L'appel du vide

di Voglioungufo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio di un anno grandioso. ***
Capitolo 2: *** Best friend. ***
Capitolo 3: *** Overthinking ***



Capitolo 1
*** L'inizio di un anno grandioso. ***


Ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Proibisco la riproduzione, parziale o completa, della storia su qualsiasi sito esterno a EFP da parte di terzi.
 
 
 
 
I
L’inizio di un anno grandioso.

 
Una storia accaduta tanto tempo fa' altrove
forse non ci riguarda neanche...”
(Anonimo) 1

 

 
15 Settembre 2018.
Venezia, Ponte degli Scalzi.
 
L’acqua scura del Canal Grande riverberava la luce dei ristoranti lungo la sua riva, i palazzi si stagliavano scuri ai suoi lati, parzialmente inglobati dall’oscurità notturna.
A Simon, appoggiato con i gomiti al parapetto del Ponte degli Scalzi, sembrava di guardare direttamente su una cartolina. Avrebbe dovuto essere abituato ormai a quegli scorci, ma ogni volta Venezia aveva il potere di mozzargli il fiato. L’aria era tiepida, ancora estiva nonostante fosse settembre inoltrato, vista l’ora tarda i turisti che attraversavano il ponte erano davvero pochi e lui poteva godersi quel momento di tranquillità in uno dei punti più trafficati di Venezia.
 “Brutto… Proprio in cima al ponte più ripido dovevamo trovarci?!”
La tranquillità fu spazzata via nella frazione di un secondo. Un poco riluttante, Simon distolse lo sguardo dalla curva sinuosa del canale e si girò a fronteggiare il suo migliore amico.  
Leonardo era piegato in avanti, una mano appoggiata sul fianco e il volto chiazzato di rosso, sudato come se avesse appena corso la maratona; invece aveva solo trascinato le due pesanti valigie e il borsone che gli pendeva da una spalla su per il ponte.
“Preferivi il Calatrava?” domandò divertito. Si era ripromesso di non sorridere, di mostrarsi distaccato al suo ritorno, ma era impossibile mantenere una promessa del genere, erano mesi che non si vedevano.
A quella domanda Leo sbiancò. “Preferivo nessun ponte” bofonchiò.
“Richiesta difficile da accontentare a Venezia” gli fece notare, si appoggiò al parapetto con la schiena “Com’è andato il viaggio?”
“Bene, bene, il solito” rispose distratto, anche il suo sguardo venne calamitato dal luccichio di Canal Grande.
Simon approfittò di quel secondo per studiarlo e annotare tutti i cambiamenti di quei mesi di lontananza. I capelli mossi si erano fatti più lunghi, ora gli arrivavano alle spalle e avevano le punte bruciate dal sole; così anche la sua pelle era più scura, sembrava portare ancora i segni di una brutta scottatura. La maglia sportiva che indossava era sbiadita per i troppi lavaggi e aveva degli aloni scuri sotto le ascelle, gli stava leggermente tirata sul petto, ma nel complesso non sembrava essere affatto cresciuto. C’erano dei particolari differenti, ma non era cambiato poi molto, era sempre lo stesso Leo di tre mesi prima.
Leonardo lo beccò mentre era ancora assorto in quella minuziosa osservazione, spostò semplicemente gli occhi sul suo viso e Simon entrò in panico, convinto che gli si leggesse tutto dentro. Invece gli rivolse un semplice sorriso giocherellone. 
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Non mi dici qualcosa? Tipo, che so, che ti sono mancato, o bentornato o…”
“Sembri una principessa Disney con quei capelli” lo interruppe soffocando una risata. “Da quanto non li tagli?”
Aggrottò la fronte. “Be’, da un po’. E comunque, sarei una principessa più bella di te”.
“Non lo metto in dubbio” garantì scuotendo la testa, si staccò dal parapetto in marmo e si accucciò a prendere una delle due valigie. “Dai, andiamo. Ti ho aspettato per un’ora”.
“Esagerato, era un ritardo di dieci minuti”.
“Venti” precisò. “E tu ce ne hai messi altri venti a uscire dalla stazione e fare quattro metri”.
Leo emise un verso esasperato e alzò gli occhi al cielo, era tornato da appena cinque minuti e già aveva voglia di strangolarlo.
“Sei senza cuore” gli sbottò contro risentito. “Non ci vediamo da mesi e le uniche cose che fai è insultare i miei capelli e arrabbiarti per un piccolo ritardo”.
“Adesso non fare il permaloso” sollevò una valigia. “Che cosa ti aspettavi?”
Domanda sbagliata, quasi fece cadere la valigia giù per i gradini. Leonardo gli si era gettato addosso come un cucciolo di grizzly in carenza di affetto, stritolandolo in un abbraccio spaccaossa, il genere di contatto che Simon meno gradiva.
“Questo, scemo, mi aspettavo questo” precisò quando lo lasciò andare, gli diede una pacca sulla spalla. Prese l’altra valigia e cominciò a scendere i gradini con un sorriso soddisfatto.
“Ma dimenticavo che sei uno sociopatico”.
Lo fulminò con lo sguardo. “Sono riservato” corresse.
“Sì, sì, è uguale. Allora, scendi o resti lì con la mia valigia?” 
Sospirò rassegnato, ormai la pace delle vacanze estive era ufficialmente finita e lo aspettava un nuovo anno pieno di esasperazione, ansia, stress e istinti omicidi verso i suoi coinquilini.
Aveva fatto il conto alla rovescia in attesa di quel momento per tutta l’estate.
 
Simon Lunardi e Leonardo Triestini erano quelli che noi potremmo definire senza problemi amici d’infanzia, dal momento che il loro incontro era avvenuto il primo giorno di asilo e aveva coinvolto un pennarello colorato e la disputa su chi dovesse usarlo per primo. Nessuno dei due ricordava come fosse finita, certo era che da quel momento erano diventati inseparabili, l’uno l’ombra dell’altro manco fossero stati attaccati con la colla. In comune accordo, senza dire nemmeno una parola, avevano deciso di diventare migliori amici e lo erano stati fino al termine delle medie, quando la famiglia di Simon aveva avuto la brillante – leggesi con sarcasmo – idea di trasferirsi a Padova. Da lì la vita di Simon era stata molto solitaria: non era un tipo socievole; nonostante il suo bel faccino attirasse più di qualcuno deciso a legare con lui, la sua lingua era talmente tagliente da riuscire a tenere lontano qualunque scocciatore e le sue occhiate torve gli aveva fatto guadagnare la nomea di snob. Così Leonardo era stato il suo primo e ultimo amico, e i cinque anni del liceo erano passati tra la noia più totale e l’insofferenza familiare. Non era divertente avere fratelli geniali, una futura promessa della medicina mondiale e un’avvocatessa in grado di scagionare anche il diavolo, con i quali confrontarsi, con i quali venire costantemente paragonato. Forse era per quello che, spinto da un desiderio di distinguersi, aveva delineato il suo percorso universitario nel campo umanistico-filosofico ed era andato a Venezia.
Più chilometri stanno tra me e Padova più sono contento. 
Non aveva ancora ben chiara la seria di coincidenze che lo aveva portato a ritrovarsi con Leonardo. E non doveva avercela chiara nemmeno lui, considerato il modo spaesato con cui girovagava per la sede centrale di Ca’ Foscari il giorno dell’Open Day, come se non avesse la più pallida idea di come ci fosse finito lì. Si erano incontrati – più propriamente scontrati – e fissati in silenzio qualche secondo prima di riconoscersi e abbracciarsi. Cioè: Simon aveva formalmente alzato la mano per stringere la sua, Leonardo invece gli si era scaraventato addosso come un golden retriever abbastanza pesante ed esuberante.
Il loro incontro aveva schiarito le idee a Leonardo sul proprio futuro, fino a quel momento rimasto indeciso tra lo frequentare fisica o filosofia. Scoprendo che quest’ultima era l’opzione ventilata da Simon gli era stato fin troppo semplice decidere di abbandonare ogni pretesa sulla fisica e gettarsi a capofitto sulla filosofia. Si erano scambiati i numeri e per il resto dell’anno Leonardo lo aveva importunato con continui messaggi per capire come funzionassero le iscrizioni online, per la casa da affittare o anche semplici stupidaggini. Entrambi erano felici ed esterrefatti di aver ritrovato l’altro, quasi non lo avessero mai ritenuto possibile.
Quel fatto non aveva fatto altro che triplicare l’entusiasmo di Simon di iniziare l’università, a maggior ragione non vedeva l’ora di lasciare Padova.
A volte si chiedeva se l’Università gli sarebbe apparsa comunque così piacevole, quasi divertente, senza Leo; o se al contrario l’avrebbe odiata, finendo per chiudersi anche lì una grigia monotonia con il solo pensiero degli esami.
Ma era inutile pensarci, si erano ritrovati e contava solo questo.
 
 
Santa Croce, San Giacomo dell’Orio.
 
Leonardo parlò per tutta la strada fino al loro appartamento, cianciando sull’estate passata. Metà delle cose che gli stava dicendo gliele aveva già raccontate per messaggio, ma non si lamentò più concentrato, piuttosto, a portare la valigia attraverso i ponti. Nonostante l’ora tarda c’erano ancora dei ristorantini aperti con turisti a cenare; il caldo fuori stagione dava l’idea che fosse ancora estate. A Simon non andava molto a genio, tendeva a sudare molto, e in quel momento la fatica lo aveva reso fradicio sotto la maglietta. 
Erano fortunati di non dover fare troppa strada, visto che l’appartamento che avevano affittato si trovava a dieci minuti – e due ponti – dalla stazione. Era in una delle corti adiacenti al campo di San Giacomo dell’Orio, nel sestiere di Santa Croce, una grane piazza con ristorantini eleganti, panchine, alberi, una coop e la vecchia chiesa del nono secolo, una delle più antiche di tutta Venezia. Di giorno era abitata da bambini che giocavano a calcio e attentavano alla vita dei passanti con le loro pallonate, era un posto abbastanza vivace e una bella zona dalla quale era possibile raggiungere i punti più importanti di Venezia in poco tempo.
Era stato il padre di Leonardo a trovare l’annuncio in un sito internet: una mansarda doppia, con bagno privato annesso, a un prezzo abbordabile e spese incluse. Leo aveva girato subito la notizia a Simon, che senza perdere tempo aveva contattato l’affittuaria. La donna, però, gli aveva dato a sua volta il numero di un’altra ragazza con la quale accordarsi. Era una delle coinquiline di quella casa, colei che si occupava della scelta dei nuovi coinquilini al posto della legittima padrona. Simon ricordava di aver parlato con il ricevitore staccato dall’orecchio senza il vivavoce, da quanto era squillante la voce della ragazza. Erano stati al telefono una mezzoretta, in cui gli aveva chiesto chi fosse lui e il suo amico, per quanto tempo avevano intenzione di affittare, che facoltà frequentassero e qualche altra nozione in generale. Aveva poi dato loro un appuntamento per un incontro di persona.
Quello era stato il suo primo approccio con Arianna. 
Simon ringraziava di essere stato lui a contattarla, perché con il suo tono formale ed educato le aveva fatto una buona impressione e all’incontro era partita molto favorevole nei loro confronti, nonostante di solito tendesse a depennare istantaneamente le matricole. La simpatia di Leo e il suo modo affabile di comportarsi avevano fatto il resto e alla fine dell’appuntamento li aveva portati a vedere la mansarda e il resto della casa. Era molto grande, anche se una parte non era accessibile agli affittuari. C’erano altre due camere, una doppia e una singola, entrambe occupate; una cucina comune provvista di lavastoviglie, microonde e lavatrice; un bagno comune e un salotto con una grandissima libreria. Dalla cucina partivano delle scale ripidissime che portavano alla soffitta e alla mansarda, un ambiente spazioso, con le pareti azzurre e un paravento orientale che lo divideva dal bagno adiacente. L’unico problema: Simon aveva rischiato di sbattere la testa appena entrato nella tolette dall’alto del suo metro e ottanta. Leo, che invece aveva giusto dieci centimetri in meno, dalla sua bassezza lo aveva preso in giro ridendo a crepapelle.
Problemi di altezza a parte, la stanza era funzionale, semplice e accogliente: esattamente quello che i due neo-studenti cercavano. Il prezzo era più che equo e nemmeno una settimana dopo avevano firmato entrambi il contratto e fatto la conoscenza con gli altri coinquilini. La mansarda era diventata il posto dove tornare dopo le lunghe lezioni, da chiamare ‘casa’ e per Simon lo era molto di più di quella a Padova, dove tornava solo quando costretto.
Anche se all’inizio abituarsi agli altri coinquilini era stato decisamente traumatico.
 
“Guardate quale pecorella smarrita è tornata all’ovile!” 
Furono le prime parole che li accolsero quando aprirono la porta fradici di sudore e mezzi morti per le valige. Stando a quello che aveva detto Leo, dentro c’erano soprattutto cibi congelati che sua madre si era premurata di preparare perché l’amato figliolo non morisse di fame.
“Se invece di stare fermo lì e basta…” fu la replica di Leo ancora a metà della scalinata del pianerottolo.
Giovanni, studente fuori corso dell’Accademia delle Belle Arti, con il suo meraviglioso grembiule sporco di pittura, alzò un sopracciglio e sospirò melodrammatico.
“Oh, per due ponti tutta questa lagna. Simon, ti vedo un po’ sudato”.
Lo incenerì con lo sguardo asciugandosi la fronte con il dorso.
Leo scavalcò Simon senza tante cerimonie per andare ad abbracciare anche Giovanni, ma si bloccò appena lo vide.
“I tuoi capelli sono… verdi?” domandò. “O è la luce?”
Si prese una ciocca lunga e fece un sorriso compiaciuto. “No, sono proprio verdi. Li ho tinti questa estate.”
Leonardo era inorridito. “Li hai anche rasati! Dove sono i tuoi lunghissimi capelli da Rapunzel?”
Giovanni era un po’ eccentrico del modo di vestire e comportarsi, l’anno prima i suoi capelli erano di un castano chiaro naturale e lunghi fino alla vita, sani e forti come quelli di una modella, invidiati da qualsiasi ragazza. Quando Simon era tornato e lo aveva visto con metà cranio rasato e l’altro metà verde aveva quasi infartuato.
“A un’associazione che fa parrucche per persone malate di cancro” disse fieramente. “Comunque, vedo che ora la principessa di casa sei tu, Merida” lo prese in giro per gli arruffati capelli troppo lunghi.
“Eh, devo andare a sistemarli” borbottò corrucciato, Simon lo superò con una smorfia di fatica trascinando la valigia.
“Restiamo in entrata per sempre o le portiamo su?” domandò seccato.
“Arrivo, arrivo!” assicurò.
Giovanni li guardò ridacchiando. “Fra un po’ tornano anche Ary e Marghe, ceniamo insieme?”
Si era dimenticato degli orari assurdi in cui cenavano, ma non aveva mangiato niente a causa del viaggio quindi annuì prima di seguire Simon verso la cucina e poi su per le ripide scale.
Finalmente a casa.
 
“Marghe… Giovanni intendeva Margherita, quella nuova dal Giappone?” domandò Leo mentre svuotava la valigia.
Simon annuì, lo guardava seduto sul suo letto a gambe incrociate.
“È arrivata una settimana fa”.
“Com’è? Simpatica? Carina?” sciorinò come la peggior pettegola al bar.
Alzò gli occhi al cielo. “È un po’ timida, ma Giovanni è convinto sia una copertura. Secondo lui fa finta per poterci mettere nel sacco e conquistare il controllo della casa”.
“E questo lo pensa perché…?”
“L’ha vista mentre leggeva un hentai”.
Leo si bloccò. “Serio?”
“Così dice” fece spallucce.
Scoppiò a ridere di gusto mentre spingeva la valigia vuota sotto il letto per nasconderla. “Che idiota. Ora sono curioso di conoscerla”.
“Perché legge gli hentai? Scemo” si unì piano alla risata. “Vuoi una mano a sistemare le tue cose?” gli chiese vedendolo in difficoltà con i vestiti e le cianfrusaglie che si era portato dietro.
“Eh, magari. Quest’anno voglio essere ordinato e tenere le cose al loro posto, senza invadere la tua zona”. 
Inarcò un sopracciglio davanti a quella frase irrealizzabile.
Nonostante dividessero la stanza, la mansarda era quasi del tutto occupata dal disordine di Leo. Lui ci provava a fare ordine, sul serio, ma aveva così tanti affetti personali che inevitabilmente finiva per occupare anche lo spazio di Simon. Non che all’amico dispiacesse, lo aveva lasciato fare anche se un poco infastidito, ma la verità era che tanto quegli spazi non gli servivano.
Se Leo era un 
accumulatore seriale, che faticava perfino di liberarsi delle borse di plastica della coop, Simon ne era il suo esatto opposto: meno teneva con sé, più si sentiva soddisfatto. Era come se il suo obiettivo fosse passare del tutto inosservato, sgravarsi di ogni peso e non lasciare tracce dietro di sé. Non teneva mai niente per ricordo, si sbarazzava dei libri appena li leggeva e vendeva gli appunti universitari appena l’esame terminava; usava pochi vestiti e solo per una stagione, poi li rivendeva nei siti internet per comprarne di nuovi. 
Occupava così poco spazio che a volte si aveva l’illusione che la mansarda fosse abitata da un solo ragazzo .
Le uniche cose che aveva sempre tenuto con sé erano il quaderno da viaggio con gli appunti di sua madre, gli occhiali e la stilografica. Quest’ultima, in realtà, era un arrivo recente, dal momento che prima tendeva a usare penne che perdeva in continuazione. Era stato Leo con gli altri coinquilini a regalargliela, l’unico regalo che avrebbe accettato, e da allora non aveva più perso la penna.
Per questo motivo a Leo Simon era sempre sembrato una figura solitaria in una distesa di neve durante una nevicata: ogni suo passo veniva all’istante cancellato dai fiocchi e niente lasciava indovinare il suo passaggio.

“Questo è nuovo?”
Leo tornò a concentrarsi sul presente, Simon aveva preso la scimmietta che aveva comprato da Tiger.
“Oh, sì!” allargò il sorriso e tese una mano per farsela passare “Me l’ha regalata Teresa l’ultimo giorno ad Atene. Si chiama Hilary Putnam2” lo informò.
Lo guardò incolore. “Non ti chiederò perché ha il nome di uno dei più grandi pragmatisti del Novecento”.
“Guardala, hanno la stessa faccia!” quasi gliela spiaccicò sugli occhi.
Cercò di scostarsi e nascondere la smorfia divertita. “Perché tu conosci di persona Putnam, ovviamente”.
Leo aveva questa strana passione per i pupazzi e i peluche in generale, ma ancor di più sembrava divertirlo dar loro nomi di imminenti filosofi e scienziati. Ma Leo dava un nome a qualsiasi cosa, perfino il loro gabinetto aveva un nome, era quasi tenero il modo in cui si affezionava agli oggetti più disperati. A Simon piaceva immaginarlo come una fonte inesauribile di affetto e quando non c’erano più essere umano da caricare, allora si concentrava anche sugli oggetti inanimati.
Lo aiutò a disporre i suoi peluche e i libri sui comodini, i vestiti nei cassetti e nell’armadietto che avevano in comune, poi lo aiutò con le lenzuola a fare il letto. Nel giro di dieci minuti, la mansarda non fu più vuota come lo era stata in quella settimana di solitudine, ma finalmente sembrò essere abitata da qualche essere umano.
Per ultimo, appoggiò il leone Marco sul copriletto. Era il suo pupazzo preferito e non si vergognava ad ammettere di dormirci ancora la notte. Ho bisogno di abbracciare qualcosa, era la sua spiegazione. L’anno prima era capitato lo dimenticasse a casa, aveva avuto una mezza crisi e poi se lo era fatto portare dalla sua ragazza.
Da sotto venne un rumore di padelle e piatti seguito da qualche risata.
“Stanno cucinando?”  domandò Leo.
“Direi di sì” aprì la porta e annusò l’odore di cibo, anche lui doveva ancora cenare. “Scendiamo?”
“Scendiamo” confermò.
  
In cucina c’era Arianna, mestolo in mano e caschetto corto alle orecchie, i capelli erano ancora più chiari di quanto ricordasse, ormai rasentavano il platino.
“Bentornato, Leo!” salutò senza girarsi. “Va bene se facciamo una semplice pastasciutta? Non c’è granché in frigo” rise.
La ignorò per andare ad abbracciarla di spalle.
“Mi sei mancata” ammise. “Non c’era nessuno che mi riprendeva per la mia dieta squilibrata”.
Arianna si girò stando attenta a non far gocciolare il mestolo e ricambiò l’abbraccio allacciandogli le braccia al collo.
“Ah, puzzi” considerò arricciando il naso. “Vai a farti una doccia finché l’acqua bolle” gli consigliò.
“No, dopo, dopo” ciarlò. “Prima voglio vedere questa Margherita”.
“È di là, in sala, sta facendo la tavola” gli spiegò. “C’è anche Gio’ con lei”.
“No, lui l’ho già visto”affondò la testa sulla sua spalla affranto. “I suoi capelli da principessa non ci sono più”.
“Già, una grande perdita” gli diede una pacca sulla schiena. “Ma si va avanti”.
Simon li guardò in silenzio, poi aprì uno stipetto in cerca del sugo.
“Ti stanno facendo fare tutto da sola?” domandò. “Ti aiuto”.
“Ma no, lascia stare, faccio io”.
Non l’ascoltò e svuotò il sugo su una padella per scaldarlo. La cucina era piccola, in tre era scomodo starci, perciò Leonardo svincolò subito andando in salotto per incontrare questa fantomatica nuova coinquilina.
“Va?” domandò Arianna appena fu andato.
“Ha già invaso tutta la stanza” sospirò rassegnato .“Margherita, invece? Sei riuscita a farla parlare?” 
Sbuffò. “Dio, se parla! All’inizio no, ma è bastato fare le giuste domande perché partisse come un razzo. Se Leo e Gio trovano un modo per sbloccarla come ho fatto io… be’, auguri” fece spallucce.
E così il numero di logorroici in quella casa si alzava a tre, Simon valutò se potesse affogare nel pentolino dell’acqua. A lui piaceva il silenzio, lo spazio vuoto e la solitudine. Già era stato difficile abituarsi a dormire con un’altra persona in camera, a sentire il suo respiro nel sonno, ma la parte peggiore era stato Giovanni che gli parlava alle nove di mattina tutto sveglio e pimpante. All’inizio con lui era stata guerra aperta, aveva dovuto passare del tempo perché imparasse ad apprezzarlo e ad approcciarsi senza volerlo decapitare un minuto dopo.
Se” marcò. “A me piace così zitta e silenziosa, non vedo perché cambiare la situazione”.
Ricevette uno sguardo intenerito e insieme esasperato. “Facciamola sentire a casa sua, va bene? Dobbiamo essere una famiglia”.
Bofonchiò qualcosa e assaggiò la pasta per assicurarsi della cottura.
“Può fare quella silenziosa e timida”.
“Per quella parte abbiamo già te” gli ricordò ridendo. “Non ci serve un altro musone”.
“Non…”
“Hai ragione, adesso che è tornato Leo lo sei un po’ meno” e gli rivolse un’occhiata eloquente.
Si finse troppo concentrato a scolare la pasta per rispondere, gli occhiali che portava si appannarono per il calore e imprecò, aveva dimenticato di non avere le lenti. Era una talpa, gli mancavano ben sette diottrie e anche fare l’azione più semplice gli risultava impossibile senza gli occhiali; per questo motivo preferiva portare le lenti a contatto, erano più funzionali e gli permettevano una vista perfetta a trecentosessanta gradi.
Divisero la pasta sui piatti, poi Arianna chiamò a gran voce qualcuno dal salotto perché potesse arrivare ad aiutare. Giovanni fu lì in qualche minuto, con uno sguardo perplesso e i capelli raccolti in un codino. Uno degli zigomi affilati era sporco di giallo.
“Sto assistendo alla nascita di una storia d’amore?” domandò confuso indicando il corridoio, da cui provenivano le voci di Leo e Margherita. “Dovremmo avvertire Teresa, che il suo ragazzo la sta tradendo?” 
Simon entrò subito in ansia, senza dire niente prese due piatti e andò veloce in salotto per assicurarsi che Giovanni fosse esagerato come suo solito.
Trovò Leo e la nuova ragazza seduti vicini sulle sedie, ma stavano solo parlando e Margherita sembrava anche un poco in soggezione davanti alla parlatina inarrestabile dell’altro. Si sentì piuttosto stupido per aver irrotto nella stanza così bruscamente, con in mano i piatti di pastasciutta fumanti.
“Uhm, è pronto” borbottò sotto i loro sguardi perplessi.
“Ah, che bello!” Leo prese il proprio con un sorriso enorme. “Stavo morendo di fame”.
Mentre passava il piatto a Margherita si accorse che aveva il volto un poco paonazzo e anche quando lo ringraziò bisbigliò pianissimo. Continuava a lanciare piccole occhiate di sfuggita a Leo, nonostante l’imbarazzo ne sembrava affascinata. Simon temette che Giovanni non avesse esagerato prima, del resto era davvero facile rimanere ammaliati dai modi di fare di Leo sempre così spontanei e amichevoli. L’anno prima molte ragazze si erano prese una cotta per lui, ma Leo le aveva sempre rifiutate gentilmente, del resto era già impegnato con la stessa ragazza da due anni.
“Stavo chiedendo a Marghe se poteva tradurci le scan di Attack on Titan in giapponese, senza aspettare quelle in inglese” spiegò tutto contento.
“Attack on Titan?” domandò Giovanni presentandosi anche lui alla tavola. “Mah, sono abbastanza certo che lei preferisca un altro genere di manga. Giusto?” le sorrise compiaciuto come un gatto che ha mangiato un topo.
La ragazza distolse lo sguardo e mescolò la propria pastasciutta con la forchetta senza rispondere alla domanda. Giovanni sembrava voler insistere, ma Arianna gli pestò un piede prima che potesse aprire nuovamente quella sua bocca larga.
“Buon appetito” augurò ignorando lo sguardo risentito del coinquilino, poi fece un sorriso dolce. “Ora ci siamo tutti” considerò fra sé.
 
Entrambe le finestre erano aperte, ma la brezza non era ancora sufficientemente fredda da far abbassare la temperatura nella stanza, anche quella notte Simon decise di dormire solo con i pantaloncini del pigiama. Era steso sul letto ad ascoltare la musica dal telefono, l’orologio segnava pochi minuti all’una e mezza, aveva un po’ di sonno ma voleva aspettare che Leo finisse di lavarsi per andare a letto. Non riusciva a dormire con la luce accesa e il più piccolo rumore lo faceva sempre sobbalzare. 
Dopo la cena Leonardo si era dileguato in soffitta per rispondere alla chiamata della sua ragazza, erano rimasti al telefono per un’ora. Simon aveva fatto in tempo a sparecchiare, litigare con Giovanni e sistemare la cartella per il giorno dopo. Era un poco infastidito da quella lunga chiamata, Leo aveva visto Teresa prima di partire, che mai era successo di nuovo da trattenerlo così tanto a telefono?
Quando poi era tornato nella stanza aveva dovuto farsi una doccia ed era rimasto nella vasca per un tempo infinito. Gli seccava, perché aveva sperato di guardare un film insieme, ma ormai era troppo tardi.
“Ehi, ci guardiamo qualcosa?”
Simon aprì un occhio, aveva alzato il volume così tanto che non si era nemmeno reso conto che l’altro aveva finito ed era uscito dal bagno. Indossava solo i boxer, aveva un asciugamano sulle spalle e i capelli gocciolanti. L’ultimo ricordo che aveva di lui alle medie era di un ragazzo un poco rotondetto, un orribile taglio di capelli alla Justin Bieber e un volto puntellato dall’acne. Quando lo aveva rivisto dopo cinque anni tutto quello che aveva pensato era stato: beata pubertà.  Ma forse più che pubertà era stata la palestra e il cambio di taglio, anche se aveva ancora un po’ di brufoli sulle guance era diventato decisamente molto più bello.
“Qualcosa tipo un film?” domandò togliendosi le cuffie. “È troppo tardi, potevi metterci di meno”.
Leo fece una smorfia e si sedette sul letto accanto alle sue gambe.
“Non posso andare a letto con i capelli bagnati, dopo mi viene il torcicollo”.
“Asciugali con il phon”.
“Con questo caldo? Tu sei fuori” agitò la mano vicino alla testa. “Dai, tanto domani la prima lezione è a mezzogiorno”.
“Non è una scusa per restare a letto fino alle undici. Anche perché domani mattina volevo lavarmi”.
Leo sbuffò. “Nemmeno se propongo La strada per El Dorado?”
Assottigliò gli occhi, era il loro cartone preferito quando erano bambini, sapevano ancora tutte le battute a memoria e nonostante ciò continuavano ad agitarsi davanti ai colpi di scena. 
“Ti odio. E usiamo il tuo computer”.
Un sorriso soddisfatto dipinse le labbra sottili dell’amico. Prese il computer e andò a stendersi sul letto accanto a lui, lo bagnò un poco per i capelli ancora umidi ma non si lamentò. Leo era l’unico essere umano che poteva vantarsi di invadere il suo spazio vitale e sopravvivere.
“Se domani non sei giù dal letto entro le nove e mezza ti getto un secchio d’acqua addosso” lo minacciò.
“Me lo dici ogni volta”, fece partire il film, “ma poi riesco sempre a restare a letto fino alle dieci”.
Rimasero in silenzio a guardare le scene, Leo teneva uno dei suoi peluche stretti al petto e si agitava per ogni piccola cosa.
“Sono felice di essere qui” disse Simon a metà film.
Leo ne fu sorpreso, perché raramente si lasciava andare a confessioni del genere, era solito calibrare bene ogni propria parola piuttosto che dire tutto quello che gli passava per la testa. Quindi capì che quell’ammissione era importante.
“Anche io, Sy” gli assicurò e spostò lo sguardo fuori, sullo spicchio di cielo nero che si vedeva oltre le finestre. “Sarà un anno grandioso”.
 
 
 
 
Note:
1 – Frase anonima trovato sotto un video youtube della canzone Venezia di Guccini, questo per intenderci.
 
 
 
So che queste note avrei dovuto farle all’inizio del capitolo, ma temevo che chi non mi conoscesse scappasse via nello scontrarsi con i miei… problemi di comunicazione(?).
Fin’ora ho utilizzato EFP per pubblicare le mie frociate su Naruto, è la prima volta che pubblico qui un’originale. È una storia che ci tenevo a scrivere, perché affronta un tema a cui sono molto vicina, ovvero: l’accettazione della propria sessualità. Sono bisessuale, ma mi ci sono voluti ben due anni di dubbi e interrogativi pieni di pregiudizi per giungere a questa conclusione. Può sembrare ridicolo, ora per me lo è decisamente perché è una cosa così semplice e ovvia, ma nel mentre è stato un dramma che mi ha scombussolata non poco. Questa storia nasce quindi per me, una sorta di catarsi, e per chi magari ha dovuto affrontare un percorso simile.
Tutto questo sproloquio solo per spiegare quanto questa storia sia importante per me, ma soprattutto per avvertirvi di tutta l’agitazione e l’ansia da prestazione che mi mette addosso, chi mi ha tra gli amici su facebook ne ha già avuto un assaggio (mi dispiace).
Passiamo ai fatti puramente casuali: come dire, quando scrivo pesco molto dal mio vissuto personale e nemmeno questa storia si salva. Giusto per fare un esempio: io vivo in una mansarda a San Giacomo dell’Orio – ma no, i personaggi principali non prendono spunto dalle persone che mi circondano, su questo posso rassicurarvi.
Ho altro da dire? Sicuramente c’è altro, ma non mi viene in mente, ops.
Quindi vi lascio, ho anche parlato troppo. Spero che possiate apprezzare questa storia, ci sto mettendo decisamente troppo cuore  e troppa ansia. Le recensioni sono sempre gradite, sono le migliori pillole anti-stress che conosca <3
 
Hatta
 
  

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Capitolo 2
*** Best friend. ***


 
II
Best friend.
 
 
 
“And that’s because I wanna be your favorite boy
I wanna be the one that makes your day”.
(Rex Orange County, Best friend)1
 
 
 
 
 
16 Settembre 2018
Corte dell’anatomia, Mansarda.
 
Secondo Simon non esisteva niente al mondo che fosse più antiestetico del guardaroba di Leonardo; sapeva già quanto l’amico fosse terribile nell’associare colori o scegliere il vestiario, ma ogni volta riusciva a stupirlo sempre in peggio.
“Da dove viene quella?”
Leo guardò la propria camicia hawaiana con la fantasia di tanti piccoli ananas.
“Me l’ha presa mamma” disse compiaciuto.
Giustamente il suo cattivo gusto era ereditario. Non pensò nemmeno di fargli notare quanto fosse orribile, era una causa persa in partenza e, per quanto fosse soddisfacente dimostrare di avere ragione, una discussione dialettica appena svegli era fuori discussione. A Simon piaceva argomentare, disporre razionalmente e dimostrare le proprie tesi, ma raramente lo faceva con qualcuno; quando si era iscritto a filosofia aveva creduto di poter partecipare ogni giorno in dibattiti del genere, ma aveva presto dovuto riconoscere che per lui era impossibile: ogni volta veniva tacciato come un arrogante insensibile. Ma non era colpa sua se gli altri erano permalosi e incapaci di tenere una conversazione sullo stesso piano intellettivo. Fortunatamente questo non succedeva con Leo, era l’unico in grado di tenergli testa – anche se poi perdeva sempre – e non se la prendeva per essere corretto e confutato malamente.
Leonardo era una delle persone più curiose che avesse conosciuto, la sua mente era talmente vivace che bastava una farfalla a fare scattare in lui un qualche meccanismo che lo portava al formulare un’idea. Per questo era sempre disponibile a partecipare una discussione e ascoltare suggerimenti che potessero portarlo a una soluzione. Peccato che avesse la stessa capacità di concentrazione di un bambino.
Nonostante il caldo persistente, Simon non aveva nessuna intenzione di imitare Leo e presentarsi in ateneo con una camicia hawaiana dalla discutibile fantasia e i bermuda da spiaggia, perciò sopportò stoicamente i jeans lunghi e la polo. Non gli piaceva essere appariscente nel vestire, cercava di evitare le fantasie e i colori del suo armadio erano una gradazione di neri, bianchi e grigi. Ma andando in giro con quel colorificio ambulante di nome Leonardo era impossibile passare inosservato come avrebbe voluto.
Se ai bermuda aveva semplicemente fatto una smorfia, quando vide che aveva intenzione di indossare le infradito non riuscì a trattenersi.
“Non ci provare” ringhiò. “Non stiamo andando al Lido”.
“Ma fa caldo”.
“Non morirai per delle converse” lo liquidò.
In cucina c’era Giovanni a fare colazione nonostante fossero passate le undici. Portava la sua vestaglia verde scuro lunga fino alle caviglie, sotto la quale sbucavano le ridicole pantofole di Tiger a forma di fenicottero.
“Le matricole lasciano il nido?” domandò serafico mentre spalmava la marmellata sul pane.
“Non siamo più matricole” protestò Leo con una smorfia offesa.
“Illuso. Si smette di essere matricole solo quando si va fuori corso” sentenziò serio.
“Come te?” lo beffeggiò Simon.
La frecciata andò a segno dalla faccia indisposta che fece e dal guizzo che aveva avuto la sua mano pareva anche voler esercitarsi nel lancio del coltello. Fu salvato dall’entrata in scena di Margherita, per metà nascosta dal catino di panni sporchi che teneva con entrambe le braccia.
“Oh… scusa” mormorò nell’accorgersi di aver urtato la spalla di Simon.
Scosse la testa per farle capire che era tutto a posto e afferrò Leo per il colletto. “Andiamo, si sta facendo affollato qui”.
“Ciao Margherita! Ciao Eterno Fuoricorso!” gridò prima di essere trascinato via ed evitare così la fetta biscottata che si schiantò sulla parete.
 
 
 
Dorsoduro, Università Ca’ Foscari.
 
Il sole picchiava tra le calli perpendicolare, percorsero la strada che li separava fino all’’università cercando di stare all’ombra, ma con le masse di turisti singoli o in gruppo era una missione molto ardua.
“Avevo dimenticato quanto li odiassi” borbottò Leo quando una coppia si fermò di colpo per fotografare una casa.
Simon era d’accordo su tutta la linea, ma in cuor suo non poteva non capire per quale motivo i turisti si fermassero ogni tre passi a fotografare. Le case si allungavano sulle case strette in modo incantevole, con i loro colori pastello un poco sbiaditi dal tempo, i particolari delle ringhiere i panni appesi sui fili da una finestra a all’altra; il riflesso poi dell’acqua del canale sulle finestre, le porte che terminavano sull’acqua e i graziosi ristoranti creati proprio perché si incastrassero alla perfezione in quelle piazzette con il pavimento in pietra levigata. Ogni scorcio, ogni ponte e ogni finestra aveva la sua esigenza di essere fotografata. Con il sole e il cielo azzurro tutto aveva un colore più vivido.
“In che aula è la lezione?” domandò Leo quando arrivarono nella zona di San Basilio. Non gli piaceva quella sede dell’università, i casermoni in mattoni rossicci erano anonimi, sembravano appartenere a una fabbrica inglese. In più nella strada in cemento c’erano anche delle macchine, ogni volta si chiedeva come fosse possibile, come facevano a raggiungere quella zona? Volando?
Però San Basilio aveva anche i suoi aspetti positivi, come i tramonti. Il cielo si colorava sempre di un rosso acceso mentre il sole sembrava venire inghiottito dal canale della Giudecca.
“Aula 2B, dobbiamo trovare l’edificio” riferì diligente Simon. L’anno prima avevano frequentato davvero poco quella zona, solitamente usavano la sede vicina di San Sebastiano, che al contrario era un ambiente meraviglioso e molto più particolare.  Però a San Basilio c’erano disegnata a terra delle sagome di persone fatte con il gessetto, come quelle nelle scene dei crimini. Secondo la leggenda erano le sagome degli alunni che per la disperazione si gettavano dal secondo piano, quella spiegazione faceva sempre morire dal ridere Leo.
Erano in anticipo, perciò si misero sul corridoio esterno ad aspettare, appoggiati alle ringhiere.
“Estetica” annunciò Leo con lo sguardo al cielo terso. “La materia teoretica che si occupa del bello artistico e naturale. Non vedo l’ora di iniziarla!”
Simon sembrava meno entusiasta. “Hanno detto che fa lo stesso programma da anni e che non è molto…”
“Coinvolgente”.
Si girarono verso la persona che aveva sia interrotto che completato la frase, Leo con sorriso enorme, Simon più rassegnato.
“Marco, da quanto!” lo salutò “Anche tu segui estetica?”
Il ragazzo, un loro coetaneo che aveva conosciuto l’anno prima che sembrava essere uscito da una squadra di football americana, annuì. “Sì, è in programma. Ma penso che seguirò solo il primo modulo visto il casino dell’anno sabbatico”.
Simon si staccò dal parapetto e si fece più attento. “Quindi è vero”.
“Che cosa? Che anno sabbatico?” domandò Leo.
“Non hai visto nel sito?” domandò Marco sistemandosi gli occhiali da sole sui capelli castani.
“Ovvio che no” lo precedette Simon, poi spiegò: “La professoressa da Novembre andrà in anno sabbatico, quindi il secondo modulo è stato rimandato nel prossimo semestre. Non so se hanno trovato un supplente”.
“No, non lo hanno trovato” garantì Marco.
Nel frattempo la gente che stava aspettando la lezione aumentava sempre di più, fino a diventare una vera e propria folla. Qualcuno era fermo perfino sulle scale ad aspettare e il brusio si era fatto più insistente.
“Ma a filosofia siamo stati sempre così tanti?” domandò Leo ridendo, l’ultima volta che aveva visto così tanta gente fuori da un aula in anticipo era alla prima lezione di Storia della Filosofia.
“Ma no, sono quasi tutti di Beni Culturali” rise anche Marco. “È un corso in comune. Per questo è poco entusiasmante, la professoressa non può entrare troppo nei dettagli”.
Simon fece una faccia esasperata. “Quindi è un corso mediocre”.
Al suo contrario Leo contrasse le sopracciglia e si agitò.
“Non ha senso partire prevenuti, magari sarà interessante. Nel programma ho visto Kant!”
Kant era l’eroe di Leonardo, era grazie a lui che aveva iniziato ad appassionarsi anche alla filosofia oltre che alla fisica e astronomia. Era rimasto affascinato dal suo realismo empirico al punto che aveva letto le critiche per conto proprio, capendole solo per metà. Purtroppo aveva dovuto riconoscere che lo stile di scrittura di Kant era piuttosto pesante e tutt’altro che piacevole, però sapere di affrontarne una in un corso lo aveva emozionato.
“Sì, Kant spiegato a chi non studia filosofia. Lo semplificherà” Simon distrusse tutte le sue aspettative con un solo commento.
“Non è detto” borbottò.
Sulle scale ci fu un gran scompiglio che attirò la loro attenzione, qualche studente protestò per essere stato malamente gettato contro il muro e un altro disse qualcosa di offensivo. La risposta acida che ricevette tolse qualsiasi dubbio su chi potesse essere la persona che aveva creato quel piccolo caos.
“Oh, ma ragazzi! Ci siete anche voi? Mica potevate scriverlo nel gruppo, no eh?”
Se Marco fece un sorriso ammiccante e Leo alzò una mano per battere il cinque alla ragazzina appena arrivata, Simon si chiese se valesse la pena aggiungere una nuova sagoma a quelle già sul cemento.
Nella sua vita aveva trovato poche persone prepotenti come Giada, la ragazza che si era fatta strada sulla calca con la forza. Forse prepotente non era la parola giusta, visto che si limitava a essere una ragazza molto schietta, con un forte orgoglio e nessuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa dagli altri, ma questo suo atteggiamento sfrontato la portava spesso ad attaccare briga con gli altri, esattamente come era successo con Simon. Non era bravo con le persone, raramente scendeva dal suo piedistallo per cercare di capire le ragioni errate degli altri e una cosa del genere caratterizzava anche Giada, che dall’alto della sua Torre d’Avorio fronteggiava chiunque senza cedere terreno. Avevano litigato così tante volte che ormai avevano rinunciato a intraprendere una conversazione civile.
Come l’anno scorso era accompagnata da un alto e sottile ragazzo vestito di nero da capo a piedi, un’espressione funesta sul volto magro. Aveva approfittato dello scompiglio creato dalla ragazza per fare le scale con calma senza essere oppresso dalle altre persone. Come al solito, attorno alla sua figura alleggiava un’aurea gelida a triste, quella caratteristica gli aveva fatto guadagnare il doppio nome di Dissennatore e Schopenhauer, di quest’ultimo condivideva anche il nome: Arturo.
Se con Giada era impegnato in una guerra irrisolvibile, al contrario Simon apprezzava sinceramente Arturo per il suo silenzio e il suo parlare solo dopo aver soppesato attentamente la situazione; le domande che faceva in classe erano sempre mirate e precise, spesso lasciando sorpresi e compiaciuti i vecchi professori.
“Sì, ho scritto questa mattina per sapere i vostri corsi” spiegò Giada agitando il telefono. “Meglio affrontarli insieme, no?”
Leo prese il proprio huawei scassato e con la pellicola protettiva distrutta. “Oh, non abbiamo visto. Sono quasi le dodici” annunciò rintascandolo.
“Dopo questo avete altro?”
Simon e Marco scossero la testa, mentre Leo annuì.
“Teoretica”.
“Anche noi” Giada ricambiò il sorriso. “Credevo lo avessi frequentato l’anno scorso”.
Leo sorrise imbarazzato. “Sì, ma… non ho dato l’esame. Non mi sono organizzato bene, preferisco seguirlo di nuovo”.
Con sorpresa Arturo prese la parola.
“Quest’anno porta Kant, secondo il sito. I suoi studi vertano soprattutto su di lui, potrebbe essere interessante”.
Simon si chiedeva come fosse possibile che Giada e Arturo girassero insieme, visto che erano perfettamente opposti per modi di fare. Erano migliori amici, secondo molti loro compagni uno dei due era innamorato dell’altro o altra, ma Simon era sicuro che tra quei due non ci fosse nessun interesse romantico, univoco o ricambiato che fosse. Erano semplicemente amici, inutile cercare di vederci qualcosa di più.
“Com’è Dal Farra?” continuò Arturo rivolgendosi direttamente a Simon. Si rigirava una sigaretta spenta fra le dita, sicuramente si chiedeva se avesse abbastanza tempo per fumarla e se ne valesse la pena.
Dal Farro era il professore di Teoretica, oltre a essere molto competente era affascinante nel modo di esprimersi, c’era solo una pecca nel suo metodo di insegnamento.
“È bravo, ma ripetitivo. Fatica a terminare il programma e ogni tanto divaga”.
“Ma le sue divagazioni sono interessanti!” protestò Leo.
Arturo lo ignorò. “È stato utile il corso?”
Fece una smorfia con le labbra. “Molto bello, ma al primo anno è difficile seguirlo, dà certe cose per scontato. Non dovreste avere problemi se avete seguito Pannacci”.
Leo rabbrividì a sentire il nome del Terribile Uno, il professore di Storia della Filosofia che faceva tremare chiunque sotto i colpi del suo esame.
“Seguito e sostenuto” s’intromise Giada con un sorriso ruffiano.
“Entrambi i moduli? Anche su Hegel?” chiese Leo, al loro annuire fece una smorfia. “Io ho dato solo la prima parte”.
Giada lo guardò divertita. “Neanche questo? Non sei un po’ indietro con i crediti?”
“Non proprio” s’imbronciò. “Ma quest’estate sono stato… impegnato”.
Simon preferiva non ricordare con chi fosse stato impegnato e fare cosa.
Arturo continuò a ignorare Leo, era l’unica persona del loro gruppo che non provava un’aperta simpatia per Leonardo, ma del resto oltre che con Giada sembrava andar d’accordo solo con Simon.
“Tu lo hai dato?”
Annuì.
“Com’è andato?” s’intromise Giada.
Non riuscì a evitare un sorrisetto compiaciuto. “Ventisette”.
Nonostante fosse sotto la sua media era comunque un traguardo, leggenda narrava che nessuno fosse riuscito a prendere trenta con lui, se non Hegel in persona, perciò ne era soddisfatto.
Il ghigno che fece Giada non gli piacque per niente. “Vent’otto”.
Fu davvero difficile soffocare l’istinto di strozzarla con le sue trecce bionde, l’idea che fosse andata meglio di lui in quell’esame era così difficile da mandar giù che gli faceva andare il sangue al cervello.
“Arti invece ha preso ventinove e Pannacci gli ha pure fatto i complimenti”.
Scrollò le spalle come se fosse un fatto poco importante. “Avevo studiato” liquidò la faccenda, sembrava essersi finalmente deciso ad accendere la sigaretta, ma proprio in quel momento la lezione nell’aula finì e gli studenti cominciarono a riversarsi fuori. L’aura depressa che lo circondava sembrò aumentare.
 “Comunque, io ho preso ventidue con Pannacci e non sono mai stato così felice in vita mia” decretò con fierezza Marco, poi entrò in aula.
 
 
 Sede di S. Sebastiano, giardino.
 
Le loro previsioni su Estetica si erano rivelate esatte. Il materiale messo a disposizione era davvero interessante e meritava il corso, ciononostante a Leo si erano rizzati i peli delle gambe quando la professoressa a aveva tentato di riassumere le prime due critiche di Kant per chi non lo conosceva bene. Alla fine delle due ore Arturo aveva decretato di darlo da non frequentante, Simon lo avrebbe imitato volentieri ma sapeva che Leo non glielo avrebbe mai permesso.
Si era già un po’ offeso perché non lo aveva accompagnato alla lezione di Teoretica, anche se non aveva senso per lui seguirlo visto che aveva già dato l’esame al suo contrario. Per questo aveva approfittato del caldo per pranzare nel giardino della sede di San Sebastiano, mentre Leo se ne stava dentro una delle aule: l’aula Padovan. Era seduto vicino la finestra, quindi da sotto l’albero di ulivo riusciva a intravedere il suo profilo mentre prendeva appunti e si incantava a guardare il professore.
San Sebastiano era la sede principale di filosofia e aveva un ampio cortile interno erboso, con tanto di alberelli, uno di essi era un ciliegio e in primavera avevano il piacere di vederne la fioritura. Gli studenti approfittavano del giardino e del caldo per stendersi sull’erba a mangiare, leggere o semplicemente chiacchierare. I più organizzati si portavano anche delle coperte, così sembrava sempre che all’interno dell’università si stesse organizzando un campeggio.
Simon era rimasto solo, perché Marco voleva andare alla mensa universitaria, lui invece stava mangiando il panino che aveva preparato la mattina e ascoltava musica. Forse dopo si sarebbe messo a controllare gli appunti di estetica, anche se ne aveva presi davvero pochi.
“Ehi, ciao”.
Non riconobbe subito la voce, ma quando spostò il viso dalla finestra verso la ragazza in piedi accanto a lui e la vide in viso la riconobbe subito. Lo stomaco gli si chiuse e non sentì più il bisogno di continuare a mangiare il suo panino.
Lucia era una ragazzina graziosa, dal volto ovale e la pelle liscia, con le labbra sottili e un caschetto di capelli color castagno. Era alta come Leo, ma per la sua gracilità sembrava molto più piccola, soprattutto perché tendeva sempre a stare con la testa bassa e in disparte nelle discussioni.
Le fece un cenno neutro con la testa pregando dentro di sé che non volesse sedersi lì, non tanto perché non la sopportasse, ma perché la sua presenza gli portava solo disagio.
Lucia si tolse la cartella e si sedette a gambe incrociate sull’erba.
Dovevo entrare a Teoretica con Leo…
Rimasero zitti per una manciata di minuti, nei quali Simon si sforzò di dare un altro morso al suo panino. Non era bravo a iniziare le conversazioni e odiava le frasi di circostanza, quelle fatte solo per tappare i buchi di silenzio.
“Così… hai iniziato anche tu oggi?” domandò Lucia strappando nervosa un filo d’erba, aveva una voce molto nasale. Indossava una gonnellina nera con le pieghe e una camicia senza maniche con una fantasia floreale, probabilmente doveva essere considerata carina dai suoi coetanei, ma per Simon era dimenticabile. Sapeva di essere cattivo a pensarlo, ma non trovava nulla di interessante a lei e non poteva farci niente.
Annuì e basta. Lucia non si lasciò scoraggiare dal silenzio,si morse le labbra e cercò di tenere in piedi la conversazione.
“Io oggi ho avuto il corso di Storia Romana, sembra interessante. Dovevo andare a Teoretica, ma ho fatto tardi. Spero che nella prima lezione non dica cose troppo importanti”.
Aveva tentato di parlare in modo spontaneo, ma il nervosismo nella sua voce era talmente palese che perfino lui si era sentito sulle spine. Rimase in silenzio visto che non sapeva che cosa si aspettava che rispondesse.
“Tu che corsi segui?”
Ah, questo.
“Per ora Estetica, Morale e Filosofia della Letteratura” snocciolò neutro.
“Oh, anche io seguo Morale” accennò un sorrise. “Chissà com’è”.
Scrollò le spalle e la conversazione – se davvero di poteva considerare tale – morì ancora. Lucia continuò a maltrattare i fili d’erba attorno a lei, lanciandogli di tanto in tanto uno sguardo.
“Fa davvero caldo, vero?” tentò un’ultima volta con un sorriso tirato.
“Abbastanza”.
“Dicono che la prossima settimana tornerà il freddo”.
“Speriamo”.
“È difficile seguire le lezioni con questo caldo”.
Fece spallucce e questa volta anche Lucia rimase in silenzio con espressione abbattuta;  tirò fuori il telefono e lasciò perdere ogni tentativo di conversazione. Pochi minuti dopo lo salutò e se ne andò verso le macchinette del caffè all’entrata, ne fu sollevato.
Non era cattiveria ma, oltre a sentire di non avere niente in comune con quella ragazza, da quando l’anno prima gli aveva fatto capire in modo esplicito di avere una piccola cotta per lui riusciva a provare solo disagio ad averla affianco.
Tanto per cominciare, non riusciva proprio a capire per quale motivo si fosse infatuata di lui dal momento che non avevano mai scambiato più di due parole. Sapeva anche di non essere una grande bellezza, non aveva nulla di speciale con i propri capelli castano scuro, gli occhi nocciola e il naso appuntito; i tratti del suo volto erano regolari, era vero, ma era uguale a quello di molte altre persone, in una folla non sarebbe mai spiccato sugli altri – cosa di cui era molto grato del resto. Non era nemmeno particolarmente gentile, stava sempre sulle sue e quando discuteva tendeva a imporre le proprie idee con troppa saccenza, quindi il suo essere intelligente finiva sempre per essere messo in secondo piano.
Ma al di là della sua incomprensione sul perché Lucia si fosse interessato a lui quando per anni nessuna ragazza lo aveva fatto, restava il fatto di fondo che non poteva e mai avrebbe potuto ricambiarla.
A Simon non piacevano le donne. Le apprezzava, ammirava la loro intelligenza quando ne facevano uso e le rispettava ovviamente, ma per quanto riguardava innamorarsi… erano fuori dai suoi interessi.
Aveva capito di preferire la sua stessa metà di cielo già durante il suo sviluppo adolescenziale, quando certe reazioni le aveva per Chris Hemsworth durante la visione degli Avengers che per Natalie Portman – tanto per fare un esempio. Non poteva dire di avere accettato serenamente la scoperta fin da subito, prima di ammetterlo a se stesso aveva dovuto affrontare un periodo di panico e negazione. All’epoca temeva ancora il giudizio del padre, ma dopo un po’ si era chiesto quale fosse il senso di nasconderlo: era lampante che fosse attratto dai maschi e non provasse nessun interesse per le femmine, fingere il contrario era controproducente e stressante. Non era un’informazione che tendeva a dare in giro, comunque, non aveva mai fatto coming out per varie ragioni: non voleva che a scuola potessero additarlo come diverso, che la sua famiglia potesse sconvolgersi e qualche professore bigotto gli mettesse i bastoni tra le ruote. Lo considerava un affare suo e suo doveva rimanere.
Nemmeno all’università, dove si poteva respirare un ambiante molto più aperto e inclusivo fra i suoi compagni, non lo aveva mai detto in modo esplicito. Era certo che qualcuno dei loro amici ci fosse arrivato, ma non era mai diventato argomento di conversazione.
Solo due persone avevano il privilegio di essere attivamente partecipi del suo segreto: Giovanni, che era riuscito a estorcergli l’informazione per sfinimento, e Arianna, con la quale invece tendeva a confidarsi con più spontaneità.
Leo no. Leonardo non lo sapeva e per quanto gli riguardava non c’era nessun motivo per dirglielo, quando invece ce n’erano tantissimi per tenerlo nascosti. Sapeva di poter dire al migliore amico qualsiasi cosa, che in qualsiasi caso sarebbe stato dalla sua parte, anche nel dover nascondere un cadavere, ma non in quella situazione.
 Fu distratto dai suoi pensieri dall’uscire scomposto degli studenti dall’aula Padovan, approfittando delle portefinestre per arrivare direttamente in giardino senza fare il giro lungo. Parlavano tutti in modo animato ed entusiasta, doveva essere stata una bella lezione. Cercò tra le teste quella arruffata del suo migliore amico senza alzarsi dall’erba, quando lo vide gli fece un cenno di raggiungerlo.
A Leonardo brillavano gli occhi azzurri e aveva lo sguardo sfuocato lontano, come se stesse seguendo le mille idee che gli affollavano il cervello, teneva il quaderno degli appunti in mano e la cartella pendeva da una sola spalla.
“È stata un’esperienza mistica” proclamò allargando finalmente le labbra in un sorriso enorme.
“Lo dici ogni volta” lo prese in giro.
Leo si gettò a sedere davanti a lui agitato. “No, no, è stata davvero grandiosa. Ho i brividi, guarda!” gli agitò davanti un braccio. “Ti mostro gi appunti che ho preso, dobbiamo assolutamente parlarne perché mi è venuto in mente che effettivamente non ho mai guardato le cose da questo punto di vista. Cioè…”
Il suo entusiasmo era più contagioso della peste del Trecento, Simon non aveva nessuna possibilità di salvarsi da quell’eccitazione travolgente. Quando Leo parlava di qualcosa che lo appassionava si illuminava come un piccolo sole e faceva risplendere anche chi gli stava vicino, era inevitabile sentirsi coinvolto da quelle parole e agitarsi allo stesso modo. Per Simon quella era stata la fregatura, perché il motivo principale per cui non poteva dirgli di essere gay era che ormai si era inesorabilmente innamorato di lui.
 
Venezia, da Campo S. Margherita a S. Giacomo dell’Orio.
 
I compagni di corso avevano chiesto loro se volevano fermarsi con loro a fare aperitivo per festeggiare l’inizio del nuovo anno accademico. Simon si era già rassegnato al dover passare l’intera serata in campo a sperare che nessuno vomitasse per i troppi spritz e far loro da balia; ma con sorpresa erano rimasti solo un paio di ore prima che Leo salutasse tutti dicendo che dovevano andare a casa.
“Abbiamo un impegno noi due” ghignò esaltato, Simon lo guardò confuso quindi spiegò meglio: “Oggi iniziano gli episodi doppiati di My Hero Academia! E quelli nuovi di Naruto!”
Non seppe bene come reagire a quella spiegazione, perciò non disse niente. Era appena sceso il buio, il sole era tramontato da poco e le calli erano illuminate solo dalle vetrine di alcuni negozi ancora aperti. L’aria continuava a essere calda però.
“Quindi dovremo lottare con Giovanni per il controllo della televisione” borbottò.
“No, non credo. Anche lui vorrà vederli” lo contraddisse più fiducioso, corrucciò lo sguardo. “Ma poi lui ha la televisione in camera, non capisco perché debba guardare quella in cucina”.
“Per darci fastidio, mi sembra ovvio”.
“Fastidio a te, vorrai dire” rise davanti all’espressione indisposta che fece. Si fermarono davanti alla vetrina della Ca’Foscarina per guardare i libri esposti.
“Dici che dovremmo comprare i libri di estetica?” domandò Leo.
“No, non credo. Cercherò dei pdf, oppure li fotocopio” fu la risposta prevedibile. “Ma da quello che hanno detto gli altri bastano anche solo gli appunti”.
Leo annuì. “Sì, ma la Critica del Giudizio penso di prenderla lo stesso”.
“Allora farò le fotocopie da te”.
Rise e lo colpì con una spallata. “Approfittatore” ridacchiò.
Andò avanti a salire l’ampio Ponte Foscari, Simon rimase volutamente indietro a guardarlo divertito. I suoi capelli rossicci e la stravagante camicia hawaiana lo distinguevano dal resto dei passanti come se avesse un cartello segnaletico puntato contro.
Lo scoprirsi innamorato di lui era stato per Simon un fulmine a ciel sereno dopo che si era imbambolato a fissarlo di spalle mentre era in calzoncini da corsa e piegato in avanti per allacciarsi le scarpe. Una vista decisamente molto illuminante.
Erano mentalmente ed emotivamente compatibili, per questo la loro amicizia funzionava alla grande nonostante la sua incapacità sociale, ma l’aggiungersi dell’attrazione fisica aveva cambiato le carte in tavola.
Simon aveva una cotta per Leo che persisteva tenace, ma aveva deciso fin da subito di non assecondarla, di non rischiare. Non solo perché Leo era etero e fidanzato con una ragazza che adorava, ma soprattutto perché erano amici, Leonardo lo considerava solo in quel modo, ed esporsi significava mettere a rischio quel legame a cui teneva tantissimo. Era vero, Simon era innamorato di lui, ma prima di ogni altra cosa Leo era il suo migliore amico, perciò non aveva nessuna intenzione di mancare ai suoi doveri. Quell’infatuazione prima o poi sarebbe passata e tutto sarebbe tornato a posto, o almeno ci sperava.
“Sy! Che ci fai ancora lì?”
Simon si riscosse, Leo aveva raggiunto la cima del ponte mentre era perso nelle sue elucubrazioni. Quella infatuazione doveva passare, anche se ormai erano mesi che si sentiva in quel modo, aveva sperato che la separazione delle vacanze estive potesse risolvere tutto. A giudicare il modo in cui si incantava ancora a fissarlo e di come si sentisse felice a stare con lui non doveva aver funzionato.
“Mi deprimo” rispose ironico nel fare il primo gradino, anche se non era affatto lontano dalla verità.
“Puoi farlo anche a casa, muoviti che rischiamo di perderci il primo episodio” pretese incrociando le braccia al petto.
“Non urlare” socchiuse gli occhi e sospirò. “Arrivo, piccolo tiranno”.





 
 

Note:

1.     Qui la canzone.
 
 
Ehi!
Come potete notare sono tornata e penso di tenere – per ora – questo ritmo di un aggiornamento a settimana il martedì, ho abbastanza capitoli pronti quindi dovrei farcela anche con tutti gli altri impegni^^
Cominciamo a entrare un po’ più dentro la vita dei nostri due fanciulli, conosciamo un po’ di personaggi nuovi e abbiamo qualche confessione del tutto scontata (Simon, si vede lontano un miglio che stai sotto un treno)
Sopra potete vedere un mio disegno di Simon, proverò a lasciare un disegno dei personaggi sotto ogni capitolo :)
Ringrazio chi ha letto capitoli, le belle persone che hanno recensito (srsly, love you guys) e spero che anche questo non abbia deluso le aspettative^^
Alla prossima settimana <3
Hatta

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Capitolo 3
*** Overthinking ***




Overthinking.

 
 
 
“I can go and overthink this
If you want to
Nothing much is gonna change”.
(We are scientist – No wait a five levels)1
 
 
 
17 Settembre 2018
Sedi Università Ca’ Foscari
 
Il secondo giorno di università per Leo fu molto più frenetico nonostante la prima lezione fosse restata Estetica a mezzogiorno, ma dopo di essa ne aveva altre tre con solo lo stacco di un quarto d’ora dall’una e all’altra. Se dopo Estetica Simon aveva avuto la possibilità di andare in Campo a pranzare, a Leo quella pausa non era stata concessa: era dovuto correre a Teoretica per non rischiare di non trovare posto e sedersi sui gradini. Poi aveva raggiunto Simon e insieme erano corsi alla prima lezione di Filosofia Morale; l’amico era molto scettico in merito, perché dei loro compagni di corso più anziani non avevano parlato molto bene del professore, descrivendolo come un fanfarone bigotto. Il motivo principale per cui Simon partiva abbastanza prevenuto erano le voci della sua religiosità un poco estrema, al suo contrario Leo non lo considerava affatto un problema, essendo lui per primo credente.
La lezione fu strana, nessuno dei due se la sentì di dare un giudizio sul professore. Era evidentemente una persona a cui piaceva parlare di se stesso e nel corso della lezione aveva usato spesso esperienze personali per fare esempi che a malapena entravano nel discorso. Ciò che fece loro storcere il naso fu il modo poco educato con cui spesso si riferiva ai colleghi. Però l’argomento si prospettava ricco e interessante, Leo era entusiasta di iniziarlo.
Meno entusiasta fu di trascinarsi alla quarta lezione della giornata. Erano ormai le cinque e mezza, non aveva la volontà di restare concentrato per altre due ore.
“Mettere lezione a certi orari dovrebbe essere illegale” protestò sconfortato.
Simon, che aveva avuto la pausa pranzo, non si mostrò altrettanto provato.
“Se segui troppi corsi puoi lasciarne stare uno” gli fece notare.
“Ma voglio cercare di stare il più possibile con te” piagnucolò “E poi non posso scartarne uno senza nemmeno provarlo prima”.
Ignorò la prima risposta e sperò di non essere arrossito nelle orecchie; era bravissimo a tenere una faccia da bronzo e raramente l’imbarazzo gli imporporava le guance, ma a volte le orecchie gli si infiammavano se accadeva qualcosa di inaspettato che lo compiaceva. Per questo le sfiorò con le dita e cercò di nasconderle con le ciocche più lunghe dei capelli ribelli.
“Dai, andiamo”  borbottò. “La lezione è San Basilio”.
“Secondo te che cosa si fa a Filosofia della Letteratura?” domandò. “Non è che il sito fosse molto chiaro”.
“Il sito non è mai chiaro”.
“Sì, però… ci sono così tanti testi che mi chiedo quale sia il filo conduttore. Forse faremo un lavoro ermeneutico?”
Simon rabbrividì a quella parola, memore del corso di ermeneutica filosofica frequentato l’anno prima.
“Spero di no”.
Arrivarono che la lezione era cominciata da qualche minuto, perciò si sedettero in ultima fila per non fare troppa confusione. L’insegnante sembrava molto presa da quello che diceva, ma parlava così velocemente che faticarono a capire di cosa stesse parlando.
“Ah, sta riassumendo il programma”.
Leo si ritrovò a pensare che quella professoressa era chiara quanto il sito, o forse era lui troppo stanco per riuscire a starle dietro. Saltava da un argomento all’altro senza concludere il primo, a volte perfino la frase rimaneva sospesa a metà perché lei veniva colta da un altro pensiero. Faceva movimenti energici con le mani che lo distraevano, si ritrovò a perdere il filo del discorso più di una volta perché si incantava a guardarla gesticolare. Il suo quaderno degli appunti era aperto davanti a lui con la pagina immacolata, perfino Simon aveva un’espressione un poco corrucciata e confusa. Almeno lui di tanto in tanto riusciva a segnare qualcosa con la stilografica, Leo tentò di spiare, ma la scrittura dell’amico era talmente stretta e minuta da essere illeggibile.
Sospirò e rinunciò a seguire la lezione, ormai ne aveva persa per metà e tentare di stare dietro a quelle continue divagazione era pressappoco impossibile. Appoggiò perciò la testa sul banco con gli occhi chiusi, felice di essere in ultima fila e quindi di passare inosservato. Pochi secondi dopo sentì qualcosa picchiettare sulla superficie vicino a lui, aprendo gli occhi si scontrò con lo sguardo confuso di Simon.
Morto, sillabò con le labbra.
Simon alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, poi tornò a prestare attenzione.
Ci rimase un poco male, anche se era impossibile che Simon Seguo Sempre La Lezione Lunardi gli proponesse di giocare a tris per far passare il tempo. In quel momento sentì la mancanza del suo compagni di banco al liceo, Giacomo era sempre disposto a qualsiasi cosa pur di non seguire la lezione.
Tirò fuori il telefono e decise di mandare un messaggio a Teresa, magari lei lo avrebbe distratto. Le lancette dell’orologio appeso sul muro andavano troppo lente.
L:Quarta lezione della giornata, il mio cervello sta chiedendo pietà. Salvami almeno tu!”
Mentre aspettava la risposta schiacciò sull’immagine di profilo di what’s app, quel giorno l’aveva cambiata. Teresa era una bellezza molto semplice, con un volto pulito e ovale, gli occhi rotondi intelligenti e le ciglia lunghe. Nella foto sorrideva con una mano a nasconderle un poco la bocca socchiusa, i capelli castani erano  raccolti in una mezza coda spettinata che le scendeva a metà schiena. Gli piacevano i suoi capelli, soprattutto adorava passarci le dita mentre si baciavano, erano morbidi e lisci.
La risposta arrivò quasi subito.
T: “Attento a non uccidere anche l’ultimo neurone, saputello”.
Fece un sorriso al nomignolo.
L: “No, è troppo tenace per morire e mi serve ancora. Com’è andata oggi a scuola?”
T: “Andata, il solito”.
Teresa era ancora al liceo, era all’ultimo anno e si stava preparando ad affrontare la maturità; sapeva già che per quel motivo, unito alla distanza, sarebbero riusciti a vedersi molto meno.
L: “Dopo posso chiamarti?”
T: “No, dai, ci siamo sentiti ieri e oggi viene Sere da me. Magari domani”.
Ci rimase male per quella risposta, ma decise di non insistere per non farla sentire pressata. Teresa poteva reagire molto male se credeva che qualcuno le stesse facendo pressione, si stressava facilmente e per questo cercava di essere sempre organizzata.
Si scrissero un altro poco, ma alla fine lei lo salutò per andare a farsi la doccia e si ritrovò a non sapere che altro fare. Scarabocchiò sul banco con fare distratto, poi quando vide che mancavano dieci minuti alla fine della lezione fece segno a Simon.
“Io esco” sussurrò.
“Mancano dieci minuti” gli fece notare indispettito. “Puoi resistere?”
“Sto per morire, te lo giuro”.
Sbuffò. “Vai a casa o mi aspetti?”
“Ti aspetto” assicurò.
Cercò di essere il più silenzioso possibile nell’uscire e fu confortato di non essere l’unico a darsi alla fuga.
Respirò l’aria tiepida con sollievo, il cielo si stava colorando di rosso per il tramonto ormai vicino. La zona attorno all’aula era silenziosa e vuota, non c’era assolutamente nessuno.  Si stiracchiò e sbadigliò, era distrutto e moriva di sonno, forse restare svegli fino a tardi non era una grande idea. Camminò avanti e indietro per le porte delle aule nel tentativo di distrarsi, si pentì di essere uscito perché aspettare fuori da solo non era tanto diverso che stare dentro.
Da una delle porte uscì un ragazzo, che quasi gli finì addosso, e dopo una frettolosa scusa se ne andò senza chiudere la porta alle sue spalle, lasciandola per metà spalancata. Senza un motivo apparente, giusto perché non aveva nulla da fare, lanciò uno sguardo all’interno.
Si congelò sul posto.
Pareva essere un aula studio ed era vuota, per eccezione di due ragazzi seduti vicini. Due ragazzi che si stavano baciando.
Non riuscì a reagire subito e rimase a fissarli, il cuore schizzato in gola; uno teneva la mano sulla spalla dell’altro, aveva il volto inclinato e il naso schiacciato contro lo zigomo, si baciavano lentamente come se avessero tutto il tempo del mondo, come se non temessero che qualcuno potesse entrare e sorprenderli, per nulla consci del ragazzo fuori che li spiava ammutolito.
Con un sussulto si accorse di quello che stava facendo e se ne vergognò, distolse lo sguardo e poi si allontanò a passo veloce, ormai perso nella propria testa per i troppi pensieri.
 
Simon s’indignò quando uscito dall’aula non trovò nessuno. Eppure gli aveva chiesto di non andare a casa subito e di aspettarlo.
“Abbandonato?”
Slittò lo sguardo verso Arturo, non si era accorto esserci anche lui nella classe.
Scrollò le spalle. “Leo ha abbandonato la nave”.
Annuì mentre tirava fuori la sigaretta, non era accompagnato da Giada e apprezzò molto quel dettaglio. Anche lui cominciava a sentirsi provato per le lezioni e non aveva la forza necessaria per sopportarla.
“Sì, ha fatto bene” accese la sigaretta e se la portò alle labbra. “Non ho ben capito dove volesse andare a parare, questa donna”.
“A me sembra interessante, da quello che ho capito” si affrettò ad aggiungere.
Non capì il sorriso obliquo che fece Arturo.
“Lo seguirai, quindi”.
“Ormai sono qui” scrollò ancora le spalle. “Tu?”
“Vedremo” soffiò il fumo mentre allontana la sigaretta con un gesto elegante del polso. “Facciamo un pezzo insieme?” domandò con un cenno della testa verso la strada.
Rimase sorpreso da quella richiesta, ma accettò, se ricordava bene aveva preso casa a San Polo, il sestiere vicino a quello di Santa Croce.
S’incamminarono in silenzio, Arturo gli chiese se volesse una sigaretta, ma lui declinò dal momento che non fumava. Il sole alle loro spalle era uno spicchio che si nascondeva oltre il Canale della Giudecca e lanciava lunghe ombre sulla strada. Non c’era ormai più nessuno a quell’ora, perciò Simon lo notò subito.
Leo non era andato a casa, era andato alla panchina di Biagio, il micio universitario. Era un gatto magrolino e tigrato che abitava quella zona, su una delle panchine c’era la sua cuccia e una ciotola che a volte le vecchiette del quartiere o gli stessi universitari riempivano; non era raro trovare qualcuno seduto alla panchina per coccolarlo come stava facendo in quel momento Leo.
Si sentì stupido per non averci pensato, era ovvio che non fosse andato a casa ma avesse raggiunto il gatto per passare il tempo. Eppure c’era qualcosa che non andava.
“Leo?” domandò fermandosi. Anche Arturo si fermò.
Quello alzò lo sguardo dal gatto che teneva sul grembo, i suoi occhi parevano leggermente persi.
“È finita la lezione?” chiese distrattamente.
“Sì, credevo fossi andato a casa”.
“No” disse solo.
Arturo inarcò un sopracciglio abituato com’era a sentirlo parlare a macchinetta quella sua poca loquacità doveva essere una sorpresa.  Per Simon invece non lo era affatto, perciò si scambiò uno sguardo con l’altro ragazzo facendogli capire che non avrebbero fatto la strada insieme.
Arturo colse il messaggio e lo salutò con un cenno del mento, poi si allontanò. Simon invece si sedette sulla panchina accanto all’amico e appena lo fece Biagio si allungò anche su sul grembo, muovendo una sua zampina contro la sua mano. Cominciò a grattargli dietro le orecchie distratto, più preoccupato a spiare Leo di soppiatto.
Leonardo era un grande chiacchierone, di quella tipologia che riusciva a intavolare una conversazione anche con un muro; non importava chi aveva davanti, sicuramente lo avrebbe stordito di parole. Questa era l’idea che tutti avevano di Leo, ed era assolutamente fondata, lui era davvero quel tipo di persona, il suo continuo parlare non era una maschera sociale, tutt’altro. Però c’erano quei momenti in cui sembrava spegnersi, in cui tutta l’energia che rivolgeva al mondo esterno restava chiusa dentro di lui. C’erano quei momenti, che potevano accadere per la più insignificante cosa, dove Leo cominciava a pensare e pensare, rimuginava così tanto da perdersi nel proprio mondo ignorando quello che lo circondava. Quegli stati di pensiero continuo potevano durare giorni come poche ore e solitamente si risolvevano in due possibilità: nel caso positivo raccontava a Simon del viaggio introspettivo che aveva avuto, con tutte le idee che aveva vagliato e le soluzioni che lo avevano scosso; nel caso negativo faceva semplicemente finta di niente, come se magari non avesse passato un’intera giornata nel mutismo totale.
Simon ovviamente preferiva quando si apriva, perché era sempre affascinato dalle conclusioni a cui l’amico arrivava; si chiese come mai fosse piombato in quello stato, era qualcosa successo a lezione? Eppure non ne era sembrato molto coinvolto. In ogni caso sapeva che cercare di sforzarlo a parlare era inutile, si sarebbe sbloccato da solo e in quel caso si sarebbe fatto trovare a portata per raccogliere la cascata di parole entusiaste. Però si stava facendo tardi e lui voleva andare a mangiare.
“Dovremmo andare a casa” disse solo quando ormai era quasi passata un’ora.
Gli occhi azzurri si fecero un poco più consapevoli. “Sì, hai ragione. Sono stanco morto”.
Diedero un colpetto alla pancia del gatto per farlo scendere dalle loro ginocchia, Biagio protestò con qualche miagolio, ma poi tornò sulla panchina con le proprie zampe e strofinò la testa contro il fianco di Leo.
“Torno anche domani” lo rassicurò.
“Sai che non può capirti, vero?”
“Mah, se segue le lezioni di filosofia non capisco perché non debba capire me”.
“È solo una leggenda, non sappiamo se è vero”.
“Questa università ha troppe leggende, alcune dovranno essere vere”.
Leo si alzò dalla panchina spazzolando i pantaloncini, anche quel giorno si era presentato con i bermuda. Sembrava essere tornato sulla terra, non più perso sulla luna.
“A cosa stavi pensando?” domandò Simon non riuscendo a trattenere oltre la curiosità.
Fu sorpreso di vedere un’espressione nervosa. “Ma no, a niente” minimizzò. “Solo che ero stanco morto. Non credo che seguirò anche questo corso, quattro lezioni in un giorno senza pausa sono troppe anche per me”.
Non si lasciò sviare, anche se il suo momento era durato poco rispetto al solito gli era sembrato troppo concentrato per trattarsi solo dell’organizzazione del proprio orario. Forse aveva trovato un impasse che non riusciva a superare e aveva preferito lasciar perdere, era raro ma succedeva.
Perciò gli disse: “Lo sai che posso aiutarti se hai difficoltà a trovare una soluzione, vero?”
“Nah, seguire tre lezioni nel primo periodo va bene” cercò di fingere ancora, ma poi sotto lo sguardo impassibile dell’amico fece un sorriso rassegnato. “Tu tendi a sopravvalutarti, Sy”.
“Due cervelli sono meglio di uno”.
“Vero, ma…” lasciò la frase in sospeso e gli batte una mano sulla spalla in un gesto che lasciava intendere che preferiva lasciar perdere. “Ci arrivo da solo, ma non adesso che sono troppo stanco”.
Non aveva nessun motivo per insistere, soprattutto se glielo chiedeva in modo così diretto, perciò lo accontentò.
“Senti, ma dobbiamo proprio andare a casa?”
La sorpresa di Leo a sentire quella richiesta fu perfettamente leggibile e non poteva nemmeno biasimarlo, era davvero raro che formulasse quella domanda. Appena finivano le lezioni era solito dirigersi subito a casa e sbuffava quando Leo gli chiedeva di stare un po’ di più fuori.
“No, possiamo andare da qualche parte. Perché?”
“Perché questa sera è il turno di Giovanni di cucinare”.
 
 
 
Cannaregio, Strada Nova.
 
Il piccolo chiosco era abbastanza affollato come suo solito e le luci appese al soffitto illuminavano la frutta esposta e le immagini dei cocktail colorati. Dietro il bancone i ragazzi si agitavano da una parte all’altra sorridendo e mixando le varie bevande, ogni tanto offrivano un piccolo bicchiere ai passanti per invogliarli a fermarsi.
Leo adorava Frulalà, il locale per cocktail di passaggio. Era sempre uno scoppio di vita, un dj faceva andare la musica non troppo alta e la frutta che usavano era sempre fresca. Avevano deciso di andare lì a cenare, prendendo entrambi una bowl, ovvero una grande ciotola di yogurt dove potevi aggiungere qualsiasi cosa ti passasse per la testa che comprendesse frutta di stagione e frutta secca. Perfino Simon, solitamente indisposto verso i posti che richiamavano una grande folla giovanile, lo apprezzava per la qualità dei prodotti.
Avevano preso posto sugli sgabelli al balcone, quelli un po’ più in disparte. Avevano chiacchierato per tutta la serata come loro solito, del resto il loro passatempo preferito era proprio parlare, ma Leo continuava a restare solo per metà concentrato nella conversazione. Sperò che Simon non lo notasse e che, nel caso, non se la prendesse.
Sapeva di essere sciocco a restare così sconvolto per quello che aveva visto dopo la lezione, ma non riusciva a smettere di pensarci. Non tanto perché disapprovasse quello che stavano facendo quei ragazzi – dal suo punto di vista, finché non si costringeva e faceva del male a qualcuno, gli altri erano liberi di fare quello che volevano – ma perché per un momento aveva avuto la strana immagine di se stesso coinvolto in quel bacio.
Non era la prima volta che faceva pensieri simili.
Già anni primi, quando aveva circa diciassette anni, aveva cominciato a fare certi pensieri strani che lo confondevano. Gli capitava di trovare attraente l’immagine di un corpo maschile nudo, di soffermarsi a fissare gli altri uomini in palestra a compiere movimenti di fatica… Erano piccoli particolari, che tempo dopo aveva liquidato con la sua semplice capacità di riconoscere una bellezza oggettiva – se  un uomo era bello poteva riconoscerlo tranquillamente, non significava niente.
Però all’inizio quella situazione bizzarra lo aveva confuso, al punto che ingenuo si era confrontato con la ragazza con cui stava in quel periodo; le aveva detto del suo dubbio di provare un interesse fisico per i ragazzi, anche se non ne era del tutto certo perché al contrario era sicuro che gli piacessero le donne. Forse era colpa del modo in cui aveva formulato la confidenza, ma lei lo aveva lasciato nel giro di qualche giorno, perché non era sicura di voler stare con qualcuno che non sapeva nemmeno che cosa gli piaceva.
Per il diciassettenne Leo era stato un colpo durissimo, l’idea di essere stato lasciato per un motivo del genere lo aveva fatto entrare ancora in più in confusione. La sua ex aveva ragione, come poteva avere una relazione se non sapeva nemmeno se gli piacevano le ragazze o i ragazzi? La seconda opzione non lo rendeva molto entusiasta, non era contro gli omosessuali ma era comunque cresciuto in una famiglia molto credente, perciò certe idee erano difficili da mandare via. Non ricordava con piacere quel periodo, a pensarci si vergognava per il modo in cui aveva cercato di recepire ogni minimo segnale sulla sua sessualità.
Però poi era arrivata Teresa. E ogni dubbio era sparito a favore di quello che aveva avuto tutto il gusto di un colpo di fulmine.
Il loro primo incontro era stampato nella memoria di Leonardo come una fotografia dettagliata e vivida nonostante i colori notturni.
Era estate, con Giacomo si era iscritto a un campo estivo di tre giorni all’osservatorio di Asiago con un gruppo di astrofili. La prima volta che l’aveva vista Teresa era piegata a guardare con un occhio dentro un telescopio, le labbra piegate in una smorfia per tenere l’altro chiuso e le mani sulle rotelline per regolare l’apparecchio; aveva una treccia un poco sfilacciata per il vento e nonostante l’alta quota dell’altopiano portava un vestitino estivo che le lasciava le spalle scoperte.  L’aveva fissata immobile finché Giacomo non lo aveva spintonato verso di lei e allora lui, nell’imbarazzo di non sapere cosa fare, aveva cominciato a parlare a macchinetta, vomitando tutte le informazioni che sapeva sulla costellazione che la ragazza stava guardando attraverso la lente del telescopio. Quella sua brillante uscita gli aveva fatto guadagnare il soprannome di Saputello, che la ragazza ancora continuava a usare con affetto. Però aveva funzionato, dopo un’estate di corteggiamento si erano fidanzati e la loro storia era proseguita perfetta e senza complicazioni.
Be’, più o meno.
Il punto era che dubbi del genere non avevano più avuto senso di esistere, non era mai stato così innamorato di qualcuno e ormai considerava ovvio il suo essere attratto dalle ragazze. Era etero, fine della storia.
Ma allora perché?
Anche l’anno prima quei dubbi ogni tanto erano tornati come dei tarli, era un genio maligno degno di quello cartesiano e a differenza del vecchio filosofo non riusciva a scacciarlo in modo definitivo. La cosa che più lo frustava era non solo che facesse pensieri del genere mentre era fidanzato, ma che a volte coinvolgessero anche il suo migliore amico. Si sentiva una pessima persona.
A me piacciono le ragazze.
Come per voler dare una prova all’asserzione, lanciò un’occhiata alla strada e si soffermò su una ragazza in un vestitino aderente che aveva rallentato il passo per osservare il locale, aveva delle lunghe gambe e dei fianchi morbidi invitanti. Quando la ragazza passò oltre sparendo alla sua vista, si sentì aggredire dal senso di colpa.
Lui era fidanzato, non doveva guardare le altre ragazze in quel modo, soprattutto non aveva bisogno di farlo per assicurarsi di essere etero. Ne aveva già la certezza.
Sospirò e tornò a guardare ciò che restava della propria scodella di yogurt.
“Hai intenzione di dirmi che ti prende, prima o poi?”
Non guardò Simon negli occhi, anche se poteva immaginare bene che espressione avesse. Doveva averlo fatto preoccupare abbastanza se gli aveva parlato con quel tono secco.
Agitò il telefono. “Giovanni ha detto che è offeso con noi perché abbiamo rifiutato la sua cena”.
“Okay, che stia pure offeso” Simon si spostò per evitare che lo colpisse al naso. “Il vero motivo, invece?”
Ovviamente non si lasciava ingannare. Anche se si dicevano sempre tutto, non aveva granché voglia di confidarsi su quella cosa. Simon era una persona molto pudica e riservata, si arrabbiava ogni volta che Leo entrava nel bagno mentre si faceva la vasca per dire. Per quanto poteva essere comprensivo, di sicuro si sarebbe trovato in imbarazzo a sapere che il proprio compagno di stanza a volte faceva pensieri strani sui ragazzi, anche se etero.
Ma del resto sei stato tu a riportarli a galla.
Sussultò per quel pensiero sfuggito al suo controllo e scese dallo sgabello come se fosse stato punto da uno spillo, guadagnandosi così un’occhiata perplessa.
“Andiamo a prendere una crepes?” domandò con esagerata vivacità.
“Fino a Rialto?” si lagnò. “Ti prego, no”.
“Dai, sono quattro passi da qui. La sto aspettando da un’estate”.
Poco prima di Rialto c’era una creperia che avevano scoperto l’anno prima, facevano le crepes più buone che avessero mangiato; le farcivano di ogni cosa immaginava, la sua preferita era quella con la cioccolata e gli spicchi di banana.
“Abbiamo appena mangiato una ciotola enorme di yogurt e frutta, non riesco a credere che tu abbia ancora fame” protestò incredulo, ma si lasciò trascinare per la strada senza opporre una vera resistenza.
“Non occorre avere fame per volere una crepes” lo rimbrottò.
“Va bene, ti ricordo solo che domani la prima lezione è alle dieci e mezza, quindi non possiamo stare svegli ancora fino alle due”.
Lo ignorò con un ghigno soddisfatto, del resto era ancora presto. E poteva ancora tenere sotto controllo quei pensieri.
 
 
 


Note:

1.
La canzone qui
 
 
 
Ehi^^
 
Un poco più in ritardo del solito, ma questa settimana è stata frenetica, senza contare che si sta avvicinando l’ennesima sessione (la mia vita è una sessione continua singh)
Ma eccomi qui :D
Il capitolo è più centrato su Leo, mi rendo conto che i suoi pensieri siano un po’ confusionari, ma il fatto è proprio questo: ha una grande confusione in testa e non sa come districarsi.
Volevo anche informarvi che il gatto Biagio esiste ed è il migliore antidepressivo dell’università perché un coccolone adorabile <3
Spero vi sia piaciuto, vi ringrazio per seguire questa storia e vi mando un bacione!
 
Hatta
  
 
 
  

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