Agape di Manto (/viewuser.php?uid=541466)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dipingi il Cielo, e una Stella ***
Capitolo 2: *** Di Noi Due... ***
Capitolo 3: *** ... E dell'Ombra del Cuore ***
Capitolo 4: *** L'Universo è Nato Per I Tuoi Occhi ***
Capitolo 1 *** Dipingi il Cielo, e una Stella ***
Agape
{
I ♦ Dipingi il Cielo, e una Stella }
25
Giugno 1996, sera.
È
conoscenza certa che le popolazioni più antiche credessero
nelle
stelle: si affidavano a esse per determinare il proprio destino, le
chiamavano protettrici e guide, le ritenevano eterne; le adoravano.
Cleo
una simile devozione riesce a comprenderla, anche se millenni e
secoli la separano da quelle genti e seppure la luce che da sempre
l’attrae non appartenga agli astri, ma al pianeta che li
accompagna: tanto è il suo amore che, da anni, sulla parete
opposta
al letto brilla — e lo farà per sempre, le idee
sono ben chiare —
un enorme adesivo a forma di mezzaluna, graziosissima decorazione
divenuta presto scudo contro i terrori del buio e gli incubi; inoltre
abiti, scarpe e perfino le mani sono sempre ricoperte da disegni
lunari, ornamento capace di scatenare sia i borbottii dei parenti che
gli apprezzamenti degli altri bambini.
Tuttavia,
ciò che più ama della luna non è una
semplice raffigurazione o la
replica del suo chiarore: solo quello vero, ancor meglio se unito al
riflesso che danza sul mare, può davvero farle valicare ogni
distanza e sentire libera, in completa pace.
«Non
c’è dubbio: qualcuno deve aver rapito la mia
bambina dalla culla e
messo al suo posto un adorabile alieno con la nostalgia di
casa»,
scherza sempre il padre quando, appena fuori dalla loro abitazione,
la porta con sé tra le strette vie del borgo e verso le
terrazze
panoramiche, sulle torri che affrontano le onde e dentro la notte.
L’aria
profuma di sale e pietra, l’antico e il nuovo soffiano nei
suoi
capelli e le fanno alzare lo sguardo sulla lucerna del cielo: ogni
volta lei chiede che quei momenti non abbiano mai fine, che il
papà
continui a parlarle del “signor Armstrong e del suo amico
Buzz”[1]
e la gonna della veste si agiti in un girotondo che la luna di certo
gradirà.
Questa
non si nasconde, si lascia rimirare e a propria volta osserva: i suoi
occhi grigi sostano sui palazzi e scivolano su balconi e finestre,
ricamando il marmo con merletti d’argento e ricoprendo il
vetro di
un’armatura d’acciaio, inseguendo i passi di
tutti… o
guidandoli?
Perché
è proprio grazie a lei che, in una sera d’inizio
estate, Cleo
scopre la biblioteca nascosta tra le vie basse del borgo, in mezzo a
un vecchio teatro e una villa ricoperta d’edera: le sue porte
sono
aperte, così lei corre dentro e immediatamente si perde
nell’ammirazione del pavimento su cui fioriscono rose dei
venti e
costellazioni, per poi alzare lo sguardo e notare come le vetrate blu
donino al lucore una sfumatura sognante, ma discreta. Mappamondi e
strumenti geometrici segnalano i pochi ma lunghi banconi in cui
è
possibile sedersi e consultare i volumi che li circondano, mentre
stelle e pianeti di metallo pendono dal soffitto, scontrandosi con
l’ergersi degli scaffali; ma è la parte
più vicina all’entrata
che subito l’attrae. Astrolabi e bussole, un complesso
sistema di
lenti e tre piccoli telescopi, oltre che uno strano congegno simile a
un elmo con un monocolo[2],
una sfera armillare[3]
e altri strumenti che non conosce, riposano in un’enorme teca
in
disparte; non passano che secondi prima che la bimba tenti di aprirla
per prendere la sfera, che da sempre vuole toccare dal vero.
«Attenzione,
piccola scienziata, sono molto delicati.»
La
voce che all’improvviso le sussurra all’orecchio e
le blocca
dolcemente la mano non la spaventa, tuttavia un’ombra le
attraversa
lo sguardo; e con riluttanza lei indietreggia dalla teca, gli occhi
verdi fissi sulle sue prede e già con una stilla di lacrime
a
bagnarli.
L’uomo
che le sta accanto si abbassa fino alla sua altezza e le sorride,
rivelandole uno sguardo gentile e pervaso da una luce particolare:
è
la saggezza di un maestro quella con cui la fissa. «Conosci
tutti
questi strumenti?», chiede, e Cleo annuisce lentamente.
«Qua-quasi
tutti», si corregge poi, «papà dice
sempre che diventerò
un’astronauta, e mi prende molti libri
sull’universo: li leggo
tutti almeno quattro volte, non mi stanco mai… è
lì che li ho
visti. Mi piacciono in particolare i libri sulla
luna…»
Ancor
prima che lei abbia finito, l’uomo si alza e apre la teca: le
sue
dita si chiudono sul più grande dei tre telescopi e lo
estraggono.
«Vieni», dice, dirigendosi verso il bancone a loro
più vicino;
Cleo non se lo fa ripetere, saltando di propria volontà tra
le
braccia dell’adulto e trattenendo il fiato quando viene
posata
vicino allo strumento.
A
uno a uno, il gentile signore glieli mostra tutti e spiega quelli che
lei non conosce, insegnandole il funzionamento e l’utilizzo;
con la
sfera armillare ben stretta tra le braccia e l’espressione
rapita,
l’aspirante studiosa ascolta senza perdersi una parola,
rendendosi
conto delle ore passate solo quando alza il capo e vede il buio
filtrare nella sala.
«Vai
pure», le dice allora l’altro, notando la sua
improvvisa ansia e
sorridendo di più, «immagino che i tuoi famigliari
ti stiano
aspettando.»
«Posso…
posso venire ancora?»
«Questo
luogo è sempre aperto: vieni ogni volta che lo desideri.
Siccome ti
piace così tanto l’astronomia, la prossima volta
ti mostrerò la
sezione scientifica e tu potrai leggere tutti i libri che
vorrai.»
Cleo
sorride e saluta vigorosamente, quindi corre fuori dalla biblioteca;
ed è qui che la luna l’attende, rifulgendo sul
capo del mare. Non
è sola: un ragazzino alto e bruno la sta fissando con la sua
medesima meraviglia, staccando lo sguardo dalla sua bianca forma solo
quando la piccola gli passa vicino. Questa scorge i suoi occhi chiari,
e immediatamente nota la dolcezza che alberga in loro: e si ferma per
un attimo a contemplarli, sorridendo appena l’altro lo fa.
«Ciao»,
le dice quest’ultimo, lanciando uno sguardo ammirato ai suoi
lunghi
capelli mori e allargando il sorriso; lei arrossisce e abbassa il
volto, improvvisamente e senza una ragione apparente.
«Ciao»,
risponde prima di scappare via sotto la galleria di archi che la
porterà a casa, correndo leggera e veloce come
un’onda — ma non
così rapidamente da evitare di sentire un: «Signor
Galileo, sono
qui!» pronunciato dallo stesso giovinetto, non
così tanto da
sfuggire alla sensazione che la voce le dà.
8
Agosto 1996, pomeriggio.
«Scegli
un nome diverso dal tuo.»
«…
Perché?»
«È
un gioco che abbiamo deciso io e il signor Galileo: un nome che
sappiamo solamente noi, un segreto e un codice.»
«Ma
se lo stai dicendo a me non è più così
segreto.»
Il
ragazzino sorride, ma non è una canzonatura quella che gli
illumina
il volto; e Cleo lo guarda senza comprendere, rimanendo in attesa.
«E
noi che volevamo farti entrare nel patto…»
Il
pomeriggio è caldo e lascia scivolare le dita anche tra
quelle mura, l’estate piena che si intreccia con il loro
respiro.
Lei
ha mantenuto i suoi propositi e ha iniziato a frequentare con
regolarità la biblioteca, e ogni volta qui
l’attendono gli occhi
caldi dell’altro, dal quale non riceve che parole gentili e
un nome
buffo: Socrate, il nomignolo che lui stesso si è dato
— un suono
che legato al corpo robusto, troppo alto e già sviluppato,
dona
un’idea di unicità che Cleo non riesce a spiegare,
ma che non le
dispiace.
È
stato lui a raggiungerla quando si è presentata su quella
soglia per
la seconda volta: le si è parato davanti come per impedirle
di
avanzare, per poi prenderle la mano e stringerla con vigore.
«Tu
devi essere la bambina che ama le stelle! Il signor Galileo mi ha
detto tutto. Vieni con me, ti faccio vedere quanti libri ci sono qua
dentro», le ha detto con entusiasmo, guidandola dentro; e lei
non ha
sentito alcun bisogno di replicare, colpita dalla cortesia con cui
è
stata accolta e ricambiando con tutta la sua allegra
spontaneità.
Socrate
non ha mentito: quel luogo si è rivelato ricolmo di
conoscenza —
non solo scientifica, ma anche letteraria e artistica: un tempio del
sapere, ecco cos’è quella biblioteca —
oltre ogni aspettativa, e
del giusto sentimento per apprenderla nella sua interezza; e lei non
riesce a rinunciare a nessuno dei pomeriggi che può passare
lì, con
una buona compagnia e tante cose da scoprire.
«Non
ti va come gioco?»
Socrate
la guarda in attesa, attirando la sua attenzione al di qua dei
ricordi di quelle ultime settimane; e Cleo lo guarda un attimo
confusa, prima di abbassare il capo sui libri aperti in grembo. «Non
ho la tua fantasia», si scusa, «…
non so come chiamarmi.»
«Socrate
non è un nome inventato; è quello di un filosofo
greco.»
«Cos’è
un filosofo?»
«È…
complesso da spiegare; pensa a una persona che ricerca la
verità nel
mondo e vuole aiutare la gente a comprenderla, e quindi a trovare la
felicità, e avrai un possibile filosofo.»
«Quindi
è una persona che fa del bene? Come i medici o gli
insegnanti?»
«Pensa,
molti di loro sono stati proprio scienziati e maestri.»
Cleo
chiude i volumi e li appoggia sul tavolo di fianco a lei, quindi si
sporge verso il giovane, una luce di spontaneo interesse nello
sguardo. «Perché
ti piace così tanto questo Socrate? Parlami di
lui», chiede,
preparandosi ad ascoltare.
Ben
poche cose possono distogliere Cleo da un libro; ma da quando il
ragazzino le ha raccontato la sua versione della fiaba di Biancaneve,
facendole dimenticare la quotidiana lettura serale per ripensare alle
parole che lui le ha lasciato, anche le migliori pagine
sull’allunaggio tremano al confronto con la
capacità narrativa del
nuovo amico. Una sconfinata immaginazione e la Storia vivono nel
sangue di Socrate come lo spazio riempie il suo; e quando le si siede
davanti per spiegarle qualche battaglia, personaggio storico o
leggenda, lei non può fare altro che accoccolarsi contro lo
schienale della sedia e iniziare a respirare nel lontano Rinascimento
o tra le spade fedeli a Re Artù, mentre anche il tramonto
muore e le
stelle di metallo rifulgono al pari delle sorelle notturne. Non
è
come quel giovane capace di rendere vivo il Passato, più
forte e
vicino, e che trasforma le proprie parole in una ricchezza che per
molto tempo lei ha ignorato; è diverso, e quello
è divenuto presto
un rituale che calma la frenesia di un intero giorno, la sua migliore
realizzazione.
«Parlami
di Socrate», ripete quindi Cleo, «che cosa ha
fatto?»
«Ha
cercato di dare il meglio alla sua città, discutendo di
morale e
conoscenza con chiunque volesse ascoltarlo; ha parlato di amore e
giustizia, ha insegnato ai giovani come essere corretti ed è
sempre
stato umano, anche quando le leggi della sua città lo hanno
condannato.
Ha
avuto tanto coraggio, accettando serenamente la propria sorte anche
quando il mondo gli si è rivolto contro e lui ha dovuto
abbandonare
anche la vita… sono tanti i motivi per cui vorrei
assomigliargli.»
Per
la prima volta in quel giorno, le parole del ragazzino si intridono
di una nota triste, simile alla malinconia ma più intensa;
Cleo la
sente immediatamente e vorrebbe chiedere il perché, tuttavia
qualcosa le dice di non farlo: non è il momento, e forse non
può
neppure capire — anche se, come dicono in molti, sa ascoltare
e
comprendere più del normale. «Doveva essere una
persona
bellissima», mormora invece, prima di fare un lieve sorriso,
«… e
ti prometto che un nome lo avrò anch’io, appena
troverò chi
potrei diventare.»
È
appena caduta la sera quando, dopo alcuni attimi, entrambi distolgono
lo sguardo dal volto opposto e osservano il residuo chiarore che
filtra dalle vetrate; e Cleo sospira, restia ad alzarsi dal tavolo
nonostante l’accordo fatto con la famiglia: rincasare non
oltre il
tramonto, e abbracciare la notte solo in compagnia di qualcuno della
famiglia.
«Oh,
è già ora», si rende conto il
ragazzino, guardandola levarsi in
piedi e stringersi al petto gli ennesimi libri presi in prestito; lei
annuisce, quindi abbozza un sorriso. «Non disperiamo: domani
sarò
di nuovo qui, dopotutto», risponde.
L’amico
ricambia il sorriso, quindi si alza a sua volta. «Vuoi che ti
accompagni? Ti devo ancora raccontare la tua storia serale.»
Cleo
acconsente subito e istintivamente lo prende per mano. La sente salda
e sicura, la sua presa le dona una bella sensazione di calore.
«Certo
che sì, se te la senti: dobbiamo salire in cima al borgo, ma
si fa
presto. Tu dove abiti? Non ti ho nemmeno mai visto,
qui…»
Mentre
quasi lo trascina fuori dalla biblioteca e lungo le vie, Cleo si
rende conto che è la prima volta che gli fa quelle domande:
i loro
discorsi si sono sempre soffermati per lo più sulle
rispettive
conoscenze e sui molti interessi, così che praticamente non
sa nulla
del perché sia lì o i motivi per cui lo abbia
conosciuto solo
quell’estate, o anche solo di quanti anni abbia.
Già
lo sai che lui è diverso, Cleo. Qualunque età
abbia, sembrerà
comunque più grande… è unico, ed
è bello così.
«Sulla
parte alta, come te, dove abitano i miei nonni; sono in vacanza da
loro per la prima volta, ecco perché non mi hai mai
visto.»
«Dove
vivi tu c’è il mare?»
«È
una città enorme, quasi non ci sono nemmeno parchi.
È praticamente
impossibile trovare un luogo libero da pietra o asfalto; ed ecco
perché questo posto mi è piaciuto fin da subito,
ma mi ha fatto
anche sentire un estraneo. Pensa, non so neppure
nuotare…»
«Aspetta,
davvero? È una delle cose più belle che si
possano fare, devi
imparare assolutamente!» I riccioli d’ebano si
agitano come onde,
gli occhi brillano ancor più del solito per la decisione.
«Devo
cercarti un insegnante.»
«Non
ce n’è bisogno, Cleo!»
«Ma
ti potrebbe piacere…»
«Lo
credo anch’io, ma… ma non credo che ne avremo la
possibilità.
Questi saranno gli ultimi giorni per me, qui.»
Lei
si ferma, lo guarda di nuovo con intensità. «Non
lo sapevo», la
voce improvvisamente più bassa, «…
spero che tu rimanga almeno
fino alla notte di San Lorenzo. Dalle torri il cielo è uno
spettacolo, e almeno avresti un bel ricordo di questo posto.»
È
Socrate a trattenerle la mano ancora legata alla propria, questa
volta; e l’espressione dolce con cui la guarda la costringe
ad
arrossire. «Più di uno, direi»,
risponde, prima che lei ricominci
ad avanzare.
La
voce dell’altro l’accompagna per tutto il resto del
tragitto; ma
questa si infila dentro la sua mente con minor forza del consueto,
anche se la testa non è attraversata da alcun pensiero e il
vuoto è
l’unica presenza.
Perché?
La
presa non si scioglie fino a quando la casa della piccola non compare
davanti a loro; ed è qui che Socrate abbandona la sua mano
per
accarezzarle un ricciolo ribelle, trattenendola ancora per un
momento. «Sei diventata silenziosa. Qualcosa non
va?»
Cleo
scuote la testa, ma non riesce a mentire del tutto: né a
sé stessa,
né all’altro. «Solo… credevo
che saresti rimasto qualche giorno
di più, ecco», mormora infine lei, realizzando
solo in parte quello
che davvero sente; ciò che è rimasto silente e
ancora oscuro forse
si mostrerà nel tempo, e chissà per quale motivo.
«Hey,
non ho detto che devo partire ora! Abbiamo ancora del tempo, quindi
cerchiamo di divertirci il più possibile.»
La
mora annuisce, fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso; in
risposta, il ragazzino le arruffa i capelli e le si avvicina di
più.
«Ti prometto che una di queste notti, che sia quella di San
Lorenzo
o la precedente, vedremo insieme le stelle; sul mare, magari. Che ne
dici?
Possiamo
farci accompagnare da qualcuno dei grandi, così le nostre
famiglie
saranno tranquille.»
«Sì,
va bene, mi piace come idea», sorride lei, ora con
più foga e
rinnovata serenità, mentre si alza sulle punte per
arrivargli più
vicino, «e ora, rimani ancora un attimo: devi raccontarmi una
storia, ricordi?»
12
Agosto 1996, mattino.
Cleo
guarda il piccolo molo, e l’aurora che tinge il mondo con i
colori
del nuovo giorno. Socrate è partito nella notte,
l’ha salutata
poche ore prima; di lui le sono rimaste tante immagini di giorni
spensierati e compagnia, oltre che un ultimo abbraccio e una
confessione finale.
Mi
chiamo Luca, Cleo; ma tu continua a chiamarmi Socrate, va bene? Ci
rivedremo presto, piccola amica.
È
malinconica e non lo nasconde: l’estate che corre verso la
propria
fine le ha mosso il cuore e, almeno in una parte di esso,
l’infanzia
è scomparsa.
«Tornerà,
non ti preoccupare. Un anno passa in fretta, non avrai nemmeno il
tempo di accorgertene che lui sarà di nuovo qui, con
te», le ha
mormorato il signor Galileo quando ha notato la sua espressione, e la
mora le ha ripetute anche nel suo letto, fino a quando la stanchezza
non l’ha costretta a cedere e le ha fatto sognare un altro
mattino.
La
mezzaluna diminuisce la propria luce insieme a lei,
l’accarezza
appena senza raggiungere i pensieri; solo una nuova primavera
potrà
risolvere certe verità, renderle più profonde o
mutarle, e solo
nell’estate una parte del cuore — quella che
già porta un altro
nome — ritornerà a sentire.
NOTE
[1]
Neil Armstrong e Buzz Aldrin, astronauti della missione spaziale
Apollo 11, primi uomini a toccare il suolo lunare. Una delle foto
più
memorabili dell’impresa (forse la più nota) ritrae
proprio
quest’ultimo:
https://it.wikipedia.org/wiki/Buzz_Aldrin#/media/File:Aldrin_Apollo_11_(3x5_crop).jpg
[2]
Si tratta del celatone,
strumento inventato da Galileo per osservare i satelliti di Giove e
poter, tramite questi, misurare la longitudine in mare. Si tratta di
una sorta di elmo metallico, alla cui visiera è fissato un
cannocchiale.
[3]
Sfera formata da anelli metallici, le armille, ognuna delle quali
rappresenta uno dei circoli della sfera celeste (sfera immaginaria
sulla cui superficie sono proiettati tutti gli astri).
|
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Capitolo 2 *** Di Noi Due... ***
{
II ♦ Di Noi Due… }
15
Giugno 2003, principio
della notte.
Cleo
può riconoscere la
figura di Socrate fin da una grande distanza: la pelle ambrata non
è
lucida come quella brunita che contraddistingue quasi tutti gli
abitanti del borgo — diversa anche dalla sua, così
bianca da
renderla sempre soggetta a scherzose prese in giro —, la sua
altezza è quasi unica e il sorriso difficile da non notare;
inoltre,
la posizione della propria casa consente di controllare la strada che
sale dal molo e dal basso borgo, quindi… quindi come ha
fatto,
quella stessa mattina, a non vederlo, così da ritrovarselo
davanti
alle finestre della camera all’improvviso?
«Lieto di vedere
quell’espressione, cara Cleo», l’ha
salutata il giovane
trattenendosi dal ridere, mentre la ragazza nemmeno lo ha lasciato
finire e, saltata sul davanzale della finestra, si è
lanciata verso
di lui. In ben pochi abbracci si è mai sentita
così bene,
perfettamente incastrata tra l’impulso di non lasciar
più andare
il corpo dell’altro e chiedere di essere stretta
maggiormente, con
il volto affondato in quel petto ampio e la sensazione di potercisi
accoccolare contro, come in un rifugio. «Ben ritrovato a
te», ha
esclamato una volta svanita la forza della sorpresa, «e non
sbaglio
se dico che qualcuno ti ha aiutato in questo scherzo, vero? Avevi
detto che saresti venuto ad Agosto!»
«Dovevo ripagarti di tutte le
volte in cui sei venuta a farmi visita! Però…
davvero non mi
aspettavi?»
Sette anni; sono sette anni
che ti aspetto. Sette
anni di pensieri e parole tramite le lettere di cui il signor Galileo
si è fatto tramite; sette anni di chiamate lunghe ore,
ricolme di
sfoghi e risate, in una delle rare cabine telefoniche del borgo, dove
la voce dell’altro è stata un farmaco contro la
malinconia e le
lacrime hanno potuto scorrere liberamente.
Sette anni in cui ogni estate
ha assunto gli occhi di uno o dell’altra e li ha legati
istante
dopo istante, al pari delle occasioni in cui lei ha raggiunto il
giovane nella sua città e, contro le proprie paure,
è sempre
riuscita a trovarlo — qualunque significato questo verbo
abbia…
sette anni in cui il cuore di Cleo non si è mai perso,
aggrappandosi
anche al sentore più lieve di quella presenza,
perché così ha
voluto e scelto.
«No, però ho sperato spesso
in questo regalo. Grazie», ha mormorato, prima che lui la
lasciasse
andare per prenderla per mano e iniziare il loro tempo sulla spiaggia
e nella biblioteca; ed è tra queste mura che, approfittando
dell’assenza della famiglia di Cleo, il ragazzo le ha chiesto
di
restare oltre il tramonto. L’ha stretta forte sotto gli astri
di
metalli e i giochi di luce sulle vetrate, facendola ridere
d’imbarazzo quando l’ha presa in braccio e ha
affondato il naso
tra i suoi capelli; l’ha tenuta contro di sé senza
accennare a
staccare da lei neppure un dito, e in quell’abbraccio la
giovane ha
percepito molto più che trasporto. «Guarda che non
sto cercando di
fuggire», ha sussurrato nel tentativo di spezzare il silenzio
sorto
improvvisamente e poi prolungatosi, strusciando piano il naso contro
il collo del ragazzo; ma questi non ha replicato né udito,
gli occhi
socchiusi e la mente distante da lì, oltre ogni pensiero.
È quasi passata un’ora,
ormai, da quell’istante; la figura del signor Galileo, angelo
del
luogo, è apparsa solo per pochi attimi e da
chissà dove per mettere
loro addosso una coperta, quindi li ha lasciati in compagnia della
reciproca presenza e ha permesso che la notte fluisse indisturbata.
Cleo continua a combattere il
sonno e attendere, perché sa che qualcosa sta per svelarsi e
a sua
volta vorrebbe rivelare; ma è proprio quando decide di
intervenire
che la situazione si sblocca.
«Devo farti vedere che cosa
abbiamo scoperto io e il signor Galileo.»
«Quest’anno non ritornerò
a casa; sono giunto per restare.»
Entrambi si bloccano e si
fissano a occhi spalancati, prima di ridere di come le loro parole
riescano a incrociarsi sempre più spesso: un altro volto
della
sintonia. «Ma questa è una bellissima notizia!
Certo che sei tutto
particolare, perché aspettare così tanto a
dirmelo? E per quale motivo, se
posso sapere?» Una pausa, seguita da un lieve incupimento.
«Qualcosa
non va?»
Socrate sorride e le aggiusta
meglio la coperta sulle spalle, accarezzandola con dolcezza.
«Sempre
la stessa tensione con i miei genitori, nulla più: fin
troppo tempo
sono rimasto in gabbia in quella città grigia, e alla fine
l’ha
capito anche la mia famiglia. Avrei dovuto essere qui già da
un
anno, diventare adulti comporta anche poter decidere per proprio
conto! Eppure solo ora sono riuscito a liberarmi e a raggiungerti,
pur nella loro perseverante contrarietà.
Questo posto finirà per
logorarmi ancora di più, dicono, e non è fatto
per me; come se si
fossero completamente dimenticati della loro origine.»
Cleo non replica, eppure non
smette di fissarlo. Nel borgo sono già in parecchi a
sospettare
sulla reale natura della loro storia e a divulgare bisbigli e
supposizioni, e neppure i suoi genitori ne sono all’oscuro; a
loro,
poi, quel giovane gentile e solare è sempre piaciuto,
così che
incoraggiano come possono il rapporto… caso opposto alla
famiglia
di Socrate.
La mora ricorda fredde parole
e sguardi ostili, quasi ricolmi di allarme, per ogni volta che la sua
figura ha incontrato quella del ragazzo e quest’ultimo si
è
staccato dall’ombra dei genitori per passare le ore con lei;
le
occasioni sono divenute sempre più, la distanza da quegli
sguardi
perennemente uguale e, anche per colpa della sua titubanza, senza
spiegazione. Come può scatenare una tale paura? Non riesce a
comprenderlo, no. «Ai tuoi genitori non piaccio, lo so
già»,
risponde quindi e non senza amarezza, «per qualche motivo
è così e
non me lo nascondo. Mi dispiace… la tua decisione ti
avrà creato
parecchi problemi, e tutto per causa mia.»
«Anche con tutti quei
chilometri a separarci, tu sei sempre stata più presente di
molti
altri. Perché non lo capiscono?»
«Forse si aspettavano
qualcosa di meglio per te.»
«Allora ho fatto bene a
seguire i miei, di piani; se vogliono il meglio per me, beh,
l’ho
giò trovato.»
Lei sente tutto il calore che
si eleva da quelle parole, quindi cerca un contatto più
stretto.
«Di cosa volevi parlarmi,
prima che ti interrompessi? “Scoperta”, ho sentito
bene?»
«Non è grandiosa come la tua
notizia, credimi… è solo una sorpresa che nessuno
si aspettava.»
«Cioè?»
«Durante i restauri della
villa qui accanto, è stata ritrovata una stanza non mappata:
una
vera camera segreta scoperta per caso e vuota — a eccezione
di
tanta polvere, di un telescopio mal funzionante e di un tipo ormai in
disuso, e dell’affresco di una veduta marina, così
perfetto da
sembrare una fotografia. La Soprintendenza ha dato il meglio di
sé
per quanto riguarda quest’ultimo, ma il telescopio non ha
molto
valore, quindi è finito nelle mani del signor Galileo; e per
questo
è qui, alla portata di tutti, anche se a nessuno sembra
interessare.
Il signore mi ha detto che potrò lavorarci sopra, appena
saprò come
procedere; non attendo altro.»
«Nessuno si interessa a
quello strumento, ma tu non sei parte di quel nessuno,
è chiaro. Posso
guardarlo?»
«Non si vede nulla, è come
un occhio cieco puntato sulla notte; e anche se mi ha dato la
possibilità di studiarlo, all’inizio il signor
Galileo mi ha
comunque detto di tenerlo così, perché, parole
sue,
quella mancanza è parte della sua storia e bellezza.»
«Desidero vederlo comunque, e
tu stai morendo dalla voglia di accontentarmi», risponde il
ragazzo
con un sorriso scherzoso, prima di farla scendere dalle proprie
gambe. È
quando
sono con te che pure io riesco a vedere l’universo,
le ha sussurrato una volta; e osservando la sua espressione, Cleo se
ne rende conto per l’ennesima occasione. Non si fa pregare,
allora,
e le sue mani fremono quando si chiudono sullo strumento che riposa
tra i propri fratelli, portandolo dall’altro con delicatezza;
gli
occhi seguono ogni movimento dell’amico, sorridendo senza
cattiveria per il modo con cui le dita timorose scorrono su quel
tesoro ignorato.
«Non morde, sai? Ma magari
qualcun altro lo guardasse come stai facendo tu. Se solo riuscissi,
un giorno, a capire cosa non va e risolverlo…»
«E se tu dovessi lavorare su
questo telescopio, scoprire ciò che non funziona ma non
poterlo
riparare, per qualche ragione… che cosa faresti allora? Lo
metteresti da parte, dimenticandotene? Lo getteresti?»
Un breve silenzio scende
intorno, sorto dalla domanda che non concede via di fuga; ma la
risposta è onesta, e dolce. «No, perché
è sempre frutto di studi,
benché magari imperfetti, di dedizione e impegno; no, non
riuscirei
a farlo perché qualcuno lo ha costruito per migliorare una
parte di
mondo, e anche se non ce l’ha fatta la sua presenza ne
testimonia
la dignità. Inoltre, è giunto fino a noi
nonostante nessuno sapesse
della sua esistenza: come se avesse ancora qualcosa da dire e, a modo
suo, mostrare.
Non si elimina la passione,
non si piegano le idee; non ne abbiamo il diritto né
è giusto
farlo. Se qualcosa non funziona, non per forza lo farà per
sempre;
l’errore, la diversità ci insegnano quanto il
modello perfetto…
anzi, di più. Su questo non ho dubbi.»
Da quando si sono incontrati
quella stessa mattina, è la seconda volta che la ragazza
vede il
volto di Socrate illuminarsi; e quando questi le porge il telescopio,
le sue parole giungono più vivide. «Farai un
lavoro magnifico, ne
sono sicuro. Vorrei tanto esserci quando
inizierai…»
«Non è di certo impossibile,
dato che ora sarai sempre qui», risponde Cleo con
vivacità, prima
di stringere a sé lo strumento e le mani che ancora lo
trattengono.
«Questa è un desiderio che realizzeremo
insieme.»
Il cielo è ancora avvolto nel
suo nero manto quando la giovane lascia la biblioteca e corre verso
le terrazze panoramiche, seguita a poca distanza, più
lentamente,
dal compagno; lì attende lui e le onde che muoiono a riva,
stringendosi poi contro la spalla calda di chi ora sarà
sempre al
suo fianco.
«Quante volte che potremo
passare così, solo io e te», è
l’unica cosa che Socrate le
sussurra, cullandola ancora una volta; e lei socchiude gli occhi, non
ha bisogno di nient’altro. Sotto alla volta priva di luna, le
uniche a rispondere alle stelle sono le lampade dei pescatori; lumi
che incantano e li stringono ancora di più, come visioni sul
futuro.
L’estate non è ancora
iniziata; ma il suo calore è già lì,
parte dell’anima e del loro
cammino.
4
Luglio 2003, sera.
Un
soffio sottile, un applauso prolungato; nel giro di un attimo passa
un altro anno, e Cleo diventa più grande.
Nella
piccola casa bianca e rosa ci sono tutti, dai genitori ai cugini,
dagli zii ai nonni; e questi ultimi non si fanno certo scappare
l’occasione di assillare di domande e attenzioni anche
l’unico
membro estraneo alla famiglia, ma, ormai lo sanno tutti, a questa
profondamente legato.
Da una parte della stanza
all’altra, gli sguardi di Cleo e Socrate si incontrano, i
volti si
sorridono e arrossiscono per l’entusiasmo; e la fotografia
che il
padre scatta intrappola tutta la luce che risplende nel viso della
novella diciassettenne e i pensieri che le attraversano la mente,
imprimendo nel tempo uno dei migliori compleanni che questa abbia mai
festeggiato.
Il tempo per parlare in
solitudine non è molto: tante le voci che si intrecciano e
chiedono
di uno dell’altra, della ragazza che prima pensava solo a
leggere e
sognare e del giovane che ha cambiato le sue priorità; ed
entrambi
sorridono e rispondono, i mignoli che spesso si incontrano sotto la
tavola e si intrecciano con calma e forza, come a dire:
“Anche in
mezzo a tutto questo caos, io posso comunque sentirti.”
Poi, mano a mano che le ore
passano, l’allegria viene calmata dalla quiete della notte e
dal
sonno; uno dopo l’altro gli invitati lasciano la casa e
svaniscono
sotto le stelle dopo un ultimo bacio a Cleo, e alla fine sulla soglia
rimane solo una presenza. In quel momento, nella casa ogni luce si
abbassa e lascia che a rifulgere sia la pelle candida della mora,
stretta stretta al suo Socrate in un dolcissimo abbraccio. Notte di
luna piena, mare sussurrante e l’amore della sua giovane
vita: e
nient’altro chiede se non un ulteriore istante insieme,
connessi
come un unico corpo.
«Un ballo per concludere la
serata, mia lady?», scherza il ragazzo, prendendola in
braccio
perché siano volto a volto; lei annuisce e gli si accoccola
nell’incavo tra la spalla e il collo, il posto migliore per
sentirsi in pace e ascoltare i cuori dialogare. Quello di Socrate ha
un battito diverso dal solito, riconosce; ma non ci fa molto caso e
fa finta che i minuti non galoppino sempre più velocemente,
fino a
raggiungere il centro della notte — e, quindi, le ore da
passare in
solitaria.
«Comunque, il più bel regalo
sei stato tu», sussurra allora Cleo, depositandogli un
ultimo, lungo
bacio all’angolo della bocca appena prima che il giovane la
rimetta
a terra.
«Allora devi convincere i
tuoi genitori a tenermi.»
«Ma se già ti adorano!
Vedrai, tempo qualche anno e inizieranno a preparare il nostro
matrimonio…» Una pausa, per prendere tutto il
tempo, «… e io
non avrò nulla in contrario.»
La notte non può essere
fredda, non nel sorriso imbarazzato dell’altro; e su
quell’immagine
entrambi si salutano, promettendosi poche ore di distanza e tanti
sogni. Per la prima volta, appoggiata alla stessa soglia, la mora
riconosce che le parole della sua famiglia sono vere: Socrate ha
stravolto le sue priorità, le ha donato una nuova luna
— non meno
bella della prima ma più vicina, e solamente per lei; e
allora
insegue il ragazzo e lo raggiunge prima che esca dal cancello,
abbracciandolo ancora una volta tra il pallore delle case che li circondano.
«Proprio non riusciamo a
rimanere staccati, vero?»
Lei sorride, affondando il
viso contro la sua schiena. «Sai, sogno il momento in cui
passeremo
non solo istanti, ma una vita insieme. E…»
Le mani di Socrate sciolgono
la stretta con delicatezza, per permettergli di girarsi ed essere lui
ad abbracciare con più forza. «Ma è
quello che stiamo facendo:
vivere insieme, sempre uniti e capaci di sentirci.
Tutti questi anni… anche se
lontani, nessuno di noi due ha mai pensato di lasciare andare
l’altro, sapendo che avrebbe perso metà di
sé stesso e tutto il
cuore. E anche questo non è vivere insieme, come
un’anima sola in
due corpi separati?»
«Questo è vero, ma non
toglie il fatto che ti vorrei avere sempre con me anche fisicamente,
e recuperare ciò che la lontananza ci ha impedito.»
«Eccola, la coccolona», è
la risposta che lei sente prima di essere presa in braccio e fatta
volteggiare tra le sue risate soffocate e tutti i pensieri
più
luminosi, «la mia splendida donna che ora, però,
deve andarsene a
letto, o domani non si sveglierà nemmeno con i miei
baci.»
Mi troveresti comunque
sveglia: come potrei dormire in una notte come questa?,
pensa lei, trattenendo il tempo per qualche altro attimo e
riempiendolo di dolcezza, infine lasciando che le ore corrano fino a
raggiungere il nuovo mattino.
«Una
vita insieme… anche se dovesse durare solo un battito, ma
almeno
passare e finire con te», è tutto ciò
che riesce a dire quando si
separano; e nel buio può ancora sentire il cuore
dell’altro, la
sua speciale ninnananna e il dono più prezioso che
l’anima riceve.
A domani, allora; a te, che
continui a vegliarmi, e a me, che ogni volta mi innamoro di
più.
|
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Capitolo 3 *** ... E dell'Ombra del Cuore ***
{
III ♦ … E dell’Ombra del Cuore }
8
Luglio 2003, principio del giorno.
La
pioggia scroscia sul vestito nuovo di Cleo, appiccicandole la stoffa
al corpo e facendola rabbrividire; nella parziale oscurità
che la
stringe come un manto, la strada di casa è smarrita e le
richieste
di aiuto si perdono quanto lei, lasciandole affrontare il temporale
da sola.
Il
mare tace, non è alle sue spalle così come non
appartengono al
borgo le mura urbane che si stagliano a breve distanza; torri
nascoste da alti roseti e nella sua memoria l’osservano
risalire il
ripido sentiero che su cui rischia di scivolare e precipitare di
sotto, nel bacino dove tutta l’acqua si sta riunendo e sale,
sale
apposta per afferrarla
più in fretta.
Inutile
correre, la ragazza sa che non farà mai in tempo a
raggiungere la
cittadina davanti a lei, né è sicura che questa
sia disposta ad
accoglierla; ma prosegue imperterrita, per non darla vinta facilmente
alle forze ostili, decisa a tentare anche l’impossibile per
salvarsi.
«Non
dovresti essere qui.»
Non
ha fatto in tempo a riconoscere il suono di passi in corsa e a
girarsi, che già un braccio forte l’ha presa per
la vita e
impedito di cadere; e anche se il volto è coperto dal
cappuccio di
un mantello blu e il fisico è più grande del
normale, nella figura
che la sorregge Cleo riconosce Socrate, così che
istintivamente
sorride e si stringe al suo braccio.
Il
ragazzo ha un ombrello con sé, ma l’acqua filtra
attraverso di
esso e li bagna comunque, spingendo lei a chiedersi il motivo di
ciò,
e anche perché l’amato non sorrida né
riveli il viso. Il suo
corpo è freddo, e non per la tempesta che soffoca le loro
parole;
no, è una condizione propria del giovane, il quale non si
anima
neppure quando Cleo prova a baciarlo.
«Mi
dispiace, sai», sussurra questi in risposta al tentativo, con
grande
tristezza, «mi dispiace tanto.»
Solo
a quelle parole lei si accorge del fango che le ha intrappolato i
piedi e dei roseti cresciuti davanti ai suoi occhi, le cui nere spine
hanno strangolato tutto i boccioli; ma ancora non comprende.
«Che
cosa dovrei mai perdonarti? Non hai fatto nulla di male.»
L’acqua
continua a salire e li ha ormai raggiunti, abbracciando le loro
ginocchia; tutt’intorno, solo il rumore di una lacrima che
cade.
«Mi
devi perdonare, invece, perché… perché
sono stato io a portare
questa pioggia, e non ti ho permesso di scappare. Non
dovevi morire anche tu.»
La
spinta che Socrate le dà la fa incespicare, quindi cadere; e
inutilmente la sua mano si tende verso quella del ragazzo,
perché,
ora lo sa, è sempre stata sola davanti all’onda
scura che non esita a ghermirla e trascinarla nel suo ventre, sempre
più giù.
…
Quando Cleo
balza a sedere nel
letto, la linea dell’orizzonte è già
percorsa dal chiarore del
primo mattino e la stanza è colma dei suoi respiri
affannati; le
dita tremano, volte
verso la parete opposta
come
per
fermare fantasmi sconosciuti, il sonno è
ormai
spezzato.
Ancora
troppo presa dalle immagini del sogno per riconoscere le forme della
realtà, la ragazza ricade lentamente sul cuscino e a lungo
osserva
il soffitto senza realmente vederlo; il cuore, invece, nonostante
ritorni al suo ritmo normale si fa pesante. In realtà,
qualcosa di
grande e diverso lo deve aver sentito davvero, se
la spinge anche a piangere per tutti gli istanti che la separano dal
pieno giorno.
15
Luglio 2003, mattino.
La
spiaggia è deserta, dato che l’alba è
appena sorta; ma Cleo già
la riempie con le proprie orme, inseguendo il cammino
dell’onda. Ha
dormito poco ma non si sente stanca, perché i sogni
l’hanno
nutrita d’immagini e desideri, e le sue forze nascono in gran
parte
da questi. Così
è la tempra dei giovani,
sussurra qualcuno tra i più anziani con un sorriso,
guardandola
camminare in compagnia del mare, che
si nutre del proprio cuore e di quello che sente.
E
la sabbia danza con lei, penetrando tra le dita dei piedi; anche la
sua mente viene portata lontano, dove carne non è e la notte
non
scende mai.
Le
ginocchia sono leggermente sbucciate per aver passato quasi
un’ora
tra gli scogli e la spuma bianca, a osservare il mattino nascere
nell’acqua stessa; e tra le dita stringe conchiglie dalle
mille
sfumature, alcune di quelle che tante piaceranno a Socrate.
Anche
la schiena è segnata da qualche striatura rossastra;
tuttavia queste
non danno dolore, perché è stato il ragazzo
stesso a causarle
neanche un giorno prima, quando l’occasione l’ha
spinto a
intrappolarle le labbra e impeto e sorpresa l’hanno fatta
cadere e
graffiarsi contro gli stessi scogli. Un bacio appena accennato
seguito subito da uno più lento e lungo, sospeso tra il capo
del
mare e le sue profondità, tra i capelli di lei che hanno
coperto il
volto di entrambi come un velo, a proteggerli dal resto del mondo, e
i rispettivi corpi tesi a chiamarsi l’un l’altro.
«Quando
si ama si può perdere la testa… ma il resto
lasciamelo integro»,
ha detto lei con il sorriso del più dolce imbarazzo, mentre
il
giovane è arrossito e le ha sussurrato un
“perdonami” che le sue
labbra hanno subito accolto. Neanche il sale e il vento rovente sono
riusciti ad arderle la pelle con lo stesso impeto dei sentimenti, e
con grande fatica la spiaggia li ha visti separarsi davanti agli
occhi del bianco borgo; ma le cale celate allo sguardo sono molte e
altrettante le promesse che mormorano, è il posto migliore
per
osservare e raccontare i mutamenti del cielo, ballare e rincorrersi,
accarezzare la pelle dell’altra metà fino a
raggiungere ogni
cicatrice, angolo o imperfezione che semplicemente, dolcemente,
migliori la presenza, e poi diventare una sola cosa.
Per
questo bisogna essere in due, cosa che quel mattino non vede
accadere; tuttavia, i minuti volano comunque fino a raggiungere il
momento di incontrarsi davanti alla loro seconda casa e cadere nel
tempo di scoprire qualcosa di nuovo e conoscersi ancora, sempre di
più e in maggior profondità: così come
fanno con il corpo, anche
con l’anima.
Le
sue passeggiate sulla spiaggia sono note a tutto il borgo e ognuno sa
di poterla trovare lì, quindi non si stupisce quando vede la
figura
del signor Galileo venirle incontro; ma è il passo insolito
che le
frena un poco il sorriso, quel ritmo troppo lento per essere privo di
pensieri.
Inaspettatamente,
i piedi le impediscono di proseguire e la tengono ben ferma dove sta,
a percepire il vento cambiare e respirarne un ultimo alito prima che
si modifichi ancora, sempre più velocemente.
C’è qualcosa, questo
le suggerisce, che lei non può afferrare, né
cambiare.
«Sapevo
di trovarti qui, cara Cleo», le sussurra l’uomo
quando è
abbastanza vicino per essere udito, posandole una mano tra i capelli.
La
ragazza sorride, chiedendosi per quale motivo senta la
diversità
impossessarsi del mondo. «Buongiorno. Sto per raggiungere la
biblioteca, perché Socrate — Luca —
sarà già là ad
aspettarmi, e…»
«No,
non è là; se vuoi possiamo andarci, ma oggi
Socrate non ci sarà. A
dir la verità, lui non è nemmeno nel
borgo.»
La
giovane lo guarda sorpresa, senza sapere cosa rispondere: neanche
qualche ora prima si sono promessi una giornata insieme, senza che il
giovane facesse riferimento a una sua assenza; eppure neanche si
preoccuperebbe, visto quante volte gli imprevisti turbano i piani, se
non vedesse così tanta tristezza negli occhi di chi le sta
di fronte
e capisse che c’è qualcosa di più di un
semplice contrattempo.
«Signore…», sussurra appena, cercando di
spingere l’altro ad
aprirsi affinché le dica ciò che continua a
trattenere; e rimane
sorpresa quando questi le prende una mano e la guida con sé,
con
calma, lontano dalle onde e su un cammino dalla sconosciuta
destinazione. «Vieni, abbiamo alcune cose di cui parlare e
per la
prima volta non so bene come farlo. I tuoi genitori sono già
stati
avvertiti, e—»
Una pausa. «… E non c’è
più niente che possa rimandare il
momento.»
La
ragazza sente un improvviso vuoto scendere sul suo capo, come se
tutti i pensieri l’avessero abbandonata nello stesso istante;
quindi non si accorge di come la stretta sulle dita diventi
più
forte e a malapena la mente comprenda le parole che seguono, fino a
quando uno spiraglio di reazione la riscuote. «Luca ci sta
aspettando; ti sto portando da lui.»
Cleo
annuisce appena, quindi si blocca come in una consapevolezza
improvvisa. «Mi dica cos’è successo, per
favore. Con i suoi
tempi, ma non mi lasci… così.»
Perché
qualcosa è capitato, e lei ora lo sa, lo sente, che ancor
prima di
essere raggiunta dall’uomo la sua anima ha percepito il
mutamento —
come si accorge che niente, dall’istante che
seguirà quella stasi,
potrà ritornare come prima, né le
assicurerà che lei sia capace di
affrontarlo. «Per favore», ripete; ma no, non
è pronta alle
lacrime che vede solcare le guance del bibliotecario, né a
quelle
che istintivamente sorgono nei suoi occhi; e tuttavia attende una
risposta, con coraggio e una preghiera.
«Piccolina…
Luca deve assolutamente vederti, perché forse questa
sarà l’ultima
volta che potrete farlo.» Un sospiro che rivela tutto il
dolore e
l’empatia per entrambi loro, e un cielo troppo azzurro,
sbagliato
nella sua imperturbabile serenità. «Oh,
Cleo… ti sei innamorata
di un cuore che non è nato per vedere il mondo a lungo, e
che
tuttavia ha saputo prendere da esso la felicità; ma sono
sicuro che
gli anni più belli glieli abbia donati tu… ed
è per te che, ne
sono sicuro, sta ancora combattendo.
Andiamo
da lui: ora, ogni attimo deve essere solo vostro.»
•
«C’era
una volta un ragazzo: come tanti altri della sua età, con la
pelle
brunita dal sole e gli occhi buoni, con l’entusiasmo che
accomuna i
grandi sognatori e tutte le potenzialità per imparare a
correre
veloce quanto il vento. La natura era il suo dominio, il campo dove
potersi mettere alla prova e ridurre in ginocchio gli avversari, la
correttezza ciò che gli permetteva di saper riconoscere i
limiti tra
un’assoluta vittoria e quello che la coscienza avrebbe
reputato
giusto; e per questo si meritava ogni lode.
C’era
una volta un ragazzo che aveva tanto da dare e insegnare, che non
temeva di mostrare quanto amasse la vita e facesse ogni cosa per non
trascorrerla invano; e finché avrebbe avuto il cuore,
così credeva
nella sua innocenza, sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa.
Questo
stesso cuore, invece, doveva pensare totalmente l’opposto:
perché
un giorno invece di sostenerlo decise di tradirlo, rivelando la
propria debolezza e l’imperfezione e,
da quel momento, tormentandolo
per anni; stanotte
è
stato solo l’ultimo
caso.»
Il
corridoio dell’anonimo ospedale è riempito solo
dal suono dei suoi
passi, continui e cupi; la mente ignora
la famiglia di Socrate, seduta a distanza da lei,
ed
è tutta concentrata sul mondo che si apre al di
là della porta
serratamente chiusa e su una parte del lungo racconto fattole dal
signor Galileo, quella dove le lacrime hanno iniziato a sgorgare e a
unire la trama che ha coperto gli ultimi anni.
Cleo
non ha mai saputo prima cosa volesse dire piangere, farlo davvero,
sentirsi così smarrita da tremare pur nel ventre
dell’estate; ma, ora che conosce la storia che Socrate non ha
mai
voluto raccontarle — e che ha compreso anche il
perché di questo
—, il calore non è parte del suo corpo, e se le
sembra di
soffocare è per ben altri motivi. Tra le mura anonime
esterne a lei
e la sofferenza che prova dentro si chiede come non sia mai riuscita
a capire quella parte di verità, e si sente in colpa per
tutta la
spensierata, inconsapevole serenità che ha riservato nella
loro
storia: un’assenza di preoccupazioni che ha ignorato per
tanto
tempo il dolore e certamente non sarà riuscito a
confortarlo, che
non ha reagito agli stimoli che la colpivano.
In
confronto al giovane, si vede terribilmente immatura e indegna,
infantile e meritatamente tenuta all’oscuro di fatti
così
importanti: come avrebbe potuto aiutare qualcuno, così
egoisticamente persa a cercare sempre il lato positivo della vita da
essere cieca? In
che modo qualcuno potrebbe legarsi a lei dandole completa fiducia,
sapendola incapace ad affrontare le sfide della vita? Forse
è proprio perché l’hanno compreso
subito che i genitori di
Socrate hanno sempre visto nella sua figura un fastidio, un danno.
Protetta
dal silenzio del ragazzo, tanto migliore di lei al punto da non
volerle dare alcun pensiero, si è attaccata alla pace che
lui le ha
offerto e ha chiuso gli occhi di fronte a tutto il resto, da vera
insensibile; e ora, il prezzo da pagare per questo è
crudelmente
alto, affossa ogni tentativo di reazione e aumenta la tristezza,
fondendosi con la certezza della propria inutilità.
Così stupida,
stupida!
Nonostante
la debole voce che le mormora anche
altro,
non riesce a trovare altra parola per descriversi; nonostante ciò
che
il signor Galileo, seduto a fissarla senza riuscire a consolarla, le
ripete, ogni istante è tortura.
Il
silenzio che proviene dall’altra
parte,
quindi, non è nemmeno la parte peggiore di tutta quella
vicenda.
«Non
tormentarti così, Cleo; non è colpa tua.»
«Ma
avrei dovuto capirlo che qualcosa non andava. Invece…
invece,
nonostante avessi la strada disseminata di prove, ho ignorato tutto e
pensato solo a me.»
Come
ho potuto farlo?
«Non
dire così…»
«Avrei
potuto prendermi cura di lui con più maturità!
Spendere il mio
tempo con serietà, conscia dei rischi… e se gli
ho fatto fare
qualcosa che ha peggiorato la sua situazione? Chi mi dice che non sia
stato male per colpa dei miei capricci? Che cosa potrei essere
stata…»
L’improvviso
sorriso dell’uomo è solo un accenno sul volto
teso, eppure lascia
trasparire una consapevolezza che la ragazza non sente più
sua. «Di
certo sei
stata,
siccome me l’ha
detto, la sua medicina migliore.»
Cleo
resiste
qualche attimo
quando l’altro
si alza e le si avvicina; ma
alla fine
si lascia abbracciare, e senza trattenersi oltre affonda il volto nel
torace del mentore
e si stringe più forte a lui. «Sono
ancora una
bambina…»,
mormora,
«una
bambina
ignara
di tutto.»
«A
diciassette anni è legittimo esserlo
ancora un poco, non credi?
A quell’età
non si dovrebbe pensare alla morte e alla sofferenza, né al
pericolo
di perdere chi si ama: perché è giusto essere
ancora spensierati,
appena prima che inizi un nuovo capitolo di vita.»
«Ma
Luca questa spensieratezza non l’ha
potuta avere, al contrario mio.»
«Ed
è qui che ti sbagli, cara Cleo: tu non sai davvero quanto
sei stata
importante per lui. Ti rammarichi per non aver saputo comprendere la
verità, per non aver sfruttato le occasioni insieme per
qualcosa di
serio; ma Luca aveva bisogno della tua innocenza, di una vita lontano
dalla tristezza che vede negli occhi di tutti quelli che tengono a
lui.» Una pausa che
sospende il respiro della giovane, resa più attenta dalle
profonde
parole dell’altro.
«Luca ti ha taciuto la
sua malattia perché tu potessi stare al suo fianco senza
pianto,
perché lui potesse fare
la stessa cosa con te,
la ragazza che
non gli ha fatto
dimenticare la normalità,
la libertà di non dover spiegare nulla, la consapevolezza di
non
essere solo
un imperfetto che rischia di morire a ogni respiro. Tu gli hai fatto
un dono importantissimo: amandolo e facendoti
amare, hai allontanato da
lui la paura di non poter dare al mondo altro che dolore, e
per quanto possa essere
breve, una vita passata con qualcuno capace
di fare ciò è già
abbastanza.
Sì,
Cleo, tu sei abbastanza per lui: non devi cambiare il tuo amore in
nulla, ma continuare a stargli vicino come hai sempre fatto.
Me
lo prometti, piccola? Mi prometti di non perdere la tua allegria e di
restare genuina e dolce come sei, pur sapendo la verità?»
Mentre
guarda il signor Galileo inginocchiarsi ai suoi piedi, qualcosa che
finora ha messo da parte torna a farsi sentire: la memoria di non
molte sere prima, di una confessione che ora comprende appieno
—
che, ora se ne rende conto, in realtà ha accettato fin da
subito.
E
se tu dovessi lavorare su questo telescopio, scoprire ciò
che non
funziona ma non poterlo riparare, per qualche ragione… che
cosa
faresti allora? Lo metteresti da parte, dimenticandotene? Lo
getteresti?
Ha
risposto senza esitazione in quel momento; e anche oggi i suoi
pensieri non sono cambiati, perché anche se da una parte
è convinta
di non aver dato a Socrate tutto quello che avrebbe meritato, dentro
di sé è sempre stata sicura della scelta di
rimanere al suo fianco.
Quindi
forse già avevo intuito e, inconsciamente, ho lottato anch’io?
Quelle sensazioni… e
quelle parole, che ho pensato veramente.
«Non
potrei mai abbandonarlo…»
Non l’ho
mai fatto. «…
perché il mio cuore, così
com’è,
è stato plasmato da lui. Una volta non amavo il mondo come
ora,
ma Socrate ha portato così
tanta bellezza che alla fine ho iniziato a vederla anch’io,
e se me ne andassi ora, se
perdessi quella parte di me che tanto ha protetto…
Io,
semplicemente, non voglio che accada. E ora che so la verità
non
posso che amarlo ancora di più, e cercare di donargli il
doppio di
quella serenità che non gli ho mai fatto mancare; questo
è quello
che sento.
Se
sono riuscita ad aiutarlo almeno un poco, come sostiene lei…
non posso che proseguire.»
L’uomo
sorride a quel discorso, quindi si rialza. «E tu saresti
immatura?»,
mormora, per poi accarezzarle il capo e abbracciarla di nuovo.
«No,
tu non sei infantile: non lo eri più da tempo, ma in una
sola
giornata sei cresciuta ancora, più di quanto si possa
immaginare.»
Un’altra
ora passa, lenta ma inesorabile, nel reciproco calore di chi aspetta,
di chi va, di chi sempre rimane; e
in quei momenti, un nuovo fiore sboccia, e una promessa viene mantenuta.
Una
volta mi hanno detto che l’amore
non è cosa che nasce con l’età: diventi
grande e così ti
innamori, inizi a comprendere e allora puoi sentire anche
ciò che il
tuo cuore vuole...
No,
non è proprio questo il suo modo di funzionare.
Non
potrei mai dirti quando è iniziato il mio: forse, dentro me,
già
davvero
sapevo
ciò da cui mi volevi proteggere, oppure forse in qualche
modo ti
avevo già conosciuto, e a priori avevo deciso di restare al
tuo
fianco.
Ma,
qualunque sia la risposta, alla fine è questo ciò
che è più
importante: che tu non sia solo, che riesca sempre a sentirmi. Io
l’ho
chiamato
l’amore dei ragazzini, sprovveduto, incosciente e intenso
quanto
loro; ma, ora lo so,
in
verità è molto più
di questo.
Ricordi?
Una volta mi hai chiesto un nome, una parola che potesse
corrispondere solo a me e da sussurrare tra mille libri e sotto
stelle di metallo; e ora
ti imploro di tornare,
di
ritrovare
la strada che porta da me e chiamami, anche per una volta soltanto,
Agape: mi troverai accanto
a te,
dove sono rimasta
dalla prima volta che mi hai guardata, dove ho imparato a essere me
stessa.
Se
lo farai, la tua sorte sarà meno pesante, la condividerai
con me: e
sappi che il tuo cuore malato non mi spaventa, perché mi ha
dato
solo un motivo in più per amarti.
Come ben sai, è difficile lasciarmi indietro.
Chiamami
Agape: amare senza condizioni, fino al sacrificio di sé,
come tu mi
hai insegnato a fare; come io ti mostrerò, per tutto il
tempo che
sarà ancora nostro.
|
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Capitolo 4 *** L'Universo è Nato Per I Tuoi Occhi ***
{
IV ♦ L’Universo
è Nato
Per
I Tuoi Occhi
}
8
Marzo 2011,
mattino.
Cleo
apre gli occhi piano, senza fretta.
Nella
spaziosa camera matrimoniale, i mappamondi e i telescopi sono immersi
nell’oscurità, il momento di affrontare il mattino
ancora lontano:
ma fin da quando è piccola, in quanto a interesse il buio ha
sempre
avuto la meglio sulla luce, quindi la ragazza si solleva sui gomiti e
si mette a sedere. Come ogni volta, il respiro di chi condivide con
lei il calore di quelle mura è il buongiorno che attende
davvero; un
respiro non sempre regolare, ma presente — un vero e proprio
dono.
A
questo quieto segno si aggiunge anche un mormorio appena percepibile
quando la mora si allunga verso l’altro lato del letto e i
riccioli
sfiorano il volto del compagno; invece, le dita sanno bene dove
fermarsi e sembrano voler abbracciare il cuore, là dove il
battito
risponde subito al tocco.
Il
corpo nudo non esita a reagire appena incontra quello di Socrate, la
pelle va in fiamme mentre Cleo appoggia il capo sul petto amato; e
una scia di baci delicati prelude a quello che il giovane
riceverà
appena il sonno abbandonerà anche lui — cosa che
accade da lì a
qualche istante dopo, come comprende la ragazza quando
sente le braccia del marito stringerla.
«Dormi
ancora un po’, Cleo, non tutti sono allodole mattiniere come
te»,
borbotta questi girandosi e portandola sotto di sé,
affondandola tra
i cuscini e il tepore della vita, rendendo più profondo il
suo
sorriso. «Allora io sto sopra», replica quindi lei,
appena prima di
rovesciare le posizioni e soffiare piano. Inspirare, respirare;
cercarsi, trovarsi, appartenere.
Nell’ombra
che inizia appena a languire davanti al sole e il silenzio, le mani
si sfiorano e poi s’intrecciano, la carne di entrambi non
resiste
oltre e finisce per unirsi, senza tuttavia tralasciare una pacata
dolcezza: la chiave della loro profondità. Le parole e i
giudizi
degli altri si mutano in vano interesse, ora; i problemi non sono
dimenticati, ma divengono una realtà che solamente loro due
riescono
a comprendere appieno, sia in fragilità e sacrifici che in
quel
legame che il dolore ha reso teneramente inscindibile.
Cosa
c’è di più prezioso di una bellezza
così delicata da essere
irripetibile in ogni suo istante? Cosa più intenso di uno
sguardo
che potrebbe essere spezzato nel tempo di un battito, e quindi si
rivela degno di essere vissuto fino in fondo?
Così
si amano fino a quando non è più lecito rimanere
sotto le coperte;
e le dita si tengono vicine in ogni azione che accompagna la
giornata.
Il
mare brilla mentre Cleo appoggia la testa sul tavolo della cucina e
vorrebbe dormire ancora, ride insieme a Socrate quando questi
solletica dispettosamente la moglie; e potrebbe starli a guardare per
ore mentre si danno battaglia con quei poveri cuscini dalla vita
precaria, vorrebbe donare tutto il suo grande respiro al giovane e
permettergli la certezza anche di un solo, altro giorno con
chi lo ama senza condizioni.
Non
in un angolo bensì in bella vista, vicino ai testi
universitari e
ben ripulito da polvere e oblio, il telescopio difettoso apre il suo
nero occhio e permette di vedere ogni scena che accade in quella
casa, dai sorrisi che comunque resistono fino
alle
fugaci lacrime che la notte copre; perché niente
è facile, lì,
anche se la forza è tanta e la speranza sempre presente.
Quanta
energia e fedeltà,
tanto facile da trovare in entrambi.
«Oggi
a cosa ci dedichiamo, quindi? Moto apparente dei corpi celesti o
classificazione spettrale? Popolazioni stellari? Supernove?»
«Ohi,
ohi, si calmi, professore: io sarò un’allodola
mattiniera — più
o meno —, ma neanche lei scherza in quanto a
iperattività, sa?»
«Ma
come? Proprio tu, che un giorno diverrai la nostra ambasciatrice
extragalattica, mi rispondi così… mi sa che tra
noi due il vero
astronauta sono io, diciamola tutta.»
«Beh,
non per riportarti sul suolo terrestre, ma almeno io sono
vestita.»
Mai
la fragilità ha avuto volto più bello; mai
come in questi
momenti.
Cleo
apre gli occhi piano, senza fretta.
Nella
spaziosa camera matrimoniale, i mappamondi e i telescopi sono immersi
nell’oscurità, il momento di affrontare il mattino
ancora lontano:
ma fin da quando è piccola, in quanto a interesse il buio ha
sempre
avuto la meglio sulla luce, quindi la ragazza si solleva sui gomiti e
si mette a sedere.
«Mamma,
sei già sveglia?»
Dalla
parte di Chiara le lenzuola sono fredde: come ogni notte, le si
è
addormentata tra le braccia dopo la lunga lettura serale,
riempiendole la mente di un altro sogno e del profumo di Luca. Pur
nell’assenza di chiarore, riconosce che la bambina ancora
stringe
tra le mani il suo diario, e sorride mentre le accarezza i capelli.
«Tu invece non hai nemmeno dormito, vero, piccolo
terremoto?»
Lo
sbadiglio della piccola rivela una diversa realtà, e anche
il suo
morbido abbraccio. «Sì, invece, anche
più di te.»
Madre e figlia sono due luci
che pulsano nel buio del silenzio, l’anima di chi se
n’è andato
ma non è mai lontano da loro; e ogni mattina, tra
l’alba e il
tempo che lenisce, la
prima
risente la voce
della
seconda
chiederle: «Mamma,
si può amare per sempre?»
Forse
le stelle osservano insieme a lei il sorriso che le increspa le
labbra e le dita che scorrono sulla copertina verde di quel diario
solo
all’apparenza comune;
e come la prima volta, quando gli occhi della bambina hanno implorato
una risposta sincera alla domanda più difficile —
papà
non tornerà mai più, vero?
—, lei lo apre e glielo posa
tra le mani, per
mostrarle come le anime si possano comunque sentire e incontrare
l’un
l’altra.
«Sì,
si può amare per sempre»,
risponde,
«così come tutti possono diventare immortali, se
lo si vuole.»
«E
come?»
«La
parola magica, ciò che spiega tutto, è il
ricordo: se tu non
dimenticherai mai come qualcuno ti ha amato, il modo in cui ti ha
sorriso, quanto ti ha dato e tutto ciò che di te ha
protetto, allora
quel qualcuno non lascerà mai questo mondo. Vivrà
in te, dovunque
andrai sarà lì al tuo fianco; e combatterete,
piangerete e
crescerete insieme, vi veglierete a vicenda, sempre vicini e
presenti.» Proprio
tu me
lo insegni ogni giorno.
Gli
occhi dolci di Chiara, immediatamente riconoscibili e amabili nel
loro essere la perfetta eredità di Luca,
si spalancano insieme alla bocca e chiedono di più; ma
nessuna parola l’abbandona, perché non
c’è alcun bisogno di
parlare. «Una pagina ancora», sussurra infine,
prendendo il diario
di Cleo e sfogliando tutte le parole che hanno costituito la sua
vita.
A
volte la donna lo ritrova intriso di qualche lacrima, sottolineato
con colori accesi, decorato con disegni: un cuore che ne insegue un
altro e
impara da questo,
mentre gli anni passano e diventano tre,
quattro, cinque da quando sei diventato l’unica stella che
non
tramonta.
«Si
può amare per sempre?»
Non
ha mai avuto esitazioni davanti a quella domanda; e sa che Luca
può
sempre sentirla, tra il mare che non dimentica nulla e l’intensa
luce che conduce fino al cielo.
«Si
può vivere per sempre?»
«Tu
stessa sei la risposta perfetta.»
Il suo riflesso, e molto di più.
Un
sorriso sereno, una nuova luce in fondo allo sguardo che già
riflette la corsa degli
astri. «Perché ognuno di
noi è nato per mostrare e donare qualcosa, come
papà sempre
diceva.»
Per
non aver paura di essere quelli che siamo; per non essere soli.
Ti
sento sorridere, amore mio: non
c’è oblio che possa allontanarci
dalla bellezza
che ci hai mostrato, né
dall’ombra della tua anima.
E
così come tu non
smetterai mai di vivere, te
lo prometto, non lo faremo
nemmeno noi.
NOTE
I
titoli delle sezioni sono tutti richiami musicali; se volete, potete
ascoltarli come sottofondo mentre leggete, perché si legano
perfettamente al capitolo:
●
“Dipingi
il Cielo, e una Stella” è un omaggio a Paint
a Sky with Stars,
album di Enya;
●
“Di
Noi Due…” si rifà a Two,
brano dei Sleeping
At Last;
●
“… E
dell’Ombra del Cuore” riprende il ritornello di Cosmic
Love,
dei Florence
+ The Machine;
●
“L’Universo
è Nato
Per
I Tuoi Occhi”
si rifà a Saturn,
sempre
dei
Sleeping
At Last.
ANGOLO
AUTRICE
Salve
a tutti **
Allora,
l’idea per questa storia è nata grazie al contest Equilibrio,
ideato da Little_Rock_Angel
e fonte d’ispirazione per più di una trama.
I
punti di partenza erano un telescopio difettoso e la morte di un
personaggio, e da ciò è stato creato il mondo,
letteralmente;
tuttavia, alla fine sono giunta a scegliere questa traccia:
rappresentare la tenerezza dell’amore più giovane,
quando nessuno
pensa alle tristezze e ai problemi della vita, e il successivo
momento in cui un grande dolore/ostacolo giunge a scombinare i piani.
A
questo punto, come si reagisce? Ci si lascia davanti al problema,
consci
del fatto che sia difficile relazionarsi con
esso, o
lo si affronta insieme e più forti di prima?
La
mia risposta l’ho data, optando sempre e
comunque
per una delicatezza di fondo e
sfumando il finale, utilizzando anche l’espediente di un
diario e
di scene introdotte da date come istantanee di vita e memorie sempre
presenti che noi, come fa Chiara, possiamo leggere e tenerci strette.
Un
ringraziamento a chiunque sia giunto fino a qui, ma anche a chi si
è
fermato prima e ha comunque speso parte del suo tempo sulle mie
parole; un abbraccio sentito, inoltre, a Ori_Hime
per la costante presenza e a mystery_koopa
per la dolcezza.
Quest’ultimo
capitolo in particolare è dedicato a te.
Un
caro saluto,
Manto.
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