Drekarnir-Il sussurro del drago

di blackswam
(/viewuser.php?uid=198064)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo Capitolo ***


Image and video hosting by TinyPic

Capitolo 1

La grande scoperta (I parte)

«Usagi!» mi sentii chiamare e con la mia solita eleganza con una piroetta mi voltai verso il mio interlocutore inciampando sulle mie stesse gambe. Battei letteralmente il culo sul pavimento e sforzai un sorriso tirato sperando invano che il mio viso non avesse assunto una colorazione simile a quello di un pomodoro maturo. 

Mi grattai nervosa la nuca alzandomi sotto gli occhi indagatore di Mrs. Johannssonn che con la mani suoi fianchi, mentre batteva spazientita il piede sul pavimento, mi stava incenerendo con lo sguardo. Se con un solo sguardo si potesse uccidere una persona quello era quello giusto. 

«La tua goffaggine non ha limite.» mi disse dura con il chiaro intento di offendermi. «Hai ordinato la stanza della signora come ti ho chiesto, vero?» mi chiese indurendo il viso costringendola ad abbassare il capo verso la mia figura ancora distesa sul pavimento.

Di fretta mi alzai sul pavimento che aveva appena finito di ripulire, e mi sistemai la veste cercando di darmi una sistemata. 

«Certo mrs. Johannssonn. E' tutto in ordine, proprio come lei mi aveva chiesto.» li ripetei sollevando le spalle e irrigidendo la schiena. Lei di tutta risposta mi diede le spalle dirigendosi verso la stessa direzione da dove era venuta. 

«Vai a prendere una divisa nuova, oggi abbiamo degli ospiti e tu dovrai servire il tè.» mi disse per voi voltare l'angolo che l'avrebbe portata nelle stanza della servitù. 

Sospirai lasciandomi ricadere nuovamente sul pavimento e appoggiai la spalle sul piccolo muro sopra la quale poggiava una piccola finestra. Dopo una manciata di minuti mi alzai dalla posizione seduta appoggiato i gomiti sul piccolo muretto e rivolgendo i miei due occhi verdi verso il panorama esterno. 

Un'estesa piantagione adornava lo splendido giardino, al centro si trovava una piccola fontana che ormai da tempo era rimasta spenta, mentre qualche centimetro un po' più avanti si estendeva un maestoso cancello bianco. La mia attenzione però era dedicata allo strabiliante giardino dei suoi padroni e alle splendide viole che stavano per sbocciare. 

Controllai l'ora sul mio orologio da polso e nonostante il poco tempo che mi rimaneva a disposizione per cambiarmi e sistemarmi mi diressi comunque verso il giardino e assaporai quei pochi attimi di libertà che soltanto in quel momento mi appartenevano. Era soltanto in queste occasioni che potevo ritagliare un po' di tempo per me stessa.

Mi diressi allora verso le miei amate viole abbassandomi per poterle osservare meglio da vicino. Mi rannicchiai tra le mie gambe lasciando che i ricordi del mio passato mi attraversassero la mente. 

Ritornai indietro di qualche anno, di quando ero una semplice bambina di sette anni che viveva con la sua umile famiglia nella città di Reykjavík. Ero la quarta di cinque figli e nonostante non navigassimo nell'oro eravamo molto uniti. Ricordo di sorrisi dei miei fratelli, le loro litigate per un semplice pezzo di pane, ricordo i capelli ricci di mia madre e le sue urla di disperazione quando doveva separare due dei miei fratelli da un abbuffata. Ricordo gli occhi verdi di mio padre e le sue tenere mani che mi accarezzavano la capigliatura biondina. Ricordo le ultime parole della piccola Ágústína prima di essere portata via dagli assistenti sociali. 

La separazione dai miei fratelli erano stata la cosa più difficile che aveva dovuto affrontare nella mia vita, anche dopo la tragica scomparsa dei nostri genitori. All'epoca avevo quindici anni e le uniche speranze di riponevo nella mia vita erano quelle di vivere felici con la mia famiglia, di uscire con i miei amici, di fidanzarmi per la prima volta. 

Adesso dove erano finiti tutti questi sogni? 

Avevo guardato in faccia la dura realtà e adesso nella mia mente viveva un solo desiderio. I soldi. Guadagnare abbastanza soldi per poter aiutare la piccola Ágústína e riprendermi la mia sorellina. Erano anni che non aveva avuto più notizie dei miei fratelli. Avevo sentito dire che il maggiore Bastían era stato mandato a fronte ed lui era stata ben accetto alla cosa, il secondogenito Húbert aveva iniziato a lavorare come cameriere in un prestigioso ristorante e che aveva messo su famiglia, mentre del terzo figlio Esekíel non avevo raccolto nessuna informazione. Non riuscivo a trovarlo, sembra quasi lo avesse inghiottito la terra. 

Affondai così il viso sulle gambe socchiudendo gli occhi a quei ricordi tanto cari, ma allo stesso tempo tanto dolorosi perché ero ormai consapevole che mai sarebbe ritornato come prima. 

Ad oggi l'unica cosa che sapevo era che dovevo lavorare per sopravvivere e che se non mi sbrigo rischio anche di perdere il lavoro. Mi sollevai dalla mia posizione e mi diressi verso le camere della servitù. Quando mi richiudo la porta della mia stanza dietro le spalle mi tolsi di fretta il vestito e mi infilai la divisa nuova e profumata. Controllai l'orario sull'orologio e avevo meno di tre minuti per prepararmi e scendere per andare a preparare il tè. 

Mi sistemai i capelli e li raccolsi in una coda di cavallo e aprii di scatto la porta con ancora una scarpa tra le mani. Mentre scendevo le scale che mi avrebbe portato nella porta sul retro verso la cucina mi sistemai l'altra scarpa e attenta a non farmi vedere mi fiondai nella stanza. 

Gli ospiti erano già arrivati e la signorina Johannssonn era entrata almeno tre volte per dirmi che ero troppo lenta.

«E che ci vuole a preparare un tè.» mi disse la donna ormai a i nervi a fior di pelle. Dopo la quarta volta che la donna piombava in cucina il tè era ormai pronto e mi stavo già preparando a servirlo. 

Presi il vassoio tra le mani e pregai con tutti il cuore di non inciampare come mio solito e di non far rovesciare così il tè. A mezzo respiro riesco a sopravvivere per qualche centimetro e arrivata ormai a metà strada stavo quasi per perdere l'equilibrio, ma mi riesco a rimetterei in posizione dritta e mi incammino verso il salone dove gli ospiti stavano aspettando il tè del pomeriggio.

***

Quando entrai nella sala gli ospiti erano presi in una loro conversazione che quasi non si rendono conto della mia presenza. Appoggia il vassoio sul piccolo tavolino di cristallo e a passo felpato faccio per allontanarmi, quando sento qualcosa afferrarmi il polso. Voltai lo sguardo e incontro due occhi scuri che ormai conoscevo molto bene.

«Signorino Mamoru.» dissi rivolgendomi al figlio primogenito dei padroni di casa. «Non vorrei essere scortese, ma dovrei andare a lavorare.» e gli indicai la sua mano arpionata al mio braccio. Mi lasciò la presa e convinta di essere stata lasciata in pace lascia la stanza pronta a ritirarmi nella miei camere, quando una voce mi costringe a girarmi.

«Ogni giorno che passa diventi sempre più bella.» mi sentii dire lasciandomi completamente sfacciata. Ero consapevole delle interesse del signorino dei miei confronti, ma in questi giorni era diventato ancora più sfacciato. A volta mi dedicava delle avances persino davanti ai suoi genitori. 

Distolsi lo sguardo cercando di non mostrargli quando la cosa mi dava un leggere fastidio, oltre a mettermi in un tremendo imbarazzo. Non che il signorino non fosse un bel ragazzo, anzi tutt'altro. Alto dai capelli mori e due occhi scuri. Un leggera barba accennata sul viso e un fisico asciutto. 

Era il tipo che tutte le nobildonna avrebbero voluto come marito, ma la loro erano una relazione impossibile che non avrebbe mai potuto esistere. 

Una cameriera e un uomo di buona famiglia. 

Mai persone così diverse per stare insieme. Avevamo classi sociali troppo differenti, ma soprattutto ero consapevole che per il signorino ero semplicemente un'altra preda da cacciare, un'altra donna che doveva conquistare. Un semplice modo per ammazzare il tempo. 

«Grazie mille. Se vorreste scusarmi ho del lavoro da ultimare.» e feci per andarmene quando mi intrattiene per un polso incatenando il mio corpo contro il muro con il suo schiacciato addosso. 

Abbassai gli occhi verso di lui e lo vidi sogghignare mentre con le mani mi accarezzava i capelli. Iniziò con le labbra ad baciarmi la guancia, scendendo verso la punta del mente, per poi baciarmi la mano.

«Non farei mai niente senza che non lo voglia anche tu.» disse incrociando il suo sguardo con il mio. Forse erano solo la mia immaginazione, ma in quel momento sembrava maledettamente serio. 

Potevo sentire il mio viso andare in fiamme mentre i battiti del mio cuore aumentare ad ogni minuto. Lo allontanai con le mani e riesco a liberarmi dalla sua presa.

«Con permesso.» gli disse avanzando il passo non voltandomi mai indietro. Dovevo andarmene da quel corridoio. Dovevo darmi una regolata. Lui sta solo giocando con te, mi ripetei come un mantra.

Lui sta solo giocando con te...

***

Erano ormai le sei di pomeriggio quando afferrai la scopa tra le mani - che avrei dovuto utilizzare per spazzare il giardino - ma che invece sbattevo da una parte all'altra trascinandola in un movimentato e pazzo balletto. Sentii la musica attraverso la mia mente, e iniziai quindi a vagare nell'immaginazione. 

Mi ritrovavo nella mia vecchia casa, indossavo un lungo vestito bianco che mio padre mi aveva comprato per i miei dieci anni e con i piedi nudi danzavo per la casa. Ridevo, ridevo come un pazza e i miei fratelli non potevano che assecondare la mia pazzia e iniziarono anche loro ad essere coinvolti in questo turbine di energia. 

Bastían mi prese la mano e mi fece volteggiare, mentre Esekíel teneva tra le braccia la tenera Ágústína. Era tutto così meravigliosamente favoloso. Peccato che una voce mi riportò alla mia vera vita.

«Stai di nuovo vagando con la tua immaginazione?» e mi voltai verso la fonte di quella voce. Una ragazza dal viso minuto coronato dai due occhi celesti, e dei folti capelli rossi rendevano il suo volto ancora più grazioso. Indossava la mia stessa divisa, soltanto che a lei aderiva perfettamente con il suo fisico asciutto e snello. 

«Ami!» esclamai sorridendo alla mia amica da almeno quattro anni da quando aveva iniziato a lavorare per la famiglia Einarsson. Ami era sempre stata come una sorella. Una persona dall'animo buono, che ti ama nonostante conosca tutti i tuoi difetti. Era una di famiglia ormai non potevo fare almeno senza di lei.

«Quando la smetterai di navigare nella fantasia? Vuoi che la vecchia signora Johannssonn abbia un buon motivo per prendersela con te?» e sospirai alle sue parole. Eccola: la sua solita ramanzina.

«Si capo, come dice lei capo.» le dissi non nascondendo una piccola risate. La vidi mettere il broncio che non durò molto e dopo tre secondi scoppiamo entrambe in una grossa risata. 

«Signorine non veniamo pagate per perdere tempo. A lavoro!» ci richiamò la signora Johnnssonn facendoci sobbalzare. 

Incredibile quella donna è ovunque, pensai e guardai Ami di sottocchi vedendo che anche la mia amica stava trattenendo a stendo le risate. 

Una volta liberate della perfida signora Rottemaier ci dedicammo un piccolo periodo di paura e passammo le ore intere a parlare sulla panchina. Con Ami si poteva parlare davvero di tutto. Ti ascoltava con piacere, e anche se a volte mi perdevo nei miei stessi deliri lei rimane comunque ad ascoltarmi. Iniziai a raccontarle delle miei pessima figura davanti a Mrs. Johnnssonn e di come stavo quasi per far cadere il vassoio del tè davanti ogni ospiti della padrona. Adesso smettere di ridere fu impossibile. 

«E poi cosa hai fatto?» mi chiese asciugandosi una lacrima dal viso.

«Niente ho posato il vassoio sul tavolino e me la sono svignata alla velocità della luce.» le dissi. A quell'ultima spiegazione fermai la mia risata e inizia a torturarmi le mani. Non le avevo ancora detto di Mamoru. Non vorrei che si facesse un'idea sbagliata nei miei confronti. Non che fosse successo qualcosa, e mai succederà e solo che... non ero pronta.

Le sorrido massaggiandole i capelli rossicci con le mani, mentre lei si rilassa beandosi di quella tenue pace. La parte che più mi piaceva di lei era proprio la sua tranquillità, il suo essere riflessiva in tutto ciò che faceva. 

«E arrivato il momento di rientrare. Si sta facendo buoi.» mi fece notare la mia amica. Sollevai il mento facendole cenno di andare avanti senza di me, mentre io rimasi seduta sulla piccola panchina di legno ad osservare i tenui raggi di luna accarezzare con la sua luce il terreno.

Socchiusi gli occhi dedicando la sua totale attenzione al dolce suono della notte. Accavallai le gambe appoggiandoci sopra le minute mani. Quando riaprii gli occhi mi rendono conto di aver urtato qualcuno con i piedi e mi abbassai per vedere l'entità dell'oggetto. 

Mi sorpresi di quello che stavo vedendo. Quello era un uovo. Le sue dimensioni erano troppo elevate per essere quelle di una gallina, o di una tartaruga. Lo afferrai con le mani e lo nascondo con la giacca che mi era premurata di portare. 

Mi diressi verso la mia stanza, ma quando iniziai a camminare mi sembrò che qualcosa si muovesse all'interno dell'uovo. 

Sarà una mia impressione, ragionai non vedendo alcun tipo di movimento e mi ritirai nella mie camere.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Secondo capitolo ***


Image and video hosting by TinyPic

Capitolo 2

La grande scoperta (parte II)

 

Al sorgere del sole quando ormai i suoi sottili raggi luminosi mi avevano accarezzato il viso stanco a causa del sonno arretrato, mi alzai dal comodo e adorato letto preparandomi ad affrontare la giornata.
Stropicciai gli occhi emettendo un rumoroso sbadiglio che premurai di coprire con la mano. Indossare la divisa con quel caldo infernale, dover spazzolare i capelli indomabili per almeno un quarto d’ora e pensare alla mole di lavoro che ancora l’aspettava rendeva il tutto ancora più deprimente. 
Quando finalmente mi infilai le scarpe sentii qualcuno bussare alla porta. Incerta mi avviai verso quest’ultima e l’aprii senza troppo indugio. 
Grosso errore.
La figura imponente di Mamoru entrò nella stanza senza chiedere alcun tipo permesso alla “proprietaria” della camera, ovvero la sottoscritta, e si avventò sulle mie labbra mordicchiandole un po’. 
Era un bacio furente e passionale. Non c’era alcun tipo di sentimento romantico, ma soltanto quello carnale. 
Provai in tutto i modi di allontanarlo spingendo le mani sul suo petto e socchiudendo le labbra per non far accadere la sua lingua che, con forza e violenza, cercava di infilarsi dentro la mia gola. 
«Mamoru» provai a pronunciare tra un bacio all’altro, ma questi non mi deva alcun possibilità di poter ribattere. Smisi così di combattere e cedetti al suo calore.
Mi abbandonai a quelle trepide sensazioni assaporando ogni sapore di quel bacio che da violente e passionale divenne dolce e romantico. Senza alcun briciolo di pudore e con un’audacia che non mi apparteneva infilai le mani dietro la sua nuca spingendolo ancora di più verso di me. Mamoru inizialmente sorpreso per la mia reazione mi circondò la vita con le sue mani spingendo le labbra verso le mie.
Sembrava volessero mangiarmi per la foga con cui si avventava verso di me. 
«Ohh che cos’è questo cambiamento repentino?»  ironizzò toccando un tasto dolente nella mia coscienza che finalmente decise di funzionare e mi staccai quindi da lui. 
Mi rivolse uno sguardo dubbioso, ma sollevendo le spalle si sporse nuovamente verso di me con il chiaro intento di avventarsi sulle mie labbra però questa volta anticipando la sua mossa gli misi una mano sulle labbra.
«Basta così» terminai un intenso calore mi attraversò le guance che sentivo chiaramente andare a fuoco. In tutto risposta lo vidi incrociarsi le braccia e con un’espressione furente disse:«Sembrava che ti stessi divertendo»
Non potei negare quella sua affermazione, ma comunque non poteva assecondare quella folla e insana relazione. Non sarei mai stata una delle amante che usava portarsi nelle sue stanze. Nonostante odiassi i tipi come lui in qualche modo ne ero irrimediabilmente attratta.
«Signorino il mio dovere è servire la famiglia non quello di essere uno dei vostri passatempi.»
Decisi di essere diretta con lui fregandomi stavolta della paura di poter essere licenziata, anche se avevo disperatamente bisogno di questo lavoro.
Era ormai risaputo da mesi che la città di Svalbarð stava perdendo sempre più terreno e la richiesta di lavoro si era abbassata improvvisamente. I signori del paese non avevano più i soldi per pagare i loro dipendenti e i pochi rimasti a stenti riuscivano ad sopravvivere a causa della paga troppo bassa e i viveri troppo elevati. 
Intere famiglie avevano deciso di cercare fortuna altrove, altri invece magari affezionata alla loro patria erano rimaste tentando qualche lavoro misero oppure vivendo per strada facendosi bastare quei piccoli spiccioli che qualche anima caritatevole offriva. 
Però ormai erano anni che la gente che non pensava più al prossimo, e ognuno tendeva a pensare a quelli che erano i propri interessi provando a sopravvivere. 
A Svalbarð o sopravvivi o muori.
«Usagi quante volte dovrò dirti che tu per me non sei un passatempo. Sono cambiato non sono più quello di una volta» spiegò il ragazzo passandosi furente le mani nei capelli. 
Volevo davvero credergli, e in fondo in po’ di verità si celava dietro a quelle sue parole ma dovevamo guardare in faccia alla realtà. Non potevamo avere futuro. 
«Devo andare a lavorare» dissi ignorando palesemente le sue parole e chiudendo per l’ennesima volta in faccia i suoi sentimenti. 
Odiava comportarsi da stronza, ma almeno uno dei due doveva esserlo. 
Feci per uscire dalla stanza non soffermandomi a sostenere il suo sguardo, ma appena misi un piede fuori mi sentii afferrare per un braccio e delle parole brevi e silenziose mi elettrizzarono sul posto.
«Non mi arrendo» lo sentii sussurrare dentro il mio padiglione auricolare e uscì dalla stanza dandomi le spalle. Rimasi ad guardarlo fino a quando non lo vidi svoltare l’angolo del corridoio e una volta fuori dalla mia visuale liberai un sospiro.
Ma che cosa sto facendo.

 

***

 

Afferrai lo strofinaccio che mi lanciò Ami e iniziai ad pulire le maestose vetrate della casa utilizzando un piccola sedia per poter raggiungere i punti più elevati. Di sott’occhi vedi la ragazza dagli occhi azzurri spazzare il corridoio, mentre allo stesso tempo ripuliva i mobili dalla fastidiosa polvere che si insediava da per tutto.
«Ami passami quel secchio» le chiesi sporgendo un braccio verso la sua direzione. Questi abbandonò quello che stava facendo e raccolse con entrambe le mani l’oggetto che le avevo richiesto adagiandolo sul piccolo muro dove era appoggiata la suddetta finestra.
Immersi lo strofinaccio nell’acqua che iniziò ad assumere una colorazione nerastra e continuai a ripulire. Dopo aver terminato aiutai Ami con i ripiani più bassi e soltanto verso l’ora di pranzo potemmo riposare. 
La cucina era il nostro ritrovo e spesso si trovava ad essere il luogo per sfuggire dagli occhi inquisitori di Mrs. Johannssonn che, da almeno qualche settimana, era più scorbutica del solito. 
Ed era proprio di questo che stavamo parlando e secondo Ami il motivo le poteva essere stato riferito da una popolana. 
Svalbarð era sempre stata un paese pacifico e aveva sempre preferito non entrare in guerra in maniera esplicita, ma lasciava la gloria ad altri protagonisti preferendo semplicemente incassare i guadagni della vincita. Il sindaco della città eletto da un unanimità dai cittadini era a suo parere una persona subdola e provocatrice. 
Con le sue parole coinvolgenti e ricche di informazioni culturali aveva illuso i compaesani di essere la persona giusta, quelli che li avrebbe tolti dalla misera. 
Era quasi passato un anno dalla sua elezione, ma la situazione si era incrinata ancora di più.
«Una donna mi ha detto che Svalbarð dopo anni sta per entrare in guerra. Il sindaco oggi ha firmato il consenso»
Che uomo inutile, potei che pensare. Non avevamo armi, a stendo avevamo soldati, non avevamo fondi e lui ci manda in guerra? Poteva esistere un uomo più imbecille?
«Sai che non me ne intendo molto di politica, anzi mi reputo una vera idiota in ogni campo che non sia la pulizia però mi sembra tutto piuttosto azzardato.» osservò l’amica e io non potei che confermare la sua considerazione.
«Stringeremo un’alleanza con la città di Grímsey e in cambio di denaro, soldati e un po’ di viveri noi gli concederemo alcune delle nostre terre.»
Pazzo! 
«Il potere ha reso quell’uomo davvero un idiota!» sbraitai allontanandomi irritata una ciocca di capelli dietro le spalle. 
Concedere alcun delle nostre terre significa dare in cambio tutta la vita dei cittadine. In questo modo ci stava condannando tutti a morte certe.
La sconfitta di questa battaglia avrebbe arrecato ancora più sofferenza togliendo così il lavoro a cui pochi cittadini onesti che potevano ancora permetterselo. 
«E contro chi dovremmo combattere?» chiesi titubante non valendo davvero sapere la risposta.
«Garður»
Ecco, eravamo condannati.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


Image and video hosting by TinyPic

 

Capitolo 3

Il piccolo uovo

 

Svalbarð, quest’oggi, era limpida e radiosa e brulicava di cittadini dai visi felici e speranzosi della prossima guerra a cui presto o tardi sarebbero andati incontro. Avere la città Grímsey - una della città più potenti dell’ Islanda-come alleata significava aggiudicare maggior prestigio per i loro possedimenti, ma allo stesso tempo significava aumentare le ore di lavoro per poter garantire che tutto ciò possa davvero avvenire.
“Un sacrificio che verrà ricompensato” diceva il sindaco però delle sue parole Usagi non ne era pienamente convinta. 
Per lei dietro a quelle promesse era celato un piano ancora più oscuro, magrabo, irrimediabilmente spaventoso. 
C’era qualcosa che non ci diceva. Qualcosa che stava cercando di nascondere. 
Erano questi i pensieri che mi balenavano in mente mentre mi rivestivo nella stanza. Avevo indossato la mia solita divisa allentando però di poco la chiusura del collo, e quasi maledico il caldo asfissiante che non mi permetteva di muovermi decentemente senza che gocce di sudore mi attraversassero ogni parte del corpo. 
Afferrai la rivista che si trovava sul comodino e iniziai a sventolarmi il viso ricevendo - anche in parte minima- un po’ di sollievo. 
Il cielo quella mattina rispecchiava quello che era l’animo di ogni singolo cittadino. Questi era di un colore azzurro chiaro e nemmeno una nuvole oscurava la bella, ma insopportabile luce del sole. Non avevo mai odiato il sole, anzi però in questo frangente non riuscivo proprio a farmelo piacere. 
Avrei una maledetta voglia di cambiari d’abito e uscire per sentire quei raggi solare sulla mia pelle nuda senza vesti di seta che mi facevano una sorte di barriera.
Quando mi alzai dal letto per dirigermi verso la porta della stanza, che mi avrebbe condotta in un lungo corridoio per iniziare il mio turno di lavoro sentii qualcosa muoversi. 
Abbassai le mani verso l’oggetto e mi ritrovai tra le mani l’uovo che aveva trovato qualche sera fa. 
Me ne ero completamente dimenticata di lui. Ne sfiorai la superficie con le dita e notai una lieve increspature al lato destro. 
“Oh mio dio si sta per schiudere” pensai con un po’ di ansia. Di che uovo poteva mai trattarsi? 
Rimasi ad osservare per altri cinque minuti, ma alla fine decisi di depositarlo alla sua vecchia postazione. Non potevo rimanere li ancora a lungo doveva lavorare.
Quindi anche se un po’ a malincuore lascia la stanza chiudendo la porta dietro le spalle.

 

***

Quando raggiunsi Ami la trovai intenta a ripulire la camera della padrona e presa dalle sue mansioni non si era resa conto della mia presenza.
«Hei» la chiamai a gran voce attirando fin troppo la sua attenzione e di fatti sobbalzò sul posto riservandomi uno sguardo truce.
«Usagi sai quanto odio questi scherzi» mi disse portandosi una mano sul petto e sospirando. Però sapevo che il suo musone non avrebbe retto ancora a lungo, e dopo pochi minuti la ragazza riprese a parlarmi mentre per scusarmi le davo una mano aiutandola a rifare il letto. 
Era da ormai da un bel po’ che conoscevo Ami e nonostante non ci conoscessimo proprio da tutta una vita sentivo di volerle un bene dell’anima considerandola a pieno titolo un membro della mia famiglia. 
Questi però mi diede da pensare che sulla famiglia di Ami sapevo poco e niente soltanto che era una figlia unica e aveva un padre di origine giapponese, cosa che infatti ci accomunava, ma oltre a questi piccoli dettagli non conoscevo il vero motivo della sua presenza qui. 
La cosa mi dispiaceva e mi faceva anche irritare in quanto le avevo sempre raccontato ogni piccolo dettaglio della mia vita, mentre lei aveva sempre omesso ogni dettaglio della sua vita.
“Sicura di averle detto tutto?” mi chiese una piccola voce che ormai ero solita chiamare coscienza. 
Va bene magari non le aveva raccontato di Mamoru, ma le avevo raccontato della sua famiglia e del mio obiettivo di riprendermi la mia sorellina. Mi ero completamente aperta con lei.
«Ami» provai a dire cercando di trovare le parole giuste «Non vorrei sembrare indiscreti, ma sono ormai anni che ci conosciamo e nonostante tu abbia evitato l’argomenti per molto tempo non mi hai mai raccontato il reale motivo della tua presenza in questa cosa. Non mi hai mai parlato delle tue origini, della tua famiglia nonostante io mi sia aperta con te più e più volte.»
Sputai tutto così a raffica tenendo gli occhi socchiusi non riuscendo a guardarla dritta negli occhi. 
Forse avrei fatto meglio a starmene zitta. Di fatti la vidi sospirare.
“Ecco adesso ho buttato all’aria tanti ben anni di amicizia”
Quando alzai lo sguardo la vidi sorridere e anche se all’inizio rimasi sorpresa non potei che rilassarmi.
«Hai ragione. Tu sei sempre stata sincera con me mentre io…» iniziò a dire dispiaciuta abbassando lo sguardo. 
Avvicinai un mano verso di lei con il chiaro intento di dirle che non era colpa sua, ma lei semplicemente alzò lo sguardo e mi sorrise.
«Non è che non volevo raccontarti della mia vita, ma soltanto che non ho buoni ricordi della mia infanzia. Vedi essere l’unica figlia di un padre padrone che vuole condizionarti ogni singolo aspetto della tua vita, una madre che preferiva passare tutti il tempo che i suoi ripetuti amanti invece che pensare alla sua povera figlia. Dopo l’ennesimo abbandono tradimento di mia madre l’ira di mio padre, che si sentiva compatito da ogni singolo vicino, si avventò su mia madre. All’inizio tutto procedeva in questo modo, fino a quando la sua ira non iniziò a trovare pace e inveì anche su di me. All’epoca aveva solo dieci anni. A quindici decisi di abbandonare quel posto e iniziai ad occuparmi di piccoli lavori fino ad oggi.»
Raccontò mentre nella durata del suo racconto aveva stretto le sue mani per tutto il tempo. Volevo in qualche modo fonderle forza, protezione, volevo farla sentire al sicuro.
In qualche modo mi sentivo un’idiota per averle fatto ricordare tutti quelli orribili ricordi, ma dall’altro lato era felice che finalmente si fosse liberata con me. 
Si era fidata e di questo ne potevo essere contenta. 
L’abbracciai di scatto sussurrandole parole rassicuranti, ma sapevo che non ne aveva alcun bisogno
In quei anni rimasta da sola era diventata una donna forte e indipendente ed io invidioso quella sua caratteristica. Invece io ero ancora legata al mio passato e non riuscivo a guardare avanti. 
«Grazie» disse e io non potei che rafforzare la forza dell’abbraccio. 

 

***

Una volta rientrata nella mie stanza mi lasciai ricadere sul letto lasciando libero sfogo ai miei problemi e alle vicissitudini della giornata. Dopo aver sciolto il nostro caloroso abbraccio io e Ami continuammo il nostro lavoro e passammo tutta la giornata a parlare senza mai smettere di sorridere. 
Sembrava che il nostro rapporto si fosse consolidato dopo la sua confessione e probabilmente era proprio ciò che era accaduto. 
Ultimato le nostre ultime commissioni ci rintanammo nelle nostre stanze con la prossima di dirci sempre tutto. 
E io sapevo di dover adempiere a quella promessa. Dovevo dirle di Mamoru, ma soprattuto dello strano oggetto che si trovava sotto al mio letto e che o quanto pare stava per schiudersi. 
“L’uovo me ne sono completamente dimenticata” pensai e spinsi le mani sotto il letto, ma per quando provai ad abbassare non riuscii ad afferrare l’oggetto.
Dove poteva essersi cacciato. Spinsi la mano fino al fondo del letto quando sentii qualcosa, o meglio qualcuno, mordermi un dito. Mi portai quest’ultimo istintivamente sul viso e notai un rivolo di sangue fuoriuscire da esso.
«Piccolo bastardo»  esclamai abbandonando ogni compostezza. Con entrambe le mani mi chinai verso il letto nonostante la poca luce e afferrai il responsabile della mia ferita.
Quando i miei occhi azzurri incontrarono due occhi rossi mi immobilizzai all’istante. Era di un colore bluastro in netto contrasto con il colore dei sue occhi, due paia di orecchie e paia di denti molto appuntiti. E aveva le ali, due maledette ali. 
Non poteva essere non stava succedendo proprio a me. Con ancora le mani strette in quel corpicino rimasi ad osservarlo senza staccare mai gli occhi da lui.
Quello che stavo tenendo tra le mani era… era un drago!

 

“Quando il drago ha ormai abbandonato la speranza, quando 
ormai ha smesso di credere nella vita, 
quando ormai ha perso la forza, una persona…
Una persona sarà al suo fianco per aiutarlo, ma
soprattuto per aiutarlo a fidarsi di lui. Perché
lui era un dominatore di draghi. L’unico è vero amico
di cui potevano fidarsi”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quarto capitolo ***


Image and video hosting by TinyPic

 

Capitolo 3

La piccola creatura

 

 

Lasciai uscire un grido smorzato quando la minuta bestiolina mi morse il dito, e le rivolsi un sguardo duro mentre impaurita si rintanava dietro la tenda della finestra. Mi portai il dito sulle labbra, imprecando.
Con la lingua ripulii il sangue su quest’ultima e dopo questo gesto avvertii una scarica di adrenalina attraversarmi il corpo. Sospirai e con molto calma mi avvicinai verso di lei o lui che dispersamente cercava di nascondersi.
“Ti prego, non uccidermi.” sentì dire nella mia testa e a sentire quella supplica mi gelai nel posto.
Non ero certo stata io a parlare, e oltre a noi due nessuno c’era nella stanza. Ciò stava a significare che…
«Riesco a leggere i tuoi pensieri» affermai sorpresa delle mie stesse parole. Al suono della mia voce cacciò la testolina dalla tenda e rivolse i suoi occhi blu come il cielo verso di me.
Con le sue piccole zampe si avvicinò verso le mie gambe sulle quali iniziò a strofinare il muso in segno di resa. Le accarezzai la testa in modo istintivo.
Qualcosa mi spingeva a compiere quel gesto, sentivo che doveva farlo. Sentivo che lei voleva sentirsi rassicurata.
“La tua mano è calda” mi disse trasferendo i suoi pensieri nella mia testa. Di conseguenza continuai a ripetere quel movimento per almeno due minuti quando sentì qualcuno bussare alla porta.
Sobbalzai sul posto. La creatura mi rivolse uno sguardo incerto mentre le faccio segno di fare silenzio e di nascondersi sotto al letto.
Inaspettatamente fece ciò che le avevo chiesto e con un sospiro aprii la porta della camera.
Mrs. Johannssonn fece capolino nella stanza nella sua stretta camicetta nera, una maglietta bianca che le copriva l’addomome piatto e un paio di pantaloni dello stesso colore della maglietta. I capelli neri erano raccolti in uno chignon perfettamente ben fatto e due paia di occhiali rossi che le coprivano gli occhi che erano di un colore marrone chiaro.
Tra le mani aveva una sottile cartellina rossa sulla quale trascriveva ogni singolo momento della sua vita, secondo Ami dormiva anche con quella cartellina. Sembrava l’unica ragione della sua vita.
Quando mi voltai verso di lei mi rivolse uno sguardo di sufficienza, ovvero la sua solita espressione, e mi porse una serie di fogli tra le mani.
«Mi spiace svegliarla anche nel suo giorno libero» iniziò col dire, anche se non ero molto convinta del suo dispiacere «La signora mi ha chiesto di cambiare i turni di lavoro. Con l’avvento della guerra molte cose inizieranno a cambiare. Tra pochi giorni dovremmo accogliere alcuni compaesani della città di Grímsey, e in qualità di nostri alleati noi abbiamo il dovere di accoglierli nelle nostre case.»
«Accoglierli?» le chiesi non riuscendo a comprendere il nesso logico del suo discorso. Quasi impazientita la donna continuò:«Una delle più modeste città di Grímsey è stata rasa al suolo soltanto poche settimane fa e quei pochi superstiti hanno chiesto rifugio qui da noi.»
Mai scelta fu per loro più sbagliata. La città non godeva più dei viveri che un tempo poteva permettersi di avere, e a stento riuscivano a sopravvivere loro stessi, figuriamoci ospitare altri poveri sciagurati.
«Chi è stato ad attaccarli?»
Per la prima volta vidi la donna ammutolirsi a quella mia domanda e per qualche secondo pensai che mi avrebbe lasciata senza alcuna risposa. Invece..
«Un drago signorina, un drago.»
Al suono di quella parole sentii un brivido di paura fin dentro la ossa, ma non era la mia paura.
Volsi lo sguardo verso il fondo del letto e abbassai subito il capo. Afferrai poi i foglietti su cui erano scritti i nuovi turni di lavoro e mi lasciai ricadere sul letto. Il piccolo drago alla chiusura della porta uscì da sotto il lettino e si arrampicò su quest’ultimo ponendosi al mio fianco.
«E adesso cosa ne facciamo di te?» le dissi accarezzandole il capo, ma a quelle mie parole la piccola draghessa si allontanò mostrando i piccoli denti in segno di sfida.
La osservai sorpresa mentre con la mano cerco di avvicinarmi, ma quasi non mi staccò le dita a morsi. Dovevo averla spaventata.
“Non voglio farti del male” pronunciai cercando di rassicurarla, ma l’unico risultato che ottenni fu una scrollata di spalle e con l’aria infastidita si rinascose nel letto dove non uscì per tutta la giornata.

 

***

Passai la maggior parte della mattinata rintana nelle mie stanze con la testa china sui libri. Solitamente era in questo modo che passavo il mio tempo libero: immersa nella lettura.
I miei fratellini mi chiamavano “topolino da biblioteca” e nonostante quell’appellativo all’inizio mi arrancava non poco disturbo, ad oggi mi faceva sorridere in memoria dei buoni vecchi tempi, ben conscia che non ritorneranno più.
Scacciai i cattivi pensieri, che come di consuetudine, si insinuavano nella mia testa. Con gli occhi ormai stanchi rinchiusi il libro e lo depositai sul comodino mentre scioglievo le gambe attorcigliate.
Mi sistemai la maglia che si era stropicciata e mi abbassai di poco per vedere sotto il letto. La piccola bestiola stava riposando e senza far alcun tipo di rumore decisi di lasciarla riposare e rinchiusi quindi la porta dietro le spalle.
Decisi di dirigermi verso i giardinetti sedendomi sulla solita panchina. Socchiusi gli occhi mentre la flebile luce del sole mi accarezzava la pelle pallida.
“Come si sta bene oggi” pensai ricordando il freddo gelido di non poche settimana fa. L’aria in questo periodo si era notevolmente riscaldata.
«Disturbo?» mi sentii dire facendomi spalancare entrambi le pupille. La figura di Mamoru si presentò davanti al mio cospetto. Con il suo solito ghigno, i suoi denti perfetti, le sue mani calde e le sue labbra sottili. I suoi occhi di blu scuro come la notte.
Avrei tanto voluto rispondere si, ma mi trattenni.
«Per niente signorino Mamoru, stavo giusto per andarmene.» feci per alzarmi, ma non calcolai la sua mano pronta ad afferrarmi il polso. Stava diventato un vizio.
«Ti prego non andartene a causa mia.» mi disse e non potei non notare la sua espressione sofferente. Mi dispiaceva rifiutarlo per l’ennesima volta, ma doveva capire che questa cosa, qualunque cosa fosse, non poteva continuare.
Un serva e il suo padrone. Un amore praticamente impossibile, un amore che poteva essere raccontato soltanto nei libri, ma purtroppo la sua storia non era un romanzo romantica, ma la vita reale.
Quando però fa per andarsene fui io ad afferrare il suo braccio e gli dissi:«Puoi rimanere»
Non riuscii a capire il perché del mio gesto e sapevo che presto o tardi me ne sarei pentita, ma in quel momento non mi importava. Quando mi rivolse quel sorriso radioso sentivo di aver fatto la cosa giusta, mentre sentivo le mie povere guance andare a fuoco.
Abbassai la testa torturandomi le mani in un completo imbarazzo. Odiavo il silenzio e in qualche modo doveva colmarlo.
«Tua madre ha modificato i nostri orari di lavoro sai? Dicono che è a causa della guerra.» iniziai a dire senza nessun senso logico. Mamoru però rimase ad ascoltare probabilmente fingendosi interessata, ma senza mai perdere il sorriso.
Gli raccontai delle mie opinioni riguardante la guerra che presto o tardi si sarebbe disputata. Quando iniziai ad insultare il sindaco della città mi parve di vederlo divertito e notai con gioia che aveva la stessa visione della vita. Come me anche lui non riusciva a vedere nulla di buono da questa alleanza se non innumerevoli perdite su tutti i fronti.
«In sintesi è un vero idiota» sentenzia concludendo il mio lungo monologo. Il giovane, che era rimasto ad ascoltare per tutto il tempo, annuì con lo sguardo. Sospirai sollevata avendo trovando in lui qualche con cui confidarsi e che aveva i suoi stessi ideali.
«Concordo» confermò sorridendomi.
Ricambiai il sorriso mentre mi portavo il polso sul viso controllando l’ora. Erano le sette passate ed era il momento di ritornare in camera.
«Adesso devo andare» dissi alzandomi dalla panchina e volgendogli le spalle. Quando stavo per varcare l’angolo sentii la sua voce chiamarmi.
«Usagi!» urlò facendomi voltare. A passo veloce di avvicinò guardami negli occhi. «Posso ancora rivederti?»
Mi fermai sul posto non sapendo come rispondere.
“Digli di no” diceva la mia testa, ma il cuore quella sera non voleva proprio controllarsi.
Annuii con lo sguardo sentendo nuovamente la guance andare a fuoco e mi voltai verso la parte opposta. Non volevo vedere il suo viso perché sicuramente, come me, stava sorridendo.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3804264