E se... ?

di The Blue Devil
(/viewuser.php?uid=1016626)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un'incredibile notizia ***
Capitolo 2: *** Avvisaglie di un temporale ***
Capitolo 3: *** Fulmini a ciel sereno ***
Capitolo 4: *** Incontri e scontri ***
Capitolo 5: *** Da sogno a incubo ***
Capitolo 6: *** Un'amica ritrovata ***
Capitolo 7: *** "Candy non vuole vederti" ***
Capitolo 8: *** Dubbi e confidenze ***
Capitolo 9: *** La "carta Daisy" ***
Capitolo 10: *** Consiglio di guerra ***
Capitolo 11: *** "Rendilo felice anche per me..." ***
Capitolo 12: *** Spasmodica ricerca ***
Capitolo 13: *** La ricerca prosegue ***
Capitolo 14: *** Un annuncio importante ***
Capitolo 15: *** Mezze verità ***
Capitolo 16: *** Tormenti e paure ***
Capitolo 17: *** "Non voglio farlo!" ***
Capitolo 18: *** Un quarto d'ora da incubo ***
Capitolo 19: *** Ancora cinque minuti da incubo ***
Capitolo 20: *** Due o tre cose prima di danzare ***
Capitolo 21: *** Gelosie ***
Capitolo 22: *** Il regalo ***
Capitolo 23: *** Chi ha comprato i terreni di Cartwright? ***
Capitolo 24: *** Chi è realmente Harrison McFly? ***
Capitolo 25: *** Un fiume di lacrime... ***
Capitolo 26: *** La decisione di Raymond Legan ***
Capitolo 27: *** Buon viaggio, carissimo Neal! ***
Capitolo 28: *** Un terribile segreto ***
Capitolo 29: *** Incendio alla "Casa di Pony" ***
Capitolo 30: *** Accuse e sospetti ***
Capitolo 31: *** Le indagini ***
Capitolo 32: *** Un'incredibile verità ***
Capitolo 33: *** La fine di due coppie? ***
Capitolo 34: *** Progetti per il futuro ***
Capitolo 35: *** Una vita diversa ***
Capitolo 36: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Un'incredibile notizia ***


Forse vi ho abituati troppo bene (o troppo male, dipende dai punti di vista); lo dico perché ora vi presento una storia su Candy più, come dire, "canonica", ma... non troppo. Niente Yuri o cose simili (almeno non tra i protagonisti) e un paio di sorprese, spero gradite. Così mi allineo allo stile del fandom... spero non faccia troppo schifo! Fatemi sapere.
Ho scelto il Rating Arancio perché non si sa mai (posso sempre cambiarlo). 

Buona lettura

 
Ah dimenticavo:
Non è uno scritto a scopo di lucro alcuno per cui non si infrangono Copyrights.
I personaggi presentati, nomi e situazioni, sono di proprietà degli aventi diritto: Kyoko Mizuki (Keiko Nagita) per il soggetto; Yumiko Igarashi per la resa grafica dei personaggi; Toei Animation Co., Ltd, per la serie TV e Kappalab per l'edizione italiana dei romanzi di Kyoko Mizuki/Keiko Nagita.

 
Buona lettura
 
 
 
Capitolo 1
Un’incredibile notizia
 
Candy era bellissima, avvolta nel suo vestito di seta azzurro, che solo lei sapeva far frusciare con grazia ed eleganza ad ogni suo movimento; un diadema d’argento aiutava la sua chioma dorata a restare imbrigliata, consentendo a due sole ciocche ribelli di incorniciarle il grazioso visetto, impreziosito da un raggiante sorriso. Nulla pareva essere fuori posto, neppure i coriandoli, dimenticati dal carnevale, che le punteggiavano il nasino e che erano stati sfruttati da lui per regalarle un soprannome adeguato.   
Lui, Terence G. Grancester, che, avanzando verso di lei, non riusciva a impedire alle sue iridi blu di perdersi in quelle verdi di lei.
Giunto presso di lei, Terence, da vero gentiluomo qual era, si inchinò – fu l’unico momento in cui gli riuscì di non guardarla negli occhi – e formulò la sua richiesta:
"Signorina Candice White-Andrew, mi concedete l’onore di ballare con voi il prossimo valzer?".
Candy, sfoderando il sorriso più bello di cui fosse capace, gli rispose, dopo essersi leggermente inchinata a sua volta, sorreggendosi il vestito con due mani per allungarne poi una verso di lui:
"Certamente, mio bel cavaliere".
Terence prese delicatamente la mano guantata che gli era stata offerta e, partita la musica, si strinse a Candy, facendola volteggiare leggiadramente nel salone.
Candy si sentiva al settimo cielo: stava danzando a ritmo di valzer, quel valzer, col suo amato Terence. Un tempo, mentre danzava quello stesso valzer, aveva pensato:
"Archie balla benissimo; Stear ha degli occhi bellissimi dietro gli occhiali; ma, quando ballo con Anthony, mi sembra di essere in Paradiso...".
Ora era diverso: era ben consapevole di essere sulla Terra, di essere viva, stretta all’uomo che amava; poteva sentire il suo calore, i battiti accelerati del suo cuore, i fremiti provocati dal contatto dei loro corpi... Ormai solo pochi centimetri separavano la sua bocca da quella di lui. Candy chiuse gli occhi e sentì... "Candy".
Socchiudendo gli occhi, ancora in dormiveglia, pensò:
"No, tu non c’entri, va’ via! Questo è il mio sogno".
La musica ricominciò e Candy si riavvicinò al viso di Terence: chiuse gli occhi e... "Candy!".
Questa volta la ragazza aprì gli occhi e vide il viso di Iriza, chino su di lei:
"Ciao Candy, come va?".
Puntò i gomiti sul terreno, si sollevò un po’ e si guardò intorno. Non le ci volle molto per realizzare dove si trovasse: un prato, una collina, un grande albero e... una vipera velenosa!
"Maledizione!", esclamò, balzando in piedi e dardeggiando uno sguardo infuocato sulla sgradita visitatrice.
"Ancora! Ancora una volta! Non ne posso più, maledizione!".
Era da parecchi giorni che Candy faceva lo stesso sogno, ogni volta che si assopiva anche solo per riposare un po’, che si concludeva sempre allo stesso modo e sempre nello stesso punto: c’era sempre qualcosa, o qualcuno, che le impediva di congiungersi col suo amato! Era diventata quasi una tortura. Perché quel sogno? Qual era il suo significato? Perché si presentava proprio in quei giorni? Anthony e Stear erano morti e Terence era "andato" e lei lo aveva accettato, ma allora... perché aveva cominciato a sognarli incessantemente?
"Se ho interrotto qualcosa di piacevole, mi dispiace, sono mortificata", cominciò Iriza, sfoderando un atteggiamento dispiaciuto che più falso non si può ed un sorriso, quasi un ghigno, più di scherno che di altro.
"Anche se, nel tuo caso, le puoi solo sognare le cose piacevoli", aggiunse poi.
Candy ribatté:
"Va’ al diavolo e dimmi piuttosto: che diamine ci fai qui e cosa vuoi da me?".
"Eh, che scortesia! E così che si ricevono le amiche da queste parti? Io vengo a portarti delle importanti novità e tu mi tratti così? A proposito, lo sai che è proprio un bel posto questo? Una collina stupenda, un bel prato, un bellissimo albero...".
Iriza, come sempre, si divertiva a provocarla, a prenderla in giro e Candy lo sapeva bene.
"Falla finita col tuo sarcasmo! Noi non siamo amiche e mai lo saremo. Se hai davvero delle novità dimmele, altrimenti sparisci! E portati via le tue battute inutili e stupide".
"Doveva essere davvero un bel sogno per reagire così", borbottò la Legan tra sé, con voce udibile, prima di dirle, fingendosi dispiaciuta:
"Perché pensi che il mio sia sarcasmo? Non capisco".
Candy, spazientita, cominciò ad avanzare verso di lei; allora Iriza, fatti due passi indietro, per evitare ulteriori "problemi", si decise:
"Calma, calma, ce le ho le novità. La zia Elroy ha deciso di dare una grande festa e un gran ballo, per festeggiare la grande notizia e... avrebbe piacere che partecipassi anche tu. A dire il vero la mamma pensa che sia un desiderio dello zio William. La zia non avrebbe motivo di accogliere in casa sua una...".
"Una trovatella? O volevi dire una ladra?", la interruppe la bionda, "Ti informo che la zia Elroy è stata informata di molte cose e... lascia perdere, non capiresti. Comunque questi eventi mondani non m’interessano, lo sai bene".
L’espressione di Iriza, reale o finta che fosse, si fece sbalordita.
"Ma cosa vai a pensare? Intendevo dire una ragazza problematica come te. E poi, ho capito bene? Non t’interessa festeggiare il ritorno di... Stear, il nostro caro cugino?".
Ora era dipinta sul viso di Candy l’espressione che, poco prima, aveva esibito Iriza, ma questa era genuina. Superato un primo momento di stupore, Candy riprese il controllo e passò al contrattacco:
"Che... che vai dicendo? Senti carina, se è uno scherzo è di pessimo gusto! Non farlo mai più o io ti...".
"È tutto vero, è tutto vero: la guerra è finita, Stear si è salvato e sarà a casa tra qualche settimana. Era caduto prigioniero dei nemici, dopo esser sopravvissuto all’abbattimento del suo velivolo".
Candy non pareva ancora del tutto convinta.
"E come mai io non ne so niente? Come mai lo zio William non mi ha informato di nulla?".
"Perché tu in realtà non fai parte della famiglia, sei solo una stupida orfana", avrebbe voluto rispondere Iriza, ma resistette a quell’impulso malsano e disse la verità:
"La notizia è arrivata questa mattina, mentre tu dormivi qua, e la zia ha imposto il silenzio: vuole che sia una sorpresa per tutti. Ovviamente i Cornwell, compreso Archie, già lo sanno".
Candy, che non sapeva se essere più agitata o più felice, per quella strabiliante notizia, insistette:
"Se è tutto vero tu...".
"Se ti stai chiedendo come l’ho saputo, non preoccuparti. Ho voluto portarti la notizia di persona... lo sai che ti voglio bene, cara".
Candy avrebbe voluto ribattere, ma la voce di Suor Maria, che correva a rotta di collo su per la collina, la distolse da quel proposito:
"Candy! Candy! C’è una vettura degli Andrew, ti cercano. Vieni presto, dev’essere accaduto qualcosa di grave".
"Come vedi ti ho detto la verità e il fedele George non ha perso tempo. Ricorda di mantenere il segreto", sibilò Iriza, ridacchiando.
Candy andò incontro alla religiosa e pensò:
"Non ci credo ancora, è troppo, troppo... è troppo e basta! Mi spiace solo che ora dovrò fare il viaggio in auto con quella...".
Si girò verso Iriza, ma lei si era già incamminata, scendendo dalla collina sul versante opposto. Prima di scendere anche lei, in compagnia di Suor Maria, verso la vettura che l’attendeva davanti alla "Casa di Pony", Candy restò per qualche istante, interdetta, ad osservare la viperetta che si allontanava.
"Ma se la fa a piedi? Ma che vado a pensare, ci sarà una vettura ad attenderla! E poi perché si è disturbata per avvertirmi?", pensò.
Anche un’altra persona, avvolta in un mantello nero, stava osservando la Legan nel suo ridiscendere dalla "Collina di Pony". Quella persona, pur non avendo potuto udire cosa si erano dette le ragazze, pensò:
"La cosa si fa interessante... quella ragazza è interessante... penso che ci sarà da divertirsi... sì, comincia a piacermi questa missione, credo proprio che mi fermerò a Chicago più del previsto...".
 
Candy entrò nello studio di Albert e gli corse incontro. Era da tanto che non vedeva Lakewood e rimmettervi piede, dopo tanto tempo, le procurò una strana sensazione, poiché quel luogo le evocava ricordi tristi e felici in egual misura. Dopo aver scoperto la verità sul "Principe della Collina" e sullo "zio William", vi si era recata solo un paio di volte, ma sempre con la tristezza nel cuore; ora, invece, le emozioni che la agitavano erano un misto di gioia e paura.
"Albert è vero? Dimmi che non è uno scherzo!", urlò Candy, buttandoglisi tra le braccia, in lacrime.
"Ehi, calma", rispose lui, aggiungendo:
"Sembra quasi che tu sappia perché ti ho fatta cercare".
"È per Stear...", singhiozzò la ragazza.
"George?", domandò Albert, rivolgendosi al suo fedele segretario.
"No, signor Andrew, non ne so niente; non mi permetterei mai di contravvenire ad una vostra richiesta".
"Va bene George, puoi ritirarti ora".
"Col vostro permesso".
Uscito George, Candy, che si era calmata, informò lo zio:
"George ha ragione, lui non c’entra, è stata Iriza".
Albert parve molto sorpreso.
"Iriza? E come fa a saperlo?".
Poi riflettendoci, concluse:
"Eh, certo, la sua cara mammina; quell’arpia deve essere riuscita a estorcere la notizia alla zia Elroy. Comunque è stata gentile ad avvisarti e la cosa mi sorprende".
"No Albert, se sapessi cosa mi ha detto, ma... non voglio parlare di lei, ora. Piuttosto, ciò significa che è vero? Stear è vivo? Ma come è stato possibile, ci avevano comunicato che...", proruppe la bionda, che era tornata ad agitarsi.
"Se ti calmi e ti siedi, te lo spiego".
Albert, dopo averle fatto portare un bicchier d’acqua, le raccontò ciò che aveva saputo: durante uno scontro aereo nei cieli delle Fiandre, un paio di SPAD erano stati abbattuti dai Fokker tedeschi*; essendo caduti in campo avverso non era stato possibile recuperare i corpi dei piloti, ma gli "alleati" erano venuti fortunosamente in possesso di alcuni oggetti, tra cui un giubbotto, zuppo di sangue, appartenuti a Stear. Fare due più due non era stato difficile. In seguito si era scoperto che Stear e un suo caro amico francese, Dominique, si erano scambiati i giubbotti prima di levarsi in volo, promettendosi di restituirseli a missione finita: purtroppo il francese era deceduto, mentre l’americano, benché gravemente ferito, si era salvato, rimanendo prigioniero, in una specie di ospedale da campo, fino alla liberazione, avvenuta alla fine del conflitto. Tutti avevano creduto che quell’aviatore, miracolosamente scampato alla morte, fosse il francese Dominique, e invece si trattava di Stear, che aveva anche sofferto di un’amnesia temporanea. Ma ora, completamente guarito dalle ferite, stava ritornando ai suoi cari.
Candy ne fu felice, ma pensò anche, con dolore, a cosa dovessero aver provato i familiari del francese, alla scoperta che quel ferito non fosse il loro congiunto: cosa si prova in questi casi lei lo sapeva bene.
"Albert, sono strafelice, soprattutto per Archie e Patty, ma... non penso di partecipare alla festa e al ballo; lo sai che son cose che non fanno per me, non me la sento. Festeggerò Stear più tardi, con calma, insieme ai nostri amici più stretti. Per adesso mi basta sapere che è sano e salvo".
"Ma Candy, non puoi mancare proprio tu", protestò il biondo capofamiglia.
"Capiscimi Albert... mi sentirei a disagio, fuori posto; e poi ci sarà un sacco di gente che non conosco; a dirla tutta, non conosco nessuno...".
"Come non conosci nessuno", la stoppò Albert, "Ci saranno Archie, Annie, Patty...".
"Neal, Iriza...", s’intromise lei.
"Ci sarò io e ci sarà soprattutto Stear", insistette Albert.
"E ci sarò anch’io!", tuonò, improvvisa, una voce potente, che Candy conosceva bene.
In passato la ragazza aveva molto temuto la persona a cui apparteneva quella voce, che le aveva sempre incusso una certa soggezione; quel vago senso di timore, anche se ora non aveva più nulla da temere da lei, le era rimasto addosso, per cui si voltò lentamente, mentre quella voce tornava a farsi sentire:
"Candy, desidero che tu partecipi alla festa e al ballo, dato che ormai fai parte della nostra famiglia a pieno titolo, che tu lo voglia o no. La tua assenza potrebbe causarci dei problemi".
Timidamente, Candy osservò:
"È solo questo zia Elroy, temi uno scandalo?".
L’anziana si accigliò e poi, con un tono più rassicurante, disse:
"Certo che no. È mio desiderio che tu ci sia, per Patricia, per Archibald, per Alistear e anche... per me! Hai detto che non conosci nessuno? Bene, è ora che tu faccia conoscenza con i capifamiglia dei nostri clan. Voglio che ti sia chiaro che il mio non è certo un ordine, ma un desiderio".
"Beh, Candy, messa così, penso che tu non possa proprio rifiutare", soggiunse Albert.
Candy tentò ancora di obiettare:
"Ma...".
"Niente ma. È deciso, ci sarai anche tu. E non preoccuparti per vestito e accessori, penserò a tutto io", sentenziò il capofamiglia.
"Come sempre", pensò Candy, alla quale non era sfuggita l’espressione compiaciuta e benevola della zia Elroy: possibile che l’arcigna e terribile Elroy volesse riprovarci con lei? Voleva veramente recuperare un rapporto, se non di affetto, di cordialità con Candy? Alla ragazza parve proprio di sì, per cui non si oppose più e si arrese.
"Va bene, ci sarò", concluse.
 
Candy aveva rifiutato l’offerta di fermarsi a Lakewood per quella notte e si era fatta riaccompagnare alla "Casa di Pony" da George: lei possedeva un appartamento in città, ma non se la sentiva proprio di dormire là, da sola, tutta agitata per quella notizia, tanto inattesa e gioiosa, quanto preoccupante. Cosa c’era di preoccupante  in quella notizia?
Candy era molto, troppo agitata: le ritornò alla mente la meravigliosa giornata passata in compagnia di Anthony, pochi giorni prima della sua tragica fine.
"Quel maledetto sogno... ho sognato Anthony, Stear e soprattutto Terence! Ho paura... si sognano le persone morte, quelle che ti mancano e che forse stanno per tornare, e quelle che... oddìo no, non ci posso pensare! La notizia buona è già arrivata, ho il terrore che possa arrivare quella brutta... speriamo che le buone nuove siano due... oppure una sola e basta, e niente brutte notizie".
Questi pensieri la stavano annientando e per questo si era recata a pregare nella piccola cappella, di recente costruzione, dell’orfanotrofio, che le notizie, buone o cattive, fossero finite. Come si dice: "nessuna nuova, buona nuova". Appena finito di pregare, si fece il segno della croce e uscì dalla cappella; alzò gli occhi ad osservare il cielo che andava scurendosi, per il sopraggiungere della sera, e si avviò verso il caseggiato. Fu allora che accadde una cosa che la lasciò pietrificata; udì una voce, alle sue spalle, che la chiamava:
"Ciao, Tarzan tutte-lentiggini".

 
 
 
 
* gli SPAD erano aerei francesi utilizzati anche dagli Americani durante la "Grande guerra", mentre i Fokker erano velivoli in uso ai Tedeschi. Sugli SPAD hanno volato assi dell’Intesa come Francesco Baracca e Georges Guynemer; sui Fokker volava Manfred Von Richthofen, il famoso "Barone Rosso".   
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Eccomi qua. Ci sono cascato pure io, in una banalissima Candy/Terence, con Albert dietro le quinte etc. Ma sarà veramente così? Mmmh... forse sì, forse no, lo saprò se leggerò. Bella la rima, no? Mi conoscete, vero? Perché avete letto "Candiza"!
 
The Blue Devil
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Avvisaglie di un temporale ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 2
Avvisaglie di un temporale
 
"Neal, sarebbe opportuno che tu posassi quel bicchiere; ti fa male bere così tanto".
"Cosa dici sorellina? Per me questo è un nettare prelibato", rispose il ragazzo, mandando giù un altro generoso sorso di whiskey, "Perché non ti versi da bere anche tu?".
La ragazza parve seccata quando rispose:
"Sei sempre il solito gentiluomo, vedo. Comunque lo sai che non bevo, non mi piace".
"Ah, già, lei non beve... a meno che non si tratti di un liquido dorato che fa le bollicine! Ma non mi starai mica diventando una santa?".
Queste parole, Neal le accompagnò con una risata sarcastica.
"Piantala di dire sciocchezze e parliamo di cose serie", lo redarguì la sorella, sempre più seccata.
"Appunto: sei andata a trovare la nostra comune amica? Hai dato un’occhiata al posto?".
Iriza si accomodò sul divanetto, accavallando le gambe, e, sistematasi la gonna, attaccò:
"Sì, ci sono stata ieri, nel pomeriggio, e devo dire che è proprio un bel posto quella collina, quasi mi dispiace...".
Il fratello la interruppe:
"Va’ avanti, non m’interessano queste sciocchezze".
"D’accordo. Le ho raccontato anche di Stear: avresti dovuto vedere la sua faccia, quasi ci rimaneva secca".
"Immagino", commentò Neal, ingurgitando altro whiskey, "E se fosse accaduto davvero, ci avrebbe risolto metà dei problemi", e rise di nuovo, prima di aggiungere:
"Però, che fesso il cugino; invece di restarsene qui, al sicuro, se n’è andato oltreoceano, a combattere una guerra che non ci appartiene, a difendere quei bastardi che ci considerano ancora come dei coloni... e quasi ci lasciava le penne".
"Ricordati che anche noi veniamo da lì", lo riprese Iriza.
"I nostri avi forse. Noi siamo nati qui, noi siamo Americani".
"Cambiando discorso, sei sempre convinto di volerlo fare?".
"Certo che sì; ti ricordo che l’idea originaria l’avete avuta tu e la mamma".
Iriza, dopo un attimo di silenzio:
"Eh, no! È diverso, erano altri tempi, e poi tutto partì da te. Non ricordi?".
"Mi ricordo sì, come potrei scordarlo? Mi brucia ancora. Non è che hai cambiato idea?".
"No, tranquillo, è solo che...".
"Allora, ho scelto bene?", la interruppe lui.
"Sì, sono sicura che farai centro", rispose la ragazza, mentre giocherellava coi propri boccoli.
Neal si alzò e ripose bottiglia e bicchiere, prima di chiudere il discorso:
"Beh, è giunto il momento di affilare le armi".
"Io invece ho da fare qualcosa di piacevole...", cinguettò Iriza.
Neal rise.
"Se ti riferisci a quella cosa, rimarrai delusa".
"Ah sì? Sta’ a vedere come me la lavoro", fu la sua risposta stizzita.
La ragazza uscì dalla camera del fratello, seguita da lui, e scese nell’atrio, dando una sbirciata nel salone, e, vista la madre, vi entrò e la bloccò; Neal rimase dietro la porta, sicuro di assistere al proprio trionfo.
"Oh, mamma, cercavo proprio te".
La signora Legan si arrestò e le chiese:
"Cercavi me? Dimmi piccola mia".
Iriza, timidamente, accennò:
"Riguardo a quella cosa dell’altro giorno...".
"Se ti stai riferendo ai guanti e al cappellino di Madame Bourges, niente da fare, la risposta è no!".
"Ma mamma", piagnucolò la ragazza, "Me l’avevi promesso...".
La signora fu irremovibile:
"No, Iriza, te l’ho già spiegato; in questo momento non possiamo lanciarci in spese folli; lo sai che tuo padre ha investito quasi tutto il nostro patrimonio in quel progetto dei resort. Se andrà in porto quell’affare, e non ho dubbi sul felice esito, potrai comprarti tutti i cappellini e i guanti che vorrai; magari tutta la boutique di Madame Bourges; ma ora, no".
"Ma io voglio quei guanti, fra un po’ non ci saranno più, potrebbero essere venduti o passare di moda, che è anche peggio... e il mio regalo di compleanno?", insistette la ragazza, sbattendo le ciglia.
La signora cominciava a infastidirsi:
"E i soldi che ti ho dato giorni fa? Non erano pochi", chiese, mentre il suo sguardo si dirigeva in basso, a guardare i piedi della figlia, per poi rispondersi da sola:
"Ah! Vedo che te lo sei già fatto da sola il regalo di compleanno".
"Belle vero? Sono all’ultima moda, che delizia...", si pavoneggiò Iriza, mostrandole le sue scarpe nuove di zecca, dal tacco leggero.
"Sì, davvero deliziose, non c’è che dire; ma questo risolve la questione. Adesso ho un mucchio di cose da fare, va’ a giocare e non mi infastidire più con questo discorso", tagliò corto Sarah Legan, prima di dirigersi verso le cucine.
Una sonora risata si fece sentire:
"Come te la sei lavorata bene, complimenti sorellina, è stato tutto molto divertente. Non dire che non ti avevo avvertita. E poi: va’ a giocare! Fantastico, brava mamma".
"Va’ via stupido! E smettila di ridere, maledizione!".
 
Miss Pony entrò nella stanza in cui Candy stava ancora riposando e la trovò sveglia.
"Bambina mia, ci hai fatte preoccupare... ma che è successo ieri sera? Fortuna che c’era quel bel giovanotto, così gentile, che ti ha portata dentro...".
A quelle parole, Candy, che aveva passato una notte agitata e che aveva il terrore di riaddormentarsi, trasalì e ripensò all’accaduto, prima di raccontare tutto, compresa la notizia su Stear, all’anziana benefattrice. 
"Ciao Tarzan tutte-lentiggini".
Quella frase l’aveva pietrificata, togliendole il fiato per alcuni istanti. Poi, con la mente che pareva un frullatore, si era girata di scatto.
"Te...", il nome che voleva pronunciare e che aveva sognato di pronunciare, le era morto sulle labbra.
"Tarzan tutte-lentiggini: è così che ti chiamava, vero?", aveva chiesto il giovane che  aveva pronunciato quella frase.
"Non è Terence, che stupida sono... i capelli sono più scuri e gli occhi sono più chiari e poi dovevo capirlo dalla voce", aveva pensato la bionda, prima di riuscire a balbettare:
"C-chi sei? E c-come fai a...?".
"Prima che tu faccia un infarto... ah, scusa, mi permetto di darti del tu, visto che l’hai fatto con me... dicevo: sono un amico di Terence e ho una missione importante da portare a termine. Anzitutto: tu sei Candy della Collina di Pony, vero? Altrimenti conosciuta come Tarzan tutte-lentiggini?".
"S-sì", aveva farfugliato lei.
Il ragazzo, che aveva notato l’inquietudine dell’altra, aveva proseguito:
"Allora non mi sono sbagliato, sei proprio tu quella che cercavo. Il mio amico Terence mi ha mandato ad avvisarti che presto verrà a trovarti. Come saprai, in questi ultimi tempi, ha vissuto insieme a Susan Marlowe, ma quello che non sai è che lei, col suo aiuto, ha pienamente recuperato l’uso delle gambe e che presto tornerà a recitare; è stata dura riuscirci, ma, alla fine, ce l’ha fatta; e questi anni passati con Terence le hanno fatto capire che lui ama te e che sarebbe ingiusto tenervi separati. Ha deciso di lasciarlo libero: lo vuol sapere felice. Immagino che ti starai chiedendo come mai non ne sai niente e come mai i giornali non ne parlino... perché sicuramente ti sarai tenuta informata su di loro. Perché tu lo ami ancora vero? Almeno questo è quello che lui spera".
Candy non aveva mosso un muscolo, né parlato: pareva fosse stata trasportata su un altro mondo.
"Ebbene: Terence ha voluto tenere nascosta la notizia, perché Susan ha bisogno di serenità e tranquillità e non di essere assediata da turbe di giornalisti rompiscatole e avvoltoi. Perché, anche se non la ama, lui tiene molto a lei e ha imparato a conoscerla, così dolce e fragile; mi ha mandato da te perché non vuole nasconderti niente".
Ancora una volta, Candy aveva ascoltato tutto come inebetita, con il cuore in gola, senza riuscire a dire alcunché, ad emettere nessun suono. Allora lui aveva proseguito con una domanda:
"A proposito: chi era quella ragazza con cui parlavi questo pomeriggio? Vi ho viste da lontano".
Questa volta la ragazza era riuscita ad articolare una parvenza di risposta:
"Era un... un... s-serpente a s-sonagli...".
"Ah! Ho capito: Iriza Legan! Terence mi ha parlato anche di lei... peccato, sembrava così carina e gentile... allora ti saluto. Ma, tu stai male? Non ti vedo bene, sai?".
"N-no, non è niente, ora p-passa... c-ciao...".
Detto questo la bionda era crollata a terra, prontamente soccorsa dal ragazzo: troppe emozioni, troppe notizie strabilianti, tutte insieme, l’avevano annientata.
Con Candy in braccio, il misterioso "amico di Terence", si era presentato alla porta della "Casa di Pony".
 
Rimasta sola, Iriza si sentì avvampare di rabbia. Il pensiero e il ricordo di Neal che rideva di lei la fecero tremare. Doveva assolutamente scaricare la rabbia per non impazzire.
"Va’ a giocare? Va’ a giocare? Non sono mica una bambina maledizione!", urlò, fuori di sé.
Notò su un tavolino presso di lei un vaso da fiori vuoto e... lo scagliò, con tutta la forza di cui era capace, contro il muro che le stava di fronte: il vaso oltrepassò la spalliera del divano e si distrusse contro un quadro.
"Adesso basta però!", esclamò una voce che pareva provenire dal divano.
Iriza pensò ad uno spettro e ne rimase terrorizzata, sentendosi mancare. Un bel giovane emerse da dietro il divano, tranquillizzandola, per così dire, sul fatto che non vi fossero spettri in casa.
"Già mi son dovuto sorbire una querelle familiare che ha compromesso le mie orecchie, ma che essa arrivasse a compromettere anche la mia vita, non l’avrei immaginato".
Iriza tentò di ricomporsi: già si era vergognata con suo fratello e sua madre, ci mancava solo questo sconosciuto.
"Chi... chi siete e cosa ci fate in casa mia?".
"Ah, già, mi scuso per non essermi presentato: mi chiamo Harrison, Harrison McFly e voi siete la signorina... Iriza Legan, se non erro", si presentò, esibendosi in un inchino esagerato.
"Non mi avete detto che ci fate in casa mia, signor Harry non so cosa".
Il ragazzo, che si stava divertendo, puntualizzò:
"No, signorina Lisa, vi state sbagliando: ho detto che il mio nome è Harrison. Ma avete ragione, non vi ho avvertito che odio quel diminutivo".
"E il mio è Iriza, non Lisa, screanzato! Ditemi cosa fate qui e ricordatevi le buone maniere la prossima volta: avreste dovuto palesarvi prima, spione!", puntualizzò pure lei.
"Ah! Chiedo venia. Sulla vostra prima richiesta vi dico che sono venuto a trovare un amico, per discutere un certo affare; per quanto riguarda le buone maniere, perché avrei dovuto? Quando ho visto vostra madre, per non disturbarla o spaventarla, mi sono accoccolato dietro il divano e se voi non foste entrata per piagnucolare, tutto sarebbe filato liscio. Poi, sapete, a spiare ci si diverte, e io mi sono divertito".
"Voi non siete un gentiluomo", sibilò lei.
"Vi ho forse detto di esserlo?", ribatté lui, che poi aggiunse, osservando i due oggetti:
"Mi spiace per il quadro... mi piaceva; e anche il vaso m’è sembrato di pregio: occorrerà sostituirli".
"Non vi preoccupate, in questa casa vi sono abbastanza soldi per sostituire l’uno e l’altro".
"Beh, da quel che ho udito, o meglio spiato, prima, non mi pare", disse Harrison, quasi ridendo.
"Sfacciato!", sbottò lei, che però pensò: "Sfacciato, ma carino, molto carino...". Ma questo pensiero si affrettò a scacciarlo dalla sua mente.
"Ora mi dovete proprio scusare, ma devo andare. Non mi voglio approfittare oltre di voi".
Qull’"approfittare" e il modo in cui fu pronunciata quella parola, la fecero esplodere.
"Voi... come vi permettete?".
Iriza, avvicinandoglisi, alzò una mano per colpirlo, ma lui la bloccò, afferrandole il polso: la stretta di lui le risultò forte, ma gentile, al punto da non provocarle dolore, bensì... un brivido lungo la schiena.
"Cos’è questo freddo improvviso e perché mi pare che il cuore mi stia per scoppiare nel petto?", pensò la ragazza, stupendosi del fatto di non aver provato dolore.
Gli occhi azzurri di Harrison si piantarono nei suoi e le tolsero le forze, per un tempo che a lei sembrò un’eternità, finché lui non le mollò il polso.
"Ora scusatemi sul serio, se tolgo il disturbo senza inchinarmi", disse lui, prima di riprendersi il mantello dal divano e di uscire con passo svelto e sicuro, dal salone e dalla villa.
Iriza, toccandosi il polso e non notando lividi, s’accasciò sul divano, in preda all’agitazione e alla confusione.
"Che occhi… Harrison McFly; ma chi accidenti sei?".
 
"Zia, sono contento che l’idea d’invitare Candy sia partita da te e ti confesso che altrimenti l’avrei invitata io".
"Su questo non ho dubbi William e ti confesso, dato che ho capito le tue inquietudini, che c’è stato un periodo in cui le ho voluto bene, ho creduto in lei, anche dopo quell’accusa di furto che, a quanto pare, era falsa. Poi, la morte di Anthony...".
Già, la morte di Anthony: Elroy, istigata dalla perfida Iriza, aveva addossato a Candy tutte le responsabilità di quel tragico evento e Albert, una volta preso il controllo della famiglia, aveva faticato molto a convincerla che si era trattato solo di una fatalità. Perché tra i motivi dell’odio di Elroy per Candy c’era anche quello.
Ora, la vecchia prozia aveva capito, più o meno, di essere stata ingiusta con l’ex-orfanella ed era stata informata di tutto quello che la ragazza aveva dovuto subire e dell’aiuto che le aveva prestato quando era stata male: e l’ultima botta l’aveva ricevuta quando, Sarah Legan, messa alle strette, era stata costretta a porgere pubbliche scuse a Candy, ammettendo che l’accusa di essere una ladra fosse nata solo in seguito ad un "increscioso equivoco"; salvo poi ritrattare parzialmente con Candy, in privato. Certo, Candy non era il modello di "signorina" che Elroy, donna all’antica, aveva in mente, ma era possibile apprezzarla ugualmente: bastava volerlo. In fondo, anche Anthony, nell’ultimo periodo della sua breve vita, e lo stesso William non erano stati un modello corrispondente alle sue idee. La strada era ancora lunga e difficile, ma almeno, adesso, la prozia aveva capito che Candy era una ragazza "pulita".
 
Camminando per strada, diretto alla locanda in cui aveva preso alloggio, Harrison si era immerso in profonde riflessioni. Un fresco venticello gli scompigliava i folti capelli neri donandogli quell’aspetto da "cattivo ragazzo" che tanto attrae le ragazze; gli occhi, di un azzurro intenso erano capaci di scavarti l’anima e il suo sorriso aveva un che di beffardo. Benché gli assomigliasse tanto, era più alto di Terence, più abbronzato e più muscoloso, tutte caratteristiche, soprattutto le ultime due, insolite per un gentiluomo; eppure sapeva muoversi con un’eleganza che pareva innata. Si reputava un buon osservatore e un discreto conoscitore dell’animo umano.
"È tutto come mi ha raccontato Terence: Candy m’è sembrata una ragazza dolcissima, ma combattiva, e il fatto che mi sia crollata davanti è dovuto al carico di emozioni e tensioni che ha accumulato in poche ore e al fatto di essere... veramente cotta del mio buon amico... su questo non si è sbagliato; le due benefattrici dell’orfanotrofio di Candy sono persone squisite e intelligenti; William, o Albert, come ama farsi chiamare dagli amici, è un personaggio equilibrato e riflessivo, che pare distratto e superficiale, ma è molto attento… in realtà è un po’ diverso da come lo ricorda Terence, impulsivo e sanguigno, ma ciò è dovuto forse alla maturità e alle responsabilità che si è accollato da quando ha preso ufficialmente il posto di capofamiglia; Stear non lo conosco ancora, ma già mi piace… chissà che tipo è il fratello; la signora Legan pensa solo ai soldi e al lusso e Neal, da quel poco che ho visto, non è da meno. Il personaggio più affascinante di quella famiglia è proprio Iriza: me la dipingono tutti come una serpe velenosa, e forse lo è, eppure c’è qualcosa che non quadra, non so... oggi l’ho provocata abbastanza, ma mi aspettavo una reazione più violenta e poi i suoi occhi... credo di aver fatto bene a decidere di fermarmi ancora un po’ qui a Chicago, anche perché ho alcuni affari da sistemare".
Harrison McFly ancora non sapeva che la permanenza in quella città gli avrebbe riservato, e non solo a lui, una serie di sorprese, che avrebbero messo a dura prova la sua amicizia con Terence.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Quali saranno queste sorprese? E come potranno intaccare un’amicizia che parrebbe essere inattaccabile?
 

The Blue Devil
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Fulmini a ciel sereno ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 3
Fulmini a ciel sereno
 
Dopo la morte di Anthony, la zia Elroy, annientata dal dolore, aveva accordato ad Iriza l’incarico di distruggere tutto ciò che le potesse riportare alla mente l’amato nipote: le rose del suo magnifico giardino, un tempo appartenuto a sua madre, e quelle che adornavano il cancello della tenuta degli Andrew, detto appunto il "Cancello delle rose", a Lakewood, furono le prime vittime di quella scellerata operazione. Iriza era stata ben felice di radere al suolo tutto, non tanto perché odiasse le rose o i fiori in generale, ma perché odiava Candy, che teneva tantissimo a quel giardino, nel quale fioriva, in Maggio, la "Dolce Candy", una varietà di rosa bianca ottenuta, e così battezzata, da Anthony. Inoltre la Legan, invaghitasi di lui, non aveva mai perdonato al cugino di averla ripetutamente rifiutata.
In seguito, con la partenza dei nipoti per Londra, l’anziana prozia aveva abbandonato quella tenuta, lasciandola al degrado, e si era trasferita in città. Dopo anni di abbandono, in occasione dell’imminente ritorno di Stear, finalmente vi aveva rimesso piede e aveva deciso di farla restaurare, giardino e cancello compresi, anche per rispetto di colei che aveva tanto amato: sua nipote Rosemary, la madre di Anthony.
Un’altra sua decisione era stata quella di attendere la fine dei lavori, insieme a William Albert, nella tenuta dei Legan, sempre a Lakewood. Archibald Cornwell aveva preferito restare in città, per stare più vicino ad Annie Brighton, la sua fidanzata; si recava alla tenuta solo per far visita all’anziana prozia.
Questo era il motivo per il quale, Candy, nelle settimane che precedettero il tanto atteso ritorno del cugino, faceva la spola tra la "Casa di Pony" e Lakewood, soprattutto per il confezionamento del suo vestito per il ballo; l’unico neo era il continuo incrociarsi con i due rampolli Legan. E fu proprio durante uno di questi incroci che Neal la fermò:
"Oh, carissima, è da un po’ che non ci vediamo".
"Forse è per questo che, fino ad ora, sono stata bene", fece lei, di rimando.
"Non devi essere scortese... senti, ho bisogno di parlarti".
"Bene, allora parla, ti ascolto", rispose lei.
"Non qui e non adesso. Perché non vieni a trovarmi nell’ufficio che mio padre mi ha assegnato nella nostra banca?".
Pronunciando la parola "nostra", il ragazzo si era battuto una mano sul petto, come ad intendere: "nostra" dei Legan, non "tua".
"Perché, non va bene qui? Non ci tengo a venire nell’ufficio che ti hanno assegnato nella banca degli Andrew", puntualizzò lei.
Neal si esibì in un sorrisetto che aveva qualcosa di diabolico.
"Beh, sbagli; è una cosa importante. Ti consiglio di venire; facciamo domattina, sulle dieci, se non sei troppo impegnata con quegli stracci", disse lui, indicando le stoffe che la cameriera assegnata a Candy portava con sé.
"Sei sempre carino tu, troppo gentile; sappi comunque che sono gli stessi stracci che indosserà la tua amata sorellina", rispose lei, per niente intimidita: ormai lo conosceva Neal, e non se la prendeva più di tanto per i suoi insulti.
Una smorfia contorse le labbra del ragazzo: segno che la "puntura" di Candy aveva fatto effetto.
"Beh, pensaci lo stesso, io ti aspetto comunque. Alle dieci, non mancare".
Candy si rivolse alla cameriera, che altri non era che Dorothy, l’unica vera amica che avesse mai trovato al suo arrivo a Lakewood, tanti anni prima:
"Andiamo cara, devo ancora scegliere quali stracci usare per il mio vestito".
Le due ragazze si allontanarono da un Neal visibilmente irritato, ridacchiando tra loro.
Il ragazzo pensò:
"Ridi, ridi pure fin che puoi! Ti farò pagare anche questa, piccola stupida; riuscirò a cancellare quel sorrisetto dalle tue labbra! Contaci!".
 
Albert varcò la soglia della "Casa di Pony" e fu accolto calorosamente dalle pie donne che dirigevano quell’orfanotrofio:
"Benvenuto signor Andrew, le vostre visite ci fanno sempre molto piacere; e non solo a noi".
Infatti, fuori, nel cortile antistante l’edificio, i bambini stavano facendo le feste a George: avevano imparato che quella vettura con quello stemma, oltre a trasportare quel signore simpatico e il suo amico biondo, spesso trasportava anche dei piccoli doni per loro.
"Devo dire ai bambini di non far troppa confusione", disse Suor Maria, "E di lasciar respirare il vostro segretario".
Albert intervenne:
"No Suor Maria, non vi preoccupate, lasciateli fare, sono bambini; non danno troppo fastidio ed è bellissimo vederli felici; e poi George se la caverà benissimo con loro".
"Siete troppo generoso, signore", affermò Miss Pony.
"Non lo sono mai troppo con voi, che vi prendete cura dei poveri orfanelli di Chicago e che avete sempre aiutato la nostra Candy. Comunque chiamatemi pure Albert, quel signore non mi è mai piaciuto, se a pronunciarlo sono persone che considero amici".
Miss Pony sorrise e disse:
"Troppo buono, Albert. Però ho il sospetto che la vostra visita non sia solo di cortesia".
"In effetti volevo parlarvi proprio di Candy. Immagino voi sappiate già...".
"Del possibile ritorno di Terence Grancester? Sì, Candy ce ne ha parlato", risposero le due donne.
Albert sembrava preoccupato.
"Penso che sia più che possibile. Non ne ho ancora parlato con lei, ma io sono sempre rimasto in contatto, in maniera discreta, con Terence, e non le ho neanche mai raccontato di averlo cacciato, quando lo trovai ubriaco da queste parti, anni fa. Vi chiedo di vegliare sempre su di lei, con discrezione, poiché in questi giorni la vedo felice, forse troppo, e non vorrei subisse un’altra delusione".
"Perché parlate così?", chiese, dubbiosa, Miss Pony, "Candy se la merita un po’ di felicità, dopo tutto quello che ha passato".
"Non so, ho una strana sensazione, come se stesse per accadere qualcosa di molto spiacevole. E lo consiglio anche a voi: state attente e tenete gli occhi aperti".
"Così ci spaventate, Albert", osservò Suor Maria.
"Non era mia intenzione spaventarvi", asserì Albert, "Forse sono io che mi preoccupo per niente; sì, forse è così, ma è sempre meglio stare sul chi vive".
L’incontro con le due donne si concluse e, dopo aver giocato un po’ con i bambini, Albert e George presero commiato da loro.
 
Iriza ordinò a Stewart, l’autista dei Legan, di fermare la vettura sulla quale viaggiavano, davanti alla boutique di Madame Bourges, la più elegante ed esclusiva di tutta Chicago. Scesa dalla vettura si diresse verso il negozio e si mise a guardare la vetrina: lo faceva spesso ultimamente, poiché temeva che i tanto sognati guanti e cappellino venissero venduti. L’alto costo di quegli articoli, però, la tranquillizzava non poco. Ma quel giorno vi si era recata per un altro motivo; un ragazzino si era presentato a Lakewood chiedendo della "signorina Iriza" e, trovatala, le aveva consegnato questo biglietto:
 
"Per la signorina Iriza Legan.
Vi attendo alla boutique.
Madame Bourges".
 
Tuttavia, dopo una rapida occhiata a quella vetrina, sbiancò in volto ed entrò nell’atelier.
Una ragazza, dall’aspetto giovanile e dall’accento francese, forse finto, alta e magra, le si fece incontro:
"Come posso servirvi mademoiselle?".
Prima che Iriza potesse rispondere, un’altra voce, sempre di accento francese, si fece udire:
"Oh, mademoiselle Iriza; Yvette, puoi andare, mi occupo io di lei".
"Come desiderate Madame Bourges", rispose la commessa, rivolgendosi ad una donna, pure alta, ma più robusta e attempata.
"Prego mademoiselle, siete venuta a ritirare i vostri pacchi?".
Iriza parve cadere dalle nuvole.
"Pacchi? Veramente volevo chiedervi dei guanti e del cappellino...".
"Oh, mademoiselle, appunto; avete sempre voglia di scherzare, voi Legan. Potevate mandare un vostro incaricato, ma scommetto che non avete resistito e siete voluta venire di persona".
La ragazza si agitò.
"Ma cosa state dicendo Madame Bourges? Siete stata voi a...".
La donna batté le mani e chiamò un’altra commessa, le disse qualcosa all’orecchio e questa, dopo due minuti, si ripresentò con due pacchi: uno piccolo e uno più grande.
"Eccoli qua mademoiselle, come da voi ordinato: i guanti e il cappellino. So che vostra zia darà un ballo e, con questi guanti, farete un figurone".
La Legan, che continuava a non capire e a cadere dalle nuvole, chiese:
"Scusate Madame, e il conto?".
Ora fu la donna ad assumere un’espressione stupita, subito sostituita da una divertita:
"L’ho detto che voi scherzate sempre! Ma avete già saldato tutto... due giorni fa è passato il vostro incaricato dell’acquisto e ha saldato il conto. Anche quei piccoli arretrati...".
"Io... non capisco...".
"Su, su, Nadine, accompagna la signorina alla sua vettura. È sempre un piacere fare affari con voi; vi auguro buon divertimento al ballo di vostra zia e tornate presto a trovarci".
Iriza, frastornata da tutte quelle chiacchiere, uscì dalla boutique di Madame Bourges in compagnia della commessa chiamata Nadine che, consegnati i due pacchi a Stewart, si congedò.
Accadde tutto in un attimo: un giovane, a volto coperto, s’infilò tra Iriza e Stewart, strappò i pacchi di mano all’uomo, spinse via la ragazza, facendola cadere in terra, e si dileguò nei vicoli della città. Harrison, che passava di là "per caso", si affrettò a soccorrere la ragazza e, notando che non si era fatta troppo male, disse all’autista, rimasto come inebetito:
"Riaccompagnatela a casa e fate chiamare un medico, anche se non credo che ne abbia bisogno; io cercherò di acciuffare quel furfante".
Quindi si rialzò e corse nella stessa direzione in cui era fuggito il ragazzo. Appena svoltato l’angolo, fatti ancora duecento metri, Harrison arrestò la propria corsa, poiché trovò il ragazzo ad attenderlo: prontamente quello gli consegnò i pacchi.
"Bravo ragazzo, hai fatto un ottimo lavoro; questi te li sei proprio guadagnati", gli disse Harrison, stringendogli la mano e passandogli una busta.
Quando il giovane si fu allontanato, un lampo balenò negli occhi azzurri dell’amico di Terence:
"Fase uno, completata; ora, la seconda mossa", con questo pensiero s’incamminò, salì su una vettura che lo attendeva poco distante e disse all’autista di dirigersi verso Lakewood.
 
Dieci minuti dopo la partenza della vettura di Albert e George, alla "Casa di Pony" giunse il carro di Tom per la consueta consegna del latte per i bambini. Tom si era sempre considerato il fratello maggiore di Candy ed Annie, essendo stato lui, tanti anni prima, ad accorgersi della presenza delle loro culle nella neve. Notando la preoccupazione delle due benefattrici non avrebbe voluto agitarle di più, ma si disse che era giusto fossero informate di quanto era venuto a sapere; per questo si appartò con Suor Maria:
"Suor Maria, non avrei voluto aggiungervi altre preoccupazioni, dato che mi sono accorto della vostra agitazione, ma c’è una cosa che dovete sapere. Alcuni giorni fa sono andato a scaricare del materiale al ranch del signor Cartwright e, da lontano, ho visto un tipo ben vestito che entrava per parlare col proprietario; mi sono incuriosito e ho chiesto a Jimmy* se sapesse qualcosa: lui mi ha confermato che quel tipo doveva parlare con suo padre di affari importanti".
"E perché la cosa ci dovrebbe preoccupare?", chiese la religiosa.
"Se ricordo bene il signor Cartwright è il proprietario dei terreni su cui sorge la Casa di Pony e Jimmy mi ha detto che quel tizio parlava di acquistare delle terre", insistette il ragazzo.
"E tu hai pensato... ? No, tranquillizzati Tom, il signor Cartwright possiede parecchi terreni qui intorno e qualche tempo fa parlava di venderne qualcuno, ma non questo: ha dato la sua parola, a Candy e a noi, e lui non mancherebbe mai alla parola data; e non dimenticare Jimmy... Ma, dimmi, che tipo era? Alto, scuro di capelli e con un mantello nero?".
"Il tipo ben vestito? Io l’ho visto da lontano, era alto sì, ma non indossava mantelli; comunque non l’ho potuto riconoscere. Chiederò a Jimmy, anche se lui m’ha detto che quello e suo padre si sono chiusi nello studio e non l’ha quasi visto".
"Non preoccuparti Tom, vedrai che non è niente".
"Vabbè, mi scuso se vi ho fatta preoccupare per niente. Ora vi lascio che devo finire il giro di consegne".
Suor Maria aveva minimizzato davanti al ragazzo, ma, ripensando alla precedente visita di Albert, alle sue preoccupazioni e alle sue raccomandazioni, non poté fare a meno di preoccuparsi a sua volta.
"Forse sarà meglio informarsi presso il vecchio Cartwright", pensò, osservando il carro di Tom che si allontanava.
 
Iriza non sapeva se essere più lieta o più infastidita per essere stata salvata e aiutata da quell’impertinente ragazzo; ma fu felice che lui fosse riuscito a recuperarle i guanti e il cappellino di Madame Bourges.
"Vedo che in fin dei conti ve la siete cavata con poco signorina Iriza. Pellaccia dura, eh?".
"Siete un vero gentiluomo, avete sempre una parola gentile per me... solo qualche piccola contusione e una sbucciatura da niente. Comunque vi ringrazio per aver recuperato i miei pacchi".
Harrison aggrottò la fronte e osservò:
"I vostri pacchi? Mi era parso di capire che mammina vi avesse detto di no! Avete sbattuto le ciglia di nuovo e l’avete convinta?".
Iriza, che in verità non sapeva cosa rispondere, cercò di cambiare discorso:
"Voi piuttosto, l’avete preso il malvivente?".
"Purtroppo mi è sfuggito; quando mi ha visto, grande e forte, si è spaventato e ha mollato la refurtiva; non mi è parso il caso di insistere nell’inseguimento".
"Avreste dovuto invece: questi delinquenti devono essere consegnati alla polizia".
"Non avete pensato che, magari, poteva essere un povero ragazzo affamato?".
"Un pezzente insomma".
Lui la fissò, contrariato: Iriza non riuscì a sostenere il suo sguardo; quegli occhi azzurri, così penetranti, la mettevano a disagio.
"In verità vi devo confessare una cosa: ho acquistato io quegli articoli per voi, e stavo aspettando il momento giusto per farvene dono".
"Voi?", fece Iriza sbalordita, "Ma Madame Bourges...".
"Le ho raccontato una piccola bugia", intervenne lui.
"E perché l’avreste fatto? Dico l’acquisto".
"Volevo scusarmi per il mio comportamento poco gentile dell’altro giorno".
"Voi siete matto. Non vi capisco: un giorno siete villano e un giorno fate il gentiluomo".
Harrison si fece serio e cominciò a guardarla più fissamente; poi, all’improvviso, scoppiò a ridere.
"E ora perché ridete?".
"Non ci avrete mica creduto sul serio, spero?".
La ragazza alzò il mento stizzita:
"Voi siete un mascalzone e continuate a burlarvi di me".
"Ve lo ricordo mia cara Lisa: non vi ho mai detto di essere un gentiluomo, mentre voi mi avete dimostrato di essere ancora una bambina".
"Come vi permettete, villano! Il mio nome è Iriza e non sono una bambina!".
"Beh, non sono il solo a pensarlo... va’ a giocare...", disse lui, senza riuscire a smettere di ridere.
Prima che la ragazza, inviperita, potesse reagire, Harrison le afferrò la mano e gliela baciò, con il risultato di provocarle un altro brivido lungo la schiena: tutta la rabbia che l’aveva invasa si dissolse in un attimo. Iriza faticava a riconoscersi: perché non riusciva ad arrabbiarsi sul serio con quel ragazzo? Perché ogni volta che la toccava lei provava quegli strani fremiti? Ogni volta che aveva battibeccato con qualcuno, in passato, era sempre finita a spintoni e insulti e l’unico pensiero che rimaneva ai due litiganti – almeno per lei era sempre stato così – era la vendetta. Con Harrison era diverso: un attimo prima la insultava, facendola adirare, e subito dopo la emozionava. Non l’avrebbe mai ammesso, ma un’altra cosa che le aveva fatto piacere, era stata rivederlo.
"In realtà", disse lui, "Vorrei scusarmi davvero, per il mio comportamento, e per farmi perdonare vi invito ad uscire con me. So che accetterete".
Stupita e spiazzata, Iriza obiettò:
"E cosa vi fa pensare che accetterò di uscire con voi?".
"Beh, il fatto che ho recuperato i vostri amati acquisti".
"Non ha tutti i torti", pensò lei, prima di accettare.
"Ne ero certo, nessuna ragazza resiste ai miei occhi azzurri e al mio fascino, e voi non fate eccezione; mi farò sentire io", disse Harrison, mollandole la mano e uscendo dal salone, mentre Iriza gli tirava dietro un cuscino del divano.
Prima di sparire definitivamente Harrison si riaffacciò alla soglia della sala:
"Noto con piacere che avete fatto dei passi avanti: dai vasi ai cuscini, ben fatto!".
 
Harrison rientrò alla locanda, aprì la porta della sua stanza e subito si mise in posizione di difesa; accesa la luce, dal buio emerse la figura di una persona che lui conosceva:
"Voi qui?", chiese, sorpreso.
L’altro rispose:
"Buonasera signor McFly, ho ricevuto un messaggio dal nostro comune amico e ho pensato che potremmo aspettarlo insieme, dato che sicuramente passerà di qui".
"Avete fatto bene, ma... come siete entrato?".
"Siete sicuro di volerlo sapere?", rispose il visitatore, con un mezzo sorriso.
"Beh, a pensarci, è meglio di no. Ma, accomodatevi pure, lo attenderemo insieme", disse Harrison, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.

 
 
 
 
* Jimmy era un bambino ospite della "Casa di Pony", molto affezionato a Candy, che viene adottato dal signor Cartwright nell’episodio 60, "Jimmy se ne va", della serie TV. È lui che ha incontrato Terence, quando questi ha voluto conoscere i "luoghi di Candy".
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Mumble... mumble... c’è qualcosa che non torna... sicuramente il nostro "Diavoletto" ce lo farà notare nel prossimo capitolo...
Se siete dispiaciuti per, diciamo, lo scarso spazio dedicato a Candy in questo capitolo, vi informo che nel prossimo sarà protagonista. Nelle mie storie mi piace sviluppare tutti i personaggi, quindi potrà capitare ancora, e non solo con lei...

 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Incontri e scontri ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 4
Incontri e scontri
 
Candy stava ballando, nella sua stanza a Lakewood, tenendo il vestito per il ballo davanti a sé, come se quello fosse stata una dama. Senza neanche rendersene conto, aveva scelto un tessuto azzurro e quando gliel’avevano consegnato finito, guardandolo, le era venuto un tuffo al cuore: era corsa subito ad aprire il piccolo scrigno, che le aveva consegnato Albert, per ammirare il diadema d’argento, simile ad una coroncina, che avrebbe dovuto indossare al ballo; era un caro ricordo di Rosemary, colei che aveva fatto da madre al piccolo William Albert. Candy non aveva potuto fare a meno di pensare:
"Il vestito azzurro, il diadema d’argento... ho capito! Quello era un sogno premonitore! Allora è vero, sto per rivedere e per riabbracciare il mio Terence... Oh, Terence, come sono felice".
Mentre danzava in quel modo, simulando le note del valzer con la voce, un’altra voce, stridula e acida, la distolse dai suoi sogni:
"Che stai facendo Candy? Sarà quello il tuo cavaliere al ballo?".
Irritata per essere stata interrotta, la bionda la informò:
"È un vestito sciocca, non lo vedi?".
"Un vestito? Quella cosa azzurra? Pensavo fossi tu... mi son detta: quanto è dimagrita, sembra una mazza di scopa e che brutto quel coso che sgambetta con lei!", rispose la vipera, accompagnando le proprie parole con la solita risata sguaiata.
Senza aggiungere altro, ma pensando "Quel vestito lo butterei nell’abbeveratoio dei cavalli o nel loro letame", Iriza si allontanò e Candy poté continuare a sognare e a "danzare".
"Ma che m’importa di quella strega? Io rivedrò il mio Terence e lei farà tappezzeria, come al solito".
Immersa in questi pensieri, si girò verso la porta, dicendo ad alta voce:
"Ma sì, che vada al diavolo quella vipera!".
Giusto in tempo per andare ad urtare contro una persona dalla figura possente:
"Santo Cielo, ci risiamo! Che stai facendo Candy? E chi sarebbe la vipera?".
"Oh, scusa zia Elroy, non volevo...".
"Una vera signora non si comporta e non si esprime in questo modo, quando imparerai? Non vorrei mai che ci facessi fare brutta figura agli eventi che sto organizzando. E poi guarda il tuo povero vestito, così lo sgualcisci tutto".
La zia batté le mani chiamando Dorothy, che la seguiva, e ordinò:
"Dorothy, fatti consegnare il vestito da questa sconsiderata e riponilo con cura".
Candy consegnò il vestito a Dorothy e si scusò di nuovo, al che la zia, con tono più dolce, aggiunse:
"Comunque mi fa piacere vederti così allegra... ma è necessario che tu impari le buone maniere, una volta per tutte".
Elroy uscì dalla stanza con Dorothy, e la sua presenza fu subito sostituita da quella di Albert che, a Candy, sembrò divertito e preoccupato insieme.
"Candy, Candy... riesci sempre a farla agitare! Ma, secondo me, comincia a volerti bene, a modo suo. Vieni nel mio studio, ti devo parlare".
 
Iriza addentò un biscotto, stritolandolo sotto i suoi dentini aguzzi, e bevve un sorso di tè; le cose che stava raccontando le inframezzava con risate sguaiate e stridule, ogni quattro o cinque parole.
"Sapete, ho visto la scema che ballava con... un vestito! Si crede Cenerentola, quella".
"Davvero?", osservò Neal, "Possibile che il ritorno del cugino sia sufficiente a renderla così... stupida? O c’è qualcos’altro sotto?".
"Non si riusciva a capire chi fosse la dama e chi il cavaliere; ho pensato che lei fosse il vestito, dato che quell’orfanella è piatta come una pialla", proseguì la viperetta, "Guarda qui, invece", concluse, soppesandosi i seni con le mani.
A questo punto intervenne la signora Legan:
"Iriza, che modi sono? Che trivialità! Ricordati che sei una signorina tu, questo linguaggio e quei gesti vanno bene per le pezzenti e per le orfanelle. Ricordatelo".
"Scusa mamma, ma l’ho trovato così divertente; tu che ne dici fratello?".
Neal era pensieroso e il commento che gli uscì di bocca fece trasalire le due "signore", mentre un lampo di desiderio gli balenava nello sguardo:
"Beh, non direi che sia proprio piatta... mi dispiace per te sorellina, ma credo che le abbia più grosse delle tue".
"Insomma Neal, anche tu! Contegno ragazzi, contegno", protestò la mamma dei rampolli.
Iriza guardò di traverso il fratello e sbottò:
"Maledizione, non paragonarmi a quella cosa lì; quanto vorrei rivederla nelle stalle a spalar letame, altro che ballo! Anche Cenerentola l’hanno sistemata prima del ricevimento, e stavolta non ci sarebbero stupide fatine, schifosissimi topi e zucche vuote. Si può fare qualcosa mamma?".
"Non dire idiozie Iriza, ricordati che siamo un po’ in difficoltà con gli Andrew, in questo periodo", brontolò la signora, aggiungendo col pensiero:
"Anche se la vedrei bene ancora nelle stalle pure io".
Iriza voleva controbattere, ma una voce alle sue spalle la scosse:
"Dovreste ascoltare di più vostra madre, signorina Legan".
Tutti e tre si voltarono ad osservare il nuovo venuto: la madre si chiese chi fosse e cosa ci facesse lì quel giovanotto; i ragazzi si fecero solo la seconda domanda. Tutti e due.
"Chiedo scusa signora, non mi sono presentato: mi chiamo Harrison McFly e sono un amico di vostra figlia Lisa", disse lui, inchinandosi da perfetto gentiluomo.
La signora lo squadrò bene e, decidendo che potesse andar bene, osservò:
"Accomodatevi allora; Iriza non mi hai parlato di lui".
"Già sorellina, come mai?", le fece eco il figlio.
Iriza era rimasta come paralizzata, per cui, a rispondere per lei, ci pensò Harrison:
"Non ne avrà avuto il tempo; ci conosciamo da poco".
"Già", sussurrò Iriza, che, nel frattempo, aveva recuperato l’uso della parola.
"Comunque fate sempre confusione voi: il mio nome è Iriza", aggiunse poi.
"Non so perché, ma mi sbaglio sempre: avete un viso più da Lisa che da Iriza".
La madre pensò:
"Però, è simpatico il ragazzo".
Il figlio pensò:
"Sfacciato e inopportuno".
Iriza pensò:
"Si sta burlando di me, come al solito".
Harrison spiegò di essere passato per fare conoscenza con la famiglia di Iriza e per confermarle l’invito ad uscire con lui; la signora rimase piacevolmente colpita dai suoi modi gentili ed educati e non ebbe difficoltà, sebbene non servisse, ad accordare il suo permesso per quell’uscita.
"Sapete cavalcare?", chiese il ragazzo.
"Ovviamente sì, sono la migliore amazzone di Lakewood", rispose la ragazza.
"Forse perché... siete l’unica?", disse, a mezza voce, Harrison, "Vedremo".
Iriza si trattenne dal tirargli addosso qualcosa e lui proseguì:
"Vorrei fare una cavalcata con voi, se la signora non ha nulla in contrario".
"Ma certamente, andate, andate pure; e poi, ragazzi, datevi del tu, siete giovani", rispose l’interpellata che, forse, sperava di "liberarsi" della figlia.
"Ci stavo giusto pensando; se a vostra figlia non dispiace", osservò Harrison.
"Per nulla", fu la risposta di lei.
Harrison stabilì con Iriza la data e l’orario dell’uscita a cavallo e se ne andò, così come era venuto.
 
"Candy, siediti pure", disse Albert, portandosi la sedia e posizionandola in fronte a quella della ragazza, davanti alla scrivania,.
Presele le mani nelle sue, cominciò:
"Tu hai avuto notizie da Terence?".
"Sì, come fai a... ?".
"Ascoltami", proseguì lui, "Lo so perché sono sempre stato in contatto con lui, da quando se ne andò... anzi, da quando lo cacciai".
Candy sbiancò in volto e balbettò:
"Co-cosa hai detto? C-che significa cacciai?".
Albert le strinse le mani.
"Significa che lo trovai, ubriaco e imbruttito, a spiarti mentre lavoravi col dottor Martin, e gli dissi che, se voleva vederti o parlarti, doveva prima sistemarsi e chiarirsi con Susan e, soprattutto, con sé stesso; ma, in quel momento, pensai fosse meglio per tutti che si allontanasse".
"Perché l’hai fatto?", farfugliò lei.
"Perché volevo evitarti di vederlo in quelle condizioni, e ti assicuro che non era un bello spettacolo, e perché ti voglio bene e non volevo che soffrissi di più o che ricevessi altre delusioni. Io credo di aver fatto bene".
"Forse hai avuto ragione...".
"Sicuramente ho avuto ragione: questo periodo di lontananza è servito a tutti e due, anzi tre, per chiarirsi le idee e per comprendere quali fossero i reali desideri di tutti; e adesso sta per tornare".
Candy capì che i "tre" della frase di Albert fossero lei, Terence e Susan; non poteva certo immaginare che lui avrebbe voluto dire "quattro" e che il quarto fosse proprio lui.
Albert la informò, inoltre, di aver invitato Terence al ballo, circostanza che rinsaldò la sua convinzione sul "sogno premonitore". Tuttavia, inizialmente, la ragazza provò una certa delusione per il comportamento di Albert, ma la felicità che provava in quel momento ebbe il sopravvento e si disse che, in fondo, poteva anche perdonarlo: lui aveva sempre fatto il suo bene e, anche in quella occasione, probabilmente non aveva sbagliato. Albert non le disse altro; le raccomandò solo di non esaltarsi troppo, di essere cauta, poiché le delusioni sono sempre in agguato "dietro l’angolo".
Una volta rimasto solo, il capofamiglia ripensò all’incontro della sera prima, sul quale, con Candy, aveva taciuto.

Era già notte fatta, quando Harrison e il suo ospite avevano udito bussare alla porta; Harrison era andato ad aprire e si era trovato di fronte esattamente la persona che stava aspettando. Un abbraccio e una stretta di mano e il nuovo arrivato si era accorto dell’altra persona presente nell’appartamento.
"Albert?", si era meravigliato.
"Già, proprio io, mio caro Terence".
Terence gli era corso incontro e lo aveva abbracciato, stringendo la mano pure a lui:
"Hai visto? Mi sono sistemato, mi sono chiarito e sono tornato; proprio come volevi tu".
Albert l'aveva invitato a sedersi ed Harrison, presi dei bicchieri e una bottiglia di vero Scotch scozzese, aveva offerto loro da bere: Terence aveva rifiutato, dicendo che non avrebbe più rischiato di commettere gli errori del passato. Albert ne era rimasto soddisfatto: il ragazzo aveva superato la prima prova.
"Terence, mi fa piacere che tu sia tornato, ma voglio essere sicuro che tu ti sia schiarito le idee e che non ci siano più problemi: le tue intenzioni con Candy sono serie? Sei sicuro che non ci saranno ulteriori complicazioni?".
"Sì Albert, le mie intenzioni sono più che serie, e se ci saranno problemi non sarò stato io a crearli".
Harrison aveva pensato che quella di Terence fosse un’affermazione sibillina.
Albert voleva essere chiaro e voleva che Terence sapesse tutto.
"Il periodo precedente e quello successivo, alla tua partenza, sono stati duri per tutti".
"Che intendi dire? Mi stai dicendo che...", l'aveva interrotto Terence, per venire a sua volta interrotto dall’amico biondo:
"Esatto. Mi vuoi chiedere se io sia stato innamorato di Candy, suppongo. Ti dirò: è difficile non innamorarsi di lei, dopo tutto io sono il suo Principe e quando persi la memoria, vivendo con lei, credetti che avrebbe potuto funzionare. Questa convinzione mi rimase addosso anche quando riacquistai la memoria e si rafforzò quando voi vi lasciaste. Fu George ad aprirmi gli occhi, quando mi fece leggere il diario di Candy"*.
Terence era trasalito.
"Cosa hai fatto? Hai letto il suo diario?".
"È stato un bene, poiché, leggendolo, ho capito quello che aveva già capito George e cioè che mi stavo illudendo: lei ti ha sempre amato e ti ama ancora, in un modo che neanche immagini, in un modo totale. Per questo voglio essere sicuro, non lo sopporterei se tu la facessi soffrire ancora; non se lo merita e se ciò accadesse, sarei inflessibile".
"Quello che mi dici mi sorprende, ma non troppo: se penso ad Anthony, che non ho conosciuto, ad Archie e persino a Stear, capisco molte cose; e non mi dimentico neanche di quel pagliaccio di Neal... Tutti, o quasi, innamorati di lei... e mi ci metto pure io".
"Ma lei ha scelto te, e questa è l’unica cosa che conta; è una ragazza forte, che non si arrende mai, ma, se una volta riconciliati, dopo ti dovesse perdere ancora, per un qualsiasi motivo, ne uscirebbe distrutta... o forse non ne uscirebbe proprio".
"Dimentichi, però, che fu lei a lasciarmi...".
"Sono perfettamente d’accordo con voi, però si è fatto tardi e sarebbe meglio salutarsi e andare a dormire", era intervenuto Harrison.
Si era stabilito che Terence avrebbe passato la notte da Harrison e che il giorno successivo sarebbe rientrato negli alloggi della "Compagnia Stratford", sistematasi molto fuori città. Del suo incontro con Candy, tempi e modalità, si sarebbero occupati in un secondo momento.


Uscito dal salone, lasciati i Legan al loro tè, Harrison si imbatté in un ragazzo alto, dai capelli castani e dai modi, apparentemente, signorili. Questo tipo lo fermò:
"Scusatemi, voi sareste?".
"Scusatemi voi, sono un amico di Iriza Legan", rispose Harrison.
"Un amico di Iriza Legan? Ciò è impossibile, un serpente velenoso non può avere amici. Comunque non ho capito il vostro nome".
"Forse perché non ve l’ho detto; anzi è proprio per questo che non l’avete capito".
"Allora, potete rimediare?".
Harrison lo guardò bene e sentenziò:
"Questo è sicuramente il famoso fratello di Stear, Archibald Cornwell; e, non so perché, ma non mi piace".
"Mi scuso ancora e rimedio subito: mi chiamo Harrison McFly", disse, porgendogli la mano che, tuttavia, Archie non strinse.
Una smorfia di disapprovazione comparve sul volto di Harrison.
"Ora sono io a non aver compreso il vostro nome; potete rimediare?".
"Signor McFly, vi consiglio di stare attento, potreste anche avvelenarvi a frequentare certa gente".
"Eh, l’ho detto che non mi piace, è lui ad essere troppo avvelenato", pensò, prima di ribattere:
"Apprezzo il vostro consiglio, ma vi informo che sono immune al veleno dei serpenti; voi piuttosto...".
"Cosa vorreste dire?", sbottò Archie, che si stava alterando.
Il peggio fu evitato per l’intervento di una ragazza bionda, che corse ad abbracciare l’amico:
"Oh, Archie! Come sono contenta per voi e per Stear; mi sembra un sogno".
Il modo in cui Archie abbracciò e strinse a sé Candy non piacque ad Harrison.
"Decisamente questo Archie non mi piace; attento Terence, questo tipo potrebbe crearti dei problemi".
"Beh, vi saluto e vi auguro una buona giornata", disse Harrison, prima di dileguarsi.
Candy rispose al saluto e Archie se ne risentì:
"Conosci quel tipo?", le chiese.
"Sì, ci siamo incontrati quando... ma parliamo di Stear".
"Già, Stear; la zia Elroy credeva di poter tenere segreta la notizia, ma essa mi pare sia divenuta un segreto di Pulcinella: ormai lo sapete praticamente tutti!".
Candy gli sorrise.
"E non ti immagineresti chi me l’ha rivelato... ma che t’importa, l’importante e che Stear sia vivo e stia per tornare".
Archie convenne che, come sempre, aveva ragione lei.
 
Nella solitudine della sua stanza Iriza era sommersa da dubbi e interrogativi; lei che, in vita sua, non ne aveva mai avuti. Ma chi era veramente questo Harrison e da dove era saltato fuori? Come faceva a comparire sempre dal nulla, nei momenti più impensati? Perché pareva essersi fissato con lei? Come poteva sapere dei pacchi di Madame Bourges se non era stato lui ad acquistarli? "Le ho raccontato una piccola bugia", le aveva detto: ma che ne poteva sapere lui di tutta quella faccenda? Perché, benché lui la prendesse in giro e si burlasse di lei, a lei faceva piacere rivederlo? E ogni incontro con lui le risultava piacevolmente "elettrizzante"? Chi aveva acquistato i guanti e il cappellino per lei?
A tutte queste domande Iriza non era riuscita a dare delle risposte e decise di sfruttare l’uscita a cavallo con lui per carpirgli qualcuno dei suoi segreti. Mai avrebbe immaginato che la frequentazione con quel "bel tenebroso" avrebbe messo in moto una serie di avvenimenti che, se lei lo avesse voluto, avrebbero potuto cambiarle la vita.

 
 
 
* Evento narrato solo nel manga.
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Spero siate riusciti a seguire il filo: ho fatto il solito flash-back e poi sono tornato al presente; è il mio stile e, ormai, dovreste conoscerlo (ovviamente chi mi ha già letto)...
 
The Blue Devil








Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Da sogno a incubo ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 5
Da sogno a incubo
 
Dopo aver lasciato Archie, Candy era ritornata alla "Casa di Pony": anche se le faceva piacere avere vicino Albert, e cominciava a farle piacere il nuovo atteggiamento della zia Elroy, meno si incrociava coi Legan, meglio era; soprattutto con Neal, le cui ambiguità e mellifluità di quei giorni, le procuravano un vago timore. Tuttavia, quella sera, le sue due "mamme" le parvero un po’ strane, come se fossero preoccupate per qualcosa, per cui si appostò dietro la porta della stanza di Miss Pony, in un momento in cui le due donne si trovarono sole; sapeva bene che origliare era una brutta abitudine, ma sapeva altrettanto bene che Miss Pony e Suor Maria difficilmente le avrebbero confidato i motivi del loro turbamento.
"Miss Pony, queste voci sul signor Cartwright potrebbero diventare un problema".
"Non lo so, Suor Maria, io ho fiducia in quell’uomo; in fin dei conti ha adottato Jimmy e non credo voglia dargli un dolore, vendendo queste terre a uno sconosciuto; loro si adorano".
Suor Maria bevve un sorso d’acqua e, dopo alcuni istanti di riflessione, proseguì:
"Di questo ne ero convinta anch’io, infatti con Tom ho minimizzato, ma... la visita del signor Andrew mi ha messo addosso una certa agitazione...".
"Albert è stato qui?", pensò Candy, che non sapeva nulla neanche di Tom.
"Tempo fa era sembrato che lui volesse acquistare questi terreni per farcene dono, in virtù del grande affetto che prova per Candy, ma poi non si è saputo più nulla", aggiunse la religiosa.
"E allora cosa proponete di fare?", chiese Miss Pony, ricordando all’amica che Albert aveva comunque finanziato la costruzione della nuova cappella.
"Pregare e andare a informarsi presso Cartwright; non vedo altre soluzioni", concluse Suor Maria.
Candy aveva ascoltato abbastanza; le pareva di essere tornata ai tempi in cui udì le considerazioni delle due donne sul fatto che lei fosse troppo grande per restare ancora alla "Casa di Pony": quel senso di ansia e angoscia ritornò a invadere il suo animo e a guastare la felicità che provava in quei giorni.
"Possibile che ogni volta che si intraveda un po’ di luce debba accadere qualcosa che rovini tutto?", si era detta, mentre, mettendo in pratica uno dei consigli della suora, si dirigeva verso la cappella per pregare, affinché nulla accadesse alla sua amata "Casa di Pony", alla collina, al "Grande Papà Albero"...
Giunta presso la cappella, all’esterno, nel buio, intravide un’ombra che la fece trasalire:
"Chi siete? Cosa fate qui?".
L’ombra, restando in silenzio, avanzò lentamente verso di lei; il cuore le diceva "Non gridare, non devi aver paura", mentre il cervello le suggeriva di scappare; si voltò di scatto per scappare via, senza riuscire a gridare, ma fu presa da due braccia che la cinsero e la tennero stretta. Quell’abbraccio le provocò una sensazione di calore, che le riempì il cuore: non era una stretta di qualcuno che volesse farle del male.
"Non mi scappi più; non ti lascerò andare; stavolta no, né ora, né mai, se… se mi vuoi ancora…", sussurrò una voce che lei ben conosceva, benché non la udisse da troppo tempo.
"Quella voce... non è possibile", pensò, mentre il suo cuore dopo aver saltato un battito, cominciava a correre all’impazzata.
"Non mi riconosci, scimmietta? O preferisci Tarzan tutte-lentiggini?".
Rimanendo prigioniera delle sue braccia, si voltò verso di lui e, dopo averlo riconosciuto, seppure al buio, tuffò la testa nel suo petto.
"Sei tu, Terence, amore mio... no, non vado da nessuna parte...", esclamò, con voce rotta, "Certo che ti voglio ancora, sì! Il pensiero di te insieme a quella mi faceva impazzire…"..
Lui le accarezzò i capelli d’oro, mentre fiumi di lacrime cominciavano a rigarle il viso.
"Terence... Terence... sei tu, sei veramente tu?", continuava a ripetere tra i singhiozzi.
"Sì, sono io, non sono un fantasma... non piangere, sei più carina quando ridi che quando piangi, ricordi? Se continui così, però, consumerai tutta l’acqua e poi...".
Il ragazzo non poté finire la frase, poiché Candy, alzato il viso e sollevatasi sulle punte dei piedi, lo aveva zittito, incollando le proprie labbra alle sue; lui la aiutò nell’operazione, sollevandola e tenendola stretta, e ricambiò la "cortesia": le loro lingue si cercarono, si trovarono e si intrecciarono...
Nessuno dei due ebbe bisogno di porre ulteriori domande all’altro, di cercare conferme: quel bacio era più eloquente di mille parole. Il loro amore esisteva ancora ed era intatto.
"Amore... amore mio... quanto tempo ho aspettato...", riusciva a bisbigliare lei.
"Oh, Candy... l’ho sempre saputo, anche se temevo... sì, ti amo anch’io...", rispondeva lui.
Tutta un’altra cosa rispetto al "bacio rubato", terminato con cinque dita stampate su una gota di Terence, alla fine delle vacanze estive in Scozia, ai tempi della "Saint-Paul".
Riuscendo a stento a "liberarsi" dalla bocca dell’amata, Terence disse, a mezza voce:
"Non sarei dovuto venire, ma non ho resistito; dovevo farti sapere che sono qui, dovevo farti sapere che ti amo!".
"Credimi, se ti dico che non ho mai dubitato...".
"Ora, però, devo andare...".
"No, non andare, non lasciarmi ancora, ti prego, resta", disse la ragazza, stringendosi ancora più forte a lui.
"Ehi, calma, non vado da nessuna parte! Sono qui in città", cercò di tranquillizzarla il giovane attore.
Candy non ne voleva sapere di sciogliere l'abbraccio: fu Terence a puntarle le mani sulle spalle e ad allontanarla da sé, quel tanto che bastava per parlarle, guardandola negli occhi:
"Ascolta Candy, ho promesso che non ti avrei cercata subito e ho già mancato; come avrei potuto rimandare? Tuttavia ho degli obblighi anche con la mia compagnia teatrale, mi attendono; avremo tempo per stare insieme, te lo prometto; parteciperò agli eventi che stanno organizzando gli Andrew".
Si scambiarono un altro tenero bacio, fortemente cercato da lei, e, a malincuore e con l'animo in tumulto, Candy lo lasciò andare: nell’istante della separazione provò un fortissimo senso di angoscia.
"No, maledizione, e questo bastardo da dove salta fuori? Così non va bene... non va affatto bene! Questo non l’avevo proprio previsto! Mi toccherà accelerare i tempi", fu il pensiero di una terza persona, nascosta nell’oscurità; un’ombra nera, sia fuori che dentro.

Di buon mattino, come convenuto, Harrison si presentò a Lakewood. Il ragazzo non era di buon umore, poiché si era accorto della "scappatella" notturna di Terence e, a tal motivo, aveva litigato con lui: se si stabilivano delle regole di comportamento era necessario osservarle; era l’unico modo per continuare ad aver fiducia gli uni negli altri. Harrison capiva perfettamente lo stato d’animo di Terence ma, se si era deciso di fare in un modo, così si doveva fare.
Trovò Iriza già pronta: la ragazza era bellissima, con il berretto nero, la giubba rossa, i calzoni bianchi e gli stivali neri, tanto da lasciarlo a bocca aperta, lui che ne aveva viste di tutti i tipi. Notando il frustino che ella teneva in mano si produsse in una delle sue solite battute, indicandoglielo:
"Buongiorno Iriza; spero che tu... abbiamo deciso per il tu, vero?... non voglia usarlo in maniera impropria, quello; sai, dopo i vasi e i cuscini non vorrei che passassi ai frustini".
"Buongiorno signor McFly; in realtà avete deciso voi e la mamma, io preferisco il voi in quanto non vi conosco ancora troppo bene, e, riguardo al frustino, se non me ne darete occasione lo proverà solo il cavallo; quindi attento", rispose l’amazzone, anch’ella colpita dall’avvenenza di Harrison.
"Povero cavallo...", sussurrò Harrison. Poi aggiunse, ridacchiando:
"Mi era parso di capire che foste d’accordo...".
"Sul tu? Non potevo contraddire la mamma, meglio farla contenta, ma fra noi...".
"Già, dimenticavo, la mamma", sospirò Harrison, "E sia, vada per il voi".
Incamminandosi verso le scuderie, i due continuarono a beccarsi.
"Anche se mi avete assicurato di essere la migliore amazzone di Lakewood, mi auguro di non dovervi fare da balia".
Battendo il frustino sul palmo della mano, lei sbottò:
"Attento, ricordatevi di questo. Comunque non temete: dovreste, se voi aveste invitato quell’altra; pensate, ha fatto morire il povero cugino Anthony".
"Immagino sia Candy, quell’altra", pensò Harrison, prima di chiedere:
"Ha un nome quell’altra?".
"Ma sì, Candy, la bionda orfanella, dovreste averla anche vista, gironzolava per la casa in questi giorni, ballando con i vestiti! Che stupida!".
"Credo di aver capito che abbiate qualcosa contro gli orfani; sbaglio?".
Iriza si batté ancora il frustino sul palmo e rispose, quasi ringhiando:
"Certo, sono solo dei pezzenti e vanno in giro a rubare; lo dice sempre anche la mamma".
Una smorfia di disapprovazione contorse il viso del ragazzo:
"Ancora mammina; comincio a pensare di essermi sbagliato, forse questa è una partita persa; vorrà dire che passeremo alle maniere forti: mi giocherò la carta Daisy e se anche quella non dovesse funzionare... ciao ciao signorina Legan".
Iriza fece sellare il suo cavallo ed Harrison notò che uno degli stallieri stava "lottando" con un magnifico cavallo nero, dall’aspetto impetuoso. La ragazza lo informò:
"Quello è meglio che lo lasciate perdere, è uno degli ultimi arrivi e non si riesce a domarlo: ci vuole la frusta, non il frustino".
Il ragazzo protestò, facendola trasalire:
"Ma non dire sciocchezze, non si fa così, sta sbagliando".
Si avvicinò allo stalliere, gli tolse di mano le redini, gettando a terra la frusta, tra le proteste dell’uomo – sono anni che faccio questo lavoro e so quel che bisogna fare –, e lo allontanò; poi si avvicinò al cavallo, sussurandogli parole gentili, e, arrivatogli vicino, cominciò ad accarezzargli il muso, continuando a parlargli. L’animale parve stranamente mansueto, per la prima volta da quando era arrivato a Lakewood.
"È uno spirito libero e se volete cavar qualcosa da lui ci vogliono dolcezza e amore", disse, continuando a carezzargli il muso e facendosi leccare uno zuccherino dalla mano.
"E questa non serve", aggiunse, raccogliendo da terra la frusta e spezzandone il manico.
Riconsegnate le redini allo stalliere gli sussurrò:
"Ricordate: tempo, pazienza e, soprattutto, amore e dolcezza".
"Perbacco! Ci sapete fare con i cavalli, voi", commentò Iriza, ammirata di come lui avesse gestito la faccenda.
I due giovani cominciarono la loro "passeggiata" a cavallo, mentre, da una finestra della villa, Neal, con un bicchiere in mano, li osservava pensando:
"Quell’Harrison non mi piace; che va cercando da Iriza?".
C’era una seconda persona, ferma ad osservarli, da un’altra finestra; anche lui, perché si trattava di Archie, stava sorseggiando una bevanda, forse alcolica:
"Quell’Harrison non mi piace; se è amico di Iriza è mio nemico; e sì che l’ho avvertito".
Il primo dei due, dopo un po’, scese nel cortile e salì sulla vettura di famiglia:
"Portami all’orfanotrofio presso la collina", ordinò a Stewart, l’autista.
 
Anche alla "Casa di Pony" era giunto il mattino, che aveva trovato Candy già ben sveglia, in preda all’angoscia: ella aveva sognato ancora, per quel poco che era riuscita a dormire.
Era bellissima, avvolta nel suo vestito di seta azzurro; un diadema d’argento faceva bella mostra di sé sulla sua chioma dorata; lui, Terence G. Grancester, era avanzato verso di lei e le aveva preso delicatamente la mano guantata; partita la musica, si era stretto a lei, facendola volteggiare leggiadramente nel salone.
Candy si sentiva al settimo cielo: stava danzando a ritmo di valzer col suo amato Terence, stretta all’uomo che amava; poteva sentire il suo calore, i battiti accelerati del suo cuore, i fremiti provocati dal contatto dei loro corpi... aveva alzato il viso verso di lui e... quel che aveva visto l’aveva sconvolta: il cavaliere col quale stava danzando non aveva più un volto! Dov’era finito Terence? Chi era quel tizio che stava danzando con lei? Perché era senza volto?
"No, no!", aveva gridato la ragazza, svegliandosi di soprassalto.
"Un incubo? Che significa? Perché adesso?", erano gli interrogativi che l’avevano torturata per tutta la mattina.
La sua agitazione aumentò, quando Suor Maria la chiamò per avvisarla della visita del signorino Neal Legan.
"Ben svegliata Candy", esordì lui, "Anche se sembra che tu sia finita sotto un carro".
"Che ci fai qui tu? Che diavolo vuoi da me?", rispose, acida, lei.
Un ghigno comparve a distorcere la mascella di lui.
"Non sei venuta nel mio ufficio quando ti ho invitata, né nei giorni seguenti; così non va, non sta bene rifiutare un invito di Neal Legan".
"Ti ho detto che non ci tengo a visitare il tuo ufficio; e poi chi diavolo sei tu? Sei solo un piccolo pidocchio insignificante".
"Forse hai ragione; ma il piccolo pidocchio insignificante può farti tanto male e non dovresti farlo arrabbiare".
L’espressione di Neal, che accompagnò quelle parole, agitò la ragazza:
"Insomma che vuoi da me?".
Un lampo sinistro balenò negli occhi del ragazzo: godeva a vederla "spaventata".
"Parlare, solo parlare; e ti conviene darmi retta. È un consiglio, e dovresti seguirlo".
Candy decise di assecondarlo e, non volendo preoccupare oltre le due direttrici, gli fece strada, incamminandosi verso la collina.
"Chissà, cosa vorrà da lei quel ragazzo?", osservò Miss Pony.
"Nulla di buono, immagino; ho già avuto a che fare con lui e con la sua famiglia, Miss Pony, e vi garantisco che non sono brave persone", commentò la religiosa.
 
George fece accomodare Archie nello studio dello zio William e poi li lasciò soli.
"Siediti Archie, sei venuto per parlare di Stear?", esordì Albert.
"Veramente no, zio, avrei un altro problema", rispose il ragazzo, dopo essersi seduto.
"Ah, e quale sarebbe? Comunque puoi chiamarmi Albert, come hai sempre fatto".
"Non mi sono ancora abituato del tutto al fatto che Albert e lo zio William siano la stessa persona".
"Dopo così tanto tempo? Ti ci abituerai, in fondo sono sempre io, il solito Albert; dimmi Archie".
Archie pensò per qualche istante e poi disse:
"Ho notato che c’è un tizio che bazzica da queste parti ultimamente, un certo Harrison...".
"La cosa ti preoccupa? Perché?", intervenne Albert.
"Sì, mi preoccupa, perché gira intorno a Iriza, dicendo di esserle amico, e pare sia amico anche di Candy: non lo trovi strano e pericoloso? Tu lo conosci?".
"Sì, lo conosco e non devi preoccuparti".
Archie gli spiegò che, quando aveva chiesto a Candy di Harrison, lei gli era sembrata evasiva. Albert decise allora di informarlo sugli ultimi eventi:
"È inutile nasconderlo: Harrison è un amico di Terence ed è venuto a Chicago per avvertire Candy del suo imminente ritorno; nessuno lo sa ed è per questo che lei è stata vaga con te. La compagnia teatrale di Terence si è sistemata fuori città e c’è anche...".
Il ragazzo si mostrò molto stupito dalla notizia su Terence e si fece spiegare tutto ciò che la riguardasse, comprendendo che gli atteggiamenti gioiosi che Candy aveva manifestato in quei giorni non erano dovuti solamente all'annunciato ritorno di Stear. Tuttavia trovò strano che un amico di Terence se la intendesse con Iriza e che ad Albert la cosa pareva non interessare e glielo fece presente, unitamente a questa domanda:
"E c’è anche... ?".
Tuttavia, Albert continuò a non manifestare preoccupazioni:
"Non importa. Devi stare tranquillo, non succede nulla; voi Cornwell, ora, dovete concentrarvi su Stear e tu, in particolare, anche su Annie".
 
Quando Candy ridiscese dalla collina, non aveva un aspetto migliore di quando vi era salita, anzi, pareva sconvolta.
"Pensa a ciò che ti ho detto, ci vediamo alla festa", le disse Neal, prima di salire sulla sua vettura, diretto a Lakewood.
Nemmeno la presenza di Annie, che si stupì di trovare lì il figlio dei Legan, riuscì a cambiarle l’umore: cosa aveva detto Neal a Candy e perché la cosa sembrava averla sconvolta e aver aumentato l’angoscia che le attanagliava il cuore?
Soltanto la sorpresa che l’amica aveva portato con sé, riuscì a rasserenarla, almeno per un po’.
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Pur avendo visto decine di film, telefilm e cartoni sull’argomento, posso dire di non aver avuto esperienze dirette con i cavalli: ho cavalcato una volta sola, a sette anni, un pony che aveva pure il raffreddore! Quindi se ho scritto, o scriverò, delle bestialità su quei simpatici animali, chiedo a chi si dovesse intendere dell’argomento (se ci fosse tra i lettori) di farmelo notare. Grazie.
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un'amica ritrovata ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 6
Un’amica ritrovata
 
Dopo aver sfidato Harrison a una gara di velocità, Iriza lanciò il proprio cavallo al galoppo: l’eccessivo uso del frustino fece innervosire l’animale, il cui controllo sfuggì alla ragazza. Harrison, con un’abile manovra, riuscì a risolvere la pericolosa situazione, riuscendo a fermare il cavallo di Iriza. Quasi svenuta per la paura, la ragazza si ritrovò distesa nel prato, con il ragazzo sopra di lei a soccorrerla. Harrison fu irresistibilmente attratto dalle labbra di Iriza, che ansimava ad occhi chiusi; ma fu solo un attimo, anche perché lei riaprì gli occhi ed esclamò:
"Che è successo? E che state facendo?".
"Nulla, mi sinceravo delle vostre condizioni... sembrava aveste bisogno della respirazione artificiale...".
Un forte rossore imporporò le guance di Iriza, che lo spinse via:
"Come vi permettete, villano! Volevate approfittarvi di me? Avreste osato tanto?".
"Al vostro posto avrei pensato la stessa cosa... comunque non sarò un gentiluomo, ma non sono neppure un vigliacco approfittatore!", rispose lui, sedendosi sul prato accanto a lei.
"Siete arrossita, lo sapete?", disse a bruciapelo.
Toccandosi una guancia, ancora calda, la ragazza sbottò:
"Non è vero... io non arrossisco mai".
"Che vergogna, arrossire davanti a un ragazzo... è da bambine", pensò poi.
"Mi avevate assicurato di essere la più abile amazzone di Lakewood e che non avrei dovuto farvi da balia; invece a quanto pare...".
"Siete odioso, odioso e antipatico; mi sono solo distratta...".
"Magari per colpa mia, vero? E... riguardo a quella faccenda del cugino Anthony... siete sicura che non si sia distratto anche lui? Che non si sia trattato di un semplice incidente? Comincio a pensare che avrei fatto meglio ad invitare Candy...".
Iriza cercò qualcosa intorno a lei ma non la trovò.
"Cercate questo?", chiese Harrison, battendosi il frustino di Iriza sul palmo, "Ce l’ho io adesso... comunque non usatelo più con i cavalli, che poi fate questa fine".
"Volete picchiarmi? E poi non ho fatto nessuna fine, sto benissimo", rispose, stizzita, cercando di alzarsi.
"Non mi permetterei mai di picchiare una ragazza: non l’ho mai fatto e non voglio certo cominciare ora... certo, però, che voi invogliate...".
Dopo qualche istante di silenzio, lui, alzatosi, disse, porgendole una mano:
"La passeggiata è finita, sarà meglio rientrare; vi aiuto a rialzarvi".
"Non ne ho bisogno e la passeggiata non è finita; sono in grado di continuare... anche senza di voi", disse, acida, scostando con un gesto della mano quella che Harrison le stava porgendo.
La ragazza riuscì ad alzarsi, ma ricadde al suolo: Harrison fu lesto a prenderla al volo prima che toccasse terra.
"Non siate sciocca, non comportatevi come una bambina, non vi reggete in piedi".
Lei cercò di divincolarsi, ma lui la strinse forte e aggiunse:
"Mi sono quasi rotto il collo per salvarvi e voi siete riuscita a scivolare giù dal cavallo ugualmente... vi riporto a casa, non vorrei essere accusato di una vostra eventuale dipartita".
Rimasero abbracciati stretti per un tempo che sembrò un’eternità: gli occhi azzurri di lui si piantarono in quelli nocciola di lei, che era arrossita prepotentemente per la seconda volta in pochi minuti. Si sentiva stranamente bene tra le forti braccia di lui, protetta. Mille pensieri le attraversavano la mente. Questi su tutti:
"Però è vero, si è quasi rotto l’osso del collo per aiutarmi... perché l’avrà fatto? E perché mi sento così... bene, tra le sue braccia? Che mi sta succedendo?".
Dopo averle assicurato che il suo cavallo, che si era allontanato, avrebbe ritrovato la strada di casa da solo – "Al limite avete un sacco di gente che può andare a cercarlo" – lui la mise sul proprio e montò dietro di lei, che, stremata e dolorante, abbandonò la testa sul suo petto. 
"Forse c’è speranza, hai solo bisogno di allontanarti da quelle serpi che ti circondano in casa", sentenziò Harrison nella sua mente.
Al piccolo trotto rientrarono a Lakewood.
 
La vista di Annie, pur procurandole sollievo, non allentò la stretta che le serrava il cuore. Annie si accorse del suo stato.
"Candy vieni a vedere chi ti ho portato", le disse, prendendola per mano e trascinandola all’interno della casa.
"Allora, che mi dici?".
Una ragazza se ne stava in piedi, a braccia aperte e con un sorriso, che definire raggiante sarebbe stato riduttivo: era l’immagine della felicità.
"Patty!", esclamò la bionda, correndo incontro a quella ragazza e tuffandosi fra le sue braccia.
Tutte e due, sotto lo sguardo sorridente di Annie, scoppiarono a piangere, tenendosi strette.
"Oh, Patty, che bello rivederti! Quando sei arrivata, dov’è la nonna...".
Annie pensò di aver avuto un’ottima idea, a portarle l’amica, anche se non si era certo immaginata di trovare Candy in quello stato di prostrazione.
Patty e la nonna, come già tutti sapevano, poco dopo lo scoppio della Grande Guerra, s’erano trasferite in Florida, il cui clima era l’ideale per la salvaguardia della salute dell’anziana signora O’Brien. Saputo di Stear, Patty, tramite i Brighton, era riuscita a raggiungere Chicago, mentre la nonna, che non stava troppo bene, era rimasta in Florida. Ora non le restava che attendere il tanto annunciato, e a questo punto agognato, ritorno.
Le tre amiche riunite stettero insieme per tutto il resto della giornata: avevano tante cose da raccontarsi. Tutto filò liscio fino al momento in cui Candy raccontò loro di Terence, del suo ritorno, del loro incontro... improvvisamente, la ragazza, che si era lasciata trasportare dalle emozioni, si rabbuiò e non disse più una parola, scoppiando in singhiozzi incontrollabili.
"Sarà l’emozione per avermi rivisto dopo tanto tempo che, sommata a quella provata per Terence, l’ha fatta crollare", pensò Patty.
Ma Annie, che conosceva bene l’amica e che aveva visto Neal, era di diverso avviso e cominciava seriamente a preoccuparsi.
Ad un certo punto, calmatasi, Candy si accorse che erano sole e chiese spiegazioni alle amiche. Fu Annie a rispondere:
"Mentre tu non c’eri è passato Tom e Miss Pony e Suor Maria hanno fatto salire i bambini sul suo carro e sono andati tutti a fare una gita; dato che eravamo qui ci hanno chiesto di restare a guardare la casa e a farti compagnia. Non lo trovi strano? Una gita? Secondo me c’è sotto qualcos’altro".
"Eh certo Annie, sono andate da Cartwright; la gita è solo un pretesto", pensò Candy, alla quale non era sfuggito l’imbarazzo dell’amica nel pronunciare il nome di Tom.
 
Il dottor Leonard, divenuto ormai il medico di famiglia dei Legan, fu scomodato ancora e la sua diagnosi non fu diversa da quella di Harrison: niente di rotto, solo qualche contusione.
Congedato il medico, Iriza apostrofò il ragazzo:
"Avete visto? Non mi sono fatta niente; ve l’avevo detto".
Lui, che si divertiva a punzecchiarla, rispose:
"Quindi ritenete sempre di saper cavalcare meglio di… Candy?".
"Candy, Candy, sempre Candy! Le darei fuoco con tutta la sua Casa di Pony".
La porta solamente socchiusa della camera di Iriza, permise ad Archie, di ascoltare quello scambio di battute; poi, il fidanzato di Annie, resosi conto che Neal stava per uscire dalla sua stanza, si nascose dietro l’angolo in fondo al corridoio.
"Non starete dicendo sul serio spero?".
"Ma no, non arriverei mai a tanto, è solo che non sopporto sentir parlare sempre di lei… ora la citate anche voi. Adesso andate, che non sta bene che un ragazzo s’intrattenga nella stanza di una signorina... da solo".
Il ragazzo, tranquillizzatosi anche troppo sulle sue condizioni, si congedò da Iriza, e si avviò per tornarsene a casa, venendo intercettato da Neal nel corridoio.
"Che diavolo stai combinando tu? Non vorrai farmi saltare l’affare", lo apostrofò.
"Di che ti preoccupi? Il tuo affare è al sicuro; sto solo intrattenendo un po’ tua sorella".
"Stai attento Harrison, non mettermi i bastoni fra le ruote e stai lontano da mia sorella".
Detto questo, Neal s’allontanò ed Harrison fu affrontato da Archie che, sbucato dall’angolo del corridoio, lo afferrò per il bavero della giacchetta:
"Che stai combinando, bastardo! Vi ho sentiti tu e quell’altro! Lo sapevo che di te non c’era da fidarsi".
Harrison gli afferrò i polsi e disse, perentorio:
"Ti consiglio di levarmi le mani di dosso".
"Altrimenti?".
"Potresti farti male; io non ho nulla contro di te, ma se mi costringi...".
Attirato dal trambusto provocato dai due litiganti, fu George ad intervenire e a dividerli:
"Smettetela voi due, non è né il momento, né il luogo adatto per dare spettacolo; signor Cornwell vostro zio vi ha detto di non preoccuparvi e di stare tranquillo. Avete altro a cui pensare".
"Vedi? Lo dice anche lo zio: stai tranquillo e fatti gli affari tuoi", ringhiò Harrison.
"E voi signor McFly fareste meglio ad andare", consigliò George.
"Ecco, bravo, vattene che è meglio".
Harrison accettò il consiglio di George e, prima di svoltare l’angolo, incrociò lo sguardo di Albert, che lo stava osservando dall’altra parte del corridoio.
 
Miss Pony, Suor Maria e i bambini rientrarono alla "Casa di Pony" verso sera, accompagnati da Tom. Di lì a poco si presentò anche il signor Brighton, venuto a prendere la figlia e l’amica. Annie pregò il padre di lasciarle passare quella notte all’orfanotrofio:
"Papà, Candy ha bisogno di me, la vedo strana; lei c’è sempre stata per me, mi ha sempre aiutata ed ora tocca a me far qualcosa per lei, starle vicino, farle sentire che può contare su di me".
Anche Patty sarebbe voluta restare, ma la convinsero a rientrare dai Brighton.
"Patricia, il viaggio che hai sostenuto dalla Florida a Chicago è stato lungo e faticoso e hai sicuramente bisogno di riposare bene, in un letto vero", le disse il papà di Annie.
"Papà ha ragione, hai bisogno di stare tranquilla e di non avere intorno bambini che fanno confusione; qui alla Casa di Pony si sta bene, ma è meglio che tu rientri; e poi credo che non ci sarebbe posto per ospitare un’altra persona: già io sono di troppo".
Patty capì la situazione e accettò di rientrare con il signor Brighton.
Più tardi, messe sotto torchio dalle due amiche, le direttrici si "sbottonarono":
"È vero, avete ragione, in questi giorni abbiamo avuto dei pensieri, riguardanti Cartwright e i suoi terreni che occupiamo, ma lui ci ha assicurato che è tutto a posto, non dovete darvene pensiero".
Ma Tom, presele da parte, raccontò loro un’altra verità:
"Miss Pony e Suor Maria tendono sempre ad addomesticare la verità per non farvi preoccupare; in realtà Jimmy, che era presente, mi ha detto che il padre è rimasto perplesso da quanto gli hanno raccontato le direttrici e ha dato loro vaghe rassicurazioni. Una frase lo ha colpito in modo particolare: Qualunque cosa succeda abbiate fede. Capite anche voi che questa non è una frase troppo rassicurante".
Rimaste sole nella loro stanzetta Candy ed Annie poterono parlare; la prima fu Annie:
"Lasciando da parte, per il momento, il discorso Cartwright... Candy che ti succede? Ti ho vista strana e prima, con Patty, ti sei messa a piangere dopo aver parlato di Terence. Non dovresti essere felice per il suo ritorno? Appena arrivata ho intravisto Neal: c’entra qualcosa lui con la tua... come posso dire... tristezza?".
Candy, le cui mani si trovavano strette in quelle dell’amica di sempre, rispose:
"Ti confesso che non ho molta voglia di parlarne ora, ma ti prometto che lo farò. Non immagini quanto io apprezzi questo tuo interessamento".
"Candy, lo sai che per te ci sarò sempre; è il minimo che possa fare, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme e dopo tutto quello che hai fatto per me; c’è stato un periodo in cui ti ho allontanata e poi invidiata, a causa di mia madre, prima, e della tua popolarità con i ragazzi, poi; e non sai quanto me ne vergogni ancora oggi. Comunque rispetterò la tua decisione e aspetterò che tu sia pronta per confidarti con me".
Le due amiche, sorelle, si abbracciarono e poi Candy azzardò:
"Tu, piuttosto, che mi dici di Tom?".
Annie parve sorpresa, ma non riuscì a non arrossire.
"Che... che intendi dire? Cosa c’entra Tom adesso?".
Candy sorrise e ribatté:
"Dimmelo tu cosa c’entra Tom... credi che non mi sia accorta di niente? Anche se ho i miei grattacapi, mi accorgo se qualcosa ti turba. Prima, quando l’hai nominato, parlando con Patty, sei arrossita, poco poco, ma sei arrossita; poco fa, quando eravamo con lui, eri completamente imbarazzata. Che sta accadendo? C’è qualcosa che mi vuoi dire?".
Annie tentò di buttarla sul ridere, ma non riusciva a guardare negli occhi l’amica. Alla fine cedette:
"Ma cosa vai a pensare? È solo che... rivederlo così dopo tanto tempo, ecco... l’ho trovato cresciuto... insomma, voglio dire, è diventato davvero un bel ragazzo".
"Ma... Archie?", chiese la bionda.
"Lo sai che io amo Archie, ma... non so, mi ha fatto un effetto strano vedere Tom; e poi anche lui, mi guardava in un modo...".
"Ho notato anche questo, ma a me interessa sapere di te: ami Archie, ma Tom ti imbarazza?".
Annie non sapeva più dove guardare; alla fine supplicò l’amica:
"Ti prego possiamo cambiare discorso? Adesso sono io che ti chiedo di lasciar perdere, per ora; mi sento un po’ confusa...".
Candy le strinse le mani e l’abbracciò ancora:
"Va bene, sarà meglio mettersi a dormire adesso, ma ne riparleremo".
 
Harrison, disteso sul letto con le mani dietro la nuca, nella sua stanza alla locanda, era immerso nei suoi pensieri:
"Maledizione, ci mancava solo che Archie mi sentisse parlare con Neal; fortuna che non ci siamo detti nulla di particolare, ma, d’ora in poi, dovrò stare più attento... se solo quello si facesse gli affari suoi: ha una fidanzata, un fratello redivivo e va a pensare a me, a Iriza... a Candy! Ho l’impressione che il buon Archie sia troppo preso da Candy, ci è mancato poco che finisse a pugni oggi... giochiamoci l’ultima carta e vada come vada!".
Non ci volle molto prima che il sonno lo reclamasse.
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Dal prossimo capitolo cominceremo a vedere un po’ di luce.

The Blue Devil








Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...


 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** "Candy non vuole vederti" ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 7
"Candy non vuole vederti"
 
George fece entrare Terence, appena sceso dalla vettura degli Andrew, nell’ufficio di Albert e questi, salutatolo, lo fece accomodare. Albert e la zia Elroy, da poco, si erano trasferiti nella tenuta di famiglia, quella del "Cancello delle rose", ormai restaurata e pronta per ospitare gli eventi che erano in programma. Per l’occasione, in attesa di organizzarsi meglio, avevano preso in prestito qualche domestico dai Legan, tra cui Dorothy. Fu in quella villa che si svolse l’incontro tra il giovane attore e Albert.
"Ti starai chiedendo il perché di questo incontro, immagino", esordì il capofamiglia degli Andrew.
"Esatto, la tua immaginazione non t’inganna", rispose l’attore.
"Beh, è presto detto: volevo organizzare il tuo incontro con Candy".
"Volevi? Hai cambiato idea?".
"No, non ho cambiato idea; sì, volevo. Tuttavia sono sorti due problemi".
Terence, che immaginava quale fosse uno dei problemi, non disse niente e, con un cenno del capo, fece intendere all’altro che aveva tutta la sua attenzione.
Albert proseguì:
"Un problema lo conosci, perché l’hai creato tu: l’hai già incontrata".
"È un problema?", intervenne il ragazzo, "Tanto, prima o dopo, cosa cambia? Era da tanto che aspettavamo, non potevo rimandare ancora...".
"Sì, lo è", disse Albert, "Quando ho preso in mano gli affari di famiglia ho imparato che la fiducia degli altri è molto importante, difficile da conquistare e ancor più difficile da mantenere; che bisogna saper aspettare e che l’istinto ci può portare, a volte, in zone pericolose. Avrei preferito una cosa più graduale, ufficiale, così come si era deciso; ma ti capisco".
"Mi dispiace, non ho saputo controllarmi", osservò Terence, chiedendosi quale potesse essere il secondo problema.
La risposta non tardò ad arrivare e fu come una coltellata:
"Il secondo problema è il più importante e difficile da decifrare: Candy… non vuole vederti".
Il silenzio calò nello studio; Terence pareva inebetito, come uno che stesse ascoltando, ma non fosse in grado di comprendere ciò che gli veniva detto.
"Candy non vuole vederti": questa frase gli rimbombava nella testa, senza che lui ne potesse capire il significato.
"Candy non vuole vederti".
Dopo un tempo difficile da quantificare, il ragazzo si riscosse e scattò in piedi:
"Candy non vuole vedermi? Che significa? Ma se quando ci siamo visti non voleva neanche lasciarmi andar via e mi ha pregato di restare con lei".
"Questa sua decisione ha sorpreso anche me, ma io intendo rispettarla; non posso certo forzarla…", proseguì Albert.
"Stai scherzando vero? Intendi davvero startene lì, a non far niente, mentre Candy butta via la sua vita?", urlò Terence, stringendo i pugni.
"Non ho detto questo; ho detto che non posso forzarla, ma bisogna capire cos’è questa novità e, soprattutto, da dove arriva...".
Al giovane attore, sempre più inquieto, la soluzione non sembrava difficile: sarebbe stato sufficiente andare a parlare con lei. Albert gli ricordò le considerazioni sull’istinto di poco prima e gli chiese:
"E credi che te lo direbbe? Se non vuole neanche vederti! Rischiereste di litigare e di peggiorare la situazione; devi stare calmo e lasciar fare a me".
Terence non voleva sentir ragioni: si voltò e afferrò la maniglia della porta, ma Albert, alzatosi, lo bloccò:
"Aspetta, c’è dell’altro. Oltretutto...".
"C’è dell’altro? E oltretutto cosa?".
"Siediti ragazzo mio, è arrivato il momento che ti racconti come stanno le cose".
 
Dopo la notte passata con Annie alla "Casa di Pony", come ai vecchi tempi, Candy aveva deciso di lasciare l’orfanotrofio e di soggiornare nel suo appartamento in città: da un lato si sentiva osservata, assediata, mentre aveva bisogno di pensare in tranquillità; dall’altro non voleva aggiungere problemi alle sue due "mamme" che, assorbite dai pensieri sui terreni di Cartwright, non si erano accorte del suo stato. Almeno questo era quello che lei credeva.
Annie la accompagnò fino all’appartamento, ma non riuscì a cavarle di bocca nulla, anche perché l’amica, per sviare il discorso, la bombardò di domande su Tom.
Rimasta sola, la bionda si mise a pensare; o almeno cercò di farlo, ma si sentiva scoppiare la testa, per cui decise di riposare un po’. Si svegliò dopo un tempo non quantificabile e ci mise un po’ a capirne il motivo: qualcuno stava bussando alla porta. Andò ad aprire e si sorprese di trovarsi davanti Dorothy.
"Signorina Andrew, sono venuta a farvi visita", esordì, con aria divertita, la cameriera dei Legan.
Candy, fintamente stizzita, rispose:
"Non chiamarmi in quel modo idiota! Te l’ho detto: per te sarò sempre e solo Candy, anche se dovessi sposare il Presidente!".
La fece accomodare, le offrì qualcosa da bere e poi le chiese:
"A proposito, come facevi a sapere che sono qui?".
"A Lakewood è passata la signorina Brighton e l’ho sentita parlare di te con il fidanzato".
Candy, guardandola con severità, la redarguì ancora:
"Non demordi eh? Quando sei a servizio ti posso comprendere, ma tra noi, no. Mi sa che ti dovrò presentare ufficialmente Annie, così diventerete amiche e la finirai con quel signorina... ma perché sei venuta? E il lavoro?".
"Non lo so se diventeremo amiche... oggi, e mi sembra un miracolo, i Legan mi hanno dato mezza giornata di libertà, anche se in questi giorni sono a Villa Andrew in mezzo ad un viavai incredibile, e ne ho approfittato per venire a trovarti: sei qui, tutta sola... ho pensato ti avrebbe fatto piacere un po’ di compagnia".
La bionda che, mentre l’ascoltava, la studiava, disse:
"Ti conosco troppo bene Dorothy, e lo capisco quando non mi dici tutta la verità: avanti spara".
"Ecco... oggi è venuto a parlare con il signor Andrew quel ragazzo... Terence mi sembra che si chiami, e ho saputo delle cose. Non ho origliato, se è questo che stai pensando. Si sono un po’ alterati, qualcuno li ha sentiti e tu sai... le voci corrono tra la servitù".
"Terence è andato a Lakewood? Allora Albert l’avrà già messo al corrente della mia decisione", pensò la ragazza.
Dorothy, intanto, stava proseguendo:
"Ascolta Candy, tu ci sei sempre stata per me, soprattutto quando Neal e Iriza mi prendevano di mira e quando la signora Legan decise di mandarmi in Messico*; quindi ora, se hai bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, io voglio esserci per te; io ti considero un’amica preziosa e lo sarai sempre".
Candy le prese le mani.
"Oh, Dorothy, sei un tesoro! Non sai quanto mi abbia fatto piacere rivederti, quando sono venuta a Lakewood per il discorso di Stear; anche tu sei un’amica preziosa per me e apprezzo infinitamente questo tuo interessamento; questa situazione, però, devo risolverla da sola".
Si abbracciarono, commosse, non riuscendo a trattenere qualche lacrima.
Candy decise che quel pomeriggio lo avrebbe dedicato all’amica: non aveva senso farsi scoppiare la testa in cerca di una soluzione ai suoi problemi; ci avrebbe pensato un’altra volta, in fondo aveva ancora del tempo per farlo. Le due amiche si misero a chiacchierare amabilmente e Dorothy fu felice di vedere che l’amica pareva essersi rasserenata. La domanda della cameriera dei Legan giunse improvvisa ed ebbe l’effetto di una bomba:
"Candy, senti... che tipo è Tom Steve? Tu lo conosci, vero?".
 
Quando Terence rientrò agli alloggi presso la Compagnia Stratford era furioso: avrebbe avuto voglia di spaccare tutto, di picchiare qualcuno, ma aveva promesso ad Albert che sarebbe rimasto tranquillo; voleva dimostrargli che poteva fidarsi di lui e che era capace di non farsi trascinare dall’istinto. Aveva posto solo una condizione:
"Voglio esserci anch’io, voglio dare il mio contributo per risolvere questa faccenda".
Il che significava "Non puoi tenermi fuori, calmo e tranquillo ad attendere chissà cosa".
Questo è quanto aveva saputo dal capofamiglia degli Andrew:
"C’è dell’altro, Terence. Però mi devi promettere di stare calmo, poiché ti anticipo che, tuttora, non so di preciso cosa stia accadendo, né chi ne sia responsabile. Allora: dopo essermi consolidato al comando della famiglia e al controllo dei relativi affari, decisi di fare qualcosa d’importante per la Casa di Pony e finanziai la costruzione di una nuova cappelletta, dato che quella esistente stava cadendo a pezzi e comunque, debitamente restaurata, la si voleva destinare a dormitorio per i nuovi bambini. Suor Maria e Miss Pony mi fecero notare che il terreno, su cui sorge l’orfanotrofio, non fosse di loro proprietà, ma appartenesse ad un certo Cartwright: decisi di inviare George da Cartwright, ma, poi, fui completamente assorbito da tutte le responsabilità e i problemi derivanti dal dirigere la famiglia e questa intenzione finì nel dimenticatoio. Fino a qualche settimana fa. Mi ricordai della cosa e inviai George a trattare l’acquisto di quel terreno, scoprendo che era già stato venduto".
"A chi?", era intervenuto Terence.
"Questa è la cosa più strana: al signor Andrew, naturalmente".
"Non capisco".
"Neppure io. Cartwright raccontò che un mio inviato, che lui non conosceva, aveva già acquistato il terreno per mio conto. Allora lo pregai di mantenere il riserbo per non insospettire questo misterioso acquirente, poiché intendo scoprire di chi si tratti e, soprattutto chi ci sia dietro di lui".
Terence, al colmo dello stupore, aveva protestato:
"Suvvia Albert! Sei a capo di una delle famiglie più potenti di Chicago, non avrai problemi a scoprire l’autore della truffa! Perché di truffa si tratta, no?".
Albert aveva scosso il capo:
"Non è così semplice, ragazzo. Intanto l’acquisto sembra regolare, l’unica irregolarità è il raggiro nei confronti di Cartwright sul nome dell’acquirente, ma legalmente l’affare è valido; poi devi sapere che, nel mondo degli affari, bisogna stare attenti a come ci si muove, a non inimicarsi coloro che potrebbero divenire futuri partner in affari: abbiamo in ballo un grosso affare, io e Legan e, se dovesse andar male, ci troveremmo in difficoltà. In ultima, non mi accontenterò di individuare il pesce piccolo: intendo scovare e punire tutti coloro i quali hanno partecipato a questo imbroglio! Non si può usare il nome degli Andrew e passarla liscia".
"E quindi? Come ti stai muovendo?", aveva chiesto, dubbioso, il giovane attore.
"Ho incaricato una persona di indagare, ma finora non ha scoperto nulla... anche se temo che mi stia nascondendo qualcosa".
"Dimmi chi è e lo faccio parlare io! Gli spacco il muso a quello!".
"Eccolo il solito vecchio Terence che non apprezzo. Io te lo dico, ma tu non spacchi il muso a nessuno: ricorda che mi hai fatto una promessa; altrimenti te ne puoi andare anche subito", aveva detto, perentorio, Albert.
"Hai ragione; ti ho promesso di non combinare guai e intendo rispettare tale promessa".
Dopo aver pensato un po’, Albert gli aveva detto quel nome:
"È una persona che conosci: Harrison McFly. Temo stia però combinando qualcosa di poco chiaro".
Terence aveva sgranato tanto d’occhi.
"Harrison? Non so come lui possa essere entrato in tutta questa storia, ma... tu sai chi è! Lo conosci dai tempi di Londra, dai tempi della Saint-Paul School... non puoi pensare che sia un truffatore o qualcosa del genere, io mi fido ciecamente di lui".
"Certo che so chi è, e anch’io mi fidavo ciecamente di lui, altrimenti non gli avrei affidato quest’incarico... ma ultimamente fa cose strane, come corteggiare Iriza Legan; credevo sospettasse dei Legan, ma non mi ha detto niente a riguardo".
"Non è possibile, i Legan? Ma non hai detto di avere un importante affare con loro?".
"Infatti non mi riferisco ai signori Legan, ma ai due rampolli. Ti devo dire anche un’altra cosa: Stewart, il benedetto autista dei Legan, se nota qualcosa di strano, mi avverte subito; mi ha detto di aver accompagnato Neal alla Casa di Pony, ed è accaduto dopo che tu hai incontrato Candy di nascosto. Potrebbe anche non voler dire niente...".
"Neal? Quel bastardo? Non mi stupirei se c’entrasse qualcosa, ma per Harrison ci metto la mano sul fuoco; ti assicuro che lui è pulito".
"Staremo a vedere. Tu torna alla tua compagnia e non fare niente di avventato. Ripeto: non fare nulla che possa mettere in allarme i responsabili... come forse hai già fatto".
Terence aveva rassicurato Albert e aveva represso il forte desiderio di andare alla tenuta dei Legan per rompere il muso a Neal.
"E così, andando a trovare Candy, avrei messo in allarme quel deficiente? E lui cosa ne poteva sapere che io ero là? Eppure mi pare impossibile che un tal cretino possa aver architettato una truffa così complessa... e il denaro, dove l’avrebbe preso? E poi quale sarebbe il fine di tutto questo imbroglio?".
Questi interrogativi avevano accompagnato Terence per tutto il tragitto da Lakewood agli alloggi della compagnia.
 
"Come sta Candy? Credi le farebbe piacere se andassi a trovarla?", chiese Patty, mentre, tra un biscotto e l’altro, sorseggiava la sua bevanda, nel salotto di casa Brighton.
"Non bene, non sono riuscita a farla parlare", rispose l’amica.
Patty osservò l’amica e poi commentò:
"Neanche tu, però, hai una bella cera... c’entra Archie? Oppure quel Tom?".
Annie trasalì e rispose:
"Anche tu l’hai notato? Oh, Patty sono così confusa. Archie ultimamente lo sento distante... so che mi ama, ma... ogni volta che si parla di Candy si inalbera: se le accade qualcosa è come se la medesima cosa fosse accaduta a lui... temo che...".
"... che sia ancora innamorato di lei? Un tempo lo è stato, mi par di capire", le concluse la frase l’amica, aggiungendo:
"Ma tu cosa provi per lui? E per quel Tom?".
"Io amo Archie, ma rivedere Tom mi ha scombussolata... lui è più di un caro amico, pensa che fu lui ad accorgersi di me e Candy nella neve, quando fummo abbandonate; e quando fu adottato lasciò un gran vuoto nei nostri cuori**. Non so cosa mi stia accadendo, ma è come se tutte le mie certezze stessero svanendo...".
"Guarda Annie, non so chi fra te e Candy abbia più bisogno di conforto. Sappi che puoi sempre contare su di me", concluse Patty, stringendole le mani.
Insieme presero una decisione: sarebbero andate a trovare Candy e l’avrebbero fatta parlare.
 
 
 
 
*   evento narrato nell’episodio 15 (Una decisione infelice) della serie TV.
** dal  primo episodio (Il compleanno di Candy!) della serie TV.
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Vi avevo promesso un po’ di luce, ma forse qui la cosa si complica...
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Dubbi e confidenze ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 8
Dubbi e confidenze
 
Candy andò ad aprire la porta e si trovò davanti le sue amiche, Annie e Patty; le fece entrare, ma, quando vide Dorothy, Annie le chiese, sottovoce:
"Che ci fa qui, quella?".
Candy la guardò di traverso e l’amica si affrettò a scusarsi:
"Scusa, non volevo...".
Poi ci furono le presentazioni: Dorothy, sorridente ed emozionata, fu presentata ad Annie e Patty, da Candy, come una sua carissima amica; Patty le sorrise, ricambiando l’inchino, mentre Annie si limitò ad un sorriso striminzito e un po’ forzato. La padrona di casa invitò l’amica dai capelli corvini in cucina, per aiutarla a preparare qualcosa da offrir loro.  
"Annie, ma che ti prende? Tu sai chi è Dorothy e sai quanto sia stata importante per me la sua amicizia; specialmente nel mio primo periodo a Lakewood".
"Sì, lo so Candy, e ti chiedo scusa, ma... Dorothy è sempre stata carina, gentile, ma non ce la faccio a...".
La bionda, che aveva capito, la riprese ancora:
"Guarda che si è accorta della tua freddezza e ci è rimasta male. Si tratta di Tom, vero? Di questo problema sarà necessario parlarne, e tanto anche; ma oggi sforzati di essere gentile, lei non merita di essere trattata con ostilità".
"Io non ho niente contro di lei, anzi mi sta pure simpatica, ma l’ho vista civettare con Tom; non fraintendere, la mia è solo preoccupazione per lui, tutto qui...".
"Come, come? L’hai vista civettare con Tom? Allora non è vero che non lo vedevi da tempo! Amica mia, da quanto va avanti questa storia? Che stai combinando? Annie!".
Il silenzio dell’amica le fece prendere una decisione:
"Beh, non è questo il momento di parlarne. Ora torniamo di là; si staranno preoccupando".
Candy ed Annie, ripresentatesi nel salottino, con i bicchieri e un vassoio di biscotti, trovarono Patty e Dorothy nel mezzo di un’amabile conversazione. Patty aveva conosciuto Dorothy quando, poco dopo il suo arrivo a Chicago, era andata a Lakewood per parlare con Albert di Stear, trovandola gentile, simpatica e disponibile.
Ad un certo punto la cameriera dovette rientrare: il giorno successivo sarebbe stata una giornata impegnativa di lavoro e lei non voleva fare tardi, spiegò. Le tre amiche, rimaste sole, presero a guardarsi tra loro, senza dire una parola, finché Patty osservò:
"Sai Candy, io ed Annie eravamo venute con l’intento di far parlare te e invece, adesso, io e te, dobbiamo far parlare lei".
"Già", commentò la bionda.
"Ma non c’è niente da dire", sbottò Annie, visibilmente in difficoltà.
"Prima, in cucina...", attaccò Candy, venendo subito interrotta:
"E va bene, va bene... avete vinto. Mi hai chiesto da quanto tempo è che va avanti questa storia: ma non c’è nessuna storia, non c’è niente che stia andando avanti! È successo che, andando a Lakewood a trovare Archie, o andandoci con Archie a trovare lo zio William, ho intravisto Tom, durante il suo giro di consegne, e una cameriera, che adesso so per certo essere Dorothy; mi ha dato fastidio il loro atteggiamento. Tutto qui".
"Tutto qui? Non è strano che tu abbia visto Tom, dato che consegna il latte e altri materiali; non è strano che tu abbia visto Dorothy, dato che ci lavora, lì; è strano che tu li abbia spiati, perché, non mentire, l’hai fatto; ed è ancor più strano che, il vederli insieme, ti abbia dato fastidio", commentò Candy.
"Lo sai quanto io tenga a Tom, è come un fratello per me e mi preoccupo per lui".
Patty, che stava ascoltando in silenzio, non pareva particolarmente convinta, ma lasciò che fosse Candy a continuare:
"Di che ti preoccupi? Dorothy è una bravissima ragazza e tu lo sai. E poi: è come un fratello e il parlare di lui ti emoziona al punto da... arrossire? Guardati, anche adesso".
A questo punto, Annie crollò:
"Oh, Candy, mi sento sola... Archie si sta allontanando da me, e poi pensa sempre a...".
"A me?", esclamò la bionda, "Anche lui si preoccupa per i suoi amici, lo sai".
Annie era sul punto di piangere:
"Ma con te è diverso... Tom, invece, è stato così gentile... non ci capisco più niente".
Dopo aver pronunciato queste parole, la brunetta scoppiò in singhiozzi e allora Patty l’abbracciò, lanciando un’occhiata a Candy.
"Annie, vieni qui, non piangere... lo sai che Archie ti ama; è fatto a modo suo e forse non sa dimostrare i suoi sentimenti, ma non ti farebbe mai del male... non questo".
"Archibald Cornwell sei un idiota; un perfetto idiota; ma se farai del male ad Annie ci penserò io a sistemarti", pensò la bionda, che già aveva i suoi problemi e che ora si ritrovava a dover risolvere anche questa grana.

Neal posò il bicchiere di whiskey, si alzò e si avvicinò alla poltrona sulla quale era seduta Iriza: ella teneva un libro aperto in grembo, ma era chiaro che non stesse leggendo; bensì si stava trastullando con un oggetto che teneva in una mano, mentre con l’altra giocherellava con i suoi boccoli; il suo sguardo pareva assente, sognante. Neal le strappò di mano l’oggetto, dicendo bruscamente:
"E questo cos’è?".
Iriza, trasalita, protestò veementemente, rivendicando la proprietà dell’oggetto, mentre il fratello constatava che si trattasse di un fazzoletto: su uno degli angoli vi erano ricamate le lettere "H" e "G".
"È suo?", chiese, sprezzante, il ragazzo, mentre lo lasciava cadere in terra.
"Che fai scemo! È di Harrison", puntualizzò Iriza, affrettandosi a raccoglierlo, "Me lo ha dato quando mi sono ferita, scivolando dal cavallo".
"E perché quelle lettere?", s’incuriosì ancora Neal.
"E che ne so io? E poi, che t’importa?".
"Te lo ha prestato, l’hai usato, ora puoi buttarlo".
"Non dire sciocchezze", protestò lei.
"Che, ti sei rincretinita di colpo? Dovevi vederti prima...".
Senza neanche guardare il fratello, portandosi il fazzoletto vicino al naso, lei rispose:
"No, ha ancora il suo profumo... mi piace...".
Iriza sembrava in un altro mondo e allora Neal, appoggiate le mani sui braccioli della sua poltrona, con la massa corporea incombente su di lei, disse, secco:
"Non mi piace, quel tipo non mi piace. È solo un pezzente, se non te ne sei accorta, e porta solo guai".
La ragazza, tornata nel mondo reale, alzò lo sguardo su di lui e rispose:
"Però alla mamma piace...".
"Non ti sarai mica infatuata di quel coso, spero?".
"Ma che vai a pensare? Sto solo giocando con lui, anche perché lui sta giocando con me: è evidente".
Di queste sue ultime parole, Iriza non era per niente convinta, dato che aggiunse, con il pensiero,"Almeno credo...", prima di concludere:
"E adesso levati di dosso, che mi fai paura così".
La loro conversazione fu interrotta dall’arrivo di Harrison; Stewart, che fungeva anche da maggiordomo, oltre che da autista, si scusò per non essere riuscito a fermarlo, per poterlo annunciare come si conveniva: d’altronde non c’era mai riuscito con Harrison.
"Ho interrotto qualcosa?", esordì McFly.
"E questo da dove salta fuori?", pensarono fratello e sorella.
Ci pensò Iriza a rassicurarlo:
"Non interrompete nulla, stavamo chiacchierando, ma abbiamo finito, Neal deve andare. Vero fratello?".
Harrison osservò:
"Se vuole, può restare, non abbiamo nulla da nascondere, mi pare".
"Forse è meglio", pensò Neal.
"È il mio fazzoletto quello che avete in mano?", proseguì il nuovo arrivato.
"Sì, è il vostro fazzoletto; mi togliete una curiosità? Perché H e G?".
Harrison aggrottò la fronte, ma rispose prontamente:
"Il fazzoletto me l’ha regalato mia madre e ci ha ricamato le mie iniziali: G è l’iniziale del mio secondo nome; non aveva voglia di ricamare anche il cognome. E poi sarebbe venuto troppo lungo: H, G, M, F. È pure brutto a vedersi".
La ragazza, incuriosita, volle saperne di più:
"E quale sarebbe questo vostro secondo nome?".
"È un segreto", rispose lui.
A questo punto intervenne Neal:
"Scusatemi, ma non avevate deciso di darvi del tu voi due?".
"Si tratta di una questione di mancanza di fiducia: e poi vostra sorella aveva acconsentito solo per accontentare mammina".
Neal esplose:
"Ehi tu! Porta rispetto alla mia famiglia e dimmi cosa sei venuto  fare, che i discorsi sui tuoi nomi non c’interessano".
Harrison, che in realtà si divertiva sempre a far "scaldare" Neal, rispose:
"Passate dal voi al tu con facilità... sono venuto ad invitare la signorina Legan a cena, per domani sera".
Il ragazzo rispose per la sorella:
"Mia sorella non può accettare, ha già altri impegni: per tutta la settimana; e anche per i mesi a venire".
"Io invece penso che non abbia impegni e che accetterà l’invito", incalzò Harrison.
Iriza, con lo sguardo maliziosamente indagatore fisso su di lui, chiese:
"È possibile che io non abbia impegni... o che abbia impegni rimandabili. Neal esagera sempre, ma... cosa vi rende sicuro sul fatto che accetterò l’invito?".
Harrison, altrettanto maliziosamente, rispose:
"Quel fazzoletto con cui state giocherellando e che, a furia di annusare, finirete per consumare".
Iriza trasalì e si affrettò a poggiare il fazzoletto sul tavolino.
"Gradirei riaverlo, possibilmente integro", concluse l’ospite.
"Lo farò lavare e ve lo restituirò quando verrete a prendermi", lo tranquillizzò.
Harrison, lanciò un’occhiata a Neal, come a voler dire "L’avevo detto io", e poi si rivolse a lei:
"Ho intenzione di portarvi nel miglior ristorante di Chicago; non dimenticate i guanti e il cappellino, così li provate".
Neal aggrottò la fronte e Harrison proseguì:
"Verrò domani, nel pomeriggio; comunque il mio immenso fascino ha colpito ancora".
"Andate o vi colpirò io", sbottò Iriza.
"E con cosa, con il fazzoletto?", scherzò lui, prima di togliere velocemente il disturbo.
Neal guardò la sorella e le chiese:
"Guanti? Cappellino? Che significa?".
"Non ti preoccupare, è una lunga storia", fu la risposta di Iriza.
Neal, visibilmente contrariato, lasciò il salotto e si ritirò nella sua stanza.
"Devo levarmi dai piedi quel bellimbusto. Troverò il modo", fu il suo pensiero fisso.
 
Ad attenderlo alla locanda dove aveva preso alloggio, Harrison trovò George, che lo informò che il signor Andrew voleva parlargli. Durante il tragitto in vettura fino a Villa Andrew, il ragazzo aveva pensato a quale potesse essere il motivo di quell’incontro e ne aveva individuato uno in particolare. Una volta giunto nello studio di Albert ebbe la conferma di aver indovinato:
"Harrison, che diavolo stai combinando con Iriza Legan? Perché insisti nel cercarla?".
Harrison, seccato, rispose:
"Sono affari miei".
"Non se questi tuoi affari danneggiano la famiglia o le persone che amo".
"A cosa o a chi ti riferisci?", chiese Harrison incuriosito.
"Lo sai che Neal ha parlato con Candy e adesso lei non vuol più vedere Terence?".
Harrison parve sinceramente sorpreso:
"Questo non lo sapevo, ma non credo che c’entri nulla col fatto che esco con Iriza".
"E la tua indagine? A che punto sei?".
"Ad un punto morto, ma... ti prometto che presto avremo dei risultati".
Albert, che aveva notato un certo nervosismo nel suo interlocutore, lo incalzò:
"Bada Harrison, che se mi stai nascondendo qualcosa...".
"Lascia fare a me; pochi giorni e si risolverà tutto. Fidati".
Albert decise di fidarsi ancora, ma diede un ultimo avvertimento al ragazzo:
"Va bene, mi fido, però... se non avrò risultati entro pochi giorni, muoverò le mie pedine, a costo di mandare all’aria affari importanti".
"Non sarà necessario", concluse Harrison.
Rientrando alla locanda, Harrison pensò:
"È giunto il momento di giocarci quella carta, e vada come vada".
 

 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Spero non risulti noioso...
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
  
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La "carta Daisy" ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 9
La "carta Daisy"
 
"Candy, adesso tocca a te", disse Annie, dopo essersi sfogata tra le braccia di Patty.
"Cosa intendi? Non capisco", si stupì la bionda.
Patty diede ragione all’amica che aveva parlato per prima:
"Annie ha ragione; abbiamo fatto parlare lei ed ora parlerai tu; in fondo eravamo venute qui per questo".
"Sentite ragazze io...".
Candy non finì la frase per l’intervento di Annie:
"Eh no, cara, ascolta tu: io mi sono confidata, vi ho detto ciò che mi sta accadendo, i miei timori, le mie inquietudini; adesso tocca a te dirci cosa ti è successo, cos’è che ti turba".
Candy tentò ancora di protestare, di sviare il discorso, ma, alla fine dovette cedere; d’altronde sarebbero venute a saperlo lo stesso, prima o poi, ed era meglio prepararle alla notizia:
"Devo dirvi alcune cose. Anzitutto... Terence si è fatto vivo... e questo già lo sapete".
"Ah, ora capisco, è per questo che...", intervenne Annie.
"No, Annie", si affrettò Candy, a smorzare gli entusiasmi, "Non interrompermi, altrimenti non riuscirò a proseguire... è già difficile così. Dicevo: Terence è riapparso e ci siamo anche incontrati, da soli; è stato bellissimo, emozionante, soprattutto ripensare al passato, ma... ho capito di non amarlo più e ho deciso che non lo voglio rivedere".
"Candy, ma che dici?", tentò Annie, "Non ci credo, tra l’altro non è questo, ciò che ci hai raccontato giorni fa. E Neal cosa c’entra? L’ho visto alla Casa di Pony e sei cambiata dopo averlo incontrato".
Candy ci pensò su e poi sparò la bomba:
"Ecco Neal, appunto... ho scoperto che mi ama veramente e che anch’io lo... insomma mi sposerò con lui".
Il silenzio calò su tutto l’appartamento; i volti delle amiche di Candy furono attraversati da tutte le espressioni che gli esseri umani sono capaci di esternare: sconvolgimento, incredulità, disperazione, ilarità. Annie scoppiò a ridere:
"Ho capito! Avendomi vista in crisi e un po’ depressa, stai cercando di farmi divertire. Beh, ci sei riuscita, ma non occorreva arrivare a tanto... questa cosa è incredibile! Dai adesso dicci la verità".
La bionda osservò prima l’una, poi l’altra, ma non disse nulla.
Annie la incalzò:
"Dai Candy, non serve... sto bene... ti prego, dicci la verità".
Candy si decise:
"Ve l’ho già detta: sposerò Neal Legan. Punto".
Annie e Patty tornarono alle espressioni di sbigottimento e Patty osservò:
"Ma... ma... non puoi dire sul serio; sei impazzita? Neal? E Terence?".
Candy confermò, con fermezza, quanto detto in precedenza, informandole che Terence era già a conoscenza della circostanza.
Annie si accasciò sulla sedia e Patty proseguì:
"Se fosse vero quello che stai dicendo, e non lo è, saresti felice, e invece sembra che tu stia parlando di un funerale. Non sei neanche riuscita a dire che lo ami".
Annie scattò in piedi, prese Candy per le spalle e la fissò negli occhi:
"Già, è vero! Guardami Candy, e dimmi che lo ami; dimmi io amo Neal Legan, avanti dillo! Io desidero sposare Neal Legan".
L’amica non rispose, ma distolse lo sguardo, e allora Annie sentenziò:
"Stai mentendo, non sei sincera; lo percepisco chiaramente. Non so qual è il motivo, ma ci stai raccontando un mucchio di bugie".
"Annie, io...", sibilò la bionda con un filo di voce.
"Candy, ti conosco troppo bene e... ma tu stai piangendo, sembri disperata. Oh, amica mia, vieni qui".
Annie se la strinse al petto, mentre l’altra continuava a ripetere, tra i singhiozzi:
"Annie, io... sposerò Neal. Non chiedermi altro, ti prego...".
 
Il giorno appresso Harrison era stato mattiniero e aveva preparato tutto con estrema cura: il vestito, la vettura, il ristorante. Prima di tutto questo, però, si era recato in un posto poco fuori Chicago, il luogo nel quale, secondo i suoi piani, si sarebbe giocato la "carta Daisy": aveva molta fiducia in essa ed era convinto che sarebbe stato un successo! In caso contrario avrebbe mollato tutto e raccontato ogni cosa ad Albert.
Nel primo pomeriggio giunse a Lakewood sulla vettura degli Andrew, guidata da Stewart che, come sappiamo si divideva, in quel periodo, tra le due famiglie, Andrew e Legan. Non era stato troppo difficile convincere Albert a concedergli vettura e autista, dato che il personale di servitù della tenuta degli Andrew andava a completarsi proprio in quei giorni.
Al suo arrivo fu accolto dalla signora Legan, che si dimostrò moderatamente contenta di vederlo: Iriza l’aveva avvertita dell’invito e lei, nonostante qualche frecciatina al veleno del figlio, non aveva avuto alcunché in contrario, approvando quell’uscita.
"Mia figlia non è ancora pronta; siete arrivato molto presto", aveva esordito Sarah.
"Dovete perdonarmi signora, ma avevo avvertito vostra figlia che sarei passato presto; vorrei farle visitare un posto prima, un luogo al quale sono molto legato", aveva risposto Harrison, suscitando questo pensiero nella signora:
"Un vero gentiluomo questo McFly; credo che Iriza abbia trovato proprio un buon partito. Ovviamente prenderò le mie precauzioni, informandomi sulla sua famiglia, sul suo patrimonio...".
Gli avidi pensieri della donna furono interrotti dall’ingresso nel salone di sua figlia che, splendidamente avvolta in un bellissimo vestito di seta, lasciò il ragazzo a bocca aperta, per la seconda volta in pochi giorni. Lasciare a bocca aperta Harrison era molto difficile, per cui lui si convinse che quella ragazza decisamente gli piaceva: doveva solo decidersi a sorridere di più e a ghignare di meno; doveva lasciarsi andare, affidarsi ai sentimenti, dimenticandosi di calcoli, invidie e vendette. Almeno questo era il pensiero di lui.
"Sei veramente stupenda mia cara", la accolse lui che, notando una smorfia sul volto della ragazza, le fece dei cenni, mimando qualcosa con la bocca, in un momento in cui la signora non lo guardava.
Stranamente Iriza comprese il significato di quei segnali e rispose:
"Anche tu, sei molto elegante".
In effetti Harrison, nel suo completo scuro, faceva la sua bella figura.
Salutata la signora, i due ragazzi si avviarono e lui le disse:
"Non pensavo che avresti capito i miei segnali; sai leggere il labiale?".
"Non sono mica stupida, ricordo benissimo che davanti alla mamma è meglio darvi del tu", mentì lei, che di quella cosa proprio non se ne era rammentata.
Harrison alzò un sopracciglio e commentò:
"Ah! Siamo tornati al voi. Comunque non si poteva dare un dispiacere a mammina, l’ho vista così contenta".
Iriza parve stizzita e la sua disapprovazione si accrebbe quando vide la vettura sulla quale doveva salire e, soprattutto, l’autista che li avrebbe accompagnati.
"Siete incredibile! Mi invitate a cena e mi ci portate con la mia vettura e il mio autista!".
Harrison, fingendosi stupito, osservò:
"Ma come, non vi chiamate Legan voi? Mi sono perso qualcosa? Questa è la vettura degli Andrew... non mi avevate detto di esservi sposata con un Andrew, questa notte".
"Siete un cretino, ma vi perdono. Però l’autista è dei Legan".
"Il buon Stewart", disse Harrison, dando una pacca sulla spalla all’autista, "ora sta lavorando per gli Andrew; quando sarà il vostro turno e guiderà la vostra vettura ritornerà dei Legan; anzi, devo dire che sta lavorando per me: benvenuto autista dei McFly".
Iriza alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente ed Harrison l’aiutò a salire in vettura. Stewart, che se la rideva sotto i baffi – che non aveva – , commentò fra sé e sé:
"Ecco uno che le tiene testa e le dà del filo da torcere; ben fatto McFly!".

~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
Candy giunse in cima alla "Collina di Pony"; dietro di lei arrancava, a fatica, Neal: il "signorino" non era abituato a lavorar di gambe. Giunta dinanzi al "Grande Papà Albero", la bionda disse al cugino acquisito:
"Qui siamo soli: nessuno ci può vedere e nessuno ci può sentire. Dimmi quello che mi devi dire e facciamola finita".
Neal, che aveva pensato "Che stupido posto per parlare; e quell’albero, quanto mi piacerebbe buttarlo giù e vedere la sua faccia dopo", rispose, mellifluo:
"Te l’ho già detto che non devi essere scortese, non ti conviene".
A braccia incrociate e con sguardo torvo, Candy insistette:
"Vieni al dunque".
Neal, con le mani in tasca, si mise a guardare la vallata e cominciò:
"Sai, cara, non mi è piaciuto come mi hai trattato tempo fa, quando stavamo per sposarci".
"Quando tu volevi sposarmi, per essere precisi", lo interruppe lei.
"Prima mi dici di venire al dunque e poi mi interrompi? Continui ad essere scortese... Comunque, d’accordo, quando io volevo sposarti*".
Mentre Neal farneticava, Candy pensava, ma non riusciva a capire dove volesse arrivare con quel discorso senza senso. Tuttavia rimase in silenzio ad ascoltarlo.
"Tu non hai capito che io ti amo veramente e che anche tu mi ami: quindi alla festa della zia Elroy, annunceremo a tutti i clan della nostra famiglia il nostro fidanzamento".
"Ma tu sei tutto scemo!", esplose Candy, "Ma come ti viene una bestialità del genere? Questo colloquio finisce qui, vattene e non farti più vedere da queste parti".
Dicendo queste parole, Candy fece per avviarsi, ma lui la bloccò:
"Ehi frena, dove credi di andare? Non abbiamo mica finito, il bello comincia ora".
La bionda lo guardò allibita e si trattenne dal mollargli un ceffone.
"Sì lo so, credi di amare quel cretino, quel bellimbusto mezzo inglese e mezzo americano".
"Che c’entra Terence adesso?". Candy era livida di rabbia.
"Ah sì, Terence, brava: lo so che vi siete incontrati, vi ho visti... su non fare quella faccia, c’ero anch’io... bella scenetta patetica, la vostra".
"Neal, non riesco proprio a capire...".
"... dove voglio arrivare? Te lo dico subito: ti ricordi quando rubasti i gioielli di mamma e Iriza?".
"Non dire idiozie, sappiamo bene chi è stato", avvampò l’ex orfanella.
"Giusto, noi sappiamo chi è stato, ma gli altri?".
"Anche gli altri lo sanno ormai, tua madre...".
"No, no, no", la interruppe lui, "Ti sbagli: lei non ha mai creduto alla tua innocenza e, nel porgerti le scuse della famiglia, un'imposizione dello zio William, ha parlato di increscioso equivoco. Non si è mai saputo chi fosse l’autore di quei furti... ma io l’ho scoperto".
"Ma che diavolo... ?", esclamò Candy, sempre più allibita.
"O meglio, ho scoperto l’autrice di quei furti".
"Neal, vattene, prima che ti prenda a calci nel sedere".
"So che ne saresti capace, ma lasciami finire, è un racconto che troverai interessante, te lo assicuro: tutti i gioielli rubati furono recuperati, tranne uno; la mamma ne ha così tanti che, probabilmente, s’è scordata della collana di perle che le regalò la zia Elroy, quando era ancora una ragazzina. Perle vere, perle preziose, che la zia Elroy e la mamma non faticheranno a riconoscere. Se tu continuerai a negare il nostro amore, casualmente, quella collana verrà ritrovata... e sai dove? Indovina un po'".
"Dimmelo tu", domandò Candy, sempre più incredula.
"Conosci... Dorothy?".
"Dorothy? E cosa c'entra Dorothy? Aspetta... maledetto bastardo, non oserai...", esplose Candy, scagliandosi contro di lui per colpirilo.
Neal le afferrò i polsi e glieli portò dietro la schiena, con una forza che Candy non sospettava potesse avere, e ringhiò:
"Sì che oserò, stanne certa! Dorothy, la povera piccola Dorothy, che doveva mantenere tutti quei fratellini... aveva bisogno di molto denaro, la paga non bastava... altro che Messico, stavolta la manderanno in galera!".
"Neal, tu non puoi... ti prego... lascia stare Dorothy, lei non ha colpe", piagnucolò la bionda.
"Accetta la mia proposta e Dorothy sarà salva!", disse lui in tono deciso, secco, per poi aggiungere, più mellifluamente:
"Vedrai, imparerai ad amarmi".
Neal avvicinò il suo viso a quello di Candy, ma lei girò la testa, schifata, e riuscì a divincolarsi.
"E dimmi Neal... come si spiegherebbe che lei, dopo tanti anni, abbia ancora la collana? Non hai detto che le servivano i soldi?", chiese Candy.
"È facile: quando è scoppiato lo scandalo e i furti sono stati scoperti, ha avuto paura e l’ha tenuta in attesa del momento buono per venderla; oppure non ha perso il vizio; oppure... che cavolo ne posso sapere io? L’importante è che venga ritrovata in mano sua, non ti pare?".
"E se io ne parlassi con lo zio William? Ci hai pensato furbone?", insistette lei.
"Figurati, con tutti i problemi che ha per la testa, credi che si preoccuperebbe per una serva? Lui non la conosce più di tanto... e comunque basterebbero lo scandalo ed il sospetto, per rovinarla".
Candy rimase in silenzio e Neal aggiunse:
"Vogliamo fare la prova? Davvero rischieresti sulla sua pelle?".
"Va bene, hai vinto! Non posso abbandonare Dorothy nelle tue sporche mani".
"Per prima cosa liberati del bellimbusto e ricordati di non essere sgarbata con me... potrei anche cambiare idea... e denunciarla lo stesso!".
"E chi mi assicura che rispetterai l’accordo?".
"Nessuno… devi solo fidarti", ghignò il rampollo dei Legan.
A quel punto, Candy udì una voce che la chiamava insistentemente, una voce conosciuta e cara: si tirò su di scatto e si rese conto di aver avuto l’ennesimo incubo, nel quale aveva rivissuto il colloquio con Neal sulla collina. Annie la stava scuotendo: la brunetta non se l’era sentita di lasciarla sola, rimandando a casa solo Patty e fermandosi da Candy per la notte; fortunatamente lo spazio per due persone, nell’appartamento, c’era.
"Candy, Candy, svegliati! Hai avuto un incubo".
"Annie, è stato orribile...", piagnucolò la bionda, stringendosi all’amica.
"Sì, Candy, è terribile; hai parlato nel sonno e ora ho capito molte cose...".
"Hai capito allora perchè non potevo... ?".
Annie l’abbracciò forte, tentando di consolarla:
"No, no... i miei problemi non sono nulla rispetto a questo. Ma troveremo una soluzione, te lo prometto Candy, troveremo una soluzione: puoi contare su di me, sempre".
 
Harrison, guardandola, chiese ad Iriza:
"Possiamo finirla con questo voi? Non ci sono abituato".
"No, vi tengo ancora sotto esame", rispose Iriza, non immaginando di essere proprio lei a dover sostenere un esame.
"Come volete. Vostra madre non si è neanche accorta del vostro cappellino e dei vostri guanti nuovi; probabilmente col mio fascino ho conquistato pure lei".
"Se ne siete convinto… a proposito, ma dove stiamo andando? Questa non è la strada per Chicago. Dovevo immaginarmelo che non ve lo potevate permettere il miglior ristorante di Chicago", osservò la ragazza, rendendosi conto della strada presa dalla vettura.
"Vi porto a visitare un posto, prima", rispose lui.
"Non mi starete portando in una bettola di periferia, spero?".
"Non vi preoccupate, state buona e andrà tutto bene".
"Andrà tutto bene? Che significa?". Iriza cominciava a preoccuparsi, rassicurata solo dalla presenza di Stewart.
In effetti la vettura aveva preso una via secondaria, deviando dalla strada per la città e dirigendosi nella periferia, in quartieri vicini al degrado.
Arrivati davanti ad un vicolo, Harrison fece fermare l’auto e disse all’autista:
"Aspettatemi qui, vado avanti io".
Imboccato il vicolo, un po’ in discesa, il ragazzo lo percorse e, dopo aver svoltato a sinistra, sbucò in un ampio cortile, nel quale una decina di bambini stavano giocando. Una rapida occhiata gli fu sufficiente:
"Timmy che ci fai qui? Ti avevo raccomandato di non farti trovare; anche se eri a volto coperto ti potrebbero riconoscere ugualmente. Tieni, altri due biglietti per il circo: prendi tua sorella e sparite".
Il ragazzino afferrò i due biglietti e rispose:
"Grazie Zio Mac, alla piccola Mary è piaciuto tantissimo il circo l’altra volta".
"Svelto, sparisci", concluse lo "Zio Mac", dando una spintina al ragazzino chiamato Timmy.
Tornato alla vettura dove Iriza e Stewart attendevano il suo ritorno, Harrison prese per mano la prima e disse al secondo:
"Attendici qui, Stewart".
"Come desiderate, signor McFly", rispose l’autista, pensando, divertito:
"Speriamo che la molli da qualche parte e che torni da solo. Magari".
Iriza, che quasi non voleva dividersi da Stewart, si lasciò condurre per il vicolo fino al cortile. Appena vide il gruppo di bambini esclamò:
"E questo che significa?".
I bambini corsero incontro ad Harrison, acclamandolo:
"Zio Mac è tornato a trovarci; ci hai portato qualche regalo?".
"Calma bambini", rispose lui, "Zio Mac vuole farvi conoscere la zia Iriza".
Iriza che, colta di sorpresa, non sapeva cosa pensare, fu attorniata dai bambini:
"Oh, che bella; sembra una principessa".
Ad un tratto Harrison si sentì tirare per la giacca; guardò in basso e prese in braccio una bellissima bambina, forse di cinque anni, con due magnifici occhi di un colore indefinibile:
"Zio Mac, voglio conoscere Zia Iriza, voglio capire se è bella come dicono gli altri".
Harrison si avvicinò ad un’Iriza, sempre più attonita, e disse:
"Questo angioletto è Daisy, la mia preferita, vuoi tenerla un po’ tu? Ti vuol conoscere".
La ragazza, ritrovato l’uso della parola, protestò:
"Ma tu sei matto! Ma cosa... ?".
Senza badare alle sue proteste, lui gliela mise in braccio, insegnandole come la doveva tenere. La bambina cominciò a toccare il viso di Iriza e ad aspirare il profumo che ella emanava e, soddisfatta, le diede un bacio sulla guancia.
"Sei bellissima, sicuramente una principessa e hai un profumo delizioso, quindi non puoi essere una persona cattiva; mi piaci. Zio Mac ti dò il permesso".
Iriza, che era arrossita vistosamente, guardò Harrison con fare interrogativo. Si sentiva strana: il contatto con le labbra e con le manine della bambina, le aveva scaldato il cuore; una sensazione che non aveva mai provato, o immaginato di poter provare, in precedenza; sentiva anche il battito del suo cuoricino. Nessuno l’aveva mai baciata, seppur sulla guancia, in quel modo e nessuno le aveva mai detto parole tanto belle.
Un ragazzino disse, rivolto ad Iriza, facendola diventare, se possibile, ancor più purpurea:
"Tu sei la fidanzata di Zio Mac, vero? Ma non potevi esserlo senza l’approvazione di Daisy".
Harrison, che aveva studiato attentamente le reazioni di Iriza, intervenne, riprendendo la bambina dalle sue braccia:
"Ora basta bambini; e tu Daisy vieni qui, sono contento che Zia Iriza ti piaccia".
Dopo averle dato un bacio sulla guancia, la rimise a terra e disse al ragazzino:
"Occupati di lei e ora andate a giocare con gli altri".
Il ragazzino prese per mano la bambina e raggiunse con lei gli altri bambini, che avevano ricominciato a correre.
La Legan, visibilmente imbarazzata, si rivolse ad Harrison:
"Mi spieghi che significa?".
"Questo è l’orfanotrofio in cui sono stato abbandonato e tutti i bambini mi conoscono come lo Zio Mac; la bambina che hai tenuto in braccio si chiama Daisy e ha sempre dichiarato di volermi sposare; le ho spiegato alcune cose e, da quando ha capito che noi non potremo mai sposarci, pretende di analizzare tutte le ragazze che frequento. Le sei piaciuta, e molto".
"Ma perché ti ha chiesto se ero bella come dicono gli altri? Non lo vedeva da sola?".
Harrison le spiegò, tristemente:
"Daisy non ci vede... è cieca".
Iriza si spiegò lo strano comportamento della bambina, le sue manine sul suo viso e il perché, per raggiungere gli altri, fosse stato necessario affidarla al ragazzino.
"Ma... non ci vede e ha un'aria così allegra?", pensò Iriza, mentre Harrison proseguiva nel racconto:
"Il carro su cui viaggiava con i genitori si rovesciò e lei batté la testa, perdendo l’uso della vista; purtroppo i suoi genitori, invece, persero la vita. Così è finita qui, dove ha conosciuto me".
"Mi dispiace... deve essere stato terribile per lei. Ma come fa a dire che sono bella se non mi vede?", domandò Iriza, che non la smetteva di accarezzarsi la guancia, nel punto in cui Daisy l’aveva baciata.
"I ciechi vedono molto più di noi... e molto meglio di noi! Sono capaci di guardarci anche nell’anima. Fidati. Allora, andiamo alla nostra cena?".
Iriza era rimasta scossa dall’accaduto, qualcosa le era scattato dentro e le si era chiuso lo stomaco, per cui lo pregò:
"Harrison ti prego, torniamo a casa... ceneremo insieme un’altra volta".
"Come vuoi. A proposito, non te ne sei neanche accorta...".
"Di cosa?", volle sapere lei.
"Di avermi dato del tu diverse volte in pochi minuti e di non aver protestato quando l’ho fatto anch’io...".
Tornati all’auto, il ragazzo ordinò a Stewart di ricondurli a Lakewood.
Nessuno di loro, almeno in apparenza, si era accorto della vettura parcheggiata poco distante, all’interno della quale vi era una persona che li stava seguendo già da un po’...
 
 
 
 
 
evento narrato negli episodi 112 (Il tranello) e 114 (Matrimonio a sorpresa) della serie TV.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Che ve ne pare? A me questo capitolo è piaciuto e spero di aver reso al meglio gli eventi, in particolare la situazione all’orfanotrofio: non è mai facile rendere su carta (o file) ciò che ci gira per la testa...
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Consiglio di guerra ***


Buona lettura



Capitolo 10
Consiglio di guerra
 
Iriza entrò nel salone, si sfilò i guanti, si tolse il cappellino e li gettò sul divano, sbottando:
"Questi non li voglio più".
Continuava a toccarsi la guancia; Harrison, dietro di lei, la osservava con interesse.
D’un tratto lei, voltandosi, gli si rivolse:
"Perché mi hai portata in quel posto?".
"Sei irritata per la mancata cena?", rispose lui.
"Ma che vuoi che m’importi della cena?", sbottò lei.
"Ho voluto farti visitare un luogo e farti conoscere delle persone che sono molto importanti per me; io so tutto, o quasi, della tua famiglia, mi pareva giusto che tu mi conoscessi un po’ di più. Mi hai sempre ripetuto di non fidarti...".
Era difficile stabilire se lei lo stesse ascoltando o meno; dopo alcuni istanti di silenzio, Iriza si riscosse:
"Che mi sta succedendo, Harrison? Ogni volta che chiudo gli occhi mi sembra di vederla, con quei suoi occhi strani... mi sembra di sentire il calore delle sue manine, il tocco delle sue labbra, la sua vocina che mi dice Sei bellissima, una principessa... il suo cuoricino che batte... Cosa mi hai fatto, Harrison? Cosa mi ha fatto lei?".
Harrison la prese per le spalle, facendola fremere:
"Io non ti ho fatto niente, Daisy non ti ha fatto niente... è il tuo cuore, quello che comincia a battere più forte quando provi emozioni", le rispose, puntandole un dito sul petto, "Dagli ascolto e dimentica tutto... tutto quello che ti hanno inculcato fino ad ora".
Il ragazzo provò un azzardo.
"Pensa a... Candy. Anche lei era una bambina dolce e gentile, quando l’hai vista la prima volta. Chiudi gli occhi e ricorda...".
Stranamente, Iriza non si irritò a sentire l’odiato nome e gli dette ascolto; quando riaprì gli occhi, il suo viso si trovava vicinissimo a quello di Harrison; il suo sguardo si perse in quello di lui e un pensiero le balenò nella testa:
"Che significa? Sto per... sto per... baciarlo?".
L’evento pensato da Iriza non si verificò: lui se la strinse al petto, dopo aver distolto lo sguardo, e si accorse che lei stava tremando.
"Forse è meglio se vai in camera e ti fai portare qualcosa che ti calmi, sei molto agitata, Lisa".
Con un’espressione fra il deluso e il sollevato, Iriza rispose:
"Sì, forse hai ragione, un po’ di camomilla mi farebbe bene".
Si congedò da Harrison e si avviò, mentre lui pensava:
"La cosa è grave! Non si è nemmeno accorta che ho storpiato ancora il suo nome".
Un lento battimani lo distolse dai suoi pensieri; senza voltarsi, chiese:
"Archie, hai bisogno di qualcosa? Credi che non mi sia accorto della tua vettura, prima? Ci hai seguiti per tutto il pomeriggio?".
"Davvero commovente... un serpente a sonagli che teme di essere stato avvelenato da una bambina e un illuso che le chiede di ascoltare il suo... cuore? Quale cuore?".
Voltandosi, Harrison lo vide, appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate e la testa rivolta a guardare in basso.
"Ti ho fatto delle domande, gradirei delle risposte", osservò.
"Ero in giro per i fatti miei quando ho visto la vettura degli Andrew con quella strega e te... mi sono incuriosito e vi ho seguiti dall’orfanotrofio fino a qui. E comunque io sono il signor Cornwell: Archie è per gli amici".
"Non siamo amici? Eppure sono amico di un tuo amico. Io, allora, sono il signor McFly: pretendi rispetto dagli altri e non ne porti? Ti ho chiesto, signor Arcimboldo Cornelius, se hai bisogno di qualcosa".
"Provoca, provoca pure... con me non attacca. Ho bisogno di sapere qual è il tuo gioco; un orfano, a quanto pare, un amico di Terence, in combutta con una vipera: come portare un lupo in un pollaio".
Harrison si stava spazientendo, ma capiva, in parte, le ragioni di Archie:
"In fondo lui non sa niente, ma dovrebbe imparare ad occuparsi dei fatti suoi".
"Beh, forse un lupo si addice alla signorina Legan, può essere anche un complimento, ma paragonare i miei piccoli amici a dei polli... non mi piace, non mi pare una cosa carina".
"Hai capito benissimo cosa intendevo".
"Ho capito che tu non hai capito: non ti avevano già consigliatio di farti gli affari tuoi, di occuparti della tua famiglia, di tuo fratello?".
"Mio fratello non è ancora tornato e tu non hai il diritto di nominarlo! Per cui mi occupo delle persone che amo, degli amici che sono qui".
"Ad esempio: ti stai occupando della tua fidanzata? Non vi vedo mai insieme...".
Archie che, faticando, aveva cercato di controllarsi, esplose: con uno scatto in avanti fu su Harrison e lo afferrò per il bavero della giacca.
"Forse non hai capito: tu non devi nominare né mio fratello, né la mia fidanzata, né nessun altro dei miei amici".
"Nemmeno... Candy?".
Non si sa cosa trattenne Archie che, spingendolo via, si separò da McFly.
"Ho toccato un nervo scoperto?", chiese Harrison, mentre si toglieva la giacca.
"Te lo dico per l’ultima volta: stai lontano da me e dai miei amici; frequenta chi ti pare, avvelenati, ma stai lontano da noi".
L’amico di Terence, intento a esaminare l'indumento che si era appena tolto, esclamò:
"Guarda qui; ci voleva il signor Cornwell per rovinarmela!".
"Cos'è, l'hai presa in prestito?", sibilò Archie.
Poi, dopo aver poggiato la giacca sulla spalliera del divano, Harrison gli lanciò l’ultima frecciata:
"Ma qual è il tuo problema? Sei tu che vieni sempre a rompermi le scatole e l’unico ad essere avvelenato, qui, sei tu".
L’intervento della padrona di casa evitò che la situazione degenerasse ulteriormente:
"Che sta succedendo qui? Signor McFly, Archie".
Il fidanzato di Annie concluse, prima di uscire dal salone:
"Te lo ripeto: stai lontano da noi".
"Mi scuso per il comportamento di Archibald. Ma cosa è successo?".
"Non vi preoccupate signora Legan: il ragazzo ha la pressione un po’ alta".
Congedatosi dalla padrona di casa ed uscito dalla villa, Harrison si accorse di aver dimenticato la giacca; quindi tornò sui propri passi:
"Mi ha così innervosito che me la sono dimenticata... la sua vettura è ancora qui; spero di non incrociarlo ancora".
Rientrato, si guardò intorno: nel salone, apparte lui e Stewart, non c’era nessuno; raccolse la giacca e finalmente poté uscire.
Neal, che aveva assistito all’alterco senza essere visto, pensò:
"Interessante... un orfano? Molto interessante...".
 
"Entra, Patty", disse Candy all’amica che aveva bussato alla sua porta.
"Sono passata per vedere come stai, se hai bisogno di qualcosa, se ci sono novità".
La padrona di casa la fece accomodare.
"Sei molto carina a preoccuparti. Una novità ci sarebbe...".
"Prima, però, devo dirvi una cosa", disse Patty, rivolgendosi anche ad Annie.
Patty spiegò che, la sera prima, rientrata da sola dai Brighton, aveva incrociato Archie, irritato per non aver trovato Annie in casa e stupito di non averla vista tornare con Patty, dato che erano uscite insieme. Messa alle strette, aveva dovuto confessargli d’aver trovato Candy in un preoccupante stato di prostrazione, senza rivelargliene, come promesso, il motivo; per questo Annie non era rientrata; aveva anche dovuto dirgli dell’incontro tra Candy e Terence.
"Sì, sapeva già di Terence, ma non che si era incontrato con te, Candy", osservò Annie, prima di chiedere, con molta preoccupazione, a Patty:
"Come ha reagito?".
Patty esitò, ma poi rispose:
"Molto male".
Annie abbassò lo sguardo e Candy la consolò:
"Lo sai che è fatto così, non ti preoccupare".
Dopo alcuni istanti di silenzio, Annie si riscosse:
"Sì, hai ragione, ora abbiamo altro a cui pensare. Dobbiamo dichiarare guerra a Neal".
Patty, che ancora non sapeva nulla del ricatto di Neal, ne fu messa a parte e, alla fine del racconto, disse:
"Sono d’accordo, dichiariamo guerra a Neal: si può dire che questo sia il nostro primo consiglio di guerra".
Le tre amiche stabilirono che, se quel che aveva detto Neal era vero, lui doveva essere per forza in possesso di quel dannato gioiello, e l’unico modo per rovinargli la festa consisteva nel sottrarglielo. Ma dove lo teneva? In casa a Lakewood, nella casa di città, nel suo ufficio in banca? Decisero che avrebbero fatto di tutto per scoprire dove si trovasse. All’obiezione di Patty, che si chiedeva se non fosse il caso di raccontare tutto al famoso "zio William", Candy oppose questa risposta:
"Per una volta voglio provare a cavarmela da sola, senza il suo aiuto, e poi, anche se Albert lo conosciamo e sappiamo che tipo di persona sia, potrebbe anche credere a Neal".
"E forse non avrebbe neanche bisogno di credergli: lui ti ha detto che la collana verrà ritrovata tra le cose di Dorothy, non che sarà lui a ritrovarla; chissà cos'ha in mente", osservò Annie.
"Ma non temi di perdere Terence così?", insistette Patty.
"Ci amiamo davvero... capirà... una volta risolta tutta la faccenda, capirà".
"Hai ragione", si convinse Patty.
"E poi Albert non conosce tanto bene Dorothy e potrebbe farsi influenzare dalla zia Elroy e dalla signora Legan".
"Soprattutto dalla signora Legan, che ha il pallino del Messico", disse Annie, per far sorridere un po’ le amiche.

Arrivato davanti alla porta, sulla quale una targa recava scritto "Terence Graham", Archie bussò, pensando:
"Allora è vero che ha ripudiato il cognome Grancester, come avevo sentito da Candy tempo fa; e dunque la G di Terence G. Grancester, stava per Graham".
Terence aprì la porta e salutò l’amico; i due si abbracciarono, ma, a Terence, l’amico parve un po’ freddo.
"Allora Archie, hai saputo che sono tornato?", gli chiese Terence, dopo averlo fatto accomodare e dopo avergli offerto da bere una bevanda analcolica.
"Sì, mi hanno informato della cosa sia Albert che Patty, mentre Annie e Candy non mi hanno detto nulla... strano. Tuttavia sono qui, oltre che per abbracciarti e darti il bentornato, anche perché non ho ben chiaro cosa stia accadendo".
"A cosa ti riferisci? Hai saputo di Candy?".
"So che sta male, ma ne ignoro il motivo, tu ne sai qualcosa? Mi sembri stranamente tranquillo...".
"Non più di quello che sai tu", rispose l’attore.
"Chi è Harrison McFly? Te lo chiedo perché è un tizio che si spaccia per tuo amico, ma che sta combinando qualcosa di poco chiaro con i Legan".
Terence si affrettò a tranquillizzarlo:
"Non ti preoccupare di lui: è fidato. Ma perché pensi che...".
"... sia un doppiogiochista?", gli concluse la frase Archie, per poi proseguire:
"Come fa un tuo amico a stare appiccicato ai Legan? Soprattutto a quella strega di Iriza?".
L’attore, che non voleva rivelargli la storia dei terreni di Cartwright e l’indagine affidata ad Harrison – anche se pensava c’entrasse poco col fatto che l’amico uscisse con Iriza – fu evasivo:
"Ho sentito che frequenta spesso Iriza, ma non credo che la cosa ci riguardi".
"Ma c’è una cosa che non sai".
Archie raccontò all’amico quel che aveva sentito dire da Harrison a Neal, riguardo a un certo affare: non aveva sentito granché e nemmeno capito a cosa si fosse riferito, ma sicuramente non doveva essere nulla di onesto.
Terence, che veramente nutriva una completa fiducia in Harrison, rimase stupito e cominciò a pensare che davvero ci fosse qualcosa di poco chiaro in quella faccenda. Congedò l’amico rassicurandolo sul fatto che avrebbe parlato con Harrison: ora anche lui voleva sapere cosa stesse accadendo.

Neal entrò nella stanza di sua sorella senza bussare, irritandola.
"Non si usa più bussare?", brontolò la ragazza, che stava ancora pensando ad Harrison, all’orfanotrofio, a Daisy e a... Candy.
"Non ci siamo mai formalizzati troppo su questo, mi pare", rispose Neal.
Iriza, che non aveva voglia di parlare con lui, brusca, gli chiese:
"Che vuoi? Sono stanca...".
"Eh già, i bambini stancano", sibilò Neal, guardandosi le unghie.
"Che... che vuoi dire?".
"Forse se dico orfani al posto di bambini capisci meglio".
La ragazza lo guardò stupita e gli chiese di spiegarsi meglio.
"Ho saputo delle nuove interessanti, diciamo pure conferme, più che nuove; e così il tuo nuovo amico è un orfano, un pezzente insomma".
"Dove vuoi arrivare?", chiese Iriza, che non si aspettava che lui sapesse.
"Pensa se lo venisse a sapere la mamma! O la zia Elroy... che scandalo! Un’orfana in famiglia è più che sufficiente, non ce ne servono altri".
"Chi frequento non è affar tuo...".
"Pensa, sorellina, pensa bene a quel che ti ho detto", concluse lui, mentre Dorothy, precedentemente chiamata da Iriza, faceva il suo ingresso nella stanza.
 
Una vettura scivolava veloce per le vie di Chicago; a bordo di essa una persona guardava distrattamente fuori dal finestrino. La vettura si arrestò davanti ad una palazzina e il passeggero, aiutato dall’autista, ne scese. Questa persona si avvolse in una mantellina scura, come a voler celare la propria identità, e, con voce appena udibile, si rivolse all’autista:
"Aspettatemi qui, non credo di trattenermi a lungo".
Questa figura, poco più di un’ombra nella scura serata, attraversò la strada e giunta davanti ad una casa, si fermò.
"Non so se sia una buona idea, ma non posso stare a guardare, senza provare a dire la mia", pensò, prima di dirigersi, con passo svelto e sicuro, verso la porta.
La sua mano si alzò ed esitò parecchio, prima di dare due o tre colpetti all’uscio.
Quando l’ombra si trovò davanti Candy, che aveva aperto la porta, si scoprì il capo, rivelando la propria identità:
"Tu... qui? Ti confesso che sei l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere", esclamò la bionda, al colmo dello stupore più genuino.
"Allora, mi fai entrare o mi lasci qui, fuori della porta?".
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Chi sarà mai il misterioso visitatore? Lo scopriremo solo leggendo... il prossimo capitolo.
 

The Blue Devil






Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** "Rendilo felice anche per me..." ***


Massì pubblichiamo oggi va'!
Buona lettura

 
 
 
Capitolo 11
"Rendilo felice anche per me..."
 
Neal, uscendo dalla stanza di Iriza, diede uno spintone a Dorothy, facendola quasi finire in terra, e poi si rivoltò contro di lei, dicendole di stare più attenta:
"In Messico avrebbero saputo come raddrizzarti! Ma non è detto che tu non finisca in un qualche posto in cui si raddrizzano gli incapaci".
Visibilmente scossa per quella frase sibillina, la cameriera chiuse la porta.
Iriza, notata la sua inquietudine, le disse:
"Non farci caso, non diceva sul serio; è nervoso in questo periodo".
Dorothy non poteva credere alle proprie orecchie: la sua perfida padroncina rinunciava a rincarare la dose di insolenze verso di lei?
"Mi avete fatto chiamare, signorina?".
"Volevo che mi portassi qualcosa per calmarmi, sono un po’ agitata e stanca".
Prima che la cameriera potesse uscire, per esaudire la sua richiesta, la domanda di Iriza arrivò a bruciapelo:
"Dorothy... pensi che io sia un... mostro?".
Dorothy non sapeva proprio cosa rispondere; non poteva certo dirle "No, penso che siate solo un serpente velenoso", per cui optò per una risposta "diplomatica":
"N-non capisco... comunque n-no, non lo penso".
"Su Dorothy, non aver paura; so che pensi che questo sia uno dei miei soliti tranelli, ma ti assicuro che non lo è; pensi che io sia una persona orribile?".
Il silenzio della cameriera, visibilmente impaurita, fu una risposta eloquente.
"È chiaro che lo pensi... una persona, oggi, mi ha detto che sono bellissima, come una principessa, che ho un buon profumo e che non posso essere cattiva... e questa persona non ci vede, è cieca; forse si è sbagliata".
La cameriera prese coraggio e ritrovò la parola:
"Beh, non siete proprio un esempio di virtù, ma... non credo che quella persona si sia sbagliata: i ciechi certe cose le sentono".
Iriza trasalì, si avvicinò alla cameriera e le prese le mani, spaventandola:
"Lo pensi davvero? Con tutte le cattiverie che ti ho fatto da quando sei a servizio da noi?".
Dorothy non sapeva più cosa pensare, mentre Iriza proseguiva:
"Quella persona è una bellissima bambina, un’orfana".
Sebbene il suo sbigottimento non avesse fine, Dorothy osservò:
"Se è una bambina... i bambini dicono la verità. Forse, in fondo al vostro cuore...".
La padroncina strinse le mani della cameriera, dicendole:
"Ti ringrazio Dorothy, non sai quanto sia importante per me, sentirmelo dire. Ora va’ e fammi preparare una camomilla... per favore".
Quell’atteggiamento e quelle ultime parole colmarono la misura.
"Che sta accadendo? Il mondo si è capovolto? Mah, si sarà sbagliata, oppure avrà preso un colpo di sole, oggi; sicuramente è così, forse bisognerebbe chiamare il dottor Leonard", pensò la cameriera, mentre si chiudeva la porta alle spalle, lasciando la stanza di Iriza.
 
Quando Patty ed Annie la videro, esclamarono quasi ad una voce:
"Susan Marlowe?".
Annie che, in un certo senso, l’aveva odiata per ciò che aveva fatto alla sua migliore amica, disse:
"Candy ci aveva accennato qualcosa, ma vederti in piedi, ristabilita, fa un certo effetto. Che sei venuta a fare? Non ti sono bastati i guai che le hai creato?".
"Comprendo l’astio che ancora provate per me, ma sono venuta per parlare con Candy, in pace", rispose l’attrice.
"Non è il momento", ribatté Annie.
La padrona di casa, che aveva fatto cenno a Susan di accomodarsi, prendendole la mantellina, intervenne:
"Ragazze, non mi va di essere scortese con lei: se ha fatto tutta questa strada per venire a parlarmi, forse è importante".
"Ci sono cose che voglio dirti da tanto tempo, e vorrei dirtele a quattr’occhi", confermò Susan.
Annie e Patty si dimostrarono ancora contrariate, ma Candy riuscì a convincerle e a farle rientrare a casa: quel giorno si erano chiarite e non c’era bisogno che restassero con lei per la notte; il "piano di guerra" potevano discuterlo anche il giorno seguente.
Rimaste sole, Candy parlò per prima:
"Come ti dicevo prima, sei l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere, per lo meno a casa mia, ma... ti confesso che il vederti quasi ristabilita mi fa piacere. Sono sincera".
Susan, sorridendo, rispose:
"Sono contenta che ti faccia piacere, non mi aspettavo tanto, dopo quel che è accaduto tra di noi...".
"Non ti preoccupare, possiamo dire, al punto in cui siamo, che siano vicende passate; ma dimmi, di cosa volevi parlarmi?".
Susan le prese le mani e cominciò:
"Per prima cosa voglio ringraziarti: se sono qui, a parlare con te, è solo merito tuo; se tu non fossi venuta in ospedale e non mi avessi impedito di togliermi la vita, io non ci sarei più; sei stata tu a convincermi che valeva la pena di continuare a vivere e devo dire che avevi pienamente ragione".
"Non so che dirti", osservò Candy, "Quel giorno ti dissi solo ciò che realmente pensavo e penso tuttora, ma se tu non avessi trovato la forza dentro di te non sarebbe servito...".
"E qui ti sbagli", la interruppe Susan, "Perché sei stata tu a indicarmi la via e a tirarmi fuori tutto il coraggio, e me ne è servito tanto, per rialzarmi".
"E poi Terence ha fatto il resto...".
Susan abbracciò l’antica rivale, ringraziandola ancora e scusandosi per averle portato via l’uomo che amava.
"Ed è proprio di Terence che ti voglio parlare. Io lo amo ancora, ma ho capito che non ho speranze; mi vuol bene sì, ma non mi ama; si è affezionato a me, ma non mi ama; lui ama te e la sua felicità sei tu. Con me appassirebbe, come stava succedendo, e sarebbe infelice, e io voglio solo che sia felice, quindi ho deciso di restituirtelo, non ho il diritto di tenervi separati... e tu che fai?".
Candy, che cominciava a intuire dove l’attrice volesse arrivare, tacque, così Susan poté continuare:
"Giorni fa ho visto Terence felice, così ho capito che vi eravate incontrati e ho capito che la mia scelta fosse l’unica possibile; ma qualche giorno dopo è rientrato sconvolto, aveva voglia di spaccare tutto e non ha detto una parola; ormai lo conosco e, quando ha queste reazioni, significa che qualcosa fra voi non va. Candy, che sta accadendo?".
Candy, secondo quanto le aveva raccontato Harrison, sapeva che il recupero di Susan non era ancora completo e che certe tensioni potevano farle male, per cui cercò di tranquillizzarla. Le spiegò che c’erano dei problemi, ma nulla di irrimediabile e che, sicuramente, Terence aveva ingigantito.
"Bisogna capirlo, è da tanto tempo che attendiamo il nostro momento: ti prometto solennemente che farò di tutto perché le cose si risolvano. Non angustiarti".
S'era fatto tardi, Susan riprese la mantellina e si avviò alla porta rivolgendole un’ultima supplica:
"Non voglio che Terence soffra ancora; rendilo felice... rendilo felice anche per me".
"Contaci", rispose la bionda.
Un secondo abbraccio chiuse la visita. Mentre la osservava salire in vettura e allontanarsi, Candy si disse ancora, sapendo quanto sarebbe stato difficile mantenere quel proposito:
"Contaci".
 
Un’altra persona, quella sera, aveva lasciato gli alloggi della "Compagnia Stratford" ed ora si trovava a faccia a faccia con Harrison:
"Terence, non mi aspettavo di vederti, questa sera".
"Neanch’io, e sinceramente ne avrei fatto volentieri a meno, date le circostanze".
Harrison aggrottò la fronte e lasciò che fosse l’amico a proseguire:
"So che hai parlato con Albert; so che ti sei scontrato con Archie; so che ti incontri con Iriza; so che hai parlato con Neal... Harrison, che stai combinando?".
"Come ho già detto ad Albert, per il momento non posso dirti nulla, ma siamo sulla giusta via".
"Siamo chi?", intervenne l’attore, "Lo sai che Candy ha detto di non volermi più vedere? E questo è accaduto dopo aver incontrato quel bastardo di Neal; Archie mi ha detto che ti ha sentito confabulare di faccende poco chiare con lui e... cosa c’entra Iriza? Gli ho detto di stare tranquillo, ma non so se riuscirò a tenerlo a bada per molto. È molto focoso lui".
Harrison, che pensò per l’ennesima volta che farsi i fatti propri fosse un’ottima abitudine, rispose:
"Mi stupisci, Terence! Credi che io abbia paura di quella specie di manichino? Finora non gli ho dato la lezione che merita solo per rispetto a te, perché è amico tuo. Te lo ripeto: non posso dirti niente, per ora".
"Attento Harrison, Archie è un amico...", lo ammonì Terence, con tono minaccioso..
"Vuoi mettermi le mani addosso? Ne verrebbe fuori un bell’incontro di pugilato, ma non so, onestamemte, se ne usciresti vincitore... Ti dico: attento tu, che Archie è mosso da nobili intenti, secondo me troppo nobili; intenti che incominciano con la A maiuscola".
"Non dire stupidaggini, non ti metterei mai le mani addosso e lo sai, ma... mi interessa il discorso della A: che intendi dire?".
Harrison si accorse che, forse, aveva esagerato e, fissandolo, disse all’amico:
"Lascia perdere quel che ho detto e guardami negli occhi: puoi credermi se ti dico che è meglio per te, per tutti, se continui a fidarti; lascia fare a me e vedrai che, alla fine, tutto si risolverà".
Terence stabilì, guardandolo fisso negli occhi, che Harrison non mentiva e, d’altronde, conoscendo la sua cocciutaggine, sapeva che non gli avrebbe cavato altro di bocca.
"E va bene, voglio fidarmi; ma ti do pochi giorni, dopodiché dovrai dirmi tutto ciò che sai".
"Cavolo, è il secondo ultimatum che ricevo in pochissimo tempo".
 
Dorothy rientrò da Iriza, portando un vassoio con la tazza della camomilla, che poggiò sul tavolino. Quindi restò in attesa di nuovi ordini. Notò che la sua padroncina si stava "trastullando" con un fazzoletto sul quale erano ricamate due lettere che, tuttavia, non riuscì a riconoscere; l’atteggiamento, lo sguardo, tutta la sua persona, erano diversi dal solito e la cameriera cominciò a pensare che davvero ad Iriza, quel pomeriggio, fosse accaduto qualcosa di destabilizzante. Fu Iriza a rompere quel surreale silenzio:
"Questo fazzoletto è suo, ha ancora il suo profumo... mi piace. Ma forse non sai di chi sto parlando".
Dorothy azzardò:
"Forse di quel bel giovane con cui vi vedete ultimamente?".
"Si chiama Harrison, Harrison McFly; è un bel nome, non trovi?".
La cameriera azzardò per la seconda volta:
"Avete detto che vi piace: il profumo o lui?".
Iriza trasalì e guardò la cameriera, stupendosi di come stessero parlando, senza tensioni:
"Puoi farmi due favori, Dorothy? Siediti e dammi del tu: ti va?".
Evidentemente la "cura Harrison" stava dando i primi frutti.
Dorothy, incredula, tentò di obiettare qualcosa, ma alla fine si sedette. Iriza proseguì:
"Credi che qualcuno possa interessarsi a me? Pensi che lui lo sia?".
"Non saprei signorina, ma sembrerebbe di sì".
"Dorothy, dammi del tu, è più semplice; non vorrei che tu mi dicessi delle carinerie per compiacermi: se usi il voi non sembri sincera".
"Come desiderate... cioè... come desideri".
"Temo che sia troppo tardi, per me...", disse Iriza, aspirando ancora il profumo dal fazzoletto di H. G.
La cameriera, compreso che Iriza stava mettendo in discussione tutta la sua vita passata, tentò di aprirle una breccia nel cuore; perché, a quanto pareva, la sua padroncina si era accorta, o meglio ricordata, di averlo un cuore:
"Devi aprire il tuo cuore e non devi cercare quello che hanno gli altri. Mi spiego: sei sempre stata invidiosa di Candy, perché tutti la cercavano e snobbavano te; ecco, tu non devi cercare di togliere agli altri, ma devi interessarti di ciò che piace a te, di ciò di cui tu hai bisogno. Sei una ragazza molto bella e, se ti fossi comportata in un altro modo, forse, ora, avresti molte più persone intorno, a volerti bene... chiedo scusa se sono stata troppo diretta".
"No", rispose Iriza, "Non devi scusarti, comincio ad apprezzare la sincerità negli altri... sono stufa di intrighi, menzogne, vendette... forse non ne vale la pena".
Dorothy, incoraggiata dall’atteggiamento non ostile di Iriza, provò a spingersi oltre:
"Allora, se mi permetti, aggiungerei una cosa: apri il tuo cuore e dai meno retta a... tuo fratello, lui è pieno di livore e di desiderio di rivalsa contro tutto e tutti".
Iriza la guardò strabiliata, pensando che, in fondo Dorothy, non avesse tutti i torti. Si stupì anche del fatto che la cameriera avesse accettato di "aiutarla", di consigliarla, malgrado tutto: si sarebbe aspettata un atteggiamento molto più duro e invece in lei c’era sempre dolcezza e comprensione. Questo la fece riflettere e ripensare a Daisy: forse essere sempre malvagia e vendicativa faceva star peggio, mentre un atteggiamento più comprensivo verso gli altri, dava una sensazione di appagamento, proprio come quella che aveva provato con la piccola orfana; il problema era che Iriza era sempre stata convinta di essere nel giusto, quando attaccava gli altri, ma il contatto con Daisy, un’appartenente alla categoria che disprezzava da sempre, l’aveva fatta sentire bene. Analizzando velocemente, poi, le sensazioni – mai provate prima – che le procuravano la vista e il contatto con Harrison, intuì che, probabilmente, in precedenza, non era mai stata realmente innamorata. Era questo l’amore? Ma lui provava per lei le medesime cose? Era possibile che Neal provasse una cosa simile per Candy?
Questa fu la sua risposta all’ultimo consiglio di Dorothy:
"Se tu mi avessi parlato così qualche tempo fa, avrei fatto di tutto per farti cacciare, oppure ti avrei tormentata per mesi; ma ora penso che tu abbia ragione e ti ringrazio".
Dorothy, che veramente non capiva cosa stesse accadendo, disse:
"Sono io che ringrazio te, per avermi permesso di consigliarti; comunque mi scuso ancora se...".
Non finì la frase perché Iriza l’abbracciò, quasi con le lacrime agli occhi.
La cameriera avrebbe ricordato a lungo quella serata: forse aveva assistito a un miracolo, ma bisognava sperare che durasse.
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Ditemi se per voi è troppo.
 
The Blue Devil
 
 
 
 
COMUNICATO
 
Chi mi ha già letto sa cosa sto per comunicare. Mi basta fare un copia-incolla dall’anno scorso, con lievi modifiche, et voilà: 
È noto che pubblico ogni Domenica (in questo caso Sabato), ma, stavolta salterò un paio di turni, poiché sono cominciate, per me, le ferie.
Ferie: periodo durante il quale il sottoscritto si riposa e si diverte, stacca la spina e si disintossica da Computer, Internet, Facebook e quant’altro.
Quindi, salvo imprevisti, ci rileggiamo alla fine di Agosto, indicativamente il 25, o, al più tardi, il primo di Settembre: il prossimo capitolo che sia pronto o meno, nella mia testa o su file, lo pubblicherò allora.
Non è detto che non passi da queste parti, ma di pubblicare non se ne parla (così vi lascio il tempo per rileggere qualcosa e per riannodare qualche concetto che, magari, vi siete persi).
Inoltre, dato che ricevo un numero massiccio di recensioni, sarò in grado di rispondere in tempi brevi solo alle prime; tutti gli altri, e siete tanti, dovranno aver pazienza.
Abbiate pazienza e resistete! 


The Blue Devil 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Spasmodica ricerca ***


NOTA DELL’AUTORE:
 
Questa nota la metto prima di augurarvi buona lettura perché voglio precisare alcune cose. Chi mi legge deve ritenersi fortunato, perché sono sempre stato puntuale con gli aggiornamenti (qui su Efp ci sono autori che aggiornano dopo mesi o anche anni!). Io ho un lavoro molto impegnativo che mi tiene lontano da casa per parecchie ore, quindi, onestamente, non riesco a fare di più.
Avevo detto che avrei aggiornato il 25/08 o al più tardi il 1° di Settembre. Quindi ci siamo.
Grazie per l’attenzione

 
The Blue Devil

 
 
 
 
 
 
Buona lettura
 
 
 
Capitolo 12
Spasmodica ricerca
 
Casa Brighton, 2° Consiglio di guerra
Annie, Patty e Candy si erano chiuse nella stanza della prima, per decidere il "piano di guerra". Ma prima, Annie aveva voluto sapere:
"Che voleva da te quell’ex attrice, non ti ha combinato abbastanza disastri?".  
"Quell’attrice, poiché mi è parso di capire che lo sia ancora", aveva risposto Candy, "ha un nome: si chiama Susan. Si è lasciata alle spalle un gran brutto periodo e non intende più essere un problema per me e per Terence".
"E tu ti fidi?", aveva chiesto Patty.
"Sì, e dovreste farlo anche voi; non dovete essere così dure verso di lei: ricordatevi che ha salvato la vita a Terence, rovinandosi la propria...".
"E la tua", era intervenuta Annie.
"Io la posso comprendere: Susan era, anzi è, veramente innamorata di lui e farebbe qualunque cosa pur di vederlo felice, anche se questo ha voluto dire lasciarlo andare via".
"È ancora innamorata di Terence? E sapendo questo tu te ne stai lì, tranquilla, a difenderla?", aveva obiettato Annie.
"L’ho guardata negli occhi, e ho visto solo sincerità; già il fatto che mi abbia confessato di amarlo ancora le fa onore. E, se vuoi saperlo, mi ha anche ringraziata per averle salvato la vita, quando andai a trovarla in ospedale".
"Hai ragione Candy", aveva affermato Patty, "Voglio fidarmi, ho sempre avuto fiducia nel tuo giudizio".
"Non lo so... ci devo pensare", aveva aggiunto Annie, che, probabilmente, era influenzata anche dal turbamento per la propria situazione con Archie.
Conclusa questa breve discussione, Patty ruppe gli indugi:
"Basta parlare di Susan. Allora come ci muoviamo?".
Le tre amiche stabilirono che per prima cosa avrebbero dovuto trovare quel maledetto gioiello. I luoghi più ovvi nei quali si potesse trovare rimanevano tre: l’ufficio di Neal nella banca diretta da suo padre, la sua stanza a Lakewood o quella nella residenza cittadina dei Legan. Avevano anche pensato all’eventualità che Neal stesse bluffando e che il gioiello non esistesse, ma Candy non se la sentiva di rischiare sulla pelle dell’amica.
Dopo aver a lungo pensato, Candy espose alle amiche la sua idea:
"Neal dovrebbe restare in banca tutta la mattina. Faremo così: tu e Patty andrete in banca, con una scusa qualsiasi, e vi farete accompagnare da tuo padre, mentre io, invece, mi recherò a Lakewood; mi sembra la cosa più sensata. La vostra presenza a Lakewood sarebbe difficilmente giustificabile, mentre... beh, è anche casa mia, quella".
"In un certo senso", intervenne Annie, "Fai pur sempre parte della famiglia. Vorrei tanto che tu trovassi quella collana e ce lo comunicassi in qualche modo, così avrei il piacere di dare a Neal quel che si merita".
"Bene. È meglio se usciamo separate: andrò prima io... e tu Annie non fare sciocchezze; ci sarà il tempo e il modo per dargli ciò che si merita; non deve sospettare ciò che stiamo facendo".
Le amiche furono d’accordo e Candy si avviò. Giunta in fondo al corridoio, però, fu richiamata indietro da una voce gentile che non riconobbe subito; si voltò e si trovò dinanzi una bella signora bionda, vestita elegantemente, e dall’aspetto ancora giovanile:
"Signora Brighton", esclamò la ragazza.
"Candy, ho bisogno di parlarti, vieni con me", disse la signora, prendendola per mano e dirigendosi verso il suo salottino privato.
Annie, che aveva visto la scena, pensò:
"La mamma? Cosa vorrà da Candy? Questa non ci voleva, rischia di farci saltare il piano".
Poi, rivolgendosi a Patty:
"E va bene, andiamo prima noi, non c’è tempo da perdere".
 
"Mamma, sono molto preoccupato", disse Neal, mentre si preparava per andare in ufficio, presumibilmente a "scaldare" la sedia.
"Per cosa figliolo?", s’incuriosì l’interpellata.
"Sono preoccupato per Iriza. Non la vedi strana, assente?".
Probabilmente Neal avrebbe voluto dire: "Strana, assente, disinteressata a macchinazioni e vendette?".
La signora parve stupita:
"A me sembra la solita Iriza; anzi, parrebbe innamorata: la compagnia di quel McFly le sta facendo bene".
"Appunto: quel McFly. Che ne sappiamo di lui? A me non sembra una persona a posto. Non vorrei che la mia sorellina avesse delle brutte sorprese... che noi tutti le avessimo", sbottò il ragazzo.
"Non ti capisco, figlio mio. Comunque non ti preoccupare, ho già in mente di fare delle ricerche su di lui; vedremo cosa salterà fuori, anche se penso che sia un buon partito per tua sorella... ora va’, non far aspettare tuo padre".
Ridacchiando dentro di sé, Neal pensò:
"Bene bene, mamma; fai le tue ricerche e vedremo cosa salterà fuori, così la cara sorellina non potrà dire che è stata colpa mia".
Salutata la madre, il terribile ragazzo si avviò per raggiungere il padre, che lo attendeva già in vettura.
 
Mentre si dirigeva verso Lakewood, Candy ripensò al colloquio avuto con la madre adottiva di Annie.
"Candy, ti sembrerà strano che io voglia parlarti, dopo tutti questi anni di... diciamo indifferenza. Tu forse credi che io ti odi o che non ti voglia intorno ad Annie, ma non è così. Sì, vi ho impedito di scrivervi, subito dopo aver adottato Annie, ma ti chiedo di comprendermi; forse ho sbagliato e ti chiedo scusa: Annie è la mia bambina e ho fatto, e farò, tutto il possibile perché sia felice", aveva esordito la donna.
"Sì, ma non capisco...", era intervenuta la bionda.
"Il perché di questo colloquio? Ti voglio dimostrare che non ti sono ostile: in fondo, se fosse stato possibile, vi avremmo adottate tutte e due e, anche se ora sono felicissima della mia Annie, tu eri stata la prima scelta".
"Signora non dovete dire così... comunque ho sofferto molto, ma vi ho perdonato tutto già da tempo".
"Hai fatto di più: sei sempre stata accanto a mia figlia, l’hai sempre sorretta e spronata a diventare grande, a cavarsela da sola. E di questo ti ringrazio. Date le circostanze, non eri obbligata a farlo, quando mio marito te l’ha chiesto...".
"L’avrei fatto comunque; non avrei mai abbandonato quella che considero come una sorella, e anche se abbiamo avuto delle incomprensioni, anche lei mi considera una sorella", era intervenuta ancora Candy.
"Ti sarò sempre grata per quello che hai fatto per lei, ma... ora sono io che ti chiedo di continuare a vegliare su di lei, come hai sempre fatto; ti sembrerà strano che sia proprio io a chiedertelo; so che hai i tuoi problemi, ma adesso più che mai Annie ha bisogno di te, e io non farò più nulla per dividervi... fu un errore, un imperdonabile errore; voglio che ti sia chiaro che sono pentita...".
"Lo comprendo, siete sua madre e si vede che amate vostra figlia; ve l’ho già detto, signora: io ho già perdonato e non avete bisogno di chiedermi di fare una cosa che farei comunque. Ve lo ripeto: Annie, per me, è mia sorella e niente e nessuno potrà mai cambiare questo dato di fatto. Su questo potete stare tranquilla".
La signora Brighton l’aveva ringraziata calorosamente, permettendole, infine, di andar via. Un altro pezzo importante della vita di Candy, un’altra questione irrisolta, sembrava essere andata a posto. Questo rapporto "mancante" con la madre adottiva della sua miglior amica e sorella, aveva fatto soffrire sia lei che Annie, ma ora pareva che finalmente tutto si stesse risolvendo.
Ma, arrivata di fronte alla villa dei Legan, Candy ritornò con i piedi per terra:
"Dai Candy, fatti coraggio e affronta i serpenti nel loro covo", pensò, prima di farsi annunciare dal simpatico Stewart.
 
Neal fu molto sorpreso di trovarsi in banca Annie e Patty. La scusa trovata da Annie con suo padre era stato un colpo di genio:
"Papà, so che devi recarti in banca e vorrei accompagnarti: voglio vedere il luogo dove forse, in futuro, lavorerà Archie. Se non ti crea disturbo, vorrebbe venire anche Patty".
Il signor Brighton aveva acconsentito e le aveva portate all’istituto bancario.
"Che sorpresa! Le mie amiche preferite; mi fa piacere che siate venute a trovarmi", le accolse il rampollo dei Legan.
"Frena gli entusiasmi e tieni per te il tuo sarcasmo; non siamo qui per te", rispose la migliore amica di Candy.
Prima che il ragazzo potesse replicare, un commesso lo chiamò, avvertendolo che all’ingresso chiedevano di lui.
"Mi spiace, ma devo lasciarvi; continuate pure la vostra gita. Spero di rivedervi più tardi".
Appena Neal fu scomparso alla loro vista, Annie sgattaiolò nel suo ufficio, lasciando l’amica di guardia nel corridoio. Fortunatamente non ebbe difficoltà, dato che i cassetti dello scrittoio non erano chiusi a chiave e l’arredamento era stranamente "povero", ma sfortunatamente non trovò nulla. Annie ebbe un pensiero che identificava il destinatario di esso:
"Maledizione! Vuoto, vuoto come il suo cervello; ci sono anche degli scaffali, ma di libri neanche l’ombra. D’altronde è un ufficio non una biblioteca, anche se dubito che quel cretino riuscirebbe a leggere qualcosa di più serio di un quotidiano".
Un gridolino di Patty – la ragazza, sistematasi in cima alla scala, non sapeva fischiare – avvertì l’amica che il soggetto stava tornando su.
Quando il ragazzo ricomparve, Annie era già fuori dell’ufficio:
"Per un pelo", pensò.
"Siete ancora qui? E poi dite che non siete venute per me? Birichine...", sbottò Neal.
Le due amiche gli voltarono le spalle e fecero per andar via, quando lui le bloccò:
"Andate già via? Volevo raccontarvi una storia... una storia molto interessante, state a sentire: c’erano una volta due stupidelle che pagarono un ragazzetto per far scendere in strada il nostro eroe. Il motivo? Distrarlo per poter entrare nel suo ufficio e cercare... cosa? Mah, chi lo sa! Ma credete davvero che sia stupido? Ho capito subito che era un trucco".
Alla domanda "Credete davvero che sia stupido?", le due ragazze, mentalmente, risposero "Certo che sì, e pure bastardo", prima di cadere dalle nuvole.
"Che stai dicendo? Non capisco...", tentò Annie.
"Ma entrate, entrate pure... e cercate ciò che volete, tanto non c’è nulla".
"Esattamente come nel tuo cervello", sibilò ancora Annie.
Neal, che si irritava sempre per i "complimenti" che riceveva da loro, serrando i denti, ringhiò:
"Non avete ancora capito? Mi par di capire che qualcosa sappiate, forse Candy vi ha già dato la lieta notizia, ma vi ricordo una cosa: non ci si può opporre al fato, che evidentemente ha deciso in una certa maniera. Ficcatevelo in zucca".
Le lasciò, costernate per essere state scoperte, nel corridoio, sbattendo la porta.
 
"Candy è alla porta? Cosa sarà venuta a fare qui quell’orfana? Falla accomodare Stewart, e tienti a disposizione, può darsi ci sia bisogno di te...", sbottò la padrona di casa, concludendo solo col pensiero:
"... per buttarla fuori".
Stewart eseguì l’ordine e Candy e Sarah si ritrovarono una di fronte all’altra. Candy spiegò alla donna che, dopo l’ultimo suo breve soggiorno a Lakewood, si era accorta di aver lasciato alcune cose nella stanza assegnatale; inoltre chiese espressamente di essere accompagnata da Dorothy. Alle proteste della donna, Candy replicò:
"Ricordatevi che faccio parte della famiglia Andrew e che questa si potrebbe considerare casa mia".
"Santo Cielo, che eresia! Che impudenza! E va bene, ma prendi solo ciò che ti appartiene, intesi? So perché hai chiesto di Dorothy: pur facendo parte della famiglia, come tu dici, non hai perso la malsana abitudine di fartela con la servitù. E sia: sarà Dorothy ad accompagnarti", esplose la signora Legan, prima di battere le mani ed ordinare a Stewart di portare Candy da Dorothy.
In realtà, avrebbe dovuto far chiamare Dorothy, ma optò per questa mancanza di rispetto anche perché aveva fretta di levarsi di torno l’"orfanella". Tuttavia, Sarah Legan, non volle rinunciare all’ultima frecciata:
"Spero ti sia chiaro Candy, che accetto la tua presenza in questa casa solo perché sei la pupilla di William, altrimenti ti avrei già fatta buttare fuori".
"Sempre gentile e delicata, signora Legan", disse Candy, esibendosi in un inchino esagerato.
Stewart, accompagnandola da Dorothy, manifestò la sua solidarietà alla bionda, facendole capire di aver intuito il pensiero della padrona:
"E va bene, ma prendi solo ciò che ti appartiene... quella pensa ancora che voi siate una ladra! Quanto mi piacerebbe...".
"Non prendertela Stewart, ormai ci sono abituata... e su quel fronte la signora potrebbe avere presto delle sorprese".
Incontratasi con Dorothy, Candy si fece accompagnare nella stanza in cui era stata ospite e poi in quella di Neal:
"Non chiedermi niente, Dorothy, e non ti preoccupare; non ho intenzione di rubare niente, devo solo cercare una cosa e mi serve che tu faccia da palo".
La cameriera, che quando si trattava di dar fastidio a Neal non si tirava indietro, rispettò la richiesta dell’amica e si mise di guardia. Candy rovistò in tutta la stanza ed ottenne il medesimo risultato delle amiche in banca: nulla, nulla di nulla! Allora decise di andar via, ma, quando aprì la porta, intravide Iriza:
"Dorothy, ti stavo cercando, ho bisogno di te".
Candy si stupì del tono di voce di Iriza, stranamente gentile, e Dorothy, per non far scoprire alla padroncina la presenza dell’amica nella stanza del fratello, dopo aver dato un’occhiata alla porta socchiusa, la seguì.
Attesi alcuni minuti, sicura di essere ormai fuori pericolo, Candy aprì la porta ed ebbe un’amara sorpresa:
"Ma guarda che coincidenza! Le due stupidelle in banca e la terza in camera mia! Non hai resistito e vuoi concludere subito l’affare? Mi vuoi così tanto da non poter aspettare la festa della zia Elroy?".
"Neal... ?", sibilò Candy, tentando di uscire dalla stanza.
Il ragazzo la risospinse all’interno e chiuse la porta di scatto:
"Dove vai? Lo sai che mi basterebbe chiamare la mamma per dimostrarle che non hai perso il vizio di rubare?".
Era troppo: dopo essere sbiancata in volto, Candy avvampò e alzò una mano per colpirlo, ma lui le afferrò il polso.
"Non preoccuparti, non la chiamerò: ho altri piani per noi due".
 
In quei giorni la cameriera Dorothy era divenuta la compagnia preferita di Iriza, che non pareva esser più la stessa persona:
"Dorothy, non pensare che sia impazzita, ma voglio fare qualcosa per quella bambina cieca; inoltre ho bisogno di rivederla...".
La cameriera non rispose e assunse un’espressione stranita.
"Dai, non guardarmi così", la incalzò la padroncina, "E dimmi: sai lavorare a maglia?".
A quella domanda Dorothy non poté trattenersi:
"Come scusate?".
Iriza le si avvicinò, le prese le mani e le disse:
"Ti prego, dammi del tu, almeno quando siamo sole".
Poi ripeté la domanda e, alla risposta affermativa della cameriera, proseguì:
"L’inverno dev’essere freddo in quella casupola e ho notato che quei bambini non se la passano troppo bene. Daisy avrà bisogno di una sciarpa o di un maglione: se fossi in grado li confezionerei io stessa, ma non lo so fare e non ho il tempo di imparare... Lo faresti tu per me? Per Daisy? Ovviamente tutto ciò che ti occorre te lo procurerò io, tu dovrai solo fare l’indumento che sceglieremo".
La cameriera sembrava inebetita: tutto si sarebbe aspettata, tranne che Iriza le facesse una richiesta del genere. Sì, aveva già assistito ad un miracolo il giorno prima, ma pensava che i miracoli non fossero replicabili. Accettò la richiesta della padroncina, facendole notare che, avessero scelto di fare un maglione, avrebbe avuto bisogno di sapere la taglia della bambina. Iriza fu felice della risposta di Dorothy e pensò di chiedere ad Harrison di riaccompagnarla a far visita all’orfanotrofio di Daisy. Ma dove alloggiava Harrison a Chicago? Come trovarlo? Solo una persona poteva aiutarla, ma ora doveva andare da Neal per informarlo che aveva bisogno della vettura. Dorothy si offrì di accompagnarla, pensando:
"Sicuramente Candy sarà già riuscita a sgattaiolare via".
 
Contrariamente a quanto aveva pensato Dorothy, Candy era ancora bloccata nella stanza di Neal.
"Cosa vuoi Neal? Lasciami uscire!".
"E perché mai? Dato che sei qui e che presto ci sposeremo, possiamo cominciare a conoscerci meglio".
"Tu sei pazzo", sbraitò Candy, indietreggiando di fronte all’avanzare del ragazzo.
"Mi piacciono le ragazze toste e selvagge come te... è più divertente domarle".
"Abbiamo un accordo... ti ho assicurato che farò ciò che vuoi, quindi lasciami andare".
"Ah sì? E allora che ci fai qui nella mia stanza? Tu, con la complicità delle tue amiche, hai infranto l’accordo. Volevi fregarmi? Ma non hai trovato nulla, vero? Perché stavi cercando la collana, non è così?".
"Comincio a pensare che non esista", sibilò la ragazza, sempre più spaventata dagli occhi diabolici di lui. Candy non aveva mai avuto realmente paura di Neal, ma, in quella situazione, sapeva che lui era in una posizione di vantaggio.
"Esiste, esiste. Ma se vuoi far la prova, facciamola... poi vedrai che fine farà la tua inutile amichetta", rispose Neal, avanzando sempre verso di lei.
Candy non voleva rischiare, ma doveva davvero sottostare a quel ricatto? E come poteva difendersi ora e uscire da quella trappola nella quale si era cacciata da sola?
Con un balzo Neal le fu addosso e l’abbracciò, tentando di baciarla; una mano del ragazzo cercò d’infilarsi, con successo, sotto il vestito della bionda.
"E su dai... fai la brava... sii carina con me, se tieni alla tua amica sguattera...".
Candy era disperata: che fare? Opporglisi e dargli un paio di schiaffi, rischiando di inguaiare di più l’amica, e sé stessa, o soggiacere alle sue voglie? In fondo le chiedeva solo un bacio; ma anche solo l’eventualità di baciare quel "coso" le faceva orrore.
Quando ormai la mano di Neal, sotto il vestito di Candy, stava per giungere in zone proibite, la porta della stanza si aprì di scatto.
"Neal? Candy? Che state facendo?".
Candy fu lesta ad approfittare di quell’aiuto insperato e, divincolatasi, diede uno schiaffo e uno spintone al suo aggressore, facendolo barcollare, e sgattaiolò fuori dalla stanza.
Rosso di rabbia lui esplose:
"Maledizione! Ora sei tu che non usi più bussare alle porte? Che diavolo sei venuta a fare qui?".
Sotto lo sguardo atterrito di Dorothy, Iriza rispose:
"Che... che diavolo stavate facendo tu e Candy?".
Capendo che quella situazione poteva dare scandalo, Iriza fece cenno alla cameriera che poteva ritirarsi e si chiuse la porta alle spalle.
"Allora?", lo incalzò.
"Quella è venuta per fregarmi... per fregarci! Stava cercando la collana; volevo metterla al suo posto e, se tu non fossi arrivata, ci sarei riuscito".
"Ne dubito. Comunque non è questo il modo, né il momento, né il luogo", lo riprese la sorella, prima di aggiungere:
"Fregarci? Che intendi dire?".
Neal aggrottò la fronte.
"Che succede sorellina? Ci sei dentro fino al collo anche tu... non avrai mica cambiato idea?".
"No, no", farfugliò la ragazza, "Mi chiedevo solo: ma tu ami Candy? È per questo che la vuoi sposare?".
Neal rise sguaiatamente e poi rispose:
"Amore? Che sciocchezza! Io la voglio e basta. Voglio vederla umiliata, distrutta, ai miei piedi! Non ho tempo per sciocchezze come l’amore e i sentimenti... non esistono, e se esistono, non servono a nulla, solo a rammollirti! Non sarà mica che quell’imbecille di McFly ti ha annebbiato il cervello?".
"L’amore esiste e... non ti permetto di parlare così di Harrison", protestò Iriza.
"Quando parli così non ti riconosco più, sorellina; ma attenta: se cercherai di fregarmi anche tu...".
"No, non ti preoccupare, lo sai che sono dalla tua parte", lo interruppe lei, senza troppa convinzione.
"Ero venuta a chiederti se ti serve l’auto oggi, perché serve a me, ma visto che sei fuori di te e sei stato scortese, me la prendo e basta. Buona giornata, fratello", concluse Iriza, lasciando la stanza di Neal.
 
"Cosa c’è, George?", chiese Albert, che stava lavorando nel suo ufficio nella residenza degli Andrew, al suo segretario.
"C’è la signorina Iriza Legan che chiede di voi", rispose il segretario.
"Iriza Legan? E che vuole da me?".
"Che faccio? La mando via?".
"No, no, falla entrare, sono curioso, molto curioso...".
"Come desiderate", concluse George.
Iriza fu introdotta nello studio dello zio William e, accomodatasi, disse:
"Zio... devo chiederti una cortesia".

 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Voglio solo sapere se ne è valsa la pena aspettare tanto....
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La ricerca prosegue ***


Buona lettura



Capitolo 13
La ricerca prosegue
 
Il terzo, e probabilmente ultimo, "consiglio di guerra anti-Neal" si tenne sulla "Collina di Pony", ai piedi del "Grande Papà Albero". Le tre amiche, sedute sull’erba all’ombra della grande quercia secolare, che era considerata un papà da tutti i bambini dell’orfanotrofio – paradossalmente quegli orfani avevano addirittura tre genitori, due mamme e un papà – , si raccontarono le rispettive avventure mattutine: Annie e Patty, arrossendo, riferirono a Candy di come si fossero vergognate, e di come si vergognassero ancora, per essere state scoperte, come due scolarette, dal viscido individuo; Candy a "viscido" aggiunse "bruto" e narrò loro la sua brutta avventura. Disse che non si era resa conto di cosa avrebbe comportato cedere al suo ricatto, quando aveva accettato: sentendo la mano sudata di Neal sulla sua pelle e vedendo la sua bocca avvicinarsi alla propria, aveva provato un senso di totale disgusto e s’era sentita morire. Come avrebbe potuto sopportare tutto ciò e per chissà quanto tempo? Riferì anche di come fosse stata "salvata" dall’arrivo di Iriza: l’aveva vista in compagnia di Dorothy e le era sembrato di percepire una certa complicità fra cameriera e padroncina; inoltre Iriza, invece di prestare manforte al fratello, lo aveva addirittura bacchettato. Tutto ciò, ai suoi occhi, appariva inspiegabile.
Non mancò il commento velenoso di Annie su questa ultima vicenda:
"Lo dicevo io che quella Dorothy non mi piace".
E quello, teso a rinfrescarle la memoria, di Candy:
"Ti ricordo che tutto ciò che stiamo facendo, lo stiamo facendo per Dorothy".  
Quindi bisognava assolutamente trovare quella maledetta collana ed era necessario farlo alla svelta.
"Rimane ancora un posto nel quale non abbiamo cercato", disse infine.
"Già, ma lì non si può", replicò Annie.
Seguirono momenti di silenzio, durante i quali Candy rimase pensierosa, finché non puntò i suoi occhi in quelli di Annie; la brunetta, colto il lampo sinistro che era balenato nel verde mare degli occhi dell’amica, esclamò:
"No, no... non starai mica pensando di...?".
"Sicuro, è proprio quello a cui sto pensando", rispose la bionda.
Patty, che non capiva di cosa stessero parlando, chiese lumi. Fu Annie a ragguagliarla:
"Questa pazza scatenata vorrebbe entrare nella residenza dei Legan a Chicago; in questo periodo non è abitata, ma ci saranno sicuramente dei custodi e si rischierebbe di farsi prendere a fucilate, come dei volgari ladri... e come pensi di riuscire a entrare? Sentiamo".
"Beh, lo sai che tra le mie abilità ce ne sono un paio che tornerebbero utili in questo caso".
"Non per niente c’è qualcuno che ti chiama Tarzan tutte-lentiggini, giusto? Oltre al piombo vuoi rischiare anche il collo?", sbottò la brunetta.
A sentire quel soprannome, Candy si rabbuiò e Annie s’affrettò a scusarsi, comprendendo di aver toccato un tasto doloroso.
"Cioè, tu vorresti...? A me sembra una pazzia", commentò Patty, totalmente aliena a quel genere di imprese.
"Tu non sai di cosa sia capace questa qua", sibilò Annie.
"Dai ragazze, che problema c’è? Annie ha ragione... ricordi la Festa di Maggio alla Saint-Paul, quando, per rientrare nella cella, rischiai di rompermi il collo? Al limite mi porterete i fiori sulla tomba e io veglierò sempre su di voi... da lassù...".
Annie le rifilò una gomitata nel costato e disse, perentoria:
"Ehi, queste cose non devi dirle neanche per scherzo, scema!".
Dato che il tono di Candy era stato scherzoso, non poterono fare a meno di ridere, prima di ritrovare un minimo di lucidità.
"Io non lo so, Candy, come riesci sempre a scherzare e a farci sorridere anche in momenti terribili come questo".
"Però, Annie, avrò bisogno comunque del vostro aiuto".
"Non hai neanche da chiederlo: lo sai che per te ci saremo sempre. Vero Patty?", rispose Annie.
"Scusatemi, ma io resto sempre dell’idea di raccontare tutto ad Albert; non sarebbe meglio?".
Candy non ebbe bisogno di rifletterci troppo e rispose:
"Forse hai ragione... prima, però, finiamo ciò che abbiamo iniziato; se anche quest'ultima ricerca non darà i frutti sperati, ci penserò... allora Patty, che dici?".
"E va bene sì, facciamo anche questa pazzia, tanto so che non cambierai idea... ma non chiedetemi di arrampicarmi o di volare di liana in liana! Più che a Tarzan io assomiglio a Jane... Jane quattrocchi".
"Dai Patty, ti sei dimenticata di cosa hai fatto alla Saint-Paul? La finestra, il lenzuolo...*", le rammentò la brunetta.
"Sì, ma quella volta sono morta di paura!", sbottò Patty.
Un’altra risata di tutte e tre contribuì a stemperare la drammaticità del momento e ad abbassare, anche se solo per qualche attimo, la tensione che si respirava nell’aria.
Suggellarono ancora il loro patto di amicizia, mano su mano, alla maniera dei "Tre Moschettieri" – che poi erano quattro – e decisero che avrebbero agito quella notte stessa.
"Vestitevi comode e di nero e... niente tacchi, intesi?", fu l’ultimo consiglio, in parte scherzoso, di Candy.
 
"Ohibò, Iriza Legan che viene a chiedere una cortesia al suo amato zio? Questa non l’avevo ancora sentita", se ne uscì Albert, in risposta alla richiesta della ragazza.
"Lo so zio, può sembrare strano che venga a chiedere favori proprio a te, ma... ho bisogno di vedere Harrison e, non so perché, credo che tu mi possa aiutare".
"La cosa si fa interessante. E come potrei? Ammesso che io lo voglia fare".
Iriza che, da quando aveva scoperto l’identità dello zio William, al suo cospetto si sentiva sempre a disagio, titubò un poco, ma poi espose la propria idea:
"Tu hai molti mezzi in città, conosci molte persone e, non so perché, credo che tu possa venire a sapere dove alloggia il signor McFly... ti prego zio...".
"Ah, siamo passati da Harrison al signor McFly; la cosa mi intriga. Cosa c’è sotto, un’altra delle tue diaboliche macchinazioni? E contro chi, stavolta? Contro il signor McFly?".
"No zio, ti prego di credermi, nessuna macchinazione; ho bisogno di vederlo, tutto qui".
Albert inarcò un sopracciglio e le chiese, sporgendosi in avanti:
"Di che si tratta allora? Posso saperlo, nipotina cara?".
"Non posso dirtelo, non ancora, non mi crederesti. Ti prego, aiutami".
Albert, sempre calmo, riflessivo e soprattutto intuitivo, scrutò la nipote e si meravigliò: gli sembrava che, per la prima volta nella sua vita, la ragazza fosse sincera; non scorse lampi diabolici nei suoi occhi, né ghigni beffardi a distorcerle la bocca, indici che Iriza manifestava ogniqualvolta stesse tramando qualcosa di spregevole. Inoltre quel continuo "ti prego", lo stava destabilizzando: era possibile che Harrison stesse avendo un’influenza positiva sulla diabolica viperetta? Sempre dando retta al proprio intuito, Albert decise di assecondarla:
"Chiedi a Stewart, credo l’abbia accompagnato diverse volte in giro".
Non poteva certo dirle "Sì, lo conosco, alloggia in via X alla locanda Y".
Iriza si dette mentalmente della stupida a non averci pensato prima, ma era contenta di essere riuscita a parlare con Albert, in maniera civile, e a convincerlo a farsi aiutare: forse c’era ancora speranza per lei...
Uscendo dallo studio dello zio, Iriza fece un incontro, sul quale Candy, rifugiatasi a Villa Andrew dopo la fuga dalla magione dei Legan, aveva taciuto alle sue amiche. Seppur di buon umore per l’esito positivo della sua missione, la vista di Candy le procurava sempre irritazione, per cui rispose acida "Non sono fatti tuoi", alla richiesta di spiegazioni da parte  della bionda circa la sua presenza lì.
Candy aggiunse, senza neanche accorgersi di cosa stesse dicendo e a chi lo stesse dicendo:
"Vorrei ringraziarti per essere intervenuta, prima...".
La risposta fu nuovamente acida:
"Non l’ho fatto certo per te: quel che fate tu e mio fratello nel privato, a me non interessa, ma dovete farlo altrove... altrimenti sai che scandalo...".
Candy, stranamente, incassò la risposta senza ribattere: l’aveva vista, prima, con Dorothy; l’aveva vista, quando era entrata nella stanza di Neal; la vedeva ora; non era la solita Iriza, percepiva qualcosa di diverso; non sapeva neanche cosa di preciso, ma era qualcosa di positivo. La osservò allontanarsi e salire in auto con Stewart e poi si avviò verso la "Collina di Pony", dove aveva appuntamento con le sue amiche.
 
Era ormai buio quando le tre ladruncole improvvisate si ritrovarono nel vicolo della strada antistante la residenza cittadina dei Legan. Annie spiegò che, per lei, era stato difficoltoso trovare delle tute che andassero bene per tutte e due e del colore giusto: non era andata oltre il blu scuro. A Patty, per la quale era stato ancor più difficoltoso uscire a quell’ora e di nascosto – Annie aveva già partecipato, in passato, ad alcune follie organizzate da Candy, mentre Patty non vi era abituata – , la tuta andava larga.
"Siete un po’ ridicole, lo sapete?", commentò Candy, appena le vide.
"Candy! Non è il momento di scherzare questo! Almeno non abbiamo messo i tacchi", rispose Annie, mostrandole le comode scarpe basse che aveva calzato.
Quella posizione favorevole l’avevano conquistata convincendo una prostituta, che "lavorava" da quelle parti, ad allontanarsi, in cambio di qualche moneta.
Il sopralluogo pomeridiano che avevano effettuato nelle vicinanze aveva dato i suoi frutti: avevano capito che i guardiani occupavano una piccola casetta, potremmo dire la dépendance, situata subito dopo il cancello principale, e che facevano dei giri di ronda ogni tanto... accompagnati da un feroce mastino. Erano anche armati, poiché, nonostante i continui appelli della polizia a non agitarsi, i facoltosi cittadini di Chicago, preoccupati per il crescente numero di furti in quel periodo, avevano provveduto ad armare i propri custodi.
"Questo pomeriggio abbiamo notato quel balcone, solo soletto, che dà sul retro della casa: entreremo da lì", affermò, decisa, la bionda.
"Entrerai da lì", precisò Annie.
"Va bene, entrerò".
Veloci e sicure, come ombre nella notte, le tre figure si portarono sul retro della villa: scavalcarne il cancello per Candy fu un gioco da ragazzi, le altre due manco ci provarono; il loro compito si limitava a controllare che nessuno le scoprisse e magari, alla peggio, a creare confusione per garantirsi la fuga.
Il piano di Candy era semplice. Aveva notato un albero, i cui rami si protendevano fin quasi al balcone, ma scartò l’idea di arrampicarvisi: troppo lontano e rami leggeri; avrebbe rischiato il collo sul serio. Allora optò per un carretto che scovò nel giardino: lo riempì di erba e di paglia, raccolte qua e là, per garantirsi un atterraggio sul morbido, al ritorno, e lo posizionò sotto il balcone; con la corda che si era portata dietro, creò un lazo e agganciò perfettamente la punta di uno dei sostegni della ringhiera del balcone; salì sul carretto e con un balzo si aggrappò alla corda, tirando con forza per saggiare la resistenza dei sostegni. Ovviamente non si era dimenticata di indossare dei grossi guanti da lavoro per non massacrarsi le mani. Annie e Patty – più Patty, però – ammirarono, estasiate, la salita, agile e sicura dell’amica verso il balcone.
"Finalmente rivedo all’opera la famosa Tarzan tutte-lentiggini", sussurrò Patty all’amica.
Le due amiche rimasero col fiato sospeso quando, giunta ad una certa altezza, Candy tagliò la corda sotto di sé – operazione alquanto difficoltosa – con il coltello che si era procurata, e gettò lontano il pezzo tagliato.
"Così, al buio, non si accorgeranno di niente", pensò.
Arrivata in cima, scavalcò la ringhiera ed ebbe una gradita sorpresa: la portafinestra del balcone era socchiusa. Evidentemente i custodi, ogni tanto, arieggiavano i locali della villa e, per eccesso di sicurezza, quella volta non avevano chiuso l’accesso. Candy entrò e decise che non avrebbe acceso la luce; in fondo per trovare una collana basta il tatto e lei era come i gatti, che vedono al buio. Stabilì di trovarsi nella camera dei padroni, data l’ampiezza del letto. Aprì tutti i cassetti della scrivania nell’angolo e vi passò febbrilmente dentro una mano: solo carta, probabilmente vecchi documenti; la stessa sorte toccò all’armadio da cui ebbe lo stesso risultato.
"Beh, certamente la collana non può trovarsi nella camera dei padroni... ma non si sa mai"
Candy entrò in tutte le stanze e le perquisizioni le resero i medesimi risultati: nulla.
Mentre cominciava a preoccuparsi, si accorse che giù in strada stava accadendo qualcosa di inaspettato.
 
Iriza parlò con Stewart e da lui ebbe l’informazione che cercava. L’uomo, conoscendo la padroncina ed intuendo i rapporti che legavano Harrison al signor Andrew, esitò, ma, quando lei gli disse che era stato lo stesso signor Andrew a mandarla da lui, capì che poteva darle l’informazione.
"Andremo lì quando sarà buio; prepara l’auto, portala in fondo al viale ed aspettami là: nessuno deve sapere che usciamo e soprattutto dove andiamo; saremo presto di ritorno", disse la ragazza all’autista. 
E così avvenne.
Iriza fece parcheggiare Stewart un po’ distante dalla locanda, sempre per questione di riservatezza, e si avviò. Giunta dinanzi alla porta di Harrison, esitò: per due o tre volte la mano si alzò, ma non colpì la porta. Alla fine bussò, decisa. Appena vide la persona che le aprì, rimase di sasso e fece un passo indietro.
"Oh, ma guarda chi c’è... proprio di te ho bisogno, anche se l’ultima volta che ti ho vista ti ho sputato in faccia**", le disse una voce, che le confermò l’identità di quella persona.
"Che... che ci fai qui?", balbettò la Legan.
"Prego, entra cara, entra pure".
"N-non mi aspettavo di trovare te... tornerò un’altra volta", farfugliò ancora Iriza, alla quale il ricordo dell’episodio citato da lui, aveva fatto gelare il sangue.
"Eh, no! Dato che sei qui... è tanto che non facciamo quattro chiacchiere, noi due", disse Terence, afferrandola per un braccio e tirandola nella stanza.
Il ragazzo la bloccò contro il muro e cominciò a guardarla torvamente; lei cercò, per la seconda volta, di sgattaiolare via, ma lui glielo impedì e, con gesto rapido, chiuse la porta facendola sbattere.
"Sei come un topolino in trappola... non è che desideri un altro sputo? Mi sembrava avessi gradito il primo... o sbaglio?".
"Che-che vuoi da me? Sei ubriaco?".
Terence girò il viso e corse con lo sguardo alla bottiglia di whiskey che campeggiava al centro del tavolo.
"Ti riferisci a quella?", chiese, prima di alitarle in faccia e aggiungere:
"No, non ho bevuto, anche se mi è venuta la tentazione di farlo, ma... ho promesso".
Iriza cominciava ad aver paura e Terence se ne accorse.
"Che fai tremi? Fai bene. Che state combinando tu e quel campione di tuo fratello? Lo sai che Candy dice di non volermi più vedere? Allora? Parli o ti faccio parlare io?".
La afferrò per i lembi del colletto della camicia che indossava, quasi sollevandola da terra.
All’improvviso la porta si spalancò ed Harrison fece il suo ingresso:
"Che stai facendo tu? Lasciala".
Ne nacque una colluttazione che portò i due ragazzi sul pianerottolo, mentre Iriza si accasciava a terra.
Harrison, tenendo basso il tono di voce, rimproverò l’amico:
"Che stai combinando? Vuoi mandare tutto a monte?".
"A monte cosa, maledizione! Io sto impazzendo e tu...".
"Parla piano, lei non deve capire che ci conosciamo".
"Non mi frega niente... voglio sapere e sarà lei a dirmi cosa sta accadendo".
Harrison lo strattonò e ribatté:
"Non è questo il modo e il tuo ultimatum non è ancora scaduto... scusami".
Dopo aver pronunciato queste parole, Harrison colpì Terence allo stomaco.
"Così non sospetterà nulla... ora tu te ne torni ai tuoi alloggi con Stewart e te ne stai lì buono buono".
McFly riuscì a far salire Terence sull’auto che attendeva Iriza e ordinò a Stewart, dandogli l’indirizzo, di riportarlo agli alloggi della Stratford e di tornare presto.
Tornato da Iriza e sinceratosi delle sue condizioni, fu bersagliato dalle domande della ragazza:
"Che ci faceva qui? Tu lo conosci? Cosa voleva?".
Harrison fu pronto a rispondere:
"Non lo so, alla prima; no, ma mi hanno detto chi è, alla seconda; non lo so, alla terza".
Poi, dopo aver pensato velocemente, aggiunse:
"Sarà stato tuo cugino, quell’Archie... ci ha visti insieme e gliel’ha detto. Ora non pensarci, e stenditi un attimo, che ti porto un bicchier d’acqua".
 
"E quel vecchietto chi è? E che fa?", chiese Patty, a mezza voce, all’amica.
Annie cercò di vederlo bene e lo riconobbe:
"Maledizione, è il giardiniere, è ancora qui? E sta portando via il carretto".
Lo udirono imprecare contro il carretto, perché era fuori posto, e pregarono che non guardasse in alto, rassicurandosi quando capirono che era un po’ sbronzo.
"L’ha chiuso nel capanno degli attrezzi. Ed ora come farà Candy a scendere?".
La bionda, compreso l’accaduto, non si perse d’animo: recuperò il lazo e lo lanciò, agganciando il ramo che gli sembrava più resistente; poi facendo tremare le amiche si lanciò, usando la corda come una liana, facendo onore al suo soprannome.
"Non posso guardare", esclamò Patty, coprendosi gli occhi con le mani.
Candy riuscì ad aggrapparsi ad un altro ramo, proprio mentre il primo si spezzava. Poi, agile, scivolò giù dall’albero e... si trovò di fronte il cagnaccio dei guardiani.
"Buono bello, stai tranquillo...".
In un attimo la bionda era di nuovo sull’albero.
Si udirono le voci dei custodi:
"Quello scemo di un cane è scappato fuori, andiamo a riprenderlo, Jack".
"Ma che cavolo ha da abbaiare? C’è un gatto sull’albero? Buono Bull, sta’ buono", disse l’uomo chiamato Jack.
Il giardiniere sbronzo fece la sua ricomparsa e ipotizzò fosse stata colpa sua: aveva fatto rumore nel riporre il carretto nel capanno e il cane si era agitato.
D’un tratto il primo dei tre che aveva parlato disse a Jack:
"Ehi, c’è qualcuno lì".
Jack, che aveva recuperato il controllo del cane, si avvicinò alla cancellata e fece luce con una lanterna, mentre l’altro imbracciava il fucile.
"Chi diavolo siete? Che ci fate qui?", chiese, rivolgendosi alle ragazze.
Una voce dietro le ragazze rispose per loro:
"Sono con me, sono io, Stewart, l'autista dei Legan".
Jack avvicinò di più la lanterna e riconobbe l’autista, che era avanzato verso il cancello.
"Che ci fate qui?".
"Le stavo riaccompagnando, quando una di loro si è sentita male", rispose Stewart, indicando Patty, che, prontamente, aveva preso a lamentarsi, tenendosi lo stomaco.
"Sì, tornavamo da un funerale", disse Annie, tentando di giustificare i loro abiti scuri.
Jack fece ancora più luce ed esclamò:
"Un funerale? Vestite così?".
Annie, non sapendo cosa rispondere, disse:
"Era una persona molto eccentrica... lo ha voluto lui... per questo la mia amica si è sentita male".
I guardiani si guardarono perplessi e sentenziarono che "I ricchi sono strani, chi li capisce è bravo". Poi trascinarono via il cane, che ancora abbaiava all’albero:
"Vieni via tu, che non c’è niente lì! E tu, Stewart, stai più attento, vi è andata bene che siamo noi e ti abbiamo riconosciuto".
Candy non ci mise molto a saltar giù dall'albero e a scavalcare il cancello, non appena i custodi ebbero girato l’angolo.
"Ragazze me la son vista brutta... ma tu che ci fai qui?", chiese all’autista.
"Accompagnavo a casa una persona e ci siamo accorti del trambusto; ho riconosciuto la signorina Brighton e sono intervenuto. Voi piuttosto, che diavolo ci fate qui a quest'ora?".
"Ma dicci Candy, com’è andata?", chiesero le amiche, come fossero sole.
Candy pure, non facendo caso al fatto che non fossero sole, rispose di getto:
"Niente, maledizione! Mi sa che dovrò proprio sposarlo, Neal".
Una voce, abbastanza alterata, si fece udire, alle spalle di Candy:
"Cos’hai detto? Ripeti un po’ quello che hai detto".
Candy rimase impietrita, mentre le amiche, che avevano di fronte colui che aveva parlato, rimasero a bocca aperta.

 
 
 
 
 
*   episodio 48 (Fra quattro gelide pareti) della serie TV.
** nell’episodio 49 (La grande decisione di Terence) della serie TV.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Un annuncio importante ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 14
Un annuncio importante
 
I giorni successivi alla movimentata notte di ricerca, per Candy, furono terribili: non sapeva se piangere o essere furiosa con sé stessa per aver pronunciato quella maledetta frase; ma come avrebbe potuto immaginare che Terence sarebbe stato lì ad ascoltarla? Inoltre, un altro motivo di disperazione stava nel fatto che, purtroppo, cominciava a credere che quella frase rispecchiasse la realtà: ma possibile che, anche senza aver trovato la collana e non volendo coinvolgere Albert, non vi fosse altro modo per salvare Dorothy, che sposare quel verme? Prima del "contatto ravvicinato" avuto con lui a Lakewood, aveva pensato di poter gestire la faccenda da sola, ma ora, solo all’idea, rabbrividiva.
Candy non faceva che pensare all’incontro-scontro avuto con Terence quella maledetta notte: lui le aveva detto delle cose terribili, arrivando ad accusarla di non essere più la stessa Candy "che conoscevo e che amavo"; forse lui cominciava ad avere dei dubbi sulla loro storia d’amore? Ed era solo colpa sua? Quando le aveva chiesto spiegazioni, non aveva saputo, né potuto, dirgli niente; quando lui le aveva chiesto di guardarlo negli occhi e ripetere quella frase, lei aveva distolto lo sguardo: avrebbe voluto dirgli che lo amava, che quella frase era una burla, che era lui che desiderava sposare con tutta sé stessa; ma il pensiero, la visione, di Dorothy in manette che veniva condotta in carcere, l’aveva bloccata. Aveva lasciato che lui la insultasse senza riuscire a dire una parola e poi, quando lui se n’era andato, era scoppiata in lacrime. Anche Stewart era rimasto basito e l’aveva guardata in maniera accusatoria. Annie e Patty avrebbero voluto dire qualcosa in sua difesa, ma lei aveva fatto promettere loro di non dire nulla.
Annie aveva cercato di tirarle su il morale, dicendole di aver parlato con sua madre: aveva saputo della loro riappacificazione e ne era felice. Candy le aveva confermato ciò che era emerso dal colloquio con la signora Brighton, omettendo, come del resto aveva fatto la donna con la figlia, la parte in cui le era stato chiesto di continuare ad "occuparsi" discretamente dell’amica. Era ovvio che lei non avrebbe esitato ad aiutare Annie in caso di necessità, ma pensava che fosse arrivato il momento che l’amica iniziasse a "camminare da sola", come aveva già dimostrato di poter e saper fare.
Quel giorno, Annie, volle dimostrarle di essere maturata, presentandosi agli alloggi della "Compagnia Stratford": era ora che anche lei facesse qualcosa per aiutare concretamente l’amica.
"Se sei venuta fin qui per parlare di Candy, te ne puoi anche tornare a casa", esordì rudemente Terence, senza neanche averla fatta entrare.
"Sei ingiusto, non dovevi trattarla così...", rispose la brunetta.
"Scusami Annie, sono stato brusco, ma non volevo offenderti, tu non c’entri; accomodati. Posso offrirti qualcosa?".
"No, ti ringrazio, ma sto bene così... e sì, sono venuta a parlarti di Candy...".
"E come avrei dovuto trattarla? La sento dire che sposerà Neal, pochi giorni dopo avermi giurato eterno amore e aver poi detto, ad altri, di non volermi vedere più; le chiedo spiegazioni e lei? Niente... fidati, mi dice. Sono stufo di fidarmi, me l’hanno già detto in troppi. O mi dice che sta succedendo, o io...", e qui si bloccò.
"O tu niente. Non fare sciocchezze, è un problema che deve risolvere lei... ti sembrerà ripetitivo, ma posso dirti solo di fidarti".
"Eccola là, la parolina magica: fiducia. Perché io dovrei, se lei è la prima a non fidarsi di me? È evidente che tu sai qual è il problema, ma non vuoi dirmelo: nessuno si fida più di me?", sbottò il ragazzo.
"Non è così, non è come credi, è più complicato e io non posso dirti niente perché l’ho promesso a Candy. Cerca di capire...".
"Sono anni che cerco di capire e adesso mi sono stufato. Il fatto che tu sappia mi ferisce; fai bene a rispettare le promesse che hai fatto a Candy e, come ti ho già detto, tu non c’entri nulla: è lei che mi deve delle spiegazioni, e se non vuole darmele significa che tra noi, forse, è finita. Resterò fino all’annuncio del ritorno di Stear, per non fare torto ad Albert e a Stear stesso, e poi deciderò cosa fare... non escludo, però, di fare una bella visitina ai Legan...".
"Ti prego Terence... tu non pensi quello che hai detto; non puoi pensarlo sul serio; sei arrabbiato, è comprensibile, ma... non puoi pensare davvero che tra voi sia finita... io non so più cosa dirti per fartelo capire".
"Infatti non devi dirmi nient’altro e, in fondo, hai ragione: per me non è finita affatto, è per Candy che forse lo è!".
Annie, preoccupata soprattutto dalla frase "Non escludo di fare una visitina ai Legan", tentò l’ultima carta:
"Almeno promettimi di non fare niente fino al giorno dell’annuncio; promettilo Terence".
"E va bene, non mi muoverò fino ad allora, ma non finisce così. Qualcuno dovrà pagare", assicurò l’attore, pensando anche all’amico Harrison, oltre che a Neal.
Annie si congedò e uscì da quell’incontro più nervosa e preoccupata di prima.
In strada incrociò una persona che non apprezzava, forse a torto, in quel momento:
"Tu sei Annie Brighton, vero? Anche se non ci siamo quasi mai incontrate, sei identica a come ti ha descritta Terence; l'altro giorno, da Candy, non ci siamo presentate".
"Io invece ti ho vista sui cartelloni, quando eri un’attrice, quindi ti ho riconosciuta subito, Susan Marlowe", fu l’acida risposta di Annie.
"Ti comunico che sono ancora un’attrice... comunque ti posso capire se ce l’hai ancora con me".
"Cosa vuoi?".
"Vorrei che tu comprendessi che sono sincera, quando dico che sono dispiaciuta per tutti i problemi che ho causato...".
"Di’ pure disastri", la interruppe Annie, "È anche colpa tua se è scoppiato tutto questo grosso guaio! Hai detto di essere ancora un’attrice: spero che tu non stia recitando anche adesso".
Susan le prese le mani, sorprendendola, e le disse:
"Mi hanno riferito che sei una persona intelligente e sensibile, quindi puoi certo capire se qualcuno recita di fronte a te: guardami negli occhi, sono sincera".
Annie dovette ammettere a sé stessa che quella Susan, in quel momento, pareva sincera; ma non l’avrebbe mai ammesso ad altri. Non disse niente, ma non respinse le mani dell’attrice.
Susan concluse:
"Odiami se vuoi, ne hai il diritto, ma io ti prometto che, anche se non so cosa stia accadendo tra loro e non comprendo il comportamento di Candy, parlerò con Terence e cercherò di convincerlo ad attendere e a, come gli dicono tutti, fidarsi".
Annie, non sapendo cosa risponderle, le strinse le mani, in cenno d’intesa, farfugliò un quasi incomprensibile "Grazie" e si avviò. Fatti pochi passi, assorta nei suoi pensieri, udì una voce nota che la chiamava; si voltò e vide Tom, sul suo carro, che la salutava agitando il braccio.
"Ciao Annie, è sempre un piacere incontrarti. Che ci fai da queste parti? Non è un bel posto per una ragazza come te, per giunta sola...".
"Ciao Tom, sono venuta a trovare degli amici e non sono sola: c’è una vettura che mi attende in fondo alla via. E comunque so cavarmela anche da sola, non preoccuparti".
Tom, senza perdere il sorriso, rispose:
"Non volevo dire questo e lo sai... facciamo così: libera l’autista e sali sul carro con me, ti riaccompagno io, ti faccio fare un bel giro, come ai vecchi tempi".
Annie arrossì lievemente e accettò l’invito: liberò l’autista e salì sul carro, sedendosi accanto a lui.
 
Il giorno della festa e degli annunci era finalmente arrivato. Sarebbero stati presenti tutti i capifamiglia dei maggiori clan legati agli Andrew, nonché i Legan, Harrison McFly, in qualità di "corteggiatore" della figlia dei Legan, i Brighton e Terence, in qualità di "amico di famiglia". Quale occasione migliore, agli occhi di Neal, per annunciare il suo fidanzamento con la pupilla del "capo dei capi", William Albert Andrew?
Mentre si preparava, Neal discorreva con sua madre.
"E così il gran giorno della zia Elroy è arrivato finalmente, non se ne poteva più", esordì il ragazzo.
"Non è il gran giorno della zia Elroy, è un gran giorno per tutta la famiglia; voglio sperare che tu non intenda esprimerti in questo modo di fronte agli altri componenti della famiglia! Sarebbe un vero scandalo".
"Non preoccuparti, mamma, lo so che ci metterebbe in difficoltà; ma almeno fra noi, posso esprimere ciò che penso? Lo sai che non li ho mai sopportati i cugini...".
"Beh, faresti bene a cominciare a farlo: se vuoi riuscire negli affari devi essere diplomatico e scendere a compromessi; te l’ha insegnato anche tuo padre, no?".
"E colpire quando gli altri meno se l’aspettano... sì, me l’ha detto, papà. Ma oggi sarà un gran giorno anche per la nostra famiglia: ho preparato una bella sorpresa".
La signora assunse un’espressione preoccupata e sbottò:
"Santo Cielo, Neal! Spero tu non abbia intenzione di rovinare la festa alla zia Elroy! Sarebbe una tragedia per noi Legan... ricorda che William Andrew ci tiene d’occhio".
Neal si esibì in una risata sarcastica e rispose:
"Ti ho detto che non ti devi preoccupare, non intendo rovinare la festa alla vecchia, ma a qualcun altro sì; e andrà tutto a nostro vantaggio".
"Voglio proprio sperarlo", concluse Sarah, mentre il figlio la baciava, prima di avviarsi.
 
Anche Iriza si stava preparando, aiutata dall’inseparabile, ultimamente, Dorothy: passava più tempo con lei, che con sua madre e suo fratello. Era riuscita a parlare con Harrison e a farsi accompagnare da Daisy, portandosi anche la cameriera, senza rivelargli il vero motivo della sua visita; aveva passato una bella giornata insieme alla bambina, le cui allegria, spensieratezza e dolcezza apprezzava sempre di più, riuscendo a "prenderle le misure". Anche Daisy era stata felice per quella visita. Quella giornata era riuscita a farle dimenticare il brutto scontro con Terence, anche se Harrison era sicuro che lei ci pensasse ancora: era sicuro che qualcosa in lei stesse cambiando, anche osservando il suo atteggiamento verso la cameriera, e nutriva una certa fiducia...
L’unica nota stonata, dopo lo scontro con Terence, era stato il mancato... non sapeva neanche lei come definirlo: contatto? Bacio? Lui si era chinato su di lei, le aveva scostato i capelli dal viso, l’aveva sfiorata con una carezza; lei, col cuore che le stava scoppiando nel petto, aveva pensato che fosse arrivato il momento e aveva chiuso gli occhi e lui... le aveva detto:
"Ti ho portato un bicchier d’acqua, ti farà bene".
Ancora una volta Harrison l’aveva delusa, aveva evitato che accadesse qualcosa tra loro, lasciandola lì, a chiedersi cosa ci fosse di sbagliato in lei...
Mentre finiva di sistemarsi il vestito, con gli ultimi ritocchi, la padroncina si accorse che la cameriera stava guardando fuori dalla finestra, con aria triste e assente; si accostò anche lei e diede un’occhiata, per poi dire:
"È un bel ragazzo, Tom".
Dorothy trasalì, arrossendo lievemente, e rispose:
"Cosa dite, signorina?".
"Dicevo che non riesci proprio a darmi del tu".
"Scusa, ma...".
"Eri intenta a rimirare il tuo bel Tom", le concluse la frase Iriza, per poi aggiungere, "Si vede lontano un miglio che quel ragazzo ti piace", mentre il viso della cameriera assumeva il colorito del sole al tramonto.
"N-non è vero... Tom è solo un amico".
"Ma smettila, si capisce benissimo che ti piace e, a giudicare dal colore del tuo viso, direi anche parecchio".
"Si capisce così tanto?", sussurrò la cameriera.
"E beh, guardati un po’ allo specchio! Tempo fa mi hai chiesto se mi piace Harrison e mi hai consigliata; ora tocca a me: se ti piace diglielo, magari...".
"No, non ho speranze contro di lei", sospirò Dorothy.
Iriza ci pensò su e commentò:
"So a chi ti riferisci: l’ho vista anch’io giorni fa, quella smorfiosa sul suo carro; ma ricordati che Annie è fidanzata col cugino Archie; non credo che lo mollerebbe per Tom".
"Sono entrambi orfani, sono cresciuti insieme... ora lei è una ragazza molto bella e raffinata. Se Tom dovesse scegliere tra noi due, sicuramente sceglierebbe lei. Ma se è già fidanzata perché fa la civetta con lui? Che lo stia prendendo in giro?".
"Non ti angustiare, cara, e aiutami a finire di prepararmi, che si fa tardi. Ne riparleremo", tagliò corto Iriza, accorgendosi dell’orario e pensando che, probabilmente, la stavano già aspettando.
 
Il salone di Villa Andrew era gremito di gente: c’erano più persone di quante Elroy se ne sarebbe aspettate. Al centro era stata sistemata una grande tavola, imbandita con ogni ben di Dio e, dietro di essa, erano già pronti Elroy e William Andrew.
Candy si era defilata e si trovava nell’ala della villa in cui era rimasta bloccata la prima volta che vi aveva messo piede, tanti anni prima*, quella con il corridoio dei "ritratti": ora si trovava dinanzi al ritratto di Rosemary, la madre di Anthony. Quel quadro le era sempre piaciuto, le era sembrato "vivo", tanto che, spesso, si era ritrovata a "parlare" con lei; si può dire che, benché la donna fosse morta da anni, prima dell’arrivo di Candy nella vita degli Andrew, Candy l’avesse conosciuta lo stesso. Si rivolse alla donna, con la quale condivideva il colore dei capelli e degli occhi:
"Che devo fare? Cosa fareste voi al mio posto? In questo momento vorrei essere come vostro figlio Anthony, che sapeva sempre consigliare e trovare una soluzione per tutto".
Candy trasalì, quando udì una voce melodiosa risuonarle nella testa:
"Io non ti posso aiutare, nemmeno Anthony può; la risposta è dentro il tuo cuore, solo tu sai cosa devi fare e quando sarà il momento lo capirai e farai ciò che va fatto".
Candy, scossa e rinfrancata insieme per quella esperienza, recitò una preghiera per lei, si sistemò il vestito e i capelli e si avviò verso il salone.
"È vero, sono solo io che devo decidere", pensò, mentre entrava nella grande sala.
 
Comunicare novità di una certa portata riguardanti la famiglia, era un compito che sarebbe spettato al capofamiglia, ma Albert, per galanteria, lasciò che fosse la zia Elroy a parlare; alla fine dell’accorato discorso della prozia, tutti applaudirono, non lasciandole intendere quale fosse la verità: ormai tutti sapevano dell’imminente ritorno in famiglia di Stear, ma, per non rovinarle il momento, fecero finta di non esserne al corrente.
Ovviamente, prima di dare l’annuncio su Stear, Elroy aveva presentato ufficialmente la signorina Candice White-Andrew, dandole il benvenuto quale membro effettivo della famiglia.
Terminati i commenti e le felicitazioni, Neal si accostò alla zia e, dopo aver confabulato un po’ con lei, si apprestò a prendere la parola.
Albert, perplesso, chiese a Elroy se sapesse qualcosa, ma lei scosse il capo in segno di diniego.
"Amici", attaccò Neal, "rinnovando le mie felicitazioni alla famiglia Cornwell e i mei migliori auguri di pronta guarigione all’amato cugino, vorrei cogliere l’occasione per comunicare a voi tutti una lieta notizia".
La pausa, studiata, che seguì, diede modo ad Archie di pensare:
"Sai dove te li puoi infilare i tuoi auguri, ipocrita che non sei altro! Si capisce benissimo che di mio fratello non te ne frega niente".
"Anzi", riprese il ragazzo, "Sarà la nostra Candice a comunicarvela. Su, Candice, vieni".
Indescrivibili furono le espressioni che attraversarono i volti di Archie, Albert, Annie e Patty; gli altri manifestarono solo curiosità.
Candy esitò, ma poi si mosse. Una vigorosa stretta al braccio la bloccò per qualche istante.
"Qualunque cosa tu voglia annunciare, rinuncia; inventati qualcosa, ma non dire ciò che lui si aspetta; fidati", le sussurrò Harrison all’orecchio.
Rimasta a bocca aperta, la ragazza si liberò dalla stretta e, mentre Neal la esortava con impazienza a raggiungerlo, pensò:
"Ma, Harrison che c’entra? Come fa a sapere? Comunque no, non posso abbandonare Dorothy...".
Una volta al fianco di Neal, Candy se ne rimase impalata, senza dire niente.
"Avanti cara, fai il tuo annuncio... guarda, non aspettano altro".
Preso, infine, tutto il coraggio che le rimaneva, la bionda attaccò:
"Ecco io... volevo annunciare... sì, insomma... il mio fidanzamento".
Un ghigno beffardo distorse le labbra di Neal, mentre il suo braccio si muoveva, pronto a cingere le spalle della cugina acquisita. Il suo sguardo si focalizzò su una persona in fondo alla sala.
"Il mio... il mio fidanzamento con... Terence Graham, il figlio del Duca di Grancester".
Le ultime parole le aveva pronunciate in un fiato; il braccio di Neal rimase a mezz’aria, costringendolo ad assumere una posizione alquanto ridicola.
Harrison pensò:
"Per la miseria, ti ho detto inventati qualcosa, ma questa è una bomba!".
Dato che si accorsero che Candy guardava oltre le loro teste, tutti si voltarono e videro un bel ragazzo, elegantemente vestito, che stava appoggiato allo stipite della porta d’ingresso del salone, con le mani in tasca e la testa ricurva in avanti, intento a "disegnare" con un piede immaginari cerchi sul pavimento. Gli ospiti rivolsero di nuovo la loro attenzione verso l’oratrice e, dopo un primo momento di esitazione, applaudirono, seguendo l’esempio di Annie Brighton.
Il sorriso morì sulle labbra di due persone: su quelle di Neal e su quelle di Candy, quando vide Terence uscire dal salone, senza dire una parola. Gli amici di Candy le si fecero subito intorno, mentre Neal, che stava schiumando rabbia, incontrò lo sguardo interrogativo di sua madre; Harrison corse con lo sguardo a cercare Iriza: la ragazza sembrava non interessarsi a ciò che stava accadendo, assorta in altri pensieri.
Candy, circondata e frastornata, si aprì un varco tra la gente e scappò via, lasciando gli amici alquanto perplessi.
Raggiunto il figlio, Sarah gli chiese:
"Sarebbe questa la tua grande sorpresa? Non vedo come tutto ciò possa andare a nostro vantaggio".
"Lascia stare...", sbottò lui bruscamente, aggiungendo a mezza voce, "Maledetta strega, questa me la paghi!", e venendo subito ripreso dal padre, per il modo poco educato col quale aveva risposto a sua madre.
 
Nella pace della piccola cappella della "Casa di Pony", nella quale si era rifugiata per pregare, Candy, consumata da quella giornata, crollò addormentata. Fu svegliata in piena notte da alcuni rumori sospetti. Alzò la testa e vide l’ombra di una fisionomia conosciuta. Guardò meglio, sgranando gli occhi, e non riuscì a credere a ciò che stava guardando.
"Non è possibile!", furono le uniche parole che le uscirono di bocca.
 
 
 
 
 
* nell’episodio 9 (Una meravigliosa festa da ballo) della serie TV.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Mezze verità ***


Buona lettura (anche se un po' di delusione c'è...)



Capitolo 15
Mezze verità

Nonostante l’inatteso fuoriprogramma dell’annuncio di Candy e la conseguente piccola confusione che seguì, il resto della serata fu un successo, che scivolò via senza ulteriori problemi. Albert lasciò la festa prima della fine e fece cenno a Harrison di raggiungerlo nel suo studio. Fu, invece, Elroy a raggiungerlo per prima:
"William, che significa questa storia? Non ho fatto neanche in tempo a presentarla a tutta la famiglia e già Candy annuncia di essersi fidanzata?".
"Non lo so zia, anche a me sfugge qualcosa".
"E poi ci si fidanza così? Senza parlarne prima con me o con te, che ora siamo la sua famiglia? E chi è questo giovanotto... come si chiama... Terence? Che sappiamo di lui?".
Elroy pareva un fiume in piena, difficile da arginare.
"Calmati zia, è tutto a posto; Terence è a posto; lo conosco, è il figlio di un duca inglese ed io l’ho conosciuto quando mi trovavo a Londra. Sapevo dell’amore che lega quei due ragazzi da molto tempo".
Saggiamente Albert evitò di dirle la professione attuale del ragazzo: sapeva che la zia non avrebbe gradito la notizia; ci sarebbe stato comunque il tempo e il modo per fargliela accettare.
La zia Elroy aggrottò la fronte e commentò:
"Capisco bene che tu non me ne abbia potuto parlare in passato, ma ora... anche Candy, adesso che ho deciso di darci un’altra possibilità, poteva parlarmene! Quella ragazza è una sorpresa continua".
Capita l’amarezza della zia, il nipote volle addolcirla:
"Sono sicuro che Candy non voleva mancarti di rispetto... non l’ha mai fatto, non è da lei. Se non te ne ha parlato è perché si sente ancora in soggezione di fronte a te e temeva un rifiuto. Vedrai, se tutto andrà come deve andare, conoscerai Terence anche tu, e sarà Candy stessa a presentartelo".
Elroy parve rasserenata, ma c’era un’ultima cosa che le creava dei dubbi:
"C’è una cosa, William, che non capisco se sia positiva o negativa, anche se parrebbe positiva: Neal, secondo quanto mi hai detto, ha sempre odiato Candy, soprattutto dopo il suo rifiuto a sposarlo, e ora la spalleggia. Perché? Che stia cominciando ad apprezzarla senza secondi fini? Sarebbe un’ottima notizia".
Albert non ebbe il coraggio di darle un’ulteriore mazzata, riguardo ai nipoti, e questa frase rimase un pensiero:
"Sì, certo che ricomincia ad apprezzarla... anche troppo, io temo".
Invece le disse:
"Mah, chissà, forse. Ora non preoccupiamocene e pensiamo ad accogliere Stear come merita".
"Hai ragione, William", concluse la zia, incassando il bacio del nipote, prima di congedarsi da lui.
Uscendo dallo studio del nipote, Elroy si incrociò con Harrison, che aveva già intravisto altre volte, e ne rimase piacevolmente colpita:
"I miei omaggi signora Andrew, splendida festa; vi trovo in perfetta forma", le disse il ragazzo, inchinandosi ed esibendosi in un baciamano da vero gentleman inglese.
"Voi siete il signor Harrison McFly, se non erro, e siete interessato a mia nipote Iriza, a quanto mi hanno riferito. Spero avremo occasione di conoscerci meglio in un prossimo futuro, ma... credo abbiate qualcosa da discutere con mio nipote, quindi vi lascio andare".
"Senza dubbio, signora, parteciperò anche al ballo in onore di vostro nipote Alistear", rispose il ragazzo, ripetendo i movimenti di poco prima e congedandosi.
Ora doveva "affrontare" Albert, e non era cosa facile. Il suo ritardo nel presentarsi allo studio era stato causato da una scena, a cui aveva voluto assistere, che lo aveva divertito.
Archie si era avvicinato a Neal e gli aveva detto:
"Sei un grande, cugino! Hai ottimamente introdotto il fantastico annuncio di Candy facendo una sviolinata a mio fratello; anche quel Candice, l’ho trovato semplicemente geniale e denota un grande rispetto, ma... quel braccio rimasto a mezz’aria... ho come l’impressione che qualcosa ti sia andato per traverso, anche se non ho capito cosa. Guarda, se non sapessi che razza di serpenti siete voi Legan, ci sarei anche potuto cascare".
"Levati dai piedi cugino, non ho voglia di parlare con te", era stata la risposta di Neal.
Archie, che si stava divertendo, aveva voluto affondare il colpo:
"Che c’è? Prima cerchi di arruffianarti il mondo intero e poi ti mostri per quel rozzo maleducato che sei? Guarda che non va mica bene così".
Neal, non volendo causare scompiglio più di quanto ve ne fosse già stato, aveva incassato senza rispondere e, spintonato Archie, si era avviato verso il gruppo di famiglia, pensando:
"Vedrai, idiota, cos’è che non va mica bene, vedrai".
"Bravo, vai a piangere da mammina e da papino e fatti consolare da quell’altro serpente di tua sorella".
Sia Annie che Harrison, seppur preoccupati dal pensiero che potesse scoppiare una lite, nel vedere il rampollo dei Legan umiliato e sconfitto, si erano divertiti.

"Prego Harrison, accomodati pure", disse Albert, versando dello scotch in due bicchieri e porgendone uno all’amico.
"E così il tuo piano, qualunque esso sia, sta funzionando?", proseguì poco dopo.
Tra un sorso e l’altro, Harrison si stupì:
"Il mio piano? Che intendi dire?".
Anche Albert aveva sorseggiato lo scotch.
"Che non sono certo uno stupido; ho visto come hai intercettato Candy, prima che raggiungesse Neal. È chiaro che le hai detto qualcosa che le ha fatto uscire di bocca quell’annuncio, come è altrettanto chiaro che quello non era certo il tipo di annuncio che si aspettava Neal. E poi me l’hai detto tu, no? Dammi qualche giorno e fidati: se questo non vuol dire avere un piano...".
"Va bene, mi hai scoperto", rispose Harrison con fare scherzoso, "In effetti fa tutto parte di un mio grande disegno cosmico".
"Harrison", lo redarguì Albert, con tono severo. Poi aggiunse:
"Quel che non ho capito è cosa diavolo volesse Neal da Candy e per quale motivo lei avrebbe dovuto accontentarlo; e questo è sicuramente collegato al suo strano comportamento nei confronti di Terence".
"Io te lo dico, però devi rimanere tranquillo".
"Un momento: tu me lo dici? E come fai a saperlo?".
"Come io faccia a saperlo non importa ora: comunque non era niente di speciale, Neal voleva solo costringere Candy a sposarlo per mettere le mani sul patrimonio degli Andrew. Tutto qui".
"Cosa?", urlò  il capofamiglia fuori di sé, "Ancora quella storia? Stai scherzando, vero?".
"No, è tutto vero", rispose McFly, regalandosi un altro generoso sorso di scotch.
"Complimenti Albert, questo scotch è di un’ottima annata".
"Ma io quello lo ammazzo! Ma che diavolo? Io non avrei mai permesso una cosa del genere, so chi è Neal e cosa pensa di lui Candy".
"Ecco lo sapevo, per questo non volevo dirtelo... era importante, per Neal, che fosse lei ad annunciare il loro fidanzamento, così tu avresti avuto poco da dire: doveva apparire come un desiderio di Candy. Comunque è tutto risolto e quella serpe è rimasta a becco asciutto... anche se, a pensarci bene, i serpenti non hanno il becco...".
Lo zio William non accennava a calmarsi.
"Risolto un corno! Ora mi sente quell’idiota".
Harrison si affrettò a intervenire, usando un tono più serio:
"No, non ti conviene: ricordati che sei in affari importanti con suo padre; ricordati che c’è in ballo un’altra importante questione; e poi c’è dell’altro...".
Albert, calmatosi, mandò giù un sorso del suo scotch e commentò:
"Non è finita, vero? Intendo l’affaire tra Neal e Candy. E riguarda il motivo per cui Neal pensava di essere accontentato. Ma, in tutto questo, non pensi a Terence? Non mi è sembrato convinto...".
"Terence ora è arrabbiato ed è perfettamente normale, poiché aveva già saputo da Candy stessa del suo intento di sposare Neal. Ma, se il suo amore per Candy è saldo come dice, capirà; intanto abbiamo capito che i sentimenti di Candy per lui sono intatti".
"Sai molte cose tu, e vuoi usare questa vicenda per metterli alla prova? Guarda che è inutile, sono sicuro che si amino più di quanto loro stessi pensino. Sei davvero diabolico, amico mio", si stupì Albert.
"Esatto, non era previsto, ma, dato che è capitato... Per cui ti chiedo di non intervenire, ancora".
"No, questa storia della prova non mi convince, hai in mente altro tu; ti lascerò fare, ma parlerò con Terence".
Albert chiese a Harrison anche notizie sui terreni, ma il ragazzo disse di non saperne ancora nulla.
"Un’ultima cosa, Harrison: Iriza che c’entra in tutto questo? Fai sul serio con lei? Te lo chiedo perché ultimamente l’ho vista diversa dal solito".
Anche in questo caso il ragazzo fu evasivo, affermando che dalla Legan si aspettava delle sorprese, che potevano essere anche negative. Bisognava solo attendere qualche giorno e l’avrebbero saputo.

Terence rientrò al suo alloggio verso l’alba, dopo aver girovagato per la città, trovando Susan ad aspettarlo; la sgridò, perché aveva capito che era rimasta sveglia per tutta la notte, attendendo il suo ritorno, e, nelle sue condizioni, non doveva strapazzarsi troppo.
Lei lo rassicurò, dicendogli di non preoccuparsi, poiché si sentiva bene, anche nello spirito, con una gran voglia di ricominciare a vivere. Sapendo come prenderlo, si fece raccontare l’accaduto e poi commentò:
"Vedi? Anche se questa storia è poco chiara, c’è una cosa che risulta chiarissima: lei ti ama; se così non fosse non si sarebbe mai esposta in quel modo di fronte a tutta la famiglia, e tu dovresti esserne contento. D’accordo, non è quello il modo migliore per annunciare un fidanzamento, ma avrà avuto i suoi motivi. Candy è fatta così, ha di questi slanci improvvisi e secondo me, quello era un messaggio per te. Se ha dei problemi cerca di risolverli da sola, non va a piagnucolare come facevo io... ti ha voluto far sapere che ci sono problemi, ma di stare tranquillo, perché non riguardano il vostro amore. È fatta così e tu dovresti saperlo".
"Sì, ma...", tentò di obiettare lui, venendo subito bloccato:
"Niente ma: ora vai a riposare, che sei distrutto. Ricordati che ci sono le prove per gli spettacoli e hai ancora un ballo a cui partecipare... perché tu ci andrai, altrimenti mi arrabbio".
"Forse hai ragione; non sai cosa darei per esser sicuro della verità di ciò che mi hai detto".
"E tu non sai cosa darei io per poterti stare accanto, per poterti amare, se ciò fosse possibile... ma voglio saperti felice", pensò Susan, mentre lo osservava dirigersi alla sua camera.

"Non è possibile... sei tu? Sei veramente tu?", farfugliò Candy, al limite dello stupore.
La figura avanzò verso di lei, uscendo dalla zona d’ombra e il suo volto venne illuminato da un raggio di Luna, che penetrava da una finestra; le sue braccia si aprirono, ricacciando all’indietro il largo mantello verde scuro che indossava e lei, dopo aver titubato un po’, vi si gettò in mezzo.
"Sei vero! Non sei un sogno... sei tu, Stear", balbettò Candy, che si diede anche un pizzicotto, per sincerarsi di essere sveglia.
"Sì, Candy... sono io, sono tornato".
Non è la stessa cosa sapere che un evento sta per verificarsi ed essere lì a viverlo, nel momento in cui accade e Candy, che non poté trattenere le lacrime, se ne rese conto.
"Sei tu... sei vivo...", continuava a mormorare tra i singhiozzi, tenendosi stretta a lui, e toccandolo per esserne sicura.
"Ma perché sei qui? Tutti ti aspettano e...", cominciò la ragazza, ma lui la interruppe:
"Non dire niente... lasciami stare così. Ho un problema, ma adesso ho bisogno di stare un po’ così... in pace".
Candy era troppo felice di aver ritrovato un caro amico, creduto morto per tanto tempo, al punto da non riuscire a immaginare quali problemi ci potessero essere ora che era tornato.
Ma non le importava, ne avrebbero discusso più tardi, perché ora, l’unica cosa che le importava davvero, era coccolarsi un po’ il suo Stear.

Neal non aveva chiuso occhio per tutta la notte e quando scese per la colazione, suo padre era già uscito per recarsi al lavoro, mentre sua madre e sua sorella avevano già finito.
"Alla buon’ora! Stavo per mandare tua sorella a cercarti per sapere che fine avevi fatto".
"Non ho voglia di far colazione, mi sento a pezzi", rispose il ragazzo.
"Va bene, allora faccio portar via tutto. Potresti almeno mostrare più rispetto, dopo la figura che ci hai fatto fare ieri".
"Figura, mamma? E che figura hai fatto tu? Sono io che ho fatto... ma lasciamo perdere; Iriza, ho bisogno di te, vieni".
Capita la giornata storta in cui era incappato il figlio, Sarah ordinò alla servitù di riordinare e pulire il salone e lasciò i figli, andando ad occuparsi di organizzare la giornata.
"Neal, non è andata come avevi programmato: Candy non c’è cascata, peccato... anzi, meglio così, non so se avrei accettato l’idea di averla come cognata", esordì Iriza, quando furono soli.
"L’idea però non ti dispiaceva tempo fa, prima che ricomparisse quel rompiscatole dello zio William", rispose Neal.
"Erano altri tempi... e te l'ho già detto, mi pare".
Osservando bene il fratello, Iriza colse nei suoi occhi dei lampi diabolici ed esclamò:
"Non avrai mica intenzione di... ? Io credevo che non dicessi sul serio. Dunque adesso gliela farai pagare accusandola di furto? Povera Candy, quasi mi dispiace: annuncia il suo fidanzamento e subito dopo finisce in prigione".
"Ma chi? Candy? Anche lei ha pensato la stessa cosa, quando le ho fatto la proposta. Eh sì, dicevo sul serio... ma non sarà lei a finire dentro, troppo facile, lei è abituata a sacrificarsi per gli altri...".
"Di’, piuttosto, che lo zio William non ci crederebbe mai e ti sbranerebbe; ma chi, allora?", rise Iriza, pensando ancora che il fratello, frustrato dal fallimento, stesse facendo un po’ di "scena".
"Già, la sua pupilla una ladra! Impensabile... ma, forse, una cameriera...".
Iriza si ammutolì di colpo e il suo volto assunse un colorito più pallido di quello di un cencio lavato.












Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Tormenti e paure ***


C’eano tre possibili titoli per questo capitolo: "Una visita inattesa", "La decisone di Iriza" e quello scelto. Ho pensato che il titolo "Tormenti e paure" descrivesse meglio lo stato d’animo di più personaggi e il senso di questo capitolo. 
Buona lettura




Capitolo 16
Tormenti e paure

"Che... che intendi dire?", balbettò Iriza.
"Che in questa casa abbiamo a servizio delle cameriere e non sarebbe la prima volta che una serva sia beccata a derubare il suo padrone", fu la risposta che la ragazza temeva di sentire.
La parola "serva", Neal l’aveva pronunciata con un tono di disprezzo. Aggiunse:
"C’è n’è una, in particolare, che ci è sempre stata alquanto ostile... poi, ha tanti fratellini piccoli da sfamare, ha bisogno di soldi... insomma è perfetta".
Iriza, che aveva pensato "In realtà tutta la servitù ci è alquanto ostile", e alla quale la parola "fratellini" aveva fatto venire in mente la piccola Daisy, sempre più pallida, chiese, con un filo di voce e senza riuscire a pronunciare il nome che aveva in mente:
"Stai... stai pensando a... ?".
"A Dorothy, ovviamente. Pensaci, è perfetta per questo ruolo: in un colpo solo ci sbarazziamo di una seccatura e diamo una mazzata a quella stupida orfana! Già mi immagino le loro facce, quando la zia Elroy chiamerà gli agenti; crede che io scherzi, quella stupida".
La ragazza, non riusciva quasi più a parlare; la sua mente era attraversata da mille pensieri: l’immagine di Dorothy, che lavorava sorridente al maglioncino per Daisy, non la abbandonava.
"Io credevo che mettessi in mezzo Candy, in fondo è lei che...".
Neal aggrottò la fronte e la bloccò:
"In fondo l’hai detto tu che lo zio William non crederebbe mai che Candy sia una ladra e che ci abbiamo già provato, fallendo. Una serva invece è più che adatta a quel ruolo".
Ancora quella parola "serva", sottolineata con disprezzo. Iriza non resistette:
"Dorothy non è una serva! E questa non è una recita. Stiamo parlando di cose serie... ti prego lascia perdere, troveremo un altro modo...".
"Preferisci sguattera? Che ti prende? Non starai pensando di tradirmi? Anche a te è sempre stata antipatica quella sguattera, o sbaglio? E poi l’hai dimenticato? Chi è amico di Candy è nostro nemico: sei stata proprio tu a insegnarmi queste raffinatezze".
Iriza si odiò per quell’ultima frase di Neal che, purtroppo, corrispondeva a verità. Il problema era che in quel momento Iriza, se non la considerava proprio "amica", aveva una certa simpatia per Dorothy e non se la sentiva di rovinarle la vita per le macchinazioni di suo fratello. Ci pensò Neal a metterla ancora più in agitazione.
"Ho l’impressione che tu abbia in mente di farmi lo sgambetto. Non te lo consiglio: aiutami, o dirò a mamma e papà tutta la verità su Harrison e farò in modo che lui non metta più piede in questa casa. Mi sono spiegato? Attieniti al piano che avevamo studiato e il tuo spasimante sarà al sicuro", mentì il ragazzo, che già aveva messo la pulce nell’orecchio della madre, sul conto di Harrison.
Iriza tentò un’ultima protesta:
"Il piano che avevamo studiato? Ma io non sapevo di Dorothy! E poi che c’entra Harrison? Lascialo fuori da questa storia".
"Tu fai come ti dico e tutto andrà bene: prendere o lasciare. E, per me, il discorso è chiuso. Decidi, ma fallo in fretta, che abbiamo poco tempo. Fammi sapere", tagliò corto il ragazzo, lasciando la sorella nella più totale indecisione.
Comunque anche Iriza si stupì di sé stessa: era la prima volta che non se la sentiva di far del male a qualcuno, anche se si trattava dell’odiata Candy. In passato non ci avrebbe pensato due volte, a calpestare chiunque, pur di raggiungere lo scopo: era solo per via di Dorothy o stava cominciando a capire che quel modo di agire e di pensare fosse del tutto sbagliato? Si sprofondò nel divanetto della sua camera e, stringendo tra le mani il fazzoletto di Harrison, pensò:
"Che devo fare? Che devo fare? Harrison, ti prego, aiutami tu...".
 
Candy aveva trascorso il resto della nottata nella cappella, accanto a Stear, poiché non se l’era sentita di lasciare da solo l’amico che, ad uno sguardo più attento, le era sembrato strano. Lui le aveva ceduto il suo mantello e si era accoccolato in un angolo.
All’alba erano svegli tutti e due e fu Candy a parlare per prima:
"Che ti succede Stear? Ti vedo strano, ti vedo cambiato".
Lui, dopo un po’, rispose:
"Sì, Candy, sono cambiato. Ho paura... ho paura di ritornare alla mia vita; ho paura di rivedere le persone che amo; ho paura di rivedere lei...".
"Perché Stear? Tutti ti aspettano, tutti vogliono riabbracciarti".
"È proprio questo quello che mi spaventa! Avevo pensato che rivedere prima te, da sola, mi avrebbe fatto bene, e invece...".
"Stear", sussurrò la bionda, dandogli una carezza su una guancia.
Lui afferrò quella mano, stringendola tra le sue, e disse:
"Candy... ho ucciso delle persone, ragazzi come me! Quando sono partito ero animato da fervore patriottico, pensavo di andare a combattere contro dei mostri... non avevo pensato che stavo andando a uccidere dei ragazzi come me, come Archie, come Terence, come... te! È stato orribile".
"Ma è la guerra, non è stata colpa tua", tentò di obiettare Candy, spaventata da quel discorso.
"Potevo restarmene a casa, nessuno mi ha obbligato a partire. E poi... ho ucciso il mio migliore amico... Dominique. È stata solo colpa mia. Io ho avuto l’idea di scambiarci i giubbotti e la Morte ha preso lui pensando fossi io! Io dovevo morire. Che diritto ho, adesso di tornarmene a casa, come nulla fosse, di rivedere i miei cari, di essere felice con Patty, mentre lui giace a marcire sotto un metro di terra, al freddo...".
"Stear, non è stata colpa tua e la Morte non sbaglia: è stato il destino a...".
Il ragazzo intervenne bruscamente, non lasciandole finire la frase:
"Destino, destino. Quale destino? Il destino non esiste, siamo noi a costruircelo e io ho fatto morire Dominique! Non riesco neanche più a piangere... no, devo andarmene devo espiare".
Candy liberò la sua mano da quelle di lui e sbottò:
"Ora basta Stear! Smettila; lui è morto e tu sei qui, e non c’è niente di sbagliato in questo".
Stear continuava a protestare, pareva invasato, e allora Candy non trovò di meglio che mollargli uno schiaffo.
"Forse, così, tornerà in sé", aveva pensato la bionda.
"Stear smettila, ritorna in te. Ora sei sconvolto, ma tutto si risolverà; supererai questa cosa, ma solo con l’aiuto delle persone care; hai idea di quanto abbiamo sofferto quando ti credevamo morto? Di quanto abbia sofferto Patty? Lo sai che ha tentato il suicidio? Vuoi questo per lei? Se tu te ne andassi, la uccideresti. Di nuovo. E procureresti a tutti noi altre sofferenze... fatti aiutare e vedrai che, piano piano, riuscirai a superare tutto l’orrore che hai vissuto".
Queste parole, Candy, le aveva pronunciate con le lacrime agli occhi e il pianto di Candy era sempre stato contagioso: Stear l’abbracciò, mormorando il suo nome, e scoppiò in lacrime.
"Piangi amico mio, piangi, che ne hai bisogno, sfogati; vedrai che poi ti sentirai meglio".
Più tardi, il ragazzo, rassicurandola sulle sue intenzioni di presentarsi ai familiari, chiese all’amica se poteva restare ancora un giorno alla "Casa di Pony", poiché aveva bisogno ancora di un po’ di "decompressione", prima di tentare un rientro in famiglia. Candy gli rispose che non poteva decidere lei e che doveva chiedere il permesso a Miss Pony e Suor Maria: già il continuo presentarsi delle sue amiche, che pur faceva piacere alle direttrici, portava scompiglio, figuriamoci la presenza di un uomo!
La ragazza si ricompose, tentò di sistemarsi i capelli alla meglio, ed entrò nella casa, giusto in tempo per trovarvi una sorpresa; una gradita sorpresa.
 
"Ho deciso di restare per vedere cosa succederà", disse Terence, che era stato convocato da Albert nel suo studio.
"Quindi ci sarai al ballo? Ho bisogno di saperlo", chiese Albert.
"Sì, ci sarò, anche se ciò vorrà dire avere ancora a che fare con quei simpaticoni dei Legan".
"Mi fa piacere che tu abbia preso questa decisione; vedrai che non te ne pentirai".
Ci fu silenzio, poi Albert azzardò:
"E... che ne pensi dell’annuncio di Candy?".
"Che vuoi che ti dica; dovrei esserne felice, almeno così mi han detto, ma non ci riesco; io, Candy, non la capisco più: prima mi accoglie, poi mi rifiuta, poi mi riaccoglie. E in mezzo c’è addirrittura un possibile matrimonio con Neal Legan. Quest’eventualità, da sola, mi ha fatto impazzire".
"Beh, il matrimonio con Neal è saltato, se non erro; e Candy avrà avuto i suoi motivi per adottare questo comportamento; adesso ci sembra assurdo e inspiegabile, ma qualcosa mi dice che entro un paio di giorni ci sarà tutto più chiaro".
Albert decise di non informare Terence che Harrison sapeva di cosa si trattasse, per evitare un ulteriore scontro tra i due amici: d’altronde neanche lui sapeva del ricatto della collana.
Comunque l’attore aveva avuto modo di parlare con Harrison e l’aveva ringraziato per avergli impedito di commettere ulteriori sciocchezze, la notte in cui si era ritrovato a faccia a faccia con Iriza.
Tranquillizzato sulle intenzioni di Terence, Albert lo salutò e ritornò ai suoi affari.

Nel pomeriggio Neal e sua madre stavano prendendo il tè, da soli, nel salotto. La signora si stupì dell’assenza di sua figlia, sebbene, già da qualche giorno, Iriza evitasse di presentarsi a quel rito di famiglia.
"Sai, per caso, cosa sta accadendo a tua sorella? Non prende quasi più il tè con noi e la vedo strana, ultimamente", esordì la donna, tra un sorso e l’altro.
"Non lo so, mamma; anch’io la vedo strana. Forse dipenderà da quel... come si chiama... ah sì, Harrison. Hai saputo niente di lui?".
La risposta della donna lasciò il ragazzo alquanto perplesso:
"Proprio di questo volevo parlarti e, data l’assenza di tua sorella, mi pare il momento adatto per farlo: ti sembrerà strano, ma le persone che ho incaricato delle indagini non hanno trovato nulla. Capisci? Niente, pare che nessuno lo conosca questo McFly, qui a Chicago".
Neal pensò che la cosa fosse strana, ma pensò anche che, forse, essendo orfano, Harrison non poteva essere conosciuto negli ambienti della società bene di Chicago. Per il momento lasciò cadere il discorso, portandolo su altri temi più futili.
Passata un’ora a chiacchierare di scemenze, Neal si alzò per andare ad occuparsi delle sue faccende, ma la madre lo trattenne:
"Aspetta un attimo, prima che tu vada devo dirti una cosa importante, da parte di tuo padre, e anche da parte mia: noi sappiamo che rapporto c’è tra te e Candy e la scenetta di ieri ci è parsa, a dir poco, incredibile. Tu, che non la sopporti, la chiami accanto a te, col sorriso sulle labbra, per farle annunciare il suo fidanzamento con quel tizio, davanti a tutta la famiglia? È chiaro che non ti aspettassi tale annuncio da parte sua... che poi neanche sapevamo che quell’attore fosse qui a Chicago. Tuo padre ti manda a dire, e te lo dico anch’io, di lasciar perdere qualunque cosa tu abbia in mente: non è il momento, non dobbiamo assolutamente irritare Elroy o William, ci sono troppi interessi in gioco".
"Sì, lo so: papà ha investito un sacco di soldi nel progetto di quei resort, che ha avuto il consenso e l’aiuto dello zio William, quindi bisogna stare attenti. Tranquilla mamma, lo so".
"Prudenza figliolo, ci vuole prudenza. Se vuoi far del male a quell’orfana fai pure, ma dopo che l’affare sarà andato in porto. Intesi?".
"Certo mamma, non ti devi preoccupare", concluse Neal, prima del consueto bacio di congedo.
Sarah parve soddisfatta: neanche immaginava che razza di tempesta rischiava di far esplodere il suo caro figliolo...

"Il signor Vincent Brown?", esclamò Candy, al colmo dello stupore, "Voi siete il padre di Anthony?".
"Esatto Candy, il signor Brown ci ha fatto la gentilezza di venirci a trovare. Vuole assolutamente conoscerti", rispose per lui Suor Maria.
"Cara Candy, mi sei sfuggita tante volte, l’ultima ieri, che sono arrivato a pensare che l’unico modo per incontrarti fosse venire a trovarti qui, nella tua tana; ma quando m’hanno riferito che non c’eri, ho temuto di aver fatto anche stavolta un altro buco nell’acqua... ma che devo fare per conoscere la ragazza che ha reso felice, anche se per poco, il mio adorato figlio?", esordì il signor Brown, allargando le braccia.
Candy esitò un attimo, per poi gettarsi tra quelle braccia, che attendevano da anni quel gesto.
"Oh, signor Brown, sono felice di conoscervi. Forse non lo sapete, ma ho avuto già il piacere di conoscere vostra moglie, Rosemary".
"Che dici ragazza? Mia moglie è morta tanti anni fa...".
Ricompostasi, la bionda spiegò:
"Sapete che a Villa Andrew, quella dei tre cancelli, quella del Cancello delle rose, c’è una galleria con i ritratti di tutti i componenti della famiglia; e sapete che in tutta la villa vi è un numero impressionante di ritratti di vostra moglie; ebbene quei dipinti mi hanno sempre impressionata, sia per la loro bellezza, sia perché non li ho mai considerati semplici dipinti. Sono così perfetti da sembrare vivi: il mio preferito ritrae vostra moglie con in braccio il piccolo Anthony, che avrà avuto pochi mesi; la somiglianza fra madre e figlio è impressionante ed Anthony, in quel dipinto, ha già l’aspetto dolce che aveva quando l’ho conosciuto. Per questi motivi mi sono ritrovata spesso a dialogare con quel dipinto".
"Mi fa molto piacere che tu dica queste cose", rispose, commosso, il signor Brown.
I due ebbero modo di parlare a lungo, di Rosemary, di Anthony e di altre vicende. Il signor Brown affermò, con tristezza, che gli sarebbe piaciuto averla come nuora e che, se fosse stata viva, anche sua moglie Rosemary l’avrebbe apprezzata parecchio. Alcune lacrime non mancarono di presentarsi sui loro volti. Alla fine lui disse:
"Sono contento, e credimi sono sincero, del tuo annuncio di ieri. So dei problemi che avete incontrato tu e il ragazzo che ami e ti dico: non permettere a nessuno di ostacolarvi, se il vostro è vero amore, combatti sempre per difenderlo e sii forte; te lo dice uno che ha dovuto combattere contro l’ostilità degli Andrew e che, senza l’aiuto di Rosemary, non ce l’avrebbe fatta".
Infatti la famiglia Andrew aveva osteggiato il matrimonio fra Rosemary e Vincent, poiché lui non era considerato all’altezza di sposare una Andrew; era stato soprattutto per merito di Rosemary, donna dolce, ma al contempo forte, che aveva minacciato di lasciare la famiglia e di rinnegarne il nome, se le cose si erano sistemate al meglio per i due innamorati.
Rimasta piacevolmente colpita da quella lunga chiacchierata, dopo aver salutato il signor Brown, Candy si ricordò improvvisamente di Stear:
"Per la miseria, mi sono dimenticata di Stear... ma dove ho la testa?".
Tornata nella cappella, lo trovò addormentato, dato che non aveva chiuso occhio per tutta la notte, così rinunciò al proposito di parlare di lui alle direttrici e pensò che sarebbe stato meglio permettergli di sistemarsi temporaneamente nel proprio appartamento in città.

Neal era già pronto per il consueto giro dei circoli e dei locali di Chicago, in compagnia degli amici, quando qualcuno bussò alla sua porta; aprendola, esclamò:
"Ah, sei tu, sorellina".
"Ho preso una decisione", rispose lei, convinta, chiudendosi la porta alle spalle.






Quale sarà la decisione di Iriza? Mmmh... ho un po’ di paura...






















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** "Non voglio farlo!" ***


Buona lettura
 
 
 
Capitolo 17
"Non voglio farlo!"
 
A volte, nella vita, capitano degli imprevisti; anzi, capitano di continuo e possono essere piacevoli, seccanti o portatori di possibili tragedie. Nessuno poteva immaginare che di lì a pochissimo, ne sarebbe capitato uno del terzo tipo. A dire il vero, Neal Legan lo considerò un grandissimo colpo di fortuna: accadde che lo zio William fu costretto ad assentarsi per qualche giorno a causa di un imprevisto e importante impegno di lavoro; non gli era stato possibile rinviare il viaggio, poiché si trattava di una cosa urgente e perché, rinviandolo, avrebbe rischiato di non poter essere presente al ballo in onore di Stear. Con lo zio fuori dai piedi, il giovane pensò che sarebbe stato un gioco da ragazzi manipolare madre e zia e liberarsi, una volta per tutte, della "zavorra", termine con cui era solito definire le persone a lui "non gradite".
A proposito di Stear: dopo solo un giorno di "decompressione" nell’appartamento messogli a disposizione da Candy, aveva trovato il coraggio di ripresentarsi ai suoi cari, rifiutando, però, di incontrare Patty, poiché non si sentiva ancora pronto. Sebbene ferita da questa decisione, la ragazza aveva compreso le motivazioni di Stear, pensando:
"Ho aspettato tanto... qualche giorno in più non sarà un dramma; se penso che avrei potuto non rivederlo mai più...".
Iriza, prima del colloquio con Neal, aveva preso iniziative importanti, convincendo la zia Elroy ad invitare al ballo alcune tra le persone che, in un modo o nell’altro, collaboravano con la famiglia. Uno di questi inviti lo aveva riservato a Tom Steve, prezioso sia per le cucine, con il suo latte e altri alimenti, che per la manutenzione delle ville, con i suoi materiali.
Elroy, pur accettando la cosa, non aveva perso occasione per lamentarsi:
"Dove andremo a finire! Adesso invitiamo ai balli anche i garzoni... ci manca solo la servitù adesso! Ma sono troppo felice, quindi do il mio consenso a questa stravaganza. Ho dei nipoti che mi hanno abituata a questi colpi di testa, a cominciare da William".
Iriza aveva pensato che la zia s’era dimenticata che una cameriera aveva già partecipato, in passato, ad una grande festa da ballo a Villa Andrew*, e si era ritrovata a pensare, divertita, alla sua reazione se avesse immaginato le sue intenzioni...
 
Il "martellamento" su Dorothy, iniziato anch’esso prima del colloquio tra Iriza e Neal, cominciava a dare i suoi frutti.
"Dorothy, insisto, tu devi partecipare al ballo", fu l’ennesimo attacco di Iriza.
"Perdonami Iriza, ma credo che il mio compito sarà di servire, non di danzare; oltretutto non ne sarei capace".
"Sciocchezze, tutti sappiamo muoverci in un salone da ballo; basta volerlo e, con un piccolo sforzo, ci riusciresti anche tu. Anzi, ci riuscirai, anche tu, t’insegnerò io".
"Ma perché insisti? Perché dovrei partecipare a quel ballo?".
"Anzitutto noto con piacere che mi stai dando del tu, senza neanche accorgertene e, in secondo luogo, tu devi partecipare perché lo dico io: sono la tua padrona e ti posso ordinare di fare ciò che voglio...", rispose Iriza con convinzione.
"Continuo a non capire... mi sentirei fuori posto", fu la debole protesta della cameriera.
"Dorothy, voglio essere sincera: tu stai facendo qualcosa per me", disse Iriza, indicando il lavoro a maglia, poggiato su una sedia, "e quindi è giusto che io faccia qualcosa per te".
"Per me è un piacere cercare di confezionare un maglioncino per l’inverno, destinato a quell’angioletto che abbiamo visitato tempo fa; non voglio niente in cambio. E poi cosa ci sarebbe di positivo per me, se partecipassi?".
La padroncina si giocò l’ultima carta, l’asso di cuori.
"Anche se non vuoi nulla in cambio io qualcosa te la voglio dare. Di positivo per te ci sarebbe Tom Steve... ci sarà anche lui, l’ho invitato io. Lo sapevi?".
"N-no... n-non lo sapevo", balbettò la cameriera, arrossendo vistosamente. Poi aggiunse:
"E poi... anche ammesso che decidessi di partecipare, non ho...".
"Il vestito?", intervenne Iriza che, mentre l’altra parlava, aveva preso dal suo armadio due abiti meravigliosi, che ora stava sventolando davanti al naso di Dorothy.
"No, Iriza, non posso...".
"Tu puoi, anzi devi! Quando ho nominato Tom sei diventata un peperone, quindi devi esserci. E non preoccuparti per eventuali accessori e abbellimenti, ci penserò io; avanti, non farmi arrabbiare e scegli un vestito".
La cameriera, che da un po’ di tempo aveva cominciato a guardare la padroncina con altri occhi, era allibita: quella ragazza, che le stava offrendo i suoi bellissimi vestiti e che la incoraggiava a partecipare ad un ballo degli Andrew, era veramente Iriza Legan? La stessa Iiza Legan che l’aveva tormentata per anni e che aveva gongolato alla notizia del suo trasferimento, poi non verificatosi, in Messico? A quanto pareva sì, era proprio lei: più si sforzava di guardarla e più riconosceva sempre Iriza Legan.
"Smettila di guardarmi come se fossi un essere strano con tre teste e scegli un vestito", sbottò Iriza, spazientita.
Alla fine la cameriera, rassegnatasi – anche perché la padroncina non avrebbe mollato facilmente la presa – scelse il vestito, un bellissimo abito rosa acceso; fortunatamente le due ragazze avevano, più o meno, la stessa taglia: di eventuali modifiche all’abito sarebbe stata incaricata la sarta di famiglia. Guardandosi allo specchio, avvolta in quel vestito, Dorothy si sentì quasi una principessa; Iriza confermò questa sua impressione, assicurandole che, a parer suo, non aveva nulla da invidiare alle dame che sarebbero state presenti all’evento: nemmeno a Annie Brighton. A Dorothy non interessava proprio nulla di primeggiare sulle altre dame, a lei interessava solo di colpire Tom: quello era l’unico motivo che l’aveva indotta ad accettare quell’invito che, in altre circostanze, avrebbe considerato assurdo e fuori luogo.
"Sei bellissima mia cara, ma non ti pemettere di pensare di essere più bella di me", scherzò Iriza, anche se un po’ ancora ci credeva di essere la più bella creatura del mondo.
"Manca ancora qualcosa", aggiunse poi, dirigendosi al suo scrittoio, "Ai tuoi capelli penserò io, come del resto penserò a qualche accessorio luccicante".
Ma appena aprì il cassetto dello scrittoio, questo pensiero le bloccò ogni movimento:
"Ma io non voglio farlo".
Una scena, quella, che si era ripetuta spesso negli ultimi giorni.
Richiuse il cassetto e spedì Dorothy dalla sarta, che aveva già fatto chiamare e che attendeva la cameriera nella sua stanza, per le modifiche necessarie all’abito.
"Non ti preoccupare", le disse, "mio padre è in banca e mia madre è fuori, quindi non dovresti fare incontri spiacevoli".
Iriza aveva pensato a tutto: la partecipazione al ballo della sua cameriera doveva restare un segreto, per cui aveva scelto quel giorno e quel momento per far venire la sarta.
 
Terence stava provando l’ennesimo completo, ma quello bianco gli pareva il migliore, perché gli stava a pennello e inoltre gli evocava dolci ricordi: la prima giornata passata in intimità con Candy**. Susan rimase a bocca aperta.
"Sei bellissimo, il bianco ti sta a meraviglia! Sono sicura che farai colpo su Candy".
Lui, stizzito, rispose:
"Ho già fatto colpo su di lei, non ricordi? Ha addirittura annunciato il nostro fidanzamento! Semmai sarà lei a dover far colpo su di me".
"Beh, allora il problema è già risolto... che Candy ti abbia conquistato non c’è alcun dubbio; basta guardarti quando parli di lei, ti brillano gli occhi... anche se ne parli male: dici una cosa e ne pensi un’altra. Non ci crede nessuno che vai a quel ballo solo per il tuo amico Stear. Ti conosco, ormai".
"Lasciamo perdere, vuoi? Che ne pensi di questo?", le chiese Terence, mostrandole un abito che aveva tirato fuori da una scatola.
"E questo cosa sarebbe?", chiese a sua volta lei, meravigliata di quella mossa.
"Il tuo vestito per il ballo, è ovvio; è della tua misura, l’ho fatto confezionare dalle sarte della compagnia".
"Terence... è bellissimo, ma io che c’entro con la festa degli Andrew?".
"Se io ci andrò come amico di Stear o fidanzato di Candy, tu ci verrai come mia amica. Si può fare, ogni invitato può portare un parente o un amico: parenti sottomano non ne ho, quindi resti tu, che sei mia amica".
Ogni volta che Susan lo sentiva parlare di "amicizia", riguardo alla loro relazione, provava una stretta al cuore. Non si era ancora abituata: aveva rinunciato a lui in cambio della sua felicità, ed era sicura che la soddisfazione di saperlo felice sarebbe stata superiore al dolore per averlo perso. Anche per questo non voleva partecipare al ballo, non voleva creare ulteriori tensioni fra Candy e Terence.
"Non capisci, Susan? Questa festa è l’evento più importante dell’anno, qui a Chicago; se non ci sarà tutta la città, poco ci manca; quale occasione migliore per annunciare il tuo ritorno sulle scene?".
"Guarda che non siamo a New York, chi vuoi che s’interessi a questo evento, fuori da Chicago?".
"Noi faremo in modo che si sappia e che la notizia giunga alla stampa: è ora e tempo che tu faccia il tuo rientro in scena. Avanti vai a provare il vestito, anche se già so che ti starà benissimo".
Nella mente di Susan si affacciò un dubbio:
"Ma chi vuoi prendere in giro? Il mio ritorno sulle scene... tu lo fai apposta per far ingelosire Candy e questo mi convince ancor di più che la ami disperatamente e a far di tutto per farvi tornare insieme".
L’attrice si arrese, prese il vestito e si ritirò nella sua stanza per provarlo.
 
Neal incrociò Dorothy, mentre questa si dirigeva in camera sua. Inizialmente si stupì, ma poi, mentre un lampo sinistro gli balenava negli occhi, pensò:
"Perfetto! Anche il vestito! Che idea geniale... cara sorellina sei proprio tornata fra noi... ora capisco a chi serviva la sarta; mamma, uscendo, ha creduto che servisse a te. Penso proprio che domani sarà un giorno memorabile per me".
La seconda persona che il ragazzo incrociò fu la sorella:
"Dove vai di bello, sorellina?".
"Vado in città, ho un appuntamento con Madame Bourges".
"Non puoi, a meno che tu non ci vada a piedi; tutte le auto sono impegnate e la mia non si tocca: più tardi mi serve".
"Apprezzo molto il fatto che tu ti preoccupi per me, ma non devi: prendo un passaggio da Tom, che sta consegnando dei materiali ai giardinieri; l’ho già fatto avvertire. Ci vediamo più tardi".
Neal aggrottò la fronte e pensò:
"Che diavolo ci va a fare da Madame Bourges? È già tutto a posto per il ballo... ma che m’importa, l’importante è ciò che accadrà domani".
Fregandosi le mani, Neal si ritirò nella sua camera.
 
"Candy, ma che hai?", chiese Annie all’amica, vedendola scura in volto.
"Ho paura, dopo quel giorno non ho più sentito Terence. Se n’è andato senza dire una parola".
"È comprensibile, ma io ci ho parlato e ti assicuro che gli passerà: ha solo bisogno di tempo e di qualcuno che gli spieghi come stanno le cose", affermò la brunetta, malcelando le sue preoccupazioni, nate proprio da quel colloquio con l’attore.
"Tu credi che mi ami ancora? Ti vedo preoccupata".
"Ma cosa... ? Ma ti senti? E poi, guardati, sei bellissima con questo vestito azzurro! Rimarrà affascinato, come sempre".
"Lo sai che lui non bada a queste cose...".
"Te l’ho detto: qualcuno deve spiegargli molte cose, e quel qualcuno devi essere tu; ma devi fare in fretta, poiché non credo che lui sia disposto ad aspettare ancora".
Candy si sedette e osservò:
"Poi c’è ancora il problema di Neal...".
"Ascolta Candy: secondo me era tutto un bluff, infatti la collana non l’abbiamo trovata da nessuna parte e probabilmente neanche esiste; ci ha provato, gli è andata male. Tutto qui. Tranquilla, che Neal non farà proprio nulla".
"Spero veramente che tu abbia ragione. Al ballo dirò tutto a Terence, e sicuramente lui capirà", concluse la bionda, rasserenata dalle parole dell’amica.
 
Quella sera Iriza fece chiamare Dorothy, per avere notizie sulle modifiche al vestito, e si dimostrò contenta che non vi fossero stati problemi. Poi, si diresse allo scrittoio e ne aprì il cassetto, prendendo ciò che conteneva.
"Non voglio farlo, ma... perdonami Dorothy".
Si avvicinò alla cameriera e le mise al collo una splendida collana di perle scintillanti.
"Questo è il mio regalo, il tocco di classe; con questa al collo farai un figurone al ballo".
Dorothy, sbalordita, non riuscì a trattenere le lacrime e abbracciò la padroncina, convinta di aver trovato un’altra amica sincera.
 
 
 
 
 
 
 
*   nell’episodio 9 (Una meravigliosa festa da ballo) della serie TV.
** si ricordi l’episodio 45 (La festa di Iriza) della serie TV.
 
 


Ohibò, che sta succedendo?
 
 
 
 


 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Un quarto d'ora da incubo ***


Buona lettura



Capitolo 18
Un quarto d’ora da incubo
 
QUALCHE ORA PRIMA
 
Le ruote del carro di Tom cigolavano sul terreno sconnesso e facevano sobbalzare, di tanto in tanto, i due ragazzi, uno accanto all’altra, seduti a cassetta. Mentre Iriza pensava che viaggiare in auto fosse infinitamente più comodo, il ragazzo aveva altri pensieri in testa: sebbene Dorothy gli avesse parlato di un suo sensibile cambiamento, dovuto al suo misterioso corteggiatore e a una bambina orfana di cinque o sei anni, si sentiva a disagio a stare accanto a quella che tutti definivano come un’arpia (e, fino a poco tempo prima, la definiva così anche Dorothy); e comunque già era strano che lei si trovasse lì, sul suo carro! Tuttavia, vincendo tutte le sue remore, le rivolse la parola:
"Signorina Legan, se mi permettete, vorrei farvi una domanda".
"Ti permetto, ti permetto, Tom; chiedi pure e dammi del tu: non sono più abituata al voi".
Questa risposta, invece di rasserenarlo, lo impensierì ancora di più: anche lui non era abituato a quella Iriza.
"Preferirei continuare come sempre… perché mi avete invitato al ballo?".
Iriza, che non si aspettava quella domanda – pensava che un "garzone", invitato ad un ballo di gala, avrebbe dovuto accettare l’invito senza porsi troppe domande –, rispose, in parte mentendo:
"È una cosa che ha permesso la zia Elroy, di invitare persone estranee alla famiglia, una sua idea".
"Sì, ma perché io?".
"Ho pensato che tu meritassi un riconoscimento per il tuo lavoro da noi… ".
"Potrei anche trovarla noiosa, una festa del genere".
"Come potresti anche divertirti… dai vieni, e non farti tutte queste domande".
Tom, che non si capacitava di come fosse possibile parlare così "normalmente" con la "terribile" Iriza Legan, si arrese:
"Va bene, verrò, ma solo per curiosità".
Il resto del tragitto – erano quasi arrivati – lo trascorsero in silenzio.
Iriza smontò prima dell’ingresso in città, poiché non voleva essere vista su un carro, si spolverò e sistemò il vestito e si diresse verso la boutique di Madame Bourges. Nel momento in cui vi entrò, fu vista da una persona che si trovava da quelle parti per puro caso.
"Interessante… credo di poter indovinare cosa ci è andata a fare… e spero proprio di non sbagliarmi; però non credevo lo dovesse fare così presto", pensò Harrison.
Quando Iriza uscì dalla boutique, mezz’ora più tardi, vi entrò Harrison.
 
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
"Buongiorno sorellina", disse Neal, entrando nel salone.
"Buongiorno; e, come al solito, niente colazione? Neanche oggi? Guarda un po’ a che ora ti sei alzato", rispose l’interpellata.
"Non ne ho bisogno, mi tengo in forma... e che mi dici tu, che non prendi più il tè con noi nel pomeriggio?", affermò e chiese lui, che aveva pensato:
"E comunque non ho perso il mio tempo".
"Lascia stare...".
"Devo dirti due parole, ma non qui".
I due salirono nel salottino privato di Iriza e si accomodarono. Neal prese la parola:
"Hai dato la collana a quella serva?".
"Sì, gliel’ho data, tranquillo; le ho detto di non farla vedere a nessuno, fino al giorno del ballo".
"In pratica le hai detto di nasconderla... proprio come farebbe una ladra".
Alla parola "ladra", Iriza fece una smorfia e Neal se ne accorse.
"Comunque sei un genio, mia cara: anche un tuo vestito le hai dato! La nostra piccola Dorohty è proprio fregata! Neanche lo zio William, di fronte a cotante prove, potrebbe far nulla per salvarla".
"Già", fu la laconica risposta di Iriza, che poi volle sapere:
"Quando hai intenzione di agire?".
"Mah, sarebbe stato fantastico farlo al ballo, che lei partecipi o meno, ma non si può; meglio sfruttare l’assenza dello zio… lo farò domani".
"Già", rispose, per la seconda volta, Iriza.
"Sei stata brava, ma adesso te ne vai fuori dai piedi, non voglio correre rischi inutili", pensò Neal, guardando l’orologio che portava nel taschino.
Infatti, non ebbero il tempo di dirsi altro perché qualcuno bussò alla porta. Era Stewart.
"Signorina Iriza, un ragazzino ha portato un biglietto per voi".
La ragazza prese il biglietto e non si accorse del lampo che guizzò negli occhi del fratello.

Ho bisogno di vederti con urgenza. Ti aspetto alla Casa di Pony.
Harrison

Dopo aver letto queste due righe, Iriza, un po’ sorpresa del fatto che Harrison conoscesse quel luogo e che la aspettasse proprio lì, si rivolse al fratello:
"Ti saluto caro, devo andare".
Stewart s’intromise:
"Devo preparare l’auto, signorina?".
"No, no vai pure Stewart, farò una passeggiata".
"Perfetto, assolutamente perfetto", pensò Neal, mentre un ghigno di soddisfazione gli distorceva le labbra.
 
Harrison uscì dal suo alloggio, scese nella piccola hall della locanda e fu intercettato dal padrone di essa:
"Signor McFly, prima è passato un ragazzino e ha lasciato questo per voi".
Harrison lesse il biglietto che gli era stato porto:
 
Devo parlarti, vieni subito alla Casa di Pony.
Iriza

"La Casa di Pony? Come sa che io conosco quel posto e ci so arrivare? Beh, non era proprio lì che volevo andare, ma... andiamo a vedere. Ho l’impressione che si stiano avviando le danze...".

Elroy si stupì non poco, quando fu informata che la sua presenza era richiesta con urgenza alla villa dei Legan. Ordinò a Louis, il maggiordomo, di far preparare la vettura e si fece condurre dai Legan.
 
Candy si trovava nel suo appartamento a Chicago, quando qualcuno passò un biglietto sotto la porta; accortasi di quella mossa, la ragazza aprì la porta, ma non riuscì a scorgere l’autore del gesto; allora raccolse il biglietto e lo lesse:

Vieni a casa, amore, che ci divertiamo.
Per sempre tuo
Neal Legan

Sbiancata in volto, Candy si precipitò in strada e trovò Stewart ad attenderla.
"Mi hanno detto di venirti a prendere, Candy", esordì l’autista.
"Sai di che si tratta, Stewart?".
"No, il signorino Neal mi ha solo detto: oggi facciamo festa, vai a prendere l’orfana e portala qui, ti starà già aspettando. Odioso come al solito".
Candy salì in vettura e Stewart si diresse verso Lakewood.
 
Quando Iriza giunse alla "Casa di Pony" trovò effettivamente Harrison ad attenderla; le due direttrici dell’orfanotrofio si stupirono sia della visita dell’uno, che di quella dell’altra.
Iriza esordì con una battuta che Harrison non comprese:
"Ti piacciono tanto gli orfanotrofi, a quanto pare".
Poi, quasi contemporaneamente, si chiesero l’un l’altra quale fosse l’urgenza e, ancora quasi contemporaneamente, si risposero:
"Sei tu che mi hai scritto di venire qui".
Si mostrarono i bigliettini e pensarono – più lei che lui – ad uno scherzo, magari di qualche ragazzino dell’orfanotrofio. Decisero allora di salire sulla collina e si sedettero all’ombra del Grande Albero: lui poggiò i gomiti a terra e lei le mani, all’indietro, esponendo il viso alla leggera brezza che soffiava in quel mattino.
Harrison rimase a guardarla, incantato: era bellissima, con il venticello a scompigliarle i capelli e a farle chiudere gli occhi. D’un tratto, lui le chiese:
"Iriza, c’è per caso qualcosa che mi devi dire?".
Lei trasalì e rispose negativamente, mentre alla successiva domanda, "Ne sei sicura?", la risposta fu affermativa.
Allora lui proseguì, facendola trasalire nuovamente:
"Sai, quando ti ho vista per la prima volta mi hai colpito, ma poi, conoscendoti, ho pensato che tu fossi una ragazzina stupida, viziata e superficiale, che tratta tutti come pezze da piedi… invece ora, vedendo come ti comporti con Daisy, Dorothy, Stewart, che sono persone squisite, la mia opinione su di te è molto cambiata… dai vieni qui".
Iriza si lasciò abbracciare e provò la solita sensazione "elettrizzante", piacevole, calda… ancora una volta credette che fosse giunto il momento, quel momento, ma non accadde nulla: lui la strinse a sé, ma non la baciò e nemmeno tentò di farlo. In quel momento decise che non le importava, desiderava solo che quell’abbraccio, che la faceva sentire comunque accettata, amata e protetta, potesse durare in eterno.
"Non voglio perderti, Harrison, non voglio… ora so che non ho sbagliato… sì, ho fatto la scelta giusta".
L’arrivo di Suor Maria interruppe l’idillio.
"Scusate se vi interrompo ragazzi, ma oggi è accaduta una cosa strana e ho deciso di riferirvela".
"Non vi preoccupate Suor Maria, dite pure, non facevamo nulla di particolare", rispose Harrison, deludendo, in parte, la ragazza.
"Bene; prima vi ho sentito dire che avete ricevuto dei bigliettini che vi invitavano a venire qui… ebbene, anche Candy ne ha ricevuto uno che, a quanto pare, la invitava dai Legan. Lo so perché è passata di qua sulla vettura dei Legan, si è fermata, ci ha abbracciate e salutate, come se non dovessimo rivederci più, e poi è ripartita; nel farlo ha perso questo".
La religiosa consegnò loro il bigliettino perso da Candy. Iriza, dopo averlo confrontato con i loro, esclamò:
"Neal! Che significa? E che stupida, non ho neanche riconosciuto la sua calligrafia".
E poi pensò:
"Che fa, comincia senza di me? Non aveva deciso per domani?".
Suor Maria, sempre più preoccupata, chiese ai ragazzi se potevano andare a vedere cosa stesse accadendo; i due ragazzi accettarono la sua richiesta e salirono sulla vettura con cui era giunto Harrison, che ancora l’attendeva.

"Sarah, voglio sperare che si tratti veramente di un’urgenza, perché oggi ho tante cose da sistemare, in vista del ballo", esordì Elroy, accolta dalla signora Legan.
"Ne so quanto voi zia; forse mio figlio ci spiegherà".
Neal comparve nel salone e, salutata la zia, cominciò:
"È accaduta una cosa incredibile zia Elroy!".
Poi, rivolto a sua madre:
"Mamma, ricordi i misteriosi furti di qualche anno fa, quando decideste di spedire l’orfana in Messico? Tutti abbiamo pensato che ne fosse lei l’autrice, ma poi lo zio William l’ha adottata e ti ha... consigliata di scusarti con lei...".
"Un momento Neal", intervenne Elroy, "Credevo che questa storia fosse conclusa... e, quando parli di William e di Candy, vedi di portare più rispetto".
"Scusa zia", riprese il ragazzo, "Non volevo certo mancare di rispetto allo zio William; e anch’io pensavo che quella storia si fosse conclusa, ma...".
In quel momento giunsero Candy e Stewart e la signora Legan chiese spiegazioni:
"E tu che ci fai qui? Chi ti ha chiamata?".
"L’ho fatta chiamare io", spiegò Neal, "Per diversi motivi: intanto sappi, mia cara, che stavamo parlando dei furti di qualche anno fa e che finalmente oggi si potrebbe chiudere definitivamente quel capitolo; potresti essere definitivamente scagionata… forse".
"Che stai dicendo Neal? Che significa forse?", protestò Candy.
"Che anche se dimostrerò che è stata un'altra persona a rubare in passato, e che ruba ancora oggi, tu potresti averla coperta… potresti esserne complice; infatti è una tua cara amica".
"Non dire stupidaggini, che bisogno avrei di rubare ora che sono una Andrew?".
"All’epoca non lo eri ancora… e poi ho detto che forse la stai coprendo, dato che, ripeto, è una tua amica".
La signora Legan pensò:
"Bravo Neal, se hai scoperto qualcosa potrò rimangiarmi le scuse che William mi ha costretto a porgerle e liberarmi di lei, una volta per tutte".
Elroy intervenne:
"Neal, le tue sono accuse molto gravi; occorre provarle".
"Beh, venite a vedere", disse il ragazzo, prima di fare strada al piccolo corteo, al quale si aggiunse Stewart, verso gli alloggi dei domestici.
Durante il tragitto Neal si era accostato a Candy e le aveva sussurrato:
"Vedi che ti combino; ma se cambi idea, potremmo anche sistemare…".
"Scordatelo", gli aveva sussurrato in risposta, la bionda.
Giunti nell’ala della servitù, Neal li fece entrare nella camera di Dorothy, aprì il piccolo armadio e ne tirò fuori un vestito, di colore rosa acceso.
"Lo vedi mamma? Cos’è?".
Sarah esaminò il vestito e sentenziò:
"Questo è un vestito di Iriza, lo riconosco! Ed è pure costoso, una cameriera non potrebbe mai permetterselo… che ci fa qui, nell’armadio di Dorothy?".
"E te lo chiedi?", rispose il ragazzo, "Ieri ho visto Dorothy che se lo portava furtivamente in camera… tu, papà e Iriza eravate fuori, ma io c’ero e l’ho vista".
Candy trasalì.
"Un vestito? Ma non doveva essere una collana?".
Neal decifrò, osservando la sua espressione, il pensiero di Candy e le rispose, sempre col pensiero:
"Non ti preoccupare, siamo solo all’inizio".
"Sei sicura Sarah?", chiese Elroy.
"Sì, senza alcun dubbio questo vestito appartiene a mia figlia. Dov’è Dorothy? Stewart valla a prendere e portala qua. Immediatamente".
Uscito il maggiordomo, Candy espresse dei dubbi:
"Mi spieghi, Neal, che ci dovrebbe fare Dorothy con un vestito di Iriza? E poi mi sembra alquanto stupido nasconderselo in camera. Non ti pare?".
"E che ne so io? Forse voleva venderselo per farci qualche soldo... e poi si sa che i membri della servitù non brillano certo per intelligenza!".
La signora Legan osservò:
"La domanda che mi pongo io è un'altra: che ci fa un vestito di Iriza nell'armadio di una cameriera? Comunque la giriamo, cara Candy, il senso non cambia... tu sai rispondere?".

Stewart, che non poteva credere che Dorothy fosse una ladra, la trovò in giardino, con Tom:
"Dorothy vieni, la padrona ti cerca".
"Oh, è vero", rispose la cameriera, ignara di quanto stesse accadendo nella sua stanza, "Sono in servizio e me ne sto qui a chiacchierare. Devo andare Tom".
"No, no, non è per questo… è per una cosa molto più grave… sono tutti in camera tua, e c’è anche la signora Elroy".
Dorothy, agitatissima, si affrettò e Tom espresse il desiderio di accompagnarla, ma trovò l’ostacolo del maggiordomo che non voleva farlo entrare nella villa; allora lo spintonò via, dicendogli:
"Levati dai piedi tu".
Quando la cameriera raggiunse la sua stanza e vide la padrona con il famoso vestito in mano, chiese, guardando in volto, ad uno ad uno, tutti i presenti:
"Che… che sta succedendo qui?".
"Diccelo tu, Dorothy", rispose acidamente la signora, "Questo vestito è di mia figlia; come mai ce l’hai tu?".
Presa dal panico, la ragazza non seppe rispondere subito, dando l’impressione di essere colpevole di qualcosa, ma poi ritrovò un po’ di controllo:
"Me l’ha… me l’ha dato Iriza…".
"Questa non me la bevo, e perché te l’avrebbe dato? Devi partecipare al ballo forse?", intervenne Neal, ridendo.
"S-sì, esatto", balbettò la cameriera.
"Non dire idiozie sciagurata! Una cameriera a un ballo di gala? È semplicemente ridicolo, di’ che l’hai rubato, piuttosto", inveì la signora Legan, gettandole il vestito addosso, "E come ti permetti? Iriza? Per te mia figlia è la signorina Iriza. Tu sei una semplice cameriera e devi imparare a stare al tuo posto".
Spuntavano le prime lacrime negli occhi di Dorothy quando Neal, aperto un cassetto, tirò fuori una collana di perle e disse:
"Anche questa te l’ha data Iriza? Te l’ho vista al collo ieri, quando credevi di essere sola in casa".
"Vi prego, dovete credermi", balbettò la cameriera tra i singhiozzi, "è stata lei a…".
La signora Legan, che aveva riconosciuto la collana, presala per un braccio, strattonò la cameriera, facendola cadere in ginocchio, e urlò:
"Piccola svergognata! Come osi? Stai dicendo che mia figlia è una ladra? Quella collana è mia, credevo di averla persa… altro che Messico, tutto questo ti costerà il carcere!".
Candy, alla quale tutta quella scena pareva un incubo e le ricordava la sua disavventura di anni addietro*, assisteva impietrita; trasalì, quando udì un commento sussurrato da Tom:
"Dorothy… ma che hai fatto?".
La voce, potente ma calma, di Elroy si fece udire:
"Mi pare chiaro che questa cameriera abbia rubato, ma il coinvolgimento di Candy non è provato; sarebbe comunque una situazione diversa. Candy, hai qualcosa da dire?".
Queste erano le parole che Candy aveva sperato di sentire: la sua situazione sarebbe stata diversa. Infatti pensò di accusarsi di tutto e di scagionare l’amica:
"Dorothy è una cameriera e andrebbe in carcere, ma io faccio parte della famiglia: se mi accuso non chiameranno la polizia, faranno di tutto per evitare uno scandalo; al massimo sarò cacciata… dovrò dire addio ai miei amici e… forse anche Terence mi ripudierà, ma… non posso abbandonare Dorothy, non posso".
Sarah si fece consegnare la collana dal figlio, che ogni tanto lanciava occhiate di trionfo a Candy, e la mise in mano alla zia Elroy, come prova del reato; subito dopo tutti furono attratti dal trambusto che si udì nel corridoio: Harrison riuscì ad entrare nella stanza, mentre Iriza, che era più indietro, fu bloccata da Tom:
"Sono sicuro che tu c’entri qualcosa! Forse Dorothy ha commesso degli errori, ma tu sei una serpe, ci ero quasi cascato ieri".
"Lasciami passare", protestò, invano, Iriza, "Lasciami entrare, ti dico".
Solo l’intervento di Stewart, che trascinò via il ragazzo, permise ad Iriza di entrare nella stanza.
"Che sta succedendo qui? E tu che fai, lì in terra, Dorothy? Perché piangi? È il mio vestito quello?", chiese la nuova arrivata.
Candy fece un passo avanti e si accinse a parlare, ma sentì una forte stretta al braccio.
"Ormai ti conosco e so cosa vuoi fare; aspetta, fidati", le sussurrò Harrison all’orecchio.
Ancora una volta Candy si ritrovò a doversi fidare del misterioso ragazzo.
Sarah, spazientita, chiamò Stewart:
"Anche Iriza ha riconosciuto il suo vestito. Stewart, chiama la polizia".
"Ma signora non credo che…", protestò il maggiordomo-autista.
"Ti ho detto di chiamare la polizia; è un ordine, svelto!".
La potente voce della zia Elroy tuonò per la seconda volta:
"Aspetta Stewart, non ti muovere".
Elroy, rossa in volto, pareva un vulcano sul punto di eruttare e tutti, ammutoliti, rimasero in attesa di tale eruzione.

 
 
 
 
 
 
* nell’episodio 15 (Una decisione infelice) della serie TV.



Che cosa vuol dire Elroy? Forse non vuole la polizia e preferisce il Messico? In effetti uno scandalo a ridosso del ballo per Stear sarebbe un disastro...
 
 
 
NOTA: il flashback iniziale termina alla fine del paragrafo. Lo so, forse questa impaginazione non è il massimo, ma quel "Qualche ora prima" è legato al finale del capitolo precedente: cioè qualche ora prima della consegna della collana a Dorothy.

The Blue Devil










Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Ancora cinque minuti da incubo ***


Buona lettura



Capitolo 19
Ancora cinque minuti da incubo

L’eruzione del "vulcano" Elroy giunse improvvisa e dirompente:
"E questa cosa sarebbe?", urlò l’anziana matriarca degli Andrew, gettando via la collana, che andò a frantumarsi sul pavimento.  
"Se questo è uno scherzo è di pessimo gusto! Neal, esigo delle spiegazioni", proseguì la zia, mentre le perle rotolavano ancora.
Ognuno dei presenti, Sarah per prima, ne raccolse una e, nella sua mente si fece strada questo pensiero:
"Maledizione Neal, sei un idiota, un grandissimo idiota!".
"Ma... non capisco zia... che... ?", farfugliò il ragazzo, dalle labbra del quale era scomparso il ghigno diabolico che aveva esibito dall’inizio di quella riunione.
"Non capisci? Allora te lo spiego io: altro che perle, quelli sono comuni pezzi di vetro camuffati da perle! Quella collana non vale nulla e non è quella che regalai a tua madre! Che hai da dire, ora?".
La signora Legan tentò un’improbabile difesa:
"Zia, dovete scusarlo, è giovane... non sa distinguere delle perle dal vetro...".
"Anche tu non le sai distinguere?", chiese Elroy, che era lungi dall’essersi calmata.
"Ma... veramente non l’ho guardata bene, prima di consegnarvela... sembrava...", ammise la signora.
"Basta con le sciocchezze! Attendo ancora delle spiegazioni, ragazzo".
Neal, che era impallidito visibilmente, lanciò un’occhiataccia alla sorella e insistette:
"Ma il vestito, quello è vero, non è falso, ed è di mia sorella, vero Iriza?".
"Certo che è mio", disse Iriza, "È quello che ho prestato a Dorothy per il ballo! E adesso è tutto rovinato, guarda... dovrò farlo portare in tintoria; e la collana che ho fatto fare per lei da Madame Bourges... l’avete rotta".
Poi, da una sua tasca, saltò fuori una bellissima collana di perle.
"Sono queste le perle di cui parlavate prima? Mi dispiace mamma, l’ho presa senza chiederti il permesso... mi serviva per farne fare una copia... scusa, non credevo di causare tutta questa confusione".
La signora Legan, dopo aver esaminato la collana e averla consegnata ad Elroy, pensò:
"E da dove diavolo l’ha presa se nemmeno io la trovavo più?".
Elroy, constatata l’autenticità del gioiello, ma per nulla soddisfatta, sbottò:
"Mi avete fatto perdere l’intera giornata; comunque questa storia non finisce qui e me ne riporta alla memoria un'altra... riferirò tutto a William e a tuo padre, ragazzo. Tu, Iriza, la prossima volta che ti servirà qualcosa, farai bene a chiederla... e qualcuno dia una mano a quella povera ragazza a rialzarsi".
Tom fu lesto a farsi strada e a raggiungere Dorothy, che ancora singhiozzava inginocchiata sul pavimento, per confortarla; nel farlo aveva lanciato un’occhiata a Neal, che stava a significare:
"Questa te la faccio pagare, maledetto bastardo, non la passerai liscia come al solito".
Anche Harrison, che durante le spiegazioni di Iriza le aveva preso e stretto, ricambiato, una mano, lanciò un’occhiata al rampollo dei Legan, come a volergli dire:
"Hai perso, mio caro... di nuovo".
La signora Legan, come se si fosse appena accorta di quel che aveva udito da sua figlia, sbottò:
"E poi che significa, Iriza? L’abito, la collana... da quando invitiamo le cameriere ai balli?".
"Beh, la zia...", rispose la ragazza con un filo di voce.
"Non dire sciocchezze", ribatté la signora, "Una cameriera partecipa a un ballo solo per servire; e così farà anche Dorothy".
Elroy riprese la parola:
"Basta! Tua figlia ha ragione, ho dato io il permesso: ormai sono abituata alle stravaganze dei miei nipoti; non pensavo invitasse una cameriera, ma, alla luce di quanto accaduto oggi...".
Poi, rivolta a Dorothy, proseguì:
"Visto che non lo fa nessuno, lo faccio io: cara, ti porgo le scuse a nome di tutta la famiglia e ti dispenso dal servizio per il resto della giornata". E lanciò occhiate di disapprovazione a Sarah e a Neal, prima di avviarsi.
Dorothy la ringraziò per le scuse e Candy, che aveva tirato un sospiro di sollievo e che si era molto stupita del comportamento della zia Elroy e di Iriza, avanzò verso Neal e gli disse:
"Che fai ancora in questa stanza? Adesso te ne puoi anche andare, la tua presenza qui non è gradita".
Neal, umiliato e sconfitto, per la seconda volta in pochi giorni, uscì dalla stanza di Dorothy, andando dietro a sua madre che, a sua volta, correva dietro alla zia Elroy tentando di calmarla.
Iriza, Candy, Harrison e Tom, uscirono dalla stanza della cameriera, con la quale si scusò anche Stewart per aver dubitato di lei, e Tom si rivolse ad Iriza:
"Vi devo delle scuse, signorina, e spero di non avervi fatto male, prima".
"Non ti preoccupare Tom, non è niente, solo un piccolo livido".
Anche Candy, mentre Tom, rientrato nella stanza di Dorothy, si univa a Stewart per confortare la cameriera, si rivolse ad Iriza:
"Iriza, non so cosa stia accadendo, ma... ti ringrazio per aver aiutato Dorothy".
"Non l’ho aiutata, ho solo detto la verità", fu la risposta stizzita della ragazza, che poi pensò, stringendosi ad Harrison:
"Ho solo capito che, se avessi scelto diversamente, ti avrei perso... ma temo che ti perderò ugualmente".
Iriza salì in camera sua; Candy e Harrison rimasero da soli.
"Ma tu come facevi a sapere... ?", chiese la ragazza.
"Della collana e del ricatto di Neal? Sai, gli ubriachi parlano troppo...".
Candy non fece caso a quella risposta e precisò:
"Intendevo: come facevi a sapere che Iriza avrebbe detto la verità, come ha affermato lei stessa?".
"In realtà, non lo sapevo, ma lo speravo", mentì il ragazzo, per non dover dare troppe spiegazioni; lui era stato da Madame Bourges...
La ragazza, prima che lui decidesse che la sua presenza non fosse più necessaria, gli fece un’ultima domanda:
"Ma tu, Harrison McFly, chi sei realmente?".
"Lo sai, te l’ho già detto: sono un amico di Terence".
 
Iriza fece entrare Harrison nella sua stanza e gli si gettò tra le braccia, piangendo.
Lui, accarezzandole dolcemente i capelli, le sussurrò:
"Ero sicuro che avresti deciso per il meglio; ma ora perché piangi?".
"Sarà la tensione accumulata", rispose lei, alla quale non era sfuggita la prima frase di lui, "Ma tu non potevi sapere...".
Resosi conto di aver detto una cosa che non doveva dire, Harrison tentò di correggersi, per poi cambiare discorso:
"Infatti non lo sapevo... ti ho vista entrare da Madame Bourges e così, per curiosità, ci sono entrato anch’io; saputo che avevi ordinato una copia fasulla di una collana preziosa, ho immaginato... poi, alla Casa di Pony, quando hai riconosciuto la calligrafia di Neal sui falsi bigliettini, ho avuto conferma che ci fosse sotto qualcosa. Sai, quando ti ho abbracciata, ho sentito che avevi in tasca qualcosa che pareva proprio una collana... Devi andare da lei: ha diritto a delle spiegazioni".
"Io... ho paura. E se non capisse?".
"Capirà, capirà, sono sicuro che troverai le parole giuste; va’ da lei", concluse lui, dandole un bacio sulla guancia, trasformandola, per colore e calore, in un sole al tramonto.
"Beh, meglio che niente", pensò Iriza, prima di rispondergli:
"Hai ragione Harrison, Dorothy ha diritto a delle spiegazioni".
 
"Zia, non credo sia necessario parlarne con William, parlerò io con Raymond...", esordì la signora Legan, che aveva seguito Elroy fino alla sua residenza.
"Dici? Qui non si tratta di una ragazzata! Si stava parlando di furti, di prigione e tuo figlio è abbastanza grande per capirlo".
"Cercate di essere comprensiva...".
"Tralasciando il fatto che, con tutto quello a cui devo pensare, mi avete fatto perdere quasi un’intera giornata, qui non si tratta neanche di essere comprensivi; ed inoltre a me sembra che accusare di furto gli altri sia di moda in questa casa... se poi consideriamo che tali accuse si rivelano sempre infondate".
Sarah, che non sapeva più come uscirne, azzardò:
"E se Neal vi chiedesse scusa...".
"Sarah, ho deciso, William sarà informato".
A questo punto, la signora Legan perse il controllo e sbottò, bloccandosi quasi subito:
"È tutta colpa di quella... se William non...".
"... l’avesse adottata?", le terminò la frase Elroy, "Attenta Sarah a non mancare di rispetto a mio nipote".
"Intendevo dire che dalle orfane ci si può aspettare di tutto e il prozio...".
Ancora una volta Elroy la incalzò:
"Continua cara, finisci la frase che m’interessa! Manca ancora di rispetto al capofamiglia".
La signora Legan si zittì e abbassò il capo, così Elroy concluse:
"Finiamola qui, ormai ho deciso: William sarà informato dell’accaduto ed è meglio che tu vada; non mi pare che le tue giustificazioni stiano migliorando la posizione di tuo figlio".

"Neal, sei un idiota! Parlarne con me prima no, eh? Per colpa tua mi sono dovuta umiliare davanti alla zia Elroy! Tu e tua sorella e la vostra dannata mania di fare i colpi di scena!", sbraitò la signora Legan, rivolta al figlio.
"Mia sorella...", pensò lui, prima di rispondere:
"Mamma, ma che ne sapevo io che la collana era falsa? E che quella aveva fatto fare una copia?".
"E allora se non lo sapevi, e non sei capace di distinguere il vetro dalle perle, non dovevi fare niente e dovevi parlarne con me. E poi, fammi capire, da dove è saltata fuori la collana autentica? Da quanto ce l’avevate voi? Era da tanto tempo che non la trovavo più".
"Beh... sai...", farfugliò il ragazzo.
"Lascia stare, non importa, non voglio saperlo. Ora tuo padre sarà furioso, ma il vero problema è William: non oso pensare a cosa potrebbe fare... Ascoltami bene Neal: basta, basta con le sciocchezze! Ti è tanto difficile comprendere che in questo momento dobbiamo stare tranquilli e non irritare lo zio? Ti ordino di finirla, almeno per adesso, ne hai combinate anche troppe. Comunque ho notato che tu e tua sorella non andate più tanto d’accordo, e la cosa non mi piace".
"Ah, per questo c’è un motivo e se vuoi te lo spiego", sibilò Neal, nei cui occhi balenarono ancora i "lampi del demonio".
 
Dorothy e Iriza ora si trovavano una di fronte all’altra; Candy aveva appena lasciato l’amica; la cameriera, con gli occhi ancora arrossati dal pianto, esclamò:
"Tu... tu lo sapevi? Perché Iriza, perché?".
"Io... perdonami, non doveva andare così, ma volevo dare una lezione a Neal e non credevo agisse oggi: mi aveva detto che l’avrebbe fatto domani".
Dorothy avanzò di un passo verso la padroncina e le diede uno schiaffo, prima di essere accolta tra le braccia dell’altra, scoppiando a singhiozzare.
"Hai ragione Dorothy, colpiscimi, picchiami; me lo merito, ma mi devi credere se ti dico che io non ti avrei mai fatto del male", disse Iriza, lanciando un’occhiata al maglioncino per Daisy, "Come avrei potuto? Come, dopo tutto quello che stai facendo per me? Tutto questo non doveva accadere".
E scoppiò in lacrime anche lei, accarezzandole i capelli.
Quando si furono calmate, Dorothy sussurrò:
"Non credo che partecipare al ballo sia una buona idea".
Iriza la sgridò:
"Non dire sciocchezze! Tu ci sarai e ci sarà anche Tom: hai sentito la zia Elroy? Doveva essere una sorpresa per lui, ma ora rimarrebbe deluso se tu non ci fossi".
"E perché gli dovrebbe far piacere la mia presenza? Mi ha detto che ha dubitato di me anche lui".
"Sciocchezze anche queste: hai visto come si è precipitato a sorreggerti e consolarti? È stato l’unico a farlo. I suoi dubbi son durati due secondi, infatti se l’è presa subito con me".
Iriza le mostrò il livido e proseguì:
"Farò pulire il vestito e rifare la collana: sarai bellissima. E poi hai imparato a danzare, sarebbe un peccato rinunciare, con tutta la fatica e i sacrifici che hai fatto per imparare; e che ho fatto io per insegnarti".
"Iriza... io non ti riconosco più", esclamò la cameriera, gli occhi ancora lucidi.
"Neanch’io", mormorò la padroncina, "Ma quanto potrà durare?".
Iriza non si sbagliava: la sua felicità, forse era già stata compromessa...













CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Capitolo più corto del solito (in linea con quelli dell’altra Long), ma penso non vi sia altro da aggiungere qui...
L’intuizone di briz65 si è rivelata esatta.


The Blue Devil























Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Due o tre cose prima di danzare ***


Leggete con attenzione l’avviso a piè di capitolo DOPO aver letto il capitolo.
Buona lettura




Capitolo 20
Due o tre cose prima di danzare
 
La festa ebbe inizio.
Tutto era perfetto e la zia Elroy era pienamente soddisfatta e sorridente, mentre, insieme a Sarah, riceveva gli ospiti, che erano veramente numerosi. La zia aveva stabilito che ai gentiluomini fosse consentito l’ingresso anche se soli e che le dame dovessero essere obbligatoriamente accompagnate da un gentiluomo.
Stewart, "prestato" agli Andrew per l’occasione, e Louis, in abito da cerimonia, posizionati all’angolo sinistro – per chi entrava – dell’ingresso del salone, annunciavano l’arrivo degli ospiti: il primo dava un colpo a terra con un bastone da cerimonia, al presentarsi sulla soglia di una coppia o di un singolo gentiluomo; il secondo, munito di lista, ne annunciava l’ingresso. Inutile dire che si sentivano due deficienti: neanche si fossero trovati alla Reale Corte Britannica!
Albert, sapendo che Candy non avrebbe avuto un accompagnatore, dato che Terence Graham avrebbe accompagnato Susan Marlowe, le aveva offerto il braccio, ma era stato battuto sul tempo dal signor Brown; era stato, però, ben felice di dare il braccio a Patricia O’Brien.
Neal, secondo i piani di Sarah, avrebbe dovuto dare il braccio a sua sorella, ma, né lui, né Iriza, avevano accettato quella decisione; ci aveva pensato Raymond, il padre dei due, a risolvere la faccenda, offrendo il braccio alla figlia, dato che sua moglie era stata incaricata di fare gli onori di casa, affiancando l’anziana prozia e la signora Cornwell.
Annie Brighton, naturalmente, si presentò al fianco del fidanzato, Archibald Cornwell.
E Dorothy? L’accompagnatore di Dorothy era una cosa alla quale Iriza non aveva pensato. Fino all’ultimo, la signora Legan, aveva sperato che Dorothy non riuscisse a trovare un accompagnatore e che quindi rimanesse esclusa dalla festa e dal ballo, ma, la sua decisione di separare Iriza da Harrison, diede a quest’ultimo l’opportunità di prestare il braccio alla dolce cameriera.
Neal Legan e Tom Steve fecero il loro ingresso da soli: tutti e due si presentarono con qualcosa di strano, ma fu la stranezza del secondo ad attirare l’attenzione, scatenandone le ire, del primo.
Ma come si era giunti a ciò? Perché Harrison e Iriza non si erano presentati in coppia? Che cosa aveva fatto infuriare Neal? Andiamo a scoprirlo...
 
 
QUALCHE GIORNO PRIMA
 
"È inaudito quello che mi stai dicendo! Un orfano? Quel bel giovane, dai modi così gentili, sarebbe un orfano? Ma ne sei sicuro, o è un’altra delle tue diavolerie per punire tua sorella per il fatto che non ti abbia difeso ieri?", sbraitò la signora Legan, al colmo dello stupore.
"No, mamma, è tutto vero. E per cosa dovrei punire mia sorella? Tutta questa faccenda di Dorothy è stato un mio errore; pensavo veramente che avesse rubato quegli oggetti: mi sono sbagliato, tutto qui", rispose Neal.
"Lo sai che non te la caverai così, vero? Ma torniamo al signor McFly: come fai a sapere che è un orfano? Iriza lo sa?".
"Certo che lo sa, gliel’ha detto lui stesso! Io lo so perché ho sentito Archie parlare di questo con Harrison stesso".
Neal raccontò alla madre quello che aveva appreso dal colloquio tra Archie e Harrison, che lui aveva origliato. Alla fine lei non si trattenne:
"Un orfano! E ha portato mia figlia in un orfanotrofio? A conoscere una bambina, un’altra Candy? Spero si sia lavata bene dopo... mio Dio, non sai quante malattie si possono prendere in quei posti! Adesso capisco perché nessuno lo conosce quel tipo. E mi ha pure baciato la mano! Che schifo!", e fece l’atto di pulirsi la mano.
Neal rimase in silenzio; si stava divertendo un mondo ad ascoltare le invettive della madre.
"Non ci bastava Candy? Ci voleva anche quest’altro orfano adesso? E Iriza? Ma che sta combinando? È impazzita? Eh, ma ora mi sente".
A questo punto Neal la interruppe:
"No, mamma, aspetta; l’hai detto tu che è meglio non provocare ulteriori scandali proprio adesso. Aspetta che passi la festa per il cugino e poi ci penseremo".
"Sì, hai ragione, ma non posso permettere che mia figlia si presenti davanti a tutta la famiglia accanto ad un... ad un pezzente! Parlerò con William...".
"Non ti conviene: lo sai che allo zio William piacciono gli orfani; basterà inventarsi qualcosa con Iriza e convincerla a non affiancare quello lì. Tu e papà ne avete l’autorità e penso proprio che Iriza non vorrà rovinare la festa, impuntandosi su questa cosa".
"Bene", sentenziò la signora, "Vorrà dire che sarai tu ad accompagnare tua sorella".
"Non se ne parla nemmeno! Io, quella, non la porto da nessuna parte".
A Sarah quella risposta non piacque affatto.
"Quella è tua sorella; l’ho detto che mi pare non andiate più d’accordo. Ne riparleremo. Ora va’, figliolo, che devo affrontare tuo padre".
 
Annie e Patty furono contente di sapere che l’affare della collana si fosse concluso positivamente con il fallimento del piano di Neal, sebbene la prima fosse un po’ gelosa di Dorothy.
Candy, pur angosciata dal comportamento di Terence, sembrava molto più sollevata e serena: aveva mandato dei messaggi al suo "fidanzato", ma lui le aveva fatto rispondere evasivamente; si era presentata alla sua compagnia, ma lui non s’era fatto trovare. Come faceva a dirgli la verità se non riusciva ad incontrarlo?
"Che fretta c’è? Tanto siamo fidanzati, no? L’hai detto tu. Ci vedremo al ballo", era il messaggio ironico che Susan le aveva riferito per suo conto.
Ma ora, Annie e Candy, avevano un altro problema: Patty e Stear. La ragazza, era triste e non capiva per quale motivo lui non la volesse ancora incontrare; lui, faticosamente, circondato dall’affetto dei suoi cari, si stava reinserendo nella famiglia. Tutta la gioia che Patty aveva provato nel saperlo vivo, si stava tramutando in paura di perderlo ancora.
Annie, vedendola giù, le disse:
"Hai bisogno di uscire, di distrarti, startene chiusa qui in casa non serve a nulla. Vieni con me alla Casa di Pony, stare un po’ con Candy ti farà sicuramente bene; mi ha detto che ha notizie importanti".
Seppur riluttante, Patty accettò l’invito, pensando che, in fondo, l’amica avesse ragione; così, le due ragazze, si avviarono. Giunte all’orfanotrofio, Candy disse loro:
"Vi devo parlare, ma non qui; andiamo al Grande Albero sulla collina; prima, però, devo sistemare alcune cose dei bambini e mi serve il tuo aiuto, Annie; Patty si può avviare".
"Posso darvi una mano, se volete", intervenne Patty.
"No, sei mia ospite; ci sbrighiamo subito, ti farà bene l’aria della collina; tu va’, che noi arriviamo", rispose Candy.
Patty s’incamminò a capo chino, pensierosa, e si rese conto di essere arrivata quando vide la base del Grande Albero; alzò lo sguardo e rimase pietrificata, sentendo un tuffo al cuore: lui era lì, in piedi, con le mani in tasca, a guardare la vallata; le volgeva le spalle, ma si accorse dell’arrivo di qualcuno, dietro di lui. Senza voltarsi, parlò:
"Sai Candy, questa collina è meravigliosa e la vallata lo è ancora di più; quest’aria pulita ti riempie i polmoni e ti fa sentire vivo; hai fatto bene ad invitarmi qui; ora mi sento più forte".
Udire quella voce – musica per le sue orecchie –, che aveva temuto di non poter più sentire, le provocò un altro sconquasso interiore. Lui si voltò lentamente e, quando la vide, provò le medesime emozioni.
"Patty...", sussurrò lui.
"Stear...", gli fece eco lei.
Rimasero a guardarsi senza avere il coraggio di dire o fare alcunché, finché Patty non fece un passo verso di lui... poi un secondo, e un terzo, fino a ritrovarglisi a pochi centimetri; anche Stear aveva fatto un paio di passi incerti. Gettarsi e stringersi, l’una tra le braccia dell’altro, in lacrime, fu l’affare di un secondo. Patty singhiozzava sul petto dell’amato, che le accarezzava dolcemente i capelli; d’un tratto lei sollevò la testa e lo sguardo e si tolse gli occhiali, sussurandogli:
"Togliti gli occhiali...".
Il bacio appassionato che seguì, forse il primo di quella intensità tra loro, durò a lungo e fece commuovere Candy ed Annie, che avevano osservato tutta la scena da lontano.
"Abbiamo fatto proprio un bel lavoro", si dissero, raggianti di gioia.
Su Candy, però, calò un velo di malinconia, al pensiero del suo incontro con Terence di qualche tempo prima e della loro situazione attuale. Ma la gioia di vedere Stear e Patty, finalmente riuniti, era superiore.
Poi seppero che Stear aveva avuto paura di incontrare Patty, poiché temeva che lei non lo amasse più e che, soprattutto lui stesso, non fosse più capace di amarla, come lei meritava; ma, nel momento in cui l’aveva vista, aveva capito che la sua vita non avrebbe avuto più un senso senza di lei e aveva percepito che la cosa era reciproca.
Tutti, però, compresero quanto fosse lunga e tortuosa la strada del completo recupero del ragazzo.
 
Neal, la sera precedente al giorno della festa e successiva al rientro di Albert, passeggiava nervosamente nella sua stanza, col solito bicchiere di whiskey in mano; sua madre nel pomeriggio lo aveva informato di quanto accaduto nel corso della giornata. Questo è quanto si dissero:
"Neal, tuo padre e lo zio William sono stati informati dalla zia Elroy della tua impresa dell’altro giorno".
"Non ha perso tempo quella vecchia arpia a dirlo a tutti", pensò lui.
"E c’è una cosa che mi ha colpito: mentre tuo padre era furioso, ma ha rimandato ogni discorso a dopo la festa, lo zio è parso tranquillo. Capisci? Non ha dato in escandescenze, come ci si poteva aspettare, e forse questo ha indotto tuo padre a non affrontarti subito. Ma, credimi, è davvero arrabbiato con te".
"Beh, quando gli avrò parlato di una certa cosa, sicuramente cambierà idea", fu il secondo pensiero di Neal.
La madre proseguì:
"Gli ho parlato anche di Harrison McFly e, come mi aspettavo, è d’accordo con noi: un’orfana in famiglia basta e avanza; ma, anche in questo caso, rimanderà il discorso".
"Ecco una buona notizia", fu il terzo pensiero del ragazzo, "Ben ti sta, cara sorella".
Se ne stava lì, nervoso, a bere e a rimuginare su questi avvenimenti, quando un rumore lo distolse dai suoi pensieri: un sasso aveva colpito il vetro della sua finestra, come quando un innamorato vuol far affacciare la sua bella; ma, dato che lui non era una "bella" e quindi non aveva alcun innamorato, Neal decise di scendere a controllare, non avendo scorto nessuno nel giardino. Prima di uscire, si munì di bastone. Essendosi guardato intorno e avendo constatato che, effettivamente, in giardino non vi fosse nessuno, si voltò per rientrare; in quel momento si sentì afferrare per una spalla da qualcuno che lo fece girare quel tanto che bastò per dargli un colpo sul braccio e fargli cadere di mano il bastone, prima di abbatterlo con un tremendo diretto al volto; poi, l’ombra che lo aveva colpito lo ritirò su, afferrandolo per il colletto della camicia, e lo fissò negli occhi, prima di colpirlo ancora, stavolta allo stomaco; ancora un paio di calci nel costato, con Neal a terra piegato dal dolore, e l’ombra si dileguò nel buio della notte.
Dato il buio e il viso coperto, Neal non era stato in grado di riconoscere il misterioso assalitore.
 
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
Candy, che lanciò un’occhiata a Stewart, come a dirgli "Non prendertela, dai che stai bene così", e il signor Brown furono tra i primi a varcare la soglia del salone e quando giunsero Patty e Albert, Candy fu lieta di vedere l’amica finalmente sorridente. Il giorno prima Elroy, nel suo salotto privato, aveva "presentato" Stear ai membri più importanti delle famiglie legate agli Andrew e lui aveva voluto accanto le due persone che, eccettuati i familiari più stretti, reputava più importanti in quel momento: Patty e Candy.
All’ingresso di Terence e Susan, Candy, pur sapendo di poter contare sulla lealtà della seconda, sentì una stretta al cuore, mentre l’arrivo di Harrison e Dorothy, suscitò in Sarah, che aveva evitato di accogliere le persone a lei non gradite, lasciando tale incombenza ad Elroy e alla signora Cornwell, questo pensiero:
"Che bella coppia! Un orfano e una cameriera! E pretendeva di accompagnare mia figlia!".
Tom e Neal entrarono per ultimi: Neal aveva il naso, evidentemente rotto, incerottato e un paio di lividi sul volto, e camminava tenendosi un fianco; Tom si presentò con una vistosa fasciatura alla mano destra. Quest’ultimo particolare fece infuriare Neal che capì l’identità del misterioso assalitore notturno.
Fatti pochi passi, Neal fu affiancato da Archie:
"Che hai fatto al naso, cugino? Sei andato a sbattere da qualche parte? Non sapevo che i serpenti si potessero rompere il naso... e poi cammini in modo strano... ah no, aspetta, ti trascini come i serpenti!".
"Levati dai piedi, tu", rispose il rampollo dei Legan.
"Comunque sei carino così, sai? Meglio che col naso intero", rise Archie, incalzandolo.
Saggiamente Annie trascinò via il fidanzato, evitando che la discussione degenerasse in qualcosa di più violento, anche se l’attenzione di Neal era stata catturata da una persona presente tra gli invitati.
"Il banchiere Bowman di New York? E che ci fa qui?", pensò.
Ad un certo punto si presentò Stear, bellissimo nel suo completo scuro, che subito monopolizzò l’attenzione di tutti: ma lui voleva solo Patty e a lei riservò il primo ballo.
Albert, rimasto senza dama, aprì le danze con Candy che non tolse gli occhi di dosso alla coppia Terence-Susan per tutta la durata del primo valzer.
Susan, che aveva accettato di partecipare al ballo – oltre che per aiutare Candy – per potersi stringere a Terence per un’ultima volta, disse al suo compagno di ballo:
"Hai visto? Mi hanno riconosciuta in pochi... te l’avevo detto. Secondo me mi hai voluta qui al ballo solo per far dispetto a Candy... di’ la verità".
"Ma che dici? Pochi o tanti, l’importante è che ti abbiano riconosciuta, e la notizia farà il giro di Chicago e poi...", attaccò l’attore.
"Sì e poi il giro del mondo! Ma va' là", gli concluse la frase lei.
Per Candy fu difficile accostarsi a Terence, così come lo fu per Harrison con Iriza.
Harrison, perciò, si accostò ad Albert.
"Bella festa, eh? Tua zia li sa organizzare bene questi eventi e devo dire che Stear è proprio come lo immaginavo; ci ho parlato prima e, sinceramente, lo preferisco al fratello".
"Beh, l’importante è che stia bene... è molto maturato, mentre Archie è sempre un po’ troppo impulsivo".
Harrison, sorseggiando una bevanda leggermente alcolica, proseguì:
"Hai saputo della collana? Perché ti vedo stranamente tranquillo".
"Certo che ho saputo, ma, sapendoti qui a controllare... e poi ho notato che ci ha già pensato qualcuno a dare una lezione al mio caro nipote", rispose Albert, imitando l’amico.
"Che intendi dire?".
"A quale parte della mia affermazione ti riferisci?".
"Ovviamente alla prima; si capisce chi ha sistemato Neal".
"Che tu ne sai più di quel che dai a intendere, caro Harrison... e non mi riferisco alla collana".
"Forse...".
Dopo alcuni istanti di silenzio, Albert chiese:
"A che punto sono le tue indagini?".
"Già. Mi chiedevo quando me l’avresti chiesto... tu e Terence avete passato gli ultimi tempi a darmi ultimatum e poi non mi avete più chiesto nulla...".
"Sto rimediando, mi pare", spiegò Albert, per poi aggiungere:
"La festa procede bene, tutti, o quasi, si stanno divertendo. Vieni un po’ nel mio studio, che voglio mostrarti una cosa interessante".
Giunti nello studio, Albert chiuse la porta, dopo aver detto a George che non volevano essere disturbati per nessun motivo, e fece accomodare l’amico; poi tirò fuori un documento da un cassetto e lo porse a Harrison:
"Sai cos’è questo?".
"No", rispose Harrison, prima di esaminarlo. Quando l’ebbe fatto, esclamò:
"Cribbio! Una copia dell’atto di proprietà dei famosi terreni di quel Cartwright!".
"Esatto. Mi è arrivato già da tempo".
"E c’è anche il nome dell’acquirente, vedo", esclamò ancora Harrison, "Ma come hai fatto?".
"Eh, George è molto efficiente, oltre che estremamente leale. Dove non sono arrivate le tue indagini è giunto lui. In effetti sono partito per New York proprio per questo".
"Immagino che adesso vorrai delle spiegazioni del tipo: cos’hai fatto in tutto questo tempo invece di indagare?".
"Sì... mettiamola così".
"Mettiti comodo allora, perché la storia è un po’ lunga... e complicata".
"Sono tutt’orecchi".
 


 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Io mi sono divertito a scriverlo e voi a leggerlo?






ATTENZIONE, IMPORTANTE:

Nei prossimi capitoli l’autore svelerà importanti particolari per la comprensione dei quali si renderà necessario rileggere alcune parti di capitoli precedenti; niente paura perché l’autore indicherà gli eventuali rimandi.
Nel capitolo in cui si saprà il tutto, l’autore nella risposta alla prima recensione che riceverà, fornirà chiarimenti e spiegazioni, questo per non dover scrivere troppe risposte in fotocopia. Comunque, se qualcuno dovesse avere ulteriore bisogno, potrà ugualmente chiedere lumi nelle proprie recensioni.
Grazie per l’attenzione
 
The Blue Devil

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Gelosie ***


Quando scriviamo o leggiamo una storia, tendiamo ad immedesimarci in alcuni personaggi e va bene; ma tendiamo anche a farli ragionare e agire come faremmo noi, cioè li trasportiamo nel nostro tempo, e questo non va bene. Lo dico perché se trovate che certe situazioni o atteggiamenti siano al limite, dovete sempre tener presente l’epoca in cui si svolgono i fatti narrati (es.: dare del "voi"– e non del "lei"– anche tra parenti stretti, era cosa normale). In questo capitolo, poi, ho recuperato un personaggio, una mia creatura, che amo moltissimo e che, chi mi segue da più tempo, non farà fatica a riconoscere. Spero di aver fatto cosa gradita. Vi ho tediato abbastanza, per cui:
Buona lettura
 
 
 
Capitolo 21
Gelosie
 
Quando Albert e Harrison rientrarono nel salone tutto pareva tranquillo. Tutti gli ospiti si stavano divertendo, volteggiando sulle note di un valzer, eseguito dalla piccola orchestra ingaggiata dalla zia Elroy per l’occasione, tranne uno: Neal Legan. Il ragazzo era nervoso e il suo atteggiamento attirò l’attenzione di Albert, che si rivolse all’amico:
"Guarda lì; il nostro amico mi sembra nervoso, ha abbordato il banchiere".
"Già", osservò Harrison, "Il banchiere Bowman di New York. L’hai invitato tu? Bel colpo".
Bowman era tra i maggiori finanziatori degli affari delle famiglie Andrew e Legan e non si poteva non invitarlo ad una festa del genere, spiegò Albert.
"Io dico che non l’hai invitato solo per questo, e il nervosismo di Neal me lo dimostra", rise Harrison, ironico.
Un sorrisetto, altrettanto ironico, fu la risposta del capofamiglia che, intanto, si era servito un cocktail.
"Invece penso che tua nipote ti stupirà ancora. In senso positivo".
"Che intendi dire?", chiese Albert, curioso, "È già tanto quello che mi hai raccontato su di lei, quasi da non crederci".
"Aspetta e vedrai. Ora, se permetti, ti lascio", disse Harrison, "Vedo se riesco a recuperare la mia dama".
 
Annie, appena riuscì ad avvicinare Tom, notò subito la sua mano fasciata e chiese spiegazioni. Tom le spiegò che si era ferito lavorando, ma Annie si dimostrò dubbiosa:
"Senti Tom, non sono stupida; ho visto la faccia di Neal e ora la tua mano; non sarà mica che... ?".
"Neal? L’ho visto anch’io il suo brutto muso rattoppato e ti dico che, ottuso com’è, sarà andato a sbattere contro qualche porta... ce ne sono tante nella sua grande villa".
"Lo sai che non amo la violenza", protestò la ragazza.
"Balliamo?", tagliò corto lui, afferrandola e coinvolgendola nel valzer.
Mentre danzavano, Annie pensò:
"Nessuno ha mai picchiato qualcuno per me e lui ha affrontato Neal per Dorothy! Che romantico! Forse questo significa che...".
Terminata la danza, Annie prese per mano l’amico e lo portò in un angolo appartato; tentò di baciarlo, ma lui la bloccò.
"Annie?".
"Cosa c’è fra te e Dorothy?", gli chiese a bruciapelo.
Il lieve rossore che colorò le gote del ragazzo non ebbe bisogno di ulteriori commenti, anche se lui rispose:
"N-niente... che vai a pensare?".
"Proprio come pensavo; ti piace così tanto?".
"Annie...", cominciò Tom, visibilmente imbarazzato, senza riuscire a dire altro.
"Quando ti ho rivisto, dopo tanto tempo, mi sono emozionata: non so cosa mi sia preso, ma la tua gentilezza, la freddezza di Archie... ho creduto che...".
"No Annie", la bloccò lui, che aveva ripreso il controllo di sé, "fermati; tu per me sei come una sorella: ti voglio un mondo di bene e sarò sempre gentile con te; ci sarò sempre se avrai bisogno e picchierò chiunque vorrà farti del male, se sarà il caso; ma ti vedrò sempre come una sorella. Mi dispiace, mi dispiace davvero se hai equivocato".
Annie si sentì stranamente sollevata: era come se si fosse tolta un peso dal cuore, che non l’aveva lasciata respirare. Si rese conto della follia che l’aveva ghermita e che il suo unico amore fosse sempre Archie; doveva fare di tutto per salvare il loro rapporto che, negli ultimi tempi, sembrava essersi deteriorato.
"Se devo essere sincera, sono stata un po’ gelosa, ma ora capisco che anche Dorothy ti vuole bene e, in fondo, mi piace: è una brava persona, soprattutto onesta".
"Mi fa piacere che tu lo pensi", commentò il ragazzo.
"E sappi che anche tu, per me, sarai sempre mio fratello".
La ragazza sospirò, si alzò sulle punte dei piedi, gli circondò il collo con le braccia e gli diede un innocuo bacetto fraterno, mormorando:
"Grazie Tom; grazie per essere stato sincero e per avermi aperto gli occhi; ti auguro tanta felicità con la tua Dorothy".
Un rumore di vetri rotti li fece voltare: era un bicchiere che si frantumava al suolo dopo essere caduto di mano a Dorothy.
 
Candy non ce la faceva più a vedere quei due così appiccicati, stava morendo di gelosia ed era decisa ad andare a dirgliene quattro. Ma Patty la bloccò:
"No, Candy, non devi dargliela vinta".
"Ma non vedi come se lo stringe quella? E lui... che cascamorto! Siete state tu ed Annie a ripetermi che devo parlargli. E adesso?", protestò la bionda.
"Sì, ma non così", pensò Patty, prima di risponderle:
"E tu non vedi che lo fa apposta per suscitarti queste reazioni? Sono sicura che Susan ci sorprenderà. Dammi retta".
"Se lo dici tu... me ne starò tranquilla per un po’, ma se va avanti così, ancora per molto, vado lì e li uccido".
"Dai calmati... vieni con me, andiamo da Stear".
Patty la condusse verso un gruppetto di persone che stava intrattenendo il suo fidanzato, visibilmente infastidito da quella confusione: evidentemente Stear non era ancora pronto a rientrare pienamente nella vita mondana. Lui che, poi, troppo mondano, non lo era mai stato.
D’un tratto, Patty si sentì toccare una spalla, si voltò e si trovò di fronte l’attrice; visto che Candy era distratta da Stear e Terence, più in là, da alcuni gentiluomini, le due si accostarono l’una all’altra e confabularono a bassa voce.
"Ho esagerato, forse?", chiese Susan.
"No, sei stata perfetta; so quanto ti sia costato e ti ringrazio", rispose Patty.
"Se è per la sua felicità...".
"Sono gelosi entrambi, buon segno. Allora siamo d’accordo, forse così si decideranno a parlarsi", concluse Patty.
L’attrice si rimescolò al gruppo di Terence, mentre Patty ritornò nel gruppo di Stear e Candy. Cinque minuti dopo, Stear si rivolse a Patty:
"Senti Patty, io non ce la faccio a restare qui, c’è troppa confusione; ho bisogno di stare un po’ da solo, per cui vado di sopra; non ti preoccupare, dopo torno e facciamo un altro giro di valzer; adesso scusami, ma devo proprio staccare per un po’".
Lei comprese le sue ragioni e, sospirando, lo osservò allontanarsi, dopo che lui le ebbe regalato un tenero bacio.
"Ora tocca a te, Candy", pensò, prima di rivolgersi all’amica, che le aveva chiesto cosa fosse accaduto a Stear.
"Ah, niente, ha solo bisogno di starsene un po’ da solo, posso comprenderlo. In realtà anch’io vorrei staccare un po’: perché non ce ne andiamo sul terrazzo a prendere un po’ d’aria?", propose Patty.
"Penso sia una buona idea... un po’ d’aria fresca non può farci che bene", rispose la bionda, dopo aver lanciato un’altra occhiata alla coppia di attori.
 
"Terence, credo che dovresti andare a parlarle, che aspetti?", attaccò Susan.
"E perché dovrei? Semmai dovrebbe essere lei a venire da me... se mi ama ancora".
"Siete due testoni orgogliosi, qui urge un drastico intervento esterno", pensò l’attrice, prima di aggiungere:
"Se ti ama ancora? Ma non hai visto che sta morendo di gelosia? Non ti pare che sia sufficiente come punizione?".
"E chi ha detto che voglio punirla? È una bella festa e mi sto divertendo, tutto qui. Se qualcuno deve dirmi qualcosa, verrà a dirmela".
"E va bene".
Susan aveva notato la mossa di Patty, che le aveva fatto un cenno col pollice alzato, per cui propose all’amico:
"Perché non mi porti sul terrazzo? Deve esserci una vista meravigliosa... chissà che cielo stellato ci sarà...".
"Dici? Se lo desideri...", rispose lui.
"Vai pure avanti tu, ti raggiungo subito; vado ad incipriarmi il naso", concluse Susan, allontanandosi rapidamente.
Terence, un po’ perplesso, si avviò verso il terrazzo.
 
Harrison era riuscito finalmente a "beccare" Iriza, in un momento in cui le "zecche" di famiglia avevano allentato la presa su di lei; per poterle parlare aveva dovuto afferrarla per un braccio e trascinarla in parte.
"Che devo fare per parlarti? Una richiesta ufficiale al Presidente? E per ballare con te a chi mi devo rivolgere?".
"Harrison... non è colpa mia, volevo cercarti, ma non mi lasciavano un secondo... e poi sei sparito! Dove sei stato fino ad ora?".
Harrison aggrottò la fronte e proseguì:
"Sei gelosa, per caso?".
"No, non stiamo mica insieme... puoi fare quello che vuoi", rispose lei, diventando rossa come una ciliegia.
"Sì, vabbè... e poi cos’è questa storia che non ho potuto accompagnarti?".
"Non lo so, è stata una decisione della mamma: voleva che venissi con Neal, ma ho rifiutato e anche lui non era d’accordo... dopo quello che è successo non potevo certo venire con lui".
"Accidenti! E l'hai ridotto così perché non volevi fosse lui ad accompagnarti? Mi fai quasi paura...", rise Harrison.
"Non dire idiozie, stupido! Non sono stata certo io a picchiarlo!".
"Adesso però balliamo, ho voglia di farti volare nel salone, e al diavolo i tuoi e tutti gli altri".
"Non sai da quanto aspettassi questo momento: tu mi fai stare bene, tra le tue braccia mi sento diversa".
"E poi dice che non è gelosa, che non stiamo insieme...", disse lui, divertito, toccandole con l’indice il nasino.
Tra il disappunto dei signori Legan, che si stavano maledicendo per essersi distratti, i due ragazzi cominciarono a volteggiare non appena ripartì la musica.
 
Dorothy, in lacrime, era corsa fuori, nel giardino: per essere più veloce si era tolta anche le scarpe, ma il vestito la rallentava non poco; Tom, che le era corso dietro, più veloce di lei, la raggiunse e la afferrò, un attimo prima che finisse in terra, dopo essere inciampata nella radice di un albero.
"Dorothy...".
Divincolandosi disperatamente, ma non riuscendo a liberarsi dalla sua stretta, Dorothy gridò:
"Lasciami bruto... vigliacco... tu, tu...".
Le lacrime continuavano a sgorgare copiose, impedendole di continuare.
Tom lasciò che lei si sedesse a terra e le si accucciò di fronte, prendendole le mani.
"Ma Dorothy, perché piangi? Non capisco...".
"Non capisci? Tu... vi ho visti, vi stavate baciando, tu ed Annie Brighton... sei un vigliacco, un traditore... mi avevi fatto credere...".
Tom comprese: avendoli visti di spalle e nella semioscurità, la cameriera aveva frainteso; in effetti a guardarli di spalle, quello che si erano scambiato, poteva sembrare un altro tipo di bacio...
Il ragazzo le prese il viso tra le mani e, col pollice, cominciò ad asciugarle qualche lacrima.
"Dorothy, calmati... non piangere e guardami: devi credermi se ti dico che Annie è solo un’amica, una sorella".
"Tu... lei... vi siete baciati... vi ho visti", biascicò lei, il volto in fiamme, che non riusciva a guardarlo negli occhi.
"Hai ragione; lei aveva frainteso qualche gentilezza che le ho fatto... lo sai, sono gentile con tutti; ma quello non era un bacio... un bacio vero... era solo un bacio fraterno: devi credermi".
"No, tu cerchi di confondermi...".
Tom, spazientito, la costrinse a guardarlo negli occhi.
"Tu mi piaci Dorothy e voglio stare con te... questo è un bacio vero!".
E d’improvviso posò le sue labbra su quelle di lei, non trovando resistenza; nemmeno quando la sua lingua si aprì un varco tra quelle dolci labbra.
Dorothy mollò tutte le difese: nei suoi occhi aveva letto sincerità e quel bacio la stava letteralmente sciogliendo; solo allora si accorse della mano fasciata...
"Tu... tu sei ferito! Come... ?", biascicò, non appena lui la lasciò respirare.
"Lascia stare", rispose Tom, inaugurando il secondo round.
Mentre lo baciava, nella sua testa si affollarono numerosi pensieri:
"Aspetta... la mano ferita, il naso di Neal... oh Tom, l’hai fatto per me... l’hai picchiato per vendicarmi... ma allora...".
Alla fine del secondo round, Dorothy riuscì a parlare:
"Tom, ti credo, non stai mentendo. Ho capito cos’hai fatto alla mano... anche tu mi piaci, ma non ho mai trovato il coraggio...".
"Sssh", le fece lui, mettendole un dito sulle labbra, "Non dire niente... e baciami, baciami ancora", andando all’attacco delle sue labbra.
Non potevano continuare troppo a lungo, lì nel giardino della villa degli Andrew, quindi, a malincuore, si staccarono. Tom si alzò, tra le proteste di lei, e la rassicurò:
"Resta qui, non ti muovere".
Si allontanò per ritornare pochi secondi dopo, con in mano le scarpe che Dorothy si era tolta poco prima; con un fazzoletto cercò di ripulirle i piedi, dicendo:
"Guarda qui, cos’hai combinato; fortuna che non hai rotto le calze".
Poi, come fosse stata Cenerentola, le fece calzare le scarpette: tutte queste attenzioni e la dolcezza che le accompagnavano, la fecero fremere. Quando fu in piedi, Tom esclamò:
"Lasciati guardare... ancora non te l’ho detto: sei bellissima".
E si scambiarono un altro, interminabile, bacio.
"Ora però rientriamo, sarebbe sconveniente restare qui, appartati; qualcuno potrebbe pensare male", disse Tom, riconducendola, per mano, nel grande salone.
 
"Che cielo meraviglioso! Sembra sia stato creato apposta per noi", esclamò Candy, con il viso rivolto all’insù, ad osservare la volta celeste trapunta di stelle.
Una voce a lei nota, che non apparteneva a Patty e che la fece voltare, le rispose:
"Già. Curioso, è la stessa cosa che mi ha detto Susan...".
"Terence? Dov’è Patty?".
"E che ne so io? Anche se immagino cosa sia accaduto...".
"Una trappola", pensò Candy, "Si è vendicata, mi ha reso il favore... e grazie anche a te, Susan".
Terence, scrutandola, aggiunse:
"Sai, come ti dicevo, anche Susan...".
"Susan, Susan! E basta con questa Susan! Ora qui ci siamo solo io e te".
"Sei gelosa, signorina Tarzan tutte-lentiggini? Lo sai che quando ti arrabbi si notano di più?".
"Smettila di prendermi in giro, dobbiamo parlare", disse, con tono serio, Candy.
"Ah, se vuoi la smetto e me ne vado", rispose lui.
"Non puoi... ormai siamo fidanzati ufficialmente... sai che scandalo...".
"Smettila tu, piuttosto. Prima mi accogli come fossi il tuo principe, poi mi fai sapere che non mi vuoi più e scopro che vuoi sposare Neal... mi fa ribrezzo il solo pensiero... e poi annunci il nostro fidanzamento. A me sembra sia tu, a prendere in giro me".
"Ascoltami", lo pregò lei, "Se mi ascolti capirai".
Benché fosse ancora arrabbiato con lei, Terence non riuscì a dirle di no e rimase ad ascoltarla. Candy gli raccontò tutta la vicenda della collana e lui, alla fine del racconto, scoppiò a ridere:
"Che assurdità! Come hai fatto a cascarci? Se lo avessi detto ad Albert...".
"Volevo risolverla da me, per una volta; Albert mi ha sempre tolta dai guai, quando ha potuto, ed io volevo vedere se riuscivo a cavarmela da sola".
"È tipico della mia Tarzan, combinare guai e svolazzare di liana in liana, rischiando di rompersi il collo! Ma la tua devozione verso Dorothy è ammirevole... sono geloso".
"Dai, mi perdoni? In fondo non è successo niente...", cinguettò Candy, sbattendo le ciglia.
"A parte l’infarto che ho rischiato... non ti si addice fare la sdolcinata: rimani sempre un maschiaccio, tu".
"Allora?", insistette lei.
Aggrottando la fronte, Terence rispose:
"Non lo so... resta il fatto che non ti sei fidata di me... magari vado prima a rompere il muso a quell’anatroccolo di Legan e poi si vedrà".
"Ecco perché non ti ho detto niente... non voglio che tu ti comprometta con quel verme. E poi gliel’hanno già rotto il muso!".
Non poterono fare a meno di ridere.
Finalmente il ragazzo, non resistendo al visino quasi implorante di Candy, le disse:
"Concedimi il prossimo valzer e, se rimarrò soddisfatto, forse, ti perdonerò".
Rientrarono nel salone, sotto lo sguardo sognante di Patty, che aveva assistito all’incontro di nascosto.
Candy era irresistibile, avvolta nel suo vestito di seta azzurro, che solo lei sapeva far frusciare con grazia ed eleganza ad ogni suo movimento; un diadema d’argento aiutava la sua chioma dorata a restare imbrigliata, consentendo a due sole ciocche ribelli di incorniciarle il grazioso visetto, impreziosito da un raggiante sorriso.
Lui, il suo Terence G. Grancester, che, avanzando verso di lei, non era mai riuscito a impedire alle sue iridi blu di perdersi in quelle verdi di lei, da vero gentiluomo qual era, si inchinò e formulò la sua richiesta:
"Signorina Candice White-Andrew, mi concedete l’onore di ballare con voi il prossimo valzer?".
Candy, sfoderando il sorriso più bello di cui fosse capace, gli rispose, dopo essersi leggermente inchinata a sua volta, sorreggendosi il vestito con due mani per allungarne poi una verso di lui:
"Certamente, mio bel cavaliere".
Terence prese delicatamente la mano guantata che gli era stata offerta e, partita la musica, si strinse a Candy, facendola volteggiare leggiadramente nel salone.
Candy si sentiva al settimo cielo: le sensazioni che provava all’essere stretta all’uomo che amava, erano indescrivibili; poteva sentire il suo calore, i battiti accelerati del suo cuore, i fremiti provocati dal contatto dei loro corpi... Candy chiuse gli occhi, tremando, e questa volta non ci furono voci o altre seccature ad interrompere l’idillio.
"È tutto come nel mio sogno", pensò la bionda.
Solo la voce di Terence si fece udire:
"Non farlo mai più... mai più! Promettimelo, Candy".
L’abbraccio di Terence si fece più stretto; lei mormorò:
"Sì, te lo prometto amore mio, te lo prometto".
In quel momento, trovandosi in un angolo della sala, si fermarono e non riuscirono a comandare le loro bocche e le loro lingue, che si incollarono, divenendo un tutt’uno! Anche le loro mani non riuscirono a restare al loro posto: se qualcuno si fosse trovato vicino a loro, avrebbe potuto avvertire le scariche elettriche prodotte dal contatto dei loro corpi, frementi di desiderio. Fortunatamente, trovandosi in una zona in penombra, nessuno li notò e, di conseguenza, non scoppiarono scandali.

"Oh, signor Bowman, sono felice che siate potuto venire. Vedo che avete fatto conoscenza con mio nipote. O vi conoscevate già?", disse Albert, andando incontro al banchiere.
"Non me la sarei persa per niente al mondo questa festa. Fate i complimenti a vostra zia", rispose il banchiere, che poi aggiunse, "Ho già avuto il piacere di conoscere vostro nipote, tempo fa, e mi era sembrato un tipo a posto".
Solo Harrison, che si trovava nei paraggi, e Albert compresero il vero significato che si celava in quelle parole.
"A proposito", riprese il banchiere, rivolgendosi al giovane Legan, "che è successo al vostro naso? Pare abbiate fatto un brutto incontro...".
"Oh, non è niente signor Bowman, un piccolo incidente, non dovete preoccuparvi".
"Beh, vi lascio alle vostre chiacchiere e vado a fare i complimenti a mia zia", concluse Albert.

Quando fu accanto alla zia, Albert si mise a guardare la sala. Lei esordì con una domanda:
"William, chi è quella graziosa ragazza che danza con Arthur Fenton?".
"La biondina col bamboccio? Perché me lo chiedi, zia?", fece lui dubbioso.
"Perché tu sei il capofamiglia, ma io sono tua zia e non sono stupida: certe cose le noto, un vantaggio dell’età. Ho visto come la stringevi prima, mentre danzavi con lei; ho visto come la guardavi e ho visto come ti guardava lei... la signorina Marshall".
"Se sai già chi è, perché me l’hai chiesto?", chiese lui, arrossendo leggermente.
"Non è questo il punto...".
"So dove vuoi arrivare e ti dico che tra me ed Elizabeth...", cominciò Albert, bloccandosi subito e mordendosi la lingua, avendo capito di aver commesso un errore.
Errore che fu subito sottolineato dalla zia Elroy:
"Elizabeth? Allora ho visto giusto! Santo Cielo, William, tu mi stupisci".
"Perché zia?".
"Questa è la prima volta che fai una cosa che incontri il mio favore: Elizabeth Marshall è una ragazza deliziosa, appartenente ad una famiglia rispettabile e importante".
"Lo sapevo! Linguaccia mia che non mi ascolti mai. Ora lo saprà tutta Chicago... ma, prima o poi, doveva venir fuori".
Prima che potessero dirsi altro, la loro attenzione fu attirata da strani movimenti: nello studio di Albert stava accadendo qualcosa...
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
È valsa la pena aspettare tanto?

The Blue Devil

















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Il regalo ***


Buona lettura



Capitolo 22
Il regalo

"Patty, Patty", chiamò Annie, dopo aver intravisto l’amica.
"Che ti succede Annie? Hai il fiatone, come se avessi corso per mezz’ora!".
In effetti Annie respirava affannosamente, più per la preoccupazione che per altro.
"Finalmente ti ho trovata, ho cercato anche Candy dappertutto; ho combinato un disastro e non ho potuto rimediare, perché i Cornwell mi hanno precettata, e ora Dorothy...".
"...sta ballando con Tom; guarda là", la interruppe Patty, concludendole la frase. Poi aggiunse:
"In quanto a Candy... li ho visti infilarsi in un corridoio...".
"Li hai visti? Chi?", chiese Annie, sorpresa.
"Candy e Terence. Hanno anche ballato mezzo valzer".
"A quanto pare mi sono persa qualcosa", bofonchiò Annie, a mezza voce.
"E non sai ancora la cosa interessante: Dorothy e Tom sono rientrati dal giardino, mano nella mano! Che facevano là? Non avranno mica... ?".
"Patty! Che vai a pensare? Tom non lo farebbe mai, è un ragazzo serio, lui; almeno credo".
Non poterono fare a meno di ridere, dopo essere arrossite entrambe, al pensiero di cosa potessero aver fatto Tom e Dorothy in giardino e di cosa stessero facendo gli altri due nel corridoio.
 
Terence era stato molto audace, forse troppo: le sue mani si erano infilate là dove non avrebbero dovuto, sotto il vestito di Candy; aveva troppa voglia di lei e non riusciva a controllarsi. Benché anche Candy fosse vittima delle stesse voglie del fidanzato e apprezzasse quelle manovre, riuscì a recuperare un minimo di lucidità e a fermarlo, prima che fosse troppo tardi.
"Aspetta Terence... non qui e non ora... se ci vedesse la zia Elroy...".
"Ma che t’importa della vecchia? Temi uno scandalo? E da quando te ne preoccupi? E poi siamo fidanzati ufficialmente, non ricordi? Lasciami fare, dai...", protestò il ragazzo, continuando a baciarla sul collo e ad accarezzarle una coscia.
Candy che, come detto, apprezzava (tutta un'altra cosa rispetto alla mano sudaticcia di Neal!), a stento riuscì a rispondere:
"T-Terence, ti prego... mmh, ooh... secondo i parametri della zia noi non... ooh, fermati".
Ci pensò Louis, schiarendosi la voce, a mettere fine alle loro effusioni:
"Ehm... scusatemi, siete voi il signor Terence Graham?".
Staccandosi da Candy, che faticò a ricomporsi, l’attore pensò:
"E questo che vuole? Maledetto scocciatore".
Poi rispose, sgarbato, venendo rimproverato con gli occhi da Candy:
"Sì, sono io Terence Graham, che vuoi?".
"Ho un messaggio per voi da parte di Susan Marlowe; la signorina mi ha pregato di informarvi che, a seguito di un malore improvviso, ha chiesto a Stewart di essere riaccompagnata agli alloggi della Compagnia Stratford. Vi prega di accettare le sue scuse". 
"Si è sentita male?", chiese Terence, preoccupato.
"Ha anche aggiunto di non preoccuparvi: probabilmente si dovrebbe trattare solo di un po’ di stanchezza".
Candy che, al contrario di Terence, aveva capito subito, ringraziò mentalmente Susan, pensando che il suo comportamento degli ultimi tempi, fosse stato davvero encomiabile.
Assunto un aspetto presentabile, i due ragazzi rientrarono in sala, nel momento in cui Albert e la zia Elroy si dirigevano verso lo studio di Albert, attirati in quella direzione da uno strano movimento di persone.
"Che starà accadendo?", chiese Candy, curiosa.
"Beh, andiamo a vedere anche noi... benché avessi altri programmi...".
La ragazza lo guardò di traverso e commentò:
"Sei troppo impetuoso per i miei gusti... più avanti avremo tempo anche per quello".
 
Era accaduto questo: lasciato un momento Harrison, Iriza aveva visto Stear e, raggiuntolo, lo aveva invitato a seguirla nello studio di Albert; quella mossa era stata notata da Archie e Neal, che avevano deciso di seguire i due ragazzi; ora, a loro, si stavano aggiungendo Albert, Elroy, Candy e Terence.
Quando il gruppetto giunse nello studio, Iriza assunse un’espressione seccata: avrebbe preferito non avere tutto quel pubblico, ma dato che c’era, si rassegnò e si rivolse a Stear:
"Mi dispiace di averti disturbato e ti ringrazio per aver accettato l’invito; per me è importante".
"Non ti preoccupare, ti confesso che sono curioso", rispose Stear.
Archie sbottò:
"Che stiamo facendo qui? Stear vieni via".
Albert lo redarguì:
"Archie! Iriza dice che è importante, aspettiamo".
Intervenne anche Iriza:
"Bisognerà attendere qualche minuto; chi vuol tornare in sala a divertirsi può farlo".
"In questo studio, ora", commentò Archie in tono duro, "sono presenti tutte persone che amo, tranne tre, ovviamente: temo che lasciandole sole qui con te, possano avvelenarsi".
Elroy lanciò un’occhiataccia al nipote, mentre Albert si limitò ad un’alzata di spalle. Iriza c’era rimasta male per quel commento, ma lo comprendeva; cercò sostegno negli occhi di Harrison, giunto nel frattempo, e lo trovò.
Archie tentò ancora di convincere il fratello ad uscire dallo studio e allora Elroy parlò:
"Archibald, potresti farci la cortesia di smetterla? Comportati da gentiluomo, non essere maleducato. Io credo di aver capito cosa vuol fare Iriza: è venuta da me, giorni fa, con una strana richiesta e ora ne comprendo il motivo. Si tratta solo di attendere qualche minuto".
L’attesa non fu lunga: Stewart entrò nello studio con una grossa scatola che consegnò alla padroncina.
"Perdonatemi signorina Legan, ho fatto prima che ho potuto... se non avessi dovuto riaccompagnare la signorina Marlowe, mi sarei sbrigato prima".
"Non ti preoccupare Stewart, sei stato perfetto e prezioso, grazie".
Stewart uscì dallo studio, ma rimase dietro la porta in ascolto, vinto dalla curiosità: Iriza Legan che ringraziava un membro della servitù – e tale circostanza si stava ripetendo già da un po’ – era un evento epocale; sicuramente c’era qualcosa d’importante che bolliva in pentola.
Iriza consegnò la scatola a Stear, dicendogli:
"Questo è per te Stear, il mio regalo di bentornato".
Nel momento in cui il ragazzo prese la scatola offertagli dalla cugina, Archie sbottò:
"Ti sei ammattito fratello? Sicuramente da quella scatola salteranno fuori dei serpenti velenosi, come la persona che te la sta porgendo".
Harrison, che aveva perso la pazienza, esplose:
"Ehi, ehi, Arcimboldo Cornelius, ora mi hai proprio stufato! Datti una calmata, pensa ai casi tuoi e ascolta la zia; ne va della tua salute".
Archie stava per replicare, ma un cenno imperioso della mano di Elroy, accompagnato da queste parole "Archibald, ti avevo chiesto di comportarti educatamente o sbaglio?", fece capire ai presenti che era ora di smetterla.
Stear aprì la scatola e ne trasse fuori, molto sorpreso, una sua vecchia invenzione incompiuta: una piccola automobile che, nelle intenzioni del suo inventore, avrebbe dovuto funzionare con comando a distanza*; inutile dire che non aveva mai funzionato.
Tutti i presenti manifestarono una grande sorpresa.
"Non capisco... dove l’hai presa? Neanche mi ricordavo di questo oggetto...".
"Risponderò io per lei", intervenne Elroy, "Dopo la notizia della tua morte, al contrario di quanto avevo fatto con gli oggetti di Anthony, e qualcuno ha detto saggiamente, ho consegnato ai tuoi genitori le tue cose più personali e ho fatto conservare alcuni degli strampalati marchingegni che avevi lasciato a Lakewood. Iriza deve averlo saputo, non so come, e giorni fa mi ha chiesto di poterli vedere".
Pronunciando la parola "qualcuno", l’anziana prozia aveva rivolto lo sguardo verso Candy.
"Ho pensato che potresti tornare ad occuparti di queste cose... magari potresti trasformarla in un giocattolo e fare felici molti bambini", disse Iriza, pensando a Daisy.
"Non credo di esserne più capace... e neanche di averne la forza. Riprendila", rispose Stear, porgendole scatola e modellino.
Mentre Archie pensava "Ben fatto fratello" e Neal manifestava disgusto in corrispondenza delle parole di sua sorella sui bambini "Di sicuro sta pensando a qualche orribile orfanello", Iriza protestò:
"No, tienila tu, in fondo è tua e sono sicura che un giorno riuscirai a farla funzionare".
"Non avrei mai pensato di dover dire una cosa simile, ma Iriza ha ragione Stear", osservò Candy.
"Beh, accetto il regalo, allora; non mi sarei mai aspettato una gentilezza da parte tua", disse Stear, a cui fece eco il sarcasmo del fratello:
"Neanch’io".
Essendoci ancora un ballo che doveva proseguire, tutti uscirono dallo studio, lasciando i due fratelli da soli. Archie si avvicinò a Stear e, colpendo la scatola, la fece cadere in terra:
"Ma non capisci che è tutta una farsa per farsi vedere bella e gentile e riguadagnare punti ai nostri occhi?".
Stear raccolse la scatola, si rallegrò che il modellino non avesse subìto troppi danni, e se ne andò, pronunciando queste parole:
"Stai sbagliando, Archie, e mi rattrista il fatto che tu non te ne accorga".
 
Albert si accostò a Harrison.
"Tu lo sapevi?", gli chiese a mezza voce.
"Di questa cosa del regalo? Perché ti ho detto che Iriza ci avrebbe stupiti ancora? No. Ha in serbo altro, l’ho appreso in un certo atelier".
"Ma che sta accadendo? Il mondo ha cominciato a girare alla rovescia?".
"Non credo, accade solo che, forse, ho avuto ragione".
"Beh, comunque sia, mi pare giunto il momento di porre fine a una certa questione; per domani o dopodomani ho intenzione di convocare i Legan, padre e figlio. Naturalmente tu sarai dei nostri".
"Contaci, sono d’accordo e non solo io...", concluse Harrison, volgendo lo sguardo verso il banchiere Bowman.
 
Neal si avvicinò alla coppia formata da Candy e da Terence e disse:
"Così avete fatto pace, eh?".
"Sparisci, verme", sibilò Terence minaccioso.
"Vi faccio le mie congratulazioni. Cara Candy, Iriza ha fatto un regalo a Stear e io non voglio essere da meno: ho in serbo un bel regalo anche per te".
Terence, mostrandogli un pugno, si fece avanti.
"Quale parola non hai ben compreso della frase sparisci, verme? E ringrazia che non ti ho ancora spaccato il muso, anche se vedo che ci ha già pensato qualcun altro. Ma sono sempre in tempo a rimediare".
"Me ne vado, a presto cari", ringhiò il rampollo dei Legan.
Le parole e lo sguardo, oscuro e tagliente, nel quale sembrava albergare un tono profondo e singolare, di Neal, scossero Candy.
"Che avrà voluto dire?", pensò, "Quello sguardo... possibile che provi dei sentimenti per me e che sia geloso?".
Nel momento in cui Terence le propose di danzare ancora, Candy scacciò dalla sua mente quei pensieri inquietanti.
 
Iriza si era rifugiata sul terrazzo per sfuggire alle grinfie dei genitori, ai quali non andava a genio che lei si accompagnasse a quell’orfano, ad attendere Harrison che si stava intrattenendo con Terence e Albert. La raggiunse, invece, Candy:
"Iriza, il tuo è stato un gesto molto bello; trovo sia stata un’ottima idea aver dato a Stear qualcosa a cui pensare, un’attività, che lo distolga dai suoi tristi pensieri".
"Non temi anche tu di morire avvelenata, venendomi a parlare?", sibilò la Legan.
"Qualche tempo fa ti avrei dato ragione, ma ora... non so. Non capisco, ma sappi che non sono d’accordo con Archie: mi sei sembrata sincera con Stear".
"Tu che mi dici questo? Dopo tutte le cattiverie che ti ho fatto? Non cambi proprio mai, il tuo buonismo mi fa... mi fa... piacere; non crederci se vuoi, ma è così".
"Si direbbe che tu stia cambiando, Iriza. Ho assistito a quello che hai fatto per Dorothy ed ora questo: se me li avessero raccontati, questi eventi, probabilmente non ci avrei creduto. Non voglio illudermi troppo, ma non ti senti meglio quando fai qualcosa di buono per gli altri?".
Iriza avrebbe voluto rispondere di sì, avrebbe voluto urlarlo, ma non disse nulla; non riusciva ancora a parlare liberamente con colei che aveva considerato, da sempre, come la sua più acerrima nemica. Tuttavia si ricordò delle parole di Dorothy:
"Devi aprire il tuo cuore... se ti fossi comportata in un altro modo, forse, ora, avresti molte più persone intorno, a volerti bene...".
"Vorrei restare un po’ da sola, se non ti dispiace", disse infine.
"D’accordo, ti lascio; ma pensa a quello che ti ho detto".
Non appena Candy si fu allontanata, comparve Archie: il ragazzo pareva furibondo e si scagliò contro Iriza, afferrandola per le spalle:
"Che stai cercando di fare? Vuoi approfittare che mio fratello non sta bene per ordire un altro dei tuoi intrighi? Avrai anche convinto lui, ma io non ci casco".
"Lasciami, mi fai male", si lamentò la ragazza.
"Adesso mi dirai cos’hai in mente... non ho mai picchiato una ragazza, ma tu sei un serpente a sonagli! Avanti parla".
Archie alzò una mano su di lei per colpirla, ma fu bloccato da Stear che gli afferrò il polso.
"Archie, che stai combinando? Lasciala".
Il figlio minore dei Cornwell non voleva sentir ragioni, per cui il fratello strinse più forte, fino a fargli male:
"Lasciala ti ho detto".
"Ma non capisci che è tutto un trucco...", protestò Archie, mentre, strattonato da Stear, mollava la presa.
"Sei tu che non capisci! Credi che sia andato a divertirmi in Europa? Sono andato in guerra e ho imparato a riconoscere i nemici... le persone cambiano".
"Non loro", protestò Archie.
"E tu che ne sai? Basta con i trucchi, gli intrighi, le vendette... ho visto morti, feriti, storpi e ho contribuito a crearne altrettanti; sono stufo di guerre, lotte... ho imparato che se c’è una possibilità di arrivare ad una pace, bisogna far di tutto per sfruttarla e non alimentare il fuoco dell’odio! Archie, dammi retta! Santo Cielo, siamo cugini!".
In quel momento sopraggiunsero Harrison e Terence, attirati dalla confusione; il primo, notando l’espressione atterrita e sconvolta di Iriza, capì cosa dovesse essere accaduto.
"Te la prendi con le ragazze ora? Perché non ti metti con uno alla tua altezza, vigliacco".
"E saresti tu quello alla mia altezza? Avanti, fatti sotto se hai coraggio".
I due si fronteggiarono, ma Terence si interpose fra loro e convinse Harrison a desistere dal proposito di azzuffarsi con Archie. Allora Harrison, recuperata Iriza, si allontanò con lei e Archie osservò:
"È fortunato quel tipo, arriva sempre qualcuno a salvarlo; se non fosse stato per Terence...".
"Se non fosse stato per Terence un bel niente, caro fratello; non ha salvato Harrison, ma te".
"Tuo fratello ha ragione", disse Terence.
Annie, che aveva assistito a tutta la scena da lontano, si avvicinò ad Archie e gli chiese perché fosse così nervoso, pregandolo di calmarsi. La risposta fu terribile:
"Sta’ zitta tu, che vuoi da me? Va’ al diavolo! Andate al diavolo tutti quanti".
Archie si allontanò, lasciando il gruppo di amici nello stupore più assoluto.

Anche Neal aveva seguito l'alterco tra Iriza e Archie e poi quello tra Archie e Harrison; un tempo sarebbe accorso in difesa della sorella, ma ora quasi godeva nel vedere Iriza maltrattata e aggredita dai cugini.
"Sorellina, cominci a capire cosa ci guadagni ad essere gentile con quella gentaglia? Ma gliela darò io una bella lezione a quell'orfano e a quell'attore da strapazzo... e soprattutto a te, mia cara Candy".
Raggiuntolo, il ragazzo disse a suo padre:
"Finita questa ridicola festa, devo parlarti papà. Ho concluso un affare strepitoso: vedrai, sarai fiero di me".
"A dire il vero sono io che devo parlare con te; comunque vedremo figliolo, vedremo", rispose Raymond, finendo di svuotare il bicchiere che teneva in mano.




* beh, già sappiamo che alcune invenzioni di Stear andavano oltre la tecnologia del tempo.





















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Chi ha comprato i terreni di Cartwright? ***


Buona lettura



Capitolo 23
Chi ha comprato i terreni di Cartwright?
 
Il ballo si concluse senza ulteriori sorprese e, malgrado il comportamento di Archie in alcune circostanze, che lei non aveva gradito, Elroy poteva dirsi soddisfatta della serata: come promessole aveva anche conosciuto Terence, il fidanzato "ufficiale" della pupilla del capofamiglia; aveva voluto sapere tutto di lui, anche come e quando avesse conosciuto Candy, e per quale motivo ci fosse voluto tanto tempo per ufficializzare questo fidanzamento. La notizia che le difficoltà dei due ragazzi erano state causate, in larga parte ma non solo, da Neal e Iriza, la rattristò: il suo giudizio sulla nipote, però, lo lasciò in sospeso, visti gli ultimi eventi, quello sul nipote, al contrario, fu negativo. Fu anche informata della professione – sarebbe stato inutile e controproducente continuare a nascondergliela – del ragazzo e questo fu il suo commento:
"Santo Cielo! Ci mancava un attore in famiglia! Candy, non finirai mai di stupirmi... comunque siete così belli insieme che vi perdono: tanto so già che non servirebbe a niente opporsi".
In realtà Elroy "salvò" Terence per due motivi: il fatto che fosse un attore di teatro, impegnato a declamare i grandi classici della letteratura Inglese, e non di quella "cosa" nuova e strana chiamata "cinematografo", e il fatto che fosse di nobili origini; ovviamente le fu taciuto, al momento, il suo rifiuto del nome di famiglia.
Ci fu spazio anche per conversazioni più futili, se così si possono definire: Albert si mostrò contento del fatto che i sentimenti dei due ragazzi fossero reciproci e più forti di quel che era parso nell’ultimo periodo; Candy gli chiese lumi su quella graziosa ragazza che aveva notato stringersi a lui, durante le danze, e Albert fu costretto a capitolare.
"Quella graziosa ragazza si chiama Elizabeth Marshall, è di ottima famiglia e l’ho conosciuta in circostanze drammatiche. Se ben ricordi tu raccomandasti ai Legan la scelta del dottor Leonard come medico di famiglia".
"Esattamente", confermò la ragazza.
"Ebbene, colpito da questa tua segnalazione, andai al Santa Joanna per prendere informazioni su questo medico: ero convinto che, essendo stato segnalato da te, fosse un ottimo elemento, che sarebbe potuto diventare il medico anche della famiglia Andrew. In circostanze che non ti sto a raccontare, capitai in una stanza nella quale era ricoverata Elizabeth Marshall: un pazzo, pare un ex fidanzato, le aveva sparato, mandandola in coma. Conoscevo già la famiglia, ma non ne avevo mai vista la figlia: quell’angioletto, che pareva dormisse, con tutti quei riccioli d’oro sparsi sul cuscino, mi colpì; così cominciai a farle visita regolarmente, portandole fiori e parlando con lei, nel tentativo di svegliarla e... beh, il resto lo puoi immaginare da sola, dato che l’hai vista, in salute, a danzare con me".
"Albert, è una storia meravigliosa, molto romantica; l’hai svegliata dal coma e vi siete innamorati! Davvero romantico... e nessuno si è accorto di nulla".
"Non esagerare, diciamo che ho contribuito a svegliarla e che ora ci piacciamo, tutto qui. Di questa faccenda, solo George ne era a conoscenza".
Albert tacque il fatto che Elizabeth le aveva fatto tornare alla mente il suo primo incontro con Candy stessa, data anche la somiglianza tra le due ragazze.
 
Dorothy era al settimo cielo per aver conquistato il suo Tom.
"Iriza, non finirò mai di ringraziarti... se non fosse stato per te...".
"E io che c’entro? Hai fatto tutto da sola; io ti ho solo prestato un vestito e regalato una collana di finte perle, il resto ce l’hai messo tu. Sono io che devo ringraziare te, per cui...".
Iriza prese dall’armadio una scatola e la porse a Dorothy.
"Che significa?", chiese la cameriera, stupita.
"Aprila. Quel che contiene è tuo".
Dorothy aprì la scatola e ne tirò fuori un bellissimo abito da giorno, da passeggio.
"Ma... è bellissimo ed è... di Madame Bourges! No, no, non posso prenderlo, ti sarà costato un sacco".
In effetti Iriza, tra vestiti e collane, aveva dato fondo a quasi tutti i suoi risparmi.
"Mi vuoi offendere? Dopo tutto quello che stai facendo per me e quello che hai passato a causa mia, questo è il minimo... e non mi è costato troppo, sono soldi spesi bene, per una volta".
"Ma Iriza...".
"Niente ma: ho pensato che un vestito da sera, da ballo, ce l’avessi già e che te ne mancasse uno per il giorno. Quando Tom ti inviterà ad uscire, vorrai fare bella figura o no?".
"Quando Tom...", la cameriera arrossì, "Lo sai che lui non bada a certe cose... e poi avevo capito che il vestito del ballo me l'avessi solo prestato".
"Poche storie. Tom è un uomo e a tutti gli uomini piace vedere qualcosa di carino addosso alla propria donna. Fidati, anche lui gradirà".
"Tu mi fai arrossire, così...".
"E poi, conoscendoti, ne ho scelto uno semplice, non troppo vistoso".
"Chiamalo semplice... è stupendo", commentò Dorothy col pensiero.
Improvvisamente delle lacrime cominciarono a sgorgare dagli occhi della cameriera, che abbracciò la padroncina.
"Iriza, non avrei mai pensato...".
La scena fu interrotta dalla porta che si aprì, con movimento brusco, e dal battimani che seguì.
"Molto commovente, davvero", disse Neal, che poi aggiunse, rivolgendosi alla cameriera con tono perentorio:
"Tu: fuori di qui, che devo parlare con mia sorella!".
Dorothy ripose velocemente il vestito nella scatola, chiese compermesso ad Iriza e Neal, e uscì dalla stanza.
"Che fa? Si porta via un tuo vestito?", chiese Neal alla sorella.
"Sempre malfidente tu, eh? Quello è suo e poi... non hai ancora imparato a bussare, specialmente alla porta di una signorina?".
"Tu sei mia sorella, o così credevo: non so cosa tu stia combinando, ma tutto questo deve finire".
"Se ti riferisci a Dorothy, sono affari che non ti riguardano".
"Mi riferisco a quello e ad altro: eri così patetica, prima, abbracciata a quella serva".
"Oggi mi sembri più velenoso del solito o sbaglio? Forse papà ti ha sgridato a proposito di una certa collana?", osservò Iriza.
In effetti Neal aveva appena finito di discutere con il padre, ricevendo una bella lavata di capo, per l’affare della collana, che aveva fatto fare brutta figura a tutta la famiglia.
"Sì, papà mi ha detto due parole su quella cosa, ma, se sapesse quel che stai combinando tu, ne direbbe altrettante anche a te. Stanne pur certa".
"Non è necessario che lo venga a sapere".
"Non ne sono convinto, ultimamente mi hai inaspettatamente messo i bastoni fra le ruote... ma cambiamo discorso: ricordi quel piano di cui ti parlai, quando ti mandai da Candy per avvertitrla di Stear?".
Iriza, sicura, rispose:
"Il piano che riguardava il tuo matrimonio con lei? Certo che lo ricordo".
"Non quello, l’altro", ghignò il ragazzo.
"L’altro? Quella stupidaggine sui terreni sui quali sorge l’orfanotrofio? Beh, era una battuta, quella", rispose Iriza, dopo averci pensato su un momento.
"Stupidaggine? Battuta? Ti sbagli sorellina, l’ho portato a termine... anzi, già allora era tutto fatto".
La ragazza rimase a bocca aperta.
"Ma, io credevo che scherzassi su quello! Tu non puoi aver acquistato quelle terre... non hai il denaro...".
"Ti vedo sorpresa. Ti ricordo che siamo Legan che, tradotto, significa Andrew, un cognome che ti apre parecchie porte".
"Mi stai dicendo che l’hai fatto sul serio? Non era uno scherzo?".
"Ma certo che l’ho fatto... la cosa non ti riempie di gioia? Abbiamo sempre fantasticato insieme su come buttare giù quell’obbrobrio ai piedi della collina, e finalmente si potrà fare".
Iriza non pareva per niente contenta; il suo pensiero era corso alla piccola Daisy e agli altri simpatici bambini che aveva conosciuto all’orfanotrofio di Harrison: abbattere la "Casa di Pony" significava togliere la casa a tanti bambini. E se fra quei bambini ci fosse stata anche Daisy? La medesima cosa poteva accadere anche alla casa della piccola che l’aveva definita "Principessa".
Neal si accorse dello sgomento della sorella e la incalzò:
"Allora? Non sei contenta?".
"Qualche settimana fa ti avrei risposto di sì, ma adesso... ti prego Neal, lascia perdere, non è necessario arrivare a tanto".
"Non è necessario? Scherzi? Devo fargliela pagare a quella... ha osato respingermi per ben due volte e non ci posso passare sopra. Tu, piuttosto, mi sembri un po’ rammollita: c’entra qualcosa, forse, quel pezzente di McFly?".
"Harrison non è un pezzente e comunque lo vuoi fare solo per i rifiuti di Candy a sposarti? Ma la ami così tanto?".
Neal scoppiò a ridere, sorprendendo la sorella.
"Amore? E che roba è? Sì, non è male la ragazza: ti ho già detto, ad esempio, che ce l’ha più grosse di te; ci si può divertire, non poco, con lei, ma io la volevo solo per vedere la faccia di tutti i suoi amici, che le sbavano dietro, e per mettere le mani su una bella fetta del patrimonio degli Andrew. E non è detto che non ci riesca".
"Neal, lascia perdere, se gli affari di papà andranno in porto, non ci servirà il patrimonio degli Andrew. Non gli parlare di questa cosa, Stear ha ragione: finiamola con le vendette, i ricatti, le macchinazioni... perché dobbiamo sempre odiare e farci odiare da tutti? Sono stanca, voglio vivere in pace...".
"È troppo tardi, gliene ho già parlato; ovviamente non gli ho rivelato i particolari, né la zona su cui sorgono i terreni, né come ho fatto a trovare i soldi, e mi è parso interessato. Vuoi vivere in pace... insieme a quello lì? Temo non ti sarà possibile... l’affare che ho concluso non è l’unica cosa di cui gli ho parlato...".
Il terrore comparve negli occhi della ragazza.
"Neal che hai fatto? Avevi promesso...".
"E tu che hai fatto? Mi hai tradito, mi hai voltato le spalle, più di una volta... e poi mamma l’ha scoperto da sola, ha fatto fare delle ricerche. O credevi che ti lasciasse portare in casa il primo venuto? Vedrai che poi mi ringrazierai".
"Non dovevi... no... ecco perché al ballo...".
"Mi hai chiesto il perché di un certo tipo di comportamento, prima? Proprio per quello che vedo ora nei tuoi occhi: la paura, il terrore... è bellissimo avere la sensazione di tenere in pugno una persona, di farle capire che la si può stritolare in qualsiasi momento; è una sensazione che ti appaga, che ti ubriaca. Questo è il potere, e adesso è in mano mia".
Il terribile ragazzo accompagnò le proprie parole con una risata sarcastica.
"Ho voluto avvisarti. Ci vediamo sorellina", concluse Neal, mentre usciva dalla stanza, sbattendo la porta.
Tuttavia, subito dopo, rientrò.
"Ah, dimenticavo, papà ti aspetta nel suo studio".
Iriza avrebbe voluto piangere, ma una certa rabbia glielo impedì. La sola certezza che aveva, in quel momento, era che l’aspetto del fratello, mentre parlava del "potere", l’aveva spaventata.
 
Candy era così felice di aver recuperato il proprio rapporto con Terence, di aver saputo che Albert aveva forse trovato in Elizabeth una possibile compagna, di aver saputo di Tom e Dorothy, di aver assistito alla gentilezza di Iriza nei confronti di Stear, che non riusciva a immaginare quali altri problemi si sarebbero potuti presentare. Quindi rimase stupita quando si ritrovò con Annie in lacrime alla "Casa di Pony". Patty le spiegò che, durante il ballo, l’amica aveva creduto di aver combinato un guaio, ma che lei l’aveva rassicurata indicandole Tom e Dorothy al centro del salone. A tutti era sfuggito, e questo Patty l’aveva saputo da Stear, che anche Archie aveva visto il "bacio" tra Tom ed Annie, e questo spiegava la terribile risposta del ragazzo alle preoccupazioni della sua fidanzata: quindi il guaio era stato combinato comunque.
Candy disse ad Annie che solo il tempo avrebbe potuto sanare la questione: andare a parlare in quel momento con Archie sarebbe stato controproducente, essendo il ragazzo molto nervoso, per motivi non ancora del tutto chiari.
 
Albert rimase stupito della convocazione "per parlare d’affari" da parte di Raymond Legan, dal momento che l’idea di convocare una riunione l’aveva avuta lui per primo.
"Poco male, vorrà dire che prenderò due piccioni con una fava", aveva pensato, mentre riceveva Candy, in visita per restituirgli i gioielli che le aveva prestato per il ballo e per parlare di Archie.
Uscita dallo studio dello zio William, Candy incrociò Harrison.
"Il signor Legan ha convocato una riunione a Villa Legan a Lakewood, per parlare di affari; io credo che ci saranno sorprese. Perché non vieni anche tu? Con la scusa di visitare Dorothy? Potrebbe essere divertente".
"Io che c’entro?", rispose Candy perplessa, "Non so nulla degli affari tra i Legan e gli Andrew, se non quella storia dei resort; e perché dovrei divertirmi poi?".
"Non so, era un’idea".
 
Era già buio, quando Iriza sentì picchiare sul vetro della porta finestra che dava sul balcone.
"Harrison? Che ci fai qui? E come hai fatto a... ?", esclamò stupita, alla vista del ragazzo sul balcone, dopo aver aperto la porta finestra.
"Mi fai entrare? Sembra tu abbia visto un fantasma", rispose lui.
"In effetti... ma come sei arrivato qui?".
"Arrampicarsi sugli alberi e lanciarsi sui balconi non è prerogativa solo di Candy... sai, frequentando gli orfanotrofi si imparano molte cose e io so essere molto agile", commentò Harrison, ridendo.
"Sì ma... che ci fai qui, a quest’ora?".
"Avevo voglia di vederti, anche perché... cos’è questa storia che non posso entrare in questa villa? Oggi mi hanno respinto alla porta, quando sono venuto nel pomeriggio, e anche al ballo è stato molto difficile avvicinarti".
Iriza era in uno stato d’animo ambiguo: era felice di vederlo, ma triste per ciò che stava per dirgli.
"I miei hanno scoperto che sei un orfano e mi hanno proibito di vederti; i domestici hanno l’ordine di respingerti, qualora tu ti presentassi all’ingresso. È stato orribile... mi hanno attaccata, ho cercato di difenderti, ma non è valso a nulla; è stata tutta colpa di Neal...".
"Un orfano? Ah, già, dimenticavo. E così c’è sempre di mezzo tuo fratello... su, non fare quella faccia che tutto si sistemerà. Ci potremo vedere già domani stesso, visto che tuo padre ha convocato Albert per affari... e ci sarò anch’io".
"Ma tu non puoi entrare qui!", commentò, ingenuamente, Iriza.
"Sciocchina, con William Andrew posso entrare in qualunque posto. Ora vieni che ho voglia di stringerti un po’".
Iriza non se lo fece ripetere, ma, ancora una volta non si verificò l’evento da lei tanto atteso: Harrison si accomiatò da lei con un semplice bacio sulla fronte.
 
Il mattino seguente, Albert si presentò nello studio di Raymond in compagnia di Harrison.
"E lui che ci fa qui? Chi l’ha fatto entrare?", sbottò Neal, neanche fosse stato lui il padrone di casa.
"Dove vado io, viene anche lui", rispose Albert, mentre Harrison commentò:
"Potrei chiedermi la stessa cosa su di te, mio caro Neal: tu che c’entri con gli affari? Sono cose da grandi, lo sai?".
Raymond, che non aveva commentato, fece cenno al figlio di non ribattere.
"Accomodati William, e anche voi signor McFly, anche se mi chiedo anch’io il motivo della vostra presenza a questa riunione".
"Beh, ci arriveremo, vedrai che un motivo c’è. Sono invece curioso di sapere di cosa mi volevate parlare", precisò Albert.
Dopo che tutti si furono messi comodi, Raymond lasciò la parola al figlio che, con soddisfazione di Harrison, si stava dimostrando molto nervoso.
"Volevo informarti zio che ho concluso un affare che ci porterà grandi guadagni; papà, anche tu sarai fiero di me".
"Lo spero, ma visti gli ultimi disastri...", pensò Raymond.
Neal proseguì:
"Ho acquistato degli splendidi terreni, sui quali si possono edificare altri resort di lusso, per espandere il nostro volume di affari".
"Ragazzo, tu mi stupisci! Complimenti! E dove sarebbero questi splendidi terreni?".
Il ragazzo, sollevato dal fatto che non gli era stato chiesto con quali soldi avesse effettuato l’acquisto, rispose:
"Eh... sono proprio qui a Chicago... in periferia".
A queste parole, che non suscitarono reazioni particolari nei due ospiti, Raymond impallidì e cominciò a sudare.
"Figliolo, che stai dicendo?".
"Lascialo parlare, Raymond, sembra interessante. Continua pure, ragazzo".
"C’è una bellissima collina, poco distante da Lakewood, che penso ci farà guadagnare parecchio".
Albert, fingendosi stupito, commentò:
"Ah, tu parli della cosiddetta Collina di Pony, quella nei cui dintorni, se non sbaglio, sorge un orfanotrofio?".
"Esatto", rispose Neal, mentre suo padre si passava una mano sulla fronte, madida di sudore.
"E l’orfanotrofio?", chiese Harrison.
Il ragazzo, ghignando, rispose:
"Comprendo la vostra domanda signor McFly, data la vostra origine: quell’edificio, vecchio e brutto, si può abbattere e ricostruire altrove, non dovrebbe essere un problema".
"Dammi pure del tu, amico mio... ma non pensi che quell’edificio, vecchio e brutto, e quella collina, possano avere un valore affettivo per chi ci abita attualmente? Io credo di sì".
"Sono romanticismi inutili, gli affari sono affari, non c’è spazio in essi per sentimentalismi controproducenti: l’ho imparato lavorando alla banca".
Raymond si era versato un whiskey, che aveva mandato giù in un sorso.
"Maledizione! Avrei fatto meglio a parlarne prima con lui in privato", si disse, prevedendo tempesta.
"Lavorando?", si chiese Albert, prima di parlare a sua volta:
"Sai che ti dico nipote? Che hai avuto un’ottima idea e hai ragione: gli affari sono affari e poco conta il fatto che su quei terreni sorga un edificio caro alla mia pupilla".
Neal, che a differenza del padre, non aveva colto il sarcasmo delle parole di Albert, sorrise, o meglio, ghignò.
"È tutto molto interessante, tuttavia...", proseguì il capofamiglia, "... tuttavia ci sarebbe un piccolo problema, un intoppo".
"E sarebbe?".
"E sarebbe che non puoi abbattere edifici, spianare colline e costruire alcunché su... terreni che non possiedi".
Raymond pensò, ingurgitando un altro generoso bicchiere di liquore:
"Ci siamo, adesso arriva la batosta...".
"Ti sbagli zio, il terreno è mio, l’ho comprato da Cartwright ed è tutto in regola, tutto legale, guarda qui".
"Caro nipote, sappi che raramente mi sbaglio, specie su questioni così delicate", rispose Albert, prendendo il documento che Neal gli stava porgendo.
"Qui c’è scritto che hai acquisito i terreni in questione da Cartwright, accendendo delle cambiali alla banca Bowman & Brothers di New York, portando a garanzia il nome degli Andrew. E già questo mi dà fastidio. Poi a me risulta che non sia tu il proprietario di quelle terre, poiché qualcuno ha rilevato quelle cambiali, estinguendole: ed è tutto in regola, tutto legale".
Il ragazzo cominciò a sudare e a impallidire.
"Non è possibile... chi... ? Era una cifra cospicua e nessuno sapeva...".
In quel momento bussarono alla porta: era Stewart che annunciava l’arrivo del banchiere Bowman, accompagnato da George, il segretario particolare del signor William Albert Andrew.
"Ecco che ci faceva al ballo", pensarono all’unisono, padre e figlio.
"Benvenuto Bowman, accomodatevi; il ragazzo ci stava parlando di alcune cambiali sull’acquisto di certi terreni... voi ci potete confermare qualcosa?".
"Innanzitutto buongiorno a tutti; ma certo: il signor Neal Legan, qui presente, ha acceso dette cambiali, per l’acquisto a cui avete accennato, portando a garanzia il nome Andrew; essendo gli Andrew clienti stimati e affidabili, non ho riscontrato problemi; successivamente le cambiali sono state estinte e quei terreni hanno cambiato padrone".
"E ditemi, Robert, il nuovo proprietario si trova in questa stanza?", chiese Albert.
"Sicuro", rispose il banchiere, "È seduto proprio accanto a voi".
Ci mancò poco che a padre e figlio venisse un infarto in simultanea.
"State scherzando signor Bowman?", chiese Raymond, mentre il figlio non riusciva più ad articolare parole di senso compiuto.
"Niente affatto, signor Legan: ho comprato io i terreni. Sorpreso?", intervenne Harrison.
"Mi spiace, ragazzo", concluse Bowman rivolgendosi a Neal, "Gli affari non sono questioni per dilettanti. In futuro fate più attenzione e siate più onesto, se volete evitare sgradite sorprese come questa".
Finalmente Neal riuscì a farfugliare:
"Non è possibile... tu? Ma chi diavolo sei tu?".






CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Ve lo aspettavate? Titolo del prossimo capitolo: "Chi è realmente Harrison McFly?".
Un indizio, tempo fa, ve l’ho dato, grande grande. Chi pensasse di poter indovinare, o avesse un’idea in merito, è invitato caldamente, se vuol comunicarmelo, a farlo in privato e NON nelle recensioni. Grazie.

The Blue Devil



















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Chi è realmente Harrison McFly? ***


Buona lettura



Capitolo 24
Chi è realmente Harrison McFly?

Sebbene avesse consigliato ad Annie di far passare un po’ di tempo prima di affrontare il fidanzato, Candy era preoccupatissima e non riusciva a sopportare la vista dell’angoscia e della disperazione dell’amica: a sua insaputa, decise di agire e di andare a parlare con Archie.
Giunta a "Villa Andrew", seppe da Stear che il fratello era uscito a fare una passeggiata nei dintorni e, non essendo stupida, capì subito la meta dell’amico: che fosse andato dai Legan per azzuffarsi con Tom? In fondo quella era l’ora in cui avrebbe potuto trovare Tom da quelle parti. Quindi si rimise in marcia verso la villa dei Legan: doveva impedire a quei due di farsi del male, magari con l’aiuto di Albert e Harrison.
Lungo il tragitto incontrò Tom sul suo carro.
"Ehi, Candy, che ci fai da queste parti?", le chiese l’amico.
"Meno male che sei qui e che non ti è accaduto nulla".
"In realtà dovrei essere già dai Legan, ma oggi sono un po’ in ritardo... e che mi sarebbe dovuto accadere?".
Candy gli spiegò brevemente la situazione e Tom sbottò:
"Quell’ebete di un damerino non capisce proprio niente! Ma glielo faccio capire io come stanno le cose".
"Tu non fai proprio niente, mio caro, e te ne stai buono buono; ci penserò io a parlare con lui. Prometti".
"E se lui mi aggredisce? Lo lascio fare?".
"Non ti aggredirà. Prometti che non ti azzufferai con lui".
"Va bene, prometto. Tu che fai? Ti riporto alla Casa di Pony?".
"No, accompagnami dai Legan, che sei anche in ritardo".
"Bene, salta su che si parte".
 
Iriza aveva molti pensieri per la testa: riguardo a Dorothy, suo padre aveva minacciato di prendere provvedimenti contro di lei, perché sapeva la storia dell’orfanotrofio e non lo aveva informato; riguardo a sé stessa, c’era il rischio che la rispedissero in Europa, per impedirle di rivedere Harrison. E poi c’era stata la visita notturna del ragazzo che, invece di tranquillizzarla, l’aveva agitata ancor di più: una riunione con suo padre e lo zio William? Harrison che c’entrava con loro? Per questi motivi, decise che più tardi sarebbe andata a dare una sbirciatina... voleva vedere Harrison anche per dirgli del maglioncino per Daisy, che era pronto: temeva di non poterlo consegnare alla bambina di persona, per cui lo avrebbe dato a lui. La sua agitazione si accrebbe quando seppe della presenza, alla riunione, di Neal e di un banchiere di New York. Non le restava che attendere.

Stewart scese nelle cucine tutto agitato:
"Ragazze, qui sta succedendo qualcosa di grosso".
"Ti ringrazio per il ragazze Stewart, ma l’unica cosa grossa qui è il ritardo del ragazzo del signor Steve... e il tuo: è un po’ che ti aspetto per darti gli ordini della signora", rispose l’anziana cuoca.
"No, no, tu non capisci! Prima le urla nello studio tra il signorino Neal e suo padre; poi è stata la volta della signorina Iriza; oggi sono arrivati il signor Andrew in persona e quel tale, McFly, e si sono chiusi nello studio con il padrone ed il signorino; e come se non bastasse è arrivato anche un banchiere. Secondo me c’è qualcosa di grosso che bolle in pentola".
"Sì, hai ragione, è il pranzo di oggi", osservò una cameriera, divertita dall’eccitazione del maggiordomo-autista.
"Non scherzare, ochetta: poco fa è giunto anche Archibald Cornwell, l’ho visto aggirarsi nel giardino, e subito dopo Candy e Tom Steve. C’è troppa gente tutta insieme, mi pare".
La cuoca lo riprese ancora:
"Va' a sentire se i padroni hanno bisogno di qualcosa, invece di startene qui a ciondolare e a gongolare su cose che non ci riguardano".
"Certo che vado", rispose il maggiordomo, afferrando un biscotto avanzato dalla colazione di una delle domestiche.
"Bada: ho detto sentire, non origliare", concluse la cuoca, osservando l’uomo che se ne andava saltellando.

Le domande di Neal caddero momentaneamente nel vuoto, poiché il ragazzo si rivolse al banchiere:
"E che significa siate più onesto? Mi state dando del disonesto, forse? Era tutto in regola e per me il nostro contratto è valido".
Albert fece un cenno al banchiere e si rivolse al nipote:
"Te lo spiego io il significato delle parole del signor Bowman: tu ti sei presentato da lui dicendogli che agivi per mio conto e gli hai fatto spedire un emissario da Cartwright* per l’acquisto dei terreni, adducendo motivi di riservatezza; gli hai detto che non volevi farti vedere nella proprietà di Cartwright, perché quell’acquisto doveva essere una sorpresa; inoltre, in questo modo, hai usufruito di un prezzo di favore. In pratica hai truffato il povero Cartwright, che credeva di vendere a me".
"E ha anche dato disposizioni di avvertire il venditore di non parlare della vendita, sempre per non rovinare la presunta sorpresa", intervenne Bowman.
"Però", proseguì Albert, "non ti aspettavi, caro nipote, che inviassi George presso Cartwright per acquistarli davvero quei terreni; naturalmente gli ho fatto la stessa tua raccomandazione**, per motivi diversi, ovviamente".
"Certo che non me l’aspettavo... sapevo che avevi già avuto l’intenzione di acquistare quei terreni, ma poi credevo che avessi abbandonato l’idea. Comunque non vedo dove sia il problema, io li ho voluti acquistare per espandere il nostro giro d'affari, non pensavo che tu fossi contrario".
Raymond, sprofondato nella sua poltrona, con una mano a tenersi la fronte, ascoltava attonito, senza riuscire ad articolare una sola parola: aveva solo voglia di prendere a schiaffi il figlio.
"Ma piantala di dire idiozie e non offendere la nostra intelligenza: abbiamo ben compreso il motivo per cui l’hai fatto… e secondo te, se tuo zio avesse voluto espandere il giro d’affari con quei terreni, ci avrebbe costruito una cappelletta nuova per l’orfanotrofio?", intervenne Harrison.
Seguirono attimi d’imbarazzo prima che Albert proseguisse nel racconto:
"Su consiglio di George, sono andato alla Casa di Pony a mettere la pulce nell’orecchio alle direttrici, perché andassero da Cartwright per essere rassicurate***".
"E perché?", chiese Neal.
"Perché qui entro in gioco io", intervenne Harrison.
"Già, m’ero dimenticato di te... che cavolo c’entri tu, in questa faccenda?".
"Intanto, sappi che conosco Harrison da tempo...", disse Albert.
"Tuo zio mi ha incaricato di scoprire chi ci fosse dietro all’imbroglio, ma... in realtà lo aveva già capito... dico bene?".
"Dici quasi bene", rispose Albert, "Quando ti ho dato l’incarico mi mancavano le prove, che poi ho recuperato a New York, scoprendo la sorpresa; non ti ho detto niente perché volevo capire cosa stessi combinando e perché ti ho visto così preso da Iriza...".
"Già, ho fatto tutto per lei", rispose Harrison.
"Cioè?", chiesero a una voce tutti i presenti.
"Quando sono arrivato a Chicago e sono andato sulla Collina di Pony, per avvertire Candy dell’imminente ritorno di Terence" – a udire quel nome Neal fece una smorfia – "ho intravisto una ragazza, che ancora non sapevo chi fosse, insieme a Candy: è stata una folgorazione, mi è piaciuta subito, e quando ho saputo la sua identità, ho voluto provare a vedere se era veramente così come me l'aveva descritta Terence... mi sarebbe dispiaciuto doverla perdere; ho capito ben presto che non sapeva nulla sui terreni, era al corrente solo dell’affare della collana".
"Ti correggo: mia sorella sapeva tutto", tentò Neal.
"Già, ma visto che non t’ha aiutato nemmeno con la collana, direi che la si può scagionare; sicuramente le avevi parlato della faccenda dei terreni, ma lei non è entrata nell’affare e non ti ha aiutato: hai fatto tutto da solo. Non c’è bisogno che ti dica come faccio a saperlo, lo sai già; ma forse lo potrei raccontare agli altri".
Neal diede un’occhiata alla porta e notò due cose: era socchiusa, e c’era una persona dietro che ascoltava.
"Guarda chi c’è... però, un secondo fa, la porta era chiusa... se ho avuto un po’ di fortuna, non ha sentito ancora niente", pensò.
Nessuno si accorse della cosa: solo Neal era di fronte alla porta e suo padre era troppo intento ad asciugarsi il sudore sulla fronte.
"Bene, bene, mio caro signor McFly! Mi stai dicendo che il tuo interesse per Iriza è falso? Se ho capito bene ti sei attaccato a lei solo per controllarla, ma in realtà non ti frega niente di mia sorella e dei suoi sentimenti".
Pronunciate queste parole, Neal, molto abilmente, diede un colpo sulla scrivania e si diresse verso la porta, dicendo:
"Questa è meglio chiuderla, non vorrei mai che Iriza, passando di qua per caso, sentisse quanto sei stato spregevole con lei: quello che ci hai appena raccontato è orribile, in pratica l'hai solo usata".
E, con una vigorosa spinta, chiuse la porta, pensando:
"Speriamo che abbia funzionato... ma penso di sì".
Dopo qualche attimo di silenzio, Harrison riprese:
"Non mi pare di aver detto questo: i miei sentimenti per tua sorella sono sinceri, genuini; lei non è un mostro come te, mio caro".
"Ma raccontaci un po’ quello cui hai accennato, Harrison, siamo curiosi", chiese Albert, che già sapeva tutta la storia.
"Beh, forse non sapete che io e Neal ci conoscevamo già****, ho avuto questo dispiacere qualche tempo fa, quando sono venuto a Chicago per la consueta visita al mio orfanotrofio preferito. Ricordi Neal? Ti ho trovato in una bettola, mezzo ubriaco, a festeggiare la tua impresa; non è stato difficile farti bere ancora, così hai vuotato il sacco su tutto; scommetto che pensavi di avermi parlato solo della collana... quando ho capito che parlavi dei terreni su cui sorge la Casa di Pony e che questa fosse una vendetta contro Candy, ho deciso di agire".
Poi si rivolse ad Albert:
"Non ti ho detto niente perché, nel frattempo, avevo visto Iriza e mi serviva del tempo per lavorare su di lei... se non avesse funzionato...*****".
"È stato molto difficile tenere a bada Terence e tenere all’oscuro di tutto Candy e le direttrici", commentò Albert.
Harrison aggiunse:
"Comunque Candy e l’orfanotrofio non avrebbero corso rischi se il mio piano di recupero di Iriza non avesse funzionato: in qualunque momento sarei potuto intervenire con la lieta novella. Solo Archibald Cornwell ha creato problemi... non so se capirà, quel testone".
Neal, che mentalmente stava maledicendo il proprio vizio per l’alcol che lo rendeva troppo loquace, sbottò:
"Comunque tutta questa discussione è inutile, anche se lo zio è contrariato, resta il fatto che i terreni sono miei. Tu sei un orfano: dove e come hai potuto trovare la somma per l’acquisto? Ho l’impressione che anche tu stia truffando qualcuno qui... è impossibile che un orfano disponga di tale liquidità. Hai forse firmato cambiali pure tu? Mi stupisco di voi, Bowman, dare credito ad un pezzente".
Harrison scoppiò a ridere, imitato da Albert; solo Raymond non aveva molta voglia di ridere.
"Orfano io? Che assurdità! Io non ho certo bisogno di firmare cambiali e non sono un pezzente".
"Ma che diavolo vai dicendo? Ti ho sentito che ne parlavi con Archie e l’hai detto anche ad Iriza".
"Ah, tu hai origliato il mio alterco col simpaticone! Ma lui mica ha udito ciò che ho detto ad Iriza: io non le ho mai detto di essere un orfano, le ho solo detto che l’orfanotrofio in cui l’ho portata è il posto in cui sono stato abbandonato. È una cosa diversa".
"Stai cercando d’imbrogliare le carte? È la stessa cosa".
"Ora te lo spiego meglio: ricordi il fazzoletto che diedi ad Iriza il giorno della cavalcata?".
"Sicuro, quello con le iniziali dei tuoi nomi ricamate sopra".
"Una H e una G; bene ti informo che io ho un solo nome ed è Harrison; sei così stupido che hai creduto davvero che mia madre non avesse voglia di ricamare le altre lettere? Iriza la capisco, era confusa quel giorno, ma tu...".
Neal, furibondo, andò alla scrivania, afferrò il documento di proprietà dei terreni portato da Albert e lo sventolò sotto il naso di Harrison.
"Che c’è scritto qui? Chi è il proprietario di quegli stramaledetti terreni?".
Harrison finse di sgranare gli occhi.
"Aspetta che leggo bene. Qui c’è scritto: acquirente Harrison G. McFly. È esatto, che c’è che non va?".
Candy, messasi da poco a origliare dietro la porta, ebbe un sussulto.
Neal lo guardò con fare interrogativo. Harrison proseguì:
"Sai cosa indica la G? Indica il mio cognome, quello normale: io sono Harrison Graham McFly, figlio del conte McFly; che, se non lo sai, è il fratello del duca di Grancester".
"Il cugino di Terence?", pensò Candy, "Come Terence G. Grancester... i Legan non potevano saperlo".
"Che significa?", farfugliò Neal, "E l’orfanotrofio?".
"La storia della mia famiglia non è affar tuo; ti basti sapere che hai preso una cantonata e che io sono cugino di Terence Graham. Il resto non ti deve interessare".
Non si possono descrivere le espressioni che, a quella rivelazione, si disegnarono sui volti dei due Legan.
A quel punto il banchiere ritenne che la sua presenza non fosse più necessaria; Albert lo ringraziò per essere intervenuto alla riunione e incaricò George di riaccompagnarlo al suo albergo; poi si rivolse al nipote:
"Ma che volevi fare? Ma davvero credevi di prenderci tutti per il naso?".
Neal non rispose; fu suo padre a parlare per lui.
"William, voglio sperare che tu non creda che io c’entri qualcosa; non sapevo nulla di questa bravata e neanche delle altre".
"Chiamale bravate, potevano avere gravi conseguenze e causare grossi problemi", commentò Harrison.
"E io voglio sperare che tu punisca tuo figlio in maniera adeguata: a me basterebbe che ce lo levassi dai piedi per un bel pezzo. Lo so che tu non c’entri: sul lavoro ti stimo e non credo saresti stato così stupido da architettare una scemenza del genere, sperando di farla franca; sei troppo rigoroso e intelligente. E non preoccuparti per Bowman: siamo d’accordo a non denunciare Neal; uno scandalo, ora, danneggerebbe i nostri affari", lo rassicurò Albert.
"Ti assicuro, William, che punirò mio figlio e che ve lo leverò di torno, almeno per un po’".
Una stretta di mano tra Albert e Raymond pose fine alla riunione.
Rimasti soli, padre e figlio, il secondo osò aprir bocca:
"Denunciarmi? Ma l’hai sentito quello? Chi crede di essere?".
Raymond, mantenendo a stento la calma, rispose:
"Neal fammi una cortesia: abbi la decenza di chiudere il becco una volta per tutte, altrimenti sarò io stesso a denunciarti! E non sarebbe una cattiva idea, ti farebbe bene un po’ di reclusione. Ora va’ in camera tua e restaci. Ovviamente ti proibisco di uscirne e di aver contatti con chicchessia; darò disposizioni ai domestici in tal senso. Ora vattene, lasciami solo, che devo pensare".
Neal uscì dallo studio a testa bassa, mentre suo padre, versatosi l’ennesimo whiskey si sprofondava nella poltrona.
 
Harrison e Albert furono sorpresi di trovare Candy nel corridoio. Il primo le disse:
"Pensa, neanche si sono scusati per avermi insultato... comunque te l’avevo detto che ti saresti potuta divertire".
"Un amico di Terence, eh? E così tu saresti... il cugino di Terence? Harrison G. McFly... io ci sarei arrivata, pensandoci su, ma Neal... però è strano: Terence non mi ha mai parlato di te, mentre tu, Albert, lo sapevi".
"È una lunga storia...", rispose Harrison.
"Sì, lo conosco da tempo il buon Harrison", aggiunse Albert, "Allora Harrison, vogliamo andare? Qui abbiamo finito, per ora… sicuramente, più avanti, avrai le tue scuse".
Mentre Albert già si avviava, Candy volle fare un’ultima domanda a Harrison:
"Ma che è successo con Neal? Non l’ho ben capito".
"Anche questa è una lunga storia, magari poi te la racconto... ma cos’hai in mano? Il vestitino di una bambola?", le chiese il ragazzo ridendo.
"Ah, questo? Non so, non è mio, l’ho trovato in terra, davanti allo studio".
In quel momento giunse Dorothy, correndo e con un’aria preoccupata che non piacque a Candy.
"Presto venite, Tom e Archibald si stanno fronteggiando... ma... quello è il maglioncino per la piccola Daisy! Perché ce l'hai tu?".
Le ultime parole la cameriera le pronunciò indicando l’oggetto che Candy teneva in mano.
"Che cos’hai detto?", chiese Harrison, al colmo dello stupore.




*      è il tipo ben vestito visto da Tom e Jimmy nel capitolo 3.
**    lo dice nel capitolo 7; e nel capitolo 6, Cartwright è vago con Suor Maria e Miss Pony.
***   nei capitoli 3 e 6.
**** 2° capitolo, 12^ riga, nella mia visualizzazione, dell’ultimo paragrafo; quando avrebbe capito com’era fatto Neal, se non lo avesse conosciuto prima?
***** nel capitolo 19, verso la fine del 1° paragrafo, Harrison accenna a Candy che "gli ubriachi parlano troppo"; nel capitolo 5, secondo paragrafo, Harrison pensa: "o funziona o ciao ciao signorina Legan".






CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Nel secondo capitolo, inoltre, Harrison fa di tutto per non farsi vedere da Neal, nascondendosi dietro il divano, per non fargli capire che conosceva Albert: anche questo ci indica che Harrison e Neal già si conoscevano. Ancora nel capitolo 4, 2° paragrafo: "Tutti e tre si voltarono ad osservare il nuovo venuto: la madre si chiese chi fosse e cosa ci facesse lì quel giovanotto; i ragazzi si fecero solo la seconda domanda. Tutti e due". Si capisce, no? L’affare di cui parlavano Neal e Harrison, udito da Archie, nel capitolo 6, era quello della collana (Neal ricordava di avergli parlato solo di quello).
Mi scuso per l’uso eccessivo degli asterischi, ma ho voluto mantenere la coerenza con gli altri capitoli. Magari in futuro li sostituirò con gli apici numerici.

The Blue Devil

















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Un fiume di lacrime... ***


Buona lettura



Capitolo 25
Un fiume di lacrime...
 
Harrison avrebbe voluto chiedere spiegazioni a Dorothy, anche se aveva compreso che il piccolo lavoro a maglia era collegato ad Iriza: Candy aveva affermato che non era suo e di averlo trovato in terra e Dorothy aveva detto che era per Daisy; in qualità di cameriera era possibile che Dorothy avesse deciso autonomamente di confezionare quel maglioncino? Anche fosse stato così, lì, fuori dello studio, non l’aveva portato lei... e chi altri conosceva Daisy, in quella casa di matti, se non Iriza? Harrison, in una frazione di secondo, collegò tutto: le frasi, apparentemente fuori luogo, di Neal sul suo rapporto con Iriza, pronunciate a voce alta; il suo strano comportamento con la porta; e quel piccolo indumento che, a detta di Dorothy, era il "maglioncino per Daisy".
Tutto faceva pensare che Iriza si fosse trovata dietro la porta dello studio di Raymond e avesse ascoltato la discussione tra lui e Neal: ma cosa aveva udito di preciso?
"Quel Neal è davvero diabolico e a volte mi fa paura pensare che anche sua sorella sia stata così", pensò.
Avrebbe voluto fare parecchie cose: parlare con Dorothy e chiederle di raccontargli del maglioncino; correre subito da Iriza per spiegarle come stavano realmente le cose tra loro; rompere il muso a Neal. Ma, ora, bisognava dar retta a Dorothy e aiutarla a dividere quel cretino di Archie e il buon Tom, novelli duellanti.
Giunti in giardino, Candy, Harrison e Dorothy trovarono i due ragazzi uno di fronte all’altro, i pugni serrati, a guardarsi in cagnesco. Tom, notata l’amica bionda, disse:
"Non è stata colpa mia, ha cominciato lui".
"Tu sta’ zitto", sibilò Archie, "Ti credevo un amico e invece sei un traditore".
"E tu sei un cretino", ringhiò Tom.
Nessuno dei due pareva intenzionato a cedere il punto, né a sferrare il primo colpo, e la situazione poteva degenerare da un momento all’altro; ci pensò Harrison, frapponendosi tra loro, a evitare che si colpissero:
"Io dico che siete cretini entrambi. Vi sembra il modo di chiarirvi, questo?".
"Non c’è niente da chiarire", protestò Archie, "Lui fa il cascamorto con due ragazze: frequenta Dorothy e prende in giro Annie; o è il contrario forse? Raccontacelo un po’ tu, bellimbusto".
"Perché non lo chiedi ad Annie e la finisci di rompere, damerino?".
"Vuoi batterti? Fatti avanti, che ti sistemo".
"Sai, una volta ho fatto a pugni con tuo cugino Anthony: lui valeva più di te e mi diede filo da torcere... finimmo alla pari. Non temi che si possa rovinare la tua bella camicia di seta?"*.
"Non costringetemi a suonarvele a tutti e due! Archie, noi due non ci siamo presi molto bene fin dall’inizio, ma vorrei che diventassimo amici; il mio primo consiglio da amico è: fa’ come ti ha detto Tom, parlane con Annie", s'intromise minaccioso Harrison.
"Ascoltalo Archie, ha ragione lui", lo pregò Candy.
"Ci mancherebbe solo che si picchiassero in tre, qui, nel giardino dei Legan", pensò Dorothy, preoccupatissima.
"Amici? E perché dovrei ascoltarlo? Non ti sarai fatta mica abbindolare anche tu, Candy? Costui è in combutta con Neal, li ho uditi cospirare con le mie orecchie".
"Non è come sembra: Harrison è il cugino di Terence e la cospirazione, come la chiami tu, è già risolta... anzi, non è mai esistita. Anche Albert ne è a conoscenza", disse Candy, in tono di preghiera.
La notizia che Harrison fosse il cugino di Terence, fece ammutolire coloro i quali non ne erano ancora a conoscenza.
"Ti prego Archie, torna a casa e parlane con Annie... sta soffrendo molto per questa situazione".
"E va bene", rispose Archie, "Però, cugino o non cugino, non mi fido di te. D’ora in avanti ti terrò d’occhio... e con te non finisce qui", rivolgendosi a Tom, "Me ne vado, ma solo per rispetto alle ragazze".
Detto questo, Archie montò in sella al cavallo con cui era venuto e, lanciatolo al galoppo, disparve nella boscaglia.
Tom si avvicinò a Harrison e, porgendogli la mano, disse:
"E così tu sei il cugino di Terence... ".
Harrison, stringendogli la mano, rispose, facendo arrossire Candy:
"Già, così pare; mi fa piacere conoscere gli amici della futura moglie di mio cugino".
"Sai, Archibald Cornwell non è un ragazzo cattivo, ma è un testone che prende fuoco facilmente... e quando s’infiamma non ragiona, soprattutto se ci sono di mezzo Candy e i Legan", aggiunse poi, Tom.
"Me ne sono accorto... ora però vi devo lasciare, devo risolvere un problema e mi servirà l’aiuto di Dorothy, quindi te la porterò via per un po’, se non ti dispiace", concluse Harrison.
Anche Dorothy si colorò in viso per queste ultime frasi.
 
Iriza se ne stava seduta nella sua stanza a guardare fuori dalla finestra: chi l’avesse vista in quel momento, avrebbe sicuramente notato quanto fosse inespressivo il suo viso. Guardandola non si poteva capire quale tremenda battaglia stesse scuotendo il suo animo e quali sentimenti ne scaturissero: delusione? Tristezza? Disperazione? Rabbia? Desiderio di vendetta? E contro chi? Non riusciva né a parlare, né a pensare, né a piangere, benché ne avesse una gran voglia: si trovava in uno stato di apparente completa apatia.
Apatia dalla quale si riscosse, quando Dorothy bussò alla porta e lei, distrattamente, le diede il permesso di entrare. La cameriera posò il vassoio, con il tè e i biscotti, sul tavolino e disse:
"Ho pensato che avresti gradito un po’ di tè con dei biscotti".
Dorothy aveva parlato con Harrison e gli aveva confermato quanto lui già sospettava, compresa quella strana seconda visita all’orfanotrofio, il cui scopo era stato prendere le misure a Daisy per confezionarle un caldo maglioncino per l’inverno: un’idea tutta di Iriza. Era stata anche informata del fatto che probabilmente la sua padroncina aveva udito una parte, la peggiore, della discussione che si era tenuta nello studio del padrone, circostanza avvalorata dalla presenza, sul pavimento antistante allo studio, dell’indumento rinvenuto da Candy. Questa ipotesi era stata confermata anche dalla risposta che Harrison aveva ricevuto dalla signora Legan, ancora all’oscuro di ciò che era accaduto nello studio:
"Vorreste vedere mia figlia? Il fatto che voi siate arrivato qui in compagnia di William Andrew, non vi autorizza a comportarvi come se foste il padrone. Nulla è cambiato per quanto mi riguarda, la vostra presenza non è gradita in questa casa. Inoltre mia figlia mi ha detto, quando si è ritirata nella sua stanza, di non voler vedere nessuno, nemmeno quell’orribile signor McFly! Così ha detto, quindi vi prego di andarvene".
Harrison aveva deciso di andarsene, per non creare ulteriore confusione, ma aveva incaricato Dorothy di "indagare" e di informarlo. In un secondo momento si sarebbe presentato ai Legan, esigendo il rispetto che il suo rango gli assicurava.
"Hai pensato? Tu hai pensato? Da quando pensi? Tu non sei pagata per pensare, ma solo per eseguire degli ordini", sibilò Iriza, "E poi, come ti permetti di dare del tu alla tua padrona? Va’ via e lasciami in pace".
"Scusatemi signorina...", azzardò Dorothy, "Vi lascio questo... l’ho trovato in terra".
Iriza, che aveva ricominciato a guardare fuori dalla finestra, si voltò di nuovo e, vedendo il maglioncino, ringhiò:
"Non m’interessa più... buttalo! Anzi no, usalo come straccio".
Quelle parole fecero gelare il sangue nelle vene a Dorothy che, tuttavia, aveva scorto negli occhi di Iriza – nel momento in cui aveva visto l’indumento – la luce che aveva sempre notato ogniqualvolta si era parlato di Daisy e, ben stretto tra le mani, un fazzoletto che non faticò a riconoscere. Ma, questa volta, quella luce, s’era spenta subito. La cameriera, comunque, non si voleva rassegnare:
"Non lo pensate veramente, lo so".
A questo punto, la figlia dei Legan si alzò e le si avvicinò:
"Lo sai? Cosa sai, tu? Tu non sai proprio niente! Avevi torto, questo lo sai? Io, al contrario, avevo visto giusto: io sono Iriza Legan, non c’è nessun futuro per me, all’infuori di quello che mi sono creata da sola in tutti questi anni; la mia vita è fatta di cattiverie, intrighi, macchinazioni, tradimenti... e nessuno può vederci altro... nemmeno... nemmeno lui!", e strinse più forte il fazzoletto, "Sono la solita Iriza di sempre, sono velenosa, lo sanno tutti, ha ragione Archie... e anche tu, stammi lontana se non vuoi avvelenarti. Vattene e portati via quello stupido straccio... vattene via, ti dico".
Iriza spinse Dorothy fuori dalla stanza, mentre alcune lacrime cominciavano a cadere sul fazzoletto: alla fine era crollata. Chiusa la porta, vi si appoggiò con le spalle e si accasciò a terra, prendendosi il volto tra le mani: ora, ciò che sgorgava dai suoi occhi e che allagava il fazzoletto poggiato sul suo grembo, era un fiume di lacrime.
Dorothy rimase dietro la porta, in ascolto:
"No, non sei la solita Iriza di sempre... stringi ancora tra le mani il fazzoletto di Harrison e stai piangendo! La vecchia Iriza non avrebbe mai pianto, ma sarebbe stata subito divorata dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, tu invece... piangi... e io non posso vederti così...".
Dorothy decise di conservare il maglioncino: era sicura che sarebbe stata proprio Iriza a chiederglielo, quando sarebbe stata pronta, quando sarebbe giunto il momento.
 
Nel pomeriggio, Candy seppe da Annie che Archie non s’era visto: né a "Villa Andrew", dove risiedeva attualmente; né dai Brighton; né nelle abitazioni cittadine degli Andrew; né alla "Casa di Pony". Neanche Stear l’aveva visto, né sapeva dove fosse.
"Ma dove si sarà cacciato quello stupido? Stupido e insensato, non hai capito niente", pensò Candy, prima di commentare:
"Non ti preoccupare, cara, tutto s’aggiusterà, vedrai".
"Invece, conoscendolo, io ho paura che possa fare qualche sciocchezza... lo sento", rispose l’amica.
"No, no, stai tranquilla... è tutto risolto e sono sicura che anche Harrison ci darà una mano, ora che si è scoperto essere il cugino di Terence. E poi che sciocchezze vuoi che possa combinare?", affermò la bionda, simulando una tranquillità che non aveva.
 
La giornata di Harrison, che aveva la morte nel cuore dopo essere stato informato da Dorothy sullo stato di Iriza, proseguì nello studio di Albert. Dopo che si furono accomodati, il capofamiglia Andrew cominciò:
"Il motivo per cui tu abbia rilevato le cambiali di Neal lo posso immaginare; ma, ora, che vuoi farne di quei terreni?".
"Beh, quando ho sentito che c’era un cretino che blaterava di abbattere orfanotrofi, ho creduto si trattasse del mio; poi, facendolo bere, sono saltati fuori i nomi Legan e Pony e ho capito tutto. Comunque, non potevo permettere che fossero abbattute strutture che ospitano bambini, a prescindere".
"Questo l’ho capito, ma adesso?".
Harrison non ebbe bisogno di pensarci e rispose:
"Ho sempre avuto l’intenzione di donare il terreno alla struttura che vi sorge, ma a una condizione".
"Sentiamo", intervenne Albert.
"È mio desiderio che la Casa di Pony venga ristrutturata, ampliata e che possa ospitare i miei piccoli amici: prima ho parlato a Neal di valore affettivo, ma mi riferivo solo ai bambini di Candy; la struttura che ospita la piccola Daisy e gli altri è ormai fatiscente ed è situata in una brutta zona della città; anche se io ci sono affezionato, sono sicuro che i bambini starebbero molto meglio alla Casa di Pony, edificata in un bellissimo luogo, aperto e sano; e poi, dopo la morte di Mamma Ruth l’anno passato, il buon vecchio Papà David, suo fratello, non ce la fa più a seguire tutti i bambini da solo".
"Continua, mi interessa", disse Albert.
"Avevo pensato a una fondazione Andrew-McFly, per non gravare su una sola famiglia, per dividere le spese, insomma".
Albert parve pensieroso.
"C’è solo un intoppo: Miss Pony e Suor Maria non accetteranno mai di accollare tutte le spese su di noi; hanno già rifiutato una volta, permettendomi solo di regalar loro una cappelletta nuova e una parvenza di ristrutturazione; sono due brave donne, molto orgogliose del proprio lavoro".
"Questo lo so e l’ho messo in conto. È stato sbagliato il modo in cui gliel’hai offerto, l’aiuto, non il fatto di averglielo offerto: hanno sicuramente pensato ad un’elemosina oppure che tu lo facessi solo per via di Candy. Io ho pensato di presentarglielo come un investimento, un affare; non esattamente un prestito, ma qualcosa di simile. La Casa di Pony svolge una funzione sociale molto importante e sarebbe un peccato se non sopravvivesse alle sue fondatrici: quella struttura deve continuare ad esistere anche dopo di loro e questo mi pare sia l’unico modo perché ciò accada. Io gliela presenterei così".
"E David, o come dici tu, Papà David?".
"Potrebbe affiancarle nella gestione: lui è bravo con le scartoffie e con l’amministrazione".
Dopo averci pensato, Albert disse:
"In fondo i terreni sono tuoi e questa mi pare un’ottima idea; d’accordo, faremo così".
"Non resta che avvertire Cartwright che è tutto a posto".
"Dirò a Tom di avvertirlo... anzi no, gli farò visita io stesso nei prossimi giorni".
Una stretta di mano suggellò l’accordo tra i due gentiluomini.

In serata, Raymond mise a parte degli ultimi eventi anche la moglie e fece chiamare Neal: aveva preso una decisione ed era ora che i familiari ne fossero informati.




* si ricordi l'episodio 21 (Ali d'amore), della serie TV. Inoltre è notorio l'"attaccamento" di Archie verso le camicie di seta (dal primo incontro con Candy).










CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Quando scrivo ‘ste cose (la reazione di Iriza) mi sento male.

The Blue Devil











Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** La decisione di Raymond Legan ***


In questo capitolo ho voluto inserire un piccolo regalo "bollente"... spero vi sia gradito.
Buona lettura




Capitolo 26
La decisione di Raymond Legan
 
"Ma dico io, sei impazzito? Ora mi spieghi che diavolo hai in quella testa".
Raymond era davvero fuori di sé; chi lo avesse visto e sentito in quei momenti, avendolo conosciuto in precedenza, avrebbe fatto fatica a riconoscerlo:
"Chi? Raymond Legan? Ma va’, è un tipo posato e tranquillo, che non s’arrabbia mai".
Troppe, tutte insieme, gliene aveva combinate suo figlio, un ragazzo diabolico capace di far perdere anche a Giobbe la sua proverbiale pazienza!
"Ma papà, io volevo dimostrarti di non essere l’incapace che tu pensi; volevo che tu fossi fiero di me, che tu...", azzardò il ragazzo, venendo tuttavia bruscamente interrotto.
"Certo figliolo che sono fiero di te! Ma ti ascolti quando parli? Per dimostrarmi di essere capace e far sì che io sia fiero di te, vai a rompere le scatole a Candy, alla Casa di Pony, a Cartwright? Che poi significa dare fastidio a William Andrew in persona? Proprio adesso che c’è in gioco un grossissimo affare? E sì, che ti era stato detto di startene tranquillo, almeno per un po’", e, in cerca di conferma, guardò la moglie, che annuì con un cenno del capo.
"Almeno tua sorella ci ha dato ascolto... ma tu no, tu dovevi giocare a fare il grand’uomo col fiuto per gli affari! Tu hai problemi, hai bisogno di farti curare".
"Ma papà...".
"Niente papà e mammà... ma dico io, radere al suolo l’orfanotrofio di Candy! Ma neanche a un cretino sarebbe venuta in mente un’idea più stupida di questa!".
"Mamma...", rantolò Neal, senza ricevere il conforto sperato.
"Una cosa che non ti potrò perdonare facilmente", proseguì Raymond, "è l’aver coinvolto addirittura il banchiere di fiducia degli Andrew... ma neanche a raccontarle ‘ste cose, ci crederebbe qualcuno! Mio figlio che firma cambiali a nome di William Andrew al banchiere di William Andrew! Roba da matti, da non credere...".
"Conosco solo Bowman...".
"Ora taci, che non ho certo finito. Non ti erano bastate le enormi cazzate...", e qui incassò l’occhiataccia e il grugnito di sua moglie, "Perché quello sono e perdonatemi il termine, ma non ne trovo di più adatti per definire le tue azioni... dicevo che non avendo trovato sufficienti le enormità precedenti, come la scenetta ridicola con Candy, di fronte a tutta la famiglia, e la faccenda della collana di tua madre, di fronte a zia Elroy, hai pensato bene di farmi fare una figuraccia davanti, addirittura, ad un conte e a Bowman; mi sono sentito morire in quei momenti. E anche tu, però, Sarah...".
"E che ne sapevo io? Ho fatto fare ricerche, ma qui a Chicago nessuno lo conosce quel McFly", intervenne la signora Legan.
"E ti credo", rispose Raymond, "come vuoi che lo conoscano qui se è un nobile inglese? Tu lo sapevi chi è Terence Grancester? Sapevi che è il figlio di un duca?".
"Neal mi aveva assicurato che McFly fosse un orfano...", grugnì la donna, lanciando un’occhiata di disapprovazione al figlio.
Raymond, che fino a quel momento aveva "passeggiato" nervosamente per la stanza, passando e ripassando davanti a Neal, andò a sedersi dietro alla scrivania, dopo essersi servito un bicchiere di scotch e aver chiesto a sua moglie se desiderasse un bicchierino di cognac.
"No, grazie Raymond, ma sono a posto così", fu la risposta della donna.
"Ammiro e invidio il tuo sangue freddo", fu il commento del marito.
Seguirono attimi di silenzio, durante i quali Neal rimase in piedi a capo chino, prima che Raymond riprendesse il discorso:
"Guarda, dovrei spedirti in Messico, per tutto quello che hai combinato... e non è detto che non lo faccia... ma Garcia sta facendo un ottimo lavoro e tu sei pur sempre mio figlio, l’unico figlio maschio... per cui, ora ti dico cosa faremo".
Alla parola "Messico" sia Neal, che sua madre, erano trasaliti, sgranando gli occhi, per poi tranquillizzarsi subito dopo. Ora non restava loro che ascoltare le decisioni che Raymond aveva preso sul futuro del figlio.
 
Iriza era stata avvertita della "riunione di famiglia", ma aveva preferito restarsene, da sola, in camera: non voleva vedere nessuno, tantomeno Neal; e comunque poco le interessava quel che gli sarebbe accaduto. Di fronte agli altri si mostrava dura e altera, ma, nel chiuso della sua stanza, non faceva che piangere, stringendo il famoso fazzoletto di "H. G.".
Dorothy aveva già avuto l’occasione di informare di ciò Harrison, mentre anche Stewart si era accorto della situazione. Era tutto eccitato, quando si presentò nelle cucine.
"Ve l’avevo detto io, che oltre alle tue succulente pietanze, c’era qualcosa di grosso in pentola", dichiarò fiero, rivolgendosi alla cuoca, che rispose:
"Sì, il pollo per la cena; lo sai che non sta bene origliare gli affari dei padroni?".
"E come credi che riesca a sopravvivere un maggiordomo, specie in questa gabbia di matti? Comunque tu scherza pure, ma... le urla di questa mattina e poi tutta quella gente, compresi conti e banchieri! E il silenzio... e questa sera si ricomincia a urlare nello studio del padrone, presenti lui, il figlio e la padrona: c’è qualcosa di grosso che bolle in pentola, ve lo ripeto, e, da quel che ho potuto capire, stiamo per liberarci di un gran rompiscatole. E non sapete la parte migliore...".
Dorothy, che immaginava a cosa volesse alludere il maggiordomo, lo pregò:
"No, Stewart, ti prego... lei lasciala stare... sta troppo male".
"Ma è una cosa molto interessante e difficile a credersi".
"Spara", disse la cuoca, attirando l’attenzione delle altre cameriere.
"Si tratta della padroncina Iriza: fa tanto la cattiva e poi se ne sta tutto il giorno a piangere", affermò, mimando l’atteggiamento di una donna che piange.
"Stewart! Ti avevo pregato...", sbottò Dorothy, mentre la cuoca ribatteva:
"Non ci credo: Iriza Legan che piange! Ma va’".
"Te l’assicuro".
"Ma tu l’hai vista?", chiese una delle altre cameriere.
"Sicuro... cioè, no... ma si capisce, si sente".
"Il solito spione", commentò Dorothy, che poi aggiunse:
"Sì, è vero, piange e mi fa tanta pena".
Una delle ragazze protestò:
"Ma che dici? Ti fa pena quella iena? Io dico che se lo merita e basta".
Dorothy, che per anzianità di servizio godeva di un certo prestigio tra la servitù, la riprese duramente:
"Taci tu, come ti permetti di tranciare giudizi sui padroni? Tra l’altro sei l’ultima arrivata, quindi non sai nulla, né del passato, né di quello che sta accadendo: non ti auguro che ti accada ciò che sta accadendo a lei. E bada, che non ti senta mai più parlare della padroncina con quel tono".
Queste parole furono pronunciate con una veemenza tale, che stupì anche Stewart, che pure qualcosa sapeva, e l’anziana cuoca.
La giovane cameriera abbassò il capo e si scusò.
 
Sul divano dell’appartamento di Candy alla "Casa della Magnolia", si stava combattendo una battaglia singolare: un bel ragazzo cercava in tutti i modi di accedere con le mani, riuscendovi in parte, alle parti più intime del corpo di una ragazza bionda, altrettanto avvenente e affascinante.
"Dai Terence... smettila, mmh... non è il momento... ooh", protestava la ragazza, con poca convinzione, come testimoniato dagli ansimi e dai gemiti che ella emetteva.
"Tesoro, non sai quanto ti desideri... lasciami fare che ti piace, lo sento", rispondeva lui, quando ne aveva la possibilità, dato che la sua lingua era in perenne esplorazione nella bocca dell’amata, mentre una sua mano era riuscita a intrufolarsi sotto la gonna della stessa, risalendone la coscia.
"Oh, Terence... potrebbe arrivare qualcuno...", rantolò lei, chiudendo gli occhi e piegando la testa di lato, nel momento in cui la bocca di Terence aveva attaccato il suo collo.
"E chi vuoi che arrivi? E poi la porta è chiusa, mmh...", fu la sua risposta, mentre la sua mano continuava ad agire incessantemente sotto la gonna di Candy.
"Non lo so, magari Gloria...".
Terence interruppe le sue azioni e alzò lo sguardo su di lei:
"E chi sarebbe costei? Devo preoccuparmi? Attenta, che sono geloso...".
"Che stupido! È la portinaia...".
"Temevo che avessi cambiato i tuoi gusti...", ridacchiò lui, rovesciandola sul divano e riprendendo e intensificando – l’altra mano del ragazzo era penetrata nella camicetta di Candy, da sotto e da dietro, tentando di slacciarle il reggiseno – i suoi attacchi di lingua e di mani.
"Sei geloso? E che mi racconti di Susan?".
Lui si fermò ancora:
"Mi stai provocando?".
"Allora non ti fermare... dimostrami il tuo amore...".
Terence riprese a baciarla, sentendo premuto sul suo petto, quello, morbido e pieno, di lei; Candy, invece, "sentiva" l’eccitazione di lui, cosa che la eccitava, a sua volta, e la spaventava insieme: in rispetto dell’educazione ricevuta e delle proprie convinzioni, la ragazza non voleva assolutamente concedergli quello che si concede solo ad un marito. Quindi afferrò la mano di lui, che stava per esplorare una zona proibitissima, e la fermò. All’improvviso si era resa conto di averlo provocato troppo e che se lui non si fosse fermato...
"Ora basta, però... dico sul serio... altrimenti non so cosa potrebbe accadere".
"La cosa più naturale del mondo, direi...".
La virtù di Candy fu salvata dall’evento che lei aveva prospettato poco prima.  
"La porta, Terence, te l’avevo detto...".
A malincuore, Terence si staccò da lei, mormorando:
"Ma chi è che scoccia a quest’ora?".
"Non è mica tardi e potrebbe essere proprio Gloria... sai, in realtà abbiamo una storia", affermò Candy divertita, mentre tentava di ricomporsi, in modo da rendersi presentabile.
Invece era Harrison che, data un’occhiata ai due, comprese di aver interrotto qualcosa.
"Temo proprio di aver interrotto qualcosa", esordì, facendo cenno a Candy di chiudersi la camicetta.
"Ma che vai a pensare? Stavamo parlando, solo che fa un po’ caldo qui...", rispose la bionda "sventolandosi" con una mano.
"Immagino... se volete ripasso un’altra volta".
Candy si affrettò:
"No, no, entra, accomodati pure".
Sia Candy, che Terence, avevano bisogno di sbollire un po’, per evitare di combinare qualche "guaio".
"Sono passato di qua perché ho delle novità e devo delle spiegazioni alla tua splendida ragazza, cugino", disse Harrison, inchinandosi di fronte a lei e esibendosi in un baciamano da perfetto gentiluomo.
"Smettila di fare il cretino e vieni qui", disse Terence, accogliendolo con un abbraccio, "Che devi spiegare tante cose pure a me".

"Ti concedo quarantott’ore per liberare quel bugigattolo, che chiami ufficio, per radunare le tue cose e per salutare gli amici, se ne hai, figliolo; tanto in quell’ufficio non hai combinato nulla, se non guai", disse Raymond, con tono perentorio.
"E poi? Non capisco...".
Legan mandò giù un altro sorso di scotch e riprese:
"Poi si parte, caro; devo fare un lungo giro per affari e tu mi accompagnerai".
Neal lanciò un’occhiata a sua madre, che fece la sua richiesta:
"Ora lo gradirei quel cognac che mi hai offerto prima".
Servita la moglie, il padrone di casa poté proseguire:
"Voglio che ti sia chiaro che non si va in vacanza; ci sarà da lavorare e, se occorrerà, da sudare; prima passeremo dalla tenuta in Messico e poi faremo un bel giro nei siti dove stiamo costruendo i nostri resort; rimboccati le maniche, figliolo, mi aspetto la tua piena collaborazione, così spero che imparerai qualcosa".
Neal avrebbe voluto obiettare, ma comprese che suo padre aveva utilizzato un tono che non ammetteva repliche.
"Ah, dimenticavo: per confermarti che non si va in vacanza, ti informo che non avrai a disposizione neanche un centesimo da spendere; andrai dove andrò io, dormirai dove dormirò io e mangerai quel che mangerò io. Non ti perderò d’occhio neanche un momento, quindi scordati gli agi e i lussi ai quali sei abituato. Sono stato abbastanza chiaro?".
"Sì, papà", rispose mestamente il ragazzo, chiedendosi se sarebbe riuscito a sopportare un cambio di vita così radicale dall'oggi al domani.
"Domattina fatti trovare pronto alle otto: ti accompagnerò a porgere le tue scuse alla zia Elroy, a William, al signor McFly, a Cartwright e a... Candy".
"Ma, caro...", protestò Sarah, senza finire la frase dopo aver notato l’espressione del marito.
"Adesso ci manca solo che mi chieda di scusarmi con la cameriera e siamo a posto...", pensò Neal, mentre si ritirava in camera sua.
 
Quando Terence, Harrison e Candy uscirono dall’appartamento di quest’ultima, era già buio. Harrison aveva voluto informare i due ragazzi di ciò che era accaduto nello studio del signor Legan e sulle decisioni che avevano preso, lui e Albert, riguardo alla "Casa di Pony" e ai terreni su cui sorgeva: inutile dire che Terence andò su tutte le furie, minacciando di "storpiare" Neal, mentre Candy parve molto entusiasta del progetto sull’orfanotrofio pensato dai due. Inoltre, il "conte McFly", volle mettere Candy a parte della sua storia, spiegandole quale fosse il legame che lui aveva con quel piccolo orfanotrofio di Chicago.
Finito il racconto, Candy gli chiese a bruciapelo:
"Cosa c’è tra te e Iriza? Mi pare di aver capito che vorreste mettervi insieme".
Harrison, pensieroso, non rispose e Candy proseguì:
"Ci hai raccontato cose incredibili su di lei... tuttavia non fatico troppo a crederti per due motivi: il primo è che sei cugino di Terence e il mio Terence è una brava persona; il secondo è che io stessa ho assistito a un paio di scene a cui mai avrei creduto di poter assistere".
"Hai capito cugino? Lei ti crede perché sei il cugino di una brava persona... non sei tu la brava persona", intervenne Terence, innescando una risata generale, alla fine della quale Candy aggiunse:
"A parte gli scherzi, se tu, quella sera davanti alla cappella, mi avessi detto Sai, mi piace tanto Iriza Legan, io avrei pensato O questo non sa chi è Iriza Legan o, se la conosce, ha dei problemi".
Risero ancora e Harrison si giustificò dicendo che sapeva chi fosse Iriza Legan, ma non sapeva che quella fosse Iriza Legan. Comunque ci tenne a precisare che Iriza era rimasta totalmente al di fuori delle macchinazioni del fratello, tenendoli all’oscuro dei loro problemi attuali.
Anche Terence avrebbe avuto delle novità da comunicare agli amici, ma, dato che si era fatto tardi, disse a Candy che gliene avrebbe parlato il giorno successivo.
"Faceva troppo caldo oggi, vero cugino?", scherzò Harrison, che poi aggiunse:
"Considerando che Terence deve fare molta più strada per rientrare ai suoi alloggi, mi offro per accompagnarti alla Casa di Pony. Per me non è un problema, ho qualcosa da fare lì in zona...".
"Di’ piuttosto che temi di lasciarci da soli", commentò Terence, suscitando l’ilarità del cugino e l’infiammo delle gote della fidanzata.

Uscito il figlio, il signor Legan, rivolgendosi alla sua consorte, sbraitò:
"Ne sta combinando una dietro l’altra: prima il siparietto con Candy, poi la collana e ora questo! Combina guai, non se ne pente e ne fa di peggiori; non gliene importa nulla di quello che gli viene detto, ma resta sempre qui con noi! Ma che razza di educazione hai impartito ai nostri figli?".
"Ecco bravo, hai detto giusto, i nostri figli! E tu dov’eri? Non sai quanto sia stato difficile seguirli da sola, mentre tu non c’eri mai, sempre impegnato..."
"... a far soldi per farvi vivere bene!", le concluse lui la frase, per poi proseguire:
"Però ti ha fatto comodo! E non tirarmi fuori la storiella del patrimonio della tua famiglia, che se fosse stato per te, saremmo già falliti da un pezzo!".
Sarah non disse nulla e Raymond non si fermò:
"Almeno Iriza sembra aver messo la testa a posto, anche se i problemi non sono finiti".
"Questo te lo concedo", disse lei, di rimando.
"Comunque adesso è inutile rinfacciarci i nostri errori, avremo tempo in seguito per farlo! Ora mi chiedo se quel benedetto ragazzo imparerà mai a far qualcosa di utile".

Lasciata Candy all’orfanotrofio, Harrison proseguì, fermandosi davanti al cancello della villa dei Legan a Lakewood, dove una ragazza, avvolta in una mantellina scura lo stava aspettando. Dopo aver confabulato con lei per cinque minuti, Harrison la ringraziò e risalì in auto.
"Così il caro Neal sta per lasciarci... è proprio una cara ragazza quella Dorothy, penso che Tom sia stato fortunato ad averla trovata... comunque penso proprio che verrò a farti un salutino, prima che tu parta...".
Questi furono i suoi ultimi pensieri prima di ripartire in direzione della città.
















CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

"Che stupido! È la portinaia...". Vi assicuro che ho avuto la tentazione di farle rispondere: "Non siamo mica in Candiza qui!"... :D
 
The Blue Devil

















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Buon viaggio, carissimo Neal! ***


Un’altra piccola sessione di "coccole" tra i "nostri" due. Non chiedetemi di più in questa storia: con la fantasia potete far meglio di cento mie parole....
E poi Buone Feste a tutti, Buon Natale e...
Buona lettura

 
 
 
Capitolo 27
Buon viaggio, carissimo Neal!
 
L’annuncio di Stewart colse di sorpresa la signora Legan:
"Il signor McFly? Fallo accomodare, su Stewart, muoviti".
Appena mise piede nel salone, Harrison fu inondato da gentilezze e ossequi che, più che fargli piacere, lo infastidirono.
"Oh, conte McFly, che piacere vedervi, prego accomodatevi; cosa posso offrirvi? Qualcosa da bere? Abbiamo dell’ottimo scotch. Stewart!".
"Ma guarda un po’ questa, è bastato sventolarle sotto il naso un titolo nobiliare...", pensò il ragazzo, che poi disse:
"Il piacere è tutto mio, comunque non dovete disturbarvi; sono venuto per vedere vostro figlio: è mio desiderio augurargli buon viaggio!".
"E, possibilmente, a mai più rivederci", aggiunse col pensiero.
"Oh, ma certo, lo faccio chiamare; Dorothy!", rispose, battendo le mani, la signora.
"Oh, non serve scomodare la servitù, signora; faccio da solo, tanto conosco la strada".
E, lasciando Sarah a bocca aperta, prese la grande scala centrale, salendo i gradini a due a due.
"Però, è un po’ maleducato, questo conte", pensò la padrona di casa.
Harrison, seguito da Sarah, giunto in cima, imboccò il corridoio e, senza bussare, entrò nella stanza di Neal; nel momento in cui si voltò, Legan junior fu colpito da un pugno allo stomaco che lo fece piegare in due.
"Questo è per Candy", sibilò Harrison.
Un secondo colpo lo raggiunse al volto.
"Questo è per Iriza".
Un terzo lo atterrò in modo definitivo.
"E questo è per me; fai buon viaggio".
Lasciandolo in terra a lamentarsi, Harrison uscì nel corridoio, incrociando la padrona di casa, alquanto inorridita:
"Vi consiglio di chiamare un medico, signora: vostro figlio ha un forte mal di stomaco, mi pare. I miei ossequi".
Con un inchino si avviò, ridiscendendo per la grande scala.
Il primo impulso della donna, quando vide il figlio a terra, fu di soccorrerlo, ma un pensiero improvviso la trattenne:
"Quel McFly è un bruto, ma Neal, in fondo, se l’è cercata".
Così finì, per Neal, quella terribile e umiliante giornata.
Iriza, attratta dal trambusto provocato dall’irruzione di Harrison, si era affacciata nel corridoio e, vedendolo, aveva avuto l’impulso di correre da lui e di abbracciarlo – sentiva un gran bisogno del suo caldo e rassicurante abbraccio – ma il ricordo di ciò che aveva udito il giorno prima nello studio del padre la frenò: richiuse la porta e si abbandonò sul divanetto sospirando.
 
 
DODICI ORE PRIMA
 
Neal si fece trovare pronto di buon mattino, come gli aveva chiesto il padre, che aveva programmato, nei particolari, tutta la giornata.
"Per prima cosa, passeremo in banca: so che William è già lì ed è inutile che ti dica cosa dovrai fare. In seguito ti scuserai con la zia Elroy e le dirai che, sulla faccenda della collana, hai preso un grosso granchio. Naturalmente userai parole diverse, ma hai capito cosa intendo".
"Lo capisco, non sono stupido", intervenne il ragazzo.
"Francamente ne dubito e comunque non interrompermi, che non ho terminato".
Neal annuì con un cenno del capo e il padre proseguì:
"Poi sarà il turno del signor Cartwright: esigo che tu lo ringrazi anche per non averti denunciato e che lo rassicuri sul fatto che, certe stupidate, non si ripeteranno più; in realtà, quest’ultima rassicurazione, la devi fare a tutti, compreso il signor McFly. Infine cercheremo Candy ed è inutile che ti ripeta ancora le stesse cose".
Neal lo guardò con espressione dubbiosa e, compreso quale fosse il problema, Raymond lo informò:
"Se ti stai chiedendo cosà accadrà con il banchiere, stai tranquillo: io e William abbiamo già risolto; mi sono scusato personalmente per il tuo comportamento scorretto e neanche lui ha intenzione di denunciarti".
Neal, pensando con orrore al momento in cui avrebbe dovuto chinare il capo di fronte a Candy, fece qualche passo per avviarsi, ma fu bloccato dal padre:
"Fermo lì, non mi sono dimenticato di una cosa importante".
Chiamò Stewart e gli disse:
"Falla entrare".
In breve Neal si ritrovò a faccia a faccia con Dorothy; lanciò un’occhiata al padre che rimase immobile e impassibile.
"Mi avete fatto chiamare, signor Legan?", esordì la cameriera.
"Sì, mia cara, mio figlio deve dirti qualcosa; avanti figliolo, fai quel che devi fare".
Compresa la situazione, Dorothy accennò una timida protesta:
"Ma... signor Legan, non c’è bisogno, non importa... sono a posto così...".
"Importa a me però; quel che è giusto è giusto, hai subito un torto ed è giusto che venga riparato da chi te lo ha procurato. Avanti Neal, Dorothy sta aspettando".
Dopo aver esitato, vergognandosi come un verme, Neal balbettò, non senza una certa riluttanza:
"E-ecco... Dorothy, ti... ti chiedo scusa".
"Tutto qui Neal? So che puoi far di meglio, avanti", protestò Raymond che, tuttavia, aveva notato l’imbarazzo di Dorothy.
Infatti la cameriera si sentiva molto a disagio e avrebbe fatto volentieri a meno di tutta quella situazione.
"Ti... chiedo scusa per i guai che ti ho procurato e per aver... per averti messo in cattiva luce di fronte alla famiglia".
"Neal?", esclamò il signor Legan, muovendo il capo come a dirgli "Concludi come sai".
"Questo è troppo... troppo umiliante", pensò Neal; ma non era in condizione di far troppo lo schizzinoso.
"Ti assicuro che non accadrà più; ti porgo ancora le... mie scuse e voglio sperare che tu le accetti".
"Bravo figliolo", pensò Raymond, "Vedo che stai imparando".
Dorothy, sempre più in imbarazzo, rossa in volto, rispose, chinando il capo:
"Accetto le scuse e vi ringrazio, signorino Neal".
"No, non ringraziarlo Dorothy: queste scuse erano doverose e vi aggiungo anche le mie. Ora puoi andare".
"A mio figlio un piccolo bagno di umiltà, ogni tanto, non può fare che bene", pensò infine il padrone di casa.
Dorothy chiese compermesso ed uscì velocemente dallo studio del padrone.
All’esterno Stewart, che come al solito aveva origliato, si complimentò con la cameriera:
"Non è da tutti riuscire a farsi chiedere scusa da uno come Neal Legan. Complimenti".
"Ti sbagli Stewart, io non ho preteso un bel niente e ti assicuro che ne avrei fatto volentieri a meno: mi sono vergognata da morire".
"Sei sempre la solita dolce Dorothy che tutti amiamo, non cambiare mai", disse Stewart, prima di abbracciarla.
Inutile dire che, in seguito, il maggiordomo-autista raccontò tutta la scena al resto della servitù, divertendosi – e facendo divertire anche gli altri – un mondo.
Così Neal si scusò con lo zio William, con la zia Elroy, con il signor Cartwright e con Candy: durante quest’ultimo incontro, a causa di alcune battutine su Candy e sugli orfani in generale, Neal rischiò di prendersi un paio di colpi da Terence, sempre accanto alla sua amata; fu Raymond ad evitarlo, redarguendo pesantemente il figlio e costringendolo a scuse più profonde.
"Questa volta mi è andata bene, ci mancava solo che mi picchiasse anche lui... Tom m’è bastato, l’altra volta...", pensò.
L’unica persona che non riuscirono a rintracciare fu Harrison e, di questo, Neal ne fu felice.
"Non avrei sopportato di chiedere scusa a quella specie di... conte, amico degli orfani".
 
Dopo la visita di Neal, Terence cercò di approfittare della situazione, riprendendo un certo "discorso" rimasto in sospeso dal giorno precedente: trovandosi sulla "Collina di Pony", all’ombra del "Grande Albero", pensava che l’aria frizzante, la pace e la tranquillità, inducessero Candy a cedere; ma la ragazza, anche per timore che qualcuno li potesse scorgere in atteggiamenti "sconvenienti", lo indusse a più miti consigli, concedendogli solo qualche toccatina, qualche struscìo e una quantità industriale di baci, anche in zone normalmente nascoste alla vista...
"Ma come fai a resistermi?", rantolò lui, mentre continuava a "lavorare" con la bocca sui suoi seni e con una mano su una delle sue cosce.
La risposta di lei assomigliò più ad un lungo gemito che ad altro:
"Te l’ho d-detto, oooh... voglio c-che tutto sia perfetto... oooh".
"Ti amo da morire... tu mi farai impazzire... ma ti rispetto troppo per costringerti a fare ciò che non vuoi... adesso", puntualizzò, tra un colpo di lingua e l’altro, il ragazzo con voce roca.
"Dai Terence ora basta... p-pensa se ci vedessero".
"E chi se ne importa, mmh...".
D’un tratto Candy esclamò:
"Oddìo! C’è il Principe della Collina!".
Istintivamente il ragazzo si voltò, alzandosi un po’ e dandole la possibilità di scivolare via.
"Malediz... mi prendi in giro? Sei terribile tu... tu, Tarzan lentigginosa".
Terence scattò in piedi, la raggiunse e la ributtò in terra, tempestandola di baci.
"Lo sai che ti amo... e ti rispetto; saprò aspettare, tanto è una vita che ti aspetto".
"Anch’io ti amo e non sai quanto".
Dopo l’ennesimo bacio appassionato, Candy trovò la forza di chiedergli:
"Ma... avevi detto di avere novità importanti, prima... prima della visita di quella sottospecie di cugino".
"E va bene, ho capito! Hai vinto, questa è per te, da parte di Susan", disse, porgendole una busta.
"Susan?", si stupì la bionda.
"Sì. La novità è che, d’accordo con l’impresario della Compagnia Stratford, mi sono preso un periodo di pausa dalla recitazione per stare con te... periodo che tu stai cercando di rovinare in tutti i modi", rispose lui, stringendola e baciandola ancora.
"Dai, smettila, ne abbiamo già parlato".
"La compagnia è partita per un piccolo tour senza di me; alloggerò a Villa Andrew su invito di Albert e della... terribile zia Elroy!".
"Davvero? No, tu mi prendi in giro...", si stupì ancora la ragazza.
"No, no, è tutto vero; non è poi così arcigna quell’adorabile vecchietta; mi sa che ho fatto colpo su di lei e se tu insisti a respingermi potrei sposare lei...".
"Ma va’!", disse Candy che, notando la serietà dell’espressione del ragazzo, aggiunse:
"Non dirai mica sul serio? Guarda che sono gelosa e se mi fai uno scherzetto del genere ti cavo gli occhi".
Finirono ancora a rotolarsi nell’erba, fingendo di lottare fra loro: lotta che fu vinta da lei, che si ritrovò sopra di lui.
"Ho vinto, posso fare di te ciò che voglio".
"Finalmente! Era ora! Che aspetti? Sono vinto e indifeso", esclamò lui.
"Eh no, bello mio; tutto ciò che vuoi ma non quello, non ancora...".
Dopo un’altra lunga sessione di baci e carezze, i due innamorati si ricomposero e lei gli chiese, mostrandogli la busta ricevuta prima:
"E questa?".
"Come ti ho detto è per te, da parte di Susan; si è molto dispiaciuta di non averti potuto salutare di persona, ma ti ha scritto; sono molto contento che si sia ristabilita quasi del tutto e che abbia, in qualche modo, fatto pace con te. Ti confesso che mi sono affezionato un po’ a lei e mi ha rattristato vederla giù: se vuole sa essere molto dolce e spero che possa trovare anche lei, un giorno, il suo amore".
"È vero: però ti assicuro che, anche se pare molto fragile, l’ho vista combattiva e mi è piaciuta molto".
Quando rimase da sola, Candy lesse la lettera di Susan:
 
Carissima Candy,
mi dispiace di non averti potuta salutare di persona, ma non c’è stato il tempo. Non so se ci rivedremo ancora, anche se spero di sì, per cui ti scrivo: non finirò mai di ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me... mi hai salvato la vita... e non solo quella volta, in ospedale; permettendo a Terence (e qui la grafia di Susan si fece incerta, tremolante) di starmi accanto mi hai veramente salvata. Ho capito tante cose, ho capito che gli stavo facendo del male... anche a te, che sei buona e gentile con tutti... e lui mi ha aiutata a ritrovare la voglia di vivere, di lottare. Ti comunico che tornerò a recitare; forse non sarò più all’altezza come lo ero un tempo, ma voglio provarci, e ho cominciato a studiare per diventare scenografa, dopo che avrò smesso con la recitazione... sarà una nuova avventura, una nuova sfida. Quando sono venuta a trovarti, tempo fa, mi hai veramente sorpresa: non eri tenuta a ricevermi e tantomeno a... non so. Ti prego, di’ alle tue amiche di non avercela con me... mando un saluto affettuoso anche a loro.
Ti affido Terence, è un ragazzo meraviglioso, rendilo felice e non tradirlo mai... vi auguro tantissima felicità...
La tua, da ora e per sempre, amica
Susan Marlowe
 
Queste righe fecero commuovere Candy che non riuscì a trattenere qualche lacrima, anche perché aveva notato qualcosa sul foglio, in corrispondenza dell’ultimo periodo, prima dei saluti: delle macchioline scure e irregolari; sembrava proprio che, scrivendo di Terence, Susan avesse pianto...
 
In serata, Harrison venne a sapere, tramite Albert, del "giro di scuse" di Raymond e Neal e si disse che non poteva non salutare il ragazzo come meritava: in fondo, quel saluto se l’era ampiamente guadagnato. I due Legan non l’avevano rintracciato, perché lui si era rifugiato all’orfanotrofio di Daisy: aveva sentito il bisogno di stare un po’ con i bambini, in mezzo a persone che amava e da cui era amato! E aveva bisogno di pensare, di far chiarezza completa nei suoi sentimenti; in definitiva, aveva bisogno di Iriza!
"Devo assolutamente vederla, parlare con lei, raccontarle tutto... tutto di me. Nessuno può distruggere tutto il lavoro che ho fatto... c’ero quasi riuscito... anzi no: sono sicuro che sono riuscito a cambiarti, tesoro mio! Ti ho fatto tirar fuori la parte migliore di te... un maglioncino per un’orfana! E tu vorresti farmi credere che veramenbte vuoi che Dorothy lo usi come straccio? No, non è così, no... ma devo riuscire a vederti, lontano da quei personaggi da cui sei circondata; lo so, sono la tua famiglia, ma tu sei diversa da loro... ma prima... vengo a salutarti, vengo ad augurarti buon viaggio, carissimo Neal!".
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Spero siate rimasti soddisfatti, soprattutto chi ha avuto in simpatia certi personaggi un po’ "maltrattati" nell’originale.
 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Un terribile segreto ***


Sorpresa! Beccatevi questo con i migliori auguri di fine d'anno!
Buona lettura




Capitolo 28
Un terribile segreto

Raymond Legan non voleva lasciare nulla in sospeso, nessuna questione irrisolta, per cui, prima di partire con il figlio, organizzò un incontro a Lakewood al quale presenziarono, oltre a lui stesso, sua moglie, sua figlia Iriza e Harrison McFly. Sua intenzione era quella di dare ai due ragazzi la possibilità di chiarirsi, dato che aveva notato un peggioramento nel comportamento di sua figlia quando questa usciva dalla sua stanza, nella quale passava intere giornate accettando di vedere solo Dorothy. Dai resoconti della servitù, Dorothy in particolare, aveva appreso che sua figlia doveva aver udito qualcosa che non le era piaciuto, il giorno della riunione con William e Bowman. Non gli era stato facile convincerla ma, alla fine, ci era riuscito:
"Dai, vieni a sentire cosa ha da dire il signor McFly" .
"No, papà... non ho voglia di vederlo... non ho voglia di vedere nessuno; qualunque cosa abbia da dire, a me non interessa. Lasciatemi in pace".
"Iriza, questo tuo atteggiamento non mi piace: prima lo ascolti e poi decidi; se fai questo sforzo, ti garantisco che poi ti sentirai meglio".
"E va bene, verrò a sentire cosa ha da dire quel tizio".
Sebbene avesse accettato di "ascoltare", Iriza, nel momento in cui lo vide, attaccò subito Harrison:
"Cosa sei venuto a fare tu, qui? Che vuoi da me?".
Harrison non rinunciò a rispondere con una delle sue battute:
"Veramente è stato tuo padre a chiamarmi...".
"Allora vattene, non ho niente da dirti".
"Infatti sono io che devo dirti qualcosa".
"Altre bugie? Sei un bugiardo, un traditore".
Il ragazzo si fece serio:
"Io non ti ho mentito; se hai sentito qualcosa di strano, l’altro giorno...".
"Non mi hai mentito?", lo interruppe lei, "Non mi hai mai mentito?".
"Non ti ho mai mentito, almeno sulle cose importanti, te lo assicuro; te lo posso anche giurare, se vuoi".
Iriza lo guardò torvamente, prima di proseguire:
"Non farlo, chi giura il falso finisce male: potresti finire all’inferno... non mi hai mai mentito, eh? Nemmeno quando mi hai detto di essere un orfano, conte McFly? O abbiamo capito male? Perché l’hai fatto? Perché mi hai portata in quell’orfanotrofio? Hai pensato che facendo in modo che mi affezionassi a qualche tuo piccolo amico, io poi accettassi Candy? L’hai fatto per lei, vero?".
Harrison si rese conto che Iriza aveva appena ammesso di essersi affezionata a qualche suo piccolo amico.
"Iriza, hai appena ammesso che ti sei affezionata a qualcuno: si tratta forse della piccola Daisy?".
"Non cambiare discorso, di lei non m’importa nulla", rispose, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi, mentre negava di provare affetto per la piccola. E lui lo notò.
"Non ti ho mentito, lo ripeto: non ti ho mai detto di essere un orfano; ti ho solo detto che sono legato a quel posto, perché lì fui abbandonato...".
"È la stessa cosa, non cercare scuse, conte McFly...".
"No, non lo è... e lasciami finire: sì, è vero, ti ho portata in quell’orfanotrofio, ma per verificare ciò che avevo già intuito... se ti sei affezionata a qualcuno io non c’entro l’hai fatto tu, da sola; è stato il tuo cuore. L’ho fatto per te, Candy non c’entra nulla. E poi piantatela tutti di chiamarmi conte: io non lo sono, mio padre lo è; io sono solo Harrison Graham".
"Non ti credo, stai solo cercando di confondermi", farfugliò la ragazza che, in realtà, aveva una gran voglia di credergli, ma...
Harrison era deciso a raccontarle tutto, ma era frenato dalla presenza dei genitori di Iriza: a lui non andava di raccontare la sua storia al primo venuto ed Iriza non era il "primo venuto", mentre i suoi genitori, almeno nella sua mente, sì. Per lui Iriza era una persona distinta da loro.
"Vorrei che ci lasciaste da soli, se non vi dispiace".
In altre circostanze, i Legan non avrebbero acconsentito a lasciarli soli – e infatti la signora Legan accennò a una protesta –, ma Raymond acconsentì, poiché si sentiva ancora in colpa verso Harrison a causa di Neal, e condusse fuori dallo studio la moglie.
"Pensi forse che, restando da sola con te, io cada ai tuoi piedi? Beh, ti sbagli", protestò la ragazza.
"No, penso che, restando solo con te, io possa raccontarti la mia storia: non la racconto facilmente e lo faccio solo con persone che reputo speciali".
Queste parole, e il tono con cui furono pronunciate, fecero trasalire Iriza, che cercò di non scomporsi e di mantenere un atteggiamento altezzoso e scostante.
"Mio padre, il conte di McFly, nato Graham, s’innamorò di una ragazza americana, proprio come suo fratello maggiore, il padre di Terence, avrebbe fatto anni dopo... si vede che è un vizio di famiglia", proseguì Harrison, che pensò che lui stesso stesse continuando questa singolare tradizione.
"Anche perché mia madre era una cantante e ballerina e in quel periodo era in giro per l’Europa con la sua compagnia; era bellissima, anche se non me la ricordo... mi rimane di lei solo un fazzoletto ricamato e una vecchia fotografia sbiadita... mio padre la conobbe a teatro, durante una rappresentazione: era giovane e gli piaceva un certo tipo di spettacolo non adatto ad un conte, come amava ripetergli sempre mio zio. S’innamorarono e lei rimase incinta... ".
Un attento osservatore, avrebbe notato la commozione che l’aveva pervaso e avrebbe capito che Harrison tentava, riuscendoci, di trattenere le lacrime; e avrebbe notato che anche Iriza era rimasta colpita da quel racconto.
"Si volevano sposare, ma il grande duca di Grancester fece quanto era in suo potere per distruggere quella relazione e separarli".
"Quel che mi stai raccontando non ha senso: dovresti odiare Terence, che è figlio del duca, e invece siete molto uniti, se non sbaglio", fu l’appunto di Iriza.
"Non sbagli, e anche se io odiassi mio zio, non odierei Terence, dato che lui non ha colpe; neanche mio zio ne ha, la storia è più complicata".
"Siamo alle solite, prima mi dici una cosa e poi te la rimangi...", protestò la ragazza.
"Ti ho detto che mio zio fece il possibile per separare mio padre da mia madre, ed è vero. Ma lui fu ingannato: c’era un attore, nella compagnia, che voleva mia madre per sé; costui fece credere a mio zio – era rischioso, per la riuscita del suo piano, parlarne con mio padre, era troppo innamorato – che mia madre fosse a caccia di soldi e di una comoda sistemazione; inoltre gli disse che si intratteneva con altri componenti della compagnia. Per convincerlo che fosse tutto vero, gli sottopose delle prove false e pagò un collega per testimoniare il falso. Il farabutto, inoltre, fece credere a mia madre che mio padre si stesse solo divertendo e che, se avesse saputo di me, dato che lei non glielo aveva ancora detto, l’avrebbe fatta abortire; anche in questo caso aveva costruito prove false e convocato testimoni spergiuri; il loro legame, seppur forte, si ruppe, senza che loro potessero più rivedersi. Mio zio le pagò il biglietto per tornare in America, la affidò a persone di sua fiducia, affinché la imbarcassero sulla prima nave in partenza per il Nuovo Continente e a mio padre fece credere che fosse scappata con un attore della compagnia".
"Mi stai dicendo che né tuo padre, né tuo zio, sapevano di te?".
"Esatto".
Seguirono attimi di silenzio. Poi Harrison riprese il racconto:
"Così mio padre si ritrovò con il cuore a pezzi, ma colmo di rabbia, e mia madre si ritrovò in America, sola, con pochi soldi, senza lavoro – aveva anche abbandonato la compagnia per stare con mio padre – e con un bambino in arrivo; capirai anche tu che fosse una situazione che definire disperata sarebbe un eufemismo. Ma lei non si perse d’animo e riuscì a farmi nascere. Col passare del tempo, però, capì che non poteva tenermi e, dopo aver ricamato quel fazzoletto che è ancora in mano tua, mi lasciò all’orfanotrofio che conosci, con l’intento di venirmi a riprendere nel momento in cui si sarebbe sistemata. Ma non andò così... si ammalò e, per garantirmi un futuro, scrisse a mio padre, raccontandogli di me e di come rintracciarmi, dopo aver appreso dell’inganno dall’ammiratore respinto, che, sapendola in gravi condizioni, si era pentito". ".
In quel momento, Iriza gli voltò le spalle, per non mostrargli quanto fosse commossa.
"Quindi tuo padre seppe...".
"No, la lettera fu intercettata dal duca che, capito di essere stato imbrogliato e di avere un nipotino sperso in America, informò mio padre: non fu facile convincerlo, ma, alla fine, lui si precipitò qui in America, ma giunse tardi... mia madre era già morta".
"Mi dispiace...", mormorò Iriza, con voce appena udibile.
"Per mezzo di quel fazzoletto riuscì a recuperarmi. Il resto lo puoi immaginare da sola e puoi capire anche perché io tenga parecchio a quel fazzoletto... ho odiato a lungo mio zio, ma poi ho capito, l’ho perdonato e non ho avuto difficoltà a legare con Terence: non abbiamo mai parlato delle nostre storie e ci siamo ripromessi di non parlarne mai ad estranei".
Iriza trattenne a stento le lacrime, ma mantenne il punto:
"Resta il fatto che mi hai ingannata".
"Questa ha la testa più dura di quanto pensassi... l’orgoglio".
"Non ti ho ingannata, non so cosa tu abbia sentito...".
Quelle parole riportarono alla memoria di Iriza tutto quello che aveva udito in quel famoso mattino: lei voleva credergli, ma non si fidava più di lui... e si era anche convinta che fosse troppo tardi per cambiare.
"No, sono sicura di quello che ho sentito, tu cerchi di confondermi, come facesti quando ci conoscemmo".
Harrison non sapeva più cosa dirle: non aveva previsto questa sua cocciutaggine.
"Scusami, ma da chi l’hai sentito? Da Neal? Da quel campione di tuo fratello? Ma non l’hai capito che razza di furfante che è?".
Iriza trasalì.
"Lui è mio fratello, non potrebbe...".
Improvvisamente si zittì e le parole che aveva appena pronunciato le rimbombarono nella testa:
"Lui è mio  fratello... lui è mio fratello... capisci? È mio fratello e io... io sono come lui...".
Il ragazzo le si avvicinò e la prese per le spalle, ma lei si divincolò e corse via, gridando:
"Lasciami, lasciami stare... basta... io sono come lui... vattene via...".
Quelle grida fecero intervenire Raymond, che era in attesa fuori dallo studio: vedendo la figlia sconvolta, bloccò Harrison che voleva inseguirla.
"Ora basta", disse, "Temo che stiamo peggiorando le cose".
"Lasciatemi andare, voi non capite, lei crede...", lo pregò Harrison.
"No, basta così; forse non è stata una buona idea; è meglio che andiate, ora. Stewart accompagna il conte alla porta".
"State sbagliando e ve lo dimostrerò".
Harrison lasciò la villa e Raymond si chiuse nello studio; servitosi dello scotch, si sprofondò in una poltrona e pensò:
"Che devo fare? Domani devo assolutamente partire... avrei voluto che le cose si sistemassero prima, ma sono costretto a rimandare... maledizione!".
 
Il mattino seguente Raymond e Neal partirono: non ci furono sventolii di fazzoletti bianchi, anche se la signora Legan era stata tentata.
La sera precedente, Dorothy, sconvolta per le condizioni della padroncina, era entrata nella sua stanza senza chiederle il permesso: Iriza aveva pianto a lungo tra le sue braccia, ma poi l’aveva cacciata in malo modo, ammonendola a star lontana dai serpenti, perché "A stargli accanto si finisce per avvelenarsi".
Per il resto, era tornato quasi tutto nella normalità: Candy e Terence trascorrevano tanto tempo insieme, fantasticando sul loro futuro di coppia, Archie era ricomparso e pareva tranquillo, anche se si era rifiutato di parlare con Annie di quel che era accaduto durante il ballo: l’aveva semplicemente rimosso, diceva.
Harrison era più che deciso a "riconquistare" Iriza, anche se avesse dovuto  prenderla a schiaffi.
Ma alcune nubi oscure si stavano addensando all’orizzonte: qualcosa si stava preparando, qualcosa di terribilmente spiacevole...

~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
Stear non stava bene: alternava atteggiamenti euforici ad altri cupi e tristi; un giorno era felice di essere vivo e diceva di volersi riprendere la propria vita e il giorno successivo desiderava la morte. In pratica soffriva di depressione; Patty era il solo motivo per cui resisteva, la sola persona che dava ancora un senso alla sua esistenza.
Quella notte, Stear ebbe un sonno molto agitato: i suoi incubi – che si ripresentavano spesso – erano popolati da paurosi dèmoni, che tentavano, con ogni mezzo, di estorcergli una confessione; questi incubi scaturivano dal profondo del suo animo, nel quale era ben celato un terribile segreto. Questo segreto, che Stear non aveva confidato a nessuno, se non al suo capitano, Rolf Baughmann, nonché al cappellano militare del reparto che lo aveva recuperato dall’ospedale da campo nelle Fiandre, riguardava la morte del suo amico francese, Dominique: l’abbattimento del velivolo di quest’ultimo non era stato causato dall’abilità di un aviatore nemico, come tutti avevano creduto, ma da un guasto meccanico. E c’era dell’altro.
Il gruppetto di aviatori Americani, di cui faceva parte Stear, era stato aggregato alla Compagnia francese di cui faceva parte Dominique; all’interno di quella compagnia vi era una disputa tra Americani e Francesi su quali fossero gli aviatori più forti e abili nei duelli aerei. La risposta non era difficile, ma scontata: erano i Francesi, che vantavano più abbattimenti, anche perché gli Americani erano arrivati sul finire del grande conflitto. Forti di quest’ultima circostanza e della convinzione che venissero loro affidati i velivoli più vecchi e malfunzionanti, gli aviatori Americani contestavano questo dato di fatto. I Francesi ribattevano, ricordando loro, che Georges Guynemer* volasse da lungo tempo sempre sullo stesso aereo, dimostrandosi un vero asso, e fosse ineguagliabile.
Stear, che aveva stretto una forte amicizia con Dominique, non era d’accordo con i suoi connazionali, forte anche delle sue conoscenze ingegneristiche: gli SPAD su cui volavano Americani e Francesi erano identici e lui voleva dimostrarlo e porre fine a quell’assurda polemica. Per questo motivo ci fu uno scambio, oltre che di giubbotti in segno di amicizia, di velivoli tra Stear e Dominique, su idea del primo; ma qualcosa sull’aereo dell’Americano, prestato al Francese, non aveva funzionato, causandone, più che l’abbattimento, lo schianto al suolo. Stear, che si era accorto di tutto, notando lo strano comportamento del velivolo, disperato, sentendosi responsabile dell’accaduto, si era lanciato in battaglia e, non essendo in condizioni psicologiche ottimali, era stato abbattuto: a chi aveva assistito alla scena, era parso che l’Americano avesse cercato la morte.
Ogni giorno e ogni notte, anche in sogno, dopo essersi ripreso dall’amnesia che lo aveva colpito, Stear aveva chiesto perdono all’amico – sperando gli apparisse in sogno – per essere stato la sola causa della sua morte, senza ricevere alcuna risposta, alcun segno.
Quella notte, però, egli gli apparve in sogno, spazzando via tutti i terribili dèmoni che lo assillavano.
"Stear, amico mio, tu non sei responsabile in alcun modo della mia morte, smettila di consumarti in inutili sensi di colpa; la Morte aveva deciso di prendere me, quel giorno, e non si è fatta certo ingannare da un giubbotto o da un aereo; se avessi volato sul mio, si sarebbe guastato il mio; era destino e tu non avresti potuto farci niente. Se sei vivo c’è un motivo", furono le parole di Dominique che gli risuonarono nella mente e che lo fecero svegliare di colpo.
Sudato e preoccupato, il ragazzo pensò:
"Dopo tanti tentativi, finalmente mi hai risposto, amico mio; ma perché ora? Dovrei essere sollevato, e invece...".
Stear, durante la guerra, aveva imparato a percepire le situazioni di pericolo, fin quasi a prevederle; ma che pericoli ci potevano essere lì, in America, a casa sua? Eppure una grande inquietudine si era impadronita del suo animo: se Dominique lo aveva "visitato", causando il suo risveglio, quella notte, un motivo ci doveva essere.
Decise di vestirsi e di scendere in giardino, dopo aver dato un’occhiata al modellino, regalatogli da Iriza, che faceva bella mostra di sé sul suo comodino; poi s’incamminò nel bosco: sicuramente l’aria, fredda e pungente, della notte gli avrebbe fatto bene. 
Era ancora immerso nei suoi pensieri e nei suoi interrogativi, quando la sua attenzione fu catturata da bagliori sinistri che si intravedevano in lontananza. Ma la cosa che lo sconvolse di più fu la direzione dalla quale quei bagliori pareva provenissero...




* il già citato Georges Guynemer fu eroe nazionale francese nella "Grande Guerra" e cadde in azione nel 1917.








CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Boh? Francamente io non ho idea di cos’abbia in mente questo diavolo di autore...

The Blue Devil










Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Incendio alla "Casa di Pony" ***


Un imprevisto imprevedibile che, data la sua natura di imprevedibilità, non poteva essere previsto, mi ha impedito di pubblicare Sabato. Poco male, pubblico ora.
Buona lettura



Capitolo 29
Incendio alla "Casa di Pony"

Suor Maria fu svegliata dalle urla terrorizzate di un bambino che, alzatosi per bere un bicchier d’acqua, aveva visto delle fiamme levarsi dalla nuova cappelletta.
Subito allertata, anche Miss Pony si alzò, in preda all’agitazione: Suor Maria le affidò i bambini più piccoli e la pregò di allontanarsi con loro, mentre lei, con quelli più grandi, andò a verificare cosa stesse accadendo. La nuova cappelletta, quella fatta erigere da Albert, fortunatamente non collegata all’edificio principale, stava bruciando: la religiosa organizzò subito una catena con i ragazzi, incaricati di passarsi dei secchi colmi d’acqua, per cercare di spegnere l’incendio nel minor tempo possibile; il leggero venticello che soffiava rischiava di far propagare le fiamme fino all’edificio centrale o, peggio, al vicino boschetto.
Solo l’intervento dei fratelli Cornwell e di Tom, giunti precipitosamente, evitò il peggio. In particolare quello di Stear: nessuno si era accorto, tranne lui, che una bambina, sfuggita al controllo di Miss Pony, si era pericolosamente avvicinata all’incendio, forse affascinata dalle fiamme; solo l’intervento del ragazzo aveva evitato che le accadesse qualcosa di grave.
Le prime luci dell’alba salutarono un cumulo di macerie fumanti, là dove prima si ergeva la nuova cappelletta della "Casa di Pony": erano ancora in piedi solo le pareti in muratura e qualche trave del soffitto. Il bambino che per primo aveva dato l’allarme, superato lo shock iniziale, raccontò d’aver intravisto un’ombra, china, vicino alla cappelletta, poco prima dello sprigionarsi delle fiamme, ma non seppe dire altro: era un uomo? Una donna? Alto? Basso? Troppo buio per notare questi particolari: l’unica cosa che aveva notato era che il misterioso individuo si avvolgeva in un mantello scuro, forse nero; o, almeno, così gli era parso; data l’oscurità, il mantello avrebbe anche potuto essere di diverso colore.
Nel prosieguo della mattinata, giunsero anche Terence, Harrison e Candy, la quale corse subito dai bambini e dalle direttrici per accertarsi che fossero tutti incolumi.
"Fortunatamente stiamo tutti bene; solo un po’ di fumo nei polmoni e tanta paura; bisogna ringraziare il Signore e l’intervento dei tuoi amici se si è evitato il peggio; l’aiuto del ragazzo con gli occhiali è stato determinante per mettere al sicuro una bambina. Come vedi la Casa di Pony è salva", la rassicurò Suor Maria.
"Ma cosa è successo? Come può essere accaduto questo incidente?", chiese la ragazza alle direttrici.
La risposta arrivò da Harrison che, insieme agli altri amici, aveva effettuato un rapido sopralluogo tra le macerie:
"Non è stato un incidente: l’incendio è doloso. A parte il racconto del bambino, ho una certa esperienza in merito e vi dico che ho individuato diversi punti d’innesco: qualcuno ha voluto incendiare di proposito questa cappelletta".
"Ma chi può aver fatto una cosa tanto orribile?", si chiesero le direttrici, alquanto stupefatte e preoccupate.
"È davvero orribile! Voler far del male a dei bambini indifesi è abominevole", sentenziò Candy, "Chi può volere una cosa simile?".
"Beh, qualcuno ci sarebbe... diavolo! Se non sapessi che è partito con suo padre, in tutto questo, ci vedrei la mano di Neal Legan", esplose Archie, che poi aggiunse:
"Anche se, parlando di Legan, non c’è solo Neal...".
Harrison reagì prontamente:
"Cosa vorresti insinuare tu?".
"Ah, io non insinuo proprio niente... ho solo fatto una considerazione. Ogni ipotesi è possibile, quando si ha a che fare con quegli individui", si difese il minore dei fratelli Cornwell.
Harrison lo prese per il colletto della camicia, intimandogli di ritirare ciò che aveva detto; solo l’intervento di Terence riuscì a dividerli.
"Smettetela voi due! Ma vi sembra il momento di mettersi a litigare, questo? Anche se non do tutti i torti ad Archie, non si può accusare nessuno, senza prove, senza accertarsi prima di ciò che è realmente accaduto".
Anche Candy fu d’accordo nel non trarre conclusioni affrettate: era necessario analizzare meglio la scena e trovare eventuali indizi, qualora ve ne fossero, a sostegno di questa o di quella teoria.
Durante la sua nuova ispezione, Harrison notò un oggetto a terra, seminascosto da un pezzo di trave, e lo raccolse: dopo averlo esaminato, sconvolto, se lo infilò in una tasca velocemente. Nessuno si accorse di questa manovra del ragazzo che, subito dopo, raggiunse gli altri.
"Sentite, continuate voi qui, mi sono ricordato che devo fare una cosa... ci vediamo più tardi".
"Ma... dove devi andare? E ci lasci così?", protestò suo cugino.
"Non ti preoccupare, mi pare che qui sia tutto sotto controllo e che nessuno si sia fatto male... ho una cosa importante da fare, ci vediamo dopo".
Ciò detto, Harrison si allontanò velocemente.
 
"Cosa mi dici, George? Un incendio alla Casa di Pony? Ma è terribile", esclamò la zia Elroy, appena ebbe appreso la notizia dal fedele segretario di Albert.
"Non agitatevi signora Andrew; mi hanno riferito che i ragazzi sono già là, anche il signor McFly. Pare che nessuno si sia fatto male, ma la nuova cappelletta è andata distrutta".
"Stanno tutti bene? Anche Miss Pony, Suor Maria e Candy?".
"Esattamente. Candy non si trovava alla Casa di Pony al momento dell’incendio".
"Che terribile incidente...", sussurrò l’anziana prozia.
"Sembra di no... qualcuno sostiene ci sia la mano dell’uomo dietro all’incendio".
"Vuoi dire che l’incendio è... doloso?".
"Esatto signora, almeno questa è l’opinione del signor McFly".
"A proposito, George, dov’è mio nipote William? È stato informato?".
"Come vedete ha lasciato me ad occuparmi degli affari urgenti; lui è partito per New York, per incontrare il banchiere Bowman e un’altra persona per discutere di affari personali. Non credo sappia già dell’accaduto", rispose George.
La zia Elroy abbozzò un sorriso e disse:
"Ammiro la tua discrezione e la devozione che hai per mio nipote; immagino che l’altra persona che doveva incontrare a New York e gli affari personali abbiano lo stesso nome: Marshall".
"Devo mandare un dispaccio per avvertirlo?".
"No, George, lasciamolo tranquillo a discutere del suo matrimonio, per una volta. Noi attenderemo gli sviluppi di questa vicenda dell’incendio: se ne occuperanno i ragazzi, per ora".
"Come volete, signora Andrew. Se non avete bisogno di altro, io andrei ad occuparmi di alcune pratiche in sospeso".
"Non ho bisogno di altro; va’ pure, il lavoro ha la precedenza", disse Elroy, prima di tornare alle proprie faccende.
 
"Candy, ho fatto il prima possibile, appena ho saputo", disse Annie abbracciando l’amica.
Poi, data un’occhiata al punto in cui sorgeva la cappelletta, aggiunse:
"Ma è terribile! Come... come è potuto succedere? State tutti bene?".
"È tutto a posto amica mia, tranquilla. Tom, Archie e Stear hanno dato una mano, erano qui questa notte; sappi che Stear ha anche salvato una bambina".
"Già", intervenne Tom, avvicinatosi alle amiche, "Penso che questa esperienza possa solo fargli bene, ho visto una luce diversa nei suoi occhi; comunque è una fortuna che mi sia svegliato prima questa mattina: mi alzo sempre presto, per prepararmi a fare il giro, ma questa notte ero agitato, ho dormito male...".
Annie si guardò intorno e poi chiese:
"Scusate, dov’è Archie?".
Fu Candy a risponderle:
"Non so... era qui prima che tu arrivassi, poi si è allontanato con Terence e Stear".
"L’importante è che stiate tutti bene", concluse Annie.
A Candy parve giusto che l’amica sapesse tutto, per cui la condusse dentro e le raccontò dei sospetti di Harrison.
 
Iriza se ne stava distesa sul suo letto a fissare un punto indefinito sul soffitto. La sua mente era un turbine di pensieri e sentimenti contrastanti: quello che aveva udito nello studio di suo padre aveva un senso oppure no? Doveva credere che Harrison fosse realmente interessato a lei oppure no? E anche se lo fosse stato, era giusto? Lei si meritava che quel ragazzo, con quella triste storia alle spalle, si interessasse a lei, una ragazzina viziata, egoista e cattiva? Perché soffriva all’idea che Harrison l’avesse presa in giro, invece di provare rabbia e di pensare a una vendetta, come aveva sempre fatto? In fondo era stata d’accordo con Neal nell’inguaiare Candy con la storia della collana e aveva trovato divertente l’idea di far abbattere il suo orfanotrofio... ma quando il fratello le aveva confidato di voler far del male a Dorothy, perché lo aveva tradito? E perché lo aveva pregato di desistere dall’intento di utilizzare i terreni su cui sorgeva la "Casa di Pony" per costruirci un resort di lusso? Daisy: era l’unico nome che le rimbalzava nella testa insieme a quello di Harrison McFly...
E in mezzo a tutto questo marasma che colpe aveva la piccola Daisy? Non era forse stata una vera cattiveria dire a Dorothy che poteva disfarsi del maglioncino o usarlo come straccio? Di una sola cosa era certa: lei era Iriza Legan, figlia di Sarah Legan e sorella di Neal Legan; solo lei poteva capire cosa significasse questa realtà.
Il turbine di confusione nella sua testa si arrestò quando, improvvisamente, udì un rumore che pareva provenisse dal balcone; si avvicinò alla porta finestra e l’aprì, dopo aver dato un’occhiata all’esterno senza aver notato nulla di strano. Un venticello fresco la investì, per cui decise di lasciare aperto: le piaceva l’aria fresca, quell’aria che, nei giorni precedenti, le sembrava fosse venuta a mancare. Si voltò per rientrare; fu allora che, alle sue spalle, una voce conosciuta – che le era stata anche cara – pronunciò il suo nome; rigiratasi, si ritrovò a faccia a faccia con lui.
"C-che ci fai qui? C-che vuoi ancora da me? Ti prego Harrison, vattene... vattene e non tornare più".
Harrison notò che la ragazza aveva una mano fasciata.
"Iriza", ripeté lui, afferrandola per le spalle, "Cos’hai fatto alla mano?".
Quel contatto le era mancato... Dio solo sapeva quanto.
"M-mi sono scottata...", rispose Iriza con un filo di voce.
"Iriza! Dimmi che tu non c’entri, dimmi che non l’hai fatto davvero".
"S-sì, lo so, ho fatto una cosa orribile... sono un mostro, ma...", balbettò lei.
"Lo ammetti allora? Ho sperato fino all’ultimo che tu non c’entrassi e invece... eppure bastava questo ad incastrarti; questo è tuo, lo riconosco", disse Harrison, mostrandole l’oggetto che aveva trovato tra le macerie della cappelletta.
"Il... il mio guanto? N-non capisco... dove l’hai trovato?".
Si trattava di uno dei guanti nuovi, quelli di Madame Bourges: il ricamo su di essi era inconfondibile e unico.
"Dimmelo tu", sibilò il ragazzo.
"N-non capisco... l’avevo perso, non so dove; in che senso m’incastra? Pensavo a...".
Harrison, dardeggiando su di lei uno sguardo infuocato, rispose:
"Fingi di non capire? C’è stato un incendio alla Casa di Pony... questo l’ho trovato tra le macerie... e la tua mano... Iriza, perché?".
D’istinto, la ragazza, esplose:
"Un incendio? I bambini... come stanno i bambini?".
"Una bambina ha rischiato di farsi male... ma per fortuna è intervenuto Stear".
"Una bambina? È terribile! Sia ringraziato il Cielo...".
"Iriza, poco fa mi hai detto di aver fatto una cosa orribile... te lo chiedo ancora: perché?".
In un attimo, nella mente della ragazza, tornarono a turbinare una moltitudine di pensieri:
"La cosa orribile che ho fatto... il maglioncino... tu invece pensi che io... allora è vero, mi credi un mostro... anche tu..."
L’espressione di Iriza, che era stata sul punto di piangere, cambiò e si fece dura:
"Sì, sono stata io! Perché? Perché io sono Iriza Legan! Lo sapete tutti di cosa sono capace... vi odio, odio gli orfani, odio Candy, vi odio tutti. Sei soddisfatto? E ora vattene, vattene via".
Harrison rimase esterrefatto: quella non era l’Iriza che lui aveva imparato ad apprezzare negli ultimi tempi; quella che aveva avuto l’idea di fare un regalo alla piccola Daisy; quella che aveva aiutato Dorothy e aveva cercato di aiutare Stear. No, non era possibile.
"Tu non dici sul serio...".
"Vattene Harrison, vattene", fu quello che rispose lei, spintonandolo via.
"Ti prego Harrison, vattene. Se resti ancora io...", fu, invece, quello che pensò, cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime.
Lui la lasciò andare e disse:
"E va bene, me ne vado, ma non finisce qui".
Prima di uscire, il suo sguardo cadde sul letto, sul quale notò il suo fazzoletto.

Scosso e turbato, Harrison uscì dalla villa così come vi era entrato: alla Candy. Fatti alcuni passi oltre il cancello, si ritrovò dinnanzi Terence, Archie e Stear. Fu Terence il primo a parlare:
"Cosa sei venuto a fare qui? Era questa la cosa importante di cui parlavi prima?".
"Cos’è, mi avete pedinato forse?", sbottò lui.
"Ci è parso strano che all’improvviso tu ti sia ricordato di un impegno importante e sì, ti abbiamo seguito".
"Perché sei venuto dai Legan? Cosa ci stai nascondendo?", chiese Archie, che era sul punto di saltargli addosso.
"Non sono affari tuoi! Te l’ho sempre detto che è meglio che pensi alle cose tue".
Archie gli si avvicinò e notò un lembo di tessuto che gli fuoriusciva da una tasca: lo afferrò ed estrasse l’oggetto.
"E questo cos’è? To’, ma guarda, un guanto bruciacchiato", fece sarcastico.
Esaminatolo meglio, il minore dei fratelli Cornwell aggiunse:
"Ma io lo conosco, so a chi appartiene e so anche cosa sei venuto a fare qui".











Il vostro diavoletto preferito (?) porge a tutti voi, milioni di lettori e recensori, i suoi migliori auguri per l’anno nuovo:

Buon 2019!


 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Accuse e sospetti ***


Lascio il commentino iniziale, poiché l’imprevedibilità degli imprevisti non è prevedibile; altrimenti che imprevisti sarebbero?
Un imprevisto imprevedibile che, data la sua natura di imprevedibilità, non poteva essere previsto, mi ha impedito di pubblicare Sabato. Poco male, pubblico ora.
Buona lettura


Avvertenza per la comprensione del testo: quando Harrison ricorda, le parti in corsivo sono i suoi pensieri nel presente.

Capitolo 30
Accuse e sospetti

La vettura si fermò davanti ad una locanda nella periferia di Chicago; il passeggero, una ragazza avvolta in una mantellina verde, si accinse a scendere, ma fu fermata dall’autista che le afferrò un braccio:
"Lo sai che se ci beccano, in giro nel cuore della notte con l’auto dei padroni, perdiamo il posto tutti e due?".
"Certo che lo so, ma non m’importa; è necessario che lui lo sappia, non si può continuare così... sarò veloce, non ti preoccupare, nessuno si accorgerà di questa nostra uscita notturna", rispose la ragazza.
"E va bene, va’", disse l’autista, mollandole il braccio.
"Grazie, non eri tenuto a rischiare per lei... grazie, Stewart".
 La ragazza diede un bacio sulla guancia all’autista, scese dalla vettura e si avviò verso la porta d’ingresso della locanda.
"Guarda il lato romantico, Stewart... sembriamo due fidanzatini in fuga d’amore... pure un bacio m’ha dato", pensò l’uomo che, al momento del bacio, era leggermente arrossito.
La ragazza, mentre saliva le scale, pensava:
"Perdere il posto! Noi cerchiamo di salvargli la figlia e dovremmo perdere il posto... bah!".

Harrison se ne stava disteso sul letto, nella sua stanza alla locanda, con le mani dietro la testa a mo’ di cuscino, a rimirare il soffitto: non che vi fosse qualcosa d’interessante, lì sopra, ma chi l’avesse osservato così assorto, avrebbe potuto credere di sì. Invece, quel soffitto era tristemente bianco, come quasi tutti i soffitti, con una piccola ragnatela in un angolo. Ma, data l’oscurità – Harrison aveva spento la luce – che ivi regnava sovrana, tutto quello non si poteva scorgere facilmente.
"Avrei bisogno di dormire, ma chi ci riesce?".
Il ragazzo cominciò a pensare, o meglio a ripensare, a quanto accaduto nel corso della giornata: l’incendio; l’intervento insieme ai suoi amici, vecchi e nuovi; il ritrovamento del guanto di Iriza e il successivo incontro con lei; e poi... l’incontro-scontro con Archie.
Archie, sempre lui.
"Io conosco questo guanto, guardate i ricami è inconfondibile! Questo è di Iriza Legan! Capite? Iriza! Avevo ragione io, dopotutto", aveva urlato.
Un’espressione stupita si era dipinta sul volto di Stear, ma non su quello di Terence.
"Come fai a dirlo?", gli aveva chiesto il fratello.
"Glieli ho visti indossare quando McFly l’ha portata all’orfanotrofio... non mi sbaglio, questo è uno di quei due guanti... dillo anche tu, non è così Harrison?".
"E l’altro? Dov’è l’altro?", pensò Harrison che, mentre li ripercorreva, commentava gli eventi mentalmente.
"È vero, non ho difficoltà a confermarlo", aveva annuito Harrison.
"E c’è un’altra cosa: l’ho udita con le mie orecchie dire Darei fuoco a Candy con tutta la sua Casa di Pony", aveva aggiunto Archie*.
"Me ne rammento. Però rammento che dopo ha anche detto che non sarebbe mai arrivata a tanto. Era solo uno sfogo perché le citavo sempre Candy. Questo non l’hai udito vero?".
"Beh, non gli si può dar torto", aveva commentato Terence, "e il tuo comportamento è sospetto: parrebbe dargli ragione. Perché non ci hai detto del guanto e sei venuto subito qui?".
"È ovvio... vuole coprire le malefatte della vipera".
"Non ti permettere, io non copro proprio nessuno; sto indagando... il guanto è di Iriza, ma questo non prova niente...".
Archie non si era trattenuto:
"Ah, bella questa. Lasciami indovinare: gliel’hanno rubato? O ti ha detto che l’ha perso? Magari sei d’accordo con lei... dopotutto non ti conosciamo neanche...".
A quel punto Harrison si era scagliato contro il minore dei fratelli Cornwell; solo Terence, intervenuto tempestivamente per l'ennesima volta a bloccare il cugino, aveva evitato che i due si picchiassero.
"Stai calmo... bisogna capirlo... noi conosciamo bene Iriza e i Legan e forse ti sei sbagliato su di lei. Però, Archie, su mio cugino ci metto la mano sul fuoco; lui è a posto; e vi ripeto che non è il momento di azzuffarsi fra noi, questo".
"Io non credo di essermi sbagliato... nel caso, non avrò pietà; ma se risulterà innocente...".
Lo sguardo di Harrison aveva fatto trasalire Archie che, tuttavia, non aveva rinunciato a controbattere:
"Non ci credo. Mi sembra chiaro che sia colpevole e io andrei anche subito a tirarle il collo, a quella gallina...".
"Basta Archie! Basta così, smettila!", aveva tuonato Stear, "Ha ragione Terence; io ho fiducia in Harrison, ho capito che è animato dalle migliori intenzioni... e non credo che Iriza abbia potuto fare una cosa simile, dopo quello che ha fatto per me, per Dorothy, per Tom...".
"Solo fumo", aveva commentato Archie a mezza voce.
"Sono sicuro che scopriremo cosa è successo", e, rivolgendosi a Harrison, "e che tu terrai fede al tuo intendimento: se Iriza risulterà colpevole, pagherà. Però ti comprendo: l’amore, a volte, può offuscare la mente... vero Archie?".
"Già, me ne sono accorto".
"Avete la mia parola: se verrà fuori quel che temo, sarò irremovibile", aveva concluso Harrison che, saggiamente, aveva taciuto agli altri l’autodenuncia di Iriza.
La discussione si era chiusa con i ragazzi che si erano dati appuntamento per il giorno seguente: a mente fredda, dopo averci pensato molto, avrebbero trovato una strategia per stabilire la colpevolezza o l’innocenza di Iriza; anche se tutto lasciava supporre che la ragazza fosse colpevole. Il guanto era stato dato in custodia a Stear.
Il flusso dei ricordi di Harrison fu interrotto da un picchiettio sulla porta.
"E chi può essere a quest’ora?".
Aperta la porta, il ragazzo si trovò di fronte la cameriera dei Legan.
"Ho bisogno di parlarvi, signor McFly, è importante".
Harrison la fece accomodare e si mise in ascolto: ebbe la conferma che quella notte non sarebbe più riuscito a dormire.

Le ultime parole, a Stear, erano uscite così, pensando a tutte quelle volte che il fratello aveva preso fuoco quando si era trattato di difendere Candy; ma aveva pensato anche a sé stesso: la grande amicizia che aveva provato per Dominique gli aveva offuscato la mente, quando questi era morto. Ora, a distanza di tempo, riusciva ad essere più lucido e gli ultimi eventi parevano essere un segno divino: quel giorno lui aveva salvato una bambina; quel giorno lui aveva contribuito a spegnere un incendio, proteggendo la vita di molte altre persone; quel giorno lui aveva salvato sé stesso. Se si fosse tolto la vita, come spesso aveva pensato di fare, non avrebbe potuto compiere questi atti.
E tutto era accaduto per merito di Dominique: la sua "visita" notturna lo aveva svegliato e indotto a passeggiare nel bosco... Ciò stava a significare che l’amico non lo riteneva responsabile della propria morte o, quantomeno, che l’avesse perdonato, e gli aveva indicato la via, dato uno scopo.
Stear, quel giorno, capì che voleva vivere, che voleva fare qualcosa per gli altri... che voleva amare Patty e con lei formare una famiglia, magari con tanti bambini. In cuor suo sperava che Iriza fosse innocente e quando quella sera prese in mano il modellino regalatogli da lei, ne ebbe quasi la certezza... ma perché, allora, quella stessa sensazione lo fece rabbrividire?

"Ma dove siete stati tutto questo tempo? All’improvviso siete spariti tutti! Anche Annie si è preoccupata nel non trovarvi qui; voleva vedere Archie", chiese Candy al fidanzato, servendogli una tazza di tè.
"Diciamo che abbiamo svolto alcune indagini...", rispose lui.
"E avete concluso qualcosa?".
"È ancora presto per dirlo, ma tutto porta ad Iriza".
Candy, dopo aver sorseggiato il suo tè, osservò:
"Non lo so; lo penserei anch’io, se non avessi parlato con Dorothy nei giorni scorsi".
"Non so cosa ti abbia raccontato Dorothy, ma io non mi stupirei affatto se fosse lei la colpevole: in fondo sempre di Iriza Legan stiamo parlando... certo che arrivare addirittura ad incendiare una cappelletta di un orfanotrofio...".
"Hai ragione, però... Dorothy mi ha detto che quell’indumento che ho trovato fuori dallo studio del signor Legan sarebbe un maglioncino; un maglioncino per una piccola orfana cieca di nome Daisy, un’amica di Harrison. E l’idea l’avrebbe avuta Iriza. Capisci? Iriza che chiede alla sua cameriera di confezionare un maglioncino per una piccola orfana cieca! Non lo trovi incredibile?".
"È quello che ti stavo dicendo...".
"E tutte quelle buone azioni che ha fatto nei confronti di Dorothy, di Tom, di Stear: sembra proprio che voglia espiare le malefatte passate".
Terence ci pensò su e poi disse:
"Sì, però non dimenticare che, in tutto questo, c’entra Harrison e in questi giorni pare che i loro rapporti siano deteriorati; le delusioni portano a commettere le azioni più incredibili e, ricordiamocelo, per Iriza, per come la conosciamo, non sarebbero azioni tanto incredibili; inoltre Archie è convinto che tutto il suo buonismo sia fumo".
"Non lo so, spero solo che lei davvero non c’entri con l’incendio: mi piaceva l’idea di un’Iriza cambiata".
"O per lo meno di un’Iriza fuori dai piedi: se cambiasse, finalmente si leverebbe di torno", aggiunse Terence, facendo ridere la fidanzata.

"Non ce la faccio a vederla così", cominciò Dorothy, "per cui ho deciso di farvi visita... oggi sono entrata da lei e, anche se mi ha trattata con durezza, ha pianto per tutto il pomeriggio tra le mie braccia... poi mi ha cacciata, ma è tutta scena, secondo me".
"Questo, però non ci aiuta", commentò Harrison.
"Appunto. Ho ascoltato senza volerlo la vostra discussione... mi perdonerete per questo, spero... e c’è una cosa che devo dirvi".
"Di’ pure".
"So che Iriza si è accusata di aver appiccato l’incendio e io non lo credo possibile; so che avete trovato un suo guanto e so che avete notato la sua mano fasciata e l’avete collegata all’incendio. Ebbene non so come quel guanto possa essere finito tra quelle macerie, ma Iriza la mano se l’è scottata a casa, in camera sua: distrattamente si è rovesciata sulla mano una tazza di tè bollente; io ero presente".
"Chissà perché me lo immaginavo", pensò Harrison.
"E questo è accaduto nel pomeriggio di ieri".
"Quindi prima dell’incendio", intervenne il ragazzo.
"Esatto", confermò la cameriera, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, per poi proseguire:
"E riguardo ai guanti... dopo la visita all’orfanotrofio, non glieli ho più visti indossare".
"È la seconda persona che mi parla di quella visita", mugugnò il ragazzo, ricordandosi che, infatti, alla seconda visita Iriza quei guanti non li aveva.
"Spero di esservi stata utile", disse Dorothy, dopo alcuni istanti di silenzio.
"Sei stata preziosa, mia cara... soprattutto per la tua padroncina, più che per me".
Si era fatto tardi. Il ragazzo si avvicinò alla finestra e scorse, nell’oscurità, la vettura dei Legan che attendeva la cameriera.
"Penso sia ora che voi andiate. Non rischiate oltre e... ringraziate da parte mia il buon Stewart", le disse, prendendole le mani.
Dopo che si furono accomiatati, Harrison si risistemò sul letto e cominciò a far girare gli ingranaggi del cervello: sarebbe stata una lunga notte, forse la più lunga della sua vita.




* nel sesto capitolo, terzo paragrafo.













Il vostro diavoletto preferito (?) spera di non aver partorito una schifezza, ma era difficile esprimere tutto quel che, spera, di aver espresso.
Lo dico perché il capitolo originario è più lungo ma, non avendo avuto il tempo di revisionarlo tutto, per non saltare il turno, ne pubblico solo la prima parte.

 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Le indagini ***


Buona lettura


Capitolo 31
Le indagini

Quando un animo arido e insensibile ne incontra uno più puro e disposto ad accoglierlo, tende a non riconoscerlo, a sbarazzarsene, a buttarlo alle ortiche. Questo comportamento, però, scaturisce da quelle persone che, iniziata la vita con le migliori intenzioni, con l’idea di fare del bene agli altri, ricevono in cambio solo le classiche "mazzate". Se  t’insegnano cos’è il bene e cos’è il male e scegli di praticare il primo, ricevendo dagli altri il secondo, quando incontri una persona disposta a darti un aiuto sincero, tendi a rifiutarla: anche solo per farle capire che voler aiutare tutti non sempre paga.
Iriza, invece, trascinata dall’esempio dei familiari, apparteneva a quella categoria di persone che partono con l’idea di essere superiori: la sua famiglia era superiore alle altre; gli orfani, privi di famiglia, erano pezzenti. Essendo superiore, aveva il diritto di prendersi ciò che le piaceva – o che anche solo desiderava possedere – e  tutti coloro i quali cercavano di impedirglielo andavano eliminati. Tanto non contavano nulla, poiché gli "altri" erano tutti nemici, tutti invidiosi, tutti pronti a farti del male e a toglierti ciò che è tuo di diritto. Era cresciuta con queste idee, non aveva mai conosciuto altro, finché non aveva incontrato Harrison, che aveva saputo toccare le corde giuste, entrare nella sua anima, mostrandole un mondo che non avrebbe mai immaginato, altrimenti, di poter apprezzare; ma ancor di più, di poter essere apprezzata da esso, senza secondi fini: non tutti al mondo ti sono nemici, ci può sempre essere qualcuno che crede in te.
Aveva capito che lei non odiava Candy realmente e che non le erano mai interessati davvero tutti quelli che le giravano intorno, compresi Anthony e Terence; era solo invidiosa di ciò che l’orfanella era riuscita a suscitare in quei ragazzi: un essere inferiore era riuscito là dove lei, un essere superiore, aveva sempre fallito.
Con Harrison era cambiato tutto. Aveva finalmente incontrato un ragazzo che le piaceva davvero e che pareva, malgrado le "incomprensioni" iniziali, molto interessato a lei: pur giudicandola, non l’aveva mai respinta, ma aveva insistito, cercando sempre la sua compagnia. Iriza, non sapendo come comportarsi, aveva chiesto aiuto alla persona che più le era vicina ogni giorno, la cameriera, e che, sorprendendola, aveva accettato di aiutarla: aveva scoperto che mettere da parte Candy – o almeno l’invidia che provava per lei – non era poi così difficile.
"Che t’importa di lei, lascia che viva la sua vita, che faccia le sue scelte e prova a costruire qualcosa anche tu; non sprecare la tua vita dietro a un odio, a un’invidia che non ti porterà da nessuna parte", si era detta.
Così, la ragazza, facendo un grande sforzo, aveva scoperto di avere un’anima, di avere un cuore, di essere capace di "donare" agli altri e non solo di ricevere; e, agendo così, aveva provato un senso di "leggerezza", di appagamento, mai provati in precedenza, un senso che le piaceva, che la faceva star bene. E si era lasciata andare.
Ma quando scopri – o credi – che è tutto falso, che ti hanno solo preso in giro, ti crolla tutto addosso; se quello che conoscevi prima, era sbagliato e ti faceva star male, e quello che conosci adesso, pur facendoti star bene, è finto e destinato a finire presto, ti chiedi: che senso ha la vita? Che senso ha continuare a vivere? Era stato così anche per Iriza.
Non che Dorothy avesse compreso tutto questo, ma aveva intuito che la sua padroncina stava troppo male, tanto da poter arrivare a commettere qualche sciocchezza; e lei non poteva permetterlo. In fondo Iriza era stata più che carina con lei, salvandola addirittura dall’accusa infamante di essere una ladra e aiutandola con Tom: se lei, ora, si poteva godere un po’ l’amato era solo per merito suo. Si erano aiutate a vicenda: Dorothy aveva donato a Iriza un po’ della sua dolcezza, della sua bontà; Iriza le aveva insegnato a essere più spregiudicata, a sgomitare, se voleva ottenere ciò che desiderava. Praticamente, da "consigliera", Dorothy, era divenuta "consigliata".
Tutte queste considerazioni avevano indotto la cameriera a tenere d’occhio la padroncina, anche a costo di farsi prendere a spintonate, o peggio, da lei. Confidava che presto Harrison avrebbe risolto la faccenda. O almeno lo sperava.
 
Harrison aveva passato una notte insonne e infruttuosa, crollando poco prima dell’alba e concedendosi solo un paio d’ore di sonno.
Agitato.
Aveva analizzato la situazione, cercato una soluzione, ma in tutta quella faccenda non aveva trovato un senso logico. Si era anche vergognato di aver dubitato, seppur per qualche secondo, di Iriza: non era forse vero che lei, appena appresa la notizia, si era preoccupata della salute dei bambini? Che le sue prime parole erano state per la bambina che aveva rischiato di farsi male?
"Questo vorrà pur dire qualcosa", aveva pensato, "Una persona che appicca un incendio ad una casa non si preoccupa certo della salute dei suoi occupanti".
E la circostanza del tè, rovesciato sulla mano, aveva spazzato via gli ultimi dubbi. Poi c’era il fazzoletto: segno che la ragazza stava ancora pensando a lui.
Ma Harrison sentiva che c’era qualcosa che gli stava sfuggendo; la cosa che più l’aveva colpito, era stato l’accenno alla sua prima visita all’orfanotrofio con Iriza, tirato fuori da due persone... sempre messo in relazione a quei maledetti guanti... Perché questo ricordo lo aveva tormentato, presentandoglisi anche in sogno, per tutta la notte, offuscandogli la mente e impedendogli di ragionare? Cosa c’entrava in tutto quel pasticcio quella visita? Era forse accaduto qualcosa, quel giorno, che non riusciva a ricordare?
Appena sveglio, nella sua mente si affacciò una domanda improvvisa: dov’è il secondo guanto? Convintosi, non sapeva neanche bene il perché, che quei guanti fossero la chiave di tutto, prese una decisione: sarebbe andato all’orfanotrofio, un po’ perché aveva bisogno della compagnia dei suoi piccoli amici, un po’ per vedere se riusciva a ricordare qualche elemento utile alle indagini. Su Iriza poteva stare tranquillo: Dorothy gli aveva assicurato che avrebbe vegliato su di lei. E di Dorothy poteva fidarsi.
Si preparò in fretta, dandosi una lavata e cambiandosi gli abiti, che aveva indossato il giorno prima e con i quali si era addormentato, e si recò all’appuntamento con gli altri. Li convinse ad attendere prima di dire o di fare alcunché e, stupendosene alquanto, incontrò l’approvazione di tutti, compreso Archie. Archie e Terence decisero di tornare sul "luogo del delitto", a cercare indizi che potessero incastrare o scagionare la giovane Legan – avrebbero anche riparlato con il bambino, unico testimone del tragico evento; Harrison disse loro, senza fornire ulteriori dettagli, che avrebbe indagato per conto proprio; Stear si convinse che, passeggiando nel bosco, gli sarebbe potuto tornare alla memoria qualche indizio che magari gli era uscito di mente.
Si salutarono e ognuno prese la propria direzione.

Dorothy non ebbe difficoltà a mantenere l’impegno che si era assunta con Harrison: sacrificando anche quel poco tempo che era solita passare con Tom, era diventata l’ombra della padroncina, coinvolgendo nella sua missione il buon Stewart, convintosi che anche la padroncina avesse diritto ad avere una possibilità di riscatto. Ciò era stato possibile anche per merito della signora Legan. Infatti, in condizioni normali, la cameriera avrebbe avuto da lavorare in casa, ma la padrona, avendo notato un peggioramento nell’apatia e nel comportamento asociale della figlia – che rifiutava anche la sua compagnia –, le aveva chiesto di starle accanto, in maniera discreta. E Dorothy non se l’era fatto ripetere due volte.
 
Fu una giornata di indagini, di ricerca. Purtroppo Archie e Terence – ai quali il bambino della "Casa di Pony" confermò la propria testimonianza – non trovarono nulla di nuovo, per cui, per quel che ne sapevano, Iriza rimaneva l’unica possibile colpevole.
A Stear andò meglio. Aveva deciso di ripercorrere gli stessi passi che l’avevano portato ad avvistare l’incendio ma, ad un certo punto, una "vocina" gli consigliò di fare una piccola deviazione: un messaggio dell’amico Dominique? Intuito? Fatto sta che il ragazzo decise di dare ascolto a quella "voce", poiché anche a lui qualcosa non tornava e... quello che scoprì lo lasciò allibito:
"No, non è possibile!", si disse, osservando la sua scoperta, "Non ha senso... non ha alcun senso... eppure me lo sentivo che c’era qualcosa di sbagliato...".
Harrison trascorse l’intera giornata coi "suoi" bambini, la compagnia dei quali ebbe l’effetto di disintossicarlo e di liberargli la mente; la domanda che più frequentemente gli fu rivolta, riguardava la Zia Iriza; su questo tema dovette subire un vero e proprio attacco da una bambina in particolare:
"Zio Mac dov’è la Zia Iriza? Perché non è venuta con te? Mi manca... non avrete mica litigato spero...".
"No, tranquilla piccola; la Zia Iriza aveva molto da fare e non è potuta venire, ma... se non venisse più ti dispiacerebbe tanto?", le chiese Harrison, prendendola in braccio.
"No... ti ha detto che non viene più?".
"E se ti dicessi che è cattiva... che in realtà la Zia Iriza è una strega malvagia?".
"Tu dici le bugie, Zia Iriza non è una strega cattiva, ha un buon profumo ed è la mia Principessa...".
Harrison la rassicurò e le diede un bacio sulla guancia, prima di riaffidarla al solito bambino.
"I bambini ‘sentono’ le cose meglio di noi adulti... Daisy non mi ha mai accusato di dire le bugie e mi ha sempre creduto. Devo assolutamente risolvere questa brutta vicenda".
Il ragazzo approfittò della visita all’orfanotrofio anche per discutere con "Papà David" di alcuni dettagli circa il suo, solo accennato fino a quel momento, piano di trasferimento dei bambini alla "Casa di Pony": non c’era ancora stato il tempo per parlargliene in maniera compiuta, anche perché era necessario prima avviare i lavori di ristrutturazione e preparare psicologicamente i bambini di entrambe le strutture.
Ovviamente l’intoppo dell’incendio avrebbe rallentato la realizzazione del piano, ma era comunque corretto parlarne a David il prima possibile.
"Papà David" si dimostrò entusiasta delle idee di Harrison e si disse felice e ansioso d’intraprendere quella nuova avventura.
Harrison non si era però dimenticato del vero scopo della sua visita e, alla fine, dopo aver ripercorso gli stessi passi del giorno della prima visita, ebbe l’illuminazione:
"Ma certo! Ecco cosa mi sfuggiva! La giacca! Come ho potuto dimenticarlo? Ora so chi ha appiccato l’incendio!".












CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Eccovi la seconda parte del capitolo; ho dovuto riarrangiarlo un po’, ma mi sembra venuto bene. Il capitolo si apre con una lunga introspezione su Iriza e non solo: spero di non aver scritto cretinate, ma penso proprio di no. Fidatevi, so quel che dico.
Sul finale: vedo Alabarde, martelloni 100t, Thunderbolt, Supernove etc. etc. roteare nell’aria...

 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Un'incredibile verità ***


Buona lettura


Capitolo 32
Un’incredibile verità

"Bene, analizziamo i fatti certi", esordì Harrison, aprendo la discussione alla quale presenziarono anche Terence, Archie e Stear.
Harrison aveva chiesto quell’incontro, dal quale aveva volutamente escluso sia le ragazze, sia Tom, sia qualsiasi altra persona legata a quella vicenda – "Il perché lo capirete dopo", aveva spiegato –, con lo scopo di illustrare agli amici la sua teoria, che lui riteneva corretta e con poche – per non dire nessuna – alternative.
"Già", gli fece eco il cugino, "Partiamo dalle certezze; ti ascoltiamo".
"Allora... Iriza è colpevole, ha appiccato lei l’incendio... me l’ha anche confessato e inoltre ha una brutta scottatura ad una mano...".
"E cosa aspettiamo allora? Andiamo a prenderla, facciamola confessare e appendiamola al primo albero che troviamo", sbottò Archie, interrompendo McFly e provocando le proteste degli altri due:
"Ma che stai dicendo? Sei impazzito? Non dici sul serio...".
"Certo che no! È un modo di dire...".
Harrison riprese:
"Vi prego di non interrompermi e, per tua informazione, Archie, io non userò modi di dire, ma andrò subito al sodo".
"Chiedo scusa. Va bene, continua", assentì Archie.
"Intanto si è scottata in casa con del tè bollente in presenza di Dorothy. Vi starete sicuramente chiedendo perché ve l’ho detto in quel modo così ambiguo; l’ho fatto per farvi capire che, a volte, l’apparenza inganna, che alcuni fatti possono darci false certezze; quella scottatura poteva avere molteplici spiegazioni, ma tutti noi, me compreso, abbiamo subito puntato su quella più facile, su quella più comoda. Comunque non importa, Iriza è colpevole e ha appiccato l’incendio con l’intento di far del male a Candy o ai bambini, come udito da Archie tempo fa".
"Già, te l’ha pure confessato...", sibilò il minore dei Cornwell, a mezza voce.
"Quindi, se ciò fosse vero, il giorno dopo lei, il cui stupore nell’apprendere la notizia mi è parso genuino, si sarebbe preoccupata della salute dei bambini, prima di ogni altra cosa? Si sarebbe scossa nell’apprendere che una bambina in particolare ha rischiato di farsi del male? Avrebbe ringraziato il Cielo sapendo che la bambina era incolume? Di sicuro mi avrebbe chiesto se per caso Candy non fosse morta carbonizzata, se questo fosse stato il suo obbiettivo. Non l’ha fatto. Vi sembra un comportamento coerente con la supposizione iniziale?".
Il pensiero di Candy carbonizzata fece rabbrividire Terence, che commentò:
"Potrebbe aver simulato, no?".
"A te, il suo stupore è parso genuino... di genuino in lei non c’è mai stato nulla", aggiunse Archie.
"Bravo Archie, hai detto giusto, non c’è mai stato... ma ora potrebbe esserci; ti ricordo che anche se tu, se voi, la conoscete da tanto tempo, ultimamente io, a differenza vostra, le sono stato addosso; tu stesso me l’hai rinfacciato più volte, Archie; e, standole addosso, ho potuto notare una certa evoluzione, nel suo carattere, magari piccola, ma c’è stata".
"Lo dici tu", lo punse Archie, "Forse perché sei, incredibilmente, attratto da lei".
"Si sbaglia anche Dorothy? Anche lei è attratta da Iriza? E di Tom che mi dici? Ti pare uno sprovveduto? E tuo fratello? Prova a chiedere a lui cosa pensa di Iriza, adesso".
"È possibile che mio fratello sia ancora un po’ confuso... è appena tornato a casa, in fondo; può anche darsi che la storia del regalo lo abbia fuorviato, ma sono sicuro che tornerà in sé. E poi Iriza ha confessato, l’hai detto tu...".
"Un punto per te, è una spiegazione plausibile", convenne Harrison, mentre osservava Stear, stranamente taciturno.
"Ma dimentichi una cosa", proseguì prontamente, "Dimentichi la persona che meglio conosce la Legan, e che più ha subito da lei. Terence, che dice Candy? Sicuramente avrete commentato gli ultimi eventi, prima dell’incendio; che opinione s’è fatta della vipera, come la definite solitamente voi, di questi ultimi tempi?".
"E questo è un punto per te", commentò suo cugino; non v’era bisogno di aggiungere altro, tutti avevano compreso quale fosse il pensiero di Candy.
"Se addirittura lei ha notato qualcosa... ma non voglio forzare il discorso. Iriza è colpevole. Ma... quando uno va ad appiccare un incendio... indossa dei costosissimi guanti pregiati? A quale scopo? Non dimentichiamo che Iriza è viziata e vanitosa, le piacciono il lusso e le cose belle: non rovinerebbe mai dei bellissimi guanti in quel modo".
"Colgo del sarcasmo in questa tua ultima affermazione", commentò Terence.
"Non dite niente? Provo a spiegarlo io allora: ha usato quei guanti perché, se non l’avete capito, ora mi odia per colpa di suo fratello, e quei guanti le ricordano me; magari si ricorda anche che le dissi di essere stato io a regalarglieli, quindi simboleggiano me; forse non voleva bruciare solo Candy, ma anche me – e tutto quel che mi riguarda – e ha cominciato dai guanti".
"Perché ho l’impressione che ci sia un ma in arrivo?", chiese Terence.
"Il ma lo introduco io: ma da che parte stai? Sembra che tu stia facendo di tutto per incastrare la tua bella!", s’intromise Archie.
"Appunto: sembra. Forse non vi siete accorti che sto smontando tutte le nostre certezze. E Terence ha ragione... ma dov’è il secondo guanto? Se voleva liberarsi di quegli indumenti, perché tenersene uno? Per ricordo? E ancora: me la dipingete come un essere scaltro e diabolico e poi è così stupida da lasciare sul luogo del delitto la sua firma? Suvvìa".
"E allora?", sbottò Archie.
"Allora ve lo dico io: Iriza non voleva liberarsi di nulla, non voleva bruciare me, né Candy, né nessun altro".
Finalmente Stear, che fino a quel momento era stato zitto, intervenne nella discussione:
"Dicci perché ne sei così sicuro".
"Ha ancora il mio fazzoletto: avrebbe cominciato da quello, non dai guanti... e mi avrebbe anche potuto incastrare, se avesse voluto", lo accontentò Harrison.
Seguirono attimi di silenzio; poi Terence osservò:
"Quindi ci stai dicendo che credi alle parole di Iriza? Avrebbe perso i guanti? È un po’ debole come versione...".
"Niente affatto. Credo alle parole di Iriza, ma non ha perso i guanti, glieli hanno rubati o, se preferite, glieli hanno presi... due volte, durante le indagini, è saltato fuori il giorno della nostra visita all’orfanotrofio... anzi una volta sola, poiché il secondo accenno si riferiva più alla seconda visita che alla prima. Non capivo perché la cosa stonasse e perché questo ricordo mi abbia perseguitato per tutta la notte. Il primo accenno dimostrava la colpevolezza di Iriza, ma il secondo, fattomi da Dorothy, ne dimostra l’innocenza, a mio avviso: la seconda volta Iriza, quei guanti, non li aveva più. Ci ho pensato e ho capito l’errore, solo andando a trovare i miei piccoli amici e ripercorrendo con la mente gli avvenimenti di quel giorno... ma c’è una cosa che non vi ho ancora detto".
"E quale sarebbe?", chiesero ad una voce i tre amici, che cominciavano a sentirsi esasperati.
"L’incendio è una burla".
Terence e Archie assunsero un’espressione che definire stupita sarebbe eufemistico, solo Stear pareva serio. Infatti, prevenendo gli altri, disse:
"Penso che tu abbia ragione; se vuoi fare del male non vai ad incendiare un edificio che sai essere sicuramente vuoto, ad una certa ora, e che è staccato dall’edificio principale, come sono la cappelletta nuova e la Casa di Pony. Chi ha appiccato l’incendio non voleva che qualcuno si facesse male; e questa considerazione rende nulla la prova portata da mio fratello".
"Cioè, voi dite che l’aver sentito Iriza dire di voler bruciare Candy e la Casa di Pony non prova la sua colpevolezza? Non prova neanche il contrario, però... e definire un incendio una burla...".
"Ma non hai capito, Archie? Chi ha appiccato l’incendio non voleva far male a nessuno... voleva far male solo ad una persona: Iriza! E chi si immaginava che si sarebbe alzato il vento? E chi si immaginava che una bimba curiosa si sarebbe fatta attrarre dallo spettacolo del fuoco, che è così affascinante per i bambini? Io mi sono concentrato sulle parole pronunciate da Iriza dopo il primo appuntamento, sulla visita in sé... non sui gesti e sulle persone presenti quel giorno. Quando rientrammo, Iriza gettò i guanti e il cappellino sul divano del salone, dicendo di non volerli più*. E quando uscii dalla villa erano ancora lì, sul divano... Iriza non è più scesa, era scossa, agitata e non stava bene, ma, il particolare che mi sfuggiva riguardava la giacca: l’avevo dimenticata sulla spalliera del divano e sono rientrato a prenderla; non ho notato più i guanti sul divano, ma... c’era un’altra persona con me, in quel salone".
Il gelo calò nella stanza. Poi Harrison proseguì:
"Stear, come ti sei accorto dell’incendio?".
"Diciamo che, non riuscendo a dormire, mi sono messo a passeggiare nel bosco, quando ho visto alzarsi dei bagliori...".
"E tu, Archie?".
Terence fissò l’amico e lo incalzò:
"Già, come hai fatto ad arrivare subito là? Stear ha detto che ha visto l’inizio dell’incendio e ti ha incontrato subito dopo".
"Non puoi aver sentito o visto nulla, a meno che... tu non fossi già là... tu hai preso i guanti di Iriza e non hai avuto il tempo di liberarti del secondo guanto, perché un bambino ti ha visto e temevi di essere riconosciuto", sentenziò Harrison.
"Ma che diavolo stai dicendo? Tu sei matto!", sbraitò l'accusato, alzandosi in piedi di scatto.
Stear s’infilò una mano in tasca e gettò sul tavolo un guanto, dall’aspetto ancora nuovo: il guanto mancante.
"Non avevi previsto di incontrarmi, vero? E dovevi liberarti del guanto, perciò l’hai buttato nella boscaglia; l'ho trovato non molto lontano da dove ti ho incontrato, ed eravamo soli... magari contavi di ritornare a prenderlo e di buttarlo tra le macerie... ma non c’è stata l’occasione: è così, Archie?".
"Magari, se cerchiamo bene, troviamo anche il mantello, da quelle parti", osservò Harrison.
Archie ricadde sulla sedia e si prese la testa fra le mani.
"Ero sicuro avessi trovato qualcosa, Stear; eri troppo taciturno e una tua frase, ieri, mi ha aperto gli occhi: l’amore, a volte, può offuscare la mente...".
"Infatti sospettavo... ma non volevo crederci... Archie mi hai deluso".
Terence si alzò di scatto e prese Archie per il colletto della camicia, tirandolo su:
"Ma che hai fatto, sciagurato! Come hai potuto? E se qualcuno si fosse trovato nella cappella?".
Terence stava pensando all’incontro con Candy, dopo il suo ritorno a Chicago, avvenuto di notte nella cappelletta; anche Stear si ricordò della notte passata con Candy nella stessa cappelletta.
"Perché l’hai fatto, Archie? Cosa avevi nella testa?", gli chiese il fratello.
"Io... io non volevo far male a nessuno... ha ragione Harrison, avevo calcolato tutto, nessuno si sarebbe fatto male, ma poi s’è alzato il vento...".
"E tu eri quello che voleva appendere Iriza al primo albero? Sì, ho capito il discorso della cappelletta, del vento... ma perché?", gli chiese anche Terence, dopo averlo mollato.
"Quando... quando ho visto Tom ed Annie insieme... tutti vi siete riuniti: tu con Candy, Stear con Patty... non potevo sopportare che anche Iriza... Neal ha pagato, doveva pagare anche lei".
"Archie, sei un cretino!", sbraitò Terence, "Tra Annie e Tom non c’è nulla! Annie ti ama e sta soffendo per questa situazione; non ti ha creduto quando le hai detto che è tutto a posto. Me l’ha detto Candy; l’ha vista veramente a pezzi, e tu vai a combinare questo disastro?".
Stear intervenne:
"Harrison, ti dobbiamo delle scuse; se sei d’accordo, penso che potremmo dimenticarci di questa brutta faccenda; ma se invece vorrai denunciarlo... rispetterò la tua decisione, qualunque essa sia, e lo farà anche Archie".
"No, non penso di denunciarlo, in fondo non è un cattivo ragazzo, ha agito d’impulso e non voleva far del male a nessuno; paradossalmente si potrebbe dire che questa brutta vicenda abbia giovato a qualcuno. Inoltre, uno scandalo di questa portata nuocerebbe gravemente agli affari di tre famiglie, oltre che alla salute della vostra simpatica prozia... ma... c’è una cosa che gli devo dire".
Harrison si avvicinò ad Archie e gli sferrò un colpo al volto, che lo fece cadere a terra.
"E con questo, spero che d’ora in poi lascerai in pace me ed Iriza; per l’incendio ci inventeremo qualcosa, potrei anche dire di essermi sbagliato sulla sua natura dolosa".
Terence che, al pari di Stear, aveva capito chi fosse quel "qualcuno" a cui aveva accennato Harrison, commentò:
"Non avrei mai immaginato che tu scendessi a livelli più bassi di quelli che hanno toccato i due Legan... sono deluso anch’io. Ma mio cugino ha ragione e, siccome ti conosco da tanto, credo sia giusto darti la possibilità di rimediare, in qualche modo".
"Neanche immaginate quanto io mi vergogni di quel che ho fatto... è la verità", mormorò Archie, a mezza voce.
"Avete capito adesso perché non ho voluto far partecipare le ragazze all’incontro? Però penso che sia giusto che Annie sappia; io non le dirò nulla, spetterà a te Archie, decidere se raccontarle la tua follia oppure no; raccontarglielo potrebbe anche servire a riunirvi a rafforzare il vostro rapporto. Pensaci".
La riunione fu chiusa da Stear:
"Credo sia inutile ricordarvi di non informare Albert... anche lui ci rimarrebbe troppo male; e poi non voglio che gli si rovinino questi giorni di progetti, importanti per il suo futuro. Ho capito perché è andato a New York, aveva una luce diversa negli occhi quando è partito".
I ragazzi si separarono ed Harrison rientrò alla sua locanda.
"No, adesso basta. Domani affronterò Iriza e non entrerò da balconi o da finestre; basta fare il Tarzan, arrampicarsi sugli alberi e altre stupidaggini... entrerò dalla porta principale e la vedrò, nessuno riuscirà a fermarmi... ma ora ho solo  bisogno di dormire".
Benché il tramonto fosse ancora molto lontano, Harrison si gettò sul letto, deciso a concedersi il giusto sonno, che gli mancava da un paio di giorni: aveva bisogno di riordinare le idee e di purificarsi il cervello, prima di intraprendere qualsiasi nuova azione. Se fosse servito, avrebbe dormito anche ventiquattr’ore di fila!

Recatosi alla "Casa di Pony", convinto di trovarla ancora là, Terence fu informato da Suor Maria – rientrata per prendere alcuni oggetti utili ai bambini, sistemati provvisoriamente da Cartwright – che avrebbe trovato Candy nel suo appartamento in città: vi si era diretta, su una vettura che era venuta a prenderla, lasciando detto che c’era una sorpresa per il suo fidanzato.
"Candy, che è successo? Suor Maria mi ha fatto preoccupare; come mai sei venuta qui? E con chi poi?", attaccò subito il ragazzo, appena giunse alla "Casa della Magnolia".
"Sei troppo apprensivo, come al solito", lo rimproverò la ragazza, accogliendolo con un bacio, "La cosa è semplice: mentre tu eri via, una vettura è venuta a prendermi per portarmi qui; c’è una persona che mi voleva vedere e che ora vuol vedere te; è una sorpresa".
"Mmmh, questa cosa non mi piace, troppi misteri".
Una voce familiare e cara si fece udire alle spalle di Terence:
"Non sei contento di vedere tua madre? Come vedi non c’è nessun mistero".
Terence si voltò di scatto e, dopo un primo momento di smarrimento, si gettò tra le braccia che Eleanor Baker, sua madre, aveva aperto, pronte all’abbraccio.
"Mamma, come sono felice di vederti... quanto tempo... ma perché sei qui, ti credevo impegnata con la tua compagnia!".
"Oh, Terence! E tu credi che mi sarei persa il tuo matrimonio? Con te ho fatto tanti, troppi errori nella mia vita; non voglio più sbagliare, tu vieni prima di tutto".
Quell’abbraccio, così tenero, commosse Candy, che fu invitata dalla donna ad unirvisi anche lei:
"Vieni anche tu! Sono felice per voi".
Quindi si accomodarono sul divanetto e Terence volle sapere: Eleanor gli spiegò che nel loro ambiente le voci corrono veloci e poi... aveva ricevuto una lettera di Susan Marlowe.
"Quella ragazza non finisce mai di stupirmi", commentò Candy.
Ora era la volta di Terence: senza entrare nei dettagli, egli raccontò brevemente a sua madre dell’incendio della cappelletta della "Casa di Pony" e poi informò tutte e due che il caso era chiuso.
"Iriza Legan non c’entra nulla", disse, "e comunque è tutto risolto".
Alla comprensibile domanda di Candy, riguardante il colpevole, Terence rispose evasivamente, rimandando ad un’altra volta i dettagli.
Eleanor fu d’accordo:
"Ora dovete pensare solo a sposarvi e a essere felici, ve lo meritare e, se ti fa piacere, Candy, sono qui per aiutarti in tutti i preparativi per il matrimonio".
"Non potrei desiderare un’aiutante migliore", rispose la ragazza, al colmo della felicità e soddisfazione nel constatare che, tra Terence e sua madre, dopo tante tribolazioni, le cose stessero funzionando bene.

Il mattino seguente, tenendo fede al suo impegno, Harrison si presentò ai cancelli di Lakewood; non ebbe difficoltà ad entrare, data la sua nuova condizione di "conte", ma, naturalmente, gli fu detto che Iriza non voleva vederlo.
"Beh, la signorina Legan non mi vuol vedere? Eh, ma io voglio vedere lei", rispose alla padrona di casa, prima di avviarsi, con passo sicuro, su per la scala.




* in apertura del decimo capitolo. Alla fine di quel paragrafo vi è l’episodio della giacca.








CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Ancora un ritardo... ma non sto affatto bene, nel fisico e nello spirito...


The Blue Devil






















Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** La fine di due coppie? ***


Buona lettura


Capitolo 33
La fine di due coppie?

"Come hai potuto? Come?".
Annie non la smetteva di piangere e, tra un singhiozzo e l’altro, continuava a ripetere quella domanda, quasi a volersi convincere che ciò che aveva appreso non fosse vero. Non poteva essere vero.
Archie, sedutole di fronte, si toccava la guancia, proprio nel punto in cui la sua fidanzata, poco prima, gli aveva stampato cinque dita.
La prima reazione della ragazza, al racconto del fidanzato, era stata divertita: aveva pensato ad uno scherzo, ma poi, capita la serietà della situazione, si era alzata di scatto e gli aveva mollato uno schiaffo, per poi ricadere sulla sedia e cominciare a singhiozzare.
Archie si accarezzava la guancia: nonostante il bruciore iniziale, mai aveva ricevuto uno schiaffo più dolce, uno schiaffo d’amore. Afferrò le mani di Annie, con le quali lei si copriva il volto, e se le portò alla bocca:
"Annie, ho sbagliato, lo so; e se non vorrai perdonarmi, lo capirò; ma…".
La ragazza si sentiva terribilmente in colpa: in fondo era anche a causa sua se era accaduto tutto quel pasticcio.
"Niente ma Archie: in fondo sono colpevole quanto te".
"No, Annie, ho fatto una cosa orribile", insistette lui, "Non so come sia potuto accadere, ma quando ti ho vista con Tom, alla festa…".
"Hai equivocato, ma ti capisco; Archie io ti amo, non avrei mai potuto tradirti, anche se…".
Archie le impedì di terminare la frase:
"No, Annie, non dire altro; ho sbagliato io a lasciarti sola; ho sbagliato io a dubitare del tuo amore; e ho sbagliato a… non riesco neanche a dirlo! Ti prometto che le cose cambieranno, io cambierò. Ho intenzione di raccontare tutto ad Albert, è giusto che lui sappia".
"Archie…", intervenne lei, ma lui non si fermò:
"Ho intenzione di finire i mei studi all’Università del Massachusetts e poi di mettermi a lavorare seriamente; ripagherò tutti i danni e voglio partecipare al piano di ristrutturazione della Casa di Pony che hanno in mente Albert ed Harrison. Inoltre non mi interesserò più dei due Legan… se non costituiranno più un pericolo per noi. Ma vorrei che tu capissi che ti amo, che ti voglio sposare, che ti chiedo perdono per averti indotta a dubitare di tutto questo".
"Oh, Archie! Ma io ti ho già perdonato! Sei tu che mi devi scusare per non essere stata forte, all’altezza nella difesa del nostro amore. Anch’io cambierò, sarò più forte d’ora in poi: ti amo, amo solo te, e ti voglio sposare… ti amo, Archie".
I due ragazzi si abbracciarono e si baciarono con passione. Almeno per quel momento si dimenticarono di tutte le tristezze e le sciocchezze che avevano commesso negli ultimi tempi.
 
Giunto dinanzi alla porta della stanza di Iriza, Harrison la spalancò senza tanti complimenti e cerimonie, in modo brusco.
"Però, questo McFly sarà pure un conte, ma a me pare che le buone maniere le abbia  dimenticate da qualche parte, venendo qui...".
Indovinando i pensieri della padrona di casa, Harrison pensò a sua volta:
"Non è più tempo di buone maniere, quella che si sta per giocare qui è una partita troppo importante".
Nonostante gli desse le spalle, Iriza aveva intuito l'identità del visitatore: non capiva il perché, ma la presenza di Harrison la percepiva e la metteva in agitazione.
"Che sei venuto a fare? Che vuoi da me? Hai portato gli agenti?".
"Gli agenti? Che significa?", chiese la signora Legan, al colmo dello stupore.
"Signora, vorrei restare solo con vostra figlia, se non vi dispiace".
"Oh! Ma è sconveniente. Non capisco... che sta accadendo?".
"Ecco, brava mamma, anch’io non capisco; non c’è niente che questo signore abbia da dirmi che tu non possa ascoltare. Per me puoi restare", sibilò Iriza.
"Vi prego, signora, accomodatevi fuori", la incalzò il ragazzo, accompagnandola fuori della stanza e chiudendole la porta in faccia.
La ragazza non si era ancora voltata; aveva il cuore in tumulto, tanto che ebbe paura di fare un infarto; era sola, sola con lui, e non riusciva a capire cosa volesse da lei. Tuttavia trovò il coraggio di aprire il discorso:
"Immagino che sarete tutti contenti di aver trovato la colpevole; ma se non sei venuto per farmi arrestare, cosa vuoi?".
Harrison, osservandola bene, notò che stava tremando. O almeno così gli parve:
"Ma smettila con questa commedia, lo so benissimo che tu non c’entri e anche gli altri lo sanno".
"E chi te lo dice?", chiese lei, che davvero non capiva.
"Me lo dicono i fatti, me lo dici tu stessa, il tuo comportamento; me lo dice quel fazzoletto dal quale non ti stacchi mai; e l'altro giorno ti è sfuggita una frase, Ho fatto una cosa orribile, mi hai detto".
"S-sì... l’incendio...", balbettò lei.
"No, non ti riferivi all’incendio, anche se, lo ammetto, per un momento l’ho pensato anch’io, per via del guanto e della tua mano... il tè bollente può essere micidiale".
"Dorothy", pensò Iriza, accarezzandosi la mano in questione.
"Ti riferivi al maglioncino per Daisy", proseguì lui, al quale non sfuggì il tremito che percorse il corpo di Iriza.
"Sì, so del maglioncino e sappi che Dorothy l’ha conservato", aggiunse.
Dopo aver udito queste parole, che l’avevano fatta trasalire, un leggero sorriso si disegnò sulle sue labbra: almeno la piccola, quell’inverno, avrebbe avuto di che proteggersi dal freddo.
"A-allora?".
"Allora ho indagato e ho scoperto chi ha appiccato l’incendio... ha confessato e mi vergogno per non averti creduta; tu mi hai detto di non averli più visti e io avrei dovuto crederti: quei maledetti guanti te li hanno presi".
"Hai indagato? Nonostante io ti avessi detto di essere la colpevole? Nonostante avessi tutte le prove contro di me? Nonostante io fossi la colpevole perfetta? Nonostante tu mi abbia preso in giro per tutto questo tempo? Perché, Harrison, perché?".
Mentre tutti questi interrogativi affollavano la sua mente, le prime lacrime cominciarono a rigarle il viso. Harrison non le poteva vedere, ma, dal movimento di una mano della ragazza, intuì che stava piangendo.
"N-non vuol dire niente... c-chi ti dice che non mi abbia fatto p-piacere?", chiese infine, con voce rotta.
"Chi me lo dice? Tu, sei tu a dirmelo. Quando hai saputo dell’incendio, quali sono stati i tuoi primi pensieri? Per chi sono stati? E non parliamo della bambina, poi... sì, ho indagato, perché avevo fiducia in te, e ce l’ho ancora: Iriza, tu non sei un mostro, lo vuoi capire? Magari lo sei stata, ma sei cambiata".
"Ah sì? E per cosa? Per chi?", gridò lei, mentre le lacrime rompevano gli argini per riversarsi copiose sulle sue gote.
Era giunto il momento ed Harrison non indugiò oltre: in un attimo l’afferrò per le spalle e la fece voltare verso di sé; poi, sempre tenendola per le spalle, disse:
"Per l’amor del Cielo Iriza! Per te, sei cambiata principalmente per te stessa".
Al contatto con Harrison un fremito, percepito anche da lui, l’aveva percorsa da capo a piedi; aveva sperato, ma quell’ultima frase le aveva tolto ogni illusione: lui non la voleva.
"Per me stessa...", disse fra sé, sconsolata.
"Sì, per te stessa", riattaccò Harrison, "Tu non sei cambiata per me o per chissà chi; non sono stato io a farti cambiare, semmai ti ho aiutata; sei cambiata perché l’hai voluto tu, ti è venuto da dentro, dall’anima, dal cuore; se tu non avessi avuto un’anima, un cuore e se non avessi voluto cambiare, né io, né nessun altro, sarebbe riuscito nell’impresa... tu non puoi aver provato piacere nell’apprendere dell’incendio alla Casa di Pony, non dopo la visita al mio orfanotrofio, non dopo Daisy... non dopo averle fatto confezionare un maglioncino! E lo sai anche tu, in fondo al tuo cuore lo sai anche tu. E io...".
"E tu, cosa? Perché, perché mi stai facendo questo? Perché mi torturi così? Smettila ti prego, lasciami in pace", proruppe Iriza, tra i singhiozzi.
"Io... io mi sono... mi sono innamorato di te!".
Iriza, che aveva tentato vanamente di divincolarsi, si paralizzò all’istante: i suoi occhi si accesero; ma fu solo per un secondo, poiché tornarono a spegnersi.
Lui si era innamorato di lei!
No, non era vero. Harrison era una persona speciale, capace di tirar fuori il meglio dalle persone... anche da lei. Le piaceva e non solo perché era carino, perché sapeva essere gentile e rude, allo stesso tempo, ma perché era speciale, aveva un grande cuore, e lei aveva imparato ad apprezzare queste qualità.
Lui si era innamorato di lei!
No, lo aveva detto apposta; essendo speciale, lui voleva salvarla certo, ma non l’amava. Harrison l’aveva frequentata per controllarla, per impedirle di fare del male; aveva capito che anche lei aveva un cuore e aveva tentato di farlo uscire alla luce del sole. C’era riuscito? A quanto pareva sì. Ma non l’amava. Essendo speciale, non avrebbe mai potuto unirsi ad un essere come lei, che era stato un mostro di cattiveria per troppi anni.
Sicuramente avrebbe continuato a frequentarla per qualche tempo, poi, una volta accertatosi di averla messa sulla giusta via, avrebbe trovato una scusa, una qualsiasi, e l’avrebbe lasciata. Sì, lui era speciale, ed è per questo che lei non sarebbe sopravvissuta a tutto ciò: una volta assaporata la felicità, è difficile ripiombare nella disperazione; una volta usciti dall‘Inferno è difficile ritornarvi senza impazzire. E Iriza stava impazzendo, tutto ciò l’avrebbe fatta impazzire. Molto meglio tagliare subito, molto meglio tornare a rintanarsi nel buio finché era in tempo. Ma chi voleva prendere in giro? Senza di lui non sarebbe più riuscita a vivere, neanche nel buio... ormai era tardi, lui era entrato nella sua testa, nel suo cuore, e non sarebbe più riuscita a scacciarlo...
"No, non è vero… mi sono illusa…", sbraitò Iriza, tornando ad agitarsi per liberarsi dalla stretta di Harrison.
In realtà non era troppo convinta di sottrarsi all’abbraccio di lui; aveva bisogno di quel contatto, aveva bisogno di sentirsi protetta.
"Ti sei illusa…", sussurrò lui, pensando:
"Questo vuol dire che anche tu provi qualcosa d’intenso per me… non ne ero sicuro".
"Sì, mi sono illusa, ma tu non hai mai…".
Non riuscì a terminare la frase: la stretta di Harrison si fece più serrata, rimanendo dolce, e le sue labbra si posarono su quelle di lei; la sua lingua non ebbe difficoltà ad aprirvisi un varco e ad avviare una frenetica danza con quella di lei, dopo averla trovata al termine di una piccola esplorazione. Harrison, che non era certo un novellino in fatto di donne, provò qualcosa di nuovo, di diverso dal solito. Quanto si era trattenuto, e come ci fosse riuscito, lo sapeva solo lui!
Quel contatto di bocche e lingue fu uno schock per lei: sgranò gli occhi e poi li chiuse, lasciando scivolare le braccia lungo i fianchi di lui, abbandonandosi al suo abbraccio.
"Dunque è questo che si prova a baciare un ragazzo? Un ragazzo che ti piace? È questo l’amore?".
Il bacio sulla guancia ricevuto da Daisy, che tanto l’aveva sconvolta, non era nulla in confronto a questo; le emozioni, i fremiti che le procurava erano indescrivibili. In breve, ritrovato il fiato, cominciò a ricambiare e a cercare, con la propria, la lingua di Harrison; le sue braccia si rianimarono e le sue mani si abbarbicarono al collo del ragazzo.
Aveva atteso tanto ma ne era valsa la pena: tutto intorno a lei era scomparso, tutto era diventato leggero, lei compresa – e non solo perché lui, baciandola, l’aveva sollevata da terra.
Tutto per Iriza era nuovo e meraviglioso, tanto meraviglioso da farle esclamare, in un momento di pausa:
"Stringimi Harrison, stringimi forte… e non lasciarmi più".
La disperazione che fosse tutta una finzione, che potesse perderlo sul serio, non era svanita: desiderò con tutta sé stessa che quell’abbraccio e quel bacio non finissero più. In un attimo capì cosa dovessero aver provato Candy, in tutti quegli anni di separazione da Terence – anche per colpa sua –, e Patty, alla notizia della morte di Stear. Solo Neal rimaneva un rebus.
"Non ne ho nessuna intenzione, non ci penso proprio a lasciarti", rispose Harrison, mentre le baciava il lobo di un orecchio – sussurrandole: "Ti amo Iriza, ti amo" – e il collo, facendole piegare la testa da un lato, prima di riattaccare la sua bocca.
"Anch’io ti amo, Harrison… ora non ho dubbi".
Continuando a baciarsi caddero sul letto: lei sotto, lui sopra. Iriza poté sentire il dolce peso di lui, il calore del suo corpo e la sua… eccitazione premere su di lei.
"Ora che ti ho ritrovata non ti lascerò più fuggire da me; ma non voglio forzarti, se non vuoi".
"Lo voglio… voglio essere tua...".
Continuarono a baciarsi a toccarsi, ma non andarono oltre; non potevano dimenticarsi di trovarsi nella stanza di una ragazza, con la mamma di lei, presumibilmente ancora dietro la porta, e in "ascolto".
C’erano ancora diverse cose da chiarire tra i due ragazzi; avrebbero avuto tempo e modo, in un altro momento, per dirsi tutto quello che avevano ancora da raccontarsi.
Per ora nulla avrebbe potuto guastare la loro felicità.











CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Questo capitolo è uscito dopo una grave crisi di voglia, più che ispirazione: ho già detto che è difficile rendere per iscritto, in maniera completa e soddisfacente, ciò che un autore ha nella testa. La parte su Iriza e Harrison mi è uscita così, all’improvviso, di getto e quasi senza interruzioni. Mi auguro di avervi soddisfatti.

The Blue Devil









Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Progetti per il futuro ***


Buona lettura


Capitolo 34
Progetti per il futuro

Era da più di cinque minuti che non si udiva più nulla. La signora Legan, che era rimasta in ascolto dietro la porta della stanza di sua figlia, senza tuttavia riuscire a sentire quasi nulla, dopo essersi allarmata per certi strani rumori, si era preoccupata per il motivo opposto.
Spazientitasi, decise di bussare, ma nessuno le rispose. Tentò ancora, dicendo:
"Ragazzi? Ci siete? Che sta accadendo? Perché non rispondete?".
Per la seconda volta non ricevette risposta. Allora, dopo ancora qualche istante di esitazione, afferrò la maniglia ed aprì la porta: non si può descrivere lo stupore che si disegnò sul suo volto, nel constatare che la stanza fosse vuota.
"Com’è possibile?", pensò, "Non ho visto uscire nessuno, io".
Dopo aver rivolto lo sguardo all’intorno, s’accorse di sentir un po’ di freddo: la portafinestra era aperta e un leggero venticello entrava nella stanza. La donna, agitata, si diresse verso l’apertura e uscì sul balcone; ciò che vide la sconvolse.
"Oh, santo cielo! Ma sono impazziti? Posso capire quel McFly, ma Iriza, la mia bambina".
Velocemente uscì dalla stanza e, appena messo piede nel corridoio, s’imbatté in Stewart.
"Stewart, è successa una cosa terribile! Forse ci sarà bisogno del dottor Leonard, presto, presto, muoviti...".
La donna riversò sul suo autista-maggiordomo un tale fiume di parole in maniera così concitata, che fu difficile per l’uomo capire cosa stesse accadendo, ma alla fine comprese:
"Se siete in pena per vostra figlia, non dovete preoccuparvi; l’ho vista uscire con un bel giovane prima, camminava sulle sue gambe e all’apparenza godeva di ottima salute".
"Qui sono tutti impazziti, da un po’ di tempo in questa casa ognuno fa ciò che vuole".
La signora si allontanò sbraitando e Stewart, raggiunto da Dorothy, commentò:
"La solita pazza isterica. Comunque non mi sarei mai aspettato una cosa del genere dalla signorina Iriza! Li hai visti?".
"Sì, li ho visti anch’io e sono d’accordo con te, ma... ciò significa che è andato tutto a posto e la cosa mi fa molto piacere", rispose la cameriera, mettendosi a ridere.
 
 
DIECI MINUTI PRIMA
 
Harrison, a malincuore, si fermò e disse:
"Non preoccuparti, ti ho detto che ti rispetterò e non ho cambiato idea. Questo dovrebbe farti capire la serietà delle mie intenzioni".
"Come? Abbiamo già finito?", protestò Iriza, stupendosi lei stessa per queste domande.
"Guarda cosa facciamo", disse lui, alzandosi e facendola alzare dal letto.
Harrison tolse le lenzuola dal letto, le strappò e le riannodò, creando una specie di corda, che poi calò dal balcone dopo averla ben assicurata alla ringhiera di esso.
"Che stai facendo? Se ti vedesse mia madre ti sbranerebbe: quelle lenzuola costano un patrimonio", chiese la ragazza, affascinata da ciò cui stava assistendo.
"E t’importa?", chiese lui.
"No, per niente, mi fido di te".
Il ragazzo colse altre domande nello sguardo di Iriza, per cui rispose, senza che le suddette gli fossero state rivolte.
"È un trucco che usavo spesso da bambino, quando facevo infuriare mio padre e non volevo prenderle... te l’ho sempre detto che non sono un gentiluomo".
"Sei molto di più; diciamo che non sei un damerino; però non capisco...".
"Stiamo per fare una fuga d’amore... fuggi con me e andiamo lontano".
Iriza protestò, dicendogli che era matto e di aver paura, ma lui la convinse a lasciarsi andare, a fare una pazzia.
"Ogni tanto ci vuole", le disse, "Ed è proprio ciò di cui tu ora hai bisogno; scenderò prima io, così non correrai alcun rischio".
I due ragazzi intrapresero la discesa, che non fu troppo difficoltosa, dato che l’altezza da cui si stavano calando non era eccessiva; ci fu solo un momento di tensione, quando Harrison le raccomandò di non guardare verso il basso; la ragazza lo fece, chiedendosi cosa stesse accadendo lì sotto da non dover guardare, ed ebbe paura. Fu solo un attimo però, perché subito si accorse della posizione nella quale si trovavano.
"E tu allora, non guardare in alto", esclamò, divenendo rossa come un pomodoro.
"Beh, sbrigati allora, lo sai che non sono un gentiluomo...".
Quando toccò terra, la ragazza si stupì di avercela fatta e confessò al ragazzo di essersi divertita e di non aver quasi mai avuto paura.
"Sapevo che c’eri tu e, se ci sei tu con me, io non ho paura: non permetteresti mai che io mi facessi del male", sussurrò, prima di incollare la sua bocca a quella di lui, dato che era già tra le sue braccia.
Harrison la prese per mano e la condusse fuori dalla tenuta, quasi correndo.
"Ma c’era bisogno di uscire così?", chiese lei d’un tratto.
"No", rispose lui, "Volevo evitare tua madre e le conseguenti spiegazioni che avremmo dovuto darle... a volte mi fa paura quella donna".
"Non è vero; tu non hai timore di mia madre", disse lei, stringendosi di più a lui, "Tu non hai paura di nessuno".
"E va bene, ho pensato solo che fosse più romantico; in realtà ho voluto farti provare un po’ di senso di libertà, hai bisogno di liberarti da certe catene che ancora non ti lasciano respirare. Questo è un inizio".
"Tu sei tutto matto... sei tu che non mi lasci respirare".
"Che dicmmh... ?".
Ancora una volta le loro bocche si unirono e le loro lingue danzarono allegre e dopo un tempo non quantificabile, Iriza sussurrò:
"Vedi? Quando fai così non respiro...".
"Sei stata tu a volerlo", sussurrò, di rimando, Harrison, rituffandosi nella bocca dell’amata.
Dopo aver camminato per un po’, Harrison le fece notare una circostanza:
"Ti sei accorta che hai fatto un’impresa... alla Candy?".
Iriza dovette ammettere che Harrison aveva ragione e si stupì del fatto che, sentire quel nome, per la prima volta, non le avesse dato fastidio; e nemmeno il fatto di essere stata paragonata a lei.
 
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
Ad Albert fu risparmiato tutto il carico di preoccupazione che avevano sopportato gli altri, poiché, prima d’informarlo dell’incendio, gli dissero che era tutto risolto e che non ci fosse ragione per agitarsi.
L’agitazione soggiunse durante il colloquio che ebbe con Archie, colloquio richiesto dal nipote e al quale volle essere presente anche Annie.
"Albert... zio...", cominciò il ragazzo, mano nella mano con la fidanzata, "C’è una cosa che ritengo sia giusto che tu sappia".
Seguì una piccola pausa, poi il discorso riprese:
"Riguardo all’incendio alla Casa di Pony...".
"Già, mi stavo appunto chiedendo chi ne fosse responsabile: so che avete svolto delle indagini, voi ragazzi, ma ancora non ne conosco le risultanze".
Archie proseguì:
"Gli altri, quando è saltato fuori il colpevole", Annie gli strinse la mano, "avevano deciso di non denunciarlo, di inventarsi una storia qualsiasi o di dire che non si era arrivati a nulla, ma... io penso non sia giusto".
"Continuo a non capire; cosa stai cercando di dirmi?".
"Sono stato io; io ho appiccato l’incendio e non sai quanto me ne vergogni", disse d’un fiato il ragazzo.
"Sei stato tu? Non dici sul serio, è uno scherzo, vero? ".
"No zio, non è uno scherzo e dico sul serio: sono io il colpevole".
"Sei impazzito? Ma che diavolo hai nella testa? E perché l’hai fatto, poi?", esplose il capofamiglia.
"È stata anche colpa mia", intervenne Annie, nel tentativo di alleggerire la posizione del fidanzato.
"Parlate dunque", li esortò Albert, "Vi ascolto".
Archie raccontò di come si erano svolti i fatti: di come fosse capitato in possesso, "casualmente", dei guanti di Iriza; di come avesse appiccato l’incendio, avendo cura che nessuno si ferisse; di come avesse accusato Iriza. E tutto perché non sopportava l’idea che la figlia dei Legan potesse aver trovato un possibile compagno – cugino di Terence, tra l’altro: questa gli era sembrata una presa in giro del fato – mentre lui, a suo giudizio, aveva perso la sua; inoltre non aveva creduto al parziale ravvedimento della cugina. Quando parlò della perdita di Annie, non aggiunse, saggiamente, quello che aveva pensato: "Dopo aver perso Candy".
Albert ascoltò il racconto in silenzio, osservando i due ragazzi che si tenevano per mano: non gli sfuggirono le frequenti strette che i due si davano alle mani ad ogni rivelazione.
Infine prese la parola:
"Da quel che vedo, pare che voi due vi siate chiariti, ma almeno spero tu ti sia reso conto di aver fatto una cosa orribile, di aver commesso un reato, qualunque sia stato il motivo che ti ha spinto a farlo; e poi mi ha fatto sorridere quel casualmente: a parer mio l’hai pensata fin dall’inizio".
"No... questo te lo posso assicurare... cioè... volevo incastrare Iriza, ma mai avrei immaginato di arrivare ad incendiare una cappella", si difese il ragazzo.
"Devi credergli Albert; ha anche fatto in modo che nessuno si ferisse; non poteva sapere del vento...", tentò Annie.
"E questa, per voi, vale come giustificazione? È un’aggravante, mi pare".
"Certo che non è una giustificazione, zio: sono consapevole della gravità di ciò che ho fatto e sono pronto a pagarne le conseguenze, anche sul piano penale; se vorrai denunciarmi, accetterò tutto quello che comporterà".
Annie strinse ancora la mano di Archie .
"Albert ti prego, non portarmelo via; ha capito di aver sbagliato e mi ha promesso che, conclusi gli studi, si darà da fare per ripagare i danni, per...".
Non riuscì a concludere la frase perché fu sopraffatta dalle lacrime, che sgorgarono copiose.
"Annie, non piangere e non preoccuparti. Che assurdità! Certo che non ti denuncerò, Archie; il fatto che tu abbia deciso di raccontare tutto a me, e prima ancora ad Annie, mi rassicura sulle tue buone intenzioni; tra l’altro la zia Elroy non lo sopporterebbe. Lo so che in fondo sei un bravo figliolo e che hai ceduto ad un momento di debolezza che, però, e non dimenticarlo mai, poteva causare una tragedia. Uno dei motivi che mi induce a soprassedere alla faccenda è proprio il fatto che nessuno si sia ferito... Il tuo impegno ti fa onore e sono certo che lo rispetterai. Avrai modo di riscattarti".
"Sono disposto anche a lavorare di persona con gli operai alla ricostruzione...".
"No, non sarà necessario: tu pensa a finire gli studi in maniera seria e poi ne riparleremo, di questo. L’importante è che tu abbia capito e che abbia imparato a controllarti, a non cedere più ad impulsi istintivi".
"Ho solo una richiesta da farti: Candy non dovrà mai venire a sapere di questa storia, la ferirebbe troppo. Ti prego zio, promettimelo".
Albert gli si avvicinò e, dandogli una pacca sulla spalla, lo rassicurò:
"Tranquillo, non c’è ragione che lei lo sappia, non ora. Non voglio rovinarle questi momenti di felicità: se li è guadagnati, e meritati, tutti, dopo aver sofferto tanto, che non sarebbe giusto guastarglieli. Se in futuro vorrai, sarai tu a dirglielo, quando ti sentirai pronto a farlo".
Albert e Archie si strinsero la mano e la "riunione" terminò con un abbraccio tra zio e nipote e un bacio tra i due fidanzati.
Annie si stupì dell’accondiscendenza di Albert e pensò che questa derivasse dal fatto che anche lui stava vivendo dei momenti felici e stava progettando il suo futuro con Elizabeth.
 
In quegli stessi momenti, nel giardino di casa Brighton stava avendo luogo un altro incontro. Infatti Stear, seppur preoccupato per la situazione del fratello – ma era sicuro che Albert avrebbe capito e agito di conseguenza –, si era presentato a casa Brigthon chiedendo di Patty; la ragazza, che in quel periodo risiedeva dall’amica, fu sorpresa di vederlo soprattutto per l’abbigliamento: Stear era elegantissimo, come – ad eccezione del giorno del ballo – non gli capitava da tempo.
"Patty", esordì il ragazzo, "ho preso una decisione. Tutta questa faccenda dell’incendio, della bambina, mi ha fatto tornare la voglia di fare, di aiutare gli altri, di vivere. Lo devo anche al mio amico Dominique: se mi sono salvato una ragione c’è, e credo di aver capito quale sia; ho deciso di dedicarmi alla scienza e di sfruttare le mie capacità di inventore; non più invenzioni stupide e malfunzionanti, ma apparecchi più seri che siano di aiuto alle persone, anche fossero solo giocattoli. Un giorno riuscirò a far funzionare quel modellino che Iriza ha ripescato dal mio passato e, con quello, allieterò le giornate di molti bambini".
Patty fu felice di  vederlo animato e convinto e gli confidò il suo progetto:
"Stear, è meraviglioso che tu abbia ritrovato te stesso ed è bellissimo il tuo proposito. Ricorda che sarò sempre dalla tua parte e anch’io ho deciso cosa voglio fare della mia vita: frequenterò l’Università qui a Chicago perché voglio diventare un’insegnante; è una decisione che ho preso tanto tempo fa, già ai tempi della Saint-Paul. Te ne avrei già parlato, se tu non fossi partito per la guerra".
"Questo mi rende felice: abbiamo gli stessi obbiettivi, anche se intendiamo realizzarli in campi differenti. Nei prossimi giorni ne parlerò con Albert e... quando avrai terminato l’Università, quando avremo conseguito i primi risultati... insomma...".
Patty, che probabilmente aveva capito cosa volesse dirle il fidanzato, aveva il cuore in tumulto. Guardandolo negli occhi lo esortò a continuare.
"Insomma, Patty, vuoi sposarmi? Ovviamente non subito...".
Il bacio che la ragazza gli regalò, bloccandogli le parole, e il respiro, valeva come un milione di "sì".
 
Tom fu soddisfatto nell’apprendere che Archie avesse messo la testa a posto, quando questi si presentò da lui per scusarsi: era felice per Annie e per sé stesso, che ora non aveva altro pensiero che Dorothy.
"In fondo l’ho sempre saputo che sei un tipo a posto, anche se a volte fai venire voglia di prenderti a pugni", gli disse.
"Se tu sapessi cosa ho combinato probabilmente non la penseresti così... altro che prendermi a pugni", pensò Archie, prima di rispondere:
"Non preoccuparti; anche tu mi sei sempre stato simpatico, ho solo avuto un periodo, diciamo, complicato", rispose Archie.
"Sembrerebbe tutto a posto allora, ma ti avverto: non ti azzardare a far soffrire Annie, altrimenti vengo a trovarti e ti gonfio".
"Di questo non devi preoccuparti: io l’amo e farò di tutto per renderla felice; te lo assicuro".
I due ragazzi si abbracciarono, soddisfatti di aver appianato i loro contrasti.


















CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:

Per la "discesa" dal balcone di Harrison e Iriza mi sono ispirato, ancora, ad un’altra "discesa", quella di Annie e Patty nel 48° episodio della serie TV "Tra quattro gelide pareti", già citata in questa storia nel capitolo 13.
Mancherebbe ancora qualcosa, ma ne parleremo la prossima volta.

 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ringrazio tutti i lettori che vorranno imbarcarsi in quest’avventura, che neanch’io so dove ci porterà (se ci porterà da qualche parte)...

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Una vita diversa ***


Buona lettura


Capitolo 35
Una vita diversa

Il grande papà di tutti i bambini della "Casa di Pony" faceva ombra a due ragazzi seduti sull’erba, l’una tra le braccia dell’altro. Pur essendo una bella giornata, il tempo stava cambiando e le ore di luce cominciavano a diminuire. Il ragazzo chiese alla ragazza:
"Hai freddo?".
"Uh pochino… ma così sto bene", rispose lei.
"Iriza, ti devo parlare", proseguì lui.
"No, stiamo ancora così…".
"No, ascoltami; ti devo delle spiegazioni".
Harrison si era accorto che c’era qualcosa che non andava, per cui le disse:
"Tu tremi. Ogni volta che ti abbraccio, tremi, e non per il freddo; hai paura che tutto questo sia solo un sogno, che possa finire da un momento all’altro, e la tua frase di poco fa me ne ha dato la certezza. Ho ragione?".
La ragazza non rispose, ma si strinse ancora di più a lui, che poté proseguire:
"Voglio che tu sappia che non è vero che ho cominciato a frequentarti per controllarti e per impedirti di fare del male; sapevo già degli intrallazzi di Neal e sarebbe bastato dire tutto ad Albert e non ci sarebbero stati problemi; invece ho deciso di non dire nulla, anche se lui già sospettava qualcosa, e di frequentarti; l’ho voluto fin dal primo momento che ti ho vista, prima di sapere chi tu fossi".
Iriza sollevò la testa dal petto di Harrison ed esclamò:
"Questo è impossibile! Come potevi non sapere chi fossi, la prima volta che ci siamo visti, nel salone di casa mia, a Lakewood?".
"Perché quella non era la prima volta che ti vedevo… qualche giorno prima eri venuta a parlare con Candy proprio qui; suppongo per informarla di Stear".
"Sì, ero venuta a dirle di Stear e anche, per conto di Neal, a vedere il posto; ma tu non c’eri".
"C’ero anch’io, vi ho viste da lontano; ti ripeto che non sapevo chi fossi, ma mi sei piaciuta subito; mi piaceva come ti muovevi, come parlavi… ovviamente non potevo udire la tua voce, ma me la sono immaginata. Poi ho chiesto a Candy notizie su di te e lei mi ha detto… scusa ma questo eri… che quella mattina aveva incontrato un serpente velenoso. Allora ho capito".
Iriza abbassò lo sguardo, continuando ad ascoltarlo.
"Mi sei piaciuta, e ho voluto scoprire il tuo cuore", disse, puntandole un dito sul petto, "Perché un cuore qui lo dovevi avere anche tu, solo che non lo sapevi".
"Harrison…".
"L’altra volta hai sentito solo ciò che Neal voleva che tu sentissi, che era soltanto una piccola parte di un discorso che ha fatto lui da solo: si è accorto che eri dietro la porta e ha voluto punirti per averlo tradito".
"E allora perché non… ?".
"Non ho mai tentato di baciarti? Perché non ero sicuro dei tuoi sentimenti: hai sempre avuto quell’aria di supponenza, di arroganza insopportabile; dicevi di disprezzare gli orfani, definendoli pezzenti; sui miei sentimenti per te, invece, non ho mai avuto dubbi".
"Neanche immagini quanto l’abbia desiderato…".
"Non credere che io non l’abbia desiderato quanto te, ma se ti avessi baciata per poi scoprire che eri rimasta sempre la stessa… non l’avrei sopportato; dovevo essere forte e, soprattutto, sicuro; per questo non la smettevo di provocarti".
"Io sapevo della collana, ma credevo che Neal l’avrebbe usata contro Candy. Però voglio essere sincera: se avessi saputo che aveva intenzione di tirare in mezzo Dorothy, la cosa, all’inizio, mi avrebbe lasciata indifferente; ma dopo la visita all’orfanotrofio, dopo Daisy, dopo che Dorothy ha accettato di aiutarmi e di lavorare a un maglioncino per lei, non ho potuto… non so cosa mi sia accaduto, ma avevo una gran voglia di smetterla con tutto quell’odio e quelle macchinazioni; sentivo crescere il bisogno di vederti, di stare con te. L’affare dei terreni credevo fosse una burla: Neal non poteva avere tutto quel denaro".
"È venuto allo scoperto il cuore di cui ti parlavo prima, questo ti è accaduto", sussurrò Harrison, poggiandole una mano sul seno sinistro, gesto che la fece fremere.
I due ragazzi si guardarono negli occhi e non resisterono all’impulso di baciarsi, toccarsi, accarezzarsi. Poi Iriza tornò a rituffare la testa nel petto di Harrison:
"Vorrei che questo momento durasse in eterno…".
Harrison, accarezzandole i capelli, obbiettò:
"Eh no, sai che noia; e poi, se durasse in eterno, faremmo solo questo e io, con te, voglio fare anche altro".
Questa frase le fece sollevare ancora la testa e andare in fiamme il viso:
"Ma… voi uomini pensate solo a quello?".
"Beh, è la natura, lo sai come siamo fatti".
"Veramente no… ma vorrei tanto scoprirlo", mormorò lei, facendo scorrere la sua mano dal petto fino alle zone calde e proibite del corpo di lui.
"E poi sarei io che penso solo a quello?", sbottò Harrison, per poi aggiungere:
"Ma non sarai mica un uomo tu? Non ho mai controllato".
Iriza gli rifilò una gomitata dandogli del cretino e poi, tutti e due, si misero a ridere.
"Non ti ho mai vista ridere così e devo dire che mi piaci di più se ridi: ti prometto che farò di tutto perché tu non abbia più motivo di piangere", le disse Harrison, prima di tornare a baciarla.
Dopo un tempo difficile da quantificare, Harrison si alzò, aiutandola a fare altrettanto.
"Dobbiamo andare, ho bisogno di parlare con Albert; e poi c’è da tranquillizzare tua madre: non vorrei che pensasse che ti ho rapita e venduta ai Messicani o ai pellerossa".
"Aspetta Harrison, scendiamo di qua: c’è una cosa che devo fare. Anzi, che voglio fare".
Il ragazzo si stupì della direzione che presero per scendere dalla collina.
 
Archie ed Annie si accomodarono nel salottino del primo a "Villa Andrew"; dopo essersi baciati, con una passione che Annie non aveva mai percepito nel fidanzato, lei disse:
"Sono felice che tutto si stia sistemando per il meglio e ti confesso che sono contenta anche per Iriza: sarebbe stata una delusione scoprirla colpevole, anche per Harrison; in fondo mi è simpatico quel ragazzo".
"Stai cercando di farmi ingelosire?", scherzò lui, facendola arrossire.
"Ma no, che vai a pensare... sarebbe bello se riusciste a prendervi voi due, dato che lui è il cugino di Terence, che ti è molto amico".
"Stupidina, mai che tu capisca quando scherzo", e riprese a baciarla.
Poi, fattosi serio:
"Comunque ci prendiamo benissimo io e McFly... anzi, è stato lui a prendermi benissimo, a pugni però".
Annie protestò:
"Lo sai che non mi piace quando fai a pugni... promettimi che...".
Ancora una volta Archie si trovò nella necessità di zittirla, mettendole un dito sulle labbra.
"Eh, ma sei unica tu! È anche per questo che mi sono innamorato di te. Era una battuta, più o meno: io non ho fatto a pugni con lui, è stato lui a suonarmele, ma me le sono meritate tutte; non dimenticare che ciò che ho fatto è gravissimo e mi sento terribilmente in colpa... non so neanche se riuscirò a guardare ancora Candy o le direttrici negli occhi".
"Ci riuscirai, ci riuscirai... non l’ho dimenticato, ma ti ho già perdonato, amore mio".
Pronunciando queste parole, la ragazza si strinse a lui.
"Archie, promettimi che non ci faremo più del male! Siamo stati due stupidi".
"Te lo prometto e rispetterò tutti gli impegni che ho preso con Albert, con i ragazzi e... con te".
"E quando tornerai, pensi che mi troverai qui ad attenderti? Non esserne così sicuro".
Archie trasalì e sbiancò in volto: quella frase aveva avuto l’effetto di una stilettata al cuore.
"A-Annie... co... cosa hai detto?", balbettò il ragazzo.
"Che al tuo ritorno non sarò qui ad attenderti... non intendo farlo".
Il ragazzo si passò una mano sul volto e cercò di parlare, ma riuscì solamente a farfugliare suoni incomprensibili.
"E sai perché?", proseguì Annie, "Perché non ce ne sarà bisogno, ho preso una decisione: vengo con te, voglio iscrivermi anch’io all’Università e completare la mia educazione e la mia istruzione. Voglio starti vicino ed aiutarti... non ti lascio solo, Archie".
Archie assunse un’espressione che fece ridere Annie:
"Avresti dovuto vedere la tua faccia, prima! Anche tu sei unico".
"Mi hai fatto prendere un colpo! Ma sono felice della tua decisione".
I due si abbracciarono e Archie accompagnò la ragazza nel cortile, poiché era tempo che lei rientrasse. La vista di Tom, giunto a consegnare dei materiali ai giardinieri, le fece cambiare idea.
"Archie, andiamo a Lakewood".
"A Lakewood?".
"Sì, ho bisogno di vedere una persona".
"Allora avverto l’autista...".
"No. So che avresti degli impegni, ma... vieni con me".
Archie parve dubbioso, ma poi accettò di farle da autista: in fondo, gli impegni a cui aveva accennato Annie potevano attendere.
Ma la risposta della ragazza lo colse impreparato.
"No, non chiamare l’autista e non è necessario che lo faccia tu: andiamo con Tom, sul suo carro".
"Dici sul serio? Ma perché? Non sarà una prova per verificare se... ?".
"No, non è questo, mi fido di te. Non credi che sia romantico viaggiare su un carro, alla maniera dei primi pionieri?".
Pur non comprendendo cosa volesse dire Annie, Archie parlò a Tom e questi fu felice di accompagnarli.
 
Candy fu molto sorpresa di trovarsi di fronte proprio lei: Iriza Legan. Iriza espresse tutto il proprio dispiacere alla vista delle macerie della cappelletta e si mostrò preoccupata per tutto quello a cui, i bambini, erano stati costretti ad assistere, nella mattinata dell’incendio; si stupì anche del fatto che la casa fosse vuota.
"Le direttrici hanno pensato di allontanare i bambini, finché i volontari giunti dai ranch vicini non abbiano ripulito un po’ la zona dell’incendio: sono andati tutti al ranch di Cartwright e i bambini hanno preso la cosa come fosse una gita. Ma non credo tu sia venuta fin qui solo per avere queste notizie, ti sarebbe bastato chiedere ad Harrison. O sbaglio?".
A quel punto intervenne l’accompagnatore di Iriza:
"Prima che lei ti risponda, desidero informarti che Iriza non c’entra nulla con l’incendio; non so se Terence te ne abbia già parlato, ma sappiamo con certezza che lei non c’entra".
"Qualcosa mi ha accennato: vorrei proprio guardare negli occhi quel farabutto che ha messo in pericolo le vite di quei poveri bambini indifesi", rispose la bionda.
"Se tu sapessi... credo proprio che Archie abbia ragione a non volere che tu sappia... non ora", pensò Harrison.
"Hai ragione Candy, il fatto è che... non so come dirtelo", cominciò Iriza, che dovette fare un bel respiro per poter proseguire.
"Ho sentito il bisogno di venire a parlarti, devo assolutamente farti sapere alcune cose; innanzitutto voglio che tu sappia che il mio dolore, per quanto accaduto qui, è sincero, come le cose che sto per dirti", fece una pausa, poi aggiunse:
"Ti chiedo scusa, mi dispiace per tutto quello che io e mio fratello ti abbiamo fatto passare da quando ti abbiamo conosciuta; ora capisco che sarebbe potuta andare diversamente; ripensando a tutto quello che è accaduto tra noi, credimi, mi vergogno immensamente. Non ti chiedo di perdonarmi e, se non lo farai, capirò. Mi rendo conto di aver passato il limite troppe volte con te. Ecco, era questo che volevo tu sapessi".
Harrison cercò e strinse la mano di Iriza; Candy, dopo qualche attimo di stupore, disse:
"Sai, mi ha fatto piacere sapere della tua estraneità all’incendio; ti sorprenderà, perché ha sorpreso anche me, sapere che, se tu fossi stata colpevole e condannata, la cosa non mi avrebbe reso felice. Qualche tempo fa avrei pensato diversamente, ma ora, no. Per tutto quello che mi hai fatto, forse, in fondo al cuore, ti ho già perdonata anche se non so se saremo mai amiche. Le tue parole sono comunque splendide, proprio perché sincere: è già molto, pensando a ciò che sei stata, che tu ti sia resa conto del male che hai fatto".
Dicendo queste cose, Candy aveva guardato Harrison: aveva capito che lui aveva avuto una parte importante nel ravvedimento della Legan.
"Candy, vorrei che tu parlassi di ciò anche con Terence...".
"Perché non lo fai tu stessa?", le chiese la bionda.
"Sono davvero sorpreso", affermò Terence, sbucando da dietro una porta.
"Iriza Legan che si scusa e per giunta con un’orfana! Sì, sono davvero sorpreso".
"Te-Terence s-sei qui...", balbettò Iriza, stringendosi a Harrison, poiché memore dell’ultimo burrascoso incontro col ragazzo.
"Non preoccuparti, l’altra volta non ho creduto al tuo ravvedimento, ma ora è diverso; e comunque non ti credevo capace di scusarti in questo modo. Una volta, alla Saint-Paul, ti ho sputato in faccia" – questa notizia fece trasalire Candy, che non lo sapeva – "e non me ne pento, perché lo rifarei, se ci trovassimo nelle medesime condizioni. Condizioni che mi auguro non abbiano più a verificarsi. Sei sulla buona strada, a quanto pare, ma il viaggio è lungo e potresti perderti ancora".
Harrison capì che l’ultima frase di Terence, più che a Iriza, era rivolta a lui, una specie di Stai in guardia cugino che non si sa mai.
Poi accadde una cosa imprevista e difficile da spiegare; Candy, rispondendo ad un impulso proveniente dal suo cuore, allargò le braccia e abbracciò Iriza, sussurrandole all’orecchio:
"Ti auguro di essere felice e di non perderti più".
Quelle parole, unitamente al calore di quell’abbraccio, fecero sgorgare le lacrime dagli occhi di Iriza.
Sulla via del ritorno, Iriza disse ad Harrison:
"Mi ha perdonata? Mi ha abbracciata? Oh, Harrison, mi sento un verme".
"Buon segno, sarebbe preoccupante se queste cose ti lasciassero indifferente; e poi guarda il lato positivo: meglio verme, che serpente, no?".
"Riesci sempre a farmi sorridere tu... mi spiace per Terence".
"Non preoccuparti, mio cugino in fondo è un tenerone; saprai fargli cambiare idea su di te".
"Ma non ho capito una cosa: a me hai detto che il colpevole dell’incendio ha confessato e anche con Candy sei stato vago. Chi è stato ad appiccare l’incendio? E come ha avuto i miei guanti?".
"Non ti preoccupare di questo, in fondo che t’importa, è tutto risolto. D’ora in poi pensiamo solo a cose belle, vuoi?".
 
Giunti a Lakewood, Tom, Annie e Archie, trovarono Dorothy che, conoscendo gli orari di Tom, lo stava aspettando. Archie e Tom capirono il motivo del viaggio sul carro: Annie voleva essere sicura di incontrare Dorothy.
"Dorothy, so che per colpa mia hai passato un brutto momento, per cui mi scuso per questo e mi scuso anche per averti trattata male, quando ci siamo incontrate da Candy. Io e te non ci siamo mai frequentate, ma è giusto che ti ringrazi per la tua amicizia verso Candy: io e Candy siamo una persona sola e, aiutando lei, è come se avessi aiutato me. Grazie, grazie di cuore e scusami ancora".
"Signorina Brighton...".
"Chiamami Annie, in fondo siamo amiche, ormai".
Le ragazze si abbracciarono e Annie le disse:
"Tom ha trovato davvero una persona speciale; sono sicura che sarete felici insieme".
Archie e Tom, osservandole, commentarono tra loro:
"Eh, siamo stati fortunati ad averle incontrate".
 
Come aveva detto ad Iriza, Harrison parlò con Albert e il giorno seguente si presentò a Lakewood, per incontrarla. Ciò che le disse la lasciò senza parole:
"Ieri ti ho proposto una fuga d’amore e non scherzavo; la fuga a cui mi riferivo non era certo calarsi da un balcone con le lenzuola annodate. Iriza, vieni con me in Inghilterra, fuggiamo via da questi luoghi e vieni a conoscere un po’ le mie terre. Ti farà bene cambiare aria per un po’, devi allontanarti dai brutti ricordi e dalle... tentazioni che ti possono influenzare. Allora, ci stai?".
Le "tentazioni" cui si riferiva Harrison erano le influenze negative della madre di Iriza.
La ragazza, esitante, rispose:
"Harrison, io...".
"Lo so, hai paura, è una sfida. Ma è proprio questo il bello! Io con te mi sento di sfidare il mondo intero e di lanciarmi in qualsiasi avventura; potrebbe essere anche molto divertente e istruttivo per tutti e due. Dai, vieni con me in Inghilterra"
"Sì, Harrison, sì! Te l’ho detto: se ci sei tu con me non ho paura di nulla! Ma...".
"Niente ma, ho già parlato con Albert, è tutto a posto, lui è d’accordo, può farti solo bene allontanarti da Chicago e dalla tua famiglia, per un po’. E poi non è per sempre e, se lì non ti dovessi trovar bene, possiamo sempre tornare in America".
Alla fine Iriza cedette e accettò la proposta.
Prima di partire, Iriza volle incontrare a tutti i costi la piccola Daisy e pretese anche la presenza di Dorothy, alla quale cedette l’onore di consegnare alla piccola il suo regalo: non voleva prendersi tutti i meriti, perché se l’idea era stata sua e i mezzi li aveva forniti lei, era altrettanto vero che il maglioncino lo aveva confezionato Dorothy. La cameriera fu tempestata di baci da Daisy, che espresse il desiderio di incontrarla ancora, per cui Iriza si fece promettere da sua madre di dare il permesso a Dorothy di far visita periodicamente a Daisy, per tutto il periodo della sua assenza. Inoltre disse a Harrison di avere in mente qualcosa che riguardava la piccola: avrebbero avuto modo di parlarne durante la traversata.
Il giorno della partenza giunse e fu salutato con gioia da Iriza: era felice, perché aveva la certezza che, per lei, stesse per iniziare una nuova vita, del tutto differente dalla precedente e soprattutto migliore.
 
 
 
 
 
 
CONSIDERAZIONI DELL’AUTORE:
 
Allora, la finiamo qui? Va bene? O volete che pubblichi anche l’epiloghino? Quello in cui si narra del naufragio del piroscafo di Harrison e Iriza, sposati, di ritorno dall’Inghilterra; della morte di Albert e Terence, carbonizzati sull’Hindenburg nel disastro del 6 Maggio del 1937; del resto della famiglia Andrew deceduto nel naufragio del Titanic; del trionfo dei Legan, e di Neal, padroni delle fortune degli Andrew e dei McFly; dell’aiuto fornito ai Legan da Anthony (che, sopravvissuto, in realtà, alla caduta da cavallo e rimasto storpio, era stato tenuto rinchiuso in una cantina da Elroy) per incastrare Candy e venderla come schiava ai Messicani...
Ma sì, pubblichiamolo... [risata alla Fantaman]

 
The Blue Devil
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A parte gli scherzi, se volete, c’è un epilogo. Quello sopra l’ho scritto perché so che c’è qualcuno che s’arrabbia a leggere quelle cose... magari tornano utili per un’altra FF [seconda risata alla Fantaman]
 
Ringrazio tutti i lettori che si sono imbarcarti in quest’avventura, che neanch’io so dove ci sta portando (sempre che ci porti da qualche parte)...


AGGIUNTA del 09/03/2019:

Grazie a Briz65 ora possiamo ammirare Harrison e Iriza.
I miei più sentiti ringraziamenti.
 
Iriza-e-Harrison

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Epilogo ***


NOTA IMPORTANTE:

Allora, questo epilogo lo pubblico anche se, a rigor di logica, non dovrei. Perché? Perché ho chiesto ai miei lettori se lo volevano oppure no e mi è stato richiesto da sole tre persone più uno. Potrebbe significare che ho tre lettori, ma, a giudicare dalle "aperture", mi sorge un dubbio: o i lettori sono di più, oppure questi tre aprono duemila volte tutti i capitoli, il che non mi sembra probabile. Conclusione: a chi legge la fiction non frega niente che io pubblichi o meno; che io lo faccia o no, li lascia indifferenti. A chi interessa realmente auguro una

Buona lettura

Avvertenza: il capitolo non sviluppa una narrazione lineare, ma a blocchi: via via che compaiono i personaggi, sull’intreccio di una vicenda lineare, si narra cosa ne è stato di loro.

Capitolo 36
Epilogo

Una bambina, dai lunghi capelli dorati, di forse dieci anni, entrò correndo nella grande villa, inseguita da un bambino più piccolo. Procedendo a zig zag tra una moltitudine di domestici indaffarati, i due entrarono in un salone e si misero a correre intorno ad un divano. Una donna, dai capelli nocciola, entrò nel salone e batté le mani, dopo aver pensato:
"Santo Cielo, ancora, no...".
I due discoletti si fermarono e la donna disse loro, con tono severo:
"Allora, Henry George Graham, che state combinando?".
La domanda fu rivolta al più piccolo, poiché egli pareva il più esagitato.
Per lui rispose la bambina, in tono lamentoso:
"Mamma, Henry mi vuole picchiare".
"Henry ti vuole picchiare? Ma se ha la metà dei tuoi anni!".
Il piccolo intervenne:
"Non è vero zia! Lei mi ha rubato il giocattolo che mi ha regalato lo zio Stear".
"Tanto per cominciare, qui nessuno ruba niente agli altri; l’avrà preso in prestito".
La bambina, sbattendo le ciglia sui propri occhi, che avevano conservato un colore quasi indefinibile, cercò di blandire la donna:
"Mammina sei arrabbiata con me?".
"Ma no, tesoro, lo sai che ti adoro, ma...", rispose la donna, non riuscendo, tuttavia, a finire la frase, poiché i due birbantelli ripresero a rincorrersi.
"Chi me l’ha fatto fare... due angioletti aveva detto! La prossima volta le terrò solo Jane Eleanor", pensò la padrona di casa, prima di dire, ad alta voce:
"Certo tesoro, lo sai che ti adoro, ma papà Mac potrebbe dimenticarsi di portarti il regalino dall’Inghilterra che ti ha promesso...".
La bambina si fermò di colpo e il bambino, che non si aspettava tale frenata, le finì addosso; poi lei si girò verso il piccolo, si chinò e, dandogli una carezza sui folti capelli neri, gli consegnò l’oggetto che teneva in mano. Rialzandosi gli fece la linguaccia, sussurrandogli:
"Antipatico!".
La linguaccia di risposta non tardò a raggiungere la bambina.
"Henry George", cominciò Iriza, indicando una bambina della stessa età che, seduta sul divano con un libro di favole in mano, pareva essere in un altro mondo, "guarda tua sorella, così tranquilla e serena; per una volta non potresti esserlo anche tu?".
"La mamma dice che Jane è un diavoletto... cosa vuol dire?".
La bambina indicata da Iriza, i cui occhietti vispi e azzurri che illuminavano un musetto punteggiato di lentiggini, stavano divorando le immagini del libro – la piccola non era ancora in grado di leggere – con avidità, si passò una mano tra i boccoli d’oro.
"Daisy", proseguì la donna, "tu sei più grande e dovresti essere più responsabile; lo sai che stanno per arrivare i nonni, che Henry e Jane sono nostri ospiti e che di sopra c’è la prozia Elroy che ha bisogno di riposare. Per non parlare di tuo fratello Nicholas".
"Sì, mamma, ma è che...".
"Zia Iriza", s’intromise il piccolo, "come mai io ho tanti nonni e Daisy no?".
Il bambino tentò di contarli sulle dita di una mano, ma poi decise che fosse meglio elencarli a voce:
"C’è nonno Albert, nonna Eleanor, nonna Maria, nonna Pony, nonno Duca...".
"È complicato, piccolo, te lo spiegherò un’altra volta. Comunque Albert è meglio se lo chiami zio".
 

~•~•~•~•~•~•~•~•~
Subito dopo il matrimonio fra Candy e Terence, Harrison ed Iriza erano partiti alla volta dell’Inghilterra; Iriza aveva insistito parecchio per portare con loro anche la piccola Daisy, operando un cambio di programma rispetto all’idea originale: voleva assolutamente farla visitare dai migliori specialisti Europei, ed aveva avuto ragione. Dalle visite effettuate a Londra, Parigi, in Germania, era risultato che vi erano speranze, attraverso una complicata e costosa operazione, che la piccola potesse tornare a vedere; e certamente, i mezzi, al futuro conte McFly, non mancavano. Inoltre Iriza non voleva assolutamente lasciare la bambina ed aveva proposto a Harrison, una volta sposati, di adottarla: inutile dire che Harrison fu soddisfatto e felice ed accolse, con estremo favore, quest’idea.
I tre erano rimasti in Inghilterra per un paio d’anni e lì, dopo il felice esito dell’operazione di Daisy, Harrison e Iriza si erano sposati. Al loro matrimonio furono presenti, tra gli altri, anche Candy e Terence – in terra Inglese anche loro, in quel periodo – e i genitori di Iriza, dato che Raymond e Neal si trovavano in Europa per affari. Il solo Neal non aveva potuto (voluto) partecipare: troppo impegnato a far soldi.
Di ritorno negli Stati Uniti, a causa dei pericolosi venti di guerra che cominciavano a soffiare in Europa, la coppia si era stabilita a Lakewood, tenuta acquistata da Harrison, in maniera anonima. Era accaduto che: i Legan, avevano trasferito la loro residenza in Florida, per seguire da vicino i loro affari a Miami, e avevano messo in vendita la tenuta di Lakewood; Harrison l’aveva acquistata, senza che i Legan conoscessero il nome dell’acquirente, poiché non voleva avere debiti con i genitori di sua moglie (nel caso avessero deciso di donarla alla figlia o di far loro degli sconti).
A chi gli faceva osservare:
"Ma siete sicuri di voler vivere nella casa dove Iriza è cresciuta, sotto l’influenza nefasta dei genitori e del fratello?".
Lui rispondeva:
"È stata lei a volerlo; dice che è una prova e che è l’unico modo per superare in maniera definitiva quel periodo; se fosse sufficiente vivere in una certa casa per ricadere nelle vecchie abitudini... inoltre è affezionata a quella casa, che sorge su un bellissimo luogo".
A Lakewood era poi nato Nicholas.
Su Neal, possiamo dire che non aveva ancora trovato una compagna e, forse, neanche gli interessava trovarla. Sotto l’abile guida del padre, era diventato un imprenditore – con pochi scrupoli – e aveva portato in alto l’azienda di famiglia, uscendo addirittura più rafforzato dalla crisi del ventinove, attraverso investimenti oculati. Ma alla fine, tutti quei successi e quei soldi, non erano riusciti a riempire il vuoto creato nella sua anima dalla mancanza di affetti e dall’assenza della cosa più importante: l’Amore, quello con la "A" maiuscola.
Raymond Legan, come detto, aveva trasferito la famiglia a Miami, lasciando la direzione dell’istituto bancario degli Andrew – che sarebbe passata, a breve, ad Archibald Cornwell – senza tuttavia interrompere i suoi rapporti d’affari con la potente famiglia di Chicago.
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 

Louis, il maggiordomo di casa Andrew, entrò nel salone e annunciò:
"Signora, sono arrivati i signori Brighton e i signori Cornwell".
"Falli accomodare", rispose Iriza.
Annie, entrando nel salone e vedendo tutti quei bambini gioiosi, fu presa da cupa tristezza e, accarezzandosi il pancione, si lamentò con il marito:
"Oh, Archie, perché loro sì e noi no?".
Archie le rispose, posando anche lui una mano sul ventre rigonfio della moglie:
"Non preoccuparti amore; questa volta andrà bene, i medici hanno detto che sta andando tutto per il meglio e la gravidanza procede bene: lui o lei, presto arriverà e allieterà le nostre giornate".
 

~•~•~•~•~•~•~•~•~
Dopo la laurea in economia, Archie aveva partecipato attivamente alla progettazione e ristrutturazione della "Casa di Pony", ristrutturazione presentata a Miss Pony e Suor Maria come "investimento" delle famiglie Andrew e Graham-McFly, seguendo l’idea di Harrison.
Anche Annie aveva preso una laurea e l’abilitazione all’insegnamento, anche se non insegnò mai, e si era sposata con il suo Archie, vincendo le resistenze opposte dalla famiglia Cornwell.
Purtroppo il Signore non aveva ancora concesso loro la grazia di avere dei figli: rimasta incinta, Annie aveva perso il bambino per un aborto spontaneo; sembrava che su di lei gravasse lo stesso destino di sua madre, sebbene non fosse la sua vera madre. I due ci avevano riprovato, con tutte le cautele, ed ora sembrava che il momento tanto atteso fosse arrivato.
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 
 
Annie si accomodò sul divano e si mise a chiacchierare con Iriza, mentre Archie s’intratteneva con i piccoli:
"E così Candy ti ha lasciato ancora i gemellini; non sono un amore?".
"Se ti riferisci a Jane Eleanor ti do ragione, ma Henry è una piccola peste".
"Eh, adesso la vedi tranquilla, ma ti assicuro che anche la biondina può farti ammattire se ci si mette... proprio com’era la sua mamma da bambina".
Risero e poi, colei che fungeva da padrona di casa, osservò:
"Comunque pare che sia giunto anche il tuo momento e ciò mi rende felice".
"Lo spero tanto. Non sopporterei di perderne un altro; guarda Archie com’è preso dai bambini".
"Non ci pensare, andrà tutto bene. Daisy non vede l’ora di conoscere il nuovo cuginetto... per tormentare anche lui, la birbantella".
"O cuginetta", la corresse Annie.
In quel momento fu annunciato l’arrivo di Tom: doveva consegnare dei materiali e confermare la sua partecipazione all’evento in programma per la serata – dato che lui e Dorothy erano stati invitati – ed era quindi richiesta la presenza della padrona di casa.

~•~•~•~•~•~•~•~•~
Tom e Dorothy si erano sposati, ma non subito. Il ragazzo aveva proposto alla cameriera dei Legan di trasferirsi subito nel suo ranch, ma, un’altra proposta inaspettata della signora Legan, le aveva fatto rimandare il trasferimento: diventare, pur se per poco tempo, capo-cameriera, o governante, di Casa Legan era un’idea che la stuzzicava; c’erano alcune nuove cameriere da "mettere a posto". Dorothy non era cattiva o vendicativa, ma mal sopportava che si sparlasse della sua ormai ex padroncina.
Aveva lasciato i Legan quando questi si erano trasferiti in Florida.
Anche lei e Tom, fino a quel momento, non avevano avuto la benedizione di un figlio e si accontentavano dei bambini della "Casa di Pony" e di coccolare Daisy, rimasta molto legata a Dorothy dal giorno della consegna del famoso maglioncino: ma, ultimamente, si erano messi d’impegno e forse...
Per quanto riguarda la cuoca di Casa Legan, molto amica di Candy, ella era rimasta a servizio dei Legan, mentre alcuni dei suoi assistenti avevano preferito rimanere a Chicago e aprirvi un forno per il pane.
Il buon vecchio Stewart aveva sperimentato che i Legan, malgrado tutto, guardavano i loro domestici con occhi attenti: da autista-maggiordomo era passato a direttore del più bel resort della famiglia, quello di Miami. Tuttavia era rimasto in contatto con i vecchi amici e con Candy.
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 

Quando giunse Stear tutti si meravigliarono per due motivi: era solo e non indossava gli occhiali. Il fatto che fosse da solo era inusuale, dato che, dopo il matrimonio con Patty, lei lo accompagnava ovunque. Stear spiegò che sua moglie si era recata alla "Casa di Pony", poiché non voleva mancare alla parola data e far saltare ai bambini un giorno di lezione senza spiegazioni; con lei vi erano anche i piccoli Newton e James, i figli nati dalla sua unione con Stear: lui si sarebbe incaricato di andarli a prendere in tempo, prima dell’arrivo di Harrison.
La seconda circostanza non stupì Archie, che già conosceva i fatti.
Fu Iriza la prima a chiedergli come mai non portasse gli occhiali e perché continuava a strofinarsi gli occhi, che parevano arrossati.
"Maledizione", attaccò il ragazzo, "c’è qualcosa che non va".
Il fratello, ridacchiando, fu lesto ad avvertire gli altri:
"Attenzione che adesso si cava gli occhi".
Infatti Stear si mise le dita negli occhi e Annie e Iriza si coprirono i propri con le mani, inorridite.
"Niente paura, potete guardare, i miei occhi sono ancora al loro posto", le informò Stear, dopo qualche istante.
Le ragazze si arrischiarono a guardarlo e chiesero spiegazioni: Stear mostrò loro ciò che aveva in mano.
"Dei comuni pezzi di vetro?", chiese Annie.
"No, non dei comuni pezzi di vetro; queste sono lenti di mia invenzione, per eliminare il fastidio di portare gli occhiali ma, a quanto pare, a contatto con gli occhi, danno più fastidio degli occhiali stessi! Dovrò studiarci ancora sopra", rispose il ragazzo, gettando le "lenti a contatto" nel vaso di una pianta e rimettendosi gli occhiali.

~•~•~•~•~•~•~•~•~
Anche Stear aveva dato il suo contributo alla ristrutturazione e all’ampliamento della "Casa di Pony" e aveva continuato a studiare, dedicandosi alla scienza, arrivando, finalmente, ad aprire un laboratorio a Chicago.
In attesa di inventare e realizzare qualcosa di sensazionale e soprattutto funzionante, il suo laboratorio si dedicava alla progettazione e realizzazione di giocattoli per i bambini; i piccoli ospiti della "Casa di Pony" gli facevano da cavie, testando, di volta in volta, i suoi, a volte strampalati, marchingegni.
Il suo temperamento di patriota non si era spento del tutto, poiché, pur ripudiandola, era deciso, qualora fosse scoppiata un’altra guerra, a dare il suo contributo: come ingegnere, e non più come soldato, poteva essere prezioso per la realizzazione di manufatti e congegni, atti a migliorare la sicurezza dei militari. Quindi niente armi o oggetti d’offesa.
D’altronde Patty avrebbe preferito cavargli gli occhi, piuttosto che vederlo partire di nuovo o progettare qualche arma.
"Guarda che, se hai solo l’intenzione di farmi uno scherzo del genere, questa non è una minaccia, ma una promessa", gli aveva detto.
Patty aveva preso il diploma di insegnante e aveva insegnato sulla costa orientale degli Stati Uniti per diverso tempo, prima di dedicarsi ad allietare gli ultimi giorni di nonna Martha, spentasi serenamente in Florida.
Dal suo matrimonio con Stear erano nati Newton e James, che ora avevano tre e quattro anni; dopo la nascita del secondo figlio aveva abbandonato definitivamente la carriera di insegnante, offrendosi come volontaria per fare da maestra ai bambini dell’istituto di Miss Pony, Suor Maria e Papà David.
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 

In una stanza dell’ospedale "Santa Joanna", sotto le cure del dottor Leonard, un’anziana signora si stava riprendendo dopo una brutta febbre, che aveva rischiato di tramutarsi in polmonite, malattia letale per le persone di quell’età. La coppia che era andata a trovarla si sentì sollevata e la ragazza disse all’anziana:
"Miss Pony, ci avete fatto prendere un bello spavento".
"Cara Candy, ho la pelle dura, io, anche se i miei anni ormai me li sento tutti addosso".
"Non dite così, sono sicura che supererete i cento anni; avete ancora molto da dare agli orfani di questa città".
"Ma guardati: la mia piccola Candy; sei una donna, ormai, e sei felice. Mi basta sapere questo e vederti così felice per andarmene in pace".
"Eh, secondo il dottor Leonard, dovrete rimandare il vostro progetto, ancora per molto tempo".
Per sdrammatizzare un po’ la discussione e suscitarle un sorriso, Candy le raccontò un aneddoto appena verificatosi.
"Sapete perché abbiamo fatto tardi, Miss Pony? Perché quest’intelligentone di mio marito, entrato prima di me nell’ospedale, ha fatto perdere un mucchio di tempo alle infermiere, poiché non gli sapevano dire dove fosse ricoverata quella fantomatica Miss Pony di cui chiedeva".
"E che ne sapevo io che il vostro vero nome è Paulina Giddings?", commentò Terence.
"Sì, e magari il mio è Tarzan tutte-lentiggini, vero?", concluse Candy, facendo ridere Terence, che annuì, e sorridere Miss Pony.
Di lì a poco arrivò Suor Maria che disse a Candy e Terence che potevano ritirarsi: sarebbe rimasta lei a far un po’ di compagnia all’inferma.
A Miss Pony che le aveva chiesto con preoccupazione dei bambini dell’orfanotrofio, la religiosa rispose:
"Non dovete preoccuparvi, Miss Pony, con loro, oltre a David, c’è anche Patty e io conto di tornare là prima che lei vada via. Voi dovete pensare solo a riposare e a ristabilirvi in fretta: noi tutti sentiamo la vostra mancanza".

Sulla via del ritorno verso Lakewood, dopo aver commentato con lui lo stato di salute di Miss Pony, sul quale il dottor Leonard li aveva tranquillizzati, Candy notò in Terence un certo nervosismo.
"Mi spieghi cosa c’è che non va, anche se già lo immagino?".
"Abbiamo lasciato i bambini a Iriza Legan! Ti rendi conto? Sei sicura sia stata una buona idea? E se accadesse loro qualcosa? E se... ?".
"E se tu la smettessi di dire stupidaggini? Ma piantala, li ha già tenuti per noi e poi ci sono anche tua madre e una moltitudine di altre persone. Ti puoi fidare".
"Sì, ma... ".
"Proprio non riesci a pensare ad Iriza come a una persona diversa da ciò che era? Io ci riesco e se io, che sono la mamma dei gemellini, mi fido a lasciarglieli... ci riuscirai anche tu, un giorno".
Candy diede un bacio al suo amore e si strinse a lui, ansiosa, ma non preoccupata, di riabbracciare i suoi piccoli.

~•~•~•~•~•~•~•~•~
Candy e Terence non avevano voluto perdere altro tempo e si erano sposati, prima ancora che lui avesse lasciato definitivamente la sua carriera di attore. La persona che più era stata vicina alla coppia durante i preparativi per il matrimonio, era stata Eleanor Baker, la madre di Terence, anche lei in procinto, ora, di terminare la carriera di attrice.
Il matrimonio era stata una grande festa a cui avevano partecipato tutti gli amici più cari ai due sposi, compresi Vincent Brown, il padre di Anthony, e i bambini dell’orfanotrofio. Ciò era stato possibile dopo una lunga trattativa con la zia Elroy: l’anziana prozia premeva per organizzare una cerimonia sontuosa con tutta la "crema" di Chicago, dato che, in fondo, si trattava del matrimonio della pupilla del capofamiglia; Candy preferiva una cerimonia più intima. Alla fine era stato raggiunto un accordo: la prozia avrebbe avuto la sua festa, non troppo esagerata, e Candy i suoi paggetti, scelti tra i bambini ospiti dell’orfanotrofio, con gli altri comunque invitati.
"Zia Elroy, se permettiamo ai bambini orfani di partecipare alla cerimonia e alla festa, il prestigio della famiglia Andrew ne avrà solo da guadagnare", era ciò che Candy aveva detto alla zia Elroy per convincerla a regalare agli orfanelli quella bella esperienza.
C’erano state, però, defezioni importanti: Neal e Raymond Legan, ancora in giro per l’Europa in quel tempo, e il duca di Grancester, il padre di Terence, che si era addirittura rifiutato di incontrare la sposa, per tutto il periodo che Terence e Candy avevano trascorso in Inghilterra, probabilmente a causa del rifiuto del nome di famiglia deciso da Terence.
Sarah Legan aveva partecipato, seppur di malavoglia, per non indispettire troppo i "vertici" della famiglia Andrew.
Prima della cerimonia, però, era arrivato un telegramma di congratulazioni da parte di Susan Marlowe.
L’attrice, dopo aver lasciato Chicago, era tornata a recitare e, una volta coronato il suo sogno d’interpretare Giulietta Capuleti – la sorte volle che fosse chiamata a sostituire proprio Karen Claise, infortunatasi, l’attrice che le aveva "rubato" la parte anni prima – accanto a un giovane attore emergente, aveva lasciato le scene per dedicarsi allo studio da scenografa e, nel frattempo, aveva addirittura scritto un musical, col sogno di poterlo, un giorno, portare in scena a Broadway.
Si sarebbe saputo, più tardi, che il giovane attore emergente che l’aveva affiancata in "Romeo e Giulietta", era diventato, per lei, qualcosa di più di un semplice collega...
~•~•~•~•~•~•~•~•~
 

Quando Candy e Terence giunsero a Lakewood, i bambini, che si stavano divertendo con le storie che Eleanor stava raccontando, corsero loro incontro, facendogli le feste: Henry George si tuffò tra le braccia della mamma, che si era accucciata per riceverlo, mentre Jane Eleanor saltò in braccio al papà, tempestandolo di baci.
"Hai visto zuccone?", disse Candy a Terence, "Stanno benissimo, anche troppo direi".
Poi, rivolgendosi ai piccoli, dopo averli abbracciati e baciati:
"Siete pronti a conoscere il nonno?".
I bambini si dichiararono entusiasti e Daisy non rinunciò a punzecchiare il piccolo Henry:
"Io l’ho già conosciuto il mio".
Henry disse alla mamma, facendo la linguaccia a Daisy:
"Io ho più nonni di Daisy e ho anche due nomi; lei ne ha uno solo".
"Su su Henry, non essere maleducato con la cuginetta", poi, rivolgendosi ad Iriza:
"Sono stati buoni o ti hanno fatta ammattire?".
"Ammattire? Ma che dici, due, anzi tre, angioletti! E fortuna che c’era anche la signora Baker!".
"E tu, Candy, come ti senti?", intervenne Terence.
"Ti confesso che sono un po’ emozionata e impaurita".
"Sii te stessa e tutto andrà bene; e se mio padre dovesse ancora comportarsi male con te, beh... che vada pure al diavolo".
"Terence non ha tutti i torti, Candy: non devi fingere o sembrare un’altra persona, comportati con naturalezza, come sempre hai fatto, e non preoccuparti che, ultimamente, l’ho sentito più ben disposto. E sono sicura che adorerà i suoi nipotini", aggiunse Eleanor.

Prima di sera, arrivarono i padroni di casa, di ritorno da un piccolo viaggio, voluto da Albert che, pur essendo oberato di impegni e di responsabilità, non aveva del tutto rinunciato al proprio bisogno di libertà. Era per questa assenza che l’organizzazione dell’evento era stata affidata ad Iriza, dato che la zia Elroy, pur tenendo botta per riuscire a conoscere gli eventuali figli di Annie ed Archie, non si sentiva più in grado di strapazzarsi troppo.
William Albert Andrew e sua moglie Elizabeth Marshall, furono contenti di trovare tutti gli amici riuniti nella grande villa degli Andrew; anche i loro figli, William Anthony e Rosemary, furono contenti d’incontrare i "cuginetti".
Ma di che evento si trattava?
Si è detto che il duca di Grancester era stato abbastanza intransigente e chiuso nei confronti del figlio e di sua moglie, ma, ora, sentendosi sempre più vecchio, avvertiva il bisogno di conoscere i nipotini e qualcuno sperava in una sorta di riconciliazione familiare completa, in quanto Eleanor si era molto riavvicinata a lui. In questo ripensamento del duca, vi era stato anche lo zampino di suo fratello, per cui Harrison si era offerto di andarli a prendere per condurli in America.

Candy e Iriza si ritrovarono nel giardino: una attendeva, preoccupata, di conoscere il suocero, l’altra, ansiosa, di riabbracciare il suo amore.
"Sai Candy, non smetterò mai di ringraziare il Signore per aver messo Harrison sulla mia strada... non oso pensare a cosa ne sarebbe di me ora, se non lo avessi incontrato".
"Beh, Iriza, Miss Pony mi ha insegnato che non possiamo sapere cosa ci aspetta dietro l’angolo, ma se percorriamo la nostra strada con coraggio e senza paura, può attenderci una gioia immensa, proprio come quella che stiamo provando noi in questo momento".

FINE
 

© 2019, The Blue Devil



Segnalo che non ho voluto stravolgere (da che pulpito!) troppo le indicazioni dell’autrice originale, per cui, per la stesura di questa storia, ho consultato anche i libri di Keiko Nagita: alcuni eventi li ho pescati lì e li ho rimodellati a modo mio. Mi sembrava corretto segnalarlo. Anche la frase finale (rimaneggiata da me) è un reale pensiero di Miss Pony, la Miss Pony di Keiko Nagita.

Ora il consueto elenco telefonico.
L’autore ringrazia:

briz65 per aver dato il via alle recensioni e aver tentato, vanamente, di smontarmi grammaticamente e sintatticamente ogni capitolo con le sue rott... ehm... acute osservazioni; a proposito colgo l’occasione per ringraziarla di averci scritto e regalato la bellissima "Il Drago e il Leone", che non mi stancherò mai di segnalare per la lettura (lo so, mi ripeto, ma l’elenco telefonico è mio e ci scrivo ciò che voglio);
Tetide per aver voluto leggere anche questa;
Gatto1967 che ha sicuramente iniziato a leggere questa mia;
australia7 per aver dimostrato di avere pazienza, tanta pazienza;
Ioli66 di cui ignoro la sorte;
gigen2015 che è apparsa nel secondo capitolo ed è riemersa nel 34°;
Susanna1974 che avendo scritto 3 parole non figura tra i recensori; comunque questo capitolo è un’eloquente risposta alla sua domanda (sempreché abbia proseguito nella lettura);
Fiona65 lettrice silenziosa, ma presente;
Gli innumerevoli lettori silenziosi che hanno letto senza commentare (1000? Ma che dico? 100? Ma che dico? 10... etc).

L’autore gradirebbe che i lettori che hanno commentato almeno una volta, lasciassero un commento a questo ultimo capitolo. Sarebbe bello se lo facessero tutti quelli che hanno letto tutta la storia, ma tant’è...
Si ricorda, inoltre, che una recensione, per essere tale e comparire, deve superare le 10 parole. Che senso ha commentare senza incrementare il numero delle recensioni?


The Blue Devil





Ringrazio tutti i lettori che si sono imbarcarti in quest’avventura, che neanch’io so dove ci ha portato (sempre che ci abbia portati da qualche parte), con la speranza di non avervi annoiato...











SFOGO DELL’AUTORE:

A chi mi dice che EFP è morto, do pienamente ragione. Questo sito è morente, ma non per colpa degli autori (il 90% dei quali abbandona le storie a metà o, addirittura, dopo un solo capitolo, dopo aver promesso mari, monti e oceani), che ci sono e pubblicano, ma per colpa dei lettori che trovano il tempo di leggere, ma che non trovano due secondi per dire la loro opinione. Le recensioni sono il sale di questo tipo di siti, mancando esse, tutto appassisce e un autore non sa cosa stia scrivendo e neanche se un lettore abbia letto tutta la sua storia o solo i primi capitoli.
È anche vero che molti autori pretendono di ricevere, ma si dimenticano di dare.
Recensire non è un obbligo, ma, se è previsto dal regolamento del sito, un motivo ci deve pur essere.
Grazie per l’attenzione


The Blue Devil

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3770807