Ha i capelli d’oro degli Æsir di shilyss (/viewuser.php?uid=21848)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Del tesoro perduto ***
Capitolo 2: *** Della fragilità di una rosa ***
Capitolo 3: *** Del prezzo di una maledizione ***
Capitolo 1 *** Del tesoro perduto ***
Ha i capelli
d’oro degli Æsir
For my dreams I hold
my
life
For wishes I behold
my
night
The truth at the end
of
time
Losing faith makes a
crime
I wish for this
night-time
to last for a lifetime
The darkness around me
Shores of a solar sea
Oh how I wish to go
down with the sun
Sleeping
Weeping
With you
(Sleeping sun
–
Nightwish)
Loki è
bello e
gradevole nella figura, malvagio nell’animo, molto volubile
nei modi.
Egli portò
gli Asi
ripetutamente in difficili contese e spesso li trasse
d’impaccio con le sue
frodi.
(Edda in prosa)
Capitolo 1
Del tesoro
perduto
Asgard, un altro
tempo
Si dice che
quando Thor riportò ad
Asgard il dio degli inganni in catene, Odino dovette colpire per sette
volte il
pavimento della sala del trono, affinché gli Æsir
facessero silenzio. Un brusio
si era levato di fronte all’Ase dalla Lingua
d’Argento capace d’incantare, col
suono stregato della sua voce, ogni orecchio, concupire ogni mente.
L’astuto
dio aveva le mani legate da ceppi pesanti e un bavaglio di ferro gli
copriva la
bocca sempre pronta a mentire e a pronunciare terribili incantesimi.
Era stato
crudele. Un’ira tremenda gli aveva scosso il petto e il
cuore. L’inganno
orrendo perpetrato a suo eterno danno gli aveva corroso lo spirito e la
mente,
e tutti i Nove Regni erano stati sconvolti dalla sua furia terribile di
figlio
non amato, di erede truffato. Sì, era stato malvagio e lo
sapeva. La corsa
verso l’Hlidskjalf su cui solo il più degno si
sarebbe potuto sedere, si era
rivelata nient’altro che una beffa, una gara truccata in
partenza. Il figlio di
Laufey non sarebbe mai stato degno di governare gli Æsir;
così il dio degli
inganni era stato a sua volta ingannato. Tutto il sangue versato per la
città
d’oro dalle alte torri, tutti i favori, i doni, gli sforzi
fatti per rendere
più potente e solido il trono di Odino, improvvisamente
erano svaniti, scomparsi,
non contavano più nulla. Solo che l’astuto Loki
non aveva messo a disposizione
di Asgard solo il braccio pugnace e la mente svelta, ma anche ogni
fibra del
suo corpo nervoso, asciutto, elegante, ogni pezzo della sua anima
corrotta,
appassionata, bruciata.
Stirò
le labbra in un ghigno perfido
e storto, lupesco. “Allora, Padre, dimmi: che punizione hai
scelto, per me? Per
il figlio che doveva essere re, per la reliquia rubata che hai
sottratto agli
Jotnar?”
Lo disse
compiacendosi di ogni
sillaba, parola, concetto. Con quei suoi occhi dalla trasparenza
smeraldina,
fissò il sovrano travestito da genitore e lo vide per quello
che era: un
vecchio stanco che s’arroccava su inutili questioni, un
guerriero dalla schiena
ormai curva; un giudice ancora severo, tuttavia. E vendicativo. Loki
deglutì e
alzò fieramente il capo cercando, per l’ultima
volta, di liberare i polsi doloranti
e abrasi dal metallo impietoso. “Se è la pena
capitale, quella che mi spetta,
non esitare, Padre. Abbi il coraggio di pronunciare la mia sentenza di
morte.”
Aveva parlato
con voce sicura, priva
d’incertezze, ma nel suo petto qualcosa
s’incrinò.
“No,
Loki. La morte non è la giusta
punizione, per te. Ti accontenterò, mio disperato, perduto
figlio. Avrai un
regno dove sarai il solo padrone e signore: i tuoi sudditi saranno
mostri, la
solitudine ti mangerà il cuore, ma sarai re, Loki.
Sì, io ti maledico e ti
condanno a qualcosa di peggiore, di più tremendo della
morte. Piegherò il tuo
animo protervo, arrogante, sconsiderato, crudele, folle. Passerai il
resto dei
tuoi giorni esiliato in un luogo protetto da rune molto, molto lontano
da qui,
dove forse potrai riflettere su ciò che hai fatto, o
maledetto dagli Æsir
tutti. Non sarai mai più libero; rimarrai per sempre schiavo
del tuo dolore,
della tua arroganza, di te stesso.
Portatelo
via.”
Così
avvenne.
Si racconta che
la prigione del dio
degli inganni fosse situata su Midgard, al centro di una grande,
immensa
foresta persa nel cuore di un continente antico.
C’è chi dice che si trattasse
di un palazzo di meravigliosa bellezza, che assomigliava alla perduta
Asgard.
Altri, sostenevano che un incantesimo potente, recitato da Odino in
persona,
celasse alla vista degli uomini quell’intrico magnifico e
terribile di torri e
stanze. La gente cercò a lungo la prigione del dio. Come
tutti i mostri e le
bestie, si diceva che fosse a guardia di un tesoro immenso,
incredibile, così grande
e prezioso da non avere eguali in tutto il mondo. Scossi
dall’avidità, eccitati
al pensiero dell’oro e delle gemme lì custodite,
in molti partirono alla
ricerca del castello perduto. Alcuni, forse bugiardi, certamente pazzi,
dissero
di averlo trovato: raccontarono di labirinti fatti d’oro e di
un lupo feroce e
famelico che sbranava gli uomini che osavano avvicinarsi al suo
padrone. Altri
sostennero di essere stati rinchiusi nelle segrete del dio per
cent’anni interi
e di un drago enorme che dormiva nei sotterranei, ma nessuno
tornò mai con
niente più di qualche storia oscura e una manciata
d’incubi.
Così
passò il tempo. La gente cercò
disperatamente per molti anni ancora la dimora del dio perduto e
bandito dal
suo regno immortale; bagnò con il sangue la terra intorno
alle foreste fitte
che si diceva celassero la costruzione stregata e, infine, come tutte
le cose, dimenticò
il tumulo e le grotte e il palazzo e persino il nome del dio degli
inganni si
perse nella memoria. L’oblio lo accolse con la sua ombra.
Questo si racconta.
♥
Foresta di
Hallerbos, Belgio, 1882
Non si
può finire in Belgio per
seguire quattro pagine di un’edizione secentesca trovata su
una bancarella che
si rifà, a sua volta, a un testo ancora più
antico che nessuna biblioteca di
Londra sembra possedere. Non si insegue una leggenda che è
meno di una favola
perché l’edizione in questione ha quattro pagine
in più della sua unica sorella,
finita chissà come a Boston. Sigyn fermò il
cavallo tenendosi con una mano il cappello.
In tasca teneva l’unico frammento reale di una storia di
magia inventata da
qualche genitore per ammonire i figli. Una fibula vichinga, abbellita
da
un’invocazione scritta in caratteri runici che, dicevano,
proveniva
direttamente dal Volga. Con tutta probabilità, il reperto in
questione era
appuntato su uno dei mantelli di coloro che assistettero al sontuoso
funerale
di un capo degli uomini del Nord, assieme allo storiografo Ibn Battuta.
Ecco perché suo padre era sparito. Si era ficcato in testa
che doveva
recuperare un tesoro che si era perso nelle cronache antiche e nei
bestiari
medievali che parlavano di sciapodi
e
di unicorni.
Si era lasciato sedurre dalla voce di un tumulo scoperto da un
taglialegna in
una sperduta foresta ai confini del Belgio e aveva abbandonato ogni
cosa, speso
ogni risorsa quasi mandandoli sul lastrico, per inseguire una chimera
inesistente e vaga come le fiabe che si raccontano davanti al camino,
nelle
sere d’inverno.
Sigyn
pensò alle ultime parole che si
erano rivolti. “Ti
porterò una rosa,”
le aveva promesso sapendo che lei le amava. Non era mai riuscita a
smettere di
assecondarlo in quella ricerca spasmodica e folle ritenendo, a ragione
o a
torto, ora non lo sapeva più, che suo padre cercasse una
leggenda antica per
soffocare la nostalgia feroce che provava dopo la scomparsa di sua
madre. Al
Circolo dicevano che fosse pazzo, invece. Lo accusavano di stare
sperperando
una fortuna e lo trattavano con sufficienza. Sigyn lo sapeva e
conosceva anche
il nome di colui che, tra tutti, più si divertiva a beffarsi
di suo padre. Lord
Theoric di Gastonblury, un uomo tronfio e pieno di boria che credeva di
poter
fare tutto con i suoi soldi e che ogni cosa gli spettasse di diritto;
persino
lei. Sigyn gli aveva riso in faccia, quando le aveva detto che sposarlo
era un
privilegio. Arricciò le labbra con disappunto, al pensiero
della sfacciataggine
dimostrata dall’uomo. Lord Gastonblury in quel momento era
solamente un
pensiero fastidioso che doveva scacciare dalla mente: la
priorità era cercare
suo padre, svanito da troppi giorni. Con un groppo in gola, si
addentrò nella
foresta pregando di riuscire a individuare una traccia, anche una sola,
capace
di suggerirle che il genitore fosse ancora vivo.
Quello che
successe dopo, fu un
sogno, un incubo, entrambi. Sigyn non sarebbe riuscita mai a ricordarlo
con
precisione, e coloro che si inoltrarono con lei nel fitto della foresta
non ne
uscirono vivi. Chi li aveva preceduti, del resto, aveva smarrito il
senno e
dimenticato ogni cosa. Alcune immagini si erano fissate nella mente di
tutti
gli sfortunati esploratori, a dire il vero. Visioni false
cristallizzate nella
testa, tutte uguali, che raccontavano di un bosco diverso da quello
visitato
realmente, dove i rami degli alberi erano così fitti da
oscurare il sole, i
tronchi tanto contorti che pareva fossero cresciuti su una terra
avvelenata,
l’aria così fredda che sembrava di vivere in un
inverno maledetto.
Non esistevano
strade per la Tana del
Mostro, dicevano le quattro pagine nate dal nulla che facevano loro da
mappa e nessun’altra
edizione conteneva. Gli dèi avevano cancellato ogni traccia
o sentiero che
potesse condurre nel luogo stregato. Nei secoli, altre vie erano state
battute
e segnate, ma il tempo e le sventure avevano convinto gli uomini a
occultare
anche quelle. Sigyn non avrebbe saputo dire mai cosa ci fosse di vero,
in
quella storia. S’inoltrò nella foresta
accompagnata da un guardiacaccia, da un
servitore e da alcuni uomini della città vicina che dicevano
di aver visto suo
padre avventurarsi, un mattino di molte settimane prima, verso il
sentiero che
conduceva nel bosco di Hallerbos.
Era
davvero quello il nascondiglio della Bestia? La prigione dove un dio
vendicativo e riottoso aveva, secondo un mito vecchio di mille anni,
rinchiuso il
figlio traditore e bugiardo? Dicevano che fosse un luogo stregato,
magico. Lo
chiamavano il bosco blu,
la foresta incantata, e il motivo era quel tappeto di giacinti che
ricopriva la
terra sospendendo il tempo. Spuntò un cervo, dal nulla.
Prima di sparire nel
silenzio dei rami fitti, li guardò sorpreso. Sigyn
pensò che suo padre era
pazzo: quella era una terra troppo bella per rinchiuderci un dio
sconfitto. La
nuvola di fiori tra l’azzurro e il viola le sarebbe rimasto
in mente per sempre,
unica traccia di quel viaggio assurdo. Mesi dopo, camminando attraverso
corridoi contorti e senza luce, a un tratto si sarebbe fermata, colta
dall’improvviso ricordo della distesa di giacinti e di suo
padre. E avrebbe
provato una fitta di nostalgia.
Fu il fiume che
spariva nella grotta,
l’ultima cosa che avrebbe ricordato con precisione e
nitidezza. Dopo, tutto si
sarebbe trasformato in un incubo dai contorni sbiaditi, governato dal caos. C’era un corso
d’acqua pura e
cristallina, che scintillava in mezzo ai giacinti tenuamente colorati
d’azzurro
e c’era incisa una runa nella pietra. Sigyn smontò
da cavallo per far
abbeverare l’animale e venne attratta da qualcosa. Si
avvicinò al simbolo
scolpito nella roccia e vide un lembo di stoffa che penzolava mesto tra
i rami.
Lo riconobbe come un pezzo del mantello di suo padre e
sobbalzò, di fronte al
segno che marchiava la pietra. Nelle quattro pagine che sembravano
essere lo
scherzo perfido di un editore o di un falsario, era raffigurata la
medesima incisione:
figure stilizzate create da uomini di un altro tempo. Si trattava di un
segno
magico che invitava i viandanti ad abbondare quella foresta incantata
che si tingeva
d’azzurro, persa nel cuore d’Europa, crocevia
bagnato del sangue di popoli che
non si erano riusciti a mescolare tra loro. Se solo lo avesse
ascoltato. Se
solo le rune scolpite sulla pietra non fossero state corrose dal tempo
e
occultate dalla vegetazione, forse Sigyn avrebbe potuto riconoscere i
simboli e
persino pronunciarli. Sarebbe stata in grado di ricordare vagamente
ciò che
diceva ad alta voce suo padre quando lei era bambina e, distratta,
disegnava
mondi fantastici, anziché finire nella grotta. Invece,
questo accadde.
Quello che
invece sapeva con assoluta
certezza, riguardava il tesoro che scintillava nella grotta. Sembrava
la tana
di un drago o la tomba di un re: probabilmente, era entrambe le cose.
Sfiorò
anche lei le coppe e le armi scintillanti e splendenti. Le sue dita
sostarono
un momento di troppo sulle corone e sui gioielli che appartenevano a un
altro
luogo e a un altro tempo, ammirando le cesellature finissime, la cura
degli
intarsi, la lucentezza delle gemme. Non sottrasse nulla alla pietra,
però;
mormorò a mezza voce una filastrocca antica che spiegava
perché non si dovesse
mai rubare l’oro ai mostri e agli spiriti, ma il
guardiacaccia e i servitori
che erano con lei non furono altrettanto accorti. Sigyn li
supplicò di non
trafugare niente. Ricordò loro che erano lì
unicamente per cercare suo padre
che si era smarrito, non per violare una tomba o un santuario, e forse
la sua
voce coprì il fruscio leggero che avrebbe dovuto avvertirla
del pericolo
imminente. Non l’ascoltarono e, quando iniziarono a crederle
e gettarono a
terra le coppe e le corone, le collane e gli anelli, il lupo era
già su di
loro. Il suo ringhio basso li sorprese, le sue fauci li ghermirono
dilaniando e
strappando.
Era una creatura
mostruosa, enorme,
d’altri tempi, che smentiva, con la sua presenza terribile e
la mole innaturale,
la fiducia che gli uomini avevano iniziato a maturare nella ragione e
nella scienza.
Pareva uscito da un bestiario medievale o da una leggenda antica, una
di quelle
miniate con cura e perizia da Simone Martini e dagli altri,
racchiuse nei codici medievali sparsi per le biblioteche
d’Europa, come monito,
speranza, sogno. Sigyn vide un’ombra nera e iniziò
a correre inoltrandosi nei
corridoi oscuri e senza luce del tumulo, insinuandosi ancora di
più nella
tenebra perché l’uscita le era preclusa
dall’animale. L’elettricità che
iniziava a dissipare il buio, le comunicazioni che viaggiavano da un
capo
all’altro di un filo steso dal genio e
dall’inventiva umana, le macchine che
permettevano agli uomini di spostare cose, persone e svolgere il lavoro
di
esseri senzienti: tutto svanì, nella fuga disperata da una
morte che odorava di
leggenda. Il mondo pareva essere cambiato; non esistevano
più mostri né draghi
e quelli che avevano terrorizzato il mondo erano bestie antiche vissute
in un
altro tempo, eppure Sigyn ebbe paura come se si trovasse in un racconto
arcano.
Un dolore tremendo la colse a una gamba. L’animale
l’aveva azzannata e ora
avrebbe dilaniato e sbranato anche lei. Scivolò e cadde;
sentì il fiato caldo
della bestia su di sé, la sua bava che sapeva di sangue e
carne.
Il lupo era
ormai sopra di lei,
quando una figura avanzò tra le tenebre della grotta armata
di una fiaccola
tenue. Con un ordine secco amplificato dall’eco della
caverna, bloccò
l’animale, eccitato dal sangue.
“Aspetta.”
L’uomo
si chinò e prese tra le dita
una ciocca sottile sfuggita all’acconciatura di Sigyn per
valutarne la
morbidezza. “Ha i capelli d’oro degli
Æsir,” mormorò. Fu l’ultima
cosa che la
ragazza sentì; poi svenne e tutto divenne nero –
anche i suoi pensieri.
Fu un singhiozzo
soffocato, a
svegliarla. Il lupo la inseguiva, feroce e terribile e lei continuava a
scappare, perdendosi sempre di più nelle grotte ricoperte di
gioielli, nei cunicoli
freddi e umidi dove quasi poteva sentire il sibilo spietato di qualche
creatura
ancora peggiore. E la bestia, spietata e famelica creatura, continuava
a
rincorrerla con le fauci ancora insanguinate dei suoi compagni.
Fu il crepitio
delle fiamme a tirarla
via dall’incubo. E allora, Sigyn aprì gli occhi e
capì di essere ancora viva.
Girò lentamente la testa di lato, fu scossa da un brivido.
Era in un palazzo in
rovina. Glielo dissero i soffitti altissimi e le pareti un tempo
riccamente
affrescate, ora solo incrostate di colore su cui danzavano ombre
spettrali. C’era
un uomo, poco distante da lei, accanto all’ampio camino. Era
giovane d’aspetto,
e il suo profilo era affilato e bello. Aveva gli occhi chiari e i
capelli neri,
come neri erano gli stivali, i pantaloni e la camicia che indossava.
Fissava
assorto le fiamme che ravvivava, di tanto in tanto, con un attizzatoio.
“Dove
sono? Che posto è questo? Chi
siete?” boccheggiò, ritraendosi istintivamente.
L’altro
non si voltò. “Siamo in ciò che
resta di un grande castello.”
“Mi
avete salvato,” mormorò Sigyn,
stupita.
L’uomo
posò il suo sguardo chiaro su
di lei, scrutandola alla luce rossastra delle fiamme.
“Così pare,” commentò
asciutto. Aveva una voce calda e roca, bella da ascoltare,
pensò la ragazza. Si
accorse di essere coperta con un pesante mantello di lana scura
– il suo? – e
che le sue ferite erano state medicate.
“La
mia gamba,” soffiò, scostando la
stoffa scura. Una striscia di tessuto le copriva la pelle, ma
dell’orribile
ferita che le aveva inferto il lupo non c’era quasi
più traccia. “Credevo fosse
molto più grave.”
Lui le rivolse
un’occhiata distratta,
prima di concentrarsi nuovamente sulle fiamme guizzanti. “Eri
spaventata, hai
perso molto sangue. Ma il taglio non era così
profondo.” Aveva il potere di
calmarla, notò Sigyn, come se nel suo timbro ci fosse un
qualche misterioso
incantesimo. Ma forse fu solo il disperato bisogno di sentirsi al
sicuro, che
la spinse a fidarsi delle sue parole dopo tutto l’orrore che
aveva visto.
L’uomo
alzò i suoi occhi chiari su di
lei. Erano verdi e quasi trasparenti, ma non privi di ombre torbide.
Alla luce
fioca del fuoco, forse la ragazza non se ne accorse. “Questo
posto è maledetto.
La gente lo teme, l’ha isolato dal mondo. Ha impedito che
venissero costruite
strade che conducessero qui e ha cancellato quelle antiche. Sotto
queste mura
dormono creature oscure. Perché siete venuti?”
“Cercavamo
i segni di una leggenda
antica,” mormorò Sigyn stringendosi di
più nel mantello scuro. La stoffa in cui
era avvolta odorava di cuoio, resina e pioggia. Nonostante il fuoco, il
gelo le
irrigidiva le ossa.
Lo straniero la
fissò a lungo, prima
di rispondere. “Ci sono cose che dovrebbero essere lasciate
dove sono. Porte
che non vanno aperte, oggetti che non vanno toccati. Spiriti che non
vanno
svegliati.”
Quella frase le
fece tornare alla
mente di nuovo, con orrore, l’orribile lupo e i corpi
straziati dei compagni. Un
conato quasi la costrinse a rimettere lì, di fronte allo
sconosciuto salvatore.
Ma poi si riscosse, e scoprì, dentro di sé, una
forza che non credeva possibile.
Sostenne il suo sguardo indagatore e parlò con voce
vibrante, sicura. “Siamo
fatti per scoprirlo, il mondo. Non per rimanere chiusi nelle nostre
case, a
tremare appresso a qualche vecchia superstizione,”
s’inalberò, anche se forse,
adesso, non ne era più così convinta.
“Ed
è davvero questo che volevate
vedere?” chiese lo straniero con un tono ironico e amaro
assieme.
Sigyn si
passò una mano sulla fronte
quasi volesse, con quel gesto, scacciare il ricordo delle ore appena
trascorse.
Si rese conto di non saper rispondere a quella domanda e allora ne pose
un’altra. “L’ultima cosa che ricordo
è un lupo enorme che mi stava aggredendo. Come
avete fatto a salvarmi?”
“Gli
ho sparato per allontanarlo,”
rispose l’uomo spostando con la punta del bastone alcune
braci, “e quello è
scappato.”
“E a
trovarmi?” insistette ancora,
“dite che nessun sentiero porta qui.”
“Quanta
curiosità,” commentò laconico
l’uomo, “sembra quasi vi dispiaccia che vi abbia
trovato.” Fece una pausa e un
sorriso sbieco gli attraversò le labbra sottili.
“Siete dei ladri, dei
predoni.” La sua voce mutò e divenne metallica,
severa. “Cercavate il tesoro,
volevate disturbare gli spiriti. Dicono che qui, più di
mille anni fa, fu
sepolto un dio: è il suo corredo funebre, quello che
cercavate?”
Sigyn
pensò al tesoro da cui era
rimasta incantata, ma che aveva solo sfiorato, alle leggende antiche
dietro cui
suo padre si era perso smarrendo il senno. Conosceva le storie, le
aveva
imparate da bambina. I dettagli no, le erano sfuggiti, e per questo era
entrata
nella grotta, ma il mito remoto su cui si poggiava la spasmodica
ricerca del
genitore e di tanti altri prima di lui non le era estraneo. Una fiaba,
lontana
nel tempo e nello spazio, raccontava di un trickster,
un essere magico e ambiguo dotato d’incredibili
poteri, che era stato punito per le
sue molte azioni riprovevoli e
rinchiuso in una fortezza inviolabile, protetta da mille rune. Una
tomba da cui
non sarebbe mai più potuto uscire. Condannato a una vita
sospesa in un mondo
alieno che non gli apparteneva, non avrebbe potuto far altro che guardare. Così era stato
deciso. Il
racconto le salì dal cuore alle labbra, ma Sigyn non lo
pronunciò. Amava suo
padre e aveva attraversato mezza Europa per cercarlo, ma, pur
appoggiando la
sua ricerca, non la condivideva. Lei credeva nella scienza e nelle
arti, nella
volontà dell’uomo di manipolare la natura con la
forza del proprio intelletto,
non nella storia triste e oscura di un dio bugiardo prigioniero nel
mondo degli
uomini.
“Io
no. Non sono in cerca di tesori,
ma di mio padre,” lo corresse e nel suo sguardo
brillò una fierezza che l’uomo
si sorprese nel riconoscere, perché anche lui
l’aveva provata. Prima che la sua
prigionia fuori dal tempo avesse inizio, nei suoi occhi aveva
scintillato una
luce simile. Osservando la ragazza, si avvide che le tremavano le mani
forse
per il terrore che le aveva instillato il lupo. Eppure, nonostante
questo,
proseguì.
“Tuo
padre è un ladro,” sentenziò
sicuro, le labbra stirate in un smorfia di dispetto. “Si
è intrufolato nella
grotta per depredarla, spinto anche
dalla sete di conoscenza, ma, alla fine, l’avidità
ha prevalso. Ha rubato.”
Sigyn
balzò in piedi. “Voi sapete
dov’è! Chi siete, che gli avete fatto?”
L’altro
la prese per un braccio e la
trascinò in uno dei molti corridoi della fatiscente dimora.
La ragazza tentò di
fuggire e di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era ferrea e
tentare di scappare
si rivelò inutile. La condusse attraverso un cunicolo
più scuro degli altri
ignorando le sue proteste e le sue grida, finché non
giunsero davanti a una
cella malamente illuminata; solo allora la lasciò andare.
Oltre le grate,
riverso a terra e scosso dalla febbre e da una tosse violenta,
c’era un uomo
che si stringeva in un mantello lacero e gemeva debolmente. Accanto a
lui,
scintillava una rosa fatta d’oro.
Nonostante la
luce fioca, Sigyn
riconobbe il prigioniero e si aggrappò alle sbarre. Un
terrore senza nome
l’avvolse di fronte a quella vista spaventosa.
“Padre! Padre svegliatevi! Sono
io, sono venuta a cercarvi!” gridò. Vide
l’anziano genitore che si riscuoteva
debolmente e si sfregava gli occhi e il suo cuore si spezzò
nel vederlo
improvvisamente così fragile e vecchio. Si rese conto, per
la prima volta nella
sua vita, di quanti pochi anni gli spettassero ancora vivere.
Percepì che la morte
lo avrebbe portato via presto, troppo, come già si era presa
sua madre. Con il
viso rigato da lacrime di pietà e di rabbia, si volse verso
l’uomo vestito di
nero e lo fissò con occhi ardenti. “Che gli avete
fatto? Chi siete?”
Un ghigno.
“Lo vedete da voi. Punisco
un ladro,” le rispose, senza celare affatto la punta di
divertimento che quella
scena drammatica gli instillava.
Il vecchio,
intanto, si era riscosso.
Resosi conto con orrore che la voce della dolce figlia non era un
miraggio o un
sogno, ma realtà, si tirò in piedi nonostante le
gambe malferme e si avvicinò
alle grate prendendo tra le sue le mani morbide e sottili della
ragazza. “Sigyn,
vai via, ti prego! Scappa da questo luogo, corri, presto!
L’ho trovato! È
ancora qui, da mille anni…” boccheggiò.
Singhiozzando,
lei tentò di
abbracciarlo nonostante le sbarre. “Padre, non ti sforzare!
Ti porterò via da
qui, verrai con me a casa!” promise.
Gli occhi del
vecchio esploratore si
riempirono d’orrore. “No! Tu devi fuggire, devi
andare via immediatamente. Io non
posso, il mio destino è rimanere qui, come tutti gli
altri.” Sbatté le
palpebre, confuso. “Non ho saputo resistere al
tesoro,” ammise con una punta di
dispiacere, chinando la testa verso la rosa d’oro ancora a
terra. “Ma tu,”
riprese sfiorando la guancia serica e umida della figlia, “tu
devi tornare
indietro. Non può seguirti… guarda
l’incisione, Sigyn. Questa è la sua casa.
Guarda l’incisione, ti prego!”
La ragazza
scosse la testa, incapace
di comprendere a cosa si stesse riferendo suo padre. Si
voltò per dare un nome alla
paura che annichiliva il pensiero dell’altrimenti brillante
genitore, per
capire cosa avesse potuto ridurre, nel giro di pochi giorni,
l’uomo in quel
terribile stato. Di fronte alla cella, c’era
un’incisione; una versione
conservata meglio di quella che aveva visto appena fuori la grotta. Le
si
avvicinò lasciando a malincuore le dita nodose di suo padre
e ne fu attratta al
punto da sfiorarne i contorni, come se in quell’intaglio
fosse nascosto un
potente incantesimo. L’uomo in nero non disse nulla. Si
limitò a fissarla con
le mani incrociate dietro la schiena avvicinandosi, però,
con passo felpato fin
quando non le fu alle spalle.
Tre figure erano
state disegnate con
tratti spessi. Sigyn sfiorò con dita incerte la pietra
lavorata, seguendone i
contorni. Sentì la voce di suo padre minacciare e
supplicare, ma ogni cosa
svanì mentre toccava l’incisione. Il primo era un
lupo, di stazza enorme e
dalle fauci pronte ad azzannare.
“Fenrir,”
le mormorò all’orecchio lo
straniero.
Il secondo era
un serpente che aspettava
le sue vittime nelle profondità di un lago.
“Jormungander,
il drago marino.”
Il terzo, era la
figura stilizzata di
un uomo. E Sigyn, sfiorandone la sagoma, comprese a quale fine fosse
andata
incontro con suo padre e le si gelò il sangue nelle vene.
L’uomo
in nero le posò una mano sulla
spalla, accarezzando appena una delle sue ciocche d’oro.
“Se pronuncerai il mio nome,
spezzerai l’incanto,”
l’avvertì avvicinandosi e sfiorandole con le
labbra il collo.
Sigyn
tremò per la vicinanza
improvvisa e per il terrore, ma non si mosse.
“Perché ancora non mi hai
uccisa?” domandò invece con un filo di voce.
“Abbiamo
avuto già il nostro tributo
di sangue,” mormorò il dio degli inganni.
“E tu non hai tentato di rubare
niente.”
Lei
deglutì. “Non mentirmi,”
soffiò,
supplicò, senza voltarsi.
“Una
debolezza,” le sussurrò
all’orecchio. “Sono rinchiuso qui da molto tempo.
Troppo.”
Sigyn si
girò lentamente e riconobbe
nei lineamenti affilati e belli dello straniero vestito di nero quelli
dell’iscrizione che aveva scorto nella grotta e non aveva
saputo decifrare e
che ora aveva ritrovato lì, nel labirinto di corridoi e
cunicoli di quel
castello fatiscente.
“Liberalo,
ti prego. È vecchio e
malato,” lo implorò, pallida in volto.
Loki
aggrottò le sopracciglia. “Ha
sbagliato,” sentenziò perfido.
“Come
tutti. Come te.”
L’Ase
le scoccò un’occhiata gelida,
terribile, fredda come una lama di ghiaccio. “Come osi?
Ricorda il mio nome.”
“Lascialo
andare,” lo supplicò ancora
tremando, “la rosa la prese per me, gliela chiesi io. La
colpa è mia, solo
mia.”
“Morirà
qui perché è un ladro.”
C’era
una nota di compiacimento,
nella voce arrochita del dio degli inganni che non sfuggì
affatto a Sigyn. Di
fronte alla possibilità che la spietata creatura potesse
sfogare maggiormente
la sua ira sul genitore, ebbe uno slancio di folle coraggio.
“Prendi me.”
Lo aveva detto
davvero, eppure la sua
voce le risultò estranea, come se fosse stato qualcun altro,
a pronunciarla.
Il dio Loki si
volse verso di lei
inarcando un sopracciglio, chiaramente sorpreso da quell’atto
sconsiderato. “Il
tuo sacrificio è folle e inutile,”
l’avvertì maligno. “Tu sei giovane e non
hai
commesso alcuna colpa. Lui è vecchio, gli restano comunque
solo pochi anni da
vivere. Perché ti vorresti immolare per lui? Che vantaggio
otterresti,
rinunciando alla tua vita? Moriresti qui tra molti anni da oggi. Non
è questo
quello che desideravi, per te stessa. Io lo so, lo vedo.”
Sigyn si accorse
che grosse lacrime
avevano preso a rigarle le guance. “Non posso lasciarlo in
queste condizioni,”
spiegò con voce rotta. “Prendi me. La mia vita in
cambio della sua. È uno
scambio equo, un accordo. Una vita per una vita. A te non
cambierà niente.”
“Una
vita per una vita,” le ripeté
l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato.
“Non sai a che stai
rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso,
francamente stupido,”
sentenziò a denti stretti. “Perderai per sempre la
tua libertà e per cosa? Per
un vecchio pazzo che ha sempre preferito leggere le sue carte sdrucite
che
pensare a te? A un folle che ha dilapidato le sue sostanze per cercare
la mia
tomba maledetta?” Una risata fredda e secca gli scosse il
petto. “Io sono il
dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono
raccontate
ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i
Nove
Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.”
“Da
quando a Loki interessa il
destino di una mortale?”
L’Ase
scosse la testa. “Tu non sai
niente. Per gli abitanti di Midgard ho fatto tanto. Molto tempo fa,
forse
troppo, donai agli uomini il fuoco e il
bell’aspetto,” rammentò, stringendo le
palpebre come se cercasse, nella sua mente contorta, il ricordo perduto
da
associare a quell’ammissione. Si riscosse, un lampo divertito
gli attraversò lo
sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e,
d’ora in poi, sarà anche la tua.
Accetto lo scambio.”
Continua...
(lunedì 10)
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Capitolo 2 *** Della fragilità di una rosa ***
Capitolo 2
Della
fragilità di una rosa
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
[…]
Quando leggemmo il
disïato riso
esser basciato da
cotanto amante,
questi, che mai da me
non fia diviso,
la bocca mi
basciò tutto tremante.
Galeotto
fu 'l
libro e chi lo scrisse:
quel giorno
più non vi leggemmo avante».
(Dante Alighieri, La
Divina Commedia, Inferno, Canto V.)
Nessuna cosa era
come sembrava, nel
palazzo incantato dell’ingannatore di Asgard che lui, con un
filo d’ironia, definiva
la propria tomba. Non appena il vecchio Lord fuggì dal
cerchio magico di rune
tracciato da Odino in persona, l’edificio sghembo e in rovina
in cui Sigyn era
stata portata si trasformò in un palazzo incantato, vittima,
come ogni cosa,
del sortilegio che lo legava al suo signore. All’inizio, la
ragazza provò solo
terrore e disperazione per la sua triste sorte. Il coraggio che le
aveva
gonfiato il petto quando si era offerta di scontare la prigionia al
posto di
suo padre si era trasformato, ben presto, nell’amara
consapevolezza di aver
appena perso ogni cosa e che sarebbe morta entro un cerchio di rune
incise,
mille e più anni prima, da una divinità
vendicativa e furibonda. Non avrebbe
vissuto niente, della vita che l’aspettava. Non sarebbe mai
potuta salire
sull’Orient Express alla volta delle steppe
dell’Impero Russo, né sarebbe
sbarcata a New York, dov’era s’era trasferita sua
cugina con i figli. Si erano
promesse, per iscritto, che si sarebbero incontrate l’estate
seguente e avevano
fantasticato del tempo che avrebbero trascorso insieme. Niente di tutto
questo avrebbe
mai avuto luogo; sogni e speranze si sarebbero trasformate
nell’amaro e inutile
rimpianto d’un giocattolo catturato da un mostro, da una
bestia crudele che la
cattività aveva reso pazza. Questo erano, lei e Loki. Fino
al suo ultimo
respiro su questa terra, il mondo si sarebbe esaurito sul limitare di
un
cerchio maledetto. Il dio degli inganni, dal canto suo, la ignorava.
Lei non
significava niente, non serviva a nulla. L’onta dovuta al
furto di cui si era
macchiato suo padre era stata lavata, la rosa dai petali
d’oro era tornata a
scintillare assieme al resto del tesoro.
Sigyn non era altro che una mortale, della cui esistenza
troppo fragile
e breve presto Loki si sarebbe dimenticato. Per molti giorni pianse la
sua
sorte, finché un pomeriggio si asciugò le lacrime
con il dorso della mano e decise
di esplorare la sua prigione.
Fu allora che
trovò il labirinto,
quello vero. Una torre intera ricoperta, tappezzata di libri che Sigyn
conosceva e amava e di altri di cui non aveva mai sentito parlare e che
si diceva
fossero andati perduti da secoli. Resoconti di maghi e di viaggiatori
folli,
epopee scritte da popoli perduti le cui vestigia erano state coperte
per sempre
dalla sabbia di deserti lontani. Con le dita che tremavano per la paura
e
l’emozione, accarezzò il dorso rilegato in pelle
dei volumi più antichi, sfiorò
le ruvide pergamene che giacevano ancora arrotolate. Non si accorse di
aver
perso l’orientamento, né diede peso al fatto che
lo spazio pareva dilatarsi a
ogni suo passo, stregata com’era dal fascino oscuro di quel
luogo ammaliante.
Si ritrovò a sfogliare le pagine, vergate in un alfabeto
arcaico e sconosciuto,
di un libro scritto con simboli runici così antichi che la
testa aveva preso a
girarle solo seguendo l’andamento dei segni posti uno accanto
all’altro.
“Non
provare mai più a leggere gli
incantesimi oscuri.” La voce roca del dio degli inganni la
sorprese alle
spalle. Non lo aveva sentito arrivare. S’accorse di stare
barcollando, di non
riuscire a rimanere in piedi. Tutto vorticava attorno a lei e sarebbe
caduta a
terra, se quella creatura perfida con le fattezze d’uomo e il
cuore di una
bestia non l’avesse sostenuta. Si ritrovò tra le
sue braccia – aveva una presa
ferrea, lui, virile, e odorava di cuoio e pelle e qualche strano
incenso.
“Quel
libro non è per te. Questo
posto non è per te.” Viso affilato, occhi verdi
quasi trasparenti, labbra
sottili sfregiate appena da una cicatrice lieve, ormai bianca. Non
erano mai
stati così vicini, se non nei pensieri da cui Sigyn era
fuggita quando aveva
compreso che lui, per portarla dalla grotta grondante oro fino al
camino,
doveva averla sollevata e stretta a sé.
Tentò
di riprendersi in fretta,
libera, ormai, dal giogo delle strane rune. “Mi avete
rinchiusa qui. Questa è
la mia casa, adesso – la mia prigione, mi
correggo.” Come si parla a un dio folle
e crudele, costretto dai suoi pari a esaurire
l’eternità dentro a una gabbia
incantevole e invalicabile? Le leggende antiche che parlavano davvero di quel mostro simile a un uomo
erano oscure dicerie che Sigyn aveva dimenticato da tempo, o forse non
aveva
conosciuto mai. Storie di scherzi e di burle, di inganni e di
tradimenti. Cosa
sono, gli Æsir? Creature di un altro mondo antiche e
arroganti? Padroni stanchi
di giocare con le loro bambole umane? Sigyn, prigioniera del peggiore
tra loro,
non poteva chiederselo e non aveva nulla da perdere. Per questo
alzò il mento
con fierezza e sostenne lo sguardo verde e aguzzo dell’antica
creatura di
fronte a lei.
Loki
increspò le labbra, incrociò le
mani dietro la schiena, come il dio che era e il principe che era stato
– ma
questo, Sigyn non poté comprenderlo né capirlo.
“Tu
l’hai scelta,” le ricordò
caustico. “Hai sacrificato la tua esistenza
volontariamente.” Sorrise appena,
inclinò il capo di lato, come se volesse guardarla con
più attenzione. “Voi umani
non dovreste essere così sciocchi. Il tempo vi è
nemico; scorre inesorabile e
non torna più indietro.”
Sigyn fu scossa
da un brivido, perché
le parole del mostro davanti a lei erano intrise di una saggezza
inappuntabile,
esatta, crudele come i suoi occhi chiari; eppure, nella sua voce, era
sicura di
aver colto l’ombra di qualcosa – rimpianto, forse.
“Non è nemico anche del dio
degli inganni, il tempo?”
Il bel volto
dell’Ase si contrasse in
una smorfia. La squadrò da capo a piedi come se volesse
valutarla, soppesare le
sue intenzioni, leggerle il cuore. Forse lo fece.
“No,” soffiò infine. “Porta
con sé solo tedio, noia, dispetto. Scorre in maniera
diversa, per noi, il
tempo. Cento anni per gli uomini sono una vita intera;
un’esistenza lunga,
piena. Per noi, solo un battito di ciglia, un palpito del cuore. Nelle
vostri
menti, i ricordi sbiadiscono. Perdono d’intensità,
si velano della dolce
tristezza della nostalgia. Nelle nostre, invece, sono scolpiti per
sempre e
diventano immutabili. Gli Æsir non possono
dimenticare.”
Aveva parlato
con fierezza, tenendo
le spalle diritte e la schiena tesa, vantandosi di quello che, agli
occhi della
mortale, dovette sembrare un’orrenda maledizione. Sigyn
scosse il capo mestamente.
“È un destino terribile.”
Era vero?
L’Ase contrasse la
mascella, irrigidendosi di fronte a quella constatazione sincera,
carica però
di un’empatia offensiva, non richiesta, non voluta; che
infilava
inconsapevolmente il dito in una piaga antica, vecchia più
di mille anni.
“Sparisci
dalla mia vista e non
tornare, mortale,” le ordinò secco.
“Questa non è una delle tue confortevoli
biblioteche, ma l’officina d’un mago, lo studio di
un dio, il labirinto della
bestia.” L’afferrò per il polso
allontanandola dal libro d’incantesimi che
quasi l’aveva catturata – era arrivato appena in
tempo – e la trascinò per le
sale ricoperte di scaffali e tavoli zeppi di volumi e pergamene.
“Ti
brucia? Ti brucia ancora come il
primo giorno che ti ha rinchiuso qui?” La voce di lei lo
colpì quasi come uno
schiaffo. Si fermò nel bel mezzo dell’ennesima
stanza che si affacciava su
un’altra assolutamente identica, uguale; ecco dove custodiva
la sua collezione
preziosa che gli aveva impedito, nei secoli, di diventare davvero
pazzo, di
smarrire il senno.
“Non
osare pronunciare una sola
parola in più, ragazzina,”
l’avvisò tetro.
Lei non gli
obbedì. Riconobbe, nel
tono tagliente che l’Ase aveva usato, una traccia della furia
che i miti e le
leggende gli attribuivano e scelse di essere sincera. Di aprire il suo
cuore al
dio degli inganni. Di confessare quello che non era dolore o pentimento
per una
scelta azzardata, ma il senso di perdita e smarrimento conseguente a
quella
decisione che non avrebbe mai ricusato. Oppose resistenza, si
aggrappò al suo
braccio.
“Questa
è la tua
prigione,” ammise. “Per il tempo d’un
battito di ciglia, di un
soffio del cuore, sarà anche la mia:
lascia almeno che legga. Consentimi di vivere, attraverso la carta, la
vita e
le possibilità a cui ho rinunciato. Non vedrò mai
più il mondo, non abbraccerò
mai più i miei cari; non m’innamorerò
né avrò figli e nipoti. Lascia almeno
che, per una manciata di anni che per te non significano nulla, io
possa
leggere, immaginare, sognare. Vivere l’esistenza a cui ho
rinunciato tramite un
libro.”
Il dio degli
inganni ascoltò quella
supplica disperata bevendo ogni parola della mortale. Forse era
stupito, perché
erano passati millenni da quando gli uomini avevano smesso di
ringraziarlo per
i molti e utili doni che aveva fatto loro. In un altro luogo, in un
altro
tempo, quando ancora pensava di poter essere un giorno degno agli occhi
dell’Allfather che,
seppure privo d’un occhio, tutto vedeva, aveva insegnato ai
figli della giovane
Midgard a domare il fuoco. Le lingue scarlatte potevano bruciare ogni
cosa e portare
distruzione e morte, ma erano anche benigne; scaldavano le membra
infreddolite,
rischiaravano le notti più scure cacciando via le ombre,
scioglievano i metalli
e cuocevano i cibi. Allo stesso modo, oltre a rendere i loro volti
piacevoli e
belli, aveva insegnato loro l’arte di intrecciare reti e di
pescare.
Di fronte a
quella richiesta accorata
e fiera, s’accorse con dispetto di comprendere il dolore
della delicata mortale
dai capelli d’oro come gli Æsir, perché
anche lui l’aveva provato sulla sua
pelle. Nei mille e più anni trascorsi nella tomba a cielo
aperto che Odino gli
aveva donato, la libertà gli era mancata ogni giorno,
istante, secondo. Sebbene
il tempo non gli difettasse e ne avesse ancora in abbondanza,
scoprì di capire
perfettamente l’angoscia e lo smarrimento della sua bionda
preda. Era qualcosa
di fisico, un malessere profondo che scavava graffiando e lacerando lo
spirito.
Lei aveva ragione: erano prigionieri entrambi. Condividevano la
medesima
maledizione e l’avevano scelta deliberatamente, scientemente,
volutamente, anche
se Sigyn non poteva certo conoscere né immaginare quali
fossero, realmente, i
termini e le condizioni della crudele punizione imposta dal potente
Odino al
dio degli inganni. Soffocando a stento le lacrime, mordendosi le labbra
per non
gridare al cielo il suo dolore, Sigyn era riuscita a dare voce alla
bestia nera
che urlava nel petto di Loki stesso. Aveva davvero i capelli
d’oro degli Æsir,
lei; un popolo di dèi ed eroi, di pirati ed esploratori, di
predoni e di maghi.
Le concesse di poter accedere ad alcune stanze della sua labirintica
biblioteca
perché, si disse, era curioso di vedere cosa ne avrebbe
fatto del suo tempo.
Per soffocare la noia, riempire il vuoto delle sue ore, concedersi una
distrazione bella da guardare, perché il dio degli inganni
non era una creatura
incorporea e immateriale, ma era fatto di carne e sangue e aveva il
corpo un
uomo nel pieno delle sue energie e forze e voglie. In fondo, si disse,
sarebbe
durato solo il tempo di un battito di ciglia, di un soffio del cuore.
Si
sarebbe trattato di un esperimento, dell’ennesimo studio
condotto per ingannare
il tempo, nient’altro. Con voce severa, le concesse di poter
accedere ad alcune
di quelle stanze: lì, avrebbe potuto studiare ciò
più le aggradava, per il
tempo che riteneva necessario. L’unico vincolo che le impose,
fu di non recarsi
mai, per nessuna ragione al mondo, nel piano superiore della torre
dov’era il
suo studio.
Forse
è vero ciò che si racconta
ancora in qualche capanna sperduta sugli dèi; che siano
volubili e amino essere
adorati e invocati. Loki, il cui nome dagli uomini era stato
dimenticato e
veniva pronunciato a denti stretti solo per qualche oscura
imprecazione, come i
suoi pari Æsir, non aveva saputo resistere al fascino di una
preghiera sincera
e spontanea, detta col cuore. Mentre si allontanava, tuttavia, parole
antiche e
oscure tornarono ad affacciarsi nella sua mente scaltra e astuta.
Fenrir, il
lupo, quando lo vide, ammiccò appena con i suoi occhi
guardinghi e quasi
fluorescenti. Forse, presto, la prigionia sarebbe finita.
♥
Passarono i
mesi, giunse infine
l’inverno nella foresta di Hallerbos. La nuvola blu che
impreziosiva la terra
venne sostituita da una coltre bianca e immobile di neve che
ricoprì ogni cosa.
Gli alberi si trasformarono in ossa adunche e tristi che nascevano dal
suolo
per innalzarsi a invocare il cielo, i fiori si addormentarono in attesa
della
primavera lontana. Eppure, c’era qualcosa di tremendamente
bello e magnifico in
quel panorama onirico, di sogno. Oltre il sigillo che un dio adirato
aveva
tracciato sulla terra degli uomini, il tempo si era congelato,
cristallizzato.
Sigyn aprì gli occhi alla luce tenue e fredda di
un’alba livida, ma non per
questo meno splendida. Si tirò su soffocando a stento un
brivido dovuto
all’aria pungente. Con una mano, si liberò delle
ciocche bionde che erano
sfuggite alla treccia che usava per dormire, con l’altra si
sfiorò le labbra
colpevoli, chiedendosi confusa se non fosse stato tutto un sogno, un
inganno.
Lo spettacolo teatrale allestito da un dio annoiato e stanco, da una
creatura
millenaria che aveva congelato il suo cuore in un odio antico forse
motivato,
ma senz’altro lontano nel tempo e nello spazio.
Loki era crudele
e spietato, e lei lo
sapeva da sempre; da quando, bambina, suo padre abbassava il tono della
voce
ogni volta che incappava nel suo nome. Conosceva vagamente alcune delle
azioni
malvagie che aveva compiuto perché erano note anche
lì, su quella che lui
chiamava, non certo senza una punta di velato disprezzo, Midgard. Le
altre, le
aveva apprese sfogliando le pagine ingiallite dei volumi che lui le
aveva
concesso di leggere. Storie tetre, cronache di regni perduti e mondi
alieni che
il dio degli inganni, inizialmente, le aveva vietato persino di
toccare.
Racconti che chiarificavano ancora meglio la natura delle ombre che
danzavano
cupe nello sguardo chiarissimo di Loki, il senso del lieve ghigno
sardonico che
gli increspava le labbra sottili.
Sigyn si
coprì il volto con le mani
chiudendo gli occhi come se potesse, grazie a quel gesto, cancellare i
mesi
appena trascorsi, tutti. Fuori, danzavano piccoli fiocchi di neve.
Lievi e
leggeri, si posavano sulla foresta di Hallerbos che quasi nessuno, al
mondo,
sapeva essere la tomba di un dio furioso, di cui lei era cosa? Il
giocattolo,
l’ostaggio, la prigioniera, l’amica?
L’ultimo termine le strappò un sospiro
esasperato, carico d’ironica pietà verso se stessa
e nei confronti
dell’attitudine umana ad abituarsi a quasi ogni cosa. Loki
glielo aveva
spiegato il giorno prima, senza risparmiarle una punta di velenoso
sarcasmo.
Gli uomini, si era divertito a dirle, per sopravvivere si adattano alle
circostanze e così stava facendo lei.
“Non
è lo stesso per gli Æsir?”
Domanda provocatoria, esasperante, forse persino troppo pungente. Fatta
sorridendo appena e guardandolo da sotto le ciglia scure in un modo
pericoloso,
di cui lei stava smettendo di temere gli effetti e le conseguenze.
Nella gabbia
fuori dal tempo e dallo spazio dov’erano rinchiusi, avrebbero
potuto mai cessare
di essere il dio maledetto e la fanciulla che gli si era sacrificata?
Come sempre
negli ultimi mesi, l’Ase che
aveva portato nei Nove Regni e oltre guerra, distruzione e morte,
l’aveva
scrutata a metà strada tra il sorpreso e divertito. Colpa
dei libri che
riempivano ogni angolo di quella torre stregata; dei volumi che
entrambi non si
stancavano mai di sfogliare, delle domande che si era azzardata a
porgli
all’inizio di quell’inverno bianco come pochi.
Prima che cadesse la neve,
disattendendo platealmente ai suoi ordini, lo aveva cercato stupita,
meravigliata, incantata: aveva trovato l’ennesimo codice
antico e accuratamente
miniato e, stringendoselo delicatamente al petto, gli aveva domandato
quali
altri libri perduti degli uomini aveva raccolto e collezionato e
perché. Il dio
degli inganni, però, quella volta, non le aveva risposto. Si
era limitato ad
alzare gli occhi su di lei, guardingo e irritato.
Un’altra
sarebbe scappata a gambe
levate. Sigyn, invece, il giorno appresso era tornata con ancora
più domande, e
così quello seguente, fino a che il dio degli inganni non si
era deciso a
levarsela di torno rispondendole brevemente, tra i denti. A lei,
però, non era
bastato. Dopo la prima spiegazione, ne aveva chiesta una seconda e poi
una
terza: così, mentre l’inverno diventava ogni
giorno più rigido, il tempo aveva
cominciato a essere scandito da abitudini nuove, inconsuete,
impreviste. I
commenti laconici di Loki si erano fatti sempre più
articolati, profondi,
lunghi e Sigyn, affascinata dalle parole argute e dai discorsi
brillanti del
dio, anziché rimanere in silenzio ad ascoltare, non faceva
che porre nuove
domande arrivando anche a esporre i suoi, di ragionamenti.
Il dio
dell’inganno, all’inizio,
aveva reputato folle e sconsiderato il continuo rispondere e ribattere
e
suggerire della sua graziosa prigioniera. Si era persino leggermente
risentito,
per la sfacciata insolenza di quella ragazzina che,
all’apparenza, non aveva
altro pregio oltre al punto di biondo dei suoi capelli. Ma poi, col
passare dei
giorni, la viva curiosità di Sigyn aveva iniziato ad
andargli leggermente a
genio. Lei era intelligente, desiderosa d’imparare, persino
brillante in certe
sue considerazioni e, poi, adorava ascoltarlo nella misura esatta in
cui a lui
piaceva discorrere, raccontare storie e avere un pubblico. Gli occhi di
entrambi brillavano più intensamente, in quei momenti sempre
meno rari, ma
nessuno dei due se ne accorse. Solo Fenrir, l’astuto lupo che
controllava il
perimetro di quella prigione incantata, condannato come il suo signore,
lo
comprese.
Sigyn si
vestì rapidamente, a occhi
bassi, incapace di osservare la sua immagine riflessa nello specchio,
turbata
dai ricordi del giorno precedente. Quand’ebbe finito, si
sfiorò le labbra
un’altra volta. Non aveva sognato, né era caduta
vittima di qualcuna delle
atroci illusioni create dal dio dell’inganno, o forse
sì, ma nella maniera
sbagliata. Un peso tremendo le gravava sul cuore. Avrebbe voluto
possedere la
leggerezza di quei fiocchi di neve che cadevano lenti e silenziosi sul
bosco
incantato, sui tetti e le guglie del palazzo che solo lei poteva
vedere. Il
pomeriggio prima, si era accostata per l’ennesima volta alla
scrivania ingombra
di carte e pergamene e astrolabi e strumenti del dio degli inganni.
L’Ase era
assorbito nello studio e chiosava, con tratti rapidi della mano, certi
appunti
su un vecchio tomo. “È davvero
la sua
grafia, questa? È dal Quattrocento che nessuno
l’aveva più vista.” Ecco,
com’era iniziato tutto.
Sigyn, tremando
per l’emozione, gli
aveva allungato il codice manoscritto e l’Ase, inarcando un
sopracciglio, si
era alzato dalla scrivania incuriosito e aveva preso a scorrere
rapidamente la
lunga successione di terzine in versi. La scrittura appuntita di un
poeta
fiorentino che aveva cantato e maledetto il suo esilio era
lì, immobile
testimonianza di come anche l’effimera vita degli abitanti di
Midgard potesse,
a volte, assomigliare a quella dei nobili Æsir.
Era una menzogna, ovviamente. Nei lunghi secoli della sua prigionia, il
dio
degli inganni aveva appurato più e più volte che
le esistenze patetiche dei
caduchi e fragili umani racchiudevano una bellezza totale, assoluta,
ultraterrena; divina, quasi. Gli abitanti di Midgard non avevano
volontà ed
erano gretti, meschini, deboli, inferiori, eppure, racchiusa assieme
alla loro
lampante indegnità, si nascondeva una traccia
d’infinita grandezza, una
scintilla quasi divina. Erano davvero così diversi, dagli
immutabili Æsir
condannati a morire da una profezia crudele?
La vita di un midgardiano poteva sfiorare i settant’anni,
quella di un Ase toccava senza problema alcuno i cinquemila. Oltre a
questo e
alla salvifica capacità di stendere un velo sul passato, di
distaccarsi dai
ricordi concedendo loro un dolce oblio, cosa c’era di
differente? Identico era
l’anelito alla grandezza, medesime la sete di potere e la
brama di conquista.
Uguale il desiderio di conoscere. Loki aveva increspato le labbra in un
sorriso, smarrendosi volontariamente di fronte all’innegabile
bellezza di quei
versi scritti in una lingua melodiosa che lei conosceva a stento.
“Quando leggemmo il disïato
riso esser
basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la
bocca mi
basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo
scrisse: quel giorno più
non vi leggemmo avante,” aveva recitato.
Sigyn,
incantata, era rimasta ad
ascoltare la voce sicura e roca dell’altro. Il cuore le
batteva impazzito nel
petto. “Perché un dio degli Æsir
colleziona i testi degli uomini? Perché li
legge e li custodisce e li ama?”
Era, questa, la
domanda che
desiderava porgergli da giorni, settimane, mesi. Da quando il bosco di
Hallerbos era tinto ancora d’un incantevole azzurro e lei
aveva messo, per la
prima volta, piede in quella biblioteca labirintica e meravigliosa,
senz’altro
stregata.
Loki possedeva
una bellezza
innegabile feroce e selvaggia, ma dietro i lineamenti affilati e sotto
il
fisico nervoso e asciutto, in perenne tensione, oltre lo sguardo
puntuto quasi
trasparente e il sorriso sbieco che gli tagliava le labbra ironiche e
bugiarde,
c’era una bestia, un mostro, un dio recluso e imprigionato in
cerca di una
vendetta giusta. Sigyn lo aveva percepito, intuito, compreso, scoperto.
Non
ancora interiorizzato, forse. Quasi come se avesse voluto replicare il
senso
delle terzine appena pronunciate, le aveva sfiorato i capelli biondi
come
quelli degli Æsir e delle loro figlie, per poi accarezzarle
con dita fredde la
guancia morbida e serica, cercarle le labbra schiuse.
“Siete
fragili e deboli e la vostra
vita non dura che il tempo di un battito di ciglia.” La voce
di Loki
racchiudeva, al suo interno, una nota di amaro rimpianto.
Non
l’aveva baciata allora. Ogni
fibra del corpo di Sigyn si era tesa e aveva tremato per il tocco
leggero di
quei polpastrelli sulla sua bocca, per la vicinanza del corpo slanciato
e scattante
del dio degli inganni di fronte a lei. Aveva chiuso gli occhi, in
attesa di un
contatto che non era arrivato né doveva farlo. Il mondo si
era fermato in quel
momento, congelandosi nell’istante perfetto in cui tutto
poteva ancora essere
possibile. Una lacrima le era scivolata da sotto le palpebre chiuse
perché, per
un solo secondo, aveva desiderato essere come l’anima della
nobildonna italiana
costretta a vivere all’Inferno, sì, ma assieme al
suo amato e col ricordo
straziante di un amore vissuto.
“Eppure,”
proseguì il dio, “c’è
qualcosa di meraviglioso, nella vostra delicatezza.” Lo disse
continuando a
sfiorarle le labbra con le dita, fissandola con quei suoi occhi verdi e
quasi
trasparenti. “Ogni gesto, atto, parola, è unico e
irripetibile perché, per voi,
il tempo ha un senso; nessun giorno è uguale
all’altro e il vostro aspetto muta
assieme al cuore. Per noi Æsir, invece, tutto è un
ciclo destinato a ripetersi,
in cui i ricordi non possono svanire solo perché,
smarrendoli, finiremmo per
perdere anche noi stessi. Questo capita, a chi è costretto a
vivere quasi in eterno.”
Le aveva cinto
la vita con un
braccio, preso il volto tra le mani – dita perse nella massa
d’oro dei suoi
capelli d’Æsinna – e, come suggerito dai
due amanti di cui aveva appena letto
l’inizio dell’amore, si era avvicinato alle sue
labbra annullando lentamente
ogni distanza, inebriandosi del dolce profumo della sua pelle,
sfiorando con la
punta del naso la guancia morbida di Sigyn che, un giorno, sarebbe
appassita e
poi diventata fredda e, dopo ancora, si sarebbe tramutata in polvere. I
loro
respiri si erano incrociati – quello quasi eterno
dell’Ase e l’altro, effimero
e breve, di lei – e ogni cosa era svanita: il tempo, crudele
e implacabile, la
gabbia, punizione amara e tremenda, la loro natura, così
differente. Non aveva
invocato il suo nome quando, finalmente, le aveva assaggiato le labbra,
ma l’aveva
stretta a sé, spinto dal desiderio e dalla voglia di
ingannare il destino degli
uomini e di godere della fragile bellezza di quella donna che gli
ricordava
Asgard in una maniera dolorosa, atroce, assoluta. E così,
l’aveva baciata sulle
labbra tremanti con la consapevolezza di aver strappato qualcosa a un
tempo che
non gli apparteneva. L’istante troppo lungo di quel contatto
intensamente
desiderato si sarebbe dissolto per non essere mai più
replicato, non allo
stesso modo, almeno, laddove, tra gli Æsir, avrebbe potuto
protrarsi per
l’eternità. Ma questo, Sigyn non poteva saperlo.
No, mentre si
sfiorava le labbra
chiedendosi se davvero il giorno prima il dio degli inganni
l’avesse stretta
tra le braccia e baciata come se il mondo dovesse finire di
lì a qualche ora,
Sigyn non riuscì a cogliere il senso tragico di quel gesto
sconsiderato che
chiunque, nei Nove Regni, avrebbe considerato oltraggioso. Si chiese,
invece,
cosa provasse lei: nel breve lasso di tempo in cui la primavera tinta
di blu
aveva lasciato il passo all’inverno e alla neve, il suo cuore
davvero si era
sciolto di fronte al sorriso laterale e sbieco del dio degli inganni?
Non aveva
avuto pietà di coloro che l’avevano accompagnata
alla ricerca di suo padre e così
mille altre cose aveva compiute, nella sua lunga, terribile ed eterna
vita. Per
questo era stato esiliato sulla terra che lui si ostinava a chiamare
Midgard.
Lei lo sapeva: negli ultimi mesi aveva studiato ogni mito, leggenda,
racconto
che parlava del suo scostante e infido carceriere, eppure, nonostante
questo,
era rimasta profondamente colpita dalla fierezza che traspariva in ogni
suo
gesto, sguardo, frase, battuta. Si comportava come un principe
sconfitto, ma
non piegato. Sopportava il suo destino con furiosa eleganza, senza
rinnegare né
rimpiangere una sola delle azioni compiute. Loki, il dio degli inganni
che
però, talvolta, sorrideva appena mentre le illustrava i
difficili passaggi di
una formula matematica, commentava il pensiero dei filosofi antichi, le
chiariva, lui che pure era il dio d’un popolo perduto di
pirati e predoni, le
reazioni chimiche su cui si lambiccavano gli scienziati nella sua
Londra fumosa
e lontana, perduta, oramai ridotta alla stregua di un miraggio o di un
sogno.
Di questo, si stava invaghendo? Della voce di Loki calda e arrochita,
del suo
modo di raccontare? Poteva dimenticare il tesoro millenario che giaceva
nel
tumulo, ignorare che quella fosse la sua tomba e che
l’orrendo lupo Fenrir la
spiasse con i suoi occhi lucidi e rossi? L’apparenza del dio
degli inganni era
quella di un uomo bello d’aspetto, ma il suo cuore era
crudele e malvagio.
Questo dicevano i canti norreni che ormai aveva quasi imparato a
memoria.
Eppure, in
alcuni vecchi libri, si
parlava anche d’altro: d’una neutrale
causalità di cui il dio del fuoco e
dell’inganno era portatore e signore.
Gli intrighi di Loki cantati dai bardi avevano causato innumerevoli
disgrazie,
ad Asgard, ma erano stati anche il motivo della sua grandezza. Molte
volte
l’Ase dalla lingua d’argento aveva utilizzato la
sua astuzia per trarre
d’impaccio gli Æsir tutti. Ecco, allora, spiegate
l’ombra amara che gli velava
lo sguardo altrimenti trasparente, la smorfia torva che gli piegava le
labbra
sottili. La malvagità di Loki, decise Sigyn, assomigliava
crudelmente a quella degli
uomini: non era assoluta e ingiustificata, ma nasceva da qualcosa
– da una
frattura, da un’intelligenza che si sentiva costretta entro
spazi troppi
limitati, da un torto antico impossibile da dimenticare. Il dio degli
inganni era
una bestia rinchiusa entro un cerchio di rune maledetto, che
l’aveva costretta
a rinunciare totalmente alla sua vita, ma avrebbe potuto essere anche
altro, se
solo avesse voluto. Sì, Sigyn decise che c’era
qualcosa di bello, nel fiero Ase
che guardava ogni cosa come se gli spettasse di diritto. E si
scoprì, suo
malgrado, a desiderare che le labbra sottili e perfide del dio degli
inganni
incontrassero di nuovo le sue in un altro bacio lento e disperato,
eterno e
straziante, dolce e rabbioso.
Un rumore
improvviso la riscosse; come
se l’avesse evocato o chiamato o reso partecipe dei suoi
pensieri, Loki entrò
nella stanza da letto. Non lo aveva mai fatto, da quando
l’aveva imprigionata.
Il dio degli inganni si guardò attorno, registrando
rapidamente ogni mutamento
che la ragazza aveva introdotto, poi le si mise di fronte puntandole
addosso i
suoi occhi chiari e incrociò le mani dietro la schiena con
aria grave e altera.
“C’è
un cavallo che ti aspetta. Fai
bagagli: oggi tornerai a casa tua.”
Voce secca e
laconica, mascella
contratta. Nient’altro traspariva dal suo viso eternamente
giovane, eppure
un’ombra grave era calata nella camera. Sigyn
pensò, con un brivido, che
l’aspetto immutabile del dio dell’inganno fosse
mostruoso. La bellezza dei suoi
lineamenti veniva talvolta tradita dall’antichità
del suo spirito e dalla
conoscenza che aveva appreso in mille e mille anni di vita.
“Come?
Perché?” Osò accostarglisi,
toccargli il braccio, sfiorare la pelle scura e il tessuto robusto di
foggia
estranea che indossava. Strinse sotto le dita la stoffa, reprimendo
l’istinto
di un altro fuggevole contatto. Gli uomini e gli dèi avevano
dimenticato Loki
nella sua tomba; le azioni malvagie di cui si era consapevolmente
macchiato,
avevano soffocato il resto – tutte le volte che, degli
Æsir e dei Midgardiani,
era stato il protettore e il salvatore – mentre lei credeva
di aver visto la bellezza dietro
l’apparenza e
ora non voleva rinunciarci. Non per sempre, almeno, perché
era umana e gli
umani non possono comprendere l’eternità. Nei loro
cuori, parole come per sempre hanno
il sapore di una
maledizione perché annichiliscono la speranza.
Così, agli occhi di Sigyn, Loki
non era mutato divenendo all’improvviso un dio benevolo e
giusto, ma la sua
bieca neutralità aveva acquisito sfumature diverse che gli
altri non riuscivano
o non desideravano vedere.
Ma una notte di
riflessioni aveva convinto
Lingua d’Argento a troncare prima che fosse troppo tardi la
strana convivenza. “Mi
sono stancato di vederti,” sibilò con voce tetra
scostandosi da lei.
L’intento
era ferirla, chiaramente.
Sigyn sospirò, si lisciò le inesistenti pieghe
dell’abito color oro che
indossava. Ripensò al pomeriggio del giorno prima e alle
terzine che lui le
aveva recitato prima di baciarla per scherzo, gioco o passione, non
aveva poi
molta importanza. “Ieri noi…”
“Ieri
noi abbiamo sbagliato,” l’interruppe
l’Ase. “L’istinto ha prevalso. Si
è trattato di nient’altro che questo.”
Distolse lo sguardo. “Un momento di caos e
confusione.”
Era
un’ammissione? Loki sceglieva
sempre con cura e attenzione ogni parola, ma la smorfia che gli
increspò le
labbra sottili nascondeva un dispetto cui nemmeno lui, che era un dio
degli
Æsir, seppe o volle dare un nome; avrebbe dovuto scavare
troppo in profondità
per trovare le risposte.
“Di
cui tu sei signore. Ho promesso
che sarei rimasta tutto il tempo.”
“Il
tempo,” ripeté Loki
concentrandosi sui fiocchi di neve che cadevano sempre più
fitti oltre il vetro
della finestra. “Il tempo è il problema. Io ne ho
in abbondanza – non so che
significhi, quasi – mentre a te difetta. Sei una creatura
fragile, Sigyn: sei
come una rosa in un vaso. Tra poco inizierai a sfiorire e a morire e
nemmeno il
mio seiðr potrà evitarlo.”
Una lacrima
scivolò sulla guancia
liscia della ragazza. Nell’ennesima affermazione del dio
degli inganni volta a
puntualizzare quanto fosse caduca l’esistenza umana, Sigyn
percepì il rimpianto
per un destino immutabile che nemmeno le trame del più
astuto tra gli dèi
avrebbero potuto mutare.
Gli si
avvicinò di nuovo con la
stessa delicatezza con cui, negli ultimi mesi, si era accostata alla
sua
scrivania per mostrargli una meravigliosa miniatura, per discorrere di
scoperte, viaggi, mondi e libri. Lo sentì tendersi
leggermente quando accarezzò
il suo braccio e gli cercò lo sguardo verde e puntuto.
“E lo vorresti?”
Aveva i capelli
d’oro degli Æsir e
gli occhi grigi grandi e rotondi erano carichi di una squisita
dolcezza, ma il
suo cuore, per le Norne, era umano. Intrappolato nelle regole del tempo
e dello
spazio, un giorno – sempre troppo presto – si
sarebbe fermato. Eppure, lo
spirito appassionato che abitava quel corpo sottile e snello che aveva
desiderato scoprire in ogni sua curva con le labbra, vibrava e
splendeva come
le stelle più luminose che scintillavano nel magnifico cielo
di Asgard. Sigyn. Effimera, splendida,
delicatissima
Sigyn. Che sai trovare la bellezza nascosta dietro lo spirito
più nero. Non
voglio vederti appassire.
Il dio degli
inganni s’inumidì le
labbra, ma si concesse di sfiorarla, la morbida rosa che gli era
davanti. Di
accarezzare la pelle ancora giovane e fresca, di fissare, per
l’ultima volta,
lo sguardo limpido e innamorato della ragazza che si era incantata
ascoltando
le sue storie.
“La
bellezza degli esseri umani sta
in questo. Nella loro debolezza. Conosco la prigionia e ti ho sentita
piangere
ogni notte per la vita che hai perso. Ti ordino di andare via. La tua
presenza
mi è divenuta intollerabile. Cavalca verso ovest, torna in
città. Tra poco
smetterà di nevicare e la strada, per te, sarà
libera. Ti consiglio solo di non
raccontare nulla di questo luogo.”
La sua voce che
aveva irretito dèi e
mostri, convinto e conquistato cuori e teste, era altera e sicura, ma
le dita
di mago del dio degli inganni sostarono troppo sulla pelle bianca e
ancora
perfetta di Sigyn. Di nuovo, cedette al caos che gli abitava il cuore
domandandosi se fosse un’altra delle sue personali
maledizioni, l’essere
volubile e scostante più degli umani che aveva sempre
denigrato. Non avrebbe
dovuto, un Æsir del suo calibro, contenere le passioni e
soffocare gli odi e le
vendette? Gli abitanti di Midgard sogghignavano divertiti, quando
raccontavano
di come i loro dèi fossero scossi dai medesimi sentimenti
che agitavano loro,
creature effimere e grette. Padre Tutto, dall’alto della sua
antica saggezza,
soleva però dire che era per questo che li pregavano e li
invocavano. Per avere
da quelle creature ultraterrene e fuori dal tempo conforto e
comprensione. Di
nuovo, le dita dell’Ase intrappolato sfiorarono la morbida
dolcezza delle
labbra di Sigyn, ancora una volta le prese il volto tra le mani
ammirando il
biondo dei suoi capelli. Cercò di contenersi,
all’inizio. Di ignorare il
profumo dolce della pelle di lei, di fingere di non volerla stringere a
sé per l’ultima
volta, ma gli difettò la volontà e si
ritrovò a ghermirle rapace la vita. Seta
d’oro contro armatura di cuoio, corpo scolpito e scattante
d’un guerriero degli
Æsir contro morbida carne d’una ragazza forse non
bella più di altre, ma dalla
mente vivace. L’aveva intrappolata tra le sue braccia e ora
lei gli si stava
offrendo con gli occhi lucidi e pallida in volto per l’ultimo
bacio che si
sarebbero scambiati in questa vita. Dopo, lei avrebbe vissuto:
all’inizio,
forse, si sarebbe disperata per il suo amore perduto e strano, ma poi,
col
tempo, come sempre accade ai figli degli uomini, avrebbe dimenticato.
Il dolore
si sarebbe trasformato lentamente in nostalgia, il ricordo sarebbe
sfumato fino
a trasformarsi in uno dei tanti rimpianti che la vita porta con
sé. Sì, Sigyn
avrebbe avuto altri amori e pianto e gioito e sofferto e vissuto, ma
nemmeno
dopo la morte avrebbe potuto rincontrare il dio degli inganni sepolto
vivo su
Midgard, bandito e cacciato dalla sua gente. L’oltretomba
degli dèi di Asgard
non è quello degli uomini e questo Loki lo sapeva
– lei no, lo avrebbe ignorato
fino alla fine dei suoi giorni e, forse, avrebbe riposto una qualche
vana speranza
in un incontro tra fantasmi, liberi, finalmente, dai vincoli del tempo.
Fu per questo
che la baciò. Cedette,
sfiorandole le labbra, assaggiando le lacrime che le rigavano il volto,
e poi
non volle e non riuscì più a fermarsi e ancora la
cercò con la foga disperata
degli amanti. Sigyn. Il tempo,
improvvisamente, acquistò un significato anche per il
protervo e astuto dio
dell’inganno. Continuò a baciarla e lei rispose
abbandonandosi alla sua
oscurità, al desiderio che ormai avvinghiava entrambi.
L’ultima colpa di Loki
era stata corrompere quella ragazza e lasciare che il suo spirito
venisse
corroso dai midgardiani e quest’azione riprovevole si sarebbe
sommata a tutti
gli altri atti malvagi che aveva compiuto con sprezzo e
crudeltà quand’era
ancora libero. Lo sapeva, ne aveva esatta contezza, eppure non gli
importò
purché avesse, per la prima e ultima volta, Sigyn tra le
braccia. Cos’è un
bacio? Un tocco disperato di due labbra che trascende
un’unione più intensa e
che non può essere fermato né bloccato. Le
cercò il collo rapace, tirando giù
con un colpo secco la spallina del vestito perché la voleva,
desiderava fosse
sua in ogni modo possibile. Infiammato dal desiderio, tornò
a essere il fiero
conquistatore che, in nome del dio delle forche, aveva conquistato e
schiacciato popoli interi sotto le suole dei suoi alti stivali. Lei
infilò le
dita nella massa scura dei suoi capelli e buttò indietro il
capo, scossa
nell’identico modo dall’impulso di appartenergli
per una sola, unica, ultima
meravigliosa volta. Nessun maggior dolore
che ricordare del tempo felice ne la miseria, aveva cantato
il Poeta.
“È
un addio?” Le labbra di Sigyn si
scostarono appena dalle sue. Gli accarezzò la mascella con
un gesto delicato e
leggero delle sue dita sottili, lo fissò negli occhi in
cerca di una smentita.
L’aveva incantata concedendole di visitare i mondi racchiusi
nella sua immensa
biblioteca e lei s’era innamorata. Com’era stato
crudele.
“Non
può dispiacerti. Rimpiangeresti
di non aver vissuto, alla fine,” le ricordò,
sistemandosi meglio la corazza di
pelle intrecciata.
Sigyn
pensò che già le mancava il
tocco delle labbra sottili dell’Ase sulle sue e che era
diventata pazza. Colpa
della prigionia, si disse, e dei suoi occhi così chiari da
sembrare quasi
trasparenti. “Non è senza dolore che
lascerò questo palazzo. Sei molte cose,
dio degli inganni; non tutte spaventose. Sono tua prigioniera,
è vero, e mi
manca la mia casa ogni giorno. Eppure, tra queste mura, sono stata
più libera
che non a Londra, a Parigi o in qualsiasi altro posto. Mi hai fatto
vivere
molte vite, hai lasciato che guardassi tra i volumi che hai raccolto
durante il
tuo esilio, ma, soprattutto, hai ascoltato la mia voce ogni giorno. E
aveva un
peso, per te. Nella mia città forse posso camminare libera
per le strade, ma il
mio pensiero non conta, vale meno di quello di un uomo. Il mio
desiderio di
studiare, di ragionare e di conoscere è considerato un
grazioso cinguettare, un
buffo vezzo. Qui no. Lascia solo che visiti un’ultima volta
mio padre; che lo
saluti e gli dica che sto bene. E poi, ti prego, permettimi di tornare da te.”
Glielo disse
baciandogli le labbra
beffarde e ironiche, stringendoglisi contro come l’amante che
non poteva
essere, che era assurdo fosse. In un barlume di lucidità,
Loki se ne accorse e
si scostò da lei e dal suo profumo e dalla dolcezza delle
sue labbra.
“Vivi
il tempo che ti è concesso su
questa terra con qualcuno con cui abbia un senso farlo, Sigyn. Viaggia,
scopri
il mondo, innamorati, sposati, fai figli, invecchia.” Si
allontanò per creare
la distanza che, da quel momento, li avrebbe divisi per sempre.
“Goditi ogni
cosa, perché non ritornerà. L’esistenza
degli Æsir è un ciclo eterno destinato
a ripetersi, segnato da profezie oscure. Voi no: voi siete
liberi.”
Gli
uomini sono perfetti e meravigliosi in un modo che tu non riesci a
cogliere, Loki. Ti condanno a vivere su Midgard, affinché tu
ti renda conto di
quanto orribile sia stata, la tua idea di spazzarli via per vendicarti
di me e
di Thor. Per questo, io ti maledico. Rimarrai in un cerchio protetto da
rune
finché non capirai la loro bellezza, fino a che Asgard
rimarrà in piedi, fino
al Ragnarok, se necessario. Le parole di
Odino figlio di Bor gli graffiarono il petto
com’era sempre stato da quando le aveva udite la prima volta.
Per un momento,
Loki pensò di aver afferrato e perduto il senso della
crudele punizione che gli
era stata inflitta quando, col cuore gonfio di un’ira funesta
e terribile,
aveva osato pronunciare le parole atroci in grado di scatenare una
guerra
sanguinosa e orrenda e determinare il suo destino. “Midgard, se non sei mia, non sarai di nessuno.”
Così aveva detto.
Sigyn scosse la
testa, decisa a non
credergli, a non fidarsi delle sue parole senz’altro
bugiarde. “Tu tieni a me.
Ho visto la bellezza della bestia: il resto del mondo non
m’interessa.”
L’Ase
non cambiò idea. Prima che la
ragazza partisse, le diede uno specchio. Era una reliquia di Asgard,
dono di
Frigga, la regina madre degli Æsir. Nella sua superficie
riflettente, Sigyn
avrebbe potuto guardare ogni luogo dei Nove Regni, compreso il bosco di
Hallerbos e il tumulo e il palazzo incantato. Promise che sarebbe
tornata, ma
il dio degli inganni la lasciò andare sapendo che non
l’avrebbe più rivista,
perché così è il cuore degli uomini e
delle donne di Midgard. È fatto per
sottostare al tempo, per dimenticare.
Continua.
e conclude il 12 dicembre. Grazie di cuore a tutti coloro che hanno
recensito e inserito nelle liste.
Shilyss
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Capitolo 3 *** Del prezzo di una maledizione ***
Capitolo 3
Del prezzo di una maledizione
So some say love is a burning thing
That it makes a fiery ring
All that I know love as a caging
thing
Just a killer come to call from
some awful dream
And all you folks, you come to see
You just to stand there in the
glass looking at me
But my heart is wild, and my bones
are steel
And I could kill you with my bare
hands if I was free
(Phosphorescent, A song for Zula)
La neve si
sciolse e venne la
primavera. Il bosco attorno alla tomba del dio degli inganni
tornò a tingersi
dell’incantevole sfumatura blu dei giacinti. Trascorsero le
settimane, i mesi.
Le foglie appassirono e caddero dai rami e Hallerbos divenne scarlatta
e
dorata. Infine, come sempre, calarono dal freddo e profondo nord i
venti gelidi
dell’inverno e la neve imbiancò di nuovo ogni
cosa.
“Avresti
potuto almeno tentare di
spezzare la maledizione. Nostro padre ti punì per la tua
arroganza e per il disprezzo
che mostrasti verso gli abitanti di questo mondo. Quel tempo, forse,
è passato.”
Thor posò una cassa di libri d’ogni genere e sorta
sul tavolo perennemente
ingombro di carte, compassi e astrolabi del dio degli inganni.
Loki
ghignò. Con le mani incrociate
dietro la schiena, fissava i fiocchi bianchi che danzavano mossi appena
dal
vento, la mente persa in un ricordo che il susseguirsi delle stagioni
non
poteva rendere lontano. “Ritieni che possa apprezzare le mie
ultime azioni?”
L’altro
dio sospirò passandosi una
mano tra i capelli chiari. “La sua intenzione non
è mai stata vendicarsi di te,
ma farti rinsavire e punire la tua arroganza. Lo sai.”
“Punire
e vendicare hanno significati
assai simili,” fu la replica asciutta
dell’ingannatore. “Ma non m’importa
– non
mi è mai importato – cercare un intento salvifico
nelle azioni ambigue del dio
delle forche. L’ho tradito e non me ne pento. L’ho
ripagato con la stessa
moneta,” rispose vibrante e altero com’era sempre
stato.
Thor
notò che la postura fiera del
fratello nascondeva una tensione e una rigidità inconsuete.
Non volle indagare
oltre sul fremito che scuoteva il dio degli inganni svelando la furia
che
ancora lo corrodeva, né sull’ombra scura che gli
velava lo sguardo. Andò via
dalla gabbia circondata di rune con più domande che
risposte, come sempre era
successo negli ultimi mille anni, ma stavolta un dubbio in
più gli punse il
cuore. Si chiese come mai il recinto in cui era costretto Loki
funzionasse nonostante tutto; cosa
mancasse, ancora,
perché la maledizione fosse definitivamente spezzata. Per
molti anni,
l’ingannatore si era arrovellato nel tentativo di comprendere
il senso di una
punizione doppiamente orrenda, perché ritenuta oscura come
una sciarada e
ingiusta. Era stato per tentare di liberarsi, che aveva deciso di
dedicarsi
all’ambizioso progetto di creare una biblioteca che
contenesse tutti i volumi
di Midgard e dei Nove Regni. Thor, come sempre, si era lasciato
incantare dalle
sue teorie e lo aveva aiutato, reperendo per lui i testi e i libri che
l’altro
non poteva materialmente trovare. Da diversi decenni –
secoli, forse – il
tonante si era convinto che Loki sapesse esattamente cosa dovesse fare
per
liberarsi, ma che non fosse disposto a pagarne il prezzo. Tentare di
spezzare la
maledizione probabilmente era troppo rischioso, inutile e crudele
persino per
l’insolente e astuto dio degli inganni. Mentre affondava con
gli stivali nella
neve allontanandosi quel tanto che bastava affinché suo
fratello non vedesse il
portale per Asgard aprirsi davanti ai suoi occhi, gli tornò
in mente che Loki
gli aveva curiosamente chiesto notizie e informazioni sul mondo degli
Æsir.
Cosa mai fatta prima e celata abilmente sotto un finto disinteresse
volto a
mascherare qualcos’altro: dov’era andato a finire
lo specchio incantato, dono
di Frigga, che aveva permesso al dio degli inganni di vedere ogni
luogo,
persona o volto, nei Nove Regni tutti?
Affacciato alla
finestra, Loki vide
Thor andare via, ma non provò rimpianto per la solitudine in
cui era appena
precipitato. Lo invidiò, piuttosto. Una volta di
più, provò rancore per la
libertà che gli era stata negata e di cui era assetato da
troppi secoli. Eppure,
quel pensiero tremendo era destinato a svanire in fretta dalla sua
mente – o
meglio, ad essere momentaneamente archiviato –
perché qualcun altro varcò il
cerchio maledetto di rune. Lo avvertì l’onda di
seiðr che si sprigionò durante
l’inopportuna violazione, lo confermò
l’ululato rabbioso di Fenrir. Loki uscì
nella neve. Feroci raffiche di vento si erano alzate portando con
sé l’annuncio
di un’imminente tormenta. Avanzò nel candore
irreale e, a un tratto,
assottigliò le palpebre e la vide. Una figurina barcollante
stretta in un
mantello che incespicava in mezzo al bianco, capelli d’oro
sciolti sulle spalle.
Sigyn.
Era tornata. La
vide cadere a terra,
nella neve. La raggiunse in fretta, la prese tra le braccia: come la
prima
volta che l’aveva vista, era priva di sensi. La
sollevò e s’accorse che era più
leggera e, in mano, stringeva lo specchio che le aveva donato per
illuderla che
potesse tornare e che, tra loro, ci fosse un legame eterno. Era
un’utopia,
ovviamente. La portò davanti al camino posto
nell’immenso salone del suo
palazzo incantato, come allora. Uno strano presentimento lo morse.
C’era, nel
volto della ragazza, un pallore inspiegabile, sospetto. La sua bellezza
era
intatta e il tempo non l’aveva ancora ghermita con le sue
dita adunche eppure, come
le rose, stava sfiorendo.
Lei,
lentamente, si riprese e sbatté le
palpebre, ma fu il colpo violento di tosse a farla svegliare del tutto,
a
scuoterle le spalle esili. Guardò Loki negli occhi e gli
rivolse un sorriso
tirato, dopotutto mesto. “Alla fine sono tornata da te. Non
me ne sono mai
andata, in realtà. Il mio cuore non ha lasciato questo posto
neppure per un
istante – ero con te e ho interrogato lo specchio ogni
giorno.”
Il dio degli
inganni annuì e ravvivò
con l’attizzatoio le fiamme del camino. Pensò a
quanto fossero crudeli le
Norne, all’ingiustizia racchiusa nel destino degli uomini. Le
sfiorò la guancia
morbida e umida e si concentrò sul suo sguardo dolce e
febbricitante, non sul
sangue che le macchiava appena le labbra dolci e le dita.
Lei comprese che
sapeva e trattenne a
stento le lacrime. “Ho vissuto, sai Loki? Ci ho provato,
dopotutto. Solo,
pensavo che avrei avuto più tempo,” disse, e le
sue labbra tremavano. “E quando
hanno detto…” Si morse le labbra, incapace di
proseguire, e scoppiò in lacrime
perché il destino era stato ingiusto e crudele e beffardo,
molto più di quanto
non fosse stato il dio degli inganni. L’Ase la strinse a
sé mentre lei si
sfogava sul suo petto. Decise che avrebbe ucciso le Norne, un giorno.
“Ho
provato a vivere, ma il mio cuore
era qui e morire tra le tue braccia era l’unica cosa che
volessi prima che…”
Non
disse nulla, Lingua d’Argento. Consolò il
pianto disperato della ragazza affondando le dita nella massa
d’oro dei suoi
capelli, riflettendo sul fatto che quel momento si sarebbe scolpito con
forza
nella sua testa e avrebbe avuto fino alla
fine del tempo la stessa atroce intensità, senza
sfumare mai nella
nostalgia.
Se solo fosse tornata prima, il seiðr di cui era signore e
padrone avrebbe
potuto curare i suoi polmoni malandati, mangiati dalla malattia.
Conosceva
incantesimi capaci di sanare il corpo degli dèi e degli
uomini e li avrebbe
usati, per salvare lei. Sigyn singhiozzava e piangeva sul suo petto e,
nonostante tremasse, la sua pelle scottava. Sarebbe stato meglio,
pensò l’Ase,
se la morte l’avesse ghermita ormai vecchia, dopo una vita
lunga e piena,
quando l’oro dei suoi capelli sarebbe scomparso per lasciare
il posto
all’argento della saggezza. Ma così no, maledette
Norne cieche e crudeli.
Sigyn
tossì ancora, allontanandosi
dalla sua presa quel tanto che bastava per guardare il suo volto. Le
condizioni
già critiche si erano aggravate per il lungo viaggio cui si
era ostinatamente sottoposta
per esaudire l’ultimo desiderio della sua breve vita mortale,
perché peggio di
morire quando si è ancora giovani c’è
solo farlo lontano da chi si ama. “Dimmi
che sono tua. Se non sarò tua, non sarò di
nessuno e io voglio andarmene
sapendo di appartenerti in qualche modo, Loki.”
Voleva che
mentisse. L’Ase le scostò
una ciocca ondulata dal viso e rifletté sul fatto che il
cuore e lo spirito
sono di chi li possiede; possono essere offerti e donati ad altri, ma
rimangono
sempre del loro proprietario. Si chiese se avesse ragione, mise in
dubbio il
suo ragionamento. Decise che le avrebbe mentito, però, e
mentre i petali della
sua rosa cadevano inevitabilmente a terra e il bellissimo fiore moriva,
le
sussurrò parole che lei forse non udì
né colse del tutto, ma certamente
immaginò, in quell’attimo che separa la vita dalla
morte. Se n’era andata
davvero tra le sue braccia.
♥
C’è
chi dice che tremò la terra, chi
racconta che, da qualche parte, nel mondo, eruttò un vulcano.
Il dio degli inganni non s’accorse che il seiðr era
sfuggito momentaneamente al
suo controllo o forse non gli importò. Osservò
gli occhi grigi ormai ciechi di
Sigyn e riconobbe che la dolcezza li aveva abbandonati. Erano solo
pupille
vuote di un corpo inerte che era lei senza tuttavia esserlo.
Sospirò, tenendola
ancora tra le braccia, domandandosi se i cancelli
dell’oltretomba l’avrebbero
spaventata, e si accorse che una parte di lui – quella che
aveva desiderato con
cieca furia ogni cosa, dal trono di Asgard all’ammirazione di
Padre Tutto – non
era ancora disposto a lasciarla andare. Provò rabbia e
desolazione e rancore
per quel sentimento indegno che s’era infilato nel suo petto
come un pugnale.
L’universo intero gli diventò ancora
più intollerabile, ma ciò che detestò
di
più fu se stesso e la sua indegna natura d’Ase,
che lo portava a rammaricarsi
per una rosa sfiorita troppo presto. Si accorse di non riuscire a
piangerla, si
chiese se avrebbe dovuto o voluto farlo. Scoprì di avere lo
sguardo velato, ma
la sua Lingua d’Argento si era improvvisamente annodata.
“Un
dio degli Æsir, un principe di
Asgard, non può soffrire così la perdita di una
sola mortale.” Loki alzò lo
sguardo umido e si trovò dinanzi un vecchio orbo, con un
mantello lacero e un
cappello floscio sulla testa.
Di fronte a
quell’immagine, trovò la
forza d’inghiottire la cosa che gli mordeva l’anima
e alzò il mento con
fierezza, senza smettere di stringere il corpo di Sigyn. Non riusciva a
lasciarla andare – sarebbe venuto il momento, ma non ora.
“L’ennesima
delusione, padre?” La sua voce, nonostante tutto, era sicura
e beffarda, come
sempre.
Odino si
accostò al figlio maledetto
e rinnegato senza, però, mutare il suo aspetto,
perché così si era sempre
mostrato su Midgard. “La tua rosa è appassita,
purtroppo. Ti ci sono voluti
mille anni per vederla, ma adesso anche tu hai scorto la bellezza degli
umani.
Sono deboli, fragili, effimeri. Hai ricordato cosa vuol dire amarli o,
forse,
lo hai scoperto per la prima volta,” azzardò,
increspando le labbra in un
ghigno storto.
“Ti
sbagli, Padre Tutto: li odio
ancora, i midgardiani, più di prima.” Loki chiuse
le palpebre di Sigyn per non
dover vedere le sue pupille cieche e senza luce. “La loro
vita è una beffa
crudele, una lotta contro il tempo. Cosa sei venuto a fare? Volevi
vedere da
vicino il mostro che hai rinchiuso? Compiacerti dell’ennesima
sconfitta della
bestia?”
Il dio delle
forche e della poesia
scosse la testa canuta. “Non godo del dolore che agita il
petto di mio figlio. Hai pagato.
Hai compreso.
Tornerai a sbagliare – è nella tua natura, in
fondo – ma non oggi. Puoi tornare
ad Asgard, se lo vorrai.”
Il dio degli
inganni pensò alle guglie
d’oro della città degli Æsir, alla
libertà che gli era stata negata e rifletté
che Sigyn sarebbe diventata polvere e lui, che pure del seiðr
era il padrone,
non aveva potuto fare niente per evitarlo.
Odino
s’accostò a Loki e, col suo
unico e terribile occhio, fissò la ragazza e
ripensò a quello che gli avevano
detto i corvi e Thor. “Ha saputo trovare la bellezza della
Bestia che Asgard
rinchiuse,” osservò con voce di re, “ti
ha permesso di vedere la sua. I figli e
le figlie degli uomini hanno una vita breve come un battito di ciglia,
rapida
come un soffio del cuore e, quando muoiono, lo fanno per sempre.
Eppure, quanta
forza c’è in loro! Nonostante le sue condizioni,
ha deciso di tornare da te, di
restarti accanto, di mantenere fede alla promessa che ti fece. Se tu
sei il dio dell’inganno,
lei senz’altro sarà la
dea della fedeltà,”
disse e le sue
parole ebbero la forza di una sentenza, di un ordine, di un disegno
definitivo.
Il
seiðr, che in un altro luogo, in
un altro tempo, aveva permesso a Padre Tutto di salvare su un picco di
ghiaccio
Loki stesso, mutò la natura mortale della ragazza che
l’Ase teneva ancora tra
le braccia. Si oscurò il cielo, tremò di nuovo la
terra. Il dio degli inganni
strinse più forte il corpo della donna tornata fin
là per morire al suo fianco
e tentò di fermare quel gesto malsano.
“Come
osi toccarla? Come osi mutare
la sua essenza? Era perfetta e bellissima ed è morta come
voleva, in
questo posto. Tu non puoi scegliere il suo destino e strapparla al suo
riposo e
nemmeno io.”
Odino sorrise.
Assottigliò il suo
unico occhio blu e si compiacque dell’altera difesa del
figlio ribelle.
Riconobbe in lui il sagace politico di cui aveva sentito la mancanza,
il figlio
che aveva allevato, il principe che aveva istruito. Decise che
difendere la
natura di quella fanciulla morta tra le sue braccia era il gesto nobile
di un
dio degli Æsir con la stoffa di un re. “Sei sempre
stato così cieco con ciò che
ti riguarda più da vicino. Chiedilo a lei:
sceglierà.”
Prima che il dio
degli inganni potesse
lanciarsi nell’ennesima arringa o difesa, Sigyn si
risvegliò. Batté le
palpebre, emise un sospiro profondo. Guardò l’Ase
negli occhi e gli sorrise. La
rosa di Midgard, magnifica e fragile, aveva ripreso vita, la
maledizione cui
Loki stesso si era condannato era stata davvero totalmente e
inesorabilmente
spezzata. “Ho promesso che ti sarei rimasta accanto per sempre.” Fu così
che il tempo tornò a non avere più
significato.
Fine
Note Autore
Le fiabe sono
archetipi. Raccontano
bisogni, speranze, paure. La fiaba della Bella e la Bestia è
la mia preferita
tra tutte e l’ho amata in ognuna delle sue molte versioni. Ho
amato la
trasposizione Disney, ovviamente, con l’abito color oro di
Belle; ho amato
quella di Perrault, che mi veniva raccontata da mia nonna, dove il
padre di
Belle commetteva l’imperdonabile errore di cogliere una rosa
dal giardino della
Bestia, e ho amato anche, intensamente, il più antico nucleo
di questa fiaba:
il mito raccontato da Apuleio di Amore e Psiche. Conosco anche la
vicenda –
straziante e dolce – della vera figura che ispirò
la Bestia, Petrus Gonsalvus
(e ne ho scritto). Ma nella mia testa c’è sempre
stata l’idea che Inganno e
Fedeltà fossero loro, la Bella e la Bestia. Questo
è un AU eppure non lo è: ho
immaginato che il dio norreno Loki fosse stato incatenato da Odino in
un tumulo
in Belgio intorno all’800 d.C.; che, nel 1883, la mortale
Sigyn, come Belle,
divenisse sua prigioniera in virtù di un sacrificio
d’amore, complice una rosa.
Che la sete di conoscere e scoprire unisse entrambi; che
l’amore non avrebbe
potuto evitare l’allontanamento e, come nella fiaba, fosse
l’elemento
salvifico. In questo senso, la punizione di Odino/fata è
stata crudele e
lungimirante. Come avviene con Thor (qui relegato, assieme a Fenrir, in
veste
di Lumiere), anche Loki sconta su Midgard un supplizio volto a punire
la sua
tracotanza, il cui valore salvifico si rivela solo con
l’Amore. L’altro
elemento della fiaba Disney è la Rosa, che rappresenta il
Tempo e la
Maledizione. Qui Loki non tiene il fiore sotto una teca,
perché quel fiore è
Belle/Sigyn, mentre il Tempo è ciò che la
Bestia/Loki deve fronteggiare, seppur
in un’accezione totalmente differente.
Il
mio finale, certo, è più tragico, ma si
accosta alla fiaba: la Bestia rinuncia al suo vello fatto
d’arroganza per amore
di Belle. La Bella scopre la verità dietro
l’apparenza e torna dal suo amore a
ogni costo. L’incantesimo, alla fine, si scioglie. Questa
minilong partecipa
con orgoglio al contest “Villains against Heroes, indetto da
missredlights. La
dedico a quanti mi hanno sopportato durante la sua stesura
e… se l’avete amata,
mettetela nelle liste! Partecipa alla campagna Fai felice
un’Autrice! ♥
Piccole
precisazioni:
·
Il
bosco di Hallerbos è in Belgio e, nel mese di aprile, si
trasforma davvero in
un luogo di sogno: https://www.hallerbos.be/en/.
·
Il
codice autografo di Dante che Sigyn mostra a Loki in realtà
non esiste. Della
grafia del Sommo Poeta abbiamo solamente alcune descrizioni fatte da
alcuni
commentatori del Quattrocento che ebbero tra le mani, effettivamente,
dei testi
autografi dell’Alighieri.
·
Nel
testo sono presenti riferimenti a Borges, Perrault, Dante, Apuleio,
Umberto Eco
e all’Edda Poetica e in Prosa.
·
Generalmente
adotto la grafia Ase/Asi (come ed. Garzanti e Adelphi) per il nome
degli dèi
norreni. Stavolta ho scelto di adottare la versione Ase/Æsir
in luogo di Áss/ Æsir
perché più musicale a un orecchio italiano.
Uguale discorso per Æsinna.
·
Nella
mitologia norrena le figure di Loki e Lodhur (colui che diede il
bell’aspetto
agli uomini) spesso si confondono. Studi hanno attestato che si tratta
di due
entità diverse, tuttavia, per esigenze di copione, stavolta
li ho accorpati
anche io.
Grazie per
essere giunti fin qui e per aver preferito, ricordato, seguito e
recensito. Questo è il mio regalo per voi.
Shilyss
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