Ha i capelli d’oro degli Æsir

di shilyss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Del tesoro perduto ***
Capitolo 2: *** Della fragilità di una rosa ***
Capitolo 3: *** Del prezzo di una maledizione ***



Capitolo 1
*** Del tesoro perduto ***


Ha i capelli d’oro degli Æsir

 

For my dreams I hold my life

For wishes I behold my night

The truth at the end of time

Losing faith makes a crime

 

I wish for this night-time

to last for a lifetime

The darkness around me

Shores of a solar sea

Oh how I wish to go down with the sun

Sleeping

Weeping

With you

(Sleeping sun – Nightwish)

 

 

Loki è bello e gradevole nella figura, malvagio nell’animo, molto volubile nei modi.

Egli portò gli Asi ripetutamente in difficili contese e spesso li trasse d’impaccio con le sue frodi.

(Edda in prosa)

 

 

 

 

Capitolo 1

Del tesoro perduto

 

 

Asgard, un altro tempo

 

Si dice che quando Thor riportò ad Asgard il dio degli inganni in catene, Odino dovette colpire per sette volte il pavimento della sala del trono, affinché gli Æsir facessero silenzio. Un brusio si era levato di fronte all’Ase dalla Lingua d’Argento capace d’incantare, col suono stregato della sua voce, ogni orecchio, concupire ogni mente. L’astuto dio aveva le mani legate da ceppi pesanti e un bavaglio di ferro gli copriva la bocca sempre pronta a mentire e a pronunciare terribili incantesimi. Era stato crudele. Un’ira tremenda gli aveva scosso il petto e il cuore. L’inganno orrendo perpetrato a suo eterno danno gli aveva corroso lo spirito e la mente, e tutti i Nove Regni erano stati sconvolti dalla sua furia terribile di figlio non amato, di erede truffato. Sì, era stato malvagio e lo sapeva. La corsa verso l’Hlidskjalf su cui solo il più degno si sarebbe potuto sedere, si era rivelata nient’altro che una beffa, una gara truccata in partenza. Il figlio di Laufey non sarebbe mai stato degno di governare gli Æsir; così il dio degli inganni era stato a sua volta ingannato. Tutto il sangue versato per la città d’oro dalle alte torri, tutti i favori, i doni, gli sforzi fatti per rendere più potente e solido il trono di Odino, improvvisamente erano svaniti, scomparsi, non contavano più nulla. Solo che l’astuto Loki non aveva messo a disposizione di Asgard solo il braccio pugnace e la mente svelta, ma anche ogni fibra del suo corpo nervoso, asciutto, elegante, ogni pezzo della sua anima corrotta, appassionata, bruciata.

Stirò le labbra in un ghigno perfido e storto, lupesco. “Allora, Padre, dimmi: che punizione hai scelto, per me? Per il figlio che doveva essere re, per la reliquia rubata che hai sottratto agli Jotnar?”

Lo disse compiacendosi di ogni sillaba, parola, concetto. Con quei suoi occhi dalla trasparenza smeraldina, fissò il sovrano travestito da genitore e lo vide per quello che era: un vecchio stanco che s’arroccava su inutili questioni, un guerriero dalla schiena ormai curva; un giudice ancora severo, tuttavia. E vendicativo. Loki deglutì e alzò fieramente il capo cercando, per l’ultima volta, di liberare i polsi doloranti e abrasi dal metallo impietoso. “Se è la pena capitale, quella che mi spetta, non esitare, Padre. Abbi il coraggio di pronunciare la mia sentenza di morte.”

Aveva parlato con voce sicura, priva d’incertezze, ma nel suo petto qualcosa s’incrinò.

“No, Loki. La morte non è la giusta punizione, per te. Ti accontenterò, mio disperato, perduto figlio. Avrai un regno dove sarai il solo padrone e signore: i tuoi sudditi saranno mostri, la solitudine ti mangerà il cuore, ma sarai re, Loki. Sì, io ti maledico e ti condanno a qualcosa di peggiore, di più tremendo della morte. Piegherò il tuo animo protervo, arrogante, sconsiderato, crudele, folle. Passerai il resto dei tuoi giorni esiliato in un luogo protetto da rune molto, molto lontano da qui, dove forse potrai riflettere su ciò che hai fatto, o maledetto dagli Æsir tutti. Non sarai mai più libero; rimarrai per sempre schiavo del tuo dolore, della tua arroganza, di te stesso. Portatelo via.”

Così avvenne.

Si racconta che la prigione del dio degli inganni fosse situata su Midgard, al centro di una grande, immensa foresta persa nel cuore di un continente antico. C’è chi dice che si trattasse di un palazzo di meravigliosa bellezza, che assomigliava alla perduta Asgard. Altri, sostenevano che un incantesimo potente, recitato da Odino in persona, celasse alla vista degli uomini quell’intrico magnifico e terribile di torri e stanze. La gente cercò a lungo la prigione del dio. Come tutti i mostri e le bestie, si diceva che fosse a guardia di un tesoro immenso, incredibile, così grande e prezioso da non avere eguali in tutto il mondo. Scossi dall’avidità, eccitati al pensiero dell’oro e delle gemme lì custodite, in molti partirono alla ricerca del castello perduto. Alcuni, forse bugiardi, certamente pazzi, dissero di averlo trovato: raccontarono di labirinti fatti d’oro e di un lupo feroce e famelico che sbranava gli uomini che osavano avvicinarsi al suo padrone. Altri sostennero di essere stati rinchiusi nelle segrete del dio per cent’anni interi e di un drago enorme che dormiva nei sotterranei, ma nessuno tornò mai con niente più di qualche storia oscura e una manciata d’incubi.

Così passò il tempo. La gente cercò disperatamente per molti anni ancora la dimora del dio perduto e bandito dal suo regno immortale; bagnò con il sangue la terra intorno alle foreste fitte che si diceva celassero la costruzione stregata e, infine, come tutte le cose, dimenticò il tumulo e le grotte e il palazzo e persino il nome del dio degli inganni si perse nella memoria. L’oblio lo accolse con la sua ombra. Questo si racconta.

 

Foresta di Hallerbos, Belgio, 1882

 

Non si può finire in Belgio per seguire quattro pagine di un’edizione secentesca trovata su una bancarella che si rifà, a sua volta, a un testo ancora più antico che nessuna biblioteca di Londra sembra possedere. Non si insegue una leggenda che è meno di una favola perché l’edizione in questione ha quattro pagine in più della sua unica sorella, finita chissà come a Boston. Sigyn fermò il cavallo tenendosi con una mano il cappello. In tasca teneva l’unico frammento reale di una storia di magia inventata da qualche genitore per ammonire i figli. Una fibula vichinga, abbellita da un’invocazione scritta in caratteri runici che, dicevano, proveniva direttamente dal Volga. Con tutta probabilità, il reperto in questione era appuntato su uno dei mantelli di coloro che assistettero al sontuoso funerale di un capo degli uomini del Nord, assieme allo storiografo Ibn Battuta[1]. Ecco perché suo padre era sparito. Si era ficcato in testa che doveva recuperare un tesoro che si era perso nelle cronache antiche e nei bestiari medievali che parlavano di sciapodi e di unicorni[2]. Si era lasciato sedurre dalla voce di un tumulo scoperto da un taglialegna in una sperduta foresta ai confini del Belgio e aveva abbandonato ogni cosa, speso ogni risorsa quasi mandandoli sul lastrico, per inseguire una chimera inesistente e vaga come le fiabe che si raccontano davanti al camino, nelle sere d’inverno.

Sigyn pensò alle ultime parole che si erano rivolti. “Ti porterò una rosa,” le aveva promesso sapendo che lei le amava. Non era mai riuscita a smettere di assecondarlo in quella ricerca spasmodica e folle ritenendo, a ragione o a torto, ora non lo sapeva più, che suo padre cercasse una leggenda antica per soffocare la nostalgia feroce che provava dopo la scomparsa di sua madre. Al Circolo dicevano che fosse pazzo, invece. Lo accusavano di stare sperperando una fortuna e lo trattavano con sufficienza. Sigyn lo sapeva e conosceva anche il nome di colui che, tra tutti, più si divertiva a beffarsi di suo padre. Lord Theoric di Gastonblury, un uomo tronfio e pieno di boria che credeva di poter fare tutto con i suoi soldi e che ogni cosa gli spettasse di diritto; persino lei. Sigyn gli aveva riso in faccia, quando le aveva detto che sposarlo era un privilegio. Arricciò le labbra con disappunto, al pensiero della sfacciataggine dimostrata dall’uomo. Lord Gastonblury in quel momento era solamente un pensiero fastidioso che doveva scacciare dalla mente: la priorità era cercare suo padre, svanito da troppi giorni. Con un groppo in gola, si addentrò nella foresta pregando di riuscire a individuare una traccia, anche una sola, capace di suggerirle che il genitore fosse ancora vivo.

 

Quello che successe dopo, fu un sogno, un incubo, entrambi. Sigyn non sarebbe riuscita mai a ricordarlo con precisione, e coloro che si inoltrarono con lei nel fitto della foresta non ne uscirono vivi. Chi li aveva preceduti, del resto, aveva smarrito il senno e dimenticato ogni cosa. Alcune immagini si erano fissate nella mente di tutti gli sfortunati esploratori, a dire il vero. Visioni false cristallizzate nella testa, tutte uguali, che raccontavano di un bosco diverso da quello visitato realmente, dove i rami degli alberi erano così fitti da oscurare il sole, i tronchi tanto contorti che pareva fossero cresciuti su una terra avvelenata, l’aria così fredda che sembrava di vivere in un inverno maledetto.

Non esistevano strade per la Tana del Mostro, dicevano le quattro pagine nate dal nulla che facevano loro da mappa e nessun’altra edizione conteneva. Gli dèi avevano cancellato ogni traccia o sentiero che potesse condurre nel luogo stregato. Nei secoli, altre vie erano state battute e segnate, ma il tempo e le sventure avevano convinto gli uomini a occultare anche quelle. Sigyn non avrebbe saputo dire mai cosa ci fosse di vero, in quella storia. S’inoltrò nella foresta accompagnata da un guardiacaccia, da un servitore e da alcuni uomini della città vicina che dicevano di aver visto suo padre avventurarsi, un mattino di molte settimane prima, verso il sentiero che conduceva nel bosco di Hallerbos. Era davvero quello il nascondiglio della Bestia? La prigione dove un dio vendicativo e riottoso aveva, secondo un mito vecchio di mille anni, rinchiuso il figlio traditore e bugiardo? Dicevano che fosse un luogo stregato, magico. Lo chiamavano il bosco blu[3], la foresta incantata, e il motivo era quel tappeto di giacinti che ricopriva la terra sospendendo il tempo. Spuntò un cervo, dal nulla. Prima di sparire nel silenzio dei rami fitti, li guardò sorpreso. Sigyn pensò che suo padre era pazzo: quella era una terra troppo bella per rinchiuderci un dio sconfitto. La nuvola di fiori tra l’azzurro e il viola le sarebbe rimasto in mente per sempre, unica traccia di quel viaggio assurdo. Mesi dopo, camminando attraverso corridoi contorti e senza luce, a un tratto si sarebbe fermata, colta dall’improvviso ricordo della distesa di giacinti e di suo padre. E avrebbe provato una fitta di nostalgia.

 

Fu il fiume che spariva nella grotta, l’ultima cosa che avrebbe ricordato con precisione e nitidezza. Dopo, tutto si sarebbe trasformato in un incubo dai contorni sbiaditi, governato dal caos. C’era un corso d’acqua pura e cristallina, che scintillava in mezzo ai giacinti tenuamente colorati d’azzurro e c’era incisa una runa nella pietra. Sigyn smontò da cavallo per far abbeverare l’animale e venne attratta da qualcosa. Si avvicinò al simbolo scolpito nella roccia e vide un lembo di stoffa che penzolava mesto tra i rami. Lo riconobbe come un pezzo del mantello di suo padre e sobbalzò, di fronte al segno che marchiava la pietra. Nelle quattro pagine che sembravano essere lo scherzo perfido di un editore o di un falsario, era raffigurata la medesima incisione: figure stilizzate create da uomini di un altro tempo. Si trattava di un segno magico che invitava i viandanti ad abbondare quella foresta incantata che si tingeva d’azzurro, persa nel cuore d’Europa, crocevia bagnato del sangue di popoli che non si erano riusciti a mescolare tra loro. Se solo lo avesse ascoltato. Se solo le rune scolpite sulla pietra non fossero state corrose dal tempo e occultate dalla vegetazione, forse Sigyn avrebbe potuto riconoscere i simboli e persino pronunciarli. Sarebbe stata in grado di ricordare vagamente ciò che diceva ad alta voce suo padre quando lei era bambina e, distratta, disegnava mondi fantastici, anziché finire nella grotta. Invece, questo accadde.

 

Quello che invece sapeva con assoluta certezza, riguardava il tesoro che scintillava nella grotta. Sembrava la tana di un drago o la tomba di un re: probabilmente, era entrambe le cose. Sfiorò anche lei le coppe e le armi scintillanti e splendenti. Le sue dita sostarono un momento di troppo sulle corone e sui gioielli che appartenevano a un altro luogo e a un altro tempo, ammirando le cesellature finissime, la cura degli intarsi, la lucentezza delle gemme. Non sottrasse nulla alla pietra, però; mormorò a mezza voce una filastrocca antica che spiegava perché non si dovesse mai rubare l’oro ai mostri e agli spiriti, ma il guardiacaccia e i servitori che erano con lei non furono altrettanto accorti. Sigyn li supplicò di non trafugare niente. Ricordò loro che erano lì unicamente per cercare suo padre che si era smarrito, non per violare una tomba o un santuario, e forse la sua voce coprì il fruscio leggero che avrebbe dovuto avvertirla del pericolo imminente. Non l’ascoltarono e, quando iniziarono a crederle e gettarono a terra le coppe e le corone, le collane e gli anelli, il lupo era già su di loro. Il suo ringhio basso li sorprese, le sue fauci li ghermirono dilaniando e strappando.

Era una creatura mostruosa, enorme, d’altri tempi, che smentiva, con la sua presenza terribile e la mole innaturale, la fiducia che gli uomini avevano iniziato a maturare nella ragione e nella scienza. Pareva uscito da un bestiario medievale o da una leggenda antica, una di quelle miniate con cura e perizia da Simone Martini e dagli altri[4], racchiuse nei codici medievali sparsi per le biblioteche d’Europa, come monito, speranza, sogno. Sigyn vide un’ombra nera e iniziò a correre inoltrandosi nei corridoi oscuri e senza luce del tumulo, insinuandosi ancora di più nella tenebra perché l’uscita le era preclusa dall’animale. L’elettricità che iniziava a dissipare il buio, le comunicazioni che viaggiavano da un capo all’altro di un filo steso dal genio e dall’inventiva umana, le macchine che permettevano agli uomini di spostare cose, persone e svolgere il lavoro di esseri senzienti: tutto svanì, nella fuga disperata da una morte che odorava di leggenda. Il mondo pareva essere cambiato; non esistevano più mostri né draghi e quelli che avevano terrorizzato il mondo erano bestie antiche vissute in un altro tempo, eppure Sigyn ebbe paura come se si trovasse in un racconto arcano. Un dolore tremendo la colse a una gamba. L’animale l’aveva azzannata e ora avrebbe dilaniato e sbranato anche lei. Scivolò e cadde; sentì il fiato caldo della bestia su di sé, la sua bava che sapeva di sangue e carne.

Il lupo era ormai sopra di lei, quando una figura avanzò tra le tenebre della grotta armata di una fiaccola tenue. Con un ordine secco amplificato dall’eco della caverna, bloccò l’animale, eccitato dal sangue. “Aspetta.”

L’uomo si chinò e prese tra le dita una ciocca sottile sfuggita all’acconciatura di Sigyn per valutarne la morbidezza. “Ha i capelli d’oro degli Æsir,” mormorò. Fu l’ultima cosa che la ragazza sentì; poi svenne e tutto divenne nero – anche i suoi pensieri.

 

Fu un singhiozzo soffocato, a svegliarla. Il lupo la inseguiva, feroce e terribile e lei continuava a scappare, perdendosi sempre di più nelle grotte ricoperte di gioielli, nei cunicoli freddi e umidi dove quasi poteva sentire il sibilo spietato di qualche creatura ancora peggiore. E la bestia, spietata e famelica creatura, continuava a rincorrerla con le fauci ancora insanguinate dei suoi compagni.

Fu il crepitio delle fiamme a tirarla via dall’incubo. E allora, Sigyn aprì gli occhi e capì di essere ancora viva. Girò lentamente la testa di lato, fu scossa da un brivido. Era in un palazzo in rovina. Glielo dissero i soffitti altissimi e le pareti un tempo riccamente affrescate, ora solo incrostate di colore su cui danzavano ombre spettrali. C’era un uomo, poco distante da lei, accanto all’ampio camino. Era giovane d’aspetto, e il suo profilo era affilato e bello. Aveva gli occhi chiari e i capelli neri, come neri erano gli stivali, i pantaloni e la camicia che indossava. Fissava assorto le fiamme che ravvivava, di tanto in tanto, con un attizzatoio.

“Dove sono? Che posto è questo? Chi siete?” boccheggiò, ritraendosi istintivamente.

L’altro non si voltò. “Siamo in ciò che resta di un grande castello.”

“Mi avete salvato,” mormorò Sigyn, stupita.

L’uomo posò il suo sguardo chiaro su di lei, scrutandola alla luce rossastra delle fiamme. “Così pare,” commentò asciutto. Aveva una voce calda e roca, bella da ascoltare, pensò la ragazza. Si accorse di essere coperta con un pesante mantello di lana scura – il suo? – e che le sue ferite erano state medicate.

“La mia gamba,” soffiò, scostando la stoffa scura. Una striscia di tessuto le copriva la pelle, ma dell’orribile ferita che le aveva inferto il lupo non c’era quasi più traccia. “Credevo fosse molto più grave.”

Lui le rivolse un’occhiata distratta, prima di concentrarsi nuovamente sulle fiamme guizzanti. “Eri spaventata, hai perso molto sangue. Ma il taglio non era così profondo.” Aveva il potere di calmarla, notò Sigyn, come se nel suo timbro ci fosse un qualche misterioso incantesimo. Ma forse fu solo il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, che la spinse a fidarsi delle sue parole dopo tutto l’orrore che aveva visto.

L’uomo alzò i suoi occhi chiari su di lei. Erano verdi e quasi trasparenti, ma non privi di ombre torbide. Alla luce fioca del fuoco, forse la ragazza non se ne accorse. “Questo posto è maledetto. La gente lo teme, l’ha isolato dal mondo. Ha impedito che venissero costruite strade che conducessero qui e ha cancellato quelle antiche. Sotto queste mura dormono creature oscure. Perché siete venuti?”

“Cercavamo i segni di una leggenda antica,” mormorò Sigyn stringendosi di più nel mantello scuro. La stoffa in cui era avvolta odorava di cuoio, resina e pioggia. Nonostante il fuoco, il gelo le irrigidiva le ossa.

Lo straniero la fissò a lungo, prima di rispondere. “Ci sono cose che dovrebbero essere lasciate dove sono. Porte che non vanno aperte, oggetti che non vanno toccati. Spiriti che non vanno svegliati.”

Quella frase le fece tornare alla mente di nuovo, con orrore, l’orribile lupo e i corpi straziati dei compagni. Un conato quasi la costrinse a rimettere lì, di fronte allo sconosciuto salvatore. Ma poi si riscosse, e scoprì, dentro di sé, una forza che non credeva possibile. Sostenne il suo sguardo indagatore e parlò con voce vibrante, sicura. “Siamo fatti per scoprirlo, il mondo. Non per rimanere chiusi nelle nostre case, a tremare appresso a qualche vecchia superstizione,” s’inalberò, anche se forse, adesso, non ne era più così convinta.

“Ed è davvero questo che volevate vedere?” chiese lo straniero con un tono ironico e amaro assieme.

Sigyn si passò una mano sulla fronte quasi volesse, con quel gesto, scacciare il ricordo delle ore appena trascorse. Si rese conto di non saper rispondere a quella domanda e allora ne pose un’altra. “L’ultima cosa che ricordo è un lupo enorme che mi stava aggredendo. Come avete fatto a salvarmi?”

“Gli ho sparato per allontanarlo,” rispose l’uomo spostando con la punta del bastone alcune braci, “e quello è scappato.”

“E a trovarmi?” insistette ancora, “dite che nessun sentiero porta qui.”

“Quanta curiosità,” commentò laconico l’uomo, “sembra quasi vi dispiaccia che vi abbia trovato.” Fece una pausa e un sorriso sbieco gli attraversò le labbra sottili. “Siete dei ladri, dei predoni.” La sua voce mutò e divenne metallica, severa. “Cercavate il tesoro, volevate disturbare gli spiriti. Dicono che qui, più di mille anni fa, fu sepolto un dio: è il suo corredo funebre, quello che cercavate?”

Sigyn pensò al tesoro da cui era rimasta incantata, ma che aveva solo sfiorato, alle leggende antiche dietro cui suo padre si era perso smarrendo il senno. Conosceva le storie, le aveva imparate da bambina. I dettagli no, le erano sfuggiti, e per questo era entrata nella grotta, ma il mito remoto su cui si poggiava la spasmodica ricerca del genitore e di tanti altri prima di lui non le era estraneo. Una fiaba, lontana nel tempo e nello spazio, raccontava di un trickster, un essere magico e ambiguo dotato d’incredibili poteri, che era stato punito per le sue molte azioni riprovevoli e rinchiuso in una fortezza inviolabile, protetta da mille rune. Una tomba da cui non sarebbe mai più potuto uscire. Condannato a una vita sospesa in un mondo alieno che non gli apparteneva, non avrebbe potuto far altro che guardare. Così era stato deciso. Il racconto le salì dal cuore alle labbra, ma Sigyn non lo pronunciò. Amava suo padre e aveva attraversato mezza Europa per cercarlo, ma, pur appoggiando la sua ricerca, non la condivideva. Lei credeva nella scienza e nelle arti, nella volontà dell’uomo di manipolare la natura con la forza del proprio intelletto, non nella storia triste e oscura di un dio bugiardo prigioniero nel mondo degli uomini[5].

“Io no. Non sono in cerca di tesori, ma di mio padre,” lo corresse e nel suo sguardo brillò una fierezza che l’uomo si sorprese nel riconoscere, perché anche lui l’aveva provata. Prima che la sua prigionia fuori dal tempo avesse inizio, nei suoi occhi aveva scintillato una luce simile. Osservando la ragazza, si avvide che le tremavano le mani forse per il terrore che le aveva instillato il lupo. Eppure, nonostante questo, proseguì.

“Tuo padre è un ladro,” sentenziò sicuro, le labbra stirate in un smorfia di dispetto. “Si è intrufolato nella grotta per depredarla, spinto anche dalla sete di conoscenza, ma, alla fine, l’avidità ha prevalso. Ha rubato.”

Sigyn balzò in piedi. “Voi sapete dov’è! Chi siete, che gli avete fatto?”

L’altro la prese per un braccio e la trascinò in uno dei molti corridoi della fatiscente dimora. La ragazza tentò di fuggire e di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era ferrea e tentare di scappare si rivelò inutile. La condusse attraverso un cunicolo più scuro degli altri ignorando le sue proteste e le sue grida, finché non giunsero davanti a una cella malamente illuminata; solo allora la lasciò andare. Oltre le grate, riverso a terra e scosso dalla febbre e da una tosse violenta, c’era un uomo che si stringeva in un mantello lacero e gemeva debolmente. Accanto a lui, scintillava una rosa fatta d’oro.

Nonostante la luce fioca, Sigyn riconobbe il prigioniero e si aggrappò alle sbarre. Un terrore senza nome l’avvolse di fronte a quella vista spaventosa. “Padre! Padre svegliatevi! Sono io, sono venuta a cercarvi!” gridò. Vide l’anziano genitore che si riscuoteva debolmente e si sfregava gli occhi e il suo cuore si spezzò nel vederlo improvvisamente così fragile e vecchio. Si rese conto, per la prima volta nella sua vita, di quanti pochi anni gli spettassero ancora vivere. Percepì che la morte lo avrebbe portato via presto, troppo, come già si era presa sua madre. Con il viso rigato da lacrime di pietà e di rabbia, si volse verso l’uomo vestito di nero e lo fissò con occhi ardenti. “Che gli avete fatto? Chi siete?”

Un ghigno. “Lo vedete da voi. Punisco un ladro,” le rispose, senza celare affatto la punta di divertimento che quella scena drammatica gli instillava.

Il vecchio, intanto, si era riscosso. Resosi conto con orrore che la voce della dolce figlia non era un miraggio o un sogno, ma realtà, si tirò in piedi nonostante le gambe malferme e si avvicinò alle grate prendendo tra le sue le mani morbide e sottili della ragazza. “Sigyn, vai via, ti prego! Scappa da questo luogo, corri, presto! L’ho trovato! È ancora qui, da mille anni…” boccheggiò.

Singhiozzando, lei tentò di abbracciarlo nonostante le sbarre. “Padre, non ti sforzare! Ti porterò via da qui, verrai con me a casa!” promise.

Gli occhi del vecchio esploratore si riempirono d’orrore. “No! Tu devi fuggire, devi andare via immediatamente. Io non posso, il mio destino è rimanere qui, come tutti gli altri.” Sbatté le palpebre, confuso. “Non ho saputo resistere al tesoro,” ammise con una punta di dispiacere, chinando la testa verso la rosa d’oro ancora a terra. “Ma tu,” riprese sfiorando la guancia serica e umida della figlia, “tu devi tornare indietro. Non può seguirti… guarda l’incisione, Sigyn. Questa è la sua casa. Guarda l’incisione, ti prego!”

La ragazza scosse la testa, incapace di comprendere a cosa si stesse riferendo suo padre. Si voltò per dare un nome alla paura che annichiliva il pensiero dell’altrimenti brillante genitore, per capire cosa avesse potuto ridurre, nel giro di pochi giorni, l’uomo in quel terribile stato. Di fronte alla cella, c’era un’incisione; una versione conservata meglio di quella che aveva visto appena fuori la grotta. Le si avvicinò lasciando a malincuore le dita nodose di suo padre e ne fu attratta al punto da sfiorarne i contorni, come se in quell’intaglio fosse nascosto un potente incantesimo. L’uomo in nero non disse nulla. Si limitò a fissarla con le mani incrociate dietro la schiena avvicinandosi, però, con passo felpato fin quando non le fu alle spalle.

Tre figure erano state disegnate con tratti spessi. Sigyn sfiorò con dita incerte la pietra lavorata, seguendone i contorni. Sentì la voce di suo padre minacciare e supplicare, ma ogni cosa svanì mentre toccava l’incisione. Il primo era un lupo, di stazza enorme e dalle fauci pronte ad azzannare.

“Fenrir,” le mormorò all’orecchio lo straniero.

Il secondo era un serpente che aspettava le sue vittime nelle profondità di un lago.

“Jormungander, il drago marino.”

Il terzo, era la figura stilizzata di un uomo. E Sigyn, sfiorandone la sagoma, comprese a quale fine fosse andata incontro con suo padre e le si gelò il sangue nelle vene.

L’uomo in nero le posò una mano sulla spalla, accarezzando appena una delle sue ciocche d’oro. “Se pronuncerai il mio nome, spezzerai l’incanto,” l’avvertì avvicinandosi e sfiorandole con le labbra il collo.

Sigyn tremò per la vicinanza improvvisa e per il terrore, ma non si mosse. “Perché ancora non mi hai uccisa?” domandò invece con un filo di voce.

“Abbiamo avuto già il nostro tributo di sangue,” mormorò il dio degli inganni. “E tu non hai tentato di rubare niente.”

Lei deglutì. “Non mentirmi,” soffiò, supplicò, senza voltarsi.

“Una debolezza,” le sussurrò all’orecchio. “Sono rinchiuso qui da molto tempo. Troppo.”

Sigyn si girò lentamente e riconobbe nei lineamenti affilati e belli dello straniero vestito di nero quelli dell’iscrizione che aveva scorto nella grotta e non aveva saputo decifrare e che ora aveva ritrovato lì, nel labirinto di corridoi e cunicoli di quel castello fatiscente.

“Liberalo, ti prego. È vecchio e malato,” lo implorò, pallida in volto.

Loki aggrottò le sopracciglia. “Ha sbagliato,” sentenziò perfido.

“Come tutti. Come te.”

L’Ase le scoccò un’occhiata gelida, terribile, fredda come una lama di ghiaccio. “Come osi? Ricorda il mio nome.”

“Lascialo andare,” lo supplicò ancora tremando, “la rosa la prese per me, gliela chiesi io. La colpa è mia, solo mia.”

“Morirà qui perché è un ladro.”

C’era una nota di compiacimento, nella voce arrochita del dio degli inganni che non sfuggì affatto a Sigyn. Di fronte alla possibilità che la spietata creatura potesse sfogare maggiormente la sua ira sul genitore, ebbe uno slancio di folle coraggio. “Prendi me.”

Lo aveva detto davvero, eppure la sua voce le risultò estranea, come se fosse stato qualcun altro, a pronunciarla.

Il dio Loki si volse verso di lei inarcando un sopracciglio, chiaramente sorpreso da quell’atto sconsiderato. “Il tuo sacrificio è folle e inutile,” l’avvertì maligno. “Tu sei giovane e non hai commesso alcuna colpa. Lui è vecchio, gli restano comunque solo pochi anni da vivere. Perché ti vorresti immolare per lui? Che vantaggio otterresti, rinunciando alla tua vita? Moriresti qui tra molti anni da oggi. Non è questo quello che desideravi, per te stessa. Io lo so, lo vedo.”

Sigyn si accorse che grosse lacrime avevano preso a rigarle le guance. “Non posso lasciarlo in queste condizioni,” spiegò con voce rotta. “Prendi me. La mia vita in cambio della sua. È uno scambio equo, un accordo. Una vita per una vita. A te non cambierà niente.”

“Una vita per una vita,” le ripeté l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato. “Non sai a che stai rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso, francamente stupido,” sentenziò a denti stretti. “Perderai per sempre la tua libertà e per cosa? Per un vecchio pazzo che ha sempre preferito leggere le sue carte sdrucite che pensare a te? A un folle che ha dilapidato le sue sostanze per cercare la mia tomba maledetta?” Una risata fredda e secca gli scosse il petto. “Io sono il dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono raccontate ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i Nove Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.”

“Da quando a Loki interessa il destino di una mortale?”

L’Ase scosse la testa. “Tu non sai niente. Per gli abitanti di Midgard ho fatto tanto. Molto tempo fa, forse troppo, donai agli uomini il fuoco e il bell’aspetto,” rammentò, stringendo le palpebre come se cercasse, nella sua mente contorta, il ricordo perduto da associare a quell’ammissione. Si riscosse, un lampo divertito gli attraversò lo sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e, d’ora in poi, sarà anche la tua. Accetto lo scambio.”

Continua... (lunedì 10)



[1] Storiografo realmente esistito che narrò, appunto, di un funerale vichingo. Anche.

[2] Creature realmente presenti nei bestiari medievali.

[3] Si chiama veramente così ed esiste!

[4] Un famosissimo miniatore medievale.

[5] Sigyn ha uno spirito positivista che ben si adatta all’epoca (fine 800).

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Capitolo 2
*** Della fragilità di una rosa ***


Capitolo 2

Della fragilità di una rosa

 

 
Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.                 
  Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.                      
  Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».

[…]

Quando leggemmo il disïato riso

esser basciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso,                      

la bocca mi basciò tutto tremante.

Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:

quel giorno più non vi leggemmo avante».

(Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto V.)

 

Nessuna cosa era come sembrava, nel palazzo incantato dell’ingannatore di Asgard che lui, con un filo d’ironia, definiva la propria tomba. Non appena il vecchio Lord fuggì dal cerchio magico di rune tracciato da Odino in persona, l’edificio sghembo e in rovina in cui Sigyn era stata portata si trasformò in un palazzo incantato, vittima, come ogni cosa, del sortilegio che lo legava al suo signore. All’inizio, la ragazza provò solo terrore e disperazione per la sua triste sorte. Il coraggio che le aveva gonfiato il petto quando si era offerta di scontare la prigionia al posto di suo padre si era trasformato, ben presto, nell’amara consapevolezza di aver appena perso ogni cosa e che sarebbe morta entro un cerchio di rune incise, mille e più anni prima, da una divinità vendicativa e furibonda. Non avrebbe vissuto niente, della vita che l’aspettava. Non sarebbe mai potuta salire sull’Orient Express alla volta delle steppe dell’Impero Russo, né sarebbe sbarcata a New York, dov’era s’era trasferita sua cugina con i figli. Si erano promesse, per iscritto, che si sarebbero incontrate l’estate seguente e avevano fantasticato del tempo che avrebbero trascorso insieme. Niente di tutto questo avrebbe mai avuto luogo; sogni e speranze si sarebbero trasformate nell’amaro e inutile rimpianto d’un giocattolo catturato da un mostro, da una bestia crudele che la cattività aveva reso pazza. Questo erano, lei e Loki. Fino al suo ultimo respiro su questa terra, il mondo si sarebbe esaurito sul limitare di un cerchio maledetto. Il dio degli inganni, dal canto suo, la ignorava. Lei non significava niente, non serviva a nulla. L’onta dovuta al furto di cui si era macchiato suo padre era stata lavata, la rosa dai petali d’oro era tornata a scintillare assieme al resto del tesoro.  Sigyn non era altro che una mortale, della cui esistenza troppo fragile e breve presto Loki si sarebbe dimenticato. Per molti giorni pianse la sua sorte, finché un pomeriggio si asciugò le lacrime con il dorso della mano e decise di esplorare la sua prigione.

Fu allora che trovò il labirinto, quello vero. Una torre intera ricoperta, tappezzata di libri che Sigyn conosceva e amava e di altri di cui non aveva mai sentito parlare e che si diceva fossero andati perduti da secoli. Resoconti di maghi e di viaggiatori folli, epopee scritte da popoli perduti le cui vestigia erano state coperte per sempre dalla sabbia di deserti lontani. Con le dita che tremavano per la paura e l’emozione, accarezzò il dorso rilegato in pelle dei volumi più antichi, sfiorò le ruvide pergamene che giacevano ancora arrotolate. Non si accorse di aver perso l’orientamento, né diede peso al fatto che lo spazio pareva dilatarsi a ogni suo passo, stregata com’era dal fascino oscuro di quel luogo ammaliante. Si ritrovò a sfogliare le pagine, vergate in un alfabeto arcaico e sconosciuto, di un libro scritto con simboli runici così antichi che la testa aveva preso a girarle solo seguendo l’andamento dei segni posti uno accanto all’altro.

“Non provare mai più a leggere gli incantesimi oscuri.” La voce roca del dio degli inganni la sorprese alle spalle. Non lo aveva sentito arrivare. S’accorse di stare barcollando, di non riuscire a rimanere in piedi. Tutto vorticava attorno a lei e sarebbe caduta a terra, se quella creatura perfida con le fattezze d’uomo e il cuore di una bestia non l’avesse sostenuta. Si ritrovò tra le sue braccia – aveva una presa ferrea, lui, virile, e odorava di cuoio e pelle e qualche strano incenso.

“Quel libro non è per te. Questo posto non è per te.” Viso affilato, occhi verdi quasi trasparenti, labbra sottili sfregiate appena da una cicatrice lieve, ormai bianca. Non erano mai stati così vicini, se non nei pensieri da cui Sigyn era fuggita quando aveva compreso che lui, per portarla dalla grotta grondante oro fino al camino, doveva averla sollevata e stretta a sé.

Tentò di riprendersi in fretta, libera, ormai, dal giogo delle strane rune. “Mi avete rinchiusa qui. Questa è la mia casa, adesso – la mia prigione, mi correggo.” Come si parla a un dio folle e crudele, costretto dai suoi pari a esaurire l’eternità dentro a una gabbia incantevole e invalicabile? Le leggende antiche che parlavano davvero di quel mostro simile a un uomo erano oscure dicerie che Sigyn aveva dimenticato da tempo, o forse non aveva conosciuto mai. Storie di scherzi e di burle, di inganni e di tradimenti. Cosa sono, gli Æsir? Creature di un altro mondo antiche e arroganti? Padroni stanchi di giocare con le loro bambole umane? Sigyn, prigioniera del peggiore tra loro, non poteva chiederselo e non aveva nulla da perdere. Per questo alzò il mento con fierezza e sostenne lo sguardo verde e aguzzo dell’antica creatura di fronte a lei.

Loki increspò le labbra, incrociò le mani dietro la schiena, come il dio che era e il principe che era stato – ma questo, Sigyn non poté comprenderlo né capirlo.

“Tu l’hai scelta,” le ricordò caustico. “Hai sacrificato la tua esistenza volontariamente.” Sorrise appena, inclinò il capo di lato, come se volesse guardarla con più attenzione. “Voi umani non dovreste essere così sciocchi. Il tempo vi è nemico; scorre inesorabile e non torna più indietro.”

Sigyn fu scossa da un brivido, perché le parole del mostro davanti a lei erano intrise di una saggezza inappuntabile, esatta, crudele come i suoi occhi chiari; eppure, nella sua voce, era sicura di aver colto l’ombra di qualcosa – rimpianto, forse. “Non è nemico anche del dio degli inganni, il tempo?”

Il bel volto dell’Ase si contrasse in una smorfia. La squadrò da capo a piedi come se volesse valutarla, soppesare le sue intenzioni, leggerle il cuore. Forse lo fece. “No,” soffiò infine. “Porta con sé solo tedio, noia, dispetto. Scorre in maniera diversa, per noi, il tempo. Cento anni per gli uomini sono una vita intera; un’esistenza lunga, piena. Per noi, solo un battito di ciglia, un palpito del cuore. Nelle vostri menti, i ricordi sbiadiscono. Perdono d’intensità, si velano della dolce tristezza della nostalgia. Nelle nostre, invece, sono scolpiti per sempre e diventano immutabili. Gli Æsir non possono dimenticare.”

Aveva parlato con fierezza, tenendo le spalle diritte e la schiena tesa, vantandosi di quello che, agli occhi della mortale, dovette sembrare un’orrenda maledizione. Sigyn scosse il capo mestamente. “È un destino terribile.”

Era vero? L’Ase contrasse la mascella, irrigidendosi di fronte a quella constatazione sincera, carica però di un’empatia offensiva, non richiesta, non voluta; che infilava inconsapevolmente il dito in una piaga antica, vecchia più di mille anni.

“Sparisci dalla mia vista e non tornare, mortale,” le ordinò secco. “Questa non è una delle tue confortevoli biblioteche, ma l’officina d’un mago, lo studio di un dio, il labirinto della bestia.” L’afferrò per il polso allontanandola dal libro d’incantesimi che quasi l’aveva catturata – era arrivato appena in tempo – e la trascinò per le sale ricoperte di scaffali e tavoli zeppi di volumi e pergamene.

“Ti brucia? Ti brucia ancora come il primo giorno che ti ha rinchiuso qui?” La voce di lei lo colpì quasi come uno schiaffo. Si fermò nel bel mezzo dell’ennesima stanza che si affacciava su un’altra assolutamente identica, uguale; ecco dove custodiva la sua collezione preziosa che gli aveva impedito, nei secoli, di diventare davvero pazzo, di smarrire il senno.

“Non osare pronunciare una sola parola in più, ragazzina,” l’avvisò tetro.

Lei non gli obbedì. Riconobbe, nel tono tagliente che l’Ase aveva usato, una traccia della furia che i miti e le leggende gli attribuivano e scelse di essere sincera. Di aprire il suo cuore al dio degli inganni. Di confessare quello che non era dolore o pentimento per una scelta azzardata, ma il senso di perdita e smarrimento conseguente a quella decisione che non avrebbe mai ricusato. Oppose resistenza, si aggrappò al suo braccio.

“Questa è la tua prigione,” ammise. “Per il tempo d’un battito di ciglia, di un soffio del cuore, sarà anche la mia: lascia almeno che legga. Consentimi di vivere, attraverso la carta, la vita e le possibilità a cui ho rinunciato. Non vedrò mai più il mondo, non abbraccerò mai più i miei cari; non m’innamorerò né avrò figli e nipoti. Lascia almeno che, per una manciata di anni che per te non significano nulla, io possa leggere, immaginare, sognare. Vivere l’esistenza a cui ho rinunciato tramite un libro.”

Il dio degli inganni ascoltò quella supplica disperata bevendo ogni parola della mortale. Forse era stupito, perché erano passati millenni da quando gli uomini avevano smesso di ringraziarlo per i molti e utili doni che aveva fatto loro. In un altro luogo, in un altro tempo, quando ancora pensava di poter essere un giorno degno agli occhi dell’Allfather che[1], seppure privo d’un occhio, tutto vedeva, aveva insegnato ai figli della giovane Midgard a domare il fuoco. Le lingue scarlatte potevano bruciare ogni cosa e portare distruzione e morte, ma erano anche benigne; scaldavano le membra infreddolite, rischiaravano le notti più scure cacciando via le ombre, scioglievano i metalli e cuocevano i cibi. Allo stesso modo, oltre a rendere i loro volti piacevoli e belli, aveva insegnato loro l’arte di intrecciare reti e di pescare.

Di fronte a quella richiesta accorata e fiera, s’accorse con dispetto di comprendere il dolore della delicata mortale dai capelli d’oro come gli Æsir, perché anche lui l’aveva provato sulla sua pelle. Nei mille e più anni trascorsi nella tomba a cielo aperto che Odino gli aveva donato, la libertà gli era mancata ogni giorno, istante, secondo. Sebbene il tempo non gli difettasse e ne avesse ancora in abbondanza, scoprì di capire perfettamente l’angoscia e lo smarrimento della sua bionda preda. Era qualcosa di fisico, un malessere profondo che scavava graffiando e lacerando lo spirito. Lei aveva ragione: erano prigionieri entrambi. Condividevano la medesima maledizione e l’avevano scelta deliberatamente, scientemente, volutamente, anche se Sigyn non poteva certo conoscere né immaginare quali fossero, realmente, i termini e le condizioni della crudele punizione imposta dal potente Odino al dio degli inganni. Soffocando a stento le lacrime, mordendosi le labbra per non gridare al cielo il suo dolore, Sigyn era riuscita a dare voce alla bestia nera che urlava nel petto di Loki stesso. Aveva davvero i capelli d’oro degli Æsir, lei; un popolo di dèi ed eroi, di pirati ed esploratori, di predoni e di maghi. Le concesse di poter accedere ad alcune stanze della sua labirintica biblioteca perché, si disse, era curioso di vedere cosa ne avrebbe fatto del suo tempo. Per soffocare la noia, riempire il vuoto delle sue ore, concedersi una distrazione bella da guardare, perché il dio degli inganni non era una creatura incorporea e immateriale, ma era fatto di carne e sangue e aveva il corpo un uomo nel pieno delle sue energie e forze e voglie. In fondo, si disse, sarebbe durato solo il tempo di un battito di ciglia, di un soffio del cuore. Si sarebbe trattato di un esperimento, dell’ennesimo studio condotto per ingannare il tempo, nient’altro. Con voce severa, le concesse di poter accedere ad alcune di quelle stanze: lì, avrebbe potuto studiare ciò più le aggradava, per il tempo che riteneva necessario. L’unico vincolo che le impose, fu di non recarsi mai, per nessuna ragione al mondo, nel piano superiore della torre dov’era il suo studio.

Forse è vero ciò che si racconta ancora in qualche capanna sperduta sugli dèi; che siano volubili e amino essere adorati e invocati. Loki, il cui nome dagli uomini era stato dimenticato e veniva pronunciato a denti stretti solo per qualche oscura imprecazione, come i suoi pari Æsir, non aveva saputo resistere al fascino di una preghiera sincera e spontanea, detta col cuore. Mentre si allontanava, tuttavia, parole antiche e oscure tornarono ad affacciarsi nella sua mente scaltra e astuta. Fenrir, il lupo, quando lo vide, ammiccò appena con i suoi occhi guardinghi e quasi fluorescenti. Forse, presto, la prigionia sarebbe finita.

 

 

 

Passarono i mesi, giunse infine l’inverno nella foresta di Hallerbos. La nuvola blu che impreziosiva la terra venne sostituita da una coltre bianca e immobile di neve che ricoprì ogni cosa. Gli alberi si trasformarono in ossa adunche e tristi che nascevano dal suolo per innalzarsi a invocare il cielo, i fiori si addormentarono in attesa della primavera lontana. Eppure, c’era qualcosa di tremendamente bello e magnifico in quel panorama onirico, di sogno. Oltre il sigillo che un dio adirato aveva tracciato sulla terra degli uomini, il tempo si era congelato, cristallizzato. Sigyn aprì gli occhi alla luce tenue e fredda di un’alba livida, ma non per questo meno splendida. Si tirò su soffocando a stento un brivido dovuto all’aria pungente. Con una mano, si liberò delle ciocche bionde che erano sfuggite alla treccia che usava per dormire, con l’altra si sfiorò le labbra colpevoli, chiedendosi confusa se non fosse stato tutto un sogno, un inganno. Lo spettacolo teatrale allestito da un dio annoiato e stanco, da una creatura millenaria che aveva congelato il suo cuore in un odio antico forse motivato, ma senz’altro lontano nel tempo e nello spazio.

Loki era crudele e spietato, e lei lo sapeva da sempre; da quando, bambina, suo padre abbassava il tono della voce ogni volta che incappava nel suo nome. Conosceva vagamente alcune delle azioni malvagie che aveva compiuto perché erano note anche lì, su quella che lui chiamava, non certo senza una punta di velato disprezzo, Midgard. Le altre, le aveva apprese sfogliando le pagine ingiallite dei volumi che lui le aveva concesso di leggere. Storie tetre, cronache di regni perduti e mondi alieni che il dio degli inganni, inizialmente, le aveva vietato persino di toccare. Racconti che chiarificavano ancora meglio la natura delle ombre che danzavano cupe nello sguardo chiarissimo di Loki, il senso del lieve ghigno sardonico che gli increspava le labbra sottili.

 

Sigyn si coprì il volto con le mani chiudendo gli occhi come se potesse, grazie a quel gesto, cancellare i mesi appena trascorsi, tutti. Fuori, danzavano piccoli fiocchi di neve. Lievi e leggeri, si posavano sulla foresta di Hallerbos che quasi nessuno, al mondo, sapeva essere la tomba di un dio furioso, di cui lei era cosa? Il giocattolo, l’ostaggio, la prigioniera, l’amica? L’ultimo termine le strappò un sospiro esasperato, carico d’ironica pietà verso se stessa e nei confronti dell’attitudine umana ad abituarsi a quasi ogni cosa. Loki glielo aveva spiegato il giorno prima, senza risparmiarle una punta di velenoso sarcasmo. Gli uomini, si era divertito a dirle, per sopravvivere si adattano alle circostanze e così stava facendo lei.

“Non è lo stesso per gli Æsir?” Domanda provocatoria, esasperante, forse persino troppo pungente. Fatta sorridendo appena e guardandolo da sotto le ciglia scure in un modo pericoloso, di cui lei stava smettendo di temere gli effetti e le conseguenze. Nella gabbia fuori dal tempo e dallo spazio dov’erano rinchiusi, avrebbero potuto mai cessare di essere il dio maledetto e la fanciulla che gli si era sacrificata?

Come sempre negli ultimi mesi, l’Ase che aveva portato nei Nove Regni e oltre guerra, distruzione e morte, l’aveva scrutata a metà strada tra il sorpreso e divertito. Colpa dei libri che riempivano ogni angolo di quella torre stregata; dei volumi che entrambi non si stancavano mai di sfogliare, delle domande che si era azzardata a porgli all’inizio di quell’inverno bianco come pochi. Prima che cadesse la neve, disattendendo platealmente ai suoi ordini, lo aveva cercato stupita, meravigliata, incantata: aveva trovato l’ennesimo codice antico e accuratamente miniato e, stringendoselo delicatamente al petto, gli aveva domandato quali altri libri perduti degli uomini aveva raccolto e collezionato e perché. Il dio degli inganni, però, quella volta, non le aveva risposto. Si era limitato ad alzare gli occhi su di lei, guardingo e irritato.

Un’altra sarebbe scappata a gambe levate. Sigyn, invece, il giorno appresso era tornata con ancora più domande, e così quello seguente, fino a che il dio degli inganni non si era deciso a levarsela di torno rispondendole brevemente, tra i denti. A lei, però, non era bastato. Dopo la prima spiegazione, ne aveva chiesta una seconda e poi una terza: così, mentre l’inverno diventava ogni giorno più rigido, il tempo aveva cominciato a essere scandito da abitudini nuove, inconsuete, impreviste. I commenti laconici di Loki si erano fatti sempre più articolati, profondi, lunghi e Sigyn, affascinata dalle parole argute e dai discorsi brillanti del dio, anziché rimanere in silenzio ad ascoltare, non faceva che porre nuove domande arrivando anche a esporre i suoi, di ragionamenti.

Il dio dell’inganno, all’inizio, aveva reputato folle e sconsiderato il continuo rispondere e ribattere e suggerire della sua graziosa prigioniera. Si era persino leggermente risentito, per la sfacciata insolenza di quella ragazzina che, all’apparenza, non aveva altro pregio oltre al punto di biondo dei suoi capelli. Ma poi, col passare dei giorni, la viva curiosità di Sigyn aveva iniziato ad andargli leggermente a genio. Lei era intelligente, desiderosa d’imparare, persino brillante in certe sue considerazioni e, poi, adorava ascoltarlo nella misura esatta in cui a lui piaceva discorrere, raccontare storie e avere un pubblico. Gli occhi di entrambi brillavano più intensamente, in quei momenti sempre meno rari, ma nessuno dei due se ne accorse. Solo Fenrir, l’astuto lupo che controllava il perimetro di quella prigione incantata, condannato come il suo signore, lo comprese.

 

Sigyn si vestì rapidamente, a occhi bassi, incapace di osservare la sua immagine riflessa nello specchio, turbata dai ricordi del giorno precedente. Quand’ebbe finito, si sfiorò le labbra un’altra volta. Non aveva sognato, né era caduta vittima di qualcuna delle atroci illusioni create dal dio dell’inganno, o forse sì, ma nella maniera sbagliata. Un peso tremendo le gravava sul cuore. Avrebbe voluto possedere la leggerezza di quei fiocchi di neve che cadevano lenti e silenziosi sul bosco incantato, sui tetti e le guglie del palazzo che solo lei poteva vedere. Il pomeriggio prima, si era accostata per l’ennesima volta alla scrivania ingombra di carte e pergamene e astrolabi e strumenti del dio degli inganni. L’Ase era assorbito nello studio e chiosava, con tratti rapidi della mano, certi appunti su un vecchio tomo. “È davvero la sua grafia, questa? È dal Quattrocento che nessuno l’aveva più vista.” Ecco, com’era iniziato tutto.

Sigyn, tremando per l’emozione, gli aveva allungato il codice manoscritto e l’Ase, inarcando un sopracciglio, si era alzato dalla scrivania incuriosito e aveva preso a scorrere rapidamente la lunga successione di terzine in versi. La scrittura appuntita di un poeta fiorentino che aveva cantato e maledetto il suo esilio era lì, immobile testimonianza di come anche l’effimera vita degli abitanti di Midgard potesse, a volte, assomigliare a quella dei nobili Æsir[2]. Era una menzogna, ovviamente. Nei lunghi secoli della sua prigionia, il dio degli inganni aveva appurato più e più volte che le esistenze patetiche dei caduchi e fragili umani racchiudevano una bellezza totale, assoluta, ultraterrena; divina, quasi. Gli abitanti di Midgard non avevano volontà ed erano gretti, meschini, deboli, inferiori, eppure, racchiusa assieme alla loro lampante indegnità, si nascondeva una traccia d’infinita grandezza, una scintilla quasi divina. Erano davvero così diversi, dagli immutabili Æsir condannati a morire da una profezia crudele[3]? La vita di un midgardiano poteva sfiorare i settant’anni[4], quella di un Ase toccava senza problema alcuno i cinquemila. Oltre a questo e alla salvifica capacità di stendere un velo sul passato, di distaccarsi dai ricordi concedendo loro un dolce oblio, cosa c’era di differente? Identico era l’anelito alla grandezza, medesime la sete di potere e la brama di conquista. Uguale il desiderio di conoscere. Loki aveva increspato le labbra in un sorriso, smarrendosi volontariamente di fronte all’innegabile bellezza di quei versi scritti in una lingua melodiosa che lei conosceva a stento. “Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante,” aveva recitato.

Sigyn, incantata, era rimasta ad ascoltare la voce sicura e roca dell’altro. Il cuore le batteva impazzito nel petto. “Perché un dio degli Æsir colleziona i testi degli uomini? Perché li legge e li custodisce e li ama?”

Era, questa, la domanda che desiderava porgergli da giorni, settimane, mesi. Da quando il bosco di Hallerbos era tinto ancora d’un incantevole azzurro e lei aveva messo, per la prima volta, piede in quella biblioteca labirintica e meravigliosa, senz’altro stregata.

Loki possedeva una bellezza innegabile feroce e selvaggia, ma dietro i lineamenti affilati e sotto il fisico nervoso e asciutto, in perenne tensione, oltre lo sguardo puntuto quasi trasparente e il sorriso sbieco che gli tagliava le labbra ironiche e bugiarde, c’era una bestia, un mostro, un dio recluso e imprigionato in cerca di una vendetta giusta. Sigyn lo aveva percepito, intuito, compreso, scoperto. Non ancora interiorizzato, forse. Quasi come se avesse voluto replicare il senso delle terzine appena pronunciate, le aveva sfiorato i capelli biondi come quelli degli Æsir e delle loro figlie, per poi accarezzarle con dita fredde la guancia morbida e serica, cercarle le labbra schiuse.

“Siete fragili e deboli e la vostra vita non dura che il tempo di un battito di ciglia.” La voce di Loki racchiudeva, al suo interno, una nota di amaro rimpianto.

Non l’aveva baciata allora. Ogni fibra del corpo di Sigyn si era tesa e aveva tremato per il tocco leggero di quei polpastrelli sulla sua bocca, per la vicinanza del corpo slanciato e scattante del dio degli inganni di fronte a lei. Aveva chiuso gli occhi, in attesa di un contatto che non era arrivato né doveva farlo. Il mondo si era fermato in quel momento, congelandosi nell’istante perfetto in cui tutto poteva ancora essere possibile. Una lacrima le era scivolata da sotto le palpebre chiuse perché, per un solo secondo, aveva desiderato essere come l’anima della nobildonna italiana costretta a vivere all’Inferno, sì, ma assieme al suo amato e col ricordo straziante di un amore vissuto.

“Eppure,” proseguì il dio, “c’è qualcosa di meraviglioso, nella vostra delicatezza.” Lo disse continuando a sfiorarle le labbra con le dita, fissandola con quei suoi occhi verdi e quasi trasparenti. “Ogni gesto, atto, parola, è unico e irripetibile perché, per voi, il tempo ha un senso; nessun giorno è uguale all’altro e il vostro aspetto muta assieme al cuore. Per noi Æsir, invece, tutto è un ciclo destinato a ripetersi, in cui i ricordi non possono svanire solo perché, smarrendoli, finiremmo per perdere anche noi stessi. Questo capita, a chi è costretto a vivere quasi in eterno.[5]

Le aveva cinto la vita con un braccio, preso il volto tra le mani – dita perse nella massa d’oro dei suoi capelli d’Æsinna – e, come suggerito dai due amanti di cui aveva appena letto l’inizio dell’amore, si era avvicinato alle sue labbra annullando lentamente ogni distanza, inebriandosi del dolce profumo della sua pelle, sfiorando con la punta del naso la guancia morbida di Sigyn che, un giorno, sarebbe appassita e poi diventata fredda e, dopo ancora, si sarebbe tramutata in polvere. I loro respiri si erano incrociati – quello quasi eterno dell’Ase e l’altro, effimero e breve, di lei – e ogni cosa era svanita: il tempo, crudele e implacabile, la gabbia, punizione amara e tremenda, la loro natura, così differente. Non aveva invocato il suo nome quando, finalmente, le aveva assaggiato le labbra, ma l’aveva stretta a sé, spinto dal desiderio e dalla voglia di ingannare il destino degli uomini e di godere della fragile bellezza di quella donna che gli ricordava Asgard in una maniera dolorosa, atroce, assoluta. E così, l’aveva baciata sulle labbra tremanti con la consapevolezza di aver strappato qualcosa a un tempo che non gli apparteneva. L’istante troppo lungo di quel contatto intensamente desiderato si sarebbe dissolto per non essere mai più replicato, non allo stesso modo, almeno, laddove, tra gli Æsir, avrebbe potuto protrarsi per l’eternità. Ma questo, Sigyn non poteva saperlo.

 

No, mentre si sfiorava le labbra chiedendosi se davvero il giorno prima il dio degli inganni l’avesse stretta tra le braccia e baciata come se il mondo dovesse finire di lì a qualche ora, Sigyn non riuscì a cogliere il senso tragico di quel gesto sconsiderato che chiunque, nei Nove Regni, avrebbe considerato oltraggioso. Si chiese, invece, cosa provasse lei: nel breve lasso di tempo in cui la primavera tinta di blu aveva lasciato il passo all’inverno e alla neve, il suo cuore davvero si era sciolto di fronte al sorriso laterale e sbieco del dio degli inganni? Non aveva avuto pietà di coloro che l’avevano accompagnata alla ricerca di suo padre e così mille altre cose aveva compiute, nella sua lunga, terribile ed eterna vita. Per questo era stato esiliato sulla terra che lui si ostinava a chiamare Midgard. Lei lo sapeva: negli ultimi mesi aveva studiato ogni mito, leggenda, racconto che parlava del suo scostante e infido carceriere, eppure, nonostante questo, era rimasta profondamente colpita dalla fierezza che traspariva in ogni suo gesto, sguardo, frase, battuta. Si comportava come un principe sconfitto, ma non piegato. Sopportava il suo destino con furiosa eleganza, senza rinnegare né rimpiangere una sola delle azioni compiute. Loki, il dio degli inganni che però, talvolta, sorrideva appena mentre le illustrava i difficili passaggi di una formula matematica, commentava il pensiero dei filosofi antichi, le chiariva, lui che pure era il dio d’un popolo perduto di pirati e predoni, le reazioni chimiche su cui si lambiccavano gli scienziati nella sua Londra fumosa e lontana, perduta, oramai ridotta alla stregua di un miraggio o di un sogno. Di questo, si stava invaghendo? Della voce di Loki calda e arrochita, del suo modo di raccontare? Poteva dimenticare il tesoro millenario che giaceva nel tumulo, ignorare che quella fosse la sua tomba e che l’orrendo lupo Fenrir la spiasse con i suoi occhi lucidi e rossi? L’apparenza del dio degli inganni era quella di un uomo bello d’aspetto, ma il suo cuore era crudele e malvagio. Questo dicevano i canti norreni che ormai aveva quasi imparato a memoria.

Eppure, in alcuni vecchi libri, si parlava anche d’altro: d’una neutrale causalità di cui il dio del fuoco e dell’inganno era portatore e signore[6]. Gli intrighi di Loki cantati dai bardi avevano causato innumerevoli disgrazie, ad Asgard, ma erano stati anche il motivo della sua grandezza. Molte volte l’Ase dalla lingua d’argento aveva utilizzato la sua astuzia per trarre d’impaccio gli Æsir tutti. Ecco, allora, spiegate l’ombra amara che gli velava lo sguardo altrimenti trasparente, la smorfia torva che gli piegava le labbra sottili. La malvagità di Loki, decise Sigyn, assomigliava crudelmente a quella degli uomini: non era assoluta e ingiustificata, ma nasceva da qualcosa – da una frattura, da un’intelligenza che si sentiva costretta entro spazi troppi limitati, da un torto antico impossibile da dimenticare. Il dio degli inganni era una bestia rinchiusa entro un cerchio di rune maledetto, che l’aveva costretta a rinunciare totalmente alla sua vita, ma avrebbe potuto essere anche altro, se solo avesse voluto. Sì, Sigyn decise che c’era qualcosa di bello, nel fiero Ase che guardava ogni cosa come se gli spettasse di diritto. E si scoprì, suo malgrado, a desiderare che le labbra sottili e perfide del dio degli inganni incontrassero di nuovo le sue in un altro bacio lento e disperato, eterno e straziante, dolce e rabbioso.

Un rumore improvviso la riscosse; come se l’avesse evocato o chiamato o reso partecipe dei suoi pensieri, Loki entrò nella stanza da letto. Non lo aveva mai fatto, da quando l’aveva imprigionata. Il dio degli inganni si guardò attorno, registrando rapidamente ogni mutamento che la ragazza aveva introdotto, poi le si mise di fronte puntandole addosso i suoi occhi chiari e incrociò le mani dietro la schiena con aria grave e altera.

“C’è un cavallo che ti aspetta. Fai bagagli: oggi tornerai a casa tua.”

Voce secca e laconica, mascella contratta. Nient’altro traspariva dal suo viso eternamente giovane, eppure un’ombra grave era calata nella camera. Sigyn pensò, con un brivido, che l’aspetto immutabile del dio dell’inganno fosse mostruoso. La bellezza dei suoi lineamenti veniva talvolta tradita dall’antichità del suo spirito e dalla conoscenza che aveva appreso in mille e mille anni di vita.

“Come? Perché?” Osò accostarglisi, toccargli il braccio, sfiorare la pelle scura e il tessuto robusto di foggia estranea che indossava. Strinse sotto le dita la stoffa, reprimendo l’istinto di un altro fuggevole contatto. Gli uomini e gli dèi avevano dimenticato Loki nella sua tomba; le azioni malvagie di cui si era consapevolmente macchiato, avevano soffocato il resto – tutte le volte che, degli Æsir e dei Midgardiani, era stato il protettore e il salvatore – mentre lei credeva di aver visto la bellezza dietro l’apparenza e ora non voleva rinunciarci. Non per sempre, almeno, perché era umana e gli umani non possono comprendere l’eternità. Nei loro cuori, parole come per sempre hanno il sapore di una maledizione perché annichiliscono la speranza. Così, agli occhi di Sigyn, Loki non era mutato divenendo all’improvviso un dio benevolo e giusto, ma la sua bieca neutralità aveva acquisito sfumature diverse che gli altri non riuscivano o non desideravano vedere.

Ma una notte di riflessioni aveva convinto Lingua d’Argento a troncare prima che fosse troppo tardi la strana convivenza. “Mi sono stancato di vederti,” sibilò con voce tetra scostandosi da lei.

L’intento era ferirla, chiaramente. Sigyn sospirò, si lisciò le inesistenti pieghe dell’abito color oro che indossava. Ripensò al pomeriggio del giorno prima e alle terzine che lui le aveva recitato prima di baciarla per scherzo, gioco o passione, non aveva poi molta importanza. “Ieri noi…”

“Ieri noi abbiamo sbagliato,” l’interruppe l’Ase. “L’istinto ha prevalso. Si è trattato di nient’altro che questo.” Distolse lo sguardo. “Un momento di caos e confusione.”

Era un’ammissione? Loki sceglieva sempre con cura e attenzione ogni parola, ma la smorfia che gli increspò le labbra sottili nascondeva un dispetto cui nemmeno lui, che era un dio degli Æsir, seppe o volle dare un nome; avrebbe dovuto scavare troppo in profondità per trovare le risposte.  

“Di cui tu sei signore. Ho promesso che sarei rimasta tutto il tempo.”

“Il tempo,” ripeté Loki concentrandosi sui fiocchi di neve che cadevano sempre più fitti oltre il vetro della finestra. “Il tempo è il problema. Io ne ho in abbondanza – non so che significhi, quasi – mentre a te difetta. Sei una creatura fragile, Sigyn: sei come una rosa in un vaso. Tra poco inizierai a sfiorire e a morire e nemmeno il mio seiðr potrà evitarlo.”

Una lacrima scivolò sulla guancia liscia della ragazza. Nell’ennesima affermazione del dio degli inganni volta a puntualizzare quanto fosse caduca l’esistenza umana, Sigyn percepì il rimpianto per un destino immutabile che nemmeno le trame del più astuto tra gli dèi avrebbero potuto mutare.

Gli si avvicinò di nuovo con la stessa delicatezza con cui, negli ultimi mesi, si era accostata alla sua scrivania per mostrargli una meravigliosa miniatura, per discorrere di scoperte, viaggi, mondi e libri. Lo sentì tendersi leggermente quando accarezzò il suo braccio e gli cercò lo sguardo verde e puntuto. “E lo vorresti?”

Aveva i capelli d’oro degli Æsir e gli occhi grigi grandi e rotondi erano carichi di una squisita dolcezza, ma il suo cuore, per le Norne, era umano. Intrappolato nelle regole del tempo e dello spazio, un giorno – sempre troppo presto – si sarebbe fermato. Eppure, lo spirito appassionato che abitava quel corpo sottile e snello che aveva desiderato scoprire in ogni sua curva con le labbra, vibrava e splendeva come le stelle più luminose che scintillavano nel magnifico cielo di Asgard. Sigyn. Effimera, splendida, delicatissima Sigyn. Che sai trovare la bellezza nascosta dietro lo spirito più nero. Non voglio vederti appassire.

 

Il dio degli inganni s’inumidì le labbra, ma si concesse di sfiorarla, la morbida rosa che gli era davanti. Di accarezzare la pelle ancora giovane e fresca, di fissare, per l’ultima volta, lo sguardo limpido e innamorato della ragazza che si era incantata ascoltando le sue storie.

“La bellezza degli esseri umani sta in questo. Nella loro debolezza. Conosco la prigionia e ti ho sentita piangere ogni notte per la vita che hai perso. Ti ordino di andare via. La tua presenza mi è divenuta intollerabile. Cavalca verso ovest, torna in città. Tra poco smetterà di nevicare e la strada, per te, sarà libera. Ti consiglio solo di non raccontare nulla di questo luogo.”

La sua voce che aveva irretito dèi e mostri, convinto e conquistato cuori e teste, era altera e sicura, ma le dita di mago del dio degli inganni sostarono troppo sulla pelle bianca e ancora perfetta di Sigyn. Di nuovo, cedette al caos che gli abitava il cuore domandandosi se fosse un’altra delle sue personali maledizioni, l’essere volubile e scostante più degli umani che aveva sempre denigrato. Non avrebbe dovuto, un Æsir del suo calibro, contenere le passioni e soffocare gli odi e le vendette? Gli abitanti di Midgard sogghignavano divertiti, quando raccontavano di come i loro dèi fossero scossi dai medesimi sentimenti che agitavano loro, creature effimere e grette. Padre Tutto, dall’alto della sua antica saggezza, soleva però dire che era per questo che li pregavano e li invocavano. Per avere da quelle creature ultraterrene e fuori dal tempo conforto e comprensione. Di nuovo, le dita dell’Ase intrappolato sfiorarono la morbida dolcezza delle labbra di Sigyn, ancora una volta le prese il volto tra le mani ammirando il biondo dei suoi capelli. Cercò di contenersi, all’inizio. Di ignorare il profumo dolce della pelle di lei, di fingere di non volerla stringere a sé per l’ultima volta, ma gli difettò la volontà e si ritrovò a ghermirle rapace la vita. Seta d’oro contro armatura di cuoio, corpo scolpito e scattante d’un guerriero degli Æsir contro morbida carne d’una ragazza forse non bella più di altre, ma dalla mente vivace. L’aveva intrappolata tra le sue braccia e ora lei gli si stava offrendo con gli occhi lucidi e pallida in volto per l’ultimo bacio che si sarebbero scambiati in questa vita. Dopo, lei avrebbe vissuto: all’inizio, forse, si sarebbe disperata per il suo amore perduto e strano, ma poi, col tempo, come sempre accade ai figli degli uomini, avrebbe dimenticato. Il dolore si sarebbe trasformato lentamente in nostalgia, il ricordo sarebbe sfumato fino a trasformarsi in uno dei tanti rimpianti che la vita porta con sé. Sì, Sigyn avrebbe avuto altri amori e pianto e gioito e sofferto e vissuto, ma nemmeno dopo la morte avrebbe potuto rincontrare il dio degli inganni sepolto vivo su Midgard, bandito e cacciato dalla sua gente. L’oltretomba degli dèi di Asgard non è quello degli uomini e questo Loki lo sapeva – lei no, lo avrebbe ignorato fino alla fine dei suoi giorni e, forse, avrebbe riposto una qualche vana speranza in un incontro tra fantasmi, liberi, finalmente, dai vincoli del tempo.

Fu per questo che la baciò. Cedette, sfiorandole le labbra, assaggiando le lacrime che le rigavano il volto, e poi non volle e non riuscì più a fermarsi e ancora la cercò con la foga disperata degli amanti. Sigyn. Il tempo, improvvisamente, acquistò un significato anche per il protervo e astuto dio dell’inganno. Continuò a baciarla e lei rispose abbandonandosi alla sua oscurità, al desiderio che ormai avvinghiava entrambi. L’ultima colpa di Loki era stata corrompere quella ragazza e lasciare che il suo spirito venisse corroso dai midgardiani e quest’azione riprovevole si sarebbe sommata a tutti gli altri atti malvagi che aveva compiuto con sprezzo e crudeltà quand’era ancora libero. Lo sapeva, ne aveva esatta contezza, eppure non gli importò purché avesse, per la prima e ultima volta, Sigyn tra le braccia. Cos’è un bacio? Un tocco disperato di due labbra che trascende un’unione più intensa e che non può essere fermato né bloccato. Le cercò il collo rapace, tirando giù con un colpo secco la spallina del vestito perché la voleva, desiderava fosse sua in ogni modo possibile. Infiammato dal desiderio, tornò a essere il fiero conquistatore che, in nome del dio delle forche, aveva conquistato e schiacciato popoli interi sotto le suole dei suoi alti stivali. Lei infilò le dita nella massa scura dei suoi capelli e buttò indietro il capo, scossa nell’identico modo dall’impulso di appartenergli per una sola, unica, ultima meravigliosa volta. Nessun maggior dolore che ricordare del tempo felice ne la miseria, aveva cantato il Poeta.

 

“È un addio?” Le labbra di Sigyn si scostarono appena dalle sue. Gli accarezzò la mascella con un gesto delicato e leggero delle sue dita sottili, lo fissò negli occhi in cerca di una smentita. L’aveva incantata concedendole di visitare i mondi racchiusi nella sua immensa biblioteca e lei s’era innamorata. Com’era stato crudele.

“Non può dispiacerti. Rimpiangeresti di non aver vissuto, alla fine,” le ricordò, sistemandosi meglio la corazza di pelle intrecciata.

Sigyn pensò che già le mancava il tocco delle labbra sottili dell’Ase sulle sue e che era diventata pazza. Colpa della prigionia, si disse, e dei suoi occhi così chiari da sembrare quasi trasparenti. “Non è senza dolore che lascerò questo palazzo. Sei molte cose, dio degli inganni; non tutte spaventose. Sono tua prigioniera, è vero, e mi manca la mia casa ogni giorno. Eppure, tra queste mura, sono stata più libera che non a Londra, a Parigi o in qualsiasi altro posto. Mi hai fatto vivere molte vite, hai lasciato che guardassi tra i volumi che hai raccolto durante il tuo esilio, ma, soprattutto, hai ascoltato la mia voce ogni giorno. E aveva un peso, per te. Nella mia città forse posso camminare libera per le strade, ma il mio pensiero non conta, vale meno di quello di un uomo. Il mio desiderio di studiare, di ragionare e di conoscere è considerato un grazioso cinguettare, un buffo vezzo. Qui no. Lascia solo che visiti un’ultima volta mio padre; che lo saluti e gli dica che sto bene. E poi, ti prego, permettimi di tornare da te.”

Glielo disse baciandogli le labbra beffarde e ironiche, stringendoglisi contro come l’amante che non poteva essere, che era assurdo fosse. In un barlume di lucidità, Loki se ne accorse e si scostò da lei e dal suo profumo e dalla dolcezza delle sue labbra.

“Vivi il tempo che ti è concesso su questa terra con qualcuno con cui abbia un senso farlo, Sigyn. Viaggia, scopri il mondo, innamorati, sposati, fai figli, invecchia.” Si allontanò per creare la distanza che, da quel momento, li avrebbe divisi per sempre. “Goditi ogni cosa, perché non ritornerà. L’esistenza degli Æsir è un ciclo eterno destinato a ripetersi, segnato da profezie oscure. Voi no: voi siete liberi.”

Gli uomini sono perfetti e meravigliosi in un modo che tu non riesci a cogliere, Loki. Ti condanno a vivere su Midgard, affinché tu ti renda conto di quanto orribile sia stata, la tua idea di spazzarli via per vendicarti di me e di Thor. Per questo, io ti maledico. Rimarrai in un cerchio protetto da rune finché non capirai la loro bellezza, fino a che Asgard rimarrà in piedi, fino al Ragnarok, se necessario. Le parole di Odino figlio di Bor gli graffiarono il petto com’era sempre stato da quando le aveva udite la prima volta. Per un momento, Loki pensò di aver afferrato e perduto il senso della crudele punizione che gli era stata inflitta quando, col cuore gonfio di un’ira funesta e terribile, aveva osato pronunciare le parole atroci in grado di scatenare una guerra sanguinosa e orrenda e determinare il suo destino. “Midgard, se non sei mia, non sarai di nessuno.” Così aveva detto.

Sigyn scosse la testa, decisa a non credergli, a non fidarsi delle sue parole senz’altro bugiarde. “Tu tieni a me. Ho visto la bellezza della bestia: il resto del mondo non m’interessa.”

 

L’Ase non cambiò idea. Prima che la ragazza partisse, le diede uno specchio. Era una reliquia di Asgard, dono di Frigga, la regina madre degli Æsir. Nella sua superficie riflettente, Sigyn avrebbe potuto guardare ogni luogo dei Nove Regni, compreso il bosco di Hallerbos e il tumulo e il palazzo incantato. Promise che sarebbe tornata, ma il dio degli inganni la lasciò andare sapendo che non l’avrebbe più rivista, perché così è il cuore degli uomini e delle donne di Midgard. È fatto per sottostare al tempo, per dimenticare.

Continua. e conclude il 12 dicembre. Grazie di cuore a tutti coloro che hanno recensito e inserito nelle liste.

Shilyss



[1] Uno degli appellativi di Odino.

[2] Si tratta, ovviamente, di Dante Alighieri. Le notizie riguardo alla sua grafia sono vere (non abbiamo più autografi dal Quattrocento; i versi seguenti, sono tratti dalla Divina Commedia, Inferno, Canto V.

[3] Parlo della Voluspa che annuncia il Ragnarok.

[4] Attualmente l’età media è circa 87 anni, ma nel 1882, anno in cui è ambientata la vicenda, settant’anni sono una cifra più che ottimistica.

[5] Non esiste nulla su questa teoria. L’ho inventata pensando alle difficoltà di vivere con qualcuno che vive… “cinquemila anni più o meno.”

[6] L’essere Loki il dio del fuoco è indicato anche dal suo nome e dalle sue origini.

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Capitolo 3
*** Del prezzo di una maledizione ***


Capitolo 3

Del prezzo di una maledizione

 

So some say love is a burning thing

That it makes a fiery ring

All that I know love as a caging thing

Just a killer come to call from some awful dream

And all you folks, you come to see

You just to stand there in the glass looking at me

But my heart is wild, and my bones are steel

And I could kill you with my bare hands if I was free

(Phosphorescent, A song for Zula)

 

 

La neve si sciolse e venne la primavera. Il bosco attorno alla tomba del dio degli inganni tornò a tingersi dell’incantevole sfumatura blu dei giacinti. Trascorsero le settimane, i mesi. Le foglie appassirono e caddero dai rami e Hallerbos divenne scarlatta e dorata. Infine, come sempre, calarono dal freddo e profondo nord i venti gelidi dell’inverno e la neve imbiancò di nuovo ogni cosa.

“Avresti potuto almeno tentare di spezzare la maledizione. Nostro padre ti punì per la tua arroganza e per il disprezzo che mostrasti verso gli abitanti di questo mondo. Quel tempo, forse, è passato.” Thor posò una cassa di libri d’ogni genere e sorta sul tavolo perennemente ingombro di carte, compassi e astrolabi del dio degli inganni.

Loki ghignò. Con le mani incrociate dietro la schiena, fissava i fiocchi bianchi che danzavano mossi appena dal vento, la mente persa in un ricordo che il susseguirsi delle stagioni non poteva rendere lontano. “Ritieni che possa apprezzare le mie ultime azioni?”

L’altro dio sospirò passandosi una mano tra i capelli chiari. “La sua intenzione non è mai stata vendicarsi di te, ma farti rinsavire e punire la tua arroganza. Lo sai.”

“Punire e vendicare hanno significati assai simili,” fu la replica asciutta dell’ingannatore. “Ma non m’importa – non mi è mai importato – cercare un intento salvifico nelle azioni ambigue del dio delle forche. L’ho tradito e non me ne pento. L’ho ripagato con la stessa moneta,” rispose vibrante e altero com’era sempre stato.

Thor notò che la postura fiera del fratello nascondeva una tensione e una rigidità inconsuete. Non volle indagare oltre sul fremito che scuoteva il dio degli inganni svelando la furia che ancora lo corrodeva, né sull’ombra scura che gli velava lo sguardo. Andò via dalla gabbia circondata di rune con più domande che risposte, come sempre era successo negli ultimi mille anni, ma stavolta un dubbio in più gli punse il cuore. Si chiese come mai il recinto in cui era costretto Loki funzionasse nonostante tutto; cosa mancasse, ancora, perché la maledizione fosse definitivamente spezzata. Per molti anni, l’ingannatore si era arrovellato nel tentativo di comprendere il senso di una punizione doppiamente orrenda, perché ritenuta oscura come una sciarada e ingiusta. Era stato per tentare di liberarsi, che aveva deciso di dedicarsi all’ambizioso progetto di creare una biblioteca che contenesse tutti i volumi di Midgard e dei Nove Regni. Thor, come sempre, si era lasciato incantare dalle sue teorie e lo aveva aiutato, reperendo per lui i testi e i libri che l’altro non poteva materialmente trovare. Da diversi decenni – secoli, forse – il tonante si era convinto che Loki sapesse esattamente cosa dovesse fare per liberarsi, ma che non fosse disposto a pagarne il prezzo. Tentare di spezzare la maledizione probabilmente era troppo rischioso, inutile e crudele persino per l’insolente e astuto dio degli inganni. Mentre affondava con gli stivali nella neve allontanandosi quel tanto che bastava affinché suo fratello non vedesse il portale per Asgard aprirsi davanti ai suoi occhi, gli tornò in mente che Loki gli aveva curiosamente chiesto notizie e informazioni sul mondo degli Æsir. Cosa mai fatta prima e celata abilmente sotto un finto disinteresse volto a mascherare qualcos’altro: dov’era andato a finire lo specchio incantato, dono di Frigga, che aveva permesso al dio degli inganni di vedere ogni luogo, persona o volto, nei Nove Regni tutti?

 

Affacciato alla finestra, Loki vide Thor andare via, ma non provò rimpianto per la solitudine in cui era appena precipitato. Lo invidiò, piuttosto. Una volta di più, provò rancore per la libertà che gli era stata negata e di cui era assetato da troppi secoli. Eppure, quel pensiero tremendo era destinato a svanire in fretta dalla sua mente – o meglio, ad essere momentaneamente archiviato – perché qualcun altro varcò il cerchio maledetto di rune. Lo avvertì l’onda di seiðr che si sprigionò durante l’inopportuna violazione, lo confermò l’ululato rabbioso di Fenrir. Loki uscì nella neve. Feroci raffiche di vento si erano alzate portando con sé l’annuncio di un’imminente tormenta. Avanzò nel candore irreale e, a un tratto, assottigliò le palpebre e la vide. Una figurina barcollante stretta in un mantello che incespicava in mezzo al bianco, capelli d’oro sciolti sulle spalle. Sigyn.

Era tornata. La vide cadere a terra, nella neve. La raggiunse in fretta, la prese tra le braccia: come la prima volta che l’aveva vista, era priva di sensi. La sollevò e s’accorse che era più leggera e, in mano, stringeva lo specchio che le aveva donato per illuderla che potesse tornare e che, tra loro, ci fosse un legame eterno. Era un’utopia, ovviamente. La portò davanti al camino posto nell’immenso salone del suo palazzo incantato, come allora. Uno strano presentimento lo morse. C’era, nel volto della ragazza, un pallore inspiegabile, sospetto. La sua bellezza era intatta e il tempo non l’aveva ancora ghermita con le sue dita adunche eppure, come le rose, stava sfiorendo.

 Lei, lentamente, si riprese e sbatté le palpebre, ma fu il colpo violento di tosse a farla svegliare del tutto, a scuoterle le spalle esili. Guardò Loki negli occhi e gli rivolse un sorriso tirato, dopotutto mesto. “Alla fine sono tornata da te. Non me ne sono mai andata, in realtà. Il mio cuore non ha lasciato questo posto neppure per un istante – ero con te e ho interrogato lo specchio ogni giorno.”

Il dio degli inganni annuì e ravvivò con l’attizzatoio le fiamme del camino. Pensò a quanto fossero crudeli le Norne, all’ingiustizia racchiusa nel destino degli uomini. Le sfiorò la guancia morbida e umida e si concentrò sul suo sguardo dolce e febbricitante, non sul sangue che le macchiava appena le labbra dolci e le dita.

Lei comprese che sapeva e trattenne a stento le lacrime. “Ho vissuto, sai Loki? Ci ho provato, dopotutto. Solo, pensavo che avrei avuto più tempo,” disse, e le sue labbra tremavano. “E quando hanno detto…” Si morse le labbra, incapace di proseguire, e scoppiò in lacrime perché il destino era stato ingiusto e crudele e beffardo, molto più di quanto non fosse stato il dio degli inganni. L’Ase la strinse a sé mentre lei si sfogava sul suo petto. Decise che avrebbe ucciso le Norne, un giorno.

“Ho provato a vivere, ma il mio cuore era qui e morire tra le tue braccia era l’unica cosa che volessi prima che…”

 Non disse nulla, Lingua d’Argento. Consolò il pianto disperato della ragazza affondando le dita nella massa d’oro dei suoi capelli, riflettendo sul fatto che quel momento si sarebbe scolpito con forza nella sua testa e avrebbe avuto fino alla fine del tempo la stessa atroce intensità, senza sfumare mai nella nostalgia[1]. Se solo fosse tornata prima, il seiðr di cui era signore e padrone avrebbe potuto curare i suoi polmoni malandati, mangiati dalla malattia. Conosceva incantesimi capaci di sanare il corpo degli dèi e degli uomini e li avrebbe usati, per salvare lei. Sigyn singhiozzava e piangeva sul suo petto e, nonostante tremasse, la sua pelle scottava. Sarebbe stato meglio, pensò l’Ase, se la morte l’avesse ghermita ormai vecchia, dopo una vita lunga e piena, quando l’oro dei suoi capelli sarebbe scomparso per lasciare il posto all’argento della saggezza. Ma così no, maledette Norne cieche e crudeli.

Sigyn tossì ancora, allontanandosi dalla sua presa quel tanto che bastava per guardare il suo volto. Le condizioni già critiche si erano aggravate per il lungo viaggio cui si era ostinatamente sottoposta per esaudire l’ultimo desiderio della sua breve vita mortale, perché peggio di morire quando si è ancora giovani c’è solo farlo lontano da chi si ama. “Dimmi che sono tua. Se non sarò tua, non sarò di nessuno e io voglio andarmene sapendo di appartenerti in qualche modo, Loki.”

Voleva che mentisse. L’Ase le scostò una ciocca ondulata dal viso e rifletté sul fatto che il cuore e lo spirito sono di chi li possiede; possono essere offerti e donati ad altri, ma rimangono sempre del loro proprietario. Si chiese se avesse ragione, mise in dubbio il suo ragionamento. Decise che le avrebbe mentito, però, e mentre i petali della sua rosa cadevano inevitabilmente a terra e il bellissimo fiore moriva, le sussurrò parole che lei forse non udì né colse del tutto, ma certamente immaginò, in quell’attimo che separa la vita dalla morte. Se n’era andata davvero tra le sue braccia.

 

 

C’è chi dice che tremò la terra, chi racconta che, da qualche parte, nel mondo, eruttò un vulcano[2]. Il dio degli inganni non s’accorse che il seiðr era sfuggito momentaneamente al suo controllo o forse non gli importò. Osservò gli occhi grigi ormai ciechi di Sigyn e riconobbe che la dolcezza li aveva abbandonati. Erano solo pupille vuote di un corpo inerte che era lei senza tuttavia esserlo. Sospirò, tenendola ancora tra le braccia, domandandosi se i cancelli dell’oltretomba l’avrebbero spaventata, e si accorse che una parte di lui – quella che aveva desiderato con cieca furia ogni cosa, dal trono di Asgard all’ammirazione di Padre Tutto – non era ancora disposto a lasciarla andare. Provò rabbia e desolazione e rancore per quel sentimento indegno che s’era infilato nel suo petto come un pugnale. L’universo intero gli diventò ancora più intollerabile, ma ciò che detestò di più fu se stesso e la sua indegna natura d’Ase, che lo portava a rammaricarsi per una rosa sfiorita troppo presto. Si accorse di non riuscire a piangerla, si chiese se avrebbe dovuto o voluto farlo. Scoprì di avere lo sguardo velato, ma la sua Lingua d’Argento si era improvvisamente annodata.

 

“Un dio degli Æsir, un principe di Asgard, non può soffrire così la perdita di una sola mortale.” Loki alzò lo sguardo umido e si trovò dinanzi un vecchio orbo, con un mantello lacero e un cappello floscio sulla testa[3].

Di fronte a quell’immagine, trovò la forza d’inghiottire la cosa che gli mordeva l’anima e alzò il mento con fierezza, senza smettere di stringere il corpo di Sigyn. Non riusciva a lasciarla andare – sarebbe venuto il momento, ma non ora. “L’ennesima delusione, padre?” La sua voce, nonostante tutto, era sicura e beffarda, come sempre.

Odino si accostò al figlio maledetto e rinnegato senza, però, mutare il suo aspetto, perché così si era sempre mostrato su Midgard. “La tua rosa è appassita, purtroppo. Ti ci sono voluti mille anni per vederla, ma adesso anche tu hai scorto la bellezza degli umani. Sono deboli, fragili, effimeri. Hai ricordato cosa vuol dire amarli o, forse, lo hai scoperto per la prima volta,” azzardò, increspando le labbra in un ghigno storto.

“Ti sbagli, Padre Tutto: li odio ancora, i midgardiani, più di prima.” Loki chiuse le palpebre di Sigyn per non dover vedere le sue pupille cieche e senza luce. “La loro vita è una beffa crudele, una lotta contro il tempo. Cosa sei venuto a fare? Volevi vedere da vicino il mostro che hai rinchiuso? Compiacerti dell’ennesima sconfitta della bestia?”

Il dio delle forche e della poesia scosse la testa canuta. “Non godo del dolore che agita il petto di mio figlio. Hai pagato. Hai compreso. Tornerai a sbagliare – è nella tua natura, in fondo – ma non oggi. Puoi tornare ad Asgard, se lo vorrai.”

Il dio degli inganni pensò alle guglie d’oro della città degli Æsir, alla libertà che gli era stata negata e rifletté che Sigyn sarebbe diventata polvere e lui, che pure del seiðr era il padrone, non aveva potuto fare niente per evitarlo.

Odino s’accostò a Loki e, col suo unico e terribile occhio, fissò la ragazza e ripensò a quello che gli avevano detto i corvi e Thor. “Ha saputo trovare la bellezza della Bestia che Asgard rinchiuse,” osservò con voce di re, “ti ha permesso di vedere la sua. I figli e le figlie degli uomini hanno una vita breve come un battito di ciglia, rapida come un soffio del cuore e, quando muoiono, lo fanno per sempre. Eppure, quanta forza c’è in loro! Nonostante le sue condizioni, ha deciso di tornare da te, di restarti accanto, di mantenere fede alla promessa che ti fece. Se tu sei il dio dell’inganno, lei senz’altro sarà la dea della fedeltà,” disse e le sue parole ebbero la forza di una sentenza, di un ordine, di un disegno definitivo.

Il seiðr, che in un altro luogo, in un altro tempo, aveva permesso a Padre Tutto di salvare su un picco di ghiaccio Loki stesso, mutò la natura mortale della ragazza che l’Ase teneva ancora tra le braccia. Si oscurò il cielo, tremò di nuovo la terra. Il dio degli inganni strinse più forte il corpo della donna tornata fin là per morire al suo fianco e tentò di fermare quel gesto malsano.

“Come osi toccarla? Come osi mutare la sua essenza? Era perfetta e bellissima ed è morta come voleva, in questo posto. Tu non puoi scegliere il suo destino e strapparla al suo riposo e nemmeno io.”

Odino sorrise. Assottigliò il suo unico occhio blu e si compiacque dell’altera difesa del figlio ribelle. Riconobbe in lui il sagace politico di cui aveva sentito la mancanza, il figlio che aveva allevato, il principe che aveva istruito. Decise che difendere la natura di quella fanciulla morta tra le sue braccia era il gesto nobile di un dio degli Æsir con la stoffa di un re. “Sei sempre stato così cieco con ciò che ti riguarda più da vicino. Chiedilo a lei: sceglierà.”

Prima che il dio degli inganni potesse lanciarsi nell’ennesima arringa o difesa, Sigyn si risvegliò. Batté le palpebre, emise un sospiro profondo. Guardò l’Ase negli occhi e gli sorrise. La rosa di Midgard, magnifica e fragile, aveva ripreso vita, la maledizione cui Loki stesso si era condannato era stata davvero totalmente e inesorabilmente spezzata. “Ho promesso che ti sarei rimasta accanto per sempre.” Fu così che il tempo tornò a non avere più significato.

 

Fine

 

Note Autore

Le fiabe sono archetipi. Raccontano bisogni, speranze, paure. La fiaba della Bella e la Bestia è la mia preferita tra tutte e l’ho amata in ognuna delle sue molte versioni. Ho amato la trasposizione Disney, ovviamente, con l’abito color oro di Belle; ho amato quella di Perrault, che mi veniva raccontata da mia nonna, dove il padre di Belle commetteva l’imperdonabile errore di cogliere una rosa dal giardino della Bestia, e ho amato anche, intensamente, il più antico nucleo di questa fiaba: il mito raccontato da Apuleio di Amore e Psiche. Conosco anche la vicenda – straziante e dolce – della vera figura che ispirò la Bestia, Petrus Gonsalvus (e ne ho scritto). Ma nella mia testa c’è sempre stata l’idea che Inganno e Fedeltà fossero loro, la Bella e la Bestia. Questo è un AU eppure non lo è: ho immaginato che il dio norreno Loki fosse stato incatenato da Odino in un tumulo in Belgio intorno all’800 d.C.; che, nel 1883, la mortale Sigyn, come Belle, divenisse sua prigioniera in virtù di un sacrificio d’amore, complice una rosa. Che la sete di conoscere e scoprire unisse entrambi; che l’amore non avrebbe potuto evitare l’allontanamento e, come nella fiaba, fosse l’elemento salvifico. In questo senso, la punizione di Odino/fata è stata crudele e lungimirante. Come avviene con Thor (qui relegato, assieme a Fenrir, in veste di Lumiere), anche Loki sconta su Midgard un supplizio volto a punire la sua tracotanza, il cui valore salvifico si rivela solo con l’Amore. L’altro elemento della fiaba Disney è la Rosa, che rappresenta il Tempo e la Maledizione. Qui Loki non tiene il fiore sotto una teca, perché quel fiore è Belle/Sigyn, mentre il Tempo è ciò che la Bestia/Loki deve fronteggiare, seppur in un’accezione totalmente differente.

 Il mio finale, certo, è più tragico, ma si accosta alla fiaba: la Bestia rinuncia al suo vello fatto d’arroganza per amore di Belle. La Bella scopre la verità dietro l’apparenza e torna dal suo amore a ogni costo. L’incantesimo, alla fine, si scioglie. Questa minilong partecipa con orgoglio al contest “Villains against Heroes, indetto da missredlights. La dedico a quanti mi hanno sopportato durante la sua stesura e… se l’avete amata, mettetela nelle liste! Partecipa alla campagna Fai felice un’Autrice! ♥

Piccole precisazioni:

·         Il bosco di Hallerbos è in Belgio e, nel mese di aprile, si trasforma davvero in un luogo di sogno: https://www.hallerbos.be/en/.

·         Il codice autografo di Dante che Sigyn mostra a Loki in realtà non esiste. Della grafia del Sommo Poeta abbiamo solamente alcune descrizioni fatte da alcuni commentatori del Quattrocento che ebbero tra le mani, effettivamente, dei testi autografi dell’Alighieri.

·         Nel testo sono presenti riferimenti a Borges, Perrault, Dante, Apuleio, Umberto Eco e all’Edda Poetica e in Prosa.

·         Generalmente adotto la grafia Ase/Asi (come ed. Garzanti e Adelphi) per il nome degli dèi norreni. Stavolta ho scelto di adottare la versione Ase/Æsir in luogo di Áss/ Æsir perché più musicale a un orecchio italiano. Uguale discorso per Æsinna.

·         Nella mitologia norrena le figure di Loki e Lodhur (colui che diede il bell’aspetto agli uomini) spesso si confondono. Studi hanno attestato che si tratta di due entità diverse, tuttavia, per esigenze di copione, stavolta li ho accorpati anche io.

Grazie per essere giunti fin qui e per aver preferito, ricordato, seguito e recensito. Questo è il mio regalo per voi. 

Shilyss



[1] Citazione da una mia storia omonima.

[2] L’esplosione del vulcano Krakatoa ispira questo brano: in realtà il vulcano eruttò ad agosto, mentre io l’ho spostata a dicembre. L’onda d’urto fu una delle più potenti della storia di Mid…ehm, della Terra.

[3] Così appare Odino agli uomini nell’Edda.

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