inevitabile follia

di crissi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


1 Inevitabile follia



INEVITABILE FOLLIA*


Parigi, 16 luglio 1789


Mi guardo le mani. Le mie belle, abili mani.

Sangue. Vermiglio, viscido, nauseante.

Ne sono ricoperte, quasi impregnate. Le immergo nel bacile e l’acqua diviene immediatamente rossa.

Questo fa parte della quotidianità del mio lavoro, ma oggi ne sono inorridito più che mai e, nonostante il caldo torrido di luglio, un brivido di gelo mi invade.

Fare il medico non è un mestiere, ma una vocazione.

È un cammino in salita, logorante, sia per il corpo che per l’anima. Una sequenza infinita di dolori, orrori e pene. Una consacrazione ad una missione, la dedizione ad uno scopo, che per quanto ci si impegni, sfugge sempre al suo completamento. Una necessità ad adempiere, che non si domanda quale sarà il tornaconto, se ci sarà un tornaconto.

Sì, una vocazione, la risposta ad una chiamata interiore. Almeno così dovrebbe essere per tutti coloro che intraprendono questa professione. Così è stato per me. Anche se non da subito. Potrei dire da sempre, ma non sarebbe completamente vero. Certo, ho sempre saputo cosa avrei voluto essere nella vita e, grazie ad un’ anima buona che ha creduto in me e mi ha pagato gli studi, lo sono diventato. Ho potuto seguire quella voce che mi chiamava, rispondere alla esigenza di fare. Fare qualcosa, fare di più, fare meglio. Ho potuto realizzare il mio sogno. Sia chiaro: non sono un santo. Ho sempre avuto a cuore coloro che soffrono ed il desiderio di arrecare sollievo alle pene umane, ma anche la volontà egoista, seppur umana, di migliorare la mia condizione, uscire dalla mediocrità sociale ed economica.

… Il mio sogno...

L’eco di questo mio pensiero si spande nella mente, come un grido che rimbalza tra le pareti dei monti e ritorna più forte e distorto, e pare l’urlo di un folle.

Sogno? Mi chiedo incredulo.

Mi sembra d’udire ancora le grida incessanti dei feriti, in parte, ma solo in parte, coperte dai colpi dei fucili e dal rombo spaventoso dei cannoni: un incubo, non un sogno!

Ora gran parte di quelle grida sono cessate. Per sempre. Stroncate dalla follia umana, in primis, ed anche dalla mia incapacità a porvi rimedio.

So che non è colpa mia, solo un limite della conoscenza umana, della scienza che in questi anni sta muovendo i primi passi dopo secoli di oscurantismo, ignoranza e paura; ma se qualcuno mi offrisse ora di ricominciare tutto daccapo, se potessi scegliere di nuovo quale carriera intraprendere, farei il fruttivendolo, così getterei via solo frutta marcia anziché vite umane.

Sfrego le mani col sapone, aiutandomi con una spazzola; strofino le setole sulla pelle, con energia, quasi con rabbia, eppure mi sembra che questo sangue non se ne voglia andare. Si infila sotto le unghie, nel reticolo della pelle e lì continuo a vederlo, anche quando più non c'è.

Dio mio, quanti arti ho segato in questi due giorni? Quante ferite ho ricucito e quante vite ho lasciato scivolare via perché la mia medicina era impotente, perché nulla potevo fare per riparare alla pazzia degli uomini?

Che follia. Sì. La guerra è niente altro che follia per chi, come me, le vite vorrebbe salvarle.

Per altri, invece, imbracciar le armi è stata una scelta obbligata. E mi perdo a riflettere su come sarebbe potuta andare diversamente.


Una follia inevitabile, penso.  Il sollevarsi di moltitudini, forse a ragione, forse a torto, forse entrambe le cose. Come un rivolo dapprima silenzioso che, ignorato, diventa ruscello gorgogliante e si ingrossa, alza la voce, scava tra rocce millenarie, apparentemente salde, finché rompe gli argini e nulla più lo trattiene. Non la ragione degli uomini, non la parola di Dio, non il semplice buonsenso né la pietà.

E allora, come una valanga, irrompe a valle e travolge tutto e tutti, senza risparmiare chi, più a monte, si crede in salvo, erodendogli la terra sotto i piedi e portandoselo via.

Perché è così: siamo tutti provvisori su questa terra. Nessuno è eterno, nessuno intoccabile, nessuno eletto da dio: non un re e neppure un rappresentante all’Assemblea. Mi domando se ne siano coscienti, tutti loro.


- Dottore?

Mi volgo a guardare la giovane donna bionda che si è affacciata alla porta del mio studio. Ha l’aria distrutta, forse più di me; d’altronde mi ha assistito senza sosta, pur avendo appena patito la perdita di due carissimi amici.

- Sì, Rosalie?

- Il carro è pronto, dottore. Quando vuole possiamo partire.

Annuisco e lei si allontana senza aggiungere altro, raddrizzando un poco la schiena nell’avviarsi.

Forza e coraggio, Rosalie, un passo avanti all'altro perché diversamente non puoi fare, se non camminare la tua vita, per il poco o tanto che ti verrà concesso.

Estraggo le mani dall’acqua rossa e le sciacquo con quella limpida di una brocca. So che sono pulite eppure io quel sangue me lo sento ancora addosso.

Mi rassegno a tamponarle con la salvietta, velocemente, non potendo far di più per questo mio malessere.

Prendo i miei ferri, lavati ed asciugati diligentemente; li metto nella borsa, la mia inseparabile borsa, ed esco per apprestarmi a fare ciò che normalmente non è mio compito, ma del prete e del becchino.

E stavolta sarò sincero, io abituato a mentire.


Rosalie mi sta già aspettando a cassetta mentre suo marito Bernard le rinnova raccomandazioni che qualunque buon consorte ripeterebbe fino allo stremo.

- Ti prego, ripensaci. – la supplica stringendo con la mano quelle di lei strette sulle briglia.

- No, Bernard, te l’ho detto: sono la mia famiglia ed hanno diritto a riposare in pace e non in una fossa comune.

- Almeno lascia che venga con te o mandi qualcuno: le strade sono pericolose. – Insiste il giovane passando da un tono imperativo, adatto al ruolo autoritario che si è trovato a vestire in questi giorni,  ad uno più confidente e preoccupato di un marito innamorato.

- Non devi stare in ansia. – Mormora Rosalie, deponendo i finimenti e ricambiando la stretta.

- E se lui non volesse …

- Lui deve vederli. – Afferma perentoria.

Era diventata forte Rosalie, forse lo era sempre stata. Forte, anche cocciuta, irremovibile pure nei momenti in cui la sua lacrima facile avrebbe suggerito il contrario. Lacrime che, avevo imparato negli anni, indicavano rabbia, dolore, mai debolezza.

Si sentiva forte, Rosalie, sì. Come mai prima.

E con lui, con quell’uomo, sarebbe stata indicibilmente dura.

  • Titolo “rubato” ad una canzone di Raf







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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


2 Inevitabile follia
2 - INEVITABILE FOLLIA



16 luglio 1789, strada per Versailles

Il lento ciondolare della testa di questo imponente cavallo da tiro ha un effetto quasi ipnotico su di me; tengo le redini mollemente, i gomiti poggiati pesantemente sulle cosce. Sono stanchissimo, molto più di quanto immaginavo di essere quando siamo partiti. Sembra un viaggio che non debba finire mai questo nostro. Non ardo dal desiderio di arrivare a destinazione, d’altronde.
Tutto attorno a noi, il silenzio della campagna è pressoché totale nella calura pomeridiana di luglio e mi pare irreale questo scenario di quiete dopo ciò che abbiamo vissuto a Parigi.
Irreale e ingiusto che il mondo sia così iniquo, mi dico. Un po’ di equilibrio non guasterebbe in questa commedia degli orrori … Ma cosa pretendere da un mondo tondo? Per alcuni è sopra, per altri è sotto; per uno è male, per l'altro è bene. E per me ora, è nè uno nè l’altro, e pure tutto insieme.
Mi sento lo stomaco in subbuglio.
Troppa ansia.
Forse mi sono assunto un compito che va al di là delle mie forze. Forse Rosalie avrebbe avuto bisogno di qualcuno più forte di me, qualcuno più distaccato che potesse accompagnarla e spalleggiarla. E difenderla, all'occorrenza.
Che strana sensazione la mia: non vorrei arrivare, ma neppure tornare indietro. Potessi, mi fermerei qui, ora, per dissolvermi in un istante perpetuo, senza l'angoscia del futuro, senza il dolore del passato.
Mi par d’avere un macigno sul petto, ma preferisco ignorare questo sintomo; no, non ci voglio pensare: rimuginare troppo complica certe cose e toglie il sonno. Parola di medico.
- Tutto bene, dottore?
Mi scuoto dai tristi pensieri.
- Come?
- L’ho sentita sospirare, dottore, e domandavo se vi sentite bene. Non avete una bella cera, signore … - mi dice Rosalie.
La guardo e riconosco nei suoi occhi arrossati una sincera preoccupazione.
- No, immagino di non avere l’aspetto più sano del mondo e … effettivamente sono molto stanco, Rosalie. – confesso in un sospiro - Mi fareste il favore di condurre voi per un poco il carro? Solo … - esito - Solo pochi minuti per chiudere gli occhi e riposarli. Solo per poco …
Rosalie allunga le mani sulle mie e sfila con delicatezza le briglia, che già stringevo con poca determinazione.
- Non preoccupatevi, dottore. Conosco bene la strada e non si vedono anime sul cammino. Siamo soli. Riposate pure, mi occupo io di tutto, signore.
Annuisco e stringo le braccia conserte sul mio petto; allungo una mano sugli occhi, passandocela nell’inutile tentativo di levar via le immagini di questi ultimi giorni. Il buio portato dalle palpebre serrate, pare quietarmi un poco; mi illudo per un istante che d’ora in avanti potrò ancora fare sonni tranquilli e, cullato dall’andatura per ora abbastanza regolare del carro, mi affloscio su questo spartano sedile e mi addormento, lasciando che siano i ricordi ad occuparmi il sonno.


Parigi, marzo 1761

Sono un medico.
Devo ripetermelo più di una volta perché solo ieri ero uno studente di medicina, un topo da università, con più ore passate tra i cadaveri che un becchino, ed ora sono qui, fuori della stanza che ho occupato negli ultimi anni e per la prima volta la mia pensionante, madame Furette, si è rivolta a me chiamandomi dottore; senza ironia, senza quel velo di acidità col quale pronunciava la parola, irridendomi quando mi ritrovavo in ritardo con il pagamento della pigione. Ora sono davvero un dottore e lei lo sa, ora appartengo ad un livello sociale superiore al suo, sebbene io continui ad esser in ritardo col pagamento della stanza e lei continui ad esser più benestante del presente, novello medico.
Mi passo una mano sul bordo della giacca, tirandola appena e guardo distrattamente gente di ogni genere passeggiare per la via, qui dall’uscio che ho appena richiuso alle mie spalle. E’ il primo giorno di lavoro, indosso il mio vestito più dignitoso, l'unico buono che ho, e sto per recarmi allo studio del dottor Seville che oggi andrà in pensione ed io rileverò i suoi pazienti. Per i primi tempi mi assisterà, consigliandomi, informandomi, ma poi sarò solo e nel bene o nel male le vite di tante persone dipenderanno solo da me.
Sono incredibilmente fortunato, non potrò mai smettere di ripetermi pure questo. Il mio mentore non solo mi ha pagato gli studi, ma ora ha messo una buona parola per me assicurandomi la successione al dottor Seville, un medico molto conosciuto, con gran parte della clientela non solo a Parigi, ma pure tra le famiglie nobili di Versailles.  Praticamente parto in carrozza con la mia professione. Niente gavetta tra croste o infestazioni da pidocchi, niente ubriachi di strada: solo pazienti di prima classe con malattie da ricchi ed il denaro necessario per permettersi le mie attenzioni.
E mentre cammino sovrappensiero per la strada, gongolando tra me e dondolando la borsa coi ferri del mestiere, mi immagino già fidanzato con la bella figlia di qualche ricco mercante: sì, decisamente la mia carriera parte bene.
- Oh, eccovi! Finalmente siete arrivato, dottor Lasonne! – esclama l’anziano dottor Seville aprendomi l’uscio un istante prima che io possa picchiare il battente – usciamo subito per una visita a domicilio a Versailles, ho già pronto il calesse, conducete voi, sì? – blatera fulmineo il vitale ottuagenario.
So che non si aspetta una risposta mentre mi passa accanto scendendo piano i quattro scalini, aiutandosi col bastone.
- Sì certo, ma forse dovrei precedervi a cavallo, così tanto per far prima se si tratta di una emergenza- mi offro, ansioso di far buona impressione.
- Oh, non c’è da preoccuparsi! Tanto quel diavolo di donna ci sotterrerà tutti quanti! – esclama accompagnandosi con un gesto, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa o la stessa diavolessa e lo fa con tanta foga che il suo ondeggiare pare promettere una caduta rovinosa, che in barba alla famosa gravità, non avviene.
Sorrido sorpreso da una così precisa diagnosi a distanza e mi avvio al calesse, precedendo il barcollante ed intemperante ometto con pochi, lunghi passi.
- Sarà lunga fino a Versailles … - mormoro aiutando il mio esimio collega a salire poco agilmente a cassetta.
- Ci fermeremo prima, parecchio prima, dottor Lasonne. – afferma puntando saldamente il bastone fra le gambe ossute e visibilmente arcuate,  poggiandosi ad esso con entrambe le mani come se questa fosse la posizione più comoda al mondo. - Siamo diretti ad un palazzo nobiliare di una famiglia molto, molto, molto importante – sottolinea fissandomi di sottecchi appena mi accomodo accanto a lui.
“Bene, molto, molto, molto importanti …”, penso non riuscendo a non sorridere di soddisfazione.
- Quindi facciamo visita ad una nobildonna di alto rango … - commento schioccando le redini.
Il collega sorride beffardamente.
- Nobildonna? Beh, facciamo visita alla padrona di casa e questo è certo.
La strana precisazione mi suonò poco comprensibile allora, ma con gli anni avrebbe acquistato pieno significato.









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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


3 inevitabile follia 3 - INEVITABILE FOLLIA

Marzo 1761

Conduco il calesse lungo la strada principale fino ad un bivio al quale deviamo dalla retta via.
La strada è in ordine, meno trafficata di quella per la reggia, costeggiata da due filari di robusti platani che cominciano a mostrare colore primaverile nelle chiome.
Devo constatare che ci fermiamo realmente prima di arrivare alla cittadina di Versailles, sebbene ho il sospetto che il parco di questa villa si trovi adiacente a quello immenso del castello; ho già da tempo constatato che la metrica di molti aristocratici è decisamente diversa da quella dei comuni mortali: quello che per i più è un giardino notevole, per certi eletti è poco più di un cortile sul retro.
Ed ho il sospetto che questo generale Jarjayes sia veramente un pezzo grosso. Il fatto che il mio collega, dottor Seville, non abbia fatto che ripeterlo con noiosa insistenza per tutto il tragitto lesinando però sui dettagli,  in effetti non è una garanzia. Ma credo che in questo caso non abbia affatto esagerato. Il palazzo è certamente notevole, gli arredi pregiati e alla moda; i domestici scattano come soldati, efficienti e rapidi.
Solo una famiglia nelle grazie del re può ostentare tutto ciò.
E chi sarà la mia prima paziente ?
La moglie? La madre? Forse la suocera del generale?
Il maggiordomo ci accoglie con un inchino.
- Prego, signori, il generale vi attende.
Con mia sorpresa, ci guida al pianterreno, attraverso i locali per la servitù, più modesti rispetto alla parte patrizia dell'edificio, ma anche assolutamente più che dignitosi.
A quanto pare siamo qui per una domestica, penso con un briciolo di piccata delusione.
Questo generale deve avere molto a cuore la salute dei suoi sottoposti, rifletto però cominciando a considerare i riflessi positivi sul mio portafoglio di un uomo così magnanimo.
Dal fondo del corridoio si ode la voce di una donna, lamentarsi, piangere e brontolare. Soprattutto brontolare.
- Che dolore! Che dolore! Sto morendo!
- Non dire assurdità, andiamo… E poi io non te lo permetto! - replica un uomo dalla voce decisa, autoritaria, ma anche rassicurante.
- Il mio André? Dov'è il mio André? Perché non è qui con la sua cara nonna morente?!
- Perché non sei morente e perché lo spaventi comportandoti così! Un po’di autocontrollo, santo cielo!
In piedi, fuori della porta ci sono due bambini, credo della stessa età.
Quello con i capelli scuri ha i lacrimoni agli occhi verdi e un visetto ansioso con l'incarnato smunto sotto la primaverile abbronzatura di colui che trascorre molto tempo all'aperto; presta attenzione alle voci che giungono dalla camera, come se temesse parole o suoni che devono averlo spaventato in un recente passato e si tormenta le piccole mani intrecciando le dita strette strette.
Certamente è il povero André, deduco mentre dalla stanza un lamento della donna lo fa sussultare.
L'altro, incredibilmente biondo,  con una postura distinta, impeccabile, ma non rigida, lo sta consolando bisbigliando piano parole di conforto. D’improvviso, si volge e alza gli occhi celesti su di me e mi sento esaminato.

- Ecco, è arrivato il dottore Seville - dice con tono adulto, squadrandomi senza mostrare la sorpresa di vedere uno sconosciuto a fianco del medico di famiglia. - Lui si prenderà cura di tua nonna. Non temere André. - conclude senza levare gli occhi taglienti da me.
Veniamo accompagnati oltre la porta aperta e continuo a sentire lo sguardo inquisitore del bambino biondo alle mie spalle.
- Bene bene, cosa è accaduto stavolta? - domanda con un sottofondo ironico il vecchio dottore, strizzando l'occhio al distinto gentiluomo in piedi accanto al letto che, vedendolo, trae un sospiro di sollievo.
- Buongiorno dottore Seville! - lo saluta - È accaduto che la nostra Marron, appena ha visto il primo raggio di sole primaverile, ha messo in piedi una rivoluzione in casa! - esclama come un rimprovero - … Se solo avesse più riguardo di sé e lasciasse i lavori pesanti a chi ha l'età e la forza per poterli fare…
- E come posso, circondata come sono da sfaticati! - rimbrotta una donna tonda e minuta, dall'età indefinibile, agitandosi sotto le coperte.
- Sappiamo che senza di te la casa è perduta: sei come l’ultimo vecchio soldato rimasto a reggere il fortino. - tenta maldestramente di imbonirla il generale.
- Vecchia???
E tutti noi, uomini grandi e grossi, ci sentiamo gelare il sangue dal tono di questa donnetta terrificante.
- Va bene, vediamo cosa è accaduto. - Propone coraggiosamente il mio collega - Dove sentite dolore?
- Dappertutto, dottore, ma la schiena… la schiena… - si lamenta lei, rotolando un poco sul fianco per indicargli un punto fra i lombi.
- Vediamo… Qui fa male? - chiede Seville premendo appena ove indicato.
- Oh dannato! - è l'immediato strillo accompagnato da un fulmineo manrovescio istintivo che, solo per fortuna, non colpisce il naso del dottore.
- Lo prendo come un sì. - mormora egli, allontanandosi di un passo, ancora incredulo per lo scampato pericolo. - Marron, dovete smettere di atteggiarvi a giovinetta indistruttibile! Un paio di giorni di riposo e tranquillità, una dieta leggera, vi rimetteranno in sesto.
- Sto per morire e voi mi blandite con chiacchiere! - piagnucola ella, riaffondando nei cuscini.
- Non state per morire! Dottor Lassonne, vi prego, date anche il vostro parere a questa donna, affinché possa fugare ogni timore! - mi coinvolge, alzando gli occhi al cielo.
Mi schiarisco la voce, preparando una frase che non possa sembrare di semplice accondiscendenza.
- Dalla vostra reazione alla sollecitazione in zona lombo sacrale, pare chiaro ci sia un sovraccarico della parte dovuto a qualche movimento brusco. Riposo, rilassamento e dieta è tutto quanto mi sento di consigliare.
Forse è il mio tono sicuro, forse il fatto che mi vede per la prima volta e causo una certa soggezione, ma la donna pare calmarsi. Mi guarda dal di sotto della cuffia da notte, dietro gli occhiali tondi. con due occhi insolitamente piccoli e, con un singhiozzo, porta il fazzoletto a tamponare le narici gocciolanti.
- Visto, anche il dottore Lassonne dice che non hai niente! - conclude dopo un istante di quiete il generale, un po’ troppo frettolosamente.
Non l'avesse mai fatto! Come gettare un secchio d'acqua su un nido di vespe!
- Un vero uomo col coraggio di dirmi la verità non c'è in questa stanza! - esplode la governante. E la disperazione riprende.
- Oh, povera me! Oh, mondo crudele! Il mio bambino? Dov'è il mio André che devo dirgli addio!
Ci guardiamo in volto, tutti e tre rassegnati, e ci accordiamo silenziosamente per lasciare la stanza, mentre il piccolo André corre ad abbracciare la nonna, piangendo come una fontana.
- Quella donna è sana come un pesce e testarda più d’un mulo lunatico con una spina piantata nel culo!
Esclama, col medesimo sordo borbottio di un temporale all’orizzonte, il dottore Seville, non vergognandosi minimamente della volgarità appena espressa.
Fa un cenno imperioso alla coppia di domestici che attendono in corridoio.
- Voi! Portatele un infuso di biancospino e annegatelo nel cognac. E quando dico annegatelo, intendo molto più cognac che infuso. Facciamo dormire questa dannata donna, che ci lasci tranquilli per qualche ora. E portate fuori quel povero bimbo prima che lo faccia ammattire col suo lagnarsi!- tuona.
I domestici scattano e nel corridoio restiamo solo noi col bimbo biondo.
- Bene… - mormora il generale dopo un istante di silenzio tombale - Vi fermate a pranzo, signori?
- Molto volentieri, generale Jarjayes! - si affretta a confermare con entusiasmo il mio collega. - La vostra governante aveva già preparato qualcosa, per caso?
Il generale, colto alla sprovvista, volge uno sguardo interrogativo al maggiordomo che ci sta raggiungendo.
- Madame, la governante, esige che siano sempre pronti degli antipasti misti, almeno quattro portate di primi piatti freddi, due caldi, due arrosti in forno, uno stufato, tre tipi di contorno e otto torte. È sempre previdente, madame.
Il generale ride sollevato, invitandoci a seguirlo.
- Oscar, pensi tu a levare André dagli impicci? - chiede notando che la domestica incaricata di allontanare André, lo stava tirando delicatamente ma, appena lasciata la presa, egli tornava  ad abbracciare convulsamente e tenacemente la malata.
- Certamente, padre. - assicura il figlio.
E, mentre il mio collega col generale si avvia discorrendo in merito alla cucina della governante, tanto buona almeno quanto acido è il suo carattere, mi attardo: guardo il signorino entrare nella stanza della tata e con passo elegante e deciso avvicinarsi al nipotino della governante.
- André, tua nonna ha bisogno di riposare: lasciamola dormire. - lo invita con tono calmo.
Il piccolo, abbracciato alla nonna, tira su di naso.
- Nuu… - lamenta in tono capriccioso. - lo sai cosa succede se esco… E’ successo con papà… e anche con mamma. Succede che arrivava il Signore e la porta in cielo. E io resto solo.
Sento il cuore gonfiarmisi di tristezza ed empatia per questo povero orfano, ma solo per un istante.
Il figlio del generale, contro ogni aspettativa, allunga una mano sulla sua spalla.
- Non sarai mai solo finché sarò in vita, André.
E lo sguardo che si scambiano questi due bambini, la serietà della promessa dell'uno, la fiducia dell'altro mi fanno pensare a quanto debba essere liberale questo generale che permette al figlio un tale legame.
Marron, evidentemente resasi conto di quanto il nipote si sia spaventato per la situazione, si riprende abbastanza per rimettere le cose nel giusto ordine.
- André, fai come dice il signorino. Farò un bel sonno e domani sarò in forma, vedrai. Non far preoccupare i padroni, su. Sii ometto, bambino mio. 
E lo stacca delicatamente da sé, asciugandogli con un dito le due lacrime sospese negli angoli degli occhi arrossati.
Oscar lo prende in consegna, cingendogli le spalle.
- Andiamo, André. Ci facciamo dare due bei bicchieri di latte e poi finiamo di sfogliare il libro d'avventura che mi ha regalato mio padre, quello con tante figure.
- Prendiamo anche dei biscotti?
- Alla cannella?
- Sì, anche ai mirtilli. Mi piacciono i biscotti. - dichiara il piccolo, col sorriso sulle labbra, mentre mi passano davanti.
Li guardo allontanarsi nel corridoio, chiacchierando delle loro passioni infantili  e mi interrogo sul loro futuro, li immagino diventare grandi: sopravviverà la loro amicizia alla età adulta? Davvero Oscar non lo lascerà solo? Allora non sapevo e mai avrei potuto immaginare.

***
NOTA
Il dottor Lassonne non è quello realmente esistito, infatti egli morì alla fine del 1788 e non può quindi trovarsi alla guida del carro il 16 luglio 1789. Mi sono basata solo sulla sua presenza nell’anime, il dottor “baffetto” che interviene a rattoppare i protagonisti. E’ anche un po’ più giovane e con una vita completamente inventata.
Come anticipato, mi sono presa molte libertà e licenze: non aspettatevi nulla di storico.

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


4 inevitabile follia

4 - INEVITABILE FOLLIA

16 luglio 1789

Dopo quasi cinque interminabili, insopportabili ore, su questo carro rigido, che procede a passo d'uomo, che é massacrante per ogni osso e muscolo e nervo dei nostri già esausti corpi, arriviamo alla meta: un bel palazzo, un luogo quieto, candido, ordinato, adagiato nel principio del tramonto; e il sollievo dopo ore di sole e afa, pare un miracolo.
È un luogo alieno a tutto ciò che ha stravolto Parigi in questi giorni. Ed è esattamente come la prima volta che lo vidi, eppure è passata una vita. Quanto via vai per questi sentieri, lineari e perfetti; quanta acqua sgorgata da queste fontane artistiche e immacolate; quante rose bianche e rosse appassite in quei filari.
Già al principio del viale incrociamo alcune persone di servizio: giardinieri che si levano i cappelli di paglia in saluti rispettosi, lenti, dovuti. Poi, appena accortisi del nostro lugubre carico, essendo giunto al loro olfatto l'inconfondibile odore di morte che ci lasciamo alle spalle, si animano di sorpresa, di paura, anche di emozione sincera sospettando il contenuto, avendo riconosciuto me, avendo riconosciuto Rosalie.
Parlottando tra loro, posano rastrelli, falci, forbici; si accodano mestamente al carro, col capo chino, facendo il segno della croce, iniziando a mormorare preghiere, e quando giungiamo all'ingresso del palazzo, siamo ormai un chiaro corteo funebre. Sui loro volti, tristezza, incredulità, smarrimento.
Due domestiche intente a spazzare i gradini dell'ingresso, interrompono il mestiere, sorprese dalla inconsueta scena. Mano a coppa sulle labbra la prima, non appena il debole vento serale conduce alle sue narici l’olezzo cui io e la mia accompagnatrice quasi piú non badiamo, mentre la compagna lascia cadere la scopa, tintinnante sulla pietra bianca come ossa invecchiate al sole, e corre dentro, invocando il suo dio, tra grida scomposte.

Fermo il veicolo e guardo per terra, il ghiaietto così lontano da raggiungere per le mie stanche e intorpidite membra, e mi perdo ad osservare l'ombra mia, quella del carro, delle casse dietro me, lunghe e nitide contro il  sole del tramonto, e quella di Rosalie che già si muove sulle scale verso coloro che stanno arrivando chiamati dalle grida della domestica. Il maggiordomo si affaccia, immediatamente capisce, ma è troppo tardi per proteggere il padrone.
Il generale viene alla porta e la servitù gli fa largo, come un banco di pesci all'arrivo dello squalo.
Il suo sguardo azzurro come il ghiaccio, corre dal mio viso mesto al carro e poi ancora nei miei occhi. E non c’è bisogno di parole. Scende piano i gradini, con passo sempre meno sicuro, incerto, instabile.
Si avvicina al retro del carro. Resta immobile a fissare le due forme rettangolari, di legno chiaro, non stagionato e di scarsa qualità; poi esitante sposta i coperchi delle bare. 
Il puzzo irrompe nell'aria con violenza e d'istinto l'uomo porta una mano verso il volto, ma si ferma prima: è qualcosa che non può evitare, che non vuole evitare. È l'odore della sua colpa, è il puzzo del suo peccato e dovrà fissarsi nei suoi ricordi per ogni giorno a venire.

Muove la mano incerta sopra i volti coperti, drappeggiati di telini bianchi e improvvisamente,- con decisione, forse attirato da lineamenti che neppure il velo ed il gonfiore possono confondere tanto da rendergliela irriconoscibile, scopre il volto del suo stesso sangue.
Sbianca, lui, uomo forte, tutto d’un pezzo, ma non pronuncia verbo.
L’immobilità viene invece interrotta dalla governante, il silenzio dal suo urlo lacerante.
“I miei bambini!”, grida lei.
Rosalie intercetta la cara balia che con una forza inaudita la sospinge via, così come fa con il generale il quale riesce tuttavia a trovare la forza di trattenerla prima che si getti sui cadaveri. I nomi di chi erano in vita urlati a squarciagola da colei che li aveva allevati e mai avrebbe dovuto vederne la morte.
Ed è solo in quel momento che permetto alle lacrime mie, di oltrepassare le ciglia.



Estate 1767, palazzo Jarjayes

- I miei bambini… - sta ripetendo la governante alle mie spalle, tormentando un fazzoletto fra i denti stretti, come fa sempre quando sente prudere le mani - I miei bambini non fanno a pugni! - ribadisce come se il ripeterlo possa cancellare un fatto incontestabile.
- Eppure questo è un bel gancio dritto sul naso, madame. - mormoro ridacchiando tra me, immaginandomi la scena.
- E’ rotto? - domanda Marron ansiosa.
Tasto l’osso il più delicatamente possibile, in mezzo a questi occhi verdi come il mare che risaltano ancor di più sottolineati dagli ematomi rossastri.
- No, perfortuna, solo una brutta botta. Tieni su la testa, guarda il soffitto, giovanotto! - ordino ad André, seduto davanti a me, sollevandogli il mento mentre cambio la pezza insanguinata con una pulita. - Fa male?
- Sì, dottore - mi risponde con voce nasale.
- Bene, ti servirà di lezione così la prossima volta ti ricorderai di scansarti. - lo ammonisco con tono paterno.
- Veramente, è Oscar che si è scansato ed io ho preso il pugno destinato a lui. - bofonchia il ragazzino.
- Non scaricarti la coscienza dando la colpa a mad… al signorino Oscar! - irrompe sua nonna - Voi non dovete fare a botte! - ordina.
- Ma nonna… e se gli altri fanno a botte con noi ?!
- E cosa avresti fatto di grazia per istigare una lite? - lo sfida piantando le mani sui fianchi, dando per scontata la sua colpevolezza.
- André ha fatto proprio nulla, i figli di monsieur Martin se le cercano - giunge la voce di Oscar alle nostre spalle.
Ci volgiamo e non ho nemmeno il tempo di visualizzare, che la governante sta già lanciando uno strillo.
- Buon dio! Ma come vi siete ridotta mad…. signorino Oscar!
Sorrido per le sue continue correzioni nell’esprimersi. So che il generale l’ha ripresa severamente per la sua testardaggine nel rivolgersi al femminile ad Oscar, ma posso comprenderla. I ragazzi stanno cambiando: André ha una voce più profonda, Oscar lineamenti più dolci. Tutti sanno la verità, ma testardamente la evitano. Compresa la stessa Oscar. E questo non è un bene, visto che ormai ha quasi dodici anni.
Ho tentato più di una volta d’affrontare l’argomento col conte, ma non intende ragioni. Insiste a negare l’evidenza, a rivolgersi alla figlia al maschile, vantandosi con chiunque di quanto sia felice del suo erede, di quanto luminoso sia il futuro che attende i Jarjayes.
E incidenti come quello di oggi, sono diventati ormai quotidiane dimostrazioni di virilità cui Oscar ricorre per consolidare questa menzogna.  A farne le spese per lo più è proprio André, stretto tra l’incudine ed il martello, tra gli ordini del generale e le richieste di sua nonna; vincolato a seguire Oscar nelle sue bravate, e cavallerescamente obbligato a difenderla.
- Dovresti vedere come sono ridotti gli altri, Nanny! - esclama la ragazzina sporca ed arruffata entrando in cucina. - Quei vigliacchi se la ricorderanno questa giornata, André! Uno l’ho quasi annegato nell’abbeveratoio… Non se la prenderanno più con il povero Arione *.
- E voi vi siete ridotta così… per il vostro cavallo? Santo cielo, che direbbe il generale se fosse qui!
-Mio padre direbbe che mi sono comportato come ci si aspetta da un gentiluomo, come farebbe un vero Jarjayes. I figli di Martin hanno maltrattato il mio pony, che è vecchio ed indifeso: solo dei vigliacchi se la prendono con gli indifesi. - esclama spavaldamente afferrando una mela dal tavolo e dando un morso energico.
- Ahi!… - esclama con sorpresa, portando una mano alla bocca.
- Permettete? - domando lasciando André ancora seduto a guardare il soffitto ed avvicinandomi a lei - Avete un bel taglio all’interno del labbro, Oscar… - dico tenendole il mento con due dita e sollevandole le labbra per osservare la dentatura, fortunatamente ancora perfetta, mentre penso che probabilmente il generale non sarebbe così entusiasta di sapere che il figlio prediletto si azzuffa con degli stallieri - Niente mele per un paio di giorni, - sentenzio - anzi, direi dieta liquida per tutta la settimana…. Ad entrambi.
Come immaginavo, un coro di protesta si leva dai ragazzi e rido apertamente. Un po’ mi piace infierire con queste raccomandazioni che sanno tanto di punizione, specie se servono a tenerli fuori dai guai. In fondo, entrambi questi fanciulli, non hanno veramente qualcuno che si occupi di loro, a parte Marron.
Madame Marguerite è ormai stabilmente trasferita a corte insieme alle figlie ancora da maritare ed il generale è più un maestro, un istruttore militare, che un padre per Oscar, ed è spesso assente.

Per fortuna ora abito a Versailles e, nonostante i miei mille impegni,  posso accorrere qui in poco tempo perchè gli incidenti dai Jarjayes sono diventati un’abitudine. A volte dubito che questi ragazzi potranno sopravvivere all’adolescenza, di questo passo.
La governante mi guarda soddisfatta per la ramanzina che ho rifilato. Ci sorridiamo. Lei è l'unico punto stabile per questi fanciulli, la sola persona che possono accumunare alla parola “casa”.
- A proposito di dieta, dottore, le va di fermarsi a cena? - domanda - Ho preparato tante deliziose pietanze che andrebbero sprecate visto che certi scriteriati - e lancia sguardi di fuoco ad entrambi - non potranno rendere giustizia alle mie fatiche…
- Sarà una gioia, madame. - accetto con entusiasmo.

I miei clienti a Versailles sono aumentati anche grazie alla buona intercessione in mio favore del generale e di sua moglie: devo molto a questa famiglia, provo un sincero affetto per questi ragazzi ed ho paura per loro. Temo che quando i cancelli di questa folle gabbia di bugie si spalancheranno sul mondo reale, la verità crollerà su di loro tagliente come un luccicante specchio che va in frantumi.
Intanto, anche se il mio tempo libero diminuisce per via di mille impegni, l’occasione per frequentare questo palazzo la trovo sempre. Per questi ragazzi e, lo ammetto, anche per i manicaretti di Madame Grandier.
Il caro dottor Seville sarebbe felice e concorde con me. Che il buon Dio lo abbia in gloria.


***

*(cavallo mitologico)


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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***



5 - INEVITABILE FOLLIA

16 luglio 1789

La servitù inizia i quotidiani riti serali e pare un giorno come un’altro a palazzo Jarjayes.
In silenzio si accendono le candele dei candelabri, si calano lampadari per sostituire quelle consumate e con lunghe aste si illuminano quelle poste in alto. Ma, senza bisogno di parole, viene svolta anche una nuova mansione.
Valletti con drappi neri si arrampicano su scale, si allungano malfermi fin sulla cima delle grandi specchiere e le coprono, così la luce che normalmente verrebbe riflessa, amplificandosi fino quasi a replicare il giorno in questi saloni di ori, stucchi e marmi, viene invece assorbita, divorata dalla notte creata dal tessuto, così come la morte si sostituisce  alla vita, istante dopo istante, durante l'agonia.
Ed anche il palazzo muore.
Rari bisbigli e rari singhiozzi spezzano il silenzio assoluto.
Solo ora mi rendo realmente conto di quanta vita portassero loro due in questo palazzo, nonostante non vi ci tenessero feste, balli e sontuose cene. Bastava una melodia al piano, qualche risata, il suono metallico dell'incrociarsi di due lame. Erano l'anima di questo posto.

E’ stata approntata una tavola per noi, ospiti inattesi e poco graditi, ed io svogliatamente mangio, da solo, in questo spettrale salone.
La sedia di Rosalie, di fronte a me , è vuota.
Lei si trova ancora al capezzale della governante che, nonostante il tonico da me somministratole per i nervi, abbiamo dovuto mettere a letto a forza.
É vuota pure quella a capotavola, dall'altro lato del lungo tavolo. Il padrone di casa, ostentando energia, è ancora impegnato nelle necessarie direttive. Non una parola scambiata tra noi, tantomeno con Rosalie.
Non ha posto domande di nessun genere e noi non ci siamo ancora espressi riguardo le nostre intenzioni. Per ora, a parlare sono lo sgomento ed  il dolore.


Il generale rientra, dritto, marziale come sempre, ma all’improvviso sbianca, ha un mancamento, un cedimento delle ginocchia e si regge appena allo schienale della sedia prima di lasciarsi cadere pesantemente su di questa: è umano, alfine ha mostrato una crepa nel freddo marmo che gli riveste il cuore. Peccato che loro non possano vederlo in questo suo crollo.
Siede a capotavola, distante da me fisicamente e simbolicamente; porta le mani a reggersi le tempie: non oso immaginare quale caos si stia scatenando nella sua testa ora che Oscar, il suo erede, non c’è più,; e soprattutto, ora che il suo erede è un traditore. Sono certo che sappia: un uomo nella sua posizione, non può non essere stato informato nei dettagli su quanto accaduto; non può avere dubbi su chi fosse il soldato della guardia che ha guidato gli altri contro la Bastiglia.
Su André, sulla loro storia, avrebbe potuto sorvolare, ne sono certo, ma sul tradimento alla Corona da parte del suo sangue, mai. Per un Jarjayes il dovere verso i Reali è tutto.
Il suo cameriere personale si avvicina e gli consiglia, bisbigliando, di mangiare un poco, ma il generale scuote il capo. Il domestico insiste su qualcosa di rinvigorente, magari solo due dita di cognac per lenire la tensione dei nervi.
- Oscar è morta. Niente può lenire questo fatto.  - lo allontana seccato - Ed inoltre in un modo cosí disonorevole per i Jarjayes. - mormora egoisticamente.
- Non c’è alcunché di disonorevole nella morte di madamigella Oscar, nè tantomeno nella sua vita! - esclama una furente Rosalie giunta proprio in quel momento. Lo fissa severa, le mani chiuse a pugno lungo i fianchi.
Il generale china il capo, stranamente in imbarazzo.
- Sapete cosa intendo.
- No, - afferma facendosi avanti fino a poggiare le mani sulla spalliera della sedia a capotavola, direttamente di fronte a lui, ogni muscolo teso  - signor generale, non so proprio come interpretare diversamente le vostre parole, queste sì, indecorose per i Jarjayes
- La Corona non la vedrà allo stesso modo … - ringhia come un animale ferito e sofferente, che vorrebbe giacere in pace senza essere infastidito da quel noioso, piccolo insetto.
- Oh, la Corona… - ripete Rosalie in tono sprezzante, priva di freni, imbarazzo o timore - Già una volta commetteste questo sbaglio, quando cercaste di assassinare vostra figlia… - il generale la guarda sorpreso - Sì, lo so, so di questo orrore. Ero amica di vostra figlia e di André e ancora lo sono. Per quanto io abbia una scarsa considerazione dei Reali, ammetto che la Regina si mostrò più acuta di voi in quel caso.
- Ora è diverso! Non verrà tollerato alcunché dopo la vostra rivolta! Sua Maestà, il Re si aspetta la totale nostra devozione. Per i Jarjayes è già un rischio ospitare le loro spoglie ed io ho un'intera famiglia da tutelare oltre ad un secolare retaggio!
- Lei era vostra figlia! - sillaba Rosalie, scattando in avanti e  pestando i palmi sul tavolo, indignata da ciò che, ai suoi occhi, pare più vigliaccheria che pragmatismo.
Sobbalzo immaginando il peggio in arrivo e capisco invece quanto il generale sia distrutto proprio dalla sua mancata reazione all’affronto.
- Non serve che me lo ricordiate. - Mormora, la calda voce che si fa tremante.
- È anche colpa vostra se sono morti. - Sentenzia Rosalie, riprendendo la sua statura, che stasera non pare modesta com'è in realtà.
Lo sguardo del generale scatta su di lei come la punta di una lama ed il mio cuore salta un battito notando, quanto non mai, la somiglianza tra padre e figlia.
- Oh no, questo non lo accetto!- mormora a denti stretti, con un tono che vibra dal profondo - È stata una sua scelta, sempre stata una sua scelta fin da quando è entrata nella Guardia Reale. Davvero credete che avrei potuto in qualche modo trattenere Oscar dal fare ciò che si era prefissata? Se è così, non la conoscevate come credete.
- L'avete  messa davanti ad una vita che come donna poteva solo immaginare, come poteva rifiutare? L'avete costretta a scegliere tra due gabbie! L'intransigenza e la rigidità di uomini come voi, hanno costretto tutti noi a scegliere! - esclama Rosalie, negli occhi lucidi ha la Bastiglia e l'orrore esagerato al quale possono arrivare anche i giusti, se fuori di sé.
- Tutti facciamo scelte! Voi che avete lasciato questa casa prima e quella dei Polignac poi, per prima lo sapete! Scelte più o meno convinte, più o meno libere. Lei ha scelto di essere un soldato quindi avrebbe dovuto obbedire, come soldato, come nobile e come figlia, in ossequio alla decisione presa.
- Voi come tutti loro… - accusa Rosalie - Tutti a stupirsi, a scandalizzarsi di come si sia potuti arrivare a questo punto, senza chiedersi perché si è arrivati a questo punto! Ciechi e sordi e ottusi! Se non fosse per l'arroganza, l'ignoranza della aristocrazia e di tutti coloro cui questo stato di cose faceva comodo, non ci sarebbe stata rivolta! E  se non fosse per il vostro folle desiderio di un erede maschio, lei non starebbe marcendo in una cassa!
- Le ho offerto un matrimonio per riparare - mormora in un balbettio, negli occhi umidi l'immagine intollerabile ed ancora incredibile di disfacimento suggerita da Rosalie.
- Una toppa su un disastro annunciato… Un matrimonio combinato?Un matrimonio decoroso? ...Cosa le restava? Vivere da uomo alle vostre condizioni o soccombere nel nulla di una unione benedetta dal re? Non avrebbe potuto, non lei… Non più, dopo aver aperto gli occhi sul marciume, la vacuità, l’ingiustizia e sull'amore.
- Badate Rosalie, siete un ospite appena tollerato. - ringhia, le mani che si stringono a pugno sulla candida tovaglia.
- Sono qui per loro, non per voi - replica stancamente Rosalie, senza ombra di timore. - Non ho alcun interesse per cosa possiate o no tollerare.
Il tono, il distacco di ribelle, gli portano alla memoria qualcosa di doloroso su sua figlia.
- Lei mi ha abbandonato, ha abbandonato tutto ciò in cui credo  - mormora.
- Lei amava André! Lo amava di un sentimento pulito, che non può nascondersi dalla luce del sole come avrebbe preteso la vostra società! - ribatte Rosalie, gli occhi ormai lucidi - Non aveva altra scelta! Chi ama davvero non ha scelta! - sentenzia in un singhiozzo.
- È andata via chiudendo una porta alle sue spalle...
- E non tornerà! - lo tronca brutalmente.
Piangono entrambi ora. La realtà della morte  tramuta ogni recriminazione in parole vane.
Sento il bisogno urgente di uscire.
- Vogliate scusarmi - mormoro. E devo avere un aspetto poco sano a giudicare dal loro sguardo allarmato.
Cerco aria, cerco pace, ma non è possibile averne: fuori c'è movimento.
Si attendono visitatori: sono stati inviati corrieri alle sorelle Jarjayes ed ai parenti più stretti.
Respiro profondamente ed il malessere pare calare di intensità.
Vengo richiamato da una luce lontana, oltre il bosco selvatico. So da dove proviene e non sono certo di farcela, ma devo. Devo andare laggiù.

Cammino per questo giardino, rigoglioso come sempre.
Pare che nulla possa turbare la perfetta serenità, la regolare, monotona, falsa perfezione di questo luogo.
Percorro un sentiero eccezionalmente illuminato da torce, ornato da due filari di ortensie, inframmezzati da cespugli di lavanda. Ma la loro fioritura non riesce a  coprire l'odore proveniente dalla cappella, così come non ci riesce il profumo di limone delle magnolie poste ai due lati dell'isolato, candido e spettrale edificio: profumi che non riuscirò più a scindere da questo momento.
La cripta dei Jarjayes è aperta, le porte pesanti spalancate per accogliere i visitatori. Dentro la temperatura scende di parecchio, per via degli spessi muri che ospitano salme, ma l'aria, che si scontra con la calura esterna, è ancora pregna di umidità, di muffa e marciume; e sento i polmoni comprimersi, dolendo, come se rifiutassero di inspirare un simile asfissiante ed insalubre clima. Da anni non ci viene sepolto nessuno: i Jarjayes sono stati fortunati, pochi decessi hanno colpito la famiglia, una famiglia di persone sane e longeve. Per lo più.
Lei è sola.
È seduta su una delle poche panche di questa cappella, ove tutto è stato pulito e lucidato con una velocità impressionante da domestici scattanti, ben addestrati dalla governante.
Veste di nero, i capelli coperti dal velo dal quale sfuggono due lunghe ciocche ingrigite, e tiene gli occhi al crocifisso, messo in evidenza dai bagliori delle torce all'esterno. La mano destra dalla quale scivola un rosario che non sta usando è posata sulla bara di sua figlia. Di tanto in tanto carezza il velluto nero deposto sui feretri affiancati, per coprirli fino a terra. E sopra ai feretri, le loro spade.
- Non ha voluto che la vedessi. - mormora senza guardarmi quando arrivo alle sue spalle.
Non so da cosa abbia capito chi fossi.
Deve avermi visto con la coda dell'occhio.
- È meglio così, madame - mormoro, rammentando con quanta velocità un cadavere diventi orribile ed irriconoscibile. Polvere sei e polvere ritornerai, ci insegnano… Peccato che le carni debbano attraversare fasi niente affatto dignitose prima di dissolversi.
- Non ha mai voluto che la vedessi. - ripete lei, sottintendendo ben altro, una flessione di rabbia nella voce a sottolinare quel mai  e le dita si arricciano sul velluto, graffiandone la morbidezza, che si sfuma in chiaro scuri.
E piange Marguerite, per la figlia perduta, per la bambina che non le è mai stato permesso conoscere, per la donna con la quale era vietata ogni confidenza.
- Il figlio maschio… il suo figlio maschio... - astio nella voce. - Eppure, lei lo amava così tanto…
- Amava tanto anche voi, Marguerite.
Sorride amaramente.
- Sì, più di quanto meritassi.
- Madame, no…
- È così, dottore: avrei dovuto difenderla da quella follia.
- Dovete essere orgogliosa di Oscar… - sottolineo.
- Oh lo sono! - esclama guardandomi scandalizzata al pensiero che possa credere il contrario. - Sono orgogliosa di chi è diventata nonostante suo padre! Donna nel cuore, prima che nell'aspetto. Torna a guardare il feretro, gli occhi rossi che riprendono ad essere lucidi
- Sono orgogliosa del suo coraggio, della sua intelligenza, del suo cuore e sono disperata per ciò che non potrà più essere.

A queste ultime parole, il mio sguardo cade appena oltre la bara di André, sulla parete rivestita da lapidi di marmo bianco e su quel nome: Alexandra Rose Des Jarjayes Grimaldi Lassonne.
Marguerite intuisce i miei pensieri e mi sfiora la mano con la sua, ancora bella e delicata come un tempo.
- Sono sempre i migliori ad andarsene per primi, mio caro Francois.


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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


6 inevitabile follia 6 Inevitabile Follia



Versailles, estate 1775

La luce della candela trema al mio spostamento, mentre siedo accanto a lei sul materasso.
- Madame Jarjayes? Madame, mi sentite?
Le sfioro la mano, ancora giovanile e delicata, morbida, quella di una persona che non ha mai dovuto lavorare duramente nella vita; gliela volto e tasto il polso. Sento il battito aumentare, si sta riprendendo.
Lei sbatte appena le palpebre, porta la mano libera alla fronte ed annuisce, ancora confusa.
È notte fonda, ma la Regina Maria Antonietta è tuttora in compagnia delle sue dame più vicine, specie della nuova arrivata, la Contessa di Polignac; in vivace compagnia, di tutte tranne di questa bella signora non più avvezza alle ore piccole, al divertimento sfrenato.
- Appena ve la sentite, vi metto seduta.
Lei fa ancora cenno col capo, quindi aiutato da una cameriera, la sollevo dal materasso dell’alcova e la sistemo seduta contro dei cuscini. Il vestito da sera frusciante, il corpetto allentato per aiutarla a respirare.
- Mi sento debolissima, gira tutto… - mormora.
- Avete avuto un mancamento - dico tastandole ancora il polso.
In quel mentre entra la figlia, pallida in viso quasi più di madame.
- Madre! - esclama inginocchiandolesi ai piedi allarmata.
Marguerite, come sempre, secondo la sua indole, si attiva per placarla.
- Non ti preoccupare, Oscar, è solo stanchezza. Vero, dottor Lassonne?
E lo chiede con un tono ed uno sguardo apparentemente gentili, quasi timidi, ma che in fondo suonano come un ordine. Un vizio dei Jarjayes questo di impartire ordini a destra e a manca con  il semplice sguardo. Ma è un ruolo che non mi si addice, quello di colui che obbedisce ad una nobildonna per il semplice fatto che è una nobildonna, ad un generale perché ha un grado e un titolo e ad una governante perché ha un mestolo.
- Non affannatevi! - ordino io di rimando a questa donna fragile solo all'apparenza.
Oscar prende la mano della madre levandola alla mia. Nessuno obietta.
Così continuo la mia visita, alzandole il mento e scrutandola in volto: capogiri, visione offuscata, pallore, disidratazione… Sì, può essere stanchezza, in fondo madame passa ore immobile in piedi accanto a sua maestà. Ma potrebbero esserci altre cause, non ultima, un avvelenamento che è cosa niente affatto improbabile qui a Versailles.
- Quando avete mangiato l'ultima volta, madame?
- Mah, non ricordo… Ieri sera..  Credo… delle tartine.
- Certa che non fosse a pranzo?
- Oh… sì, può essere…. L'agenda di Sua Maestà è così fitta che…
- Madre!
- Suvvia, Oscar! Sei l'ultima che può farmi rimbrotti, tu che non trovi mai un attimo per te stessa. - E carezza il volto ansioso della figlia.
- Tale madre, tale figlia. - osservo, invitando la mia paziente con un cucchiaio a mostrarmi la lingua. - Madame, voi dovete riposare! - intimo approfittando della sua impossibilità a replicare.
- Ma… Sua Maestà… - dice non appena  glielo permetto sfilando il cucchiaio.
- Sua Maestà ha decine di dame di compagnia: sono certo vi farà la grazia di rendervi libera.
Scruto il volto dolce e silenzioso di madame Marguerite e noto un cedimento nel suo sguardo.
- Oscar, cara… ti dispiacerebbe procurarmi un piatto caldo? Qualcosa di leggero… - chiede rivolgendo un sorriso alla figlia ancora inginocchiata ai suoi piedi, chiudendo amorevolmente la mano di lei tra le sue.
- Certamente, madre. Mi occupo di tutto, ma voi riposate e seguite i consigli del dottor Lassonne.
Si alza ed esce sorridendo ad entrambi, evidentemente tranquillizzata.
Non so se abbia intuito che la madre sta cercando di restare sola con me. Per quanto riguarda i suoi affetti, Oscar non è molto perspicace.
- Ed ora ditemi, madame, che disturbi avete avuto? - domando non appena la porta si chiude alle spalle del colonnello.
Abbassa lo sguardo Marguerite. Deve essersi fatta un'idea su cosa potrebbe essere la causa del suo malore, ascoltando tra i pettegolezzi, le esperienze altrui.
- Non siate in imbarazzo - la invito.
- Non è facile…Io... ho creduto… ho temuto di essere in attesa… Di nuovo … E mi sono preoccupata… Non sono più giovane … Tutt'altro… - mormora - E l'ultima volta… oh, è passato così tanto tempo da Oscar...Ma poi… - si porta la mano al ventre - Ho avuto perdite di sangue, tanto… non al solito e….. dolore.
- Da quando Marguerite…?
- Settimane… Non lo sa nessuno tranne la mia domestica personale. Niente ho detto a Marron.
- Il generale?
- Non sto molto accanto a mio marito ultimamente… Lui… Non posso... non posso essere moglie con lui…
La vedo sbiancare e la invito a stendersi di nuovo.
- Devo visitarvi, madame.
- Non ora, dottore… Non voglio che Oscar …
- Fatevi accompagnare a casa e domani passerò a trovarvi. State tranquilla però, riposate, saziatevi con un pasto decente ed applicate panni freddi per il dolore.
Marguerite annuisce, nel suo sguardo due lacrime incagliate negli angoli, e proprio in quel mente rientra Oscar. Noto solo ora che non indossa la sua uniforme; in effetti neppure dovrebbe essere qui: ho sentito pettegolezzi circa una sua sospensione per un duello col duca di Germaine.
- Ho inviato una cameriera alle cucine…
- Oscar cara, forse… forse è meglio se mi porti a palazzo. Avere un piatto caldo in questo reggia immensa è quasi impossibile e poi… la nostra Nanny cucina meglio dei cuochi di Sua Maestà.
Oscar resta perplessa, lo sguardo  indulge sul volto di sua madre, per poi passare al mio ed io con noncuranza mi sottraggo, andando a posare il cucchiaio sul tavolo. Ma il tutto dura poco, poiché i problemi del castello sono inconfutabili, così come la bravura di Nanny.
- Se il dottore Lassonne dà il suo permesso allo spostamento...
- Sì, assolutamente, a casa starà sicuramente meglio e meglio accudita. Raccomandate al cocchiere di andare piano ed evitare buche e sobbalzi.
- Non mancherò: André metterà certamente il massimo della attenzione nella guida.
- Domattina tardi passerò a trovarvi. Abbiate cura di voi nel frattempo.
Le lascio con un inchino e mi incammino verso casa.
Ho la quasi certezza di cosa angustia madame de Jarjayes, posso solo sperare che non sia una forma aggressiva, ma benigna.
Domattina spero di riuscire a parlare francamente con lei.

Esco al buio, nel piazzale ove diverse carrozze sono in attesa, e mi sento chiamare. Riconosco André che attende accanto alla carrozza dei Jarjayes. Mi avvicino e prevengo la sua domanda.
- State tranquillo, madame si è ripresa. Tra poco arriveranno per tornare a palazzo Jarjayes. Mi raccomando, senza fretta, André. È importante evitare scossoni lungo la strada e permettere a madame il massimo riposo.
Sorride André. I Jarjayes sono la sua famiglia, i loro dolori sono i suoi. Specie quelli di Oscar, cosa palese ormai da tempo, almeno per me.
- Domattina verrò in visita. Avrò bisogno di voi per le commissioni dallo speziale.
- Contate su di me, dottore.
- A domani, allora. Passate una buona notte.
- Grazie di tutto, dottore, buona notte a voi.
Lo saluto con un cenno del capo, lui ricambia con un inchino.
Una buona notte, penso all'ironia… Finalmente avevo ottenuto un incontro galante con la marchesa di Cocodans ed è finito tutto in fumo.
Mi fermo e guardo l'ala del palazzo che era la mia destinazione prima di essere intercettato per soccorrere madame Jarjayes, saltando così l'ora fissata per l'appuntamento.
Potrei ancora tentare una grattatina alla porta del suo appartamento, rifletto: in fondo, come diceva spesso il mio insegnante di anatomia prima di ogni lezione pratica, tentare non nuoce, e la mia vita sociale ha già la stessa vitalità di un cadavere sul marmo dell'obitorio.

***

È mattino inoltrato ed il sole pare incattivito con me, come se stesse prendendo la mira ed il bersaglio fossero i miei occhi assonnati.
Tiro la tendina del finestrino per ripararmi da questa dannata luce. Avrei fatto meglio se fossi tornato a casa mia, a dormire nel mio letto, invece di grattare a quella porta.
Sopravvalutata, decisamente sopravvalutata la Cocodans. Un bel guscio vuoto. Immensamente vuoto. Comincio a credere che un futuro sentimentale per me a Versailles non sia nel programma del destino.
Poco male, tanto non avrei tempo per una vita sentimentale seria, tanto meno per una famiglia, alla mia età, poi.
Appena la carrozza si ferma nel cortile dei Jarjayes, da fuori mi viene aperto lo sportello.
Calo i miei occhiali dalle lenti annerite e mi affaccio.
- Buongiorno, dottore! - esclama André accogliendomi col suo volto sorridente.
- A voi - grugnisco, un poco disturbato da tanta energia.
- Lasciate che vi porti la borsa, signore - si offre sorridendo comprensivo e, ancora prima che possa solo pensare, me l'ha già tolta dalle mani.
Saliamo le scale ed entriamo finalmente nell’ androne che, grazie al cielo, é in ombra.
- Suppongo abbiate dormito profondamente. - commento invidiando un po’ le sue giovanili capacità di recupero che io non ho più.
- A dir il vero, non ho chiuso occhio. È stata una nottata movimentata - mormora lanciando appena lo sguardo ad una giovinetta bionda dagli abiti malmessi, che segue la governante a sguardo basso e mani goffamente intrecciate.
- Buongiorno, dottore.
- Buongiorno a voi, Marron, come va la schiena?
Sì, lo so… Mi sono appena fatto del male con questa domanda, ma è giunta alle mie labbra senza che ponderassi le conseguenze.
- Potrebbe andare meglio, dottore, ma sa com'è, quando si invecchia ogni giorno è un dono! Non si può fare altro che accettarlo come arriva. - borbotta come fa ormai da quasi quindici anni ogni volta che mi vede - Madame vi attende nel suo appartamento. André, caro, accompagni tu il dottore?
- Sì, certamente. Prego… - mi invita a seguirlo.
- Tu Rosalie invece vieni con me, ti mostro la tua camera. - dice la governante alla ragazzina.
Non faccio domande, anche se ho il sospetto che la giovinetta c'entri qualcosa con la loro notte movimentata. Sono certo che qualcuno non mancherà di informarmi. Probabilmente, più di qualcuno.

Madame Jarjayes è a letto, nella sua stanza. Le tende sono aperte. Ancora questa  luce esagerata, penso. Non è sola. Su una poltrona accanto al letto c'è una donna, apparentemente di una decina di anni più giovane di lei, che a giudicare dal libro fra le sue mani, la stava intrattenendo con una lettura.
- Signore… - saluto entrambe con un inchino.
Ricambiano con un gesto del capo appena accennato.
André posa la borsa su un tavolino e, arretrando garbatamente, si accomiata in silenzio, richiudendosi la porta alle spalle.
La dama di compagnia accenna ad alzarsi, ma Marguerite la trattiene con un gesto ed un sorriso.
- No, cara, resta pure!
L’amica mi lancia uno sguardo ed annuisco, dando anche il mio benestare al volere della Contessa.
- Dite, madame, come avete passato la notte?
- Tranquilla, dottore.
- Emorragie? Dolori
Scuote il capo.
- Bene, come vi ho raccomandato, il riposo è la cosa migliore.
Mi avvicino per visitarla. Scioglie i lacci della vestaglia, timida, scostando le coperte.
Come la sera prima, comincio esaminando il volto, ascoltando il battito.
- Siete fresca, colorita ed il battito è regolare. Avete fatto colazione?
- Sì, dottore, abbondante e con appetito.
- Bene. Posso?
Sto chiedendo il permesso per continuare la visita, ciò che non ho fatto stanotte. Annuisce madame, scivolando verso il basso sul materasso ad un mio gesto.
L'amica si alza per ripiegare le coperte verso i piedi del letto e noto che lo fa sorreggendosi ad un bastone.
- Stai tranquilla, Alexandra. - la invita ancora madame, in tono protettivo. Intercorre un sorriso e l'altra si riaccomoda obbediente, sempre accompagnandosi col bastone.
Infilo una mano sotto la camicia per tastarle il ventre.
- Ditemi quando sentite dolore.
Non finisco la frase che una smorfia è la risposta. Finisco di tastare più in basso, quindi ritiro la mano.
Mi guarda adesso e vedo la paura di chi crede d'aver avuto conferma ai propri timori.
- Non è necessariamente maligno, madame. La maggior parte causano dolore, sanguinamento, ma la convivenza è possibile. Dovrete stare a riposo, nutrirvi adeguatamente e potrebbe anche regredire. Se permettete  la domanda...Con vostro marito…?
- No, no non posso…. Fa troppo male.
- Gliene parlerò io. Capirà.
- Ma io lo amo...
- E poiché anche lui vi ama, capirà. - insisto severo.
Le sto imponendo di non adempiere ai suoi doveri coniugali. Non è cosa da poco per una coppia che, come nel caso dei Jarjayes, si è scelta.
- Il generale è in casa?
- Stava lavorando nel suo studio - mi informa Alexandra.
- Bene, vado immediatamente a parlargli.
Appena apro la porta invece lo trovo ad attendere. È sinceramente preoccupato, sebbene preferirebbe non darlo a vedere. Non avevo dubbi sui sentimenti che prova verso i suoi familiari, sebbene in più di una occasione abbia mostrato carenza di lucidità e di buonsenso; cosa che negli anni lo ha condotto ad errori disastrosi ed a tentativi di ripianare altrettanto disastrosi.
Mi fissa muto, con lo sguardo tra lo smarrito e lo spaventato di chi teme di dover affrontare un momento che mai si vorrebbe fronteggiare.
Spiego che una massa è cresciuta nell'utero di sua moglie, che le toglie energia, causa dolore e nel peggiore dei casi, potrebbe portarsela via.
- La cureremo, dovrà osservare il riposo assoluto e astenersi dai doveri coniugali - concludo.
Jarjayes annuisce, confuso, ansioso.
- Andrà meglio, sono fiducioso - mento per tentare un addolcimento della notizia.
- Sì, sicuramente, dottore, grazie.
Entra nella stanza. Si rivolge alla dama.
- Sandrine, cara, puoi lasciarci soli?
- Certamente, Augustine. - si solleva con la gruccia e si avvia claudicante verso il corridoio, nella mia direzione.
Il generale siede sul letto, prende la mano di Marguerite e gliela bacia teneramente. Parlano piano, poi, ad una frase di lei, lo vedo scuotere il capo, lei insistere, posargli due dita sulle labbra per zittirlo e alla fine lui china la testa, rassegnato, obbediente.
La porta si chiude accompagnata da Alexandra che, pian piano, è giunta fino al corridoio.
Credo fu allora che Madame Jarjayes chiese al generale di poter condurre vite separate.
Sì, penso, delicata solo all'apparenza è Marguerite.
L'amica mi sta fissando. Mi sorride gentile, lo sguardo birichino di chi vorrebbe dire chissà che, ma per educazione si trattiene. Il dolore dei Jarjayes pare non turbarla più di tanto, forse perché dà l'impressione di una persona che ha già patito la sua buona fetta di avversità e non dispone più di sufficienti lacrime per mostrarsi pubblicamente dispiaciuta.
- Nessuno ci ha presentati. - esordisce - Sono Alexandra, cugina del generale. Alexandra Rose Des Jarjayes Grimaldi.

Ricambio il sorriso e, improvvisamente, Versailles non è più così deludente.















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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


7 inevitabile follia  7 Inevitabile Follia



Palazzo Jarjayes, 16 luglio 1789

È incredibile Versailles.
Sì, incredibile come possa passare dall’entusiasmarti al deluderti, disgustarti, mortificarti anche nel giro di pochi istanti.
Giochi di potere, giochi di opportunismo, giochi e basta.
Famigliari che sono niente altro che pedine su scacchiere di freddo e lucido marmo, da spostare secondo quanto più opportuno al momento.
Pedine da dare in pasto all'avversario, in cambio di una posizione privilegiata sul campo da gioco.
Pedine sacrificabili, scartabili, insignificanti.
Carne da macello in una guerra senza sangue vivo, solo lacrime, sete e profumi.

Tornando dalla cappella, vedo la luce delle lanterne laterali delle vetture già dal fondo del viale e, poco dopo, odo il rumore di cavalli, finché eccole che varcano i cancelli, una, due,tre, quattro carrozze, una dopo l'altra: le sorelle Jarjayes sono arrivate.
Ed una dopo l'altra, le vetture si fermano nel cortile principale: i domestici aprono gli sportelli e per primi scendono i fortunati consorti.
Di nero abbigliati, come l'occasione richiede, con espressione severa in volto, come da signorile abitudine.
Nessuno di loro porge aiuto alla propria dama, poiché quello è compito del valletto e questi gentiluomini non si sognerebbero mai di infrangere l'etichetta, specie quando a loro risulta veramente comoda. Ed essere sposato ad una Jarjayes è stato comodo senz'ombra di dubbio per tutti loro: dote cospicua, nome importante, bellezza indiscussa. Impalmare una Jarjayes ha fruttato negli anni molto più di quanto investito: nuove rendite, incarichi ben retribuiti, potere.
Abbasso lo sguardo, colpevole: come se non fossi uno di loro? Come se io non avessi tratto vantaggi in quanto consorte di una Jarjayes?… Mi par d'udirla , Alexandra, la mia “Rose”, ridere della mia fortuna, qui, mentre rigiro la fede che mai ha lasciato il mio dito da quel primo giorno e che mai lo lascerà.
“ Che vuoi farci Lassonne, sei nato sfortunato e anche abbastanza intelligente da capirlo”.
...Abbastanza…
La sua solita ironia, anche in punto di morte, la sua autodifesa contro i mali del mondo.
Ma solitamente aveva ragione.
Già, mia rosa, i migliori se ne vanno per primi da questo purgatorio ed i peccatori restano.

La più anziana delle sorelle, Marie Anne,  mi viene incontro, mano guantata sul cuore .
- Dottore, anche voi qui?
Chino il capo, confermando l'evidenza  e la Invito ad entrare. Le altre ci seguono, affiancate dai rispettivi mariti.
- Avete visto mia madre? - mi domanda mentre camminiamo.
- È alla cappella con loro
- Loro? … quindi anche André? - intuisce immediatamente: per lei non ci sono dubbi su chi potesse essere il compagno in quella occasione, come in ogni altra della vita di Oscar
- E Nanny? - chiede preoccupata.
- Nella sua stanza, sedata.
- Povera Nanny… Il generale? - chiede infine.
- Nel salone da pranzo.
Ella è la più legata ai genitori, a Nanny. Ed anche a me, tramite Alexandra, sua amica d'infanzia; ed alla povera Oscar, sebbene lasciò questo palazzo che la più giovane delle  Jarjayes era ancora un traballante marmocchietto dal sesso indefinibile per volere paterno. Lei è la sola figlia nata senza peccato d'esser femmina, poiché la prima: un “errore” accettabile. Coccolata e viziata dal padre, adorata dalla madre: il loro primo miracolo, la loro prima creatura; la sorpresa e la bellezza di essere due genitori, innamorati, giovani, felici.
- Ma che è accaduto? - domanda uno dei mariti.
- Dove? - fa eco un altro.
- Alla Bastiglia … - rispondo brevemente mentre saliamo i gradini dell'ingresso.
- Come “ alla Bastiglia”? - ripete esterrefatto
- Oh signore… - mormora la secondogenita, Clautilde.
- Meglio entrare, signore, signori… - li sollecito.
E tutti mi seguono in branco, nei loro abiti neri che li fanno sembrare un gruppo di lustri, zampettanti scarafaggi.
- Padre! - esclama Marie Anne, raggiungendo il generale ancora seduto là dove l'ho lasciato. Gli posa le mani sulle spalle ed egli ricambia il contatto con una breve carezza sul guanto di pizzo nero.
- Quindi, è stata assassinata da quelle belve? - conclude Hortense con le lacrime agli occhi.
- Aveva l'incaricato di disperdere la folla, immagino - esordisce un genero.
- Povera Oscar, vittima di quegli esaltati...
- Si, ma… no. - mormora Jarjayes. - Era lei … “la belva”...
E mentre ripete l'orrendo termine col quale la figlia prediletta è stata identificata, sbianca, perché non riesce ad abbinarlo a lei. Non riesce ad immaginare quel frugoletto splendido che solo ieri lo abbracciava, infante inconsapevole; lo studente diligente, il cavallerizzo nato, lo schermitore provetto, il figlio che chiunque avrebbe desiderato… “belva”... “traditore”... Non Oscar.
Silenzio esterefatto.
- State dicendo che era tra i rivoltosi? - domanda incredula Catherine.
- Sta dicendo che li guidava! - si inserisce Rosalie, seduta in un angolo buio della sala. Si alza uscendo dal cono d'ombra - Fiera, consapevole ed orgogliosa al comando dei suoi soldati. - sottolinea.
- Buon Dio! - mormora uno dei consorti dopo un istante di sorpresa silenziosa.
- Inaudito! - gli fa eco un altro con tono disgustato.
- E adesso? -
Il generale non parla fissa il vuoto nel tappeto.
La figlia maggiore si inginocchia ai suoi piedi.
- Padre ...
- Dov'è vostra sorella Josephine? - la interrompe lui accorgendosi della mancanza della più giovane.
- Nostra sorella è partita stasera coi Polignac. In tanti sono partiti oggi. Anche il fratello del re, Il conte di Artois..
- Anche noi saremmo dovuti partire! Cosa accadrà ora!? - è l'esclamazione di paura di un gentiluomo.
- Domani il Re andrà a Parigi ad onorare il nuovo sindaco. Si risolverá.
- Chinare la testa ai rivoltosi sarà solo l'inizio del peggio!
- Non potete saperlo.
- E André? Era con lei?
Il generale, spettatore muto, annuisce.
- E Nanny? - chiede ancora un'altra sorella.
- È sedata - risponde la maggiore.
- Povera Nanny...
- Povera un accidente! Sono i Jarjayes quelli che rischiano tutto! Quando si saprà, cadremo in disgrazia!
- Per favore! Mia sorella è morta! - chiede rispetto Marie Anne.
- È sempre stata una stata una spina nel fianco! - sentenzia il marito di Hortense.
- Non parlare così di lei! - replica la moglie.
- Ma cosa facciamo adesso?
- Una cerimonia pubblica è da escludere: nessuno deve sapere che la sua salma è qui.
- Tanto non verrà nessuno...
- Hanno già avuto un funerale, non è per questo che siamo qui. Solo perché le loro salme vengano ospitate al sicuro nella cappella. - è la richiesta composta di Rosalie .
- Tu, bastarda dei Polignac, non osare ordinare a noi cosa fare! - esplode uno dei generi - Non puoi chiederci di onorare un traditore ed il suo sollazzo plebeo dando loro un posto ove riposare come nulla fosse accaduto!
- Non parlare così di loro! - interviene Hortense .
- Erano uno scandalo!
- Erano brave persone e André era…
- … Colui che sollazzava vostra sorella.
- Siete un essere disgustoso. - conclude Marie Anne rivolta al cognato.
- Ah io..?
- Oscar e André resteranno insieme. Qui o in una fossa comune a Parigi. - ribadisce calma Rosalie.
- E allora a Parigi! - le ringhia - Oppure in un campo a marcire, in un fiume a nutrire i pesci, dovunque ma non qui e di sicuro non insieme!
Vedo Rosalie fremere, ma la trattengo. Siamo qui con uno scopo e questi miseri personaggi non hanno qualifica per essere nostri interlocutori.
- Occorre anche decidere in merito al destino del titolo… - ricorda il marito di Clotilde.
- C'è poco da decidere: ovviamente passerà al mio figlio maggiore. - replica il consorte della primogenita.
- Il caso non è così semplice…Eredi maschi non ci sono, solo il re può decidere.
- Il re accondiscerá al volere di famiglia
- Il re avrà altro cui pensare piuttosto che la discendenza di un traditore!
- Smettetela di parlare di tradimento!
- È quello di cui si è macchiata Oscar!
- Basta! Basta! Solo io posso decidere e potrei decidere per nessuno di voi!  - ringhia fuori di sé il generale, gelando tutti quanti con uno sguardo - È stata il figlio migliore che avrei mai potuto desiderare. Nessuno sarà mai alla sua altezza! Nessuno! Mai!
Si alza ed esce lasciando il silenzio padrone della stanza.
- Vecchio pazzo… - sentenzia il marito di Hortense .
Marie Anne lo guarda con disgusto.
- Vado da maman. - dichiara senza distogliere da lui lo sguardo sprezzante.
E ad un suo gesto alle sorelle, tutte escono.
-Dottore, lasciamo gli sciacalli a sbranarsi fra loro - consiglia Rosalie in un bisbiglio.
Sì, penso, meglio che sfoghino tra di loro i veleni.
Mi guardo intorno pensando a dove potrà mai essere andato il generale. La decisione può essere e sarà solo sua, anche se capisco i loro timori in vista della reazione della Corona.
Vedo la mano di Rosalie passarmi un piatto.
- Qualcosa di dolce per addolcire la giornata? - propone - Una delle otto torte quotidiane di Nanny?
Sorrido amaramente al ricordo: “Antipasti misti,almeno quattro portate di primi piatti freddi, due caldi, due arrosti in forno, uno stufato, tre tipi di contorno e otto torte. È sempre previdente, madame.”
Dal salone si odono voci alterate: i generi hanno iniziato la lotta per la successione.
- Meglio uscire a prendere un po’d'aria. - mi invita Rosalie.
Ci sediamo sul bordo della fontana, in silenzio, coi nostri piattini in mano e nessun desiderio di addolcire il palato né altro in questa giornata.
- Una volta finii dentro questa fontana, sapete? - confida all'improvviso Rosalie - Madamigella Oscar mi stava impartendo lezioni di scherma, ma io ero troppo goffa, sgraziata e lei mi innervosiva… Mi confondeva. Per la prima volta avevo qualcuno che si occupava di me, qualcuno che non fosse mia madre. Avevo cibo, bei vestiti, una bella casa. Vivevo senza l'assillo di dover sopravvivere alla giornata. Io le devo tutto, la mia vita, la mia anima perché senza di lei mi sarei persa nel desiderio di vendetta.  È stata il mio primo amore romantico, il mio cavaliere scintillante, il mio eroe. Come poteva non esserlo? .   E poi c'era André. Con lui ho capito che la signorilità non si eredita, ma è qualcosa di innato. Come la sua pacatezza, la sua ironia, il suo ottimismo. - la sento sorridere - Sì, nonostante tutto, credo fosse un grande ottimista. Era anche un bravo ballerino e un insegnante severo  … E l'amava e non ci sarebbe stata speranza per nessun altro, tantomeno per una sciocca ragazzina confusa.
La vedo martoriare la torta con la forchetta, odo la voce incrinarsi.
- Non riesco a credere che non ci siano più.
- È il vostro cuore che non ascolta ragione, Rosalie.




13 luglio 1789

Le dita percorrono il legno chiaro, nervose, incoerenti nei loro movimenti. Scattano improvvisamente avanti, si protendono nel vuoto, verso di quello che resta di lui, ed altrettanto improvvisamente tornano a stringere il bordo della cassa.
Borbotta parole incomprensibili, tra i singhiozzi, e ripete “no”, come un tuono che parte da lontano, ed esplode “nonononooo!!!”.
E allora grida e picchia il legno, e crolla sulle ginocchia, sul pavimento di questa chiesa.
Poi tace. Di colpo. Ed è lì che più temo per la sua salute. È qualcosa che ho già vissuto in prima persona. So cosa sta passando: lo vedo nel suo sguardo fisso e vacuo, nelle sue pupille dilatate; i capelli appiccicosi sulla fronte sudata per questa giornata torrida, neri per la fuliggine della polvere da sparo e adesi alle guance salate di lacrime.
Ti manca l'aria, Oscar, vero? Ti manca il cuore, ti manca lui? Perché lui era il tuo stesso respiro, il tuo stesso battito, ed ora è solo carne in cui una volta scorreva sangue.
Ed è solo l'inizio.
Quel dolore che ti stringe lo stomaco, quel masso sul petto, quella morsa alla gola, si attueneranno solo per tornare più violenti a tormentati quando meno te lo aspetti.
So cosa provi, Oscar, e non posso fare nulla per te. Stai per scoprire se la follia prenderà possesso della tua mente, o se sarai forte abbastanza da sopravvivere.
Sopravvivere, Oscar, perché la vita, quella vera, è già perduta, lasciata in quella piazza dove lui ha esalato l'ultimo respiro portandosi via il tuo.
Ed ogni giorno, ogni istante, sarà solo sopravvivenza. Niente altro, niente di più.
Io mi sentivo in colpa perché appena sveglio, per pochi istanti, non pensavo a lei che non c'era più. Per quei pochi istanti mi sentivo ancora sereno, come se la cosa più devastante per me non fosse mai accaduta. Ma il resto del giorno dovevo farci i conti e lì era la follia.
Ti siedi, Oscar, di spalle alla bara, contro di questa; quasi come cera di una candela ti sciogli.
Improvvisamente ti sei quietata. So perché. Hai appena realizzato che il tuo sopravvivere durerà poco: la tisi che morde i tuoi polmoni è ad uno stadio avanzato e sarà una terribile, dolorosa, ma breve agonia. E questa è la tua sola consolazione.

Esco dalla chiesa dove sono stati radunati i corpi dei parigini morti in questi giorni negli scontri: la lascio a pregare, a piangere, a dolersi; la lascio sola con lui, perché gli dica finalmente tutto ciò che mai gli ha detto, anche se è tardi, anche se lui non potrà rispondere, sebbene, ora ne sono intimamente certo, può ascoltare e ne sarà felice.
Cammino fino al lungosenna. Esausto mi appoggio al muretto e mi perdo a osservare l'acqua scorrere imperturbata.
Arrivano deboli i bagliori dei falò accesi lungo le barricate, il chiacchierare sommesso limitato al necessario di uomini e donne esausti, tesi al pensiero di cosa accadrà domani.
Ho creduto che non avrebbe più smesso di gridare il suo nome.
Nella mia vita, ho assistito a tanti decessi ed al dolore che ne conseguiva. Io stesso sono stato sull'orlo della disperazione senza ritorno.
Ma lei …Dio, lei mi ha straziato.
Quando hanno cercato di spostare il corpo dalla piazza, ce lo ha dapprima impedito. Poi ci ha seguito, persa. Solo l'ombra della guerriera infrangibile che ha sempre cercato di ostentare, solo un'anima a metà, fragile e sperduta come una bimba.
 Non ha voluto allontanarsi durante la composizione del cadavere, durante le pietose e stomachevoli operazioni.
“È ancora caldo… non è possibile… si sveglierà… sta solo dormendo… . “, bisbigliava a sé stessa mentre il corpo di André veniva lavato con alcool canforato e cosparso di oli odorosi prima di essere rivestito e deposto in una cassa.
Negare … Negare è il solo modo di resistere alla follia. Ma la verità è come l'acqua: trova sempre il modo di arrivare in superficie e travolgerti.




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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


8 inwvitabile follia


Palazzo Jarjayes, estate 1775

- Date l'impressione di aver bisogno di un buon caffè, signore. - esterna finalmente madame Alexandra alludendo certamente alla mia aria assonnata; lo fa vincendo la buona educazione che avrebbe consigliato discrezione. D’altronde,  la sto ancora fissando in silenzio, in modo altrettanto, sebbene non volutamente, impertinente. Siamo soli nel corridoio di palazzo Jarjayes, qui fuori dalla porta di madame Marguerite.
Inspiegabilmente, trovo la sua sfacciataggine innocente e adorabile.
- Sì, mostrate di aver necessità di un caffè forte, dottore. - ride del mio imbarazzo, ma non di me. Si drizza un poco sulla gruccia, nasconde a malapena un espressione di stanco e irritato dolore. - André potete occuparvi voi del nostro ospite? - chiede al giovane uomo che ci sta raggiungendo -  Vi farei volentieri compagnia io, dottore, ma ho bisogno di stendermi un po’. - e già si volge zoppicante verso la sua stanza
- Certamente, madame Alexandra. - assicura André con la sua voce cristallina e sicura - Prego dottore.
 Vorrei offrire aiuto alla dama, ma i miei tempi di reazione sono molto lenti stamane e lei si è già dileguata.
- È una donna coraggiosa - afferma André mentre scendiamo le scale.  Perspicace come sempre deve aver notato il mio sguardo colpito.
- Come tutte le Jarjayes suppongo - rilancio in perspicacia, proprio mentre vediamo Oscar attraversare l’atrio sotto di noi seguita dalla stessa ragazzina bionda che ho scorto al mio arrivo, che nel frattempo si è cambiata i vecchi abiti ed esibisce un aspetto più decoroso e consono a questo luogo.
- Già - mormora André, riuscendo a chiudere in una sola sillaba l'universo di emozioni che cela la sua anima.
- Un incidente, immagino. - aggiungo deviando la sua attenzione e tornando alla misteriosa cugina.
- Più o meno - esita André. Intuisco una storia complicata dietro quelle parole e rispetto il suo riserbo.
- Ordunque,  se madame avesse bisogno di me, col consenso del marito, ovviamente … - mi offro ostentando compostezza.
- Ah, per quello, non c'è più il problema! - risponde istintivamente e colgo una espressione sollevata e soddisfatta del tutto inappropriata. - Oh, intendo che ora si occupa il signor generale del benessere della cugina e che apprezzerà certamente il vostro aiuto. - si appresta a riparare.
Restiamo in silenzio imbarazzato per qualche istante.
- Vi redigo una lista dei medicamenti per madame.
- Andrò subito a prenderli, dottore.
- Stai per caso spettegolando, André? - domanda la governante giunta di soppiatto alle nostre spalle.
Il nipote mi fa accomodare al tavolo del luminoso salone e comincio a scrivere la mia prescrizione.
- No, nonna, non mi permetterei mai - le replica nascondendo con ironia i propri pensieri.
Non l'ho mai dato a vedere, ma adoro il modo comprensivo e adulto in cui André, sin da fanciullo, ha sempre replicato a sua nonna, calmierando gli eccessi d'ansia a volte un poco teatrali della brava donna.
- Chiedevate di madame Alexandra? - si intromette Nanny - Povera donna che destino il suo. - commenta perdendosi con lo sguardo in un punto indefinito sul pavimento, le mani intrecciate sul ventre, il capo dondolante, sconsolata.
- È vedova, credo d'aver capito, da molto? - chiedo cercando d'utilizzare un tono serio e apparentemente disinteressato mentre con la piuma redigo la prescrizione per André.
- Mai troppo presto! … Che Dio mi perdoni… - si corregge giungendo le mani ed alzando gli occhi al cielo.
- Mi è stato accennato ad un incidente… - la incalzo celando la mia curiosità, concentrato sul lieve scricchiolio della piuma sulla carta intestata.
- Se così vogliamo chiamare quell’atto… Due anni fa, il marito, un poco di buono voluto da suo padre… bè, era sempre stato manesco, ma le fece davvero male. - bisbiglia come se fosse in un confessionale - La spinse giù dalle scale e le ruppe una gamba che continua a darle problemi ed ha quasi perso un occhio per uno schiaffone. Vede poco di lato, povera madame.
Sto cominciando a farmi un'idea dei suoi problemi di salute ed anche a ribollire di rabbia per ciò che ha subito. Fin troppi di questi esseri immondi ho conosciuto, dal più povero stalliere al più ricco commerciante, al più importante statista. Uomini violenti e sadici ne ho incontrati anche dove mai mi sarei aspettato e odio tutti loro indistintamente, che in pochi istanti distruggono vite, recano danni fisici e mentali, spesso per puro divertimento e poi chiamano me, il dottore, come se io fossi un riparatore di marionette e bambole. Come se donne e bambine da loro abusate fossero pupazzi con i quali giocare, da poter spezzare e poi riparare, bene o male, o gettare via.
- Per fortuna è intervenuto il signore generale, dopo che suo zio è morto. - racconta Nanny - Il buono a nulla di suo cugino non ha mai avuto a cuore la sorella ed il padre, finchè era in vita … meglio non parlarne. Il generale, tramite la sua influenza, ha ottenuto che il disgraziato venisse internato in manicomio, giù al sud dove abitavano. Quando dopo poche settimane è stato trovato impiccato ha fatto venire qui madame Alexandra. Purtoppo il fratello gestisce ancora i suoi averi, ma almeno lei è qui, al sicuro con tutti noi. Il generale non vuole nemmeno che porti il lutto, dice che quella bestia che l'ha ridotta così non lo merita. Se poteste fare qualcosa per lei, dottore...
Annuisco, sebbene già sappia di non potere abbastanza.
Ciò che mi meraviglia è l’atteggiamento del generale. Per come lo conosco, non è certo violento di natura, ma neppure estraneo alla violenza.
Violento è l’esercito, violento è il potere, violento è l’essere umano. E Francois Augustine Reynier de Jarjayes non è certamente avulso da tutte queste condizioni. In pubblico si mostra integerrimo, in famiglia severo e rigoroso,  coerentemente con ciò che ci si aspetta dal suo ruolo di alto ufficiale e di importante capofamiglia, ma mai leva la mano sulle donne, tantomeno le sue.
Tranne una. Tranne lei.

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


9 inevitabile follia  


Arras, estate 1775

Ho accolto il loro invito.
Su due piedi, nessun altro indugio. Ho scelto di allontanarmi da Versailles per un periodo di vacanza, via dai miei impegni, dai miei pazienti, dalla appiccicosa Cocodans .
Madame Marguerite sta diligentemente osservando le mie raccomandazioni riguardo il riposo dopo il suo malore e, con l'avvicinarsi del caldo estivo ha deciso di spostarsi nella proprietà di Arras.
- Perché non venite anche voi dottore? - ha inaspettatamente proposto la cugina Alexandra cogliendomi di sorpresa, fissando il suo impertinente sguardo nel mio come la prima volta alcune settimane fa.
- Buona idea. - ha prontamente appoggiato Oscar - Io vi accompagnerò, ma non potrò restare... Non ora che Sua Maestà, la Regina, mi ha riammesso in servizio. - ammette -  Sarei molto più tranquilla se sapessi mia madre in vostra compagnia, dottore.
- Non so… - ho tentennato, con poca convinzione - Ho i miei pazienti, l’impegno con la Famiglia Reale…
- Le Loro Maestà godono di buona salute e di decine di medici a disposizione: nonostante voi siate indubbiamente il migliore, sono certa vi potranno scusare per qualche settimana. Dottor Lassonne, perdonate questo mio egoismo, ma davvero mi sentirei più tranquilla sapendovi là con maman. - ha aggiunto  infine, con tono inquieto.
Da quando Maria Antonietta a lei affidata è diventata regina, è tutto molto più gravoso per Oscar; i suoi compiti sono aumentati e tutte le attenzioni che convergono su Maria Antonietta, ora, di riflesso, sono anche su di lei.
Ma, sebbene abbia a cuore il benessere di Madame Marguerite ed i desideri di sua figlia, è molto più egoista il motivo che mi ha spinto ad accettare; un motivo che insiste a fissarmi, con le labbra piegate in un sorriso appena accennato, sfacciato e provocante.
E così, ieri  mi sono ritrovato a viaggiare con le due gentildonne nella lussuosa berlina per i lunghi spostamenti della famiglia Jarjayes. Con noi anche la piccola Rosalie, la fanciulla che Oscar ha deciso di prendere sotto la propria protezione e che, come confidatomi in riservatezza, verrà presentata come una lontana cugina. Oscar e André ci hanno preceduti a cavallo, scalpitanti ed inquieti quanto i loro destrieri, quanto la loro gioventù.
È stato un viaggio interminabile, con frequenti soste per sgranchirci e nonostante ciò, per madame Alexandra è stato un calvario. Cerca di non darlo a vedere, stringe i denti, respira profondamente, artigliandosi la gamba offesa, ma la frattura che suppongo essersi malamente saldata, immagino debba causarle davvero molto dolore.
Quando siamo arrivati, era già buio da ore. Ero sceso per primo ed avevo quindi offerto la mano a Marguerite prima ed a sua cugina poi. Madame Alexandra ebbe un cedimento nello scendere che la spinse ad aggrapparsi alle mie spalle per ritrarsi dopo pochi istanti, irritata forse più con sè stessa, per la propria debolezza.
- Ho solo bisogno di stendermi - aveva chiarito seccata, con lo spirito di colei che non accetta la situazione.
Un valletto si era quindi avvicinato e lei gli aveva permesso di sollevarla, prendendola in braccio per essere portata nella sua stanza.
In fondo, se fatto da un servo, non ha nulla di personale.
Alexandra … E’ così minuta. Penso a cosa deve aver patito, a quale incubo possa essere stato il suo matrimonio. Mi trovo a chiedermi se un giorno troverà sufficiente entusiasmo per cominciare a vivere pienamente. Mi sorprendo a desiderare che accada. Sì, vorrei che accadesse e vorrei essere accanto a lei quel giorno.

Si è fatta mattina e la grande casa è ancora silenziosa, a parte il via vai della servitù. Fuori, la quiete totale della campagna trasforma i minuti d'attesa in ore.
Odo finalmente il rumore di una porta aprirsi al piano superiore.
Alzo speranzoso lo sguardo alla cima delle scale, ma non è lei.
- Dottore, già in piedi? - mi domanda retoricamente Oscar, scendendo con passo allegro la scalinata.
Incrocio le mani dietro la schiena.
- Troppo silenzio. Non sono abituato a tanta quiete.
- Oh, vi ci abituerete e magari vi mancherà quando tornerete a Versailles. - conclude sorridendo.
Annuisco, distratto.
- Gli altri non si alzeranno tanto presto - mormora la mia ospite dopo avermi scrutato. Ed il mio spirito colpevole, si convince che per altri intenda la cugina.
- Oh ecco… Avrei desiderato conoscere le condizioni di madame Alexandra.  Era molto pallida ieri sera…
- È stato un viaggio faticoso e mia cugina é più cagionevole da quando… dall'incidente. - aggiunge vaga.
- Sono a conoscenza della disgrazia, non c'è necessità che….
- Sono fatti che non amiamo ricordare.
- Capisco.
- Ma sono certa starà bene dopo aver riposato e vi chiederà consiglio. Con voi qui, starà ancora meglio. Entrambe staranno meglio. - afferma riacquistando un composto sorriso - Ah ecco André!
- Buongiorno Oscar! Dottore… - ci saluta con un leggero inchino - È tutto pronto, quando vuoi andare… - la informa.
- Perché non si accompagna a noi, dottore? - mi invita Oscar - Una bella passeggiata fino alla cima della collina di Arras. - aggiunge col tono di una lusinga e l’espressione di un bimbo goloso mentre descrive la vetrina di una pasticceria - Con André ci vado ogni volta che veniamo qui. Se le sembra tranquillo questo luogo, si stupirà una volta lassù. Arriveremo a cavallo fino ad una certa altezza e poi continueremo a piedi. Le piacerà. La colazione ha molto più sapore all'aria aperta.
- Non vorrei disturbare…
- Oh, dottore, dopo due bicchieri André diventa di una noia mortale! Si unisca a noi, la prego…
Sorridenti aspettano la mia replica.
Ed accetto: la campagna non ha mai avuto molte attrattive per me e non riuscendo a dormire fino a tardi, qui solo… Che noia. Provvidenzialmente sono già in tenuta sportiva, indosso anche stivali da caccia sebbene non abbia mai premuto un grilletto in vita mia. D’altronde non pretendo che l’abito faccia il monaco: mi basta confondermi un po’ in questo clima così rurale.

Non riesco a comprendere l'entusiasmo di Oscar per tutto questo… verde.
Lungo il tragitto, non ha fatto che indicarmi le varie coltivazioni della loro tenuta: le vigne, i meleti, il bosco di noccioli e quello di castagni. Sì, bello, tutto molto bello, madamigella Oscar.

Lasciamo i cavalli sotto un gruppo di ciliegi ancora privi di frutti e a piedi ci avventuriamo sul pendio che, ad ogni passo, diventa sempre più ripido e roccioso. Non è una vera scalata, ma in alcuni punti devo aiutarmi con le mani per non scivolare.
Loro sono di casa: credo abbiano percorso questo cammino molte e molte volte. Ha tutta l'aria di una tradizione, un rito. E finalmente arriviamo sulla cima della collina. Ai nostri piedi, da un lato la cittadina, dall'altro la sterminata piana della Normandia. Ammetto che è un panorama notevole: mi fa sentire piccolo e, allo stesso tempo, parte dell’immenso.
- Guardi! Si vede tutta la campagna francese da qui e, in giornate terse, all'orizzonte si scorge l’alone blu della costa. Se chiude gli occhi e si rilassa, può anche sentire il profumo di sale nella brezza. È un luogo che sa di pace, di infinito. Ci riposerei in eterno quassù.
La guardo socchiudere gli occhi. Com'è diversa dal rigido ufficiale che si muove silenzioso per la reggia. I due volti di Oscar. Ma non c'è nulla di dispregiativo in questo mio pensiero, niente che riferisca a doppiezza d'animo.
A volte mi domando “e se invece…”.
Se il generale non avesse fatto quella scelta vent'anni fa, se lei non avesse fatto la sua.
Penso che forse ora non avrebbe quest'aria serena, libera. Penso che non sarebbe così forte, volitiva. Penso ad Alexandra, penso che Oscar avrebbe potuto incorrere nello stesso destino. Penso che potrebbe essere lei fragile e minuta come un uccellino dalla zampa spezzata, logorata da anni di maltrattamenti.
Ma c'è un ma. Alexandra era sola, lontana, senza alcuno su cui contare. Senza un angelo custode. Per fortuna Oscar ha André.
Ed io penso troppo.
- Io non lo sento…
- Cosa?
- Il profumo di sale.
Ride.
Noto la stessa impertinenza nello sguardo, uno spirito vivo, guizzante come fiamme. Lo spirito indomito dei Jarjayes, che mi ha così colpito, attratto e temo già incatenato. In Oscar è più brillante e forte, più contenuto in sua cugina, ma sempre lì.
Sento André arrancare sul pendio.
- Siete certo di non volere aiuto?
- Non preoccupatevi, dottore, ho tutto sotto controllo! - esclama riprendendo l'equilibrio che per un istante lo aveva abbandonato.
Lo guardo posare la sacca voluminosa ai piedi di una grande e solitaria quercia, quassù chissà da quanto, e cominciare a disporre per la colazione al sacco. Riconosco molti piatti preparati dalla governante e non so come riusciremo a finire tutto questo ben di dio.
Eppure ce la facciamo. È proprio vero che l'appetito aumenta con l'aria buona. Ed è piacevole la loro compagnia. Oscar è scherzosa, racconta avventure della loro infanzia, della loro adolescenza, stuzzica André che si difende, e spiega, e ride e qualche volta ammette, ma…
Sorrido. Il mio pensiero torna a quel primo giorno, al primo incontro con loro bambini. Alla domanda che mi posi sulla loro amicizia. Se sarebbe sopravvissuta. Pare proprio di sì. Nonostante ciò che so, l'amicizia è salda. Forse perché André è bravo a nascondersi.

Siamo ormai sazi, anche di più. André si è appisolato sull'erba; il sole, già alto, gioca tra le fronde sul suo viso giovane e sereno.
- Che le dicevo? Non lo regge proprio il terzo bicchiere! A sua difesa devo ammettere che i cesti di Nanny non sono mai “leggeri”, in nessun senso. - scherza Oscar.
Si stende a sua volta, mani incrociate sotto la nuca e socchiude gli occhi.
- Già, è proprio un gran bel posto per riposare… - Il volto si fa serio - Dottore, secondo lei, com'è l'aldilà?
Il malore di sua madre deve avere innescato una serie di interrogativi. Succede sempre così. Traggo un profondo respiro: domanda breve per una risposta complessa.
- Vi confesso di non credere, Madamigella Oscar. Ho aperto così tanti cadaveri che erano solo corpi in cui una volta scorrevano sangue, aria, calore. Sono testimone di troppo dolore per credere in un'entità superiore e benevola.
- Capisco … Ma … Se ci fosse, come sarebbe il vostro?
Esito un poco. Da tanto evito di pormi simili interrogativi.
- Con le persone care, coi corpi sani, le menti serene. Ed il vostro?
Per qualche istante intorno a noi solo il silenzio totale, finché un russare improvviso proveniente da André, spezza la serietà, strappando un sorriso ad entrambi.
- Con André suppongo. Già, temo mi seguirebbe anche lì. - dice con una nota affettuosa in quel temo. - Ed immagino potrebbe assomigliare a questo posto, ad una giornata come questa. Ecco, questo potrebbe essere il paradiso: una bella giornata, un buon bicchiere di vino, una bella compagnia.
La guardo lì nell'erba, distesa a pochi passi da André. Lo stesso sole li carezza sulle palpebre chiuse,  la stessa erba li circonda delicatamente, lo stesso vento caldo li sfiora, ma …” la differenza”… Il muro invisibile è lì.
Un brivido di paura, inaspettato e fuori luogo vista la serenità del momento, mi coglie, come un triste presagio.









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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


10 inevitabile follia


Palazzo Jarjayes, Primavera 1774

Alla luce delle tante candele accese, scrivo velocemente i medicamenti occorrenti sulla mia fine carta intestata, firmo il tutto,  tampono accuratamente  l'inchiostro quindi porgo la prescrizione al generale.  
- Alcuni rimedi per i nervi della vostra governante,  signor generale.
Prende il foglio dalla mia mano e distrattamente lo scorre.
- Manderò subito qualcuno dallo speziale...  Grazie,  dottore.  La mia governante ha un gran temperamento, ma a volte si lascia troppo trasportare dalle emozioni.  - si giustifica.
- Generale, - esordisco vedendolo estraniarsi dal problema principale, ben più grave di una crisi emotiva non controllata - vostra figlia non é fuori pericolo: tutt'altro.
- Dottore, non serve che me lo ricordiate. Oscar é sempre stato molto irruento,  impulsivo e negli anni è incorso in diversi piccoli incidenti.  ... Ma non l'avevo mai visto in questo stato di debolezza. - Passa la mano sulla fronte come a voler scacciare qualcosa di fastidioso che comprendo essere un pensiero. - É stato un atto molto coraggioso, sono fiero di Oscar, ma … improvvisamente, temo che l'incarico  di proteggere sua altezza, la principessa Maria Antonietta,  possa essere troppo pericoloso per ... lei.
Non posso evitarmi di spalancare gli occhi stupito.  Davanti a me, per la prima volta, il generale si è rivolto ad Oscar parlandone al femminile e lo ha fatto per...  sottolinearne la presunta inadeguatezza.  
Prendo disgustato il mio ricettario per rimetterlo nella borsa deposta sulla sedia, ma è solo un modo per distrarre lo sguardo da quest’uomo ipocrita,  che dietro la preoccupazione per la salute della figlia nasconde un'ansia tutta personale.  Sì,  mentre riordino i miei ferri che alcun bisogno hanno di essere riordinati,  non posso evitare di notare l'egoismo del generale che, non so quanto consciamente, mette le mani in avanti: se Oscar fosse morta salvando la principessa da uno stupido incidente a cavallo, sarebbe stato solo perché  inadatta al ruolo assegnatole, solo perchè donna; questo è ciò che estraggo dal pensiero che ha appena espresso.
L'idea di lui che già immagina come alleggerirsi la coscienza in società mi fa ribollire il sangue.  In tutti questi anni durante i quali ho visto Oscar crescere, cambiare, evolvere, ho imparato ad apprezzarla per la persona che è,  non per l'uomo che il generale voleva fosse e che, dal mio punto di vista,  per fortuna non è riuscito ad ottenere.
- Col vostro permesso,  torno ad occuparmi della mia assistita - mormoro trattenendomi dall'esprimere pareri .
Lui neppure mi risponde, neppure dà aria di aver compreso le mie parole; ha lo sguardo perso, perso nel suo mondo nel quale non desidero addentrarmi. La mia sola preoccupazione è Oscar: ha perso molto sangue da quella ferita al braccio e non posso fare altro che attendere mattina sperando che il suo organismo ce la faccia da solo a superare questa notte che prevedo lunghissima.
Sulla porta della camera mi fermo.
André é lì, seduto accanto al letto della sua padrona; non si è staccato dal capezzale da quando Marie è stata accompagnata via riluttante, in lacrime, disperata e confusa.  Rimango nell'ombra del corridoio senza riuscire ad evitarmi di osservarlo: i gomiti sulle ginocchia,  le mani congiunte,  le labbra serrate contro le dita.  Non sta pregando, ma il momento ha un non so che di mistico che mi impedisce di profanarlo con la mia presenza.  E per fortuna non mi faccio avanti perché in quell'istante André si protende verso l'inferma mormorandone il nome.
 - Oscar...  - attende un istante quindi si protende ancor di più ed allunga le mani su quella inerme di lei abbandonata lungo il fianco.  - Oscar,  apri gli occhi...  - chiede in un sussurro . Infila la mano destra sotto quella di lei,  palmo contro palmo.  
- Apri gli occhi...  Ti prego. Tu non sei mai cambiata,  sei la stessa di quando giocavamo insieme da piccoli. - mormora con voce spezzata.
Traggo un profondo respiro, quindi chino il capo e, con due dita infilate sotto gli occhiali, fermo le maledette lacrime che nessuno deve vedere.
È vero, André, sei tu ad essere cambiato e riesci a vederti come ti vedo io: un giovane uomo che si sta innamorando

Mi schiarisco la gola per annunciare la mia presenza e mi avvicino per controllare Oscar.
André leva il contatto inopportuno e si raddrizza contro lo schienale. Sul suo volto leggo il dubbio, si domanda cosa posso avere udito.
Mentre esamino la paziente posso percepire il suo sguardo ansioso su di me.
- Il respiro è regolare ed anche la temperatura. - dico.
Lo vedo rilassarsi un poco, ma qualunque possibile scambio di parole viene interrotto dall’entrata del generale che prende posto accanto al letto.
Nessuno parla, ciascuno preso dai propri tormenti,  dai personali incubi. Tra noi solo il rumore della legna che arde nel camino.
In quel mentre mi accorgo di una macchia scura allargarsi sull'avambraccio di André.
- André, ma voi sanguinate! - esclamo.
Distrattamente il giovane guarda il gomito.
- Solo una sbucciatura, qualche graffio… per aver cercato di trattenere il cavallo - mormora.
Nella concitazione di quanto accaduto, nessuno ha pensato che anch'egli potesse avere riportato serie ferite.
- Lasciate che sia io a constatarne la superficialità. Venite con me.
Lo conduco fuori, nel salone del primo piano, dopo aver ordinato al mio assistente cosa procurarmi.
Si leva la giacca, che noto sdrucita in alcuni punti, così come il gilet, i pantaloni, la camicia… Gli stivali alti gli hanno provvidenzialmente protetto le ginocchia.
Una volta denudato il torso, posso rilevare i danni che ha nascosto a tutti.
Tampono i tagli sanguinanti, obbligandolo a strizzare gli occhi per il dolore, lo tasto in diversi punti del costato e delle braccia per verificare che non ci siano fratture, magari anche piccole.
- Alzate lo sguardo - ordino facendogli seguire con gli occhi il percorso a mezz'aria di una candela - Avete picchiato anche la testa, André?
- Un ruzzolone, dottore, nulla di più. - mormora minimizzando il fatto d'esser stato trascinato da un cavallo imbizzarrito.
La luce si riflette nelle sue lacrime, a stento trattenute dalle ciglia. I nostri sguardi si incrociano per un lungo istante, prima che egli lo distolga.
- È colpa mia…
- André...
- Non faccio altro che pensare di non essere all'altezza di Oscar. Lei è adulta, responsabile, ha impegni importanti ed è in quel letto per colpa mia, della mia leggerezza - ripete con voce spezzata.
- André…
- È così, dottore. Se fossi stato più attento al cavallo della principessa …
Qui tutti pensano al fardello sulle spalle di Oscar, ma non alle responsabilità che gravano su di lui.
- È stato un incidente, André. Gli incidenti capitano. Forse è altro che vi turba. - insinuo.
Mi guarda un poco irritato.
- Oscar è un uomo, dottore, un nobiluomo. - afferma a denti stretti. - e la nostra vita procede su due sponde diverse dello stesso fiume.
Già, penso. Gli stringo la spalla in una stretta di conforto.
- Tenete pulite le abrasioni e spalmate l'unguento che vi farò avere su tutti i lividi che fingete di non avere. Su quelli visibili, perlomeno…  - insisto.
Mi alzo dalla sedia davanti a lui, ma mi trattiene afferrandomi il braccio.
- Sopravviverà, dottore?
- Solo la notte può dircelo, André. - rispondo cauto.
Mestamente torniamo da Oscar che ignara dei tormenti per lei, giace immobile, come se dormisse un sonno profondo e privo di sogni.
Accanto a lei il generale, poi la madre, che alternano momenti di orgoglio e parole dolci di sostegno, ad altri di ansia, pessimismo e paura; infine restano solo André e Nanny che è voluta tornare dalla sua bambina dopo aver giurato a Jarjayes che si sarebbe comportata in modo regolato e dignitoso.
Passa il tempo ed anch'io fatico a tenere gli occhi aperti, ormai è quasi l'alba, ma non voglio andarmene. Non finché non ci sarà un cambiamento, in un modo o nell'altro.
Nanny è crollata già da ore e anche André ha posato la testa sulle braccia incrociate sul materasso.
Ed è in concomitanza del nuovo giorno che Oscar si sveglia.
Si muove appena, si guarda attorno, guarda André ed allunga una mano a sfiorarlo, destandolo.
Accorro e le prendo il polso proprio mentre Nanny si sveglia e di conseguenza tutta la casa tra le sue esclamazioni di lode a Dio ed ammissioni di felicità.
Ma, mentre procedo con le prime verifiche, non posso non udire le parole che Oscar, in un fil di voce, mormora ad André, nonostante il marasma creato dal giubilo della nonna.
- Ho sognato di noi bambini e tu mi chiamavi con voce tanto triste...
L'espressione di André, di gioia, lo sguardo di Oscar, di affetto infinito, mi fanno comprendere una cosa: che le rive di quel fiume potrebbero essere più vicine di quanto entrambi pensano.

***

Grazie a tutti ed auguri di un anno sereno!






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Capitolo 11
*** capitolo 11 ***


11 inevitabile follia
Gennaio 1788


Una finta neve scende oggi, pochi granelli ghiacciati che cadono veloci e, spinti da un vento nordico, come spilli pungono il volto, si incastrano nei baffi, intorpidiscono le labbra. Nulla a che vedere con i fiocchi soffici, grandi, leggiadri, che nelle sere d'inverno rischiarano il cielo nero e rasserenano lo spirito. Solo ghiaccio, gelido e tagliente.
Sono già trascorsi quasi due anni da quando se n'è andata e più di uno da quando sono stato elegantemente dispensato dai miei doveri a corte ed invitato a prendermi un periodo di riposo. Questo da Sua Maestà in persona, evidentemente allarmato dal mio stato di depressione, con tono che non ammetteva neppure un fiato in replica.
Lasciare Versailles definitivamente non mi è pesato. Vedevo Alexandra ovunque, nella nostra casa, nell'ambulatorio, per i corridoi della reggia.   Il periodo di aspettativa impostomi dalla Corona sta sortendo i suoi benefici, forzati effetti. Un poco come un galeotto mi sono rassegnato a portare i miei ceppi e quasi non ne avverto la costrizione.
Ho ripreso a tempo pieno l'università: le mie ricerche, i miei allievi, mi tengono la mente occupata, cosicché gli oscuri pensieri non tornino ad impadronirsi di me.
Fingo. Fingo che la vita abbia un senso, fingo che possa interessare se il sole sorgerà domani.
Non vaneggio più pubblicamente pensieri inquietanti, non vago più per casa come un folle in camicia e barba incolta come accadeva sotto Natale, quando le famiglie si riuniscono ed i vuoti lasciati sono lì a rinnovare il dolore. E tutto diventa più freddo attorno.
Curo la mia persona, abbellisco questo guscio vuoto, questa pelle svuotata della mia parte più viva, sostituita  da misera, arida paglia.
Un animale impagliato, ecco cosa sono.
La vita riprende un corso regolare, agli occhi degli altri se non altro. Regolare e monotona: casa università e di nuovo casa.
Mi stringo nel cappotto di pelliccia, il solo abbraccio caldo che mi concedo, ed esco dalla nostra casa di Parigi. … dalla sua casa, quella che ormai è solo mia. Vuota, triste, inutile. Come me.
- All'Università, dottore? - domanda come fa ogni giorno il mio cocchiere, forse sperando che lo sorprenda con un'altra destinazione.
- Sì, Louis, e sono in ritardo.
Salgo sulla piccola carrozza nera per gli spostamenti veloci in città. Fa veramente molto freddo, pochissime persone per la strada questa mattina. Le nevicate abbondanti hanno creato cumuli un po’ dovunque che restringono le vie e diventano delle infide piccole montagne di ghiaccio. E celano pericoli.
Un sobbalzo improvviso seguito da un colpo secco ci costringe a fermarci.
Louis scende a constatare i danni. Scuote il capo amareggiato.
- Devo chiamarle una vettura pubblica, dottore. Noi purtroppo non possiamo continuare: ha ceduto il mozzo; devo trovare un fabbro che lo ripari prima che si spezzi del tutto.
- Lasciate perdere, Louis, vado a piedi.
- No, dottore non è saggio. Non è una zona sicura! - esclama ansioso.
Lo ignoro, che è ciò che mi riesce meglio con chiunque e per qualunque cosa, e mi incammino.
Passo dopo passo, i miei piedi scricchiolano nella neve polverosa. E lo sento.
Di nuovo.
Lo scampanellio.
Come  quando lei, immobile nel letto, mi chiamava : “dindon, tesoro, è tardi!”, “Dindon, amore, qualcosa non va…”, “dindon dindon… ho tanta paura”...
Anch'io ne avevo, Alexandra… Te ne stavi andando e nulla potevo.
Scrollo le spalle, irritato con me stesso, cercando di riacquistare la ragione.
Ecco un altro scampanellio.
Infastidito svolto in un vicolo, come a voler sfuggire questi richiami.
Din don, din don…
Basta! Mi fermo di colpo, serro gli occhi. È nella mia testa, mi dico, solo nella mia testa.
Lei è morta! è fredda! è polvere!
Faccio per procedere dritto ed eccolo nuovamente, din don. Mi blocco, svolto in un altro vicolo, dindon… maledizione! Mi fermo, non riconosco la zona da tanto ho svoltato, mi sono perso. E ricomincia a nevicare fitto.
Din don din don… Mi blocco in questo vicolo deserto, lo sguardo nel vuoto, le lacrime che si mescolano ai fiocchi bianchi... Sei tu Sandrine? Sto impazzendo? O forse è il mio bisogno di sentirti vicino a me?
Mi scuoto, scrollo il capo, furente: rifiuto di ricaderci, di sperarci, e nemmeno dovrei definire speranza ciò che la ragione conosce perfettamente: è follia e nient'altro.
Din don din don… Mi fermo ancora, di colpo: mi gira la testa, il sangue pulsa, il cuore impazza. Forse è il freddo, mormora la ragione che tenta di procurarmi un'alternativa.
Di fronte a me l'insegna di una taverna ondeggia nel vento, sospesa a due catene cigolanti: “La bonne table”. Chissà, ma ha l'aria di non avere nulla di buono questo posto di infimo ordine.
Ma un bicchiere di vino speziato mi farà bene, mi riscalderà e forse mi riporterà ad oggi, alla vita che nonostante tutto deve continuare.

Entro oltrepassando la pesante e malmessa porta; lo scampanellio che odo, lo riconosco come reale.
Dentro tutto ha un aspetto unto, sporco, triste; perfino l'aria sa di vecchio e malsano. Eppure c'è di peggio, specie in questi tempi di miseria. Non sono il solo cliente, stranamente per quest'ora. L'oste mi riconosce come persona di riguardo e mi viene incontro profondendosi in salamelecchi. Mi fa accomodare ad un tavolo vicino al camino dopo aver dato una veloce e formale spolverata alla sedia.
Faccio la mia ordinazione che mi viene servita in pochi minuti. Non mi aspettavo tanta solerzia. Ed è anche profumato questo vino, probabilmente la riserva buona. Odore di garofano, cannella e frutta, pizzica la lingua ed è dolce. Il calore mi invade e mi sento bene.
Dall'altro capo della stanza, ad un tavolo in ombra, sta seduto un uomo che affoga i dispiaceri in solitudine. Alza appena la mano dal tavolo per chiedere che gli venga riempito nuovamente il boccale; una cameriera impegnata a riordinare, accorre. L'uomo mette mano alla sacchetta dei soldi che rovescia in quantità superiore al necessario. La ragazza, attirata dalla disponibilità economica dell’ avventore, gli si accomoda accanto, abbandonando la brocca del vino, e si propende a baciarlo sul collo, provocandolo. La reazione inaspettata, rumorosa e violenta di lui che la respinge, facendola quasi cadere dalla panca, la spaventa ed attira la mia attenzione.
- Ho detto che voglio solo bere! - biascica a voce alta - Bere, niente altro che bere… Non importa quanto starò male dopo...- ripete abbassando il tono. - Ci ho provato … - borbotta tra sé prendendo la mano della ragazza in una stretta che sa di scuse - Ci ho provato, ma non serve se il cuore è lontano… Nemmeno bere serve... - ammette lasciandola e tornando a concentrarsi sul boccale - Ma almeno dimentico per qualche ora...minuto… istante…
Tracanna un lungo sorso e poi, involontariamente, sbatte il boccale sul tavolo, quasi rovesciandolo, ormai i sensi intorpiditi.
Lo guardo meglio. Tiene la testa china, i capelli scuri calati a nascondere il volto, ma la voce mi è familiare.
Mi convinco ad avvicinarmi. Lui ormai è con la fronte alla tavola.
Lo osservo e con un certo orrore lo riconosco.
- André!? Siete voi? Di grazia, che vi è accaduto?
Lo scuoto. Egli solleva il capo, volgendo su di me lo sguardo, vago, perso, di quell'unico verde occhio privo di speranza.
- Dottore? … - mormora dopo qualche istante, avendo trovato la lucidità necessaria a riconoscere la mia persona - Che è accaduto? - ripete sorridendo amaramente, uno di quei sorrisi che confinano con la disperazione - Ho rovinato tutto… tutto…
- Da quanto siete qui, André?
Egli tenta di portare il boccale alle labbra, schiavo, ma glielo levo, allontanandoglielo. Si lamenta, ma non reagisce, troppo confuso per farlo.
- Un'ora, un giorno… che importa… Ho rovinato tutto… - ripete.
- È arrivato ieri sera… - mormora la cameriera che nel frattempo è tornata alle sue faccende. - Era talmente sbronzo che ha dormito qui, in un angolo sulla panca laggiù.
- Buon Dio… Ma Oscar sa  che siete qui a ridurvi in questo stato? - sbotto.
- Oscar?… Non devo più occuparmi di lei. - biascica.
- Che significa? - chiedo ancora, certo d'aver male inteso.

André, senza rispondere, torna a posare la fronte sul tavolo, come se fosse sul punto di perdere i sensi.
Allora decido. Chiedo all'oste di cercarmi una carrozza e quando questa arriva mi faccio aiutare a caricarlo.
- Non potete tornare a Versailles ridotto in questo modo. Non ce la fareste a reggervi a cavallo. E nel caso, vostra nonna ve la farebbe pagare - dico replicando alle sue deboli obiezioni.

In vettura si accascia contro il vetro freddo, nuvole di vapore dal suo alito opacizzano il finestrino; il folto ciuffo di capelli scuri che diventano ancora più scuri inumidendosi con la condensa, aderiscono al vetro; l'unico occhio, lucido, arrossato, perso a guardare il fioccare della neve, o forse il nulla.

Arriviamo al mio palazzo che fu del primo marito di Alexandra e che ne porta ancora il nome: palazzo Grimaldi.
La servitù incaricata della accoglienza,
accorre solerte e su mia richiesta lo conducono dentro, su, nelle camere riservate agli ospiti. Ordino al mio segretario di avvisare l'università che non avrei tenuto lezione e di recarsi alla locanda per recuperare il cavallo del nostro ospite. Quindi di inviare un messaggio a palazzo Jarjayes per informare che André si trovava presso di noi.
Mi volgo a guardare questo vecchio giovane amico. Cerco in lui tracce del bambino che fu e vi ritrovo solo l’infinita tristezza dell'orfano che conobbi allora.

André siede sul letto aiutato da un valletto, mentre cameriere gli levano stivali e giacca.
Si oppone, malamente, scoordinato come tutti gli ubriachi, ma lo riprendo immediatamente.
- Non potevate tornare dai Jarjayes in queste condizioni. - replico al suo bofonchiare.
- Non ho un posto ove tornare...
- Vostra nonna non sarebbe d'accordo.
- Non mi sento bene… - dice sbiancando improvvisamente.
Ad un mio gesto arriva il domestico col secchio.
Appena in tempo e ore ed ore di alcool cercano di ritornare sul loro cammino d'andata.
- Bevete! - ordino indicandogli una tazza fumante portata da una domestica.
- Cos'è!
- Solo latte caldo e miele.
- No, vi prego..  già solo l'odore mi fa rivoltare lo stomaco - dice portandosi una mano alla bocca
- L'intenzione è quella, mandare tutto giù o tutto su. - spiego indicandogli il catino -  Avete bevuto troppo, non potete tenerlo in corpo.
Come egli temeva, già solo ad avvicinare il bicchiere alle labbra, il vomito si scatena.
Distolgo lo sguardo. Vorrei poter dire di essere abituato a queste situazioni, ma non è vero.
Allontana il secchio da sé, porta la pezza che gli è stata offerta alle labbra.
- Scusate…
Scuoto il capo.
- Non dovete scusarvi per aver dato di stomaco, ma per esservi ridotto in questo stato. Che vi sta accadendo?
- È tutto perduto..
Penso alla sua visita dell'altra settimana.
“Dottore, sto diventando cieco”, aveva chiesto.
“No” avevo mentito consapevole di farlo.
- Non è sicuro che perderete la vista ed in ogni caso…
- Oscar ha detto che non dovrò più occuparmi di lei. - mi interrompe.
- Oh… bè, non potrete essere sempre con lei, ma continuerete ad essere amici, confidenti…
- Non vuole più vedermi - nuovamente mi ostacola.
- Non credo…
- Sono un mostro! - dichiara con un tono di voce esageratamente alto.
Respiro profondamente cercando di mantenermi calmo.
- Avete perduto l'occhio e forse, dico forse, diventerete cieco; ma ciò…
- Non è per quello. - sussurra.
Mi zittisco, non capisco.
- Un tempo vi dissi che lei ed io camminavano su due sponde dello stesso fiume… e mi bastava. Per molto tempo mi è bastato.
- Ohssignore André, che avete fatto?
Scoppia in lacrime.
- Ho rovinato tutto… tutto...

Alza il capo verso di me, senza dire altro.
Solo il suo occhio disperato parla e mi torna alla mente quella prima volta ad Arras, quando l'accompagnai, lei Alexandra, al villaggio, perché l'avrei accompagna ovunque, già preso nella rete. Andammo a far visita a quella povera famiglia dei loro fattori, i Sugane.
La moglie stava poco bene e da poco avevano rischiato di perdere il figlio più piccolo. Ovviamente ero rimasto colpito dalla povertà e, nonostante Oscar avesse provveduto a soccorrere il piccolo Gerard e rifornito la loro fattoria in modo che nulla potesse più obbligarli a scelte terribili, potevo vedere tutto attorno a loro la disperazione, oltre alle malattie dovute alla malnutrizione ed ai lavori usuranti.
“Ricordi di guardare negli occhi i suoi pazienti, dottore: vedrà molto più del dolore che raccontano o di quanto spiegherà la sua scienza” , mi disse Alexandra.

Fu così che capii che non sarebbe bastato l'aiuto economico di Oscar a guarire quelle persone, perché il male era già radicato nell'anima e sarebbe cresciuto concimato da stenti e delusioni.
Ed ora il male era nell'anima di André, non nella sua cecità incombente.
- Quella locanda non era posto per voi, André. Che sta succedendo? - mormoro.
- Non esiste posto per me al mondo. E di certo non a palazzo Jarjayes. Non ho più un lavoro e neppure speranza. … Un mostro… e lei...
Mi siedo accanto a lui sul letto.
- Dov'è Oscar ora?
- È andata in Normandia. Non vuole più che mi occupi di lei.
- Ditemi che non avete fatto ciò che temo…
Si guarda la mano sinistra come se vedesse qualcosa stretto nel pugno.
- Io ero accanto a lei per proteggerla ed invece… Mi sono fermato, ma… Non riesco a smettere di vedermi coi suoi occhi, col suo sguardo di quella sera. Ho visto il mostro che stavo diventando, come in uno specchio … Lo specchio degli occhi di lei.
Distende la mano lentamente, arreso, e la porta al cuore.
- Sì…Credevo di essere un uomo migliore, invece le ho dimostrato di essere una bestia come tante - conclude amaramente senza concedersi appello.
Lo guardo consumarsi nel rimorso per un gesto vile, indegno, e non lo riconosco.
Situazioni come questa sono un fallimento professionale, per me, che non ho dato peso ai sintomi del suo malessere ed un fallimento personale in quanto amico, che negli anni non è stato in grado di supportarlo; e benché mai detto sarebbe più appropriato ora di “medico, guarisci te stesso”, non posso ignorare il suo stato.

So che un medico non guarisce le ferite del cuore, non è suo compito mi dico, ma so anche che esse possono diventare una cancrena e come tale divorare dall'interno finché nulla resta della persona che eri.
- André, siete l'uomo che si è fermato. - riesco a dirgli, tentando di rincuorarlo - Magra consolazione lo so, ma già questo vi rende migliore. Siete voi che non riuscite a perdonarvi; sono certo che lei lo ha già fatto.

Non emette fiato, forse lo sa anche lui, ed è solo la vergogna a fargli pensare il contrario. Forse lo spera soltanto e teme di illudersi.
- Riposate ora, domani a mente fresca penserete a come rimediare.
Si stende, muto, docile. Non si contrastano gli ordini del dottore.
Al contatto con le coltri pulite e calde, lo sento sospirare di involontario sollievo.
E mi rilasso anch'io.

La neve ha smesso ancora di cadere, indecisa come noi, trasformandosi in pioggia.
La verità è come l'acqua, trova sempre il modo di risalire alla luce e lavare via il sozzume: aver confessato la sua colpa è un primo passo verso la redenzione, verso la pace interiore.
Ma la verità è anche che i sentimenti di André per Oscar sono irrealizzabili.
Solo un sogno, solo un bel sogno. Ed è doloroso scoprire che i propri sogni non si potranno avverare.
André deve smettere di coltivare questi folli pensieri, per il suo bene ed anche per quello di Oscar. È un amore che non potrà mai essere in questo mondo, mi urla la ragione, sebbene una parte di me, lo auspicherebbe.
Mi dico che è una fase . Presto capirà che questi sentimenti sono irrealizzabili e tornerà ad essere l'amico fedele sul quale Oscar ha sempre contato.
Me ne convinco mentre nel mio studio continuo il mio lavoro, concentrato sul nuovo testo di medicina che vorrei mandare alla stampa entro fine mese.
Da tanto concentrato non mi rendo realmente conto del passare del tempo ed è solo quando il maggiordomo viene a chiamarmi per la cena che alzo il capo. E c'è una novità.
- Come sarebbe a dire “andato”?
- La governante si è recata nella sua stanza per controllare che stesse bene e domandare se volesse cenare, ma non c'era più. Lo abbiamo cercato ma lo stalliere ha detto che ha preso il suo cavallo e se ne è andato. Ha lasciato detto di porgervi i suoi saluti e ringraziarvi.
Poso la piuma nel calamaio.
- Grazie, scenderò a cena tra un attimo. - dico congedandolo.
Mi alzo, guardo fuori il buio.
Spero che André sia tornato a palazzo Jarjayes e non in una bettola o a qualche altro genere di follia che gli permetta di starle vicino ad ogni costo.


Per anni sono rimasto a guardare questi due amici percorrere le rive del fiume, insieme e separati ad un tempo.
Ho atteso che i sentieri paralleli calpestati prima da  due bambini, poi da ragazzi,  quindi da adulti, si avvicinassero, che un ponte potesse congiungere ciò che le leggi umane mantenevano distante.
Sono diventato romantico con il tempo. E sognatore.
Vorrei qualcosa di “giusto”, vorrei un lieto fine diffuso attorno a me. Ma così non è.
La vita diventa sempre più feroce. Il senso di ingiustizia, il desiderio di resa, la voglia di farla finita mi impregnano.
E nella testa, i fantasmi sussurrano.


***

Perdonate la lentezza: il dottore ha tempi tutti suoi.
Avrà più senso una volta finita, leggendola in una volta sola. Spero.
Grazie ancora a chi segue.

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Capitolo 12
*** capitolo 12 ***


12 inevitabile follia

17 luglio 1789, palazzo Jarjayes

La pendola batte la mezzanotte e mi desto di soprassalto, il cuore martellante, la bocca secca.
La paura provata durante il cannoneggiamento mi assale, nel ricordo, e solo quando mi rendo conto di non essere più alla Bastiglia, tra la folla urlante ed il tuonare delle armi, mi calmo.
Nel buio appena spezzato dalla luce delle candele, carezzo il damasco di questa poltrona, la seta del ricamo, gli intarsi nel legno:  la pazienza, l'arte, l'amore trasmesso agli oggetti quotidiani che troppe volte non degnamo d'attenzione; e come le cose, così le persone.
Mi sono addormentato qui, nel salottino dell'atrio: un'anticamera, un passaggio; una sorta di purgatorio, lontano dal paradiso e dall'inferno e, come tale, luogo d'angoscia per il destino incerto che ci attende. I ricordi mi hanno accompagnato nel sonno: fantasmi immutabili, incancellabili, vaghi e reali ad un sol tempo.
Il silenzio si impossessa del palazzo alla fine dei dodici rintocchi.
Dalla sala da pranzo non si ode più alcuna discussione. A quanto pare, i generi si sono finalmente ritirati a riposare o, più probabilmente, a tramare in privato cose che, in base ai miei timori su ciò che credo stia per piombarci addosso, risulteranno piccolezze insignificanti e temporanee.
È notte fonda e la cappella, laggiù, nel buio del giardino, è stata chiusa, così come le porte e le finestre della dimora, ma la casa, in questa notte di lutto, non riposa.
Mi alzo, rigido, gli arti intorpiditi per la scomoda posizione in cui mi sono appisolato e vado in cerca di Rosalie.
Mi affaccio alle cucine dove, nonostante l'ora, si lavora alacremente per soddisfare adeguatamente le esigenze dei tanti parenti ospitati in casa e degli altri attesi per il giorno seguente. Lì è dove mi aspettavo di trovarla, perché la Rosalie che ho imparato a conoscere non ama stare con le mani in mano.
La cuoca mi si rivolge con un inchino: in camera di Nanny, mi dice.
Cameriere, sguattere, garzoni, a testa bassa, pregano mentre affettano, rimestano, impastano, riordinano. Li lascio ai loro doveri ed alla loro pietà e mi dirigo al pianterreno, nei quartieri riservati alla servitù dei signori, a quei domestici che davvero dirigono la magione più dello stesso generale, i più alti tra gli inferiori.
Entro, silenzioso, nella stanza della povera Marron, la quale, dopo una vita di lavoro e sacrifici, mettendo i Jarjayes sempre al primo posto, prima di sé stessa, prima del sangue del suo sangue, si ritrova senza più parenti in vita.
E lì trovo Rosalie: è crollata su un divanetto, esausta.
La mano abbandonata nel vuoto non è quella di una gentildonna. Lavora al mercato, fa le faccende. Ha rinunciato ad una vita agiata per non recare danno ad Oscar e solo chi non conosce il pesante costo della fatica quotidiana potrebbe considerare questo un piccolo sacrificio anziché un atto d'amore.
Improvvisamente, il pesante drappo che copre lo specchio accanto a me scivola a terra, come un'ombra tetra, putrida, repellente ed il mio stesso irriconoscibile riflesso mi spaventa.
Mi rendo conto di avere un aspetto orribile: la barba lunga, i  miei baffi sempre sottili e perfetti sono un pallido ricordo, gli occhi infossati; la parrucca c’è, ma è spettinata e gonfia di polvere. Non sono mai stato un Adone, ma ho sempre avuto cura della mia persona.
Sospiro evidentemente in modo più sonoro di quanto mi aspettassi, palesando la mia presenza.
- Dottore? - bisbiglia lei, che una vita fa conobbi come la vera padrona di palazzo Jarjayes, la mia prima paziente.
Mi avvicino all’inferma, scostando la tenda del baldacchino.
- Venite qui, dottore. Non sto dormendo e non sono morta …  Purtroppo, anche se credo non manchi molto: non sento più la vita - mormora lamentosa.
- Non dite così … - la rimprovero bonariamente - Come va la schiena? - Aggiungo per distrarla e perché voglio farmi male ancora una volta, forse l'ultima.
Ma Nanny non ribatte, cosa mai accaduta prima e capisco che si sta davvero spegnendo, rapidamente e senza possibilità di recupero. Tutti noi abituati a vederla sempre uguale, non ci siamo resi conto di quanto sia smagrita e pallida e curva e vecchia. È come se questa tragedia fosse l'ultima sferzata sulle spalle di una donna ormai vinta.
Un lungo e pesante silenzio tra noi, quindi la domanda che prima o poi, in queste situazioni,  tutti si fanno.
- Secondo lei, hanno sofferto, dottore?
Vorrei mentire senza vergogna, come spesso mi sono costretto a fare; dire che se ne sono andati serenamente, senza dolore, senza paure, senza rimpianti, ma non ci riesco e così mento attraverso una verità di cui sono certo.
- Solo per il tempo che non hanno trascorso insieme. - affermo.
Annuisce, condividendo il mio pensiero, trattenendo le lacrime.
- Crede che ci stiano guardando? Che sono qui con noi? Io penso di sì. E sono insieme, di questo sono certa.
È una certezza che vorrei sentire anch'io, almeno per provare sollievo dalla fatica di sopravvivere.
Dall'ombra, il sonno di Rosalie si fa improvvisamente agitato; ancora addormentata, mormora parole incomprensibili, spaventata, in pianto, per tornare poi in un riposo profondo, immobile, dopo poco.
Sono le ferite del cuore che rendono inquieti: bruciano, nell'inconscio, nello spirito, nel profondo; è quella parte che non mostri in pubblico affinché gli altri non vedano il tuo lato debole e possano infierire. Il dolore di queste ferite è ciò che resta, ma anche l'inizio della guarigione.
- Dottore, mi faccia una cortesia…     Mi passi quel gilet appoggiato sul tavolino… Glielo dovevo riparare - spiega e non c'è bisogno di specificare di chi fosse.
L'accontento  porgendoglielo con rispetto e lei con delicatezza lo prende, carezzando il tessuto come fosse la guancia del suo nipotino perduto. Un singhiozzo, poi si riprende: perché deve, perché lo ha sempre fatto per tutta la vita; perché se si dovesse arrendere, sarebbe perduta; e perché la sua forza è tutto ciò che le rimane.
- Dottore… per favore, apra quel baule laggiù, ma senza svegliare Rosalie, povera piccola. - mi ordina.
Vado a sollevare il pesante coperchio indicatomi; nemmeno mi ha sfiorato la mente la possibilità di rifiutare: Nanny fa questo effetto.
Nonostante la poca luce, una nube bianca, accecante come neve sotto il sole mi appare. Pizzi e seta, nastri di velluto turchese e ricami dorati.
- Me lo porti, sia gentile…
Obbedisco, lottando contro il volume che inaspettatamente si moltiplica tra le mie braccia una volta levato dal contenitore.
- L'ho cucito io stessa molti anni fa, quando per poco ho avuto speranza che il mio signore si attenesse all'evidenza, che la vita potesse riprendere il percorso naturale, per lei… e anche per lui… - mormora riferita ai suoi ragazzi.
Le depongo in grembo l'abito da sera e Nanny socchiude gli occhi piccoli, privi dei suoi abituali occhialini tondi, respirando come se sentisse ancora il loro profumo, di André, di Oscar, sebbene io sappia che ella indossò quell'abito un'unica volta, ormai adulta, sebbene per certi versi ancora fanciulla.
Era stato preparato da Nanny per una ragazzina che, in barba ai desideri del generale, la biologia aveva reso inequivocabilmente  femmina.
Anche allora mi ero trovato coinvolto in quel bizzarro dramma familiare, per un fatto che in qualunque altra famiglia sarebbe stato visto con benevolenza, se non addirittura con gioia: una giovane che diventava donna. Ma non a palazzo Jarjayes.
“Ohsssí! Finalmente! Madamigella madamigella madamigella! “ , aveva esclamato Nanny come un vulcano che finalmente erutta, le mani tozze strette a pugno come i  bimbi capricciosi. “Non è con le bugie che si plasma la verità, signor generale!” Aveva seguitato.
 “ Finalmente posso chiamarla Madamigella senza dover essere ripresa!”
“Hai finito?”, si era limitato a dire il padrone, per nulla sorpreso dall’isteria della sua governante.
“Madamigella madamigella madamigella!”, aveva replicato lei piccata, pur di ottenere l'ultima parola.
Jarjayes non aveva trattenuto una piccola smorfia divertita. Da un lato l'atteggiamento della sua governante lo irritava, innervosiva, oltraggiava; dall'altro si sentiva soddisfatto da quel lato battagliero che, impavidamente,  gli teneva testa. E quel che stava accadendo a suo figlio, scelto come tale,  come maschio, come erede, pareva, ma solo pareva, non preoccuparlo. Non tentennava davanti agli attacchi della governante, si mostrava sicuro che l'educazione impartita avrebbe compensato il ... difetto di nascita.
E poi c'era André, immobile, silenzioso, turbato.
“Ci saranno giorni in cui sarà più irritabile.”,  lo avvisai mentre gli altri impegnati a sfidarsi non badavano a noi.
“Oscar è sempre irritabile.”, aveva minimizzato il ragazzino, lo sguardo fisso sulla porta chiusa di Oscar.
“Di più.”
Non replicò, anche se avrebbe potuto. Aveva paura di perdere il suo unico amico. Temeva che quella promessa fattagli anni prima venisse infranta e lui sarebbe tornato a sentirsi solo.
Lo vidi stringere il frustino che teneva tra le mani. Oscar era il suo mondo e si rendeva improvvisamente conto che finora era stato tutto provvisorio, incerto, fasullo.
Nanny gli ripeté che avrebbe dovuto chiamarti madamigella Oscar e trattarti con riguardo e stavolta egli non riuscí a ribattere.
Il mio ricordo sfuma sul suo viso ansioso, mentre rammento chiaramente gli occhi verdi, grandi, lucidi.

Non ero rimasto sorpreso da tanto scalpore. Da sempre attendevo quel momento con una certa curiosità: come avrebbero gestito i Jarjayes la questione? Ed io ero stato la risposta.
“Dottore, mi aspetto che spieghiate ogni cosa ad Oscar... e lo facciate ragionare.”,  mi richiamò Jarjayes.
Avevo annuito poco convinto. D'altronde era inutile affrontare l'argomento, sempre il solito, col generale.
Aveva sempre rifiutato l'evidenza. Da tempo lo avevo avvisato, affermando che Oscar avrebbe incontrato problemi crescendo, che non era troppo tardi per rimettere le cose nell'ordine naturale, che negare sé stessa le avrebbe creato solo confusione e che, anche se forte e determinata, ciò l'avrebbe logorata. Aveva replicato dicendosi certo che Oscar sarebbe stata in grado di affrontare tutto, che un giorno gliene sarebbe stata pure riconoscente. Naturalmente, declinò la frase al maschile.
Non credo si rendesse conto di quanto invece sarebbe stato alto il prezzo.
Ma Oscar era il suo erede, con nome maschile, con destino maschile. Tutto il resto, erano sciocchezze per Jaryaies.
Avevo così aperto quella porta, dietro la quale Oscar si era rifugiata in solitudine.
E lo avevo fatto più per mia curiosità, piuttosto che per accontentare il generale.
Ero entrato nella sua camera, trovandola rannicchiata sul letto, seduta sui cuscini, poggiata alla testiera. Lo sguardo fisso.
“Se avete delle domande…”, avevo esordito dopo istanti interminabili di silenzio, conscio che Nanny aveva sicuramente confuso a sufficienza la mente di Oscar con consigli più o meno campati per aria, un po’di folklore, alcuni sentito dire ed un briciolo di terrore.
“Se avete dubbi, perplessità sul  … ”
“Quindi sono una ragazza? Sono davvero una ragazza?” Aveva mormorato.
Sapevo che non si trattava di una vera interrogazione: Nanny si era sempre testardamente rivolta a lei chiamandola madamigella, irritando il generale.
Oscar non era stupida, né ignorante, e neppure ingenua: i libri di biologia e medicina abbondavano in biblioteca e, per quanto la sua esistenza fosse piuttosto isolata, per certi versi protetta, la vita scorreva anche a palazzo Jarjayes.
Ma ora era il punto di non ritorno. Il suo corpo sanciva chiaramente che la riteneva pronta a dare la vita e non la morte come da sempre era stata preparata a fare.
Non basta sperare che qualcosa non accada affinché non avvenga, eppure pareva che qualcuno ci contasse.
Il silenzio fu la risposta che si attendeva da me.
“Lasciatemi sola, dottore”
L’accontentai.
Il generale sbuffò perplesso vedendo che pure io ero stato velocemente allontanato e se ne andò, scuotendo il capo.

Ma mentre noi stavamo lì preoccupati, la porta si era aperta e Oscar, vestita di tutto punto, si era affacciata.
“ Preparati André, usciamo a cavallo.”, gli aveva ordinato sottraendogli il frustino dalle mani.
Nanny si lamentò, invitandola a riguardarsi ed ella semplicemente la ignorò, volgendo invece il suo sguardo a me.
“Il mio corpo deve rassegnarsi, dottore: vincerò io.”
Questa era madamigella Oscar.  La vita per lei o era bianco o era nero. Una continua sfida, da vincere o perdere. Nessuna mezza misura.
Oh, madamigella Oscar, vivere è un compromesso! Una tregua, una mediazione tra ciò che vorresti essere, ciò che puoi essere, quel che vorresti fare quel che ti è permesso fare. Se fai un passo avanti, qualcosa ti tira di lato e devi essere grato se non finisci a terra.
La vita è una tavolozza di colori, ora vivaci e caldi, ora lugubri e freddi, e tocca a te ritoccare col pennello quelli più neri.

- Stanno parlando male del mio André vero? - domanda improvvisamente Nanny - Alcune sorelle di Oscar mi guardano con affetto, altre solo come una noiosa vecchia pazza, dimenticando con quanta dedizione le ho allevate…
Torno alla realtà. Quella più nera, ormai impossibile da colorare.
- Non dovete fare caso a loro, Marron. - dico rimboccandole le coperte.
- Come posso, dottore? Sono indignata e delusa da tanta cattiveria! Disgustata da loro che trattano André come fosse stato un delinquente! Il mio André … - tormenta i bottoni del gilet che ha tra le mani - Sono stata spesso dura con lui. Una nonna … cattiva. Ma lo facevo per il suo bene: temevo sarebbe accaduto qualcosa di simile…  Maledetta uniforme! È per quella che li ho persi entrambi!
Esito. Vorrei obiettare che probabilmente è proprio il contrario: che è stata la parte femminile di Oscar a volersi trovare alla Bastiglia, a ribellarsi, per un mondo migliore ove vivere con André alla luce del sole, ove non fossero abiti o titoli a definire l'essere umano.
Per assurdo, è la decisione del generale che li ha fatti incontrare, che ha permesso il loro amore, altrimenti Oscar non sarebbe esistita, sarebbe stata una qualunque Madamigella stretta tra corsetti e consuetudini.
- Calmatevi, Nanny…
- Ma lei non era come loro… No… E sono certa che ora sta ballando con addosso un bel vestito, tra le braccia del mio André. ..  Madamigella Oscar ed il mio André… Avrei tanto voluto vederli ballare insieme …- mormora trattenendo la mia mano  destra, guardandomi senza vedermi, gli occhi velati persi nella sua visione.
Le carezzo il capo e glielo privo della cuffietta senza la quale mai si è presentata in pubblico  in tanti anni, ligia alla sua uniforme quanto al suo dovere, per liberare finalmente la chioma bianca, sciogliere le lunghe e fragili ciocche che accompagno con due dita per poi tornare a sfiorarle la guancia umida.
- Sì, Nanny, ora riposa.
E mi accontenta chiudendo le palpebre, il sorriso accennato, nelle orecchie un minuetto, le luci, la festa.
Libera, perché, in fondo, ognuno sogna ciò che vuole. È a questo che servono i sogni.







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Capitolo 13
*** capitolo 13 ***


13 inevitabile follia

Dimagriva e non ci feci caso. Impallidiva e non vi diedi peso.
I peccatori restano ed io, che la davo per certa nella mia vita e la lasciavo sola per seguire le mie passioni, le mie ricerche, lo scopo superiore, io, peccatore, sono restato.
E con la mia solitudine pago.

1786, reggia di Versailles

La carrozza sussulta leggermente nel fermarsi ed io batto le mani, entusiasta e rumorosamente gaio.
- Voilà voilà! - esclamo -  Giunti a destinazione!
Alexandra mi guarda un poco di sbieco, sebbene con una piega di sorriso che non riesce a non sfuggirle.
Non mi ama particolarmente quando mi ridicolizzo a giullare, almeno così sostiene; in realtà credo che il mio lato pazzerello,  monello, raro ed imprevedibile, sia proprio ciò che l'ha fatta innamorare, ciò che l'ha spinta inizialmente a forzare la mia corazza di aspetto professionale, serio, composto, rigoroso sotto al quale celavo il mio io libero e permettergli di uscire. Già, proprio così, stare con lei porta alla luce quel bimbo spensierato che non mi sono mai permesso di essere. Stare con lei mi rende felice.
- Posso auspicare che ti controllerai un poco una volta scesi? - chiede minacciosa.
Fingo di non darle ascolto.
- Promettimi che cercherai di moderare il tuo entusiasmo una volta dentro… - ribadisce col sorriso sulle labbra rosse e un poco d’ansia nella voce, afferrando il mio braccio, costringendomi a guardarla, costringendomi a darle accesso alla mia anima al di là degli occhi.
- Siiiì … - prometto con poca onestà e con troppa veemenza.
Sono veramente senza freni stasera; stasera è la mia serata: sono euforico.
Finalmente Sua Maestà ha accolto le mie richieste per un ospedale sul modello austriaco, non solo un luogo ove celare e tentare di rimediare alla malattia, ma dove prevenirla per il bene pubblico oltre che dell'individuo. Perché le due cose sono reciprocamente dipendenti e inscindibili.
Alexandra mi picchia il ventaglio sulla testa a mo' di scappellotto come farebbe col moccioso insolente che so non avremo mai, perché per lei, per la sua gamba, per il suo bacino malmesso, un parto sarebbe troppo rischioso.
Da fuori ci aprono lo sportello ed io le passo davanti per precederla e poterla aiutare. Mi allunga l'inseparabile bastone che a mia volta affido al valletto, quindi le porgo le braccia e la sostengo nello scendere.
Ancora aggrappata a me si concede un attimo per riacquistare equilibrio poi, con un cenno, mi fa capire di essere pronta ad avviarsi. Il valletto ci rende il bastone   e sorretta da entrambi, passo dopo passo, sulle nostre cinque gambe, attraversiamo la corte, già gremita e chiassosa.
Si regge  a me mentre le stringo la vita, inanellati in questo abbraccio, una nostra sorta di danza.
Come sempre cerco di farle pesare il meno possibile la sua invalidità . Le sorrido, blatero schiocchezze, bisbiglio pettegolezzi e lei si distrae dalla fatica. Così bella, leggera e fragile come una farfalla dalle ali spezzate.
L'abito turchese confezionato per lei da Rose Bertin, pesante il meno possibile per non gravare ulteriormente sulla sua gamba malata, i capelli acconciati ed incipriati in volute argentee non possono non esaltare il cielo dei suoi occhi, particolarmente lucenti stasera. I suoi occhi: la prima cosa che cerco al risveglio e l'ultima che voglio guardare prima di addormentarmi.
Già dai primi passi la folla che ci si stringe attorno mi riconosce; cominciano i complimenti, i buoni auguri, gli incitamenti ; pochi a dir la verità gli sguardi di cattiveria e d'invidia perché, in fondo, tutti amano il dottore.
Cerco di salutare il maggior numero di persone possibili ora, prima che ci si trovi ad affrontare le scalinate, la parte più difficile per lei, per entrambi perché la sua sofferenza mi dilania. La vedo tremare al ricordo di quel giorno di violenza, in cui oltre alle ossa spezzate da lui, dai gradini sui quali l'aveva spinta deliberatamente, quasi perse la vita; la sento tremare addosso a me, la vedo concentrarsi sui passi da compiere, vincere il dolore ad ogni movimento, eppure ce la fa, ce la facciamo senza chiedere aiuto, noi una cosa sola quando c'è il bisogno, e arriviamo su nella galleria degli specchi illuminata come un giorno di sole.
Dalle decine di lampadari, migliaia di candele danzano nelle geometrie dei cristalli. Pare un moltiplicarsi di arcobaleni in altrettanti soli.
Mille e mille arcobaleni di mille e mille soli. Ma nulla è più bello di lei ai miei occhi.
- Buonasera dottore! - esclama la voce vellutata e tentatrice della marchesa di Cocodans, gentildonna per la quale il tempo sembra non trascorrere, a differenza dei tre mariti che ha già seppellito; arrivando alle nostre spalle, ci oltrepassa e mi urta, leggermente ammiccando.
Alexandra mi guarda ancora di sbieco e sorridendo insinua una domanda velata d’ironia.
- Devi forse confessarmi qualcosa Francois?
- Nulla di cui ti debba preoccupare, Sandrine. Non dovrai mai preoccuparti delle altre donne - bisbiglio al suo orecchio, stringendola per la vita- Specie di donne come la Cocodans: sono una persona che impara dagli sbagli e non li ripete. Sbagliare nel mio campo, lo sai, non permette seconde oppurtunità . E sono certo che neppure tu me ne concederesti una, mia adorata.
Rido e le bacio la mano, guidandola verso un divanetto dove potersi finalmente rilassare un poco.
Camerieri in livrea ci offrono stuzzichini e calici di vino; ne porgo uno ad Alexandra, che lo sorseggia appena, e rifiuta il cibo con una leggera smorfia, lasciandomi intendere di non sentirsi troppo a posto con lo stomaco. D’altronde, la moda vuole che cibo e corsetti si trovino in disaccordo e so già da tempo di non potermi intromettere tra una dama e la sua vanità senza uscirne sconfitto. Nel brindisi si uniscono a noi amici e conoscenti; complimenti, congratulazioni ed auguri, molti sinceri, altri meno, giungono da tutto intorno a noi.
Sorseggiando, esploro la sala con lo sguardo. Noto la presenza di molti ospiti stranieri, alcuni sconosciuti, altri più noti di quanto vorrei. Tra questi, il conte di Fersen. Dopo anni, dopo l'America, è tornato a Versailles e tutto fa intendere che voglia restarci a lungo.
- Sembra che la marchesa di Cocodans abbia tra le mani un nuovo amante facoltoso - sento dire alle mie spalle.
- Sarà mai un certo straniero? - ridono alludendo allo svedese.
No, penso, di certo Fersen ha ben altri pensieri in questo momento, ed io lo so bene trovandomi alla stregua di un confessore.
- Vogliate scusarmi… - dico e mi dirigo verso il chiacchieratissimo conte, che in disparte attira ancor più l'attenzione.
- Dottore..
- Conte di Fersen…
- Mi è giunta all'orecchio la bella notizia, le mie congratulazioni.
- Grazie, sarà un notevole impegno…
- Un lavoro arduo…
- Quasi quanto voi che cercate di passare inosservato. - lo rimprovero.
Abbassa lo sguardo, in difetto. Difficile confondersi con la massa, quando sei l'uomo più chiacchierato di Francia.
- Non ho più intenzione di fare ciò che ci si aspetta. Il mio posto è qui e voi sapete perché.
Riesco appena a mostrare un pizzico di contrarietà che la nostra attenzione viene catturata da qualcuno appena entrato nel salone. Una sensazione mi spinge a voltarmi come tutti verso l'ingresso e scorgo la dama bianca entrare.
Incredibile quanto un non colore possa attirare tanta attenzione, ma ancora più sorprendente quanto lei riesca a mantenerla. Rimane pochi istanti ferma all'inizio della galleria, il ventaglio con le piume di pavone bianco aperte ed immobili davanti al volto, lo sguardo intento a scrutare tutt'attorno, come in cerca di un obiettivo, una meta e per una frazione di momento, si sofferma anche su di me, catturando i miei pensieri e levandomi il respiro. Inizia quindi a muoversi attraverso i gruppi di persone, la gonna dai ricami turchese ed oro, ondeggiante sotto la luce delle mille e mille candele, ruba il colore agli arcobaleni e gli sguardi sono tutti per lei.
- Oh, guardate quella donna… - mormora incantata una dama accanto a noi .
E in un istante i commenti delle signore sono veramente tanti,  si moltiplicano, rimbalzano di bocca in bocca, distorti, sovente maligni: bella come una dea, sì, ma... il vestito è proprio fuori moda! … Una nobile straniera che viaggia in incognito? Non vuole si sappia il suo nome… Che bei capelli… Certo, l'acconciatura…
Eppure attrae. Le donne la scrutano con invidia; gli uomini la guardano con desiderio. È indiscutibilmente bella, specie quelle rare volte che solleva lo sguardo dal ventaglio di piume e scruta tutt'attorno con gli iridi chiari come acqua. Odo la Cocodans ammettere, un po’ a malincuore, che la sconosciuta si può pregiare di una bellezza naturale, raffinata, un poco severa; e sebbene l'incarnato sia coperto dal trucco, è evidente che sia sana, ben formata;  non goffa, ma cauta nei movimenti; decisa a tratti nel passo, ma intimidita nello sguardo; eppure non abituata ad essere intimidita e per questo fuori posto.
- Mi pare di averla già vista… - mormora Fersen e lo dice come se ciò dovesse sorprendermi; lui, l'uomo dal nome più sospirato nei salotti femminili e quello più sibilato a denti stretti in quelli maschili, dubita riguardo il conoscere una donna? A Versailles? Dove non c'è donna che non vorrebbe attirare la sua attenzione?
Quest’uomo è il mio opposto. Egli punta alla seduzione in qualunque caso, è più forte di lui: deve affascinare. E non è questione di sesso. Non solo.
Non penso male di lui: è nella sua natura; non può farne a meno di corteggiare, incantare, sedurre. Come lo scorpione non poteva evitare di pungere la rana.
Ecco! Dovrei pensare male di me, invece, dell'invidia che provo, perché non ho mai avuto il vantaggio delle sue armi: so che un bell'aspetto può aprire molte porte, in molti ormai dicono anche quelle della regina ed avrebbero ragione.
Non ho il tempo neppure di pensare ad una frase che possa essere diplomatica, ma al tempo stesso tagliente, solo quel tanto per soddisfare il mio orgoglio, che egli  mi lascia il calice tra le mani alla stregua di un qualunque servitore e, senza degnarmi di un fiato, s'incammina verso la sconosciuta. Un poco indispettito, resto ad osservare la scena del seduttore all'opera, dell’ ammaliatore in procinto di catturare l'ennesima preda.
E la dama accetta, cede, gli concede un ballo. Perché non dovrebbe? Sono il primo ad ammetterlo.
Li guardo conquistare la sala, l'attenzione tutta su di loro. Lui sta parlando, ma lei non alza lo sguardo, pare imbarazzata, incerta, tesa ora che non ha più un ventaglio dietro il quale celarsi. All’improvviso, un passo falso e solo la prontezza del cavaliere la salva dal rovinare a terra.
Tutto avviene in un istante e non riesco neppure a capire come, ma mi ritrovo la sconosciuta, in fuga, finirmi addosso. Per un istante i nostri sguardi si incrociano e non riesco a credere a ciò che riconosco dietro il trucco e le lacrime.
Il mio bicchiere finisce sul pavimento in frantumi, e la donna mi sospinge via, scomparendo. Mi volto, vorrei seguirla, tranquillizzarla e soprattutto capire. Capire a cosa imputare questa sorpresa: un colpo di testa? O non è la prima volta? E poi… Fersen? Lui non è adatto a voi, proprio come la Cocodans non era adatta a me! Appunto, come posso criticare io… Ma non è questione di buono, di migliore: semplicemente non adatto.
Improvvisamente, il turbinare di questi pensieri e qualsiasi tentativo di azione si interrompono quando vengo fermato da una mano sulla spalla che mi trattiene saldamente, ancor prima di muovere un passo.
- Dottore, vostra moglie! - esclama allarmato uno degli ospiti.
E le parole diventano confuse, mentre la musica si ferma, cedendo spazio al brusio.  
Mi volgo a guardare verso il divanetto dove avevo lasciato Alexandra.
Alexandra che cade a terra.
Alexandra che si accascia scomparendo nella nuvola celeste del suo abito.
E tutto il mio mondo, le mie certezze, le mie ambizioni, crollano insieme a lei. Il futuro si azzera, nulla più importa. Neppure ricordo perché volevo arrivare, dove arrivare. Solo ed impotente dinnanzi al fato che non mi vuole felice.



Parigi, Aprile 1789

Sto particolarmente male stasera. Non so bene perché. Ricordi, nervosismo, immagini sfuocate, ma terribili. Immagini della vita che avrei voluto vivere con lei,  portata via.
Ogni tanto mi succede, non più spesso come una volta, ma succede. Ed il dolore è sempre intenso, sempre lo stesso. Ripenso al tempo sprecato, a ciò che sembrava importante e non lo era; mi affliggo per colpe che in realtà non ho, ma non riesco ad evitarmelo.
“Se solo… se invece...se…” si ripetono nella mia testa, inutilmente, dolorosamente, ineluttabilmente. Perché è inevitabile tormentarsi, impossibile continuare a vivere quando la tua vita stessa è stata spenta.
Bussano alla porta. Ignoro.
Bussano ancora, con più forza.
Chiamo a gran voce la domestica che però non risponde.
I colpi diventano insistenti, irritanti. Disperati, ma di questo mi renderò conto solo poi.
Mi alzo di scatto dalla poltrona, molto più che seccato, per andare di persona alla porta d’ingresso. Apro ormai furente ... e li vedo.
Lo sguardo chiaro e angosciato di Oscar che si leva su di me,  mi colpisce, richiamando brutalmente alla memoria un altro sguardo, con altra simile disperazione.
Lei lo sorregge a fatica e quasi mi crolla fra le braccia, esausta, nel momento in cui recepisce di avercela fatta, di essere a destinazione, di essere in salvo.
- Eravate il luogo più sicuro e André è ferito - mormora in una supplica.
- Buondio, Oscar, che vi è accaduto?
I miei domestici appena giunti si occupano di risollevarli, mentre impartisco veloci indicazioni su cosa fare.
- Siamo stati aggrediti, giù a Saint Antoine. Una folla … Oddio, il nostro cocchiere! … Spero sia riuscito a mettersi in salvo. - si angustia.
- Sedete e permettete che vi dia uno sguardo…
- Prima André, dottore, prima André! - raccomanda con tono ansioso, ignorando il rivolo di sangue che le scivola da una tempia.
Poiché non è il momento di far questioni, lancio uno sguardo alla mia governante, la quale prende uno straccio imbevuto e, con una presa gentile ma salda, costringe Oscar ad accomodarsi, cominciando a ripulirle la ferita.
Mi concentro su André che nel frattempo è stato portato su un lettino dell'ambulatorio. Non sembra in sé, lo sguardo perso… Non capisco con che forza sia riuscito ad inanellare un passo dopo l'altro fin qui.
Gli apro la giubba e mi chino ad auscultargli il torace tumefatto.
Palpo le costole, una dopo l'altra, e non mi paiono lesionate. Ma in verità, il pover'uomo é talmente dolorante da non riuscire a capire quale parte del corpo potrei definire sana.
- André… André, parlatemi! Dove sentite dolore?  - cerca di rispondere in modo confuso. - André vi hanno picchiato alla testa? Avete perso i sensi?
- No, no, mi volevano ben sveglio per impiccarmi meglio - mormora sarcastico dopo un istante.
- Cosa ricordate? Vedete bene? Udite bene ciò che dico? Riuscite a respirare senza provare dolore?
- Ho solo gran mal di testa… e preferirei dimenticare..
Palpo il cuoio capelluto insanguinato.
- Grazie al cielo è arrivato Fersen! - mormora Oscar alle mie spalle, sorprendendomi -  Se non fosse arrivato per disperdere la folla, temo non ne saremmo usciti vivi.
Vedo André stringere i denti e gli occhi in un gesto di disturbo, per quelle parole. Esausto, forse rassegnato.
- Ormai pensavo che fosse finita. Ero a terra, non riuscivo neppure più a tentare di ripararmi da calci e bastonate, ma ... è arrivato!…
Si interrompe, china lo sguardo, porta la mano alle labbra tremanti per l'agitazione, mentre due lacrime oltrepassano le ciglia. Prende un lungo respiro, deglutisce e quando risolleva il viso, vi scopro una luce nuova negli occhi lucidi ed un sorriso che dovrebbe stonare in questo momento.
- Grazie al cielo, Fersen è arrivato! È arrivato…
E ripete quel nome, e rende grazie, e sorride di un sorriso sciocco, inopportuno davvero, penso. Perché ripetere quel nome a quel modo? Che si sia trasformata in una inebetita damigella in adorazione del proprio cavaliere salvatore?
Vado a controllarle il capo che sanguina ancora sebbene meno copiosamente, preoccupato da quell'atteggiamento che non riconosco come suo; lei mi prende la mano, la stringe tra le sue e guardandomi negli occhi come in preda all'estasi, ripete ancora “grazie al cielo, è arrivato Fersen”.
- Tenete la pezza premuta qui e sdraiatevi… ecco, così… tranquilla … - mormoro preoccupato accompagnandola nei movimenti.
- Appena in tempo… credevo fosse finita, invece mi ha salvata dal linciaggio… gli devo la vita… gli devo… Tutto….
La guardo volgere lo sguardo alle mie spalle.
E capisco. Capisco cos'era quella luce nei suoi occhi, la stessa che vedo nei pazienti quando dico loro che si salveranno. La scoperta, la consapevolezza, la certezza. Ed è chiaro chi sia il tutto cui si riferisce.
Siedo accanto a lei, inizio a medicarla: la testa, il polso, la spalla… Anche Oscar, come André, è pesta e sanguinante, ma in fondo, sono miracolosamente illesi entrambi.
Forse c'era uno scopo superiore in tanta ferocia? Forse doveva servire a qualcosa?
Forse il male non sempre vien per nuocere, a volte apre i cuori. Sembra che per Oscar sia stato così.
Ma all'illuminazione di Oscar, non vedo corrispondere André, il quale giace con lo sguardo fisso al soffitto e l'espressione rassegnata sul volto di colui che ne ha avuto abbastanza.
Temo che egli interpreti diversamente quei ringraziamenti allo svedese vaneggiati da Oscar, come se si aspettasse di vederla infiammarsi nuovamente in quel sentimento da nulla.
Sospiro preparando il necessario per mettere qualche punto qua e là, e penso che per ricucire i sentimenti, dovrà Oscar fare il primo passo, chiarire, levare ogni dubbio.
E spero che poi, nulla di nefasto li allontani nuovamente.




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Capitolo 14
*** capitolo 14 ***


14 inevitabile follia 14 inevitabile follia

Palazzo Jarjayes, 17 Luglio 1789

Oscar e André sono morti, ma sono ben altri i fantasmi che si aggirano in questa notte di veglia per Palazzo Jarjayes.
Sono i fantasmi delle colpe, dei rimorsi, degli sbagli.
Sono spettri di giorni passati, spesso troppo uguali, con silenzi egoisti, bugiardi, vigliacchi.
Sono i sentimenti troppo taciuti o malamente espressi e le presenze date per scontate, ignorando la parca pronta a tagliare il filo.
Sono tutti quei giorni trascorsi ad autoingannarsi in attesa di un domani ugualmente freddo e senza coraggio.
Giorni come celle con pietre di gelide bugie ed alla sera restavano solo i rimpianti.
Non c'erano veri motivi di malessere tra queste mura sontuose ed eleganti: una buona salute, le tavole imbandite, un futuro potenzialmente roseo.
Ma… Se solo… Questo mancava: se solo... Se solo avessi agito, parlato, osato.
Se solo…
Perché apriamo gli occhi sul mondo quando già li stiamo chiudendo?
Vago al buio per questi corridoi e d'un tratto mi par di sentirlo: l'inconfondibile aroma del suo tabacco da pipa, pizzicare le narici, obnubilare la mente, trasportare i pensieri altrove, in paesi lontani, in luoghi piacevoli. Semplicemente altrove, perché qualunque luogo sarebbe meglio di qui ed ora per lui.
Seguo le tracce del fumo, dapprima solo per mezzo dell'olfatto, poi scorgo anche una piccola nube vagare per il corridoio, come una nebbiolina di fine estate, che mi guida a ritroso alla sorgente, fino al grande salone dove egli si è ritirato allontanandosi da tutti, deluso dalla progenie superstite, dal mero accapigliarsi dei generi per vili questioni economiche, da uomini quest'ultimi che di uomo hanno solo la parvenza, non certo la statura da lui pretesa. Per lui, per il generale, “l'uomo”, inteso nelle virtù di coraggio, determinazione, valore, si fa, non si genera. Ormai lo ha capito, sua figlia glielo ha dimostrato. Triste che se ne renda conto troppo tardi. 
E capisco perché proprio lì sia andato.
Eccola: mi accoglie appena entro, illuminata dalla luna e dalla mia candela; superba ed angelica al contempo e resto tanto incantato e sorpreso e ammirato che allungo una mano perché d’istinto vorrei toccare, sapere se è reale o solo un altro fantasma della mia mente.
- No! ... È ancora fresco… - esclama una voce autoritaria alle mie spalle, dal buio.
Immaginavo fosse lì. Un ombra nell'ombra, invisibile.
- Sembra così … viva. - mormoro senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla tela.
- Già, il pittore è stato bravo, dannatamente bravo.
Odo tintinnare cristallo con cristallo; si riempie il bicchiere di cognac, il generale, per l'ennesima volta credo a giudicare dai movimenti scoordinati.  La voce strascicata mi fa capire che si è abbonamente rifugiato un qualcosa di consolatorio, sebbene dannoso e temporaneo. Male consolatorio abbastanza comune in questa casa; male che ho affrontato anch'io e, lo ammetto, mai realmente sconfitto.
Scomposto, disordinato nell'aspetto, egli siede  sulla poltrona che so di un vivace, sanguigno, color porpora, ma che nelle tenebre pare nient'altro che nera; porta il bicchiere alle labbra, ma non beve.
- Non sono riuscito a dirle addio, - mormora - ero convinto che sarebbe tornata.
Stringe un pugno lo porta alla fronte, picchiettandosela nervosamente, incapace di capire, di credere, di accettare ciò che non può più essere rimediato.
- Non doveva andare così…- sibila, malcelando un dolore rabbioso - Le cose potevano cambiare, io potevo cambiare… Si parla, si ragiona, le cose si aggiustano… Il tempo…
Lo ascolto seguitando a contemplare i tratti perfetti di quel volto che fu altrettanto perfetto; scuoto appena il capo perché so che il generale non parla, ordina; egli non ne discute, esige; e soprattutto, non cambia; non su valori per lui intoccabili quali la lealtà alla Corona. E so che è quello il peccato mortale che non le avrebbe mai perdonato.
- Aveva la tisi …- lo interrompo.
Ormai non c'è motivo di tacere, non c'è ragione perché egli non debba stare peggio di come sta. Ed il colpo è grave.
- Terminale. Al meglio, solo pochi mesi di vita. - aggiungo mestamente.
Restiamo in silenzio per attimi senza tempo, ciascuno immaginando a modo suo, un futuro che mai arriverà.
- Volete farmi compagnia, Lassonne? Le va di bere qualcosa con me, dottore? Per scaldare lo spirito e confondere la mente.
Annuisco ancora rivolto al ritratto e poi capisco che non può vedermi mentre lo faccio.
Jarjayes mi allunga un bicchiere nella penombra, senza alzarsi dalla poltrona e, quando giungo a stringerlo, me lo riempie.
- Beva, mio caro Lassonne, abbiamo dei buoni motivi per festeggiare, in fondo.
Resto basito ed un poco inorridito.
- Sì, dottore, piangiamo la morte di mia figlia e del buon André, ma al contempo festeggiamo la fine dei Jarjayes, una fine che ho tentato di ingannare con un imbroglio, tanti anni fa. I Jarjayes: una nave che ho incautamente guidato per i mari della carriera ed ho affondato con la follia. Mi pensate un ipocrita vero? - chiede guardandomi sbieco. - Mia figlia imputridisce in una bara ed io mi preoccupo del futuro.
- Penso solamente che abbiate bevuto troppo questa sera, generale - rispondo diplomaticamente.
Sorride, amaro.  Si sporge in avanti di scatto, inclinando paurosamente il bicchiere.
- Male! Male, caro Lassonne, perché avreste ragione: sono un ipocrita! Sono un egoista! Sono un essere che ha giocato col destino della sua stessa figlia solo per orgoglio personale! - poggia rumorosamente il bicchiere sul tavolinetto ed affonda nello schienale.
- Come vorrei essermi fermato prima.. Come vorrei averle detto che … - sospira - Non avrei potuto avere figli migliori. Mi riferisco ad Oscar, ma anche ad André. Egli era nato servo, ma il suo cuore mi rispettava come un figlio rispetta e forse ama il padre. Se solo fosse stato nobile…se solo… Come sarebbe stato tutto diverso... Ma fatemi compagnia, dottore. Solo un po’... - mi tenta riprendendo il bicchiere, inalzandolo appena in segno di invito.
Se solo fosse stato nobile? Non lo avrebbe mai conosciuto, non allo stesso modo. Erano due germogli cresciuti insieme, rinforzati dalle medesime avversità, dalla medesima solitudine e solo alla fine, intrecciatisi l'uno all'altra.

Sollevo il bicchiere alle labbra ed assaggio il pregiato cognac dei Jarjayes, caldo e avvolgente come un abbraccio. Un conforto che non meritiamo.
- Perché lei? - domando all'improvviso.
- Come?
- Ricordo tanti anni fa, in questa stessa stanza: avevo una domanda da porvi e temevo la vostra risposta. Un uomo dalle origini nobili, ma fumose, che osava chiedere la mano di vostra cugina. Avrei dovuto rivolgere quel quesito al fratello che ne gestiva le proprietà e non sarebbe stato felice di rinunciarvi. Così mi feci coraggio e vi pregai di trovare una transazione adeguata che non rovinasse Alexandra di quanto le spettava, ma che nemmeno invelenisse suo fratello nei miei confronti. 
- Ricordo, dottore...
- Mi raccontaste, francamente, che vostro cugino nulla aveva fatto per proteggere la sorella da quel mostro che l'aveva sposata e che avreste sempre pensato voi a lei, che l'avreste protetta ed agito per il suo bene...
- E vi diedi la mia benedizione, oltre al mio permesso, dottore.
- Voi avete salvato Alexandra da un marito violento e da un fratello dispotico...
- E? …
- Voi non avete mai alzato le mani su una donna. Vi conosco bene.
- E?
- Perché su di lei sì?
Lo sguardo arrossato ed umido corre al ritratto.
- Non ho scusanti. In parte, applicavo la disciplina che ho ricevuto. Disciplina e severità, così cresce un soldato, così cresce un Jarjayes. Poi, giorno dopo giorno ho cominciato col  vederla più figlia e meno figlio. Confesso: ho dubitato che non sarebbe stata all'altezza, ho messo in discussione quella decisione folle e ne ho temuto le conseguenze. Ho avuto… paura.
Più per i Jarjayes che per Oscar, penso malignamente conoscendo le sue convinzioni, però evito di sottolinearlo.
- Allo stesso tempo non potevo sopportare che non fosse un fallimento, perché era il figlio perfetto che avevo sempre desiderato, ma non era un maschio. Ma non potevo nemmeno tornare sui miei passi, non riuscivo a fermare ciò che avevo cominciato. Inconsciamente, desideravo che fosse lei a ribellarsi. Solo lei poteva porre fine alla follia cui avevo dato inizio… Ed infine lo ha fatto: ha scelto il cuore. … Infine… - ripete, sentendo il peso tombale di quella parola: fine. Distoglie lo sguardo dal ritratto e rabbocca il proprio bicchiere, sversandone buona parte.
- E la capisco. Davvero. Voi potete non credermi, ma se solo André fosse stato nobile, avrei benedetto la loro unione… - si sbilancia -  In ogni caso, non li avrei ostacolati. - aggiunge aggiustando la mira del precedente pensiero troppo audace - Ma era anche destinata a grandi cose. Un vero peccato...
- No, generale, il peccato sono quelli come noi. Vanitosi, ambiziosi, persi nel nostro mondo, sempre in cerca di qualcosa di grande. Noi che guardiamo lontano, e calpestiamo chi ci sta accanto. È così, generale: i peccatori restano. Lei, io… i peggiori, mentre i migliori vanno.
- Lassonne, di quale colpa vi caricate ora? - domanda guardandomi con ansia.
“Se solo… se invece…”, penso lasciando cadere la sua domanda nel vuoto.
Porto la mano alla fronte per l'insopportabile dolore e vacillo un istante.
La stanchezza si fa sentire.
- Mancano poche ore all'alba, dovreste riposare. - osserva il generale  - Abbiamo tante stanze, occupate quella che più vi aggrada, dottore.
Annuisco, conosco i miei limiti e la giornata in arrivo non sarà leggera, né tanto meno piacevole.
- Se posso, riposerei un poco nella stanza delle rose, era quella di Alexandra quando visse a palazzo Jarjayes.
- Era sua, è vostra.
- Anche voi dovreste riposare, signore.
- Ora devo solo bere, Lassonne. - mormora riportando il bicchiere alle labbra e lo sguardo al dipinto. - Bere e pregare pietà.
Lo lascio ai suoi rimorsi, alle sue confessioni, al peso del domani che arriverà, e mi trascino al primo piano, alle camere.
Varco la soglia della stanza che ho scelto: le rose, a centinaia, sono ancora lì, stupendamente dipinte sulla tappezzeria da mani abili e pazienti. Le aveva scelte Alexandra, una consolazione per non poter vedere quelle vere del giardino durante gli interminabili mesi trascorsi immobile in quel letto, pregando la grazia di poter un giorno camminare ancora. Ed il generale mai volle levarle in seguito, anche dopo la di lei sommaria guarigione. Troppo belle.
Mi lascio cadere sul letto; gli arti pesanti come mai mi è capitato.
Spesso mi è accaduto di raccogliere gli ultimi rimpianti dei morenti, cose semplici, come il non aver passeggiato ormai vecchio in riva al mare con la moglie stupidamente abbandonata anni prima o non aver carezzato di più la tua bambina da piccola, a volte ora troppo pragmatica e fredda e sola. Mi domando quale sarà il mio rimpianto dell'ultimo momento.
Il suo invece lo conosco, ha un nome: Oscar. Ed una parte di lui è morta con lei.

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Capitolo 15
*** capitolo 15 ***


15 inevitabile follia 15 inevitabile follia


Ogni volta che chiudo gli occhi, la vita, i ricordi, gioie e dolori, riprendono anima, luce, ombre.
Si muovono autonomamente, pongono domande, replicano risposte.
E dicono la verità.



Deauville, Bassa Normandia, estate 1780

Uno spicchio di luce, dal mezzo dei tendaggi non perfettamente serrati, attira la mia attenzione. Da fuori giunge lo stridio dei gabbiani che affamati si tuffano tra le onde; le onde del mare che si ingrossano fino a non poterne più e quindi ricadono su sé stesse, fragorosamente, in sincrono col mio respiro. Dentro questa stanza, nell'ombra e nella frescura dell'alba, mi giro e rigiro nel letto: è sempre così quando dormo in un giaciglio estraneo, per quanto comodo ed invogliante esso sia.
- Ahi…
Si lamenta Alexandra di fianco a me quando per sbaglio la urto.
- Scusa…
Allunga una mano al mio capo scompigliandomi i capelli, gli occhi ancora chiusi, troppo assonnata per arrendersi e tornare nel mondo con un semplice sbattere di palpebre.
- Mai che tu riesca a goderti una sana vacanza, vero? - mormora sorridendo.
- Sono un tipo di città, lo sai.
- Il mio uomo di mondo… - ridacchia affettuosamente dei miei limiti.
Sbadiglia, sospira, si stiracchia a pugni serrati come una bimba, quindi riposiziona con l'aiuto di entrambe le mani la gamba disobbediente, pesante, legnosa.
Poso la mano sulla sua coscia velata dalla leggera veste e la massaggio piano.
- Io ti avrei curata meglio. - mi rammarico, conscio che con i se non si cambiano i fatti.
- Tu mi stai già curando meglio. Ogni volta che mi sorridi, che mi carezzi, un tuo sguardo, un pensiero. Ci sono cose che non possono essere guarite, ma tutto può essere curato. E non servono medicine né miracoli. Solo il cuore. A volte basta ascoltare, a volte basta il silenzio opportuno. Tu mi stai già curando, Francois, ed io curo te da quando sono entrata nella tua vita. Sì, - ribadisce coprendo uno sbadiglio con la mano, -  mi curi ogni giorno, col tuo affetto, le tue premure e … l'attenzione al mio riposo.
Sorrido per la frecciatina.
- Bene, comprendo quando la mia presenza non è gradita! - esclamo fingendomi offeso - Credo che andrò a fare quattro passi sulla spiaggia, così potrai continuare a dormire in pace
Mi volto a baciarla su una guancia.
- Ti adoro… - scherza lei in un borbottio a malapena comprensibile, sprofondando il volto nel cuscino.
Ti adoro anch'io, penso, ma non lo dico perché il suo respiro è tornato pesante, già rapita dai suoi sogni.

Come ogni estate siamo ospiti di madame Marguerite nella villa che i Jarjayes hanno sul mare, qui a Deauville.
Da inizio giugno fino a settembre questa magnifica magione prende vita. I parenti, gli amici, si alternano e fanno compagnia a madame.
Ora c'è la figlia maggiore con il marito e, inaspettatamente, anche la minore. Con lei anche la fanciulla che accolse in casa anni fa, presa dalla strada.  

Sono trascorsi cinque anni da allora, cinque anni da quando quando conobbi la mia Rose, da quando i Jarjayes si separarono di fatto, in modo informale e discreto, pur restando una coppia in società.
Cinque anni per me e Rosalie in questa famiglia, anni che hanno fatto di me un uomo felicemente sposato quando quasi non ci contavo più e che hanno resa lei raffinata ed all'altezza di quanto Oscar si aspetta.
Ormai posso affermare che Rosalie è pienamente accolta in famiglia, non semplicemente ospitata, poiché di certo Oscar non tratta la sua protetta come una domestica e tutti si guardano bene dal contraddire i voleri di madamigella, l'erede dei Jarjayes.
Voleri che, mormorano alcuni invidiosi, sono capricci; voleri che, per i malpensanti, sono perversioni.

Di certo, l'unico volere che realmente conti è quello del generale ed ho l'impressione che per quell'uomo le maldicenze di Versailles siano tutte niente altro che sciocchezze, indegne di considerazione, come d'altronde è giusto che siano.


Madamigella Oscar, André e Rosalie: strana simbiosi queste tre persone aggregate dal caso.
Sembrano quasi una famiglia, dove Rosalie a volte sembra figlia, o sorella, o amica.
A volte altro per entrambi.
Inevitabili i pettegolezzi a Versailles.
Su Oscar; su Oscar ed il suo attendente; su Oscar e la sua protetta; su l'attendente e la protetta; su Oscar, l'attendente e la protetta.
La fantasia non manca alla Reggia, sebbene la realtà spesso la superi. Ma non in questo caso. E mi viene un poco malinconicamente da pensare un assurdo "purtroppo". Perché queste tre persone conducono una vita talmente in gabbia, totalmente aliena non solo a scandali, vizi, semplici debolezze o qualunque azione che potrebbe rendere veritieri i pettegolezzi, ma anche a ciò che rende l'esistenza qualcosa di più di un giorno a seguito di un altro giorno: affetto, ambizione, passioni, desideri in cerca di libertà. Vivono insieme e divisi in una vita sospesa che nonostante tutto scorre.


Sono sorprendenti i cambiamenti che questa giovane donna, Rosalie,  ha fatto sotto la guida di madamigella, sempre supportata da André.
È diventata più raffinata, elegante nell'aspetto e nei modi, più sicura di sé e più serena. Non il genere di serenità di una persona che non ha mai avuto problemi nella vita,  ma di chi ha incontrato i propri demoni da vicino, li ha affrontati e pur non potendo sconfiggerli, è andata oltre.

Dove stia però andando, questo non si sa. Il ragionevole passo successivo, sarebbe quello di accasarla con un buon matrimonio, ma non sembra imminente.

Dopo essermi lavato, sbarbato e vestito, aiutato dal mio domestico, mi incammino fuori, saluto il maggiordomo e lo informo che farò una passeggiata sul litorale.
C'è un gradevole vento fresco sotto il sole altrettanto gradevole, ma che promette già di diventare molto più caldo. La sabbia fine è ancora compatta per l'umidità della notte e gli stivali affondano appena.
Mi trovo a seguire incuriosito altre impronte di piedi scalzi.
Noto in lontananza gli scogli sui quali si infrangono le onde alte e spumose dell'oceano, che  levano nell'aria un profumo di salsedine e portano leggerezza nel respiro. Scorgo una figura camminare accorta tra le pietre immerse, i polpacci nudi, la camicia rimboccata, il gilet aperto. Riconosco André in quella figura, chino a guardare nell'acqua bassa il fondale e ogni tanto lo vedo tormentarlo con una asticella che affonda nelle pozze quiete tra roccia e roccia. Incuriosito ancora di più, mi avvio nella sua direzione.
- Buongiorno André! - grido tenendomi abbastanza lontano da evitare le onde.
- Buongiorno a voi, dottore! - esclama alzando il capo nella mia direzione, i lunghi capelli imprigionati dal fiocco blu paiono ansiosi di libertà, così scossi dal vento e qualche ciocca è già sfuggita al legaccio, agitandosi ribelle ed indipendente - Ancora problemi di sonno?
- La tranquillità mi uccide, - replico ridendo- ma il letto è perfetto ed il materasso pure. Ho solo i soliti problemi di ambientazione.
- Qualunque cosa, non dovete fare altro che chiedere. Alla famiglia Jarjayes preme il benessere dei propri ospiti.
- Grazie, siete sempre molto gentile André.
- È un piacere, signore. - replica con un sorriso genuino prima di tornare a chinarsi sulle rocce.
- Posso domandare che state facendo?
André sorride nuovamente, senza alzare lo sguardo; probabilmente immaginava gli avrei posto questa mia domanda.
- Sto cacciando granchi. La costa della Normandia è famosa per i crostacei.
In effetti mi viene l'acquolina in bocca al solo pensiero delle scorpacciate cui indulgo e, stando al parere di Alexandra, esagero ogni volta che veniamo qui.
- È difficile?
- No, Signore, sono animaletti piuttosto curiosi: si fanno acchiappare con semplici inganni.
E così dicendo alza l'asticella e mi mostra una testa di pesce rosicchiata con un piccolo granchio intento a far colazione. Fa cadere il granchietto in una cesta posata sugli scogli, dove già sta una buona compagnia di suoi simili e torna ad immergere l'asticella fra i sassi.
- Volete provare anche voi dottore? - domanda dopo qualche istante durante i quali non gli ho levato occhi di dosso. - Occorre solo fare attenzione a non farsi pizzicare. - spiega con un sorriso.
- Perché no! - esclamo alzando le spalle -  In fin dei conti adoro i crostacei e così potrò vantarmi di essere un uomo in grado di procurarsi la cena!
Ridiamo  entrambi e mi denudo piedi e polpacci, esibendomi in una poco atletica azione da equilibrista.
Raggiungo il giovane con andatura allegra, ma appena poso il piede nell'acqua trattengo il respiro per la sorpresa.
- Accidenti se è fredda!
- Acqua fredda, crostacei saporiti. Almeno così ripete mia nonna
- E se madame Marron lo afferma, chi siamo noi per smentire?
André approva con una eloquente espressione la mia conclusione.
- Guardi, non ci vuole molto, - inizia a spiegare - smuova qui,  quando ne vede uno gli metta questa esca vicino, appena si arrampica é fatta.
Obbedisco e concentrato mi metto all'opera. Tra un piede mal messo, un'onda più alta delle altre e qualche pizzicata alle dita dei piedi, faccio pratica; l'esperienza cresce, la soddisfazione pure; la mente si sgombra, tutta presa dalla caccia e quasi non mi rendo conto di essere ormai più zuppo che asciutto, grazie anche al sole che si è alzato e compensa col suo calore il freddo dell'acqua.
Metto male un piede, rischio di cadere in acqua, ridiamo entrambi.
Poi la risacca ci cattura, scava sotto i nostri piedi e noi, come pessimi saltimbanchi, barcolliamo e  saltelliamo tentando di mantenere l'equilibrio. Invano.


Trascorrono le ore, tra lunghi momenti di silenzio, esclamazioni di soddisfazione e meraviglia per le prede e risate  per la mia inesperienza; e solo quando André mi chiama affermando che il bottino può dirsi soddisfacente mi rendo conto di quanto tempo  sia passato.
- Alla villa sarà già servita colazione - mi fa notare André.
- Allora è meglio che mi muova prima che mandino qualcuno a cercarmi. Però, una bella cesta, vero?
- Una caccia proficua, dottore.- conferma André ricacciando sotto il coperchio di paglia alcuni vispi granchi che tentavano la fuga. - Madame Picard preparerà una bella insalata per cena.

Madame Picard, la giovane governante della villa, succeduta alla madre nella gestione della proprietà.
- Ho saputo che è recentemente diventata vedova.
- Sì, purtroppo la nave sulla quale era imbarcato il marito è incappata in una brutta tempesta. Non ci sono stati superstiti.
- Erano diretti in America?
- Sì, come molti nostri soldati.
- Dura la vita degli uomini in marina e per i soldati in generale, specialmente in questi tempi.
- E dura per le loro mogli.
- Voi non desiderate prendere moglie? - domando sfacciatamente.
Sorride.
- Non sarà che mia nonna vi ha chiesto di intercedere su questo argomento? Ultimamente sembra un cruccio per lei.
- In effetti è una lamentela che si è aggiunta alle sue abituali, ma lo domando solo per mia curiosità. Avete l'età giusta, siete in salute e non credo vi manchino candidate.
Si mormorava appunto di un certo interesse di madame Picard, aveva spettegolato Alexandra proprio la sera prima, chiacchierando del più e del meno nel nostro letto, in attesa che Morfeo giungesse a separarci. Interesse alquanto prematuro visto che il periodo di lutto non era neppure terminato.
- Semplicemente non sono in grado di offrire ciò che ogni moglie merita. Non voglio sposare qualcuna sapendo che sarà solo un ripiego.
L'assoluta franchezza mi disarma e non oso chiedere altro.

Quando entro nel salone della colazione, tutti alzano immediatamente lo sguardo su di me, tranne Alexandra perché mi trovo dal lato che il suo occhio non vede
- Buon dio, Francois ...- esclama Marie Anne, ma come vi siete ridotto?
- Semplicemente un passo falso.
- Ti sei fatto male?! - si volge Alexandra.
- No, assolutamente. Magari un poco la mascella indolenzita per la grassa risata causata dalla mia imperizia. - Rido rivivendo mentalmente la scena mentre le loro espressioni restano perplesse - Stanno già preparando il necessario affinchè possa lavarmi e cambiarmi.  - spiego- Mi allontano, non voglio gocciolare acqua salata sui tappeti.
Ma in quel mentre, arriva il maggiordomo annunciando una lettera del generale e, ossequioso, la porge a madame.
Marguerite la legge intristendosi già alle prime righe.
- Problemi di guerra. - Riassume per soddisfare la palese curiosità. - Scrive che è stato trattenuto, non potrà raggiungerci.
- Ma… per tutta l'estate? - domanda la primogenita.
- A quanto pare, sì….
Scattano una serie di sguardi, tra Marie Anne ed il marito, tra Alex e me. Sguardi misti di dubbio, preoccupazione, dispiacere, nervosismo.

Marguerite, a causa dei suoi problemi di salute, aveva dispensato il consorte da alcuni doveri coniugali e finora il generale, che non dubito abbia fruito di questa libertà, ha comunque sempre mostrato rispetto ed affetto per la moglie.
Ma il generale non è un santo, non è pietra. Ed è un soldato, spesso lontano. Finché occhio non vede, cuore non duole, ma si è cominciato a chiacchierare insistentemente di una donna speciale, non di passaggio, e questo fa male ad una moglie ancora innamorata e che si sente inadeguata, quasi colpevole.
Quando non si è più pienamente una coppia, quanto può reggere un matrimonio che di facciata non era?

- Questa dannata guerra… Sinceramente, non capisco perché intervenire direttamente in favore delle colonie. - Borbotta il marito di Marie Anne, credendo o forse fingendo di credere alla motivazione del generale. - La faccenda poteva essere gestita in maniera più cauta, diplomaticamente da un lato e con arguzia dall'altro. Per non dire poi quanto costi alle casse dello stato!...
- Passeggiata?! - esclama improvvisamente Marie Anne col chiaro intento di smorzare la vena polemica del consorte, alzandosi e prendendo la mano della madre.
E mentre tutti tacciono imbarazzati e preoccupati per la mite Marguerite, noto invece Oscar volgere lo sguardo verso il mare.
Triste, distratta, a malapena ha alzato lo sguardo su di me al mio ingresso e non ha mostrato sorpresa per il contenuto della lettera.
È seduta in disparte, su una comoda poltrona del salottino. Ha un libro aperto in grembo, sulle lunghe gambe elegantemente accavallate, ma non legge.
Siede sulla poltrona davanti alla grande finestra spalancata verso il mare ed il suo sguardo si perde all'orizzonte, lontano.
Silenziosa, non partecipa alle discussioni, neppure finge un minimo interesse. Solo a cena, ieri sera, quando il cognato nominò casualmente alcuni aristocratici partiti per la guerra in America, l'ho vista interessata, coinvolta, quasi preoccupata.

Nei pochi giorni dal nostro arrivo, ho potuto notare una costante tra i miei ospiti, ovvero l'assoluta tristezza di madamigella Oscar contrapposta all'entusiasmo vacanziero di tutti gli altri. Se ne sta da sola ed anche quando ci raggiunge, mantiene un mutismo al limite della scortesia.

André cerca di scuoterla, spronarla, coinvolgerla; Rosalie la copre di attenzioni.
Ma nonostante ciò, ella pare non avvedersi dei loro sforzi, non una minima parte della cura verso di lei viene ricambiata.
Pare vivere nel suo mondo e nulla può cambiare.
Con gli anni ho visto Oscar in molte situazioni: mi sono abituato a conoscere la giovane spavalda ed incosciente, l'ufficiale severa, determinata; l'ho vista superba, arrogante, a volte corrucciata, ma mai così apatica.

Diversi indizi collegano questo malessere alla guerra in America.
Forse madamigella Oscar, come ogni ufficiale in carriera, pensa le sia stata sottratta un'opportunità non potendo parteciparvi.
Se anche presentasse domanda, Sua Maestà gliela negherebbe.
Ora che ci penso, ho scorto un umore simile proprio nella regina, sebbene dubito per uguali motivi.

Marguerite ed i suoi ospiti lasciano la stanza per la prima passeggiata della giornata.
- Io andrò in terrazza. - Dichiara Alexandra che trova abbastanza difficoltoso camminare sulla sabbia. - Mi raggiungi?
- Certamente, appena cambiato.
La osservo uscire ed il mio sguardo torna su Oscar, tuttora persa a scrutare l'orizzonte.
- Ho saputo del recente lutto della vostra governante…
Mi guarda come se neppure sapesse che mi trovavo lì.
- Sì, il capitano Picard è dato come disperso insieme alla sua nave al largo delle Antille. Non ci sono possibilità che possa essersi salvato. È stato lo scorso gennaio, ma la notizia è giunta solo ad aprile.
 - Nello stesso periodo sono partiti altri convogli, vero?…
- Sì. - Esita - Da Brest. - Ed è come se la voce le muoia in gola.
- Molti volontari, se non erro.
- Sì.
- Oscar, il vostro compito non è di minore importanza…
Esordisco immaginando di aver colto ciò che l'angustia.
Alza gli occhi su di me sorpresa, un poco infastidita.
- Ne sono consapevole, dottore. - Replica inarcando minacciosamente un sopracciglio.
- Perdonate, non intendevo… E’ che… vi sentite bene? Avete un atteggiamento alquanto insolito e…
Si alza di scatto, nervosa.
- Nulla di cui curarsi, dottore. Dovreste andare a cambiarvi, vostra moglie vi attende.
Incasso la sfuriata composta e la guardo uscire scansando André appena giunto, già resosi presentabile, solo qualche qualche ciocca dei lunghi capelli umida a testimoniare la nostra piccola avventura.
Ci scambiamo uno sguardo stanco, incapaci di confortare chi non vuol essere confortato.
Quindi ci allontaniamo in direzioni opposte.

Uomini. Uomini che abbandonano e fingi non ti interessi.
Qualcuno è assente, oggi più di ieri; qualcuno che rispetti, che ami.
E qualcun altro, chi non so, ma pare ti importi molto di costui, è oltremare e potrebbe non tornare, mai più.
E chi è presente, invece,  pare non interessarti.
Nulla di cui curarsi vicino a te.
Affetti che giudichi non importanti.
Insoddisfazione del cuore in una vita cui non dovrebbe mancare nulla.
Nulla importa.
Perché una cosa manca.

Autunno 1788, caserma guardia francese, Parigi

Nulla importa.
Sono soltanto uomini.
Uomini che non tornano a casa. Molti non hanno nemmeno una casa, né una vita.
Non possono permettersi né una, né l'altra.
Sono soldati, ma non per scelta.
Si sono arruolati per non morire di fame.
Pure lui. Perché sei ciò che lo sostenta.
La linfa che lo nutre.
Sei aria che respira.

***

Grazie a chi riesce ancora a seguire questa mia "lenta e triste agonia". Più lenta di quanto vorrei. :D





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Capitolo 16
*** capitolo 16 ***


16 inevitabile follia 16 inevitabile follia



1788, autunno, caserma della guardia francese, Parigi


Non sono riuscito a dirle no.
Quel semplice monosillabo così difficile da pronunciare, che può causare rimpianti, a volte rimorsi, ma sovente anche risparmiarci dolori, amarezze e infinite complicazioni.
E non ci sono riuscito non perché siamo stati parenti, non perché è una persona importante, non per timore.

Quando ho ricevuto il suo invito ad incontrarci in caserma per dei consigli professionali da parte mia, il primo impulso è stato di rispondere negativamente, perfino malamente a quelle poche essenziali parole con le quali mi convocava. È abituata ella ad essere obbedita senza esitazione, proprio come suo padre; bada poco alla perentorietà delle sue richieste, pur laddove la giusta creanza richiederebbe toni più morbidi, concilianti e persuasivi.
E non capisco neppure perché insista a rivolgersi a me, così refrattario agli ordini, ormai antipatico e quasi autolesionista nelle mie scelte politicamente scorrette; me, che vorrei soltanto serrare le imposte e celarmi a tutti.
Ci sono ben altri medici a Versailles, giovani anche ben disposti, che ambirebbero fare carriera sebbene, a ben pensare, credo anche non siano poi molti i disponibili a fare ciò che lei chiede, a  … sporcarsi le mani col volgo.
La sua lettera, concisa ma chiara, mi ha sorpreso con tutto ciò che lasciava trasparire: la sua voglia di impegnarsi, di lottare per il suo incarico, di fare magari non la storia, ma la differenza per questo corpo notoriamente indisciplinato.
Ammetto, mi ha scosso dalla mia apatia.
Per questo ho accettato il suo invito e sono qui col mio assistente per valutare il fattibile.
Poche parole scritte, l'accenno di un'idea, che voglio udire spiegatami da lei.

Siamo accumunati dalla solitudine, io e madamigella Oscar.
Nessuno di noi due frequenta più la reggia, nessuno di noi due ha qualcuno con cui condividere la vita.
Sebbene per lei ciò sia il risultato non non del destino avverso, ma di una scelta, per quanto difficile e quasi obbligata. E sostengo quasi perché nulla le impedirebbe una vita sentimentale, più o meno pubblica, ma qualcosa la trattiene ed io credo di sapere chi sia questo qualcosa.

Ora ho come l'impressione che si senta davvero sola.
Quel tipo di solitudine che senti nelle ossa, quella sensazione di deserto attorno, dell'inutilità di qualunque gesto, pensiero, emozione.
Quel timore di trovarsi in mezzo ad una strada senza fine, ma che a nulla porta.
In fin dei conti, neppure lei sta passando dei buoni momenti. Mi è giunta voce di quella che può essere considerata una caduta nella sua carriera e che il generale ha infierito consigliandola a maritarsi; questo, naturalmente, nel modo in cui lui intende i consigli, ovvero appena un grado al di sotto degli ordini.
Anche io, in quanto vedovo, ho ricevuto l'invito a quell'assurdo ricevimento organizzato dal generale Bouillé; invito che ho ovviamente declinato, forzandomi ad essere cortese con l'organizzatore.
Un affronto per lei, questo metterla in piazza come un animale alla sagra del bestiame.
"Guardate, signori, non troverete mucca più bella! Mantello perfetto, occhi lucenti, muscolatura forte, priva di grasso, ancora in grado di darvi dei bei vitelli! Lavora duramente senza lamentarsi e viene via a poco, ultima della figliata! "
Un segno inconscio di disprezzo questo tentare di manipolare ulteriormente la sua vita privata. E neppure se ne rendono conto. Il generale si autoconvince di voler rimediare alla sua follia di tanti anni fa. Altri, sperano di cancellare l'anomalia, il precedente pericoloso di una donna incapace di stare al posto destinatole, sia questo una cucina, un salotto o un velo.


- Dottor Lassonne, buongiorno e benvenuto.
Mi riceve nel suo ufficio mentre il suo nuovo vice si eclissa alle mie spalle
- Inanzitutto, la ringrazio per aver accolto la mia richiesta, immagino un poco inaspettata, insolita… curiosa.
Si alza dalla scrivania mentre parla, ricollocando la piuma, i carteggi. I suoi occhi celesti, limpidi, scivolano su di me con elegante superiorità, con aristocratica indifferenza, con anche quella compostezza, quell'auto controllo che negli anni le ha fatto riconoscere, perfino dai più scettici, il polso del comando, solitamente considerato attributo mascolino, e da quelli più onesti, il merito.
- Se mi concede un istante l' accompagnerò personalmente e le illustrerò quale sarebbe il mio intento. Come ben immaginerà qui non siamo certo alla reggia, non siamo a Versailles. E questa non è la Guardia Reale. - esordisce col tono di colei che non può che rilevare l'ovvio, senza colpe, senza drammi, affiancandomi ed indicando la porta.
- Dopo di voi, colonnello. - replicò cedendole galantemente e rispettosamente, il passo.
In gruppo, preceduti dal colonnello D'Agout che ci aveva attesi in corridoio, insieme al mio assistente, camminiamo verso le camerate e più ci avviciniamo, più l'edificio peggiora architettonicamente; quello che poteva essere descritto come un complesso di edifici militari, dalle linee pulite, decori lineari ed austeri ma piacevoli, peggiora in uno squallore al limite della fatiscenza.
- Ammetto che non è facile trattare con questi soldati. - spiega Oscar, mentre entrambi lasciamo che il colonnello D'Agout ci preceda e che un soldato ci apra ogni porta evitandoci così  il disgusto di dovervi personalmente provvedere - Appartengono tutti agli strati meno abbienti di Parigi, ma sarei generosa in questo caso; sarò franca, invece, indelicata ed oserò affermare che, quando non sono delinquenti, sono straccioni, pezzenti sotto ogni aspetto: sono ignoranti, rozzi, volgari; non hanno la minima idea di cosa significhino decoro, dedizione, decenza.
Scandisce ogni parola seccamente, ad ogni passo accompagnato dall'eco degli stivali sul marmo, rigida nella postura, fissa nello sguardo; scandisce ogni termine come fosse una frustata, un colpo impietoso sul corpo della Guardia Francese, a conferma che la pessima reputazione del reparto non è una esagerazione.
- Ciò nonostante… - si ferma all'improvviso; le mani, allacciate dietro la schiena, si sciolgono, liberando la destra che allunga davanti a sé, alla cintura, per sistemare ciò che non ha bisogno d'esser sistemato, in un gesto inconscio, persa nella mente, come a voler ricomporre qualcosa di potenzialmente bello, ma diviso, scomposto, confuso; come quei giochi d'infanzia che, solo disposti con pazienza ed attenzione nel giusto modo, rivelano nell'unione, il dipinto celato .
- Ciò nonostante, - prosegue con tono più sereno - questi soldati, svolgono il loro dovere in una città che, giorno dopo giorno, peggiora. Lo fanno per una paga miserabile, ma che per molti è l'unica possibilità di impiego. Fino ad ora hanno avuto comandanti che hanno svolto il loro lavoro al minimo indispensabile, pronti a voltare le spalle a questo corpo d'armata alla prima occasione. Io non sono questo genere di comandante. - dichiara con fermezza dopo un istante di silenzio - Gli uomini a me affidati, nel bene e nel male, sono sotto la mia responsabilità. E la mia responsabilità di buon comandante è di averne cura. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che loro non mostrano la minima intenzione di contraccambiare ed aver altrettanta cura del loro comandante, ma a me non importa. So che otterrò il loro rispetto, sono sicura di ciò.
Ci fermiamo dinnanzi ad una ultima porta.
- Un avviso ora, brutale e sincero - afferma guardandomi fisso negli occhi, come a volermi preparare a ciò che ci attende oltre quell'uscio -  Le camerate sono oltre l'indecenza, da anni si trovano in stato di abbandono, non vengono effettuate manutenzioni se non lo stretto indispensabile, il rancio è di poco migliore di quello riservato ai porci e la paga… bè, che è miserabile l'ho già detto.
Annuisco, posso immaginare. L'intera Francia, a guardare oltre il luccichio, è in stato d'abbandono e più non basta l'animo buono di un sovrano volonteroso o quello fondamentalmente gentile della sua consorte. La corda è lisa.
Penso di essere preparato, eppure, ciò che mi accoglie una volta varcata la soglia, mi appare chiaramente come qualcosa che va al di là di ciò che potrebbe essere incuria: é disprezzo.
- Va bene, colonnello. Avete la mia attenzione.

Passiamo tra due file di brande fatiscenti, camminiamo a malapena affiancati poiché lo spazio non è molto. Alcuni soldati sono nelle loro cuccette, a riposare tra coperte talmente lise da sembrare veli, su pagliericci rammendati più e più volte; altri evidentemente non sono in forze e mostrano un aspetto tutt'altro che sano, scossi da tosse e temo febbricitanti.
Il grosso della guarnigione è fuori a svolgere le mansioni quotidiane, cercando di mostrarsi al meglio possibile. Perfetta rappresentazione di questa nazione: fuori gli stucchi dorati, dentro tarli e marciume.

- Più di una volta, in passato, mi avevate espresso i vostri sogni riguardo la prevenzione. Ebbene dottore, le offro occasione per cominciare a sperare in questo sogno che sua maestà, il re, aveva avallato... Un sogno bruscamente infranto per… - la voce trema, condividendo il mio dolore al ricordo di Alexandra - Vorrei che il vostro sogno ripartisse da qui, in piccolo. Penso che potrebbe essere d’aiuto, a me, ai miei soldati ed anche a voi.
Vorrei rifiutare, perché è facile la resa, ritirarmi e compiangermi. Ma alla fine accondiscendo. Non perché lei è il colonnello Oscar Francois des Jarjayes, ma perché quando la guardo negli occhi, vedo quel sottofondo di solitudine e tristezza che ben comprendo. Entrambi abbiamo bisogno di una mano tesa.
- Il mio assistente vi renderà noto tutto ciò che è necessario e come dovrà svolgersi la visita. Possiamo accordarci per un giorno della prossima settimana. Alla fine potrebbe essere una esperienza utile anche ai miei studenti.
Lo sguardo di lei si distende non appena capisce che la aiuterò nel suo intento e spero davvero che ciò aiuti anche noi due.



Il giorno convenuto per le visite, porta nell'aria il ricordo dell'estate, il sole caldo ha mitigato la frescura notturna e ciò rende più piacevole la nostra operazione. È stato approntato quanto richiesto nel porticato sud, ove i soldati possono attendere il loro turno in coda, senza patire né sotto il sole né sotto una eventuale, improvvisa pioggia. I miei studenti ed il mio assistente sono pronti, mentre il colonnello D'Agout ha fatto sì che i soldati si incolonnassero ordinatamente, a torso nudo, davanti al tavolo per lo smistamento.
Alcuni hanno lo sguardo preoccupato, altri rassegnato, altri ancora trattengono a stento sorrisini nervosi.
- Il vostro nome, soldato? - chiede il mio assistente seduto ad uno scrittoio, mentre io alle sue spalle osservo ed attendo. Gli studenti accompagnano un soldato alla volta nella stanza per le visite, dove li raggiungo per supervisionare.
- Luc Paillard, signori.
- Disturbi, malattie precedenti…
E mentre le domande di rito si succedono, passeggio su e giù, pochi passi, un orecchio teso alle risposte dei soldati, un occhio a madamigella Oscar che ci ha raggiunti e sta ascoltando il rapporto del suo vice.
La fila scala di uno ed il soldato che arriva di fronte al panchetto puzza terribilmente. Sia io che il mio segretario non possiamo evitare di portare fazzoletto e mano alla bocca.
- Da quanto non vi lavate?
- Lavarmi? - balbetta, lo sguardo perso come se parlassimo una lingua a lui sconosciuta. E già la replica non promette bene.
- Sì, lavarsi… tu, acqua, sapone...
- Vediamo…. mio padre era ancora in questo mondo e mia sorella non era maritata….  Mio nipote...
- Almeno un bagno all'anno come prescrive la legge lo hai fatto o no? - scatta il mio assistente assai meno paziente di me.
- La… ehm… la legge…?
Sospiro rassegnato: dovremo partire da educazione di base, come temevo.
- Prenda nota: lavaggio energico prima di esame visivo. - sottolineo al mio segretario.
- Energico? Visivo? - ripete il soldato col panico sul volto.
- Avanti un altro!
E mentre la fila scala ancora, sento rumoreggiare.
- Devono solo provarci! - tuona qualcuno.
- E di che ti lamenti? Non è normale per te?
- Bada bene…. Non scambiarmi per LaSalle!
- E che c'entro io?! - esclama il chiamato in causa - Ma davvero…?
- Ma no, hanno talmente paura per la loro virilità inesistente da cominciare a minaccciare a destra e a manca, come loro solito.
- Avanti un altro! - intima D'Agout in persona per arginare il panico.
- Il tuo nome, soldato!
- LaSalle Gerard, signore.
- Denti sani, orecchie pulite… - comunica uno degli studenti incaricato della visita preliminare.
- Eh, già! Gerardine fa il bagno come la regina… - strilla qualcuno dal fondo della fila.
- Uhhh… - si leva un coro in una imitazione poco credibile di fanciullette svenevoli, tra risate sguaiate.
il soldato arrossisce.
- Mia madre mi ha insegnato così… - balbetta come a volersi scusare.
- Tua madre ti ha insegnato bene, ragazzo - gli assicuro con tono paterno.
- Avanti un altro! - tuona D'Agout.
Quest'altro fatico a guardarlo in volto da quanto è alto.
- E tu soldato…?
- Soisson Alain, signore…
- Hai qualche disturbo da segnalare?
- A parte lo squassanento di interiora dovuto al rancio? O all'invasione di pidocchi?
- Mhm… - mugugno. - Colonnello D'Agout? - l'ufficiale scatta al mio fianco. - Potrebbe accompagnare il mio studente alle cucine? Ci serve la lista degli acquisti e fare un inventario. E parlare col cuoco e chi lo aiuta. Controllate insieme lo stato di conservazione degli alimenti, per cortesia.
Torno a guardare il gigante. Sul suo volto la sorpresa di colui che non si aspetta più di essere ascoltato.
- L'ultima volta che avete mangiato carne?
Sorride beffardo, come se avessi detto qualcosa di molto buffo.
Intuisco.
- Scrivete: verificare il consumo di carne nella dieta. Sei sposato, soldato? - chiedo.
- Nossignore, non mi faccio incastrare io! - esclama quasi indignato con voce tonante, ricevendo mormorii d'approvazione alle sue spalle.
- Bene, allora giù le branche, soldato. - lo invita quindi il mio assistente con poco entusiasmo.
I mormorii di prima diventano un pesante preoccupato brusio fino a scemare in un glaciale silenzio.
L'espressione beffarda si trasforma in sorpresa imbarazzata, ma solo per un istante.
- Oh, bè...Siamo avvezzi ormai a calarci le brache per Sua Maestà, non è forse vero ragazzi!
E lo vedo ostentare lo sguardo spavaldo verso Oscar, silenziosa ed in disparte, quasi invisibile nell'ombra del porticato,  prima di mettere mano alla cinta e slacciare i calzoni che, senza bisogno di altro, scivolano sui fianchi fino a denudare le parti intime e, già ad un primo sguardo, sane.
- Tutto a posto, dottore. - sentenzia il mio studente invitando il soldato a rivestirsi, non prima che costui si volti sfrontato al resto della colonna di commilitoni, alzando le braccia come un attore in un mezzo giro d'onore e raccogliendo applausi ed ovazioni di ammirazione per la prorompente mascolinità appena valutata ed approvata.
- La tua ultima visita ad un bordello? - domando appena il clamore scema. È risaputo che la guardia francese gestisce il malaffare attorno al palais royale, senza rifiutare di valutare la mercanzia in prima persona.
- So riconoscere un'appestata, signori… - replica finendo di allacciarsi le braghe.
- Sì… vi rinfrescheremo comunque la memoria sui rischi… - ribatte il mio assistente -  Avanti un altro!

Alzo gli occhi e mi sorprendo. Sapevo del suo arruolamento, ma trovarmelo qui davanti è così…. Fuori posto.
- André…
- Buongiorno dottore
Noto aloni grigi sul volto e sul torace, un labbro spaccato e rimarginato, segni di un pestaggio recente. Mi avvicino a lui, aggirando il tavolo che funge da scrivania.
- Come state?
- Non mi lamento dottore. - replica con una vena di ironia - E voi?
Sorrido tristemente e non rispondo. Che sia lui a chiedermelo non mi disturba; ogni parola che esce da quest'uomo non è mai una formalità.
- Il vostro occhio? - mormoro evitando una replica che egli già intuisce, avvicinandomi ulteriormente, in modo che Oscar, uscita dall'ombra ed arrivata alle mie spalle non oda.
- Come l'ultima volta, direi.
- Dovete dirglielo.
- Lo farò dottore - assicura guardandomi dritto negli occhi. Ed ancora una volta penso a quanto sia bravo a mentire.
Mi avvicino al volto e lo tasto, per verificare che i pugni abbiano lasciato solo antiestetici ematomi in via di guarigione e non danni più profondi.
- Che vi è successo? L'ultima volta che vi ho visto così pesto eravate solo un ragazzo poco abile nell'evitare pugni.
- A quanto pare, i soldati della guardia sono tutti ragazzoni, solo un po cresciuti. Ed io… bè, sono migliorato nello schivare, ma a quanto pare non abbastanza.
- Perché non mi avete chiamato per un controllo?
- Oscar avrebbe voluto, ma non mi pareva il caso.
- Pugni al vostro occhio non vi sembra il caso? Raccontatele della vostra situazione o lo farò io
- Dottore…
Lo zittisco con uno sguardo che non ammette repliche.
Annuisce mesto.
- Dolori? Disturbi? - domando con tono più alto, chinandomi di persona ad auscultare.
- Sto bene, dottore. - afferma smentendo le parole con una smorfia al mio tocco sul costato.
Lo guardo malamente. Sì, lo so, i disturbi gravi di cui soffre da sempre, non sono rilevabili da una mia visita; il cuore batte sano nonostante tutto; i polmoni hanno un respiro pulito, nonostante l'uomo stia soffocando.
- Non è stata una grande idea arruolarvi, se posso permettermi.
- Ogni tanto, una follia dottore…
Sospiro sconfortato.
- Vedrò che vi vengano dati giorni di riposo…
- Che non godrò. - Mi interrompe - Non posso assentarmi dal servizio, i miei compagni potrebbero aversene a male. Inoltre, non voglio. - bisbiglia.
- Evitate sforzi, bendate il torace e almeno imparate a scansare se non ad evitare, già ve lo dissi…
Sorride al ricordo dei tempi in cui la vita pareva un gioco.
- Non posso, dottore, lo sapete. - mormora. - Non posso… evitare.
- Siete un'incosciente, André e l'incoscienza alla fine…
- Se l'incoscienza fosse saggia non sarebbe incoscienza.
- Mi arrendo la vostra follia ragazzo.
- Beati i folli, dottore, hanno ancora speranza.
Vorrei replicare che la speranza porta solo alla tomba, ma non ne ho la forza.
- Vi farò avere degli uguenti per quei lividi. Non lesinateli.
- Avanti un altro! - strilla il mio assistente, mentre mi volto ed incrocio lo sguardo ansioso di madamigella.
Quindi, tutto questo per lui? Perché alla fine è lui che conta? Per proteggere il vostro amico che non vuole ascoltare ragioni? Perché sia io a ordinargli di fare un passo indietro? No, Oscar, tocca a voi salvare la vostra amicizia, o qualunque cosa sia questo legame tra voi.
Per ora vedo solo due persone ben determinate a compiere scelte sbagliate.
Ostinati testardi.

Sì, col senno di poi, vorrei che Oscar avesse impiegato la stessa fermezza nei propri confronti e che forse venuta da me subito, appena apparse le prime febbriciattole.
E per tutto il resto...
"… se solo, se invece…"


***
Auguri di Buon Anno a tutti!

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Capitolo 17
*** capitolo 17 ***


17 inevitabile follia 17 inevitabile follia

Giugno 1789, Parigi

La guardo rivestirsi, dandomi le spalle, lenta. Ostenta sicurezza come sempre, ma da sempre la sua nudità ed ancor di più il dover essere sincera con me , la imbarazzano.
Esile. Troppo esile.
Pallida. Troppo pallida.
Guardo la sua pelle diafana e vedo la morte che la sta divorando.
Guardo il suo corpo ossuto e vedo la fine vicina.
Tisi.

Silenzio.
Solo lo strusciare del tessuto sulla pelle e poi della giacca sulla camicia; lo schiocco del cuoio della cinta che viene serrata; il lieve rumore del metallo della lama che si aggiusta nella guaina
- Bene, dottore…  Sono pronta ad ascoltare la verità. So che la diagnosi che state per emettere è terribile, ma io già la conosco.
Diretta e tagliente come sempre e vorrei crederle.
Vorrei davvero che fosse pronta per ciò che l'aspetta, per la dolorosa agonia, per il consumarsi oltre l'immaginabile, tutto il contrario di ciò per cui viene forgiato un soldato.
Ma nessuno è mai pronto. La morte ti sorprende sempre con la sua bruttura ed arriva troppo presto. Sempre troppo presto.


- Le vostre condizioni generali non sono affatto buone - mormoro a capo chino,  incapace di conciliare la verità con il suo sguardo - …  e quella tosse mi fa pensare …
- … alla tisi. Lo so, lo so bene. - mi interrompe col tono inizialmente tonante e più debole, incerto, ansioso in quella nota finale. - È già da alcuni mesi che alcuni sintomi mi hanno fatto pensare a questo terribile male. Vorrei soltanto sapere quanto mi resta da vivere . - mormora infilando i guanti candidi sulle lunghe dita, con lenta ed  irritante precisione.

"Morirà? Sì."
- La tubercolosi non è incurabile, - mento, ma solo in parte. Infatti ho utilizzato il termine curare, non guarire. Tutto può essere curato, anche solo portando attenzioni e gentilezza, guarito invece…
- A volte si è giunti a completa guarigione con riposo e dieta appropriata
“… e lo chiamiamo miracolo”, commenta acidamente la mia coscienza.
- Dottore non voglio certo morire. Ho ancora molte cose da fare. - replica sgarbata.
- Non voglio dire che sia tardi. Dovete abbandonare la carriera… altrimenti non vivrete più di sei mesi, Oscar. - rispondo quasi altrettanto sgarbatamente.
Un attimo di silenzio tra noi a quietarci.
- Vi ringrazio per essere stato sincero con me, dottore.
Annuisco. Comincio a scriverle le prescrizioni.
- Raccomando una dieta variata ed equilibrata, uno stile di vita sano. Dovete riposare ed aver cura di voi. - Esordisco, chino sul mio scrittoio - E poi… Valeriana, biancospino, melissa per ben riposare… Angelica, agnocasto… per l'amenorrea …- mi blocco di colpo, non ho valutato quella possibilità.
- Perdonate la domanda, colonnello, ma…
- Se state per chiedermi se conosco un uomo intimamente, no dottore. Mai. Non ho tempo per queste cose.
Annuisco, ma tra me penso che non sia il tempo a mancarle.
Ricordo bene la donna vestita di bianco, che mi urtava fuggendo dal ballo.
Lei aveva trovato il tempo di invaghirsi per Fersen, un uomo innegabilmente affascinante, ma non adatto a lei.

E non lo era perché ella era pronta a dare tutto, ma lui non aveva nulla da dare, avendo a sua volta già dato tutto.
" I peccatori restano…"
Scuoto il capo: non posso pensare alla mia rosa in questo momento.
Al suo respiro lento, al suo pallore, ai giorni interminabili della sua agonia; quando la osservavo respirare piano, a fatica, piangere e respingere l'aiuto delle domestiche ed anche il mio. E poi io che allontanavo malamente la cameriera chiedendo di lasciarci soli … Il suo rimpianto sussurrato al mio orecchio con la forza dell'ultimo respiro… E niente più respiri. Il suo volto che scivolava di lato, come per dormire, in quel sonno dal quale mai più si sarebbe risvegliata.
Porto la mano alla fronte per celare le lacrime prepotenti ed inopportune.

Ma rammento anche l'avvertimento di Alexandra nei primi tempi della nostra frequentazione, quando mi disse "ricordi di guardare negli occhi i suoi pazienti, dottore".
Non sono bravo quanto lei, né a leggere l'iride, cosa cui credo solo a momenti alterni, né tantomeno l'animo delle persone, eppure nel momento in cui per poco incrocio lo sguardo con Oscar, nella profondità di quel turchese intravedo il dolore, il peso delle cose non fatte, delle cose che vorrebbe fare e l'incombente realtà di ciò che non farà mai. E capisco che più della tisi, è il suo cuore in gabbia a condurla alla tomba.
Preso dalla commozione, non so perché, ma mi illudo che la sua situazione migliorerà, un leggero ottimismo mi invade.
Ed alla mente si affaccia lui.

- Come sta il vostro André? È da un po' che non viene a farsi visitare…
- Perché André dovrebbe venire a trovarla? - domanda volgendosi di scatto verso di me, mentre il suo volto si tinge di vero terrore.
Ed io sprofondo nella sua paura, mi sento cadere, come se con quella domanda abbia aperto un pozzo sotto i nostri piedi.
- È mai possibile che...
Sciocco testardo!… La verità rende liberi, penso, e sarebbe davvero il momento di spezzare le catene e parlarle chiaramente.
Vada come vada.
Costi quel che costi.



Palazzo Jarjayes, 17 luglio 1789

- Sandrine? - mormoro schiudendo gli occhi, chiamato al risveglio da quella sensazione di sentirmi osservato.
Nessuno risponde eppure un'ombra è qui, di fianco al mio letto nella stanza delle rose, e mi guarda silenzios; le lacrime scendono sulle sue guance vive seppur pallide.
Sbatto le palpebre, cerco di mettere a fuoco: non è un ricordo, non è un fantasma.

- Rosalie… ma… - balbetto, ancora intontito, riconoscendola.
Mi sollevo sul copriletto e lascio scivolare le gambe fino a posare i piedi nudi sul pavimento fresco, piacevolmente reale.
- Che succede?
- La vecchia balia è spirata. - riesce a sussurrare in un singhiozzo prima di celarsi il volto con le mani ed abbandonarsi al pianto.
Mi alzo ed accolgo tra le braccia l'orfana che conobbi, mai tanto orfana come oggi. In silenzio, perché non c'è più forza per la disperazione.
Quanto dolore potrà ancora colpire questa casa?

E così, rassegnato a ciò che il fato ha deciso, mi sono ricomposto, rinfrescato, perfino sbarbato.
A lei, a Marron, avrebbe fatto piacere vedermi così. La guardo nella penombra dell'alba che filtra appena, composta nel suo letto di morte dai domestici: il suo abito migliore, la sua immancabile cuffietta di pizzo… Pare pronta a prendere servizio, un'altra giornata di lavoro, lavoro che era la sua vita.
Immagini di lei, così uguale negli anni, scorrono nei miei ricordi, e non resta che tenerezza per questa donna, così piccola, così grande. Lei destinata a stare a guardare, senza mai intervenire, sempre combattuta, sempre in bilico tra l'amore per il suo André, quello per la sua Oscar, quello per la famiglia che serviva, che amava.  
Spero sia ora finalmente libera dai suoi acciacchi e dalle sue responsabilità.
Spero sia serena e in un posto migliore.

Mi chino a sfiorarle con un bacio la fronte ancora calda.
- Buon viaggio, Madame… - auguro in un sussurro.
Esco quindi  nel corridoio già luminoso del primo mattino, richiudendomi la porta alle spalle con la stessa sensazione di quando si chiude un romanzo appena concluso, che ci ha accompagnato nei giorni con tante pagine, ci ha rincuorato ed esaltato, fatto piangere e sorridere; ed ora ci lascia la sua assenza, le domande sul domani, i dubbi, le riflessioni.
Da fuori giunge il rumore di carrozze sulla ghiaia del viale: altri parenti in arrivo.
É il giorno dell'addio.

Il salone dei ricevimenti non è poi così gremito come ci sarebbe potuti aspettare dalla prematura dipartita di Oscar Francois des Jarjayes.
Personaggio di rilievo, più  discusso che discutibile, certamente non inosservato e difficilmente dimenticabile.
Nobile, ufficiale; volto noto, animo schivo; leale alla Corona, ma fedele alla propria coscienza … Uomo? Donna? Certamente c'è ancora chi se lo domanda.
Era una persona ombrosa, a volte prepotente, ma onesta e scevra di opportunismo.
E per tutto ciò, personaggio impegnativo e fastidioso.

Ci sono parenti, alcuni amici del generale, nessuna autorità di rilievo.
Le sorelle di Oscar con i rispettivi consorti sono presenti.
Scorgo il generale da un lato della stanza, madame dall'altro e, frapposti tra loro, un certo numero di anziani consanguinei, le colonne di famiglia; quelli che intervengono ad ogni funerale borbottando "io sarò il prossimo", come fosse una scommessa che mai si vorrebbe vincere.

Tutte persone che Oscar avrà visto poche volte nella vita, che non la conoscevano e che ora probabilmente vorrebbero disconoscerla.
Tanti preti e suore, il ramo clericale, tipico di ogni famiglia aristocratica di buon livello; presenti più per dovere richiesto dalla loro posizione che per reale sentimento verso la defunta.

Riconosco anche il vecchio conte Girodelle, intervenuto da solo perché il figlio è stato imprigionato dopo aver disobbedito agli ordini di Sua Maestà.
Il generale si avvicina per ringraziarlo della sua partecipazione.
- Sono qui solo perché l'ho promesso a Victor. Solo per questo, Jarjayes. - sottolinea sprezzante.
- Io… comunque Vi sono grato. A voi ed a vostro figlio. Ad Oscar avrebbe fatto piacere …
- Lasciate perdere, Jarjayes! Non tiriamo in causa i piaceri di vostra figlia!
Si allontana poggiandosi al bastone, probabilmente, l’unico sostegno che avrà nella sua vecchiaia se Victor non verrà graziato; evidentemente ritiene responsabile Oscar per la rovina del figlio e, sebbene non si possa certamente parlare di colpe, poiché ciò che il cuore decide, anche quando fa del male, non è considerabile alla stregua di un delitto, deve costargli davvero molto trovarsi qui.
Il generale resta immobile, senza parole.
Distrutto, umiliato. Infinitamente triste.

Dal gruppo dei generi si leva un brusio.
- Adesso basta! - esclama al consorte una delle figlie attirando l'attenzione del generale.
- Che succede ora? - domanda egli spazientito, avvicinandosi.
La secondogenita cerca ancora di zittire il marito, inutilmente.
- Non possiamo! Non possiamo seppellirli nella cappella come nulla fosse accaduto! Non possiamo seppellirli insieme! Avete sentito il conte Girodelle? Nel migliore dei casi, saremo lo zimbello di Versailles!
- Abbassa la voce… - ringhia la moglie.
- No! Passi come sono morti, possiamo negarlo e mettere tutto a tacere, ma loro … insieme!… Magari riportando il suo nome su una lapide accanto ai nostri? Ad ammorbare il lignaggio, a rubarci ...
- Non vogliamo rubare niente a nessuno, - si intromette mestamente Rosalie, da un angolo - sarà temporaneo…
- Non c'è nulla di temporaneo nel disonore! Quanta vergogna devono ancora causarci, quanto…
- Ad Arras! - grido improvvisamente. E tutti tacciono. - Ad Arras, vogliamo solo portarli ad Arras… - aggiungo guardando il generale negli occhi con tono di supplica. - Non possiamo affrontare il viaggio con questo caldo e con i tumulti in corso. Tra qualche mese… tra qualche mese, quando tutto si sarà calmato, col freddo, verrò a prenderli e li accompagnerò personalmente ad Arras. Là dove avrebbero voluto stare. Stiamo solo chiedendo asilo per i loro corpi, nulla di definitivo.
Nella sala cala il silenzio, tutti a guardare me, a guardare il generale.
Un movimento dal gruppo dei generi viene stroncato preventivamente da un dito alzato del generale.
Solo un dito ad avvertire che la misura è colma e che non un fiato verrà tollerato.

- Resteranno qui per tutto il tempo necessario. Per tutto il tempo che io vorrò. - rincara, autoritario - E nessuno, chiunque esso sia, dovrà osare un fiato in opposizione. E resteranno insieme. Indipendentemente dalle loro ultime scelte che non posso condividere, le loro spoglie meritano rispetto che in queste ore potrebbe venire a mancare. Quindi resteranno qui. Insieme, sì. L'ultima volta che parlai ad André, gli dissi che se fosse stato nobile, avrei caldeggiato la loro unione perché sapevo che l'avrebbe resa felice. Alla fine così è stato, nonostante me, nonostante tutti, nonostante il mondo. Quello che non avevo ancora capito, a differenza di Oscar, è quanto lui fosse già nobile. Nell'animo.  La nobiltà più vera. L'origine di ogni nobiltà. Non avrei potuto avere figli migliori - confessa ancora una volta, ma pubblicamente, posando lo sguardo minaccioso su ogni presente - Ed è quindi giusto che egli riposi accanto alla donna che amava e che lo ricambiava.
Nel silenzio totale, madame Marguerite si scioglie dall'abbraccio delle figlie e cammina piano, ma decisa verso il marito, a testa alta .
Esita un istante di fronte a lui, guardandolo in volto, guardandolo negli occhi, scivolando sui lineamenti ben conosciuti come se li stesse improvvisamente riscoprendo.
Poi, inaspettatamente, la mano si leva ed  uno schiaffo, un unico colpo violento come mai mi sarei aspettato dalla signorile e delicata Marguerite che conosco, lo colpisce sulla guancia.  Tra la sorpresa generale, Jarjayes non risponde e fissa la consorte senza fiatare.

- Per averlo ammesso solo ora. - Sentenzia Marguerite tra le lacrime, posando una carezza laddove aveva appena colpito, prima di rifugiarsi nell' abbraccio del marito che non aveva mai smesso di amare e che mai, nel profondo, aveva smesso di amare lei.
- Ed ora, portami a dar l'addio a mia figlia - mormora stringendolo forte.

Preceduti dall'anziano cugino incaricato della benedizione alle salme ed al sepolcro, intontiti dalle litanie e dalla stanchezza di una notte per lo più insonne, i coniugi Jarjayes stretti tra loro, si avviano attraverso il cortile e tutti noi li seguiamo.
Rosalie accanto a me è esageratamente pallida e temo possa svenire da un momento all'altro.
L’iniziale rabbia con la quale ha cominciato questo viaggio, ha lasciato il posto al sentimento vero che l’aveva ispirata, ovvero il dolore, forte, devastante, irrimediabile per la perdita subita.

La cappella già ci attende a porte spalancate, come dantesco ingresso al purgatorio.
Dentro hanno cominciato i lavori di preparazione dei sepolcri per cui le panche e le bare sono state spostate per consentire a quattro uomini di muoversi e, nel pavimento a ridosso dell'altare, già si apre una voragine laddove le lastre di marmo sono state sollevate.
I corpi  verranno deposti sotto il piano di calpestio, nei posti originariamente destinati a madame ed al generale.
Un posto d'onore. Così ha deciso Jarjayes.

Marguerite stretta al marito fissa il buio a pochi passi oltre i suoi piedi.
- Ho saputo che Oscar si è messa in prima fila… - mormora mentre tremori incontrollabili la agitano - Perché? - domanda ad Auguste che si limita a scuotere il capo - Perché? - ripete ansiosa volgendosi a me, come se da questa risposta dipendessero la sua vita e la sua sanità mentale - Voleva morire?
- No… - sussurro prendendole il braccio per aiutare il generale a sostenerla, perché so cosa aspettarmi.
"Negare… "
Negare per sopravvivere, o trovare una ragione dove la ragione non ha senso.

- Non voleva morire, ma solo smettere di soffrire. - mormoro a Marguerite - Non credo lei cercasse la morte davanti alla Bastiglia, ma solo sollievo. Nessuno vuole realmente morire, ma solo smettere di soffrire. E lei soffriva enormemente. Semplicemente, è morta come è vissuta. Senza tirarsi indietro.
- Non sono riuscito a dirle addio, ero convinto che sarebbe tornata. - aggiunge  Jarjayes con voce spezzata.
Con la coda dell'occhio, scorgo Rosalie sedersi pesantemente su una panca, ma non posso soccorrerla.
Dolore di madre, di padre, dolore di figlia.

I domestici levano le spade ed i drappi che coprono le casse, liberando il puzzo accumulatosi al di sotto durante la notte che va a mescolarsi con quello delle candele e dell'incenso; gli uomini di fatica spostano le bare sul pavimento, sopra delle  funi con le quali verranno calate sottoterra.
Marguerite ha uno slancio in avanti, piange, rifiuta l'addio e dobbiamo trattenerla in due.
-... Oscar… bambina… la mia Oscar… sottoterra… no…- singhiozza.
Cominciano a calare la cassa di André, poi Oscar.
Negli spostamenti, le due bare si urtano, come in un'ultima stretta di mani, un ultimo contatto, un ultimo sfiorarsi prima del riposo eterno.

Durante tutto questo, il prete non ha interrotto un istante le preghiere; parole in latino, vecchie di secoli quanto il dolore degli uomini in terra, parole che ascolto solo a tratti perché il mio cuore fa troppo rumore.
"Il Signore è il mio pastore…"
"Ad acque tranquille mi conduce…"
"Non temerei alcun male…"
"Lavali da ogni colpa…"
"Là dove ogni lacrima verrà asciugata…"
"Concedi loro il riposo eterno…"
"Amen"

E così sia.

***





 

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