su di colpo, ricordandosi della sera prima. Si guardò intorno, ma lui non c’era. Doveva essersene andato appena lei si era addormentata. Non se n’era resa conto. Guardò il comodino dove aveva appoggiato il suo regalo: c’era davvero. Non l’aveva sognato.
La bambina si accucciò sulle sue gambe e l’abbracciò stretta. Sorrise e ricambiò la stretta. Anneke, la sua piccola Anneke.
“Non hai la camicia da notte!” le fece notare la bambina.
Eh, no. Aveva il vestito del giorno prima e anche il golfino.
“Vai a lavarti. Così facciamo colazione” liquidò la sua domanda. La piccola annuì.
Quando furono pronte per la colazione, sentì Sebastian spaccare la legna nel piccolo giardino sul retro, quando attraversarono il soggiorno ed entrarono in cucina.
Eleni stava preparando il tavolo e sorrise alle ragazze, indicando a Anneke il suo posto.
Sentirono Clara piangere dalla cameretta. “Vado io” disse la ragazza, lasciando che Anneke si sedesse per la colazione. Eleni la ringraziò e le disse che sarebbe andata al mercato.
“Ci vado io, al mercato, dopo colazione” urlò Wolfrun dall’altra stanza.

 

Jakob entrò in casa in quel momento. La sua giornata già guastata da quello scambio di informazioni: al mercato c’era Georgos.
Vide Anneke versarsi il latte dalla bottiglia con difficoltà e l’aiutò, ma la piccola mise il broncio e brontolò: “Ci riesco. Sono grande!”
Jakob sospirò pensando che sarebbe presto diventata cocciuta come Wolfrun.
“La bottiglia è più grande di te. Ti ho solo aiutato…” La piccola gli mostrò la lingua.
“Anneke? Non devi dire niente?” Wolfrun era apparsa sulla soglia della cucina con in braccio Clara. Anneke sbuffò e disse malvolentieri: “Grazie, Jakob”.
Anneke ubbidiva solo a Wolfrun. E Wolfrun ubbidiva solo ad Anneke. Un’idea gli attraversò la mente. Guardò verso la ragazza che tornò verso le camere per cambiare la piccola. Forse…
“Anneke, facciamo un gioco?” chiese alla bambina mentre si sedeva. Lei annuì intingendo il pane nel latte.
Più volte sentì addosso lo sguardo severo di Eleni, mentre facevano colazione, ma Jakob fece finta di niente.

 

Wolfrun tornò in cucina, con una Clara sorridente e pulita, e sentì indistintamente Anneke gridare: “Berlino!”
Si irrigidì. Cosa stava succedendo? Guardò Eleni, che ricambiò il suo sguardo corrucciato e poi si voltò a guardare Jakob. Ma lui non la guardò. Giocava con Anneke. O forse, la stava monopolizzando.
Mentre faceva sedere Clara sulla sedia alta, notò che la bambina seguiva il ragazzo con attenzione e nominava più volte la città tedesca.
“Anneke? Cosa…” La bimba si voltò sorridente verso di lei ed esclamò: “Voglio vedere Berlino! Voglio salire sul Pegaso!”
La ragazza lanciò un’occhiata, una brutta occhiata, a Jakob. Prese una fetta di pane dal tavolo e quasi ordinò alla bambina: “Vieni al mercato con me”. Sebastian entrò in casa in quel momento, con tre ceppi di legna per la stufa della cucina.
“Vengo con voi”. Jakob si alzò, autoinvitandosi per la passeggiata.
“No, tu non vieni” ordinò Wolfrun. Lo guardò e sperò che lui non le chiedesse nient’altro. Altrimenti non sapeva come avrebbe reagito.
Si avviò con Anneke fuori dalla porta senza salutare nessuno.

 
“Che è successo?” Sebastian guardò la moglie.
Eleni indicò Jakob con il capo, senza dire niente. L’uomo si voltò verso di lui. Ma Jakob non resse lo sguardo del padre.
“Che è successo?” richiese. Il ragazzo scosse le spalle, mentre metteva davanti a Clara una ciotola di latte. Tolse la crosta da una fetta di pane e la diede alla bambina che iniziò a fare colazione. Poi si alzò, le fece una carezza sulla testa e uscì di casa.

 

Sebastian si sedette alla sedia lasciata libera dal ragazzo e aiutò sua figlia a mangiare.
“Tu sai cos’è successo?” chiese a Eleni.
“Tuo figlio è un egoista”. Di poche parole, Eleni. Sempre. E sempre giuste. L’uomo annuì. Aveva avuto il sospetto anche lui.
“Cos’ha fatto?”
Eleni si sedette con loro a mangiare e raccontò quello che era successo a tavola.

 

***

 

“Non puoi salire sul Pegaso. Sei troppo piccola” disse Wolfrun mentre camminava verso la piazza del mercato. Ma la bambina era tosta. Era cresciuta con lei. E poi era in quella fase io sono grande. Avrebbe dovuto dire qualcos’altro.
“Ci sono già stata, sul Pegaso. Ed ero più piccola di adesso.”
Sospirò. Vide i primi banchi all’orizzonte. “Perché vuoi andare a Berlino?” le chiese. Avrebbe ucciso Jakob. Quella sera stessa. Nel sonno. No, non nel sonno. Doveva soffrire un po’. Un bel po’.
La piccola alzò le spalle, dicendo: “È la città dove sono nata”.
La ragazza si fermò. “E chi te l’ha detto?”
Anneke si voltò verso di lei inclinando la testa. “Me l’ha detto Jakob. È una bugia?” Scosse la testa.
“Non è una bugia, è vero, sei nata a Berlino. Ma adesso non c’è niente da vedere, lì.”
“E perché Jakob ci va, allora?” Beati i sei anni dei bambini. Cosa rispondere? Che andava a Berlino perché c’era Christa? Christa. Christa che aveva camminato sui… Wolfrun scosse la testa e scacciò quel pensiero.
“Ci va perché ha dei ricordi e delle persone che conosce. Va a trovare loro” rispose, Riprendendo a camminare e si fermò davanti al banco del pesce.
“Però mi piacerebbe vedere Berlino” sussurrò la piccola. La bambina osservava un pesce che la fissava a sua volta con occhi morti.
La ragazza si accucciò vicino a lei e le chiese, spostandole una ciocca di capelli: “Non ti ricordi di Berlino?” Anneke scosse la testa.
Maledetto Jakob. Non l’avrebbe mai perdonato. “Ok. Va bene. Andiamo a Berlino”.
Non avrebbe lasciato Anneke da sola. E lui lo sapeva bene. Per questo aveva fatto leva sulla bambina. Anneke sorrise.
“Prendiamo il pesce per cena?” chiese, ma Wolfrun scosse la testa.
Il pesce potevano pescarlo direttamente nel mare. O nel fiumiciattolo che c’era vicino al boschetto. Lo aveva fatto per un sacco di tempo, a Berlino, pensò un po’ stizzosa. Poteva farlo ancora. E sarebbe stata fuori di casa per buona parte del giorno. Si pentì di non aver preso su l’arco e le frecce.

 

***

 

“Siamo tornate!” gridò la bambina quando aprirono la porta. Wolfrun portò il pesce in cucina da Eleni e Anneke corse sul tappeto verso Clara, seduta a giocare con dei giocattoli di legno.
“Stai bene?” Eleni non si faceva ingannare da niente, ma la ragazza annuì con il capo senza dire una parola.

 

Quando tornarono a casa, nel pomeriggio, Eleni sospirò sollevata. Non che si fosse aspettata che la ragazza sparisse dall’isola, ma aveva un brutto sguardo quando era uscita dalla porta e lei aveva avuto il sospetto che non sarebbe tornata presto.
Per fortuna portarono due gran sorrisi e una decina di pesci da cucinare sul fuoco. Sarebbe stata una bella cena. Avrebbe potuto pelare carote e patate e sarebbero stati tutti sazi, pensò mentre infornava la torta.

 

***

 

A cena, quella sera, Sebastian tirò fuori una bottiglia di vino da dessert dalla credenza. Fino a quel momento, avevano festeggiato i compleanni così. I compleanni degli adulti. E ora Jakob era un adulto.
“Oggi è il compleanno del miracolo” disse e appoggiò la bottiglia sul tavolo sorridendo orgoglioso al figlio.

 

Wolfrun era ancora arrabbiata con il ragazzo, che dall’altro lato del tavolo le sorrise. Avrebbe dovuto ucciderlo nel pomeriggio. Nel giorno del suo compleanno.
Si alzò e disse: “Io… Vado a fare una passeggiata”.
Non prese neanche il golfino e uscì velocemente dalla porta.

 

Sebastian guardò il figlio. “Sì, lo so. Non dire niente. Scusatemi…” Jakob si alzò prendendo la bottiglia: perdinci, era sempre il suo compleanno!
“Jakob” lo richiamò il padre. Lui si voltò, preparato a un eventuale rimprovero, ma lui gli allungò i due bicchieri impilati, sorridendo.
Il ragazzo annuì e sussurrò: “Grazie”.

 

Eleni sospirò quando Jakob uscì di casa quasi di corsa.
“Ti ricordi quando dovevamo dividerli? Perché litigavano in continuazione?” Sebastian alzò le spalle e rispose: “Non mi sembra molto diverso. Almeno non si mettono più le mani addosso” .
Eleni sorrise. “Sicuro?”
Sebastian si voltò verso la porta da dove era uscito il figlio. “Che facciamo?” le chiese, senza rispondere alla sua domanda.
“Io ho fatto una torta. Chi vuole una fetta di torta?” chiese lei sorridendo, rivolta alle bambine. Gridolini eccitati riempirono la stanza.

 

***

 

Jakob corse per raggiungere la caletta. Lei doveva essere lì. Per forza. Non poteva essere da nessun’altra parte. Ma stette con il fiato in gola finché non la vide.
“Wolfrun!” esclamò quando vide la sua figura sulla spiaggia, ferma a guardare il mare. La ragazza si voltò, sorpresa.
“Jakob?” Lui annuì e le mostrò la bottiglia.
“Scusa?” provò.

 

Wolfrun non sapeva cosa avesse quel ragazzo di tanto speciale. L’aveva fatta incazzare, aveva desiderato ucciderlo e tagliare il suo corpo in tanti piccoli pezzi, ma quando le sorrideva, lei si sentiva persa. Continuò a guardarlo mentre si avvicinava. Aveva la bottiglia di vino e due bicchieri. Si avvicinò a lei e sorrise ancora.
“Sono un idiota…” incominciò lui.
“Sì”. Dovette trattenere un sorriso che, incurante del suo pensiero, tentava di arrivare alle sue labbra.
“Ti va di festeggiare il compleanno di quest’idiota?” chiese ancora Jakob, l’idiota. Non si sentiva arrabbiata come prima. Ma non l’avrebbe ammesso. Sbuffò.
Lui le fece cenno di sedersi presso una roccia piatta. Guardò la pietra e poi tornò a guardare lui.
“Dai, su, è il mio compleanno…” provò ad ammorbidirla lui. Sbuffò ancora, ma lo seguì. Jakob appoggiò i due bicchieri mentre si sedeva e aprì la bottiglia.
“Pensavo di non poter bere vino fino a che non avessi compiuto diciotto anni…” disse lei, mentre lo osservava aprire la bottiglia. Lui versò il vino.
“Non lo dirò a nessuno”. Ammiccò e le porse il bicchiere facendo tintinnare il suo con quello della ragazza.
Wolfrun bevve. Non sapeva che gusto dovesse avere il vino, né se fosse più o meno buono. Prima del virus aveva visto il vino solo sulla tavola dei suoi genitori, ma loro non glielo avevano mai fatto bere. Aveva bevuto un bicchiere di Champagne una volta, ma non si ricordò in quel momento che sapore avesse.
Quando Jakob la guardò con uno sguardo strano, lo scolò tutto.

 

Jakob non le disse di andarci piano. Versò il vino ancora per tutti e due e le disse: “Stasera non balli…”
Lei spalancò gli occhi sorpresa, ma poi lo guardò stringendo lo sguardo su di lui, domandandogli: “Come fai a saperlo?”
Jakob indicò un punto sopra le loro teste. Lei alzò lo sguardo e vide la collina. Aprì la bocca ma non ne uscì nessun suono. Jakob sorrise.

 

Ma… lui… lui… sapeva che lei ballava sulla spiaggia? L’aveva vista? E l’aveva vista anche quando faceva il bagno nel mare? Spalancò ancora di più gli occhi quando pensò al fatto che si spogliasse prima di immergersi nell’acqua. O santo cielo! Prese il bicchiere e lo bevve ancora tutto di un fiato.
“Ok. Forse dovresti andarci piano” disse, prendendole il bicchiere e appoggiandoli tutti e due, vicini, sulla roccia piatta.

 

Jakob aveva già bevuto del vino, di nascosto con gli altri e anche la birra, ma lei non era abituata e lui aveva paura che le desse alla testa.
Per un momento guardarono tutti e due il mare. Ma poi Jakob la osservò di sottecchi mentre guardava l’orizzonte.
“Quando ero piccola odiavo ballare…” confessò lei. Si girò verso di lui e i suoi occhi divennero grandissimi mentre continuava. “I miei mi avevano obbligato a frequentare il corso di danza di Madame Cheviot, a Berlino, e io lo odiavo. Era tutto un fai così e fai cosà, pieno di regole, nozioni di portamento e altre stupidate varie…”
Jakob la guardò mentre si girava ancora verso il mare. Quando non parlò più le disse: “Mio padre ballava con mia mamma in soggiorno. O in cucina. Le prendeva la mano e la faceva girare mentre rideva. È un ricordo che mi ha aiutato nei momenti difficili”.
Lei annuì come se comprendesse il significato di quello che intendeva. Doveva essere proprio così. Poi si girò verso di lui e Jakob notò che aveva gli occhi scuri, come se fossero pieni di un’emozione forte da controllare.
”Sei stato fortunato, allora”. Come?
“Perché?” Lei si alzò e scosse la sabbia dalla gonna.
“Perché avevi dei ricordi felici”. Il suo tono era triste.
Perché, lei come aveva fatto in quei tre anni a Berlino? “Tu non avevi ricordi felici? E come facevi?”
“A far che?” chiese lei, guardandolo.
“A far passare i momenti difficili”. La sua voce era serissima.

 

Wolfrun si prese tempo per rispondere. Cosa avrebbe dovuto rispondere? ‘Organizzavamo le Feste della Morte. Davamo fastidio agli altri. Rapivamo bambini nei loro letti. Picchiavamo e ci facevamo picchiare. Ti prendevo a pugni. Ho bruciato il castello della tua ragazza. Ero io, i momenti difficili’. Alzò le spalle, decidendo di non dire niente.
“Dovresti ricordartelo, quello che ho fatto”, ma non lo guardò, mentre lo disse. Sentì che si stava alzando e se lo ritrovò di fronte, con una mano tesa verso di lei.
“Balla con me, Wolfrun”. Quando lei non gli rispose, le prese la mano, tirandola verso il bagnasciuga. “Dai, non farti pregare…”

 

Lei si fece un po’ tirare, ma alla fine lo seguì. Jakob la fece volteggiare come nel suo ricordo papà faceva ballare la mamma. All’inizio lei sbuffò, ma poi smise e ci prese gusto, lasciandosi guidare.
Quando finì la musica nella testa della ragazza, per Jakob era troppo presto, ma lei si fermò. Rimase lì davanti a lui, rilassata e quasi sorridente e disse semplicemente: “Grazie”.

 

Lui non aveva idea di quanto le costassero quelle parole, non poteva immaginare.
Ma a Wolfrun era piaciuto davvero. Quando tentò di sfilare la mano dalla sua, lui la trattenne. Alzò lo sguardo per capire cosa stesse succedendo: Jakob era così strano, era diverso dal solito. I suoi occhi…
Con uno scatto fluido e veloce, la tirò verso di sé e le posò una mano sulle reni. Prima che Wolfrun se ne rendesse conto, l’aveva avvicinata ancora e aveva chinato la testa verso di lei e le sue labbra si erano posate sulle sue. Era stato un momento solo, un gesto velocissimo, di cui lei non ebbe modo di rendersene conto.
Lasciò che l’altra mano le accarezzasse il viso e chiuse gli occhi, travolta da quella nuova sensazione.
Poi la mano di Jakob si fece più possessiva e la sua bocca esigente. Si era sentita stringere la vita e poteva sentire il calore di lui scaldarle la pelle, anche attraverso i vestiti. Lui aveva schiuso le labbra e la stava assaggiando accarezzandola delicatamente con la lingua. Era fantastico. Nel momento in cui aprì anche lei la bocca, non riuscì più a pensare con chiarezza. Un’esplosione di colori le offuscò la mente e la sensazione di galleggiare nel vuoto prese il sopravvento, tanto che se la mano di lui non fosse stata lì sulla sua schiena avrebbe pensato di accasciarsi per terra.
Si alzò in punta di piedi per ricambiare il suo bacio e sentì il seno toccargli il petto. Avvicinò una mano al volto del ragazzo e gliela posò sulla guancia, poi la fece scorrere fino ad affondare nei suoi riccioli. Morbidissimi riccioli. Oddio che meraviglia. Altro che Georgos!

 

Quando lei si era avvicinata e aveva sentito il calore dei suoi seni contro di lui, Jakob si era sentito morire. Gemette in maniera poco decorosa sulle sue labbra mentre la mano di Wolfrun gli massaggiava la testa.
Lei si irrigidì. Come il giorno prima davanti allo specchio. La sua mano si fermò e la ragazza si staccò da lui. Quando aprì gli occhi per capire la situazione, vide stupore e sorpresa in quelli spalancati di lei.
Wolfrun sussurrò un debole: “No”, portandosi una mano alla bocca. Tanto che lui non fu sicuro di averlo sentito.
“No?” chiese, infatti, non capendo.
Lei si raddrizzò. “No”. Adesso era molto più sicura di sé. Jakob lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Ma… Perché no? Lei, poco prima, sembrava essere d’accordo. Aveva ricambiato il suo bacio. Molto, anche.
Non fece in tempo a chiederle niente perché lei, velocissima, si girò e corse via.

 

***

 

Wolfrun si alzò dal tappeto decisamente più rilassata. Lo yoga era un toccasana in occasioni come quella. Non che avesse mai baciato Jakob, prima. Si stese sul letto e si portò (di nuovo) una mano alle labbra.
Ora era rilassata, sì, ma decisamente troppo imbambolata: continuava a pensarci e non andava bene.
Quando era rientrata aveva appena salutato e si era chiusa in camera. Aveva pensato che lo yoga le avrebbe disteso i nervi, perché si sentiva nervosa. Nervosa ed eccitata. Di solito serviva. A Tegel serviva per calmarle i nervi. Ma questa volta…
Era stata baciata da due ragazzi da quando era lì sull’isola, ma non si era sentita così.
E quando aveva baciato Jakob, invece… Non andava bene. Non riusciva a controllare quello che sentiva, e non le piaceva. Aveva bisogno di sapere quello che le succedeva. Di non perdere il controllo.
Quando aveva sentito Jakob gemere si era resa conto di quello che stava facendo. Per fortuna si era fermata. Prima che succedesse qualcosa di peggio.
Però… si toccò di nuovo le labbra. Come sarebbe stato se non fosse scappata via?
L’immagine di Chloe le si affacciò alla mente.
Quando viveva a Berlino e c’era ancora Chloe a guidare Tegel, l’aveva beccata più volte in atteggiamenti intimi con qualche ragazzo. All’inizio erano i ragazzi grandi, più grandi di Chloe, poi, quando il virus aveva iniziato a reclamare vittime, Chloe aveva iniziato a non sputare su niente e i ragazzi erano diventati diversi. Soprattutto verso la fine.
Forse era il suo modo per non cedere alla paura. Andare a letto con i ragazzi grandi era servito ad avere protezione e farlo con quelli della sua età era servito ad avere alleati. E pensare che non ne avrebbe avuto bisogno. Chloe era forte, sarebbe riuscita a farcela anche senza quell’espediente.
Quando Wolfrun aveva visto uscire Caspar dalla stanza occupata da Chloe all’aeroporto di Tegel, una delle ultime volte prima che lei stesse così male da non avere la forza di fare neanche quello, lo aveva guardato con uno sguardo glaciale e lui aveva abbassato gli occhi. Un altro idiota.
Però, mentre il corpo di Chloe bruciava sulla pira funebre e Caspar era andato da lei a chiederle cosa volesse fare con Tegel, riconoscendola come capo, aveva capito le motivazioni di Chloe, anche se non le aveva assecondate.
Quando poi il ragazzo ci aveva provato con lei, aveva messo in chiaro quello che pensava sul sesso. E gli aveva detto che avrebbe usato il coltello su di lui, su quella sua parte del corpo, se ci avesse provato ancora.
Stranamente, con Caspar si era guadagnata più fiducia così che come aveva fatto Chloe. Beh, almeno finché non avevano tentato di mangiarsi Ziggy. Sospirò.
Non aveva baciato nessuno a Berlino, nessuno le si avvicinava e a lei stava bene così. Però era stata baciata da Hector, un ragazzo anche abbastanza carino della sua età, l’anno prima, durante una festa dell’isola, ma lei era stata presa alla sprovvista e l’aveva spinto via. Lui aveva riso e se n’era andato, probabilmente da un’altra.
Ci aveva pensato tantissimo, forse aveva agito male, ma non se ne faceva un cruccio.
La seconda volta, con Georgos, un ragazzo di ventitré anni che le aveva proposto di andare a vivere con lui. Si erano
baciati due settimane prima e lei quella volta ci aveva provato, a ricambiare, ma era stato così strano… Quando lui aveva detto di amarla aveva capito che non sarebbe stato giusto dire di sì, visto che era così confusa. Così gli aveva spiegato che non se la sentiva e lui non si era neanche arrabbiato, le aveva detto che avrebbe aspettato.
E ora Jakob… Cosa dire del suo bacio con Jakob? Oh non c’era confronto con gli altri. Nessun confronto.
E la sua reazione! Si era sentita così viva… Imprecò ad alta voce senza accorgersene. Poi si tappò la bocca con la mano. Perché aveva reagito così? Oh, probabilmente perché a lei Jakob piaceva tantissimo. Troppo.
Ma avrebbe dovuto contenersi. Forse non era portata per certe cose. Forse lei non era capace di gestire quelle cose. Le altre ragazze sì. C’era qualcuna più o meno libera in quelle faccende. Eleni una volta aveva definito “chalarí gynaíka” una ragazza più grande di loro che ridacchiava sguaiatamente quando era vicino a Jakob, ma quando poi la donna si era accorta della sua presenza non aveva detto più niente.
Wolfrun aveva fatto finta di non capire il greco, quella volta, e aveva osservato la ragazza. E si era sentita proprio come lei, poco prima. O come Chloe nella saletta della Pan Am di Tegel.
Scese dal letto e si rimise sul tappeto. Aveva bisogno ancora di fare Yoga. Non le piaceva sentirsi così. Così confusa.
E dannatamente viva.

 

***

Jakob tirò un altro sasso nel mare. Saltò. Due volte. Ma solo dove non c’erano onde. Era rimasto lì, sulla spiaggia, con una sensazione indescrivibile nel petto. Sospirò.
Mise le mani in tasca e diede un calcio a una pietra rotonda, si avvicinò a dove prima si erano seduti, si chinò a prendere la bottiglia e i bicchieri e si incamminò verso il sentiero. Finì il vino direttamente bevendo dal collo della bottiglia.
Buon compleanno, Jakob.

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Capitolo 3
*** Chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere ***


Chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere

 

 

Sebastian guardava Wolfrun seduta sulla spiaggia che giocava con Anneke e Clara. Si avvicinò al punto in cui si era seduta, e si lasciò cadere vicino a lei.
“Anneke, Clara, cercate qualche conchiglia per me?” chiese alle bambine, con l’intento di restare solo con la ragazza. Le bimbe annuirono contente e Anneke si spostò sul bagnasciuga con la piccola Clara per mano.
Wolfrun guardò
Sebastian con la fronte corrucciata, senza dire niente. L’uomo tirò fuori il tabacco e cominciò a prepararsi una sigaretta.
“Non sei obbligata ad andare. Lo sai, vero?” iniziò il suo discorso l’uomo.

 

Cosa intendeva Sebastian? Wolfrun si tirò la gonna sulle gambe, coprendosi le ginocchia e gli stinchi il più possibile. La lasciò andare quando si rese conto di farlo per nervosismo.
“A Berlino?” chiese. Lui tirò su la testa e le sorrise. Somigliava a Jakob.
“Intendevo a Kaspakas. Ma vale anche per Berlino.”
Oh. Kaspakas era il posto dove abitava Georgos. “Io…” balbettò, incerta.
“Non devi dargli una risposta subito, ok? Puoi pensarci su e valutare bene la cosa” la interruppe lui, prima che lei potesse dire qualsiasi cosa. La ragazza annuì.
Sebastian arrotolò la sigaretta.
“Si è comportato bene?” chiese ancora, osservando minuziosamente il suo lavoro. Wolfrun pensò al bacio di Jakob e sentì le guance prendere colore. Se lui lo notò, non disse niente.
“Chi?” Sebastian piegò la testa mentre si accendeva la sigaretta e la guardava.
“Intendo Georgos. Jakob so già come si è comportato.”
Lei sentì il viso andare a fuoco. Tutto il viso. Avrebbe potuto accendersi la sigaretta direttamente su di lei.
“Cosa ha fatto Jakob?” chiese Wolfrun un po’ in agitazione. Possibile che lui avesse raccontato a suo padre della sera prima? Erano molto uniti, ma fino a quel punto?

 

Sebastian aspirò dalla sigaretta con soddisfazione.
“Mi spiace, non ci sono scusanti, usare Anneke così, per la storia di Berlino. Gli ho parlato, spero che si scuserà…” disse lui. Wolfrun scosse le spalle e guardò verso il mare.
“Non serve. Andremo a Berlino. È giusto che Anneke veda il posto dov’è nata” gli disse, come se ci avesse pensato su a lungo. Sebastian sospirò.
“Non è stato giusto lo stesso. Pensavo l’avresti ucciso…”
“Ci ho pensato, sai? Più volte”, disse voltandosi verso di lui con una smorfia che sembrava un sorriso e Sebastian pensò a quel primo anno sull’isola, a quella ragazzina con il giubbotto nero che non si lasciava avvicinare da nessuno.
Poi lei riportò lo sguardo alla battigia.
“Anneke, tornate più vicino.”
Anche Sebastian si voltò verso le bambine. La moretta più alta prese per mano la bimba riccioluta e si spostarono un pochino verso di loro.
“Ci sono state volte in cui pensavo l’avresti fatto” disse ancora lui parlando, forse, più seriamente. Wolfrun si girò verso l’uomo, adesso il suo sguardo era serio.
“Jakob mi ha salvato la vita. Anche quando anch’io avevo rinunciato” disse a mo’ di spiegazione. Lui annuì. “L’hai cresciuto bene” concluse. Si alzò e si tolse la sabbia dalla gonna.
Sebastian sospirò. “Siete cresciuti tutti. In quei tre anni in cui eravate soli, siete cresciuti tutti…” Sospirò ancora tirando dalla sigaretta
“C’è chi è cresciuto meglio di altri. Jakob è stato bravo. Molto. In tante cose. È un bravo ragazzo” disse ancora. Forse voleva consolarlo di non esserci stato, ma poi notò che Wolfrun non lo guardava in faccia, come se si vergognasse.
“Però non è un buon motivo.”

 

Come? “Un buon motivo per cosa?”
“Per rinunciare al resto.”
Wolfrun era confusa. “Di cosa parliamo?” chiese, diretta. Lui scosse le spalle e spense la sigaretta contro una roccia, prima di infilarla nel pezzo di carta in cui aveva raccolto la cenere.
“Per accettare Berlino, per non andare a Kaspakas, per… tutto. Devi sentirti libera, ok?” Lentamente annuì. Iniziava a capire. Sebastian era una gran persona, ma lo sapeva già.
Così gli disse la verità: “Ho rifiutato la proposta di Georgos. Ma Jakob non c’entra con la mia decisione. E, a dir la verità, neanche voi”. Di sottecchi, guardò la reazione dell’uomo. Notò che sorrideva. Poi lui si alzò, si avvicinò e l’abbracciò. Stretta. Sorrise un po’ anche lei.
“Sono contento. Non pensavo fosse la cosa giusta per te.”
Lei rise nervosamente. Gli abbracci la mettevano in imbarazzo, ma non seppe dire se fosse contenta o meno, quando lui si staccò. “No?”
“No. Sei come una figlia per me, voglio solo che tu sia felice…” Lei sospirò e chiese, sottovoce: “E come si fa a essere felici?”
“Si fa quello che ti fa stare bene.”
“Tu stai bene?” gli chiese. “Sei felice?”
Sebastian annuì.
“E cosa fai?”
“Guardo i miei figli crescere e spacco la legna così mia moglie può cucinare. Scrivo. Leggo, mi informo. Pesco. Qui la vita è molto diversa da Berlino, ma mi sento completo.”
Wolfrun mosse la testa in segno affermativo. Anche a lei piaceva la vita sull’isola.
“Per questo non siete tornati a Berlino?” chiese ancora. In fin dei conti si era sempre chiesta il perché fossero ancora lì.
“Casa è il posto dove ci sono le persone che ami. Puoi fare casa tua di ogni luogo se sei con le persone giuste. Sarei tornato a Berlino, per Jakob, se me lo avesse chiesto. E sarei tornato con Eleni. Ma ha preferito così. Non escludo che prima o poi ci voglia tornare, lui. Siamo stati un po’ là quando abbiamo portato l’antidoto. Abbiamo aiutato gli altri a ripartire. Sì, sai, i ragazzi… Louis, Nora, Timo, Christa… Ma poi siamo tornati qui.”
Wolfrun annuì. I ragazzi di Gropius.
Non si ricordava tanto di quel periodo. Quando lei e Anneke vivevano più al laboratorio che all’albergo, dormiva pochissimo e mangiava ancora meno.
Sapeva di essere nervosa e agitata, tutti intorno a loro giravano con le mascherine e i guanti di lattice e lei aveva paura a lasciare sola Anneke. Quando uno dei ricercatori più giovani aveva urlato vittorioso di essere riuscito a sintetizzare il vaccino, si era slanciato nella sua direzione e l’aveva abbracciata.
Aveva abbracciato Anneke e quando aveva chiamato gli altri, aveva abbracciato anche loro. Era stato strano, ma emozionante.
“Adesso puoi smettere di avere paura” le aveva sussurrato, in inglese, quando erano stati vicini.
E lei aveva capito che aveva ragione. Aveva paura. E la paura è una gran brutta bestia.

 

Jakob e i suoi erano partiti per Berlino, ma lei aveva preferito non andarci. Anneke era un piccolo straccio. I ricercatori avevano tentato di essere delicati e rispettosi, lei lo aveva notato, ma volevano fare presto, per salvare più vite possibile, e la bambina un po’ ne aveva sofferto.
Ma la piccola non se lo ricordava. Ogni tanto le chiedeva ancora se si ricordava del periodo dei dottori, come lo chiamava lei, ma la bambina sorrideva e raccontava di torte, biscotti e bambole di stoffa.
Perché gli abitanti del villaggio erano stati veramente carini. Non c’era giorno in cui qualcuno non arrivasse con della frutta, un dolce o un piccolo dono per Anneke e per lei. Si ricordò con piacere quando aveva scoperto che in quel posto c’erano ancora i palloni.
Quando avevano trovato il vaccino e Jakob era partito con suo padre, loro si erano divertite. Le giornate si erano fatte sempre più calde e avevano iniziato a passarle in spiaggia, a camminare e raccogliere le conchiglie, a rincorrere i granchi e a nuotare.
Si era sentita libera. E felice. Come durante la vacanza con la sua famiglia. Lemnos le ricordava quel periodo e si sentiva bene. La Grecia era un posto favoloso, secondo lei.
Wolfrun sapeva di aver fatto la scelta migliore a rimanere sull’isola con loro, anche se non era sicura di quello che avrebbe fatto se loro avessero deciso di tornare a Berlino subito dopo la scoperta dell’antidoto.

 

Sebastian disse scherzando di voler controllare le conchiglie raccolte e si avvicinò alle bambine sul bagnasciuga. Le sollevò da terra tutte e due e le fece giocare un po’. Anneke sorrideva contenta. Guardarono insieme le conchiglie che avevano preso e Clara si accomodò sulle sue gambe quando si sedette sulla sabbia.
Le sue bambine pensò, accarezzando la testa di Anneke che correva avanti e indietro a raccogliere altri tesori. Non stava mai ferma, lei. Neanche Wolfrun, a dir la verità. Si voltò a guardare la ragazza sulla spiaggia e notò che era pensierosa.
Sperò di essersi spiegato bene. Voleva che lei fosse libera di scegliere. Se andare o se restare. E ora anche la storia di Berlino… Si rialzò e prese per mano le bimbe.
“Andiamo al molo?” chiese a tutte e tre, quando si avvicinò alla ragazza.

 

Wolfrun guardò l’uomo che teneva per mano Anneke e Clara. Avrebbe voluto un padre così. Jakob era davvero fortunato. Anneke annuì con il capo quando lui propose di andare al villaggio, ma la piccola sbadigliò.
“Andate voi. Io porto Clara da Eleni, così fa un pisolino” disse, guardando la bambina. Le tese le mani e la piccola alzò le braccia nella sua direzione.
“Magari vi raggiungo dopo” continuò.
Lui annuì e si incamminò con Anneke per il sentiero. Li guardò per un po’, poi Clara appoggiò la testa sulla sua spalla e si stropicciò un occhio con il palmo della mano.
La guardò e le fece una carezza.
“Facciamo un po’ di nanna?” le chiese in greco. La piccola annuì, troppo stanca per dire qualsiasi cosa.

 

***

 

Jakob era tornato a casa subito dopo l’ora del pranzo. In casa c’era solo Eleni, che lo salutò con un sorriso. Le sorrise anche lui. Papà faceva ballare anche lei? Sperò che lo facesse, anche se non li aveva mai visti.
Guardò la donna spostare una cassetta di legno che sembrava abbastanza pesante e si avvicinò velocemente.
“Lascia, lo faccio io” disse, lei lo ringraziò e si asciugò la fronte. “Dove sono gli altri?” chiese lui, quando riuscì ad appoggiare la cassetta sul piano.
“Sebastian è al molo. Wolfrun alla spiaggetta con le bambine” rispose e Jakob annuì.
Poteva chiedere consiglio a Eleni? Beh, di sicuro, qualsiasi cosa le avesse detto, lei non l’avrebbe raccontato a nessuno.
“Posso chiederti una cosa?” le chiese, cercando di tenere un tono basso. Eleni alzò un sopracciglio e annuì.
“Ho baciato una ragazza” cominciò, ma notò Eleni alzare di nuovo il sopracciglio, senza dire niente. Forse non era una buona idea. “Ok, niente…”
Eleni si avvicinò e gli appoggiò una mano sulla spalla. “Caffè?” chiese e gli fece cenno di sedersi al tavolo della cucina. Lui annuì e si sedette.
Quando Eleni si girò a preparare il caffè, lui sospirò e ricominciò: “Io ho già baciato altre ragazze”. Ci teneva a mettere le cose in chiaro.
Lei si voltò e gli sorrise. Lui si imbarazzò un po’, sentendosi uno stupido, ma poi lei si girò ancora verso il lavello.
Era più facile quando non lo guardava in faccia. Aveva baciato Christa ed era stato baciato da Ulli, a Berlino. E sull’isola… beh, le ragazze dell’isola erano entusiaste di lui. E tutte molto bendisposte. All’inizio si era sentito come con Ulli la sera di capodanno poi invece… aveva semplicemente iniziato a non pensarci troppo e lasciarle fare, finché… Eh, finché non aveva iniziato a sognare di baciare Wolfrun.
Ma non l’aveva mai fatto. E si sentiva troppo codardo per prendere l’iniziativa, fino a quando non aveva avuto paura di perderla. Il pensiero di Georgos che la baciava, la stringeva e poi la portava via gli provocava una fitta al petto.
“È che stavolta…” Eleni si avvicinò al tavolo e appoggiò due caffè facendogli cenno di continuare. “Lei se n’è andata. Mentre ci baciavamo… lei è andata via…”
La donna si sedette davanti a lui e prese il caffè senza guardarlo.
“Forse non le interessi” disse. Jakob ci rimase un po’ male. Ci aveva pensato anche lui, ma era difficile sopportarlo ancora. Era già successo. Non voleva pensare a Christa, ma ci pensò. Ma Wolfrun aveva reagito diversamente, era convinto che le fosse piaciuto. Era qualcos’altro il problema.
“Io penso di sì. A lei piaceva, subito. Ma poi è scappata via” ammise.
“Si è spaventata?”
Alzò le spalle. “Non lo so” rispose. Si era spaventata? E perché avrebbe dovuto spaventarsi?
“Lei è… molto giovane? Potrebbe essere inesperta…”
“Inesperta?” ripetè Jakob. Non era sicuro di aver capito bene quello che intendesse. A volte le parole fra di loro erano difficili. Tedesco, inglese e greco si perdevano un po’.
“Dici che l’hai baciata tu. Se avesse preso l’iniziativa lei magari sarebbe stato diverso… Magari le è piaciuto ma era una cosa nuova per lei” disse ancora la donna.
“Se fosse… come dici tu, vorrebbe dire che io le piaccio ma ha bisogno di tempo?” Questa volta alzò lei le spalle.
“Potrebbe” ammise.
Jakob bevve un sorso di quel caffè. Era così diverso da quello che i suoi genitori bevevano a Berlino.
“È che sono confuso. A me è piaciuto e pensavo che piacesse anche a lei… pensavo fosse il momento giusto…”

 

Eleni appoggiò una mano sul braccio del ragazzo. Era così tenero e sapeva quanto fosse timido, sotto sotto. Le ragazze sull’isola avevano approfittato di quel lato del suo buon carattere.
“Forse dovresti parlarle” disse ancora. Lui annuì distrattamente e lei continuò: “Forse è confusa anche lei. Magari si è fatta trascinare dal momento…”
“Se si fosse fatta trascinare, vorrebbe dire che mi voleva un po’ anche lei, però!”
Eleni sorrise. Sì, effettivamente poteva essere così. Jakob finì il caffè e si alzò. “Grazie per avermi ascoltato.”
Sperò di averlo aiutato davvero.

 

***

 

Quando Wolfrun entrò in casa Clara si era appisolata sulla sua spalla. Jakob, che probabilmente stava uscendo, gliela prese dalle braccia e lei sospirò, sollevata. “Grazie” gli disse, passandosi una mano sulla fronte.
Entrò in cucina a bere un bicchiere d’acqua e dopo esserselo versato, si avvicinò a Eleni che aveva un quadro in lavorazione e una tazza di caffè vicino.
“È molto bello” le disse, bevendo e indicando la tela.
“Fuori c’è troppo caldo, per me. Resto qui in cucina finché non c’è ombra” spiegò la donna.
“Sì fuori c’è caldissimo” disse Wolfrun facendosi aria.
“Stai bene? Sei pallida…” le chiese. La ragazza alzò le spalle. Lei e Anneke erano le più pallide sull’isola. Le altre ragazze avevano una bellissima pelle che d’estate si scuriva e diventavano dee greche. Lei diventava di un orrendo color rosso se non prestava la dovuta attenzione, così cercava di non stare troppo al sole. Viveva su quella spiaggetta perennemente all’ombra. E sulle altre spiagge ci andava solo di sera, o quando il sole era già basso.
Al villaggio c’era una signora anziana che le aveva regalato una crema che poteva mettersi per stare al sole senza scottarsi, ma l’aveva finita e non voleva andargliene a chiedere ancora.
Così disse quello che sentiva sempre dire a Dorothea quando sua madre le faceva notare il chiarore eccessivo della sua carnagione: “Aspetto il ciclo”.
Eleni annuì e non disse nient’altro. Per fortuna.

 

***

 

Il giorno dopo fece ancor più caldo. Wolfrun aveva avuto la bellissima idea di fare il bucato e aveva portato avanti e indietro dalla lavanderia del villaggio delle ceste di lenzuola e altri indumenti. L’aveva fatto la mattina presto, prima che ci fosse troppa afa, ma caldo c’era lo stesso.
Stava stendendo le lenzuola davanti a casa quando vide Georgos camminare nella sua direzione. Oh no. Ancora non sapeva come comportarsi con lui. Lui era così gentile nonostante ciò che era successo…
“Ciao” la salutò.
“Ciao, Georgos. Tutto bene?” gli chiese, continuando a stendere. Lui annuì e si avvicinò. Aveva le mani nelle tasche dei jeans e ciondolava in giro, come se volesse prendere tempo.
Quando le fu vicino le sorrise e le chiese: “Sono al mercato tutto il giorno oggi. Ti va… di farmi compagnia? Ho portato anche Goldy…”
A Wolfrun si illuminarono gli occhi. Il cavallo. Georgos aveva portato il suo cavallo. “Mi vuoi comprare?” disse scherzando. Lui scrollò le spalle.
“Non lo so. Funziona?” Lei rise.

 

Jakob tornò dal mare insieme a Sebastian proprio in quel momento. Gli si gelò il sangue quando sentì Wolfrun ridere. Ridere con Georgos. I due ragazzi si scambiarono qualche altra parola, poi vide lei scuotere la testa.
Eleni uscì dalla casa mentre loro si avvicinavano.
“Eleni, Wolfrun può venire al mercato con me oggi?”
La donna scosse le spalle e rispose: “Devi chiederlo a lei”. Jakob la vide gettare uno sguardo noncurante alla ragazza.
“Oh, lei dice che non può perché deve finire di fare il bucato” confessò Georgos, ridacchiando. Jakob vide chiaramente Wolfrun arrossire mentre si chinava a raccogliere una federa dalla cesta e la gettava sul filo steso per la biancheria. Sperò che l’avesse detto per non andare con lui.
“Ho anche portato il cavallo” disse sorridendo.
Jakob si trattenne dal saltargli addosso. Cavallo! Quel bastardo pensava che bastasse un cavallo per portarsi via Wolfrun? E poi, mica era un cavallo, il suo! Era un pony. Un acconto di un cavallo. Sbuffò.
“Se vuoi andare, Wolfrun, qui ci pensiamo noi” disse allora Eleni.
La ragazza mise l’ultima federa ad asciugare e guardò verso casa. Lui non riusciva a capire cosa le passasse per la mente. Ma era una cosa che gli succedeva spesso. Georgos insistette un po’ e alla fine si allontanarono insieme.
Jakob sbuffò nervoso.

 

Sebastian diede un bacio a Eleni ed entrò in casa.
“Li hai lasciati andare?” chiese alla moglie. La donna si voltò con la fronte corrugata e chiese: “Non dovevo?”
“Penso che Wolfrun non volesse andare” ammise lui.
“Ma va là. Quella ragazza non farebbe qualcosa che non vuole. Perché poi non dovrebbe volere? A lei piacciono i cavalli” disse alzando le spalle.

 

“Penso che l’abbia baciata” disse Sebastian. Jakob si voltò verso il padre, ma lui guardava, dalla finestra aperta, il sentiero dove loro erano spariti. Sentì una mano gigante prendergli il petto e stritolarlo. Non si era mai sentito così. Neanche quando aveva capito che Christa aveva preferito Timo a lui.
Eleni sospirò e chiese: “Davvero?”, poi guardò anche lei il sentiero.
Sebastian alzò le spalle.
“È arrossita quando gliel’ho chiesto. Immagino che sia un sì.”
“Ma non dovevi chiederglielo!” Eleni si era un po’ inalberata. Non l’aveva mai vista così agitata. Suo padre alzò ancora le spalle, calmissimo.
“Certo che dovevo. Le ho detto di non prendere decisioni affrettate. Che può rimanere qui quanto vuole.”
La donna gli sorrise e annuì, accarezzandogli un braccio. “Ah. Sì, hai fatto bene” gli disse.
Jakob pensò che avrebbe potuto dirglielo anche lui. “Comunque, ha detto di aver rifiutato la sua proposta” dichiarò l’uomo.
“DAVVERO?” esclamarono in coro lui ed Eleni. La donna si voltò verso Jakob con uno sguardo incuriosito.
“Ha detto così” ripeté Sebastian Jakob sorrise alle parole del padre. “Sempre che non cambi idea adesso…” disse ancora, guardando il sentiero. Merda. Il sorriso del ragazzo sparì.
“Spacco un po’ di legna per la stufa, Eleni?” chiese alla moglie, dopo un po’.
“No, lo faccio io” disse Jakob, dirigendosi verso il cortile sul retro. Aveva proprio voglia di prendere l’ascia in mano.

 

Eleni osservava sorridendo il ragazzo che spaccava la legna. Era molto nervoso e si gettava su quei poveri pezzi di legno in maniera aggressiva. Chissà se il fatto che Wolfrun fosse andata al mercato con Georgos c’entrasse qualcosa con il suo atteggiamento…
Sebastian si avvicinò da dietro e l’abbracciò. “Potremmo mandare Jakob a fare un giro con le bambine. Cosa dici?” disse, baciandole il collo. Lei lo lasciò fare.
“Potremmo.”

 

***

 

Jakob aveva accolto subito l’idea di portare le bambine a fare un giro. Si mise Clara sulle spalle, perché altrimenti sarebbero stati troppo lenti e propose ad Anneke una gara di velocità.
Quando arrivarono al mercato, le bambine ridevano felici. Cercò il banco di Georgos e lo vide più in là del solito. Quell’idiota era arrivato tardi per passare a prendere Wolfrun e ora il suo banco era totalmente al sole. Anche il povero pony, pony e non cavallo, era al sole.
Wolfrun era vicino all’animale e lo accarezzava sulla criniera. Il sole le illuminava le guance e sorrideva. Ogni tanto si chinava su un secchio e con uno straccio bagnava il pelo dell’animale. La vide anche allungargli pezzi di mela.
Si avvicinarono lentamente, almeno finché Anneke non vide Wolfrun.

 

“Wolfrun!” gridò la piccola quando la vide. Wolfrun si girò verso Anneke che correva verso di lei e la chiamava.
“Ciao piccola” la salutò, passandole una mano fra i capelli.
“Sono grande!” Wolfrun rise. Certo.
“Quanto grande?” la stuzzicò.
“Quanto bisogna essere grandi per sposare qualcuno?” Sposare?! Wolfrun sbarrò gli occhi.
“E chi vuoi sposare?” chiese Georgos.
La bambina si voltò e indicò un punto della piazza dicendo: “Jakob!”
Wolfrun guardò nella direzione indicata dalla bambina e vide il ragazzo avvicinarsi con Clara. Quando fu vicino fece scendere la sorella dalle spalle. Lei le sistemò la bandana che aveva in testa, che si era spostata, e la prese per mano.
“Vieni a conoscere Goldy, Clara” le disse, sorridendo, ma alla bambina il cavallo non piacque tanto e Wolfrun rise nel vedere il suo faccino imbronciato.

 

Jakob si fece aria con la mano. “Che caldo…” Georgos annuì. Come se avesse parlato con lui.
“Sai, Jakob, che qui c’è qualcuno che ti vuole sposare?” disse, ridendo divertito l’idiota.
“C’è ancora gente con buon gusto, allora” rispose il ragazzo con tono strafottente.
Vide Wolfrun corrugare la fronte mentre si girava verso di lui.
“Jakob è bellissimo” disse Anneke, confusa da quello che aveva detto lui.
“Anche tu, piccola” le disse scompigliandole i capelli. La bambina sorrise felice.
“Quanti anni ci vogliono per sposarsi, Jakob?” chiese Anneke.
“Ce ne vogliono diciotto” Georgos sorrideva ancora mentre rispondeva al suo posto. Che voglia di fargli sparire il sorriso da quel muso.
“E quando avrò diciotto anni?” chiese ancora Anneke, direttamente a Georgos.
“Non lo so. Quanti anni hai?”
Ma come, l’idiota non sapeva quanti anni avesse Anneke? Vide Wolfrun guardarlo in maniera strana e sorrise vittorioso.
“Anneke compie sei anni a fine mese” lo informò il ragazzo, gongolando. Uno a zero per Jakob.
“Ti mancano dodici anni, allora” disse Georgos alla bambina.
“Dodici sembrano tanti…” gnolò la piccola.
“Se riesci a convincerlo, ne bastano anche diciassette.”
Georgos si era chinato all’altezza della bambina e aveva strizzato un occhio, poi aveva lanciato un’occhiata a Wolfrun che però non aveva sentito e stava cercando di far salire Clara sul dorso del cavallo.
Jakob non ci vide più. Era stata una cattiva idea. Doveva andarsene al più presto o avrebbe dato spettacolo al mercato.
“Andiamo, bimbe. Che ne dite di fare un giro alla spiaggetta?” chiese Jakob ad alta voce. Sperava di portarsi via anche Wolfrun. Lei adorava la spiaggetta. Avrebbero potuto fare una passeggiata nell’acqua. Anneke gridò contenta e Wolfrun si avvicinò a lui con Clara.

 

“Vieni con noi?” le chiese. Wolfrun si sentiva in trappola. Non voleva stare ancora al mercato con Georgos, ma non voleva neanche andare alla spiaggetta con Jakob.
Aveva paura che lui volesse parlare dell’altra sera e lei era riuscita a evitarlo così bene fino a quel momento. Cosa fare? Come rifiutare l’invito e trovare la maniera per tornare a casa? Scosse la testa senza dire niente e si tolse il cappello per metterlo ad Anneke, che era a capo scoperto.
Georgos le fece un sorrisone. O mamma mia. Non è che pensava che rimanesse per lui? Gli aveva già spiegato che non avrebbe cambiato idea. Cavallo o non cavallo. Gli aveva detto che non voleva prendere decisioni affrettate. Lui diceva di aver capito. Sperò che avesse capito davvero.

 

***

 

Merda. Merda. Merda. Jakob guardò di nuovo l’orologio. Wolfrun non era ancora tornata. Era passato mezzogiorno e anche buona parte del pomeriggio. Fra poco avrebbero cenato. Dove si era cacciata? Non era finita a casa di Georgos, giusto?
“Il tempo non passerà prima, neanche se continui a fissare l’orologio.”
Jakob si scrollò e guardò Eleni che aveva parlato mentre dipingeva seduta al tavolo della cucina.
“Non guardo l’orologio” sussurrò brontolando.
“No? Mi sarò sbagliata” disse lei, alzando una spalla. Ma la vide sorridere mentre spennellava la tela.
“Beh, secondo te non è via da tanto?”

 

Eleni sorrise mentre disegnava un albero sulla riva del lago. Il ragazzo non aveva fatto nomi, ma lei aveva capito a chi si riferisse. Alzò ancora le spalle e lui sbuffò. Dovette fare uno sforzo per non ridere.
Disegnò ancora qualcosa e lui continuò: “Ma non dovremmo andarla a cercare?”
“Non è da sola…” Lui sbuffò di nuovo. Non riuscì a non sorridere.
“Ho una brutta sensazione” ammise lui. Ma non era quello, Eleni lo sapeva.
“Sei solo geloso” disse infatti.
“NON SONO GELOSO!” gridò. Il suo tono era un po’ esasperato, adesso.
Si voltò verso di lui e alzò un sopracciglio.
“Dovresti parlarle” gli disse, seriamente, ma lui scosse la testa.

 

Jakob scosse la testa. Di cosa avrebbe dovuto parlare con Wolfrun? Di Georgos?!? Jakob non voleva parlarle. Voleva baciarla. E voleva che Georgos morisse. No. Ok. Non che morisse. Ma che se ne andasse. O almeno che stesse lontano da Wolfrun.
Sentì una voce chiamarlo. Suo padre. Chiamò anche Eleni. Scattò in piedi e anche Eleni si allarmò, alzandosi.
Uscirono di casa e videro Sebastian arrivare dal sentiero con Wolfrun fra le braccia. Si spaventò. Cosa era successo?

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Capitolo 4
*** L'insolazione ***


l'insolazione

L’insolazione

 

Eleni si voltò verso Jakob e gli disse: “Prendi Anneke”.
Cosa voleva dire? Jakob pensò di aver capito male. Ma poi vide la bambina sfrecciare nel cortile, gridando e correndo incontro a suo padre. La raggiunse prima che scappasse e l’afferrò per un braccio, bloccandola e tirandola verso di sé.
“Lasciami, lasciami! Wolfrun!” gridò ancora Anneke.
Il faccino della piccola era terreo e guardava verso Wolfrun con occhi spaventati e spalancati. Jakob vide il padre entrare in casa con la ragazza in braccio.
“Cos’è successo?” chiese Eleni.
“È svenuta” rispose suo padre.
Vide anche uno dei mercanti e un ricercatore, uno di quelli che era rimasto sull’isola anche dopo la scoperta dell’antidoto. Quello che gli aveva parlato della paura di Wolfrun.
“Potrebbe essere incinta” disse il mercante.
Ma il ricercatore scosse la testa e dichiarò: “No. È un’insolazione”. Eleni annuì.
Un’insolazione? Ma dove cazzo era Georgos?
“Ok, prendo pezzuole di stoffa bagnate. Sebastian, portala in camera sua” disse Eleni indicando la porta alla fine del soggiorno.
Il ricercatore, proprio non si ricordava come si chiamasse, disse che sarebbe andato a visitarla.
“Visitarla?” chiese il ragazzo. Lui si voltò verso Jakob e mostrò la borsa dicendo: “Sono sempre un dottore”.
Seguì con Anneke il padre che portava la ragazza nella sua camera. Quando si rese conto che la bambina piangeva spaventata, la girò e la prese in braccio. Anche lui era spaventato e la strinse cercando un po’ di conforto. Seguì le persone con lo sguardo, ma poi decise di andare in camera sua. Si sedette sul letto con Anneke ancora in braccio.
“Cos’è successo?” chiese la bambina.
“Non lo so, piccola” disse senza pensarci. La bambina non brontolò quando la chiamò piccola, ma si rannicchiò contro di lui e continuò a piangere silenziosamente.
“Lukas…” chiamò suo padre, rivolgendosi al ricercatore. Ecco come si chiamava: Lukas.
Lukas uscì dalla stanza della ragazza e disse: “Adesso Eleni le abbassa la temperatura con un po’ d’acqua fredda. È un vecchio rimedio. È stato un colpo di calore. Ma non grave. L’ho visto succedere altre volte”.
Jakob uscì dalla sua stanza e vide Clara in salotto che trotterellava in giro, senza meta. La prese per mano e si avvicinò alla stanza di Wolfrun con ancora Anneke aggrappata al collo.
Eleni non l’aveva visto. Wolfrun aveva aperto gli occhi ma era molto rossa in faccia e sul collo. La donna le passava quello che sembrava uno straccio bagnato sul viso e sulle braccia. Si chinò su di lei sorridendo e le disse qualcosa che non capì, ma le accarezzò la testa con sguardo dolce.
Tossicchiò per far notare la loro presenza. Si girarono verso di loro. Anneke teneva la faccia premuta contro la sua maglietta e si voltò a guardare Wolfrun solo quando lei la chiamò. Poi, quando la ragazza le fece cenno di avvicinarsi si agitò per scendere e salire sul letto. Jakob l’appoggiò direttamente sul copriletto. La bambina abbracciò Wolfrun piangendo a dirotto. Eleni scosse Anneke e le diede una pezzuola in mano, indicandole cosa fare.
La piccola, concentrata in quella nuova operazione e desiderosa di rendersi utile, smise di piangere.

 

Mamà” disse Clara. Eleni sorrise alla bambina, che le si avvicinò. “Faccio io”. Jakob aveva uno sguardo serio in viso mentre allungava le mani. La donna annuì e gli passò la bacinella con le pezzuole. Lui prese il suo posto e lei si alzò prendendo in braccio la bambina.

 

Jakob si ritrovò seduto molto vicino a Wolfrun e per un attimo si sentì spaesato. Cosa doveva fare? Quando Anneke immerse la pezzuola nella bacinella si riscosse. Prese anche lui una pezzuola e imitò i movimenti della bambina. Passò lo straccio bagnato sul braccio della ragazza, dalla spalla fino alla mano, con un gesto delicato passando all’interno dei gomiti e la guardò, ma lei era girata verso Anneke.
Quando si voltò verso di lui si stupì, come se non si fosse accorta che avesse preso il posto di Eleni.
“Ok, basta. Sto bene. Non c’è bisogno…” Wolfrun non voleva più farsi aiutare e cercò di tirarsi su, ma la bambina la spinse verso il letto con facilità.

 

Wolfrun provò a mettersi seduta, ma non aveva forza. Sentiva la testa scoppiare e si sentiva stanca e spossata. Ma non voleva che Jakob continuasse a fare quello che stava facendo. Poco prima al suo posto c’era Eleni. Dov’era finita? Quando lui passò dalla spalla al collo, rabbrividì.
“Hai freddo?” le chiese. Oh, cielo, no. Non era freddo. Sospirò e scosse la testa.
“Non farlo più” disse Anneke, preoccupata. Vide due lacrime spuntarle ai lati degli occhi.
“Ci hai spaventato” rincarò Jakob.
“Ehi, non l’ho fatto apposta” cercò di difendersi lei. La bambina rise del suo tono di voce arruffato e Wolfrun le diede un pizzicotto sulla gamba.
“Va meglio?” chiese Lukas apparendo sulla porta. Lei annuì.
“Ha freddo” disse Jakob al dottore. Lukas entrò nella stanza e si avvicinò.
“Ha ancora la temperatura alta. Quando sarà scesa, andrà meglio” disse a Jakob, prendendole la mano e sedendosi sul letto. Lukas era sempre gentile.
“Hai sete?” le chiese e lei annuì mentre Anneke si alzò subito e corse via. Il dottore prese la pezzuola che aveva lasciato la bambina e gliela passò sulla fronte e ai lati del viso.
“Mi fa male la testa” confessò Wolfrun.
“Anche quello è normale. Dico a Eleni di darti qualcosa. Ma non ti sei accorta del caldo?” le chiese. Lei scosse la testa, ma farlo le procurò male e smise. Cercò di non pensare a Jakob che le passava la stoffa bagnata sulla pelle. Sentiva calore dappertutto. Quando Anneke tornò con un bicchiere d’acqua, si sforzò di mettersi seduta e allontanò le mani dei ragazzi.

 

“Ma lui dov’è?” chiese Jakob. Perché Georgos non l’aveva accompagnata a casa? Perché non si era accorto che lei non stava bene?
“Chi?” chiese Lukas.
“Parla di Georgos. Ero al mercato con lui” spiegò lei. Vide Lukas storcere la bocca. Gli era già più simpatico di prima.
Poi Wolfrun si voltò verso Jakob e spiegò: “Uno degli altri mercanti ha avuto un problema con il carro e gli ha chiesto aiuto. Lui è andato e io sono rimasta al banco. Anzi… Non so chi è rimasto dopo che io…”
“Lascia stare. Qualcuno se ne sarà occupato” disse Jakob, forse un po’ troppo duramente.
Lukas prese il bicchiere dalle mani della bambina e l’aiutò a bere. “Torno domani a vedere come stai, ok?” le disse.
Lei annuì e appoggiò il bicchiere al comodino. Prima di uscire il ricercatore diede a Jakob un colpetto sulla spalla e disse: “Lascio a te l’incarico di sorvegliarla. Assicurati che non lasci il letto”.
Jakob rise quando vide l’espressione scioccata di Wolfrun. Stare a letto non era il suo passatempo preferito. Né stare ferma. O che qualcuno le dicesse cosa fare.
Quando il dottore uscì lei si voltò verso il ragazzo e gli disse: “Oh no. Non lo farai!”
Lui rise divertito e rispose: “E invece sì. Me l’ha detto il dottore. Adesso stai giù”. E con la pezzuola la spinse ancora verso il cuscino.
“Ti odio” disse lei, ma non lo fermò quando riprese a passarle la pezzuola sulla pelle.
“Sì, lo so” disse lui ammiccando. Sorrise quando notò che le sue guance presero ancora più colore.
“Però se fai così, non riuscirò ad abbassarti la temperatura…” sussurrò perché sentisse solo lei. Lei aprì la bocca, scioccata, ma non disse niente. Sorrise ancora. Ah, se non ci fosse stata Anneke… Le accarezzò una guancia. Doveva accontentarsi di quello.
“Vado a prendere il termometro. Anneke, controlla che non si alzi dal letto” ordinò. La bambina annuì e sgridò la ragazza quando tentò di ribellarsi.

 

Sebastian era sulla soglia che salutava Lukas. L’altro mercante era tornato indietro a guardare i banchi e a informare Georgos. Lukas gli disse che sarebbe passato il giorno dopo e si avviò verso il sentiero che andava al villaggio.
Aspettò. Dieci minuti. Poi quindici. Quando vide arrivare Georgos gli andò incontro con uno sguardo severo.

 

“Che fa?” chiese Jakob a Eleni, osservando il padre. La donna si voltò verso Sebastian anche lei e alzò le spalle. Stava aspettando Georgos. Eleni sapeva che aveva intenzione di fargli una bella ramanzina, come avrebbe detto suo padre. Ma non era il caso di dirlo a Jakob, era già troppo scombussolato. Quando lui le chiese il termometro, gli domandò come stesse Wolfrun.
“Le fa male la testa e ha sete, ma Lukas dice che è normale. Ha anche detto di non farla alzare dal letto” rispose lui ed Eleni annuì: le sembrava sensato.
“Perché mi hai detto che devo parlarle?” le chiese a bruciapelo. Eleni sorrise.
“Non è lei la ragazza che hai baciato? La ragazza che è scappata?” chiese e vide gli occhi del ragazzo sgranarsi e allargarsi.
Beata gioventù.

 

Ma come aveva fatto a capirlo? Li aveva visti? No, era impossibile. Nessuno li aveva visti. E allora come faceva a saperlo? Lei sorrideva. Era un enigma, quella donna.
Jakob guardò il termometro che aveva in mano, indeciso se chiedere o meno spiegazioni. Decise di tornare da Wolfrun.

 

***

 

Wolfrun sospirò. Che noia mortale. Le avevano vietato di scendere dal letto. Non le sarebbe importato granché di quello che pensavano loro se solo non si fosse sentita così stanca. Aveva lasciato la porta della camera aperta per permettere alle bambine di entrare e uscire in autonomia ma loro si erano già stancate di tenerle compagnia ed erano sparite in giardino.
“Ciao!” Una testa riccioluta si materializzò sulla porta. Sorrise a Jakob.
“Ciao” rispose, cambiando posizione e mettendosi più dritta.
“Posso?” chiese lui, prima di entrare.
“Oh, ti prego, entra. Qui il tempo non passa mai...” Gli fece cenno con la mano di avvicinarsi.
“Come va?” Lui si sedette sul letto, a fianco a lei.
“Meglio, adesso.”

 

Jakob spostò un libro e si accomodò sul copriletto. Lei era seduta sopra le coperte e aveva un vestito che le arrivava sotto le ginocchia. Quando erano arrivati lì, ci aveva messo un anno a rinunciare ai jeans scuri. Anche quando c’era molto caldo. Le sue guance erano rosse dal giorno prima.
“La vicina di Spyros mi ha dato questa per te” disse e le allungò un boccetto di vetro.
Lei non si sorprese e sorrise dicendo: “La crema per le scottature. La signora Opas è gentilissima!”
“Mi hanno chiesto tutti come stai. Non sono riuscito a fare un passo senza che qualcuno mi fermasse per chiedermi di te” le confidò Jakob.
“Davvero?” Si sorprese lei.

 

La ragazza sgranò gli occhi. Gli abitanti dell’isola erano favolosi. Tutti. Lui aprì il vasetto, prese un po’ di crema e gliela spalmò sulle guance. Ma… cosa faceva? Poteva benissimo farlo da sola.
“Lo faccio da sola” disse e gli prese il boccetto per continuare a spalmarsi la crema. Era miracolosa davvero. Le stava dando sollievo già in quel momento.
Lui rise e le confidò: “Sembri Anneke…” Wolfrun fece una smorfia e tirò fuori la lingua. “Anche adesso!” Jakob rideva ancora. Poi divenne serio. “L’altra sera… Alla caletta…” sussurrò.
La sua voce era bassa e dannatamente roca. Oh no, non sarebbe mai riuscita a parlarne con lui.
“Non parliamo dell’altra sera. È stato uno sbaglio. Non deve più succedere.”
Lui annuì ma poi volse lo sguardo altrove.

 

A Jakob non piaceva parlare di cose come quella, infatti avrebbe preferito stare zitto e baciarla ancora, ma si trattenne. Se lei non voleva… forse aveva bisogno di tempo davvero. “Verrai a Berlino?”

 

Berlino? O santo cielo si era scordata di Berlino! Lui non l’aveva baciata per convincerla ad andare a Berlino, vero? Vero? Avrebbe voluto chiederglielo. Annuì e basta. Ma che delusione… Finì di spalmarsi la crema e cercò di non pensarci.

 

Lui si mise un po’ più comodo. Lei aveva una faccia strana. Urtò il libro di prima, che gli si infilò nel fianco e lo prese per spostarlo ancora. Guardò la copertina: era un libro di poesie ed era tedesco: ‘Foglie d’erba’. Lo sfogliò. L’aveva già sentito nominare, l’autore, ma non si ricordava da chi. Il libro era molto usurato e dentro era segnato da matite di diverso colore. Doveva essere da prima del virus.
“Era di mia sorella” disse Wolfrun. Lui la guardò, mentre lei indicava il libro e continuò: “Faccio fatica a leggere in inglese. E in greco ancora non ci riesco…” Abbassò gli occhi.
“Vuoi un libro tedesco? Ho qualcosa in camera mia” le chiese.
La ragazza spalancò gli occhi, contenta. “Davvero? Hai dei libri in tedesco?” Lui annuì, alzando le spalle.
“Potrei lavare i piatti al tuo posto per una settimana. No, beh, diciamo tre giorni. Non li ho ancora visti…” esclamò lei.
Jakob sorrise e le fece cenno di seguirlo. Si avviarono in camera sua.

 

Si era alzata velocemente. Troppo velocemente. Si fermò nel corridoio perché sentì la testa girare, così appoggiò una mano allo stipite della porta. Jakob per fortuna non se ne accorse. Non si era ricordato che non poteva alzarsi dal letto.
Si avviò dietro di lui e lentamente raggiunse la sua stanza. Jakob era chinato dentro all’armadio e parlava da solo. Si sedette sul letto. Quando lui si voltò la sua fronte si corrucciò, guardandola.
“Stai bene?” le chiese. Lei riuscì solo ad annuire.
“Sì sì, mi gira un po’ la testa…” rispose lei. Jakob si avvicinò e si sedette vicino a lei. Molto vicino. Ma non era fastidioso. Anzi… Le porse due libri.
“Pensavo di averne altri, ma non li trovo…”
Wolfrun sorrise e disse: “Oh, non ho intenzione di stare a letto così a lungo” e guardò i titoli dei libri.
Uno era un classico: I ragazzi della via Pàl. L’aveva letto da ragazzina, in uno degli interminabili pomeriggi di festa passati in casa. Le ricordava un po’ Berlino dopo che il virus si era portato via gli adulti.
L’altro invece non lo conosceva. Si intitolava L’amico ritrovato ed era di un autore tedesco. Lo prese e lo sfogliò. “Questo non l’ho letto” confidò.
“Neanch’io” ammise il ragazzo. Wolfrun alzò di scatto la testa. Come? Perché non lo aveva letto?
“Perché?” Lui alzò le spalle. “Me l’ha regalato Christa quando ho litigato con Bernd. Non ho fatto in tempo a leggerlo prima che lui…” Non finì la frase.
Wolfrun sapeva che gli faceva male parlare di Bernd. Lui era stato il suo migliore amico ed era morto quando gli avevano sparato ad Atlantis. Gli mise una mano sulla sua. Lui non disse niente e la guardò con occhi vacui. Glielo aveva regalato Christa. Sospirò.
“Te lo tratterò bene, allora” disse. Lui annuì.

 

Non si era ricordato del libro. Non subito. E gli aveva ricordato subito lui: Bernd. Christa glielo aveva dato quando aveva detto che non voleva stare con lui. Non si era ricordato neanche quello. All’inizio non lo aveva letto per dispetto, poi perché gli mancava Bernd, ora…
“Magari dovresti leggerlo anche tu” disse Wolfrun facendolo tornare al presente. Jakob annuì distrattamente.

 

“Cosa fate qui?” Eleni era apparsa sulla soglia della camera del ragazzo con uno sguardo severo e i pugni sui fianchi. Quando aveva visto la camera di Wolfrun vuota era andata subito da Jakob, ma fu contenta di non aver interrotto niente.
“Jakob mi ha dato due libri da leggere. Per rendere la mia prigionia un pochino più piacevole” disse la ragazza sorridendo stancamente. Eleni annuì ed entrò in camera. Quando la ragazza si alzò notò che traballava un po’.
“Tutto ok?” le chiese e lei annuì. “Sta arrivando Lukas, comunque”.
Wolfrun annuì ancora.

 

***

 

“Secondo te, è carina?” gli chiese Wolfrun e Jakob alzò gli occhi dalla scacchiera. Eleni l’aveva lasciata sedere sul divano in quello che loro chiamavano soggiorno e Jakob le teneva compagnia giocando a dama.
Ogni tanto buttava un occhio alla finestra che dava sul cortile dietro: le bambine giocavano con i figli dei loro vicini, che erano poco più grandi di Anneke.
Chi è che era carina? Si voltò nella direzione dello sguardo della ragazza e notò che guardava la cucina. Eleni e una sua cugina erano sedute a bere qualcosa. Voleva sapere se Christina fosse carina? La guardò meglio. Insomma... Alzò le spalle.
“Quando Eleni ha nominato Lukas, le si sono illuminati gli occhi” sussurrò Wolfrun.
Oh. Lei notava sempre quelle cose lì. Piccoli movimenti della faccia, delle mani, espressioni che la gente non si rendeva conto di fare… era bravissima in quello. Spesso aveva paura che lei potesse leggergli la mente.
“E quindi?”sussurrò anche lui.
Lei alzò le spalle e gli chiese: “Secondo te, potrebbe piacere a Lukas?” Lui guardò l’amica e le accostò una mano alla fronte.
“Vaneggi. Devi avere ancora la febbre…”
Wolfrun scosse la testa, ma lui si era accorto di quanto fosse calda. Poteva avere ancora la febbre davvero? Non era proprio in forma, comunque.
“No, è che non ho niente da fare…” si lamentò lei sospirando.
“Ehi! Stai giocando a dama con il più bel ragazzo dell’isola!” esclamò, facendo finta di essere offeso, lui.
Lei spalancò gli occhi divertita e disse: “A dama non sei un granché”.
La smorfia che fece la rese bella. Bellissima. Dovette trattenersi dallo sporgersi verso di lei o da chiederle se lo trovasse bello comunque. Ma lei lo guardò e sbuffò dicendo: “So cosa stai pensando. No. Guai a te!”
“Cosa?” chiese sorpreso lui. Gli aveva letto nella mente davvero?
“Se mi dici ancora di lavorare a maglia, ti uccido. Stavolta per davvero.”
Lui rise mentre lei lo minacciava con il dito. Glielo aveva detto il giorno prima per provocarla. Sapeva quanto odiasse la maglia. Le prese i polsi quando alzò le mani verso di lui, facendo finta di colpirlo. Il respiro della ragazza si bloccò e lo sguardo di lui cadde sulle sue labbra. Dischiuse la bocca.
Ora Jakob dovette fare uno sforzo notevole per non chinarsi su di lei.
Per fortuna in quel momento qualcuno bussò alla porta. A malincuore si alzò e andò ad aprire.

 

Wolfrun era tornata a respirare quando lui si era diretto alla porta. O santo cielo. Quando vide entrare Lukas, sorrise. Forse troppo.
Jakob tornò vicino a lei e le sussurrò: “Smettila o penserà di piacere a te, invece che a Christina”. Oh. Non ci aveva pensato. No, no era meglio di no.
Lukas salutò Eleni e Christina dalla porta della cucina, e lei non poté vedere né la sua espressione né quella della ragazza, da dov’era. Uffa. Si alzò, ma la testa le fece male e si risedette.
Lukas si voltò verso di lei e si avvicinò. “Perché sei in piedi?” chiese, un po’ contrariato. “Sono seduta. Da tantissimo tempo. Da troppo tempo” si giustificò e cercò di sorridere.
Lui scosse il capo brontolando. Si voltò verso Jakob e disse: “Non ti avevo detto di non farla alzare?”
Lui alzò le spalle sorridendo. “Ci ho provato. Ma lei è più tenace di me…” Sentì Lukas quasi ridacchiare. Ehi! La stavano prendendo in giro?
“Ehi!” Cercò di alzarsi in piedi, un po’ arrabbiata, ma si risedette subito quando capì che non ci sarebbe riuscita. Sbuffò. Gli altri ridacchiarono ancora.

 

Lukas si voltò verso di lui e disse: “Puoi andare in cucina?” Perché? Voleva rimanere da solo con Wolfrun?
Ma Lukas si avvicinò un po’ e sussurrò, quando vide la sua faccia: “Pensavo di visitarla qui. Ricordi? Dottore” disse, indicandosi.
Oh. Che scemo. Giusto. In quel momento entrarono in salotto Anneke e Clara. La piccola si agganciò alla gamba di Jakob quando vide Lukas e il ragazzo la prese in braccio.
Anneke si avvicinò con il faccino serio a Lukas che si era chinato ad aprire la borsa e gli chiese: “Cosa fai?”
“Pensavo di visitare Wolfrun. Cosa dici?” la piccola annuì.
Jakob si avvicinò, dicendole: “Vieni Anneke, andiamo in cucina”.
“Lei può rimanere” disse il dottore. Il ragazzo l’avrebbe strozzato.
“Vuoi rimanere anche tu?” sorrise a Clara, ma lei scosse la testa. Jakob uscì dalla porta e fece un giro in giardino.

 

Lukas era stato bravo. Aveva fatto ridere Anneke, nonostante lei fosse preoccupata. Sapeva che quando arrivava il dottore erano sempre cose serie. E invece era riuscito a tranquillizzarla, le aveva fatto auscultare il battito del suo cuore e anche quello di Wolfrun. Aveva scherzato con lei e le aveva spiegato tutto quello che faceva. Era stato gentile.
Quando ebbe finito disse alla bambina: “Perché non vai a dire a Jakob che può tornare?” Lei annuì e uscì di corsa. Poi si voltò verso la ragazza e le disse che la trovava bene.
“Sono ancora stanca” ammise Wolfrun.
“Così impari a fare stupidaggini. Ti è andata bene…”
Lei annuì e sospirò. L’aveva capito di aver fatto una stupidaggine.
Lui dovette aver pietà di lei perché disse: “Se tieni duro per altri due giorni, ti lascio andare alla festa del villaggio, sabato. Dicono che ci sarà un falò sulla spiaggia”. E ammiccò.

Beh? A lei non interessavano di sicuro i falò sulla spiaggia. Glielo disse.
Lukas rise e chiese: “No? Io quando venivo qui in vacanza, mi divertivo un mondo ai falò sulla spiaggia!”
“Ah sì? E perché?” chiese lei, forse ingenuamente.
“Perché c’è buio e tanti posti dove nascondersi…” sussurrò. Mah… Wolfrun sentì le guance andare a fuoco. Cosa le stava suggerendo? Di… appartarsi con qualcuno?
In quel momento la porta si aprì e rientrò Jakob con le bambine. La ragazza alzò lo sguardo su di lui e Jakob la guardò sorridendo. Sentì ancora caldo e abbassò gli occhi.
Poi Lukas le allungò qualcosa e le chiuse la mano. Quando vide cosa le aveva dato serrò il pugno: un preservativo. No, una confezione da due.
Sapeva a cosa servivano. Quando avevano trovato l’antidoto al virus, erano arrivati i militari: inglesi, americani e russi. E loro avevano portato beni di prima necessità, medicine e tantissimi preservativi. Sembrava una cosa dannatamente importante. Serviva a non prendere alcune malattie, dissero. Ma non sarebbe servito per il virus di Andreas. Wolfrun si ricordò di averlo chiesto a uno dei dottori che aveva in cura Anneke. Lui le aveva spiegato che il virus di Andreas si trasmetteva tramite il respiro, e che quindi non sarebbe servita quella particolare precauzione. Così le spiegò cos’era e come si usava. Serviva per difendersi da altre malattie pericolose che si potevano prendere facendo sesso e per non rischiare gravidanze indesiderate. Lei aveva annuito, arrossendo, ma non li aveva presi.
A lei non interessavano. Ma ora…
“Perché…” iniziò lei.
“Non si sa mai…” la interruppe Lukas.
Wolfrun rise nervosamente e chiese: “E con chi dovrei usarlo?”
Lui alzò le spalle. “Con chi vuoi” rispose.
Lukas si voltò verso Jakob che li guardava con la fronte corrugata, senza capire cosa si fossero detti. Si sentì di nuovo le guance in fiamme quando seguì lo sguardo del dottore.
Ne prese uno e gli ridiede l’altro. Ora era Lukas a essere confuso.
“Cosa…” iniziò, ma lei annuì, sorrise e indicò la cucina. Quando lui alzò lo sguardo Christina uscì dalla cucina con Eleni. Wolfrun notò con piacere che si arrossarono le guance anche al dottore. Oh, là. Un po’ per uno.
Si alzò e disse ad alta voce: “Eleni, Lukas può rimanere a cena stasera?”
Quando lei acconsentì, si voltò verso il medico e alzò un sopracciglio. Lui scosse la testa brontolando, ma accettò l’invito.
Prese la scacchiera sorridendo, si fece forza e la portò in camera, in mano ancora quel piccolo involucro tentatore.
Si ricordò come si era sentita quando aveva baciato Jakob. Un brivido la scosse ancora. Si sedette sul letto e appoggiò la scacchiera vicino a sé, dando le spalle alla porta.
Guardò il blister che aveva fra le mani e sospirò. Come sarebbe stato se lo avesse usato? Se avesse fatto… E se lo avesse fatto con Jakob? Sentì le guance prendere calore mentre ci pensava. Sapeva che il sesso non era tutto sbagliato. Però…

 

Jakob entrò nella stanza di Wolfrun, ma lei era assorta e non se ne accorse. Bussò forte alla porta aperta e lei si spaventò.
“Merda!” esclamò alzandosi dal materasso e accucciandosi subito dietro al letto.
“Ehi, scusa. Non volevo spaventarti…” si scusò lui. Girò intorno al letto e la raggiunse. Si chinò insieme a lei e la vide raccogliere qualcosa da terra. Quando si tirarono su le loro teste si scontrarono.
“Ahia!” gridò lei e si portò una mano alla fronte. Ciò che aveva raccolto cadde ancora. Lui guardò per terra: un preservativo. La guardò spalancando gli occhi, sorpreso. Ma cosa?
“Oh, non fare quella faccia. Scommetto che ne hai già visti!” disse lei, stizzita.
Oh, sì, Jakob li aveva già visti. Ne aveva anche usati. I militari, quando avevano portato le medicine, avevano portato anche migliaia di quei cosi lì. Avevano parlato di malattie e di gravidanze. Avevano terrorizzato tutti.
Ma da dove era saltato fuori quello? Dovette avere un’espressione decisamente confusa, perché lei gli disse: “Me l’ha dato Lukas, smettila di guardarmi così!” era quasi nervosa. Carino. Sorrise. Non era di sicuro l’atteggiamento di qualcuno che lo avrebbe usato presto. Bene.
Ma lei era ancora in imbarazzo, così si chinò e lo raccolse. Fece per darglielo ma suo padre entrò nella stanza in quel momento.

 

“Ragazzi tutto ok?” Sebastian troneggiava sulla porta, con un foglio fra le mani. Wolfrun vide Jakob far sparire in tasca il piccolo involucro e rispondergli. Si avviò alla porta anche lui, mentre suo padre li informava che c’era bisogno di apparecchiare. Ma… Era suo, il preservativo!

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Capitolo 5
*** Il falò sulla spiaggia ***


il falò sulla spiaggia

Il falò sulla spiaggia

 

Dopo due giorni, il famoso giorno del falò arrivò. E anche il permesso di Lukas per uscire di casa.
Quella mattina Wolfrun entrò in cucina dicendo a Eleni che sarebbe andata dalla signora Opas per ringraziarla della crema. La donna annuì.
“Puoi portarle una fetta di torta” le disse, indicandole un dolce fatto il giorno prima.
“Penso che le porterò un po’ di focaccia” rispose invece la ragazza.
“Focaccia?” lo sguardo curioso di Eleni era carinissimo.
Wolfrun alzò le spalle dicendo: “Quando le porto la focaccia è più contenta di quando le porto la torta”.
“Davvero? Te l’ha detto lei?” chiese la donna rimanendo ferma, bloccata da quella notizia.
“No, non me l’ha detto lei” confessò Wolfrun.

 

Eleni lasciò perdere e non insistette. A volte Wolfrun riusciva a leggere gli stati d’animo delle persone e vedeva cose che gli altri non vedevano. La donna sapeva che aveva quasi sempre ragione.
“Ma ti ci vorrà tutta la mattina, per preparare la focaccia” le disse. Ma la ragazza alzò le spalle.
Le sorrise. Wolfrun doveva aver avuto un’infanzia solitaria. O qualcosa del genere. Il tipo di bambina che sta sempre zitta e guarda tutto. Che aspetta. Jakob aveva raccontato che a Berlino, nella Berlino dei ragazzi, era temuta e cattiva. Molto di più dei primi tempi con loro sull’isola. Eleni non faceva fatica a crederlo. Era una ragazza forte e se motivata poteva spostare il mondo.
Ma sapeva anche che era una brava ragazza, che sbuffava ancora quando sentiva Jakob dire ‘collaborazione e solidarietà’. E sapeva che lo faceva apposta, per far ridere il ragazzo, mentre Jakob glielo diceva per provocarla, sorridendo. Sapeva che ogni volta che aveva avuto bisogno, la ragazza l’aveva aiutata, spesso prima che lei dovesse chiedere. Le voleva bene come a una figlia.
Sospirò contenta che non se ne andasse con Georgos. Era ancora persa nei suoi pensieri quando venne improvvisamente risvegliata dal grido di Anneke che faceva volare un po’ di farina sul tavolo della cucina.
“Ehi, non giocate con il cibo!”

 

***

 

Nel tardo pomeriggio Wolfrun si incamminò verso il villaggio.
Anneke non aveva voluto accompagnarla. Diceva che la signora Opas puzzava di signora vecchia. Era vero. Ma era canfora. Eleni aveva sgridato la bambina spiegandole che non si diceva così delle altre persone e le aveva detto che aveva quell’odore perché la polverina magica che metteva sui vestiti per proteggerli dagli insetti odorava così.
Ma Anneke aveva preferito fare collane e braccialetti di conchiglie, così lei si era avviata da sola.
La signora Opas l’accolse con un abbraccio e un gran sorriso quando tirò fuori la focaccia. Le porse anche la fetta di torta, Eleni aveva insistito alla fine e lei l’aveva presa su, ma Wolfrun sapeva già che non avrebbe avuto la stessa accoglienza della focaccia.
“Ti va un caffè? Diane!” chiamò la nipote a gran voce, la signora Opas.
Una ragazza dai lunghi capelli scuri e la carnagione olivastra si affacciò alla porta del soggiorno.
“Ciao Wolfrun, stai meglio?” le chiese e Wolfrun annuì, sorpresa che la ragazza glielo avesse chiesto. “Prendiamo il caffè?” chiese l’anziana. La nipote mise le mani sui fianchi e la guardò con rimprovero.
“Zia, non dovresti bere il caffè…” iniziò, ma alla fine si diresse in cucina e andò a prepararlo. Wolfrun e la signora Opas la seguirono e la donna si sedette al tavolo svolgendo la focaccia dallo strofinaccio.
“Passami la feta, per cortesia” disse a Wolfrun e questa, obbediente come non lo era mai stata, gliela portò. Appoggiò la torta vicino al lavello e vide Diane lanciare un’occhiata al dolce.
“Mangialo tu, se vuoi, a tua zia non piace molto” le sussurrò. La ragazza sorrise e le propose: “Facciamo a metà?” Anche Wolfrun sorrise e annuì.
Diane era veramente simpatica. Era poco più grande di lei e non stava zitta un secondo. L’aveva già notato le altre volte che l’aveva vista. E poi non era stata con Jakob. Anche questo la rese più simpatica.
Dopo due ore la signora Opas disse che sarebbe andata a letto e Wolfrun si alzò per tornare a casa quando Diane le chiese: “Non vieni alla festa al villaggio?”
Scosse la testa. Il famoso falò era l’ultimo posto dove volesse andare.
“Andrò a casa” rispose.
“Assolutamente no. Verrai con me. Dai, non sei stata chiusa in casa per tantissimo tempo?”
Effettivamente… Però no. Preferiva evitare tutti.
“Grazie, ma no” rispose ancora. La ragazza la guardò con uno sguardo strano e poi sussurrò: “Eviti qualcuno?” Lei sentì le guance scaldarsi. Scosse la testa come se avesse ancora dodici anni.
Poi Diane ghignò e disse: “Beh, effettivamente, neanch’io andrei al falò con un vestito del genere…” Ma? Cosa? Cosa aveva il suo vestito? Si guardò e un po’ si arrabbiò. Ma chi si credeva di essere? Stava per risponderle a tono quando la ragazza rise chiassosamente.
“Dovresti vedere la tua faccia! Dai, andiamo!” disse prendendola a braccetto.
“Nel mio armadio c’è un vestito adatto per l’occasione” disse la signora Opas, facendo finta di niente. “Oh, sì! Il vestito blu. È un vestito bellissimo. Vieni che te lo faccio vedere” le disse ancora Diane e la trascinò nelle camere.
Wolfrun non riuscì a dire niente. Cioè, disse qualcosa, ma Diane non l’ascoltò mica. Tirò fuori un vestito di pizzo azzurro scuro e glielo fece vedere. Oh, merda, era bello davvero.
“Guarda come sta bene con i tuoi capelli!!! Com’era quella cosa delle more con il turchino? Non ricordo… Forse c’entrava il diavolo…” La ragazza aveva gli occhi spalancati mentre parlava da sola.
Per un attimo, solo per un attimo, Wolfrun pensò di provarlo. Ma poi scosse la testa. “Mettilo te, sei mora anche tu.”
“Oh, no…” Poi si sporse verso di lei e sussurrò, come se fosse un segreto di stato: “Ho i fianchi troppo larghi e non c’è abbastanza stoffa nelle cuciture per allargarlo. La zia era magrissima da giovane!” E riportò lo sguardo sul vestito. “Dai, almeno provalo!”
Wolfrun era tentata. Ma era troppo per lei. Lei aveva vestiti per la spiaggia e altre cose semplici e, da qualche parte, aveva ancora i jeans e il giubbotto nero con cui era arrivata. Non era il tipo da vestiti di pizzo. Anche se sembrava così morbido… Allungò una mano per accarezzarlo e scoprì che era morbido davvero. Si avvicinò di un passo e avvicinò il naso. Se avesse puzzato di canfora non avrebbe neanche avuto bisogno di una scusa.
No. Profumava. Di lavanda.
Diane rise quando la vide fare quel gesto. “Ho obbligato Zia Didi a non metterlo nell’armadio con la canfora e sono riuscita a farci mettere uno di questi” ammise, facendole vedere un sacchetto di fiori lilla, che era fra le pieghe del vestito. Lavanda, appunto.
Era tentata. Tanto. Tantissimo. Troppo. “Facciamo così. Provalo. Intanto io mi preparo” le disse ancora Diane e glielo appoggiò sul braccio sparendo oltre la porta, socchiudendola.
Guardò ancora l’abito. Poi si voltò verso lo specchio sul lato dell’armadio. Beh, poteva provarlo. Magari le stava malissimo e non c’era bisogno neanche di pensarci.
Si tolse il suo abito e si infilò quello azzurro. Le accarezzava il corpo. Era morbido e le cadeva sui fianchi in una carezza. Non c’era confronto con le altre cose che metteva.
Le piaceva e si sorrise allo specchio.

 

Un ricordo le si affacciò nella mente. Un ricordo lontanissimo. Una Berlino bianca di neve alla finestra e Dorothea davanti allo specchio con un abito dello stesso colore.
Si guardava nello specchio sorridendo come stava sorridendo lei. Il suo sorriso si ammorbidì al pensiero di quella bambina sul letto che guardava la sorella con ammirazione.
Poi il ricordo divenne triste quando la madre delle ragazze era entrata in camera sostenendo che l’abito scelto da Dorothea non andasse bene e il viso di sua sorella si era trasformato dalla rabbia.

 

“Wow!” Diane era tornata, si era cambiata e aveva una gonna molto corta, secondo Wolfrun, ma le stava bene.
“Non dovresti togliertelo più. Se mi porti un’altra fetta di torta te lo lascio portare a casa. Vedrai quanti ragazzi si gireranno a guardarti, questa sera!” continuò scherzando.
La tedesca spalancò gli occhi e fece un passo indietro. “Forse non…”
Diane sbuffò, “Dai, mica ho detto chissà che! Ti spaventano i ragazzi?” le chiese.
A chi? A lei? Lei non si faceva spaventare da niente. Aveva troneggiato su Berlino, tre anni prima! Ok, aveva perso. Ma c’era stato un momento in cui si era sentita invincibile. Lei, la grande Wolfrun di cui tutti avevano paura. Anche quelli più grandi.
Caspar e gli altri. Non ricordava i nomi degli altri. Ma spesso abbassavano lo sguardo quando lei passava e facevano tutto quello che lei ordinava di fare. Era stata così sicura di sé.
E aveva continuato a esserlo, finché… finché la settimana prima Jakob non l’aveva stretta fra le braccia e lei non aveva capito più niente. E tutte le sue certezze erano vacillate.

 

La luce negli occhi della ragazza era potentissima, Diane lo vedeva bene. Come se non avesse paura di niente.
Ma poi il suo sguardo si fece meno bellicoso e un lampo di incertezza le attraversò il viso. Diane si preoccupò un pochino e si avvicinò a lei, mettendole un braccio sulle spalle, sperando che non si arrabbiasse e scappasse via.
“Tutto bene? Brutti ricordi? Berlino?” chiese e lei scosse la testa.

 

No, non Berlino. Wolfrun sospirò. Stare da soli non andava bene. Lo aveva detto Jakob tre anni prima. Guardò Diane. Per un attimo pensò di… No. Non era il caso. Non conosceva bene quella ragazza. Ma era quella che frequentava di più, fra tutte quelle dell’isola. E questo voleva dire bene quante persone frequentasse…
“Ho baciato un ragazzo…” Vide il viso di Diane distendersi e sorridere.
“È una bella cosa” disse la greca.
“No. Non lo è” sbottò Wolfrun. Sulla fronte della mora ora comparve una ruga.
“E perché? Tu non volevi? Non ti è piaciuto? Lui ti ha costretto…” Wolfrun pensò di fermare quel fiume in piena prima che si facesse una brutta opinione.
“No, no. Lui non ha fatto niente… di sconveniente. È solo che…” disse, ma si interruppe. Diane le accarezzò una spalla. “Vedi, io ho sempre pensato che non mi interessasse… quello” spiegò. Sperò che lei capisse.
Capì quando Diane ebbe afferrato il concetto, in quanto vide i suoi occhi spalancarsi.
“Oh. E perché?” le chiese, accarezzandole ancora la spalla. Wolfrun scosse le spalle. Non voleva spiegare di Chloe.
“Pensavo che fosse… sbagliato. Poi lui mi ha baciato… E ho pensato che invece potesse essere giusto…” disse, confusa.
Diane sorrise e Wolfrun continuò: “Ma poi lui ha fatto uno strano… mmm… verso?” la ragazza annuì, facendole cenno di andare avanti. “Così io ho avuto il pensiero che ci stessimo baciando per motivi diversi. Lui voleva solo… sì, quello. Mentre io…”
“Tu?” le chiese. Wolfrun sbuffò alzando le braccia al soffitto e si staccò da lei per mettere un po’ di distanza.
“Io non lo so. So solo che mi piace. E tanto. Ma non voglio essere…” si interruppe quando non riuscì ad andare avanti. Non voleva essere ‘una delle ragazze dell’isola’, pensò. Una ‘chalarí gynaíka’, come aveva detto Eleni.

Diane le sorrise ancora e disse: “Non puoi sapere cosa pensa lui finché non glielo chiedi e lui ti risponde, non trovi? E non ti preoccupare, se qualcosa ti piace, allora non può essere sbagliato”.
“Lui ha una ragazza…” sussurrò lei. E quando lo aveva baciato non se l’era ricordato. Ma a lui piaceva Christa.
“Una ragazza?” chiese Diane, confusa.
“Sì. Più o meno… cioè… gli piace un’altra” confessò.
“Te lo ha detto lui?”
“Io lo so” disse Wolfrun con la stessa sicurezza con cui era partita per sconfiggere Gropius.
“Se ha baciato te e non lei…” continuò Diane.
“Lei non è qui. Non può baciarla” sussurrò ancora. Non poteva baciare Christa e quindi aveva provato a baciare lei. Non aveva iniziato una relazione con nessuna delle ragazze dell’isola e questo voleva dire che lui stava ancora pensando a lei.
Diane, però, era un po’ confusa. “E dov’è se non è qui?”
Alzò gli occhi per incontrare i suoi. “A Berlino” si lasciò sfuggire sospirando.

 

Diane sgranò gli occhi. Berlino! Ma allora era il tedesco? Ma… “Ma, dici il tipo che vive con te? Ma… non è tuo fratello?”

 

Ora fu il turno di Wolfrun di sgranare gli occhi. SUO FRATELLO? “Mio dio, no!” quasi gridò. E poi rise nervosamente. “Fratello? O cavolo che idea!” Ripensò al bacio sulla spiaggia. “O che schifo!” continuò ancora. Diane rise. “Scusa stavo pensando a… dai, smettila di ridere! Non sei per niente educata, sai?” sbottò la tedesca, ma poi ridacchiarono insieme.
“Dai, finiamo di prepararci. Mi sa che dovrai togliere il reggiseno e metterlo nella borsa, ti si nota troppo. E vieni qui che ti sistemo quei capelli. Così mi spieghi bene come stanno le cose. Ma quindi neanche la bambina è tua sorella?”

 

***

 

Wolfrun si lasciò convincere ad andare alla festa e al falò sulla spiaggia. C’era anche la musica. Ed era divertente. Aveva anche ballato un po’. Diane era simpatica e dannatamente imprevedibile, quello che ci voleva in quel momento.
C’erano anche un po’ di ragazzi. Vide anche Hector, che la salutò da lontano. Ricambiò il saluto un po’ stranita. Lui stava bevendo una lattina di birra insieme a un gruppetto di ragazzi. Guardò, ma Jakob non era fra di loro.
Se c’era una cosa che i militari avevano portato in grandi quantità, oltre ai preservativi, era la birra. Casse e casse di birra. E ogni tanto ne portavano ancora. Anche se sull’isola riuscivano ad avere tutto quello di cui avevano bisogno, sembrava che la birra americana fosse benvoluta come l’oro fuso, dai ragazzi.
Andò a bere alla fontanella e si sedette su un tronco un po’ lontano dal falò per riposarsi. Era al buio. Si passò una mano sui capelli. Invece di tenerli legati come al solito, Diane l’aveva convinta a lasciarli sciolti. Aveva detto che adorava i suoi capelli. Effettivamente, da quando riusciva a lavarsi con la giusta costanza e a pettinarli decentemente, non erano male. Sospirò.
Quella parte di Berlino non le mancava per niente. Così aveva lasciato che Diane glieli spazzolasse finché non erano diventati liscissimi. Era un piacere, ora, toccarli.
Guardò verso il falò. Ragazzi e ragazze ballavano nella luce del fuoco. Vide anche Diane. Un ragazzo grande ballava vicino a lei e lei gli sorrideva.
A un certo punto si sentirono delle grida e delle esclamazioni. Tutti si girarono verso la direzione di quei suoni. Si alzò in piedi sul tronco per vedere se si vedesse cosa stava succedendo, ma tutto era un po’ confuso. C’erano tanti ragazzi. Ne vide due fronteggiarsi, ma da quella distanza non capiva chi fossero. Si dicevano qualcosa e lei era troppo lontano per capirlo.
Il brusio degli spettatori si zittì e Wolfrun sentì chiaramente un insulto in tedesco. Poi un altro. E un altro ancora. Jakob! Senza rendersene conto saltò giù dal tronco e si accucciò per allungare la mano al retro del sandalo destro, prima di accelerare il passo verso di lui.
Quando riconobbe la voce di Georgos gridare ‘sporco tedesco’ si bloccò, ma poi si riprese subito e continuò la corsa.

 

Jakob aveva bevuto troppo. Glielo aveva detto Zeno, ma lo aveva capito anche da solo. C’era troppa birra a quella festa.
E c’era Georgos. Sapeva che suo padre aveva parlato con lui, ma a Jakob non bastava. Avrebbe voluto colpirlo. Forte. Oh come gli avrebbe dato soddisfazione. Far sparire quell’espressione idiota dalla sua faccia.
Continuava a guardarlo alla festa sulla spiaggia, mentre beveva una birra dalla lattina. Parlava con i suoi amici e ridacchiava bevendo. Quando lo vide gli lanciò uno strano sguardo e fece un cenno con il capo mentre lo indicava con la birra. Poi rise e anche i suoi amici.
Non ci vide più. “Razza di idiota che cazzo ti guardi?” lo accusò Jakob, consapevole di volerlo provocare apposta per creare uno scontro e si avvicinò lasciando cadere per terra la lattina che teneva in mano.
Zeno tentò di fermarlo prendendogli un braccio, ma lui si divincolò dalla sua presa. Insultò ancora il gigante e quando Georgos lo insultò di rimando, fece uno scatto e gli saltò addosso. L’idiota non se lo aspettava e cadde sul sedere.
Lo colpì con tutta la forza che aveva. O così gli sembrò. Ma quando sentì il viso esplodergli gli si bloccò il respiro e cadde all’indietro nella sabbia. Doveva essere stato colpito da Georgos. Dopo un altro colpo sentì qualcosa colargli sul viso e il sapore di sangue in bocca.
Poi non sentì più il peso dell’idiota sul petto. Cercò di rizzarsi. Dei ragazzi erano arrivati a dividerli. Zeno lo aiutò ad alzarsi e vide uno dei ragazzi più grandi tirare indietro Georgos. Sentì la voce di alcune ragazze chiedergli come stesse. Si girò verso di loro distrattamente.
Ma quando sentì una voce familiare imprecare in tedesco si risvegliò improvvisamente. Wolfrun. Merda! Wolfrun era alla festa? Tornò a guardare verso i ragazzi e la vide arrivare di corsa. Aveva i capelli sciolti e un vestito che non le aveva mai visto. Il falò gettava ombre dorate sul suo corpo. Era dannatamente bella, come se fosse uscita dal fuoco. Per lui. Si bagnò le labbra quando incontrò il suo sguardo.
Lei guardò verso Jakob, squadrandolo da capo a piedi e poi si voltò verso Georgos, incamminandosi verso di lui.
NO! Avrebbe voluto gridare. Stava andando da Georgos? Perché? Perché non veniva da lui? Perché? No. No. No… diamine, non immaginava che lei sarebbe stata lì. A vedere mentre le prendeva da Georgos. Merda. Merda! MERDA! E lei era andata dall’idiota!
Si sedette su un tronco, improvvisamente esausto. “Bevi” disse Zeno passandogli la borraccia. Si sciacquò la bocca. Avrebbe preferito un’altra birra.

 

Wolfrun era arrivata poco prima che li separassero. Vide chiaramente Georgos venire trascinato indietro e delle ragazze circondare Jakob. Quando lo vide si avvicinò e lo scrutò per vedere se stesse bene. Era vicino a Zeno, uno dei suoi migliori amici (lui faceva amicizia con tutti, una dote che gli aveva sempre invidiato).
Quando vide il taglio sulla guancia cercò di non mostrare tutta la sua preoccupazione, ma era bruttissimo da vedere. Doveva fare anche male. Doveva essere stato l’anello di Georgos. Quello che portava al mignolo.
Avrebbe ucciso il greco per averglielo fatto. Subito. Doveva parlare con quell’idiota. Si voltò verso di lui e vide che guardava verso Jakob ancora incarognito, ma lei non si era scordata l’insulto che aveva sentito lanciargli.
Si avvicinò al gruppetto e notò il momento in cui Georgos la riconobbe. Probabilmente non si aspettava di trovarla lì. Poi fece un sorriso strano quando lei si incamminò verso di lui.
“Wolfrun! Non pensavo venissi anche tu, sei molto..” disse un po’ troppo poco contento di vederla. Certo che quando diceva il suo nome con quello strano accento era così fastidioso…
“Georgos. Dimmi, non ti aspettavi che anche questa ‘sporca tedesca’ venisse, stasera?” gli chiese. Il suo sguardo vacillò.
“Io non intendevo te…” cercò di scusarsi.
“Hai offeso Jakob per qualcosa che riguarda anche me” spiegò avvicinandosi lentamente, giocando con il coltello che teneva nel palmo della mano sinistra. Era piccolo, ma aveva sempre fatto il suo dovere.
Non voleva creare casino sull’isola, ma lui doveva capire quello che non si poteva fare. E dar fastidio a Jakob era una di quelle. Si avvicinò ancora.
“No no, io…” si difese ancora. Quando Georgos fece cadere lo sguardo sulla sua mano rise.
“Cos’hai lì? Un coltello? Che pensi di farci?” chiese il ragazzo. Wolfrun sentì anche gli altri ragazzi ridere al suo tono beffardo, quando lui lanciò lo sguardo verso di loro.
“Serve a distrarti” spiegò. Lui corrugò la fronte senza capire, mentre lei stendeva il braccio e lo faceva roteare di lato.
Quando lo sguardo di lui seguì il coltello, lei si avvicinò e gli strinse con la mano la coscia. Forte. Sapeva di essere molto più piccola di lui, quindi doveva giocare sulla sorpresa. Strinse forte il nervo sciatico e lui si piegò sulla gamba. Sventolò le braccia senza fare niente e gridò di dolore, cadendo per terra. La ragazza lasciò cadere il coltello e gli appoggiò la mano sulla spalla, vicino al collo.
“Ma cosa…” esclamò sorpreso. Appena lui si riprese schiacciò forte il punto vicino alla clavicola, come le aveva insegnato Chloe e lui gridò ancora.
Dopo poco lo lasciò ansimante e fece un passo indietro, raccolse il coltello e gli disse: “Questa ‘sporca tedesca’ non ha neanche bisogno di usare il coltello. Ma so come si fa. Tocca ancora qualcuno dei miei e te lo dimostrerò”.
Poi guardò i ragazzi intorno a lui. Tutti la guardavano in silenzio. “Dovreste aiutarlo ad alzarsi” disse loro. Vide qualcuno sorridere.
Si girò e tornò da Jakob. Corrugò la fronte quando vide la sua espressione.

 

Jakob sorrideva da quando Georgos era caduto per terra e l’aveva sentito gridare. Aveva sentito quello che lei gli aveva detto. L’avevano sentito tutti. Sorrise ancora quando Wolfrun si girò verso di lui e la guardò arrivare.
Ma quando vide la sua espressione, un po’ si spaventò. Era arrabbiata. Tanto.
“Che cazzo sorridi? Volevi farti pestare? Sei un idiota quanto lui” disse, dandogli uno schiaffo e facendo un passo indietro. Era furente.
Ma… come… cosa…”Stai bene, Jakob?” gli chiese una voce. Una ragazza alla sua destra si strinse a lui e gli circondò la schiena con il braccio. Vide Wolfrun spostare lo sguardo su di lei e incenerirla con gli occhi. La ragazza tolse il braccio. Jakob non sapeva cosa dire.
Poi Wolfrun sospirò e disse alla ragazza: “Bagnagli la faccia, così non dovrebbe gonfiarsi troppo. Se usi l’acqua del mare è meglio”. Poi si girò e tornò verso il falò senza più guardarlo. No. No.
La ragazza vicino a lui lo strinse ancora e gli accarezzò la testa. Si voltò verso di lei e lei gli sorrise, melliflua.
Si alzò velocemente e gridò alla tedesca: “Aspetta!”
La ragazza vicino a lui sgranò gli occhi. “Dove vai?” Non le rispose e corse dietro a Wolfrun.

 

Wolfrun raggiunse Diane vicino al falò. Lei si fece avanti ma la tedesca scosse la testa e proseguì senza fermarsi. Stava per piangere. Era nervosa e aveva paura di fare qualcosa di cui si sarebbe pentita.
Sentì Diane raggiungerla senza dire niente. “Torna là, Diane. Io vado a casa” le disse, girando appena la testa.
La ragazza non sapeva cosa fare, ed era confusa. “Ma stai bene?” le chiese. Wolfrun si fermò e si girò verso di lei.
“Non preoccuparti. Sto bene. Torna da… da… “ Non si ricordava come si chiamasse il tipo con cui stava ballando.
“Sei sicura? Vai a casa? Ti accompagno?” le domandò. Diane era carina. Ma lei sapeva badare a se stessa.
“No. Ho detto che non c’è bisogno. Ci vediamo domani” concluse. La ragazza capì e annuì facendo un passo indietro.
Wolfrun riprese la strada, con passo svelto e sostenuto. Che stupido! Jakob aveva provocato Georgos. Per cosa poi? Perché lo aveva fatto? Si era beccato un pugno in faccia. Se non di più. Magari aveva altri segni. Sospirò nervosamente, cercando di non pensarci.
Come si era spaventata quando aveva visto che Georgos lo stava picchiando! Aveva sentito qualcosa dentro che si spezzava. Un forte CRAC le aveva lacerato tutte le ossa e per un attimo aveva osservato la scena senza riuscire a respirare. E quando aveva ripreso a respirare non era riuscita più a controllarsi e aveva fatto quello che aveva fatto.
Anche se vedere cadere Georgos le aveva ricordato tante cose. Il potere, la forza. Guardare tutti dall’alto… Questo sì che le mancava di Berlino. Ma solo qualche volta.
Accelerò il passo verso casa e sentì la voce di qualcuno chiamarla. Si fermò sotto un lampione e si voltò. Jakob arrivava di corsa. Sbuffò e il suo cuore prese a battere a mille. Perché non era rimasto sulla spiaggia?
Si appoggiò una mano sul fianco, pronta a dirgli qualcosa di offensivo, ma sentì il pizzo sotto il palmo della mano e si ricordò di avere addosso ancora quel vestito. Ohhh. Diamine. Lui l’avrebbe vista con quel vestito? Lui l’aveva già vista con quel vestito! Quel vestito che le stava così bene. Oddio, ma lei non era vanitosa!
Si scordò tutto quello che voleva dirgli e quando arrivò di fronte a lei, riuscì solo ad aprire la bocca e richiuderla.

 

Jakob la raggiunse e riprese fiato. Wolfrun aveva uno sguardo bellicoso e il portamento di una regina. Aveva un braccio piegato e appoggiato in vita e il petto in fuori. Cercò di non guardare. Davvero. Ma il suo sguardo cadde sul seno. Dannazione. Dove aveva preso quel vestito? Si vedeva… tutto. Troppo scollato. Sì, era troppo scollato.
Fece un passo indietro per non farsi beccare. Magari gli avrebbe dato un altro schiaffo. Ma perché poi lo aveva schiaffeggiato?
“Mi hai schiaffeggiato” disse infatti, quasi offeso. Lei rise. Jakob sentì il petto aprirsi e una sensazione di calore avvolgerlo.
“Sei stato fortunato” gli disse.
Oh. E perché? “Fortunato?” chiese infatti. Non si sentiva lucidissimo.
“Perché ti ho colpito sulla guancia buona e non su questa” disse lei. Si avvicinò e con il dito premette sulla guancia che gli faceva male.
“Ahia!” Lui fece un passo indietro.
“Si sta gonfiando. Dovresti metterci il ghiaccio. Andiamo a casa” gli disse e sospirò.
Ma Jakob non voleva andare a casa. Aveva parlato di acqua di mare. Potevano andare alla caletta. “No…” Le prese la mano e la tirò dirigendosi lontano dal sentiero.
“Dove andiamo?”

 

Jakob non le rispose. Quando furono alla caletta si agitò. Non c’era più tornata dalla settimana prima. Da quando lui l’aveva baciata. Si fermò.
“Aspetta, io…” disse lei. Lui si voltò verso la ragazza, aveva uno sguardo che lei non gli aveva mai visto. Quasi deluso.
“Oh, su, dai. Non ti bacerò più. Non preoccuparti. Hai detto di bagnarlo con l’acqua del mare. Qui c’è il mare!” esclamò Jakob indicando davanti a sé. Wolfrun si fece tirare fino agli scogli a filo d’acqua.
Oh. Non l’avrebbe più baciata? Aveva detto così. Mai più? Cercò di non rimanerci male. Non le interessava. Forse un po’… no. No, no.
Lui si sedette su una delle rocce nell’acqua e si frugò nelle tasche. “Hai un fazzoletto?” le chiese.
Wolfrun si sedette e si portò in grembo la borsetta di stoffa, quella con cui aveva portato la torta a casa della signora Opas. No. Niente fazzoletti. Ma aveva il vestito che indossava prima di mettere quello di pizzo. Ne strappò un pezzo e si chinò a bagnarlo. Lo strizzò e glielo posò sul viso non proprio delicatamente.
“Ahi! Brucia!” esclamò Jakob e lei ridacchiò.
“Ben ti sta. Così te lo ricorderai, la prossima volta che vorrai fare a pugni…”

 

Jakob storse la bocca dicendo: “Ricordarmelo? Mi ricorderò del dolore, ma magari non mi ricorderò come ho fatto a procurarmelo…” Lei si chinò ancora a bagnare la stoffa e la strizzò.
“Perché non dovresti ricordartelo?” gli chiese. Quando tirò indietro la testa, per paura del contatto, lei gli passò la mano dietro la nuca e l’avvicinò. Sembrava un gesto più intimo. Ma non lo era. Jakob sospirò e si lamentò quando gli appoggiò contro il tessuto bagnato.

 

Perché sarebbe stato umiliante ricordarselo, ecco perché, pensò Jakob. Ma era umiliante anche dirlo ad alta voce. “Penso di aver bevuto troppo” mentì, per scusarsi. Non sapeva cosa fosse peggio. Fingere di aver bevuto troppo o dire di non saper fare a pugni. Lei alzò un sopracciglio. Lo vide bene perché c’era la luna piena e la caletta era ben illuminata.
Lui rise della sua espressione. “Si vede che non hai mai preso una sbronza!”
Wolfrun sospirò. Strizzò ancora lo straccio. “Una volta mi è successo, a Berlino” ammise lei.
“Davvero?” Si stupì lui.
“Dovrei offendermi del tuo stupore?”
“Scusa. Io non… effettivamente, sì, sembri proprio una da…” cercò di salvarsi lui, ma Wolfrun spinse di più sulla guancia.
“Ehi!” Jakob capì che lo aveva fatto apposta.
“Ho preso una sbronza una volta sola. A tredici anni, a Tegel. Ho vomitato l’anima. I grandi ridevano. Di me. Non l’ho più fatto. Ho cercato di non perdere più il controllo…”

 

Merda. Cosa gli aveva detto? Non lo aveva mai detto a nessuno. Si bloccò con la mano in aria. Che brutto ricordo. Però era vero. Non si ricordava di quella sera. Solo del mattino dopo. E il mattino dopo stava male. Se non fosse stato per Chloe che l’aveva aiutata…
Jakob si avvicinò e le accarezzò una guancia. “Mi dispiace” le disse. No. Non doveva dispiacersi.
Premette ancora sul viso del ragazzo e lui gridò, perché questa volta l’aveva preso alla sprovvista.
“Spero di dimenticarmi anche di questo” dichiarò lui, mesto. Lei lo osservò. Era bello anche con quel taglio. Non si era gonfiato tanto.
Strizzò ancora la stoffa e mentre era chinata lui le posò una mano sul ginocchio dicendo: “Sei stata grande, comunque. Lo sei sempre stata”.
Wolfrun si sentì arrossire. Si era lasciata prendere dalla situazione. Si era spaventata quando aveva visto Jakob per terra e si era incattivita quando aveva visto il taglio sul suo viso. Strizzò ancora il tessuto senza che ce ne fosse bisogno, per prendere tempo. Quando lo portò di nuovo su di lui, notò che aveva chiuso gli occhi e si era appoggiato sulle mani, leggermente all’indietro. Oh, com’era difficile.
Senza farsi notare si avvicinò. Quando gli posò il bendaggio sulla guancia, si alzò e si accostò alla roccia.
“Sei sicuro?” gli domandò, mentre lui aveva ancora gli occhi chiusi.
“Di cosa?” chiese il ragazzo, ma non li aprì.
“Che domani non ti ricorderai di stasera” sussurrò lei.
Lui alzò le spalle e Wolfrun lasciò cadere la stoffa, allungò una mano dietro la sua nuca e lo avvicinò a sé mentre si chinava per posare le labbra sulle sue.

 

Jakob spalancò gli occhi quando sentì Wolfrun baciarlo. Non se lo aspettava. Poi li richiuse e si mise seduto dritto, rispondendo al bacio. Questa volta l’aveva baciato lei.
Sorrise beato mentre portava una mano al suo viso e le accarezzava la guancia. Lei aveva dischiuso le labbra e gli stava garantendo l’entrata per il paradiso. Era sicuro che se lo sarebbe ricordato. Oh, sì. Quando la lingua di lei si intrufolò timidamente fra le sue labbra pensò di aver preso un colpo molto più forte e di stare sognando.
Le mise una mano in vita e cercò di avvicinarsi a lei. Non fece il contrario perché aveva paura che sarebbe scappata ancora. Ma quando lei portò tutte e due le mani dietro il suo collo si sentì più tranquillo.
E si fece audace.
Le portò anche l’altra mano in vita e la tirò lentamente verso di sé, fino a farla sedere sulla sua coscia. Lei non fece resistenza. Lui fu contento come quando suo padre lo portò a vedere i mondiali a Berlino. Le accarezzò ancora la guancia e le passò una mano sui capelli. Erano sciolti. Ed erano morbidi. Ne seguì la lunghezza fino a raccogliere le punta di una ciocca nel palmo della mano. Continuò a giocarci, finché lei non portò una mano al suo viso e prese contro la guancia tumefatta.
Lui si irrigidì e dovette dire qualcosa, perché lei si staccò da lui.

 

Wolfrun si staccò da lui quando gli prese contro la ferita. “Scusa, io non mi…” si scusò, ma a lui non dovette importare molto, visto che le prese il viso fra le mani e la riavvicinò.
“Baciami ancora” sussurrò prima di riappoggiare le labbra sulle sue e continuare ad assaggiarla.
Il petto le stava andando in frantumi. Il cuore batteva furioso e sembrava incapace di stare al suo posto.
Quando la sua bocca si spostò e le lasciò umidi baci per la guancia, sospirò ancora con gli occhi chiusi. Quando arrivò a mordicchiarle il collo sotto l’orecchio un brivido le scosse le spalle e il petto.
“Tutto bene?” chiese lui, continuando a baciarla e giocando con la lingua sulla sua pelle. O Santo cielo. Annuì. Ma lui non poteva vederla.
Si sforzò di dire: “Sì”, ma la sua voce venne fuori roca e diversissima dal solito.
Lui sorrise contro la sua pelle mentre le diceva di non preoccuparsi. Non capì come avesse fatto ad accorgersi del suo sorriso, ma lo sapeva e basta. Quando le sue labbra arrivarono alla spallina del vestito, la spostò con le dita.

 

Perdinci! “Non hai…” iniziò lui quando si rese conto che lei non aveva il reggiseno. Wolfrun rispose un tenue: “No”, come se avesse capito. La sua voce, che vibrava di desiderio e incertezza come poco prima, era un suono fantastico da sentire. Lei era fantastica. Immaginò troppe cose con lei senza l’indumento e si tirò su.
Lei lo guardò con occhi incuriositi e un po’ delusi. No. Non l’avrebbe delusa. Le passò una mano dietro il collo e riprese a baciarla.

 

Wolfrun appoggiò timidamente una mano sotto la sua maglietta, sulla pelle calda degli addominali. Quando l’accarezzò sentì le guance andare a fuoco. Oh, doveva assolutamente sentire quella pelle a contatto con la sua. Pensava di non poterne fare a meno. Si alzò dalla sua gamba e fece un passo indietro. Lui la prese per le mani.
“Non andare via” la supplicò.
No. Non sarebbe scappata ancora. Voleva stendersi sulla sabbia. Con lui. Lo tirò per le braccia.
Lui si alzò dalla roccia e si avvicinò a lei sorridendo. Le posò una mano dietro la schiena e l’avvicinò a sé, mentre girava per invertire i loro posti.

 

Jakob la fece sedere sulla roccia e lei brontolò. Sorrise e riprese a baciarla. Wolfrun non fece resistenza e lui la spinse un po’ indietro finché non si appoggiò su una mano. Nel farlo, si spostò e la spallina del vestito le cadde sul braccio.
Lui sospirò, guardandole la spalla nuda. Poi osò e le accarezzò la pelle del collo fino alla spalla e scese lungo l’orlo di pizzo del vestito fino all’inizio del seno. Lei rabbrividì ancora.
Si sentiva potente. Fece seguire alla bocca lo stesso percorso delle dita e lei gemette scompostamente. Sorrise ancora.
Voleva farla volare.

E lei volò.

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Capitolo 6
*** Berlino ***


Berlino

 -

Quando, due giorni dopo, Jakob vide Wolfrun caricare l’arco con le frecce sulla navicella del Pegaso, corrugò la fronte.
“Wolfrun… non c’è bisogno di armi. Non è…” provò a dire Jakob, imbarazzato. Non sapeva come spiegare il fatto che Berlino non fosse più come tre anni prima senza che lei si offendesse.
“No?” Wolfrun si girò con un fucile aperto e pronto per essere caricato, in mano. Il ragazzo strabuzzò gli occhi. E quello cos’era?
“A che ti serve un fucile da caccia?” le chiese e lei alzò le spalle.
“Non si sa mai. Hai detto che potremmo anche dormire lungo la strada, no?” disse semplicemente, come se fosse una cosa normale girare con un fucile sulla spalla.
Spyros si avvicinò e disse a Wolfrun: “Niente polvere da sparo sul Pegaso”. La ragazza scosse la testa.
“La signora Opas mi ha insegnato a confezionare proiettili caricati a sale grosso” spiegò lei all’uomo. COSA?
“E come fa la signora Opas a sapere come si fanno?” chiese Jakob, sorpreso. Spyros e Wolfrun si girarono verso di lui.
“Il signor Opas era un grande cacciatore. Ma conosceva il valore delle munizioni. Caricava a sale quelle già usate, quando non erano necessarie armi vere” precisò ancora lei. Oh. Sembrava che Wolfrun ne sapesse più di lui. Anche Spyros annuiva.
Jakob pensò a quando l’aveva vista costruire un arco da un ramo di un albero, nel bosco intorno ad Atlantis. Era dannatamente brava in quelle cose. Alzò le spalle.
“Comunque non ci serviranno…” ci tenne a precisare ancora.
“Meglio così” disse Wolfrun, ma caricò lo stesso il fucile sulla navicella. Jakob guardò Spyros. Lui gli sorrise.
“Hai altre armi, signorina?” chiese l’uomo alla ragazza. “Solo il mio coltello” disse lei, mostrandogli la lama. Spyros annuì. Oh, se stava bene a lui...

 

Sebastian si avvicinò ai ragazzi mentre salivano sul Pegaso.
“Salutate gli altri. E state attenti” disse, abbracciando Jakob e Anneke. La piccola era un po’ insonnolita. Rise mentre la metteva giù e le scompigliò i capelli. “Fai la brava, ok?” le raccomandò e lei annuì.
Poi si voltò verso Wolfrun e si avvicinò per abbracciarla. Sapeva che per lei gli abbracci erano una cosa strana, così cercò di non spaventarla ma la abbracciò stretta comunque.
Anche Eleni salutò i ragazzi, e indicò a Spyros una scatola di legno.

 

“Cosa portiamo?” chiese Wolfrun, salendo all’interno del Pegaso e guardando tutte le cassette di legno.
“Provviste e scorte, cose che possono servirci. E poi… regali. Pesce sotto sale, confettura, quelle cose lì, che non si trovano a Berlino”, Jakob alzò una spalla mentre aiutava a caricare e le indicò ogni cassetta.
Lentamente annuì. Giusto. Non aveva mai assistito alla partenza del dirigibile, e l’ultima volta che c’era salita era stato quando era partita da Berlino. Una vita prima…

 

***

 

Il decollo era stato forte. Anneke continuava a guardare dal vetro e a indicare cose. Wolfrun osservava con curiosità i posti che oltrepassavano.
Non c’era la stessa desolazione dell’andata di tre anni prima: si vedevano edifici ricostruiti e gente in giro. Qualcuno salutò quando loro passarono sui piccoli centri.
“Quando arriviamo a Berlino?” chiese Anneke.
“Fra tre giorni” le venne risposto. La bambina annuì entusiasta come se Jakob le avesse detto che il viaggio sarebbe durato mezz’ora.
Wolfrun sorrise. Un po’ era agitata anche lei. Com’era Berlino? Cosa avrebbe trovato? E come si sarebbe sentita? Accarezzò la stoffa che avvolgeva l’arco, inconsapevolmente.

 

Jakob osservò Wolfrun guardare oltre il vetro e andare a sedersi in un angolo in fondo alla navicella, dove si erano sistemati loro tre anni prima.
Il ragazzo aiutava Spyros nelle manovre, visto che Alexis non era potuto andare con loro a causa di un piccolo incidente avuto durante un esperimento andato male. Aveva comunque appeso un komboloi a uno dei ganci della navicella, perché diceva che non si poteva viaggiare senza.
In un momento di calma, mentre Anneke guardava dal vetro e giocava chiacchierando da sola, Jakob si sedette accanto a Wolfrun.
“Tutto bene?” le chiese.
Lei si voltò verso di lui e annuì, ma il suo sguardo era altrove.
“Andrà tutto bene” le disse lui, per tranquillizzarla
“Non sono preoccupata” mentì e Jakob sorrise dicendo: “Ah, no?”

 

Wolfrun si agitò un po’. Perché lui doveva sempre capire quello che sentiva? La stava prendendo in giro perché lei non sapeva cosa avrebbe trovato una volta scesa dalla navicella né l’accoglienza, o la sua mancanza, quando gli altri avrebbero visto che c’era anche lei, e questo le dava qualche pensiero.
Non che le importasse tanto. Però un po’ sì. Sarebbero tornati a Gropius, probabilmente. E Gropius non era il suo territorio. Sospirò. Però avrebbe accarezzato di nuovo Ziggy.
“No” rispose comunque.
“Stasera dormiremo in una casa di campagna di gente che conosce Spyros. Ci hanno ospitato già le ultime volte…” iniziò a spiegare il ragazzo.

 

Jakob cercò di distrarre Wolfrun con un po’ di cose pratiche. Il pernottamento, il funzionamento del Pegaso, qualsiasi cosa, pur di distogliere la sua attenzione dai brutti pensieri. Ma non sempre funzionava.
A un certo punto la vide incantata a guardare Anneke che giocava con le braccia aperte come un piccolo aeroplano e lui ne approfittò per accarezzarle una guancia con il dorso delle dita.
Non la toccava dalla sera di due giorni prima. Erano tornati a casa sorridendo e tenendosi per mano, ma poi il giorno dopo lei aveva fatto finta che non fosse successo niente. Quando lui aveva provato ad avvicinarla lei lo aveva evitato. Come quando si erano baciati. Jakob era sempre più confuso. Lo era stato tutto il primo giorno.
Il secondo, invece, avrebbe voluto prenderla per le spalle e bloccarla contro il muro. L’aveva quasi fatto, ma era riuscito a controllarsi. Lei era una ragazza! Ma che diavolo, lui mica era un santo!

 

Wolfrun si girò di scatto quando sentì la mano di Jakob sulla guancia. Lui sorrideva. Dannazione, sorrideva sempre.
Aveva fatto male i suoi conti. Aveva creduto veramente che lui non si sarebbe ricordato di quella sera. Altrimenti non lo avrebbe baciato. Quando era stata male a Tegel, dopo la sbronza, non si ricordava niente. Chloe aveva dovuto spiegarle quello che era successo e lei aveva avuto dei ricordi molto vaghi, come un sogno fatto di notte e scordato subito al mattino.
Pensava veramente che sarebbe successo anche a lui. E invece no. L’aveva visto, il mattino dopo, il suo viso. Era stato bello, effettivamente, vedere quella sorta di piacere e speranza, ma lei non era del tutto convinta. Aveva voluto provare senza esporsi troppo. Per fortuna non erano andati fino in fondo. Lui era stato maledettamente carino, nonostante tutto. E lei aveva provato cose inconfessabili.
Non c’era stato bisogno neanche di fare yoga, dopo. Sorrise al pensiero di quella sera. Si sentì anche le guance in fiamme. Ma non si sentiva come Chloe. Come aveva immaginato Chloe. E questo la confondeva e le piaceva. Doveva essere una cosa bella.
Ma poi aveva anche pensato a quello che poteva essere stato per Jakob. La considerava un’altra ragazza dell’isola? Un’altra Christa? Stavano andando a Berlino, e avrebbe rivisto Christa. Cosa sarebbe successo? Si portò una mano alla testa e sospirò.

 

Jakob si alzò quando Spyros lo chiamò. Dovettero prestare attenzione al dirigibile quando passarono in un punto particolarmente turbolento. Per fortuna non durò a lungo e riuscirono ad attraversarlo in breve tempo, ma quando tornò a sedersi vicino a Wolfrun, lei stringeva una Anneke spaventata fra le gambe piegate.
“Anneke” chiamò Jakob. La bambina si sporse verso di lui e gli tese le braccia. Il ragazzo la prese e se la tirò sulle gambe.
Sentì Wolfrun sbuffare e la guardò mentre si alzava e andava da Spyros. Gli chiese qualcosa e lui le rispose. Li guardò parlare mentre accarezzava la testa di Anneke finché non si accorse che si era addormentata.

 

Spyros era una persona interessante. C’era qualcosa che quell’uomo non sapesse fare? Le spiegò un po’ il fatto dei venti e di come reagisse il dirigibile, e lei trovò la cosa coinvolgente. Quando si ritrovò a fare domande su domande e lui rispose a tutte, senza fretta o scocciatura, notò quanto fosse stanco.
“Scusami. Ti lascio un po’ di pace” si scusò lei. Lui sorrise e le confidò quanto fosse piacevole parlare con lei. Wolfrun pensò di aver capito male.
Si avvicinò a Jakob sul fondo della navicella e notò che Anneke dormiva in braccio a lui. Si era spaventata per il vento.
“Ha paura. Diventerà una mezza calzetta” gli disse, sbuffando e sedendosi vicino a lui.
“Non dire così” la sgridò, accarezzando i capelli alla bambina.
“Tre anni fa non aveva paura” precisò la ragazza.
“Era piccola, non capiva. Ora inizia a rendersi conto delle cose, è normale” disse Jakob, calmissimo.
Lei alzò un sopracciglio. Come diamine faceva a sapere quelle cose?
“Dalle tregua. Ciò che non conosciamo ci spaventa…” continuò lui, mentre accarezzava la testa di Anneke.
“Non è vero” disse Wolfrun, scatenando una risata da parte di lui.
“Sì che è vero. Hai paura anche tu. Di Berlino” precisò.
Merda. Se n’era accorto. E sì che pensava di nasconderlo così bene.
“Non è vero” mentì. E la sua voce era dannatamente flebile.

 

Jakob sorrise e mise un braccio intorno alle spalle della ragazza.
“Non importunarmi” gli disse lei. Cercò di essere scocciata e lo prese in giro, ma non ci riuscì bene e sorrise.
“Mi sembra di averti ben più che importunato, due sere fa” le disse sottovoce, avvicinando il viso al suo. Lei arrossì, ma non rispose subito. E non abbassò gli occhi.
“Non mi hai importunato. Non so bene cosa ho fatto due sere fa. Né il perché…” ammise la ragazza. Oh. Lui sapeva bene cosa aveva fatto, invece. Ripensò al consiglio di Eleni: tempo.
“Non preoccuparti. Comunque: abbiamo fatto. Eravamo in due” precisò. Tolse il braccio dalle sue spalle e si allungò a prendere lo zaino.
“Hai fame?” le chiese e lei scosse la testa.
Jakob si voltò verso Spyros e gli chiese qualcosa. Poi si alzò, lasciando Anneke sulle gambe di Wolfrun e andò vicino all’uomo con un panino.

 

Wolfrun un po’ ci rimase male, quando lui spostò il braccio e se ne andò, ma cercò di non dargli peso. Prese Anneke e la fece stendere con la testa sulle sue cosce.
Però Jakob aveva ragione. Doveva darle tregua. Non c’era niente di male ad avere paura. Ed era vero che lei avesse paura di Berlino. Aveva avuto paura di così tante cose…
Accarezzò la testa della bambina e lei si mosse nel sonno. Iniziava a fare freddo, stava calando il sole.
Prese lo zaino e tirò fuori la coperta che aveva fatto portare alla piccola e la coprì.
Era la coperta che le aveva lasciato la sua mamma. Era riuscita a portarsela dietro tutte le volte che si erano spostate. Non era bellissima, anzi era abbastanza rovinata, ma Eleni la lavava in una maniera particolare così che non peggiorasse. Wolfrun aveva iniziato a portare rispetto a lei e a Sebastian proprio per queste cose.
Jakob tornò mangiando.
“Ci fermiamo fra un’ora” disse e lei annuì.
Però… però un po’ le dispiacque che lui non avesse voluto parlare della sera alla caletta. No, non è vero. Andava bene così. Però, se le avesse detto cosa aveva provato lui… No no, a lei non interessava. No.
Accarezzò ancora la testa della bambina e sospirò, guardando oltre al vetro.

 

***

 

Il secondo giorno fu decisamene più noioso e lungo. Sembrava di non arrivare mai. Wolfrun giocava a carte con Anneke da almeno un’ora e Jakob aiutava Spyros nella gestione del dirigibile. Se il giorno prima l’arrivo a Berlino le incuteva un po’ di timore, in quel momento le sembrava una gran liberazione. Sbuffò. Jakob si voltò verso di lei e le sorrise. Cercò di ricambiare il sorriso senza lamentarsi, ma ormai non sentiva più il sedere. Si alzò e propose ad Anneke un gioco per cui avrebbero dovuto muoversi per forza.

 

Jakob osservava le ragazze. Era rimasto tutto il giorno vicino a Spyros, ma lui aveva capito che lo aveva fatto per evitare di parlare con Wolfrun e l’aveva preso in giro più volte.
Aveva preferito non stare troppo vicino a Wolfrun, per non voleva opprimerla. Lei non voleva venire e ora si stava annoiando, lo vedeva bene. Così le era stato lontano.
Avevano passato la notte da una famiglia di contadini che aveva aiutato Alexis i primi tempi, quando aveva iniziato a girare i luoghi nei dintorni, ma con suo grande dispiacere, avevano fatto dormire Wolfrun e Anneke in casa, mentre lui e Spyros avevano passato la notte nel fienile, come gli altri anni. Non si era immaginato che avrebbero offerto un letto caldo alla ragazza e alla bambina, ma effettivamente, era una cosa giusta e non aveva detto niente.
La notte successiva avrebbero dormito all’aperto e purtroppo c’erano troppe misure di sicurezza da prendere per poter chiacchierare liberamente.

 

***

 

Anneke aveva paura. Tanta paura. Il Pegaso fischiava e faceva un rumore terribile. E c’era freddo. Tanto freddo. Ma Pegaso poteva cadere? Veniva sbatacchiato di qua e di là e Jakob e Spyros si muovevano in continuazione e lei non smetteva di avere paura.
Quando anche Wolfrun aveva iniziato a tirare le corde e a spostarsi da un lato all’altro, le aveva detto di sedersi e cantare la canzone della casa sulla collina che le aveva insegnato Eleni. Le aveva dato la sua coperta gialla, quella con il bordo morbido che lei chiamava micino, ma che Eleni chiamava ciniglia, e le aveva detto di tenerla sulla testa.
Effettivamente, da quando era sotto la coperta e accarezzava il micino immaginando il pancino del gattino appena nato che avevano trovato vicino alla spiaggia, Anneke aveva meno freddo e la canzone della casa sulla collina era molto bella, le piaceva cantarla.
Piano piano, dopo aver iniziato a cantare, un po’ la paura le era passata e aveva iniziato a guardarsi intorno diversamente. Il vento non fischiava più così tanto e il Pegaso sembrava più dritto e non dondolava più.
Quando Wolfrun tornò vicino a lei e le sorrise, sorrise anche Anneke.

 

“Siamo quasi arrivati a Berlino” disse Wolfrun alla bambina. Si era spaventata, ed effettivamente un po’ si era spaventata anche lei. Avevano attraversato un tratto particolarmente ventoso, ma erano riusciti a controllare il Pegaso e quando erano scesi un po’ di più la situazione era migliorata. Oramai non mancava più tantissimo.
Sarebbero arrivati prima di sera. Peccato che ci fosse nuvolo e un po’ di freddo. “Non sono sicura che mi piace, Berlino” disse Anneke.
Ehi. No, no. Non avrebbe cambiato idea proprio adesso che stavano per arrivare. Era in smania anche lei, ormai.
“Guarda che Berlino è una bella città. Ti porterò a vedere dove abbiamo vissuto prima di andare a Lemnos. E fra un po’, riusciremo a vedere, da qui, la torre della televisione e anche…”
“Cos’è la torre della televisione?” la interruppe la bambina, incuriosita.
“La torre della televisione è come un palo altissimo, tanto tanto alto, con in cima un pallone gigante. L’hanno costruita i sovietici, che erano al di là del muro. Serviva per vedere la televisione nelle case delle persone” spiegò la ragazza.
“La televisione… Quella scatola con le immagini?” chiese la bambina e lei annuì. Avevano visto dei televisori sull’isola, nella parte del villaggio dove arrivava l’elettricità. Ne avevano uno anche dove avevano studiato l’antidoto. Era stata una bella sorpresa, scoprire che esistesse ancora.
“E da lassù si può vedere tutta Berlino, sai? Ma anche da qui. Si vedono l’Havel e lo Sprea che serpeggiano in mezzo alle case. I grattacieli altissimi e si vede anche la porta di Brandeburgo. Tu non l’hai mai vista perché è a Berlino Est…” spiegò ancora Wolfrun e la bambina scosse la testa confusa e incuriosita.
Ce l’avrebbe portata. Aveva visto la porta di Brandeburgo solo una volta e per quanto fosse un’occasione infelice, era stato meraviglioso guardare quel monumento dal basso.

 

Jakob si era avvicinato quando aveva visto Wolfrun gesticolare eccitata mentre raccontava.
“Sei stata sulla torre della televisione?” le chiese, curioso.
Lui era stato in cima alla torre quando avevano dato la caccia alla pantera, ma effettivamente era una zona lontana da Tegel, non pensava che lei ci fosse mai andata.
“Ci sono stata a cena con i miei genitori, per il mio undicesimo compleanno” rispose mentre la sua faccia si incupì.

 

“Il mio ultimo compleanno con loro. Papà aveva faticato, ma mamma lo aveva obbligato a usare tutte le sue conoscenze. Voleva una cosa grandiosa. Perché non mi accorgessi della mancanza di Dorothea” spiegò sottovoce a Jakob.
E Wolfrun aveva pensato a Dorothea per tutto il tempo che era rimasta al tavolo a mangiare, mentre il pallone girava e mostrava Berlino in tutta la sua bellezza.
La prima volta che era salita così in alto. La prima volta che andava al di là del muro. Il primo compleanno senza Dorothea a casa.
“E si può salire e vedere Berlino?” chiese Anneke, già eccitata.
Oh. Wolfrun non lo sapeva. Si poteva andare sulla torre, adesso? Si girò verso Jakob e aspettò la sua risposta.
Lui si chinò vicino alla bambina, ma mise una mano sulla spalla di Wolfrun. Il suo calore era terapeutico in quel momento. Disse qualcosa sul fatto che ora il muro non c’era più e si poteva andare anche sulla torre.
“Funzionano gli ascensori?” chiese la ragazza. Jakob si voltò verso di lei e annuì. “Anche perché sono salito una volta sola per le scale e non ho intenzione di farlo di nuovo” disse. Wolfrun sgranò gli occhi. Cosa aveva fatto?
“Hai fatto tutte le scale?” chiese infatti. Lui sorrise mentre annuiva.
Poi divenne triste. “Con Bernd. E Timo” rispose.

 

 

Jakob ripensò a quando era salito sulla torre della televisione, quando avevano dato la caccia alla pantera. Bern. Sorrise. A volte era difficile pensare a lui senza rattristarsi, ma cercava sempre di pensare a tutte le cose belle che avevano fatto insieme.
“Sai quanti gradini ci sono?” chiese ad Anneke. La bimba scosse ancora la testa. “Li ha contati Bernd. Sono novecentottantasei. Sei capace di contare fino a novecentottantasei, Anneke?”
La bambina scosse ancora il capo. Lui le scompigliò i capelli, sorridendo.
Quando iniziarono a vedere i primi monumenti di Berlino, Jakob chiamò le ragazze e guardarono tutti e tre dal vetro. Wolfrun indicava ad Anneke le cose che riconosceva. E Jakob sentiva ammirazione nella sua voce.
Perché non era tornata prima?

 

Wolfrun era eccitata: era a Berlino. Com’era bella Berlino dall’alto. Ma anche dal basso. Se lo ricordava bene. Una sensazione strana le prese il petto. Si girò verso Jakob e lo scoprì a guardarla sorridendo. Sentì le guance andare a fuoco e tornò a guardare la città.
Jakob le passò una mano sulla schiena, ma poi si allontanò quando lo chiamò Spyros. Lo guardò con la coda dell’occhio. Lui si girò verso di lei in quel momento e le strizzò un occhio. Oh, cavolo. Sentì di nuovo le guance arrossire.

 

***

 

Stavano scendendo. Ormai si riusciva a vedere tutto. La torre era maestosa e fantastica, la osservarono mentre se la lasciavano sulla destra. Poi i tetti delle costruzioni iniziarono a farsi più vicini e anche il laghetto e i nuovi campi coltivati.
“Dove atterriamo?” chiese Wolfrun a Spyros. L’uomo stava eseguendo tutte le manovre con meticolosa precisione e le indicò qualcosa da fare intanto che le rispondeva.
Anche Jakob aveva il suo compito. L’atterraggio meritava lavoro tanto quanto il decollo.
“Poco più in là di Gropius. Da dove siamo partiti tre anni fa” rispose dopo un po’, alzando la voce. Lei annuì pensierosa, mentre sistemava una corda secondo le indicazioni di Spyros.

 

Anneke era eccitata. Guardava dal vetro tutte quelle persone che correvano insieme a loro e alzavano le mani per salutarli. Lei sollevava la mano e salutava tutti.
Che bello.

 

***

 

In poco tempo tutti a Berlino notarono il Pegaso atterrare e i ragazzi di Gropius si fecero vicini al punto di atterraggio del dirigibile incuriositi. Non si sapeva mai quando arrivava.

 

Qualcuno diceva che era tornato Jakob. Nina sorrise. Jakob le piaceva. Era un amico di Bernd. Ed era blu. Di un bel blu.

 

Nora vide il Pegaso quando era ancora in lontananza e disse a qualcuno dei piccoli di andare da Christa e Timo. Loro avrebbero sparso la voce. Cercò Britta e la trovò in cucina, con Petra, che preparavano la cena.
“C’è il Pegaso” annunciò.
Britta tirò su la testa e disse: “Davvero? Di già?”
Nora alzò le spalle. Da quanto tempo Jakob non tornava? Forse qualche mese.
“Andiamo a vedere l’atterraggio?” le chiesero le altre. Perché no?
“Ma sì. Chiamate i bambini, andiamogli incontro” acconsentì Nora.

 

Christa e Timo erano nei campi che valutavano la crescita delle coltivazioni. Stava andando tutto bene. Christa prese per mano Timo e si avvicinò per dirgli qualcosa all’orecchio. Erano da soli. Poi, improvvisamente, un gruppetto di ragazzini iniziò a correre nella loro direzione, urlando e dimenandosi, indicando il cielo.
Christa riuscì a fermarli prima che calpestassero le coltivazioni e Timo guardò in alto, riconoscendo il Pegaso. Lo indicò a Christa e disse sorridendo: “Jakob è tornato!”
Lei annuì e insieme si diressero verso il punto d’atterraggio.
“Mandiamo Verme al Reichstag?” gli chiese e Timo annuì.
“Sì” rispose lui e si incamminò verso Gropius.

 

Louis stava pescando nello Sprea, quando vide il dirigibile dirigersi verso di loro. Jakob. Jakob era tornato. Sorrise. Prese il cestino con i pesci, le canne e tutto il resto e si incamminò verso Gropius.

 

***

 

Quando il Pegaso toccò terra, sembrò di atterrare su un altro pianeta. Erano tutti lì. Tutti lì ad accoglierli. Beh, ad accogliere Jakob. Wolfrun sospirò.
Jakob saltò giù dalla navicella e si girò per aiutare Anneke a scendere, ma un ragazzino gli corse incontro felice e lui venne abbracciato prima di riuscire a fare qualsiasi altra cosa.
Quando anche altri ragazzini si raggrupparono intorno a lui, senza volere lo allontanarono dalla navicella.
“C’è tanta gente” disse Anneke, forse un po’ intimidita, mentre Wolfrun prendeva le loro cose.
“Eh, sì. Hai visto?” cercò di tranquillizzarla. Tutti erano venuti a salutare Jakob. Perché lui si faceva voler bene da tutti.

 

 

Jakob venne investito da Lupo che gli saltò al collo. Era cresciuto ancora da quando lo aveva visto l’ultima volta, e subito dopo dagli altri. Tutti si fecero intorno a lui. Arrivarono anche Nora e Britta. E poi Petra, Sabine, Timo e Christa. Castoro. Verme. In tantissimi. Era sempre così. Abbracciò tutti affettuosamente.
Vide anche Nina. Lei gli sorrise stando un po’ lontano, ma lo salutò con la mano e un sorriso timido. Fece qualche passo e andò a salutare la sorella di Bernd. Lei sorrise ma non lo guardò mai nei occhi mentre lui le parlava. Jakob lo sapeva e non ci fece troppo caso.
Poi, in un momento di pausa dagli abbracci, vide Louis avvicinarsi, da solo.
“Louis!” gridò all’amico. Lui gli sorrise e Jakob gli andò incontro. Non era uno da abbracci. Fece finta di dargli un pugno e lui schivò.
“Tutto bene, amico?” gli chiese e Jakob annuì. Poi il suo sguardo vagò dietro di lui e domandò: “Chi hai portato? La tua ragazza?”
Jakob si girò nella direzione del suo sguardo e vide Wolfrun aiutare Spyros a scaricare la navicella.
Cavolo, si era lasciato prendere dall’entusiasmo e si era scordato di quello che doveva fare! Fece un passo in quella direzione e anche Louis lo seguì.
“No, lei è…” iniziò a spiegare, ma fu interrotto subito.
“Wolfrun?” esclamò il francese sorpreso quando lei si girò verso di loro.
“Sì” gli disse. Jakob e sorrise guardandola.
“Sei riuscito a convincerla a venire?” gli chiese e il suo sorriso sparì.
 “Più o meno” ammise.

 

Christa aveva salutato Jakob e lui era andato verso Louis. La biondina si era girata verso la navicella e aveva visto Spyros e una ragazza che scaricavano il Pegaso. Doveva essere la fidanzata di Jakob. Si avvicinò per presentarsi quando la ragazza si girò aiutando una bambina a scendere dal Pegaso.
“Wolfrun!” esclamò senza rendersene conto.
Cosa ci faceva lì, Wolfrun? Era la fidanzata di Jakob? E la bambina… doveva essere Anneke per forza.

 

Wolfrun alzò un sopracciglio al tono sorpreso di Christa.
“Sì. Sono proprio io. Ciao, Christa” disse la mora, con una calma solo apparente. Cavolo, era bella. Forse di più dell’ultima volta: la principessa Christa.
Lei rimase un po’ stranita e poi disse: “Ciao, Wolfrun”.
Si avvicinarono anche altre due ragazze. Una doveva essere Nora, se la ricordava vagamente.
“Ciao Wolfrun, tutto bene?” le chiese e lei annuì in risposta. Poi Nora si chinò e disse ad Anneke: “Ciao Anneke, è stato bello il viaggio?”
Anneke si nascose dietro la sua gamba, improvvisamente timida, e annuì. Nora le sorrise e fece una carezza alla bambina. Poi si alzò e abbracciò Wolfrun.
Abbracciò lei. Wolfrun era sbalordita.
“Bentornate” disse. Sembrava sincera.
“Oh... Sì… Grazie…” balbettò in risposta la mora. Non se l’aspettava. “Come va qui?” chiese subito dopo, un po’ incerta.
“Bene. È tornato quasi tutto alla normalità. Lo vedrai nei prossimi giorni…” spiegò Nora e Wolfrun annuì. “Dove dormite stanotte?” le chiese ancora.
Wolfrun alzò le spalle. Non ne avevano parlato e in quel momento non ne aveva la più pallida idea.
“Non saprei. Dove dorme Jakob quando viene qui?” chiese. A Nora brillarono gli occhi, quando fece quella domanda, ma la ragazza non seppe dire perché.
“Lui dorme da Louis. Se vuoi, tu e Anneke potete dormire da noi. Io, Britta e le altre ci occupiamo dei piccoli. Anneke potrebbe dormire con i bambini. O con te… o...” Nora balbettò un pochino, ma lei apprezzò lo sforzo.
“Andrà benissimo” accettò Wolfrun annuendo.
La ragazza di fianco a Nora la guardò senza sorridere e le fece un cenno di saluto.
Doveva essere Britta. Si ricordava di lei. Anche lei era bionda. Era quella che le aveva puntato contro il fucile.
“Vuoi venire a conoscere Theo e gli altri?” chiese Nora ad Anneke. La bambina guardò Wolfrun e lei le fece un cenno con la testa. “Sì” rispose la piccola.
“Vieni con me” disse Nora, le prese la mano e la portò verso un gruppo di bambini, seguita da Britta.
Wolfrun le guardò. Christa le seguì subito dopo. La bambina sorrideva e stava bene. Ok, Anneke stava bene. E lei?

 

“Perché le hai detto di dormire da voi?” chiese Christa a Nora e lei si voltò a guardarla.
“Volevi ospitarla tu?” Christa scosse la testa. “E poi Anneke starà bene con gli altri bambini” disse ancora.
“Lei ha rapito Theo, ricordi? Te la ricordi la Festa della Morte, Nora? O quando ha bruciato il castello?” chiese la biondina un po’ nervosa. Nora la guardò, ma sapeva che Christa non capiva.
“Lei è andata a Lemnos. Con Anneke. Ha accettato di dare Anneke ai dottori. O Anneke o Theo, ricordi? Io sono in debito con Wolfrun. Non sarei mai riuscita ad andarci io. Non avrei mandato Theo, non avrebbero trovato l’antidoto e non saremmo tutti salvi” sostenne Nora.

Io non sarei salva. Non lo disse per non sembrare egocentrica. Ma era così. Nora sapeva che non sarebbe riuscita ad andare in Grecia e lasciare Theo con i dottori. Lei era già malata quando loro erano partiti. Era viva per miracolo. Sarebbe stata la vittima successiva. Lo sapeva bene. Ed era estremamente grata a Wolfrun per aver scelto di andare lei. Lei con Anneke.
Si era sempre chiesta come stesse la bambina. L’aveva chiesto a Jakob e lui l’aveva rassicurata, ma ora poteva vederla. Stava bene. Benissimo. Anche Wolfrun stava bene. Sembrava… diversa.
Cavolo, sembrava anche simpatica. E a posto. E bella. La guardò e scoprì che non era l’unica a farlo. Molti ragazzi le lanciarono occhiate di curiosità e forse… apprezzamento?

 

Christa non riusciva a capire del tutto Nora, ma sapeva che non era una stupida, quindi si fidò. Quando Timo la raggiunse con Abel in braccio, lei lo baciò sulla guancia. Piccolino. Lui le tese le braccia e lei lo prese in spalla.

 

Wolfrun guardò la scena con occhi curiosi. Christa aveva un bambino? Non poteva essere suo. Li osservò per bene. Christa doveva avere la sua età e il bambino circa tre anni, forse quattro. Avrebbe dovuto essere già nato, quando loro erano partiti.
Possibile che… si voltò verso Jakob. Possibile? No. Escluso a priori. Christa non doveva essere quel tipo di ragazza. E poi il bambino neanche le assomigliava. Doveva essere figlio di Timo.
Quando Jakob si avvicinò al Pegaso si scusò: “Scusate, mi sono fatto prendere, vi aiuto subito”. Lei annuì e gli disse di non preoccuparsi.

 

Jakob notò che Wolfrun osservava qualcosa con la fronte aggrottata. Si voltò anche lui e vide Christa scherzare con Timo e Abel. Non sentì il male che si era aspettato di sentire al petto e questo lo fece stare bene. Riportò lo sguardo su Wolfrun, forse lei non si ricordava del bambino…

 

“Lui è il piccolo Abel, il figlio di Lisbeth e Micheal del Reichstag, ricordi?” le spiegò. Wolfrun annuì lentamente. Si ricordava qualcosa… “Timo lo ha portato via a Claudia quando è scappato dal Reichstag ed è venuto qui con Verme” continuò Jakob. Oh. No, questo non lo sapeva.
Vide il ragazzo appoggiare una mano sulla schiena della ragazza in una carezza intima. Oh. Timo. Timo e Christa. Christa con Timo, quindi? Sospirò. E lei che pensava… Ma cosa era successo? Perché poi Christa stava con Timo e non con Jakob?
Si voltò a guardare il ragazzo mentre portava una cassetta di legno. Jakob era meglio di Timo. Chiunque lo avrebbe notato. Lei lo notava. Doveva essere successo dopo la loro partenza. Annuì senza dire niente.

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Capitolo 7
*** La prima sera ***


La prima sera

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Anneke dormiva con i bambini. Wolfrun guardò lo stanzone dove erano allineati tutti i letti. Chissà come avevano fatto a procurarseli.
“Sembra un orfanotrofio, vero? Uno di quelli che una volta si vedevano nei film alla televisione” disse una voce alle sue spalle.
Si voltò verso Nora. Aveva uno sguardo dolce. Wolfrun se la ricordava determinata. Determinata a portare a casa Theo da Tegel. E se la ricordava malata. Quando erano partiti per la Grecia, lei non era messa benissimo.
“Sono orfani” rispose, alzando una spalla.
Non sapeva bene cosa dire e disse una stupidaggine. Quella ragazza era stata gentile con lei. L’aveva sentita discutere con Christa e, anche se non aveva capito bene cosa si fossero dette, sapeva che avevano discusso a causa dell’invito di Nora nei confronti di Wolfrun. Non avrebbe dovuto dire una cosa del genere.
La ragazza, però, annuì senza ribattere. “Vuoi qualcosa? Un tè o un caffè?” le chiese. Scosse la testa e mentre chiudeva la porta del dormitorio e insieme tornarono verso la cucina. “Sai, non ti ho mai ringraziato…” continuò.
Wolfrun sgranò gli occhi rigirandosi verso di lei. “PER COSA?”
La sua voce venne fuori roca e gracchiante per la sorpresa. Oddio, per cosa avrebbe mai dovuto ringraziarla? Per aver rapito Theo? Per averla quasi uccisa? Per aver dato fuoco al posto dove viveva? Scosse la testa. Non c’era niente di cui dovesse ringraziarla.
“Lasciamo tutto così com’è” disse infatti e fece un passo per entrare in cucina, dove non sarebbero state sole e Nora non avrebbe insisitito.
Quel posto era bello, pensò guardandosi intorno. Non riusciva a capire cosa fosse prima di diventare La casa dei bambini, ma erano riusciti ad attrezzarlo bene. Un gruppo di ragazze e un bel po’ di marmocchi, forse tutti quelli di Berlino. Avevano anche l’elettricità. Sembrava che tutti avessero l’elettricità, a dire il vero. Guardò dalla finestra il buio della notte.
“Casa di Louis non è lontanissima. Se vuoi ti accompagno” le propose ancora Nora. Wolfrun guardò Nora inclinando la testa.
“Perché dovrei andare a casa di Louis?”
“Forse… Perché c’è Jakob?” chiese la ragazza, un po’ confusa. Guardò verso le altre ragazze e poi si rigirò verso di lei.

 

“Non sei la fidanzata di Jakob?” chiese Britta mentre stava asciugando un piatto lavato da Sabine. Nora vide benissimo gli occhi della mora sgranarsi e allargarsi stupiti. Oh, qualcosa le diceva che si erano sbagliate.
“NO!” rispose Wolfrun velocemente e subito dopo guardò di nuovo fuori dalla finestra. Nora lanciò un’occhiata verso Britta e Sabine, vicino al lavello. Britta alzò le spalle, sistemando il piatto asciutto e prendendone un altro.
“Scusa, mi sa che abbiamo dato per scontato…” iniziò Nora.
“Perché pensate una cosa… del genere?” Wolfrun era confusa, giustamente.
“Jakob parla sempre di te” ammise Britta.
“Di me?” Wolfrun era molto sorpresa, come se la cosa fosse veramente strana e continuava a guardare tutte loro con meraviglia.
“Sì. Quando ti abbiamo visto… tu non sei mai venuta, prima… abbiamo pensato che voi…” tentò di spiegare Nora. Wolfrun si alzò in piedi dalla sedia dove si era seduta e mostrò il palmo della mano aperto verso di loro.
“Ok. Basta. Io e Jakob non stiamo insieme. Non sono mai venuta perché non mi interessava. Ma Anneke voleva venire e io non volevo lasciarla da sola. Non ci sono altri motivi, ok? Noi non stiamo insieme!”
Sembrava molto convinta di quello che diceva. E lo disse più volte. Come se avesse bisogno di una conferma.
“In questo caso, andate a fare un giro verso il Reichstag. A Nora piace molto quella zona” disse Britta ammiccando verso Wolfrun.

 

 

“Britta!” gridò Nora e divenne rossa sulle guance. Wolfrun pensò che fosse quasi divertente.
La ragazzina bionda le sorrideva innocentemente mentre le diceva: “Dici di no, Nora? Non è vero?”
Wolfrun notò l’imbarazzo di Nora.
“Chi c’è al Reichstag?” Non riuscì, allora, a non chiedere. Sabine e Britta ridacchiarono. Poi con uno strano luccichio negli occhi, Sabine rispose: “Ci sono gli americani: i militari”.
I militari? E cosa facevano lì, lì a Berlino? Si voltò verso Nora.
“Perché ci sono i militari?”
Lei tornò del suo colore, ma non del tutto. “Sono venuti quando è stato distribuito il vaccino” spiegò.
“E non se ne sono più andati?” chiese Wolfrun, sorpresa. Tutte e tre le ragazze scossero la testa. Non sembrava una gran cosa.
“Sono venuti anche da noi, subito dopo il vaccino. Hanno portato aiuto, medicine e… altre cose”, disse un po’ incerta. Non avrebbe mai detto ‘preservativi’ davanti a loro. Annuirono e lei continuò: “Ma poi se ne sono andati, quando non serviva più il loro aiuto. Ogni tanto tornano. Ogni tanto, però. Non sono fissi. E portano più che altro birra e altre cose… diverse” spiegò ancora.
Da quando era ripreso il commercio con gli altri stati, non c’era più bisogno di niente, ma sull’isola la birra era gradita, soprattutto dai ragazzi giovani. E sì, anche i preservativi.
Era girata parecchia birra anche alla festa del falò, si ricordò in quel momento. “Birra?” esclamò Sabine “La birra l’hanno portata anche qui. Ma più che altro…”Ridacchiò guardando Britta al suo fianco.
Wolfrun non capiva molto bene e non capiva perché avrebbero dovuto andare da loro quella sera.
“E quindi, perché dovremmo andare al Reichstag?” chiese infatti.
Britta si spazientì mentre diceva: “Oh, dai! I militari! Giovani militari!” Oh.
 

Britta vide Wolfrun sgranare gli occhi. Forse aveva capito. Sarà stata un formidabile Attila l’Unno Invincibile quando si trattava di organizzare guerre, ma Wolfrun su alcune cose non capiva proprio niente.
“Oh. Intendete ragazzi…” Brava, Wolfrun!

 

Nora si sedette vicino a lei. Non voleva che capisse male.
“Non so com’è sulla tua isola. Ma qui… “ si interruppe e pensò a cosa dire. “Penso di essere io la più grande dei ragazzi. Gli altri adulti… Sono adulti. E sono in gruppo fra di loro, sono tutti nella vecchia Berlino est. Io…”
Chissà se sarebbe riuscita a spiegare bene quello che intendeva senza essere fraintesa.

 

Wolfrun iniziava a capire. Sull’isola c’erano ragazzi di tutte le età. Da Clara ai dottori specializzati. Lukas doveva avere una trentina d’anni. E Georgos, Zeno, Achille… Più tutti gli adulti, e anche gli anziani.
Invece a Berlino non era rimasto nessuno. Nessuno più vecchio di Nora. Doveva sentirsi molto sola. Sola a occuparsi dei più piccoli. Annuì.
“Ok, andiamo al Reichstag” disse e si alzò.
“Come?” chiese Nora, sorpresa, mentre Britta lanciava a Sabine un’occhiata divertita di nascosto.
“Su, andiamo, sbrigati” le disse andando verso la porta.

 

***

 

Mentre camminavano per le strade deserte, per fortuna le ragazze non abitavano a Gropius o ci avrebbero messo una vita ad arrivare, Wolfrun si guardava intorno: Berlino era cambiata. Somigliava un po’ di più alla Berlino prima del virus, ma lo stesso era diversa. C’erano delle luci alle finestre, luci sui lampioni, qualche neon in giro per le strade.
“E la metropolitana?” chiese. Nora sorrise.
“Ci stanno lavorando. Sono venuti i sovietici, per la metro. A breve sarà a posto” spiegò.
“E i sovietici sono giovani o vecchi?” Lei storse la bocca.
“Sono vecchi.”
“Scommetto che quelli giovani sono brutti” disse a Nora e lei rise.
“Forse.”
Quando arrivarono al Reichstag la prima cosa che colpì Wolfrun fu l’accampamento. Una ventina di tende tutte allineate in fila, nel grande prato davanti alla costruzione. Più altre tende più grandi intorno. Da loro non avevano fatto un accampamento così grande. Ma sull’isola non mancava niente. Probabilmente quando erano arrivati a Berlino, avevano dovuto allestire cose pratiche come un centro di primo soccorso e una cucina.
“Vieni” le disse Nora e la guidò verso il centro dell’accampamento. La tenda dove entrarono era più grande delle altre e dentro sembrava un ufficio adibito a dormitorio. C’era una scrivania e un divano e poi carte e scartoffie ovunque. Torce, zaini, una divisa ben piegata su una brandina da campo e un fornelletto. Non si capiva niente.
“Buonasera” disse Nora, in inglese. Tre soldati con la divisa militare si voltarono verso di loro. Wolfrun vide chiaramente il militare sulla destra sorridere con piacere a Nora.
Ecco perché erano lì!

 

Nora presentò i tre militari a Wolfrun e controllò per bene lo sguardo di William quando le strinse la mano. Soddisfatta, si sedettero e spiegò anche a Taylor e Young chi fosse Wolfrun. Loro l’avevano già sentita nominare. Beh, tutti, l’avevano sentita nominare, per un motivo o l’altro.

 

“Sei la pazza che ha organizzato la battaglia di Natale?” chiese il militare seduto a destra. Si chiamava Taylor era molto carino ma Wolfrun non lo notò. In compenso vide Nora agitarsi alla domanda del militare. Perché, poi? Mica era lei quella sotto il microscopio.
Lo guardò. Aspettava una risposta. Era pazza? Sì, era proprio fuori di testa, in quel periodo. Si ricordava l’adrenalina e l’eccitazione di fare cose pericolose.
“Effettivamente ero pazza. E ho organizzato parecchie battaglie” disse, senza rispondere veramente. Fece un cenno con la testa e Nora la guardò, quasi con comprensione.
“Ci vuole una birra” disse il Tenente, che si alzò e aprì il minifrigorifero, tirando fuori lattine per tutti. Com’è che gli americani avevano sempre la birra? Poi, quando la tirò fuori dal frigo e la passò di mano, Wolfrun guardò la lattina. Non era quella che avevano portato sull’isola. Questa se la ricordava vagamente.
“È birra tedesca?” chiese. Nora si girò verso di lei, alzando un sopracciglio. No? Taylor annuì sorridendo.
“Sì è vostra. Vuoi?” le chiese, porgendogliela. Scosse la testa. Non aveva mai bevuto la birra. Era solo curiosa, se i birrifici avevano già ricominciato a produrre, voleva dire che tutto stava riprendendo il suo corso. Era una gran bella cosa.
Il militare spostò la sedia e le si sedette davanti.
“Raccontami” disse. Cosa voleva?
“Cosa dovrei raccontarti?” chiese.
“Come hai fatto?” Lei sbarrò gli occhi e guardò Nora. Ma lei era girata verso il Maggiore Clarke. Dannazione, non voleva raccontarlo.
“Che strategia hai usato?” chiese ancora lui, stappando la lattina e guardandola ancora. Strategia? Wolfrun si sentì messa all’angolo. Non voleva più pensare alla battaglia di Natale.
“Quella sbagliata” sussurrò e guardò le birre: forse avrebbe dovuto berne una.
Il militare che rispondeva al nome di Young richiamò il collega: “Smettila Taylor. La stai intimorendo”, così si alzò e lo costrinse a sedersi più in indietro. Lui sbuffò e Young la guardò.
“Che vuol dire quella sbagliata?” le chiese, con un tono più tranquillo.
“Non ho conquistato Berlino” disse e sorrise, prima di sussurrare: “Per fortuna loro”. Sorrise anche Nora.

 

***

 

“Quindi?” gli chiese il francese. Jakob diede un calcio a un sasso.
“Quindi cosa?” domandò lui facendo finta di non capire.
“Wolfrun è venuta a Berlino” disse Louis e si voltò verso di lui.
“Già” ammise e sospirò.
“Non è una cosa buona?” Alzò le spalle. Wolfrun non voleva venire a Berlino. C’era venuta perché lui l’aveva ingannata.
“Non lo so” disse, ma non aveva nessuna intenzione di parlare di lei. “Come sono i nuovi militari?”
Louis lo guardò con la coda dell’occhio e la sua bocca disegnò uno strano sorriso. Aveva capito che aveva cambiato argomento apposta.
“Il Maggiore Clarke lo conosci già. L’ultima volta che sei venuto era appena arrivato” disse. Jakob si fermò.
“Cinque mesi fa?” chiese, stupito. Louis annuì. “È rimasto tanto. Di solito vanno via prima…” Si ricordava gli ultimi militari che erano passati di lì. Stavano due o tre mesi e basta. Poi tornavano a casa. Il ragazzo alzò le spalle.
“Gli piacerà stare qui” disse. Ma dalla sua espressione, Jakob capì che non gli stava raccontando tutto.

 

***

 

Jakob e Louis entrarono nella tenda del Maggiore Clarke. Quando vide Wolfrun e la sua espressione, si preoccupò. Cosa stava succedendo?
“Jakob, giusto?” disse il Maggiore che, seduto vicino a Nora, si alzò e gli andò incontro porgendogli la mano. Jakon gliela strinse annuendo. E lui gli appoggiò una mano sulla spalla in un gesto amichevole.
“Maggiore Clarke, come va?” chiese, guardandosi intorno. Erano fermi in pianta stabile, a quanto pare.
Gli altri due non se li ricordava. Il maggiore glieli presentò e infatti scoprì che era la prima volta che li vedeva. Strinse la mano anche a loro, che tornarono a sedersi vicino alle ragazze.
“Volete una birra, ragazzi?” chiese loro uno dei due militari. Jakob accettò, e anche Louis. Vide Wolfrun alzare un sopracciglio e le sorrise. Quando gli porsero una sedia pieghevole si sedette vicino a lei e Louis si fece spazio fra lui e Nora.
Nora stava chiacchierando con il Maggiore, quando era entrato. La guardò e Nora divenne rossa sulle guance e volse lo sguardo per terra.
“La tua birra” disse Wolfrun e gli diede un colpo con la lattina proprio sullo stomaco. Si voltò e lei lo guardò male.
“Smettila” sibilò lei. Di fare cosa? “Non guardarla male!”
 Ma chi? Nora? Non l’aveva guardata male. Prese la birra, l’aprì e prima di berne il primo sorso gliela offrì ma Wolfrun scosse la testa.

 

Chiacchierarono tutti insieme per un po’, poi il Tenente Young nominò David Bowie. Wolfrun si fece più attenta. David Bowie cantava canzoni che le ricordavano l’infanzia perché era il cantante preferito di sua sorella. Era cresciuta ascoltando le sue canzoni quasi ininterrottamente. Ascoltava sua sorella cantare e, se si impegnava, poteva ricordarsi perfettamente le parole delle canzoni più famose. Dorothea aveva anche una foto poster incollata in un diario, che si ripiegava quando chiudevi le pagine, e su cui sua sorella lasciava baci umidi quando era adolescente. David Bowie non era stato ucciso dal virus, quindi. Buon per lui. Sorrise e si stupì quando il Tenente spiegò il suo ultimo lavoro.
“Un film? Pensavo cantasse e basta” chiese, curiosa.
“Conosci Bowie?” si stupì Taylor. Lei annuì sorridendo.
“Era il cantante preferito di mia sorella. Sono cresciuta con le sue canzoni” spiegò con forse troppa foga. Lui annuì e non disse niente. Probabilmente pensava che sua sorella fosse stata uccisa dal virus. Scelse di non informarlo diversamente.
Poi lui ammiccò nella sua direzione e disse: “Ha divorziato l’anno scorso, se ti interessa…” E si portò la lattina alle labbra.
Wolfrun sentì le guance andare a fuoco e si guardò intorno. Jakob rise del suo imbarazzo. Cretino. Sbuffò. Lui ebbe pietà e le diede un buffetto sulla guancia. Come si fa ai bambini piccoli. Come faceva con Anneke quando doveva accontentarla. Come faceva Zia Gertrude, la sorella di sua madre. Sbuffò ancora.
Lui la guardò con quel sorriso che neanche sapeva di fare e le passò la birra.
“Dai, su, bevi” le disse e lei la prese per non dargli soddisfazione e ne bevve un po’. Non era male. Decise di tenersi la lattina e si girò verso i militari dandogli le spalle.

 

Nora si alzò. “Andiamo?” chiese a Wolfrun. Lei annuì e la imitò, alzandosi. Finì quel poco di birra che era rimasta e il Tenente Taylor gliela prese e la buttò.
“Vi accompagniamo, ragazze?” chiese loro, Young.
Nora guardò William. Ma lui aveva una faccia strana.
“Non possiamo lasciare l’accampamento, lo sapete” disse agli altri.
Oh, giusto. Sì. Niente. Era lo stesso. Però a Nora dispiacque. Un po’. Un po’ tanto.

 

Wolfrun vide lo sguardo di Nora e si guardò intorno. Louis disse: “Accompagniamo noi le ragazze”. Si alzò anche lui. Jakob lo seguì nei movimenti e annuì.
“Buonanotte” disse Wolfrun verso i due tenenti, poi si girò verso il militare vicino a Nora. “Maggiore, magari puoi accompagnarci fino alla fine del perimetro…”
Lui annuì e con un ‘aspettate qui’ liquidò gli altri due militari. Vide gli occhi di Nora brillare alla poca luce della lanterna, come avevano brillato gli occhi di Dorothea quando le aveva parlato del ragazzo che era andato in India. Salutò e si diresse verso l’uscita della tenda. Fuori il buio era calmante. Louis uscì subito dietro di lei. E Jakob subito dopo Louis.
Li prese a braccetto e allungò il passo verso l’uscita dell’accampamento.

 

Jakob venne trascinato da Wolfrun fino alla fine delle tende, poi si ricordò di Nora e si fermò. Stava per girarsi per chiamarla, quando Wolfrun lo strattonò, continuando a parlare con Louis. Ma cosa avevano da dirsi, poi, quei due? Louis non era il tipo che parlava molto.
A un certo punto la ragazza si fermò e lo lasciò, continuando a parlare con il francese. Jakob non ci capiva più molto. Cercò si seguire la loro conversazione, per poter intervenire, ma non riuscì a dire niente di intelligente. Dopo poco Nora li raggiunse a passo affrettato. Ma… si era perso qualcosa?

 

Wolfrun si fermò appena passata l’entrata dell’accampamento. Sperò che i ragazzi non le chiedessero spiegazioni e infatti Louis continuò a parlare con lei come se niente fosse. O quel ragazzo era veramente in gamba oppure non aveva capito niente, ma lei dubitava della cosa e propense per la prima opzione.
“Eccomi” disse Nora quando li raggiunse. Wolfrun annuì. Jakob sembrava confuso. Dovette fare uno sforzo terribile per non accarezzargli una guancia per consolarlo.

 

“Buonanotte, ragazzi” disse Nora.
“Vi accompagniamo” propose il francese e Nora sorrise. Lo sapeva.
Louis era fermo nelle sue intenzioni.
“Non vi fermerete da noi a dormire” lo stuzzicò. “Non si può”. Lo guardò negli occhi, per quel poco che si vedeva dai lampioni. Lui annuì.
“Che vuol dire che non si può?” chiese Wolfrun mentre riprendevano il cammino.
“È la casa dei bambini. Nessun ragazzo si ferma a dormire da noi. È una regola” le spiegò Nora.

 

Ma che cosa assurda! Pensò Wolfrun. E perché mai? Poi le venne un dubbio e chiese: “È per questo che Christa non vive con voi?” Nora annuì.
“Christa vive con Timo, Abel e Verme. Ma viene da noi quasi tutti i giorni. Ci aiutiamo tutti…” spiegò.
“Ma i ragazzi non possono dormire a casa vostra…” disse ancora Wolfrun. Sembrava una cosa così strana.
“Esatto” disse Nora e guardò ancora Louis. Lui si spazientì.
“Guarda che lo so!”
La ragazza sorrise. “Bene” disse subito dopo.
Cosa stava succedendo? Perché mai Louis voleva accompagnare Nora a tutti i costi a casa? Forse non voleva accompagnare Nora. Forse voleva andare a casa di Nora, ma per vedere qualcun altro. Ohhhhhh…. Mentre i ragazzi battibeccavano come fratelli davanti a loro, Wolfrun e Jakob camminarono dietro, vicini.

 

Jakob si voltò verso Wolfrun quando la sentì sbadigliare.
“Sei stanca?” le chiese e lei annuì.
“Mi è sembrata una giornata di quaranta ore” ammise, ma sorrise.
“Sì, è stata lunga” disse.
Lo era stata davvero. Lunga e impegnativa: il problema sul Pegaso, l’arrivo a Berlino, la reazione degli altri. Erano tutte cose che emotivamente stancavano. Si avvicinò e le mise un braccio sulle spalle. Nessuno lo avrebbe visto se lei si fosse scansata freddamente. Ma lei non lo fece. E Jakob sorrise nella notte.
Quando arrivarono davanti alla casa dei bambini, gli altri due erano già spariti. Si avvicinarono alla porta e lei si fermò nell’entrata.
“Io vado a letto, scusami” gli disse. Lui annuì e lei rimase un attimo ferma, incerta su cosa fare. Spostò il peso da un piede all’altro e poi si avvicinò. “Allora… buonanotte” concluse e si allungò per dargli un bacio sulla guancia e mentre lo fece, lui le portò una mano sulla schiena.

 

Quando l’abbracciò, Wolfrun si accoccolò contro il suo braccio e il suo bacio divenne intimo, senza che lei se ne accorgesse. Aveva portato una mano sul suo petto e sentì le guance in fiamme. Per fortuna c’era buio.
Lui le sussurrò: “Buonanotte”, con una voce così intensa che si sentì rabbrividire. Quando sparì nel corridoio si scontrò con Louis.

 

Jakob vide Louis tornare verso la porta con una faccia strana. Lui stava ancora guardando verso il corridoio dove era sparita Wolfrun e dovette tornare con i piedi per terra quando lui disse: “Andiamo, Jakob”, con tono sostenuto. Ma che diavolo… “Ok. Ma non ho salutato Nora…” disse, ma il francese lo interruppe subito.
“Io vado. Fai come vuoi.”
Jakob si guardò intorno. Non c’era più nessuno. Neanche Nora. Raggiunse Louis, fuori nel cortile e gli chiese: “Che è successo?”
“Niente” grugnì Louis.
“Hai litigato con Nora?” chiese ancora.
“No.”
Oddio, si era perso qualcosa mentre era con Wolfrun? Capitava fin troppo spesso di non accorgersi di nient’altro quando l’aveva vicino….
Sospirò e camminò senza chiedere più niente.

 

***

 

Wolfrun si era svegliata confusa. Non aveva riconosciuto subito il posto dove si trovava, ma le ci volle poco. Erano tre giorni che dormiva fuori dal suo letto ed era vigile. Era una sensazione che aveva perso, ma che non l’aveva mai abbandonata davvero.
Si alzò e si preparò. Certo che il bagno con la corrente era qualcosa di favoloso. Loro non avevano corrente in casa. Solo un piccolo generatore per l’inverno e che cercavano di usare il meno possibile.
In cucina Nora preparava la colazione. Avevano una cucina enorme. Effettivamente, dar da mangiare a così tante persone era impegnativo.
“Mmm… ti aiuto?” chiese alle sue spalle. Nora si voltò verso di lei, sorridendo.
“Buongiorno. Sì, lì ci sono piatti e posate. Cosa mangia Anneke a colazione? Noi abbiamo latte, biscotti, pane, confettura brusca e poi uova, burro e formaggio” disse Nora, di buon umore. Wolfrun spalancò gli occhi.
“Sono sicura che troverà qualcosa che le piaccia” rispose. Alzò le spalle, portò piatti e posate in tavola e iniziò a tagliare il pane appena sfornato. Ma… i bambini? Guardò verso il corridoio dove c’era lo stanzone dei bambini e sentì qualche rumore. Non era proprio in pensiero, però…

 

Nora seguì lo sguardo della ragazza e disse: “Sabine, Britta, Petra e Angela si occupano dei bambini. Anneke arriva presto, non preoccuparti”. Wolfrun annuì senza dire niente.
Nora la osservò un po’. Era cambiata, diversa. Ma era anche sempre la stessa. Aveva uno sguardo freddo e distaccato, che cambiava totalmente quando era vicino ad Anneke, o quando guardava Jakob. L’aveva notato la sera prima. Lei non aveva detto tutta la verità? Fra loro c’era qualcosa, secondo Nora.

 

I bambini arrivarono in un chiacchiericcio rumoroso e ingombrante. Si sedettero lungo tutta la tavolata in modo ordinato, notò Wolfrun con stupore, e Anneke le venne vicino sorridendo.
“Ciao, Wolfrun” la salutò e le tirò il tessuto della felpa, per richiamare la sua attenzione.
“Buongiorno. Dormito bene?” le chiese e la bambina annuì sorridendo.
“Ci sediamo vicine?” le domandò la piccola.
Nora si avvicinò e indicò due posti adiacenti. “Mettetevi lì” disse loro. Anche Britta e le altre si sedettero al tavolo.
“Ieri Sabine ha raccontato una storia, prima di dormire” le confidò Anneke.
Ah, giusto, sì. Delle brave mammine. Lo faceva anche Eleni a Lemnos.
“E che storia ha raccontato?” chiese Wolfrun senza interesse. “C’erano delle principesse?”
Anneke si era fissata con le principesse. Eleni sapeva un sacco di storie sulle principesse e le raccontava a loro prima di dormire. Ad Anneke piacevano tantissimo. Anche Wolfrun le ascoltava, con studiata indifferenza. Diceva che le serviva per imparare il greco. Invece le piaceva ascoltare la voce di Eleni che raccontava di Cenerentola e le altre. Sua madre non le aveva mai raccontato le favole. Aveva letto qualcosa quando era stata in grado di farlo da sola, ma poi era diventata troppo grande per quel genere di favola e non si era mai interessata tanto.
E poi sì, aveva aiutato tantissimo con il greco.
Anneke annuì e disse con fare cospiratorio: “Sai cosa dice Sabine? Dice che ogni ragazza è una principessa…”
I suoi occhioni erano luminosissimi. Piccola Anneke. Presto scoprirai che non è proprio così. Ma sorrise e le chiese: “E le streghe allora? Sono principesse anche loro?”
“Streghe come te?” Wolfrun si voltò di scatto verso Britta, che aveva solo sussurrato. Ma la piccoletta la guardava con uno sguardo di sfida in viso, per poi sorridere.
“Britta…” Nora sospirò come se sgridasse un bambino piccolo. Wolfrun ce la vedeva benissimo. Chissà quante volte lo aveva fatto.

 

“No”. Wolfrun e si voltò verso Nora, per contraddirla. “Immagino che abbia ragione” disse ancora, sorprendendo tutti. Britta la guardò stupita. Ma come? “Chissà quante volte avete raccontato storie sulla strega che rapiva bambini di notte, no?” chiese ancora verso la bionda. Il suo sguardo era freddo. Ma non cattivo.
Britta bevve un po’ d’acqua e poi disse: “No. Nelle nostre storie rapivi solo i bambini cattivi. Abbiamo un po’ addolcito la realtà, sai com’è…”
Wolfrun rise. Davvero. Britta e Sabine si scambiarono uno sguardo stranito e quando la bionda incrociò lo sguardo di Nora, abbassò gli occhi, colpevole.
“Allora… ci sono bambini cattivi, qui?” chiese la mora volgendo lo sguardo verso la tavolata. I bambini sgranarono gli occhi e la guardarono allibiti scuotendo la testa.

 

Nora vide Anneke guardare Wolfrun con gli occhi spalancati. L’avevano confusa. Avrebbe ripreso Britta appena fossero state sole. O appena avrebbe avuto di nuovo il coraggio di guardarla.
“Non sei cattiva…” balbettò la bambina.
“Certo che no” confermò Nora, andandole vicino e mettendo una mano sulla spalla della bambina. Guardò le altre e cercò di lanciare a Britta lo sguardo che lanciava a Theo quando faceva i dispetti ad Abel.
“Le streghe sono le principesse che non sono state salvate” spiegò ad Anneke. Lei annuì poco convinta.
“No. Le streghe sono quelle che si sono salvate da sole” dichiarò Wolfrun, poi si pulì la bocca con il tovagliolo e si alzò portando via il piatto, il bicchiere e le posate.
“Mi piace” sussurrò Britta sorridendo e si alzò anche lei.
Nora la guardò confusa. Cosa le piaceva? Wolfrun o quello che aveva appena detto?

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Capitolo 8
*** Il segreto di Christa ***


Il segreto di Christa

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Jakob seguiva Louis velocemente.
Stavano andando verso il ritrovo vicino ai campi, dove si incontravano tutti. Si lavorava nei campi, si aggiustavano le cose, i ragazzini venivano tenuti d’occhio e ognuno aiutava in quello che poteva. Il francese era nervoso dalla sera prima. Jakob non aveva capito cos’era successo. Ma sapeva che era successo qualcosa. Con Nora? Sospirò.
Quando arrivarono al ritrovo molti ragazzini più piccoli erano seduti all’ombra di un grande albero, mentre Nora, Christa e Timo controllavano i campi.
Nina era seduta da sola sotto un altro albero a leggere un libro. Quando si avvicinò a lei, vide che il titolo del libro era ‘Peter Pan’. Sorrise.
Lei alzò lo sguardo e gli sorrise senza dire niente: Nina non parlava quasi mai.

 

A Nina piaceva Jakob. Tanto. Lui era buono. Ed era bello. Non bello quanto Bernd. Ma buono quanto lui, sì. Gli sorrise e tornò a leggere Peter Pan.
Le piaceva anche Peter. Era un bambino coraggioso e sapeva volare. Anche a lei sarebbe piaciuto saper volare. Ed essere coraggiosa. Ma non lo era.
Nina si immaginava Peter tutto blu. Un bel blu turchese. Il colore più bello di tutti. Jakob si avvicinò a lei e si accucciò vicino all’albero. Anche Jakob era blu. Un blu chiaro, luminoso e quasi trasparente. Brillante e lucidissimo.
“Stai bene, Nina?” le chiese. Lei tirò su la testa e annuì. “Sono contento. Sono felice quando stai bene” disse e sorrise ancora.
“Tu stai bene?” sussurrò Nina a Jakob. Lui si stupì e la guardò stranito. Effettivamente non rivolgeva mai la parola a nessuno, lei. Ma Jakob era speciale. Di lui si fidava. E quella domanda la facevano tutti. Era una domanda che andava bene. Gli sorrise, aspettando la risposta.
Lui annuì e disse: “Ma sì, dai”. Nina inclinò la testa per guardarlo, curiosa: o si stava bene o no.

 

Jakob si sentì a disagio. Era difficile interagire con Nina ma, di solito, bastava andare sul sicuro, fare domande brevi e che esigevano risposte brevi.
Lei lo aveva stupito. Ma sorrise. Gli venne fuori quella frase un po’ così e lei si era confusa. Ok, poteva riprovarci.
“Sì, scusa: sto bene” rispose e il suo sguardo volò, senza sua intenzione verso Wolfrun, qualche albero più in là. Era seduta per terra con dei bambini. Bambini? Bambini con Wolfrun?

 

Nina guardò nella stessa direzione di Jakob e vide Wolfrun. Si ricordava di Wolfrun. L’aveva vista tempo prima. Prima che lei partisse con il dirigibile e Jakob. Era una ragazza strana. Ma anche lei era blu. Blu scuro scuro. Era quasi nero, ma Nina vedeva benissimo il blu. Come il cielo nelle notti di agosto. Perché Jakob la guardava? Tornò a guardare lui, che guardava ancora la ragazza. I suoi occhi erano blu. Nina sapeva perfettamente che Jakob non avesse gli occhi blu. Ma diventavano blu quando guardava Wolfrun. Era una bella cosa.
Tornò a leggere. Peter ora avrebbe volato sulla barca dei pirati.

 

Nina era tornata a leggere e non lo stava più calcolando. Sorrise: andava bene così. Se Nina era tranquilla, lo era anche lui.

 

***

 

Wolfrun tirava la collana di conchiglie che aveva al collo. Le dava fastidio sull’osso della clavicola. Continuava a pungerla, nonostante la facesse girare.
Dopo la chiacchierata al tavolo della colazione, Anneke le aveva chiesto di indossarla. A lei non piaceva molto, quella collana. Ma Anneke l’aveva fatta per lei e lei non aveva il coraggio di dirglielo. Due o tre dei bambini più piccoli, sette, otto o forse nove anni, la guardavano: la sua collana piaceva molto.
Poi una bambina, forse Ulrike, le chiese se potesse vederla. Lei la sfilò e gliela diede.
“Cosa sono questi?” chiese indicando le conchiglie.
“Sono conchiglie” rispose Wolfrun, un po’ stupita. La bambina la guardò corrugando la fronte. “Si trovano sulla spiaggia, di solito. Prima contenevano le vongole, poi quando le vongole muoiono, le conchiglie si staccano e vengono portate dalle onde fino alla spiaggia”.
La bambina la guardava curiosa, ma senza capire appieno. Le conchiglie… forse loro non sapevano cosa fossero. Guardò Anneke e le sussurrò: “Possiamo dare le conchiglie a questi bambini? A Lemnos poi ne facciamo ancora…”, e lei annuì. Ok.
Prese la collana dalle mani della bambina e anche il braccialetto di conchiglie, tirò fuori il coltello e spezzò lo spago che teneva insieme i gusci e li fece cadere davanti a sé. I bambini si avvicinarono e fecero cerchio intorno a lei. Arrivò anche il piccolo Abel che si sedette fra lei e Anneke e guardò le conchiglie.
“Potrei cercare dello spago e potremmo farne braccialetti” disse una voce. Alzò lo sguardo: Sabine. Era quella che stava sempre con i bambini. Wolfrun annuì, sembrava una cosa carina. La ragazza andò via e tornò dopo pochissimo con un grosso rotolo di spago.
Ai tempi del virus avrebbero ucciso per dello spago, ora… avrebbero fatto braccialetti. Che strana la vita. Spezzò lo spago in più parti con il coltello e Sabine diede un pezzo di spago a ogni bambino e spiegò come infilare una conchiglia per ogni braccialetto.

 

Christa si avvicinò alle spalle di Wolfrun per controllare quello che stava succedendo. Wolfrun usava il coltello con una maestria che solo l’abitudine ti dava, sapeva che era una cosa che le veniva bene, Jakob lo diceva in continuazione.
Poi appoggiò il coltello per terra al suo fianco, vicino ad Abel. Il cuore di Christa iniziò a battere un po’ disordinatamente. Abel era un bambino molto vivace, andava accanto a tutto. Soprattutto a quello che non andava toccato.
Vide il bambino girarsi e notare il coltello. Abel allungò una mano prima che Christa potesse anche solo avvicinarsi, ma una voce rigida gli bloccò la mano a mezz’aria: “Non toccarlo”.
Wolfrun aveva usato un tono duro, ma non si era voltata verso Abel. Come aveva fatto a vederlo? Christa sospirò di sollievo. Ma poi vide Abel controllare Wolfrun e allungare la mano verso il coltello in un momento che era girata verso Sabine. Sapeva che Abel l’aveva fatto apposta. Aveva aspettato il momento giusto. Era molto intelligente. Non riuscì a muoversi mentre lo osservava chinarsi a prenderlo, non riuscì a farlo abbastanza velocemente. Aveva perso un po’ di riflessi, probabilmente.
Poi, tutto accadde in pochissimo. Prima che Abel potesse toccare il coltello, Wolfrun tornò alla posizione di prima e se ne accorse, gli diede uno schiaffo sulla mano (Christa riuscì a sentire il rumore da dov’era!) e lo guardò dicendo: “Ho detto di non toccarlo”. Il bambino sollevò uno sguardo colpevole. I suoi occhi si inumidirono e stette quasi per piangere. Piccolo Abel! Povero piccolo! Fece un passo avanti.

 

“Con quello ci si fa male. Vuoi farti male?” chiese Wolfrun al bambino. Lui la guardava con gli occhi sgranati. Non si era aspettato che lei reagisse così, forse. Poi scosse la testa.
“Bravo bambino” disse, gli sorrise e lui sorrise di rimando. Ma… perché lui aveva sorriso? Lo stava sgridando. Bo. I bambini erano strani.

 

Christa era stata fermata da una mano sul braccio. Si girò e incontrò lo sguardo di Timo. Tornò a guardare il gruppetto e notò che Wolfrun aveva detto qualcosa al bambino e lui aveva sorriso, prendendo lo spago e le conchiglie. Oh. Non aveva pianto. Non aveva fatto capricci. Non era successo… Niente.
Sentì le lacrime pungerle gli occhi. Timo la guardò un po’ incuriosito.
“Tutto ok?” le chiese e lei annuì.
No. Non andava tutto bene. Ma non glielo avrebbe detto. Non lì.

 

 

***

 

Quando i bambini ebbero finito di creare braccialetti, Wolfrun pensò di sgranchirsi le gambe. Si alzò e girovagò intorno al gruppetto, osservando gli altri.
Jakob si stava dando da fare. Aiutava in tutte le maniere possibili. Sospirò. Ma chi glielo faceva fare? Lui la vide in un momento che lo stava osservando e le sorrise. Oh, dannazione. Beccata. Il ragazzo dovette capirlo perché rise. Si girò e guardò da un'altra parte.
Nora e Britta confabulavano vicine. Con loro c’erano anche altre ragazze. Vide anche Christa avvicinarsi. La osservò. Era cambiata in quei tre anni. Già. La principessa Christa, che era benvoluta da tutti e che tutti volevano salvare, era cresciuta. E sembrava che fosse a capo del gruppo di Gropius. Lei e Timo. Beh, Gropius… diciamo praticamente tutta Berlino. Aveva visto anche dei ragazzi che aveva riconosciuto come ragazzi di Tegel fra di loro. E non sembrava ci fossero altri gruppi.
“Sei ancora pazza?”
Wolfrun si girò di scatto, quando una voce maschile la sorprese. Un ragazzo più alto di lei, moro con gli occhi scuri la stava guardando con uno sguardo che non le piaceva. Era un bel ragazzo: aveva le spalle muscolose e sembrava in gran forma. Ma i suoi occhi… I suoi occhi non le piacevano per niente.
“E tu chi sei?” gli chiese.
Lui rise, ma notò che sembrava un po’ scocciato. Forse del fatto che non sapesse chi fosse. Lui la conosceva, ma lei no. E non le piaceva sentirsi in difetto.
“Sono Roberto, ero del Reichstag” disse e subito dopo sorrise.
Ah. Doveva essere il compagno di Lisbeth. No, lui era morto. Lisbeth era più grande di lei e anche il suo compagno. E poi… non si chiamava Micheal? Sì, Micheal. Dovette aggrottare la fronte, perché lui tornò a fare quell’espressione seccata.
“Sei un amico di Timo?” chiese. Lui si infastidì ancora di più e scosse la testa nervosamente.
Merda, chi cazzo era?

 

“Lui era un amico di Claudia” rispose per lui Christa che si era avvicinata quando li aveva visti parlare. I due ragazzi si girarono verso di lei.
“Claudia?” Wolfrun dovette ricordarsi di Claudia, a giudicare dalla sua faccia. Poi si voltò di nuovo verso Roberto e gli chiese in tono duro: “Claudia che ha mandato Tegel a morire?” Lui ghignò.
“E che ha ucciso Caspar. Non dimentichiamocelo. Ti ricordi di Caspar, Wolfrun? Il tuo amichetto?” disse lui in risposta, in tono beffardo.
Christa vide chiaramente il viso della ragazza infuriarsi e notò quando si trattenne dal saltargli al collo. Cavolo, che autocontrollo aveva quella ragazza? Avrebbe voluto picchiarlo lei. Se solo non si fosse sentita così stanca…
Poi Wolfrun si girò verso di lei e la guardò con la testa inclinata. La stava studiando? Si sentì in trappola, mentre lo sguardo della mora la trapassava, come se potesse leggerla come un libro. Poi Wolfrun si voltò di nuovo verso Roberto.
“Mi ricordo. Mi ricordo anche di te, adesso. Sei quello che ha detto ai ragazzi di Tegel di far fuori Claudia. Che potevano farlo mentre tu non guardavi, eh?” chiese, con tono duro.
Il viso di Roberto era sbiancato. Cos’è che era successo? Cosa aveva detto di fare?

 

“Cosa hai fatto?” chiese Christa. Aveva alzato il tono della voce e si stava agitando. Wolfrun si preoccupò. Lei non doveva agitarsi. Non era il caso. Non in quelle condizioni.
“Calmati, Christa” le raccomandò. Vide qualcuno avvicinarsi a loro, ma era ancora lontano.
“Non dirmi di calmarmi! Cosa volevi che facessero?” chiese ancora lei, verso il ragazzo. Wolfrun si alzò e andò verso la ragazza con i palmi in vista.
“Christa…”
“Taci, Wolfrun” disse Christa in tono seccato.
“Non mi dire di tacere!” Anche lei alzò la voce un po’.
“Sì che te lo dico. Si può sapere cosa sei venuta a fare? Non potevi rimanere sulla tua dannata isola?” Oh. Wolfrun si immobilizzò, mentre camminava verso Christa.
“Come…?” chiese, stranita, la mora. Non riusciva a credere che le avesse detto davvero così.
“Non sei più tornata, perché sei qui adesso?” Wolfrun scosse la testa.
“Io non…” iniziò, ma poi tolse lo sguardo da Christa e guardò i due ragazzi che avanzavano verso di loro, ancora lontani e si girò verso il ragazzo del Reichstag.
Lui ghignò: uno stupido idiota.

 

Christa non era riuscita a trattenersi. Aveva voglia di urlare. Urlare contro Wolfrun. Sapeva che lei non c’entrava niente con la sua voglia di urlare, ma era lì…
“Che intenzioni hai? Cosa vuoi da noi?” le chiese ancora e incrociò le braccia sotto al petto, ma poi ci ripensò e le spostò lungo i fianchi. Vide Wolfrun seguire il suo gesto e sospirare. Mmm avrebbe voluto saltarle al collo. Poi lei si avvicinò e abbassò la voce.
“Da voi non voglio niente. Soprattutto da te. L’unica cosa bella di Berlino te la sei lasciata scappare! Ti sei dovuta accontentare di…” rispose, mentre il suo sguardo vagò alla sua sinistra. Si girò e vide in lontananza Timo e Jakob. Accontentare? Parlava di Timo? Sapeva che Jakob l’aveva baciata e lei lo aveva rifiutato? BRUTTA… Si rigirò verso di lei e fece un passo nella sua direzione.
Si sentiva cattiva. Cattivissima. Mai sentita così.

 

Lo sguardo della biondina non prometteva niente di buono. Quando fece un passo verso di lei, Wolfrun lo fece di lato. Sentì Roberto fischiare e gridare: “Sì! Ragazze, picchiatevi!”.
Si girò verso di lui e gli disse: “Coglione. Non ho intenzione di picchiare una donna incinta!” Indicò Christa con il braccio e il viso del ragazzo si allargò, sorpreso e divertito e poi guardò Christa. Anche Wolfrun si voltò verso Christa.
“Ma come fai a saperlo…” Gli occhi della ragazza bionda si inumidirono e lei perse rigidezza nelle spalle. Oh, merda! Guardò verso gli altri. Qualcuno sarebbe arrivato a salvare quella principessa? Magari… Subito?
Poi Christa sussurrò: “Gli altri non lo sanno. Non dire niente…”
Oh santo cielo! Ma perché non era rimasta a Lemnos? Perché, perché?

 

***

 

Wolfrun camminava da sola lungo il viale alberato. Aveva portato Anneke a vedere la Porta di Brandeburgo (era vero, il muro che divideva Berlino non c’era più!) e dopo averla lasciata a casa di Nora ad ascoltare il Mago di Oz che leggeva Sabine, era sgattaiolata via per andare al cimitero a trovare Dorothea. Si ricordava perfettamente dove fosse.
C’erano un po’ di erbacce e tantissimo muschio, ma il cimitero era come se lo ricordava. Si chinò a strappare qualche arbusto ribelle vicino alla lapide e si fermò a guardare la fotografia. Dorothea non sorrideva: guardava verso il mare e indossava gli occhiali da sole. Era seria. E bellissima. A lei sarebbe piaciuta quella foto.
Aveva scelto Wolfrun l’immagine per la tomba. Era la sua foto preferita. Una di quelle scattate in vacanza. Aveva urlato e sbattuto i piedi, l’unica volta in cui sua madre aveva dovuto ascoltarla per forza. Non avrebbe messo una delle foto di famiglia ritagliate per l’ultima casa di Dorothea. Ci voleva una bella foto. Perché Dorothea era una bella persona. Le sorrise, accarezzando il suo volto con le dita. Merda. Non aveva portato neanche un fiore.
“Jakob diceva che ti avrei trovata qui” disse una voce alle sue spalle.
Wolfrun si girò lentamente: aveva già riconosciuto la sua voce.

 

Christa si avvicinò un altro po’. Maledizione, le sembrava di aver scalato una montagna. Wolfrun si voltò verso di lei, ma non disse niente. La studiò e basta. Ma questa volta non le diede fastidio.
“Come hai fatto a capirlo?” le chiese e si passò inconsapevolmente una mano sul ventre. Poi la tolse subito quando si accorse del gesto. La mora rise e la indicò.
“Da quello. Lo fai in continuazione. E sei stanca, hai il fiato corto. Sembra anche che tu sia un po’ isterica, eh? E poi ti tocchi sempre il seno. Come se ti facesse male” dichiarò.
“Mi fa male” ammise lei, sospirando. Wolfrun annuì.
“E la schiena?” si informò. Anche, dannazione!
“Jakob aveva detto anche questo” disse Christa sospirando.

 

“Cosa?” chiese Wolfrun, nervosa. Cosa aveva detto Jakob a Christa?
“Che sei capace di osservare le persone” disse lei, ma senza fastidio.
Oh. Scosse le spalle. Non era vero. Erano cose che notavano tutti. Ma glielo aveva fatto notare anche sua sorella. Senza volere si voltò verso la tomba di Dorothea. Sentì la principessa bionda avvicinarsi e affiancarla.
“Tua sorella?” chiese e la mora annuì. “Pensavo l’avesse portata via il virus…”
Doveva aver visto la data di morte: era prima della strage del virus. Scosse la testa incapace di dire altro.

 

Wolfrun non era il tipo che parlasse tanto. Tantomeno con lei. Christa non le chiese niente. Rimasero altri dieci minuti in silenzio e la mora riprese a strappare le erbacce. La sorella di Wolfrun, Dorothea diceva la lapide, le assomigliava fisicamente. Per quel che si vedeva dalla foto.
Christa non aveva fratelli. Non sapeva come fosse averne, ma dalla foga che ci stava mettendo la mora a sistemare la tomba, doveva essere una cosa forte. E potente. Qualcosa tipo quello che provava lei per Nora e Britta. E le altre.
“Perché gli altri non lo sanno?” le chiese Wolfrun, che si era alzata e si era pulita le mani sui jeans. Scosse le spalle. Non sapeva spiegarlo.
“Oh. È stato un incidente. Non l’abbiamo cercato” disse, accarezzandosi la pancia inconsapevolmente. La mora la guardò e alzò un sopracciglio.
“Non avete preservativi, qui?” chiese e Christa sentì le guance arrossarsi. Sì che li avevano. Come faceva a saperlo, lei?
“Noi…” iniziò a giustificarsi.
“O li avete usati o no, principessa. Come fa a essere un incidente?”
Christa tornò a guardare la tomba. Già, come era successo?

 

Wolfrun vide la bionda intristirsi. Ma perché le aveva chiesto una cosa del genere? E poi: a lei non interessava!
“Li hanno portati anche a voi?” le chiese Christa e mentre le faceva quella domanda, si passò una mano sulla schiena, piegandosi leggermente in avanti e sospirando. Annuì.
Fece un passo di lato e le disse: “Vieni qui, vicino al muro”.
“Come?”
Per un attimo pensò di vedere un lampo di paura nei suoi occhi. No, doveva esserselo immaginato, visto che la bionda fece quello che le aveva detto. Quando le fu vicina le fece appoggiare le mani ai mattoni, davanti a sé.
“Chinati in avanti. Fai scorrere le mani lungo il muro” le spiegò e mentre glielo faceva fare, le mise le mani sulla parte bassa della schiena. “Da noi non mancava niente. Più che altro hanno portato birra, medicine e preservativi…”
Guidò la schiena di Christa finché lei non fu piegata a metà, contro il muro.
“Ok, ora tirati su. E fallo un’altra volta” spiegò ancora.

 

Christa non sapeva cosa fosse successo. Ma il male era cambiato: era più debole e più sopportabile. E quando Wolfrun le aveva appoggiato le mani sulle reni, le aveva fatto qualcosa che le aveva fatto passare il dolore. Quando si rimise dritta tutto il mondo sembrava più sopportabile. Anche Wolfrun.
“Grazie” disse, un po’ incredula. Lei stirò le labbra: doveva essere un sorriso.
“Lukas lo aveva consigliato a Eleni. Dice che funziona…”
Eleni, la compagna del padre di Jakob. Giusto, aveva avuto una bambina. E, invece, chi era Lukas?
“Chi è Lukas?”
“Il dottore che ha sintetizzato il vaccino” spiegò. Oh.
Rimasero in silenzio per un po’ poi Christa chiese ancora: “Ma voi… vivete tutti insieme? Tu, Jakob, Eleni…”
“Se usi quel tono, principessa, sembra una cosa brutta” rispose Wolfrun, alzando un sopracciglio. Christa sentì le guance andare a fuoco. E perché diceva ‘principessa’ con quel tono?
“Io intendevo…”

 

Wolfrun si spazientì. “Ti accompagno a casa tua. Da che parte abiti?” chiese, guardandosi intorno. Vide la bionda dondolare sui piedi.
“Oggi, ai campi mi hai detto…” iniziò lei, ma venne subito interrotta: “So cosa ti ho detto. Da che parte?”
Christa indicò una strada ma non smise di impicciarsi.
“Così pensi che Jakob sia la parte più bella di Berlino?” chiese ancora, con uno stucchevole sorriso in viso. Wolfrun sbuffò e si infilò le mani in tasca. Le era venuto fuori così, neanche ci aveva pensato.
“E lui lo sa?” continuò a chiedere. La guardò di sottecchi, poi raddrizzò spalle e testa.
“Parliamo di cose importanti: perché i militari sono ancora qui?”

 

Christa non si aspettava un cambiamento così radicale di argomento.
“Come?” domandò, confusa.
“I militari. Perché sono ancora qui?” chiese di nuovo la mora. Lei alzò le spalle.
“Perché no?” Wolfrun si fermò e la guardò.
“Immagino che abbiano allestito un campo ospedaliero quando sono arrivati, giusto?”
Christa annuì: subito dopo la battaglia i feriti erano tantissimi. Quando tutto si era calmato, si erano radunati per cercare di contenere i danni. Subito dopo la partenza di Jakob e gli altri, il Pegaso aveva fatto altri viaggi, con medicine e viveri. Anche con gli appunti di Andreas ci avevano messo più di due mesi a trovare il vaccino, ma poi erano tornati subito. Erano partiti da Berlino a distribuirlo ed erano tornati gli adulti. I militari avevano allestito tutto in pochissimo tempo. Avevano curato tutti ed erano stati bravissimi.
Anche gli adulti erano venuti a farsi vaccinare, ma poi loro si erano ritirati nella Berlino est e si erano un po’ isolati. Forse non credevano del tutto al vaccino o forse… bo. Fatto sta che erano rimasti in quella parte della città.
Poi la città si era ripresa. Loro avevano trasformato il grande prato (quello dove si giocava a battaglia, avevano sostenuto i più piccoli, un po’ malinconici) in campi coltivati e man mano, tutto aveva funzionato: le centrali elettriche avevano ripreso il loro lavoro e anche tante altre fabbriche.
Erano stati i militari. Tutti. Per una volta, i sovietici e gli altri erano riusciti a mettersi d’accordo senza dividere niente e ora Berlino era unica e funzionante.
“Sì, hanno allestito un ospedale. E anche una cucina. La cucina è stata apprezzata di più, forse” rispose e cercò di sorridere, ma Wolfrun annuì seria.
“Immagino. Ogni volta che mangio la zuppa di Eleni in inverno, penso al gelo di Berlino” disse la mora.
“Già” rispose Christa e Wolfrun annuì ancora. Non le disse che loro cucinavano pasti caldi anche in pieno periodo del virus.

 

Ma se a Berlino stavano così bene, perché Jakob non era tornato lì? Sospirò. Probabilmente ora il bambino sarebbe stato suo, se fosse rimasto, pensò voltandosi verso Christa. Arrivarono a una villetta verso la parte più a ovest della città.
“Carina” disse, guardando la casa.
“Grazie. Vieni dentro?” Wolfrun scosse la testa e si girò per incamminarsi verso la casa dei bambini. “Aspetta!”

 

Christa pensò di approfittare della situazione.
“Ed Eleni cosa faceva per la nausea?” chiese sottovoce, avvicinandosi. La vide alzare gli occhi, pensierosa.
“Mangia limoni. E patate. E la sera si fa la tisana di finocchio e menta” disse mentre il suo sguardo inorridiva. Quasi rise. “Dovrebbe funzionare anche con limone e arancia. Forse è più buono” continuò alzando le spalle. “Però…” continuò la mora, guardando alle sue spalle. Christa si girò verso la casa e vide del movimento sull’uscio: non aveva detto a Timo che sarebbe andata via, né che sarebbe andata da lei.
“Però?” la incalzò, prima di andare dal compagno. Wolfrun si avvicinò di un passo e la guardò con due occhi grandi e scuri. E sì che aveva gli occhi blu.
“Devi dirglielo: lui deve saperlo” disse.
Sì, aveva ragione. Annuì, voltandosi a guardare l’abitazione. Lo avrebbe fatto. L’avrebbe fatto subito. Doveva dirglielo lei.
“Magari allora tu dovresti valutare l’idea di scegliere colori più… sgargianti, per il tuo abbigliamento” disse. Ma cosa aveva detto? Che cosa stupida.
Wolfrun si guardò e quasi sorrise mentre diceva: “Il nero e il grigio vanno benissimo”.
Christa sospirò senza dire niente.

 

Timo aveva visto le ragazze arrivare. Aveva aperto la porta e le aveva chiamate. Christa era uscita da tantissimo tempo e lui si era un po’ preoccupato. Wolfrun si girò verso di lui e poi disse qualcosa a Christa. Decise di avvicinarsi a loro.
“Christa, dove sei stata?”
La ragazza gli sorrise in quella maniera così dolce che solo lei gli rivolgeva.

 

Wolfrun sbuffò.
“Abbiamo fatto una chiacchierata fra ragazze” gli disse la bionda.
Guardò Christa che sorrideva a Timo in un modo… avrebbe potuto dire come le ragazze dell’isola sorridevano a Jakob, ma non era vero. Era molto più… intimo. E tenero. Era quasi carino. Vomitevole. Lei non avrebbe mai guardato qualcuno così. Mai. Neanche Jakob. Ci sperò, almeno.
“E di cosa avete parlato?” chiese lui.
“Di militari” sbottò Wolfrun. Ghignò quando vide il viso del ragazzo preoccuparsi. Geloso? Carino. E ancora vomitevole. Ma Christa rise.
“E anche di principesse” disse ancora la bionda.
Cosa? Cosa diceva quella ragazza? Non avevano parlato di principesse, ma di gravidanze. Ah. Sì, giusto. Lui non lo sapeva.
Ora Timo era confuso. Giustamente.

 

Christa sorrise anche a Wolfrun. Poi lei disse: “E di streghe” e Christa rise.
Britta le aveva raccontato quello che era successo a colazione. La storia delle streghe e delle principesse.
“Streghe?” chiese Timo, che era molto più che confuso.
“Lascia stare. Ti spiegherò. Abel è a letto? E Verme?” gli chiese e lui annuì.
“Entrate?” chiese a quel punto. Wolfrun scosse ancora la testa. Non ne voleva sapere. Non sarebbe andata a casa loro.
“Io torno da Anneke. Buonanotte.”
Loro la salutarono e rientrarono in casa. “Sicura che vada tutto bene?” le chiese il ragazzo.
“Devo dirti una cosa…” disse lei a bassa voce.

 

Timo si preoccupò. Cosa era successo? Lei sembrava così seria…
“È una cosa brutta? Hai una faccia, Christa… è successo qualcosa di…” chiese, guardando verso la porta, come se potesse c’entrare Wolfrun.
Christa si avvicinò a lui e sospirando l’abbracciò.
“Non penso sia una cosa brutta. Non per me” sussurrò, decisa.
“Allora non lo sarà neanche per me” disse lui. La prese per mano e la trascinò sul divano.

 

Christa cercò le parole per spiegare a Timo cosa fosse successo, ma senza risultato. Era difficile. Non avevano mai parlato di bambini. Bambini loro. Aveva sempre pensato che Lisbeth avesse sbagliato a mettere al mondo Abel in un momento così tragico e incerto, eppure… ora un po’ la comprendeva. Aveva solo diciotto anni ed era incinta, vero. Aveva sempre pensato che sarebbe stata molto più grande prima di fare un figlio. Il virus le aveva portato via la giovinezza e l’adolescenza, poi il vaccino aveva dato speranza a tutti. La gioia dei sopravvissuti si era mescolata con la scelleratezza e tanti ragazzi avevano iniziato a considerarsi coppie adulte e a saltare troppe tappe, secondo lei. E i preservativi dei militari erano stati una miccia facilmente infiammabile. Ma almeno c’erano. Ma a lei non erano serviti. Non riusciva a ricordarsi quando fosse successo, ma era capitato, due o tre volte che lei e Timo non fossero stati proprio così attenti come avrebbero dovuto. Beh, in futuro lo sarebbero stati di sicuro.
Avrebbe voluto essere come Wolfrun, in quel momento, capace di leggere le espressioni delle persone. Non aveva creduto a Jakob quando lo aveva detto e poi… Poi la mora le aveva dato la dimostrazione che qualche volta si sbagliava anche lei. Wolfrun era arrivata e in due giorni aveva capito cose che altri non avevano capito in settimane. Anche se gli altri la conoscevano meglio di Wolfrun.
Prese la mano di Timo e se la portò sul ventre. “La nostra famiglia si allargherà” disse semplicemente.
Non ebbe bisogno di Wolfrun per notare quanto Timo fosse contento. Lui sorrise. Tanto. Il suo viso si allargò di stupore e meraviglia e abbassò lo sguardo sulle loro mani.
Le accarezzò la pancia, commosso, e disse: “Davvero?” Christa annuì con le lacrime agli occhi. “Sei sicura? Un bambino… nostro?” La sua voce si incrinò per l’emozione.
Christa annuì ancora, mentre lasciava scendere una lacrima di gioia dagli occhi. Oh, perché non glielo aveva detto prima?

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Capitolo 9
*** Fidarsi di te ***


Fidarsi di te

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Jakob e Louis camminavano a passo spedito.
Louis diceva di aver trovato un prato abbastanza grande dove si potesse giocare a battaglia, ora che erano in tanti. Solo che era nella parte di Berlino Est, dove c’erano gli adulti. Gli adulti di Berlino.
C’erano anche altri adulti in città, ma era gente che avevano portato i militari: elettricisti e ingegneri, persone che poteva aiutare a ricostruire edifici, case e fabbriche. Ed erano stati fantastici, a sentire gli altri. Gli adulti di Berlino, invece, non li vedevano di buon occhio. O perlomeno, stavano per conto loro, a Berlino Est. Jakob non li aveva mai visti, se non di sfuggita durante le fasi di vaccinazione.
In quel momento Jakob non aveva voglia di camminare così tanto. Avrebbero potuto fare un salto da qualche altra parte. Tipo al Reichstag o alla casa dei bambini. Non vedeva Wolfrun da quando, al campo, l’aveva vista parlare con Christa e Roberto. E non sapeva cosa si fossero detti.
“Forse dovremmo andarci domani. È quasi buio…” disse al francese. Louis si voltò verso di lui con un ghigno.
“Non ti facevo così fifone” l’accusò.
“Non sono un fifone!”
“Ci passiamo dopo, ok?” disse Louis.
Come? “Dove andiamo dopo?” chiese Jakob.
“Da Wolfrun” disse ancora lui. Jakob spalancò gli occhi e tentò di negare, ma riuscì solo a balbettare qualche scusa. Sentì Louis ridere. Davvero: stava ridendo. Louis. Lo guardò di sottecchi.
“Hai paura che Christa le abbia raccontato di come baci male, eh?” disse, prendendolo in giro. Cosa?
“Ma… te lo ha detto lei? Oddio, le avrà detto che ci siamo baciati? E ora Wolfrun…” esclamò Jakob, un po’ agitato.
“Ehi, datti una calmata, Casanova. Stavo scherzando” rise e poi improvvisamente si fermò. “Wolfrun” annunciò.
“Sì, ho capito” disse Jakob sbuffando e oltrepassandolo. Louis gli posò una mano sul braccio per fermarlo.
“No, non hai capito: c’è Wolfrun!” E indicò con il dito un punto della via davanti a loro: Wolfrun camminava lungo la strada, qualche metro più in là.

 

Wolfrun camminava lentamente. Non aveva voglia di arrivare alla casa dei bambini. Da quando era a Berlino non riusciva mai a stare da sola e a lei piaceva stare da sola. Anche se Jakob diceva che le faceva male, a volte stare da soli faceva bene.
Affondò le mani nelle tasche dei jeans e rabbrividì nella sera. Aveva chiesto a Nora di occuparsi di Anneke e lei aveva detto che non ci sarebbero stati problemi. Avrebbe potuto fare un giro in città. Aveva in mente una spedizione verso Charlottenburg subito dopo il cimitero, ma l’incontro con la principessa bionda, le aveva guastato i piani e l’umore. A dir la verità, non poteva dire niente contro Christa. Era stata gentile. Sospirò. Forse avrebbe dovuto smettere di aspettarsi il peggio dalle persone.
Girò in una via laterale come se non mancasse da Berlino da quasi tre anni. Aveva sempre avuto un buon senso dell’orientamento. E quello non era neanche il suo territorio.
Pensò a Tegel. Non era ancora stata a Tegel. Aveva promesso ad Anneke di portarcela, ma voleva prima andarci da sola. Doveva sapere come la sua mente avrebbe reagito, così da essere preparata. Non voleva che potesse succedere qualcosa a cui lei non fosse pronta.

 

Louis e Jakob dovettero allungare il passo per raggiungere la ragazza. Ma dove stava andando? Poi Jakob la chiamò. Non riuscì a trattenersi. Lei si voltò subito. E quando loro le arrivarono vicino, Louis notò che aveva in mano il coltello. Alzò un sopracciglio. Cosa pensava che potesse succedere?
“Puoi metterlo via” le disse, indicando la sua mano con il capo. Lei annuì e lo fece.
“Mi avete spaventato. Dove state andando?” chiese. Silenzio. Louis guardò Jakob, che guardò per terra.
“Noi…” disse Jakob, imbarazzato, ma lei rise con occhi divertiti e disse: “Andate alla casa dei bambini?”
Cavolo. Perché glielo chiedeva con quella faccia? Stava…? Ma era un ghigno quello?
“E perché mai dovremmo…” iniziò il francese. Lei rise ancora, gli rise proprio in faccia.
“Dov’è che state andando, allora?” chiese la ragazza.
“Andiamo a Berlino est a vedere un prato per battaglia” spiegò Louis. Lei spalancò la bocca.
“Oh, sì. Questo ha molto più senso, effettivamente, Louis. Davvero” lo prese in giro lei. E stirò le labbra in una smorfia strana. Doveva essere un sorriso. O un altro ghigno.

 

“Andiamo davvero a Berlino Est” sostenne Luois con tono duro. Wolfrun chinò di lato la testa.
“Andate a vedere un prato…” iniziò allora. Oddio, la credevano così stupida? “A vedere un prato di notte…” continuò. “Per fare cosa di preciso?”
Dovette trattenere una risata. Pensavano davvero che ci avrebbe creduto?

 

Louis si accigliò. Ma lo stava deridendo? Si voltò verso Jakob, ma lui, ancora, non ricambiò il suo sguardo. Che succedeva?
“Andiamo a vedere un prato per scoprire se è adatto per giocarci a Battaglia” spiegò, confuso dall’atteggiamento di Jakob.
“Per giocare a cosa?” chiese Wolfrun. Lo sguardo della ragazza vagò fra loro due.

 

Ma cosa volevano farle credere? Giocare? Andavano a vedere un prato per giocare? Louis non poteva inventarsi di meglio? Sorrise verso di lui e guardò anche Jakob, ma il ragazzo non guardava nella sua direzione. Come mai?
Il suo sorriso si spense lentamente. Jakob sembrava serio. Cos’era la storia del gioco? Era una storia vera? Di… di… Come si chiamava?
Battaglia. A Gropius, quando l’ultimo pallone si bucò, Sven inventò un gioco dove non fossero necessarie le palle. Battaglia, appunto” spiegò ancora Louis. Oh. Sven. Wolfrun guardò di nuovo verso Jakob. Lui volse appena lo sguardo verso di lei, come se fosse colpevole.
Non avevano mai parlato di Sven. Mai. Bern, Louis e suo fratello, Peter, Akay, le ragazze (per non parlare di Christa!) ma effettivamente Jakob non nominava quasi mai Sven. Abbassò gli occhi anche lei. Sven era morto a Tegel, divorato dal virus sì, ma era morto durante una Festa della Morte organizzata da Wolfrun. Perché lei aveva deciso di rapire uno dei loro.
Probabilmente Jakob la incolpava della sua morte.

 

Louis non capì molto bene la ragazza. Un attimo prima era bellicosa e pronta a prenderlo in giro, quello dopo così… arrendevole? Il suo sguardo era strano.
“Allora andate. Berlino Est è… lontanuccio. Buonanotte” disse, si girò e si incamminò.
“Ma tu dove vai?” Le chiese Louis. Quella non era strada per andare alla casa dei bambini. Lei alzò le spalle. Il francese si girò verso Jakob.
“Cos’è successo?” domandò. Lui lo guardò.
“Non le ho mai raccontato di Battaglia” spiegò. E quindi?
“E perché?” chiese. Anche Jakob alzò le spalle. Diamine, quei due erano fatti l’una per l’altra.

 

Jakob sospirò guardando la figura della ragazza che si allontanava e tornando poi a girarsi verso Louis.
Non sapeva bene perché non avesse parlato a Wolfrun del gioco. Forse pensava che lei non avrebbe capito, come era successo con Achille, Diego ed Elio, quando aveva spiegato loro come si divertivano a Berlino.
Era stato così difficile, quella volta, rimanere calmo e sentire loro che ridacchiavano per il gioco che li aveva aiutati a sopravvivere. Il gioco inventato da Sven, anche se lui non aveva mai giocato. Il gioco in cui era bravo Bernd e Jakob non tanto. Il gioco a cui giocavano tutti, dal più piccolo al più grande, senza distinzione di taglia, di età o di sesso.
Per fortuna Zeno aveva capito e gli si era seduto vicino senza dire niente, aveva solo sorriso e scosso la testa, come a dirgli di non farci troppo caso. Era stato un amico. Era stato lì che aveva capito quanto fosse in gamba e aveva iniziato a frequentarlo.
“Ti vergognavi di noi?” chiese Louis. Il suo tono non era arrabbiato. Jakob lo guardò negli occhi. Non si sarebbe mai vergognato di quello che aveva fatto. O di loro. Aveva bisogno che Louis capisse.
“No. Non mi sono mai vergognato di voi. È che non tutti capiscono. Il gioco di Sven, Louis. Non mi piace che qualcuno derida Sven…” disse Jakob, con in mente le risa dei ragazzi. Louis sembrò capire.
“Perché pensi che lei lo avrebbe fatto?” gli chiese. Alzò di nuovo le spalle.
Non lo sapeva. Ma se lei lo avesse fatto, non sarebbe più riuscito a guardarla come prima. E preferiva rimanere all’oscuro. Dannazione, era un vigliacco. Sospirò.

 

Wolfrun aspirò fra i denti. Era tornata indietro di qualche passo e aveva ascoltato quello che si erano detti. Jakob pensava che avrebbe riso di lui. Avrebbe deriso i suoi amici e Sven.
Sven, che era un bravo ragazzo secondo Chloe. Chloe era rimasta colpita dalla morte di Sven. E sì che di morti ne avevano visti tanti a Tegel. Caduti dall’alto, bruciati dal fuoco, infilzati da pali e frecce. Ce n’era una grande varietà. Ma nessuno era mai morto durante una Festa della Morte per colpa del virus. Nessuno.
Chloe non era stata più la stessa, dopo. Se n’era accorto anche Caspar. E pochi giorni prima di morire, Chloe le aveva detto che Sven era un bravo ragazzo. Uno di quelli di cui ci si può fidare e anche affidare la tua vita. Per quello le ragazze dell’Havel erano andate a chiedere aiuto a lui, quando avevano rapito Theo. Quando Wolfrun aveva rapito Theo.
Wolfrun aveva capito, da come la ragazza parlava, che Sven piaceva a Chloe. Tanto. Chissà, forse aveva provato a confessarglielo e lui l’aveva rifiutata? Il dolore l’aveva fatta diventare quello che era? Un capo pazzo e sconsiderato? Esattamente come era stata Wolfrun.
No. Wolfrun sapeva che lei era stata peggio di Chloe. Più pazza, più sconsiderata, più precipitosa, più impulsiva, più incosciente…
La lista poteva allungarsi all’infinito. Sospirò. Vide i ragazzi girarsi verso di lei di scatto. Ora l’avevano vista.
“Wolfrun…” disse semplicemente Jakob, un po’ sorpreso.
Cosa poteva dirgli? Aveva fatto bene a non fidarsi di lei. Non si sarebbe fidato nessuno. Neanche lei si fidava. Annuì e scappò via di corsa. Sentì Jakob chiamarla e rincorrerla. Ma lei era più veloce e lo sapeva. Non si voltò neanche indietro.

 

***

 

“Non potete rimanere qui” disse Britta e incrociò le braccia sotto al seno. Jakob la guardò, ma lei scrutava Louis e non l’aveva neanche in nota.
“L’abbiamo vista scappare, vogliamo solo essere sicuri che torni e stia bene” spiegò Jakob. La treccia di Britta serpeggiò nell’aria quando lei si girò di scatto verso di lui.
“E perché siete qui in due? Lui può andare a casa” disse, indicando il francese con la mano. Ma cosa aveva? Jakob proprio non capiva come mai fosse così nervosa.

 

“Britta…” Il tono di Nora era di nuovo quello che rivolgeva ai bambini. Ai bambini capricciosi. E Britta si stava comportando come Abel. Anzi, peggio di Abel che dalla sua aveva l’attenuante dei suoi tre anni. Appoggiò tre tazze di caffè sul tavolo e ne allungò due ai ragazzi.
“Puoi sempre andare a letto tu, Britta, se non vuoi vederci” disse Louis. Ora era lui, quello scontroso. Oh, meraviglioso.
Britta sbuffò rumorosamente e la sua frangia svolazzò sulla fronte.

 

Louis pensò di non aver mai visto Britta così bella. Il suo broncio era irresistibile e, probabilmente, lei non lo sapeva neanche. Aveva la camicia da notte e un golfino azzurro che la riparava dal freddo della sera. La sua treccia era diversa, di notte. Ne partivano due ai lati della testa e giravano dietro prima di scendere, in una treccia unica sulla schiena. Quante cose non sapeva di lei?
“Sono solo preoccupati. Britta, non esagerare” disse Nora. Louis si voltò verso di lei. Giusto. Erano preoccupati. Erano lì per quello. Per nessun altro motivo.
“Sì, sono preoccupato per Wolfrun” disse, un po’ troppo velocemente. Britta tornò a posare gli occhi su di lui.
“Tu? Sei preoccupato per lei?” C’era di nuovo sfida nei suoi occhi.
“Sì” mentì. Ma si pentì subito dopo averlo detto, quando vide gli occhi della bionda rattristarsi.
“Non penso ci sia bisogno di preoccuparsi. È perfettamente in grado di badare a se stessa” sussurrò.

 

Jakob annuì. Sapeva che Britta aveva ragione. Ma che Wolfrun fosse scappata per colpa sua non l’aiutava a sentirsi tranquillo.
La porta che dava verso la zona notte si aprì e una bambina mora, scalza e con la camicia da notte, entrò stropicciandosi un occhio con il palmo della mano.
“Wolfrun, ho fatto un brutto sogno…” mormorò. Poi Anneke sbatté gli occhi alla luce della cucina e li guardò tutti. “Dov’è Wolfrun?” Oh, merda. La piccola avanzò di un altro passo e lo vide. Gli sorrise, incerta. “Jakob…”
Si alzò per andarle incontro, ma Britta fu più svelta.
“Vieni, Anneke, torniamo a letto. Resto un po’ con te, così ti riaddormenti”. Si avvicinò alla bambina e le porse una mano mentre si girava verso la porta. Ma Anneke fece un saltello indietro, andando a sbattere contro il muro.
“No. Con te, no” disse, con lo stesso tono che avrebbe avuto Wolfrun. Britta spalancò gli occhi.

 

Louis si accigliò e sentì Britta balbettare qualcosa verso la bambina e la piccola risponderle: “Stamattina hai detto che Wolfrun è una strega. Non voglio dormire con te!”
Un silenzio imbarazzato calò nella stanza.

 

Jakob si alzò e, lanciando un’occhiata a Nora che annuì, disse alla piccola: “Vengo io, Anneke. Torniamo a letto”.
Britta era rimasta scioccata da quello che aveva detto Anneke e non disse niente neanche sul fatto che lui volesse andare nella camera dei bambini. Anneke annuì e gli prese la mano che le porgeva. Quando richiusero la porta dietro di loro la piccola gli chiese: “Dov’è Wolfrun?”
Lui si chinò alla sua altezza e disse sospirando: “L’ho fatta arrabbiare. Sta facendo una passeggiata per farsi passare la rabbia”. Anneke annuì e, stranamente, sorrise.
“Ok. Quando la fai arrabbiare tu, torna sempre” disse lei, tranquilla. Come? Ma non le chiese niente perché la bambina continuò: “Ho perso la mia coperta. Sul letto non c’è più…”
“Ti aiuto a cercarla.”
Si avviarono verso la camera da letto.

 

“Complimenti” disse il ragazzo rimasto in cucina, verso Britta. La ragazza si girò verso Louis, che beveva il caffè, con uno sguardo addolorato. C’era rimasta male. Non pensava che la piccola reagisse così. Il ragazzo indicò la porta chiusa con un dito e rimarcò la ferita.
“Bel lavoro. Hai dato della strega a Wolfrun davanti alla bambina?” le chiese, ironico.
Britta aprì la bocca e la richiuse. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Nora le andò incontro e le disse, mettendole una mano sul lato del braccio: “Torna a letto, Britta”. Le accarezzò la testa e le mise a posto una ciocca di capelli sfuggita alla treccia. Il suo tocco era confortante.
Britta squadrò di nuovo il ragazzo seduto al tavolo e senza dire niente uscì dalla porta e tornò in camera sua.

 

“Sei stato pessimo” lo sgridò Nora, poi si sedette vicino a lui e bevve un po’ del suo caffè. Lui alzò le spalle. Sorrise. Ma quando sarebbero cresciuti? “Che ti ha fatto Britta?” chiese.
Louis appoggiò la tazza sul tavolo forse un po’ rumorosamente. “Niente” disse, scontrosissimo.
Nora pensò che doveva essere successo qualcosa: Britta era scontrosa dalla sera prima e Louis lo era sempre stato, ma ora era scontroso con Britta. Cosa era successo? Gli appoggiò una mano sulla sua.
“Vuoi parlarne?” Lui scansò la sua mano.
“Non sei mia madre” disse, scontroso.
“No” sbuffò Nora. “Ma mi sento la madre di tutti…” Sorrise. “Le hai parlato?” Lui annuì senza dire niente.
Nora sapeva che a Louis piaceva Britta. Piaceva in senso serio. Non gli avrebbe mai permesso di giocare con lei. O con i suoi sentimenti. E invece Britta… A Britta piaceva Bernd, tre anni prima. Non era giunto il momento di lasciarselo alle spalle? Erano passati tre anni e per quanto facesse male…
Guardò il ragazzo che giocava con la tazza. “Forse dovrei lasciare perdere” disse lui, sottovoce. Nora alzò le spalle.
“Dipende da quanto ti interessa. E quanto vuoi lottare” disse, semplicemente e con tono dolce.
“La fai facile, tu” l’accusò lui. Nora spalancò gli occhi. Come? “Tu, hai il tuo militarino, lui ti vuole e tu vuoi lui. È così facile per te!”
La ragazza per poco non si arrabbiò. Ma che ne sapeva lui di com’era per lei? Si alzò in piedi bruscamente e il tavolo traballò un po’.
“Perché non vai a casa? Ti mando Jakob appena torna Wolfrun” disse e sperò che il suo tono sembrasse almeno un po’ sostenuto.
“E se lei non tornasse? Lui rimarrebbe qui a dormire?”
Il suo tono era un po’… geloso? Sorrise.

 

***

 

Jakob si chinò sotto al letto: niente. Guardò dietro al cuscino: niente. Si guardò intorno e dall’altra parte del materasso: niente. Sul letto vicino a quello di Anneke: niente. Dove cavolo era finita quella coperta? Anneke si stropicciò di nuovo un occhio. Ok. Avrebbero fatto a meno della coperta. Fece salire la bambina sul letto e si tolse le scarpe prima di raggiungerla. Si sdraiò accanto a lei la circondò con il braccio. Tirò su il copriletto e sospirò.
“Domani, quando c’è luce, ti aiuto a cercare la tua coperta, ok?” sussurrò Jakob. Anneke annuì contro il suo fianco.
“Jakob?” lo chiamò.
“Dimmi, Anneke” sussurrò ancora, troppo stanco anche solo per alzare il tono della voce.
“Mi manca Clara. Anche Eleni. E Sebastian” ammise, triste, la bambina. Il ragazzo sospirò. Era stata una cattiva idea farla venire a Berlino. Le scompigliò i capelli e la baciò sulla testa.
“Presto torneremo a casa” disse e sperò che Wolfrun tornasse presto. Non solo per Anneke.

 

***

 

Jakob venne svegliato da una mano sul petto che lo scosse. Stava sognando di nuotare nel mare di Lemnos con Wolfrun e di venire risucchiato dal Pegaso che passava sopra di loro.
Quando riaprì gli occhi, Wolfrun lo guardava incuriosita. “Wolfrun!” quasi gridò lui.
Lei si mise un dito sulle labbra per intimargli il silenzio e con il capo indicò i bambini che dormivano. Giusto. I bambini. Era alla casa dei bambini. E lei era tornata! Pensò sorpreso. Perché poi era sorpreso? Non avrebbe mai abbandonato Anneke. Forse lui, ma non Anneke.
Si alzò dal letto, incredulo di essersi addormentato, cercando di non svegliare Anneke.
“Che ore sono?” chiese.
“Shh” gli rispose e lei gli appoggiò le dita sulle labbra per farlo stare zitto. Non avrebbe parlato mai più, se lei avesse tenuto lì la mano per sempre. Ma lei lo trascinò fuori dalla stanza dei bambini.
Come si chiusero la porta del dormitorio Wolfrun si voltò verso di lui. “Cosa fai qui?” chiese, sussurrando comunque.
“Io e Louis siamo venuti quando sei scappata. Eravamo preoccupati” spiegò.
Lei alzò un sopracciglio, vedeva la sua faccia al chiarore della luna. Andarono in cucina. Non c’era nessuno. Si avvicinò al lavello e prese un bicchiere per bere un po’ d’acqua.
“Dove sei stata?” le chiese, guardando l’orologio sul muro. Era tardi. Tardissimo. Per fortuna gli altri non l’avevano aspettata.
“Non sono scappata” disse come se non avesse sentito l’ultima domanda. Non era scappata? Erano le tre del mattino! Jakob si agitò un po’ mentre riempiva il bicchiere.
“E allora dove sei stata?” le domandò.
“Non te lo dico” rispose lei, dura. Come?
“Perché non me lo dici?” Più sorpreso che arrabbiato, Jakob le porse il bicchiere ma lei scosse il capo.
“Tu non ti fidi di me, io non mi fido di te. Non te lo dico” concluse lei. Jakob, che stava bevendo, si strozzò con il liquido e fece un verso strano. Cosa cosa cosa?
“Non mi fido di te?” chiese. Jakob non capiva niente.

 

Wolfrun era stanca. Era stata una notte lunghissima. Non aveva voglia di discutere. Non in quel momento.
“Dici così perché non ti ho raccontato di Battaglia? Non era perché non mi fidavo di te… È che non c’è stata l’occasione” si giustificò lui. Wolfrun sbuffò. Non avevano mai parlato del gioco senza palloni perché Christa non ci giocava, probabilmente. E perché non voleva che lei mancasse alla memoria di Sven. Sbuffò ancora.
“Sono stanca. Ascolta, dormirai nel mio letto. E poi…” iniziò a spiegare lei.
“Nel tuo letto?” chiese e lei vide il ragazzo sorridere. Oddio. Non era un invito. Doveva essersi espressa male.
Si avvicinò a lui e sussurrò: “Io dormo con Anneke. Tu dormi nel mio letto. Ma appena si fa l’alba vai via”. Il suo sorriso svanì. E lei ghignò. Bene, aveva capito.

 

Jakob vide il sorriso di Wolfrun. Non gli piacque. Per niente. Dannazione.
“Con Anneke?” chiese, sentendosi stupido.
“Sì, dirò che ha fatto un brutto sogno. Non voglio che loro ti trovino qui” disse, sventolando la mano verso la porta delle camere. Ora sorrise lui.
“Perché non vuoi che sappiano che resto qui?” le chiese e fece un passo per avvicinarsi, ma lei guardava verso la porta.
“Sono impiccione, loro. Pensano che noi…” si interruppe, senza continuare. Cosa pensavano di loro? Jakob fece un altro passo.
“Va bene. Lo farò. Perché io mi fido di te” le disse. Le appoggiò le mani in vita e si avvicinò a lei. I suoi occhi si spalancarono quando lo vide avvicinarsi.
“Potrei fare questo se non mi fidassi?”
Si chinò su di lei e la osservò mentre accorciava la distanza fra di loro. Voleva darle la possibilità di tirarsi indietro, ma non di scappare. Lei rimase ferma a guardarlo. Doveva essere una cosa buona.

 

Wolfrun lo guardava.
Lui voleva baciarla. Lo stava per fare. Oh, che voglia di farlo davvero. I baci di Jakob erano medicina naturale su di lei. Che voglia di abbracciarlo e posare la testa sul suo petto. Lui, così solido e caldo. Se poi l’avesse circondata con le braccia…
Un rumore alla porta la svegliò da quel sogno a occhi aperti.
Ma non c’era niente. La porta era chiusa. Doveva essere un rumore della notte. Sebastian diceva sempre alle bambine che di notte si sentono di più i rumori perché la terra non è mai ferma e c’è tanto silenzio. Quando riportò l’attenzione su Jakob, l’incanto era svanito. Si scansò da lui e fece un passo indietro.
“Vai nel mio letto. Io vado da Anneke” disse e fece per indietreggiare verso la porta, ma Jakob le prese la mano.
“Io mi fido di te” disse lui, con uno sguardo da cucciolo. Bravo, Jakob. Pensò ironicamente. Quello che pensava doveva leggersi sulla sua faccia perché lui iniziò a parlarle.
“Non ti ho raccontato di battaglia… “ disse, ma lei lo interruppe. Non voleva sentire una scusa o, peggio, una bugia.
“Hai fatto bene a non dirmelo. Dev’essere una cosa stupida” mentì e se ne andò da Anneke.
Non sapeva se lui fosse a conoscenza di dove fosse il suo letto o meno. Né se sarebbe veramente rimasto lì. Ma cercò di convincersi che non le importava. Era stanca e voleva dormire.

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*** Eccomi, spero che a qualcuno piaccia la mia storia. Se vi va, fatemelo sapere... 😘

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Capitolo 10
*** Nel bosco ***


Nel bosco

Nel bosco

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Il giorno dopo, ai campi c’erano anche i militari. Pochi, per non dare nell’occhio, probabilmente. Wolfrun li osservava. Il Maggiore Clarke era stato bravo. Aveva visto anche altri militari in giro per le strade.
Stava pelando le patate per il pranzo (i ragazzi a pranzo mangiavano tutti insieme, quella cosa di ‘collaborazione e solidarietà’ era po’ sfuggita di mano, secondo lei).
Nella costruzione riservata alle cucine le ragazze si dividevano compiti e chiacchiere. Sembravano molto affiatate. Tutte. Ed erano tante. Un po’ le mancò Diane. Era l’unica con cui avesse parlato un po’ di più. La persona che più assomigliava all’idea di un’amica.
Vide due ragazze farsi degli scherzi e ridere. Una era stata con lei a Tegel. Ma era più piccola e non si ricordava il suo nome. L’aveva salutata quando era arrivata. Non avrebbe mai pensato che i ragazzi di Tegel potessero non avercela con lei. Li aveva abbandonati, in fin dei conti. Beh, ed era stata anche un capo un po’ tiranno, effettivamente.

 

Christa entrò nel locale cucina che usavano durante i mesi caldi e si diresse direttamente verso Wolfrun. “Glie l’ho detto” sussurrò quando le fu vicina. La mora sobbalzò. Oh. L’aveva spaventata?.

 

Dannazione! Ma che aveva la principessa bionda? Era impazzita?
“Sì, brava” disse sbuffando. Ma non aveva nessun altro a cui raccontarlo? La biondina era lì, sorridente, a guardarla. “Hai fatto bene” continuò ancora quando non andò via. Cosa voleva? Oddio, non pensava veramente che le avrebbe chiesto…
“Timo è contento” cinguettò la bionda. Appunto, a lei non interessava. Come farglielo capire? Dicendoglielo, Wolfrun, dicendoglielo!
Aprì la bocca, ma Christa prese anche lei una patata e iniziò a sbucciarla. Vicino a lei. Ma cosa faceva? Voleva farlo da sola. Sbuffò ancora.
“Smettila di sbuffare. Adesso che hai aiutato me, io aiuterò te” dichiarò la biondina.
“Con le patate?” chiese confusa. Christa sorrise. Dannazione!
“No, con Jakob” disse ancora.
“Non ho bisogno di aiuto. Né con Jakob, né con le patate” disse e sperò che capisse di lasciarla in pace. Ma lei continuò a pelare le patate. Sbuffò ancora.

 

Christa continuò in quello che stava facendo. Di solito non le piaceva preparare il cibo per il pranzo. Ma stuzzicare Wolfrun era divertente. Non lo avrebbe mai detto. Si sentiva contenta. E felice. Avrebbero avuto un bambino. E Timo era contento.

 

Wolfrun guardò di sottecchi Christa che continuava, sorridendo, a pelare le patate. Che aveva quella ragazza? Perché sorrideva? Però almeno stava zitta. Finirono di pelare tutte le patate che c’erano nel cesto senza dire niente. Wolfrun si voltò verso Christa, che la osservava ancora.
“Cosa c’è?” non riuscì a non chiedere. La biondina era seria.
“Hai mai avuto paura, tu?” le chiese. Come? Ma che domanda era?

 

Christa guardò la ragazza strabuzzare gli occhi. Wolfrun era forte. Lo era sempre stata. Sì, forte e anche pazza. I pazzi avevano paura? Quando abbassò lo sguardo capì di aver esagerato. Jakob diceva che Wolfrun era una persona solitaria e che, secondo lui, combatteva dei demoni dentro di sé da molto prima del virus. Chissà… “Scusami. Non avrei dovuto…” si scusò.
“Certo che ho avuto paura” ammise la mora e abbassò lo sguardo per pochissimo, prima di tornare a guardarla.

 

Wolfrun si sentì stranamente tranquilla. Iniziò a tagliare a piccoli pezzi le patate e a metterli in un grosso contenitore.
“Ho avuto spesso paura. Tutti hanno paura” disse.
Wolfrun aveva avuto paura quando Dorothea se n’era andata di casa. Poi quando era morta Chloe. O quando era caduta nel lago ghiacciato. Quando Andreas aveva rapito Anneke. E quando lui l’aveva lasciata cadere nel fiume, aveva sentito il cuore spezzarsi. Aveva avuto paura ancora per Anneke, quando era con i ricercatori, a Lemnos. Ancora adesso aveva paura che potesse succedere qualcosa di brutto ad Anneke. Che sensazione brutta. Christa e le altre dovevano aver avuto la sua stessa paura per Theo. La guardò.
“Avrete avuto paura anche voi, quando ho rapito Theo” sussurrò. Christa non batté ciglio. Se ne sorprese.
“Già. Ma siamo venuti a riprendercelo” disse la bionda. Wolfrun non disse niente e tornò a tagliare le patate.
“Il momento in cui ho avuto più paura è stato quando Andreas ha fatto cadere Anneke nell’Havel. È stato il momento più brutto di tutta la mia vita. Ho avuto paura di non riuscire a salvarla. Che lei potesse morire. Sogno ancora quel momento: io mi tuffo nell’acqua gelida e non riesco a prenderla. La cerco nell’acqua e non la trovo. A volte muoio annegata, a volte mi sveglio…” Wolfrun si fermò.
Non si era resa conto di aver parlato a briglia sciolta. Merda. Non avrebbe dovuto dirlo. Merda merda merda. Si voltò verso Christa, ma lei la stava guardando con un misto di comprensione e di pietà. Le piaceva di più quando era arrabbiata.
“Vado fuori. C’è troppo caldo qui.”

 

“Ehi, ma dove va?” disse Britta, che si era girata verso di loro. Christa sventolò una mano.
“Lasciala stare. Vieni qui ad aiutarmi con le patate, per favore, Britta” disse e la ragazza si avvicinò annuendo.
“Vuoi sentire una bella notizia?” le chiese, cercando di distrarla.
“Che notizia?” chiese Britta distrattamente continuando a guardare la porta da dove era uscita Wolfrun.

 

Wolfrun si avvicinò ai bambini e vide che i piccoli erano in cerchio ad ascoltare Sabine. Aveva bisogno di vedere Anneke. Dopo aver detto quelle cose, l’ansia le aveva preso il petto come quella volta.
La vide: Anneke stava bene. Rideva vicino a Ulrike, la bambina delle conchiglie. Fece un passo indietro. Non voleva che lei la vedesse quando si sentiva così, così… vulnerabile.
Fece altri passi verso i campi e questa volta fu lo stomaco ad attorcigliarsi, per un motivo diverso. Jakob, Louis e uno dei militari stavano aggiustando quello che sembrava un trattore (ma dove avevano preso un trattore?) solo che Jakob era senza maglietta. Beh, anche gli altri, adesso che guardava bene. Le si seccò la bocca.
Oh, su, vedeva Jakob in costume per quasi tutta l’estate! Ma era diverso. Dannazione se era diverso. E dannazione se Jakob era bello senza maglietta. Sospirò.
Doveva allontanarsi da lì. Subito. Si girò, decisa ad andarsene e fece qualche passo verso la strada. Via, via, via.

 

Jakob vide Wolfrun scappare via. Cos’era successo? Si rialzò quando ebbero finito di montare il cofano del trattore e Mike, il militare, riuscì a metterlo in moto. Lasciò lì Louis e il militare, afferrò la maglietta posata su una pila di mattoni e cercò di raggiungere la ragazza.
Quando girò intorno alla cucina, vide che Wolfrun stava parlando con il Maggiore Clarke. Istintivamente si nascose dietro la costruzione di un negozio ancora in disuso e si fermò ad ascoltarli.

 

“Dobbiamo parlare” disse il militare. Wolfrun aveva sbuffato quando il Maggiore l’aveva avvicinata mentre scappava via. Perché stava proprio scappando.
“Ti ho detto tutto ieri. Non so altro” disse, allargando le braccia. Lui sospirò e le prese un braccio. Lei lo scrollò. “Ascolta, non ti ho detto di credermi. Io ti ho solo raccontato quello che ho sentito. Quello che ci vuoi fare, è affare tuo”.
“Ma come faccio? Non è così semplice. Non posso andare lì e dire che…” iniziò, ma Wolfrun non lo lasciò finire “Se non mi credi, non ci sono problemi…”
“Non ho detto che non ti credo” disse lui, combattuto.
“Ma ti piacerebbe” disse lei. Lui annuì.
“Sì. Sono in una posizione difficile, così” ammise.
“Allora vai a Berlino Est. Vai dagli adulti. E dai sovietici. Oppure non andarci, vedi tu!” sbottò alla fine, lei.

 

Cosa dovevano fare? Perché Wolfrun parlava con il Maggiore come se fosse stato suo… fratello? Cercò di non pensare al fatto che sarebbe potuto essere un ‘fidanzato’ e si infilò la maglietta prima di uscire a farsi vedere.
“Che succede qui?” chiese verso i due.
Loro sobbalzarono come se fossero stati colti sul fatto. Oh. Non era un bene.

 

“Jakob!” esclamò Wolfrun, sorpresa. Ma Jakob non era in fondo ai campi vicino al trattore? Lo osservò avvicinarsi con uno sguardo strano. Cosa ci faceva lì? Era appena andata via dai campi per non vederlo!
Jakob guardava il Maggiore con sospetto e poi richiese: “Che succede qui?”
“Niente” rispose troppo velocemente Wolfrun. Tutti e due i ragazzi si girarono verso di lei.
“Niente?” chiese Clarke sospettoso. Sbuffò. Non aveva raccontato a nessun altro quello che aveva sentito la sera prima. Ora Jakob guardava stranito anche lei. Oh, che andassero al diavolo, tutti e due!
Con uno sguardo veloce individuò il suo zaino con l’arco e disse rivolta all’amico: “Questo posto è troppo affollato per me. Torno stasera. Guarda Anneke”.
Con passo deciso raggiunse lo zaino, lo passò su una spalla e se ne andò lungo la strada.

 

Wolfrun non si voltò indietro. Non lo faceva mai. Jakob sospirò e riportò l’attenzione sul militare.
“Cos’è successo?” gli chiese. Lui alzò le spalle. Poi gli fece una domanda strana: “Ci si può fidare di lei?”
Jakob non dovette neanche pensarci su e disse: “Io mi fido”.
Nonostante lei avesse sostenuto esattamente il contrario, la sera prima, quello che disse Jakob era vero. Lui si fidava. Sorrise a quel pensiero. Avrebbe voluto che anche lei si fidasse di lui. Sarebbe stato bello.
“Perché me lo chiedi?” domandò.
“Devo valutare una cosa che mi ha detto” disse lui un po’ vago.
“Che ti ha detto?” chiese. Di cosa stava parlando? Il militare lo prese da parte, tirandolo per un braccio, quando vide delle ragazze uscire dal locale cucina.
“Ieri sera è venuta al Reichstag. Ha sentito una conversazione interessante…” iniziò il militare.
“Jakob!” Si girò verso Britta che lo chiamava, infastidito dal fatto che stava interrompendo un discorso importante.
“Non ora Britta” esclamò, alzando la voce perché lei era un po’ lontana e la guardò di sfuggita, prima di riportare l’attenzione su Clarke. “Cosa è successo ieri sera?”
Wolfrun era stata al Reichstag fino alle tre del mattino? A fare cosa? Con chi, poi? Un masso gigante si posò sul suo petto e spinse per soffocarlo. No. No. Non doveva permetterglielo.
“Lei ha sentito due persone che parlavano di un…” parlò ancora il Maggiore.
“Jakob dov’è Louis?” Ora Britta si era avvicinata troppo e il Maggiore si era interrotto. Si rigirò verso di lei e notò anche Christa. La salutò con un cenno del capo.
“Louis è vicino al trattore, con Mike” le rispose e indicò distrattamente la direzione con la mano, ma dovette prestare più attenzione quando Christa disse: “No, non c’è”. Uffa.
Guardò meglio ed effettivamente, il militare era riuscito a mettere in moto il trattorino e stava facendo il giro dei campi per raggiungere Timo che urlava contento in direzione di Mike, ma di Louis, nessuna traccia. Guardò meglio intorno. Non c’era davvero. Aveva detto che se ne sarebbe andato? Non si ricordava… Alzò le spalle.
“Sarà andato a pesca o a caccia” disse. Voleva liquidare le ragazze e tornare a parlare con Clarke.
Ma il militare chiese a Christa di Nora e non riuscì più a scoprire cosa avesse fatto Wolfrun la sera prima.

 

***

 

Tegel era esattamente come la ricordava, solo che la pista di atterraggio era stata ripulita. Forse la utilizzavano i militari quando arrivavano e partivano da Berlino.
Si avvicinò alla porta principale, quella da dove era scappata con Anneke in sella a Ziggy. Guardò all’interno. Era quasi come prima. Camminò lungo il corridoio per avvicinarsi al salottino della Pan Am.
Quando entrò vide che tutto era rimasto come l’ultima volta che era stata lì, solo molto più impolverato. Probabilmente i militari non utilizzavano i locali interni.
Passò una mano sul divanetto. Il ricordo di lei e Anneke che guardavano le stelle poco prima di abbandonare Tegel la fece sorridere. Camminò un po’ lungo i corridoi e gli altri salottini, finché non arrivò, quasi inconsapevolmente, alla stanza occupata da Chloe. Sospirò davanti alla porta.
Appoggiò la mano alla maniglia e aspettò un attimo prima di aprirla: pensò a Chloe. E a Caspar. Fondamentalmente anche Caspar era qualcosa di simile a un amico. Come Jakob. No. Cavolo, Jakob non era un amico per lei. Proprio no. Non aveva mai desiderato baciare Caspar. Né accarezzarlo come aveva fatto con Jakob. Non aveva mai avuto pensieri di quel genere per nessun altro. Solo Jakob. Che fregatura.
Per scacciare il pensiero di Jakob, girò la maniglia, ma la porta non si aprì. Oh. Si ricordò di averla chiusa a chiave lei stessa. Ma… dov’era la chiave? Non si ricordava. Si guardò intorno, in cerca di ispirazione, ma non ne aveva la più pallida idea. Allungò una mano a lato dello zaino e prese il coltello.
Appoggiò lo zaino per terra ed infilò la lama vicino alla maniglia, fra l’anta e lo stipite, per vedere se la serratura avrebbe potuto cedere: no. Probabilmente era arrugginita. Provò a far leva con un po’ più di forza. Niente. Oh, merda. Provò a far leva spingendo la porta con la spalla. Niente. Mmm che nervoso. Diede una spallata alla porta solo per non essere riuscita ad aprirla. Logicamente questa non si aprì e lei si fece male alla spalla. Oh, al diavolo! Si arrabbiò e diede un calcio con la pianta del piede proprio nel centro della porta: la struttura cedette e lei inciampò quando la porta si ruppe e le imprigionò la gamba. Gridò per il dolore. Per fortuna aveva i jeans e non si fece troppo male. Faticò un po’ per togliere il piede da quella trappola e quando ci riuscì, il buco che si era formato era abbastanza grande per vedere dentro. Con lo stesso piede continuò a fracassare l’anta finché non riuscì ad avere uno spazio abbastanza grande da passarci.
Prese lo zaino, si accucciò ed entrò nella stanza di Chloe. L’odore era forte. Si avvicinò alla finestra e l’aprì. Prima del virus doveva essere un ufficio, pensò. Non si ricordava cosa ci fosse lì, prima di Chloe. Per terra, il materasso dove aveva dormito lei. Lei con gli altri, pensò con una smorfia. Notò le macchie marroni e tolse lo sguardo. Si guardò intorno. Non c’era molto altro. Quello che poteva servire lo avevano portato fuori appena la pira si era raffreddata.
Uscì dalla stanza e dal terminal dopo un po’. Avrebbe potuto portare Anneke. Fra qualche giorno, però.

 

Fuori da Tegel girovagò un po’, incontrò qualcuno ma nessuno la infastidì. Si avvicinò al bosco. Al bosco vicino ad Atlantis. Si disse che voleva cacciare qualche lepre da portare agli altri, ma in verità lo fece solo per avvicinarsi all’isolotto: voleva vedere che effetto le avrebbe fatto.
Si incamminò, ma dopo un po’ ebbe quasi paura di essersi persa. Non si ricordava benissimo come fosse il bosco. Si guardò un po’ intorno e a un tratto si accucciò quando sentì dei rumori. Vide passare una ragazza bionda. Imprecò mentalmente. Britta! Dove stava andando? Cosa ci faceva lì, dall’altra parte della città? Guardò il sole: era pomeriggio. Beh, aveva avuto tutto il tempo di preparare il pranzo e mangiare, prima di venire nel bosco. Sospirò e la seguì senza farsi notare. Quando sentì un grido corse verso la direzione presa dalla bionda e si nascose dietro a un albero quando capì che non era da sola.
Appoggiò la schiena al tronco e si impose di respirare con calma. Doveva mantenere il sangue freddo e non c’era più abituata. Si affacciò e vide il ragazzo del Reichstag tenerla ferma per un braccio. Dannazione. Quel tipo era forte. Lei non ce l’avrebbe fatta da sola.
Valutò le opzioni. Non poteva fare niente con il coltello. Era troppo lontano. Si sfilò lo zaino senza far rumore e prese velocemente l’arco e due frecce. Poi riportò lo zaino sulle spalle e posizionò la freccia prima di sporgersi oltre l’albero. Spostò la testa appena appena. Non si accorsero di lei. Il tipo del Reichstag, (Roberto, giusto?) teneva Britta per un braccio mentre lei cercava di divincolarsi. Guardò bene. Nessuno dietro di loro. Poteva coglierli di sorpresa.

 

Britta non riusciva a liberarsi dalla presa di Roberto.
Era andata nel bosco in cerca di Louis perché avevano detto che poteva essere a caccia. L’aveva cercato dappertutto. Non aveva neanche mangiato. E non l’aveva trovato. Il bosco dei lupi, come lo chiamava Christa, era l’ultimo posto. Ma si era imbattuta in Roberto. Che aveva uno sguardo lascivo e una presa troppo forte per lei.
Aveva cercato di dargli un calcio e di distrarlo per scappare ma lui era dannatamente muscoloso e lei non riusciva a fargli mollare il polso. Quando riuscì ad afferrarle anche l’altra mano, si bloccò dalla paura per un attimo. Poi iniziò a strattonare forte per liberarsi. Ma la sua presa era fortissima. Si fermò per un momento senza fiato e lo sentì sghignazzare.
“Oh, tesoro. Ti sei già stancata?” fece appena in tempo a finire la frase che Britta vide qualcosa passargli così vicino alla testa solo perché il fischio che fece fu acutissimo. Lui si spaventò e la lasciò andare.
Non se lo fece ripetere due volte: corse via, fuori dalla sua portata. Lui si voltò verso la direzione dove era caduta la freccia. E poi dall’altra parte quando capì cosa fosse. Il suo viso si fece terreo. Guardò anche Britta. Wolfrun era in piedi, con l’arco tirato e un’altra freccia in posizione e gli disse: “Fermo lì. Ho una buona mira”. Lui alzò le mani e guardò verso Britta di sfuggita, sorridendole come prima.
“Vattene principessa”, Wolfrun si stava rivolgendo proprio a lei, Britta lo capì da come disse ‘principessa’. L’aveva vista che era ferma lì, senza neanche doversi girare. Poteva andare a chiedere aiuto. Ci avrebbe messo un po’ forse, ma lo avrebbe fatto. Si girò e corse a perdifiato fuori dal bosco.

 

Quando Britta scappò via, Wolfrun fu sollevata. Era meglio non dover stare attenti anche a lei. Quel tipo era pericoloso di suo. Puntò meglio l’arco e quando lui fece un passo avanti sorridendo gli intimò di fermarsi.
“Sicuro di voler provare il sapore delle mie frecce?” gli chiese. Roberto scosse le spalle, ancora sorridente.
“Allora cosa vuoi? Lei è già scappata… Vuoi farmi compagnia tu?” chiese, indicando con il capo il punto in cui era sparita Britta e alzando un sopracciglio con un brutto sguardo.
“Voglio sapere con chi parlavi ieri sera” disse seria Wolfrun.
Lui si fece serio e si bloccò. Bene. Poi Roberto guardò alle spalle della ragazza. Che trucco idiota. L’aveva usato anche lei un sacco di volte. Era pronta a non farsi distrarre, ma sentì davvero dei rumori alle sue spalle.
“Che succede qui?” chiese una voce dietro di lei. Voltò la testa appena appena e vide i ragazzi lupo, quelli che l’avevano tirata fuori dal fiume con Anneke tre anni prima. Con loro c’erano i ragazzi di Tegel: Barth, Jorg e Gotz. Che intenzioni avevano? Ce l’avevano ancora con lei? Il suo braccio vibrò e qualcosa la colpì alla testa, facendole cadere l’arma. Poco dopo sentì un male infernale a una gamba e capì, prima di perdere i sensi, che il fruscio dell’erba era causato dal ragazzo del Reichstag che stava scappando.

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Capitolo 11
*** Anche Wolfrun ha un segreto ***


anche wolfrun ha un segreto

Anche Wolfrun ha un segreto

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Era quasi sera e Jakob iniziava a preoccuparsi.
Wolfrun non era mai stata via così a lungo da sola. Ok che era a Berlino e la conosceva bene, ma lui non riusciva a togliersi quel pensiero. E l’ultima volta che aveva avuto quella sensazione, lei era svenuta. Mmm. Louis, che era al suo fianco, dovette capire quanto fosse preoccupato perché non lo prese in giro. Gliene fu grato.
Prima di venire via dai campi aveva chiesto anche agli altri se qualcuno l’avesse vista, ma nessuno gli aveva dato buone notizie. Anneke, per fortuna, non si era ancora accorta della sua assenza.
Quando Louis disse che sarebbe andato a chiedere in giro, fermò una ragazzina che passava di lì e le chiese se avesse visto Wolfrun. Lei gli rispose di sì. Oh. Si fece più attento e le domandò dove fosse.
“Era a Tegel…” disse ancora lei. Jakob la ringraziò e fece per mettersi a correre, quando lei alzò un po’ la voce per raggiungerlo e gli disse: “Ma è stato un po’ di tempo fa. È già andata via”.
Oh. Dannazione. “E dove?”
Lei alzò le spalle. Ok. La ringraziò lo stesso e lei se ne andò.
“Chi è che è andata via?” chiese qualcuno alle sue spalle. Si girò verso Nora e Christa che si erano avvicinate a loro.
Sospirò e rispose: “Wolfrun. Non è ancora tornata…”
“Non c’era a pranzo” constatò Christa.
“No” disse Jakob e scosse la testa. “Se n’è andata prima. Penso fosse un po’… nervosa”. Non voleva raccontare del Maggiore.

 

Oh. Christa si preoccupò. Wolfrun se n’era andata per quello che si erano dette? Sperò di sbagliarsi.
“L’hai cercata?” chiese a Jakob, ma lui scosse le spalle.
“Potrebbe essere ovunque. Ho solo chiesto in giro. Quella ragazza diceva che l’aveva vista a Tegel, ma poi se n’è andata via” rispose, indicando la ragazzina. Mmm Christa cercò di pensare con coerenza. Magari era successo qualcosa a Tegel.
Stava ancora pensando quando Nora disse: “Manca anche Britta”. Lei e Jakob si girarono verso la ragazza.
“Oh. Dici che sono insieme?” chiese Jakob. Lei scosse le spalle.
“Non saprei. Dici che…” Nora non finì la frase che William, il militare che le piaceva, si avvicinò chiamandola a gran voce.

 

Oh, bene. Finalmente il Maggiore si rifaceva vedere. Jakob sospirò.
“Maggiore…” lo chiamò, ma lui lo interruppe.
“Ho bisogno di parlarvi. A tutti e tre” dichiarò, con voce bassa. Oh. Fece loro cenno ed entrarono nella cucina dove avevano preparato il pranzo.
“Allora, la ragazza…” iniziò, guardando Jakob.
“Wolfrun” lo corresse lui. Il Maggiore annuì.
“Quanto ci si può fidare di lei?” chiese ancora. Jakob sbuffò. Era stato via tutto il giorno e tornava adesso a far domande come se si fossero interrotti dieci minuti prima?

 

Nora alzò un sopracciglio.
“Che vuoi sapere, William?” gli chiese.
“Quello che ho chiesto. Ho bisogno di sapere se può avermi raccontato delle balle. Voi vi fidate di lei?” rispose lui e guardò Christa e Nora. Loro non la conoscevano. Guardò Jakob che sembrava un po’ scocciato.
“Io ho già risposto a questa domanda. Io mi fido” disse, con tono duro e alzando i palmi delle mani. Christa alzò una spalla.
“Non saprei. Noi la conoscevamo prima. E prima non è che fosse…” spiegò.
“Era pazza” concluse per lei William. Nora sospirò. Era pazza, ma aveva saputo fare le scelte giuste. Beh, il più delle volte.

 

Jakob si agitò. “Non era pazza neanche prima” proclamò.
Le ragazze lo guardarono con un misto di compassione e tenerezza. Come si fa con i bambini quando viene loro detto che Babbo Natale non esiste. Sbuffò. Che andassero al diavolo. Si innervosì e si guardò intorno: due delle ragazze di Tegel stavano passando davanti alla cucina e Jakob le chiamò dentro.
Gli altri lo guardarono straniti. Effettivamente si chiese anche lui perché lo avesse fatto, ma poi guardò una delle ragazze, e le chiese come si chiamasse: Paula. Era moretta, doveva essere di poco più piccola di lui, mentre l’altra era rossa e un po’ più giovane.
“Com’era Wolfrun quando eravate a Tegel?” chiese.
“Era pazza” rispose quella a fianco a lei. Dannazione. La osservò velocemente e tornò a guardare quella più vicino a lui.
“Caspar diceva che non era pazza e che ci si poteva fidare di lei” dichiarò seriamente Paula.
Jakob sentì una mazzata allo stomaco. Caspar? Caspar poteva essere per Wolfrun… Ok. Non era il momento. Caspar poteva andare bene: lui era amico di Wolfrun.
“Beh, tu avevi un debole per Caspar…”disse la prima ragazza voltandosi verso la seconda che disse: “Però aveva ragione: era Claudia quella pazza, non Wolfrun”. L’altra sbuffò.
“Ok, è vero. Era più pazza Claudia. Però quando è morta Chloe, Wolfrun era veramente fuori di testa” disse, un po’ sprezzante.
Beh, anche Jakob un po’ si era sentito scombussolato quando era morto Sven. Un po’ forse quello era comprensibile. Lanciò un’occhiata a Christa e Nora per vedere la loro reazione.
“Beh, lo saresti stata anche tu se avessi trovato il corpo di Chloe in quello stato!” esclamò Paula.
“Ma se l’ha uccisa lei!” gridò l’altra.
“COSA?” Jakob sentì Christa e Nora gridare insieme a lui. Si voltò di nuovo verso le ragazze.
“Non dire idiozie, stupida. Non è stata lei” disse Paula.
“Non dirmi che sono stupida. Stupida!” Le ragazze si misero le mani addosso e lui e il Maggiore intervennero per dividerle.

 

Christa fece un passo avanti e chiese alla mora: “Chloe non è stata uccisa dal virus?”
La ragazza scosse il capo, negando. Oh, santo cielo!
“Durante una Festa della Morte?” Christa sentì Nora chiedere. Lei scosse ancora il capo.
“È stata Wolfrun, a ucciderla. Quando è uscita dalla saletta, era sporca di sangue” disse ancora la rossa. L’altra la guardò così male che la piccoletta abbassò gli occhi. Ma cos’era successo?
“Com’è andata?” chiese quindi in tono basso Christa, verso la ragazza più alta.
“Caspar mi aveva detto di non dirlo a nessuno...” La moretta ora era a disagio. Christa si voltò verso Jakob che aveva spalancato la bocca.
“È stato tanto tempo fa. Forse adesso non c’è più bisogno di mantenere il segreto” disse Nora, con dolcezza. Lei era brava a convincere le persone, ma la ragazza era ancora titubante.
“Non uscirà da questa stanza, vero ragazzi?” disse allora Christa cercando conferma intorno. Il Maggiore e Jakob annuirono con il capo. La ragazza sospirò e guardò di nuovo la rossa, prima di girarsi verso di loro e spiegare: “Chloe ha avuto paura. Quando siete venuti a riprendervi Theo e Sven è morto nel parcheggio…” si fermò un attimo e poi riprese “È stato strano. Chloe non è più stata la stessa. Ha iniziato a dire cose strane e non ha più organizzato Feste della Morte. Si è rintanata nella saletta e non è quasi più uscita. Andavano da lei solo Wolfrun e Caspar. E il giorno che è morta…” fece un’altra pausa. “Alcuni di noi hanno visto Wolfrun uscire dalla saletta sporca di sangue. Lei ci ha guardato ma non ci ha detto niente”.
La rossa sbuffò rumorosamente e disse: “Beh, non ci rivolgeva mai la parola, se non era necessario”.
La ragazza più grande continuò, ignorandola: “Quando è uscito Caspar, ci ha informato che Chloe era morta per colpa del virus. Ma non ci ha mai guardato, mentre lo diceva…” Li guardò tutti negli occhi. “Dopo tre giorni Caspar ha raccontato a quattro di noi, quelli di cui si fidava di più…” Si voltò verso la rossa e la incenerì con lo sguardo “Che Chloe si era uccisa. Hanno trovato il coltello. Si è… tagliata le vene”.

 

Jakob emise un verso strozzato. Le ragazze lo guadarono. No. Scosse la testa alla loro muta domanda, lui non lo sapeva.
“Noi… pensavamo che fosse stato il virus…” disse Nora. Paula la guardò negli occhi.
“Wolfrun non ha voluto che si sapesse. Non voleva che tutti sapessero del gesto di Chloe. Così ha detto in giro che era stato il virus. Probabilmente non mancava tanto” il suo tono si abbassò un po’. “Ha anche bruciato il biglietto che ha lasciato…”
“Ha lasciato un biglietto?” chiese Nora con dolcezza, accarezzando la schiena alla ragazza e lei annuì alzando una spalla.
“Ma io so solo quello che mi ha detto Caspar…”
Poi Jakob ripensò alle sue parole e chiese: “Avrà perso tanto sangue, come avete fatto a non vederlo quando avete fatto la pira?”
“Lei ha pulito tutto. Ha lavato il corpo di Chloe e…” continuò.
“Per quello era sporca di sangue!” intervenne la piccola rossa, come scossa da un’idea improvvisa.
Già. Poteva essere quello, pensò Jakob. La ragazza annuì ancora e continuò: “Poi è andata nel fiume a lavarsi. Caspar l’ha seguita e…”
“L’ha spiata?” La voce di Christa era sorpresa, ma non troppo.
“Lei… prima di entrare nell’acqua…” continuò, ignorando la bionda.
Jakob la interruppe: “Ha ballato? Prima di entrare nell’acqua?”
Tutti lo guardarono straniti dalla sua domanda, ma lui continuò a guardare Paula. Lei scosse la testa confusa.
“Non lo so. Avrebbe dovuto? Caspar mi ha raccontato che ha urlato e pianto. Urlava che era stata abbandonata e ce l’aveva con Chloe. E anche un’altra persona. Ma non mi ricordo, adesso… diceva un nome, un nome…”
Dorothea. Doveva essere Dorothea. Jakob si passò una mano fra i capelli. Perché lui non lo sapeva? Perché lei non glielo aveva mai detto?

 

“Beh, diciamo che se è diventata pazza, qualche motivo plausibile l’aveva” disse Nora e guardò William.
“Sarà stata pazza, ma ci si poteva fidare anche allora. Tenere un segreto così grande non è da tutti” disse William esprimendo il suo stesso pensiero.
“Deve aver pensato di aver perso il controllo. Si deve essere spaventata. Per quello voleva conquistare Berlino. Ne aveva bisogno, come se così avesse ripreso in mano la situazione…” Christa parlava da sola, un po’ pensierosa. Nora non capì molto bene quello che intendesse, ma William guardò anche lei e sospirò.
“Ok. Ho capito grazie, potete andare” disse alle ragazzine con un cenno del capo il Maggiore.
Paula annuì e trascinò fuori dalla cucina l’amica.

 

“Puoi spiegarci cos’è successo ieri sera? Perché Wolfrun è venuta da te?” chiese Jakob al militare.
Ora era instabile. Aveva bisogno di sapere e aveva bisogno di trovare Wolfrun. Doveva assicurarsi che stesse bene. Come se lei potesse essere scombussolata come lui. Come se, il fatto di aver scoperto una cosa del genere, la rendesse in pericolo. Nora si girò verso il Maggiore e gli chiese: “Wolfrun è venuta da te?”
Lui annuì e a Jakob venne l’impressione che diventasse rosso sulle guance. In imbarazzo? Un militare? Guardò Nora e le vide l’espressione severa che le aveva visto quando aveva spiegato ai bambini come non si giocava con il cibo. Mah… C’era qualcosa fra Nora e il Maggiore? Davvero? Oh, problemi loro, in quel momento doveva pensare a Wolfrun.
“Quindi?” sentì Nora insistere.
“Sì, ieri sera è venuta all’accampamento a dirmi che aveva visto uno dei miei uomini parlare con il ragazzo del Reichstag” ammise.
“Chi?” chiese Jakob.
“Penso che intenda Roberto” disse Christa. Oh. Roberto. Giusto. Roberto del Reichstag. Il Maggiore annuì.
“Ha detto di essersi avvicinata per ascoltare meglio, ma non è riuscita vedere il tipo con la nostra divisa. Però…”
“Però?” incalzò Nora.
“Però ha ascoltato quello che si stavano dicendo. Ha detto che volevano attaccare gli adulti, a Berlino est” disse ancora.
“Cosa?” Christa aveva quasi gridato.
“E per far cosa?” Il militare sembrava soppesare le parole di Jakob.
“Per creare scompiglio. Per farci litigare fra di noi. Noi con i sovietici. E voi con gli adulti di Berlino Est” spiegò ancora.
“Ma per quale motivo?” domandò Nora. Ora lui sembrava in imbarazzo. Di nuovo.

 

“Lei non lo sapeva” ammise. Nora, che aveva imparato a conoscere William, corrugò la fronte.
“Ma tu lo sai, giusto?” Lui sospirò e annuì.
“Penso di sì” sussurrò.Tutti aspettarono che continuasse. Ma lui non lo fece. “Quindi?” Nora aveva messo le mani sui fianchi e si sentiva nervosa.
“A fine agosto torniamo a casa. Ho sentito dire a parecchi dei miei che avrebbero preferito rimanere ancora. Se… scoppiasse del trambusto con i sovietici… il rimpatrio slitterebbe di sicuro…”
A Nora caddero le braccia lungo i fianchi. Tornare a casa? William? William sarebbe tornato a casa? Oh mamma mia. No. No.
“C..come?” balbettò “Andate a… casa? In America?” Lui la guardò con la coda dell’occhio e annuì con il capo.

 

Christa vide Nora sbiancare. No, Nora no. Non era il momento adatto. Le mise una mano su un braccio e le sorrise, sperando che per il momento potesse bastare. Poi si voltò di nuovo verso William.
“Dobbiamo trovare Roberto” disse.
“Dobbiamo trovare Wolfrun!” Jakob alzò la voce. Lei lo guardò inclinando un po’ la testa. Lui era spaventato. Era preoccupato per Wolfrun? Davvero? In quella maniera? Sorrise. Non doveva aiutare proprio nessuno, aveva ragione, la mora. Jakob si passò nervosamente una mano fra i capelli e si agitò un po’. Ok.
“Andiamo a cercarla, allora. E tu, cerchi Roberto” disse a William. Lui annuì.
Christa si voltò verso Nora che non aveva più detto una parola. Le andò vicino.

 

Mentre il Maggiore annuiva Jakob si sentì la voce di Britta che li chiamava. Uscirono dalla cucina tutti e quattro e videro la ragazza arrivare di corsa. Si fermò trafelata e si piegò sulle ginocchia.
Jakob sentì Christa che le chiedeva, mentre si avvicinava a lei: “Britta che succede? Stai bene?” Lei annuì, troppo affannata per parlare.
“È successo…” iniziò, poco dopo. Nora le si avvicinò, parlandole dolcemente: “Calmati. Adesso siediti e respira”. Ma Britta scosse la testa, provando ancora a parlare.
“Il bosco…” Ma si fermò ancora. “C’è stato…” Britta sembrava senza fiato. Si allungò verso uno sgabello lì vicino e ci si fece cadere pesantemente.
“Wolfrun…” Cosa? Lei sapeva dov’era Wolfrun? Jakob si avvicinò e la scosse per le spalle.
“Sai dov’è Wolfrun?” le chiese e lei annuì mentre lui la scuoteva.

 

Nora si avvicinò a Jakob prima che la testa di Britta dondolasse troppo sul collo e le si staccasse. Lo spostò con una mano e le disse: “Respira”. Quando riuscì a calmarla le chiese ancora: “Dov’è Wolfrun?”
“Nel bosco dei lupi” rispose la bionda.
“Dove?” Nora sentì Jakob alzare la voce. Quando capì che stava per andare là anche lui, gli bloccò un braccio.
“Aspetta” gli disse. Lui la guardò stranito, ma rimase fermo.
“Eri con lei? L’hai vista?” chiese Christa alla bionda.
“Sì. Beh, non ero con lei. Io ero andata lì per…” Britta si interruppe e guardò di sottecchi Jakob.

 

Cosa aveva da guardare Britta? “Cosa c’è?” le chiese.
“Hai detto che Louis era lì a caccia” disse lei, in tono accusatorio. Lui aveva detto così? Ma stava bene?
“Io l’ho detto? Ma sei sicura?” le domandò ancora. Lei annuì. ”Scusa. Non mi ricordo. E poi Louis era qui poco fa” disse.
Britta arricciò nervosa le labbra.
“Beh, comunque sono andata nel bosco e ho visto Roberto” raccontò.
“Chi?” chiesero le due ragazze insieme.
Il Maggiore si avvicinò. Anche lui cercava Roberto.
“Roberto. Il ragazzo che…” iniziò Britta un po’ cofusa.
“Sì, sì vai avanti” la spronò Jakob. Quanto ci voleva a parlare?
“Lui ha cercato di… sì… non voleva lasciarmi andare via, mi ha preso per un braccio e io mi sono spaventata…” disse un po’ imbarazzata.

 

“CHI È STATO?” gridò una voce accanto a loro: Louis era arrivato in quel momento e aveva sentito solo l’ultima frase di Britta. Non l’aveva vista per tutto il pomeriggio. E ora lei diceva di essere stata nel bosco… nel bosco con un altro. Che l’aveva spaventata. Sentì un formicolio alle mani salirgli lungo le braccia e prendergli le spalle. Quando Britta voltò il viso verso di lui, aveva lo sguardo spaventato. Da lui.
“Roberto. Sta parlando di Roberto” disse Christa.
Non si girò neanche verso di lei. Continuò a guardare la ragazza bionda seduta. Che ricambiava il suo sguardo.

 

Ok. Su, basta. Jakob sbuffò infastidito.
“Allora?” chiese con tono sostenuto. Britta si voltò verso di lui e si scosse.
“Giusto. Sì. Lui non mi lasciava andare e Wolfrun ha scagliato una freccia vicino alla sua testa, così lui si è distratto e sono scappata. Quando mi sono voltata l’ultima volta, lei aveva ricaricato l’arco e lo puntava su Roberto” spiegò.
“E tu sei scappata?” le chiese Jakob e lei annuì.
“Mi ha detto lei di andarmene. Ho pensato di venire a chiamarvi per chiedere aiuto…” disse a bassa voce, come se si rendesse conto solo in quel momento di aver lasciato sola Wolfrun.
Jakob aveva sentito abbastanza. “Ok, vado da lei” disse.
“Andiamo tutti” disse William. Quando Christa annuì Britta le disse: “Tu no, Christa”. Jakob si voltò verso di loro.

 

Perché Britta non voleva che Christa andasse con loro? Jakob non lo capiva, ma capiva poco in quel momento. Con Wolfrun nei guai, faceva fatica a pensare ad altro.
“Certo che vengo con voi” disse Christa.
“No, no” rispose Britta che agitava la testa convinta. “Roberto è pericoloso e non è il caso che tu…” si interruppe e guardò verso i ragazzi.
“Andate voi. Io e Christa andiamo dai bambini. Ok?” Nora guardò Christa con uno sguardo severo da maestra cattiva. Se lo avesse detto a lui, Jakob avrebbe faticato a insistere per andare nel bosco…

 

Christa capì che non poteva farci niente. Annuì e non disse altro. Poi Nora si voltò verso William.
“Forse tu dovresti tornare al Reichstag. Comunicare con i tuoi superiori o quello che fai di solito. E guardarti bene le spalle.”
Nora era offesa. E ferita. Qualcosa diceva a Christa che lei non sapesse del rimpatrio dei militari.
Si voltò verso gli altri tre e, con una scusa, li portò un po’ più lontano per permettere a William e Nora di chiarirsi. Poi capì che anche Britta e Louis avrebbero dovuto parlare. Sbuffò e guardò Jakob. Lui guardava verso la strada: voleva andare da Wolfrun.
“Dobbiamo dirlo a Timo. Vieni con me?” gli chiese. Lui scosse il capo.
“Noi andiamo adesso” spiegò lui.
“Loro dovrebbero prima parlarsi” disse, indicando Louis e Britta che si studiavano in silenzio pochi passi più in là.
“Lo faranno mentre camminiamo. È un bel pezzo” disse ancora Jakob, spazientito.
Oh. Ok. Voleva andare da Wolfrun. Giusto, giusto.
“Posso allora dirti solo una cosa?” gli chiese. Lui la guardò corrugando la fronte.
Annuì e poi disse: “Puoi fare presto però?”
Oh. Ok. Voleva dirgli che era incinta. Le sembrava giusto dirglielo lei. Ma lui sembrava così… distratto. Forse non era il momento.

 

Jakob guardò di nuovo Christa. Si stava innervosendo. Avevano un bel po’ di cammino fino al bosco dei lupi e lui voleva subito mettersi in marcia. Voleva trovare Wolfrun e assicurarsi che stesse bene. Diavolo, lei neanche voleva venire a Berlino!
“Allora?” Christa si riprese come da un sogno a occhi aperti e sorrise.
“No, vabbè, non è niente di importante. Io volevo solo farti sapere… sì…” iniziò, un po’ confusa. Oh, ma cosa aveva?
“Christa, scusami, non vorrei sembrarti maleducato, ma…” disse Jakob.
“Sì, sì hai ragione. Volevo solo dirti che io e Timo diventiamo genitori e…” spiegò la bionda, ma lui non seguì più il discorso di Christa e spalancò la bocca.
“Sei… incinta?” chiese, stupefatto. Ma… davvero? Lei sorrise ancora e annuì. Si portò una mano al ventre e la seguì con lo sguardo.
“Già. Non volevo che lo sapessi da altri” disse alzando una spalla. Oh. Ok.
“Oh, sono felice per voi” quasi balbettò. Cosa si diceva in quelle occasioni?
“Davvero?” gli domandò e i suoi occhi si fecero indagatori. “Certo. Perché non dovrebbe essere così?” Avrebbe dovuto abbracciarla? Cosa doveva fare? Si sentiva un po’ impacciato. Lei sorrise ancora e annuì. Era sua amica. Si avvicinò e l’abbracciò.
“Davvero. Sono contento per voi. Ma non vi invidio per niente. Clara si è svegliata tutte le notti il primo anno di vita. L’avrei buttata in mare” dichiarò sorridendo. Lei rise e si staccò da lui.
“Vai a prenderla” gli disse e lo spinse appena. Capì che parlava di Wolfrun.
“Certo” rispose lui.
“Dovresti anche trovare la maniera per tenertela più stretta…”  Jakob sospirò.
“Non sai quanto ci ho provato” disse più a se stesso che a lei.
“Dovrai impegnarti di più. Non devi lasciartela scappare. Ora andate” ordinò e si girò verso gli altri spronò a partire anche loro.

 

***

 

Wolfrun aprì gli occhi, e anche la poca luce del tramonto le diede fastidio.
“Ti sei svegliata. Bene” disse l’unica ragazza dei fratelli lupo, che la guardava mentre attizzava il fuoco.
Cercò di parlare, ma le doleva ancora il capo e cercò di mettersi seduta. Quando realizzò tutto quello che aveva intorno, riuscì a parlare.
“Ho perso i sensi” disse. Non era una domanda. Lo aveva capito.
“Già” rispose e annuì la ragazza.
“Per… molto tempo?” chiese. Che ore erano? Il sole non si vedeva più, ma c’era luce.
“Un po’. Ma mi preoccuperei più di quello che della botta in testa” disse, indicando la sua gamba.
All’altezza del suo polpaccio, i suoi jeans erano stati tagliati con un coltello non troppo affilato, notò, guardando l’orlo sfilacciato e un pezzo di stoffa era legato intorno alla gamba. Quando provò a muovere il piede sentì una fitta dolorosa e non lo agitò più.
“Che mi è successo?” chiese, mentre controllava ancora il movimento della gamba.
“Il ragazzo scuro, gli altri gli hanno dato un nome ma non lo ricordo, quando ti sei girata ti ha trafitto la gamba con la freccia e ti ha colpito alla testa con un masso. Ma era piccolo. Sei stata fortunata. Ti sto facendo un decotto di erbe, così che tu possa sentire meno dolore” spiegò la piccola selvaggia. Wolfrun annuì senza dire niente.
Fortunata? Aveva una gamba con quello che sembrava un principio di infezione e un trauma cranico. Già, fortunatissima, pensò ironica.
Forse si stava facendo prendere. Prima di andare a Lemnos e conoscere Lukas non sapeva neanche cosa fosse un trauma cranico. E quando viveva a Tegel avrebbe davvero pensato di essere stata fortunata.
Cercò di pensare alla Wolfrun di tre anni prima. Cosa avrebbe fatto? Non che ne andasse fiera, di quella Wolfrun. Ma non badò a quel pensiero. Era la Wolfrun di cui aveva bisogno in quel momento.
Cercò di alzarsi in piedi. Appoggiare il piede le faceva male, così appoggiò solo un po’ la punta e si appoggiò con la mano aperta al tronco di un albero.
“No, non alzarti. Dovresti…” disse la ragazza che si era alzata con lei.
“Non preoccuparti. Sto bene” le rispose Wolfrun. Si guardò intorno, ma fece fatica a orientarsi. “Sai indicarmi la direzione per tornare dagli altri? A Berlino centro?” chiese la ragazza la guardava ancora con la bocca aperta.
Stava per rifare la domanda quando arrivarono altri ragazzi.
“Ti sei svegliata, per fortuna” disse una voce preoccupata alle sue spalle. Si girò verso la voce e li vide: uno dei fratelli della ragazza e Gotz, di Tegel. Il ragazzo lupo più grande doveva avere la sua età o se non l’aveva mancava poco e intanto era più alto di lei.
“Sei arrabbiata?” chiese Gotz, parlando ancora mentre la guardava senza cattiveria e senza paura. La sua era una domanda tranquilla.
“Dovrei?” domandò la ragazza.
Lui alzò la spalla. “Ti abbiamo distratto e Roberto ti ha colpito. Non è stato bello da vedere. Non penso sia stato bello neanche da subire” ammise.
Già. Però Wolfrun non si sentiva arrabbiata. Davvero. Si sorprese della cosa. Un tempo se la sarebbe presa con chiunque per qualsiasi motivo. Scosse la testa.
Lui annuì serio e andò a sistemare la legna vicino al fuoco.
Aveva scambiato poche parole con loro subito dopo aver ripescato Anneke dall’acqua. Beh, dopo che loro avevano ripescato lei e Anneke dall’acqua. Le avevano raccontato di come Roberto e Claudia avessero ‘reclutato’ Tegel e di quello che Claudia aveva fatto a Caspar. Per quello sapeva di Claudia quando aveva parlato con Roberto ai campi.
Ma ora aveva bisogno di più informazioni. Più informazioni su Roberto. Così che il Maggiore Clarke non dovesse più dubitare delle sue parole. Si risedette un attimo vicino al fuoco a riposare la gamba e poi, dopo una mezz’oretta e il famoso decotto della ragazza, si alzò dicendo che tornava a Berlino centro. Loro la guardarono straniti.
“Non puoi andare via in queste condizioni” disse il ragazzo lupo. Lei scosse le spalle. “Devo tornare da Anneke. Non la vedo da stamattina” rispose. Non poteva non tornare da lei.

 

“Anneke sta bene” disse Jakob ad alta voce. Aveva parlato nel momento in cui erano arrivati, lui, Louis, Britta e i gemelli dei ragazzi lupo, vicino al fuoco. Wolfrun stava bene. Per fortuna. Zoppicava, ma stava bene.
Quando poi la ragazza si voltò verso di lui, sorrise ed esclamò: “Jakob!”, saltandogli al collo.
No. Jakob se l’era solo immaginato. Lei non lo fece. Non sorrise e non sembrava neanche felice di vederli.
Quello che disse fu: “Principessa, ce ne hai messo di tempo a cercare aiuto. Quell’idiota avrebbe potuto farmi fuori e accendere la pira, in tutto questo tempo!”
Oh. Wolfrun stava bene sì. Jakob sorrise.

Anche Wolfrun ha un segreto

 -

Era quasi sera e Jakob iniziava a preoccuparsi.
Wolfrun non era mai stata via così a lungo da sola. Va bene che era a Berlino e la conosceva bene, ma lui non riusciva a togliersi quel pensiero di preoccupazione. E l’ultima volta che aveva avuto quella sensazione, lei era svenuta. Mmm. Louis, che era al suo fianco, dovette capire quanto fosse preoccupato perché non lo prese in giro. Gliene fu grato.
Prima di venire via dai campi aveva chiesto anche agli altri se qualcuno l’avesse vista, ma nessuno gli aveva dato buone notizie. Anneke, per fortuna, non si era ancora accorta della sua assenza.
Quando Louis disse che sarebbe andato a chiedere in giro e sparì, fermò una ragazzina che passava di lì e le chiese se avesse visto Wolfrun. Lei gli rispose che l’aveva vista. Oh. Si fece più attento e le domandò dove l’avesse vista.
“Era a Tegel…” disse ancora lei. Jakob la ringraziò e fece per mettersi a correre, quando lei alzò un po’ la voce per raggiungerlo e gli disse: “Ma è stato un po’ di tempo fa. È già andata via”.
Oh. Dannazione. “E dove?”
Lei alzò le spalle. Ok. La ringraziò lo stesso e lei se ne andò.
“Chi è che è andata via?” chiese qualcuno alle sue spalle. Si girò verso Nora e Christa che si erano avvicinate.
Sospirò e rispose: “Wolfrun. Non è ancora tornata…”
“Non c’era a pranzo” constatò Christa.
“No” disse Jakob e scosse la testa. “Se n’è andata prima. Penso fosse un po’… nervosa”. Non voleva raccontare del Maggiore.

 

Oh. Christa si preoccupò. Wolfrun se n’era andata per quello che si erano dette? Sperò di sbagliarsi.
“L’hai cercata?” chiese a Jakob, ma lui scosse le spalle.
“Potrebbe essere ovunque. Ho solo chiesto in giro. Quella ragazza diceva che l’aveva vista a Tegel, ma poi se n’è andata via” rispose, indicando la ragazzina. Mmm. Christa cercò di pensare con coerenza. Magari era successo qualcosa a Tegel.
Stava ancora pensando quando Nora disse: “Manca anche Britta”. Lei e Jakob si girarono verso la ragazza.
“Oh. Dici che sono insieme?” chiese Jakob. Lei scosse le spalle.
“Non saprei. Dici che…” Nora non finì la frase che William, il militare che le piaceva, si avvicinò chiamandola a gran voce.

 

Oh, bene. Finalmente il Maggiore si rifaceva vedere. Jakob sospirò.
“Maggiore…” lo chiamò, ma lui lo interruppe.
“Ho bisogno di parlarvi. A tutti e tre” dichiarò, con voce bassa. Oh. Fece loro cenno ed entrarono nella cucina dove avevano preparato il pranzo.
“Allora, la ragazza…” iniziò, guardando Jakob.
“Wolfrun” lo corresse lui. Il Maggiore annuì.
“Quanto ci si può fidare di lei?” chiese ancora. Jakob sbuffò. Era stato via tutto il giorno e tornava adesso a far domande come se si fossero interrotti dieci minuti prima?

 

Nora alzò un sopracciglio.
“Che vuoi sapere, William?” gli chiese.
“Quello che ho chiesto. Ho bisogno di sapere se può avermi raccontato delle balle. Voi vi fidate di lei?” rispose lui e guardò Christa e Nora. Loro non la conoscevano. Guardò Jakob che sembrava un po’ scocciato.
“Io ho già risposto a questa domanda. Io mi fido” disse, con tono duro e alzando i palmi delle mani. Christa alzò una spalla.
“Non saprei. Noi la conoscevamo prima. E prima non è che fosse…” spiegò.
“Era pazza” concluse per lei William. Nora sospirò. Era pazza, ma aveva saputo fare le scelte giuste. Beh, alcune volte.

 

Jakob si agitò. “Non era pazza neanche prima” proclamò.
Le ragazze lo guardarono con un misto di compassione e tenerezza. Come si fa con i bambini quando viene loro detto che Babbo Natale non esiste. Sbuffò. Che andassero al diavolo. Si innervosì e si guardò intorno: due delle ragazze di Tegel stavano passando davanti alla cucina e Jakob le chiamò dentro.
Gli altri lo guardarono straniti. Effettivamente si chiese anche lui perché lo avesse fatto, ma poi guardò una delle ragazze, e le chiese come si chiamasse: Paula. Era moretta, doveva essere di poco più piccola di lui, mentre l’altra era rossa e un po’ più giovane.
“Com’era Wolfrun quando eravate a Tegel? Era una persona di cui ci si poteva fidare… Guerre a parte?” chiese. Gli altri lo guardarono un po’ stupiti. Jakob lo capiva. Ma qualcuno che aveva conosciuto bene Wolfrun doveva esserci. Almeno lo sperò.
“Era pazza” rispose quella a fianco a lei. Dannazione. La osservò velocemente e tornò a guardare quella più vicino a lui.
“Caspar diceva che non era pazza e che ci si poteva fidare di lei” dichiarò seriamente Paula.
Jakob sentì una mazzata allo stomaco. Caspar? Caspar poteva essere per Wolfrun… Ok. Non era il momento. Caspar poteva andare bene: lui era amico di Wolfrun.
“Beh, tu avevi un debole per Caspar…”disse la prima ragazza voltandosi verso Paula, che disse: “Però aveva ragione: era Claudia quella pazza, non Wolfrun”. L’altra sbuffò.
“Ok, è vero. Era più pazza Claudia. Però quando è morta Chloe, Wolfrun era veramente fuori di testa” disse, un po’ sprezzante.
Beh, anche Jakob un po’ si era sentito scombussolato quando era morto Sven. Un po’ forse quello era comprensibile. Lanciò un’occhiata a Christa e Nora per vedere la loro reazione.
“Beh, lo saresti stata anche tu se avessi trovato il corpo di Chloe in quello stato!” esclamò Paula.
“Ma se l’ha uccisa lei!” gridò l’altra.
“COSA?” Jakob sentì Christa e Nora gridare insieme a lui. Si voltò di nuovo verso le ragazze.
“Non dire idiozie, stupida. Non è stata lei” disse Paula.
“Non dirmi che sono stupida. Stupida!” Le ragazze si misero le mani addosso e lui e il Maggiore intervennero per dividerle.

 

Christa fece un passo avanti e chiese alla mora: “Chloe non è stata uccisa dal virus?”
La ragazza scosse il capo, negando. Oh, santo cielo!
“Durante una Festa della Morte?” Christa sentì Nora chiedere. Lei scosse ancora il capo.
“È stata Wolfrun, a ucciderla. Quando è uscita dalla saletta, era sporca di sangue” disse ancora la rossa. L’altra la guardò così male che la piccoletta abbassò gli occhi. Ma cos’era successo?
“Com’è andata?” chiese quindi in tono basso Christa, verso la ragazza più alta.
“Caspar mi aveva detto di non dirlo a nessuno...” La moretta ora era a disagio. Christa si voltò verso Jakob che aveva spalancato la bocca.
“È stato tanto tempo fa. Forse adesso non c’è più bisogno di mantenere il segreto” disse Nora, con dolcezza. Lei era brava a convincere le persone, ma la ragazza era ancora titubante.
“Per noi sarebbe importante saperlo… E poi non uscirà da questa stanza, vero ragazzi?” disse allora Christa cercando conferma intorno. Il Maggiore e Jakob annuirono con il capo. La ragazza sospirò e guardò di nuovo la rossa, prima di girarsi verso di loro e spiegare: “Chloe ha avuto paura. Quando siete venuti a riprendervi Theo e Sven è morto nel parcheggio…” si fermò un attimo e poi riprese: “È stato strano. Chloe non è più stata la stessa. Ha iniziato a dire cose senza senso e non ha più organizzato Feste della Morte. Si è rintanata nella saletta e non è quasi più uscita. Andavano da lei solo Wolfrun e Caspar. E il giorno che è morta…” fece un’altra pausa. “Alcuni di noi hanno visto Wolfrun uscire dalla saletta sporca di sangue. Lei ci ha guardato ma non ci ha detto niente”.
La rossa sbuffò rumorosamente e disse: “Beh, non ci rivolgeva mai la parola, se non era necessario”.
La ragazza più grande continuò, ignorandola: “Quando è uscito Caspar, ci ha informato che Chloe era morta per colpa del virus. Ma non ci ha mai guardato, mentre lo diceva…” Li guardò tutti negli occhi. “Dopo tre giorni Caspar ha raccontato a quattro di noi, quelli di cui si fidava di più…” Si voltò verso la rossa e la incenerì con lo sguardo. “Che Chloe si era uccisa. Hanno trovato il coltello. Si è… tagliata le vene”.

 

Jakob emise un verso strozzato. Le ragazze lo guadarono. No. Scosse la testa alla loro muta domanda, lui non lo sapeva.
“Noi… pensavamo che fosse stato il virus…” disse Nora. Paula la guardò negli occhi.
“Wolfrun non ha voluto che si sapesse. Non voleva che tutti sapessero del gesto di Chloe. Così ha detto in giro che era stato il virus. Probabilmente non mancava tanto” il suo tono si abbassò un po’. “Ha anche bruciato il biglietto che ha lasciato…”
“Ha lasciato un biglietto?” chiese Nora con dolcezza, accarezzando la schiena alla ragazza e lei annuì alzando una spalla.
“Ma io so solo quello che mi ha detto Caspar…”
Poi Jakob ripensò alle sue parole e chiese: “Avrà perso tanto sangue, come avete fatto a non vederlo quando avete fatto la pira?”
“Lei ha pulito tutto. Ha lavato il corpo di Chloe e…” continuò.
“Per quello era sporca di sangue!” intervenne la piccola rossa, come scossa da un’idea improvvisa.
Già. Poteva essere quello, pensò Jakob. La ragazza annuì ancora e continuò: “Poi è andata nel fiume a lavarsi. Caspar l’ha seguita e…”
“L’ha spiata?” La voce di Christa era sorpresa, ma non troppo.
“Lei… prima di entrare nell’acqua…” continuò, ignorando la bionda.
Jakob la interruppe: “Ha ballato? Prima di entrare nell’acqua?”
Tutti lo guardarono straniti dalla sua domanda, ma lui continuò a guardare Paula. Lei scosse la testa confusa.
“Non lo so. Avrebbe dovuto? Caspar mi ha raccontato che ha urlato e pianto. Urlava che era stata abbandonata e ce l’aveva con Chloe. E anche un’altra persona. Ma non mi ricordo, adesso… diceva un nome, un nome…”
Dorothea. Doveva essere Dorothea. Jakob si passò una mano fra i capelli. Perché lui non lo sapeva? Perché lei non glielo aveva mai detto?

 

“Beh, diciamo che se è diventata pazza, qualche motivo plausibile l’aveva” disse Nora e guardò William.
“Sarà stata pazza, ma ci si poteva fidare anche allora. Tenere un segreto così grande non è da tutti” disse William esprimendo il suo stesso pensiero.
“Deve aver pensato di aver perso il controllo. Si deve essere spaventata. Per quello voleva conquistare Berlino. Ne aveva bisogno, come se così avesse ripreso in mano la situazione…” Christa parlava da sola, un po’ pensierosa. Nora non capì molto bene quello che intendesse, ma William guardò anche lei e sospirò.
“Ok. Ho capito grazie, potete andare” disse alle ragazzine con un cenno del capo il Maggiore.
Paula annuì e trascinò fuori dalla cucina l’amica.

 

“Puoi spiegarci cos’è successo ieri sera? Perché Wolfrun è venuta da te?” chiese Jakob al militare.
Ora era instabile. Aveva bisogno di sapere e aveva bisogno di trovare Wolfrun. Doveva assicurarsi che stesse bene. Come se lei potesse essere scombussolata come lui. Come se, il fatto di aver scoperto una cosa del genere, la rendesse in pericolo. Nora si girò verso il Maggiore e gli chiese: “Wolfrun è venuta da te?”
Lui annuì e a Jakob venne l’impressione che diventasse rosso sulle guance. In imbarazzo? Un militare? Guardò Nora e le vide l’espressione severa che le aveva visto quando aveva spiegato ai bambini come non si giocava con il cibo. Mah… C’era qualcosa fra Nora e il Maggiore? Davvero? Oh, problemi loro, in quel momento doveva pensare a Wolfrun.
“Quindi?” sentì Nora insistere.
“Sì, ieri sera è venuta all’accampamento a dirmi che aveva visto uno dei miei uomini parlare con il ragazzo del Reichstag” ammise.
“Chi?” chiese Jakob.
“Penso che intenda Roberto” disse Christa. Oh. Roberto. Giusto. Roberto del Reichstag. Il Maggiore annuì.
“Ha detto di essersi avvicinata per ascoltare meglio, ma non è riuscita vedere il tipo con la nostra divisa. Però…”
“Però?” incalzò Nora.
“Però ha ascoltato quello che si stavano dicendo. Ha detto che volevano attaccare gli adulti, a Berlino est” disse ancora.
“Cosa?” Christa aveva quasi gridato.
“E per far cosa?” Il militare sembrava soppesare le parole di Jakob.
“Per creare scompiglio. Per farci litigare fra di noi. Noi con i sovietici. E voi con gli adulti di Berlino Est” spiegò ancora.
“Ma per quale motivo?” domandò Nora. Ora lui sembrava in imbarazzo. Di nuovo.

 

“Lei non lo sapeva” ammise. Nora, che aveva imparato a conoscere William, corrugò la fronte.
“Ma tu lo sai, giusto?” Lui sospirò e annuì.
“Penso di sì” sussurrò. Tutti aspettarono che continuasse. Ma lui non lo fece. “Quindi?” Nora aveva messo le mani sui fianchi e si sentiva nervosa.
“A fine agosto torniamo a casa. Ho sentito dire a parecchi dei miei che avrebbero preferito rimanere ancora. Qui… non c’è nessuna situazione di emergenza e la paga è buona. Se… scoppiasse del trambusto con i sovietici… il rimpatrio slitterebbe di sicuro…”
A Nora caddero le braccia lungo i fianchi. Tornare a casa? William? William sarebbe tornato a casa? Oh mamma mia. No. No.
“C... come?” balbettò “Andate a… casa? In America?” Lui la guardò con la coda dell’occhio e annuì con il capo.

 

Christa vide Nora sbiancare. No, Nora no. Non era il momento adatto. Le mise una mano su un braccio e le sorrise, sperando che per il momento potesse bastare. Poi si voltò di nuovo verso William.
“Dobbiamo trovare Roberto” disse.
“Dobbiamo trovare Wolfrun!” Jakob alzò la voce. Lei lo guardò inclinando un po’ la testa. Lui era spaventato. Era preoccupato per Wolfrun? Davvero? In quella maniera? Sorrise. Non doveva aiutare proprio nessuno, aveva ragione, la mora. Jakob si passò nervosamente una mano fra i capelli e si agitò un po’. Ok.
“Andiamo a cercarla, allora. E tu, cerchi Roberto” disse a William. Lui annuì.
Christa si voltò verso Nora che non aveva più detto una parola. Le andò vicino.

 

Mentre il Maggiore annuiva Jakob sentì la voce di Britta che li chiamava. Uscirono dalla cucina tutti e quattro e videro la ragazza arrivare di corsa. Si fermò trafelata e si piegò sulle ginocchia.
Jakob sentì Christa che le chiedeva, mentre si avvicinava a lei: “Britta che succede? Stai bene?” Lei annuì, troppo affannata per parlare.
“È successo…” iniziò, poco dopo. Nora le si avvicinò, parlandole dolcemente: “Calmati. Adesso siediti e respira”. Ma Britta scosse la testa, provando ancora a parlare.
“Il bosco…” Ma si fermò ancora. “C’è stato…” Britta sembrava senza fiato. Si allungò verso uno sgabello lì vicino e ci si fece cadere pesantemente.
“Wolfrun…” Cosa? Lei sapeva dov’era Wolfrun? Jakob si avvicinò e la scosse per le spalle.
“Sai dov’è Wolfrun?” le chiese e lei annuì mentre lui la scuoteva.

 

Nora si avvicinò a Jakob prima che la testa di Britta dondolasse troppo sul collo e le si staccasse. Lo spostò con una mano e le disse: “Respira”. Quando riuscì a calmarla le chiese ancora: “Dov’è Wolfrun?”
“Nel bosco dei lupi” rispose la bionda.
“Dove?” Nora sentì Jakob alzare la voce. Quando capì che stava per andare là anche lui, gli bloccò un braccio.
“Aspetta” gli disse. Lui la guardò stranito, ma rimase fermo.
“Eri con lei? L’hai vista?” chiese Christa alla bionda.
“Sì. Beh, non ero con lei. Io ero andata lì per…” Britta si interruppe e guardò di sottecchi Jakob.

 

Cosa aveva da guardare Britta? “Cosa c’è?” le chiese.
“Hai detto che Louis era lì a caccia” disse lei, in tono accusatorio. Lui aveva detto così? Ma stava bene?
“Io l’ho detto? Ma sei sicura?” le domandò ancora. Lei annuì. ”Scusa. Non mi ricordo. E poi Louis era qui poco fa” disse.
Britta arricciò nervosa le labbra.
“Beh, comunque sono andata nel bosco e ho visto Roberto” raccontò.
“Chi?” chiesero le due ragazze insieme.
Il Maggiore si avvicinò. Anche lui cercava Roberto.
“Roberto. Il ragazzo che…” iniziò Britta un po’ confusa.
“Sì, sì vai avanti” la spronò Jakob. Quanto ci voleva a parlare?
“Lui ha cercato di… sì… non voleva lasciarmi andare via, mi ha preso per un braccio, mi ha stretto… io mi sono spaventata…” disse un po’ imbarazzata.

 

“CHI È STATO?” gridò una voce accanto a loro: Louis era arrivato in quel momento e aveva sentito solo l’ultima frase di Britta. Non l’aveva vista per tutto il pomeriggio. E ora lei diceva di essere stata nel bosco… nel bosco con un altro. Che l’aveva spaventata. Sentì un formicolio alle mani salirgli lungo le braccia e prendergli le spalle. Quando Britta voltò il viso verso di lui, aveva lo sguardo spaventato. Da lui.
“Roberto. Sta parlando di Roberto” disse Christa.
Non si girò neanche verso di lei. Continuò a guardare la ragazza bionda seduta. Che ricambiava il suo sguardo.

 

Ok. Su, basta. Jakob sbuffò infastidito.
“Allora?” chiese, con tono sostenuto. Britta si voltò verso di lui e si scosse.
“Giusto. Lui non mi lasciava andare e Wolfrun ha scagliato una freccia vicino alla sua testa, così si è distratto e io sono scappata. Quando mi sono voltata l’ultima volta, lei aveva ricaricato l’arco e lo puntava su Roberto” spiegò.
“E tu sei scappata?” le chiese Jakob e lei annuì.
“Mi ha detto lei di andarmene. Ho pensato di venire a chiamarvi per chiedere aiuto…” disse a bassa voce, come se si rendesse conto solo in quel momento di aver lasciato sola Wolfrun.
Jakob aveva sentito abbastanza. “Ok, vado da lei” disse.
“Andiamo tutti” disse William. Quando Christa annuì Britta le disse: “Tu no, Christa”. Jakob si voltò verso di loro.

 

Perché Britta non voleva che Christa andasse con loro? Jakob non lo capiva, ma capiva poco in quel momento. Con Wolfrun nei guai, faceva fatica a pensare ad altro.
“Certo che vengo con voi” disse Christa.
“No, no” rispose Britta che agitava la testa convinta. “Roberto è pericoloso e non è il caso che tu…” si interruppe e guardò verso i ragazzi.
“Andate voi. Io e Christa andiamo dai bambini. Ok?” Nora guardò Christa con uno sguardo severo da maestra cattiva. Se lo avesse detto a lui, Jakob avrebbe faticato a insistere per andare nel bosco…

 

Christa capì che non poteva farci niente. Annuì e non disse altro. Poi Nora si voltò verso William.
“Forse tu dovresti tornare al Reichstag. Comunicare con i tuoi superiori o quello che fai di solito. E guardarti bene le spalle.”
Nora era offesa. E ferita. Qualcosa diceva a Christa che lei non sapesse del rimpatrio dei militari.
Si voltò verso gli altri tre e, con una scusa, li portò un po’ più lontano per permettere a William e Nora di chiarirsi. Poi capì che anche Britta e Louis avrebbero dovuto parlare. Sbuffò e guardò Jakob. Lui guardava verso la strada: voleva andare da Wolfrun.
“Dobbiamo dirlo a Timo. Vieni con me?” gli chiese. Lui scosse il capo.
“Noi andiamo adesso” spiegò lui.
“Loro dovrebbero prima parlarsi” disse, indicando Louis e Britta che si studiavano in silenzio pochi passi più in là.
“Lo faranno mentre camminiamo. È un bel pezzo” disse ancora Jakob, spazientito.
Oh. Ok. Voleva andare da Wolfrun. Giusto, giusto.
“Posso allora dirti solo una cosa?” gli chiese. Lui la guardò corrugando la fronte.
Annuì e poi disse: “Puoi fare presto però?”
Oh. Voleva dirgli che era incinta. Le sembrava giusto dirglielo lei. Ma lui sembrava così… distratto. Forse non era il momento.

 

Jakob guardò di nuovo Christa. Si stava innervosendo. Avevano un bel po’ di cammino fino al bosco dei lupi e lui voleva subito mettersi in marcia. Voleva trovare Wolfrun e assicurarsi che stesse bene. Diavolo, lei neanche voleva venire a Berlino!
“Allora?” Christa si riprese come da un sogno a occhi aperti e sorrise.
“No, vabbè, non è niente di importante. Io volevo solo farti sapere… sì…” iniziò, un po’ confusa. Oh, ma cosa aveva?
“Christa, scusami, non vorrei sembrarti maleducato, ma…” disse Jakob.
“Sì, sì hai ragione. Volevo solo dirti che io e Timo diventiamo genitori e…” spiegò la bionda, ma lui non seguì più il discorso di Christa e spalancò la bocca.
“Sei… incinta?” chiese, stupefatto. Ma… davvero? Lei sorrise ancora e annuì. Si portò una mano al ventre e la seguì con lo sguardo.
“Già. Non volevo che lo sapessi da altri” disse alzando una spalla. Oh. Ok.
“Oh, sono felice per voi” quasi balbettò. Cosa si diceva in quelle occasioni?
“Davvero?” gli domandò e i suoi occhi si fecero indagatori. “Certo. Perché non dovrebbe essere così?” Avrebbe dovuto abbracciarla? Cosa doveva fare? Si sentiva un po’ impacciato. Lei sorrise ancora e annuì. Era sua amica. Si avvicinò e l’abbracciò.
“Davvero. Sono contento per voi. Ma non vi invidio per niente. Clara si è svegliata tutte le notti il primo anno di vita. L’avrei buttata in mare” dichiarò sorridendo. Lei rise e si staccò da lui.
“Vai a prenderla” gli disse e lo spinse appena. Capì che parlava di Wolfrun.
“Certo” rispose lui.
“Dovresti anche trovare la maniera per tenertela più stretta…” Jakob sospirò.
“Non sai quanto ci ho provato” disse più a se stesso che a lei.
“Dovrai impegnarti di più. Non devi lasciartela scappare. Ora andate” ordinò e si girò verso gli altri spronò a partire anche loro.

 

***

 

Wolfrun aprì gli occhi e anche la poca luce del tramonto le diede fastidio.
“Ti sei svegliata. Bene” disse l’unica ragazza dei fratelli lupo, che la guardava mentre attizzava il fuoco.
Cercò di parlare, ma le doleva ancora il capo e cercò di mettersi seduta. Quando realizzò tutto quello che aveva intorno, riuscì a parlare.
“Ho perso i sensi” disse. Non era una domanda. Lo aveva capito.
“Già” rispose e annuì la ragazza.
“Per… molto tempo?” chiese. Che ore erano? Il sole non si vedeva più, ma c’era luce.
“Un po’. Ma mi preoccuperei più di quello che della botta in testa” disse, indicando la sua gamba.
All’altezza del suo polpaccio, i suoi jeans erano stati tagliati con un coltello non troppo affilato, notò, guardando l’orlo sfilacciato e un pezzo di stoffa era legato intorno alla gamba. Quando provò a muovere il piede sentì una fitta dolorosa e non lo agitò più.
“Che mi è successo?” chiese, mentre controllava ancora il movimento della gamba.
“Il ragazzo scuro, gli altri gli hanno dato un nome ma non lo ricordo, quando ti sei girata ti ha trafitto la gamba con la freccia. Ti ha anche colpito alla testa con un masso. Ma era piccolo. Sei stata fortunata. Ti sto facendo un decotto di erbe, così che tu possa sentire meno dolore” spiegò la piccola selvaggia. Wolfrun annuì senza dire niente.
Fortunata? Aveva una gamba con quello che sembrava un principio di infezione e un trauma cranico. Già, fortunatissima, pensò ironica.
Forse si stava facendo prendere. Prima di andare a Lemnos e conoscere Lukas non sapeva neanche cosa fosse un trauma cranico. E quando viveva a Tegel avrebbe davvero pensato di essere stata fortunata.
Cercò di pensare alla Wolfrun di tre anni prima. Cosa avrebbe fatto? Non che ne andasse fiera, di quella Wolfrun. Ma non badò a quel pensiero. Era la Wolfrun di cui aveva bisogno in quel momento.
Cercò di alzarsi in piedi. Appoggiare il piede le faceva male, così appoggiò solo un po’ la punta e si appoggiò con la mano aperta al tronco di un albero.
“No, non alzarti. Dovresti…” disse la ragazza che si era alzata con lei.
“Non preoccuparti. Sto bene” le rispose Wolfrun. Si guardò intorno, ma fece fatica a orientarsi. “Sai indicarmi la direzione per tornare dagli altri? A Berlino centro?” chiese la ragazza che la guardava ancora con la bocca aperta.
Stava per rifare la domanda quando arrivarono altri ragazzi.
“Ti sei svegliata, per fortuna” disse una voce preoccupata alle sue spalle. Si girò verso la voce e li vide: uno dei fratelli della ragazza e Gotz, di Tegel. Il ragazzo lupo più grande doveva avere la sua età o se non l’aveva mancava poco e intanto era più alto di lei.
“Sei arrabbiata?” chiese Gotz, parlando ancora mentre la guardava senza cattiveria e senza paura. La sua era una domanda tranquilla.
“Dovrei?” domandò la ragazza.
Lui alzò la spalla. “Ti abbiamo distratto e Roberto ti ha colpito. Non è stato bello da vedere. Non penso sia stato bello neanche da subire” ammise.
Già. Però Wolfrun non si sentiva arrabbiata. Davvero. Si sorprese della cosa. Un tempo se la sarebbe presa con chiunque per qualsiasi motivo. Scosse la testa.
Lui annuì serio e andò a sistemare la legna vicino al fuoco.
Aveva scambiato poche parole con loro subito dopo aver ripescato Anneke dall’acqua. Beh, dopo che loro avevano ripescato lei e Anneke dall’acqua. Le avevano raccontato di come Roberto e Claudia avessero ‘reclutato’ Tegel e di quello che Claudia aveva fatto a Caspar. Per quello sapeva di Claudia quando aveva parlato con Roberto ai campi.
Ma ora aveva bisogno di più informazioni. Più informazioni su Roberto. Così che il Maggiore Clarke non dovesse più dubitare delle sue parole. Si risedette un attimo vicino al fuoco a riposare la gamba e poi, dopo una mezz’oretta e il famoso decotto della ragazza, si alzò dicendo che tornava a Berlino centro. Loro la guardarono straniti.
“Non puoi andare via in queste condizioni” disse il ragazzo lupo. Lei scosse le spalle. “Devo tornare da Anneke. Non la vedo da stamattina” rispose. Non poteva non tornare da lei.

 

“Anneke sta bene” disse Jakob ad alta voce. Aveva parlato nel momento in cui erano arrivati, lui, Louis, Britta e i gemelli dei ragazzi lupo, vicino al fuoco. Wolfrun stava bene. Per fortuna. Zoppicava, ma stava bene.
Quando poi la ragazza si voltò verso di lui, sorrise ed esclamò: “Jakob!”, saltandogli al collo, lui fu felicissimo.
No. Jakob se l’era solo immaginato. Lei non lo fece. Non sorrise e non sembrava neanche felice di vederli.
Quello che disse fu: “Principessa, ce ne hai messo di tempo a cercare aiuto. Quell’idiota avrebbe potuto farmi fuori e accendere la pira, in tutto questo tempo!”
Oh. Wolfrun stava bene sì. Jakob sorrise.

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Capitolo 12
*** A casa di Louis ***


a casa di luis

A casa di Louis

 

Mentre camminavano verso il bosco dei ragazzi lupo, Jakob guardò di sottecchi Louis e Britta: era successo qualcosa. Ma non capiva cosa. Erano in silenzio, come se si studiassero a vicenda. Scosse il capo. Era capitato due tre volte che le loro mani si sfiorassero e loro erano saltati come scottati dall’acqua bollente.
Se ci fosse stata Wolfrun avrebbe capito subito. Tutto. Ma non ne avrebbe parlato con lui. Sospirò.
Wolfrun. Stava bene? E se le fosse successo qualcosa? Qualcosa… di brutto? Cercò di non pensare al peggio e di distrarsi. Provò a intavolare qualche conversazione  con i suoi compagni di viaggio, ma quando capì che loro non avrebbero collaborato decise di tenere il fiato per lo sforzo.
Quando arrivarono al bosco, era quasi buio. Non ci sarebbero riusciti, da soli, a trovare Wolfrun. Neanche se Britta si fosse ricordata alla perfezione il tragitto. E lei era scappata via correndo. Tirarono fuori le torce e si incamminarono nell’oscurità della foresta. Jakob però era pessimista. Non ce l’avrebbero mai fatta.
Così fu con sollievo che sentì l’ululato dei ragazzi lupo. Rispose al loro richiamo e loro si fecero vedere. In men che non si dica si ritrovarono al loro campo.
Jakob vide Wolfrun quasi subito. Era seduta, ma si era alzata quando aveva finito di bere qualcosa che le aveva passato la sorella dei ragazzi lupo.
Quando si alzò e fece pochi passi, notò che zoppicava e, quando il fratello più grande dei ragazzi lupo le disse che non poteva andare via, lei nominò Anneke e disse che doveva assicurarsi che stesse bene.
Così fu con sollievo che la vide, anche se zoppicante, ma lei non dimostrò lo stesso interesse nei suoi confronti.

 

***

 

I gemelli lupo li avrebbero accompagnati fino all’uscita dal bosco. La gamba le faceva malissimo, nonostante la cosa puzzolente che la ragazza le aveva spalmato sulla pelle e l’intruglio che le aveva fatto bere. Si sentiva stanca morta. Chissà, forse aveva cercato di avvelenarla.
Quando si appoggiò a un tronco per l’ennesima volta, Jakob le venne vicino.
“Stai bene?” le chiese e lei annuì.
Lui era venuto a prenderla. Quando lo aveva visto arrivare insieme agli altri si era sentita vulnerabile ed era stata un po’ aggressiva, ma lui non mollava mai.
“Il decotto di Effi, porta un po’ di sonnolenza. Ti fai un bel sonno appena arrivi e domani starai meglio” disse uno dei gemelli lupo mentre la guardava sorridendo: non aveva neanche tutti i denti.
Il più era arrivare alla casa dei bambini.
“Vuoi fermarti?” le chiese ancora Jakob. No, no. Non sarebbero arrivati mai più. Scosse la testa. Lui si avvicinò e l’aiutò a non appoggiare troppo il piede.
Cercò di sorridere. Davvero. Tanto c’era buio.

 

Jakob si era avvicinato a Wolfrun e le aveva circondato la vita con un braccio per aiutarla. Lei non sembrava troppo stabile. Sembrava stanca. Ma l’aveva già vista stanca e non l’aveva mai vista arrendersi.
Quando gli appoggiò la mano sulla sua spalla capì che era molto vicino al limite. I ragazzi lupo li avevano lasciati appena erano usciti dal bosco e ora Berlino risplendeva nella sua bellezza, scura e illuminata dalle stelle.
“Louis!” lo chiamò. Non aveva più guardato né Britta né Louis da quando erano partiti dal bosco. Il francese si voltò e chiese: “Cosa c’è?”
“E se ci fermassimo da te?” domandò indicando con il capo Wolfrun. Lui si voltò verso Britta e le si avvicinò, parlandole a bassa voce. Vide la testa della bionda annuire e avvicinarsi a loro.

 

Wolfrun non voleva fermarsi, ma si sentiva stanca. Aveva già la mano sulla spalla di Jakob, e, prima che se ne rendesse conto, aveva appoggiato la fronte alle nocche delle dita. No, non era stanca: era sfinita. E le faceva male ancora un po’ la testa. Cercò di protestare alla domanda di Jakob, ma effettivamente avrebbe preferito stendersi.
“È lontana casa sua?” chiese senza sollevare la testa. Britta si avvicinò a loro e Jakob si allontanò per andare da Louis. La bionda le chiese cosa preferisse fare.
“Principessa, non mi sento in gran forma, ma se vuoi andare a…”
Britta la interruppe dicendo concitata: “Puoi smetterla di chiamarmi principessa?” Wolfrun sbuffò e posò lo sguardo su di lei. Era seria e lei non aveva voglia di discutere.
“Va bene. Decidi tu. Vorrei andare da Anneke. Ma mi sento…” sussurrò e vacillò un attimo. Le mancava l’appoggio di Jakob.
“Ok, andiamo” disse Britta, le prese un braccio e se lo mise sulle spalle.

 

Britta sostenne Wolfrun da sotto la spalla e le mise una mano in vita. Quando Jakob tornò verso di loro, gli lanciò un’occhiata di avvertimento e lui tornò vicino a Louis.
Guardò Wolfrun: non c’era nessun altro. Poteva…
“Ehi, Wolfrun, quanto è sconveniente baciare un ragazzo per prima?” domandò, sottovoce.
“Ehhh?” chiese lei, non capendo.
La mora riuscì a malapena voltare la testa verso di lei. Era colpa del decotto della ragazza lupo. Aveva dato la ricetta anche a Christa e una volta l’aveva preso anche lei. Era micidiale. Non capiva come Wolfrun riuscisse ancora a camminare, quella piccola selvaggia ci metteva dentro una quantità assurda di passiflora. Diceva che aiutava le persone a sentire meno dolore. Per forza! Non sentivano più niente!
“Se io volessi baciare un ragazzo…” iniziò di nuovo.
“Ho capito princ… Britta, ho capito. Perché ti interessa di quanto possa essere sconveniente? Louis non vede l’ora di baciarti. O aspetta, non è Louis?” le chiese, abbassando la voce mentre si fermava.
Le diede un piccolo strattone. Come aveva fatto a capire di Louis? Christa le aveva detto che aveva capito che lei fosse incinta soltanto osservandola.
“Sì che è Louis, chi dovrebbe essere, Jakob?” disse, stizzita e sbuffò.
“Jakob è carino. Non dirlo così. E baciarlo non è per niente brutto” rispose con voce strascicata. È carino? Baciarlo?
“Carino?” chiese un po’ confusa.
“Effettivamente è proprio bello. Comunque… Se è Louis basta che…” si interruppe nel momento in cui lei le diede un altro strattone quando arrivarono vicino ai ragazzi.
“Abito qui” disse Louis imbarazzato, indicando una palazzina.

 

 

Jakob vide Wolfrun staccarsi da Britta e alzare lo sguardo sul piccolo edificio. Era una palazzina di più appartamenti.
“Bella” disse la ragazza mora. Diede una pacca sulla spalla di Louis, ma senza forza, e lui la guardò in maniera strana. “Dimmi che non è l’ultimo piano”. Louis rise. Una risata piccola e discreta, ma rise. Jakob guardò Britta, ma lei alzò le spalle.
“No. Al primo” rispose.
“Bravo, ottima scelta. Allora saliamo. Britta, vieni qui, aiutami” ordinò la mora. Come?

 

 

Wolfrun non si sentiva troppo lucida.
“Britta, aiutami” disse, cercando di tenere un tono fermo. La sua voce andava per i fatti suoi e non ne era per niente contenta. Guardò la principessa bionda con intenzione. Lei si avvicinò e senza tante cerimonie Wolfrun si appoggiò a lei, per avvicinare il viso al suo.
“Non ho molta esperienza in questo campo, ma se interessi a un ragazzo e lui interessa a te, non c’è niente di sconveniente, ok?” disse e Britta annuì, ma lei neanche la vide.
“Però lui ha tentato di baciarmi e io non gliel’ho permesso” si confidò la bionda.
“Oh. E perché?” Ma che domande, Wolfrun! Hai fatto la stessa cosa anche tu! Ora si sentiva parecchio confusa. Già, perché lei lo aveva fatto per… non riusciva a ricordarsi, perché. Ah, sì, perché a lui piaceva Christa. O no? Era per quello? E poi, gli piaceva ancora Christa? Sentì la testa rimbombare e dovette fermarsi un attimo per assicurarsi di riuscire a fare le scale.
“Io… pensavo mi piacesse un altro” ammise Britta.
“Beh, se l’altro ti ha detto di no e tu vuoi tornare da Louis per questo, non è molto carino…” disse Wolfrun. Cercò di non pensare a Jakob che la baciava perché Christa era lontana.
“Bernd è morto. E io so che mi piace ancora. Ma adesso, con Louis…” Britta si girò verso i due ragazzi, che nel frattempo avevano aperto la porta di casa di Louis.
“Oh, vuoi piagnucolare sul tempo perduto per tutta la tua vita?” chiese la mora, non proprio simpaticamente.
“No!” gli occhi della bionda si spalancarono. Come se lei avesse mancato di rispetto a Bernd.
“Tu vuoi Louis? Se lo vuoi vallo a prendere. Se non lo vuoi lascialo a un’altra. Basta che ti decidi. Non ti aspetterà in eterno” disse alla fine.
“Come?” chiese Britta. Ma Wolfrun non la calcolò più e seguì i ragazzi in casa di Louis.

 

 

Louis vide Wolfrun entrare in casa con lo stesso spirito con cui era partita per conquistare Berlino, ma poi si sedette sul divano e scalciò le scarpe in un modo molto poco femminile.
“Io mi fermo qui. Giuro che domani faccio il giro e ti dico che hai una bella casa. Davvero. Anzi te lo dico adesso. Bella casa, Louis!” Wolfrun tirò su le gambe e si rannicchiò sulla seduta. Sembrava un bambino piccolo.
Guardò Jakob per scambiare una battuta, ma vide che aveva uno sguardo quasi addolorato, mentre la guardava.

 

 

Jakob guardò Wolfrun acciambellarsi sul divano, esattamente come faceva Anneke d’inverno. I ragazzi lupo gli avevano raccontato quello che era successo. Loro erano arrivati mentre lei teneva Roberto sotto tiro con l’arco e nel momento in cui si era distratta, lui l’aveva colpita con la pietra e le aveva trafitto una gamba con la freccia per impedirle di corrergli dietro. Era scappato quando aveva visto i ragazzi lupo.
Roberto era pericoloso. A Jakob non era mai piaciuto. E Timo nicchiava su di lui.
Si voltò verso Louis e vide che guardava Britta, ma lei faceva finta di guardarsi intorno, imbarazzata.
“Io resto con lei” disse a tutti e a nessuno. Britta annuì e Jakob si sedette per terra vicino al divano e appoggiò indietro la testa vicino alle gambe di Wolfrun.

 

 

Britta guardò Louis. Lui le sorrise e le fece cenno di seguirlo. La portò in una camera. “Dormi qui” disse. Di poche parole. Sempre. Guardò il letto. Era carino. E la stanza sembrava abitata. Non era la stanza per gli ospiti o comunque quella in più. Era la stanza di Louis. Sentì le guance colorarsi.
“Ma è la tua stanza?” chiese. Lui alzò le spalle.
“Sì. Nell’altra dorme Jakob, quando è qui” spiegò. Louis le aveva lasciato la sua camera.
“E tu?” gli chiese, un po’ timida.
“C’è un altro letto nell’altra camera. Jakob dormirà vicino a Wolfrun” disse. Annuì e si andò a sedere sul letto.
“Grazie” disse. Un po’ era stanca anche lei.
“Il bagno è in fondo al corridoio.”
Annuì ancora. Lui fece per uscire dalla camera quando lei lo chiamò: “Louis…” Il ragazzo si girò sull’uscio, con la mano sulla maniglia.
Quando capì che lui non avrebbe detto niente, lei continuò: “Mi dispiace per l’altra sera…” Lo guardò negli occhi e cercò di non distogliere lo sguardo.
“Non avrei dovuto insistere, scusami” si scusò lui.
“Cercavo te, nel bosco dei lupi, oggi” gli confessò. Lui aprì appena di più gli occhi. Non se ne sarebbe mai accorta se non lo stesse fissando da un po’.
“Davvero?” chiese lui, stupito. Britta si alzò dal letto e gli si avvicinò.
“Non avrei dovuto dire quelle cose, quando sei venuto alla casa dei bambini. Mi sono sentita…” iniziò a scusarsi ancora. Louis fece un passo verso di lei.
“Non preoccuparti. Ho sbagliato io” dichiarò. Intendeva che aveva sbagliato lui a provare a baciarla? No. Voleva che lui ci provasse ancora. Ma sapeva che non sarebbe successo. Gli appoggiò una mano sul braccio.
“Io… penso di aver bisogno di un po’ di tempo, non so bene quello che sento per…” Louis la interruppe: “Ti aspetterò”.
Lei sospirò. “Davvero? Io capisco che sia…” iniziò, ancora insicura.
“Aspetterò” disse lui, sicuro per tutti e due. Britta fece un cenno con la testa.
Quando lui fu fuori dalla stanza lo richiamò.

 

 

Louis uscì da camera sua e prima di chiudere la porta, lei lo richiamò: “Louis…” Si voltò.
“Sì?”
Lei si avvicinò a lui. Troppo. Gli appoggiò una mano sul petto e sussurrò: “Allora grazie”, prima di posare le labbra sulle sue in un bacio leggero e veloce e tornare in camera chiudendo la porta.
Louis rimase lì, davanti alla porta chiusa a sorridere come un idiota. L’aveva baciato, Britta lo aveva baciato.
Guardò verso il corridoio e la luce accesa in sala, poi si voltò verso la stanza di Jakob. Decise per quest’ultima.

 

***

 

“Anneke!” Wolfrun si svegliò mettendosi a sedere. Aveva sognato Anneke. Di nuovo. Jakob era vicino a lei, seduto per terra.
“Stavi sognando. Tutto bene?” le chiese. Annuì.
“Cosa fai qui?” chiese lei, dopo un po’.
“Siamo a casa di Louis” disse e Wolfrun sbuffò.
“So dove siamo. Mi chiedo cosa ci faccia tu lì, seduto per terra” mormorò lei. Jakob alzò le spalle.
“Nella mia stanza dorme Britta” disse lui. Oh. Giusto. Annuì e si fece più indietro sul divano.
“Perché non sei a dormire con Louis?” gli chiese.
“Non è il mio tipo” scherzò lui. Wolfrun fece finta di dargli uno scappellotto e sorrise.
“Vuoi il divano?” domandò, ma lui scosse la testa.
“No. Resta pure tu” disse lui, passandosi una mano fra i capelli. Wolfrun sentì le guance arrossire e guardò da un’altra parte.
Intendevo… tutti e due” confessò. Lui si voltò verso di lei e alzò un sopracciglio senza dire niente. Si sentì ancora più in imbarazzo. Poi lui ridacchiò. E le passò tutto l’imbarazzo.
“Oh, idiota!” esclamò. Lui rise un po’ più forte.
Wolfrun gli appoggiò una mano in testa, per dargli una spinta.
“Ehi, hai i capelli bagnati?” chiese. Beh, era evidente che fossero bagnati, era una domanda retorica.
“Ho fatto la doccia” si giustificò.
Oh, la doccia. La doccia! Aveva fatto anche lei la doccia il giorno prima (o due giorni prima? Da quanto tempo era uscita?) alla casa dei bambini. Era stupendo, loro a Lemnos avevano l’acqua corrente, ma non era caldissima, mentre invece lei adorava la doccia bollente. E poi d’inverno c’era troppo freddo e dovevano riempire la vasca con l’acqua della stufa.

 

 

Jakob vide gli occhi di Wolfrun spalancarsi di meraviglia. Sorrise. Gli occhi di lei lampeggiarono mentre disse: “La doccia qui è fantastica”. Rise.
“Già, niente acqua da scaldare, eh?” Lei puntellò un gomito sul divano e appoggiò la guancia sulla mano mentre si sporgeva verso di lui.
“È fa.vo.lo.so. Potrei vivere qui solo per quello. E sì che ho fatto giorni interi senza lavarmi, tre anni fa. Mamma mia, pensarci adesso mi viene male!” disse e ridacchiò, mentre i suoi occhi vagavano al pensiero degli inverni gelidi di Berlino in pieno virus.
Poi, improvvisamente, così come era venuto, quel momento passò.
“Perché non sei tornato qui? Voi. Perché non siete tornati a Berlino, dopo il vaccino?” gli chiese.
Lui la guardò negli occhi. Per un momento non seppe cosa dire, così alzò le spalle. “Oh. Christa stava già con Timo?” chiese ancora lei.
Come? Jakob spalancò gli occhi sorpreso. Cosa aveva detto?
“Cosa?”

 

 

Wolfrun non ci aveva pensato. Poteva essere per quello. Christa si era messa con Timo e a lui dava fastidio. Poteva essere. Aveva anche preso il comando di Gropius, Timo. Probabilmente lei avrebbe tentato di uccidere tutti e due, nella stessa situazione.
“Christa?” chiese lui. La sua faccia era un po’ sorpresa. Ok, era molto sorpresa.
“No? Si è messa con lui dopo?” chiese ancora lei, ma effettivamente, non era una domanda per lui: stava pensando. Cosa poteva essere successo?
Pensava che loro stessero insieme e Jakob fosse venuto via per suo padre, ma poi non si spiegava perché non fosse tornato indietro. Allora lei si era messa con Timo quando Jakob era venuto via? Per comandare Gropius? Per Abel? Lo aveva fatto come aveva fatto Jakob con le ragazze dell’isola?
“Dopo cosa?” Jakob sussurrò appena.
“Dopo che siamo partiti. Si è messa con lui perché tu non c’eri?” chiese.
Lui balbettò un po’ cercando di rispondere e poi sussurrò: “Penso che Timo le piacesse già”.
Il ragazzo guardò da un’altra parte. Oh, merda. Si era sbagliata: Christa non l’aveva lasciato andare via. Christa non lo aveva voluto. Doveva avergli detto di no prima. Il petto le si riempì di tenerezza. Che stupida davvero, la principessa bionda. Chi avrebbe mai potuto rifiutarlo? E a lui Christa piaceva così tanto… Fu quasi tentata di chinarsi verso di lui e consolarlo. Ma lui sembrava nervoso così non disse niente. Alzò le spalle.
“Mi sa che ho capito male” disse per non farlo sentire in imbarazzo.
“Capito cosa?” chiese Jakob. Ora la stava guardando direttamente negli occhi. Ne ebbe quasi paura. Capito che ti ha respinto. Ma non voleva dirglielo. Non voleva che lui stesse male ancora, pensandoci.
Indietreggiò un po’, fino ad appoggiarsi allo schienale del divano, ma in quella posizione, ancora sdraiata, si sentiva a disagio.
Lui continuò: “Cosa hai capito?”
Si avvicinò ancora e in quel momento Wolfrun sentì la sua pancia brontolare. Forte. Doveva averla sentita anche Jakob. Infatti lui si bloccò e rise guardando verso la sua maglietta. Allungò una mano a sfiorarle la stoffa e la fece salire appena appena, accarezzandole la pelle con il pollice. Si sentì trattenere il fiato.
“Hai fame?” le chiese.
Non riuscendo a parlare, annuì. Per fortuna lui non la stava guardando. Osservava la sua mano giocare sotto la sua maglietta. Wolfrun non mangiava da quella mattina, ma in quel momento non era di cibo che si sentiva affamata. Lui staccò velocemente la mano e la guardò.
“Nora mi ha dato dei panini prima che venissimo nel bosco. Se vuoi…” iniziò, ma lei non lo fece neanche finire e si tirò a sedere velocemente. Aveva bisogno di mettere un po’ di distanza fra di loro.
“Santa Nora!” esclamò, lui rise e si alzò andando verso lo zaino.
“Louis dovrebbe avere anche della frutta, qui da qualche parte. Si alzò anche lei e lo seguì in cucina. Quando le allungò un panino e due susine, sorrise. Oh, forse aveva fame anche di cibo.
Divorò tutto e si leccò le dita quando finì il frutto.
“Pensi che a Louis dispiacerà se faccio la doccia?”chiese e si guardò intorno, cercando lo zaino.
“Non penso” rispose lui.
Quando l’adocchiò, Wolfrun si alzò per prendere lo zaino e disse a Jakob: “Prendi tu il divano. Così puoi dormire un po’. Quando ho finito ti sveglio”, dirigendosi verso il bagno.

 

 

Certo pensò Jakob, adesso che sapeva che lei sarebbe stata a pochi metri da lui completamente nuda sotto il getto vaporoso dell’acqua, avrebbe dormito di sicuro. Come no. Sospirò pesantemente e si fece cadere sul divano.
Si sdraiò, e sentì benissimo il calore del corpo di Wolfrun ancora presente sui cuscini. Si tirò addosso la coperta che lei aveva abbandonato su uno dei braccioli e provò a chiudere gli occhi.
Quando sentì il rumore dello scroscio dell’acqua poche porte più in là, non riuscì più a pensare decentemente. Visioni di lei sotto alla doccia, si confusero con il profumo che sentiva sulla coperta. Fiori. Fiori e limone. Sospirò ancora.
Chiuse di nuovo gli occhi. Adesso immaginò il mare. Il mare della caletta. Wolfrun che si spogliava, il suo vestito che cadeva e lei che entrava nel mare leggiadra e solitaria, eppure forte e combattiva come una regina. E pensò al suo vestito di pizzo che le scivolava dalle spalle la sera del falò sulla spiaggia. Il suo sorriso e i suoi respiri. I suoi gemiti e i suoi occhi offuscati nel chiarore della luna. Immaginò ancora di sfiorarle i capelli e di sentirne il profumo. Il sorriso che si dipinse sulle sue labbra lo accompagnò nel mondo di altri sogni.

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*** Eccomi! Scusate il ritardo!!! Se vi piace la storia, fatemelo sapere!!! Grazie anche a chi legge soltanto. 😘  

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Capitolo 13
*** La prova di fiducia ***


La prova di fiducia

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“Maggiore Clarke, posso parlarle?” William si girò verso uno dei suoi uomini e poi si rigirò verso Nora.
Aveva detto nel pomeriggio ai ragazzi di Berlino che sarebbero andati via, ma non aveva ancora chiarito la cosa con Nora. Aveva visto la sua espressione quando era venuto fuori che avevano ricevuto l’ordine di rimpatriare. Sospirò. Non sapeva cosa doveva fare. Anzi, sì. Lo sapeva benissimo.
“Vengo dopo alla casa dei bambini ok, Nora?” Lei annuì con una faccia cupa e se ne andò. Sospirò ancora. Poi si voltò verso il militare. Hank. Era Hank Miller.
“Vieni avanti, Miller” disse al militare, gli fece un cenno con la mano ed entrarono nella sua tenda.

 

***

 

Nora si avviò velocemente verso la casa dei bambini. Aveva lasciato Christa e Sabine a occuparsi dei più piccoli mentre lei raggiungeva William al Reichstag. Dopo aver saputo che sarebbe andato via alla fine del mese, aveva bisogno di spiegazioni. Perché lui non l’aveva detto? Perché non ne avevano parlato? Si sentiva una sciocca, una stupida.
Aveva fatto l’amore con William per la prima volta una settimana prima. Gli aveva donato il suo cuore e lui… lui se ne andava. Il suo lato razionale capiva che non era una scelta sua, ma il suo lato emotivo era incazzato nero.
Preparò la cena e stette a tavola con i bambini e le altre ragazze, ma per tutto il tempo la sua mente vagò distratta per i pensieri suoi.
Nonna Esther raccontava di ragazze che si erano innamorate di militari americani che nel dopoguerra erano tornati a casa. Non ci aveva mai dato così tanto peso. Non aveva mai capito appieno quelle ragazze. Qualcuna era rimasta anche incinta. Per fortuna questo non sarebbe capitato a lei, pensò toccandosi la pancia: avevano usato precauzioni. Almeno quello.
Ma non c’erano state precauzioni per il cuore o per l’anima.
Aveva raccontato a William tutte le sue paure, i suoi sogni, gli aveva parlato di Theo e di Julia, la madre di Theo, dei suoi genitori e di tutto quello che era importante. Ossia tutto. Avevano parlato tanto.
Lui le aveva raccontato di aver perso un fratello in Vietnam e di come avesse pianto la madre quando aveva saputo che sarebbe partito per una missione anche lui. Era riuscito a scrivere alla madre e a comunicarle che stava bene e che lì a Berlino, almeno, non c’era la guerra.
Poi, dopo tante chiacchiere, tre mesi prima c’era stato un primo, timido bacio. E poi tantissimi altri. E altri ancora. Fino alla settimana prima…

 

 

“Sei pensierosa” disse Christa all’amica.
Si era avvicinata a Nora dopo aver aiutato Sabine e le altre a mettere a letto i bambini. Lei stava lavando i piatti e un bicchiere le scivolò quando Christa la riscosse dai suoi pensieri.
“Ehi” parlò ancora. La bionda le mise una mano sulla spalla, mentre la ragazza chinava in avanti la testa. Aveva gli occhi lucidi. Prese un canovaccio e iniziò ad asciugare le stoviglie già sciacquate. “Non lo sapevi che andavano a casa, vero?” Nora scosse solamente la testa. Christa sospirò e non disse niente continuando ad asciugare i piatti e rimanendole vicina.

 

***

 

Jakob fu svegliato da un rumore sordo e secco. Aprì gli occhi di scatto e si guardò intorno, guardingo.
Wolfrun imprecò sottovoce, girandosi verso di lui.
Cosa stava succedendo? Cercò di mettersi seduto ma lei lo raggiunse e lo spinse giù con la mano aperta appoggiata al suo petto.
Si sedette vicino a lui e sussurrò: “Dormi, Jakob. Io vado alla casa dei bambini”. Il ragazzo tentò ancora di sedersi, ma lei premette più forte sul suo petto. Le prese il polso.
“Ti accompagno” disse, con la voce ancora impastata dal sonno.
“Non c’è bisogno. È quasi mattina. Dormi ancora” sussurrò lei, accarezzandogli il petto con delicatezza. Sentì gli occhi chiudersi ancora.
No! Non doveva addormentarsi!

 

 

Wolfrun sperava si sgattaiolare via dalla porta senza che nessuno se ne accorgesse. Voleva tornare da Anneke, alla casa dei bambini. E non voleva che nessuno le dicesse cosa poteva o non poteva fare. Era grata a Jakob e Britta e anche a Louis per averla aiutata, ma ora, dopo aver dormito, mangiato e aver fatto una meravigliosa doccia bollente, si sentiva in forma e pronta per andare. Non voleva svegliarli.
Ma aveva fatto cadere lo zaino e ora Jakob, che dormiva sul divano avvolto in una coperta, si era svegliato. Aveva cercato di parlare a bassa voce, sperando che tornasse a dormire, ma lui voleva alzarsi e accompagnarla. Avrebbe potuto convincerlo che stava sognando? Se glielo avesse fatto credere avrebbe richiuso gli occhi?
Si sedette vicino a lui e lo tenne giù con una mano. I capelli le caddero davanti al viso.
“Il tuo profumo…” disse Jakob. Il suo profumo? Cosa stava dicendo? Forse era in dormiveglia. Anche perché non aveva assolutamente senso. Lei non usava il profumo. L’unica cosa profumata che possedesse era la saponetta al limone e alla lavanda con cui si era lavata sotto la doccia.
“Shhh. Dormi ancora” sussurrò. Provò a spostare la mano, ma lui la teneva stretta. Quando strinse appena più forte, capì che ormai era del tutto sveglio.
“Ho detto che vengo con te” disse il ragazzo, si tirò su e si mise a sedere. Era più alto di lei anche così. Sospirò. Va bene.
“Roberto è ancora in giro. Vengo con te” insistette lui. Uffa. Però annuì. “Dammi dieci minuti: vado in bagno”.
Wolfrun annuì ancora.

 

 

Jakob si asciugò la faccia e uscì dal bagno. Guardò l’orologio. Ci aveva messo cinque minuti. Sperò che lei non fosse scappata nel frattempo, ma quando tornò verso la cucina sentì un rumore di stoviglie. Lei era vicino al lavello e sciacquava una tazza.
“Vuoi il caffè? Ho trovato solo quello solubile, però…” disse. Oh. Caffè. Sì, caffè. Lei lo preparò e gli passò una tazza.
“Quello di Eleni è più buono” disse sottovoce. Ma sorrise, un sorriso piccolo piccolo, che a Jakob scaldò il petto. Annuì. Aveva ragione: non era un granché. Però andava bene. Era pur sempre caffè caldo.
Pulì la tazza e si avviarono fuori sul pianerottolo.

 

 

La gamba le faceva male, ma non aveva più bisogno di nessuno per camminare, anche se zoppicava un pochino. Jakob, accanto a lei, camminava pensieroso con le mani in tasca. Non si erano detti niente, ma il loro silenzio non era angosciante. Semplicemente non c’era bisogno di parlare.
Girarono l’angolo di una laterale insieme, senza mettersi d’accordo e Wolfrun gli sorrise quando se ne accorse. Lui la guardò di sottecchi e poi le disse quasi a bruciapelo: “Non mi hai mai raccontato di Chloe”. Wolfrun si fermò, improvvisamente incapace di camminare. Jakob si fermò dopo due passi e si voltò verso di lei, guardandola in viso. Sospirò.
“Tu non mi hai raccontato del gioco” mormorò lei. Jakob spalancò la bocca.
“Mi sembra una cosa totalmente diversa” disse lui. Wolfrun si innervosì.
“Dici? Avevi paura che io non capissi. E io avevo paura che non capissi tu. È uguale” dichiarò lei, con uno sguardo gelido.
“Non penso proprio!”
“Raccontami di Battaglia, allora” lo sfidò. Lui sbuffò e Wolfrun sorrise. “Vedi?”
“Non mi hai detto neanche dell’altra sera” disse ancora il ragazzo.
“Quale sera?” chiese la ragazza, confusa. Di cosa stava parlando?
“Non sei venuta da me a dirmi di aver sentito Roberto e il militare parlare del colpo agli adulti” disse lui a bassa voce. Oh, ecco cosa intendeva.
“Te l’ha detto il Maggiore?” gli chiese.
“Già. Voleva sapere se poteva fidarsi di te…” rispose lui, guardandola negli occhi.
Annuì e si voltò, riprendendo a camminare. Giusto. Nessuno si fidava di lei. E perché avrebbero dovuto? E lui cosa gli aveva risposto? No, non voleva saperlo. Sentì Jakob seguirla.
“Non vuoi sapere cosa gli ho detto?” le chiese Jakob.
“No” mentì lei, continuando a guardare avanti a sé.

 

 

Jakob la raggiunse facilmente, la superò e la fermò.
“Gli ho risposto che io mi fido di te” disse, si sentiva affannato come dopo una lunga corsa.
“Hai fatto male. Non dovevi dirglielo e non dovresti fidarti” rispose lei. Dal suo tono capì che era arrabbiata e non lo stava dicendo veramente. Si spostò di lato per oltrepassarlo, ma fece un passo di lato anche lui. Wolfrun lo guardò in viso.
“Sai cos’è la prova di fiducia?” chiese il ragazzo. Lei scosse la testa, socchiudendo gli occhi.
“A scuola, ci hanno fatto fare la prova di fiducia alla lezione di teatro” iniziò a spiegare. Le prese la mano e si incamminò di nuovo, di fianco a lei. La ragazza non oppose resistenza. “Due persone si mettono una davanti all’altra. Chi si fida è girato di spalle e cade all’indietro, a peso morto, non sul sedere, ma proprio come se si dovesse sdraiare, fiducioso che l’altra persona lo sorreggerà”.
“E se non succede?” chiese lei.
“Cade per terra” rispose lui, secco.

 

“Sembra pericoloso, però” disse Wolfrun e rabbrividì.
Jakob la guardò seriamente e sussurrò: “È più pericoloso di una festa della morte”. Lei questa volta lo guardò in faccia e seriamente annuì, mentre si fermava. Aveva ragione. Era molto più pericoloso.
Durante una festa della morte potevi morire, fisicamente. Durante una prova di fiducia così, poteva morire qualcos’altro. Ed era peggio di morire di fisicamente. Poteva lasciarti secco. Secco e vuoto. Come le parole che aveva usato Jakob sul balcone a Charlottenburg.
“Se mi metto davanti a te, sono sicuro che mi prendi” disse il ragazzo. Fece un passo per arrivare davanti a lei e continuò. “Adesso mi giro e mi lascio cadere. Mi prendi?”
“NO!” il suo grido riempì la strada, appena illuminata dall’alba.
Non poteva farlo, lei non sarebbe riuscita a reggerlo! Jakob si sarebbe fatto male. Lui era troppo pesante e lei non era abbastanza forte.
Vide il suo viso incupirsi.
“Non riuscirei a farlo. Cadremmo insieme. Sono anche zoppa!” spiegò. Jakob si rilassò.
“Solo per questo?” chiese sottovoce, come se dalla sua risposta ne andasse dellla sua vita.
“Non lascerei mai che tu ti faccia male in maniera così stupida. Devo tornare da tuo padre, fra qualche giorno, che gli racconto?” spiegò, cercando di sdrammatizzare il momento. Lui vacillò un attimo e poi sorrise. Lei trattenne il fiato.
Non gli avrebbe mai detto che aveva paura che si facesse male a causa sua.
“Solo per questo?” domandò ancora.
“Certo” mentì. Ma riuscì a bluffare bene. Il fatto è che lui doveva averlo capito, perché sorrise ancora.
“E tu? Lo faresti? Faresti la prova di fiducia, Wolfrun?”
La ragazza sentì il mondo girare intorno a lei. Berlino divenne mobile e lei in mezzo guardò i palazzi, le case, i lampioni girare.
Aveva fiducia Wolfrun? E di chi si fidava? Si chiese da sola.
Jakob continuava a guardarla, girando intorno a lei insieme ai lampioni.

 

 

Jakob guardava Wolfrun. Lei sembrava spaventata. Non si fidava di nessuno? Non si era mai fidata di nessuno? Quando non rispose alla sua domanda, il ragazzo continuò: “Io ti prenderei. Io ti prenderò”. Lei abbassò lo sguardo.
“Fidarsi di qualcuno è difficile” sussurrò. Lui le prese ancora la mano.
“So che quando ti sei fidata di me, Andreas ha rapito Anneke…” iniziò lui, sottovoce, come a volersi scusare, ma lei alzò di scatto la testa.
“Non è stata colpa tua! Ero arrabbiata, e ti avrei preso a pugni, ma… so che non è stata colpa tua” esclamò. Oh. Meno male.
“E perché, allora, non riesci a fidarti di me? Cosa ti ho fatto?” le chiese.
“Non sei tu. Sono io” disse lei. Wolfrun tolse la mano dalla sua e riprese a camminare.
“Allora spiegami” disse lui. Lei alzò le spalle e non lo guardò.
“Quando mi fido di qualcuno di, solito questo qualcuno… se ne va” confessò la ragazza.
“Ti abbandona? Come Chloe?”

 

 

Il tono di Jakob era dolce e basso. Come si fa con i bambini. Oh, come avrebbe voluto colpirlo. Dargli un pugno sul naso e impedirgli di guardarla come stava facendo. Invece annuì, riportando lo sguardo avanti.
“Avresti fatto la prova di fiducia con Chloe?” le chiese e Wolfrun ci pensò: non ne era sicura. Forse sì. Forse no. Ma sapeva a chi aveva pensato quando avevano parlato di prova di fiducia.
“Non lo so. Ma l’avrei fatto con Dorothea” ammise.
“Lei non ti ha abbandonato” disse lui. Sbuffò sul suo sorriso di compassione.
“Dici? Se n’è andata!”
“Veniva da te quando poteva, l’hai raccontato tu” disse ancora e lei sbuffò, ancora. Lui non sapeva niente.
“Era incinta e non me lo aveva detto.”

 

 

“Come?” Ora Jakob era sorpreso.
“Dorothea era incinta quando è morta. Ho sentito di nascosto mia mamma che lo diceva a mio padre. Dorothea le aveva chiesto aiuto e lei l’aveva mandata via. Di nuovo. Ed è morta. E io non lo sapevo. Non me lo aveva detto” spiegò. Oh, cavolo. Lei non lo guardò in faccia.
“Non ti ha tradito! Avevi, quanto, undici anni? Era una cosa troppo grande per te. Ti avrebbe caricato di un segreto troppo pesante da reggere. Ha fatto bene. Ha chiesto aiuto a chi poteva aiutarla” parlò ancora lui, un po’ agitato. Lei annuì. Probabilmente ci aveva pensato. Sapeva che Jakob aveva ragione ma le faceva male comunque.
Poi lei continuò a parlare: “Quando ho trovato Anneke, ho pensato che sarebbe potuta essere la sua bambina. Ora la guardo e faccio finta che sia sua. Che sia mia. E faccio finta che Dorothea possa essere contenta di me…”
Ancora non lo guardava. Sembrava così fragile. Così piccola. Ma lui sapeva che era forte e resistente.
Si avvicinò e senza dire niente l’abbracciò. Stretta. “Tua sorella è contenta di te. Quello che hai fatto e fai tutt’ora per Anneke, è meraviglioso. Lei è tua. A tutti gli effetti. E io sono contento di te. Per quello che può contare, Wolfrun, io sono contento di te. Mi piace quello che sei, mi piace quello che fai. Mi piaci tu”.
Sentì la maglietta bagnarsi di lacrime e lei fu scossa da silenziosi singhiozzi. La tenne stretta finché non smise di piangere. Poi, lentamente, lei si staccò e tornò a camminare. Jakob la seguì. Non avrebbe detto niente. Lo sapeva.
Ma andava bene così.

 

***

 

Quando arrivarono alla casa dei bambini, videro le luci della cucina accese. Nora doveva essere già in piedi.
Quando videro il Maggiore Clarke sgattaiolare via arrabbiato si guardarono: che stava succedendo? Il Maggiore non poteva uscire dall’accampamento di notte e non avrebbe potuto rimanere alla casa dei bambini durante le ore notturne.
Vabbè, anche Jakob era rimasto la notte prima, anche se non poteva.
“Cosa sarà successo?” gli chiese Wolfrun sottovoce.
“Non lo so. Ieri quando il Maggiore ci ha raccontato di quello che hai sentito, ha detto che sarebbero tornati a casa a fine agosto. E Nora…”
La ragazza lo interruppe: “Tornano in America? I militari?” Jakob annuì. “Cavolo, non deve averla presa bene!” Come? Di cosa parlava?
Ma prima che lui potesse chiederle qualsiasi cosa, lei aumentò il passo ed entrò in casa. Jakob la seguì.

 

 

Nora era seduta in cucina con davanti una tazza di caffè ormai freddo. Aveva parlato con William. La situazione con il militare che aveva parlato con Roberto era sotto controllo.
William le aveva detto di non preoccuparsi perché il militare in questione, un tale Hank, era stato onesto e aveva fatto finta di stare al gioco di Roberto, informando il suo superiore.
Un po’ le dispiacque. Avrebbe voluto dire che se avessero risolto tutto al più presto sarebbero davvero tornati a casa a fine agosto. Sospirò.
Sentì la porta di ingresso aprirsi. Wolfrun entrò in cucina con passo svelto, subito seguita da Jakob.
“Nora!” esclamò la ragazza con tono preoccupato. Nora si sorprese: Wolfrun era preoccupata? Per chi? Per lei?

 

 

Jakob aveva seguito Wolfrun fin dentro casa e avevano trovato una Nora triste al tavolo della cucina. La ragazza aveva alzato gli occhi su di loro e le lacrime avevano iniziato a rigarle le guance.
Poi Wolfrun si era seduta accanto a lei e le aveva toccato un braccio. Sapeva che per lei era un grande gesto. Non amava troppo il contatto fisico.
“Perché il Maggiore è venuto qui?” chiese il ragazzo.
Wolfrun si voltò verso di lui con uno sguardo scuro. Embhè?
“Avete parlato del rimpatrio?” chiese la ragazza. Nora annuì.
“Lui dice che me lo avrebbe detto” disse Nora.
“Davvero?” Il tono di Wolfrun si quietò un pochino e la sua mano prese ad andare su e giù sul braccio di Nora: una sorta di carezza.

 

 

Wolfrun cercò di pensare velocemente. Nora era abbattuta. Guardò Jakob di sottecchi ma lui non capì che doveva lasciarle sole.
Infatti lui chiese a Nora: “E quando te lo voleva dire, scusa?”
Gli lanciò uno sguardo di fuoco e lui corrugò la fronte. Ok non erano telepatici. Doveva dirglielo e basta, di andarsene.
Poi Nora sospirò e disse: “Dice che me lo avrebbe detto domani”.
Jakob prese il cestino con il pane e l’appoggiò sul tavolo prima di sedersi.
“Perché domani, c’è qualcosa di importante?” chiese Wolfrun guardando il ragazzo servirsi e mangiare una fetta di pane.
“Domani arriva un carico dall’America. Lo aspettavano per oggi, ma hanno avuto un ritardo” disse il ragazzo mentre addentava il pane. Nora alzò gli occhi su Jakob.
“Come? Un carico?” gli chiese e il ragazzo annuì con la bocca piena. Wolfrun guardò Nora, ma lei scosse la testa.

 

Jakob si versò un bicchiere d’acqua. Wolfrun sbuffò, forte, nella sua direzione. Poi si voltò verso Nora e le domandò: “Andiamo a fargli il culo?”
Come? Cosa aveva detto? A chi avrebbero dovuto fare il culo?

 

Nora sorrise mentre si asciugava le lacrime e scuoteva la testa. Wolfrun aveva forse portato scompiglio, ma di sicuro non ci si annoiava mai con lei.

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Capitolo 14
*** Tegel ***


Tegel

 

“Vieni con me, voglio farti vedere una cosa.”
Wolfrun si accucciò vicino ad Anneke per non parlare a voce alta.
“Adesso?” chiese la piccola e lei annuì. “Va bene”. La bambina andò a posare la corda con cui stava giocando e tornò verso di lei. Wolfrun si alzò e la prese per mano.
Lanciò uno sguardo a Nora e lei le fece un cenno con il capo.
“Dove andiamo?” chiese Anneke.
“Andiamo a Tegel” rispose la ragazza e la piccola sorrise.
Ci misero un po’ per arrivare a Tegel, anche perché Anneke si stancava spesso e Wolfrun dovette fermarsi più di una volta. Ma riuscì a non spazientirsi mai.
Quando arrivarono, notarono che l’aeroporto era pieno di militari. Quasi tutti la salutarono e lei rispose anche a quelli che non aveva mai visto. Anneke non chiese niente, si era abituata presto alla presenza dei militari, mentre la ragazza continuava a pensare al fatto che se ne sarebbero andati via presto.
Jakob aveva detto che aspettavano un carico. Probabilmente era per quello che erano lì: usavano la pista di Tegel per l’aereo.
Wolfrun accompagnò la piccola per le salette del piano terra e anche al piano superiore. Le mostrò tutti i posti: dove avevano dormito, dove avevano mangiato e dove avevano fatto festa.
Giocarono a rincorrersi e a nascondersi. A un certo punto Wolfrun riuscì a nascondersi dietro un piccolo armadietto con le ruote e riuscì a portarlo vicino alla vetrata che dava sulla pista. Rise mentre Anneke la cercava e si divertì tantissimo mentre si spostava per raggiungere la tana. Quando la bambina la vide gridò e insieme corsero per andare a tanarsi. Anneke le saltò addosso e lei perse l’equilibrio cadendo per terra. Rise ancora mentre faceva il solletico alla piccola e giocarono finché non furono senza fiato.
“Mi piace Berlino” disse improvvisamente la bambina.
Wolfrun, sdraiata sulla schiena accanto a lei, si voltò sorpresa. “Mi fa piacere. Ci siamo divertite anche tre anni fa” le confidò. Meno, ma si erano divertite.
“Torneremo a Lemnos?” chiese Anneke.
“Certo!” quasi gridò Wolfrun.
Ma il pensiero di Lemnos era sempre più lontano. Mancavano tre giorni al ritorno del Pegaso. Era la prima volta che ci pensava veramente. Solo tre giorni.

 

 

Mentre pensava all’isola, un boato fortissimo riempì il silenzio della saletta. Anneke sgranò gli occhi spaventata, ma Wolfrun, dopo il primo spavento iniziale, aveva capito che era il rumore dei motori dell’aereo militare.
“Vieni, vieni a vedere” le disse e la portò davanti alla vetrata sedendosi a gambe incrociate per guardare fuori.
Anneke si sedette sulle sue gambe e si accoccolò fra le sue braccia. Rimasero in silenzio e videro l’aereo atterrare. Era enorme e tutto grigio. Anneke saltò dalla gioia quando atterrò. Wolfrun la guardava sorridendo: la bambina era tutta la sua vita. Faceva finta che fosse sua. Lo aveva detto a Jakob. Ma Jakob aveva anche detto che Anneke era sua davvero.
Si godette quel pensiero mentre la guardava correre in tondo con le braccia spalancate, imitando l’aereo.
“Lo andiamo a vedere? Possiamo? Possiamo?” chiese entusiasta saltellando. Wolfrun si alzò in piedi mentre Anneke le trotterellava intorno.
“Va bene, va bene. Però smettila di saltare così che mi fai girare la testa” disse con tono serio, ma continuava a sorridere. Anneke saltellava contenta, qualche passo avanti a lei.
Quando arrivarono sulla pista l’aereo era fermo e stava iniziando le operazioni di sbarco. Rimasero a guardare a bordo pista. Non avevano mai visto un velivolo così grande. A Lemnos se n’erano visti pochi, e comunque più piccoli.
Quando videro il Maggiore andare incontro a un altro militare, lo salutarono con la mano. Lui si avvicinò.

 

 

“Non dovreste essere qui” disse William.
Cercò di non far cadere l’attenzione delle ragazze su quello che aveva in mano, ma non conosceva Anneke, che tentò di arrampicarsi su di lui. La tenne buona giocando un po’, mentre Wolfrun gli rispondeva: “Non mi sembra zona militare, Maggiore”, con un tono severo. Lui rise e la ragazza lo guardò un po’ male.
“Hai ragione, ragazza di Tegel, non è zona militare. Intendevo dire che quasi tutti gli altri stanno andando a Berlino Est a vedere il campo per giocare a battaglia. Da quel che ho capito, è un gioco abbastanza famoso, qui…”

 

 

Oh. Wolfrun abbassò gli occhi. Battaglia.
“Battaglia! Io voglio giocare a battaglia!” gridò Anneke con gli occhi spalancati.
“Non sai giocare a battaglia” le disse la ragazza.
“Sì che so giocarci!” La piccola la guardò con lo stesso sguardo che aveva lei.
“E chi ti ha detto come si gioca? Jakob?” Se Jakob aveva parlato di Battaglia con Anneke e non con lei gli avrebbe tagliato le dita dei piedi. Lentamente. Ma la piccola scosse la testa.
“Me l’hanno spiegato Theo e Ulrike. Abbiamo anche giocato insieme agli altri. È bello” rispose lei. Oh. Si scoprì ad annuire senza riuscire a dire niente.
“Theo è bravo” disse il Maggiore, quasi a se stesso. Wolfrun lo guardò stranita. Era un po’ particolare, quel tipo. Ma sembrava una brava persona. Aveva parlato con Nora?
“Abbiamo sistemato… sai quella cosa…” le disse. Come? Wolfrun piegò il capo di lato. Parlava di Nora?
“Quale cosa?”
Lui posò lo sguardo alle sue spalle e alzò un braccio chiamando qualcuno. Si girò.
Vide Roberto e un altro militare avvicinarsi. Si irrigidì. Quando loro furono vicini cercò di mettersi davanti ad Anneke: non si fidava di Roberto. Ma lui aveva una faccia diversa, non la solita faccia pericolosa.
“Wolfrun.”
Le fece un cenno con il capo quando la riconobbe. Oh. Era un buon segno che la chiamasse per nome?
“Roberto” contraccambiò il saluto senza spostarsi dalla bambina.
“Maggiore, io e il ragazzo pensavamo di andare ad aiutare con lo sbarco delle scorte” disse il militare con Roberto e il Maggiore annuì.
“Aiuti i militari?” chiese Wolfrun sorpresa, al ragazzo del Reichstag.

 

 

William rispose alla ragazza al posto suo.
“Io penso che sarebbe un ottimo militare. Glielo dicevo anche l’altro giorno, eh, Roberto?” Roberto gli rispose affermativamente e Wolfrun gli chiese: “Andrai in America anche tu, allora?”
Lui spalancò gli occhi. Non ci avevano pensato, in effetti.
“Ti piacerebbe venire con noi? Potresti frequentare l’accademia.
È un pochino dura all’inizio, ma sei molto in forma e scommetto che non avresti grossi problemi. L’esercito non è male, se preso con il giusto spirito. E ci sono dei corpi speciali dove potresti stare bene” spiegò il Maggiore. Roberto lo guardò: poteva essere un’idea.

 

 

Wolfrun vide Roberto pensarci.
“Beh, in fin dei conti che ti rimane qui? Potrebbe essere una buona idea. Un modo per… ricominciare. O no?” disse e tentò di sorridergli.
Sapeva di non essere molto brava in quelle cose, ma quello che aveva detto era vero. L’aveva provato sulla sua pelle. Andare via da Berlino e ricominciare da un’altra parte. Tipo Lemnos.
“E poi potresti sempre tornare. Magari quando avranno riaperto le gelaterie e i fast food” cercò di essere spiritosa.
Lui la guardò, come se volesse studiarla. “Gelaterie e fast food, e magari anche lo stadio…”
Poi sorrise e si voltò verso il Maggiore. Lui scosse le spalle e disse: “Pensaci”.
Dopo poco Roberto e il militare andarono verso la pista e loro si incamminarono insieme.

 

***

 

I bambini, ma anche gli altri effettivamente, schiamazzavano tutti raccontando del prato che avevano trovato. Ognuno aveva un’idea, un suggerimento, o qualsiasi cosa, da raccontare agli altri. Era divertente vederli così. Solo alcune ragazze non erano interessate al gioco. Qualcuna, tipo Petra o Sabine, ancora erano partecipi all’organizzazione della cosa, ma altre si erano via via disinteressate mentre crescevano.
Jakob vide Wolfrun scherzare e ridere con Anneke e si avvicinò a loro.
“Jakob!” lo salutò la piccola. La ragazza invece gli sorrise. Se ne stupì. Aveva sorriso pochissimo da quando erano lì a Berlino. Doveva essere contenta. O forse aveva iniziato a scacciare i suoi famosi demoni.
Si sedette vicino a lei.
“Che fate?” chiese loro.
“Anneke mi sta spiegando come si gioca a Battaglia” rispose lei guardandolo con occhi divertiti. Strano, non sembrava arrabbiata.
“Bene” disse, un po’ preoccupato. C’era qualcosa sotto? “E… hai capito come si gioca?”
Non le chiese cosa ne pensasse. Aveva paura di quello che avrebbe potuto rispondere, ma lei si girò verso di lui e disse a mezza voce: “Non proprio… Ma lei si arrabbia quando non capisco… così non chiedo più niente”.
Jakob la guardò mentre parlava con leggerezza e divertimento. Come?
“E come farai a giocare?” domandò alla ragazza.
Il suo cuore iniziò a battere furiosamente e, senza rendersene conto, trattenne il respiro. Sapeva che quello che le aveva chiesto era molto diverso dalla sua reale domanda. Se lei avesse detto che non avrebbe giocato, voleva dire che non avevano risolto la discussione di quella mattina per strada. La storia sulla fiducia, sul confidarsi, sui segreti. Ma lei lo stupì ancora.
“Oh, chiederò spiegazioni a Louis” disse, con leggerezza.
Jakob fece un sospiro di sollievo finché non si rese conto di quello che aveva detto. Perché avrebbe dovuto chiedere a Louis? C’era lì lui! Avrebbe dovuto chiedere a lui! Mica a Louis.
“Perché Louis?” chiese infatti. Si preparò a una brutta battuta da parte sua, qualcosa che infierisse sul suo amor proprio o qualcosa così. Probabilmente le avevano raccontato di quanto fosse scarso a battaglia.
“Perché giochiamo in squadra con Louis” disse invece, candidamente, lei. Come? Come?
“Perché giocate con Louis?” continuò a chiedere. Si sentiva quasi stupido a far tutte quelle domande.
“Perché è la squadra di Ulrike!” esplose Anneke, con le braccia spalancate verso il cielo. Oh.

 

 

Wolfrun capì quanto Jakob ci fosse rimasto male. Ma non disse niente. Era stata brava. Non aveva detto niente. Nessuna delle volte che lui le aveva messo lì una rispostaccia da dargli. Era solo che lei si sentiva bene e non aveva voglia di bisticciare. Non in quel momento.
Sorrise e alzò una spalla.
“Ha deciso così Anneke” spiegò.
“Saremo la squadra verde!” squittì ancora la bambina ridendo. Britta si sedette di fianco a lei e arrivò anche Christa.
“Anch’io gioco con i verdi!” Tutti si voltarono verso la piccola bionda.

 

 

Jakob alzò un sopracciglio. Britta non aveva mai giocato a battaglia. Si era perso qualcosa? Wolfrun alzò un braccio e le diede il cinque a mano aperta che Britta ricambiò ridendo. Ok. Doveva essersi perso parecchie cose.
“E tu Christa, con chi giochi?” chiese Anneke. Lei fece finta di pensarci e rispose alla bambina: “Non penso che giocherò. Non mi piace molto battaglia…”
“No?” chiese stranita Anneke, con gli occhi spalancati, come se potesse essere possibile che a qualcuno non piacesse giocare a battaglia. “E a cosa ti piace giocare?”
Britta rise trasformando la risata in un colpo di tosse.
“Britta!” Christa la sgridò.
La bambina le guardò tutte e due corrugando la fronte. Jakob si sentì in imbarazzo.
“Christa è troppo noiosa per giocare a qualcosa” disse ad Anneke la bionda. La piccola spalancò la bocca.
“Ma non è vero! Non sono noiosa!” Christa si agitò e Jakob dovette sforzarsi di non ridere.

 

 

O santo cielo, ci mancava solo che bisticciassero davanti ad Anneke. Wolfrun si girò verso Jakob alzando un sopracciglio, ma lui stava ridacchiando.
“Beh, un po’ lo sei” continuò Britta. Ora Jakob dovette anche lui trasformare la sua risata per non offendere la bionda. Lo guardò ancora stranita. Ma… che succedeva?
“Vedi, Anneke, tempo fa, io andavo allo stadio, dove si giocava a calcio. Andavo a tifare la mia squadra del cuore. E ci giocavo anche a scuola. Ero molto brava. E non ero per niente noiosa!” concluse lanciando uno sguardo di avvertimento a Britta.

 

 

Jakob ridacchiò ancora. E scambiò un’occhiata con Britta. Come se fosse stata incalzata da un’idea proposta da lui, Britta gli sorrise e disse alla bionda: “E che squadra di calcio tifavi, Christa? Era una squadra forte?” E ridacchiò un pochino.
Jakob sapeva che Britta tifava l’Herta Berlin come lui e invece a Christa piaceva un’altra squadra.
“Sì, Christa, di che colore ti vestivi allo stadio?” la prese in giro anche lui. Lei sbuffò.
Poi Christa si voltò verso Anneke e disse con un po’ di esagerata compostezza: “Non fare caso a loro, Anneke, sono un po’ impertinenti perché pensano di tifare per la squadra più forte” spiegò alla bambina, che annuì seguendo il suo discorso.
“Perché lo era, la più forte. Dai, dillo di che colore ti vestivi tu, Christa” disse Britta. Christa alzò il mento, come per prepararsi a un combattimento e disse con orgoglio: “Lilla, mi vestivo di lilla”.
Britta ridacchiò ancora, ma poi Wolfrun esclamò: “Tebe! Tifavi per il Tebe!” Christa le sorrise e annuì, così lei continuò: “Anche mio padre tifava Tebe. Siamo andati qualche volta a vedere gli allenamenti. Ci aveva fatto conoscere Becker e Hutson”.
Christa si portò una mano al petto e sospirò dicendo: “Becker? Quello bello?” Wolfrun alzò le spalle.
“Immagino di sì. Dorothea lo trovava molto carino…”
“Oh no, era bellissimo” disse Christa con occhi sognanti.
Ok. Jakob non voleva ascoltare oltre. Il Tebe? Quella squadra di fighetti? Anche Wolfrun tifava Tebe? Ma una ragazza normale no?
Si alzò e porse la mano ad Anneke, mentre diceva: “Vieni, andiamo via. Prima che inizino a sospirare e dire chi avrebbero voluto sposare”.
Si portò via la bambina e si allontanò. Il Tebe!

 

 

Ma… Wolfrun non aveva capito.
“Cos’è successo?” chiese e Britta ridacchiò.
“Jakob è molto protettivo nei confronti dell’Herta Berlin” spiegò, col sorriso sulle labbra.
“Come sei sciocca a volte, Britta…”
“Come sei noiosa a volte, Christa” ribattè l’altra in risposta.
E poi risero tutte e due, guardandosi.
Beh, si erano appena insultate e ridevano. Per un attimo, solo per un attimo, Wolfrun invidiò la loro amicizia.
Avere qualcuno con cui ridere così. Un po’ come con Jakob, con cui potersi dire tutto e riderci su. Poi Timo chiamò Christa e lei si alzò lasciandola sola con Britta.

 

 

Britta guardò Christa andare via e poi si voltò verso Wolfrun. La guardò a lungo prima di parlare. Loro non erano in confidenza, non erano amiche. Ma non se la sentiva di chiederlo a nessun’altra. Sospirò per darsi un po’ di coraggio.
“Si può sapere cosa c’è?” le chiese Wolfrun nervosa e si voltò verso di lei con sguardo scocciato. “Mi stai fissando e non mi piace. Cosa c’è?” Oh, l’aveva beccata. Ok.
“Ascolta…” iniziò avvicinandosi e abbassando la voce. Non che ci fosse in giro qualcuno, in quel momento. “Fa…” abbassò ancora di più la voce.

 

 

Wolfrun dovette avvicinarsi perché Britta aveva abbassato la voce ancora.
“Fa male?” le chiese. Eh? Di cosa parlava?
“Cosa?” domandò anche lei a bassa voce. Lei sbuffò.
Quello. Fare l’amore. Fa male?” Oh, santo cielo. Si sentì arrossire.
“E come faccio a saperlo io? Perché non l’hai chiesto a lei?” sbottò, nervosa indicando il posto dove era seduta Christa.
La bionda spalancò gli occhi, imbarazzata.
“Oh, scusa. Io pensavo che tu…” iniziò a scusarsi.
“Pensavi male” le disse Wolfrun. Com’è che quelle ragazze capivano sempre male?
“Ma… Davvero? Tu non hai mai…” tornò alla carica Britta.
“No” la interruppe, ancora nervosa.
“Cavolo. E a chi chiedo ora?” chiese a nessuno in particolare. Come?
“Beh, siete pieni di ragazze qui…” ammise Wolfrun. Se fossero state a Lemnos, avrebbe potuto chiedere a chiunque, praticamente.
“Mmm…” continuò la bionda. “E Christa? Chiedi a lei…” disse, alzando le spalle. Ma Britta sbuffò.
“Christa? Guarda che a volte è un po’ noiosa davvero, sai? Però non dirglielo. Non è colpa sua. È solo che vorrei evitare di sapere quanto Timo è stato bravo, gentile, premuroso eccetera, la prima volta. A volte è un po’stucchevole quando si tratta di Timo…” disse la bionda. Come? Come? La prima volta con Timo? E Jakob?
“Timo?” sussurrò. Britta corrugò la fronte.
“Sì, Timo. Oh, sveglia ci sei? Sai, il tipo da cui aspetta un figlio?” Wolfrun annuì senza parlare. Timo, quindi? Ma cavolo, con Jakob non era successo niente?
“E Jakob?” non riuscì a fermare la voce.
“Jakob? Non ho intenzione di chiedere a lui!” sbottò ancora la bionda.
“No, intendevo… oh, lascia stare” disse Wolfrun.
“Oh! Intendevi Jakob e Christa? No, non è successo niente. Si sono baciati una volta, durante la battaglia di Natale sai quando a Gropius… oh…” Britta si zittì. Giusto, la battaglia che aveva organizzato lei.
Un bacio. C’era stato solo un bacio. Un bacio poteva sopportarlo, pensò. Sì, lei sì, ma Jakob? Si domandava cosa si fosse perso? Pensava ancora a lei? Era geloso di Timo?
Ma poi a lei cosa interessava? Già. A lei Jakob non interessava. Ok, basta con quella stronzata. Basta raccontarsi balle. A lei Jakob interessava. E tanto. E voleva baciarlo. E non solo.

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***Eccomi ancora con un altro capitolo... spero che la storia vi piaccia... Se vi va fatemelo sapere.

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Capitolo 15
*** Battaglia ***


Battaglia

 

“Stasera mi accompagni da Louis” disse Britta e non era una domanda: era un ordine.
Wolfrun alzò lo sguardo da quello che stava facendo, ossia niente, e guardò la ragazza.
“Cosa hai detto?”
Britta sorrise. Di quel sorriso furbetto che le aveva rivolto la prima sera.
“Ho detto che mi accompagni da Louis” spiegò ancora. Wolfrun sbuffò.
“E se non ne avessi voglia?” chiese, con noncuranza.
La biondina strinse le labbra nervosamente e disse: “Ve ne siete andati. Me lo devi: stasera mi accompagni da Louis”.
Sbuffò ancora. Ma quella ragazzina non aveva delle amiche?
“Perché io? Perché lo chiedi a me?” le chiese. Britta alzò le spalle.
“Mi piaci perché non fai domande. E le altre me le farebbero. Tante domande. Troppe.”
“Giuro che te le farò anch’io” sbottò Wolfrun e la bionda ridacchiò. Non riuscì a non sorridere. “Ok. Va bene…”
Sorrise anche l’altra e sussurrò: “Grazie”.
Le gettò le braccia al collo in una sorta di abbraccio e lei la scansò, dicendo: “Sì, sì, ma niente smancerie!”

 

 

Britta sbuffò. Certo che a volte Wolfrun era insopportabile.
“Vieni con me in cucina, Nora ha bisogno di aiuto per impastare” le disse e Wolfrun alzò gli occhi al cielo.
“Oh, voi sapete proprio cosa fare per divertirvi, eh?” disse ironica.
Britta sorrise, perché aveva visto la mora lavorare in cucina e l’aveva vista impastare: le piaceva. Immaginò che non l’avrebbe mai ammesso con lei. Infatti si alzò e la seguì mentre si dirigeva verso la cucina dei campi.
Quando arrivarono, Petra Sabine e Deike erano fuori dalla porta della cucina e chiacchieravano fra di loro.
“Che succede? Perché non siete dentro?” chiese lei, alle ragazze.
Petra si spinse gli occhiali sul naso.
“Il maggiore ci ha chiesto di lasciarlo solo con Nora” dichiarò.

 

 

Wolfrun scambiò un’occhiata con Britta e alzò un sopracciglio.
“Deve essere una cosa importante” sussurrò la bionda. Wolfrun scosse le spalle e si avvicinò a una finestra per guardare dentro la stanza.
Ma quando fu davanti al vetro, si bloccò, con la bocca aperta. Il maggiore era in ginocchio, davanti a una Nora esterrefatta e le porgeva un anello. O santo cielo.
Cercò di impedire alle altre di affacciarsi, ma non ci riuscì. Sabine e Petra lanciarono due risolini isterici e anche Britta cercò di avvicinarsi.
“Che succede?” chiese la bionda a Wolfrun.
“Le sta chiedendo di sposarlo!” gridò Sabine, in uno scoppio incontrollato di isterismo. Ommioddio.

 

 

Cosa? Cosa? Il maggiore stava chiedendo a Nora di sposarlo? Cavolo. Cavolo! Ma era una bella cosa! Britta Sorrise.
“Oh, devono amarsi così tanto!” sospirò Deike. Aveva appena quattordici anni, Deike. “Lui deve essere innamorato davvero!”
Wolfrun si girò verso di loro e chiese: “E come si fa a sapere se uno è innamorato?”
La ragazzina doveva avere uno spirito molto romantico perché le rispose: “Ti dice che ti ama…”, con gli occhi sognanti.
“Potrebbe dirtelo anche se non ti ama” disse Petra scuotendo le spalle, forse era quella più razionale, fra di loro.
“Ti protegge, fa le cose per te, ti chiede di vivere con lui…” snocciolò allora Deike. Sembrava quasi un’esperta di teoria sull’amore.

 

 

Wolfrun pensò a Georgos, a Lemnos e, senza rendersene conto, disse: “Un ragazzo mi ha detto che mi amava, due settimane fa…”
Quattro paia di occhi le si puntarono addosso. Si rese conto di aver parlato ad alta voce e si maledisse mentalmente mentre le altre iniziarono a farle domande animatamente. “E chi era?”, “E tu che gli hai risposto?”, “Ma tu lo ami?”, “È bello?”, “Ti ha baciato?”
Poi Britta le chiese sottovoce: “È stato Jakob?”
Le altre non la sentirono, per fortuna, ancora intontite dalle domande e dal rumore del chiacchiericcio. Lei scosse la testa verso la bionda e poi guardò da un’altra parte.
Sentì Britta sospirare. Come se per lei fosse stata una delusione. Come se le interessasse veramente sapere se…
“E com’è finita?” chiese ancora Petra.
“Voleva che andassi a vivere con lui. Ma gli ho detto di no. E ho fatto bene. Georgos era un idiota, ha anche fatto a botte con Jakob” disse, lasciandosi prendere un po’.
“JAKOB?” chiesero tutte insieme.
Wolfrun corrugò la fronte. Già, doveva essere una cosa strana anche per loro. Annuì, cercando di sbirciare ancora dentro la finestra.
“E come mai?” chiese Deike e la mora scosse le spalle. Effettivamente non lo sapeva.
“Non lo so” disse.
“E non glielo hai chiesto?” Wolfrun guardò Sabine, che la guardava sgranando gli occhi.
“No” le rispose.
“È così romantico…” sospirò Deike.
“È stato stupido. Jakob ha avuto un occhio gonfio per tre giorni” disse sbuffando la mora. Non c’era niente di romantico in una scazzottata. Lo sapeva perché aveva partecipato a più di una rissa.
“Però ha difeso il tuo onore” disse ancora la ragazzina. Alzò un sopracciglio.
“Non ho mai avuto bisogno che difendesse il mio… onore” calcò sull’ultima parola quasi con disprezzo. Non aveva bisogno di nessuno.
“Forse era geloso, allora” disse ancora. Wolfron questa volta sbuffò forte. Quella ragazzina era estenuante. E dannatamente fastidiosa.

 

 

Britta ridacchiò quando Wolfrun sbuffò e lei si voltò verso la bionda con uno sguardo di fuoco, ma Britta ridacchiò più forte e le lanciò un’occhiata di sfida. La mora la ignorò e poi chiese a Deike: “E come fai a sapere se tu ami qualcuno?” Come? Cosa le aveva chiesto? Gli occhi di Deike brillavano.
“Sai di amare qualcuno quando pensi sempre a quella persona e vederla ti fa battere il cuore così forte che pensi di morire” dichiarò, con enfasi.
“Sembra una malattia!” Eccola qua, la Wolfrun di Tegel, pensò Britta.
“È quando non riesci a staccare gli occhi da lui” disse Sabine. Probabilmente stava pensando a qualcuno in particolare.
“O quando hai sempre voglia di fare l’amore con lui.”
“PETRA!” la sgridò Sabine.
Lei rise ed esclamò: “È vero!” Petra stava con Tesoro da tantissimo tempo, erano per forza tanto intimi. Forse da prima del vaccino.
Poi Wolfrun si voltò verso di lei e disse: “E tu? Non mi dici come si fa a sapere se ami qualcuno?”

 

 

Wolfrun aveva voluto mettere in imbarazzo Britta apposta. Ma lei le rispose sottovoce: “È quando soltanto il pensiero di perdere quella persona, ti fa stare così male che pensi di morire e quando succede davvero…” Wolfrun spalancò gli occhi.
Gli occhi di Britta divennero lucidi. Anche le altre si zittirono. Probabilmente tutte stavano pensando la stessa cosa: Bernd. La mora si avvicinò a Britta e le strinse la mano.
“Scusami” disse.
La biondina non poteva saperlo, ma non era una parola che Wolfrun dicesse con facilità. Lei annuì e in quel momento si aprì la porta della cucina.
Il Maggiore uscì a passo veloce, con un una faccia stranita. Non sembrava contento. Ma non sembrava triste. Sembrava… confuso. Le salutò e si avviò in tutta fretta lontano dai campi. Oh. Ma cosa…

 

 

Quando le ragazze entrarono, Nora capì dallo sguardo della piccola Deike che avevano capito cosa stesse succedendo. Si avvicinarono piene di aspettativa, ma Nora le liquidò velocemente dando istruzioni per il pranzo. Nessuna fiatò.

 

 

“Ma cosa è successo?” Britta si avvicinò a Wolfrun che, dopo essersi lavata le mani, aveva già messo le mani nell’impasto.
“Qualcosa che non vuole condividere con noi, Britta” le disse.
La bionda sbuffò.

 

 

“Dovremmo parlarle, secondo te?” provò la ragazzina. Wolfrun sbuffò.
“Non mi sembra che voglia parlare” le rispose. Lei si voltò ancora verso Nora e anche la mora la guardò. Effettivamente sembrava un po’ spaesata.
“Le amiche servono a questo” disse Britta.
Wolfrun alzò le spalle dicendo: “Io non ho amiche”.
Era vero. Non aveva amiche, non sapeva come funzionavano quelle cose lì. Guardò ancora verso Nora.
“Se vuoi andare da lei, qui ci penso io” le propose, ma Britta fece una faccia strana e poi scosse le spalle.
“Ci vorrebbe Christa. Lei è più brava di me” disse, sospirando.
No! Ancora la perfetta Christa?

 

***

 

Alla fine, dopo che ebbero preparato tutto quello che dovevano preparare, Britta si era diretta a chiamare Christa e le altre ragazze avevano raggiunto i campi, così Wolfrun era rimasta sola con Nora.
Beh, era proprio da sola, alla fine, perché Nora stava spazzando per terra e sembrava su un altro pianeta. Si avvicinò cautamente.
“Ho sempre sentito dire che, quando succede, la ragazza piange di gioia e mostra l’anello a tutte le sue amiche” iniziò. Nora alzò su di lei uno sguardo così triste che si morse il labbro, pentendosi di aver parlato.
“Vuoi essere mia amica?” le chiese sospirando.
Wolfrun alzò una spalla. “Perché no?” Nora si sedette su uno sgabello.
“Mi ha chiesto di sposarlo e di andare in America con lui” dichiarò, in tono grave. Oh santo cielo. Cioè, non aveva capito dell’America. Però effettivamente… ci stava. “E…?” chiese, quando non continuò. Nora la guardò malissimo.
“Secondo te? Posso lasciare tutto questo?” disse, aprendo le braccia e indicando tutto ciò che aveva intorno.
“Avevo capito che ti sentissi sola, qui. Potresti provare ad andare…” provò. Nora scosse le spalle. “Io sono andata via. Sai, forse fa un po’ più paura pensarci che farlo davvero” continuò.
Nora alzò un sopracciglio e disse: “Tu non avevi niente. Io ho tutto. C’è una bella differenza!”
Wolfrun si morse il labbro. Non sapeva bene cosa rispondere. Lei non aveva niente davvero. Ma Nora cosa aveva che le impediva di partire?
“Lo sposeresti se lui rimanesse qui con te?” Chiese a Nora e il suo viso per un attimo si illuminò. Sì lo avrebbe sposato. “E lui a cosa rinuncerebbe se stesse qua con te?” Nora si adombrò ancora e poi annuì.
“La sua famiglia, il suo lavoro, i suoi amici…” sussurrò, ma poi si agitò.
“Ma anch’io ho la mia famiglia, qui. Le ragazze, i bambini. Sono loro la mia famiglia. Non voglio rinunciarci.”
“Christa vive con Timo. Presto avrà una sua famiglia. Le altre stanno crescendo. Sono brave con i bambini, le ho viste. E piano piano cresceranno anche i bambini. Se ne andranno, tutti. Vuoi davvero rimanere qui, da sola, quando accadrà? E quando tutti saranno cresciuti e avranno preso la loro strada? Non ti mancherà il Maggiore? Non ti pentirai di questa scelta?” Wolfrun scosse le spalle, mentre la metteva di fronte alla verità.
“E Theo?” chiese Nora.
Theo era suo nipote. Il figlio di sua sorella. Lui era la sua famiglia da prima. Era il più piccolo dei bambini orfani del virus.
“Il maggiore non vuole Theo?” chiese Wolfrun con gli occhi spalancati: questo cambiava tutto.
“No, in verità mi ha detto che c’è posto anche per lui. È che io ho paura. Cosa vado a fare là? E se poi con William non funziona? Mi ritrovo in un paese che non conosco… a fare che?” Nora si torceva le mani, anche la sua voce tremava.
“Sai, l’America è così lontana che ha un grosso pregio: la vita lì non si è fermata. Il virus non è arrivato. Vuol dire che funziona ancora tutto. Le scuole, le attività… Vuoi fare l’infermiera? Ci sarà di sicuro un corso per imparare a farlo. Vuoi aprire una panetteria? Scommetto che là si può. Vuoi fare la mamma? Potrai fare la mamma dei bambini del Maggiore o di qualcun altro. Sinceramente, penso che le scelte che avresti là, siano molto più interessanti di quello che ti lasci qua” le disse. Nora aveva seguito il suo discorso con attenzione. “Tutti hanno paura, Nora. Ma la paura non deve impedirti di fare ciò che è meglio per te”.

 

 

Capirono che stavano arrivando Britta e Christa quando sentirono gli schiamazzi di Abel, Theo e qualche altro bambino. Nora si asciugò velocemente le lacrime che le erano scese e preparò il suo miglior sorriso.
“Grazie, Wolfrun. Ci penserò.”

La mora alzò le spalle mentre diceva: “Non c’è di che”.
Poi Nora sussurrò: “Dici che potrei andare davvero a scuola?” Wolfrun rise.
“Ho sempre pensato che fossi una secchiona!”

 

***

 

“Stasera veniamo da voi.”
Louis era seduto a riparare un orologio a uno dei tavoli che c’erano ai campi, quando un’ombra gli offuscò la visuale.
Alzò gli occhi quando riconobbe la voce che gli aveva parlato: Wolfrun. Non disse niente, lei la prese come un invito e si sedette sulla panca davanti a lui.
“Me l’ha chiesto lei” continuò la ragazza.
Si fece più attento, ma lasciò lo sguardo fisso sull’orologio.
“Venite a cena?” le chiese.

 

 

Come? A cena? No, no. Scosse la testa. Doveva prima chiarire delle cose con lui. Il pensiero della biondina che parlava di perdere le persone che si amano e a cui si inumidivano gli occhi, gliela avevano fatta considerare diversamente.
“Tu lo sai che ha perso una persona a cui voleva molto bene, vero?” gli chiese.
Lui la guardò velocemente e poi riportò l’attenzione sull’orologio. Dopo qualche minuto annuì con il capo. Bene: la stava seguendo.
“E lo sai che non bisogna mai mettere fretta a una ragazza, vero?” domandò ancora. Lui sbuffò.
“Non ho mai…” Louis si interruppe, alzando la testa.
“Io so che hai tentato di baciarla quando non voleva. La sera che sei andato via arrabbiato dalla casa dei bambini, giusto?”
Wolfrun aveva bluffato. Britta le aveva detto che lui aveva tentato di baciarla e lei non glielo aveva permesso e siccome le cose fra loro sembravano cambiate da quella sera, aveva fatto due più due. Ma aveva rischiato. Poteva andare male, ma invece andò bene.
“Le ho detto che aspetterò i suoi tempi” rispose lui, senza negare né confermare niente. Wolfrun sorrise. Bravo Louis. Annuì.
“Quando la persona che ami muore, ti sembra un tradimento volere ancora bene a qualcuno, capisci? Ma poi si torna a voler bene. Basta avere un po’ di pazienza” gli spiegò. Lui la guardò seriamente e annuì.

 

 

Jakob sentì Wolfrun dire quell’ultima frase mentre si avvicinava a Louis per dirgli di aver pescato il pesce per la cena. Chi è che aveva amato e poi era morto? Caspar, forse? O qualcun altro? Quando fu vicino a loro informò velocemente il francese della cena e poi chiese a Wolfrun: “Chi è che è morto?”
No. Non voleva fare la domanda così!
“No, intendevo…” inziò a scusarsi Jakob, ma non riuscì ad andare avanti.
Louis si alzò e raccolse l’orologio e tutti i suoi pezzi nel fazzoletto di stoffa e se ne andò. O cavolo, pensò, mentre lo guardava andare via.
“Complimenti” disse ironica Wolfrun, alzando un sopracciglio. Lui la ignorò e si sedette al posto di Louis.
“La persona che amavi e che è morta… era Caspar?” chiese, con voce tremante.
Poteva essere che lei fosse innamorata di qualcuno, qualcuno che non fosse lui, e che per questo facesse fatica a lasciarsi andare? Si sentì vagamente paranoico, mentre lo pensava. Ma non voleva lasciare niente al caso. Voleva Wolfrun. Voleva che stesse con lui, voleva baciarla, voleva tenerla per mano davanti a tutti. Voleva che lei lo volesse con la stessa intensità con cui la voleva lui. Ma la faccia della ragazza divenne strana.
“Caspar? Ma cosa dici, no! E poi, io non ho mai amato nessuno” disse, con un’espressione quasi inorridita. Oh. Sicura, Wolfrun?
“No?” chiese Jakob e lei, per qualche strano motivo, divenne rossa sulle guance.
Scosse la testa. Oh, bene. Sorrise. Ma lei lo guardò male. Il suo sorriso si spense.
“E di chi parlavi?” domandò.
Lei scosse la testa e sbuffò rispondendo: “Nessuno, Jakob”. Si alzò e lo lasciò, solo, al tavolo da pic nic.

 

***

 

“Allora: faremo un triangolare. Prima i verdi contro i rossi. Poi chi perde contro i blu. Alla fine l’ultima partita. Giocheremo a tempo. Avete bisogno che vi ripeta le regole?” Timo gridava nonostante il megafono.
Il prato che c’era a Berlino Est era perfetto, Louis aveva ragione. Quando lo aveva mostrato a Timo, Akay e Mehmet, loro avevano annuito. Erano tutti d’accordo con lui.
Timo e il Maggiore si erano allungati fino agli alloggi degli adulti che, con sorpresa da parte dei due, non avevano intralciato il loro desiderio di utilizzare il prato per giocare a battaglia. Anzi, qualcuno si era presentato e si era seduto sulla piccola collinetta che chi non giocava usava come tribuna.

 

 

“C’è un bel po’ di gente, eh?” disse Britta, avvicinandosi a Wolfrun. Sì, lo aveva notato anche lei. I militari, gli adulti e gli altri che non partecipavano alle partite, tanta gente. Sospirò.
Per un attimo si pentì di aver accettato di giocare. Era una stupidaggine. Non avrebbe dovuto. Guardò Britta che saltellava sul posto, e si tirava i muscoli delle gambe.
“Che fai?” le chiese. Sembrava uno scoiattolo scordinato.
“Riscaldamento. Se vuoi centrare il bastone, dovrai correre” spiegò la bionda.
Wolfrun si guardò mentre muoveva il piede della gamba che Roberto le aveva ferito. Non sentiva quasi più niente, a parte quando saltava. Non avrebbe dovuto saltare, giusto? E poi, forse, non si sarebbero neanche accorti se avesse solo fatto finta di giocare.

 

 

“Siete pronte?”
Jakob arrivò alle spalle delle ragazze, spaventandole.
“Cretino!” dissero in coro.
Wolfrun tentò di dargli uno scappellotto ma lui fu più lesto e saltellando si spostò. Ridacchiò e correndo all’indietro disse ad alta voce: “Vincano i migliori. Cioè noi!”
Vide la faccia di Wolfrun trasformarsi. Era competitiva. Lo sapeva bene. L’aveva vista vacillare poco prima, guardando tutta la gente, così pensò di distrarla con quella battuta.
“Ehi, e chi ha detto che vincerete voi?” chiese, correndo per raggiungerlo così accelerò l’andatura e corse lungo il prato e quando fu in un punto abbastanza lontano dagli altri, rallentò per lasciarla avvicinare.
Lei aveva quasi il fiatone. Rise e la stuzzicò: “Non mi sembri proprio in forma”.
“Ehi!” esclamò Wolfrun, contrariata.
“Dai, su, non prendertela” tentò di rabbonirla lui.
“Da quel che ho capito, non sei proprio bravissimo in questo gioco, eh?” ribattè lei. Non era il tipo da stare zitta. Jakob rise.
“Potremmo fare una scommessa, allora. Che dici?” le chiese e si avvicinò con due passi, parandosi davanti a lei.
Vide chiaramente gli occhi della ragazza ridere divertiti.
“Mmm e cosa vorresti scommettere? Lavare i piatti? Il giorno di bucato?” chiese lei e rise ancora.
O santo cielo. Non l’aveva mai sentita ridere così spesso.
“Pensavo a qualcosa di più personale…” azzardò lui.
Lei alzò un sopracciglio e scherzò: “Più personale di lavare i calzini?”
“Molto, molto più personale…”

 

Lo sguardo di Jakob si fece intenso e lui si avvicinò ancora.
“Molto più personale…”
Wolfrun sentì la testa girare. Jakob aveva intenzione di baciarla? In quel momento?
Quando lui fece un altro passo si caricò d’aspettativa. Voleva baciarlo anche lei. Timo gridò ancora dentro il megafono annunciando l’inizio della prima partita e tutti e due si girarono verso di lui così Wolfrun si rese conto che gli altri erano tutti lì. Tutta Berlino, praticamente. Ringraziò mentalmente Timo per il suo tempismo e si voltò verso Jakob.
“Allora in bocca al lupo. Ci vediamo stasera” disse la ragazza e gli fece l’occhiolino.

 

 

 

Come? Come? Wolfrun lo salutò con la mano per raggiungere quelli della sua squadra. Dannazione! Era così sicuro che lei non si sarebbe tirata indietro, questa volta!
Per un attimo odiò Timo. Per due attimi. Oh, Timo, non avevi niente da fare? Sospirò, si mise le mani in tasca e si incamminò verso i rossi.

 

 

***

 

 

Anneke si stava divertendo da matti: Battaglia era un gioco bellissimo.
I ragazzi urlavano consigli alla persona che aveva in mano l’anello di corda, che andava lanciato e infilato nel bastone che reggeva la persona che si chiamava ‘portabastone’.
C’era un sacco di confusione e tutti gridavano. Anneke pensava che fosse bello anche solo quello. L’entusiasmo dei ragazzi era notevole. Aveva visto ridere anche Wolfrun mentre le lanciava l’anello di corda dopo aver fatto i tre passi di regolamento.

 

 

Britta era competitiva quel giorno, aveva bisogno di sfogarsi muovendosi un po’ e scoprì di essere abbastanza brava nel segnare punti. Si era ritrovata davanti al ragazzino con il bastone più volte e ogni volta che lei aveva lanciato la corda, lui era riuscito a farla cadere lungo l’asta. Si sentiva carichissima.
L’ultima volta aveva visto Louis sorridere nella sua direzione e battere le mani, prima di alzare il pollice verso di lei. Si era sentita arrossire. Era stato fantastico.
Ora la corda era in mano ad Anneke, che gliela lanciò. Valutò la situazione: la lanciò a Petra che era abilissima e poi corse dall’altra parte per avvicinarsi al portabastone. Petra saltò tre volte e si avvicinò all’area, tutti i giocatori dell’altra squadra la circondarono per impedirle di lanciare l’anello e si trovò un attimo in difficoltà.

 

 

Wolfrun corse dietro a Petra, vedendo che nessuno aveva pensato di marcarla alle spalle e così la chiamò. La ragazza capì velocemente e le passò la corda, Wolfrun fece i tre passi, corti perché doveva essere veloce e la lanciò a Britta che segnò subito.

 

 

Louis era abbastanza vicino alla bionda da riuscire ad avvicinarsi e abbracciarla. Lei si stupì e lui vide il rossore colorarle tutto il viso.
“Sei stata bravissima” le sussurrò vicino all’orecchio e la sentì rabbrividire. Come avrebbe voluto baciarla!
Quando Petra e Ulrike saltarono addosso a Britta si staccò, malvolentieri, da lei. Ma fu contento di vedere la delusione anche sul suo viso.

 

 

“Ok, basta smancerie, su, stiamo giocando” disse Jakob, scontroso.
Si stava innervosendo. Loro stavano vincendo e alla grande, anche. Sperò di fare meglio al prossimo giro. L’anello venne fatto rientrare in campo e questa volta lo tennero i rossi.
Riuscirono ad arrivare a metà campo con un po’ di difficoltà, ma un ragazzino riuscì a lanciargli l’anello quando lui gli fece cenno. Lo vide arrivare ed era così sicuro di prenderlo che allungò la mano senza neanche bisogno di saltare.
Improvvisamente una botta forte al capo lo fece indietreggiare senza capire bene cosa stesse succedendo. Mentre camminava all’indietro mise un piede in quella che realizzò fosse una buca e la gamba cedette, così si ritrovò in un attimo sdraiato per terra, con un peso sullo stomaco, una botta alla nuca e per miracolo… l’anello di corda in mano. Le palpebre gli si chiusero da sole.

 

 

Quando aveva visto Jakob cadere, Wolfrun aveva urlato. Tanto. Aveva visto il ragazzo dei verdi saltare per intercettare l’anello e finirgli addosso. Ed era anche robusto.
Gli aveva dato un colpo alla fronte e Jakob aveva fatto qualche passo indietro prima di cadere malamente all’indietro, con il ragazzo robusto sul torace. Stupidamente, Wolfrun pensò alla prova di fiducia. Probabilmente era così che si cadeva in quella maledetta prova. All’indietro e senza possibilità di ripararsi la testa.
Corse come se ne andasse della sua vita, non si fermò neanche quando una fitta forte alla gamba le aveva tolto il respiro, e quando si chinò vicino a Jakob anche gli altri la raggiunsero. Come vide che aveva gli occhi chiusi sentì un blocco di ghiaccio al posto del petto. Che era successo?
Poi lui rise. Sempre con gli occhi chiusi. Quando li aprì, si stupì di trovare tutti intorno a lui, lei lo capì dal suo sguardo. Poi fece una cosa così stupida che Wolfrun pensò di strozzarlo. Lì, sul prato di battaglia. Lì, davanti a tutti.
Jakob si guardò intorno e lanciò la corda verso uno dei rossi gridando di andare a segnare. Tutti si guardarono e anche i pochi che si erano chinati accanto a lui, si rialzarono in piedi e presero a correre verso il ragazzo con l’anello. Sbuffò.
Jakob cercò di alzarsi ma vide il suo viso fare una smorfia.
“Ah, ti sei fatto male?” gli chiese, ironica. Lui rise.
“Sì, non riesco a muovere il piede. Ma hai visto che lancio?” esclamò, orgoglioso come Eleni quando Clara aveva mosso i primi passi.
Wolfrun sbuffò ancora e si alzò in piedi.
“Ehi, dove vai?” le chiese lui.
“A chiamare qualcuno che ti guardi” disse, facendo un cenno ai due militari che si sarebbero occupati degli infortuni e loro si alzarono. Ma il gioco non si fermò. Sbuffò ancora.
“Resta con me” chiese Jakob e le sorrise.
“Sei un cretino” disse lei.
“Non l’ho fatto apposta!” Il ragazzo rise ancora.
“Ti odio” mentì lei e da come lui la guardava, sapeva che non ci aveva creduto.
Appena arrivarono i militari, li aiutò a trasportarlo fuori dal campo e stette vicino a lui.
Aveva detto di odiarlo. L’aveva odiato quando l’aveva visto cadere. Quando non l’aveva visto rialzarsi e l’aveva odiato quando non aveva aperto gli occhi nel momento in cui lei si era avvicinata. Neanche sentì Timo che al megafono annunciava la fine della prima partita e proclamava i verdi come vincitori.

 

***

 

“È solo una brutta storta. Due giorni di riposo forzato e sarai di nuovo in piedi” disse il militare.
Jakob annuì, ma la caviglia gli faceva male ed era gonfia. Wolfrun prese la busta di ghiaccio che le passò il militare e la fece cadere, non proprio delicatamente, sul suo piede.
“Ehi!” gridò.
Lei sbuffò, mormorando: “Scusa”, in tono stizzito.
Anneke si avvicinò a Jakob reggendo due fette di pane sopra cui Nora aveva versato generose dosi d’olio.
“Tieni, Jakob. Ti fa tanto male?” chiese porgendogli la merenda.
“Oh, Anneke, preferisco te come infermiera. Sei molto più gentile di Wolfrun!”
La bambina diede un morso alla sua fetta di pane e disse con la bocca piena: “Wolfrun ha urlato forte quando sei caduto”.
Jakob si meravigliò. Lui non l’aveva sentita. Guardò la ragazza, ma lei si alzò e si allontanò, lanciandogli un’occhiata strana.

 

 

Wolfrun si era dovuta allontanare. Quello che aveva detto Anneke era vero: aveva urlato, si era spaventata. Si era sentita morire. Si fermò quando fu abbastanza lontano dal campo.
“Anche preoccuparsi tanto da non riuscire a muoversi e gridare senza rendersene conto, può essere un sintomo.”
Si girò verso Britta e le chiese: “Come?”
“Come si fa a capire di amare qualcuno. Anche quello può essere un sintomo.”
Tornò a guardare altrove e annuì: ci aveva pensato anche lei.

 

***

 

“Sai che sono nervosa?” Britta diede un calcio a un sasso e sospirò, guardando la palazzina.
“Possiamo tornare indietro quando vuoi” le disse Wolfrun.
“Non voglio tornare indietro” sostenne, sicura. La mora annuì. Bene. Neanche lei voleva tornare indietro.
”Allora entriamo.”

 

***

 

Jakob era seduto a letto con il piede su un grosso cuscino. Louis gli aveva detto che aspettava la visita di Britta e quindi non voleva farsi trovare in salotto con lui. Era stato chiaro. E Jakob non è che avrebbe potuto essere veloce e scomparire in camera quando lei si fosse presentata, così aveva preferito rimanere lì direttamente. Doveva soltanto passare il tempo.
L’amico gli aveva lasciato dei fumetti. Dei fumetti che avevano portato i militari. Anche se erano in inglese, erano abbastanza divertenti. Ma lui si annoiava comunque.
Quando la porta della camera si aprì, entrò Wolfrun. Wolfrun? La guardò sorpreso. Dopo quello che aveva detto Anneke e la sua ritirata così… evidente, non avrebbe detto di rivederla prima del giorno dopo.

 

 

Wolfrun respirò lentamente e profondamente e poi aprì la porta. Pensò dopo al fatto che avrebbe dovuto bussare, almeno per educazione. Aprì la porta, entrò, e se la chiuse alle spalle.
Jakob era seduto sul letto con la gamba sollevata. La sua faccia sorpresa le fece capire che non la stava aspettando. Tentennò.
“Ciao” la salutò, spezzando il silenzio per primo.
“Ciao, Jakob, come stai?” gli chiese e la fronte del ragazzo si corrugò.
“Un po’ meglio, grazie. Cosa… fai qui?”

Respira, Wolfrun respira.
“S… sono qui per la prova di fiducia” dichiarò sottovoce. Lui spalancò gli occhi.
“Non riesco neanche ad alzarmi in piedi…” disse un po’ sconsolato.
“Oh, non preoccuparti. La faremo a modo mio” parlò forse troppo velocemente ma lui non ci diede troppo peso.
Woflrun si avvicinò al letto, scalciò le scarpe e si infilò sotto le coperte.

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***Eccomi, sono tornata! Scusate il ritardo!! Grazie a chi legge e se vi va, lasciatemi un commentino... 🙂😘🙂

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Capitolo 16
*** Ultimo giorno ***


Ultimo giorno

 

Jakob le aveva detto ‘Resta con me’, per paura che scappasse via, mentre lei non aveva nessunissima intenzione di andarsene, anzi, Wolfrun si sentiva stanchissima e accolse con piacere l’invito.
Si sdraiò su un fianco e lui si avvicinò a baciarle il collo da dietro. Tirò la coperta su di loro in modo che li coprisse del tutto e le cinse la vita prima di addormentarsi.

 

***

 

Jakob si svegliò con una sensazione diversa addosso. Quando aprì gli occhi sapeva già cosa aspettarsi. Il suo braccio stringeva il corpo di Wolfrun e lei era morbida e calda contro il suo petto.
Sarebbe rimasto lì per sempre. Ma doveva alzarsi. Cercò di non svegliarla mentre si spostava per tirarsi su dal letto.

 

Ma Wolfrun aveva il sonno leggero, allenato da anni di Tegel e di sensi sempre all’erta e si voltò verso di lui mentre scivolava in fondo al letto.
“Dove vai?” chiese.
“In bagno. Torno. Non andartene” rispose Jakob e lei annuì, più rilassata.
“Vuoi che ti aiuti?” si offrì, ma Jakob scosse la testa e fece un sorrisino stupido.
“Già non riesci a stare senza di me?” scherzò, divertito.
“Cretino, pensavo che avessi bisogno di aiuto” sbuffò lei.
Il ragazzo, che era seduto sul bordo del letto le indicò due stampelle appoggiate al muro.
“Castoro me le ha portate prima di cena. Le hanno trovate nella palestra dietro a Gropius” spiegò.
Wolfrun annuì e lo guardò attraversare la stanza con l’aiuto delle stampelle. Si era vestito. Beh aveva i pantaloni della tuta. Ma non aveva messo la maglietta. Per quanto fosse bello da vedere… “Aspetta” lo chiamò.
Si sedette, afferrò la sua maglietta e si alzò per andare verso di lui. Gli infilò la maglietta dalla testa e lui infilò le braccia alternandole alle stampelle sbuffando, ma divertito.
“C’è Britta, qui da qualche parte. Non voglio che…” iniziò la ragazza: non riuscì a dirgli che non voleva che la bionda lo vedesse mezzo nudo.
Era… Gelosa? Ma no. Assolutamente no. Era una questione di… decoro. Sì, ecco: decoro.

 

Ma Jakob sorrise sornione. Le passò una mano dietro la schiena e se l’avvicinò. Quando fu vicino le sussurrò all’orecchio: “E tu lo sai di essere nuda?”
Lei trasalì. No, non se n’era resa conto.
“Sei bellissima” le disse ancora guardandola arrossire. Jakob era contento che per lei fossero tutte cose nuove. Il suo imbarazzo gli scaldava il petto come neanche il sole di Lemnos faceva. Lei si divincolò dal suo abbraccio e si rifugiò nel letto senza dire niente.
Sospirò e si diresse in bagno.

 

***

 

“Potevi farti accompagnare da Louis” disse Wolfrun e Britta alzò una spalla.
Andava bene così. Lei e Louis avevano passato la notte sul divano, a baciarsi, raccontarsi e svelarsi reciprocamente. Non voleva correre. E sembrava che a lui stesse bene.
“E te?” le chiese invece.
Che Wolfrun fosse diversa, quella mattina, si vedeva. Sembrava in un mondo tutto suo. C’erano momenti in cui sorrideva e poi, quando si accorgeva che la guardava, smetteva subito. Come se fosse stato un reato. Anzi no. Un reato lo avrebbe commesso tranquillamente, senza preoccuparsi di nessuno. Sembrava che non volesse mostrarsi… felice. Possibile?
“Io cosa?” chiese, con finta noncuranza.
Cercò di rimanere impassibile, ma non ci riuscì. Britta le leggeva tutto in faccia.
“Non mi dici niente di stanotte?”
“E cosa dovrei dirti?” domandò e quando spalancò gli occhi, la bionda capì che faceva sul serio.
“Come cosa dovresti dirmi? Dai, hai una faccia che non avresti avuto neanche se avessi vinto la battaglia di Natale! Devi raccontarmi tutto!” cinguettò Britta.
Ora Wolfrun spalancò anche la bocca. “Assolutamente no!” esclamò, inorridita. La bionda rise.
“Dai! Com’è stato?” chiese ancora. Wolfrun sbuffò e si infilò le mani nelle tasche dei Jeans.
“Ma non hai detto che non ti piacevano le domande?” brontolò la mora.
“Quando le fanno a me. Non mi dici neanche se sei contenta o no? È andato tutto bene? Ti è piac…” continuò il suo interrogatorio.
“Oh! Smettila. È andato tutto bene, ok? È mi è piaciuto. Sì. E Tanto. E non chiedermi nient’altro. Tanto è tutto qui!”
Britta rise quando vide che le sue guance erano diventate rosse. Tutto qui? Rise ancora. “Va bene” cedette.

 

Wolfrun sbuffò ancora. Ma cosa voleva da lei? Quando vide la casa dei bambini sospirò sollevata. Lanciò un’occhiata di sottecchi alla bionda, ma lei sorrideva.
Aveva capito che loro non avevano fatto l’amore, perché quando era andata in cucina a cercare qualcosa da mangiare per banchettare con Jakob durante la notte, li aveva visti addormentati sul divano, insieme ma vestiti. Forse lei voleva andarci con i piedi di piombo. Sembrava contenta e felice. Dorothea avrebbe detto ‘cammina a un metro da terra’.
Sorrise al pensiero di sua sorella. Come avrebbe voluto confidarsi con lei, in quel momento! Raccontarle di Jakob, di come era stato… fantastico. Si poteva dire fantastico? Cavolo, non era sicura. Oh, Dorothea, mi sento così leggera… E spero vivamente di non aver fatto una stupidaggine.
Vide chiaramente sua sorella, seduta nel bar dove prendevano la cioccolata calda, sorriderle e dirle che andava tutto bene. Si morse il labbro.
A te l’avrei raccontato. Giuro, Dorothea. L’avrei fatto.

 

Anneke aspettava sulla porta. Wolfrun stava arrivando con Britta. Le guardava avvicinarsi. Si sentiva agitata. Spostò il peso prima su un piede e poi sull’altro e poi ancora sul primo. Quando non riuscì più a stare ferma, perché Wolfrun era ormai vicina all’entrata, iniziò a saltellare. Poi batté anche le mani.
Quando Wolfrun e Britta entrarono in casa dovette fare uno sforzo immane per non saltarle addosso. Così aspettò. Ma quando lei non si incamminò lungo il corridoio, le andò incontro.
“Wolfrun!” gridò. La ragazza le sorrise e si avvicinò.
“Ciao, Anneke. Ti sei già alzata?” le chiese e si chinò per essere alla sua altezza e le fece una carezza sulla guancia. Come? Come?
“Non mi dici niente, Wolfrun?” le domandò, nervosa. La ragazza la guardò con la fronte corrugata.
“Sì, sì, sei stata brava. Andiamo a fare colazione?” propose.
No. No. No. Per la prima volta, Wolfrun si era scordata del suo compleanno!

 

***

 

“… E poi ha detto che ci avrebbe pensato. Sono stata brava, Vero? Sono abbastanza sicura che dirà di sì. Anche perché deve dire di sì. Giusto? È la cosa migliore, vero? Anche se so che mi mancherà come l’aria, è la cosa migliore…” Christa continuò il suo monologo, incurante del fatto che nessuno le rispondesse per paura che continuasse a lungo.
Wolfrun non le aveva mai sentito dire tante cose tutte insieme. Di solito parlava solo se necessario e non a vanvera. Fra l’altro Wolfrun apprezzava tantissimo quella qualità.
Quel giorno, invece, Christa non stava zitta per più di cinque minuti e aveva iniziato a parlare da almeno un quarto d’ora. Britta riuscì a darle un compito che richiedesse la sua presenza fuori dalla cucina dei campi e quando la bionda uscì, si sentì un respiro di sollievo collettivo.
Britta le si avvicinò. “Ma non avevi già convinto tu Nora a pensare all’America?” le chiese. Alzò una spalla. Che differenza faceva? E poi le aveva solo detto di pensarci. “Non lo hai detto a Christa. Perché?” Come?
“Dovevo?” chiese. La bionda la guardò aggrottando la fronte. “Non c’era bisogno. Va bene così” disse.
Britta le lanciò un’altra occhiata curiosa e poi si allontanò per fare altro.

 

***

 

Il pranzo fu particolarmente caotico, ma lo era sempre, così non ci fece troppo caso nessuno. Wolfrun continuò a guardare di sottecchi Anneke: era così triste, poverina.
Jakob, accanto a lei, seguì il suo sguardo e le coprì una mano con la sua, in un gesto così intimo e discreto che Wolfrun si sentì emozionata. Lui si avvicinò al suo orecchio per farsi sentire solo da lei: “Non preoccuparti”.
Annuì arrossendo. Non c’era niente di diverso, visto da fuori. Ma lei si sentiva diversa: si sentiva bene.
Quando Nora arrivò con una torta grande quanto uno dei tavoli della cucina, tutti i bambini rimasero sbalorditi. Poi Jakob iniziò a cantare ‘Tanti auguri’ per Anneke e tutti gli altri si unirono al coro.

 

Anneke aprì la bocca, incapace di parlare e anche di pensare, nel vedere quella bellissima torta. Sembrava una delle torte di Eleni, solo molto, molto più grande. Si portò le manine alla bocca quando Jakob iniziò a cantare per lei e sorrise quando anche tutti gli altri cantarono.
Vide Wolfrun alzarsi dal suo posto con uno dei suoi sorrisi, quelli che faceva solo a lei. Quando Nora riuscì ad appoggiare la torta, accese l’unica candelina che c’era e le disse di esprimere un desiderio. Un desiderio? Cosa poteva esprimere? Un desiderio… un desiderio! Chiuse gli occhi e soffiò.
Tutti batterono le mani. Ulrike si avvicinò e le regalò una lunga collana fatta di pietruzze brillanti bucate e pezzi di legno. Era bellissima.
“Come sapevi del mio compleanno?” le chiese, agitata ma contenta.
“Glielo ha detto Jakob” disse una voce alle sue spalle. Anneke si voltò per guardare Wolfrun.
“Non ti eri scordata!” esclamò e Wolfrun sorrise ancora.
“No, piccola. Non mi scorderò mai di te. Tanti auguri” le disse, porgendole un regalo e la bambina le si gettò addosso e le circondò il collo con le braccia.

 

I bambini stavano mangiando la torta. Nora e il Maggiore avevano sfruttato la cucina dell’accampamento perché aveva un forno più grande del loro ed erano riusciti a fare un ottimo lavoro, pensò Wolfrun assaggiando la torta: era buonissima. Nora era in gamba. Cercò il suo sguardo fra la folla e le fece un cenno di apprezzamento. La ragazza si avvicinò.
“Non avevamo mai festeggiato un compleanno così” disse, sedendosi accanto a lei.
“Jakob deve essere stato convincente, eh?”
Sapeva che era stato lui a insistere per la torta.
“Già. Ma ha fatto bene. I bambini sono contentissimi” disse Nora.
Wolfrun annuì ancora, osservando i bambini. Beh, ormai i più piccoli erano Anneke e Theo, se non si considerava Abel. E non erano neanche tanto piccoli. Presto sarebbero stati ragazzi. E poi adulti. E non avrebbero vissuto con la paura di non diventarlo. Raccolse delle briciole dal tovagliolo e se le portò alla bocca.
“È buonissima, questa torta. Complimenti” disse.
“L’ho fatta insieme a William” ammise Nora. Wolfrun annuì con il capo e basta. Lo sapeva. Ma non disse nient’altro. “A proposito…”
Nora frugò dentro una delle tasche chiuse con i bottoni, l’aprì e poi tirò fuori un anello giallo con una pietra bianca in cima. Doveva essere l’anello di fidanzamento. Sorrise.

 

Nora si infilò l’anello sorridendo. “Appartiene alla nonna di William…”
Sentì le guance arrossarsi mentre lo spiegava a Wolfrun.
“Ora è tuo” disse la mora e la guardò con un sorriso. Quella ragazza sorrideva? Oh. OH.
“Sì. Ora è mio” ammise, annuendo.
“Hai detto di sì, quindi?” le domandò Wolfrun.
Annuì ancora, incapace di parlare. Si sentiva prendere dall’emozione. Dalla paura, dalla speranza, dalla voglia di crederci davvero.
“Complimenti, allora” disse e, come aveva fatto lei quando era arrivata, Wolfrun l’abbracciò. “Non ci vorrebbe un brindisi?”
“Penso ci sia solo acqua. O forse la birra” disse Nora adocchiando il tavolo quasi del tutto sparecchiato.
“La birra sarebbe meglio” disse Wolfrun.

 

***

 

Jakob vide Wolfrun sotto un albero parlare con Nina. Nina? Nina che parlava con qualcuno? Cercò di prestare attenzione, ma Anneke gli corse incontro e tentò di arrampicarsi su di lui.
“Hai visto la mia bambola nuova?” gli chiese la bambina.
Jakob annuì. Wolfrun aveva cucito una bambola di stoffa grandissima per Anneke a Lemnos. Non sapeva dove fosse riuscita a nasconderla durante il viaggio.
“Quanto ci mette un desiderio ad avverarsi, Jakob?” domandò ancora la piccola, seria.
Come? Oh…
“Ogni desiderio è diverso. A volte si avvera in fretta, a volte ci mette di più…”
Anneke lo guardò confusa. “E come faccio a sapere se questa volta ci metterà di più?” chiese ancora.
“Dipende da quanto lo desideri, oppure, dipende da quanto è giusto. Al mio quindicesimo compleanno ho espresso un desiderio, ma ci ha messo tre anni ad avverarsi, perché era un desiderio confuso” spiegò. Ed era convinto che non si sarebbe mai avverato.
La faccia di Anneke ora era impagabile.
“Tre anni?” domandò, allibita. Per i bambini gli anni erano un’infinità di tempo.
“Sì. Si è avverato ieri” disse, sorrise della sua buffa espressione e continuò: “Dai, non preoccuparti, vedrai che presto succederà…” Lei annuì e corse via.
“Che desiderio avevi espresso, Jakob?”
Jakob si voltò verso Wolfrun che lo guardava con curiosità, dopo aver ascoltato la conversazione.
“Io lo so, il desiderio di Jakob” disse una voce alle loro spalle, Wolfrun si spostò e tutti e due guardarono Nina. “Jakob voleva fare l’amore prima di morire”.
Nina guardò per terra. Poi prese il suo libro e giocò con la copertina.
Jakob strabuzzo gli occhi, imbarazzato e confuso. Come faceva a saperlo? Non poteva averglielo detto Bernd. No, lui non lo avrebbe fatto. E lui lo aveva detto solo a Bernd.
“Deve averci messo tanto perché non l’hai espresso mentre soffiavi sulla candela” spiegò. Nina alzò lo sguardo una volta sola, poi tornò a guardare il libro.
“Come fai a sapere…” iniziò Jakob.

 

 

Wolfrun salutò Nina e prese per un braccio Jakob allontanandolo da lì.
“Vieni via” sussurrò. Lui fece un po’ fatica per via delle stampelle ma riuscì ad allontanarlo da Nina.
“Come? Perché siamo venuti via?” chiese.
“Stavi per farle una brutta domanda” spiegò lei, guardando indietro: per fortuna Nina si era rimessa a leggere.
Lui sembrava confuso.
“Non è vero. Io mi ricordo perfettamente di averne parlato con Bernd. Solo con lui. Quindi non so proprio come faccia lei a saperlo. Perché non potevo chiederglielo?”
“Perché quella ragazza mi ha appena detto che spesso la gente non si accorge di averla intorno. Fin da quando è piccola sente persone dire cose brutte su di lei senza che si accorgano che lei è lì” spiegò e sospirò alla faccia di lui, così continuò: “Non volevo che pensasse che neanche tu la vedi. Ti considera un fratello”.
Vide chiaramente il viso di Jakob distendersi e preoccuparsi allo stesso tempo. Poi sorrise.
“Ok, cercherò di stare attento a quello che dico” disse il ragazzo. Perfetto.
“Bravo. E potevi anche evitare di dire quella stupidaggine ad Anneke. Crederà che ci voglia tantissimo tempo prima che si avveri il suo desiderio” disse, ma pensò: ‘Che poi lei ti crede. E poi ti credo anch’io.’
Gli diede uno scappellotto.

 

 

Ehi! Ma quale stupidaggine? Aveva solo detto la verità. “Ho detto la verità” disse infatti.
Lei si voltò verso di lui. Lo guardò da sotto e alzò un sopracciglio con un’espressione così seria che ne ebbe quasi paura.
Poi lei cambiò: non divenne Wolfrun la pazza che aveva invaso Berlino, ma Jakob vide la stessa Wolfrun che realizzava di poter perdere Anneke per colpa di Andreas.
Fece un passo verso di lei. Voleva abbracciarla per farle sparire quell’emozione dall’animo, ma lei fece un passo indietro.
“Ho sentito dire una cosa diversa, da almeno due ragazze, a Lemnos. Non dire stronzate, Jakob, non a Annake e non a me” disse con un tono durissimo. Ehi, ehi, calma.

 

Wolfrun si stava innervosendo. Jakob pensava che fosse una stupida? Raccontare quella cosa che per fare l’amore aveva aspettato tre anni. Poteva ingannare Anneke e Nina, ma di sicuro non lei! Sapeva quello che dicevano le ragazze. E se anche una poteva aver mentito, di sicuro non tutte. Quindi, che non la trattasse da stupida, perché sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto!
“Non era la tua prima volta” lo accusò.
“No. Ma ho fatto l’amore solo con te” continuò lui.
Un film. Sembrava un film. Un brutto film. O uno di quei romanzi melensi che leggeva Dorothea da ragazzina.
“Non sarò Christa, ma non sono neanche una ragazza dell’isola. Non prendermi in giro” Non me lo merito. Non riuscì a dirlo, così lo pensò.
“Cosa vuol dire che non sei Christa? E le ragazze…?” disse. Lui sembrava confuso. No, ottuso. Era ottuso.
“Che non hai il diritto di prenderti gioco di me. Anche se non sei…”
Dovette fermarsi perché non riuscì a pronunciare nessun’altra parola. Guardò da un’altra parte.

 

Jakob colmò la distanza fra di loro con tre passi. No. Lo pensò e basta. Aveva ancora quelle maledette stampelle.
“Non ti prendo in giro. Non mi interessa di nessun’altra. Né di Christa, né delle altre. Io volevo solo…” iniziò a spiegarsi, ma si interruppe quando Lei alzò lo sguardo e Jakob vide che aveva gli occhi lucidi. Merda. No. No.
“Ci vediamo dopo, Jakob” mormorò e scappò via. Dannazione! Lanciò una delle stampelle e questa cadde lontano da lui.
“Adesso come fai ad andarla a prendere?” Si girò: Nina era di nuovo lì, con il suo libro.
Sospirò. Non adesso, Nina.

 

***

 

Wolfrun aveva girovagato per un’ora. Poi era tornata verso Gropius. Per forza, non sapeva dove altro andare. Pensò così di fare una piccola deviazione e di andare nel posto dove tenevano i cavalli.
Entrò in quella costruzione che avevano adibito a stalla e si guardò intorno: c’erano tre cavalli. Un ragazzino che riempiva un secchio d’acqua e spostava quella che sembrava paglia. Dove aveva preso la paglia?
“Ciao” lo salutò ad alta voce, entrando. Lui si spaventò e fece cadere la pala. Si chinò a raccoglierla. Lo guardò meglio: lo conosceva.
“Ciao” disse lui.
“Sei il ragazzo che abita con Timo?” gli chiese e lui annuì. Aveva un nome strano. Non riusciva a ricordarselo. “Non mi ricordo il tuo nome…” disse, un po’ a disagio.
“Verme. Io sono Verme” spiegò il ragazzino. Com’è che si chiamava? Decise di non dire niente. Lui la guardò ancora.
“Io so chi sei” le disse lui, dopo un po’.
Oh, bene. Un altro, un altro che si ricordava di lei. Sì, era lei. La pazza, la fuori di testa. Valutò l’idea di andarsene e guardò verso il portone d’uscita. “Sei la padrona di Ziggy” esclamò e Wolfrun si voltò di scatto verso di lui. Gli era già simpatico.
“Lo ero” precisò. Si avvicinò a Ziggy, e lui la riconobbe, strusciando il muso contro la sua mano. “Mi ha riconosciuto!” esclamò, sorpresa. Il ragazzino si avvicinò e fece una carezza al cavallo anche lui.
“Sono animali molto intelligenti” spiegò, guardando l’animale. Annuì senza voltarsi a guardarlo. “Tieni, dagli questa” le disse.
Prese una piccola mela da uno dei secchi e la tagliò a metà con un coltello che aveva in tasca, prima di allungargliela. Lei la prese e l’avvicinò al cavallo, che la mangiò. Rise come una bambina. Sembrava Anneke. Ma non smise. Non si vergognò.
Si voltò verso Verme e lui disse: “Pensavo venissi prima. Domani torna il Pegaso, no?” Wolfrun annuì.
“Sì. Hai ragione. Avevo… paura che non si ricordasse di me…” disse accarezzando il cavallo. Verme si avvicinò e le diede l’altra metà della mela.
“Brutto venire rifiutati, eh?” disse, senza aspettarsi risposta. La ragazza si voltò di nuovo verso di lui e gli sorrise tristemente come se avessero un segreto in comune. “Già.”

 

 

“Ti ho trovata” disse una voce sulla porta.
Jakob avanzò verso Wolfrun insieme alle stampelle. Lui era dalla parte dell’unica uscita. Ora non poteva scappare. Non senza passargli sopra. Non fu sicurissimo che lei non l’avrebbe fatto, comunque. Ma avanzò ancora. Guardò Verme e lui lo salutò con un cenno della testa.
“Dobbiamo parlare” le disse quando le fu vicino. Lei accarezzava ancora Ziggy.
“Io… devo fare una cosa urgente… ” disse il ragazzino prima di sparire dalla porta.
Non avrebbe potuto fare scelta migliore. Jakob lo ringraziò mentalmente.

 

Wolfrun sapeva che non aveva senso scappare ancora. Così non lo fece. Continuò ad accarezzare il cavallo e gli parlò dolcemente, prima di salutare Verme che usciva.

 

“Sei scappata via…” iniziò Jakob.
La ragazza si girò verso Jakob e disse: “Hai ragione. Non avrei dovuto”.
Oh. Non si era aspettato una resa così facile. Immaginò che in verità non lo fosse. Annuì.
“Sono fatti tuoi, quello che hai fatto. Noi… io… non avrei dovuto dirti quelle cose…” parlò ancora, ma Jakob capì che lei si stava sforzando perché continuava a mordersi un labbro per il nervosismo. Apprezzò tantissimo che non fosse scappata.
Camminò verso di lei e disse: “Chi sei e cosa ne hai fatto della mia Wolfrun?”
Lei rise. Rise davvero. Il suono più bello del mondo. Riuscì ad avvicinarsi abbastanza da poterla cingere con le braccia. Lasciò andare le stampelle e lo fece davvero. Lei non scappò e non oppose resistenza, anzi gli posò le mani sulla schiena.
“Potrai chiedermi quello che vuoi. Ti risponderò con sincerità. E mi piacerebbe che lo facessi anche tu” le propose e lei annuì, ma non disse niente. “Vuoi che parta da Christa?” Lei annuì ancora. “Ma solo questa volta, ok? Poi non ne parliamo più. Ho baciato Christa. Mi piaceva tantissimo. Ma lei non mi ha voluto. È stato brutto, soprattutto quando ho capito che le piaceva Timo e che lei piaceva a lui. Come diceva Verme, è brutto venire rifiutati…”
Lei lo guardò negli occhi, ancora senza parlare.
“Pensavo che non mi passasse più. Te lo giuro. Sono stato male. Però c’erano altre cose: il virus, il tradimento di Andreas, il rapimento di Anneke, il ritorno di mio padre. Tutto era successo in poco tempo e tutto insieme.
E poi, improvvisamente, non c’era più niente. Niente di così importante: c’era il vaccino che aveva sconfitto il virus, Andreas era morto, tu e Anneke salve, Eleni e mio padre insieme e Lemnos. Ho pensato di ricominciare. Sono stato un vigliacco, ho preferito non vedere. Non vedere Christa che iniziava la sua storia con Timo. Non vedere gli altri. Non sopportavo l’idea di vederli tutti felici. Così ho preferito vivere a Lemnos, quando mio padre mi ha fatto scegliere. Sarà stato per il motivo sbagliato, ma non mi sono pentito. Mi piace l’isola, mi piace vivere lì. Ma non riuscivo a non pensare a loro. Perché, secondo te, tornavo sempre qui? Mi sentivo in colpa, io me n’ero andato. Io avevo un padre, io avevo ricominciato…”
Le fece cenno di non dire niente quando lei tentò di interromperlo e continuò: “Ho smesso di pensare a Christa. E le ragazze sull’isola… Beh, sono state… unguento sulle mie ferite. Ero stato rifiutato ma altre mi volevano. Sembrava semplice, avevo ricominciato, appunto”.

 

“E adesso? Non… ti piace più?” Wolfrun non riuscì a non chiederlo.
“In questi anni, ogni volta che scendevo dal Pegaso, mi facevo questa domanda, sai? Ci rimarrò male? Sarò divorato dalla gelosia? Guarderò Timo con odio desiderando di essere al suo posto? Ma ogni volta era sempre meno importante, per me, finché non siamo scesi dal Pegaso una settimana fa: abbiamo visto Christa con Timo. E con Abel, ricordi?”
Lei annuì, se li ricordava, eccome se se lo ricordava, aspettò la sua risposta trattenendo il respiro.
“Ho avuto paura. Paura di rimanerci male, almeno come l’ultima volta. Ma non è successo…” ammise. Bene. Wolfrun si rilassò finché lui non disse: “Ma sono stato male. Ho provato tutte quelle cose che ti dicevo, prima di venire qui”.
Come? Era stato geloso? Quando? E perché? Lui non disse niente, così si obbligò a domandare: “E quando è successo?” chiedere ‘per chi’ fosse successo, la rendeva nervosa, così non lo chiese.
“Due settimane fa, quando te ne sei andata con Georgos. Ho avuto paura che non tornassi più da me” spiegò. Wolfrun sentì il calore invaderle il viso e capì di stare arrossendo.
Si morse ancora il labbro, ma non riuscì a trattenere un sorriso compiaciuto. Jakob era stato geloso di lei. Voleva dire che pensava a lei e ci teneva. Era… bello. Sì, era una cosa fantastica.
Jakob le passò il dorso delle nocche sulla guancia e le sorrise.
“Christa non è male…” ammise lei.
“Non dirò la stessa cosa di Georgos!” esclamò lui e risero tutte e due. “Sai che Christa è incinta?” le chiese dopo poco.
“Sì. Lo so.”
Non gli raccontò del resto e Jakob continuò: “Me l’ha raccontato perché non voleva che lo sapessi da altri. Mi è sembrato… carino? Sì, mi è sembrata una cosa bella che stesse succedendo a una mia amica”
“E cosa le hai detto?” Wolfrun non riusciva a non chiedere. D’altronde se aveva solo quella volta per chiedere… tanto valeva sapere tutto.
“La verità. Che ero contento per loro. Ma…”
“Ma?” chiese lei, un po’ titubante. Possibile che sotto sotto…
“Cavolo, Wolfrun, ti ricordi? Quando è nata Clara non abbiamo dormito per più di quattro ore finché non ha compiuto un anno!”
Wolfrun rise. Aveva pensato quello?
“Quindi non ti dà fastidio?”
“Se tengono il bambino di notte a casa loro, no” rispose Jakob, sorridendo.

 

“Ora devi essere sincera tu” le disse, dopo un po’.
Jakob sapeva che lo sarebbe stata: si fidava.
“Ok. Chiedi” rispose lei. Jakob le sentì vibrare le mani contro la sua schiena.
“Perché hai paura di me?” chiese.
“Non ho paura di te!” esclamò lei, stupita.
“Abbiamo detto che dovevi essere sincera!”
Lei indietreggiò senza staccarsi da lui.
“Sono sincera. Non ho paura di te. Ho paura di quello che puoi fare a me. Perderei me stessa, se mi fidassi di te e tu mi tradissi”. Gli fece cenno di stare zitto quando tentò di interromperla. “Ricordi… la storia dell’abbandono? Avevi ragione. Ho paura di essere abbandonata dalle persone a cui voglio bene” ammise.
Jakob sapeva quanto le era costato dirlo.
“È una cosa che possiamo superare insieme. Ma devi fidarti di me. O non funzionerà. E non andremo da nessuna parte. Tanto vale dirlo subito” disse con sincerità e alzò una spalla.
Lei indietreggiò ancora e si staccò da lui di almeno due passi. Cosa stava facendo? Aveva deciso di non provarci neanche? Voleva andarsene? “Cosa fai?” le chiese, allargando gli occhi.
“La prova di fiducia a modo tuo” rispose, si girò e si lasciò andare verso di lui.

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Capitolo 17
*** Epilogo ***


epilogo-berlino

Epilogo

Settembre 1991

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Wolfrun si riparò gli occhi con la mano. Dalla vetrata arrivavano i raggi del sole e le impedivano di vedere qualsiasi cosa.
“Anneke, vedi qualcosa?”
La ragazza accanto a lei si alzò in punta di piedi ma poi scosse la testa. “No…”
“Dovremmo aspettarli fuori, sulla pista” disse la giovane donna.
Anneke inorridì. “No, ti prego, Wolfrun” replicò sbuffando e Wolfrun la guardò sorridendo.
Era così bella, la sua piccola Anneke. La ragazza voltò lo sguardo, cercando di guardare oltre la vetrata.
“Ecco!”
Un aereo stava arrivando davanti al terminal e si fermò quando lo raggiunse. “Andiamo sulla pista” propose ancora Wolfrun.
Anneke non si mosse e sussurrò: “L’ultima volta ci hanno sgridato, Wolfrun, non potremmo…”
Wolfrun sbuffò e cedette. “Va bene. Li aspettiamo qui…”

 

 

Anneke sospirò sollevata. Tutte le volte che gli altri arrivavano a Lemnos, Wolfrun voleva andarli a salutare sulla pista, appena loro scendevano dall’aereo.
Le guardie avevano spiegato loro che era assolutamente vietato dalle regole di sicurezza e tutte le volte, Wolfrun discuteva con loro. E alla fine vinceva sempre.
L’aeroporto era stato costruito poco lontano dal loro villaggio e quelli che ci lavoravano la conoscevano. E chi non la conosceva, ne aveva sentito parlare. E chi più e chi meno, la assecondavano sempre.
Ma era imbarazzante, a volte. Lei faceva sempre di testa sua. Stavolta era riuscita a convincerla.
Guardò la porta da dove sarebbero arrivati gli altri. Aveva il cuore in gola. Quando vide Ulrike, nervosa quanto lei, le corse incontro e le ragazze si abbracciarono strette.

 

 

Wolfrun vide prima Nora e Britta. Alzò il braccio per farsi vedere e poi si avvicinò a loro velocemente.
“Quanto tempo! Sembra sempre una vita. E qui è sempre così bello” disse Nora, sorridendo e guardandosi intorno. Appoggiò una borsa per terra e l’abbracciò.
Vide Britta con in braccio un bambino biondo di circa due anni. L’ultima volta che l’aveva visto era molto più piccolo.
“Britta!” la salutò la mora. Poi l’abbracciò stretta e fece una carezza sulla testa a Francois.
“Ciao, piccolino” sussurrò al bambino. Salutò anche Louis e William.
Poi, da dietro, arrivarono anche Christa e Timo. “Ragazzi!” li chiamò.
“Wolfrun! Non vedevamo l’ora di arrivare! Finalmente una vacanza…” esclamò William, vedendola e andandole incontro. Wolfrun abbracciò anche loro.
Ci fu tutto un susseguirsi di baci, abbracci, pochi convenevoli e tante dimostrazioni di affetto.
Theo abbracciò Wolfrun rigido come un bastone e lei gli scompigliò i capelli ridendo del fatto che la superava in altezza di tutta la testa.
“E questo gigante chi è?” chiese, facendo finta di non riconoscere il bambino nel periodo del virus.
“Sono Abel!” ridacchiò il ragazzino.
“Oh, vieni qui e fatti strizzare un pochino, finché, almeno tu, sei più basso di me!” esclamò, stritolandogli le spalle. Anche lui era cresciuto.
“E Rolf? Dove si è cacciato quel mostriciattolo? Rolf, dove sei?” chiese ancora Wolfrun, facendo finta di non vedere il ragazzino timido che, accanto a Timo, non partecipava agli abbracci.
“Sono qui. Sono qui” disse lui quando il padre lo spinse appena con la mano.
“No! Non è vero. Non sei Rolf. L’ultima volta che l’ho visto Rolf era alto così” esagerò Wolfrun, sorridendo e portando la mano alla sua vita.
“Ma non è vero!” Finalmente il ragazzino rise. Wolfrun lo guardò con affetto e poi lo stritolò in un abbraccio mozzafiato.
“E Julia?” Julia, di sette anni l’abbracciò dopo essersi fatta coccolare da Anneke. Era una bambina bellissima. Aveva gli occhi del padre e i lineamenti di Nora.
“Diamine, sei sempre più bella, Julia. Tuo padre farà fatica a tenerti lontano i ragazzi, fra qualche anno” si complimentò la mora, guardando William con un sorriso sornione.
“Ho comprato un fucile nuovo” rispose lui, con uno sguardo divertito.
Nora sbuffò alle parole di William e lui sorrise, mentre le circondava la vita. Salutò anche Ulrike e poi, vicino a lei, vide una ragazza. Si sorprese, ma fu contenta: lei non era mai venuta. L’aveva sempre vista quando andavano loro a Berlino, ma non si era mai fatta viva a Lemos.
“Nina!” esclamò. Sentì le lacrime agli occhi. Cavolo, stava diventando una sentimentale. Tutti quegli abbracci le provocavano una strana sensazione. Si sentiva sempre vulnerabile, ma era sempre felice di vederli. Soprattutto Nina.
Poteva avvicinarsi? Poteva abbracciarla? Nina allungò la mano verso di lei. Sapeva quanto fosse importante quel gesto per la ragazza, così gliela strinse con tutte e due le mani, mentre le diceva: “A Jakob farà piacere sapere che sei venuta”.
“A proposito, Jakob e i ragazzi?” le chiese Britta, lasciando che Louis prendesse in braccio il bambino.
“In hotel. Ci aspettano lì” rispose e gli altri annuirono.

 

 

Da quando avevano sistemato l’Hotel dei genitori di Eleni, ogni anno, in settembre, per dieci giorni, non si accettavano prenotazioni. L’albergo era tutto per loro: i ragazzi di Berlino.
Una vacanza per tutti. Tutti insieme.

 

 

Quando arrivarono in hotel, Jakob aveva già sistemato tutto. Wolfrun guidò quella carovana di gente nella hall, il ragazzo sorrise e andò loro incontro. Louis fu il primo a salutarlo. Si abbracciarono a metà con una stretta di mano e poi abbracciò anche gli altri e le ragazze e poi i bambini. Cavolo, come passava il tempo.
“Guarda chi c’è” disse Wolfrun e indicò Nina.
Nina! Era venuta a Lemnos! Non lo avrebbe mai detto. Anche la piccola Nina cresceva! Si avvicinò per salutarla e lei gli sorrise. Poche parole, come solito, ma bastarono.
“Jakob… dove sono i bambini?” gli chiese Wolfrun, mentre lo guardava con uno sguardo un po’ preoccupato.
Come se li avesse chiamati, dalle scale arrivarono le grida tipiche di una battaglia in corso fra i loro figli. Una testa ricciuta fece capolino dalla prima rampa di scale, scendendo col sedere lungo il corrimano. Una piccola furia alta poco più di un metro, atterrò con un balzo e continuò a saltellare verso di loro.
“Dorothea!” la sgridò Jakob sospirando.
Quando li raggiunse, la bambina gridò verso le scale: “Ho vinto io!”, si voltò verso Jakob e continuò. “Scusa papà, ma Bernd diceva che non avrei mai avuto il coraggio di farlo davanti a voi”. Indicò il fratello, dietro di lei, che sorrideva sornione.
Sei anni. Avevano sei anni e l’energia sufficiente di un’esplosione nucleare. Quando erano insieme sembravano una mandria di vitelli. Allo stato brado. Jakob fece cenno al bambino moro con gli occhi chiari di avvicinarsi a salutare.

 

 

“E non avresti dovuto farlo, infatti” la riprese Wolfrun, incrociando le braccia al petto e con il viso serio.
La bambina la guardò e disse: “Ok, non lo farò più”.
Sapevano tutte e due che era una bugia. E poi la bambina scappò verso gli altri.
“Julia!” gridò spalancando le braccia e lanciandosi in quelle dell’amica. La ragazzina l’abbracciò forte e poi la piccola fece il giro di tutti gli altri.

 

***

 

Il falò sulla spiaggia aveva sempre il suo fascino e anche la grigliata. Era una tradizione del primo giorno. L’organizzazione era ormai specializzata: coperte per terra e tavolini pieghevoli, vino per i grandi e bibite per i piccoli, torce e luci di emergenza. Nulla era lasciato al caso.

 

 

“Ehi, lo sai chi ha appena avuto una bambina? Roberto. Ti ricordi Roberto del Reichstag?” li informò Nora passando a Wolfrun un bicchierino di liquore a fine cena, che lei passò al marito.
“Davvero? Mi fa piacere” rispose Wolfrun guardando Jakob, ma lui alzò le spalle.
“Si è sistemato. Ha messo la testa a posto. È diventato Capitano. Vero, William?” disse ancora Nora cercando l’approvazione del marito e lui fece un cenno con il capo, evidentemente impegnato in altro.
“E Diane, dov’è?” chiese Britta. “Non l’ho vista”.
La mora sorrise, ma nessuno la vide, perché c’era buio. “In viaggio di nozze”, disse, mentre beveva un po’ di quel liquore che aveva portato Nora.
“Come?” chiese Christa, che si era girata verso di loro. “E quando si è sposata?”
Wolfrun rise e rispose: “Una settimana fa”.
“Dai! Non sapevo che fosse…” iniziò la bionda, ma venne interrotta quasi subito.
“Oh, neanche lei lo sapeva, se è per questo. Lo ha conosciuto tre mesi fa” Jakob espresse così il suo parere, con quelle parole e un tono rassegnato.
“Oh!”
Britta rise dell’espressione di Christa.

 

 

Quando finirono di mangiare, i bambini tornarono a rincorrersi e a giocare nella sabbia. Solo Francois si addormentò sulle gambe della mamma. Wolfrun osservò con tenerezza Louis che gli accarezzava i capelli mentre dormiva. Gli sorrise e lui ricambiò, nel bagliore del falò.
Nina era seduta vicino a Clara, che leggeva un libro alla luce di una torcia. Nina invece, nonostante si fosse portata un libro anche lei, non stava leggendo e guardava le fiamme del falò. Wolfrun si avvicinò a loro, fece una carezza in testa a Clara e poi si sedette vicino a Nina.
“Ciao” la salutò e la ragazza sorrise. “Potevi andare al villaggio con gli altri ragazzi, magari ti saresti annoiata meno” disse.
“Mi piace qui” rispose invece Nina. Oh. Ok.
“Mi fa piacere, allora. Sono contenta che tu sia venuta” disse ancora, poi stette zitta un altro po’ e quando pensò che fosse il caso di raggiungere di nuovo gli altri, Nina parlò.
“Ho scritto un libro” sussurrò.
“Come?” chiese Wolfrun e la ragazza si voltò verso di lei.
“Ho scritto un libro. Su Bernd e su quanto successo a Berlino” rispose, a voce un po’ più alta.
“Hai fatto bene” le disse, sorridendo. Cosa doveva dirle? Sicuramente scrivere era stata una buona idea, visto i progressi della ragazza.
“Grazie. Dicevi che scrivere mi avrebbe aiutato a non aver paura di parlare, ricordi?” le chiese e Wolfrun sentì che sorrideva mentre parlava.
“Non ricordo… ma ho sempre pensato che scrivere fosse una buona idea, quindi potrei avertelo detto. Sai, sto diventando vecchia e mi scordo tutto…” rispose, con un sorriso.
“Me lo hai detto il giorno che tu e Jakob avete litigato a causa mia.”
“Non abbiamo litigato per colpa tua. Comunque mi ricordo, adesso, sì. E ora pubblicherai un libro?” Nina annuì. “Complimenti allora. Lo leggerò volentieri. Verrò a farmelo autografare” disse.
Quando, dopo dieci minuti si alzò, stava ancora sorridendo. Nina aveva parlato del suo libro. Non aveva mai parlato così tanto.

 

 

Jakob si avvicinò alla moglie, le accarezzò con dolcezza la mano appoggiata sulla coperta e le disse: “Ho chiesto a William di guardare i bambini… Andiamo alla caletta?”
Wolfrun sorrise. Jakob lo capì anche se la luce del fuoco era pochissima. Sorrise anche lui.
“Dici che se la caverà?” scherzò lei. Jakob alzò una spalla.
“Ha un fucile nuovo…”
Wolfrun rise. Jakob la prese per mano e l’aiutò ad alzarsi.
“Ma non se ne accorgeranno?” gli chiese indicando gli altri.
“Se ne accorgeranno di sicuro. Andiamo!”
Jakob stava ancora sorridendo.

 

Britta guardò i due ragazzi allontanarsi e disse ad alta voce: “Ma solo io ho pensato che Wolfrun fosse strana, in aeroporto?”
Christa lanciò un’occhiata ai bambini che correvano e intanto le rispose: “Dici tutti quegli abbracci?”
William si alzò per rincorrere Julia e far urlare divertiti Dorothea e Bernd ed esclamò: “Perché sarebbe strano?”
Louis sistemò il figlio sul plaid e lo coprì. “Wolfrun non è mai stata tipo da abbracci” spiegò.
“Però è successo anche un'altra volta, ricordate? Era molto… abbracciosa, ricordate?” Britta iniziò a fare quella sua smorfia che a Louis piaceva tantissimo.
“Oh, è vero, vi ricordate quel Natale a Berlino quando abbracciava tutti? Non è stato quell’anno che cambiava umore di continuo?” William si nascose dietro la moglie per giocare con i piccoli e intanto le fece il solletico.
“Sì, è vero. Io pensavo che dichiarasse guerra a Berlino un’altra volta” rispose Nora, sorridendo e indicando a Bernd dove era nascosto William.
“Per fortuna non è successo. Mi ricordo quel Natale. Probabilmente glielo avremmo lasciato fare, quella volta”. Timo acchiappò Julia e lei ridacchiò quando lui la fece volteggiare.
“Quindi dovremo aspettarci degli scoppi d’ira?” Louis non aveva capito.
Britta si sedette vicino a lui e gli prese un braccio per farsi abbracciare. “Qualunque cosa succederà, noi lo sopporteremo. Giusto, ragazze?”
Nora annuì e Timo, che reggeva sia Julia che Dorothea, chiese: “E perché?”
“Perché è stato sette anni fa, Timo. E dopo quel Natale sono nati i gemelli” rispose Christa, indicando i bambini.
Timo si scambiò uno sguardo con gli altri mariti, che tanto alla poca luce del falò non si videro molto, mentre le moglie iniziarono a confabulare e a ridacchiare come ragazzine.

 

 

 

Quando raggiunsero la caletta, rimasero un attimo a guadare il mare: la luce della luna era bellissima e donava un chiarore luminoso a tutto. Jakob la tenne stretta mentre lei era appoggiata al suo petto. Poi si chinò su di lei e le sussurrò nell’orecchio: “Balliamo?”
Wolfrun annuì e lui le prese la mano facendola girare di fronte a sé. Jakob la fece girare più volte, su se stessa, intorno a lui. Lei aveva gli occhi chiusi. Non aveva bisogno di tenerli aperti, perché Jakob la guidava e lei si fidava di lui.

 

“Quasi mi dispiace” disse lei.
“Di cosa?”
Wolfrun si toccò il ventre e poi riportò la mano sulla sua schiena. “È molto diverso, stavolta. Penso che sarà solo uno”.
“E ti dispiace?” Lei alzò le spalle e arricciò il naso. “Andrà tutto bene”.
Lei annuì e girò, sotto la sua guida. “Dovremo scegliere il nome…”
“Sappiamo già i nomi. Aspetteremo che nasca e poi glielo daremo.”
“Sei sicuro?”
Jakob annuì. “Chloe… Mi piace”.
“Sì. Anche a me. E se fosse un maschio?”
Lui si fece serio e disse: “Avevamo detto che se Dorothea fosse stata un altro maschietto gli avremmo dato il suo nome”. Lei annuì.
“Ho sempre pensato che Georgos fosse un nome bellissimo…” Wolfrun sospirò esageratamente aspettando che lui elaborasse l’informazione.
Quando Jakob si bloccò, sgranando gli occhi e ripetendo il nome, lei scoppiò a ridere. Rise, si tolse dal suo abbraccio e corse verso l’acqua.
Jakob la rincorse e lei si fece prendere subito. “Non chiamerò mio…”
“Sven. Sarà Sven, lo sai. Non gli darei nessun altro nome.”

 

Rimasero così, uno davanti all’altra a guardarsi e poi, come quella prima volta, Jakob fece scivolare la mano dietro alla sua schiena, sorridendo al pensiero di baciarla.
“Mi è piaciuto, il nostro primo bacio” disse lei. “E anche tutti gli altri” sussurrò ancora, mentre la sua mano le accarezzava su e giù la schiena.
Il sorriso di Jakob si fece più ampio. Si avvicinò al suo orecchio e le disse: “A me piaci tu”.
Wolfrun fece scivolare le mani dietro il suo collo e si allungò per baciarlo.

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FINE

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">Grazie ancora a tutti, e se vi va, datemi il vostro parere! (anche in privato) È stato difficilissimo scrivere e sono contenta di essermi buttata in questa avventura.! 😁 A presto! 😘

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