Agape

di Manto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dipingi il Cielo, e una Stella ***
Capitolo 2: *** Di Noi Due... ***
Capitolo 3: *** ... E dell'Ombra del Cuore ***
Capitolo 4: *** L'Universo è Nato Per I Tuoi Occhi ***



Capitolo 1
*** Dipingi il Cielo, e una Stella ***



Agape





{ I ♦ Dipingi il Cielo, e una Stella }




25 Giugno 1996, sera.



È conoscenza certa che le popolazioni più antiche credessero nelle stelle: si affidavano a esse per determinare il proprio destino, le chiamavano protettrici e guide, le ritenevano eterne; le adoravano.
Cleo una simile devozione riesce a comprenderla, anche se millenni e secoli la separano da quelle genti e seppure la luce che da sempre l’attrae non appartenga agli astri, ma al pianeta che li accompagna: tanto è il suo amore che, da anni, sulla parete opposta al letto brilla — e lo farà per sempre, le idee sono ben chiare — un enorme adesivo a forma di mezzaluna, graziosissima decorazione divenuta presto scudo contro i terrori del buio e gli incubi; inoltre abiti, scarpe e perfino le mani sono sempre ricoperte da disegni lunari, ornamento capace di scatenare sia i borbottii dei parenti che gli apprezzamenti degli altri bambini.
Tuttavia, ciò che più ama della luna non è una semplice raffigurazione o la replica del suo chiarore: solo quello vero, ancor meglio se unito al riflesso che danza sul mare, può davvero farle valicare ogni distanza e sentire libera, in completa pace.
«Non c’è dubbio: qualcuno deve aver rapito la mia bambina dalla culla e messo al suo posto un adorabile alieno con la nostalgia di casa», scherza sempre il padre quando, appena fuori dalla loro abitazione, la porta con sé tra le strette vie del borgo e verso le terrazze panoramiche, sulle torri che affrontano le onde e dentro la notte.
L’aria profuma di sale e pietra, l’antico e il nuovo soffiano nei suoi capelli e le fanno alzare lo sguardo sulla lucerna del cielo: ogni volta lei chiede che quei momenti non abbiano mai fine, che il papà continui a parlarle del “signor Armstrong e del suo amico Buzz”
[1] e la gonna della veste si agiti in un girotondo che la luna di certo gradirà.
Questa non si nasconde, si lascia rimirare e a propria volta osserva: i suoi occhi grigi sostano sui palazzi e scivolano su balconi e finestre, ricamando il marmo con merletti d’argento e ricoprendo il vetro di un’armatura d’acciaio, inseguendo i passi di tutti… o guidandoli?
Perché è proprio grazie a lei che, in una sera d’inizio estate, Cleo scopre la biblioteca nascosta tra le vie basse del borgo, in mezzo a un vecchio teatro e una villa ricoperta d’edera: le sue porte sono aperte, così lei corre dentro e immediatamente si perde nell’ammirazione del pavimento su cui fioriscono rose dei venti e costellazioni, per poi alzare lo sguardo e notare come le vetrate blu donino al lucore una sfumatura sognante, ma discreta. Mappamondi e strumenti geometrici segnalano i pochi ma lunghi banconi in cui è possibile sedersi e consultare i volumi che li circondano, mentre stelle e pianeti di metallo pendono dal soffitto, scontrandosi con l’ergersi degli scaffali; ma è la parte più vicina all’entrata che subito l’attrae. Astrolabi e bussole, un complesso sistema di lenti e tre piccoli telescopi, oltre che uno strano congegno simile a un elmo con un monocolo
[2], una sfera armillare[3] e altri strumenti che non conosce, riposano in un’enorme teca in disparte; non passano che secondi prima che la bimba tenti di aprirla per prendere la sfera, che da sempre vuole toccare dal vero.
«Attenzione, piccola scienziata, sono molto delicati.»
La voce che all’improvviso le sussurra all’orecchio e le blocca dolcemente la mano non la spaventa, tuttavia un’ombra le attraversa lo sguardo; e con riluttanza lei indietreggia dalla teca, gli occhi verdi fissi sulle sue prede e già con una stilla di lacrime a bagnarli.
L’uomo che le sta accanto si abbassa fino alla sua altezza e le sorride, rivelandole uno sguardo gentile e pervaso da una luce particolare: è la saggezza di un maestro quella con cui la fissa. «Conosci tutti questi strumenti?», chiede, e Cleo annuisce lentamente. «Qua-quasi tutti», si corregge poi, «papà dice sempre che diventerò un’astronauta, e mi prende molti libri sull’universo: li leggo tutti almeno quattro volte, non mi stanco mai… è lì che li ho visti. Mi piacciono in particolare i libri sulla luna…»
Ancor prima che lei abbia finito, l’uomo si alza e apre la teca: le sue dita si chiudono sul più grande dei tre telescopi e lo estraggono. «Vieni», dice, dirigendosi verso il bancone a loro più vicino; Cleo non se lo fa ripetere, saltando di propria volontà tra le braccia dell’adulto e trattenendo il fiato quando viene posata vicino allo strumento.
A uno a uno, il gentile signore glieli mostra tutti e spiega quelli che lei non conosce, insegnandole il funzionamento e l’utilizzo; con la sfera armillare ben stretta tra le braccia e l’espressione rapita, l’aspirante studiosa ascolta senza perdersi una parola, rendendosi conto delle ore passate solo quando alza il capo e vede il buio filtrare nella sala.
«Vai pure», le dice allora l’altro, notando la sua improvvisa ansia e sorridendo di più, «immagino che i tuoi famigliari ti stiano aspettando.»
«Posso… posso venire ancora?»
«Questo luogo è sempre aperto: vieni ogni volta che lo desideri. Siccome ti piace così tanto l’astronomia, la prossima volta ti mostrerò la sezione scientifica e tu potrai leggere tutti i libri che vorrai.»
Cleo sorride e saluta vigorosamente, quindi corre fuori dalla biblioteca; ed è qui che la luna l’attende, rifulgendo sul capo del mare. Non è sola: un ragazzino alto e bruno la sta fissando con la sua medesima meraviglia, staccando lo sguardo dalla sua bianca forma solo quando la piccola gli passa vicino. Questa scorge i suoi occhi chiari, e immediatamente nota la dolcezza che alberga in loro: e si ferma per un attimo a contemplarli, sorridendo appena l’altro lo fa.
«Ciao», le dice quest’ultimo, lanciando uno sguardo ammirato ai suoi lunghi capelli mori e allargando il sorriso; lei arrossisce e abbassa il volto, improvvisamente e senza una ragione apparente. «Ciao», risponde prima di scappare via sotto la galleria di archi che la porterà a casa, correndo leggera e veloce come un’onda — ma non così rapidamente da evitare di sentire un: «Signor Galileo, sono qui!» pronunciato dallo stesso giovinetto, non così tanto da sfuggire alla sensazione che la voce le dà.





8 Agosto 1996, pomeriggio.



«Scegli un nome diverso dal tuo.»
«… Perché?»
«È un gioco che abbiamo deciso io e il signor Galileo: un nome che sappiamo solamente noi, un segreto e un codice.»

«Ma se lo stai dicendo a me non è più così segreto.»
Il ragazzino sorride, ma non è una canzonatura quella che gli illumina il volto; e Cleo lo guarda senza comprendere, rimanendo in attesa.
«E noi che volevamo farti entrare nel patto…»
Il pomeriggio è caldo e lascia scivolare le dita anche tra quelle mura, l’estate piena che si intreccia con il loro respiro.
Lei ha mantenuto i suoi propositi e ha iniziato a frequentare con regolarità la biblioteca, e ogni volta qui l’attendono gli occhi caldi dell’altro, dal quale non riceve che parole gentili e un nome buffo: Socrate, il nomignolo che lui stesso si è dato — un suono che legato al corpo robusto, troppo alto e già sviluppato, dona un’idea di unicità che Cleo non riesce a spiegare, ma che non le dispiace.
È stato lui a raggiungerla quando si è presentata su quella soglia per la seconda volta: le si è parato davanti come per impedirle di avanzare, per poi prenderle la mano e stringerla con vigore. «Tu devi essere la bambina che ama le stelle! Il signor Galileo mi ha detto tutto. Vieni con me, ti faccio vedere quanti libri ci sono qua dentro», le ha detto con entusiasmo, guidandola dentro; e lei non ha sentito alcun bisogno di replicare, colpita dalla cortesia con cui è stata accolta e ricambiando con tutta la sua allegra spontaneità.
Socrate non ha mentito: quel luogo si è rivelato ricolmo di conoscenza — non solo scientifica, ma anche letteraria e artistica: un tempio del sapere, ecco cos’è quella biblioteca — oltre ogni aspettativa, e del giusto sentimento per apprenderla nella sua interezza; e lei non riesce a rinunciare a nessuno dei pomeriggi che può passare lì, con una buona compagnia e tante cose da scoprire.
«Non ti va come gioco?»
Socrate la guarda in attesa, attirando la sua attenzione al di qua dei ricordi di quelle ultime settimane; e Cleo lo guarda un attimo confusa, prima di abbassare il capo sui libri aperti in grembo.
«Non ho la tua fantasia», si scusa, « non so come chiamarmi.»
«Socrate non è un nome inventato; è quello di un filosofo greco.»
«Cos
è un filosofo?»
«È
… complesso da spiegare; pensa a una persona che ricerca la verità nel mondo e vuole aiutare la gente a comprenderla, e quindi a trovare la felicità, e avrai un possibile filosofo.»
«Quindi è una persona che fa del bene? Come i medici o gli insegnanti?»
«Pensa, molti di loro sono stati proprio scienziati e maestri.»

Cleo chiude i volumi e li appoggia sul tavolo di fianco a lei, quindi si sporge verso il giovane, una luce di spontaneo interesse nello sguardo.
«Perché ti piace così tanto questo Socrate? Parlami di lui», chiede, preparandosi ad ascoltare.
Ben poche cose possono distogliere Cleo da un libro; ma da quando il ragazzino le ha raccontato la sua versione della fiaba di
Biancaneve, facendole dimenticare la quotidiana lettura serale per ripensare alle parole che lui le ha lasciato, anche le migliori pagine sull’allunaggio tremano al confronto con la capacità narrativa del nuovo amico. Una sconfinata immaginazione e la Storia vivono nel sangue di Socrate come lo spazio riempie il suo; e quando le si siede davanti per spiegarle qualche battaglia, personaggio storico o leggenda, lei non può fare altro che accoccolarsi contro lo schienale della sedia e iniziare a respirare nel lontano Rinascimento o tra le spade fedeli a Re Artù, mentre anche il tramonto muore e le stelle di metallo rifulgono al pari delle sorelle notturne. Non è come quel giovane capace di rendere vivo il Passato, più forte e vicino, e che trasforma le proprie parole in una ricchezza che per molto tempo lei ha ignorato; è diverso, e quello è divenuto presto un rituale che calma la frenesia di un intero giorno, la sua migliore realizzazione.
«Parlami di Socrate», ripete quindi Cleo, «che cosa ha fatto?»
«Ha cercato di dare il meglio alla sua città, discutendo di morale e conoscenza con chiunque volesse ascoltarlo; ha parlato di amore e giustizia, ha insegnato ai giovani come essere corretti ed è sempre stato umano, anche quando le leggi della sua città lo hanno condannato.
Ha avuto tanto coraggio, accettando serenamente la propria sorte anche quando il mondo gli si è rivolto contro e lui ha dovuto abbandonare anche la vita… sono tanti i motivi per cui vorrei assomigliargli.»
Per la prima volta in quel giorno, le parole del ragazzino si intridono di una nota triste, simile alla malinconia ma più intensa; Cleo la sente immediatamente e vorrebbe chiedere il perché, tuttavia qualcosa le dice di non farlo: non è il momento, e forse non può neppure capire — anche se, come dicono in molti, sa ascoltare e comprendere più del normale. «Doveva essere una persona bellissima», mormora invece, prima di fare un lieve sorriso, «… e ti prometto che un nome lo avrò anch’io, appena troverò chi potrei diventare.»
È appena caduta la sera quando, dopo alcuni attimi, entrambi distolgono lo sguardo dal volto opposto e osservano il residuo chiarore che filtra dalle vetrate; e Cleo sospira, restia ad alzarsi dal tavolo nonostante l’accordo fatto con la famiglia: rincasare non oltre il tramonto, e abbracciare la notte solo in compagnia di qualcuno della famiglia.
«Oh, è già ora», si rende conto il ragazzino, guardandola levarsi in piedi e stringersi al petto gli ennesimi libri presi in prestito; lei annuisce, quindi abbozza un sorriso. «Non disperiamo: domani sarò di nuovo qui, dopotutto», risponde.
L’amico ricambia il sorriso, quindi si alza a sua volta. «Vuoi che ti accompagni? Ti devo ancora raccontare la tua storia serale.»
Cleo acconsente subito e istintivamente lo prende per mano. La sente salda e sicura, la sua presa le dona una bella sensazione di calore. «Certo che sì, se te la senti: dobbiamo salire in cima al borgo, ma si fa presto. Tu dove abiti? Non ti ho nemmeno mai visto, qui…»
Mentre quasi lo trascina fuori dalla biblioteca e lungo le vie, Cleo si rende conto che è la prima volta che gli fa quelle domande: i loro discorsi si sono sempre soffermati per lo più sulle rispettive conoscenze e sui molti interessi, così che praticamente non sa nulla del perché sia lì o i motivi per cui lo abbia conosciuto solo quell’estate, o anche solo di quanti anni abbia.
Già lo sai che lui è diverso, Cleo. Qualunque età abbia, sembrerà comunque più grande… è unico, ed è bello così.
«Sulla parte alta, come te, dove abitano i miei nonni; sono in vacanza da loro per la prima volta, ecco perché non mi hai mai visto.»
«Dove vivi tu c’è il mare?»
«È una città enorme, quasi non ci sono nemmeno parchi. È praticamente impossibile trovare un luogo libero da pietra o asfalto; ed ecco perché questo posto mi è piaciuto fin da subito, ma mi ha fatto anche sentire un estraneo. Pensa, non so neppure nuotare…»
«Aspetta, davvero? È una delle cose più belle che si possano fare, devi imparare assolutamente!» I riccioli d’ebano si agitano come onde, gli occhi brillano ancor più del solito per la decisione. «Devo cercarti un insegnante.»
«Non ce n’è bisogno, Cleo!»
«Ma ti potrebbe piacere…»
«Lo credo anch’io, ma… ma non credo che ne avremo la possibilità. Questi saranno gli ultimi giorni per me, qui.»
Lei si ferma, lo guarda di nuovo con intensità. «Non lo sapevo», la voce improvvisamente più bassa, «… spero che tu rimanga almeno fino alla notte di San Lorenzo. Dalle torri il cielo è uno spettacolo, e almeno avresti un bel ricordo di questo posto.»
È Socrate a trattenerle la mano ancora legata alla propria, questa volta; e l’espressione dolce con cui la guarda la costringe ad arrossire. «Più di uno, direi», risponde, prima che lei ricominci ad avanzare.
La voce dell’altro l’accompagna per tutto il resto del tragitto; ma questa si infila dentro la sua mente con minor forza del consueto, anche se la testa non è attraversata da alcun pensiero e il vuoto è l’unica presenza.
Perché?
La presa non si scioglie fino a quando la casa della piccola non compare davanti a loro; ed è qui che Socrate abbandona la sua mano per accarezzarle un ricciolo ribelle, trattenendola ancora per un momento. «Sei diventata silenziosa. Qualcosa non va?»
Cleo scuote la testa, ma non riesce a mentire del tutto: né a sé stessa, né all’altro. «Solo… credevo che saresti rimasto qualche giorno di più, ecco», mormora infine lei, realizzando solo in parte quello che davvero sente; ciò che è rimasto silente e ancora oscuro forse si mostrerà nel tempo, e chissà per quale motivo.
«Hey, non ho detto che devo partire ora! Abbiamo ancora del tempo, quindi cerchiamo di divertirci il più possibile.»
La mora annuisce, fa una smorfia che vorrebbe essere un sorriso; in risposta, il ragazzino le arruffa i capelli e le si avvicina di più. «Ti prometto che una di queste notti, che sia quella di San Lorenzo o la precedente, vedremo insieme le stelle; sul mare, magari. Che ne dici?
Possiamo farci accompagnare da qualcuno dei grandi, così le nostre famiglie saranno tranquille.»
«Sì, va bene, mi piace come idea», sorride lei, ora con più foga e rinnovata serenità, mentre si alza sulle punte per arrivargli più vicino, «e ora, rimani ancora un attimo: devi raccontarmi una storia, ricordi?»





12 Agosto 1996, mattino.



Cleo guarda il piccolo molo, e l’aurora che tinge il mondo con i colori del nuovo giorno. Socrate è partito nella notte, l’ha salutata poche ore prima; di lui le sono rimaste tante immagini di giorni spensierati e compagnia, oltre che un ultimo abbraccio e una confessione finale.
Mi chiamo Luca, Cleo; ma tu continua a chiamarmi Socrate, va bene? Ci rivedremo presto, piccola amica.
È malinconica e non lo nasconde: l’estate che corre verso la propria fine le ha mosso il cuore e, almeno in una parte di esso, l’infanzia è scomparsa.
«Tornerà, non ti preoccupare. Un anno passa in fretta, non avrai nemmeno il tempo di accorgertene che lui sarà di nuovo qui, con te», le ha mormorato il signor Galileo quando ha notato la sua espressione, e la mora le ha ripetute anche nel suo letto, fino a quando la stanchezza non l’ha costretta a cedere e le ha fatto sognare un altro mattino.
La mezzaluna diminuisce la propria luce insieme a lei, l’accarezza appena senza raggiungere i pensieri; solo una nuova primavera potrà risolvere certe verità, renderle più profonde o mutarle, e solo nell’estate una parte del cuore — quella che già porta un altro nome — ritornerà a sentire.







NOTE



[1] Neil Armstrong e Buzz Aldrin, astronauti della missione spaziale Apollo 11, primi uomini a toccare il suolo lunare. Una delle foto più memorabili dell’impresa (forse la più nota) ritrae proprio quest’ultimo: https://it.wikipedia.org/wiki/Buzz_Aldrin#/media/File:Aldrin_Apollo_11_(3x5_crop).jpg


[2] Si tratta del celatone, strumento inventato da Galileo per osservare i satelliti di Giove e poter, tramite questi, misurare la longitudine in mare. Si tratta di una sorta di elmo metallico, alla cui visiera è fissato un cannocchiale.


[3] Sfera formata da anelli metallici, le armille, ognuna delle quali rappresenta uno dei circoli della sfera celeste (sfera immaginaria sulla cui superficie sono proiettati tutti gli astri).

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Capitolo 2
*** Di Noi Due... ***


{ II ♦ Di Noi Due… }




15 Giugno 2003, principio della notte.



Cleo può riconoscere la figura di Socrate fin da una grande distanza: la pelle ambrata non è lucida come quella brunita che contraddistingue quasi tutti gli abitanti del borgo — diversa anche dalla sua, così bianca da renderla sempre soggetta a scherzose prese in giro —, la sua altezza è quasi unica e il sorriso difficile da non notare; inoltre, la posizione della propria casa consente di controllare la strada che sale dal molo e dal basso borgo, quindi… quindi come ha fatto, quella stessa mattina, a non vederlo, così da ritrovarselo davanti alle finestre della camera all’improvviso?
«Lieto di vedere quell’espressione, cara Cleo», l’ha salutata il giovane trattenendosi dal ridere, mentre la ragazza nemmeno lo ha lasciato finire e, saltata sul davanzale della finestra, si è lanciata verso di lui. In ben pochi abbracci si è mai sentita così bene, perfettamente incastrata tra l’impulso di non lasciar più andare il corpo dell’altro e chiedere di essere stretta maggiormente, con il volto affondato in quel petto ampio e la sensazione di potercisi accoccolare contro, come in un rifugio. «Ben ritrovato a te», ha esclamato una volta svanita la forza della sorpresa, «e non sbaglio se dico che qualcuno ti ha aiutato in questo scherzo, vero? Avevi detto che saresti venuto ad Agosto!»
«Dovevo ripagarti di tutte le volte in cui sei venuta a farmi visita! Però… davvero non mi aspettavi?»
Sette anni; sono sette anni che ti aspetto.
Sette anni di pensieri e parole tramite le lettere di cui il signor Galileo si è fatto tramite; sette anni di chiamate lunghe ore, ricolme di sfoghi e risate, in una delle rare cabine telefoniche del borgo, dove la voce dell’altro è stata un farmaco contro la malinconia e le lacrime hanno potuto scorrere liberamente.
Sette anni in cui ogni estate ha assunto gli occhi di uno o dell’altra e li ha legati istante dopo istante, al pari delle occasioni in cui lei ha raggiunto il giovane nella sua città e, contro le proprie paure, è sempre riuscita a trovarlo — qualunque significato questo verbo abbia… sette anni in cui il cuore di Cleo non si è mai perso, aggrappandosi anche al sentore più lieve di quella presenza, perché così ha voluto e scelto.
«No, però ho sperato spesso in questo regalo. Grazie», ha mormorato, prima che lui la lasciasse andare per prenderla per mano e iniziare il loro tempo sulla spiaggia e nella biblioteca; ed è tra queste mura che, approfittando dell’assenza della famiglia di Cleo, il ragazzo le ha chiesto di restare oltre il tramonto. L’ha stretta forte sotto gli astri di metalli e i giochi di luce sulle vetrate, facendola ridere d’imbarazzo quando l’ha presa in braccio e ha affondato il naso tra i suoi capelli; l’ha tenuta contro di sé senza accennare a staccare da lei neppure un dito, e in quell’abbraccio la giovane ha percepito molto più che trasporto. «Guarda che non sto cercando di fuggire», ha sussurrato nel tentativo di spezzare il silenzio sorto improvvisamente e poi prolungatosi, strusciando piano il naso contro il collo del ragazzo; ma questi non ha replicato né udito, gli occhi socchiusi e la mente distante da lì, oltre ogni pensiero.
È quasi passata un’ora, ormai, da quell’istante; la figura del signor Galileo, angelo del luogo, è apparsa solo per pochi attimi e da chissà dove per mettere loro addosso una coperta, quindi li ha lasciati in compagnia della reciproca presenza e ha permesso che la notte fluisse indisturbata.
Cleo continua a combattere il sonno e attendere, perché sa che qualcosa sta per svelarsi e a sua volta vorrebbe rivelare; ma è proprio quando decide di intervenire che la situazione si sblocca.
«Devo farti vedere che cosa abbiamo scoperto io e il signor Galileo.»
«Quest’anno non ritornerò a casa; sono giunto per restare.»
Entrambi si bloccano e si fissano a occhi spalancati, prima di ridere di come le loro parole riescano a incrociarsi sempre più spesso: un altro volto della sintonia. «Ma questa è una bellissima notizia! Certo che sei tutto particolare, perché aspettare così tanto a dirmelo? E per quale motivo, se posso sapere?» Una pausa, seguita da un lieve incupimento. «Qualcosa non va?»
Socrate sorride e le aggiusta meglio la coperta sulle spalle, accarezzandola con dolcezza. «Sempre la stessa tensione con i miei genitori, nulla più: fin troppo tempo sono rimasto in gabbia in quella città grigia, e alla fine l’ha capito anche la mia famiglia. Avrei dovuto essere qui già da un anno, diventare adulti comporta anche poter decidere per proprio conto! Eppure solo ora sono riuscito a liberarmi e a raggiungerti, pur nella loro perseverante contrarietà.
Questo posto finirà per logorarmi ancora di più, dicono, e non è fatto per me; come se si fossero completamente dimenticati della loro origine.»
Cleo non replica, eppure non smette di fissarlo. Nel borgo sono già in parecchi a sospettare sulla reale natura della loro storia e a divulgare bisbigli e supposizioni, e neppure i suoi genitori ne sono all’oscuro; a loro, poi, quel giovane gentile e solare è sempre piaciuto, così che incoraggiano come possono il rapporto… caso opposto alla famiglia di Socrate.
La mora ricorda fredde parole e sguardi ostili, quasi ricolmi di allarme, per ogni volta che la sua figura ha incontrato quella del ragazzo e quest’ultimo si è staccato dall’ombra dei genitori per passare le ore con lei; le occasioni sono divenute sempre più, la distanza da quegli sguardi perennemente uguale e, anche per colpa della sua titubanza, senza spiegazione. Come può scatenare una tale paura? Non riesce a comprenderlo, no. «Ai tuoi genitori non piaccio, lo so già», risponde quindi e non senza amarezza, «per qualche motivo è così e non me lo nascondo. Mi dispiace… la tua decisione ti avrà creato parecchi problemi, e tutto per causa mia.»
«Anche con tutti quei chilometri a separarci, tu sei sempre stata più presente di molti altri. Perché non lo capiscono?»
«Forse si aspettavano qualcosa di meglio per te.»
«Allora ho fatto bene a seguire i miei, di piani; se vogliono il meglio per me, beh, l’ho giò trovato.»
Lei sente tutto il calore che si eleva da quelle parole, quindi cerca un contatto più stretto.
«Di cosa volevi parlarmi, prima che ti interrompessi? “Scoperta”, ho sentito bene?»
«Non è grandiosa come la tua notizia, credimi… è solo una sorpresa che nessuno si aspettava.»
«Cioè?»
«Durante i restauri della villa qui accanto, è stata ritrovata una stanza non mappata: una vera camera segreta scoperta per caso e vuota — a eccezione di tanta polvere, di un telescopio mal funzionante e di un tipo ormai in disuso, e dell’affresco di una veduta marina, così perfetto da sembrare una fotografia. La Soprintendenza ha dato il meglio di sé per quanto riguarda quest’ultimo, ma il telescopio non ha molto valore, quindi è finito nelle mani del signor Galileo; e per questo è qui, alla portata di tutti, anche se a nessuno sembra interessare. Il signore mi ha detto che potrò lavorarci sopra, appena saprò come procedere; non attendo altro.»
«Nessuno si interessa a quello strumento, ma tu non sei parte di quel
nessuno, è chiaro. Posso guardarlo?»
«Non si vede nulla, è come un occhio cieco puntato sulla notte; e anche se mi ha dato la possibilità di studiarlo, all’inizio il signor Galileo mi ha comunque detto di tenerlo così, perché, parole sue,
quella mancanza è parte della sua storia e bellezza
«Desidero vederlo comunque, e tu stai morendo dalla voglia di accontentarmi», risponde il ragazzo con un sorriso scherzoso, prima di farla scendere dalle proprie gambe.
È quando sono con te che pure io riesco a vedere l’universo, le ha sussurrato una volta; e osservando la sua espressione, Cleo se ne rende conto per l’ennesima occasione. Non si fa pregare, allora, e le sue mani fremono quando si chiudono sullo strumento che riposa tra i propri fratelli, portandolo dall’altro con delicatezza; gli occhi seguono ogni movimento dell’amico, sorridendo senza cattiveria per il modo con cui le dita timorose scorrono su quel tesoro ignorato.
«Non morde, sai? Ma magari qualcun altro lo guardasse come stai facendo tu. Se solo riuscissi, un giorno, a capire cosa non va e risolverlo…»
«E se tu dovessi lavorare su questo telescopio, scoprire ciò che non funziona ma non poterlo riparare, per qualche ragione… che cosa faresti allora? Lo metteresti da parte, dimenticandotene? Lo getteresti?»
Un breve silenzio scende intorno, sorto dalla domanda che non concede via di fuga; ma la risposta è onesta, e dolce. «No, perché è sempre frutto di studi, benché magari imperfetti, di dedizione e impegno; no, non riuscirei a farlo perché qualcuno lo ha costruito per migliorare una parte di mondo, e anche se non ce l’ha fatta la sua presenza ne testimonia la dignità. Inoltre, è giunto fino a noi nonostante nessuno sapesse della sua esistenza: come se avesse ancora qualcosa da dire e, a modo suo, mostrare.
Non si elimina la passione, non si piegano le idee; non ne abbiamo il diritto né è giusto farlo. Se qualcosa non funziona, non per forza lo farà per sempre; l’errore, la diversità ci insegnano quanto il modello perfetto… anzi, di più. Su questo non ho dubbi.»
Da quando si sono incontrati quella stessa mattina, è la seconda volta che la ragazza vede il volto di Socrate illuminarsi; e quando questi le porge il telescopio, le sue parole giungono più vivide. «Farai un lavoro magnifico, ne sono sicuro. Vorrei tanto esserci quando inizierai…»
«Non è di certo impossibile, dato che ora sarai sempre qui», risponde Cleo con vivacità, prima di stringere a sé lo strumento e le mani che ancora lo trattengono. «Questa è un desiderio che realizzeremo insieme.»
Il cielo è ancora avvolto nel suo nero manto quando la giovane lascia la biblioteca e corre verso le terrazze panoramiche, seguita a poca distanza, più lentamente, dal compagno; lì attende lui e le onde che muoiono a riva, stringendosi poi contro la spalla calda di chi ora sarà sempre al suo fianco.
«Quante volte che potremo passare così, solo io e te», è l’unica cosa che Socrate le sussurra, cullandola ancora una volta; e lei socchiude gli occhi, non ha bisogno di nient’altro. Sotto alla volta priva di luna, le uniche a rispondere alle stelle sono le lampade dei pescatori; lumi che incantano e li stringono ancora di più, come visioni sul futuro.
L’estate non è ancora iniziata; ma il suo calore è già lì, parte dell’anima e del loro cammino.





4 Luglio 2003, sera.



Un soffio sottile, un applauso prolungato; nel giro di un attimo passa un altro anno, e Cleo diventa più grande.
Nella piccola casa bianca e rosa ci sono tutti, dai genitori ai cugini, dagli zii ai nonni; e questi ultimi non si fanno certo scappare l’occasione di assillare di domande e attenzioni anche l’unico membro estraneo alla famiglia, ma, ormai lo sanno tutti, a questa profondamente legato.

Da una parte della stanza all’altra, gli sguardi di Cleo e Socrate si incontrano, i volti si sorridono e arrossiscono per l’entusiasmo; e la fotografia che il padre scatta intrappola tutta la luce che risplende nel viso della novella diciassettenne e i pensieri che le attraversano la mente, imprimendo nel tempo uno dei migliori compleanni che questa abbia mai festeggiato.
Il tempo per parlare in solitudine non è molto: tante le voci che si intrecciano e chiedono di uno dell’altra, della ragazza che prima pensava solo a leggere e sognare e del giovane che ha cambiato le sue priorità; ed entrambi sorridono e rispondono, i mignoli che spesso si incontrano sotto la tavola e si intrecciano con calma e forza, come a dire: “Anche in mezzo a tutto questo caos, io posso comunque sentirti.”
Poi, mano a mano che le ore passano, l’allegria viene calmata dalla quiete della notte e dal sonno; uno dopo l’altro gli invitati lasciano la casa e svaniscono sotto le stelle dopo un ultimo bacio a Cleo, e alla fine sulla soglia rimane solo una presenza. In quel momento, nella casa ogni luce si abbassa e lascia che a rifulgere sia la pelle candida della mora, stretta stretta al suo Socrate in un dolcissimo abbraccio. Notte di luna piena, mare sussurrante e l’amore della sua giovane vita: e nient’altro chiede se non un ulteriore istante insieme, connessi come un unico corpo.
«Un ballo per concludere la serata, mia lady?», scherza il ragazzo, prendendola in braccio perché siano volto a volto; lei annuisce e gli si accoccola nell’incavo tra la spalla e il collo, il posto migliore per sentirsi in pace e ascoltare i cuori dialogare. Quello di Socrate ha un battito diverso dal solito, riconosce; ma non ci fa molto caso e fa finta che i minuti non galoppino sempre più velocemente, fino a raggiungere il centro della notte — e, quindi, le ore da passare in solitaria.
«Comunque, il più bel regalo sei stato tu», sussurra allora Cleo, depositandogli un ultimo, lungo bacio all’angolo della bocca appena prima che il giovane la rimetta a terra.
«Allora devi convincere i tuoi genitori a tenermi.»
«Ma se già ti adorano! Vedrai, tempo qualche anno e inizieranno a preparare il nostro matrimonio…» Una pausa, per prendere tutto il tempo, «… e io non avrò nulla in contrario.»
La notte non può essere fredda, non nel sorriso imbarazzato dell’altro; e su quell’immagine entrambi si salutano, promettendosi poche ore di distanza e tanti sogni. Per la prima volta, appoggiata alla stessa soglia, la mora riconosce che le parole della sua famiglia sono vere: Socrate ha stravolto le sue priorità, le ha donato una nuova luna — non meno bella della prima ma più vicina, e solamente per lei; e allora insegue il ragazzo e lo raggiunge prima che esca dal cancello, abbracciandolo ancora una volta tra il pallore delle case che li circondano.
«Proprio non riusciamo a rimanere staccati, vero?»
Lei sorride, affondando il viso contro la sua schiena. «Sai, sogno il momento in cui passeremo non solo istanti, ma una vita insieme. E…»
Le mani di Socrate sciolgono la stretta con delicatezza, per permettergli di girarsi ed essere lui ad abbracciare con più forza. «Ma è quello che stiamo facendo: vivere insieme, sempre uniti e capaci di sentirci.
Tutti questi anni… anche se lontani, nessuno di noi due ha mai pensato di lasciare andare l’altro, sapendo che avrebbe perso metà di sé stesso e tutto il cuore. E anche questo non è vivere insieme, come un’anima sola in due corpi separati?»
«Questo è vero, ma non toglie il fatto che ti vorrei avere sempre con me anche fisicamente, e recuperare ciò che la lontananza ci ha impedito.»
«Eccola, la coccolona», è la risposta che lei sente prima di essere presa in braccio e fatta volteggiare tra le sue risate soffocate e tutti i pensieri più luminosi, «la mia splendida donna che ora, però, deve andarsene a letto, o domani non si sveglierà nemmeno con i miei baci.»
Mi troveresti comunque sveglia: come potrei dormire in una notte come questa?
, pensa lei, trattenendo il tempo per qualche altro attimo e riempiendolo di dolcezza, infine lasciando che le ore corrano fino a raggiungere il nuovo mattino.
«Una vita insieme… anche se dovesse durare solo un battito, ma almeno passare e finire con te», è tutto ciò che riesce a dire quando si separano; e nel buio può ancora sentire il cuore dell’altro, la sua speciale ninnananna e il dono più prezioso che l’anima riceve.

A domani, allora; a te, che continui a vegliarmi, e a me, che ogni volta mi innamoro di più.

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Capitolo 3
*** ... E dell'Ombra del Cuore ***


{ III ♦ … E dell’Ombra del Cuore }




8 Luglio 2003, principio del giorno.



La pioggia scroscia sul vestito nuovo di Cleo, appiccicandole la stoffa al corpo e facendola rabbrividire; nella parziale oscurità che la stringe come un manto, la strada di casa è smarrita e le richieste di aiuto si perdono quanto lei, lasciandole affrontare il temporale da sola.
Il mare tace, non è alle sue spalle così come non appartengono al borgo le mura urbane che si stagliano a breve distanza; torri nascoste da alti roseti e nella sua memoria l’osservano risalire il ripido sentiero che su cui rischia di scivolare e precipitare di sotto, nel bacino dove tutta l’acqua si sta riunendo e sale, sale apposta per
afferrarla più in fretta.
Inutile correre, la ragazza sa che non farà mai in tempo a raggiungere la cittadina davanti a lei, né è sicura che questa sia disposta ad accoglierla; ma prosegue imperterrita, per non darla vinta facilmente alle forze ostili, decisa a tentare anche l’impossibile per salvarsi.
«Non dovresti essere qui.»
Non ha fatto in tempo a riconoscere il suono di passi in corsa e a girarsi, che già un braccio forte l’ha presa per la vita e impedito di cadere; e anche se il volto è coperto dal cappuccio di un mantello blu e il fisico è più grande del normale, nella figura che la sorregge Cleo riconosce Socrate, così che istintivamente sorride e si stringe al suo braccio.

Il ragazzo ha un ombrello con sé, ma l’acqua filtra attraverso di esso e li bagna comunque, spingendo lei a chiedersi il motivo di ciò, e anche perché l’amato non sorrida né riveli il viso. Il suo corpo è freddo, e non per la tempesta che soffoca le loro parole; no, è una condizione propria del giovane, il quale non si anima neppure quando Cleo prova a baciarlo.
«Mi dispiace, sai», sussurra questi in risposta al tentativo, con grande tristezza, «mi dispiace tanto.»
Solo a quelle parole lei si accorge del fango che le ha intrappolato i piedi e dei roseti cresciuti davanti ai suoi occhi, le cui nere spine hanno strangolato tutto i boccioli; ma ancora non comprende. «Che cosa dovrei mai perdonarti? Non hai fatto nulla di male.»
L’acqua continua a salire e li ha ormai raggiunti, abbracciando le loro ginocchia; tutt’intorno, solo il rumore di una lacrima che cade.
«Mi devi perdonare, invece, perché… perché sono stato io a portare questa pioggia, e non ti ho permesso di scappare. Non dovevi morire anche tu.»
La spinta che Socrate le dà la fa incespicare, quindi cadere; e inutilmente la sua mano si tende verso quella del ragazzo, perché, ora lo sa, è sempre stata sola davanti all’onda scura che non esita a ghermirla e trascinarla nel suo ventre, sempre più giù.


Quando Cleo balza a sedere nel letto, la linea dell’orizzonte è già percorsa dal chiarore del primo mattino e la stanza è colma dei suoi respiri affannati; le dita tremano, volte verso la parete opposta come per fermare fantasmi sconosciuti, il sonno è ormai spezzato.
Ancora troppo presa dalle immagini del sogno per riconoscere le forme della realtà, la ragazza ricade lentamente sul cuscino e a lungo osserva il soffitto senza realmente vederlo; il cuore, invece, nonostante ritorni al suo ritmo normale si fa pesante. In realtà, qualcosa di grande e diverso lo deve aver sentito davvero,
se la spinge anche a piangere per tutti gli istanti che la separano dal pieno giorno.






15 Luglio 2003, mattino.



La spiaggia è deserta, dato che l’alba è appena sorta; ma Cleo già la riempie con le proprie orme, inseguendo il cammino dell’onda. Ha dormito poco ma non si sente stanca, perché i sogni l’hanno nutrita d’immagini e desideri, e le sue forze nascono in gran parte da questi. Così è la tempra dei giovani, sussurra qualcuno tra i più anziani con un sorriso, guardandola camminare in compagnia del mare, che si nutre del proprio cuore e di quello che sente.
E la sabbia danza con lei, penetrando tra le dita dei piedi; anche la sua mente viene portata lontano, dove carne non è e la notte non scende mai.
Le ginocchia sono leggermente sbucciate per aver passato quasi un’ora tra gli scogli e la spuma bianca, a osservare il mattino nascere nell’acqua stessa; e tra le dita stringe conchiglie dalle mille sfumature, alcune di quelle che tante piaceranno a Socrate.
Anche la schiena è segnata da qualche striatura rossastra; tuttavia queste non danno dolore, perché è stato il ragazzo stesso a causarle neanche un giorno prima, quando l’occasione l’ha spinto a intrappolarle le labbra e impeto e sorpresa l’hanno fatta cadere e graffiarsi contro gli stessi scogli. Un bacio appena accennato seguito subito da uno più lento e lungo, sospeso tra il capo del mare e le sue profondità, tra i capelli di lei che hanno coperto il volto di entrambi come un velo, a proteggerli dal resto del mondo, e i rispettivi corpi tesi a chiamarsi l’un l’altro.
«Quando si ama si può perdere la testa… ma il resto lasciamelo integro», ha detto lei con il sorriso del più dolce imbarazzo, mentre il giovane è arrossito e le ha sussurrato un “perdonami” che le sue labbra hanno subito accolto. Neanche il sale e il vento rovente sono riusciti ad arderle la pelle con lo stesso impeto dei sentimenti, e con grande fatica la spiaggia li ha visti separarsi davanti agli occhi del bianco borgo; ma le cale celate allo sguardo sono molte e altrettante le promesse che mormorano, è il posto migliore per osservare e raccontare i mutamenti del cielo, ballare e rincorrersi, accarezzare la pelle dell’altra metà fino a raggiungere ogni cicatrice, angolo o imperfezione che semplicemente, dolcemente, migliori la presenza, e poi diventare una sola cosa.
Per questo bisogna essere in due, cosa che quel mattino non vede accadere; tuttavia, i minuti volano comunque fino a raggiungere il momento di incontrarsi davanti alla loro seconda casa e cadere nel tempo di scoprire qualcosa di nuovo e conoscersi ancora, sempre di più e in maggior profondità: così come fanno con il corpo, anche con l’anima.
Le sue passeggiate sulla spiaggia sono note a tutto il borgo e ognuno sa di poterla trovare lì, quindi non si stupisce quando vede la figura del signor Galileo venirle incontro; ma è il passo insolito che le frena un poco il sorriso, quel ritmo troppo lento per essere privo di pensieri.
Inaspettatamente, i piedi le impediscono di proseguire e la tengono ben ferma dove sta, a percepire il vento cambiare e respirarne un ultimo alito prima che si modifichi ancora, sempre più velocemente. C’è qualcosa, questo le suggerisce, che lei non può afferrare, né cambiare.
«Sapevo di trovarti qui, cara Cleo», le sussurra l’uomo quando è abbastanza vicino per essere udito, posandole una mano tra i capelli.
La ragazza sorride, chiedendosi per quale motivo senta la diversità impossessarsi del mondo. «Buongiorno. Sto per raggiungere la biblioteca, perché Socrate — Luca — sarà già là ad aspettarmi, e…»
«No, non è là; se vuoi possiamo andarci, ma oggi Socrate non ci sarà. A dir la verità, lui non è nemmeno nel borgo.»
La giovane lo guarda sorpresa, senza sapere cosa rispondere: neanche qualche ora prima si sono promessi una giornata insieme, senza che il giovane facesse riferimento a una sua assenza; eppure neanche si preoccuperebbe, visto quante volte gli imprevisti turbano i piani, se non vedesse così tanta tristezza negli occhi di chi le sta di fronte e capisse che c’è qualcosa di più di un semplice contrattempo. «Signore…», sussurra appena, cercando di spingere l’altro ad aprirsi affinché le dica ciò che continua a trattenere; e rimane sorpresa quando questi le prende una mano e la guida con sé, con calma, lontano dalle onde e su un cammino dalla sconosciuta destinazione. «Vieni, abbiamo alcune cose di cui parlare e per la prima volta non so bene come farlo. I tuoi genitori sono già stati avvertiti, e—»
Una pausa. «… E non c’è più niente che possa rimandare il momento.»
La ragazza sente un improvviso vuoto scendere sul suo capo, come se tutti i pensieri l’avessero abbandonata nello stesso istante; quindi non si accorge di come la stretta sulle dita diventi più forte e a malapena la mente comprenda le parole che seguono, fino a quando uno spiraglio di reazione la riscuote. «Luca ci sta aspettando; ti sto portando da lui.»
Cleo annuisce appena, quindi si blocca come in una consapevolezza improvvisa. «Mi dica cos’è successo, per favore. Con i suoi tempi, ma non mi lasci… così.»
Perché qualcosa è capitato, e lei ora lo sa, lo sente, che ancor prima di essere raggiunta dall’uomo la sua anima ha percepito il mutamento — come si accorge che niente, dall’istante che seguirà quella stasi, potrà ritornare come prima, né le assicurerà che lei sia capace di affrontarlo. «Per favore», ripete; ma no, non è pronta alle lacrime che vede solcare le guance del bibliotecario, né a quelle che istintivamente sorgono nei suoi occhi; e tuttavia attende una risposta, con coraggio e una preghiera.
«Piccolina… Luca deve assolutamente vederti, perché forse questa sarà l’ultima volta che potrete farlo.» Un sospiro che rivela tutto il dolore e l’empatia per entrambi loro, e un cielo troppo azzurro, sbagliato nella sua imperturbabile serenità. «Oh, Cleo… ti sei innamorata di un cuore che non è nato per vedere il mondo a lungo,
e che tuttavia ha saputo prendere da esso la felicità; ma sono sicuro che gli anni più belli glieli abbia donati tu… ed è per te che, ne sono sicuro, sta ancora combattendo.
Andiamo da lui: ora, ogni attimo deve essere solo vostro.»





«C’era una volta un ragazzo: come tanti altri della sua età, con la pelle brunita dal sole e gli occhi buoni, con l’entusiasmo che accomuna i grandi sognatori e tutte le potenzialità per imparare a correre veloce quanto il vento. La natura era il suo dominio, il campo dove potersi mettere alla prova e ridurre in ginocchio gli avversari, la correttezza ciò che gli permetteva di saper riconoscere i limiti tra un’assoluta vittoria e quello che la coscienza avrebbe reputato giusto; e per questo si meritava ogni lode.
C’era una volta un ragazzo che aveva tanto da dare e insegnare, che non temeva di mostrare quanto amasse la vita e facesse ogni cosa per non trascorrerla invano; e finché avrebbe avuto il cuore, così credeva nella sua innocenza, sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa.
Questo stesso cuore, invece, doveva pensare totalmente l’opposto: perché un giorno invece di sostenerlo decise di tradirlo, rivelando la propria debolezza e l’imperfezione
e, da quel momento, tormentandolo per anni; stanotte è stato solo lultimo caso
Il corridoio dell’anonimo ospedale è riempito solo dal suono dei suoi passi, continui e cupi; la mente
ignora la famiglia di Socrate, seduta a distanza da lei, ed è tutta concentrata sul mondo che si apre al di là della porta serratamente chiusa e su una parte del lungo racconto fattole dal signor Galileo, quella dove le lacrime hanno iniziato a sgorgare e a unire la trama che ha coperto gli ultimi anni.
Cleo non ha mai saputo prima cosa volesse dire piangere, farlo
davvero, sentirsi così smarrita da tremare pur nel ventre dell’estate; ma, ora che conosce la storia che Socrate non ha mai voluto raccontarle — e che ha compreso anche il perché di questo —, il calore non è parte del suo corpo, e se le sembra di soffocare è per ben altri motivi. Tra le mura anonime esterne a lei e la sofferenza che prova dentro si chiede come non sia mai riuscita a capire quella parte di verità, e si sente in colpa per tutta la spensierata, inconsapevole serenità che ha riservato nella loro storia: un’assenza di preoccupazioni che ha ignorato per tanto tempo il dolore e certamente non sarà riuscito a confortarlo, che non ha reagito agli stimoli che la colpivano.
In confronto al giovane, si vede terribilmente immatura e indegna, infantile e meritatamente tenuta all’oscuro di fatti così importanti: come avrebbe potuto aiutare qualcuno, così egoisticamente persa a cercare sempre il lato positivo della vita da essere cieca?
In che modo qualcuno potrebbe legarsi a lei dandole completa fiducia, sapendola incapace ad affrontare le sfide della vita? Forse è proprio perché l’hanno compreso subito che i genitori di Socrate hanno sempre visto nella sua figura un fastidio, un danno.
Protetta dal silenzio del ragazzo, tanto migliore di lei al punto da non volerle dare alcun pensiero, si è attaccata alla pace che lui le ha offerto e ha chiuso gli occhi di fronte a tutto il resto, da vera insensibile; e ora, il prezzo da pagare per questo è crudelmente alto, affossa ogni tentativo di reazione e aumenta la tristezza, fondendosi con la certezza della propria inutilità. Così stupida, stupida!
Nonostante la debole voce che le mormora
anche altro, non riesce a trovare altra parola per descriversi; nonostante ciò che il signor Galileo, seduto a fissarla senza riuscire a consolarla, le ripete, ogni istante è tortura.
Il silenzio che proviene
dallaltra parte, quindi, non è nemmeno la parte peggiore di tutta quella vicenda.
«Non tormentarti così, Cleo; non è colpa
tua
«Ma avrei dovuto capirlo che qualcosa non andava. Invece… invece, nonostante avessi la strada disseminata di prove, ho ignorato tutto e pensato solo a me.»

Come ho potuto farlo?
«Non dire così
»
«Avrei potuto prendermi cura di lui con più maturità! Spendere il mio tempo con serietà, conscia dei rischi… e se gli ho fatto fare qualcosa che ha peggiorato la sua situazione? Chi mi dice che non sia stato male per colpa dei miei capricci? Che cosa potrei essere stata
»
L
improvviso sorriso dell’uomo è solo un accenno sul volto teso, eppure lascia trasparire una consapevolezza che la ragazza non sente più sua. «Di certo sei stata, siccome me lha detto, la sua medicina migliore.»
Cleo
resiste qualche attimo quando laltro si alza e le si avvicina; ma alla fine si lascia abbracciare, e senza trattenersi oltre affonda il volto nel torace del mentore e si stringe più forte a lui. «Sono ancora una bambina», mormora, «una bambina ignara di tutto
«A diciassette anni è legittimo esserlo ancora un poco, non credi? A quell’età non si dovrebbe pensare alla morte e alla sofferenza, né al pericolo di perdere chi si ama: perché è giusto essere ancora spensierati, appena prima che inizi un nuovo capitolo di vita.»
«Ma Luca questa spensieratezza non l’ha potuta avere, al contrario mio.»
«Ed è qui che ti sbagli, cara Cleo: tu non sai davvero quanto sei stata importante per lui. Ti rammarichi per non aver saputo comprendere la verità, per non aver sfruttato le occasioni insieme per qualcosa di serio; ma Luca aveva bisogno della tua innocenza, di una vita lontano dalla tristezza che vede negli occhi di tutti quelli che tengono a lui.» Una pausa che sospende il respiro della giovane, resa più attenta dalle profonde parole dell’altro. «Luca ti ha taciuto la sua malattia perché tu potessi stare al suo fianco senza pianto, perché lui potesse fare la stessa cosa con te, la ragazza che non gli ha fatto dimenticare la normalità, la libertà di non dover spiegare nulla, la consapevolezza di non essere solo un imperfetto che rischia di morire a ogni respiro. Tu gli hai fatto un dono importantissimo: amandolo e facendoti amare, hai allontanato da lui la paura di non poter dare al mondo altro che dolore, e per quanto possa essere breve, una vita passata con qualcuno capace di fare ciò è già abbastanza.
Sì, Cleo, tu sei abbastanza per lui: non devi cambiare il tuo amore in nulla, ma continuare a stargli vicino come hai sempre fatto.
Me lo prometti, piccola? Mi prometti di non perdere la tua allegria e di restare genuina e dolce come sei, pur sapendo la verità?»
Mentre guarda il signor Galileo inginocchiarsi ai suoi piedi, qualcosa che finora ha messo da parte torna a farsi sentire: la memoria di non molte sere prima, di una confessione che ora comprende appieno — che, ora se ne rende conto, in realtà ha accettato fin da subito.
E se tu dovessi lavorare su questo telescopio, scoprire ciò che non funziona ma non poterlo riparare, per qualche ragione… che cosa faresti allora? Lo metteresti da parte, dimenticandotene? Lo getteresti?
Ha risposto senza esitazione in quel momento; e anche oggi i suoi pensieri non sono cambiati, perché anche se da una parte è convinta di non aver dato a Socrate tutto quello che avrebbe meritato, dentro di sé è sempre stata sicura della scelta di rimanere al suo fianco.
Quindi forse già avevo intuito e, inconsciamente, ho lottato anch’io? Quelle sensazioni… e quelle parole, che ho pensato veramente.
«Non potrei mai abbandonarlo…» Non lho mai fatto. «… perché il mio cuore, così com’è, è stato plasmato da lui. Una volta non amavo il mondo come ora, ma Socrate ha portato così tanta bellezza che alla fine ho iniziato a vederla anch’io, e se me ne andassi ora, se perdessi quella parte di me che tanto ha protetto…
Io, semplicemente, non voglio che accada. E ora che so la verità non posso che amarlo ancora di più, e cercare di donargli il doppio di quella serenità che non gli ho mai fatto mancare; questo è quello che sento.
Se sono riuscita ad aiutarlo almeno un poco, come sostiene lei… non posso che proseguire.»
L’uomo sorride a quel discorso, quindi si rialza. «E tu saresti immatura?», mormora, per poi accarezzarle il capo e abbracciarla di nuovo. «No, tu non sei infantile: non lo eri più da tempo, ma in una sola giornata sei cresciuta ancora, più di quanto si possa immaginare.»
Un’altra ora passa, lenta ma inesorabile, nel reciproco calore di chi aspetta, di chi va, di chi sempre rimane; e in quei momenti, un nuovo fiore sboccia, e una promessa viene mantenuta.

Una volta mi hanno detto che l’amore non è cosa che nasce con l’età: diventi grande e così ti innamori, inizi a comprendere e allora puoi sentire anche ciò che il tuo cuore vuole...
No, non è proprio questo il suo modo di funzionare.
Non potrei mai dirti quando è iniziato il mio: forse, dentro me, già
davvero sapevo ciò da cui mi volevi proteggere, oppure forse in qualche modo ti avevo già conosciuto, e a priori avevo deciso di restare al tuo fianco.
Ma, qualunque sia la risposta, alla fine è questo ciò che è più importante: che tu non sia solo, che riesca sempre a sentirmi.
Io lho chiamato l’amore dei ragazzini, sprovveduto, incosciente e intenso quanto loro; ma, ora lo so, in verità è molto più di questo.
Ricordi? Una volta mi hai chiesto un nome, una parola che potesse corrispondere solo a me e da sussurrare tra mille libri e sotto stelle di metallo;
e ora ti imploro di tornare, di ritrovare la strada che porta da me e chiamami, anche per una volta soltanto, Agape: mi troverai accanto a te, dove sono rimasta dalla prima volta che mi hai guardata, dove ho imparato a essere me stessa.
Se lo farai, la tua sorte sarà meno pesante, la condividerai con me: e sappi che il tuo cuore malato non mi spaventa, perché mi ha dato solo un motivo in più per
amarti. Come ben sai, è difficile lasciarmi indietro.
Chiamami Agape: amare senza condizioni, fino al sacrificio di sé, come tu mi hai insegnato a fare; come io ti mostrerò, per tutto il tempo che sarà ancora nostro.

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Capitolo 4
*** L'Universo è Nato Per I Tuoi Occhi ***


{ IV ♦ L’Universo è Nato Per I Tuoi Occhi }




8 Marzo 2011, mattino.



Cleo apre gli occhi piano, senza fretta.
Nella spaziosa camera matrimoniale, i mappamondi e i telescopi sono immersi nell’oscurità, il momento di affrontare il mattino ancora lontano: ma fin da quando è piccola, in quanto a interesse il buio ha sempre avuto la meglio sulla luce, quindi la ragazza si solleva sui gomiti e si mette a sedere. Come ogni volta, il respiro di chi condivide con lei il calore di quelle mura è il buongiorno che attende davvero; un respiro non sempre regolare, ma presente — un vero e proprio dono.
A questo quieto segno si aggiunge anche un mormorio appena percepibile quando la mora si allunga verso l’altro lato del letto e i riccioli sfiorano il volto del compagno; invece, le dita sanno bene dove fermarsi e sembrano voler abbracciare il cuore, là dove il battito risponde subito al tocco.
Il corpo nudo non esita a reagire appena incontra quello di Socrate, la pelle va in fiamme mentre Cleo appoggia il capo sul petto amato; e una scia di baci delicati prelude a quello che il giovane riceverà appena il sonno abbandonerà anche lui — cosa che accade da lì a qualche istante dopo, come comprende la ragazza
quando sente le braccia del marito stringerla.
«Dormi ancora un po’, Cleo, non tutti sono allodole mattiniere come te», borbotta questi girandosi e portandola sotto di sé, affondandola tra i cuscini e il tepore della vita, rendendo più profondo il suo sorriso. «Allora io sto sopra», replica quindi lei, appena prima di rovesciare le posizioni e soffiare piano. Inspirare, respirare; cercarsi, trovarsi, appartenere.
Nell’ombra che inizia appena a languire davanti al sole e il silenzio, le mani si sfiorano e poi s’intrecciano, la carne di entrambi non resiste oltre e finisce per unirsi, senza tuttavia tralasciare una pacata dolcezza: la chiave della loro profondità. Le parole e i giudizi degli altri si mutano in vano interesse, ora; i problemi non sono dimenticati, ma divengono una realtà che solamente loro due riescono a comprendere appieno, sia in fragilità e sacrifici che in quel legame che il dolore ha reso teneramente inscindibile.
Cosa c’è di più prezioso di una bellezza così delicata da essere irripetibile in ogni suo istante? Cosa più intenso di uno sguardo che potrebbe essere spezzato nel tempo di un battito, e quindi si rivela degno di essere vissuto fino in fondo?
Così si amano fino a quando non è più lecito rimanere sotto le coperte; e le dita si tengono vicine in ogni azione che accompagna la giornata.
Il mare brilla mentre Cleo appoggia la testa sul tavolo della cucina e vorrebbe dormire ancora, ride insieme a Socrate quando questi solletica dispettosamente la moglie; e potrebbe starli a guardare per ore mentre si danno battaglia con quei poveri cuscini dalla vita precaria, vorrebbe donare tutto il suo grande respiro al giovane e permettergli la certezza anche di un solo, altro giorno
con chi lo ama senza condizioni.
Non in un angolo bensì in bella vista, vicino ai testi universitari e ben ripulito da polvere e oblio, il telescopio difettoso apre il suo nero occhio e permette di vedere ogni scena che accade in quella casa, dai sorrisi che comunque resistono
fino alle fugaci lacrime che la notte copre; perché niente è facile, lì, anche se la forza è tanta e la speranza sempre presente.
Quanta energia e
fedeltà, tanto facile da trovare in entrambi.
«Oggi a cosa ci dedichiamo, quindi? Moto apparente dei corpi celesti o classificazione spettrale? Popolazioni stellari? Supernove?»
«Ohi, ohi, si calmi, professore: io sarò un’allodola mattiniera — più o meno —, ma neanche lei scherza in quanto a iperattività, sa?»
«Ma come? Proprio tu, che un giorno diverrai la nostra ambasciatrice extragalattica, mi rispondi così… mi sa che tra noi due il vero astronauta sono io, diciamola tutta.»
«Beh, non per riportarti sul suolo terrestre, ma almeno io sono vestita.»
Mai la fragilità ha avuto volto più bello;
mai come in questi momenti.




Cleo apre gli occhi piano, senza fretta.
Nella spaziosa camera matrimoniale, i mappamondi e i telescopi sono immersi nell’oscurità, il momento di affrontare il mattino ancora lontano: ma fin da quando è piccola, in quanto a interesse il buio ha sempre avuto la meglio sulla luce, quindi la ragazza si solleva sui gomiti e si mette a sedere.
«Mamma, sei già sveglia?»
Dalla parte di Chiara le lenzuola sono fredde: come ogni notte, le si è addormentata tra le braccia dopo la lunga lettura
serale, riempiendole la mente di un altro sogno e del profumo di Luca. Pur nell’assenza di chiarore, riconosce che la bambina ancora stringe tra le mani il suo diario, e sorride mentre le accarezza i capelli. «Tu invece non hai nemmeno dormito, vero, piccolo terremoto?»
Lo sbadiglio della piccola rivela una diversa realtà, e anche il suo morbido abbraccio. «Sì, invece, anche più di te.»

Madre e figlia sono due luci che pulsano nel buio del silenzio, l’anima di chi se n’è andato ma non è mai lontano da loro; e ogni mattina, tra l’alba e il tempo che lenisce,
la prima risente la voce della seconda chiederle: «Mamma, si può amare per sempre?»
Forse le stelle osservano insieme a lei il sorriso che le increspa le labbra e le dita che scorrono sulla copertina verde di quel diario
solo all’apparenza comune; e come la prima volta, quando gli occhi della bambina hanno implorato una risposta sincera alla domanda più difficile papà non tornerà mai più, vero? —, lei lo apre e glielo posa tra le mani, per mostrarle come le anime si possano comunque sentire e incontrare l’un l’altra. «Sì, si può amare per sempre», risponde, «così come tutti possono diventare immortali, se lo si vuole.»
«E come?»
«La parola magica, ciò che spiega tutto, è il ricordo: se tu non dimenticherai mai come qualcuno ti ha amato, il modo in cui ti ha sorriso, quanto ti ha dato e tutto ciò che di te ha protetto, allora quel qualcuno non lascerà mai questo mondo. Vivrà in te, dovunque andrai sarà lì al tuo fianco; e combatterete, piangerete e crescerete insieme, vi veglierete a vicenda, sempre vicini e presenti.»
Proprio tu me lo insegni ogni giorno.
Gli occhi dolci di Chiara, immediatamente riconoscibili e amabili
nel loro essere la perfetta eredità di Luca, si spalancano insieme alla bocca e chiedono di più; ma nessuna parola l’abbandona, perché non c’è alcun bisogno di parlare. «Una pagina ancora», sussurra infine, prendendo il diario di Cleo e sfogliando tutte le parole che hanno costituito la sua vita.
A volte la donna lo ritrova intriso di qualche lacrima, sottolineato con colori accesi, decorato con disegni: un cuore che ne insegue un altro
e impara da questo, mentre gli anni passano e diventano tre, quattro, cinque da quando sei diventato l’unica stella che non tramonta.
«Si può amare per sempre?»
Non ha mai avuto esitazioni davanti a quella domanda; e sa che Luca può sempre sentirla, tra il mare che non dimentica nulla e l’intensa luce che conduce fino al cielo.
«Si può vivere per sempre?»
«Tu stessa sei la risposta perfetta.» Il suo riflesso, e molto di più.
Un sorriso sereno, una nuova luce in fondo allo sguardo che già riflette la corsa degli astri. «Perché ognuno di noi è nato per mostrare e donare qualcosa, come papà sempre diceva.»
Per non aver paura di essere quelli che siamo; per non essere soli.
Ti sento sorridere, amore mio: non c’è oblio che possa allontanarci
dalla bellezza che ci hai mostrato, né dall’ombra della tua anima.
E così come tu non smetterai mai di vivere, te lo prometto, non lo faremo nemmeno noi.









NOTE


I titoli delle sezioni sono tutti richiami musicali; se volete, potete ascoltarli come sottofondo mentre leggete, perché si legano perfettamente al capitolo:
● “
Dipingi il Cielo, e una Stella” è un omaggio a Paint a Sky with Stars, album di Enya;
● “Di Noi Due…” si rifà a Two, brano dei Sleeping At Last;
● “…
E dell’Ombra del Cuore” riprende il ritornello di Cosmic Love, dei Florence + The Machine;
● “L’Universo è Nato Per I Tuoi Occhi” si rifà a Saturn, sempre dei Sleeping At Last.






ANGOLO AUTRICE


Salve a tutti **
Allora, l’idea per questa storia è nata grazie al contest
Equilibrio, ideato da Little_Rock_Angel e fonte d’ispirazione per più di una trama.
I punti di partenza erano un telescopio difettoso e la morte di un personaggio, e da ciò è stato creato il mondo, letteralmente; tuttavia, alla fine sono giunta a scegliere questa traccia: rappresentare la tenerezza dell’amore più giovane, quando nessuno pensa alle tristezze e ai problemi della vita, e il successivo momento in cui un grande dolore/ostacolo giunge a scombinare i piani.
A questo punto, come si reagisce? Ci si lascia davanti al problema,
consci del fatto che sia difficile relazionarsi con esso, o lo si affronta insieme e più forti di prima?
La mia risposta l’ho data, optando sempre
e comunque per una delicatezza di fondo e sfumando il finale, utilizzando anche l’espediente di un diario e di scene introdotte da date come istantanee di vita e memorie sempre presenti che noi, come fa Chiara, possiamo leggere e tenerci strette.
Un ringraziamento a chiunque sia giunto fino a qui, ma anche a chi si è fermato prima e ha comunque speso parte del suo tempo sulle mie parole; un abbraccio sentito, inoltre, a
Ori_Hime per la costante presenza e a mystery_koopa per la dolcezza.
Quest’ultimo capitolo in particolare è dedicato a te.


Un caro saluto,
Manto.

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