BEYOND EVERYTHING

di Alicat_Barbix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Cinderella Story ***
Capitolo 2: *** Jail Of Crystal ***
Capitolo 3: *** Can I Kiss You? ***
Capitolo 4: *** Who Could Love Us? ***
Capitolo 5: *** Swear You Won't Fall For Me ***
Capitolo 6: *** I Don't Want You To Let Me Go ***
Capitolo 7: *** I'm The Only One Who Can Keep Him Safe ***
Capitolo 8: *** God, No. Jesus, No. ***
Capitolo 9: *** Free Me ***
Capitolo 10: *** You Broke Your Promise ***
Capitolo 11: *** Yours, Beyond Everything ***



Capitolo 1
*** A Cinderella Story ***


BEYOND EVERYTHING
 
by Alicat_Barbix
 
 
A Cinderella Story
 
John Watson era una delle migliori spie dell’MI6. Era veloce, agile, preciso nello sparare, disperato. E quest’ultima era certo una di quelle qualità che non potevano mancare in un agente del suo calibro. Di ritorno dalla guerra in Afghanistan, era convinto di aver perso tutto, di non avere un futuro, poi un suo compagno d’armi, congedato assieme a lui, gli aveva rivelato di essere stato coinvolto in un reclutamento per le file degli agenti dell’MI6 e così anche John si era buttato. In pochi mesi, aveva portato a compimento un numero così impressionante di missioni e casi che gli era stato retribuito tre volte tanto il salario dell’esercito, più ovviamente la soddisfazione personale e l’orgoglio da parte dei suoi superiori.
John Watson era dunque, indubbiamente, una delle migliori spie dell’MI6, ma certo mai, mai si sarebbe aspettato una convocazione proveniente dal Governo inglese in persona, Mycroft Holmes, il capo supremo dell’organizzazione. Il Diogenes Club, il luogo che un’elegante segretaria gli aveva comunicato come la locazione dell’appuntamento, era avvolto da un perentorio silenzio imposto da un altrettanto perentoria scritta in bronzo: please, keep quiet. Sulle eleganti poltrone di pelle nera, sedevano alcuni uomini dall’aspetto distinto, intenti a giocare a scacchi o a leggere solitariamente il giornale. John si guardò intorno incuriosito, aspettando che qualcuno si degnasse di spiegargli la sua presenza lì o che, almeno, lo portasse da Mycroft Holmes. Ma poiché nulla di quello che si era augurato accadde, si avvicinò, infine, ad un signore di una certa età, stempiato, e con un paio di occhialetti tondi inforcati sul naso.
“Mi scusi, cercavo Mycroft Holmes.”
L’espressione dell’uomo si dipinse da stupita a inorridita, lasciando John perplesso.
“Sa per caso se si trova qui?”
Qualcuno si girò nella sua direzione, lanciandogli sguardi sbiechi e accusatori, mentre il tipo che aveva davanti diventava sempre più sbigottito da quell’ometto dalla postura eretta e solida che gli poneva domande secche e concise.
“Non mi sente?” domandò allora alzando la voce e osservandolo con la fronte aggrottata, come quando cercava di incutere un blando timore in coloro che interrogava. “Okay, bene. Nessuno?” esclamò poi rivolgendosi agli astanti. “Nessuno ha la più pallida idea di dove sia Mycroft Holmes? Ho un appuntamento. Sono forse invisibile? Potete vedermi?” Da una porta laterale, sbucarono improvvisamente due uomini ammantati di nero con le scarpe avvolte da due sacchetti. “Oh, grazie signori. Mycroft Holmes mi ha chiesto di incontrarlo…” Ma prima che riuscisse ad esprimersi meglio, uno dei due gli premette la mano sulla bocca, impedendogli di parlare, mentre assieme all’altro lo sollevava di peso e lo trascinava via. E John avrebbe anche potuto ribellarsi a quella morsa, ma decise di attendere e vedere dove l’avrebbero condotto.
Lo lasciarono di fronte ad una porta in mogano, elegante e contornata da fregi del colore dell’oro. Ogni cosa, in quell’edificio, era rivestito di una tale eleganza e da un’ostentazione del classico che John era ammirato perfino dall’aria che respirava, quasi.
Dopo che ebbe bussato, una voce ferma gli concesse il permesso di entrare. La stanza in cui si ritrovò non era troppo diversa da quella da cui veniva: era, ovviamente, elegante, raffinata, con un paio di librerie al muro e il pavimento ricoperto da una moquette grigia. L’uomo che lo attendeva, volto di spalle, intento a versare dello scotch in due bicchieri di cristallo, non era da meno: slanciato, con un completo chiaro, i capelli ben tirati indietro, scarpe lucide, ma per quel che riguardava il volto, non riusciva a scorgerlo.
“Tradizioni, John. Sono le tradizioni che ci definiscono.” spiegò improvvisamente l’uomo mentre prendeva i due bicchieri in mano e si voltava, rivelandosi in tutta la sua aura austera. Non era un bell’uomo, constatò John, ma di certo aveva un fascino particolare, un qualcosa di magnetico che attirava irrimediabilmente gli sguardi e portava ad ammirarlo. “Il silenzio, per gente come me e te, è indispensabile per portare a termine un lavoro, non trovi? Il Diogenes Club è la perfetta metafora della vita di una spia, del lavoro di un agente dell’MI6.”
“Il totale silenzio sarebbe una tradizione? Non si può neanche chiedere passami lo zucchero?”
“Funzionari diplomatici e portavoce del Governo condividono il carrello del the. E’ meglio per tutti, credimi. Non vogliamo che si ripeta il 1972.” L’uomo raggirò la scrivania, avvicinandosi a John e allungandogli un bicchiere che quest’ultimo rifiutò con fredda cortesia.
“Mycroft Holmes, suppongo.”
“John Watson, sono certo.”
Si guardarono per qualche istante, studiandosi attentamente. John non era qualcuno facile da impressionare o, tanto meno, da suggestionare, ma quell’uomo che gli si erigeva davanti era quanto di più intimidatorio avesse mai visto. Il potere racchiuso nelle sue mani era percepibile, quasi palpabile, e i suoi occhi tradivano una luce divertita, maliziosa. Improvvisamente, John si sentì quasi insicuro in quella stanza, sotto quello sguardo felino e attento, in balia del volere del capo dell’MI6.
“Si sieda, John, la prego.”
“Non voglio sedermi.” ribatté d’istinto, scrutando dubbioso il volto dell’altro.
“Devo parlarle di una missione, forse della più delicata che mi si sia mai presentata sulla scrivania. Non vorrà certo ascoltare in piedi, non è così?”
Sospirò e si accomodò sulla poltrona di fronte a quella su cui prese posto Mycroft Holmes. “Allora, di che si tratta?”
“Subito al dunque, vedo. Bene, mi piacciono le persone pragmatiche.” E mentre parlava, l’uomo gli porse un fascicolo che lui non esitò un istante ad aprire e a consultare. “C’è un’organizzazione che si muove indisturbata per Londra ormai da molto tempo. Si occupano di droga, omicidi commissionati, prostituzione, e riteniamo che siano anche in contatto con numerose cellule terroristiche.”
“Gente tranquilla, insomma.”
“Molto tranquilla. Anche troppo. Sono discreti e astuti, prevedono le nostre mosse in anticipo e adottano sempre delle contromisure. Stiamo giocando con loro, ormai da anni, una partita a scacchi.”
“Anni? E come mai saltano fuori solo ora?”
“Si prevede un attacco, John. Un grande attacco. Non sappiamo da parte di chi né se ci sia una ragione ad esso collegata, ma i nostri informatori hanno intercettato pochi brandelli di una conversazione fra il capo dell’organizzazione e una cellula terroristica siriana. Non ne siamo certi, ma presto, molto presto, potrebbe scatenarsi un’apocalisse, John.”
John inarcò un sopracciglio mentre continuava a sfogliare il fascicolo. “Ci sono sempre stati pericoli in agguato – tra cui attentati terroristici. Non capisco da dove provenga tutto questo timore.”
“Non si tratta solo di terrorismo, John. Si menzionavano armi, in ingente quantità, e aerei e… guerre. Potremmo essere di fronte ad una guerra, John. E se dovesse scatenarsi, verremmo spazzati via come aghi di paglia.”
“Dovremmo avvertire i Governi alleati.”
“Ho già provveduto, sono sull’attenti anche loro, ma oggi come oggi non possiamo essere sicuri nemmeno dei nostri alleati. L’unica mossa decisiva è estirpare la radice del problema.”
“Vuole che elimini l’organizzazione?”
“No, John. Un uomo solo, per quanto abile, non ce la farebbe mai. Voglio che lei trovi colui che sta dietro a tutto questo e che lo conduca da me vivo.”
John si concesse un sorriso. “Crede davvero che parlerà?”
“Lei me lo porti vivo, poi sarà mia responsabilità cavargli di bocca le informazioni.”
Annuì ripetutamente, osservando le ultime pagine del fascicolo. “Un bordello? Devo cercare in un bordello?”
Mycroft sorrise divertito a quella reazione. “Molti altri miei agenti non si sarebbero certo lamentati. E’ uno dei pochi luoghi in cui lavoro e divertimento possono convivere.” In un unico sorso, vuotò il bicchiere di Scotch e lo appoggiò sul tavolino accanto alla poltrona. “Ad ogni modo, ci risulta che il capo dell’organizzazione abbia una particolare predilezione per questo bordello.”
“E’ di sua gestione.”
“Già… Non sarà facile beccarlo. Ma sono certo che qualcuno che lavora lì potrebbe… risultare piuttosto loquace in determinate circostanze.”
“Dovrei andare a letto con le prostitute per estorcere loro qualche informazione?” domandò John sgranando appena gli occhi.
“Non sono così sprovvedute, né loro né nessun altro che metta piede là dentro. Comunque, si procuri quelle informazioni, John, in un modo o nell’altro e mi porti la persona che c’è dietro a tutto questo.”
John sospirò profondamente, richiudendo il fascicolo e porgendolo nuovamente a Mycroft che però gli suggerì di tenerlo per assimilare meglio le informazioni al suo interno che lo avrebbero facilitato nella missione.
“Se non c’è altro, dunque, io andrei.” sentenziò lisciandosi le pieghe dei jeans troppo larghi sulle cosce ormai esili e scattanti.
“Bene, allora. E’ stato un vero piacere, John. Mi aspetto sue notizie il prima possibile.”
Si strinsero formalmente la mano, infine John si voltò e tornò sui suoi passi, stavolta ben attento a non proferire parola per non attirarsi nuovamente l’ira delle tradizioni.
 
Si sistemò ancora un po’ i capelli, indeciso se tirati in alto lo facessero apparire più attraente. Dubitava che avrebbe davvero messo in atto il piano che Mycroft gli aveva suggerito, ma era meglio essere preparati a tutto. Quella sera avrebbe semplicemente compiuto un giro di perlustrazione per il locale, cercando di non destare troppi sospetti, e avrebbe cominciato a selezionare quelli con cui parlare per avere le informazioni che gli servivano.
Lanciò un’occhiata al suo riflesso nello specchio e dovette ammettere che non gli dispiaceva troppo. Il suo fisico era asciutto e prestante, i mesi in Afghanistan lo avevano temprato, l’addestramento per l’MI6 lo aveva reso più robusto e forte, e un pizzico di fascino personale non guastava mai. Afferrò il cardigan scuro, se lo gettò sopra la linda camicia bianca e uscì dalla sua proprietà nei pressi di Hyde Park, una villetta moderna che si era comprato con i lauti compensi che il Governo gli aveva gentilmente offerto dopo la conclusione delle sue varie missioni. Era stato un bel salto di qualità dalla squallida pensioncina militare a quella meraviglia per gli occhi.
S’infilò nel primo taxi disponibile e comunicò la sua destinazione – non senza attirarsi un’occhiata in tralice da parte dell’autista. Ci mancavano solo i tassisti moralisti. Quando arrivò a destinazione, balzò giù frettolosamente, sbattendo contro una ragazza con addosso solo un tanga e un cartellone con la scritta del locale con la quale si scusò subito, ricevendo in cambio un volantino. Quando si fu allontanata, pagò il tassista e si preparò alla missione.
Il Morningstar si presentava agli occhi della gente comune come un night club qualunque, con luci a neon e tanta musica. John rimase qualche istante a studiarlo, chiedendosi che cosa avrebbe mai trovato al suo interno. Infine, deglutì sonoramente un paio di volte ed entrò. Un salone enorme, cosparso di poltroncine dai cuscini variopinti e bassi tavolini ricchi di posacenere in cristallo, lo accolse nel suo abbraccio che odorava di tabacco e di canne. Una donna dal seno prosperoso gli si avvicinò per prendergli la giacca e posarla in camerino ma lui la allontanò con un garbato gesto della mano, dicendo che stava bene così. In quella stanza, per quanto ampia, non vi erano che poche persone intente a fumare, a chiacchierare o ad iniettarsi in vena qualche dose di eroina o chissà che altra porcheria. La musica da discoteca, giungeva ovattata, lontana, e John la seguì, immaginando che si trovasse lì il fulcro del locale, il luogo dove avrebbe potuto carpire il maggior numero di informazioni.
“Quest’area è riservata ai soci.” lo bloccò uno dei due energumeni parati di fronte all’ingresso della parte del locale da cui proveniva la musica.
“Capisco. Beh, di cosa c’è bisogno? Una card, un lasciapassare, cosa?”
“Gira i tacchi e vattene, amico. Non è posto per tipi come te.”
“Non me ne vado prima di essere entrato là dentro ed essermela spassata.”
“Ho detto” rimarcò uno dei due avvicinandoglisi minacciosamente. “gira i tacchi e vattene, o non finisce bene.”
John sostenne lo sguardo, per nulla impaurito. Sarebbe stato capace di atterrarlo in un paio di secondi al massimo e spezzargli tutte le ossa chiamandole per nome, ma nonostante ciò si trattenne dallo scatenare una rissa che non lo avrebbe condotto da nessuna parte. “Se solo mi lasciaste-”
“Sei sordo o cosa!? Fuori!”
Vide partire il pugno con un anticipo tale da consentirgli di schivarlo senza alcun problema retrocedendo di due passi. Il buttafuori lo fissò come un toro avrebbe fissato un drappo rosso, con rabbia, umiliazione, insoddisfazione. Probabilmente, pensò John, avrebbe dovuto lasciarsi colpire per non destare troppi sospetti sulla sua abilità nel combattere, ma non aveva alcuna intenzione di farsi picchiare da quell’idiota palestrato che non aveva la più pallida idea di come si lottava.
“Signori, signori, per favore! Basta con questa violenza!” intervenne una voce femminile da dentro il locale e dopo pochi secondi, il secondo buttafuori si scansò, lasciando intravedere la figura longilinea e altera di una bellissima donna dai capelli castano scuro e due occhi gelidi.
“Miss Adler…” farfugliò allora quello che aveva sferrato il cazzotto osservandola come se fosse apparsa la madonna.
“Per favore, sapete che odio le contese a meno che non si svolgano tra le lenzuola. Qual è il problema?”
“Quest’uomo pretende di entrare liberamente nonostante non sia un socio. Io gli ho detto molte volte di andarsene, ma visto che con le buone non lo capiva-”
“Ti sei ridicolizzato mancandomi in pieno col tuo pugno.” intervenne John incrociando le braccia e cercando di mostrarsi il più sicuro e sprezzante possibile. Forse, si disse, c’era una carta vincente da giocare ed era proprio il suo potere sul gentil sesso. La donna, infatti, da quando aveva fatto la sua comparsa gli lanciava occhiate interessate, quasi fameliche, come se non aspettasse altro che sfidarlo ad un qualche giochetto erotico.
“Brutto figlio di-”
“Robinson!” tuonò lei, acquietando sul nascere l’ira del buttafuori. “Ho detto niente violenza, se non quella finalizzata al reciproco piacere. Non toccherai il signore qui presente a meno che tu non voglia portartelo a letto e possederlo irruentemente. E’ quello che vuoi fare?”
“Dio, no, che schifo!”
“Anche perché non penso sarebbe lui a dominare me.” aggiunse John lanciando uno sguardo di sfida all’altro interessato che per tutta risposta si fece scrocchiare le dita.
La donna scoppiò a ridere e gli si avvicinò con fare lascivo, facendogli scivolare una mano sulla schiena, vicino ai glutei. “Il signore è con me. Parlerò io col capo e farò in modo che abbia a disposizione tutti gli accessi che desidera. Grazie per la tua efficienza, Robinson.”
Venne trascinato all’interno della sala da ballo senza che neanche se ne rendesse conto, la mano della donna che si muoveva indisturbata sulla sua schiena mentre lo guidava attraverso la calca serrata delle persone che ballavano. Su alcuni palchetti circolari, ballerine e ballerini si esibivano in una sinuosa e provocante lap dance.
“Hai voglia di ballare?” urlò lei cercando di sovrastare la musica.
“Non al momento.” rispose John alzando a sua volta la voce, così la donna lo condusse in un’altra stanza, più silenziosa, con divanetti su cui gli avventori si lasciavano accarezzare e massaggiare dalle mani esperte di prostitute dalla bellezza scioccante.
La sua accompagnatrice lo fece accomodare su un divanetto che era rimasto libero e si allontanò per prendergli da bere al bar del locale, dall’altra parte della pista da ballo. Una volta solo, John osservò l’ambiente con occhio clinico, studiando i volti dei clienti e quelli delle prostitute, cercando di ricollegare quelle facce con le fotografie che aveva trovato nei fascicoli. Riconobbe una o due ragazze, mentre invece gli uomini presenti non comparivano fra i più assidui frequentatori, anche se probabilmente la cosa sarebbe presto cambiata a giudicare dai loro sguardi beati.
“Sei solo?”
Una voce maschile lo fece sobbalzare e solo in quel momento si rese conto che un uomo non troppo più giovane di lui gli si era seduto affianco e gli aveva porto un cocktail. John rimase senza parole di fronte a quell’apparizione inaspettata: il misterioso individuo indossava un corto gilet di pelle che si apriva senza altre difese sul nudo petto prestante, e un paio di pantaloni neri, anch’essi di pelle a fasciargli le gambe magre e prestanti.
“No, veramente sto aspettando-”
“Che ne dici di fare aspettare chiunque tu stia aspettando e di assentarti per cinque minuti con me?”
John si specchiò in quegli occhi chiari e luminosi e provò immediatamente un senso di imbarazzo, di disagio. “Io… Non credo sia una buona idea.”
“Sono perfettamente d’accordo.” assentì l’altro scivolando più vicino a lui, così che le loro gambe si toccassero. “Però, devi ammettere” continuò scostandogli il colletto della camicia con l’indice “che le follie sono sempre le esperienze più… memorabili.”
“Non ci provare neanche.” intervenne la voce imperiosa della donna che lo aveva accompagnato lì, arrivando con andatura ancheggiante, ma inviperita. “Trovatene un altro, Victor, questo è mio.”
L’individuo di nome Victor sbuffò, mentre si allontanava da John. “Non è giusto, Irene. Perché devi accalappiare sempre le prede migliori?”
“Perché sono una cacciatrice esperta, tesoro. Ora vai e cercati qualcun altro.”
“Non sono invitato neanche per una cosa a tre?”
“Non mi piace appropriarmi di qualcosa per poi doverlo cedere. In futuro, forse, si vedrà…”
Victor si passò una mano tra i ricci biondi e rifilò un’occhiata divertita a John che ricambiò con sguardo confuso. “Spero di rivederti presto.” sussurrò quello con voce calda prima di voltarsi e sparire nella sala da ballo.
John rimase senza parole a guardare il punto dove, fino a poco prima, si ergeva la figura di quell’uomo che l’aveva avvicinato così spudoratamente. Ma in fondo, pensò, era naturale che la gente del posto fosse così. Per quanto cercava tra i ricordi che contenevano i volti e i nominativi dei… dipendenti del Morningstar, era certo di non aver mai visto il volto di quel tipo fra quelle pagine. Avrebbe dovuto sollecitare Mycroft ad aggiornare quelle carte.
“E pensare che non è neanche il più diretto.” osservò la donna togliendogli dalle mani il cocktail che gli aveva offerto Victor per sostituirlo con un Angelo azzurro dall’aspetto promettente.
“Sul serio?”
“Assolutamente. Non pensavo bastasse così poco per mandarti in tilt.”
“Io… non sono andato in tilt!” ribatté portandosi il cocktail alle labbra.
“No, certo che no. Spera solo di non incontrare l’Angelo.”
John le puntò addosso uno sguardo incuriosito. “L’Angelo?”
Lei annuì, continuando a sorseggiare il suo drink. “E’ così che lo chiamiamo, noi del locale. L’Angelo caduto. A vederlo somiglierebbe in tutto e per tutto ad un Angelo, ma in realtà, in profondità, cela il diavolo in persona. Persino tutti noi ci siamo cascati, con lui.”
“Si prostituisce?”
“Oh sì, ed è anche molto bravo, te lo dico per esperienza. Peccato che prediliga gli uomini e quindi i suoi servizi verso il genere femminile siano volutamente molto limitati. Ma del resto, non posso biasimarlo: anche per me è così.”
John si lasciò sfuggire un sorrisetto. Ottimo, stava raccogliendo informazioni ed era il momento buono per carpire qualche dettaglio in più. “Allora, parlerai col vostro capo per lasciarmi passare senza che debba riempire il tuo ammiratore di pugni?”
La donna rise. “Robinson, fuori da quel completo scuro, ci sa fare, devo ammetterlo, e quando ha la serata libera dalle sue mansioni non si fa scrupolo a richiedere i miei servizi. Il suo problema è che ora è fissato con me, crede che io gli appartenga ed è sempre più geloso.”
“Dopo la scenata che gli hai fatto prima, probabilmente mi seguirà e mi pianterà una pallottola in testa.” borbottò vuotando il drink.
“Probabile.” ridacchiò lei poggiando a sua volta il bicchiere vuoto sul tavolino di fronte al divanetto. “Non credo di aver ben capito il tuo nome.”
“Non l’ho detto.”
“Illuminami, dunque.”
“Andy Rose.” rispose John ricordando i documenti con la sua nuova identità che Mycroft gli aveva procurato.
“Irene Adler.” si presentò a sua volta la donna, nonostante il suo nome fosse ormai stato pronunciato diverse volte da coloro che avevano incontrato. Invece che stringergli la mano, però, Irene si sporse in avanti, le labbra a un soffio dall’orecchio dell’agente. “Che ne dici di proseguire le presentazioni al piano di sopra, nella mia suite?”
John si morse istintivamente un labbro, colto in fallo. Stava andando tutto alla perfezione, finalmente, era certo di poter estrapolare qualcos’altro dalla conversazione, e invece ora quella donna gli proponeva di salire con lei per fare sesso. Quei dipendenti così spregiudicati, senza catene morali a limitarli, sarebbero stati estremamente difficili da raggirare a suo piacimento.
“Mi piacerebbe, ma non credo sia la serata adatta.”
“E perché?” domandò Irene accarezzandogli il ginocchio. “Sono certa che potrebbe esserlo, con me accanto o sotto...” Con un movimento lento, la sua mano cominciò a risalire fin sulla coscia, sempre più. “… o sopra…” Le dita di John si serrarono repentinamente attorno al suo polso, interrompendola ad un soffio dal suo interno coscia.
“Mi dispiace, ma per stasera ho solo bisogno di qualcosa di forte da bere e di un po’ di musica a palla.”
L’espressione di lei si dipinse di delusione mentre si allontanava con un sospiro profondo. “Come vuoi. Vado a cercare qualcun altro che possa, anche solo lontanamente, somigliarti.” Si alzò, ma prima di andarsene, si voltò nuovamente verso di lui, chinandosi alla sua altezza. “Mi piaci, Andy Rose.” E detto questo gli stampò un bacio casto sulle labbra, prima di defilarsi come aveva fatto il suo collega poco fa.
John si passò una mano in volto, ancora frastornato da tutti quegli eventi. Aveva bisogno di qualcosa di più forte di un angelo azzurro. Ritornò nella pista da ballo, dove ora i più stavano urlando alla vista delle ballerine che si sfilavano sensualmente i reggiseni, ma lui non si fermò neanche un istante ad allungare gli occhi sul corpo di quelle giovani ragazze. Gli faceva schifo, tutto quello. Gli facevo schifo il posto e gli faceva schifo quello che lo aveva messo in piedi, anche se ancora non lo conosceva. Tutta quella disinibizione, quell’umiliarsi pubblicamente… non riusciva ad accettarlo. Avrebbe scovato chiunque c’era dietro a tutto quel porcile e avrebbe assistito alla sua tortura con un sorriso sulle labbra, solo per aver creato quell’inferno in terra.
Si sedette al bancone e ordinò stancamente due margarite. Guardò l’orologio da polso: mezzanotte e due. Era lì solo da mezz’ora. Non aveva idea di quanto tempo ancora avrebbe resistito, ma dubitava che per quella sera avrebbe scoperto molto altro parlando con i dipendenti. Magari avrebbe potuto fermare qualche avventore… Probabilmente non sapevano nulla neanche loro. Sospirò e ingoiò un generoso sorso del drink che gli era stato appena messo davanti, il liquido gli scese bruciante in gola e dovette stringere gli occhi per non lasciarsi sfuggire una smorfia. Non se lo ricordava così forte.
“Vedo che qualcuno è frustrato.” osservò una voce accanto a lui.
John si voltò verso il suo interlocutore che aveva da poco preso posto sullo sgabello accanto al suo. “Non può immaginare quanto.”
“Le suggerisco di trovarsi qualcuno con cui passare un’oretta o due. I problemi sembrano svanire con una buona dose di sesso.”
“Non ho bisogno di fare sesso, ho bisogno di… non lo so neanche io di cosa ho bisogno, ma di sicuro non ho bisogno di pagare una ragazzina, magari una minorenne, per soddisfare i miei desideri come se fosse uno di quegli oggetti alternativi alla masturbazione!” sputò tutto insieme, in una valanga di parole, mentre vuotava il primo bicchiere di margarita e si avvicinava il secondo.
“Okay, amico, vedo che lei è davvero frustrato.”
“Ma dai? Lei sì che è un ottimo osservatore.”
“Non sa quanto.” concordò con tono serio l’altro ordinando a sua volta una margarita mentre John vuotava la sua e ne chiedeva un’altra. Sapeva che era sbagliato. Sapeva che doveva restare lucido e occuparsi della missione, ma qualcosa, in tutto quello, lo stava distruggendo e non era sicuro se fosse la calca urlante, le ballerine che si spogliavano di fronte a sconosciuti che le fotografavano, le prostitute che alleviavano momentaneamente i problemi dei loro clienti… Era tutto troppo.
“Dovrebbe andarci piano con quei drink. I nostri sono i più alcolici di Londra.”
“Non ho quattordici anni, lei non è mia madre e io reggo bene l’alcol.” ribatté subitamente prima di bere l’alcolico.
L’uomo accanto a lui ridacchiò appena, il tono grave. “Sulle prime due non ho da ridire, ma sulla terza… potrei avanzare qualche opposizione.”
“La smette di prendersi gioco di me? Non ha niente di meglio da fare come… ballare, fumare, scopare o che so io?”
L’altro non sembrò curarsi di quelle parole e continuò disinibito a guardarlo con un sorrisetto diabolico sulle labbra. “Al momento mi sto godendo uno spettacolo davvero esilarante che non mi perderei per nulla al mondo. Vuole una sigaretta?”
“Non la voglio la sua sigaretta! Voglio…” Un malore improvviso lo scosse da capo a piedi e percepì l’impellente urgenza di alzarsi e andarsene, ma quando ci provò, ogni cosa cominciò a roteare senza sosta, così tanto che non capì più se fosse lui a girare o il resto del mondo. Avvertì una presa salda ai fianchi e un buon odore di acqua di colonia. Provò a mugugnare qualcosa o a riaprire gli occhi che aveva serrato per non vedere quell’universo distorto che gli dava la nausea, ma la minaccia di un conato di vomito lo trattenne, mentre un paio di braccia forti lo trasportavano da qualche parte.
“Ecco, da bravo, si inginocchi qui e ingoi questa senza storie.”
Si ritrovò in gola… qualunque cosa quello sconosciuto gli avesse rifilato senza che ebbe anche solo il tempo di rifiutare. Non seppe dopo quanto tempo la nausea lo colse di sorpresa e lui si appoggiò, con l’aiuto di quelle braccia indistinte, al water, vomitando. Sentiva caldo e tante goccioline di sudore gli imperlavano la fronte e gli impiastravano i capelli. Una mano gli accarezzava il volto gentilmente, asciugandoglielo, mentre un'altra gli sosteneva il capo mentre veniva scosso dai conati. Quando il suo stomaco tacque, si ritrovò seduto per terra, appoggiato ad una parete bianca, con gli occhi chiusi e il respiro flebile.
“Che cos’era… quella cosa?”
“Uno stimolante per rigettare. E’ un toccasana per eliminare la sbornia.”
Si limitò ad annuire un paio di volte, mentre il rumore dello sciacquone gli risuonava nelle orecchie. “Credo di… di aver bisogno…”
“Di aria, certo.” completò la voce dello sconosciuto, mentre le sue braccia lo sollevavano gentilmente da terra e lo conducevano, nuovamente, dove meglio credevano. John mantenne le palpebre chiuse, timoroso che come le avesse aperte sarebbe stato colto da altri conati. Salì dei gradini sorretto da quella figura che non aveva ancora messo bene a fuoco, tanto era il buio che regnava nella zona bar al lato della pista, e tanta era la confusione che lo aveva animato nei pochi momenti in cui era riuscito a scorgere qualche frammento di quella immagine prima di rimettere. Percorsero quello che, data la lunghezza e il silenzio, doveva essere un corridoio. Dal piano di sotto, giungeva smorzata la musica della discoteca.
“Okay, ora si regga a me che apro la porta…”
Sentì una chiave infilarsi in una toppa e il conseguente scatto della serratura. L’uomo lo condusse nella stanza misteriosa e appena entrato, una fresca brezza gli sbuffò addosso, incoraggiandolo ad aprire gli occhi. Non fece caso all’ambiente intorno, ma solo al balcone che si apriva dietro un’ampia porta finestra spalancata. Si diresse barcollando verso il terrazzo e, una volta fuori, appoggiato alla ringhiera, respirò quanta aria i suoi polmoni potevano sostenere, un senso di libertà gli colmò i polmoni. Alle sue spalle, udì dei movimenti a cui però, in quel momento non volle dar peso. Era troppo stanco e debilitato anche solo per voltarsi e capire che cosa stesse succedendo – probabilmente l’uomo stava riordinando la camera in vista di quell’inaspettato ospite. Improvvisamente, un pensiero gli svettò nitido in testa: chi era quell’uomo per possedere una camera propria al Morningstar?
“Allora, va meglio?” chiese una voce profonda accanto a lui che lo fece sussultare e quando si voltò, scorse la figura di un giovane uomo dal fisico asciutto rivestito da una camicia porpora, la pelle chiarissima, il volto affilato coronato da ciocche ribelli di ricci corvini, e gli occhi chiarissimi, dal colore indefinibile. Fu una visione quasi mistica, con la luce della luna e dei lampioni che illuminava quel viso così particolare e squadrato. In mano, l’uomo teneva un reggiseno di un improponibile colore rosa che John fissò sbigottito.
“Ah, no, non è mio. E’ di una mia… amica.”
“Immagino…” borbottò di rimando portando nuovamente il suo sguardo al cielo scuro della capitale. “E a questa sua amica piacciono i colori inguardabili?”
“Non tutti, solo questa tonalità di rosa. Non ricordo neanche il suo nome, per me ormai è solo la donna in rosa.”
“Assidua frequentatrice?”
“Lo sono tutti dopo la prima volta.”
Calò il silenzio e John si appoggiò più comodamente contro la balaustra. Perfetto, era finito nelle mani dell’ennesimo prostituto di quel bordello. Ci mancava solo lui.
“Allora? Sto aspettando.” esordì alla fine quando non riuscì più a sopportare quell’irreale quiete.
“Cosa?”
“Le sue avances.”
“Le mie a… Perché? Le è venuta improvvisamente voglia di fare sesso?”
John gli rivolse uno sguardo ironico. “Sarà il fascino dell’eroe che mi ha salvato.” L’uomo inarcò un sopracciglio e a quel punto si trovò a specificare: “Non ero serio, ovviamente.”
“Ovviamente.”
“Glielo chiedo perché finora chiunque io abbia incontrato mi è saltato addosso con lo scopo di portarmi a letto, e mi sembra strano che lei si limiti a starsene lì a guardarmi con… un reggiseno in mano.”
Lo sconosciuto scoppiò a ridere e lanciò il reggipetto dentro la sua stanza. “Non sono un ninfomane. E lei ha già specificato di non voler un amante per stanotte. Tra l’altro, nonostante siamo aperti da appena un’ora e mezza, sono già stremato dalle attenzioni che i miei clienti hanno richiesto. Mi prenderò una piccola pausa. Non potrei reggere un ulteriore rapporto adesso.”
“Non ho mai detto che non avrei respinto le sue avances.” gli fece notare John con un mezzo sorriso.
“Né io ho mai detto che le mie avances fossero respingibili. Nessuno mi respinge, caro il mio ex soldatino.”
John si lasciò sfuggire una risatina: ogni singolo individuo là dentro possedeva un ego più grande di… “Aspetta… Cosa? Cos’hai appena detto?”
“Oh, siamo passati al tu, adesso. Devo prenderlo come un segno per mostrarle il frutto proibito dell’Eden a cui nessuno riesce a rinunciare?”
“I-io… No, certo che no! Hai det… Ha detto: caro il mio ex soldatino.”
Gli occhi dell’altro si serrarono appena, confusi. “Quindi?”
“Come fa a sapere che sono un ex soldato?”
La paura lo raggelò. Che fossero stati informati del suo arrivo? Che gli agenti di Mycroft avessero lasciato trapelare qualcosa? Che lui stesso avesse sbagliato da qualche parte? Sentì il coltellino svizzero premergli nei mocassini e la pistola, sotto la cintura, scottare.
“Non lo sapevo, l’ho dedotto. La sua postura è rigidamente eretta, il taglio di capelli caratteristico dei soldati, è abbronzato sul viso e sulle mani ma non oltre le maniche, l’abbronzatura, però, non è recente, tiene una pistola nascosta nei pantaloni, un coltellino nella scarpa e ha rigidi principi morali che la portano a detestare questo posto. Quindi sì, da questo quadro generico deduco che lei è un ex militare, mi sbaglio?”
John lo fissò con occhi sgranati, completamente sbigottito da quella spiegazione. “Affatto, no… E’…” cercò di schiarirsi la gola. “… è tutto giusto.”
“Ne ero certo.”
“E’ stato…”
“Irritante? Sconveniente? Invadente?”
“… fantastico.” completò però l’agente.
L’uomo corrugò appena la fronte. “Sul serio?”
“Ma certo, è stato assolutamente… meraviglioso. E… come… come diavolo ha fatto a notare così tanti particolari e a metterli insieme come se fossero tasselli di un puzzle?”
L’altro scrollò le spalle. “Sono dotato di un IQ superiore alla media, i miei genitori me l’hanno sempre detto, anche se mio fratello ha sempre fatto il bullo sostenendo che fossi, della famiglia, quello più lento.”
“Eccezionale. E’ davvero un ottimo osservatore.” esclamò ancora John, citando nuovamente le parole che al bar aveva pronunciato ironicamente.
“Beh, sì. Solitamente la gente mi manda affanculo quando deduco la loro vita. Peccato che alla fine tornino sempre con la coda tra le gambe per farsi possedere un’altra volta.”
John sorvolò sulla parte sessualmente esplicita del discorso e si concentrò piuttosto sulle reazioni della gente: effettivamente, essere smascherati a quella maniera, magari anche ridicolizzati da qualcuno appena incontrato, poteva risultare umiliante e fuori luogo, probabilmente sarebbe stata la reazione più logica, ma lui non riusciva a non restare affascinato dalla semplicità con cui quell’individuo aveva spiegato qualcosa di altrettanto semplice, ma che lui non sarebbe mai riuscito a fare.
“Ignori la gente. E’ solo invidiosa.”
“Sono d’accordo. Il mondo è cosparso di idioti, è una croce che devo portare, purtroppo…”
John lo guardò con aria torva, ma decise di lasciar perdere. Era stranamente piacevole chiacchierare con quel tipo così particolare e si sarebbe anche spinto a formulare qualche domanda al fine di raccogliere informazioni, ma quell’abilità e quella sagacia lo spaventavano: temeva che potesse capire, che potesse smascherarlo e consegnarlo al loro capo… No, non poteva rischiare.
“Grazie per l’aiuto e per la piacevole chiacchierata. Ora sarà meglio che vada.” sentenziò dopo qualche istante di silenzio.
“Sul serio? Ma non siamo mica nella fiaba di Cenerentola! Può rimanere ancora un po’.”
“Cenerentola, dice? Non ho nessuna fata madrina che mi ha regalato un abito mozzafiato, sono venuto in taxi e non su di una zucca trasformata in carrozza, non ho incontrato, né tantomeno ballato con il principe dei miei sogni e la mezzanotte è passata da un pezzo. No, direi che non c’è niente di lontanamente simile a Cenerentola.” concluse con sguardo allusivo.
“Beh, l’avrei invitata a ballare se non fosse crollato come un ragazzino per qualche margarita. Il mancato ballo lo deve solo alla sua poca sopportazione all’alcol.” replicò l’altro appoggiandosi a sua volta alla ringhiera. “E poi… non trova che la serata di Cenerentola sia stata… triste? Hanno ballato, a malapena si sono scambiati un bacio, e poi pouf lei è svanita lasciando dietro di sé soltanto una scarpetta di cristallo. Se solo fosse stata meno santarellina non avrebbero sprecato tutto quel tempo a ballare come due spocchiosi di fronte alle nobili del regno verdi d’invidia. Si sarebbero dedicati ad… altre attività.” John lo osservò avvicinarsi ancora di più, arrivando quasi a violare il suo spazio vitale. “La mezzanotte è passata eppure Cenerentola è ancora qui. Non le piacerebbe andare oltre uno stupido ballo?”
I suoi sensi scampanellarono pericolosamente quando sentì la mano sfiorargli il basso schiena, con l’intento di scivolare più giù, nella stoffa dei pantaloni, ma fortunatamente non era uno sprovveduto, così gli prese la mano prima che arrivasse a destinazione e gli rivolse uno sguardo di sfida.
“Cosa credeva di fare con la mia pistola?”
“Gioco di ruolo. Io, un famigerato detective che la minaccio di stendersi sul letto e arrendersi alla giustizia. Eccitante, non trova?”
“Non credo proprio.” sospirò senza però evitarsi di sorridere di fronte a quei tentativi di abbordaggio. Solo quando si ritrovò a fissare quegli occhi misteriosi si rese conto di stringere tuttora la mano dello sconosciuto, così si affrettò a lasciargliela e a recuperare la distanza facendo un passo indietro.
“Ora è proprio ora di andare.” si limitò a sussurrare mentre si aggiustava il cardigan nero.
“Scappi, scappi! Nessuna fuga è eterna, se lo ricordi.” esclamò l’uomo seguendolo all’interno della stanza e poi, fuori, nel corridoio, diretto verso il piano di sotto.
John lanciò fugaci occhiate intorno, a quelle porte con numeri d’ottone scolpiti sopra, a quelle diramazioni che sembravano voler formare un dedalo. Si chiese se il capo di tutto quello risiedesse in una di quelle suite o se invece fosse totalmente estraneo a quel luogo e vi si presentasse occasionalmente per controllare gli affari.
“Sta cercando di ricordarsi la strada per venirmi a trovare di nuovo?” chiese la voce dell’uomo misterioso alle sue spalle. John si limitò a ridacchiare e a scuotere la testa con esasperazione. Improvvisamente, però, una morsa gli afferrò un braccio e si ritrovò voltato, con il viso a pochi centimetri da quello dell’altro.
“Che sta-”
“Sssh…” lo zittì dunque l’uomo, portandogli due dita sulle labbra. “La prossima volta che tornerà, chieda di me. Chieda dell’Angelo caduto.”
“Dunque è lei…”
“Noto con piacere che ha sentito parlare di me.”
“Ho sentito delle sue innate abilità di seduttore.”
“E allora non c’è altro che deve sapere di me.”
“Il suo nome?”
L’uomo sbatté ripetutamente le palpebre, improvvisamente colto di sorpresa. “Vuole sapere il mio nome?”
“Certo che lo voglio sapere. E’ forse… vietato dalle regole di questo posto?”
“No, no… Solo che a nessuno dei miei clienti è mai importato.”
“Io non sono un suo cliente.”
Un sorrisetto maligno affiorò sulle labbra del famigerato Angelo caduto, conferendogli quell’ossimoro che Irene aveva illustrato appena un’ora prima: un angelo fuori e un demone dentro. “Questione di tempo. Mi dica il suo, prima.”
“Andy. Andy Rose.” rispose John dopo aver represso a fatica il suo vero nome, ricordando a se stesso che era in missione sotto copertura. Un’espressione quasi disgustata si delineò sul volto dell’altro. “Che c’è?”
“Non lo so… mi aspettavo qualcosa di più… non ne ho idea. Non le dona.”
“Oh, beh, grazie tante. E potrei sapere anche il suo di nome?”
“Sherlock.”
“… Sherlock?”
“Sì, qualche problema?”
John scoppiò a ridere. “Lei insulta il mio nome quando il suo è Sherlock?”
“Non ho insultato il suo nome, ho solo detto che non le dona.”
“Purtroppo non posso dire lo stesso del suo.” sospirò lui.
Sherlock gli rivolse un’occhiata cauta. “Mi sta dicendo che le piace?”
“E’ particolare, è folle, è fuori dagli schemi… un po’ come lei.”
“Noto che ci siamo appena incontrati eppure crede di sapere molto su di me.”
John scrollò le spalle e scansò delicatamente il corpo dell’altro dal suo, riprendendo la sua avanzata verso le scale. Una volta giunto alla rampa, si voltò, sulle labbra una stupida battuta riguardo il loro incontro, ma dietro di sé solo il vuoto. Tornò sui suoi passi e si guardò intorno, ma di Sherlock nessuna traccia. Era svanito nel nulla.

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SPAZIO AUTRICI
Bene, eccoci tornate con una nuova long-fic che abbiamo già - più o meno - terminato, di 10 capitoli. Allora, prima di continuare un attimo con il commento del capitolo vorremmo avvertire chi non ci conosce di un minuscolo e apparentemente insignificante dettaglio: l'angst è la nostra unica fonte di gioia, con noi, guys, sarete teletrasportati in una dimensione di sadismo allo stato puro, quindi... Get ready.

Parlando del capitolo, non c'è in realtà molto da dire. John è figo, cazzuto e sicuro di sé, ma anche il nostro Sherlock non scherza. Abbiamo inserito OOC proprio per quest'ultimo, in quanto è una trasposizione della sua caratterizzazione che l'ambiente in cui la nostra vicenda è ambientata necessita. Comunque speriamo di non aver esagerato, fatecelo pure sapere nelle recensioni.
Nella storia è presente il personaggio di Victor, signore e signori, ebbene sì! Chissà che ruolo giocherà nella vicenda... Solo il tempo può dirlo!! (ehehehe)
Per quanto riguarda il supercattivo che gestisce tutto l'ambaradan, chissà chi potrebbe mai essere... Mah, proprio non saprei....
Infine, il titolo del capitolo richiama il giochetto di Sherlock nell'approcciare John, questo penso sia abbastanza ovvio, mentre il titolo in generale della ff... CHISSA'! 

Per quanto riguarda il POV, è venuto naturale scrivere il capitolo iniziale visto dagli occhi di John, ma la narrazione verrà affidata alternatamente a entrambi i nostri protagonisti, di capitolo in capitolo, per sviscerare con maggior precisione non solo la loro psicologia , ma anche le loro avventure singolari. E se ne vedranno delle belle...

Infine, l'immagine... L'abbiamo trovata bellissima, con queste stelle e questi due tesori ai lati opposti, come se fosse l'universo stesso a separarli... Ma no, nella nostra storia non sarà affatto così, no no *tossicchiano colpevoli* Ovviamente non ci appartiene, l'abbiamo spudoratamente presa da google immagini perché era semplicemente troppo bella - e... significativa? *cof cof* - per non metterla.

Bene, questo è quanto! Speriamo di ritrovarvi la prossima domenica con il secondo capitolo (tranquilli che saremo puntuali ogni settimana, promessooo!!) e vi auguriamo una settimana serena, dunque non come la nostra... Sciau!

Alicat_Barbix

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Capitolo 2
*** Jail Of Crystal ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 


Jail Of Crystal
 
 
Nell’ombra, la figura minuta e infima dell’uomo che più temeva al mondo. Cercò di dominare la paura, come soleva fare ogni volta che si trovava al suo cospetto, di mostrarsi forte, fingere una sicurezza che in realtà non aveva. Nel buio, Sherlock osservò James Moriarty venirgli incontro, farglisi sempre più vicino, più soffocante, tendere delle catene immaginarie e imprigionarlo nella loro morsa.
“Che cosa vuoi?” sputò astioso.
“Oh, Sherlock, Sherlock… Sai, non ti capisco proprio in certi momenti. Ogni volta che vengo da te mi tratti come se fossi un carceriere feroce, un bastardo senza cuore che ti ha recluso in una prigione d’oro da cui vuoi uscire… quando sai perfettamente che hai scelto di tua volontà, così come tutti gli altri qua dentro, di servirmi.”
Un sorriso amaro gli schiuse le labbra. “Un patto col diavolo, già…” farfugliò tra sé e sé soffocando i ricordi di quello che c’era prima di tutto quello. “Non hai risposto alla mia domanda.”
“Non potrei semplicemente avere voglia di passare del tempo con te?” replicò serenamente Jim accostandoglisi ancora di più e accarezzandogli uno zigomo. “E’ da così tanto tempo che non stiamo insieme per bene…”
“Sono passati due anni dal nostro ultimo rapporto e ho visto che non hai perso tempo a sostituirmi con Moran.”
“Sebastian è bravo, è vero. Non quanto te, certo, ma lui è plasmabile, al contrario tuo. Sei sempre stato così ribelle, Sherlock, tu insieme al tuo amichetto Trevor… Così desiderosi di cambiare le cose…” Sembrava quasi stesse portando avanti una recita. Una recita in cui lui era il protagonista travagliato da molte sofferenze e molte asperità che decantava ogni difficoltà attraverso cui era passato tramite un monologo. Ed era proprio in quei momenti, in quelli più impensabili, in quelli di quiete, che Sherlock aveva imparato a temere la tempesta. E infatti, un istante dopo si ritrovò schiacciato contro il muro, le mani bloccate sopra la testa e il corpo di Moriarty premuto contro al suo, intrappolandolo in una gabbia di ossa e carne. “Ti ho visto, sai, con quel biondino… Spero vi siate goduti la chiacchierata…” Sherlock cercò di divincolarsi, ma il fisico dell’altro, per quanto all’apparenza debole, lo inchiodava al muro con brutalità e tenacia. “… Peccato, mio caro, che non mi fai guadagnare soldi chiacchierando. Me li fai guadagnare scopando. Perciò… la prossima volta che vorrai passare del tempo col soldatino tanto carino dovrai scopartelo e non chiacchierarci. E voglio che tu ti faccia pagare profumatamente per quanto lo farai godere… Sono stato chiaro?” Lui continuò ad opporre una debole resistenza, ma era tutto inutile di fronte alla testardaggine dell’altro. “Sono stato chiaro, Sherlock?” ripeté Jim sputandogli quasi in faccia le parole.
Sherlock si arrese, il suo intero corpo afflosciato contro la parete del corridoio secondario in cui Moriarty l’aveva fatto infilare. “Chiaro.”
Jim sorrise, ferino, infine si sporse a leccargli un zigomo, facendolo rabbrividire di ribrezzo. “Ricordati chi è il capo qui, Sherlock. E ricordati anche che il tuo faccino è troppo bello e importante per gli affari per permettere che qualcuno, colto da un lampo improvviso d’ira, possa sfregiarlo. D’accordo, mio caro?”
Con l’umiliazione bruciante che fluiva assieme al suo sangue tramite le vene, Sherlock chinò il capo, in segno d’assenso, e lasciò che l’altro continuasse a leccargli la pelle esposta. Infine, Jim si allontanò, passandosi la lingua sulle labbra, furtivamente così com’era apparso. Sherlock rimase fermo in mezzo al corridoio, i pugni serrati e il disgusto per quel contatto ancora vivo sul viso e sul collo. Gli aveva persino lasciato un succhiotto, quel bastardo. Era sempre stato gelosissimo della sua pelle d’alabastro, non aveva permesso a nessuno di scalfirla con i volgari segni che i comuni esseri umani si lasciavano reciprocamente sul corpo quasi per marcare il territorio, marchiare un’altra persona come un’animale da bestiame. Ma James Moriarty, la più meschina e ingannatrice creatura esistente, il Diavolo in persona… lui poteva tutto su di lui. Perché gli apparteneva. Perché tutti quelli chiusi in quel night club gli appartenevano. E per quanto si sforzasse di pensarla diversamente, lui non era da meno, lui non era padrone di se stesso. La sua anima, quella era nelle grinfie del Diavolo. E il suo corpo… quello non gli apparteneva più già da un bel pezzo.
 
Si sedette su una delle panchine del giardino sul retro del locale ormai chiuso e deserto. I clienti se n’erano andati, i dipendenti riposavano nelle proprie suite, il sole, in lontananza, si affacciava pigramente tra i tetti degli alti edifici del quartiere. Era piacevole la quiete che regnava dopo la chiusura, quando rimaneva solo con quel paesaggio familiare e quella fresca brezza che, gentile, gli scuoteva i capelli, infondendogli la forza necessaria per andare avanti ogni giorno. Non che quella vita gli pesasse, al contrario: si sentiva potente, il suo soprannome vagava di bocca in bocca, la sua fama portava amanti curiosi ad avvicinarglisi per poi venire respinti. Era selettivo, Sherlock. Molto selettivo. Non aveva ancora una vera e propria cerchia di clienti, ma ormai le facce erano sempre quelle, le voci che urlavano il suo stupido soprannome anche, e i corpi che faceva suoi pure. L’unica falla nella sua vita era James Moriarty, quel pazzo che aveva chiamato il suo locale Morningstar, per inneggiare a se stesso e alla sua essenza diabolica.
Si massaggiò la radice del naso con pollice e indice, stringendo gli occhi. Non voleva pensare a Moriarty. Non voleva dargli anche il potere di tormentarlo nonostante non fosse presente. Bastavano quelle telecamere nella sua stanza per sentirlo soffocantemente presente in ogni attimo della sua vita. Bastavano quegli occhi di specchi e lenti che lo osservavano mentre soddisfaceva qualcuno dei suoi clienti, rinunciando, per chissà quale volta, a se stesso.
Con quel soldato, Andy, era stato diverso. Con Andy aveva parlato, aveva riso, aveva scherzato, e sì, è vero, si era dannatamente divertito a provocarlo con quelle allusioni così innocue per uno come lui. Non lo conosceva, aveva passato con lui poco meno di un’ora, eppure sentiva che non era come nessun altro che si fosse approfittato di lui. Nonostante, inizialmente, avesse addirittura pensato che andarci a letto sarebbe stato piacevole, sapere che c’era qualcuno che non voleva saltargli addosso alla prima provocazione era un sollievo. Lo considerava quasi un amico. Che idiozie, pensò tra sé e sé con un mezzo sorriso.
All’improvviso, alle sue spalle, udì l’eco di alcuni passi la cui cadenza sarebbe stato in grado di riconoscerla ovunque. “Non dormi?” chiese alla figura che si sedette accanto a lui.
“Ti ho visto in giardino e così ti ho raggiunto.” rispose Victor guardandolo con affetto.
“Gentile da parte tua, Vic. Com’è andata la serata?”
L’altro si strinse nelle spalle mentre tirava fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. “Bene, credo. Due donne e un uomo. Avevo messo gli occhi su biondino davvero interessante, ma se l’era già accaparrato Irene.”
“La solita, a quanto pare.” osservò Sherlock con un mezzo sorriso pensando al biondino che lui si era accaparrato e chiedendosi se l’avrebbe rivisto, ma stroncò quello stupido pensiero sul nascere: per prima cosa, era ovvio che l’avrebbe rivisto – nessuno, dopo averlo conosciuto così da vicino, era mai sparito –, seconda cosa, non doveva lasciarsi coinvolgere – da quando permetteva ai frequentatori del locale di entrare nei suoi pensieri, nel suo mind palace?
Victor gli passò una sigaretta che infilò tra le labbra. “Stai bene? Sei pallido, sembri stanco.”
“Effetto Moriarty.”
L’amico si drizzò immediatamente e prese a scorrere il suo sguardo su tutto il suo corpo, come alla ricerca di un qualche segno del loro incontro. “Ti ha colpito anche stavolta?”
“No, era stranamente di buon umore. Probabilmente Moran lo ha lasciato fare l’attivo, per una volta.” ironizzò Sherlock disegnandosi in testa l’immagine sprezzante e orgogliosa di Sebastian Moran. Era uno dei tanti colleghi che disprezzava e purtroppo ne conosceva perfettamente la ragione.
“Sherlock, non scherzare.”
“Davvero, Vic, non mi ha toccato, o almeno, non in quel modo.”
“E’ suo il succhiotto che hai sul collo?” Di riflesso, Sherlock alzò il bavero del suo cappotto per celare quel volgare segno che deturpava la sua pelle e all’altro bastò per ricevere la conferma. “Perché è così fissato con te, nonostante tutto quello che ti ha fatto in passato?”
“E’ un sadico, narcisista e pazzo. Ecco perché.”
Victor sbuffò un anello di fumo che volò in alto, quasi convinto di arrivare a toccare il cielo, ma che si dissolse davanti ai loro occhi al primo soffio di vento. Come riassumere meglio la precarietà della loro condizione? Anellini di fumo in balia del mondo, fragili, destinati a dissolversi dopo brevi secondi per un alito di vento. “Non dovresti lasciargli fare tutto quello che vuole.”
“Non posso niente contro di lui, Vic.” replicò amaramente Sherlock gettando a terra la sigaretta e passandoci sopra con il piede, la cenere ancora accesa che si spargeva sul ghiaino. “Non ho il potere di contrastarlo. E per quanto sia dura da ammettere… lui è l’unico in grado di farmi sentire vulnerabile.”
Victor fece un altro tiro e tacque, gli occhi persi nel vuoto e i pensieri rivolti a chissà cosa. “Sherlock, tanto per essere chiari: tu lo sai che io ci sarò sempre per te, vero? In ogni circostanza, in ogni luogo, contro ogni Moriarty, io ci sarò. Combatterò sempre al tuo fianco, fratello.”
Finalmente, Sherlock distolse lo sguardo dai pini che puntellavano il giardino e lo rivolse all’amico, un sorriso dolce sulle labbra. “Era da tanto che non mi chiamavi così.”
“Ah sì?”
“Da quando avevamo circa… vent’anni.”
Victor ridacchiò e gli passò un braccio attorno alle spalle, stringendolo fraternamente. “Dovrò ricominciare a farlo più spesso, allora. Anche se non di sangue, sei mio fratello, Sherlock, e il nostro legame è più forte di qualunque consanguineità.”
“Lo so perfettamente.” borbottò lui pensando al legame che aveva col suo vero fratello, infine si alzò, liberandosi dall’abbraccio dell’amico. “Ad ogni modo, è meglio che vada: se rimarrò qui un minuto di più credo che mi verranno le carie ai denti.” Si avviò a passò deciso verso l’entrata del locale, ma una volta giunto si voltò verso Trevor. “Non vieni?”
“No, credo che resterò ancora un po’ qui a riflettere su quanto stronzo sia il mio migliore amico.”
Sherlock scoppiò a ridere. “Beh, credo che allora dovrò tornare fra trent’anni per seppellirti.”
Buonanotte, Angelo dei miei stivali.”
“Buonanotte, principino.”
 
Sherlock poche volte sbagliava e poche volte mancava il bersaglio. Con Andy Rose queste statistiche erano state completamente stravolte. Nove giorni erano trascorsi e di quel piccolo militare nemmeno l’ombra, al Morningstar. Non che gli importasse, certo, ma doveva ammettere che amava il modo in cui quello strano individuo resisteva ai suoi tentativi di sedurlo, sebbene quella sera non si fosse neanche lontanamente impegnato. Era innegabilmente eccitante quella sua maschera d’ironica ed ingenua indifferenza.
La sera del suo giorno di riposo, Sherlock rifiutò l’invito di Victor di uscire a fare qualcosa in città e si sedette ad uno dei tavolini di quella stanza dove lui e gli altri dipendenti abbordavano i clienti migliori, quelli più ricchi e disposti a sganciare più sterline. Era uno di quei giorni in cui il vuoto regnava indiscusso e tra l’altro c’era quel maledetto mal di testa e di gola che non lo abbandonavano da giorni. Probabilmente gli era salita la febbre, ma non aveva alcuna intenzione di passare una notte intera a letto con gli occhi di Moriarty puntati addosso. Cercava di passare sempre meno tempo da solo, di muoversi con gli altri, di evitare i possibili luoghi d’appostamento di Jim, ma puntualmente a volte sbucava fuori, gli ghermiva un polso e lo trascinava con sé per fargli quello che gli passava per la testa. E Sherlock lo lasciava fare.
Forse fu proprio per quel suo senso di inutilità, per quella sua debolezza che Sherlock, quella sera, entrato in bagno si iniettò in vena una generosa dose di eroina, fresca fresca di produzione. Se non altro, essere soci di Moriarty comportava anche essere i primi degustatori della migliore droga di tutta la Gran Bretagna, direttamente proveniente dai laboratori dei più grandi trafficanti d’Europa. Sedeva, appunto, su quel tavolino, ancora traballante tra l’incoscienza e la veglia, quando udì la voce di Victor.
“Ehi, tu, Angelo dei miei stivali! Posso sapere perché tutti devono stare alla larga dalle prede tue e di Irene e invece le mie sono puntate da chiunque?”
Sherlock puntò i suoi occhi, annebbiati dalla dose, su quella che ipotizzò essere la figura dell’amico, ma dietro di lui, ne scorse un’altra, più bassa, lievemente più robusta, con una postura rigida e dei capelli biondi tagliati corti.
“Dio, Sherlock…” esclamò, nuovamente, la voce di Trevor mentre si muoveva verso di lui a studiare le sue condizioni. “Credevo avessimo detto basta con queste porcherie.”
“Non mi devi rompere quando sono fatto, Vic. Non era la tua serata libera? E vattene, no!”
Scorse il volto di Victor distorcersi non tanto per sdegno, quanto per una rabbia scaturita dalla sua costante preoccupazione nei suoi confronti, e credette che sarebbe stato caricato sulla sua schiena e riportato in camera, sopportando la sua presenza finché quello non gli avrebbe fatto ingurgitare un tranquillante, ma una seconda voce infranse ogni sua aspettativa.
“Non si preoccupi, sono un medico, posso pensarci io qui. Lei vada pure.”
Sherlock poté quasi vedere davanti agli occhi l’espressione dubbiosa dell’amico, ma alla fine Trevor gli diede un pizzicotto su una guancia, sussurrandogli qualche raccomandazione che per la musica troppo alta proveniente dalla discoteca o per l’estasi della droga, non capì.
“Bene, credo che oggi sia il mio turno di assisterla.” osservò Andy, avvicinandoglisi e facendo per alzarlo con la forza e portarlo nella sua stanza come avrebbe fatto Victor.
Sherlock si lasciò tirar su, trovando la presa di quel piccolo medico militare estremamente rassicurante e calda, che gli infondeva la stessa sensazione che provava da bambino quando tornava a casa dopo una lunga giornata di scuola. “Ah, ho capito il tuo gioco.” esclamò quando intese che lo stava conducendo al piano di sopra, nella sua suite. “Mi vuoi portare in camera da letto apposta, vero?”
“Adesso è lei quello ad essere passato precipitosamente al tu.”
“Sì, ma io sono fatto, mentre tu eri perfettamente lucido quando mi hai dato del tu.”
La risata dell’altro gli arrivò cristallina alle orecchie, mentre saliva a fatica le scale, sorretto dal corpo prestante, nonostante l’altezza. “Ti ricordi dov’è la mia suite?”
“All’incirca, sì. Basta seguire i numeri sulle porte. 21A, vero?”
“Già.”
Percepiva il suo corpo leggero, libero da ogni catena fisica, la sua mente vagava, spaziava, inventava. Se si concentrava, poteva quasi percepire la droga gorgogliare in lui, mescolarsi con il suo sangue, rimestarsi nelle vene e dargli piacevolmente alla testa. Si aggrappò a Andy, avvicinando il naso al suo volto, aspirando il suo profumo e capì che già adorava quell’odore che gl’infondeva quella sicurezza e quel calore.
“Hai un buon odore.”
“Anche il tuo non è male. Ecco, siamo arrivati. Le chiavi?”
Un sorrisetto furbo illuminò il suo volto smunto. “Ce le ho da qualche parte addosso. Dovrai cercarle proprio bene.” Udì lo sbuffò di Andy scuotergli lievemente qualche riccio e si ritrovò a sorridere ancora più maliziosamente. Si appoggiò alla parete e tese le braccia in fuori esponendosi completamente.
Andy scosse esasperatamente la testa, infine si avvicinò a lui, le mani che gli si infilarono nelle tasche posteriori dei pantaloni. La sua vicinanza era il paradiso, o forse era solo l’effetto dell’eroina, ma Sherlock si tese in avanti, con l’intento di baciarlo. Andy con una mezza risata si ritrasse, sventolandogli davanti la chiave a cui era attaccato il cartellino con il numero della stanza.
“E’ stato facile. Le avevo già notate.”
“Stai dicendo che mi guardi il culo, Andy?”
Gli occhi di Andy si ingrandirono appena, ma subito dopo si riscosse e infilò la chiave nella toppa. Entrarono nella stanza che Sherlock odiava con tutto se stesso. Odiava ogni singolo mobile di quella camera, a cominciare proprio dal luogo in cui si prestava ai desideri dei suoi clienti, mentre Moriarty – ne era certo – lo osservava con un ghigno feroce sulle labbra e forse, chissà, una mano nei pantaloni a toccarsi. Quella sera, pensò, era davvero stufo di tutto – del suo lavoro, di Jim, dei clienti, della droga… Aveva voglia solo di… altro.
Si stese sul letto, sbottonando completamente la camicia e rivolse al medico militare uno sguardo malizioso. “Ti unisci a me?”
“Mi unisco a te per riportarti alla sanità mentale.” rispose l’altro prendendo la sedia alla scrivania e posizionandola accanto al letto.
Sherlock sbuffò e si alzò a sedere davanti a lui, prendendolo per il colletto della giacca e avvicinandolo a sé, con un mezzo ringhio frustrato. “Sei davvero… ottuso e ostinato, Andy Rose! Sto cercando di portarti a letto e tu te ne stai lì a comportarti come… come-”
“Come un medico? Chissà come mai.” replicò con un mezzo sorriso Andy, cercando di allontanarlo delicatamente, ma Sherlock si divincolò e azzerò la distanza fra loro. Cominciò a baciarlo, a pretendere di entrare nella sua bocca, spingendolo con maggiore intensità contro di sé circondandogli il collo con le braccia. Forse era la droga, forse era quel senso di malessere che ancora si affacciava alla sua labile coscienza, ma mai aveva desiderato tanto assaporare appieno il sapore di qualcuno. Per i primi secondi, le labbra di Andy rimasero immobili, sbigottite forse, ma alla fine venne spinto via con gentilezza ma con dura fermezza e si ritrovò di nuovo disteso sul suo letto, Andy sopra di lui che cercava di scostare le lenzuola per coprirlo.
“Sherlock…” mormorò il biondo all’improvviso sfiorandogli la fronte. “… sei bollente.”
“Mmm…” mugugnò lui senza dare importanza a quella voce così bella e calda.
“Sherlock, hai la febbre.”
“Passerà, dottore. Ora mi lasci… dormire…”
“Avete qualche medicinale da qualche parte in questo posto?”
Sherlock colse di sfuggita il tono aspro con cui quello aveva pronunciato la domanda, ma decise deliberatamente di ignorarla. “Sì, abbiamo un infermeria su questo piano vicino alle scale…”
Andy si alzò, borbottando qualcosa sul fatto che sarebbe tornato presto, ma Sherlock, improvvisamente spaventato dall’idea di lasciarlo andare e non rivederlo per chissà quanto, tese un braccio, afferrando il suo. I loro occhi si incontrarono e qualcosa, in lui, si smosse appena.
“No.” sibilò semplicemente con gli occhi bassi.
Un sorriso divertito sfociò sulle labbra screpolate dell’altro che, tuttavia, si risedette accanto a lui, osservandolo con dolcezza, come si guarda un gattino randagio durante una tempesta o un bambino malato delirante. Con lievi carezze iniziò a scostare i riccioli sudati dalla fronte di Sherlock che si ritrovò col chiudere gli occhi e ricordare l’odore della torta di mele di sua madre, la voce petulante di suo fratello maggiore, i guaiti del suo setter inglese, il calore delle attenzioni che i suoi genitori gli riservavano quando si ammalava. Andy Rose lo accarezzava come solevano fare suo padre e sua madre, i suoi occhi lo contemplavano come quelli scuri del suo amato Barbarossa, e il suo sorrisetto impertinente ricordava quello di suo fratello. Andy Rose gli ricordava casa sua, quella della sua infanzia, prima che tutto andasse a puttane e si ritrovasse sull’orlo della strada, in balia del mondo esterno, prima di stringere il suo patto col diavolo.
Fece scivolare la sua mano in quella dell’altro e prese a percorrerla con lievi circonferenze del pollice. “Non ho mai conosciuto un militare.” cominciò abbozzando uno sguardo malizioso. “Né ho mai fatto il passivo. Mi piacerebbe provare, sentirti ordinarmi di inginocchiarmi a terra con la tua voce da capitano, minacciarmi, prendermi con la stessa passione con cui hai preso in braccio il fucile…”
“Non ho mai detto di essere un ex capitano.”
“Lo si capisce da molte cose, credimi.” rispose tranquillamente Sherlock strabuzzando appena gli occhi a causa del momentaneo appannamento della vista. “Sdraiati accanto a me, Andy.”
“Perdonami, Sherlock, ma per essere chiari, in modo da evitare spiacevoli inconvenienti in futuro, non sono affatto gay.”
Sherlock ridacchiò, mentre faceva scorrere la sua mano sul braccio dell’altro, gli occhi desiderosi. “Mi creda, capitano Rose, nessun uomo lo è davvero prima di essere stato a letto con me.” Si alzò a sedere, forse troppo di scatto, perché la testa prese a vorticargli pericolosamente e si ritrovò a barcollare, il mondo intero completamente sottosopra. Avvertì il calore del corpo di Andy, le sue braccia cingergli le spalle per stabilizzarlo, il suo profumo penetrare rassicurante nelle sue narici. Gli lasciò una serie di baci sul collo che fecero inclinare l’altro di lato, per il solletico, mentre alle orecchie gli giungeva uno spazientito Sherlock… Di nuovo, le mani di Andy lo scansarono e Sherlock capì di essere davvero al limite delle sue forze quando non oppose alcuna resistenza.
“Un bacio.” cercò, allora, di contrattare. “Un piccolo assaggio di quello che avrai quando ti deciderai a mettere da parte la tua personalità da uomo tutto d’un pezzo.”
“Perché sei così sicuro che prima o poi riuscirai a portarmi a letto?” domandò allora il biondo ridacchiando appena.
“Perché so che arriverà il giorno in cui mi pregherai di farti mio. Arriva per tutti quel giorno, sempre.”
Andy assunse un’espressione frustrata e alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo. Infine, si concentrò su di lui e Sherlock si sentì impreparato, per la prima volta in vita sua. Sotto quello sguardo, comprese che non aveva controllo, che sarebbe sempre stato quello ad assecondare e mai quello a spingere per far qualcosa. Andy, invece, nonostante la sua tradizionale fredda cortesia inglese, era quello che decideva, quello che deteneva il potere. E Sherlock ne era intrigato, perché nessuno era mai stato capace di imporre, su di lui, la propria volontà. C’era stato Moriarty, certo, ma era diverso, quello con lui era un rapporto malsano, a senso unico, inappagante.
“Solo uno.” sospirò infine il biondo fissandolo come una madre che cede ai capricci di un bambino impossibile da tenere. “Poi, però, mi prometti che ti metti giù e dormi un po’.”
Sherlock sorrise serenamente, imitato subito dopo da Andy. Rimasero immobili a guardarsi, una tensione strana per entrambi che attraversava l’aria ramificandosi sotto forma di tante piccole scariche elettriche. “Allora? Mi baci o no, capitano?”
Andy, allora, si sporse appena in avanti, le mani che andarono a circondare il suo viso e lo tirò gentilmente a sé. Sherlock stette al gioco, gli lasciò totale libertà e quando le loro labbra si unirono venne attraversato da una vampata di tiepido calore. Quello di Andy, più che un bacio, era una carezza con la bocca, gentile, delicata, premurosa. Nessuno lo aveva mai baciato così. Tutti avevano sfogato su di lui rabbie, delusioni, frustrazioni, istinti, desideri, lussuria… Persino Victor, l’unica volta in cui erano andati a letto insieme, non si era fatto problemi ad assalirlo con bramosia, nonostante l’immenso affetto che provava per lui. E ora, Andy Rose lo baciava in quel modo così strano, così… bello forse, che lui ne rimase talmente spiazzato da non saper più come muoversi, come mettere le labbra, cosa farsene della lingua e dei denti, dove tenere le mani… Si spinse in avanti con un sospiro e cercò di approfondire quel contatto, cercando di prendere il controllo, ma ecco che Andy si staccò, depositandogli un ultimo bacio sulla punta del naso con un sorriso malizioso.
“Bene, hai avuto il tuo bacio, angioletto, ora a nanna.”
“Mi stai trattando come un bambino.”
“E’ quello che sei, angioletto.”
“Smettila di chiamarmi così, altrimenti…”
“Altrimenti?”
Ma la mente di Sherlock era già lontana da lì, in un universo parallelo creato dall’eroina che ora stava, pian piano, prendendo consistenza in lui. “Resta.” fece in tempo a mugugnare prima che il buio inghiottisse ogni cosa.  
 
Quando riaprì gli occhi, la luce del mattino lo accecò con efferatezza. In testa gli rimbombavano martellate poderose, menate sul piatto del gong che ora era il suo cervello. Si portò una mano alla gola, che gli bruciava terribilmente, e prese a tastarsi il collo con circospezione. Gemette di dolore toccando diversi punti. Si abbandonò nuovamente sul cuscino, svuotato di tutte le energie. Ricordava poco della sera precedente, una di queste era l’eroina, e un’altra… Andy.
Si voltò istintivamente verso la sedia e la trovò vuota. Per qualche ragione, quella constatazione gli causò una strana amarezza che si affrettò però a ricacciare indietro: lui era Sherlock Holmes, quello che spolpava le tasche dei suoi clienti per quanto abilmente riusciva a farli godere – o soffrire – prima di cacciarli via senza concedere loro neanche un bacio. Non era uno che baciava, lui. Doveva essere davvero andato per essersi lasciato baciare da quel piccolo medico militare – e a tal proposito non voleva neanche lontanamente prendere in considerazione il ridicolo fatto d’essere stato proprio lui a chiedergli di baciarlo.
Scosse violentemente la testa. Lui non aveva bisogno di baci, di sesso, né tantomeno di qualcosa anche solo lontanamente simile all’affetto. Andy Rose era un insulso individuo che presto o tardi sarebbe crollato ai suoi piedi implorandolo di possederlo, così come tutti. E di nuovo: lui non aveva bisogno di niente e nessuno.
Si alzò di scatto, ma un capogiro lo colse impreparato, facendolo rovinare a terra. Strisciò per qualche metro, finché non percepì un briciolo di forze in sé sufficiente a rimettersi in piedi. Barcollò, tese una mano in avanti verso la porta che dava sul corridoio, pregò di non ruzzolare nuovamente sul pavimento, ma proprio quando stava per sfiorare la maniglia, ecco che l’anta si spalancò, rischiando di colpirlo. Nell’indietreggiare maldestramente, inciampò nei suoi stessi piedi e finì col precipitare inesorabilmente verso il suolo. Un tonfo echeggiò per tutta la stanza e seguì il silenzio. Sherlock guardava di fronte a sé ostentando una freddezza di cui, in quel momento, non era provvisto, ma col farlo si trovò a poca distanza dalla carne rosea che s’intravedeva attraverso i piccoli spazi lasciati dai bottoni forse un po’ troppo stretti sul petto prestante. Un rossore imbarazzato gli colorò le gote mentre le braccia forti di Andy lo risollevavano come se fosse fatto di piuma.
“Buongiorno, angioletto. Dormito bene stanotte?” gli domandò in tono ironico l’ex soldato mentre se lo caricava con una semplicità sbalorditiva sulla spalla, a mo’ di sacco di patate.
“A-Andy?? C-che diavolo-”
“Sei il paziente peggiore che io abbia mai avuto, sappilo.” sbuffò fintamente spazientito il medico, prima di depositarlo con delicatezza sul letto e passargli una mano sulla fronte per constatare la situazione. “Bene, la febbre sembra scesa.”
“Mi hai somministrato qualcosa senza che me ne accorgessi?”
“Sì, della tachipirina, questa notte.”
“Me l’hai fatta ingoiare?”
“Oh, no, ho dovuto ricorrere a una supposta. Dormivi prono.”
Gli occhi di Sherlock si fecero grandi di orrore mentre pensava a Andy che infilava la pillola… E ovviamente a quell’immagine orrenda se ne sovrappose un’altra che gli colorò le orecchie di rosso. Poteva pensare a certe cose con l’oggetto di tali pensieri a poca distanza da lui? Odiava i momenti come quello: le rare occasioni in cui si ammalava, rivelandosi terribilmente vulnerabile nei confronti di chiunque. Per questo non lasciava che nessuno gli si avvicinasse anche solo lontanamente – per non esporsi, per non mostrare la sua reale debolezza, per non lasciarsi scalfire. Solo i suoi genitori e, in rarissime occasioni, Victor avevano avuto la possibilità, il permesso di vegliare su di lui durante la malattia. Il sonno era un'altra cosa che non tollerava: dormire lo spossava, anziché riposarlo. Il sesso, quello sì che lo rinvigoriva. Ma dopo ogni scopata cronometrata, anche l’ultima, chiedeva sempre ai clienti di lasciare la stanza, abborrendo l’idea di addormentarsi al fianco di uno sconosciuto.
Eppure, a Andy aveva permesso l’una e l’altra cosa. Si era praticamente spogliato di ogni sua arma e difesa di fronte a lui che, invece che colpirlo a tradimento, magari nel sonno, si era preso cura di lui e aveva a malapena dormito – a giudicare dalle profonde occhiaie che gli cerchiavano gli occhi.
“E non fare quella faccia! Sto scherzando!” lo sfotté Andy, ridestandolo dai suoi pensieri, guadagnandosi un’occhiata ferina da parte sua. “Comunque, quando dormi sembri così spensierato… Quasi un bambino.”
“E’ inquietante sapere che mi hai guardato dormire tutto il tempo.”
“A parte la bavetta, è stata una visione alquanto piacevole.”
Stavolta, Sherlock gli menò uno schiaffo sul ginocchio, aumentando solo le sue risa già abbondanti. Era solare, quel tipo. Nonostante il suo passato, nonostante le morti e il dolore che Sherlock gli leggeva in volto, nascosti fra quelle accennate rughe d’espressione, Andy Rose era sorrideva spesso.
“Non hai chiuso occhio tutta la notte?” domandò allora, cercando di spostare da sé il discorso.
“Sono abituato. La notte, ormai, dormo poco e male.”
“Incubi di guerra.”
Andy gli lanciò un’occhiata divertita e complice. “Ovviamente.” sottolineò con un sorriso di sfida.
“Ovviamente.” ripeté allora Sherlock aguzzando ancor di più lo sguardo malizioso. “Beh, dovresti fare qualcosa di veramente stancante prima di andare a letto, sai? Dicono che della sana attività fisica prima di dormire sia benefica.”
L’ex soldato finse un’espressione interessata e curiosa. “Ah sì? Ad esempio?”
E avrebbe voluto chinarsi su di lui e sussurrargli una delle sue proposte più indecenti, ma lo stato in cui versava non gli consentiva esattamente di prendersi troppe libertà. Il suo fisico era provato, si sentiva debole, troppe notti insonni passate a servire clienti anziché riposare. “Vienimi a trovare una di queste sere, quando sarò di nuovo in forma, e lo scoprirai.”
“Grazie della proposta ma sono costretto a declinare.” replicò tranquillamente il biondo allontanandosi per un attimo dal capezzale dell’altro per chinarsi a raccogliere quello che gli era caduto dalle braccia per afferrare in tempo Sherlock.
“Che cosa sono?”
“Antidolorifici e uno spray contro il raffreddore, anche se ammetto che la tua voce nasale è davvero meravigliosa.”
“La pianti? Hai deciso di attaccarmi stamattina perché sono più debole.”
“Non sono così scorretto, anche se, per ora, mi sto divertendo abbastanza a farlo.”
“Dio, se solo fossi così audace e impertinente anche a letto…”
Andy sospirò, prima di passargli un bicchiere con dentro sciolta una pastiglia che Sherlock studiò dubbioso. “Sono un medico. So quello che serve per buttare giù un po’ di febbre. La gola come va?”
“Un po’ meglio.” mentì buttando giù il disgustoso intruglio e cercando di raddrizzarsi per il dolore alla schiena che lo fece appena gemere. “Che male-” masticò tra i denti serrando un occhio.
“Se ti fa male, perché ti sei alzato?”
Sherlock si aggrappò con lo sguardo ad una delle tante pieghe del suo lenzuolo, improvvisamente consapevole di essere andato nel panico al pensiero che l’altro potesse essere in pericolo. “Credevo fossi andato da qualche altro dipendente per sfogare le tue insoddisfazioni sessuali che, credimi, si vede che sono tante. Così sono accorso per dirti che io ero disponibile.”
“Non la smetti mai di flirtare? Neanche quando sei da raccogliere con un cucchiaino per qualche linea di febbre? E non è vero che sono sessualmente insoddisfatto.”
Sherlock gli rivolse un sorrisetto diabolico. “Ora che ho visto il tuo lato premuroso di medico sono ancora più intrigato al pensiero di fare sesso con te. Ah, e, a proposito, lo sei eccome. Insoddisfatto, dico.”
Andy scosse la testa, allungandogli un cucchiaino su cui vi era qualche goccia di un secondo intruglio e, di nuovo, si costrinse a tenere le domande e i dubbi per sé e a fare quello che il dottore gli prescriveva di fare. “Dove l’hai presa tutta questa roba?”
“Oh, il tuo amico, quello dai capelli biondi…”
“Victor?”
“Sì, lui. Mi ha portato in quell’infermeria a cui accennavi.”
“Ti ha corteggiato?”
“Naturalmente. E’ una scommessa, per caso? Su chi mi porta a letto prima? No, perché, se così fosse, mi spiace ma le donne sarebbero nettamente avvantaggiate.”
Sherlock ridacchiò, sistemandosi meglio il cuscino dietro la testa. “Oh, Andy, hai trascorso parte della serata con un’Irene Adler agguerrita e seducente e non hai ceduto. E poi io sto per vincere.”
Andy inarcò un sopracciglio. “Non mi pare proprio.”
“Contando che fino alla fine di questa settimana sarò occupato a rimettermi in sesto, dammi quella successiva e per il weekend ti avrò portato a letto.”
“Non mollerai, vero?”
“No, sono piuttosto testardo, soprattutto quando qualcuno mi resiste.”
Calò qualche istante di silenzio in cui si scambiarono fugaci occhiate di dubbia interpretazione per entrambi: il medico che non faceva che alzare la manica della giacca per controllare l’orologio, come colto da un qualche tic nervoso e Sherlock che sfregava febbrilmente il pollice contro il medio della mano sinistra.
“Puoi andare.”
“Come?”
“Hai un appuntamento, probabilmente lavoro.”
“Sì, beh, effettivamente è ora che vada, ma se vuoi posso fare una telefonata e avvertire che-”
Sherlock scosse il capo, alzando la mano destra in segno di tacere. “Non serve, davvero. Se dovessi aver bisogno di qualcosa, ci penserà Victor, anche se…”
“Anche se cosa?” gli fece eco Andy corrugando la fronte, ormai probabilmente assuefatto alle sue uscite.
“Anche se potrei aver bisogno di un consiglio da parte di un esperto, di uno del campo, capisci? Anche, magari, solo da casa.” I suoi occhi luccicavano appena di malizia. “Magari, non so, potrebbe servirmi il recapito telefonico di un medico, magari di uno abituato ad intervenire tempestivamente grazie ad una lunga esperienza militare in Afghanistan, che conosca la strada per arrivare qui se la situazione dovesse peggiorare e – ma sì, perché no? – che sia anche biondo, con occhi azzurri, di aspetto gradevole e ben… equipaggiato.”
Andy sgranò gli occhi a quell’ultima parola, mentre gli occhi di Sherlock osavano correre al cavallo dei suoi pantaloni. Si affrettò ad incrociare le gambe e sbuffò esasperato, mentre gli chiedeva un foglietto di carta, ignorando volutamente le sue allusioni. Era veramente, veramente divertente conseguire quelle piccole vittorie con un uomo tutto d’un pezzo come quello che si ritrovava di fianco: frustrarlo, esasperarlo, metterlo in imbarazzo era quanto di più esilarante e soddisfacente avesse mai fatto. Lo osservò scrivere frettolosamente sul pezzo di carta che gli aveva porto, recuperandolo da un cassetto del comodino di fianco al letto, e infine mettere il tappo alla penna e piegare nuovamente il foglietto in questione.
“Ecco.” disse Andy allungandogli il pezzetto. “Ti ho dato il numero di una mia collega, per ogni emergenza.”
“Allora credo che non avrò alcuna emergenza.”
“Naturalmente.” concordò sveltamente il medico sorridendo e alzandosi dalla sedia. “Devo proprio andare, adesso. Mi raccomando: assoluto riposo.”
“Sì, mi prenderò la serata libera.” sbuffò in risposta Sherlock come un bambino a cui viene fatta la solita noiosa raccomandazione. “Passerai?” chiese poi con una punta di speranza.
“Forse.”
“Così non vale: o sì o no.”
Il sorrisetto dell’ex militare si allargò ancora di più, rivelando i suoi denti candidi. “Solo il tempo può dirlo, Sherlock.”
Si guardarono alcuni istanti con gli occhi di entrambi che luccicavano appena di divertimento. Quello che si stava creando fra loro non era un rapporto ordinario, comune, c’era qualcosa di completamente folle e, perché no, sbagliato forse. Il divertimento che provavano reciprocamente nello stuzzicarsi era appagante, liberatorio, bellissimo. C’era qualcosa di malsano, forse, nel loro modo di relazionarsi, ma a nessuno dei due, in quel momento, importava.
“Allora ci vediamo, Sherlock.”
“Ci sentiamo presto, Andy.”
E, dopo un ultimo, muto scambio, Andy aprì la porta e uscì. Sherlock si ritrovò a sorridere come un adolescente. Era terribilmente stupido il modo con cui si ridicolizzava di fronte a quel biondino stoico. Non era mai stato rifiutato da nessuno, eppure Andy lo faceva e questo non faceva che aggiungere legna al fuoco che crepitava nel suo petto.
“Andy…” sussurrò, gustando il sapore di quel nome fra le labbra. Scartò il pezzetto di carta e su di esso trovò in grande il nome di quella dottoressa che il medico gli aveva menzionato e sotto il numero. Allungò nuovamente la mano per aprire il cassetto del suo comodino e ne estrasse il cellulare, componendo velocemente quelle cifre sulla tastiera e premendo il tasto verde. Due squilli, infine una voce gracchiò sì?
“Buongiorno, parlo con la dottoressa Sawyer?” chiese mordicchiandosi le labbra schiuse in un sorriso.
“Sarah è in ambulatorio al momento, ma può riferire a me.”
“Oh, credevo che questo fosse il suo numero di cellulare.”
“E invece no.”
“Capisco, allora mi scusi tanto, anche se la colpa è principalmente di quell’idiota che mi ha dato questo numero.”
“Non si preoccupi, il mondo è pieno di idioti. Le serve qualcosa? E’ un’emergenza?”
“No, non è un’emergenza ma credo che… avrò spesso bisogno di contattarla. Per consigli medici, s’intende.”
“Certo, il mio telefono è acceso ventiquattrore su ventiquattro.”
“Anche la notte?”
“La notte solitamente dormo e il cellulare, acceso o no, fatico a sentirlo. Scusi, lei la notte che fa?”
“Non sono certo vorrebbe saperlo nel dettaglio… Diciamo che per questa notte, aspetterò trepidante la visita medica.”
“In tal caso, credo che quella che verrà sarà una nottataccia.”
“O magari una notte indimenticabile... Non le sto creando disturbo, vero?”
“Assolutamente, ma sto andando a lavoro, quindi fra poco dovrò riattaccare.”
“Ovviamente, e posso sapere dove si trova adesso?”
“Non è esattamente un luogo appropriato e che sono fiero di frequentare.”
“Dev’essere un luogo davvero disdicevole.”
“Lo è davvero, in particolare quelli che ci lavorano.”
“Sul serio? Cos’hanno fatto, l’hanno importunata?”
“In più di uno, sì.”
“E fra questi c’è anche qualcuno degno di nota?”
“Forse qualcuno, sì.”
“E chi è?”
“Una donna molto bella e seducente. Irene Adler, non so se ha idea di chi sia.”
“Oh, sì, ne ho sentito parlare. Dicono che sia una donna tanto bella quanto infida. Io rivolgerei l’attenzione su qualcun altro.”
“Peccato che non ci sia nessun altro di interessante, allora.”
“Beh, avrei anche un rimedio. Che ne dice di passare, per quella visita famosa, verso le undici e mezza stasera? Conosco qualcuno che sono certo le piacerà.”
“Mi ha incuriosito, ma non so se avrò modo di venire.”
“Ti aspetto. C’è sempre posto.”
“Abbiamo cominciato a darci del tu? Non è molto professionale.”
“Al diavolo la professionalità. Non credo di aver capito il tuo nome.”
“Perché non l’ho detto: sono il dottor Andy Rose.”
“Lieto di conoscerti, dottor Rose.”
“E tu?”
“Sherlock. Sherlock Holmes.”
Per qualche istante, dall’altra parte della cornetta fu solo silenzio, tanto che Sherlock dovette controllare se la chiamata fosse ancora in corso.
“Pronto? Signor Rose, sei lì?”
“Sì, sì, sono qui… Devo andare, ho la batteria del telefono quasi scarica.”
“Posso mandarti qualche messaggio per tenerti regolarmente informato delle mie condizioni?”
“Sì, certo… Allora, a risentirci, signor Holmes.”
“A risentirci, dottor Rose.”
Quando l’altro buttò giù, Sherlock si ritrovò a fissare con aria dubbiosa lo schermo scuro del cellulare. Era avvenuto qualcosa, durante quella conversazione. Qualcosa che non aveva capito. C’era stato un cambiamento repentino nella voce e nei modi di Andy. Si interrogò sulla ragione, ripensò alle sue parole, ma gli parve che niente che avesse lasciato le sue labbra potesse portare il medico a cambiare in modo tanto repentino atteggiamento. Infine, dopo una decina di minuti trascorsa a crogiolarsi in quelle domande senza risposta, riprese nuovamente il telefono e digitò un breve messaggio:
 
Non abbiamo un termometro. Stasera avevo intenzioni di misurarmi la febbre…
 
Attese la risposta, ma quando Victor bussò alla porta ed entrò con in volto il suo sguardo preoccupato e severo, ancora questa non era arrivata.
“Ehi, Angelo nel paese delle meraviglie.” lo richiamò l’amico sprofondando sulla sedia che, fino a poco prima, aveva ospitato Andy. “Quando torni dal tuo Mind Palace o come cavolo si chiama, ti ho portato una poltiglia di biscotti che potrebbe darti un po’ di energia.”
Ma Sherlock non rispose né tantomeno accettò il piatto che Trevor gli stava offrendo. Mantenne lo sguardo fisso di fronte a sé, prima di farlo scivolare in alto, ad un angolo della stanza, dove l’occhio di Moriarty, attraverso una telecamera, lo stava spiando. Assunse un’espressione dura e indifferente, timoroso che Jim potesse farsi una strana idea su Andy e sul loro rapporto. Per qualche ragione, ora temeva che, oltre a lui, quel pazzo potesse far del male anche al medico militare e questo non poteva permetterlo, non quando era lui ad aver cominciato quel gioco dalla fine dubbia. Avrebbe combattuto contro Moriarty, fosse l’ultima cosa che faceva.

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SPAZIO AUTRICI
Salve a tutti! Scusate l'ora ma pubblicare prima non ci è stato possibile *si erano dimenticate cof cof* e quindi siamo riuscite solo adesso a sistemare tutto per bene *bugiarde cof cof*.

Come annunciato, ecco il cambio di POV, con il nostro Sherl a narrare i fatti. Sorpresa delle sorpresa, ecco Moriarty! NO, MA CHI L'AVREBBE MAI DETTO... *patetiche cof cof*. Ed è un Moriarty un po' particolare, da un certo punto di vista, perché è sì sempre pazzo, ossessionato con Sherlock, piuttosto sadico e non esattamente equilibrato, ma è anche un Moriarty che, in qualche modo, c'entra profondamente col passato di Sherlock e con la ragione per cui Sherlock è entrato nel brutto giro di droga, bordello e quant'altro... Chissà che sarà successo... 

Poi, ovviamente, essendo narrato dal punto di vista di Sherlock, John non verrà chiamato John ma Andy - penso che ci siamo arrivati tutti, bene o male, ma è sempre meglio specificare. Andy... E' piuttosto triggherato il nostro piccolo Sherlock, diciamo che questo medico militare non gli dispiace affatto... Ed è solo l'inizio, gente!

Sherlock e la droga. Un classico topos nelle fanfiction di Sherlock che non poteva mancare. La droga che non è una nuova amica, ma una molto, molto vecchia... E più che avere, in futuro, dei risvolti, ne ha avuti in passato, ma arriveremo anche a questo, non temete. Tra l'altro anche Victor non poteva mancare accanto a Sherlock. Ma sarà un possibile rivale di John alias Andy? Sarà un semplice amico spinto dal solo amore fraterno per Sherlock? Sarà un personaggio che, inzialmente, si mostra carino e gentile e poi calerà la maschera sul più bello? Non lo sappiamo... *false*, traete le vostre conclusioni...

Il corteggiamento di Sherlock è spudorato e pressante. Sherlock da un lato odia ma dall'altro ama venire rifiutato. Crede che Andy sia solo la classica bambolina da ammliare e poi da portare a letto solo per sentirsi fiero di se stesso... O meglio, questo è quello che piace pensare a lui. Con Andy sta bene, l'abbiamo capito tutti, persino lui, ma non può neanche lontanamente immaginare a cosa tutto questo lo porterà... E credetemi, neanche voi *eheheheh*

Scusate di nuovo per l'orario. Speriamo questo capitolo vi sia piaciuto e vi salutiamo, rimandandovi alla prossima domenica. OH YES!

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Capitolo 3
*** Can I Kiss You? ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 

Can I Kiss You?
 
 
“Mycroft Holmes.” tuonò irrompendo nello studio del capo dell’MI6, seguito da un paio di uomini dall’aspetto truce che serrarono le mani attorno alle sue braccia non appena si fu fermato. “Holmes. Le dice niente questo cognome, Mycroft?”
Mycroft, che aveva alzato lo sguardo dal documento che stava studiando, inarcò un sopracciglio, la fronte aggrottata in un’espressione pensosa. Gli agenti addetti alla sua protezione, fecero per trascinare via John, ma a quel punto Holmes alzò una mano e chiese che rimanessero soli.
Holmes.” riprese allora John avvicinandosi lentamente alla scrivania dietro cui sedeva il suo capo. “Non è un cognome comune, di certo non come Smith o… Green. Mycroft. Nome particolare, non paragonabile certo a John, ma a Sherlock… Sherlock Holmes. Le dice niente questo nome?”
Mycroft sospirò, sistemandosi più comodamente sulla sedia e intrecciando le dita davanti a sé. “Temo di sì.”
“Chi è?”
“Mio fratello.”
Un sorriso sbigottito illuminò sinistramente il volto di John. “Suo fratello? Sul serio? E lei non mi ha informato che suo fratello lavorava in quel bordello prostituendosi? Cos’è, si vergogna di lui?”
“No, affatto. Stavo solo proteggendo la riuscita dell’operazione.”
“Da chi?”
“Da te.”
John gli puntò addosso uno sguardo allibito. “Da me? E perché mai? Sentiamo.”
Mycroft sospirò e si versò in uno dei suoi bicchieri di cristallo del whiskey, rimandando al primo colloquio avuto con lui. “Dicendotelo, avrei rischiato di metterti nella posizione di prestare più attenzione a mio fratello che alla missione in generale.”
“Non ne vedo il motivo.” ribatté seccamente.
“Per comprarmi.”
John scoppiò a ridere, una risata amara e allucinata. Stentava a credere che quell’uomo avesse davvero proferito simili parole. Ma per chi l’aveva preso? Per uno scalatore sociale? Per un ruffiano? Era davvero così che il suo capo lo vedeva? “Se è questo che pensa di me, signor Holmes, allora non ha la minima idea di chi abbia al suo servizio.” sputò acidamente alla fine. “Io tengo allo smantellamento di quel posto come e forse più di lei. Io ho visto com’è lì. Ho visto come la gente si lascia comprare, come rendono i loro corpi degli oggetti. E’ ripugnante il modo in cui gli stessi dipendenti credono in quello che fanno e scommetto tutto quello che ho che chiunque sia dietro a tutto questo abbia fatto il lavaggio del cervello ad ognuno di loro, suo fratello compreso. E mi creda, signor Holmes, che non ci potrebbe essere niente, niente che possa destarmi dalla mia missione, neanche tirar fuori da quella merda Sherlock solo perché le è congiunto. Sono stato chiaro?”
Mycroft taceva e lo fissava con occhi affilati. “Avevamo appuntamento mezz’ora fa.” se ne uscì infine sporgendosi in avanti e appoggiando i gomiti sulla scrivania.
“Mi sono attardato al Morningstar.”
“Perché?”
“Indagini.” Holmes attese alcuni secondi e John capì perfettamente che sapeva che stava mentendo, ma per questo gli appoggiò sulla scrivania, senza troppa grazia, il block-notes su cui aveva segnato ogni singola informazione che aveva a sua disposizione. “Quel posto è disseminato di telecamere, perfino nelle stanze dei dipendenti.”
“In cui sei, dunque, entrato.” osservò Mycroft con un sorrisetto allusivo mentre sfogliava le pagine del taccuino.
“In quel locale si va da semplici balli erotici al palo” continuò ignorando il commento del superiore. “alla prostituzione. Il tizio che serve al bar, Bill Wiggins, è un tagliaborse di professione, l’ho beccato più di una volta arraffare qualcosa dalle tasche di un cliente, così una sera l’ho seguito in giardino mentre chiamava qualcuno al telefono. Nel corso della telefonata, ha comunicato al tizio in questione di essere stanco di servire cocktail e di fare qualche piccolo borseggio, e di volersi reintegrare nel circolo di quelli che fanno i grandi colpi. Credo che sia lì come una qualche punizione, ma non so altro. Ho aggiunto, al fascicolo dei dipendenti, il profilo di Victor Trevor e-”
“Victor, sì. Mio fratello e lui sono sempre stati legati, fin da bambini. Non mi stupisce che si sia fatto trascinare in quel posto da mio fratello.”
“Non pensa possa essere il contrario?”
“No, Victor dev’essere lì da poco: i miei informatori non l’hanno mai incontrato o, se l’hanno fatto, non gli hanno dato importanza.”
“Crede che allora svolgesse un altro lavoretto all’interno del Morningstar?”
“Probabile. E ha ottenuto una promozione. Ricompense e punizioni, un vero e proprio sistema scolastico. Se hai fatto i compiti con diligenza vieni premiato, se invece hai sgarrato sei fottuto.”
John annuì un paio di volte. “Indagherò più approfonditamente su Wiggins e Trevor. Ora, la droga.”
“La droga?”
“Ho il sospetto che i dipendenti possano usufruirne quando e come vogliono, probabilmente all’interno del locale vi è uno spacciatore fisso, magari della cerchia, che vende loro dosi.”
Mycroft sorrise con amarezza. “Un ritorno di fiamma, eh Sherlock?”
“Faceva uso di droga?” domandò allora John frenando il anche prima di entrare lì dentro.
“Purtroppo sì. Poco prima che sparisse dalla circolazione, probabilmente finendo al Morningstar, era un abituale consumatore di cocaina e morfina.” Sospirò. “Più di una volta l’ho ripescato da un vicoletto lurido completamente imbottito di quelle schifezze.”
John ripensò alla sera prima, a Sherlock completamente sballato da chissà quale droga, alla rabbia mista a preoccupazione di Victor Trevor… Strinse i pugni. Avrebbe dovuto parlare con Sherlock di quell’argomento, tentare di carpire qualche informazione e, contemporaneamente, di farlo desistere dal consumare la droga. Sentiva, forse sbagliando, di essere qualcosa per Sherlock, uno dei pochi a cui portava rispetto, di avere un qualche ascendente su di lui.
“Per quanto riguarda il capo dell’organizzazione?”
“Sono ancora in alto mare, purtroppo.”
“Capisco…” mormorò infine Mycroft. “Hai interrogato qualcuno?”
“Ho tentato, ma probabilmente ho scelto le persone sbagliate. Ho già in mente qualcuno a cui rivolgermi.”
“Bene. C’è altro?” John scosse la testa. “Ottimo. Direi che abbiamo finito, John. Ti ringrazio per la tua solerzia e per… il tuo spirito giusto. Ti avevo sottovalutato.”
“Non importa, signore. Le chiedo solo di non tenermi all’oscuro di altri particolari che potrebbero facilitarmi nella mia missione.”
“Senz’altro.”
John si volse e fece per uscire, quando la voce di Mycroft lo richiamò.
“Potrebbe descrivermi mio fratello?”
Sbatté un paio di volte le palpebre, infine si volse totalmente verso il suo superiore. “Beh, lui è… incredibilmente strafottente e testardo, quando si mette in testa qualcosa pur di ottenerla tende a rendersi ridicolo, ed è… geniale nonostante sia un idiota, tende a nascondere la sua fragilità nonostante abbia bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui e… beh, credo sia tutto.”
Il viso di Mycroft celava un sorriso soddisfatto. “Sembra conoscerlo bene.”
“Io e lui… abbiamo parlato e siamo diventati, in un certo senso, amici.”
“Sai, John, tu potresti tirare fuori da mio fratello il meglio.” L’angolo destro della bocca di John guizzò automaticamente verso l’alto. “… o renderlo peggiore che mai. A te la scelta, John.”
L’agente, sbigottito, annuì un paio di volte tra sé e sé, infine si voltò ed uscì.
 
 
La sua casa gli sembrava incredibilmente vuota. Così grande, così bella, così solitaria. Gli era familiare quella sensazione, quella claustrofobia che lo attanagliava una volta solo fra quelle splendide mura. Aveva bisogno di uscire, di respirare Londra, di ascoltare il suo cuore pulsante, di trovare conforto in un paio di pinte in un pub o in un una partita di football della sua squadra del cuore… Ma era sempre così poco risolutivo. Quando, la sera tardi, ritornava a casa e si sdraiava nel suo letto, il malessere tornava e gli pareva come se il soffitto si abbassasse sempre di più, richiudendosi su di lui come la parte superiore di una bocca mastodontica. E lo fece anche quella sera. Si stese lungo, i vestiti ancora addosso, il bianco delle pareti, del pavimento, del soffitto che dominava dittatorialmente e lo accecava. Forse era a causa del bianco che si sentiva così. Il bianco corrispondeva al nulla, al vuoto, all’inesistenza. Il bianco era l’insieme di tutti i colori eppure era niente. Ma stentava a credere che tutto quello si sarebbe cancellato con una verniciata alle pareti.
Sherlock indossava una camicia bianca la notte prima. Non seppe come la sua mente fosse arrivata a fare quel collegamento, come potesse ricordarsi un simile dettaglio di così poca importanza… Però Sherlock indossava una camicia bianca. Anche le lenzuola del suo letto erano bianche. E il comodino da cui aveva tirato fuori il foglietto di carta…
Si ritrovò a sorridere senza alcun motivo, mentre allungava automaticamente la mano verso il suo cellulare, nella tasca della giacca abbandonata sulla sedia accanto al letto. Sulla barra delle notifiche, un messaggio.
 
Non abbiamo un termometro. Stasera avevo intenzione di misurarmi la febbre… SH
 
Riconobbe immediatamente quel tono di indifferenza, quella concisione. Lo conosceva da pochissimo, aveva passato con lui poche ore, eppure già si vantava di conoscerlo appena un po’. Sherlock. Forse era una cattiva idea quella di andare al Morningstar, quella sera. Aveva intenzione di fare delle ricerche negli archivi dell’MI6, trascorrere l’intera nottata a spremersi le meningi di fronte allo schermo del computer… Ma in fondo, che male c’era? Doveva indagare su quel locale, tanto valeva farlo sul campo, o no? Si diede dell’idiota mentre si rialzava e afferrava prontamente la giacca, buttandosela addosso. Il vuoto era scomparso. Un calore estraneo gli ribolliva in cuore. Era bella quella sensazione e avrebbe voluto provarla tutti i giorni della sua vita.
 
 
Le luci della discoteca del locale lo accecarono e la musica lo assordò. Si guardava intorno nervosamente, accarezzando con i polpastrelli della mano sinistra il termometro che aveva infilato in tasca. Dopo la prima sera, aveva trascorso molte altre notti in quei paraggi, avvicinandosi con banali scuse e facendo qualche domanda ai clienti più ubriachi che la mattina dopo non si sarebbero neanche più ricordati di lui. Aveva raccolto molto poco. Gli unici che potevano dargli delle risposte erano i dipendenti stessi. Nonostante tutte quelle serate, ancora non riusciva a sentirsi a proprio agio, lì dentro. Con quelle ragazze e quei ragazzi che ballavano e si spogliavano, lasciando che mani sconosciute infilassero nelle loro mutande degli extra…
Sospirò amaramente. Mentre camminava, scorse Irene Adler, seduta al bancone del bar intenta a parlare con un uomo. John, allora, si fermò. Non sembrava un cliente, o almeno non dall’espressione di lei – grave, attenta, intimorita. Un’idea incredibilmente chiara e nitida svettò nella mente di John. Era lui. Ce l’aveva in pugno. Il capo di tutto quello. Pregò che si voltasse, che palesasse il suo viso, che gli permettesse di imprimerselo in mente, ma quando quello si girò, guardandosi intorno con aria sospettosa, l’adrenalina gli si spense in petto. Sebastian Moran. Nient’altro che un dipendente, il cui viso l’aveva scorto tra le pagine del fascicolo dei lavoratori. Pestò il piede a terra e riprese a camminare in direzione delle scale che lo avrebbero condotto alla ormai conosciuta strada per la camera di Sherlock.
All’improvviso, distratto com’era dai suoi pensieri, urtò una figura esile che a stento, dopo il contatto, si mantenne in piedi.
“Oddio, mi scusi… Scusi tanto.” annaspò avvicinandosi alla ragazza contro cui aveva appena sbattuto.
“Scusi lei. Ero persa nei miei pensieri.” replicò lei, sorridendogli caldamente.
John fece per replicare qualcosa, ma i suoi occhi vennero catturati dal corpo di quella biondina, quasi totalmente nudo, rivestito solo da un babydoll aperto sul ventre e quasi del tutto trasparente sul seno. “I-io…” farfugliò improvvisamente imbarazzato.
“Oh, mi scusi, io… Cielo, è così imbarazzante.” biascicò in risposta lei abbracciandosi la parte di pelle scoperta e abbassando lo sguardo. “Insomma, sono abituata a farmi guardare quando lavoro, ma… beh, mi stavo andando a cambiare e non credevo di imbattermi in qualcuno… Sono tutti ubriachi o impegnati a guardare i colleghi…”
“Oh, q-quindi tu balli?”
“Sì… Sai, una volta lavoravo come semplice barista, poi mi è stato offerto questo posto, l’affitto del mio appartamento è caro…”
Calò il silenzio mentre si scambiavano occhiate sfuggenti e imbarazzate, infine, John si sfilò la giacca e la posò delicatamente sulle esili spalle della ragazza che gli rivolse un sorriso sollevato e grato. “Che maleducato, non mi sono presentato.” si affrettò, dunque, a dire tanto per spezzare il silenzio. “Il mio nome è Andy.”
“Mary.” rispose lei stringendo la mano che le aveva appena porto. “Mi spiace solo di incontrarla nelle mie… condizioni.”
“Si figuri, io sono… abituato a peggio.” Ma di fronte all’espressione stupita e, forse in parte, inorridita di lei, si pentì immediatamente delle sue parole. “Intendo che da quando sono qui sono stato avvicinato da almeno cinque persone che non hanno fatto altro che cercare di portarmi a letto con allusioni piuttosto esplicite. Quindi lei non ha assolutamente nulla di cui vergognarsi, mi creda.”
“Oh, certo... Beh, capisco l’interesse che ha spinto i miei colleghi ad avvicinarsi a lei.” rispose Mary, mordicchiandosi appena il labbro inferiore, con gli occhi che indugiavano nei suoi. “E lei è qui per… insomma, usufruire dei servigi del personale?”
“Io? No, assolutamente no! Sono un medico e uno dei vostri si sente poco bene.”
“Oh, l’Angelo, sì.”
“Lui, esatto.”
“Lo ha mai incontrato di persona?”
“Sì, due volte. Siamo diventati, più o meno, amici.” La risata della ragazza lo colpì come un fulmine a ciel sereno. “Cos’ho detto di tanto divertente?”
“Oh, no, mi scusi! E’ che l’Angelo non ha amici, a parte Victor forse, anche se girano pettegolezzi sul loro conto… Ma amici al di fuori di questo posto… assurdo.”
“Perché le pare tanto strano?” chiese ancora John, ma la sua mente si era momentaneamente estraniata dalla conversazione per contemplare l’idea che Sherlock e Victor condividessero di più. Perché no? Entrambi erano uomini assai affascinanti, schietti, erano cresciuti insieme e stavano affrontando quell’avventura insieme… Perché non ci aveva pensato prima?
“Beh, non dovrei parlare male dei miei colleghi, ma credo che dovrebbe stare in guardia con lui. E’ uno psicopatico. Lei, forse, non lo conosce ancora e si illude di poter essergli amico, ma si ricordi che l’Angelo non rende conto a nessuno e non tiene a nessuno. Lui non ha sentimenti. Pensi che è entrato qui dentro scopandosi il capo, ci crederebbe?”
“Lui e il vostro capo stavano insieme prima che iniziasse a lavorare qui?”
Mary scrollò le spalle. “Sono voci di corridoio, ma questa è una delle più affermate. Poi il capo si è stufato del suo giocattolino e se n’è preso uno nuovo.”
“Chi?”
La ragazza, con un cenno del capo, indicò Irene e Moran seduti fianco a fianco al bar, ancora intenti a conversare di chissà cosa, con espressioni gravi. “Sebastian. Probabilmente non si oppone quando il capo gli percorre il corpo con un pezzo di vetro.”
“Sadico?”
“Per dire un eufemismo.” sospirò Mary ravviandosi i lunghi capelli biondi, i suoi occhi persi in mezzo alla pista da ballo.
“Faceva questo anche con… l’Angelo?”
“Si dice facesse anche di peggio. Ma ripeto, sono solo voci. E’ il gossip a ravvivare un po’ questo posto. Cose inutili, barzellette, qualche drink e questo posto di appare meno merdoso.” La ragazza si legò i capelli con l’elastico che portava al polso. “Ad ogni modo, le va di prendere qualcosa? So che deve visitare l’Angelo, ma le assicuro che sarebbe questione di pochi minuti.”
Il sorriso di Mary era genuino, il suo viso candido, i suoi occhi radiosi. Era raro incontrare qualcuno del genere in quella gabbia di maestri del sesso e della seduzione. Quella ragazza sembrava una bambina, una creatura innocente catapultata lì per caso, a disagio nello scambiare qualche parola con uno sconosciuto, in deshabillé, ma sfrontata nel ballare di fronte ad una folla adorante. E poi, sì, era bella ed immensamente gentile e piacevole. Gli sarebbe piaciuto passare del tempo con lei, conoscerla, e cavarle fuori di bocca altre informazioni preziose come quelle che gli aveva fornito quel giorno. A quel pensiero, il viso di Sherlock gli inondò la vista. Pensò alle parole di Mary, alla relazione che quello aveva intrattenuto col capo, alle esigenze di quest’ultimo… Doveva andare da lui. “Veramente io… devo andare, sono già in ritardo. Ma un’altra di queste sere mi farebbe molto piacere.”
“Ma certo. Domani è il mio giorno libero, però dopodomani sarebbe perfetto, che dice?”
“Dico che va benissimo. A che ora finisce il turno?”
“A mezzanotte e mezza.”
“Bene, allora mi terrò libero e mi farò trovare qui.”
Mary annuì, il sorriso che le si allargava ancora di più. “Bene, allora… a dopodomani, Andy.”
“A dopodomani, Mary.”
Si avviò verso le scale con la testa fra le nuvole, rivolta a quella ragazza dai modi così posati e gentili. Una fiore raro nel bel mezzo di una steppa brulla. Ed era stato bello. Più volte si era chiesto se il vuoto che provava a casa, rigirandosi nel suo letto, fosse dovuto alla sua solitudine, alla sua mancanza di una relazione vera tempi immemori. Quella ragazza lo aveva affascinato in pochissimo tempo, un po’ come Sherlock, ma con Sherlock era diverso, visto che lo vedeva solo come un uomo mortalmente interessante e divertente, come un amico.
“Andy!” lo riscosse una voce alle sue spalle.
“Mary?”
“Sì, ecco… la giacca.”
“Oh, che sbadato. Scusa, non me n’ero accorto.”
“Figurati e… grazie ancora.”
John le rivolse un ultimo sorriso. “Arrivederci.”
“Arrivederci.”
 
 
Arrivato di fronte alla camera, alzò la mano già serrata in un pugno, pronta a bussare, quando l’anta venne improvvisamente spalancata, rivelando la figura pallida e smunta di Sherlock, i capelli sudati che gli ricadevano ribelli sugli occhi acquamarina e un sorriso sghembo ad illuminargli distortamente il volto.
“Sei venuto.” sussurrò quello flebilmente, come se fosse un sogno e avesse paura di rovinare tutto solo parlando.
“Sì, ecco… ti ho portato il termometro.”
“38 e 6.”
“Come, scusa?”
“Ho 38 e 6. L’ho già misurata.”
John sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Quindi ce l’avevi già.”
“Naturalmente, quale stupido non ha un termometro?”
Incrociò le braccia e puntò sull’altro uno sguardo torvo, nonostante dentro stesse cercando di soffocare l’ennesimo sorrisetto dovuto alle fenomenali uscite di quell’uomo. “Mi hai preso in giro.” sentenziò aggrottando le sopracciglia. “Se avevi già quel maledetto termometro, perché mi hai chiesto di-”
“Facciamo sesso, Andy.” lo interruppe il moro con sguardo intenso e facendo un passo avanti, arrivando a pochi soffi dal viso dell’altro.
“Stai diventando ripetitivo.” sospirò allora John, per niente a disagio di fronte a quella vicinanza. “E comunque no, Sherlock. La mia risposta non cambia.”
“Ora sei tu quello ripetitivo. Uno dei due, prima o poi, dovrà smettere di esserlo.”
“E non sarò certo io.” completò con un mezzo sorriso e prendendosi un attimo per contemplare l’uomo davanti a sé: era diverso da quello che aveva conosciuto la notte di sotto al piano bar, non vestiva elegantemente, non teneva i ricci accuratamente pettinati, ma indossava una semplice maglietta di cotone grigia e un paio di pantaloni della tuta neri, i piedi scalzi che sfioravano la moquette azzurra. “Non dovresti essere a letto?”
“Sono stanco di starmene a letto senza far niente. Victor mi ha persino portato uno di quegli stupidi rebus dei giornali risolvibili in ottantasette secondi.” sospirò il moro lasciandogli lo spazio per passare ed entrare in camera.
“Quello è cluedo?” chiese John indicando la scatola del gioco da tavolo sulla sedia accanto al letto.
“Cosa… Ah, sì. Che gioco idiota!”
“Cos’è, sei riuscito a capire la soluzione del gioco dopo due mosse per tre turni consecutivi?”
Sherlock si passò una mano fra i ricci corvini, un’aria esasperata in volto. “Non c’è nessun assassino, Andy. Le regole sono sbagliate, deve trattarsi per forza di suicidio o magari la vittima ha dovuto fingere il suicidio perché minacciata da un qualche-”
“Va bene, va bene, ho capito. Cluedo non rientra fra i tuoi giochi preferiti.” lo interruppe sventolando una mano di fronte a sé. Sherlock si infilò le pantofole, al lato del letto, e si avvicinò nuovamente alla porta della sua stanza, ma quando comprese che l’altro non lo stava seguendo si volse. “Beh, non vieni?”
“Dove?”
“Sono stato chiuso qua dentro per un giorno intero, sono sfinito e ho bisogno di fumare una sigaretta in santa pace. Mi accompagni o devo andare da solo? Ma ti avverto, dottore, sono piuttosto debole e se dovesse succedermi qualcosa in tua assenza non te lo perdoneresti mai.”
John sbuffò e, ripreso il giubbetto, seguì il moro in corridoio e poi giù per la scala di emergenza che conduceva all’esterno, utilizzata, a detta di Holmes, dal personale per uscire senza dare troppo nell’occhio ed essere disturbati.
Il giardino che si apriva sul retro del locale era immenso, con aiuole curate e persino cespugli lavorati nelle forme di animali o di gnomi. John si guardava intorno ammirato da tutta quella perizia nel badare ad uno spazio che, sempre a detta di Holmes, era riservato prettamente al personale. Seguirono un vialetto ciottolato che dalla scala d’emergenza conduceva fino ad uno splendido roseto. Ad un tratto, udì Sherlock soffocare un gemito e, con la coda dell’occhio, lo osservò portarsi una mano all’addome.
“Dolore?”
“No, no… Forse un po’, ma niente di così insopportabile.”
“Sei pallido. Vuoi reggerti a me?”
“Non vorrei che pensassi che sto fingendo solo per guadagnarmi le tue attenzioni.”
John scosse febbrilmente la testa. “No, affatto.”
“Beh, allora forse dovresti.” sorrise con fare quasi triste Sherlock, mentre portava nuovamente gli occhi davanti a sé. L’agente studiò quel volto cinereo e spigoloso, così simile a quello di una statua greca scolpita nel marmo, così perfetto e così irregolare al tempo stesso. Probabilmente non si era mai esageratamente soffermato a contemplare il viso di un altro uomo come stava facendo ora, ma in fondo non gl’importava, perché la bellezza era qualcosa di visivamente percepibile da tutti, indipendentemente dal sesso e quindi perché preoccuparsi? Ma forse, stava indugiando davvero un po’ troppo sul volto dell’altro…
“La mia bellezza è davvero così magnetica?”
La voce di Sherlock lo fece sobbalzare e solo in quel momento si accorse che si erano entrambi fermati e che si stavano fissando intensamente. C’era sempre qualcosa, nell’intimità di quelle occhiate, che scuoteva qualcosa in lui, qualcosa di caldo e avvolgente. “N-no… Io… mi ero solo incantato a pensare-”
“Spero fosse qualcosa di molto erotico e che lo scenario prevedesse me e te insieme.”
“Smettila.”
“Mai.” Con un sorrisetto malizioso, Sherlock alzò la mano e la tese verso di lui. “Effettivamente, ora che ci penso, sono un po’ debole. Ti dispiacerebbe darmi un piccolo supporto?”
“Vuoi che ti tenga la mano?” esclamò John sbattendo ripetutamente le palpebre. “Assolutamente no.”
“Cristo, Andy, è quanto di più platonico riesca a concepire! Non ti sto chiedendo di metterci a sessantanove, solo di tenerci per mano.”
Una risata cristallina lasciò le labbra di John che si ritrovò, come sempre, a scuotere la testa di fronte alla sfacciataggine di quell’individuo. “Tu sei pazzo.”
“Ti facevo più intelligente, Andy. Avresti dovuto capirlo da un pezzo.” rispose Sherlock ridacchiando a sua volta, mentre le sue dita venivano gentilmente intrecciate a quelle di John.
Camminarono in silenzio per un po’, mano nella mano, in un’atmosfera rilassata, quasi naturale. Era estremamente facile lasciarsi guidare dal passo di Sherlock sicuro ma a tratti più incerto a causa della debolezza della malattia. John si lasciò cullare da quel misto orchestrale di suoni – il vento tra le fronde degli alberi, la musica che giungeva smorzata dalla discoteca, e il respiro un po’ affaticato, per il raffreddore, dell’altro. Si fermarono nel bel mezzo di un roseto che dava su un’ulteriore terrazza affacciata su una Londra illuminata dalle luci variopinte della sera. John, di fronte a quella visione, trattenne il respiro e strinse, inconsapevolmente, appena più forte la mano del moro.
“E’ bellissimo.”
“Lo so. Vengo qui quando ho bisogno di un po’ d’aria e di… staccare un po’ dal resto.”
“E’ una sorta di posto segreto?”
“Diciamo così, sì.”
“E ci porti tutti i tuoi clienti?”
Sherlock sospirò. “Tecnicamente quelli che non fanno parte del personale neanche potrebbero stare qui. Comunque no, non ci porto tutti i miei clienti.” Detto questo, si chinò sul suo orecchio. “Solo i soldati a cui vorrei strappare di bocca il mio nome possedendoli animalescamente.”
L’intero corpo di John avvampò a quelle parole e si ritrasse appena, sotto lo sguardo divertito del moro. “Io non… Davvero, Sherlock, dovresti piantarla con le tue battutine a sfondo sessuale.”
“Non sono battute, è la verità.”
“Non possiamo essere amici se continui a propormi di venire a letto con te, dannazione!”
Gli occhi di Sherlock si ingrandirono appena, entrambe le sopracciglia inarcate e la fronte aggrottata. L’ex soldato osservò con stupore quella scena, attendendo delle spiegazioni, ma il viso dell’altro sembrava aver subito una paralisi completa. “Sherlock?” lo chiamò flebilmente temendo una sua qualche improvvisa ed inaspettata reazione. Il silenzio del moro si protrasse per un’altra buona decina di secondi, finché John non mormorò: “Okay, sta diventando alquanto spaventoso, ora.”
“Quindi…” si riprese Sherlock. “Intendi che io sono tuo… Amico?”
Di fronte a tanta sincera ingenuità, il biondo si sciolse in un sorriso. “Certo che lo sei, Sherlock. Forse sei il mio unico amico.”
“Io non ho mai avuto… amici.”
“Victor?” provò John con voce cupa, quasi timoroso di sentire la risposta.
“No, con lui… con lui è diverso.”
“Oh, certo, ho capito.” farfugliò nervosamente distogliendo improvvisamente lo sguardo e puntandolo sulla Londra notturna che gli si palesava davanti agli occhi. “Quindi… siete una coppia?”
“Cosa? No! Non è diverso in quel senso! No.” si affrettò a rispondere Sherlock scuotendo la testa e creando ondate di ricci scarmigliati a destra e a sinistra. “Lui è più… un fratello, per me. Lo è sempre stato. E sì, saremo andati a letto insieme un paio di volte, ma per noi non ha mai significato niente, per me non ha mai significato niente.”
“Okay, bene, sono contento… Cioè, no… Insomma, mi hai capito.”
“Sì, certo, ho capito… E non so perché io abbia tenuto a specificarlo in quel modo.” osservò con una punta di divertimento il moro.
“Già, neanche io so perché abbia risposto così.” concordò John voltandosi verso l’altro e incontrando il suo sguardo sereno. Improvvisamente, a quel viso, si sovrappose quello emaciato e provato dalla droga, quell’uomo in preda al mondo esterno, bisognoso, solo, alla cui richiesta aveva risposto, legandoglisi inevitabilmente. “Senti, Sherlock… Cambiando completamente discorso, lo sai che circolano delle voci su di te?”
“Ne circolano talmente tante e se tu le ascoltassi davvero non saremmo certo qui a chiacchierare.”
“Non mi riferisco alla storia dell’infallibile seduttore dal volto angelico ma dall’animo diabolico, mi riferisco a due voci in generale.”
“D’accordo, allora. .”
John prese un respiro profondo mentre cercava in sé le parole adatte per cominciare. Ripensò a Mycroft, alla sua visibile preoccupazione, a quella luce malinconica che baluginava nei suoi occhi apparentemente freddi… Avrebbe affrontato quella conversazione anche per lui, per salvaguardare la sanità fisica e mentale di suo fratello minore.
“La droga.” sentenziò infine indurendo appena lo sguardo. “Si dice che prima che entrassi in questo posto, fossi un consumatore abituale e anche… in pericolo.”
Sherlock sospirò senza distogliere lo sguardo dalle luci lontane del centro di Londra. “Vedi, Andy, qui dentro tutto quello che c’è stato prima, il passato non conta. Firmando il contratto per diventare uno spogliarellista, una prostituta o anche solo una donna delle pulizie è come segnare un patto col diavolo. Si rinuncia alla propria vita, alla propria essenza, ai propri ricordi, in cambio dell’eternità.”
“Non credo che l’eternità sia così lunga se continui a prendere quello che prendi al ritmo in cui lo prendi.” ribatté John stringendo i pugni, la voce incrinata dalla rabbia.
“Come fai a sapere… Oh, Victor. E’ stato lui, vero?”
L’agente abbassò gli occhi. “Mi ha detto qualcosa, sì, ma solo perché è molto preoccupato per la tua salute, Sherlock, come del resto lo sono anche io.”
Il moro ridacchiò appena, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni della tuta un pacchetto di sigarette. “Sei un po’ stressato, Andy?”
“Per l’amor di Dio, Sherlock, vuoi prendere questa cosa seriamente? Potresti anche rimetterci le penne!” s’infervorò John avvicinandoglisi appena, sperando che quella prossimità portasse l’altro a voltarsi e a guardarlo in faccia, a scorgere il miscuglio di rabbia, paura e preoccupazione che gli scintillavano nelle iridi color del firmamento notturno.
Ma il moro si limitò a sorridere maliziosamente. “Lo stress rovina tutti i giorni della tua vita, la morte solo uno.” L’ex soldato sospirò, stringendo più forte la presa sulla ringhiera metallica. “E comunque” riprese l’altro cancellandosi dal viso ogni traccia di ironia. “non ne sono dipendente e ho tutto sotto controllo. Anche se non si direbbe, ho studiato, all’università, e mi sono laureato in chimica con il massimo dei voti. So calcolare perfettamente le dosi per alleggerire un po’ i momenti di merda e non diventare un completo drogato.”
John inarcò entrambe le sopracciglia. “Hai tutto sotto controllo? Non mi sembrava esattamente così ieri sera.”
“Ieri sera era diverso, lo ammetto, mi sono lasciato prendere la mano. Ma io ti giuro, ti assicuro che non è mai successo da quando sono entrato qua dentro. Prima era diverso, io… non mi sentivo appartenere a niente e a nessuno, ma ora è cambiato, io sono cambiato.”
“Ti senti parte di questa merda?” sputò John indicando con un ampio gesto del braccio l’edificio alle loro spalle.
“Sì, Andy, mi sento parte di questa merda.” rispose con acidità il moro. “Perché, almeno, in questa merda ho trovato qualcosa in cui sono bravo, in cui la gente mi cerca e mi apprezza.”
“Nella seduzione? Nel sesso? Nei servizietti erotici? Come fai a sentirti parte di un mondo in cui vieni trattato come un oggetto, esposto in vetrina, comprato, usato e poi buttato via per trovare un altro giocattolo?”
Sherlock rise amaramente. “Andiamo, Andy, siamo tutti degli oggetti. Abbiamo il nostro tempo, il nostro impiego e quelli superiori a noi che ci sfruttano come meglio credono. I sentimenti, le emozioni, sono solo un’illusione, non esiste niente di tutto questo, e sai perché?” Ora lo guardava, gli occhi che baluginavano nel buio. John rabbrividì sotto quello sguardo.
“Perché?”
“Perché siamo involucri vuoti che la società riempie con immondizia e ideali che non esistono, modelli che cercano di convincerci di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di qual è la normalità. Non siamo nient’altro che questo, Andy. Scrigni chiusi senza alcun tesoro all’interno.”
Una lieve brezza si alzò su di loro, inghiottendo il silenzio che aveva assorbito quelle ultime parole affilate e, forse, in parte vere. John si trovò a fissare il moro con amarezza, domandandosi come potesse davvero credere a quello che diceva. Anche lui era un cinico, d’accordo, ma a differenza di Sherlock credeva nei sentimenti, nelle emozioni, nell’individualità di ognuno scaturita proprio da quel piccolo particolare che rende chiunque unico nel suo genere e che risiede dentro i singoli. E forse era un idealista, un sognatore, ma preferiva essere così piuttosto che non credere alla vita.
“Che cosa ti ha reso così, Sherlock?” chiese flebilmente.
“Oh, Andy, niente mi ha reso così.” replicò placidamente Sherlock. “Mi sono fatto da solo.”
E John, in quel momento, avvertì come l’impulso di spostare la mano di pochi centimetri, farla scivolare verso la sua e sfiorarla, per dimostrargli che c’era, che era lì, che poteva confidarsi. Improvvisamente, John Watson capì. Fu una rivelazione tanto sconcertante quanto limpida. Voleva salvarlo. Salvare Sherlock Holmes da se stesso e da quell’inferno in cui era stato trascinato da chissà chi. La missione sembrava completamente irrilevante, ora, di fronte a quegli occhi vacui che, ne era certo, stavano disperatamente gridando aiuto. Ma per farlo, doveva prima catturare chiunque fosse dietro a tutto quello.
“Le droghe” riprese dunque, in tono grave. “dove le prendi?”
“Non è importante.”
“Lo è invece.” insorse allora il biondo, nuovamente colmo di rabbia. “Lo è per me, per sapere dov’è che ti procuri quello che schifo, quello che ti sta lentamente distruggendo.”
Sherlock sospirò sonoramente, quasi infastidito da tutta quella melodrammaticità. “Il capo ha le mani in pasto un po’ ovunque nel mondo criminale, non solo nella prostituzione.”
“Quindi c’è un giro di droga qua dentro?”
“Sarebbe strano il contrario, non credi?”
“E avete uno spacciatore fisso? Qualcuno che viene tutte le sere con delle dosi da rivendere ai clienti e a voi dipendenti?”
“Oh, no, noi dipendenti abbiamo diritto a delle dosi personali mensili, un po’ come una sorta di stipendio.” rispose Sherlock. “Però sì, c’è uno spacciatore di fiducia, un tipo piuttosto sveglio anche se dalla faccia non l’avrei mai detto.”
John avrebbe voluto chiedere quello che più lo premeva, come il nome di tale spacciatore o il luogo in cui quelle dosi venivano prodotte, ma sapeva che Holmes era acuto, terribilmente sveglio, e che avrebbe capito che c’era qualcosa di sospetto in quell’interesse spropositato nel giro di droga al Morningstar.
“Sherlock…” sospirò dunque. “… quella roba rischierà seriamente di ammazzarti.”
“Questo posto finirà per ammazzarmi.” sussurrò in risposta l’altro con gli occhi ora traboccanti di tristezza e nostalgia. “Sai, Andy, quella roba la prendo per… per fermare tutto. La verità è che qui dentro la gente entra, mi guarda, s’invaghisce, pretende che me la scopi ben benino e poi se ne va. Il sesso è divertente e i clienti pagano così bene che a volte posso tenere da parte qualche compenso per me. Poi ritornano – ritornano sempre dopo la prima volta – e non ne hanno mai abbastanza. Vorrebbero possedermi, alcuni, forse, s’innamorano – di cosa, poi, non so, visto che vedono solo il mio corpo e urlano quello stupido appellativo con cui ormai sono famoso. E arriva il momento in cui ogni notte, i clienti sono sempre gli stessi e il sesso non è più divertente perché vorrebbero portarmi via e tenermi per loro.” Un sorriso triste gli ferì le labbra. “Vorrebbero salvarmi. Ma io non voglio essere salvato. Io ho scelto la dannazione eterna nel momento in cui ho messo piede qua dentro. Poi, però, ogni notte rimango solo a fissare… il bianco del soffitto e mi sembra quasi che voglia richiudersi su di me come… come una bocca enorme.”
John spalancò appena gli occhi di fronte a quella rivelazione. Era come si sentiva lui. Era esattamente come si sentiva lui. Lui e Sherlock erano più simili di quello che potesse immaginare.
“E allora poi mi sento solo e mi chiedo come potrebbe essere una vita fuori di qui, con qualcuno al mio fianco, magari. Solo che… capisco solo dopo tutti i peggiori film mentali che niente di quello che potrei anche lontanamente sperare potrà accadere.”
La voce di Sherlock era flebile, tremante quasi, latrice di un dolore tanto grande da volerlo quasi soffocare. John sorrise mestamente: Sherlock era fragile, Sherlock era un bambino indifeso, Sherlock era smarrito, ma non perduto, Sherlock stava precipitando, ma non era ancora caduto. Sherlock poteva essere salvato.
“E perché non potrà mai accadere?” chiese facendo scivolare poco più in là la mano, ora così terribilmente vicina a quella del moro.
“Perché nessuno sarà mai in grado di amarmi.” sputò alla fine Holmes con sofferenza. “Sono un casino vivente. Non ho sogni, aspettative, ho un carattere intrattabile e l’unica cosa che riuscirei a mantenere in piedi in una relazione sarebbero i rapporti sessuali. Ma finita anche la passione del momento, non resterebbe niente. E allora la porta di un’ipotetica casa insieme verrebbe aperta e poi richiusa, lasciandomi solo come accade quando se ne vanno i clienti.”
Il cuore di John era stretto in una morsa soffocante. Percepiva il dolore di Sherlock come fosse il suo, tremendamente forte e prorompente, dilagava come un incendio in una foresta, attecchiva ad ogni ramo del suo essere. Vedeva quasi un bambino, di fronte a sé; un bambino con la testa riccioluta e due penetranti occhi azzurri, bellissimo, intelligentissimo, ma colmo di incertezze sul suo futuro, sulla sua vita, e John se ne stava lì, adulto, ad osservare quella sofferenza scorrere furiosamente, abbattere gli argini, allagare i campi e portare via con sé quel bambino che, aggrappatosi ad una roccia, urlava e piangeva.
Gli afferrò la mano, gliela prese come se stesse prendendo quella del bambino naufrago, la strinse con forza, trasmettendogli calore, affetto, vicinanza, empatia… Sherlock lo guardò con un accenno di stupore, ma infine distolse lo sguardo senza però sottrarsi a quel contatto così intimo e vero.
“Sono certo, Sherlock, sono pronto a giurare che là fuori, da qualche parte, c’è qualcuno che sta aspettando solo te, la cui vita non avrà un senso finché non ci sarai tu, che sarà capace di amarti e proteggerti fino alla fine.” sussurrò in una valanga di parole, senza mai smettere di contemplare quel volto incerto.
Il moro sospirò, un sorriso triste sulle labbra. “Sai, ho l’impressione che l’unica forma di amore che io abbia mai davvero condiviso con qualcuno sia stata quella fra me e il mio capo.”
“Lui… lui ti ha fatto del male, non è così?”
Sherlock annuì solennemente. “Immagino questa fosse la seconda voce sul mio conto.” Non attese la risposta di John per continuare: “All’inizio era bello. Volevo essere io ad avere il controllo, sia dentro che fuori dal letto, e a lui andava bene, si sottometteva spontaneamente a me e mi pregava di fargli tutto quello che desideravo. Un giorno se n’è uscito con questa storia del bordello e inizialmente non volevo crederci: mi sentivo ferito, perché non avrei mai pensato che l’uomo che allora credevo di amare potesse accettare, anzi no, progettare di vendermi a persone sconosciute per soddisfare i loro piaceri. Poi, però, è riuscito, non so come, a raggirarmi e a convincermi a firmare quel contratto. Ho cominciato a prostituirmi di notte mentre il giorno lo passavo con lui e via via che la mia fama nel lavoro cresceva anche il nostro rapporto sembrava consolidarsi, perché, in fondo, non era cambiato poi così tanto: io gli appartenevo corpo e anima, che differenza faceva chi mi portassi a letto la notte per guadagnare soldi che avremmo usato per costruirci un futuro? Non so quando, ma a un certo punto ha cominciato a cambiare: era più sfuggente, meno incline a passeggiate romantiche mano nella mano e ad appuntamenti a vedere qualche stupido film al cinema. Gli interessava esclusivamente del sesso ed era sempre… arrabbiato, furioso, è diventato violento, finché una notte non se n’è uscito col voler fare l’attivo. Lì per lì sono scoppiato a ridere semplicemente per il modo e il… momento in cui l’aveva detto, insomma, aveva appena finito di prepararsi ed io… io non sono riuscito a trattenermi. Allora lui mi è saltato addosso e ha cominciato a mordermi, immobilizzandomi sotto di lui, facendomi male…” Serrò gli occhi a quella visione e la sua presa sulle dita dell’altro si rafforzò. “Sono riuscito a sgattaiolare via, in tempo per evitare che mi facesse… qualunque cosa avesse intenzione di farmi. Quando però, qualche sera dopo, a fine turno, è venuto da me, scusandosi, io ho ceduto ed è iniziata la fine: da allora in poi, aveva sempre con sé dei giocattoli… strani, che usava su di me senza preoccuparsi del dolore che mi davano, ma lui diceva che così si sentiva appagato anche lui e che era l’unico modo per accontentare entrambi, visto che ci tenevo così tanto a fare la parte dell’attivo. Ma i suoi giochetti sono diventati sempre più estremi e sempre più pericolosi, finché non è arrivato a tagliarmi la pelle all’altezza della trachea con la lama di un vetro rotto. A quel punto, vedendo la bramosia e l’eccitazione che provava nel farmi del male nei suoi occhi, ho capito che lui non mi amava e che tantomeno io non amavo lui, non più almeno. Ho iniziato a girargli alla larga e, fortunatamente, la presenza di Victor è servita per non rimanere mai solo. In seguito, ho scoperto che già si stava facendo Moran.”
Sherlock tacque, gli occhi ancora chiusi e la mano ancora in quella del biondo. John stava tremando dalla rabbia, mentre in testa gli si delineavano le immagini del racconto dell’altro, il suo dolore fisico, i desideri di quel bastardo…
“Quello non è amore, Sherlock.”
“Credi che non lo sappia? Ma questa è l’unica cosa che mi è permessa qui dentro. Sono maledetto, Andy, da quando ho deciso di entrare qui. Allora non ne ero consapevole, ma ho accettato ingenuamente la mela proibita e sono stato punito.”
“L’Angelo caduto…” osservò John, pensando al serpente dell’Eden che, in realtà, corrispondeva Lucifero, a Satana, all’Angelo caduto.
“Esatto.”
“E lui… lui… insomma, ora come sono i rapporti fra voi?”
“Non facciamo più sesso anche se credo che se lui lo volesse non sarei davvero in grado di sottrarmi. E’ troppo potente anche se non voglio ammetterlo e… sì, gli appartengo ancora e gli apparterrò per sempre finché starò qui dentro. E visto che non ho speranze di uscire…” Sbuffò un anello di fumo che John osservò salire di qualche metro per poi dissolversi. “Ma lui si diverte a… cogliermi impreparato. A tirarmi da parte mentre nessuno sta guardando e a ricordarmi che lui comanda e che comanderà per sempre. In camera mia c’è persino una telecamera che in nessun’altra stanza c’è. Mi guarda mentre mi scopo altra gente per arricchire la sua fottuta cassa e gode nel sapermi impotente, a terra. E io cerco disperatamente di non farglielo capire, ma… sono debole in confronto a lui.” Si tastò il collo. “La sera in cui ci siamo conosciuti io e te, mi ha trascinato in un corridoio secondario e ha preso a baciarmi il collo e a mordermelo, lasciandomi un segno sulla pelle. E io non ho mai permesso a nessuno di marcarmi, perché ancora credo, idealmente, di essere libero e di poter andarmene e cancellare questo capitolo della mia vita quando voglio. E invece… il marchio lui può lasciarlo. Non importa che sia sulla pelle o dentro, nascosto agli occhi, lascerà sempre una traccia che mi riconduca a lui…”
Aveva paura, Sherlock. John avrebbe voluto confessargli di essere lì per aiutare lui e tutti gli altri, di voler sbattere al fresco quel farabutto e di dare a lui la felicità che meritava liberandolo da quel locale, da quella vita. La brezza di poco prima si era trasformata in aria gelida a al cui contatto il moro rabbrividì visibilmente, così, in un gesto che aveva compiuto solo poco prima, John gli circondò le spalle con la giacca in modo che il suo corpo potesse beneficiare di un briciolo di calore. Sherlock chiuse gli occhi e sospirò sorridente a quel gesto e rimasero in silenzio, vicini per un bel po’.
“Clair de la lune, Andy? Non ti facevo così femminile.”
“Non è mio, è di una… amica.”
Si scambiarono un’occhiata complice a quelle parole che rimandarono entrambi alla sera in cui si erano conosciuti e a quel reggiseno rosa fra le mani del moro. Ridacchiarono simultaneamente, i loro fiati che si condensavano a contatto con l’aria gelida della sera.
“Sherlock, voglio che tu sappia che io…” Si morse il labbro, cercando le parole, ma al ricordo della storia dell’altro la rabbia si riaffacciò vivida e incontrollabile, avvampando in lui con una forza e un calore inarrestabili. “… Se metto le mani su quel figlio di puttana, io avrò molta difficoltà a non spezzargli le ossa una ad una. Essendo un medico militare sarei anche capace di chiamarle per nome, è un’abilità di vanto per me, a cui tengo-”
“Andy.” La voce di Sherlock risuonò grave, baritonale alle sue orecchie. I suoi occhi si spostarono alla sua destra, dove il moro si era completamente voltato verso di lui e aveva compiuto qualche passò nella sua direzione, ritrovandosi a pochi centimetri l’uno dall’altro, con i fiati condensati che si scontravano fra loro. John contemplò il proprio riflesso specchiarsi nelle iridi di Holmes, così belle, così fredde eppure così calde, così nostalgiche e tristi eppure così speranzose. Non seppe più niente. Non seppe più dove o chi fosse, perché si trovasse lì e che cosa lo avesse spinto ad avvicinarsi tanto a quell’individuo che tutti ritenevano impenetrabile, inavvicinabile. Provava qualcosa di strano, John o forse Andy, non sapeva neanche se fossero più la stessa persona. Andy, il medico depresso che si era ubriacato al bar di un bordello e si era invaghito del bel straniero che lo aveva salvato, e John, l’agente segreto dell’MI6, entrato in quel locale solo per smantellare la rete criminale tessuta al suo interno. Chi era lui? Cosa voleva lui? Cosa provava lui? Sherlock si avvicinò ulteriormente e forse avrebbe dovuto scansarsi, magari l’avrebbe anche fatto se non avesse ascoltato quel racconto dell’orrore che corrispondeva all’esistenza di un uomo solo e disperato.
“Andy.”
“Cosa?” domandò in un mormorio altrettanto roco.
“Posso baciarti?”
I suoi occhi indaco scivolarono su quelle labbra piene, a pochi centimetri dalle sue, che aveva appena assaggiato la sera prima tanto per accontentare un fatto. “Puoi sempre provarci.” rispose alla fine, con un mezzo sorriso, ed era vero, perché neanche lui poteva prevedere che cosa avrebbe fatto e l’avrebbe scoperto solo dopo che l’altro avesse tentato.
Il volto di Sherlock tradì un sorrisetto divertito mentre chiudeva gli occhi e si avvicinava lentamente al biondo, respirando sulle sue labbra e assaporando l’attesa struggente generata da quel bacio.
“Holmes.” Una voce fredda li fece sussultare, ma nessuno dei due provò ad allontanarsi dall’altro. John seguì lo sguardo schifato di Sherlock e osservò la figura del nuovo arrivato. Era un ometto non troppo alto, con corti capelli e occhi vacui e una barbetta curata che gli adombrava la mascella prominente.
“Moran. Quale spiacevole sorpresa.” sputò il moro rivolgendo all’uomo in questione un’occhiata carica di astio che John fece ricondurre al fatto che il capo lo avesse tradito proprio con quel pezzente di fronte a loro.
“La tua presenza è richiesta.” rispose con altrettanto odio Moran, le mani affondate nelle tasche della giacca verdastra.
“Come mai mi ha fatto chiamare? Non mi fa mai chiamare, e di certo non manderebbe il suo cagnolino a…” Le parole morirono sulla bocca di Holmes. “Oh.” sospirò semplicemente sorridendo appena, in modo quasi cattivo. “Nessun rancore, vero Seb?”
“Attento a quello che dici, Holmes. Attento a quello che dici.” ringhiò Sebastian facendo appena riemergere la mano sinistra dalla giacca e intravedere il brillio di una lama al suo interno. John, a quella visione, aggrappò istintivamente l’orlo della maglietta di Sherlock e la strinse forte, timoroso di quello che sarebbe potuto accadere.
“Sherlock…”
“Va’ a casa, Andy.” lo interruppe però il moro rivolgendogli un’occhiata significativa.
“Cosa… No, non ti lascio andare da solo da quel sadico pazzo ossessionato da te.”
“Non devi preoccuparti, posso cavarmela da solo con lui. Tu, invece, devi andartene.”
John scosse ancora la testa, la presa sulla stoffa sempre più forte e disperata. “Ho detto di no, non voglio andarmene. Io… voglio proteggerti.”
A quelle parole, gli occhi di Sherlock luccicarono appena, tradendo un sentimento di gratitudine, di commozione quasi, e la mano si chiuse sulla sua, ancora stretta alla maglietta. “Ti ringrazio, davvero, ma non ce n’è bisogno, te l’assicuro. L’unica cosa che puoi fare per proteggermi è andartene e tornare quando te lo dirò io. Rimarremo in contatto.”
“Sherlock, io non voglio, se dovesse accaderti qualcosa… Io ti aspetterò qui.”
Il moro sospirò, scuotendo la testa. “Se ho una mezza idea di quello che vuole fare… allora puoi stare certo che non sarà una cosa da pochi minuti, né da poche ore.”
“Sherlock…”
“Moran.” Il suo sguardo era fermo e sicuro. “Accompagna gentilmente il signor Rose alla porta e assicurati che abbia girato i tacchi per bene e che per stasera non rientri nel locale, tanto la strada la ricordo perfettamente e non vorrei procurarti inutile imbarazzo.”
I pugni di Moran si strinsero così tanto che i guanti di pelle nera che li rivestivano scricchiolarono, ma non ebbe tempo di sollevare alcuna minaccia, perché Sherlock si era appena voltato verso John e gli aveva staccato la mano dalla stoffa bianca, portandosela alle labbra e depositandoci un fugace bacio. “Ci teniamo in contatto, dottor Rose.”
“Sherlock, per favore…”
Ma il moro era irremovibile e l’unica cosa che John riuscì a fare fu guardare la sua testa riccioluta sparire dietro un cespuglio di rose bianche. Seguì Moran fino all’uscita del Morningstar, ricambiando la truce occhiata di Robinson, e indugiò sul marciapiede per un tempo che gli parve infinito. Pensava a quello che sarebbe successo, a quello che quel folle avrebbe fatto al suo amico, a quello che sarebbe potuto succedere se non fosse arrivato Moran all’improvviso…
Prese il cellulare e chiamò quel numero che aveva salvato già alla prima telefonata. Uno squillo… due squilli… “Rispondi… Rispondi, rispondi, rispondi…” Segreteria telefonica. Fece un altro paio di tentativi ma il vuoto era tutto ciò che rispondeva alla sua voce carica di preoccupazione. Eccola là la sensazione di asfissia, la claustrofobia, la gabbia. Era Sherlock che lo rendeva libero? Poteva essere che si fosse affezionato tanto a lui in così poco tempo? Si passò una mano tra i capelli e infine dovette scegliere di tornarsene a casa per fare quelle ricerche che aveva rimandato per la serata, anche se, a quanto pareva, i piani non era poi così cambiati…
Uno sbuffo di vento soffiò per il viale mezzo vuoto. Rabbrividì e solo allora si rese conto che non aveva con sé la giacca, che era rimasta con Sherlock, a ripararlo dal freddo, dal mondo. Pregò che potesse difenderlo anche contro la minaccia che avrebbe dovuto affrontare chissà dove con quel matto. Pregò che Sherlock reagisse e non si lasciasse dominare. Pregò che stesse bene. Pregò, quella sera, e l’unica ricerca che fece fu quella della voce del moro dall’altra parte del telefono, fino all’indomani mattina, quando un cangiante color rosa tinse il cielo delle prime luci dell’alba.

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ANGOLO AUTRICI
Salve gente! Bentrovati, cari! Eccoci con il terzo capitolo di questa storia. Questo capitolo è decisivo per capire tutto ciò che prova e pensa il nostro Sherlock, il quale non è quello a narrare la vicenda, bensì quello a raccontare la propria storia - parte di essa - al nostro amato Johnny. Eh beh, ragazzi. Sono cute... Poi, vabbe, arriva il caro Moran a rovinare tutto... Adesso non ci resta che scoprire che cosa mai avrà in mente Jimmy. Eheheh... Tanta roba, ragazzi... Per ora accontentatevi.

Il prossimo sarà un capitolo un po' di passaggio, in cui scopriremo altri pezzi del passato di Sherlock, come il suo rapporto con Jim e anche con qualcun altro... Speriamo di ritrovarvi numerosi e carichi. Ciancio alle bande e andiamo ai saluti: ciao a tutti, guyss e buona settimana. Ancora una volta, la nostra sarà terribile tra greco, chimica e filosofia... *brividi*

Ciauuu
Alicat_Barbix

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Capitolo 4
*** Who Could Love Us? ***


BEYOND EVERYTHING
 
by Alicat_Barbix



Who Could Love Us?
 
Ricordava bene quella stanza. Non era certo la prima volta che vi entrava eppure, ogni volta che solcava quella soglia che sembrava aver scritto sopra per me si va nell’eterno dolore, un sentimento così maledettamente simile alla paura scavava in lui un varco, facendo franare ogni certezza malamente tenuta insieme dalle fragili radici della sua coscienza.
Le tenebre oscuravano quasi completamente quell’ambiente in cui sarebbe riuscito a muoversi perfettamente anche ad occhi chiusi, tante erano le volte in cui vi era stato. Nella penombra, poteva scorgere il grande letto a baldacchino, i divanetti bassi nella parete di sinistra e l’immenso quadro raffigurante un diavolo dalle fattezze grottesche, cremisi, con due grandi occhi gialli da pitone, due corna da toro e le ali di pipistrello, le fauci famelicamente aperte sul corpo tremante di una donna terrorizzata. Lui era come quella donna. Impotente di fronte all’apparizione del Male del mondo, terrorizzato eppure rassegnato, perché non vi era via di fuga, né ci sarebbe mai stata.
Sherlock era in contemplazione di quel quadro quando due mani affusolate scivolarono sulle sue spalle e iniziarono a massaggiargliele.
“Ciao, tesoro.”
“Perché mi hai chiamato?” sputò in risposta, senza però avere il coraggio di allontanarsi.
“Perché avevo voglia di stare con te per bene.” rispose quella voce melliflua mentre le labbra dell’essere che più disprezzava gli baciavano il collo.
Ridacchiò. “Cos’ha fatto Moran per farsi cacciare e sostituire?”
“Non era più eccitante. Sempre le solite cose, sempre così noioso… Quando c’eri tu, Sherlock, era tutto così divertente e appagante…”
“Non mi pare, visto che hai cominciato a dilettarti torturandomi.”
Moriarty sbuffò tra i suoi capelli e li accarezzò con gesti carichi di riguardo. “Suvvia, Sherly, parlare di torture mi sembra esagerato. Ammetto di essermi lasciato prendere un po’ la mano, ma era così bello sentirti gemere come un bambino… Dio, quanto ti rivoglio indietro…”
Sherlock avvertì il corpo caldo e rigido di James contro di sé e, finalmente, trovò la forza di staccarsi da lui e fronteggiarlo. “Non puoi riavermi indietro. Non è così che funziona, non sono uno dei tuoi giocattolini come Moran o gli altri di qui con cui te la spassi.”
“Ah no? Perdonami, devo essermi perso questo dettaglio.” rispose con un ghigno l’altro, prendendosi poi del tempo per squadrarlo nonostante il buio. “Interessante la giacca, un po’ tamarra, forse, per te. Ti preferisco di gran lunga quando indossi quegli eleganti completi che ti filano addosso come se fossi un fottuto dio…”
Istintivamente, Sherlock si portò una mano ad un lembo della giacca, ancora appoggiata sulle sue spalle. Quel tessuto morbido e caldo gli ricordava Andy e il tocco soffice della sua mano. Quant’era sbagliato pensare a lui in quel momento… Non poteva pensare a quel biondino dal sorriso sincero proprio mentre fronteggiava il suo più temibile nemico. Avrebbe avuto la forza di togliersela e lanciarla da una parte, facendo altrettanto col ricordo di quel bacio così dolce che gli aveva dato la sera prima. Per un frangente, si chiese se Andy si sarebbe lasciato baciare, quella notte. Se avrebbe accettato di seguirlo nella suite. Se avrebbe fatto l’amore con lui. Tutto questo, se non fosse subentrato Moriarty a strappargli dalle braccia quell’opportunità.
“Sherlock…” cantilenò la voce di Jim. “A cosa sta pensando quella splendida testolina?”
“Ho la febbre alta e a stento mi reggo in piedi. Visto che ho preso la serata libera vorrei riposarmi, almeno per stanotte.”
“Oh, ma certo! Che sciocco! Ti chiedo scusa, è solo che… ho visto come ti reggevi bene in piedi con quel tipo, quello con cui preferisci parlare piuttosto che scopare, così ho pensato che ti sentissi meglio.”
Sherlock colse il velato fastidio in quelle parole e cercò di uscire da quella situazione lasciando indenne almeno Andy. “E’ un medico. Dovrei scoparmi un medico mentre cerca di curarmi? Non credo sarebbe molto efficiente.”
“Tu credi? Io proverei. Ad ogni modo, vieni, stenditi sul letto. Mi prenderò io cura di te.” Ma lui non si mosse dal punto dov’era. “Beh?”
“No.”
“Oh, Sherlock… Per favore, non farmi perdere la pazienza, sai quanto odi doverti insegnare a rispettarmi, non costringermi a diventare cattivo. Su, stenditi.”
Serrò la mascella, incerto su quello che avrebbe fatto. Era stanco, mortalmente stanco, e aveva dolore dappertutto a causa della febbre. Probabilmente gli antidolorifici che aveva preso poco prima l’arrivo di Andy avevano esaurito il loro effetto. Strisciò fino al letto e si sedette col capo chino sul materasso in lattice.
“Bravo, Sherly. Lo vedi che sai essere ubbidiente quando vuoi? Ora, per favore, spogliati. Dicono che passare una pezza bagnata sul corpo aiuti particolarmente ad abbassare la temperatura.”
Senza replicare, Sherlock si sfilò la giacca di Andy e la maglietta, rimanendo a torso nudo, i brividi che gli percorrevano malevoli la spina dorsale. Non sapeva che cosa sarebbe successo e neanche gli importava più di tanto. Si trovava di fronte al diavolo ed era senza alcun potere. Perché ribellarsi quando sapeva già qual era il suo destino?
“Dio, quale capolavoro sei… Adesso i pantaloni.”
“Jim…”
“Ho detto: adesso i pantaloni.”
Si era avvicinato e aveva cominciato a passargli le mani fra i capelli, a volte tirandoli nel tentativo di fargli emettere un gemito di dolore. James Moriarty era probabilmente malato, un malato del sesso, della perversione. Era succube del male e forse, in senso lato, lui stesso era il male.
Quando i denti di Jim gli morsero il labbro superiore non riuscì ad evitarsi di gemere, serrando gli occhi, mentre le mani dell’altro gli abbassavano la stoffa dei pantaloni della tuta con desiderio. Mentre annaspava, cercando di sottrarsi a quel contatto, la sua mano sinistra toccò la stoffa della giacca di Andy. La percorse con l’indice un paio di volte, finché non si ritrovò completamente sprovvisto di ogni possibile difesa contro Moriarty e allora vi si aggrappò con tutto se stesso, giocando con la sua stessa mente, frantumando e ricomponendo l’immagine a cui stava assistendo come meglio credeva. Non sapeva neanche lui cosa la sua mente stava partorendo ma per un attimo, nel buio, gli parve di scorgere dei capelli biondi.
 
Si richiuse la porta alle spalle, tossicchiando appena e incontrando lo sguardo di Victor. “Com’è andata?” gli chiese l’amico seguendolo giù dalle scale del laboratorio analisi.
“Come vuoi che sia andata, Vic? Non ne ho idea, che razza di domanda è?”
“Sì, scusa, hai ragione.” sospirò l’altro riuscendo, finalmente, ad affiancarlo, una volta nel parcheggio del laboratorio analisi. “Che ne dici se stiamo fuori per un paio di ore? Manca ancora molto all’apertura del locale.”
Sherlock gettò un’occhiata al suo orologio da taschino infilato nel Belstaff e constatò che l’amico non aveva tutti i torti. Per altro, sentiva il bisogno di respirare, di osservare la vita della gente comune ancora un po’ e paragonarla alla sua così disastrosa e persa. Nella sala d’aspetto aveva studiato visi, storie, paure, segreti, aveva capito che l’esistenza delle persone ordinarie era talmente distante dalla sua che anche se avesse mai trovato la forza, o magari la disperazione, per andarsene dal Morningstar, non sarebbe stato in grado di godersi quella realtà appieno.
Victor balzò sulla sua Matchless 1966 argentea, intrappolando i ricci biondi all’interno del casco nero, mentre gli porgeva il secondo. Il moro imitò il gesto e salì dietro l’amico, appiattendosi contro la sua schiena.
“Dove andiamo?”
“Sorpresa.” rispose Trevor sorridendogli dallo specchietto retrovisore prima di far rombare il motore della motocicletta e sgommare fuori dal parcheggio.
Mentre si stringeva all’altro, Sherlock avvertì il proprio cellulare, in tasca, vibrare. Un sorriso triste si delineò sulle sue labbra. Sapeva perfettamente chi era. La stessa persona che per due giorni aveva provato a rintracciarlo e non aveva trovato risposta. Andy Rose. La notte in cui era rientrato dalla camera di Moriarty, si era abbandonato sul letto, gli occhi persi a scrutare il soffitto, e il cuore gravido di preoccupazioni. Prendendo il cellulare, aveva trovato dieci chiamate senza risposta e cinque messaggi dove il medico lo pregava di contattarlo e assicurargli che stesse bene. L’idea di richiamarlo, anche solo per sentire la sua voce per pochi attimi, lo aveva tormentato tutta la notte, costringendolo ad un sonno – o forse era ancora una veglia – tormentato, finché la mattina non era arrivato Victor con il paracetamolo e il termometro a comunicargli che l’indomani era il turno di entrambi per fare il classico controllo annuale al laboratorio analisi di Calverton Smith, un partener in affari del capo. Andy era testardo, l’aveva capito subito, e il suo buon cuore, unito all’animo di medico, lo portava a fare cose precipitose. Sherlock sapeva che sarebbe venuto, così aveva chiesto a Victor di non lasciarlo entrare almeno per quel giorno. Aveva bisogno di stare lontano da quel biondino il più possibile e non sapeva neanche lui il perché. Per Moriarty? Per la piacevolezza che provava ogni volta che si trovava in sua compagnia? Per la paura che anche lui se ne sarebbe andato?
“Siamo arrivati.” decretò Victor all’improvviso calandosi giù dalla moto e sfilandosi il casco.
Sherlock scese a sua volta e scrutò il luogo prescelto dall’amico. Era un campetto da calcio abbandonato isolato in un quartiere fatiscente, con le porte prive delle reti e le linee bianche sbiadite. Persino l’erbetta era scolorita e cresceva selvatica. Chissà da quanto quel luogo era stato lasciato a se stesso, all’azione erosiva dell’atmosfera, ai ragazzi che vi fumavano e poi vi abbandonavano le chicche.
“Perché mi hai portato qui?”
“Non te lo ricordi?”
“Certo che me lo ricordo, ma non capisco comunque.”
Victor sbuffò e, ficcando le mani nelle tasche del giubbetto di pelle marrone, entrò nel campo, girando su se stesso per osservare meglio quel luogo abbandonato, solo uno scheletro di quello che viveva nei suoi ricordi. “E’ un po’ cambiato, eh?” Infine, una volta arrivato al centro del campo, si fermò, imitato dall’amico, alle sue spalle. “Ma in fondo, è passato anche tanto tempo. Quindici anni?”
“Diciassette.”
In un’occasione normale, probabilmente Trevor avrebbe fatto una battutina o avrebbe sospirato esasperato dalla sua solita perizia nei minimi dettagli, ma quel giorno, stranamente, si limitò ad annuire con una nostalgia traboccante dipinta in volto. “Erano bei tempi quelli. Ti ricordi quanto ci divertivamo a giocare a calcetto qui dentro?”
“Tu e quegli idioti dei tuoi amici teppisti vi divertivate. Io e lo sport siamo sempre stati nemici giurati fin da quando ero piccolo.”
“Smettila di fare lo snob, fratello.” lo redarguì bonariamente Victor, enfatizzando la parola fratello. “Sai perfettamente che eri più bravo di tutti noi messi insieme. Ti stimavamo così tanto…”
“Ma se tutti mi chiamavano strambo!”
“Beh, un po’ particolare eri, ma ti assicuro che quando toccavi palla eri semplicemente fantastico. Non ti si poteva nemmeno invidiare, da quanto eri bravo. L’unica cosa che riuscivamo a fare era osservarti con occhi luccicanti e ammirarti.”
Sherlock si concesse un sorrisetto vittorioso a quelle parole. La verità era che il calcio lo aveva da sempre odiato. Troppo movimento. Troppo rumore. Troppe persone. Ciononostante, era quasi una partita di scacchi, con pedine in campo da superare per arrivare al re. E lui amava fare scacco matto. Riusciva a calcolare la direzione che i piedi degli avversari avrebbero preso così come il punto esatto in cui il pallone da lui calciato sarebbe finito. Era solo per la sua immensa attenzione per i particolari e i calcoli se era così bravo. Lui e Victor erano da sempre stati amici, ma all’età di quindici anni il biondino aveva trovato nuovi amici, non tutti così raccomandabili, e si era messo in testa questa folle idea di coinvolgerlo nelle loro uscite. E quando avevano visto quello di cui era capace con un pallone tra i piedi, Sherlock aveva sempre avuto un posto fisso nelle partitelle amichevoli fra loro.
“Ma guarda un po’!” esclamò l’amico di punto in bianco dirigendosi verso un lato del campo dove riposava un pallone da calcio vecchio e cencioso. Victor lo prese in mano e lo sollevò in alto, esibendolo come un trofeo. “Ci facciamo qualche tiro, Holmes?”
“Si vede da qui che è bucato, Trevor!” rispose lui alzando la voce affinché giungesse all’altro.
Ma il biondo non si fece scrupolo e, una volta poggiato il pallone a terra, glielo calciò contro. Sherlock osservò il pallone alzarsi dal suolo e prendere una traiettoria storta a causa delle sue pessime condizioni, ma ciononostante, scattando in avanti, riuscì ad intercettarlo con un colpo di petto e a riportarlo al suolo.
“A quanto pare il piccolo Sherlock calciatore è ancora in te!” esclamò Victor raggiungendolo di corsa.
“Ho sempre trovato il calcio uno sport tedioso. Come si fa a divertirsi correndo dietro ad una palla?”
“A ognuno il suo lucro, fratello.” rispose con una scrollata di spalle Trevor, prima di rubargli il pallone da sotto il piede e correre verso la porta, facendo, però, un tiro fallimentare da lontano.
“Vedo che la mira è rimasta scadente, Vic.”
“E’ colpa del pallone. E’ troppo sgonfio.” rispose il biondo ripescando il pallone e sedendoci sopra. “Chissà che fine hanno fatto gli altri…”
“Non lo so e non mi interessa neanche saperlo.” replicò seccamente Sherlock sedendosi a sua volta.
“Ah, giusto. Dimenticavo che ormai sei diventato la fredda macchina calcolatrice che se ne frega di tutto e di tutti e che nel suo lavoro non esattamente decoroso si fa chiamare l’Angelo caduto.”
Proprio in quel momento, il cellulare del moro prese a vibrare insistentemente, ma quando lo tirò fuori e lesse il nome della chiamata, lo rigettò malamente in tasca. A Victor, l’espressione tesa sul volto solitamente indifferente dell’altro, non sfuggì.
“Era lui?”
“Lui chi?”
“Il biondino tanto carino. Andy Rose.”
“Sì.”
“E perché non rispondi?”
“Perché ora non mi va.”
“E’ successo qualcosa fra di voi?”
“Dio santo, Victor, cos’è, un interrogatorio?”
Victor indurì lo sguardo. “No, Sherlock, sto solo cercando di capire come ti senti davvero visto che a malapena, ormai, mi parli di te e di quello che provi.”
“Ah, adesso sarei io quello che non parla di sé.” ribatté freddamente il moro assottigliando gli occhi per apparire più deciso e risoluto.
“Sì, Sherlock, tu. Da quando è arrivato quest’uomo nella tua vita, sei cambiato e vorrei capire se è una cosa positiva o meno.”
“Non essere assurdo, non è cambiato niente.”
“Sì, invece. Forse non te ne rendi conto, ma sei diventato più nervoso, hai sempre il cellulare dietro, fino a due sere fa sorridevi stupidamente completamente a caso, adesso, invece, sembri costantemente preoccupato da qualcosa. Che è successo, Sherlock?”
“Non è successo niente, per l’amor del cielo!”
“E allora, se non è successo niente, che cosa rappresenta per te quel tizio?”
“Niente. Assolutamente niente.”
“Menti sapendo di mentire.”
Sherlock scattò in piedi, un’espressione dura a mascherargli il volto solitamente disteso e insofferente. “Vogliamo allora, per un attimo, spostare l’attenzione su te e su quello che tu non mi dici? Quanto l’hai pagato?”
Victor inarcò entrambe le sopracciglia. “Di che parli?”
“Dell’anello, Victor, quello che ormai ti tieni in tasca da due settimane. Non hai ancora trovato il coraggio di chiederglielo, vero?”
Trevor strinse entrambi i pugni. “Sherlock, non mi fare incazzare con la storia delle deduzioni…”
“Non ho dedotto assolutamente niente, Victor. Due settimane fa avevi lasciato la giacca in camera mia e dentro ho trovato la scatolina, sapessi che sorpresa quando ho visto l’anello! Toglimi una curiosità, lei lo sa?”
“Come fai a sapere che è una lei?”
“Andiamo, Victor, basta darti una rapida annusata quando torni dalle tue serate libere per capire che ti vedi da tempo con una donna e che è sempre la stessa. Tra l’altro non ho mai conosciuto un uomo con un dito così sottile.”
Victor si grattò la nuca nervosamente, gli occhi che correvano in giro per il campo da calcio, senza sosta. “Sa cosa?”
“Sai perfettamente cosa.”
Trevor sospirò, distogliendo lo sguardo. “Lei… no, non lo sa ancora.”
“Ed è questo che ti trattiene, vero? Temi che non ti accetterà, che quando le dirai la verità ti lascerà.”
“Non ho mai detto di volerglielo dire.” rispose prontamente l’amico, lasciando Sherlock, per una volta, senza parole. “Con lei è diverso.” riprese Victor, con tono basso e serioso. “Io la amo, capisci? Non mi è mai capitato di provare qualcosa del genere e ogni volta che la vedo io vorrei… morire per la felicità. Quando sono con lei niente ha più un cazzo di senso. Non m’importa più del bordello, del mio lavoro, delle ferite che in questi anni ho riportato in quel posto. Mi importa solo di lei.”
“Se non le riveli il tuo passato, Victor, vivrai con l’eterna consapevolezza che le stai dando una vita costruita su una gigante menzogna.” osservò Sherlock con tono cupo. “E poi, non so, dicono che l’amore superi ogni ostacolo.”
Victor scoppiò a ridere in modo tristemente stonato, gli occhi umidi e le labbra tremanti. “Detto da te, poi… Andiamo, Sherlock, chi vogliamo prendere in giro? Sia tu che io siamo completamente a conoscenza del fatto che abbiamo commesso delle cazzate, troppe, e che la nostra vita è un’immensa merda che già di per sé ci ha condannati. Chi potrebbe mai amare due prostituti? Chi potrebbe mai accettare quello che siamo stati senza il minimo dubbio che non lo saremo più? No, Sherlock, manderei tutto a puttane e io non voglio perderla, la amo troppo, è una delle poche cose belle che mi siano mai accadute e non posso rinunciare a lei.”
Era sul punto di piangere, Trevor. La sua voce era incrinata e la sua mano si occultava gli occhi ora serrati per non far uscire alcuna lacrima. Sherlock sapeva che avrebbe dovuto fare o dire qualcosa, ma si limitò a fissarlo privo di espressione. Si chiese se davvero esistesse qualcuno che avrebbe capito, qualcuno che avrebbe accettato, qualcuno che lo avrebbe amato proprio per quel passato… Intravide una figura, tra un battito di ciglio e l’altro, ogni millesimo di secondo in cui le sue palpebre si chiudevano per poi riaprirsi subito.
“Che devo fare, Sherlock?” gemette l’amico rialzando lo sguardo e puntando gli occhi arrossati nei suoi, al momento così distanti e freddi. “Ti prego, dimmelo tu, perché io sto impazzendo.”
E Sherlock rifletté davvero riguardo una soluzione. Sapeva che Victor aveva ragione, che, molto probabilmente, il 99% della popolazione terrestre non avrebbe mai capito, ma c’era comunque quell’1%, così basso eppure così rassicurante. Doveva esserci, tra la folla perennemente indaffarata di Londra, un volto che guardandolo non avrebbe visto l’Angelo caduto, ma Sherlock. Solo Sherlock. E doveva essere così anche per Victor. Soprattutto per Victor, visto che il suo interesse per l’amore era nullo.
“Forse è solo un’illusione infantile, però…” Prese un respiro profondo. “Io credo che se ami quella donna e vuoi trascorrere con lei il resto della tua vita, allora l’hai scelta per affidarti a lei sempre, per sostenervi a vicenda, per superare le difficoltà insieme. E magari all’inizio potrebbe non capire o addirittura giudicarti, allontanarti, farti soffrire… ma se il suo amore è reale allora perché dovrebbe condannarti per degli sbagli che hai commesso in passato? Soprattutto se sei deciso a cambiare per lei.” Victor lo osservava come un naufrago avrebbe osservato una nave passante di fronte alla sua isola dopo giorni e giorni di attesa. “Io ritengo che debba essere lei a scegliere, Vic. Non puoi precluderle né la possibilità di andarsene né quella di amarti ancora di più perché ora sa quello che sei davvero. Io… non so se mi sono spiegato e… p-perché mi guardi così?”
Trevor si era aperto in un sorriso luminoso, sincero, e lo guardava ammirato, rapito. Si alzò in piedi e circondò il suo corpo con le braccia forti e muscolose, tirando come un sospirò di sollievo. “Grazie, fratello. Grazie.”
Sherlock soffocò un gemito sotto quella stretta, i lividi della notte con Moriarty ancora sul proprio corpo. Non voleva che l’amico tornasse a preoccuparsi inutilmente riguardo al capo. Non aveva importanza. Non ce l’aveva fatta. Non era riuscito a respingerlo, quella sera, ad evitare di ritornare nelle sue grinfie, nonostante, per una volta, sapeva che resistere aveva un senso. Doveva avercelo. E nonostante la sola idea risultasse malsana, l’ultima immagine che aveva dominato nella sua mente era stata quella di Andy, radiosa come non mai, ed era stato con quella figura in testa che aveva lasciato, per la prima volta in vita sua, che qualcuno lo penetrasse, che entrasse brutalmente in lui, macchiandolo.
“Prima o poi dovrai farmi conoscere la tua biondina.” notò staccandosi da quell’abbraccio con un sorrisetto ironico.
“Scusa, Sherlock, ma non mi sembra che ti abbia mai detto che è bionda.”
Sherlock ridacchiò, voltandogli le spalle e dirigendosi verso la motocicletta. “Sono semplicemente a conoscenza della tua predilezione per le bionde.” Si girò una seconda volta, lanciandogli un’occhiata divertita. “E per i biondi.”
Victor scoppiò a ridere e lo rincorse fino alla moto, dove lo abbracciò nuovamente, stavolta con irruento, spettinandogli i ricci corvini. “Ha parlato lui.” ghignò mentre entrambi prendevano posto sulla sella del veicolo e sfrecciavano via, diretti verso la loro casa/prigione.
 
Il locale, quel sabato, pullulava di avventori. La sala dove le prostitute e i prostituti rimorchiavano i clienti era gremita ed era proprio da quella stanza che Sherlock stava fuggendo. Si sentiva mortalmente stanco, la febbre era salita nuovamente dopo l’intero pomeriggio fuori, e per di più, dentro di sé, covava come un’ansia cupa mentre i suoi occhi saettavano per la pista da ballo e l’entrata del locale senza sosta, alla ricerca di chissà cosa o chissà chi. In mezzo alla discoteca, le ballerine di lap dance stavano, in quel preciso momento, scendendo dai palchetti per lasciare il posto alla seconda tornata. Guardò l’ora: mezzanotte e mezza. E ancora non aveva accettato l’avvicinamento di un singolo cliente.
“Sherlock.” La voce di Irene lo fece sussultare. “Che stai facendo qui impalato? Non dovresti essere di là o in camera a racimolare qualcosina per la comunità, visto che sei la star qua dentro?”
“E’ invidia quella che percepisco nella tua voce, Irene?”
“Per quanto tenga al tuo titolo, sappiamo perfettamente che non riuscirò mai ad appropriarmene. Non finché ci sarai tu.”
“Vuoi uccidermi per essere acclamata ancora di più di quanto non lo sia già?”
“Se vuoi un consiglio da avversaria, guardati le spalle, mio caro. Non sai mai quando o da chi verrai pugnalato.” sussurrò mellifluamente nel suo orecchio, portandosi poi alle labbra un sorso di cocktail. “Non ho potuto fare a meno di notare il rapporto… ambiguo fra te e il biondino su cui avevo messo gli occhi da un po’.”
“Perché ambiguo?” domandò Sherlock, finalmente degnandola di uno sguardo.
“Beh, sai, le voci girano… C’è chi è venuto a sapere che nonostante tutti i vostri incontri ancora non siete andati a letto. Mi chiedo come mai.”
“Moran…” sospirò lui a quelle parole. Ovviamente, a Moriarty non era mai piaciuto tacere i dettagli della sua vita, in particolar modo con quel razza di barboncino travestito da doberman.
“Sai, Sherlock, dovresti darti una mossa con lui altrimenti è un attimo che qualcuno arriva di soppiatto e se lo pappa prima di te.”
“Ti pregherei, Irene, di tenere le tue grinfie occupate su qualcun altro. Andy Rose è già occupato.”
Irene scoppiò a ridere, poggiandogli una mano sulla spalla. “Oh sì, lo vedo. Guarda un po’ là.”
Sherlock seguì il cenno della donna e i suoi occhi si imbatterono in una scena a cui mai avrebbe voluto assistere. Andy era seduto al bancone accanto ad una giovane donna, due cocktail appoggiati di fronte a loro, forse addirittura dimenticati, e i loro sguardi incatenati l’uno a quello dell’altra. Sembravano chiacchierare tranquillamente, a volte, a causa della musica alta, si avvicinavano e le loro labbra si sfioravano reciprocamente le orecchie, spesso scoppiavano a ridere. Sherlock era distante, separato dal bancone da un considerevole numero di persone, ma non poteva sfuggirgli il luccichio che brillava nelle iridi del medico.
“Touché.” mormorò Irene prima di voltarsi e dirigersi verso una ragazza dai capelli rossi con cui salì le scale, diretta alla propria suite.
Sherlock rimase solo a contemplare quella visione così stranamente fastidiosa. Ora riconosceva la ragazza: Mary Morstan, una delle ballerine di lap dance del locale. E così Andy trovava interessante una donna simile? Solo quando una mano si appoggiò sulla sua spalla e una voce gli domandò se si sentisse bene, si rese conto che le unghie gli si erano conficcate nella carne da quanto forte teneva i pugni serrati. Si volse verso chiunque lo avesse destato da quel limbo in cui era sprofondato e incontrò il viso di uno dei suoi clienti abituali, uno spocchioso banchiere con cui aveva frequentato il liceo e che era stato con lui una sola notte giusto per provare, che infine, però, era diventato un suo assiduo amante.
“Sei libero o devo mettermi in coda?” gli domandò in un mormorio l’uomo, avvicinandosi a lui e sfiorandogli l’orecchio con la lingua.
Sherlock avvertì il proprio corpo rabbrividire di disgusto a quel contatto, ma tuttavia, quando scorse Mary alzarsi dal bacone e trascinare su per le scale Andy, tenendolo per mano e sorridendogli con fare allusivo, si costrinse a stare al gioco. “Andiamo di sopra.” borbottò con una punta di malcelata frustrazione dirigendosi verso la propria camera, consapevole che l’altro lo stava seguendo.
Nel corridoio, udì la risatina stridula di una donna, molto probabilmente di Mary, visto che, a parte Irene e la sua cliente, non aveva visto nessun altro avventurarsi al piano di sopra, poi lo sbattere di una porta. Cercò di controllare la rabbia, una rabbia sbagliata che non aveva senso di esistere, ma più si ripeteva che era sbagliato di provare quel tipo di emozioni, più quelle crescevano, incontrollabili.
Probabilmente le sue prestazioni per quella serata sfiorarono l’afrodisiaco. Uno dopo l’altro i suoi ospiti non facevano che urlare e invocare il nome di Dio associandolo al suo. Che bestemmia, pensava allora, mentre spingeva, mordeva, graffiava. Il suo piacere, però, era assai limitato. Regalava godimento ma non ne riceveva altrettanto. Il suo pensiero fisso era che, a qualche porta di distanza, c’era Andy, avvinghiato al corpo di quella donna civettuola che aveva sempre guardato con diffidenza.
Alle tre della mattina, comunicò che non avrebbe più ricevuto nessuno e si sistemò sul proprio balcone a fumare, il corpo ancora completamente nudo. Il vento gli accarezzava la pelle e gli scuoteva gentilmente i ricci, come a volerlo consolare, confortare. Almeno la natura sembrava aver riservato un poco di comprensione nei suoi confronti. O magari era pietà? Ad una non data ora della notte, un bussare timido lo riscosse da quella totale immobilità e insofferenza che non lo aveva abbandonato per tutta la sera.
Sospirò. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era parlare con Victor e, magari, ascoltarlo blaterare i suoi discorsi sulla – forse – futura moglie. Ponderò persino l’idea di non rispondere e fingersi già addormentato, forte del lieve timore che, magari, potesse anche essere Moriarty a reclamare il suo corpo, la loro antica intimità.
“Avanti.” sospirò alla fine, non totalmente sicuro che il suo visitatore avesse sentito, ma la porta cigolò mentre veniva aperta e dei passi incerti riempirono il silenzio seguito dal suo sbattere.
Fece un tiro profondo, gli occhi semichiusi, la testa inclinata all’indietro e non si scompose nemmeno quando i passi dietro di lui si congelarono, molto probabilmente alla visione del suo corpo svestito. Ad essere sinceri, non gli importava. Era abituato ad essere contemplato in quelle condizioni. Uno in più uno in meno, per quella sera, non faceva la differenza.
“S-Sherlock?”
Ma quella voce ribaltò ogni cosa. Come faceva a ribaltare sempre ogni cosa? All’udire quella voce, Sherlock si era paralizzato a sua volta e il suo cuore aveva accelerato appena un poco il battito. Un improvviso senso di pudore – qualcosa che mai in vita sua aveva provato – lo colse impreparato e si chiese a quanto distasse il primo indumento da infilarsi addosso per coprire quella nudità che ora lo imbarazzava. Tuttavia, la scena di poche ore prima svettò nuovamente nella sua mente, nitida. Non sapeva che cosa pensasse prima di assistere a quel ridicolo teatrino. Che cosa sperasse. Non era certo di niente da quando quel piccolo medico militare era entrato nella sua esistenza vuota e insensata. Sapeva che il calore del suo sorriso era capace di illuminare la nicchia oscura che ormai era diventata il suo cuore. Sapeva che l’averlo accanto bastava per fargli dimenticare il resto. Sapeva che l’averlo lontano era simile ad un lento e discreto supplizio, una spina infida che si infilava nella carne e che lanciava scariche di dolore crescente quando meno se lo aspettava. Era così che si sentiva a causa di Andy Rose. Ma quella serata era stata significativa, illuminante. Ora aveva chiaro ogni cosa.
Così, con una calma sovrannaturale, si voltò e osò sfrontatamente affrontarlo faccia a faccia. Il viso del medico era contorto in un’espressione quasi di mentale resistenza, i suoi occhi piantati nei suoi con una certa difficoltà. Sherlock era consapevole del proprio corpo e del proprio effetto sulla gente. Sapeva di essere bello, di esserlo in un modo non volgare, di esserlo in maniera irresistibile. Gettò della cenere a terra con un elegante gesto della mano e si diresse verso l’altro, rientrando nella stanza e allungando la mano con la cicca verso il posacenere di cristallo, spegnendo quello che ormai rimaneva della sigaretta. Con sguardo impenetrabile, continuò ad avanzare, mentre Andy rimaneva saldo al centro della stanza, la fronte solcata da una ruga d’espressione profonda. Quando fu arrivato a un soffio da lui, si concesse qualche istante per guardarlo, per ammirarlo, tanto era ormai il fascino che quell’uomo esercitava su di lui.
Sherlock Holmes, superiore a tutto, perfino ai sentimenti umani, stava venendo sconfitto da un biondino sfrontato e premuroso. Che scherzo che era la sua esistenza…
“Sherlock.” sussurrò nuovamente Andy, stavolta con un briciolo di confidenza in più, ma a quanto pareva era l’unico vocabolo di cui era a conoscenza.
Sherlock, allora, alzò la mano e con un lungo e sospeso movimento delle dita gli accarezzò la guancia, soffermandosi poi sulle labbra morbide e appena screpolate dal freddo. I suoi occhi penetravano lo sguardo dell’altro disinibiti, spregiudicati, peccatori. Andy era in visibile difficoltà di fronte a quel corpo nudo e a quello sguardo intenso, ma non si scostava né distoglieva gli occhi da quelli dell’altro.
“Sherlock.” ripeté alla fine con voce bassa, grave, mentre nei suoi occhi si agitava un gorgo di emozioni e pensieri.
Un sorriso che non aveva nulla di impertinente o di ironico schiuse le labbra del moro che spostò la mano dalle labbra dell’altro al mento, afferrandolo con delicatezza e alzandolo, in modo che i loro occhi fossero relativamente alla stessa altezza. “Te la sei scopata?”
“Chi?”
“La ballerina di lap dance con cui chiacchieravi al bancone.”
“Ci hai visti?”
“Vi ho anche visti entrare nella camera riservata a quelli che non lavorano nell’ambito della prostituzione.” Andy fece per aprire le labbra, ma subito dopo le richiuse, gli occhi che traballavano appena.
“Te la sei scopata, Andy?”
“No.”
“Perché?”
Il tocco arrivò inaspettato e bruciante. La mano del medico scivolò sulla sua gamba e risalì su, indugiando appena all’altezza dell’inguine, ma continuò la sua ascesa fino a fermarsi saldamente sul suo fianco. Sherlock, completamente spiazzato, trattenne il respiro.
“Cristo, Sherlock, sei nudo.” borbottò rocamente Andy aprendosi in un sorrisetto incredulo.
“E te ne sei reso conto solo ora?”
“No, ma… sentirti è diverso.”
“Ti piace quello che senti?” domandò allora il moro portando la mano all’altezza di quella dell’altro, ma non ricevette risposta. “Se ti piace, Andy, può essere tuo. Tutto questo.”
“Tutto? Proprio tutto?” chiese di rimandò l’ex militare ridacchiando appena, mentre finalmente i suoi occhi ritrovavano stabilità nei suoi.
“Tutto.”
Andy, allora, spostò la mano dal fianco di Sherlock e la portò al petto candido e liscio, seguita dal suo sguardo dolce. “Non sono uno che si accontenta, sai? Una volta che mi hai promesso tutto, è tutto quello che voglio.”
Sherlock non seppe come interpretare quella frase, ma non seppe neanche cosa intendesse lui stesso con tutto. Stavano forse parlando del suo cuore? Impossibile. Non aveva il minimo senso. Andy gli aveva resistito per così tanto… Perché proprio ora? Ora che Sherlock si era quasi rassegnato al fatto che non fosse diverso da chiunque altro, dopo che aveva accettato di seguire una donna in una camera privata, ora che nella sua testa regnavano più confusione e dubbi che altro.
E stava quasi per chinarsi su di lui e baciarlo, quando gli occhi del medico si fecero grandi di orrore nel contemplarlo. “Sherlock… Questi lividi.”
Improvvisamente, ricordò Moriarty e il segno della sua irruente prestazione. Quella notte sembrava così lontana ora che si trovava assieme a Andy, al sicuro, quasi. Ma col ricordo di Moriarty, giunse anche il quello delle telecamere puntate su di loro, delle minacce di quel folle, delle sue ossessioni. Tutto questo lo investì con la potenza di un tir e lo lasciò completamente allo sbando.
“Un cliente ha fatto il cattivo. E’ stato punito a dovere, non preoccuparti. E’ ridotto peggio.”
“Sherlock…”
“E’ questo che faccio, Andy.” lo interruppe affilando lo sguardo. “Io mi scopo quelli che mi pagano, Andy. Forse ti sei fatto un’idea sbagliata di tutto questo, ma per essere qui e per passare del tempo con me devi pagare, altrimenti puoi anche andartene.” Ma mentre pronunciava queste parole i suoi occhi scattarono allusivamente verso la telecamera che, ne era certo, Andy aveva dovuto sicuramente notare dopo tutti i loro incontri in quel posto. Il volto dell’altro, infatti, si dipinse di consapevolezza e si limitò ad un secco cenno del capo, mentre riprendeva le distanze e allungava una mano verso la vestaglia da notte del moro.
“Ero venuto solo per una visita medica.”
“A quest’ora della notte?”
“Ero di passaggio e ho pensato di fare qualcosa di utile, ma se ritieni la mia presenza superflua non ho alcun problema a tornarmene a casa…”
Sherlock gli strappò di mano la vestaglia e se la buttò addosso con gesti altezzosi, mentre si abbandonava sul letto con uno sbuffo. “E va bene, visiti pure, ma si sbrighi.”
Andy allora, si avvicinò a sua volta al grande matrimoniale che occupava gran parte della camera, ma di fronte al suo corpo disteso sembrò indugiare. Infine, scostò il tessuto blu quel tanto che bastava per avere una visione abbastanza completa dei lividi che macchiavano la pelle chiara dell’altro. Qualcosa, nella sua espressione, lasciava presagire a Sherlock che il medico aveva capito ogni cosa, ma ciononostante non poteva permettere che scattasse proprio sotto gli occhi di Moriarty.
“Un cliente, eh?”
“Uno di quelli abituali che ormai sono alla ricerca di esperienze nuove.”
“Spero che tu l’abbia cacciato a calci in culo.”
“Non credo avrà il coraggio di farsi rivedere.”
Scese il silenzio mentre Andy passava dal controllo delle tumefazioni a quello dello stato generale della salute dell’altro. La febbre era scesa a 37.7 ma comunque i dolori addominali e alla gola non sembravano voler passare. Sherlock lo osservò lavorare per un paio di minuti, finché quello non si allontanò dal letto e riordinò gli strumenti che aveva estratto dalla borsa di pelle che, nelle foga di vederlo, non aveva notato.
“Perché non ti sei fatto vivo, questi due giorni?” sussurrò ad un tratto il biondo, ancora intento a riordinare.
“Perché non avevo bisogno di un medico.”
“A quanto pare, allora, nemmeno di me.”
Sherlock sospirò, massaggiandosi la radice del naso. Perché quel piccoletto doveva sempre complicare ogni cosa? Era certo che avesse compreso perfettamente la situazione, ma qualcosa gli diceva che non voleva stare al gioco, non completamente. “Ti ho detto che per passare del tempo con me devi sborsare…”
“Quanto mi concede questo?” lo bloccò Andy mostrandogli settanta sterline.
Si trovò a sorridere in modo completamente genuino, colpito da quel gesto: stolto Rose, non poteva sapere che per il suo tempo veniva pagato almeno il triplo. Eppure, allungò la mano e prese il compenso che gli veniva offerto, poggiandolo con indifferenza sul comodino. “Mezz’ora al massimo.” mentì, consapevole che, per i suoi standard, quel denaro corrispondeva a malapena a un quarto d’ora.
“Ottimo, mezz’ora basta.”
“Che cosa vuoi?”
Andy si lasciò cadere sulla sedia che ormai sembrava essere diventata una sua proprietà e prese a fissarlo con insistenza. “La verità? Non ne ho la minima idea di cosa voglio, Sherlock. So che voglio saperti al sicuro anche quando non ci sono, so che voglio saperti in grado di decidere quando e come fare sesso con chi vuoi, so che voglio saperti libero di andartene da questo posto, so che voglio saperti… mio.”
Sherlock sgranò gli occhi a quelle parole, mentre il suo cuore, in petto, martellava furiosamente. Andy… non stava davvero… Dannazione, no… Non con Moriarty lì ad osservarli, non con Moriarty a fremere di rabbia e di gelosia, non con Moriarty a poca distanza da loro, folle, capace di tutto.
“Andy…”
“No, adesso stai zitto, Sherlock Holmes.” lo fermò con brutalità il medico, sporgendosi in avanti, verso di lui, la mano che si serrava quasi violenta sul suo polso. Quel tocco, per un attimo, lo spaventò o meglio, lo destabilizzò. Ne riceveva di quei tocchi, è vero, di quelle prese possessive che lo trascinavano sul cliente famelico di turno, ma mai ne aveva ricevute da Andy, né mai avrebbe pensato di riceverne. E infatti scacciò il timore, relegandolo in un angolo della sua mente, perché Andy non era paura, Andy era stabilità, sicurezza, dolcezza. “La verità, Sherlock, è che ogni volta che vengo qui io vorrei farmi fottere da te. La verità è che ogni singolo giorno che trascorro qui lo faccio nella speranza di trovare il coraggio di chiederti di scoparmi. La verità è che il coraggio non lo trovo mai perché so che non sarei né il primo né tantomeno l’ultimo.” La sua stretta venne rafforzata e Sherlock mugolò appena per il dolore. Che stava succedendo? Cos’era quel barlume di follia che campeggiava nelle iridi del medico? “Io voglio che tu sia solo mio, Sherlock. Vorrei avere tutto il denaro del mondo per comprarti e portarti via con me in modo che tu non sia di nessun altro, se non mio.”
“Lasciami.” sibilò con una vena schifata nella voce mentre non sprecava neanche energie a divincolarsi. C’era qualcosa di sbagliato in quell’improvviso cambio d’atteggiamento di Andy, qualcosa che stonava orribilmente. Ne riceveva talmente tanti di discorsi simili, chiunque voleva averlo solo per sé, molto spesso dopo due, tre notti insieme, invece lui pretendeva il suo monopolio senza mai aver neanche provato a sfiorarlo con la malizia che caratterizzava chiunque altro che l’avesse bramato egoisticamente. Non aveva alcun senso, Andy si era sempre rifiutato di venire a letto con lui, di occasioni ne aveva avute così tante, perché aveva deciso di reagire proprio in quel momento… Oh. Un’illuminazione chiarissima. Una consapevolezza tanto trasparente quanto, sicuramente, realistica. E dovette fare appello a tutto se stesso per non aprirsi in uno stupido sorriso di sollievo.
“No, Sherlock, non ti lascio.” ribatté prontamente l’ex militare alzandosi dalla sedia e inginocchiandosi accanto a lui sul materasso. “Io non sono come gli altri. Io non mi accontenterò di una mezzora. Ogni volta che verrò qui, ti sfiderò a portarmi a letto solo per resistere e vederti sconfitto. Se non posso averti in esclusiva, allora vorrà dire che ruberò tempo inutilmente ad altri.”
“Beh, tanto vale che approfitti del tempo insieme, no?” replicò con un sorrisetto sfrontato a cui l’altro rispose con uno ringhio basso.
“Nossignore, troppo facile darla vinta al celebre Angelo caduto. Sei diventato la mia ossessione, Holmes. E ti giuro che non ti libererai di me tanto facilmente.” Detto questo, Andy si allontanò dal letto, scrutandolo torvamente, e si diresse verso la porta, ma una volta giunto sulla soglia si fermò. “Ah, quasi dimenticavo, faresti bene a rispondermi al telefono quando ti chiamo o ti scrivo dei messaggi, altrimenti… potrei non rispondere più delle mie azioni.”
Sherlock scattò in piedi, scivolando rapidamente verso l’armadio in cui aveva appeso la giacca di Andy e vi infilò furtivamente le settanta sterline che il medico aveva lasciato sul comodino. “Ehi, tu, stalker del cazzo!” ringhiò prima che quello potesse chiudersi la porta alle spalle. “Prendi questa tua merda. E’ troppo tamarra per me.”
Andy afferrò al volo la pesante giacca e neanche si scompose a quel lancio improvviso e inaspettato. I suoi occhi, ora che erano fuori dal mirino della telecamera, si erano addolciti, anche se non si era sbilanciato a rilassarsi completamente, probabilmente nella possibilità che ve ne fossero altre nascoste. Non si salutarono in alcun modo, né a parole, né a gesti, né con gli sguardi. Entrambi sapevano e dentro quasi gongolavano per il modo brillante in cui avevano aggirato la sorveglianza di quel folle del capo del bordello.
Quando chiuse la porta, Sherlock si fiondò sotto le coperte, occultando il volto sotto la trapunta e le lenzuola. Sorrideva e lo faceva con calore e disinibizione. Andy Rose era stato eccelso, semplicemente eccelso. Aveva escogitato in pochissimo tempo uno stratagemma per crear loro un alibi di ferro agli occhi di qualcuno che neanche conosceva ma sapeva essere pericoloso. Che fottuto genio! Sherlock sentì il cellulare, nella tasca della vestaglia, vibrare e attese un’ora buona, perso nei suoi pensieri stupidamente felici, prima di guardare il mittente del messaggio.
 
Perdonami se ti ho fatto male.
 
Ti prego, dimmi che stai bene e che non ho rovinato tutto.

 
Sherlock avrebbe davvero desiderato con tutto se stesso trovarsi lontano dalla vigilanza di Jim per scoppiare a ridere di cuore. Rovinare tutto? Ma se aveva avuto la meravigliosa abilità di salvare il loro rapporto, avvolgendolo con un’immensa bugia, mascherandolo e rendendolo la cosa più vera mai esistita sulla faccia della terra. Dio, quanto era inevitabilmente attratto da quell’uomo!
 
Sto bene, non preoccuparti e comunque non hai rovinato niente, anzi.
 
Credo che sarebbe più saggio vederci fuori da questa merda, per il momento.
 
A meno che tu non voglia ripetere l’esperienza di oggi.
 
Attese la risposta dell’altro che, probabilmente, era andato a dormire e solo l’indomani avrebbe avuto occasione di scrivergli. Invece, come al solito, Andy Rose, quella splendida contraddizione che era Andy Rose, cambiò le carte in tavola.
 
No, grazie, con oggi credo di essere apposto per sempre.
 
Forse dovremmo anche smettere di scriverci. Chi ha messo
quelle telecamere potrebbe benissimo controllarti il
telefono.

 
Sherlock sorrise nel digitare la risposta.
 
Hai ragione, forse dovremmo…
 
Ma?
 
Ma non credo di riuscire a vincere la scommessa
senza flirtare con te neanche via sms.
 
Sei un’idiota.
 
Lo so. :)
 
Una faccina. Dio solo sapeva quanto odiava le persone che inviavano faccine. Eppure, l’aveva appena fatto e rideva di se stesso perché lo Sherlock che era diventato era incredibilmente simile ad un quattordicenne – non che fosse mai stato il ritratto della maturità. Si chiese come sarebbe stato se quello che aveva detto Andy fosse stato reale. Si chiese come sarebbe stato se Andy lo avesse voluto davvero in un modo insano come lo voleva Moriarty. Probabilmente avrebbe cominciato a ripudiarlo come faceva col suo capo, però… Però immaginarsi oggetto della lussuria del medico militare era davvero tutt’altra questione.
 
Sogni d’oro, Sherlock.
 
Lesse quel messaggio col cuore traboccante di gioia. Com’era possibile essere così felici per un paio di sms? Non era da lui, non era dal suo essere calcolatore, non era dal suo tenersi distante dai sentimenti… Ma Andy era una chiave. E le chiavi esistono per aprire porte e svelare misteri. Che fosse proprio lui il mistero celato dietro alla porta che portava addosso la serratura compatibile con la chiave di Andy Rose?
 
Sogni d’oro, Andy.
 
E proprio mentre era sul punto di lasciarsi abbracciare dalla spumeggiante cappa di sonno che lo avvolgeva, pensò alla ragazza di Victor e a come avrebbe reagito se lui avesse trovato il coraggio di rivelarle la verità. Si chiese se Andy avrebbe mai potuto accettarlo come compagno per la vita, con tutti i suoi difetti e il suo passato. Se avrebbe mai potuto amarlo.

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SPAZIO AUTRICI
Ragazzi, scusate ma oggi è un tram tram... Facciamo che per una volta saremmo brevi. Speriamo vi sia piaciuto e vi aspettiamo domenica prossima. Più concise di così...

Alla prossimaaaa

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Capitolo 5
*** Swear You Won't Fall For Me ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 

Swear You Won't Fall For Me
 
Nel cielo notturno londinese, una cosa che difficilmente era possibile trovare, erano le stelle. Nelle serate più terse e calme, quelle più ariose e meno umide, si intravedevano le loro timide e fioche luci, dietro il blu intenso di quel manto notturno.
Erano passati ormai quattro giorni da quando aveva dovuto fingersi uno stalker ossessionato da Sherlock per parare il culo ad entrambi. Durante quel lasso di tempo in cui si era dovuto tenere distante dal moro, si era comunque intrufolato il più furtivamente possibile nel locale, alla ricerca di una pista da seguire. La nottata passata con Mary aveva sorbito i suoi effetti: la ragazza aveva fatto in tempo a condurlo in camera, prima di crollare sul letto, in preda all’esuberanza dettata dalla polverina che lui le aveva disciolto nel cocktail e si era dimostrata come un libro aperto. Aveva scoperto del coinvolgimento del loro capo – il cui nome però non era stata abbastanza audace o più semplicemente abbastanza drogata da rivelare – con la clinica di Culverton Smith, quel fetente ed insignificante ometto che sponsorizzava associazioni di beneficienza solo per accrescere la popolarità del suo nome. A quanto pareva, gli avversari del capo del Morningstar, quelli scomodi e che si trovavano in mezzo alla sua strada, venivano inviati in quell’ospedale con la scusa di una disintossicazione, a volte anche per droghe che in vita loro non avevano mai assunto, ma d’altronde era la parola loro contro quella di una clinica specializzata, anche se corrotta. Avrebbe dovuto, dunque, indagare anche su Smith. In secondo luogo, il capo aveva una notevole influenza persino nel campo del giornalismo ed era associato ad un certo Magnussen, uno dei più importanti giornalisti non solo in Inghilterra, ma persino in Europa. Da quanto aveva capito dai discorsi farneticanti di Mary, colui che gestiva il locale vendeva a Magnussen informazioni – che loro chiamavano col nome di pressure points – su soggetti appartenenti all’alta società, come politici o ambasciatori, giudici e magistrati, che poi il giornalista catalogava nel suo archivio segreto per ricattare i malcapitati. E, ultimo ma non per importanza, l’apparenza gentile ed innocente della ragazza che aveva appena messo KO era solo una facciata: Mary era un sicario e apparteneva alla cerchia vicina al capo assieme ad altri quattro agenti su cui, però, era stata in grado di tacere. Estorta la confessione, John si era limitato a farsi una rapida doccia, approfittando di quel lussuoso bagno, e a prepararsi ad affrontare Sherlock.
Con un sospiro, si passò i palmi delle mani in viso, gli occhi che gli bruciavano a causa delle molte ore trascorse su internet alla ricerca di informazioni utili su Culverton Smith e Charles August Magnussen. Era mortalmente stanco e nonostante le informazioni raccolte, si sentiva sempre troppo lontano dalla verità e, soprattutto, dal liberare Sherlock. Per quella sera, avrebbe cercato di mettere da parte il lavoro, la missione, Mycroft, il Morningstar e sì, anche Sherlock. Quella notte si sarebbe concesso delle sane ore di riposo, in modo che l’indomani si sarebbe svegliato ristorato e determinato. Si alzò dalla scrivania, la schiena che doleva appena per le numerose ore seduto, ma improvvisamente qualcosa lo paralizzò sul posto.
Il motore di una moto. Sempre più vicino, sempre più vicino… Infine fermo di fronte a casa sua. Attese, la moto che, di colpo, tacque. Si rese conto che l’intera casa era avvolta dal buio e che quella era l’unica stanza con la luce accesa. Estrasse con movimento fluido la pistola dalla cintura, mentre faceva per avvicinarsi cautamente alla finestra e spiare chiunque avesse parcheggiato di fronte a casa sua, ma inaspettatamente il vetro di fronte a lui venne colpito da un sasso dalle dimensioni infime. Che razza di esecuzione era mai quella? Si appiattì contro la parete e, nascondendosi dietro alla tenda, allungò l’occhio verso la strada che si stendeva di fronte alla sua residenza. E ciò che lo vide, gli provocò turbamento e, al contempo, sollievo.
Aprì la finestra di scatto, bloccando uno Sherlock in procinto di lanciare un secondo sasso contro la finestra. Con un’espressione allusiva, fece roteare alla luce del lampione la pistola nera e lucida.
“Cos’è, stavi per suicidarti tanta era la mia mancanza?” gli domandò il moro da sotto, a voce alta.
“In realtà stavo per puntartela contro.”
Sherlock si dipinse in viso uno sguardo allibito. “Non ci siamo ancora sposati e già vuoi sbarazzarti di me?”
“Che razza di concezione hai dei matrimoni?”
“Sposami e lo saprai!”
“E’ una proposta ufficiale?”
“Solo se accetti, se rifiuti farei la figura del coglione.”
“Non ti sei neanche messo in ginocchio.”
“Ho ancora una dignità, Rose!”
John ridacchiò e infilò la pistola nella fondina, scuotendo appena la testa, un gesto che era ormai solito fare in presenza di quel folle.
“A questo proposito, chi cazzo è John Watson? C’è il suo nome sull’etichetta accanto al citofono.”
“Quello che abitava qui prima di me. Non ho ancora avuto modo di sostituirla. Aspetta che scendo.”
E infilandosi una giacca, scese le scale di corsa, fino ad arrivare al piano terra dove, prima di uscire, si osservò nello specchio che troneggiava sopra al mobiletto delle scarpe. Preso un respiro profondo, uscì all’aria fresca della sera.
Sherlock lo aspettava con fare provocante, appoggiato lascivamente alla sella della motocicletta e intento ad osservarlo come un dolce vivente. “Salve, dolcezza.”
“Che diavolo ci fai qui? Come hai fatto a trovarmi? Tu hai una moto?”
“Piano, piano, piano.” lo frenò il moro ridacchiando e sventolandogli davanti le mani disposte a simboleggiare il time out. “Una domanda alla volta: ti ho trovato rintracciando il segnale GPS del tuo telefono; tecnicamente la moto è di Victor ma me l’ha, inconsapevolmente, prestata; infine sono qui perché per stasera il Morningstar è chiuso alla clientela per celebrare il compleanno di Irene e lei ha espressamente chiesto di volere una festicciola intima, solo dipendenti.”
John incrociò le braccia, un sopracciglio inarcato. “Il che non spiega perché tu sia qui visto che saresti tenuto a partecipare.”
“Dio, come sei noioso! Quasi quasi me ne ritorno a quella tortura. Se in trecento sessantaquattro giorni l’anno i lavoratori all’interno di un bordello sanno perfettamente come divertirsi, c’è sempre quel giorno, il loro compleanno, in cui perdono completamente lo spirito e si dedicano a balli di gruppo, giochi infantili come quello delle sedie o quello della mela… Non fraintendermi, sarei morto dalla voglia di partecipare alla festa e cantare Happy birthday to you alla cara Irene, ma poi ho pensato che tu avresti passato la serata solo soletto, a casa tua, senza nessuno accanto… E così mi sono dovuto sacrificare.”
“Immagino quanto ti sia costato.” sogghignò Watson di rimando. “Ad ogni modo, avrei anche potuto avere compagnia. Stai dando per scontato che io sia solo come un cane.”
“Andy, Andy…” sospirò Holmes sentitamente esasperato. “Credevo che ormai avessi imparato a non chiedermi di sottolinearmi l’ovvio. Un uomo con dei saldi principi morali come te, come abbiamo già potuto appurare la prima sera che ci siamo conosciuti, non avrebbe mai potuto frequentare un bordello se immischiato in una relazione. Non sei tipo da tradire.”
“Magari frequento il bordello per altri motivi.” replicò l’agente assumendo la stessa espressione saccente dell’altro.
“Ah sì? Illuminami.”
“Magari sono una spia incaricata di indagare su di te e sul vostro covo di amoralità.” continuò celando una mezza risata. Forse si stava esponendo troppo, ma Dio se gli piaceva giocare col fuoco, giocare con Sherlock.
“Beh, a questo punto…” iniziò il moro staccandosi dalla motocicletta argentea e avvicinandoglisi pericolosamente, le dita che presero a giocherellare con i primi due bottoni della camicia dell’altro che si era dimenticato di chiudere. “… ci sono molti modi per estorcere informazioni, sai?”
“Sul serio?”
“Sì…” continuò Holmes scostandogli i due lembi della camicia e rivelando la sua pelle abbronzata, pelle che quello si perse a contemplare con interesse. “Sono certo che, con i giusti mezzi ovviamente, saresti capace di farmi urlare qualsiasi cosa tu stia cercando…”
John cercò di celare il disagio e l’inadeguatezza che provava ogni volta che allusioni come quella lasciavano le labbra di Sherlock, sbuffando e afferrando il casco appoggiato sulla sella della moto.
“Ehi, quello è mio…” borbottò l’altro con volto corrucciato.
“Non più, mi spiace.”
Montarono in sella e se l’intento di John era quello di riacquistare il controllo che sembrava essere sempre più debole quando si trattava del moro dagli occhi acquamarina che tormentava il suo cervello da un po’ di tempo, allora era solo un povero illuso e un idiota. Sherlock gli prese le braccia ciondolanti completamente a caso e se le portò ai fianchi, incoraggiandolo ad avvicinarglisi e a premersi contro di lui. John seguì i suoi movimenti con riluttanza e insicurezza, terrorizzato all’idea che il suo corpo avesse potuto commettere qualche sciocchezza da un momento all’altro. “Agitato, signor spione?”
“N-no.” balbettò, chiudendo la mandibola sulla lingua non appena si rese conto del suo tono tremante di voce.
Sherlock ridacchiò e con gesti sicuri mise in moto e partì, John, dietro, che gli si stringeva contro con disperazione per resistere alla velocità. Al primo semaforo, l’agente ebbe la tentazione di scendere e piantarsi in mezzo alla strada col muso per quella completa pirateria stradale.
“Non potresti andare più piano!?” sbottò allora allentando la presa e cercando di riacquistare la distanza.
“Lo vedi? Se andassi piano non ti spiaccicheresti contro di me. E’ bello sentire ogni parte del tuo corpo.”
“Cristo santo, Sherlock, un’altra parola, una sola parola e ti assicuro che…”
Ma il rombo del motore gli fece ingoiare l’intera frase e lo spinse a premersi contro la schiena dell’altro. E va bene, si disse, questo match glielo avrebbe anche concesso, ma la guerra contro Holmes era ancora lunga. Molto lunga. Dopo una decina di minuti, arrivarono ad un locale all’apparenza non troppo grande, con un’incessante musica che sembrava risuonare ovunque prorompente e disinibita. John scese rapidamente dalla motocicletta, lieto che quel supplizio fosse finito, ma poi si ritrovò a fissare dubbiosamente l’edificio di fronte a lui.
“Una discoteca?”
“Avevo voglia di ballare.”
“Non ho mai sentito di questo posto.”
“E’ un posticino per pochi intimi. Io conosco bene la proprietaria, viene al Morningstar almeno tre volte la settimana, quando non è impegnata qui.”
Annuì un paio di volte. “E immagino che s’intrattenga con te.”
“Oh, sì, solitamente passiamo il tempo giocando a burraco. Sono le serate più estreme.” scherzò Sherlock sfiorandogli la schiena e provocandogli una serie di brividi incontrollabili. “Andiamo?”
“Okay…”
Entrarono nel locale che, effettivamente, non era grandissimo né pieno zeppo di gente. Era un posticino niente male, se proprio doveva ammetterlo, con un gusto nell’arredamento raffinato ma al contempo semplice. Due ragazze presero loro i cappotti e porsero loro due drink offerti dalla casa. John si soffermò un secondo in più a contemplare la figura di una delle due e non si accorse dello Sherlock infastidito che si diresse a tutta velocità verso la pista da ballo con tanto di broncio e sospiri.
Quando, finalmente, distolse lo sguardo dalla donna – terribilmente somigliante ad Anthea, l’assistente di Mycroft – cercò la figura dell’altro in mezzo alla pista, ma lo trovò piantato in disparte, le braccia conserte e il volto corrucciato.
“Dov’eri finito?” gli chiese avvicinandoglisi con tono infastidito.
“Scusa se mi ero stancato di aspettare che la tua analisi a raggi x della tipa finisse.” sputò improvvisamente sulla difensiva il moro.
“Ehi, ma che ti prende tutto ad un tratto?”
“Niente, Andy, niente.”
Attesero in silenzio, lì impalati come due statue, per una decina di minuti abbondante, finché una ragazza con l’aspetto di una scolaretta troppo cresciuta, con tanto di occhiali e cravattino, non si avvicinò loro e invitò Sherlock a ballare. John avvertì subito un fastidio non indifferente nello scorgere il sorriso spontaneo che affiorò sulle labbra dell’altro.
“Divertiti.” borbottò allora con un sospiro.
Il moro sussurrò qualcosa all’orecchio della ragazza che annuì con un mezzo risolino e tornò in pista, mentre lui si accostò nuovamente a Watson, un’espressione divertita in volto. “La prima.”
“La prima che?”
“La prima vittima. La seconda sarà quel tizio tutto muscoli là. Poi sarà il turno di quel ragazzo con i capelli rossi e infine…”
“La ragazza che al momento è in bagno a rifarsi il trucco?” ironizzò John con un sopracciglio inarcato.
Lo sguardo di Sherlock si tinse di ombroso mistero. “No, sarai tu.”
E prima che potesse rispondere, il moro si volse e seguì la ragazza di prima in pista, in un punto abbastanza vicino a John perché lo potesse vedere. Ammirare. Gli occhi blu dell’agente erano sgranati, rapiti nell’osservare quei movimenti sinuosi e provocanti. Sherlock non si limitava a ballare, no, la sua filosofia nel muoversi non era quella di divertirsi, di limitarsi a seguire la musica… La sua filosofia era di attrarre su di sé ogni sguardo, di provocare, di sedurre… La ragazza era sempre più vicina, sempre più eccitata, le sue braccia circondarono il collo del moro, il suo bacino si attaccò al suo e John avvertì il bicchiere che gli era stato offerto dalle due all’entrata stridere, tanta era forza la sua presa sul bicchiere. Poteva essere geloso? Geloso di Sherlock? Così geloso di Sherlock? C’era qualcosa fra di loro, non poteva negarlo, ma da lì a provare una simile emozione distruttiva troppo doveva correre. Giusto?
Improvvisamente, Sherlock si separò dal corpo della ragazza per avvicinarsi ad un uomo muscoloso, lo stesso che prima aveva indicato come seconda vittima. E quello osò ancora di più della biondina: si accostò a lui, le mani che scivolarono verso le sue natiche e John avrebbe davvero voluto intervenire e… e cosa? Non lo sapeva nemmeno lui. Ma il culmine della gelosia si scatenò quando, dopo una mezz’ora buona che Sherlock ancheggiava senza freni attorniato da chissà quante altre vittime che non aveva calcolato, il rossino designato come terza preda conquistò completamente la sua attenzione, distaccandolo dal resto del gruppetto e tenendoselo stretto in un abbraccio possessivo, le mani che percorrevano ogni centimetro della sua schiena.
John, finalmente, dopo minuti di supplizio di fronte a quella visione, si staccò dalla parete a cui si era praticamente incollato dall’inizio della serata e marciò verso i due, scansando brutalmente gli ostacoli che gli si paravano davanti. Il rossino stava ghermendo i fianchi magri di Sherlock da dietro, le sue labbra che sondavano la pelle del collo latteo dell’altro, e John… John sentiva la rabbia dirompere, fluire, eruttare nel momento in cui riuscì a stento a trattenere l’irrefrenabile impulso di ghermire il braccio del moro e tirarlo via da quel tizio. Invece, si limitò a schiarirsi la voce con malcelato fastidio.
E la verità era che non avrebbe mai creduto potesse funzionare. Sherlock si volse con un sorrisino malizioso stampato in viso, come se non aspettasse altro che rinfacciargli la sua gelosia. Anche se, ovviamente, John non era geloso.
“Scusa, amico, sarà per un’altra volta. Mi trovi al Morningstar, se sarai ancora così eccitato.”
John inarcò un sopracciglio nel momento in cui l’altro si abbassò sul rossino, rubandogli un bacio a stampo, per poi limitarsi ad allontanarsi per avvicinarsi a lui che, nel frattempo, non aveva più la minima idea di che cosa fare. “Allora, signor spione, come vede ho sempre ragione.”
“E quello cosa significava? Mi hai portato qui per attirarti nuovi clienti? Quelli che già hai non ti bastano?”
C’era seccatura nel modo in cui la sua voce aveva pronunciato quelle parole e lui ne era, sfortunatamente, ben consapevole. E quel fottuto sorriso che Sherlock non pareva volersi sciacquar via dalla faccia non faceva che aumentare quel malessere che provava. Avrebbe voluto fare così tante cose in quel momento – prenderlo a pugni, fracassargli il naso, spaccargli un labbro, fare tutto questo a quel rossino che, ancora, non aveva distolto gli occhi dal suo amico, e… Dio. Quando quell’ultimo pensiero si affacciò alla mente di John, si trovò spiazzato, la gola improvvisamente secca. Ci sarebbe stato un modo per ribaltare le carte in tavola al signor stronzetto lì presente, ciononostante non avrebbe rinunciato alla sua dignità solo per battere quel fetente.
Sherlock si spinse contro di lui, circondandogli il collo con le braccia e accostandosi a lui con sguardo lascivo. “Vuole avere il monopolio, signor spione?” sussurrò mentre la musica disco si abbassava, lasciando posto ad un lento. “Non vuole condividermi con nessuno?” Le mani di John formicolavano. Non aveva la più pallida idea di cosa farne, avrebbe tanto voluto che sparissero, ma improvvisamente Sherlock spinse con provocante lentezza il proprio bacino contro il suo, mentre con le labbra si abbassava su di lui, raggiungendo l’orecchio. “Può anche poggiarmele sui fianchi, Mr gelosia.”
“Quanti titoli hai ancora in mente?” domandò il biondo ignorando quel contatto allusivo e la voce calda dell’altro ad un soffio da lui.
“Credimi, Andy, non sono ancora a metà e se mi permettessi di spingermi un pochino oltre potrei trovarne altrettanti, se non di più.” rispose semplicemente l’altro.
John sospirò, mentre le sue mani indugiavano sui fianchi magri eppure morbidi di Sherlock. Ballavano lentamente, rimanendo praticamente fissi sul posto, ondeggiando tra tante altre coppie perse in quegli abbracci che chissà quanto rappresentavano per loro. Sherlock e John, invece, erano lì per caso, corsi su di una motocicletta rubata – o presa in prestito – solo per sfuggire un po’ alla noia di un party di compleanno, arrivati in quel locale per scambiarsi battutine cariche di malizia e per scommettere su loro stessi.
“Sette.”
“Come, scusa?”
“Sette persone che hanno ballato con te prima di me, da quel che ho potuto contare.”
Sherlock ridacchiò appena. “Mi sorprende tu li abbia contati.” Mentre la musica si faceva più struggente e, al contempo, appassionata, fece scivolare la sua testa sulla spalla di John, nonostante la differenza d’altezza, e in quel vero e proprio abbraccio continuarono a muoversi piano, quasi non respiravano, e c’era davvero qualcosa di magico in quei passi, in quegli occhi semichiusi, in quei corpi stretti l’uno all’altro. Fu in quel momento, che John lo sentì. Forse fu un abbaglio, forse fu un’effimera illusione, eppure… Il cuore di Sherlock, contro il suo petto, galoppava ad una velocità irregolare. Si staccarono appena, gli occhi allacciati insieme, le mani ancora serrate sui fianchi e sulle spalle uno dell’altro. Erano vicini e un bacio avrebbe potuto spezzare ogni equilibrio, ogni certezza, perché un bacio era esattamente quello che sarebbe potuto scaturire da un minimo avvicinamento fra loro. Ma un bacio sarebbe stato paragonabile ad un peccato mortale. Non potevano, non dovevano. John era un agente sotto copertura e Sherlock era un prostituto di professione, abile, ingannevole. Chissà quanti altri stratagemmi aveva in sacco per sconfiggere quel rimasuglio di buon senso ancora aggrappato alle sue pareti cerebrali.
“Mi gira un po’ la testa.” sussurrò allora, scostandosi appena.
“Ci vuole così poco per piegare la tua resistenza, Rose? E io che credevo avrei conseguito un record a letto con te.”
John, di riflesso, scoppiò a ridere, mentre la musica taceva e veniva sostituita da una più movimentata, che indusse la maggior parte delle persone in pista a riprendere i loro movimenti scoordinati e confusionari. Scorse gli occhi dell’altro sfrecciare alle sue spalle e un debole cenno del capo, come di saluto.
“Vieni, ti presento una persona.”
E detto questo, Sherlock gli prese una mano e lo tirò con sé verso la figura di una donna dai morbidi capelli castani che le ricadevano sul fisico robusto.
“Janine.” la salutò il moro schioccandole due baci sulle guance.
“Sherl.”
Sherl? si ripeté John inarcando un sopracciglio.
“Andy, lei è Janine, la proprietaria di questo locale. Janine, questo è Andy Rose, la persona di cui ti ho parlato.”
“Le hai parlato di me?”
Janine ridacchiò, un’espressione furba dipinta in volto. “Oh, sì. Mi ha chiesto di cambiare apposta la musica una volta che quel biondino da favola, come ti ha definito, lo avesse raggiunto in pista. Non mi sarei mai aspettata di avere l’onore di incontrare il ragazzo di Sherl.”
“Non sono il suo ragazzo.” ribatté prontamente l’agente.
“Per altro” continuò lei come se non l’avesse sentito. “non credevo nemmeno che i dipendenti di un bordello potessero avere una relazione vera e propria al di fuori di quel posto. Devi essere un tipo molto tollerante, Andy.”
“Non sono il suo ragazzo.” ripeté allora lui, un’espressione esasperata in volto.
“E a letto com’è? Intendo, è passionale? Aggressivo? Violento? Disperato?”
“Tutti questi insieme, Janine. Io e Andy, col sesso, facciamo scintille.” intervenne il moro lanciando uno sguardo allusivo in sua direzione che, per tutta risposta, corrugò la fronte in un’esemplare manifestazione d’astio.
“Non sai che invidia, Andy.” sospirò quasi tristemente la donna.
John alzò gli occhi al cielo. “Sì, beh… A questo proposito, Sherl, perché non andiamo a casa?”
“Di già? Non è neanche mezzanotte.”
“Sai, per mostrarmi tutti questi lati di te ci vuole un po’ di tempo.” rispose semplicemente prima di sfoggiare un sorriso di circostanza in direzione di Janine. “E’ stato un piacere.”
“Per me non troppo, se devo essere sincera.” rise lei stringendogli la mano e piegandosi, all’ultimo, su di lui. “Tienitelo stretto.” mormorò al suo orecchio prima di scostarsi, baciare sulla guancia Sherlock e defilarsi.
Arrivati di fronte alla sua casa, John scese rapidamente, sfilandosi il casco e porgendolo al moro che, a sua volta, era balzato giù dalla moto. “Grazie della serata.” borbottò il biondo, non troppo convinto.
“Non mi inviti a salire?” domandò subitamente l’altro con un accenno di sentita speranza nella voce e in volto.
“Al primo appuntamento? Questa sera mi hai chiesto di sposarti, ho ballato e ho scoperto di essere il tuo ragazzo. Un po’ troppo insieme, non trovi?”
“Per me non esiste la parola troppo.” ribatté Sherlock con un sorriso diabolico. “Comunque, se davvero dev’essere un primo appuntamento che si rispetti, uno di quelli insensati da film, allora mi merito, almeno, un bacio.”
John gli rifilò un occhiata di biasimo a quelle parole, ciononostante non retrocedette per tornarsene a casa come si era prefissato di fare, no, rimase immobile qualche istante ancora, infine, si alzò sulle punte dei piedi e le sue labbra depositarono un bacio casto. Sherlock chiuse gli occhi, nonostante, molto probabilmente, dentro lo stesse maledicendo per quello stupido contatto da elementari e, forse, anche asilo. Però Sherlock chiuse gli occhi e non disse niente. Quando, infine, John si staccò e fece per imboccare l’ingresso, la voce baritonale del moro lo trattenne: “Un bacio sulla fronte, Andy? Cosa sei, mia madre?”
Si volse con un sorrisetto ironico a stirargli le labbra. “Non era un bacio. Stavo solo controllando se la febbre fosse definitivamente scesa. Fortunatamente se n’è andata.”
“Anche la mia pazienza, dottore.” rimarcò Sherlock ficcando le mani in quel giubbetto di pelle nera così inusuale per un tipo da giacca e cravatta come lui.
“Forse devi solo spostare il tuo mirino su qualcun altro.”
“Non lo farò. Non lo faccio mai.”
“Allora ti guarderò perdere malamente, Holmes.” rise John prima di accennare un gesto di saluto con la mano e rientrare in casa, lasciando uno Sherlock perso a scrutare il vuoto sotto una volta celeste senza stelle.
 
Molly Hooper era una ragazza di appena sedici anni. A guardarla, il suo viso etereo pareva quello di una bambina in fasce, innocente, inconsapevole, inadatta a frequentare quel luogo. Era un’aspirante ballerina, stava lavorando sodo sotto lo sguardo critico di una Mary, quel giorno, dispotica e nervosa. John era da poco entrato nel locale ancora chiuso al pubblico e si era accinto ad uscire quando aveva scorto il corpo della ragazzina attorcigliarsi in movenze seducenti, quando la voce di Mary lo aveva costretto a rimanere.
“Le farà bene un po’ di pressione dall’esterno.”
Molly era vestita con una tuta abbastanza coprente, costellata di strass, e aveva il viso imbrattato di un trucco pesante, ma nonostante tutto, lo sguardo che gli rivolse corrispondeva a quello di una bambina implorante.
“Non voglio che si senta a disagio.”
“Non deve sentirsi a disagio, Andy, deve ballare e far eccitare chiunque la guardi, direi che siamo lontani anni luce da questo risultato.” ribatté con voce secca e severa l’altra, le braccia incrociate e gli occhi freddamente fissi sull’allieva. “Avanti, tu, che stai aspettando? Vuoi un biscottino?”
Era diversa, Mary. Solo uno stupido non se ne sarebbe reso conto e di certo John non era uno di quelli. Insomma, sapeva perfettamente di quello che aveva fatto, del sangue che scorreva sulle sue mani, dietro a quel sorriso serafico, ma quell’atteggiamento improvvisamente aperto e disinibitamente ostile nei suoi confronti lo mise in allarme, così, mentre Molly si apprestava a riprendere l’allenamento, si sforzò di sfiorarle delicatamente una spalla. “Va tutto bene?”
Mary gli rifilò un’occhiata truce. “Se va tutto bene? No, Andy, non va tutto bene. Che cazzo ci fai qui? Sei venuto per lui, non è così?”
“Io…” Ma fu costretto a mordersi il labbro, con aria colpevole. Lo sguardo che dimorava sul volto della donna era un mix letale di odio e tristezza, due emozioni così ossimoriche da confondere e turbare se accostate insieme.
“Ho saputo, sai, della tua ossessione per lui. Qui dentro non si parla d’altro. Non credevo che anche tu potessi essere così demente da infatuarti di uno simile!” gli urlò contro, isterica. “Vuoi scoparti uno strambo? Uno psicopatico? Accomodati, è su di sopra che si tira l’uccello pensando a te e alla tua perversa ossessione!”
John le si fece vicino indurendo lo sguardo al punto da sembrare minaccioso, ambo i pugni chiusi in una morsa con cui avrebbe felicemente spaccato qualcosa se non si fosse trovato nel bel mezzo di una grande pista da ballo spoglia. “Non osare più rivolgerti a lui in quel modo. Sono stato chiaro?”
“Altrimenti che fai, eh? Non puoi niente qui dentro! E’ il mio regno. Sono tra i favoriti del capo e anzi, parlami ancora come hai appena fatto e non ti assicuro che tornerai tutto intero a casa.”
“Se stai cercando di spaventarmi, mi spiace ma non funzionerà.”
“Certo! Certo che no! Perché sei pazzo, proprio come quello per cui ti struggi tanto!” ruggì lei di rimando, pestando un piede a terra. “Sai che c’è? Fottiti, Andy Rose, e fa’ in modo che non debba più incrociare la tua stupida faccia di nuovo!”
John osservò la schiena di Mary allontanarsi verso il piano di sopra, probabilmente diretta all’ala destinata ai ballerini di lap dance. Non riusciva a spiegarsi una simile scenata – ovviamente non ne era affatto sconvolto, al contrario. Provava un ribrezzo istintivo per quell’isterica biondina che, a quanto pare, l’aveva preso più che in simpatia. Con la coda dell’occhio, scorse Molly Hooper scendere dal palchetto e afferrare una camicetta aperta con cui avvolgersi le spalle, ma quando capì che aveva intenzione di sparire a sua volta, la richiamò.
“Molly?” La ragazza si gelò sul posto, la schiena rigida, e le braccia a tirarsi ancora più prepotentemente la camicetta addosso. “Posso parlarti?” domandò ancora in tono dolce, avvicinandosi a passo incerto. Era come avere proiettato davanti agli occhi il fascicolo di quella povera ragazza completamente abbandonata a se stessa, chiusa in un orfanotrofio dalla nascita e ripetutamente delusa da tutte le potenziali famiglie adottive. La sua storia era stilata in pochi trafiletti, troppo breve, troppo concisa, troppo riassuntiva, perché una vita simile, seppure breve, seppure priva di episodi eclatanti, non poteva venire accorpata in poche righe d’inchiostro. Sin da quando quel fascicolo gli era capitato in mano, aveva atteso il momento di incontrare quella coraggiosa Molly Hooper, data per dispersa dall’orfanotrofio da più di due mesi e che, a quanto pareva, aveva trovato rifugio tra quelle infide mura.
“Che cosa vuole?” chiese di rimando lei, senza voltarsi. “Come sa il mio nome?”
“Beh, ecco… Mary mi aveva parlato di te.”
“Impossibile. Mary mi detesta.”
Un sorrisetto schiuse le labbra dell’agente. “Non ho mai detto ne avesse parlato in bene.”
“Infatti.” concordò la ragazza degnandolo appena di un’occhiata incerta. “Nessuno parla bene di me. Non l’hanno mai fatto prima non lo fanno adesso, né mai accadrà. Sono insignificante, nessuno mi vede o mi considera, io sono… sono nessuno.” L’amarezza in quella lapidaria frase lo colpì in pieno, lasciandolo completamente a bocca aperta, ma non ebbe tempo di ribattere che lei aveva già ripreso la parola. “Ad ogni modo, grazie.”
“Per che cosa?”
“Per aver difeso Sherlock.” rispose lei con una semplice scrollata di spalle. “Sono in pochi, ormai, che lo fanno. Persino Victor e Irene, quelli a lui più vicini, hanno smesso di proteggerlo da simili diffamazioni.”
“Lo conosci bene?”
Un lieve rossore le imporporò le gote. “No, io… L’avrò intravisto sì e no un paio di volte… Però mi piace. Non in quel senso! Intendo che… intendo che è un tipo apposto… E che non merita le cattiverie che qui dentro girano su di lui.”
“Pensavo godesse di ottima fama.”
Molly sospirò, voltandosi, finalmente, verso di lui. “Forse fuori, ma dentro… lo odiano tutti per la sua… abilità, chiamiamola così.” Un nuovo alone d’imbarazzo le chiazzò il volto. “Tra l’altro, tutti sanno quanto il capo gli sia legato.”
“Sì, ho sentito parlare del loro… legame.” sputò con acidità lui, le nocche che si sbiancavano ancora di più a causa della stretta a cui stava esercitando i suoi pugni.
La ragazza si cinse il suo stesso corpo con le braccia, gli occhi che luccicavano di lacrime. “Sai… Una volta… una volta io l’ho visto…” sussurrò tremante. “Ero in giardino ed ero uscita per respirare e urlare tutti gli insulti che avevo trattenuto nei confronti di Mary… E’ stato un caso, se non mi fossi voltata in quel punto preciso probabilmente neanche lo avrei visto, però… Era nascosto dietro un cespuglio di rose, ricordo di aver riconosciuto subito i ricci, l’unica cosa che spuntava tra le foglie. Quando mi sono avvicinata l’ho visto… curarsi le ferite. Quello che mi colpì fu… il vuoto che c’era nei suoi occhi – non dolore, non tristezza, non rabbia – solo vuoto. E quello sguardo ancora me lo sogno. Ho provato ad aiutarlo, a fare qualsiasi cose avrebbe potuto tirarlo su, ma lui mi ha detto che… che non era niente, che sarebbe passato, che lui era un Angelo caduto e che quindi stava ancora guarendo dalle ferite della caduta. E’ stato quel giorno che io…” Lasciò la frase in sospeso, perfettamente consapevole che l’altro aveva inteso, poi si passò una mano in volto, due lacrimoni le rotolarono giù dagli occhi nocciola. “Da quel giorno, ho sempre cercato di stare in guardia, di accorgermi dei segnali, del suo dolore… Ma la verità è che io non conto, che sono solo una ragazzina che se non si fosse perdutamente innamorata di un uomo che lavora qui sarebbe scappata di nuovo all’orfanotrofio a trascorrere gli ultimi due anni che la separavano dalla maggiore età nella solitudine e nell’abbandono… Io non conto... Però lei è diverso.”
“Diverso? Il mio è solo un tormento interiore, un pensiero fisso da cui non riesco a distaccarmi, non è un sentimento vero come il tuo…”
“So che sta mentendo.” lo interruppe la ragazza con un sorriso triste. “So che tiene a lui. L’ho vista, sa, quel giorno in cui Sherlock si era fatto. Il modo in cui si è preso cura di lui nonostante quasi nemmeno lo conoscesse non è stato un gesto dettato dal suo essere medico. Io ho visto affetto nel suo sguardo e quando, poco fa, lo ha difeso dagli insulti di Mary, ho visto… ho visto amore. E un grande coraggio, visto che per quanto possa tenere a lui io non sono mai riuscita a lottare.”
John avrebbe voluto negare e continuare a recitare la parte dello stalker, del pazzo ossessionato da un prostituto, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, non di fronte allo sguardo candido di quella giovane che gli ricordava tanto se stesso. In lei rivedeva lo stesso smarrimento, la stessa incertezza, lo stesso timore, e lo stesso senso di nullità che prima di arruolarsi non faceva che divorargli le viscere. Molly Hooper era come uno specchio che rifletteva la sua immagine distorta, quella più vera, quella più nascosta agli altri.
“Due sere fa è scomparso dalla festa di Irene e… due ore dopo si è ripresentato con un sorriso enorme. E’ stato con lei, vero?”
L’agente deglutì a vuoto un paio di volte. “Non in quel senso… Però sì, siamo usciti e siamo andati in un locale a ballare.”
“Sono passati cinque minuti prima che sul suo viso quel sorriso scomparisse, lasciando posto alla tristezza. Cinque minuti lontano dalla realtà che vi siete creati fuori di qui. Non l’avevo mai visto né felice né triste prima del suo arrivo. Lei lo rende più umano, anzi, lei tira fuori da lui la sua parte umana. E forse mi sbaglio, ma credo che lei, per Sherlock, rappresenti molto più di quanto crede…”
Il discorso cadde nel silenzio. Soggetto e riflesso si osservavano mutamente. John era spiazzato da quell’amore che campeggiava negli occhi della ragazza. Aveva sedici anni ma sembrava così adulta. Era scappata dall’orfanotrofio perché stanca dei continui rifiuti, dei continui no, e, disperata, aveva chiesto asilo all’Inferno invece che al Paradiso. L’amore per Sherlock l’aveva trattenuta, il suo senso di protezione l’aveva trattenuta, la sua paura per l’incolumità dell’uomo che amava l’aveva trattenuta. E John, John che era diviso in due, John che combatteva contro se stesso, John che fingeva anche quand’era solo, non poteva fare altro che ammirarla.
Le si avvicinò lentamente, quasi timoroso che, come un gatto randagio, lei potesse schizzare via, e tese le braccia in sua direzione. Molly non esitò un istante a correre nell’abbraccio di uno sconosciuto a cui aveva appena fatto l’esatta radiografia. Soffocò qualche singhiozzo contro quel petto caldo e tonico in cui un cuore batteva tristemente incompreso dal padrone.
“Sei la persona più forte che io abbia mai conosciuto. La tua capacità di amare è disarmante, Molly. E io ti auguro di trovare una persona che sia degna di tutto questo amore.” Di fronte ad un singhiozzo disperato e a stento trattenuto, si trovò in dovere di proseguire e di dare voce a tutti quei pensieri che, alla rinfusa, gli affollavano la mente. “E non pensare mai di essere debole o insignificante, perché chiunque pensi questo di te è un idiota. Sai che dice Sherlock? Che il mondo è fatto di idioti. Per cui abituati, perché con tutta probabilità di queste falsità ne sentirai ancora, ma non pensare mai di essere tu quella sbagliata, hai capito? Mai. Nemmeno se altre coppie verranno all’orfanotrofio, ti illuderanno e poi ti lasceranno.”
Molly, a quelle parole, si paralizzò e John solo in quel momento comprese la portata dell’errore che aveva appena commesso. Ma a dispetto delle aspettative, la ragazza non si sottrasse a quell’abbraccio, né prese ad urlargli domande da interrogatorio, anzi, fece più pressione sul suo corpo e gli parve quasi di sentire il suo volto strusciarsi infantilmente contro di lui. “Ha qualche segreto, eh?”
“Qualcuno.” ammise infine lui con un sospiro.
“Non può svelarmi niente, vero?”
“Beh, io sono…” Nel cercare le parole adatte, scansò delicatamente il corpo esile della ballerina e le puntò addosso uno sguardo intenso, unito ad un dolce sorriso quasi paterno. “Io sono qui per salvare Sherlock, te e chiunque altro voglia essere salvato qui dentro.”
“E’ il nostro Superman personale.”
“Una cosa del genere, sì, anche se non ho un mantello e tutti quei muscoli né tantomeno so volare.”
Molly scoppiò a ridere. “Beh, io le sembro una ballerina di lap dance?”
“No, in effetti no.” rispose lui, contagiato da quella risata.
Improvvisamente, dal piano superiore si udì lo sbattere rabbioso di una porta e, a quel suono, entrambi sussultarono. “Che cos’è stato?” domandò John in un soffio cercando la risposta sul volto della ragazza che si era di colpo fatto terreo, gli occhi sgranati in cui si rifletteva una paura folla.
“E’ successo di nuovo.”
“Cosa?”
“Sherlock.”
Bastò quel nome per farlo staccare dal corpo di Molly e correre su per le scale, saltando i gradini a due a due e impugnando l’inseparabile pistola consuetamente attaccata alla cintura. Tutto d’un tratto, il terrore di quello che avrebbe potuto trovare gli precipitò sulle spalle, rallentando, quasi, la sua corsa verso Sherlock. Percepiva il cuore pompare disperatamente, le tempie pulsare, un peso oscuro sovraccaricargli il petto…
Sherlock… Sherlock… Sherlock…
Si ripeté quel nome ad ogni porta di fronte a cui passava, se lo strinse al cuore ogni passo che lo avvicinava a lui, si impresse in mente l’immagine di quel pazzo strafottente che lo aveva stregato dal primo momento in cui l’aveva visto.
Sherlock… Sherlock… Sherlock…
La stanza 21A gli si parò davanti completamente per caso, come le porte, all’interno dei sogni, che ti conducono in un’arena piena di leoni o in una gabbia di serpenti velenosi. Ma John sapeva perfettamente che ciò che lo attendeva al di là di quella barriera di legno era ben peggiore di fiere o pitoni.
Istintivamente, neanche bussò. Aprì e basta, e come si era aspettato, trovò la serratura schiavata. Entrò nella stanza a passo cauto, guardandosi intorno con circospezione. La camera era avvolta nel caos: vestiti a terra, il letto disfatto, la sedia rovesciata… Ma quello che catturò il suo sguardo fu qualcos’altro. Qualcosa di scuro. Di vermiglio. Una scia sulla moquette. I suoi occhi si riempirono d’orrore a quella vista e si chinò subitamente su quella traccia di sangue così estesa da mandare in crisi perfino lui, lui, medico militare, lui, spia esperta, lui, pratico di interrogatori cruenti… Lui, John Watson, che mille atrocità aveva visto, dinnanzi a quella scia di sangue dall’appartenenza inconfondibile, andò in panico. Si alzò di scatto e il suo sguardo catturò appena in tempo la porta spalancata del bagno della suite. Vi si avvicinò silenzioso, felpato, la mano che stringeva la presa sulla pistola. Ma, come un riflesso automatico, nel momento in cui si apprestava a sporgersi nella seconda stanzetta, sapeva già che non avrebbe dovuto fare uso di alcuna arma.
Di fatti, appena i suoi occhi ebbero accesso al vano di piastrelle bianche, alcune delle quali tappezzate di sporadici schizzi di sangue, abbassò la mano armata, ritrovandosi, sconfitto, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e gli occhi avvolti da un velo di tristezza. Sherlock se ne stava lì, di fronte a lui, appoggiato al lavandino. Gli voltava le spalle, ma John era in grado di vederne il viso tramite lo specchio, sebbene, da un lato, avrebbe preferito rimanerne ignaro. Non c’era più alcun rimasuglio di sangue, sulla pelle lattea del volto del moro – doveva essersi sfregato via ogni traccia con disperata determinazione – ciononostante un’estesa tumefazione gli aveva deformato quel viso etereo, a volte furbo, a volte serio, a volte nostalgico, a volte sereno, a volte… appassionato. Il viso che John aveva imparato a contemplare e riconoscere in ogni sua sfaccettatura… ma quel dolore, quell’immenso e rassegnato dolore mai avrebbe pensato di poterlo scorgere proprio su Sherlock.
Il moro lo scorse dallo specchio, ma non si scompose, non si volse, non fiatò. Rimase immobile a fissare gli occhi di John riflessi nel vetro. Era sconfitta ciò che dominava. Sconfitta e impotenza. Rassegnazione e disperazione. E per John era troppo da sopportare associate alla figura dell’altro.
“Chi ti ha fatto questo!?” sbraitò con un tremore alla voce dovuto all’angoscia che gli stritolava il cuore. “Dimmelo!”
Ma quello continuò a studiarlo imperscrutabile, finché non fu l’agente a muovere il primo passo, a tendere la mano a sfiorare la sua spalla. Gonfia anche quella. Chissà in che stato era ridotto quel corpo che aveva avuto l’onore e, da un lato, anche il piacere di ammirare quando aveva imbastito la storia dello stalker.
“Sherlock…” mormorò allora, comprendendo, accettando, firmando quel contratto invisibile che come clausola, per il momento, prevedeva il silenzio. Riprese ad avvicinarsi, dunque, fino ad arrivare ad un soffio da lui. Gli accarezzò i capelli con delicatezza e allacciò il suo sguardo con quello riflesso del moro. “Sherlock…” mormorò un ultima volta mentre faceva scivolare le braccia attorno al corpo dell’altro e si stringeva a lui prudentemente, timoroso di potergli recare dolore, le labbra che si posarono gentilmente su quel collo d’alabastro dove, per la prima volta, e forse fu un pensiero stupido, futile, scorse due piccoli nei, vicini come due stelle nel firmamento.
Non seppe quanto trascorse prima che la mano di Sherlock si posò sulle sue allacciate cautamente sul petto magro del moro. Non seppe quanto trascorse prima di percepire le lievi carezze sul suo dorso cullarlo al pari di una ninna nanna. Non seppe quanto trascorse prima che la voce di Sherlock gli giunse nitida e gutturale alle orecchie: “Andy, voglio che tu mi faccia una promessa.”
John riportò lo sguardo verso lo specchio, in volto impressa una serietà perentoria. “Qualunque cosa.”
Sherlock dovette prendersi alcuni secondi per ponderare le parole, deglutendo ripetutamente a vuoto, una ruga d’espressione a deturpargli la fronte. Il biondo si domandò che cosa mai lo turbasse tanto. Che cosa frullava in quella mente contorta? Che cosa pensava il suo Sherlock? Che cosa lo faceva esitare tanto?
“Promettimi che non ti innamorerai di me.”
John sgranò gli occhi, spiazzato, il mento appoggiato alla spalla dell’altro, e rimase per interminabili istanti saldo nella sua immobilità e nel suo mutismo. Stentava a credere a quello che Sherlock gli stava chiedendo e la verità era che non ne capiva il motivo. Forse perché la sola idea di innamorarsi gli risultava ridicola, forse perché fino ad allora aveva inconsciamente scartato a priori l’ipotesi che qualsiasi sentimento al di sopra dell’amicizia potesse essere un’opzione, forse perché era consapevole che l’amore non poteva essere controllato da una promessa, o forse perché… perché era impossibile non amarlo ora o in futuro.
“Sherlock…”
“Promettimelo, John. Promettilo, altrimenti ho paura che non sarò più in grado di starti accanto.”
E forse sbagliava, forse era solo un abbaglio, ma nello specchio John vide l’ombra di una lacrima al lato dell’occhio destro del moro. E pur di non farlo soffrire, pur di non staccarsi da lui, pur di restare così per sempre, sarebbe stato disposto a tutto. “Non mi sembra troppo difficile. Non potrei mai stare con un simile idiota petulante come te.” rispose in un mormorio, accompagnando quelle parole con un sorriso ironico, eppure immensamente amaro.
“Giura.”
“Lo giuro.”
Rimasero così a lungo, forse l’intero pomeriggio, magari anche l’intera notte, finché lui non prese per mano Sherlock, infilandolo sotto le coperte, visto che quel giorno e anche i seguenti, il moro sarebbe stato esente dal lavoro. Si limitò a sedersi sulla sedia e a guardarlo mentre contemplava assente il soffitto. Soffriva, John, nella sua ignoranza, nella sua debolezza, nella sua impotenza. Ora si sentiva come Molly Hooper. Incapace di fare qualsiasi cosa. Insignificante. Gli tenne la mano, nel sonno e nella veglia, negli incubi e nei tormenti da sveglio. Si sarebbe preso cura di Sherlock, a qualunque costo.
 
SPAZIO AUTRICI
Hello Gays! Ops, scusate, volevamo dire Hello Guys! Ci siamo lasciate coinvolgere dall'atmosfera gaia della storia... Anyway, capitolo arduo, eh... Abbiamo il John gelosone che è il TOP, Sherlock che gli chiede di sposarlo, il loro quasi bacio, Janine - love Janineeeee -, ma d'altra parte abbiamo anche Moriarty che chissà cos'ha combinato e Sherlock che si fa promettere da John di non innamorarsi di lui... Chissà che cos'è successo... Niente paura, non lo scoprirete nel prossimo capitolo! xb Ops... Dovrete portare pazienza.

 
Nel prossimo capitolo, comunque, ne accadranno delle BELLISSIMISSIME, quindi non mancate, eh!

Ad ogni modo, informazione di servizio: durante le vacanze di Natale pubblicheremo probabilmente due volte a settimana in modo da concludere il tutto per la fine dell'anno. E poi, anno nuovo long fic nuova! (su cui stiamo già lavorando... eheheheh). 

Bene, è tutto - per il momento. Vi aspettiamo a Sabato prossimo, gente. Sciauu
*kiss*
Alicat_Barbix 

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Capitolo 6
*** I Don't Want You To Let Me Go ***


BEYOND 
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix



I Don't Want You To Let Me Go
 
Sherlock non dormiva propriamente da giorni interi. Le notti le trascorreva a rigirarsi nel letto, prediligendo la veglia agli incubi. Percepiva il suo malessere interiore crescere di ora in ora, tanto che un mattino si ritrovò rannicchiato su se stesso, tremante, due lacrime a rigargli il volto. Dopo averlo massacrato di colpi, Moriarty gli aveva gentilmente concesso un congedo di un paio di settimane, declamando a gran voce la sua clemenza.
Erano passati circa otto giorni dalla promessa di Andy e ancora non riusciva a smettere di pensarci. Aveva ormai smesso di corteggiarlo spudoratamente come aveva fatto in precedenza e si era rassegnato ad un’amicizia genuina e incondizionata. Rassegnato, già… Non si era reso conto di quello in cui tanto ardentemente sperava finché lui stesso non se l’era precluso: il cuore di Andy. A pensare certe cose, si sentiva uno stupido adolescente con gli ormoni impazziti, eppure il solo ricordo dell’abbraccio dolce e tenero del medico lo colmava di un tepore ristoratore. Era amore? Forse no, non ancora. O magari se ne stava solo convincendo per non soffrire.
Andy era quanto di più irraggiungibile, ormai, esisteva nella sua vita, perché era libertà, era indipendenza, era affetto, era calore, era passione, era amore. Troppe clausole a cui non avrebbe mai dovuto aspirare, né lì dentro né fuori. Victor, un paio di sere prima, era irrotto nella sua stanza, le lacrime agli occhi e il viso deturpato dal dolore.
“Mi ha lasciato.” aveva singhiozzato nel suo petto. Aveva confessato ogni cosa alla sua fidanzata… ex, a quanto pareva, e lei non era riuscita ad accettare il tradimento e le menzogne. Vane erano state le spiegazioni di lui, il suo racconto, le sue suppliche. Si era alzata dal tavolo di uno dei più rinomati ristoranti della città, dove Trevor aveva prenotato per compiere il grande passo, ed era sparita in un taxi, nel buio della notte.
L’amore era un difetto chimico, niente di più. E per quanto Sherlock stesse cercando di convincersene, non ci credeva più, non da quando Andy Rose era entrato nella sua vita. Ma non poteva provare simili sentimenti, legarsi in una maniera così definitiva a qualcuno, per lui era e sarebbe per sempre stato impossibile.
Era una tiepida notte di Febbraio una di quelle in cui all’esterno infuriava la tempesta. Sherlock sedeva tristemente al bar, le labbra attaccate ad un bicchiere di birra, gli occhi persi a scrutare tutto e niente. Cercava risposte, forse, in quel vuoto indefinito, in quel punto che il suo subconscio lo spingeva a fissare. Cercava una giustizia, divina o terrena che fossero, ma non riusciva a trovare né l’una, né l’altra. Victor, accanto a lui, fumava in silenzio, senza preoccuparsi di essere all’interno, due profonde occhiaie gli cerchiavano gli occhi rossi a causa delle molte lacrime che ancora piangeva e della mancanza di sonno.
Due uomini costretti a terra da quella puttana che era la vita. Si erano rinchiusi in una gabbia mastodontica e avevano buttato loro stessi la chiave. Poi si erano illusi che qualcuno, all’esterno, l’avesse ritrovata e fosse disposto ad aprire quella cella di sbarre e dolore. Si erano illusi? Probabile. O magari, era stato solo il loro ennesimo errore. Sherlock aveva allontanato il suo salvatore di proposito, mentre Victor era stato semplicemente sfortunato.
Un tocco gentile alla spalla lo fece sussultare e voltare di scatto. Andy gli sorrideva benevolmente, i vestiti bagnaticci a causa del temporale che imperava all’esterno. Ogni volta che i loro sguardi s’incrociavano, per Sherlock era come tornare a respirare dopo interminabili momenti di totale apnea.
“Ehi.” lo salutò in un sussurro, nonostante la musica alta.
“Ehi.” rispose quello senza accennare a muoversi da quella posizione. “Come vanno i lividi?”
Si passò una mano sull’addome, tastandoselo cautamente. Era stato proprio Andy a medicargli le ferite, a prendersi cura di lui per l’ennesima volta, a risollevarlo da terra. A volte, percepiva ancora strascichi di dolore, in particolar modo la notte, quando cambiava spesso posizione, preda dell’insonnia e dei brutti pensieri.
“Meglio. Ormai sono quasi come nuovo.”
Il medico assunse un’espressione mesta, mentre gli accarezzava delicatamente uno zigomo su cui, ancora, vi era la traccia del pugno di Jim. Sotto quel tocco, come sempre, rabbrividì. Era possibile provare così tanto, sentirsi così inadeguati nonostante la sua immensa disinibizione? Era davvero possibile sentirsi così solo perché accarezzato da quell’ometto dai grandi occhi blu?
“Ah, Vic.” si riscosse il biondo all’improvviso, rivolgendosi a Trevor che, fino a quel momento, era rimasto in disparte ad affogare il suo tormento nell’alcol, degnando il nuovo arrivato di a malapena un cenno di saluto. “All’entrata ho incontrato una ragazza che ti cercava. Jackson, come al solito, ha fatto lo stronzo, ma sono riuscito a convincerlo a farla passare.”
Victor sputò la birra, scosso da un groppo di tosse, battezzando il bancone da bar, e si volse in direzione di Andy con occhi sgranati. “Dov’è?”
“E’ là, in un angolino. Se devo essere sincero non mi sembra esattamente a suo agio qua dentro.”
Trevor scattò in piedi e si alzò sulle punte per scorgere la figura che il medico aveva appena indicato attraverso quel groviglio di teste e braccia alzate. Anche Sherlock si levò da sedere e seguì l’indicazione dell’amico, finché i suoi occhi non intercettarono una donna dai lunghi capelli biondi rintanata accanto alle portefinestre che davano sul giardino, intenta a guardarsi intorno più che con disgusto con preoccupazione e una buona dose di rammarico, forse anche delusione. Non era mai stato troppo bravo a decifrare i sentimenti umani, ma di una cosa poteva dirsi certo: quella giovane donna era sconvolta.
“Non solo hai un debole per biondi e bionde, ma si tratta di quella precisa tonalità di biondo.” ironizzò lanciando un’occhiata divertita prima all’uno e poi all’altro amico, ricevendo uno sguardo torvo dal primo e uno confuso dal secondo.
“Che faccio, Sherlock?” domandò con voce angosciata Victor facendoglisi vicino.
“Vai lì e ci parli.”
“Non posso parlarle qui.”
“E allora portala fuori, in fondo è la tua serata di riposo. In un posticino carino, romantico, se proprio vuoi.”
“Vieni con me.”
Sherlock scoppiò a ridere e scosse la testa. “Non ci pensare neanche. Non posso fare il terzo in comodo.”
“Non farai il terzo in comodo, idiota!” ribatté l’amico con un sospiro, tirandoselo ancora più vicino. “Dovrai solo stare nel nostro stesso locale e fingere di essere un semplice avventore.”
“Non vedo il giovamento in tutto questo.” rimarcò però lui, un sopracciglio inarcato.
“Supporto morale, mai sentito? Cristo, Sherlock, sei o non sei mio fratello? Ti scongiuro, non posso farcela da solo. Portati Andy dietro, avrete anche voi l’occasione di stare insieme lontani da questa merda.”
Il moro arrossì appena e ringraziò la penombra della discoteca che celava il suo evidente imbarazzo originato da quella sciocca osservazione. “Non è la stessa cosa, Vic.”
“Ne sei certo?”
Erano rare le volte in cui Sherlock avvertiva il bisogno di prendere a pugni qualcuno. Era capitato spesso e volentieri con quel pallone gonfiato di suo fratello maggiore, col suo insegnante di violino e con Moran, ma mai, mai si sarebbe aspettato di provare quel desiderio proprio in presenza del suo migliore amico. Le parole di Victor erano innocenti, pronunciate con ingenuità, non volevano risultare scomode né tantomeno dolorose, ma quello fu il loro effetto. Avrebbe voluto salire su uno di quei ridicoli sgabelli neri, afferrare un microfono e urlare al mondo che no, non era la stessa cosa, non lo sarebbe mai stata e che era tutta colpa di quel girone dell’Inferno in cui la coda di Minosse lo aveva relegato.
Istintivamente, guardò Andy, Andy che lo stava osservando con la sua solita espressione mite, Andy che non aveva udito una parola di quello scambio, Andy che negli occhi custodiva una luce incomprensibilmente brillante e tenue al tempo stesso. Su una cosa, il suo amico aveva ragione: sarebbe stata un’occasione per passare un po’ del tempo lontani da Moriarty e da quel macello di anime.
“E va bene.” si arrese. “Dove la porterai?”
“Da Angelo.” rispose Victor, ora concentrato sulla figura della donna che amava.
“Ci vediamo lì.”
Detto questo, Sherlock si avviò sveltamente verso l’uscita, superando lo sorveglianza di quell’idiota di Jackson e sbucando sul vicoletto su cui dava il locale. Non dovette rivolgersi ad Andy. Fu estremamente naturale ritrovarselo di fianco, sul marciapiede, in attesa di un taxi.
“Dove vai?” gli domandò innocentemente quello.
“E’ un segreto.” rispose furbescamente.
“Un segreto o una sorpresa?”
“Se fosse una sorpresa sarebbe come se tu venissi con me, no?”
Lo sguardo di Andy, per un attimo, si oscurò. “E non è così?” chiese in un sussurro, come un bambino impaurito.
Sherlock lo guardò con fare misterioso, tremendamente divertito eppure tremendamente riscaldato da quell’atteggiamento così insicuro. Se solo quel piccolo medico militare avesse saputo quanto la sua presenza, nella sua vita, fosse diventata se non indispensabile, importante… Se solo avesse saputo quanti pensieri gli rivolgeva in ogni minuto di ogni giorno… Se solo avesse saputo, Andy Rose…
“Beh, direi di sì.”
“Spero che il secondo appuntamento sia meglio dello scorso.”
Un taxi si accostò a loro ed entrambi salirono rapidamente, mentre alle loro spalle, Victor e la sua – ex? – fidanzata uscivano mantenendo una distanza imbarazzata fra loro, diretti verso la motocicletta argentea di quello.
“Lo sarà.”
 
Il tavolo che Angelo, un bonario italiano affezionato a Victor e a Sherlock da quando erano ragazzini, assegnò loro era accostato alla finestra, offrendo loro una placida visione su Northumberland Street, popolata da un mosaico di individui che il moro avrebbe avuto il delizioso piacere di dedurre col suo spiccato intuito, dote di famiglia.
“Allora, Sherlock. Che cosa posso portarvi… Oh, Victor! E questa bella signorina chi è? Venite, cari, venite! Ecco il vostro tavolo.”
I due nuovi arrivati si accomodarono in un tavolo non troppo distante dal loro – Angelo, come sempre, era stato rapido ad interpretare le occhiate allusive di Victor – mentre l’italiano tornò momentaneamente da loro.
“Appuntamento a quattro?” domandò loro con sguardo malizioso.
“Non stiamo insieme.” replicò subitamente Sherlock, in un modo tale da fargli guadagnare un’occhiata indagatoria da parte di Andy – ormai avvezzo ai suoi tentativi di corteggiarlo sempre e comunque.
“In effetti, ora che ci penso, che ci fa Victor qui?” intervenne il biondo facendo correre lo sguardo al tavolo di Trevor.
“E’ una lunga storia. Che cosa puoi portarci, Angelo?”
“Tutto quello che trovate sul menù ve lo offre la casa. Solo il meglio per te e per il tuo ragazzo.”
“Non stiamo insieme.” ripeté con un che di esasperato – che ricordava quasi il modo in cui Andy si era rivolto a Janine in quella che sembrava una vita fa – ma Angelo continuò con allusioni più o meno implicite circa il loro rapporto finché non sgattaiolò da Victor e dalla povera malcapitata che avrebbe dovuto sorbirsi i commentini ironici dell’italiano.
“Mi spieghi che succede?” chiese Andy, una volta soli, mettendo da parte il menù.
“Niente di che, Victor deve riconquistare la sua ex fidanzata che l’ha lasciato perché ha scoperto del suo… stile di vita e così…”
“Non mi riferivo a Victor, mi riferivo a te.” lo bloccò fermamente il medico, incrociando le dita sul tavolo.
“Che intendi?”
“Sei strano, Sherlock. Sei diverso. E’ come se… come se non mi sopportassi più. Ultimamente sei scostante – e non mi riferisco solo al fatto che hai smesso di corteggiarmi che, forse, è l’unica cosa buona di tutta questa storia – però sei freddo, sembra quasi che ti voglia liberare di me…”
Sherlock agì d’istinto e quasi non si rese conto della mano che scattò a prendere quella dell’altro, stringendola con fare quasi disperato, mentre i loro occhi si allacciavano insieme. “Mai. Non pensare mai una cosa del genere. Non potrei mai volermi liberare di te.”
Andy rimase in silenzio alcuni istanti, lo sguardo che si abbassò sulle loro mano intrecciate assieme. “E allora che c’è? Spiegami, perché davvero non lo capisco.” continuò con espressione combattuta e amareggiata. “Voglio aiutarti, Sherlock, ma non posso farlo se tu mi respingi, lo capisci?”
“Cristo, Andy.” sospirò allora il moro, lasciandosi cadere sui cuscinoni del divanetto su cui sedeva, allontanando la mano. “Mi stai facendo questa scenata solo perché ho tenuto a precisare che non sei il mio ragazzo? Deciditi, una volta tanto, per Dio! Non eri tu quello che non sopportava la confidenza con cui mi approcciavo a te? Adesso che ho imparato a starmene buono e a recitare la parte dell’amico, tu te ne esci con un discorso simile?”
Sapeva che era sbagliato ciò che stava dicendo. Sapeva che Andy non aveva colpa. Sapeva che Andy aveva ragione. Sapeva che lo stava tenendo a distanza. Però era come se in quel momento tutta la frustrazione accumulata nella settimana precedente stesse risalendo a galla come il magma di un vulcano. L’eruzione era a pochi secondi di distanza. Sentiva le fiamme, i lapilli, spingere per uscire, ma Andy era l’unico al mondo che non si meritava quell’eruzione. Cercò di controllarsi, di scacciare il dolore, l’angoscia, la paura, il ricordo del discorso con Moriarty, le botte, l’emozione che lo aveva avvolto nel vedere Andy alle sue spalle, riflesso nello specchio… Poi, una voce lo distolse dai suoi pensieri.
“Ci ho pensato molto.” diceva quella voce. “E ho preparato questo discorso con attenzione, me lo sono ripetuta diverse volte di fronte allo specchio… ma la verità è che quello che voglio dirti non può essere il frutto di un’elaborazione premeditata.”
I suoi occhi corsero alla fidanzata di Victor, seduta di spalle rispetto a lui, appoggiata con entrambi i gomiti al tavolo. La sua voce chiara e calda era una delle poche voci femminili che aveva mai apprezzato: odiava quella di Mary, una delle ballerine di lap dance al Morningstar – falsa, subdola – tollerava a stento quella di Irene – saccente e provocatoria – e accettava con grandi difficoltà quella di Molly, una ragazzina che da tempo, aveva notato essere solita girargli intorno come un cagnolino – così petulante e infantile. La voce di quella donna, invece, era dolce e posata, le sue spalle rilassate nonostante la portata del discorso che si stava apprestando a fare, le sue mani ferme, a dispetto della tensione e dello stress. Non la conosceva ancora, eppure quella donna gli ispirava una sicurezza che non sapeva definire, gli ricordava quasi Andy, con la sua pacata serenità nell’esprimersi e nell’atteggiarsi.
“Quando l’altra sera mi hai raccontato ogni cosa, io… sono andata fuori di testa. Per giorni ti ho… immaginato a letto con altre o altri e la sola idea mi dilaniava. Mi sono chiesta se il tuo amore fosse sincero, se il mio amore fosse sincero…” Si prese qualche istante di pausa in cui sfiorò con le dita affusolate il bicchiere d’acqua di fronte a lei – forse un tic nervoso o forse il suo subconscio che le suggeriva di idratarsi per riprendere le fila del discorso. “Quante balle, Victor… Sei mesi di una relazione costruiti solo su bugie e su facciate…”
“No, aspetta, questo non è vero.” s’intromise Victor, sporgendosi in avanti per esserle più vicino. “Questi sei mesi sono stati i più belli della mia vita e sai perché? Perché sono stati vita. Prima di te non ero nessuno… Celine, tu mi hai illuminato l’esistenza, capisci? E lo so che ho commesso una cazzata abnorme nel tenerti all’oscuro di ciò che faccio, ma la verità è che mi vergognavo, Celine, mi vergognavo come un ladro e mi vergogno tutt’ora, perché io non sono degno di te. Tu sei bella, intelligente, hai un lavoro meraviglioso, e sei perfetta in ogni cosa che fai… Io non ti merito. Ed è per questo che ho costruito l’immagine di Victor il segretario di un importante studio medico, per illudere me di essere alla tua altezza e non per ingannare te.” Tacque, le mani che durante il monologo si erano strette a quelle di lei. “Anche io ho pensato molto a quello che è successo e… Ti amo, Celine. E proprio perché ti amo sono pronto a qualunque cosa pur di renderti felice, anche proteggerti da me stesso, da quello che sono. Se stessi con me… non ti saprei offrire niente di ciò che meriti e non potrei mai perdonarmi una tua possibile infelicità futura. Perciò, sappi che sono pronto a tutto, Celine, a tutto.”
Sherlock strinse entrambi i pugni mentre un dolore sordo prendeva a corrodergli il petto. Victor aveva dato voce a quello che provava. Victor era così simile a lui… Victor era così uguale a lui. Il suo amore per quella donna era tanto forte da accettare di lasciarla andare pur di renderla felice. Come in uno dei più scontati film romantici, eccetto che tutto quello era reale, che i sentimenti di Victor erano reali, che il dolore di Celine era reale, che le loro difficoltà erano reali.
Inconsciamente, guardò Andy, perso a seguire quella scena delicata e tesa. Anche lui si stava comportando come Victor? Alla fine, era davvero così scontato? Innamorarsi di qualcuno da difendere? Il cavaliere ammazza-draghi innamorato della damigella in difficoltà?
In quel preciso momento, Andy si volse verso di lui e il suo cuore, di fronte a quegli occhi blu, sobbalzò. C’era una qualche consapevolezza sul suo viso, una tenera coscienza della situazione che stava – che stavano – attraversando. Il fiato gli si bloccò nei polmoni e rimase in uno stato di apnea per svariati secondi, i loro sguardi fusi assieme. Sherlock Holmes, grande esperto del sesso e dell’erotismo, quella sera si domandò se fosse possibile fare l’amore con i soli occhi. Poteva accadere? Se era davvero possibile, allora era esattamente quello che stavano facendo. L’amore.
“Victor.” Di nuovo, fu la voce di Celine a riscuoterlo dalle sue riflessioni. “Sei un idiota.” sputò con voce tremante, probabilmente a causa di lacrime che lui, però, non riusciva a scorgere. “Sei un idiota… Credi davvero che tu sia l’unico dei due ad amare? Credi di essere l’unico dei due a provare qualcosa di talmente forte da sacrificare se stessi? Victor, sei un idiota bastardo mentitore, ma non posso negare il fatto che ti amo. Ti amo e se tu mi giuri che quella vita farà parte del passato… allora sono disposta ad andare avanti. Non potrei vivere senza di te, Vic. Però voglio che tu, da ora in avanti, sia sempre sincero con me, non importa cosa ti tenga dentro o quanto – stupidamente – possa sentirti inadeguato per me… dovrai raccontarmi tutto. Voglio provarci, Victor, voglio davvero provarci, non so se riuscirò da subito a… dimenticare o accettare tutto questo… Però ti amo, Vic, Dio se ti amo e Dio se ho sofferto questi giorni lontano da te. Non voglio che tu mi lasci andare, so di che cosa ho bisogno per essere felice, e ho bisogno di te.”
Una sedia cadde a terra. Victor si era alzato e si era chinato di lato alla sedia di Celina, le mani a prendere quelle di lei, le labbra a baciarne i palmi. Si udirono soffocati ti amo tra un singhiozzo di sollievo e l’altro. Sherlock osservò il suo amico cazzone sciogliersi in un pianto da bambino, abbracciando le ginocchia di quella donna.
Non voglio che tu mi lasci andare. aveva detto lei. So di che cosa ho bisogno per essere felice.
Una seconda sedia venne strisciata sul pavimento. Sherlock non fece in tempo a realizzare cosa stesse succedendo che si sentì trascinato verso l’uscita, la mano stretta attorno a quella di un Andy determinato. Fuori diluviava. Si fermarono all’ingresso, i nasi rivolti al cielo piangente.
“Dove diavolo vuoi andare?” chiese all’altro mentre un tuono sferzava lo scrosciare della pioggia.
“Non ne ho idea. Ho voglia di correre sotto la pioggia.”
“Tu sei pazzo.”
Andy scoppiò a ridere mentre rafforzava la presa sulla sua mano. “Dev’essere la tua influenza.”
Fu in quell’istante che cominciò tutto. Iniziarono a correre, le gocce di pioggia che picchiettavano aggressivamente su di loro, le mani allacciate assieme. Ridevano. Ridevan0 senza un motivo vero. Ridevano perché erano dei pazzi. I pochi passanti li guardavano come se avessero avuto di fronte due folli. I clacson delle auto urlavano contro quelle matte figure che attraversavano di corsa le strade, rischiando di venire investiti… Sherlock, ad un tratto, scivolò, inzuppandosi le ginocchia in una pozzanghera, giocandosi una delle sue paia di pantaloni preferiti, ma si rialzò ridendo più di prima, gli addominali che bruciavano per la corsa e per le risa. La pioggia scrosciava, il vento ululava, i tuoni ruggivano, e Sherlock e Andy ridevano…
Quando furono entrambi senza fiato, si ripararono nel porticato di un blocco di appartamenti, ansanti e infradiciati. La dinamica degli eventi non fu pienamente chiara. Qualcosa accadde, doveva essere accaduto, ma semplicemente, sul momento non si capì che cosa fosse stato. Sherlock si ritrovò con la schiena premuta contro il muro, il petto che si alzava e abbassava freneticamente in cerca di aria, e un sorrisetto sulle labbra. Andy era a pochissima distanza da lui, entrambe le mani che stringevano le sue. Erano vicini ed entrambi si osservavano con aria complice e divertita. Sherlock non capiva più niente, aveva dimenticato ogni cosa, e aveva un’unica certezza: Andy lo avrebbe baciato. Era palese dallo sguardo che gli campeggiava in viso e da quella ricerca disperata di un contatto fisico. Andy lo avrebbe baciato. Si era sognato, una notte, di loro due, insieme e si era risvegliato irrigidito, come un adolescente alle prime prese col suo corpo troppo cresciuto. In quel sogno, Andy lo stava spogliando lentamente, senza baciarlo o accarezzarlo, ma lo faceva con una tale calma da risultare frustrante. Allora, lui si era fatto avanti, lo aveva ghermito per il colletto della camicia e aveva iniziato a baciarlo con foga bruciante, cercando il contatto con la sua pelle nuda. Poi si era svegliato.
Ora, erano lì, ad un soffio l’uno dall’altro, le loro dita intrecciate. Sherlock percepiva il suo intero corpo fremere d’impazienza dinnanzi a quello sguardo così irrealmente intriso di malizia per il medico militare. Ad un tratto, con cipiglio sicuro, Andy sciolse la presa delle loro mani e portò le proprie al muro, intrappolandolo tra la parete e il suo corpo. Il suo fiato caldo, che sapeva appena del Chianti di Angelo, s’infrangeva morbidamente e terribilmente erotico su di lui. Attendeva e l’attesa si rivelava sfibrante, il battito del suo cuore era incontrollabilmente accelerato. Avrebbe voluto sussurrare il suo nome, implorarlo, supplicarlo di baciarlo o piuttosto di non farlo, di salvare entrambi…
Di nuovo, Andy spostò le mani e, stavolta, dalla parete le portò al suo viso, circondandolo dolcezze e Dio se era stupendo quel contatto… Andy Rose, l’uomo inarrivabile, inseducibile, ora gli stava baciando un angolo delle labbra una, due, tre volte… Sherlock era immobile, paralizzato, terrorizzato… Avrebbe dovuto pensare alle conseguenze, al dopo, ma cazzo se era difficile con quelle labbra a così poca distanza dalle sue… Il dopo sarebbe giunto, prima o poi, e sarebbe stato crudele, spiazzante, disarmante, ma loro stavano vivendo il presente. Un presente che ammetteva soltanto loro due e basta.
“Baciami.”
Un sussurro, una preghiera. Sherlock spalancò gli occhi a quelle parole. Andy lo fissava implorante, il naso che sfiorava il suo, le labbra che tremavano appena.
“Baciami.” mormorò nuovamente socchiudendo le ciglia e la bocca nello stesso momento.
E Sherlock rispose. Dapprima, fu un contatto semplice, delicato, come il bacio che si erano scambiati la notte in cui Sherlock era stato male per la febbre unita agli effetti della droga, poi la presa di Andy sul suo volto si fece più marcata, addirittura disperata, racchiudeva una muta richiesta ad andare oltre… Sherlock gli afferrò i fianchi e lo spinse contro di sé come se da quella stretta fosse dipesa la sua intera vita, la sua lingua stuzzicò il labbro inferiore dell’altro, e Andy sorrise a quel contatto. Quando le loro bocche diedero accesso l’una all’altra, come scrigni che offrivano ad un coraggioso esploratore i loro tesori, le loro lingue si incontrarono a metà strada e vi fu un attimo di ilarità scaturita dalla foga, dalla pazza voglia che ghermiva l’animo di entrambi. Fu Sherlock ad indietreggiare, a lasciare spazio e piena libertà alla lingua di Andy che, riconoscente, si immise nella sua bocca, esplorandogliela curiosa e bramosa. Sherlock aveva baciato tante e tante persone, ma mai un bacio gli era sembrato così bello. Persino il piacere elettrizzante di un orgasmo non poteva essere paragonato a quella magia che stava condividendo col medico militare.
“Mi farai morire.” ansimò scostandosi appena, con una mezza risata.
“Non ti lascerai andare qui, in un luogo pubblico, spero.”
“Non in quel senso, idiota.” rispose Sherlock simulando un’espressione raccapricciata. “Nel senso che non mi hai fatto prendere respiro neanche per un istante.
“Siamo solo all’inizio, mio caro.”
E, di nuovo, le loro labbra si incontrarono con l’intento di assaggiarsi, gustarsi, divorarsi. Sherlock si era appiattito ancora di più contro il muro alle sue spalle, schiacciato dal corpo caldo e rigido dell’altro. A contatto con l’inguine pulsante dell’altro, Sherlock si trovò a sospirare un gemito, mentre quello gli artigliava i fianchi quasi con violenza e lo spingeva ancora di più contro di sé, dando sfogo ad un nuovo lamento.
“Andy, Andy, Andy…” lo richiamò a fatica scostandosi nuovamente, senza fiato e la fronte ora imperlata non solo dalla pioggia, ma anche dal sudore. “M-meglio fermarsi qui…” sussurrò appoggiando la nuca alla parete e chiudendo gli occhi, cercando di riacquistare il controllo.
Andy ridacchiò mentre gli si affiancava e, a sua volta, si addossava al muro. “Meglio, sì…”
Per un po’, a spezzare il silenzio vi furono solo i loro ansiti e la pioggia. Le loro mani si cercarono reciprocamente e, una volta trovatesi, si allacciarono con forza, tanto che quasi rischiarono di bloccarsi la circolazione sanguigna a vicenda.
“Avevo ragione, comunque…” sputò infine Sherlock tra un fiato e l’altro.
“Riguardo a cosa?”
“La tua frustrazione sessuale. La prima volta che ti ho incontrato ti ho detto che eri sessualmente frustrato.”
“Non lo ero prima di conoscere te.”
Sherlock gli rivolse uno sguardo vittorioso. “Dunque ho vinto.”
“La scommessa era portarmi a letto, cosa che di fatto non è ancora avvenuta, quindi no, non hai vinto.”
Il volto di Sherlock si adombrò e, ora che l’eccitazione e la foga del momento stavano pian piano sbiadendo, rifletté su ciò che era appena successo. Su ciò che non sarebbe dovuto accadere. Che cazzo aveva appena fatto? Si era lasciato andare e… aveva coinvolto anche Andy con i suoi stupidi impulsi sessuali. Perché doveva essere così stupido?
“Andy…” esordì con tono grave, incapace, però, di lasciargli andare la mano. “Andy, forse… forse non avremmo dovuto.”
Andy si prese qualche istante per contemplarlo. “No… No, infatti… Abbiamo fatto una cazzata.”
Sherlock si voltò di scatto verso di lui, combattuto tra la speranza e il dolore. “Davvero? Quindi sei d’acco-”
Ma le labbra dell’altro lo ammutolirono, catturando le sue in un nuovo bacio, stavolta più dolce e nostalgico, uno di quelli che sapevano realmente di Andy Rose. E per quanto il desiderio di salvare quel poco che era rimasto da salvare sembrasse l’unica soluzione ragionevole, Sherlock non riuscì a resistergli. Ripresero a baciarsi lentamente, prendendosi tutto il tempo per riconoscere ogni piccola ferita nelle loro bocche, ogni dente, ogni sapore… Andy si staccò dopo interminabili istanti, rimanendo però accostato alla fronte del moro.
“Mi è sembrato meglio. Sapeva meno di cazzata, che dici?”
“Andy…” sospirò però Sherlock, serrando gli occhi per ricercare dentro di sé la forza di separarsi da lui. “Andy, sono serio, non è una buona idea… Io sono un casino, lavoro in un bordello, non posso fare niente per liberarmi di ciò che sono…”
“Tu no, ma io sì, Sherlock. Ti tirerò fuori di lì.”
Un sorriso triste sfociò sulle sue labbra. “Credi davvero che basti tirarmi fuori da quel posto?”
“Francamente… sì.”
Sherlock si sciolse in una risata amara, mentre le mani accarezzavano il volto celestiale di quel piccolo medico militare che era improvvisamente divenuto la stella attorno a cui ruotava. “Sei un povero illuso, Rose.”
Le dita di Andy si chiusero attorno ai suoi polsi e gli occhi incrociarono i suoi. “Lo so che è complicato, che il tuo capo ti tiene legato a sé come il suo cucciolo, però devi fidarti di me, Sherlock. Riuscirò a tirarti via di lì.”
“E una volta fuori, Rose? Cosa intendi fare dopo che mi avrai salvato dal mostro che mi tiene prigioniero? Non potrai salvarmi da tutto.”
Le labbra del biondo gli baciarono teneramente la punta del naso. “Io posso tutto per te.”
“Stai diventando fin troppo stucchevole, ora.” osservò Sherlock non riuscendo, però, a trattenere un sorriso. “Mi viene il dubbio che ti sia già dimenticato la promessa che mi hai fatto.”
“Te l’ho detto, sei un idiota petulante. Non potrei mai innamorarmi di te.”
“Andy.”
“Sherlock.”
Rimasero per diversi istanti a studiarsi, finché Sherlock non si scostò dalla parete e, ficcando le mani nel Belstaff scuro, si diresse verso il marciapiede, la mano alzata in direzione di un taxi parcheggiato lì davanti. Non appena Andy gli fu accanto e la mano cercò la sua, si scansò, come se fosse stato scottato.
“Tu ne prendi un altro.”
“Perché?”
“Potresti parlare.”
Si concluse così quella magica serata. Con uno Sherlock infreddolito rannicchiato su se stesso seduto sul sedile di un taxi che viaggiava tristemente verso il suo carcere. Dal finestrone posteriore, spiò la figura di Andy farsi sempre più lontana, fino a svanire nel grigiore del cielo plumbeo. Tornato al bordello, sarebbe stato nuovamente solo. Sapeva che Andy sarebbe tornato a casa, soprattutto dopo quelle ultime fredde parole che gli aveva rivolto. Sapeva che si sarebbe sdraiato a riflettere sull’intera faccenda e che avrebbe cercato di capire, anche se, povero stolto, non avrebbe mai potuto. A stento lo faceva lui.
Sospirò amaramente e portò lo sguardo fuori dal finestrino, perdendosi nel monotono susseguirsi di strade e palazzi. Una volta, amava Londra. Ora non vedeva altro che un campo da battaglia da calcare con la disperata consapevolezza che era destinato a perdere.
 
Aveva sempre ritenuto la solitudine il suo unico punto fermo nella vita, come se lui stesso fosse stato generato da essa e alla fine fosse destinato a ritornare ad essa. Aveva sempre ritenuto l’amore uno svantaggio. Le sue certezze, ora, stavano inesorabilmente crollando, come un muro di vetro che viene infranto semplicemente toccandolo. E tutto per colpa di Andy Rose.
Se ne stava sul suo terrazzo, a fumare una sigaretta. Victor la notte precedente non era rientrato e quella mattina stessa aveva fatto armi e bagagli e se n’era andato. Moriarty, ovviamente, era stato ben lieto di sbarazzarsi di una delle poche persone a cui Sherlock teneva. O forse, la situazione ora era diversa? E se Moriarty avesse voluto fuori anche lui? Sarebbe stato logico, vista la piega presa dagli eventi… Ma Moriarty era folle, imprevedibile, e immensamente megalomane: non avrebbe mai permesso che qualcosa che lui aveva dichiarato di sua proprietà se ne andasse dal suo controllo.
Ora, nella solitudine, Sherlock si sentiva debole. Debole e confuso. Erano tante le cose su cui riflettere, eppure, la sua mente – solitamente così laboriosa e incontenibile – pensava al nulla da cui era circondato. Il fiato del Vuoto alitava sul suo collo, delle dita scheletriche gli accarezzavano i capelli, mentre una voce lontana intonava una lenta ninna nanna di morte. Stava impazzendo? La pazzia è solo un modo diverso di concepire la realtà. Non era forse stato da sempre un pazzo? Diverso?
Vi fu un timido bussare alla sua porta e una vocetta flebile a chiamare il suo nome. “Sherlock? S-sono Molly, non so se ti ricordi di me… Ad ogni modo, c’è qui Andy. Andy Rose.”
“Fallo entrare.”
La porta venne aperta con titubanza, rivelando la figura del medico militare affiancata da quella piccola e fremente della ragazzina che era ormai solita scodinzolargli intorno. Un’esitazione comune s’impadronì dell’ambiente e Sherlock si ritrovò a sbuffare di fronte a tanti indugi, così, con un ampio cenno della mano, invitò Andy ad entrare.
“A-allora io vado.” s’intromise la ragazza torcendosi nervosamente le mani, guadagnandosi un’occhiata pietosa da parte dell’ex soldato.
“No, Molly, se vuoi accomodati pure senza che nessuno ti abbia invitato.” rispose acidamente lui alzando gli occhi al cielo.
“Sherlock!” lo redarguì il biondo scoccandogli un’espressione severa e di rimprovero.
Sospirò sconsolatamente: possibile che quell’ometto all’apparenza così insignificante riuscisse persino a farlo sentire in colpa nei confronti di appena una bimbetta che giocava a fare la spogliarellista? “Mi spiace, perdonami. Puoi andare e… grazie per averlo accompagnato.”
Molly non rispose, ma gli parve di intravedere un paio di lacrime rigarle le guance, ma fu un attimo perché il secondo dopo si era già dileguata, lasciandoli soli.
“Era davvero necessario?” sbottò Andy allargando le braccia come a voler misurare la portata della sua meschinità e della propria delusione.
“Non si tratta di necessario o meno, Andy, si tratta di essere coerenti con se stessi. Io non sono una persona sensibile, sono il peggiore antipatico, ignorante, stronzo che esista sulla faccia della Terra.”
“Perché ti ostini a voler essere qualcosa che non sei?”
“Perché tu ti ostini a volermi rendere qualcosa che non sono?”
Era strano quel battibecco. Strano ed irreale. Sherlock odiava vedersi tramite gli occhi di Andy, perché ciò che Andy vedeva era una persona completamente diversa, migliore, umana, mentre lui era soltanto un prostituto che come unica caratteristica aveva quella di saper fare il suo lavoro. Ed era così che voleva continuare a vedersi.
“Ad ogni modo.” esclamò Andy mutando completamente tono di voce e avvicinandosi rapidamente all’angolo della stanza in cui era sistemata la telecamera. Prese la sedia, ormai praticamente di sua proprietà, vi salì e attaccò sulla lente un pezzo di carta con lo scotch che si era portato – apparentemente – da casa. “Così va meglio.”
“Che diavolo stai facendo?”
“Guadagnando un po’ di privacy.” rispose il biondo scendendo e avvicinandosi a lui con un sorrisetto e prendendogli dolcemente i fianchi, in un modo che gli provocò una scarica di brividi per tutto il corpo.
“Ce ne saranno sicuramente delle altre, nascoste da qualche parte.” osservò poi, senza però staccarsi dalle braccia dell’altro.
“Non me ne importa niente.”
Sherlock chiuse gli occhi mentre le labbra di Andy si posavano sulle sue castamente, docili, e sospirò appena di sollievo. Cristo, quant’era difficile ragionare quando quell’uomo lo stringeva fra le sue braccia e lo baciava con così tanta cura, come se fosse stato un fragile oggetto di cristallo in procinto di frantumarsi alla prima pressione esagerata.
“Vieni sul letto.” gli sussurrò sulle labbra il biondo, retrocedendo verso il suddetto letto, tirandolo delicatamente con sé per la mano.
“Andy…”
“Vieni.” ribadì fermamente il medico sedendosi sul materasso e facendogli cenno di accomodarsi accanto a lui.
Sherlock, dopo aver opposto una debolissima resistenza, si lasciò andare, prendendo posto di fianco all’altro che non aveva smesso di compiere col pollice cerchietti concentrici sul dorso della sua mano. Sapeva che era una cattiva idea. Sapeva che cosa sarebbe successo. Sapeva che se avesse superato la linea di confine non sarebbe più riuscito a tornare indietro, ma proprio mentre stava aprendo la bocca per accampare una scusa qualunque, Andy parlò: “Raccontami di te.”
Rimase a fissarlo sbigottito per diversi istanti. “Di me?”
“Sì, di te.”
“Non c’è molto da sapere oltre alla mia vita qua dentro.”
“No, Sherlock, io voglio sapere tutto.” gli spiegò l’ex soldato avvicinandoglisi appena un poco, uno sguardo serio in faccia. “Voglio sapere la tua storia. Quello che sei stato prima di questo posto, com’è la tua famiglia, com’è stata la tua infanzia, qual è il tuo colore preferito o il gusto di gelato che prediligi.”
Una risatina sinceramente divertita sfuggì alle sue labbra nell’ascoltare quell’assurdo discorso. Nessuno s’interessava mai a Sherlock Holmes. Tutti erano sempre troppo impegnati ad interessarsi all’Angelo caduto. Ma Andy Rose era diverso da tutti gli altri. Lo aveva capito dal primo istante.
“Il mio colore preferito è il viola e non sono un amante del gelato, ma il gusto che tollero di più è… il fiordilatte.”
“Che gusto noioso.”
“Sei stato tu a chiedermelo.” notò con espressione contrariata. “Per quanto riguarda la mia famiglia, sono tutti degli idioti, a cominciare da mio fratello Mycroft.” Andy scoppiò a ridere, completamente all’improvviso, e Sherlock lo osservò con circospezione. “Cos’ho detto?”
“Niente, niente… Dicevi?”
“Dicevo che la mia famiglia è composta da persone assolutamente ordinarie, a parte mio fratello che ha sempre amato proclamarsi il più intelligente fra noi. A parte questo, la mia infanzia l’ho trascorsa sui libri di mia madre e di mio fratello a studiare, in solitudine e con la sola compagnia del nostro cane, Barbarossa.”
“Non avevi amici?”
“Non prima di aver incontrato Victor. Tutti i bambini con cui avevo a che fare erano estremamente noiosi e stupidi. La famiglia di Victor si trasferì nella villa a fianco alla nostra quando avevo sette anni e da allora ho sempre nutrito un’istintiva simpatia verso quel biondino insopportabilmente positivo e scatenato. Giocavamo ai pirati e i pomeriggi passati con lui erano le uniche ore trascorse non sopra i libri. A quindici anni ho conosciuto anche qualche altro mio coetaneo – stupidissimi amici di Vic la cui unica ambizione era quella di diventare calciatori professionisti.”
“E la tua ambizione? Qual era?” gli chiese Andy, sinceramente interessato.
“Promettimi che non ti metti a ridere.”
“Giuro solennemente.” rispose quello portandosi una mano al petto, gesto che suscitò in lui una spensierata ilarità.
“Il consulente investigativo.”
“Il che?”
“Il consulente investigativo. Una professione di mia invenzione: quello che, ogni volta che Scotland Yard brancola nel buio, ovvero sempre, interviene e risolve i misteri.”
“Oh… Interessante.”
“Sciocco.”
“Perché dici così?”
Sherlock aprì le braccia, un’espressione allusiva in viso, in un gesto che lo incoraggiava a guardarsi attorno. “Guarda dove sono finito alla fine. Ad ogni modo, per realizzare questo stupido sogno che avevo da ragazzo, ho cominciato a condurre studi personali, come l’analisi di diversi tipi di tabacco e di fango, e a dilettarmi col dedurre le persone che mi capitavano a tiro.”
“Come hai fatto con me.”
“Sei stata la prima persona dopo anni.” sospirò allora, ricordando il modo in cui gli aveva sbattuto in faccia il suo passato militare. “Comunque, a diciassette anni sono riuscito ad entrare a Cambridge, alla facoltà di chimica, e a laurearmi col massimo dei voti. Pian piano, però, ho cominciato a percepire il peso di quel raggiungimento… Ero arrivato alla laurea che avevo appena compiuto diciotto anni e mi sembrava di aver ormai appreso tutto ciò che il mondo avrebbe mai potuto offrirmi… Fu allora che iniziò il mio travagliato rapporto con la droga. Inizialmente era per meri scopi conoscitivi: mi divertivo a provare diverse sostanze di mia stessa invenzione sul mio copro, studiarne gli effetti, mescolarli, portare la mia creatività al limite… Ma arrivai con lo strafare sempre di più. Al tempo, Victor era lontano e ci sentivamo di rado, non avevo nessuno se non quel borioso di mio fratello. Una volta, sono persino andato in overdose e mio fratello decise di chiudermi in una clinica riabilitativa. Fu proprio in quell’inferno che conobbi il mio capo.”
Sherlock ricordava perfettamente ogni dettaglio di quel giorno e ne parlava quasi con nostalgia. Ricordava la sala d’aspetto in cui suo fratello l’aveva scaricato, ricordava le stupide e odiose sedie colorate, ricordava quel ragazzo seduto dall’altra parte della stanza, accanto alla finestra, gli occhi persi a scrutare il cielo limpido e una sigaretta tra le labbra. Era minuto, all’apparenza insignificante, con una zazzera spettinata di capelli castani sparati in tutte le direzioni. Sherlock aveva provato a dedurlo, ma niente, niente sembrava portare. Era come un sistema impossibile, un’equazione indeterminata, un postulato senza capo né coda. Quando gli sembrava di cogliere un dettaglio, subito c’era qualcosa che lo contraddiceva, smontando ogni sua ipotesi. Quel ragazzino strambo era un’incognita da cui Sherlock venne immediatamente attratto.
“Benvenuto all’inferno.” aveva improvvisamente mormorato il tipo, senza neanche degnarlo di uno sguardo. Fu allora che ebbe inizio tutto. James si trovava lì da più di un anno ed era prossimo all’uscita. Sherlock si era da subito reso conto della sua folle mente, della sua stravaganza, eppure non poteva fare a meno di sentirsene stregato. L’astinenza era stata dolorosa, ma finché il sesso con Jim era durato,
tutto era apparso più accettabile. La notte prima della dimissione, Moriarty, accarezzandolo in seguito all’amplesso, gli aveva mormorato all’orecchio: “Cristo, se ci sai fare.”
Due anni dopo, era ripiombato nella sua vita con un contratto e un’offerta succulenta per entrambi. Sherlock si era adattato subito a quella mera ginnastica, al contrario di Victor che l’aveva seguito probabilmente istigato da suo fratello per controllarlo. Il Morningstar era diventata una casa e un godimento inizialmente senza fine. Il sesso era appagante, la soddisfazione dei suoi clienti lo rendeva orgoglioso di se stesso e finalmente la sua mente a briglie sciolte aveva trovato una sterminata pianura in cui galoppare.
“Il resto lo sai.” concluse con un sospiro, lasciandosi cadere disteso sul materasso, gli occhi chiusi e la mente persa fra i ricordi. Si sentiva così stupido, ora che aveva conosciuto Andy. Si era chiesto come sarebbero andate le cose se si fossero conosciuti in un’altra vita, in un’altra realtà. Sarebbero stati gli stessi? Sarebbe lui stato lo stesso nell’approcciarsi a quel medico militare? Probabilmente, Andy non l’avrebbe mai guardato e così anche lui. Si sarebbero incrociati per strada, di fronte a delle strisce pedonali ad aspettare il verde, in una libreria ad Oxford Street, sulla Tube, seduti vicini al bancone di un bar… Chi sarebbero stati Andy Rose e Sherlock Holmes fuori dal Morningstar? Non poteva evitare di chiederselo e nel chiederselo soffriva, perché ora gli sembrava così allettante la prospettiva di cancellare tutto, a partire da quella ridicola sala d’aspetto che assomigliava a quella di un pediatra, e ricominciare… Niente Moriarty, niente bordello, niente catene di illusoria libertà, niente rapporti, niente dolore… Solo Andy. Solo lui.
La carezza infinitamente lunga dell’altro gli troncò il respiro e la ragione. Quella mano appena un poco ruvida, a contatto con la sua pelle sembrava così maledettamente giusta, adatta. Riaprì gli occhi e il volto di Andy gli inondò la vista. Lo sguardo dolce impresso nei suoi occhi era semplicemente troppo. Anche quello era giusto, ingiustamente giusto.
“Andy…” sussurrò cogliendo le sue intenzioni dalla luce che dimorava nei suoi occhi. “Andy, non possiamo…”
“Qual è il problema?”
Sherlock si mordicchiò il labbro inferiore, nervosamente, e strinse la presa sul lenzuolo sotto di sé. “Il problema è che non potrà mai esserci niente… Io lavoro in un bordello e tu sei un rispettabile medico…”
“Questa mi pare di averla già sentita da qualcun altro.” osservò il biondo, sicuramente riferendosi al discorso di Victor a Celine.
“No, Andy, sono serio. E’ troppo complicato…”
“Sei tu che la stai facendo complicata, Sherlock.” ribatté il biondo. “Mi hai fatto fare quella stupida promessa e, per quanto stupida, ho giurato. Non vuoi complicazioni sentimentali, dico bene? Sono d’accordo. Smettiamo di farci questi problemi assurdi e… cogliamo i frutti che sono a portata di mano senza doverci arrampicare. Baciamoci quando abbiamo voglia di baciarci, chiacchieriamo quando abbiamo voglia di chiacchierare, facciamo l’amore quando abbiamo voglia di farlo, senza perché o per come, solo perché ci va. Che ne dici?”
Sherlock ridacchiò leggermente. “Perché dette da te le cose appaiono sempre più semplici di quanto non siano quando le penso?”
Andy si abbassò su di lui, arrivando a pochi centimetri dal suo volto. “Perché io sono un idiota per certe cose, ma tu lo sei per altre.” Sherlock sorrise e i suoi occhi corsero alle labbra del biondo, così suadentemente vicine alle sue. “Sto per baciarti, Sherlock Holmes.”
“Sì, direi che fosse piuttosto chiaro…”
Andy rise. Rideva spesso, Andy. Rideva per molte delle cose che lui diceva, Andy. Ed era bella, la risata di Andy. Limpida, cristallina, come uno specchio d’acqua. E Sherlock gioiva nel possedere quella capacità e, soprattutto, quella risata. La lingua di Andy gli stuzzicò giocosamente le labbra, desiderosa di trovare una porta aperta in cui fiondarsi, ma quando Sherlock, con una risatina, fece per scansarsi e rendergli più difficile il tutto, il medico gli immobilizzò le braccia sulla testa, portandosi a cavalcioni sul suo addome, e la bocca si avventò sulla sua.
Sherlock venne pervaso da tante piccole scariche elettriche e si rese conto che era costretto contro il materasso, schiacciato dal peso dell’altro, immobilizzato, e che la sua lingua si limitava semplicemente a condurre i giochetti di quella dell’ex soldato. Si sentiva spogliato di ogni volontà e difesa, ma non era come con Moriarty, no, non era paura quello che lo infiammava nel profondo, ma adrenalina pura e semplice, un'esplosione chimica non distruttiva, ma eccitante. Andy, ora, gli aveva lasciato andare i polsi e aveva portato le mani sotto la camicia linda del moro, accarezzandogli la pelle, i capezzoli, baciandogli il collo e mordendo i punti all’altezza dei nei. Sherlock teneva gli occhi chiusi e, impotente, si abbandonava a quelle mani dannatamente capaci. Nessuno – né Irene, né Victor, né tantomeno Moriarty – era mai riuscito a bearlo in quel modo. Ed era così appagante, così totalmente annullante quella sensazione. Gemette nel momento in cui le mani di Andy raggiunsero la toppa dei pantaloni e si apprestarono a slacciare il bottone e ad abbassare la zip, e non desiderò altro che eclissarsi totalmente e distruggere quell’ultima muraglia.
Poi, spalancò gli occhi. Con un sussulto scattò a sedere con un impeto tale che Andy per poco non cadde all’indietro. Annaspava, i suoi polmoni richiedevano aria, brividi di paura gli percorrevano le viscere.
“Ehi…” gli sussurrò il biondo tendendo una mano verso di lui per scansargli un ricciolo, ma lui retrocedette, scivolando sul materasso. Andy lo fissava confuso, confuso e impaurito, l’espressione tristemente contorta in un non capire che sfiorava la totale ignoranza, e per Sherlock tutto quello era insopportabile. “Sherlock… Che succede?”
“Io…” cercò di esprimersi, ma un improvviso blocco respiratorio, dato dalla paura folla che lo animava, lo spinse ad alzarsi e a sgusciare sul terrazzino, gli occhi indirizzati alla scura volta celeste su di sé. Non trovava risposta, in quegli astri che baluginavano a malapena visibili per le luci cittadine. Non trovava conforto in un cielo che aveva l’aspetto di un nulla denso e palpabile. Abbassò lo sguardo, le palpebre serrate e le dita strette alla ringhiera. Tremava. Tremava e faticava a respirare. Da quando era così debole da lasciarsi prendere da un attacco di panico?
“Sherlock.” mormorò Andy prendendogli delicatamente le spalle. “Respira profondamente. Bravo, così. Pensa a qualcos’altro, ora. Pensa a una poesia o… ad una canzone che-”
“Nonostante la solitudine sia stata mia amica… sto lasciando la mia vita nelle tue mani. Le persone… dicono che sono pazzo e che sono cieco a rischiare tutto per nulla… Come mi hai fatto diventare cieco è un ancora mistero, non riesco a farti uscire dalla mia testa.” *
Sherlock ricordava quella stupida canzone. L’aveva sentita un paio di volte al massimo nella sua adolescenza, sparata nei caffè di Londra o canticchiata da qualche studente del suo college. La riteneva noiosa, insensata, melensa… Ma perché la sua memoria l’aveva rigettata fuori proprio ora? Quella canzone parlava di due innamorati diversi, probabilmente completamente l’opposto l’uno dell’altro; parlava di un amore forte – e quando mai – che riusciva ad andare oltre le differenze; parlava di promesse passate e future… Perché gli ricordava così tanto se stesso, quella canzone? Perché gli ricordava così tanto Andy?
“Ecco, bravo.” sussurrò Andy di colpo, risvegliandolo da quello stato catatonico in cui era momentaneamente sprofondato, e circondandogli il petto con le braccia. “Soffri spesso di attacchi di panico?”
Perso com’era tra i suoi pensieri, neanche si era accorto che la crisi era passata e che riusciva a respirare naturalmente. “Io… no, in realtà è il primo…”
“E’ colpa mia? Ho fatto qualcosa per… per scatenare la crisi? Sono stato troppo irruento e indelicato, Sherlock? Dimmelo, perché io-”
Gli prese il volto con le sue mani affusolate e si perse nel contemplare i suoi occhi profondi e oscurati da un velo di preoccupazione. “Non è colpa tua. Credo che sia stato il mio subconscio… Sai, non voglio farlo qua dentro, sul letto sopra a cui sono passati i miei clienti, nella stanza che il capo ha sempre tenuto sotto stretta sorveglianza… Non con te, capisci?”
Il viso di Andy si rischiarò appena, sebbene una punta di colpevolezza perdurasse ancora nel suo sguardo. “Mi dispiace… Avrei dovuto pensarci prima, scusa, sono un idiota… Sono un idiota insensibile che non ha messo in conto come tu ti saresti potuto sentire… perdonami, Sherlock.”
“Perdonarti? Andy, tu sei una delle poche persone che mi abbia mai fatto sentire a casa. Fare l’amore con te qui non significherebbe davvero essere qui. Però… però voglio che sia diverso, perché tu sei diverso. Sei arrivato qui e tutto avevi in mente meno che pagarmi e approfittarti di me, mi sei stato accanto da amico, anche se non sono mai riuscito a ritenerti tale per la stranezza del nostro rapporto, hai voluto conoscere quello che c’era oltre la facciata, sei stato sincero e mi hai dato uno scopo per andare avanti in questo posto… Mi hai salvato la vita in così tanti modi che non ci vorrebbe l’intera nottata per elencarli tutti propriamente.”
Era una dichiarazione? No, non lo era. Per dichiararsi ad una persona non bastava un lungo monologo forbito di piccole confessioni, ma quell’enorme verità che a un certo punto della vita ti si para davanti con prepotenza e dispotismo. Non era amore, no, e non sarebbe mai dovuto diventarlo.
Andy, in tutto questo, aveva assunto uno sguardo cupo. Sherlock provò ad interrogarsi sui possibili pensieri che lo tormentavano, ma non riusciva ad afferrarne neanche uno. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Si era esposto troppo? E se Andy avesse deciso di girare i tacchi e scomparire dalla sua vita per sempre? Da un lato sarebbe stato meglio. Anzi, forse sarebbe stata la cosa più saggia da fare: allontanarlo di proposito, scacciarlo come una farfalla troppo vicina alla lanterna crepitante, salvarlo.
“Ho detto forse-”
“Devo dirti una cosa.” lo blocco l’ex soldato.
“Certo, dimmi.”
Il medico si stava tormentando le mani con ansia ed inquietudine, palesemente angosciato da chissà quale preoccupazione. “Sherlock io… Ti ho mentito tutto il tempo.”
E quelle parole piombarono con la pesantezza di una lamina d’acciaio tra loro. Sherlock si ripeté la frase dentro di sé. Ti ho mentito tutto il tempo. Gli aveva mentito. Gli aveva mentito. Anche lui.


SPAZIO AUTRICI
Eh, ragazzi... Dai, un po' di angst ci voleva dopo tutto questo fluff, no? E poi, dovreste aver imparato a conoscerci, ormai... Oh no? Comunque, questo capitolo diciamo che è una svolta da più fronti. Abbiamo assistito ad uno Sherlock che ha fatto completamente marcia indietro col dottorino tanto carino, proprio ora che è il suddetto dottorino tanto carino a fare marcia avanti... Ma più o meno un punto d'incontro l'hanno trovato, dai. E forse l'hanno anche perso... Chi può dirlo?

Nel prossimo capitolo assisteremo alla reazione del povero Sherl e capiremo che risvolti subirà la storia dopo il "coming out" di John. Sarà un capitolo, il prossimo, sotto certi aspetti risolutivo, ma non vi anticipiamo altro. Domenica prossima, dunque, settimo capitolo e sarà finalmente il 23, Dio sia ringraziato! Pubblicheremo, quindi, anche un altro giorno della settimana, adesso vedremo quale, vi faremo sapere domenica prossima. 

Bene, è tutto. Siamo felici che siate in tanti a leggere questa storia e speriamo di portarvi tutti con noi fino alla fine. Dai, resistete!! Per ora, buona ultima settimana di angoscia prima del Natale. Sciauuu

*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 7
*** I'm The Only One Who Can Keep Him Safe ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
I'm The Only One
Who Can Keep Him Safe
 
Furono forse gli istanti più duri della sua intera esistenza. Peggio dell’Afghanistan? Peggio dell’Afghanistan, dove un piede appoggiato in un punto sbagliato ti faceva saltare in aria, dove pallottole vaganti potevano trapassarti il cranio, dove rischiavi di inciampare sui corpi dei tuoi compagni e amici, dove eri costretto a raccogliere i cadaveri di padri di famiglia e giovani figli sapendo il dolore che avrebbe trafitto i cari in patria. Peggio delle missioni per l’MI6? Peggio delle missioni per l’MI6, dove c’era il costante pericolo di venire catturato e torturato, dove la pastiglietta di cianuro ti avrebbe salvato la vita togliendotela, dove uno scontro a fuoco poteva risultarti fatale.
Fu peggio. Ogni cosa sarebbe stata più sopportabile, John lo sapeva. Lo sapeva mentre vuotava il sacco e si riempiva la bocca di quella verità che aveva taciuto forse per troppo tempo. Cercava risposte negli occhi di Sherlock, una reazione, un qualsiasi cosa, ma non trovava che imperturbabilità. Sherlock era rimasto a fissarlo in silenzio per tutto il racconto, non tradendo alcuna emozione né nelle pieghe del viso, né negli occhi, e John si sentiva morire di fronte a quel silenzio. Quando tacque, capì che non solo aveva appena compromesso la riuscita della missione, ma che stava rischiando di perdere tutto ciò di buono che gli era capitato in quel posto.
Tacque e Sherlock tacque con lui. Tacque e Sherlock continuò a tacere. Tacque e quel silenzio in risposta fu quanto di più terribile potesse immaginare.
“Sherlock.” mormorò con lo sguardo basso e colpevole. “Ti prego, di’ qualcosa.”
Ma Sherlock sembrava perso in lontananza, spogliato di ogni briciolo di coscienza, paralizzato in una verità che, probabilmente, ancora gli stava vorticando intorno vertiginosamente. Infine, i suoi occhi chiari si accesero di amara delusione. “Mi hai mentito.” biascicò come in trance. “Mi hai mentito anche tu.”
“L’ho fatto perché dovevo, Sherlock, non perché volevo.” si giustificò lui, udendo, però, le sue stesse parole così deboli e insignificanti.
“Mi hai mentito anche tu. Alla fine, sei come tutti gli altri… Ti sei avvicinato per uno scopo, nonostante non fosse quello di farti scopare, ti sei avvicinato per arrivare al mio capo…”
“No, Sherlock, io-”
“Lo stesso capo che io ti ho confidato essere uno stronzo bastardo ossessionato da me con manie di protagonismo e sadismo, lo stesso capo che mi tiene stretto nel suo pugno, lo stesso capo che mi picchia e mi fa violenze come e quando meglio crede.” continuò il moro, come se non l’avesse sentito.
John gli prese una mano, ma l’altro fu rapido a schiaffeggiarla via, gli occhi ridotti a due fessure giudicatorie. “Sherlock…” sospirò allora, rassegnandosi a quella lontananza tanto fisica quando interiore. “E’ successo il contrario, Sherlock. Quando ho visto quello che eri in grado di fare con il tuo spirito di osservazione, ho avuto paura che potessi dedurre ogni cosa di me e della missione e mi sono ripromesso che avrei dovuto girarti alla larga. E così ho fatto per diversi giorni, finché non ho avvertito il desiderio pressante di rivedere quell’uomo strano che tutti chiamavano col nome di Angelo caduto. E poi non ho più avuto il controllo di niente, cazzo! Sei entrato nella mia vita mascherandoti come un lieve alito di vento e – una volta dentro – sei diventato un tornado ineluttabile ed era ormai troppo tardi per chiudere le finestre! Sherlock… Non c’è niente di falso tra di noi, tutto quello che ho detto e fatto è stato perché ci credevo ed è vero.”
“Devo dire che le spie di Mycroft stanno migliorando in quanto a recitazione.” ringhiò cupamente l’altro, serrando i pugni. “Sono stato così stupido…” sospirò poi, quasi rivolgendosi a se stesso. “Avrei dovuto capirlo, dannazione. Il tuo modo di guardarti attorno, il tuo cercare di farmi parlare del capo… la tua casa – davvero un po’ troppo vistosa per un medico militare in congedo… Oh.” Tacque per diversi istanti, Sherlock Holmes, l’ombra di una tragica sconfitta si delineava informe sul suo viso d’alabastro, un dubbio gli baluginava nelle iridi cristalline. “John Watson. Ti chiami così, vero?”
John annuì con espressione grave, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Sentiva che la situazione gli stava sfuggendo di mano, perché ovviamente era sempre così quando si trattava di Sherlock. “Ascolta… capisco se ora mi odi e non mi voglia più vedere, davvero. Però, Sherlock, ti prego, permettimi di salvare questo posto, di salvare te.”
“Me? Credi che non sia abbastanza forte da proteggermi da solo? Dovrei venderti la mia vita?” Una risata incredula lasciò le labbra del moro. “Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere? Tu e mio fratello volete portarmi via la mia casa, la mia vita, fuori di qui io non sono nessuno. E soprattutto, non avrò nessuno. Non più.”
Quelle ultime parole furono come il grande martello del gong che viene abbattuto con poderosa decisione sul grande piatto. La vibrazione lo pervase dal profondo, scuotendogli le viscere e le ossa. Non più. John non era così sconsiderato e sciocco da illudersi di salvare quello che erano riusciti a creare con tanta fatica, ma non poté negare di averci quasi sperato, per un attimo solo, piccino piccino. Non era pronto a lasciarsi indietro quell’uomo meraviglioso che era diventato una costante della sua vita. Ma se avesse dovuto farlo, sarebbe stato meglio saperlo al sicuro da chiunque ci fosse dietro all’organizzazione, e chissà, magari alla fine avrebbe trovato qualcuno per cui valesse la pena lasciarsi andare anche ai sentimenti come con lui non aveva voluto fare.
Promettimi che non ti innamorerai di me.
Gli suonava così disperata, ora, quella richiesta. E se era difficile in quelle condizioni, come sarebbe stato se fossero stati legati da qualcosa di più profondo di una semplice attrazione fisica ed intellettuale? Cosa sarebbe successo se fossero stati legati dall’amore? L’avrebbero superata? O avrebbero finito col soffrire maggiormente?
“Sherlock, non ci rimane molto tempo. Due giorni fa ho parlato con Mycroft e i suoi informatori sostengono che qualsiasi cosa stia architettando la cellula terroristica associata al capo di questo posto è imminente. Troppe vite dipendono dalla riuscita della mia missione.”
“Quindi mi hai raccontato tutto questo solo perché il conto alla rovescia è prossimo allo zero.”
“No, certo che no! L’ho fatto perché non potevo continuare a mentirti! Non mi aspetto che tu mi consegni il tuo capo, ma se sai qualcosa, qualsiasi cosa che potrebbe aiutare il Governo-”
Sherlock non gli permise di continuare. Con una presa quasi rabbiosa gli afferrò il viso e lo tirò verso di sé con disperazione. John non poté che sussultare a contatto con le sue labbra, gli occhi sgranati per la sorpresa e la lingua dell’altro che, senza troppe cerimonie, gli si ficcava in bocca a contatto con la sua. Fu un bacio strano, di certo non bello. Un bacio triste, uno di quelli che si scambiano due amanti prima di dirsi addio. Era un addio? Era davvero il loro ultimo bacio? Era così che avrebbe ricordato Sherlock Holmes e il loro rapporto? Con quell’ultimo, disperato bacio?
Quando si separarono, gli occhi di Sherlock saettarono al vialetto del giardino che si srotolava sotto di loro. John, seguendo il suo sguardo, trattenne il respiro: lì, appollaiato su di una panchina, gli occhi fissi su di loro, sedeva Sebastian Moran. Il suo cuore prese a battergli furiosamente, mentre mille dubbi e mille domande gli affollavano la testa. Non poteva aver sentito. Era troppo lontano. Però John stava gradualmente alzando la voce, colto dalla frustrazione di essere sul punto di perdere per sempre Sherlock. Della missione, ormai, poco gli importava. I suoi occhi si spostarono su Sherlock. Lo aveva protetto? Aveva protetto il suo segreto?
Come se avesse percepito il suo sguardo su di sé, Sherlock si volse verso di lui, un’amarezza sconfinata a tempestargli negli occhi. “Vattene.” sibilò con voce impotente. “Vattene e non tornare mai più. Non scomodarti nemmeno a provarci: informerò Jackson e gli altri buttafuori che da oggi Andy Rose è bandito dal Morningstar. Tornatene da Mycroft, raccontagli quello che ti pare, inviate qualcun altro, ma io non voglio più rivederti.”
Aveva pronunciato quelle ultime parole con rabbia. John percepiva un profondo malessere attorcigliarsi dentro di lui, un grumo di cancerogeno dolore che gli squassava le interiora. Era finita. Ogni cosa. Era un addio. Era un mai più. Ma forse, forse era meglio così. Meglio staccarsi da Sherlock. C’era qualcosa di oscuro nell’essere così vicino a quell’uomo. Un sesto senso che scampanellava con insistenza in lui, un messaggio subliminale che non riusciva a cogliere.
“Perdonami.” fu tutto quello che riuscì a dire prima di voltarsi e affrettarsi verso i cancelli d’uscita dell’Inferno.
 
“Dobbiamo tirarlo fuori di lì!” sbraitò sbattendo un pugno sul tavolo e rischiando di far traboccare lo scotch ancora intoccato del suo bicchiere. Occhiate critiche dei più alti esponenti del Governo e dell’MI6 vennero puntate con biasimo su di lui, alcune annoiate altre accusatorie. Come potevano starsene tutti così tranquilli e indifferenti? Come potevano? John, quasi, tremava. La notte prima, dal Morningstar, si era subito recato al Diogenes Club e, com’era da aspettarsi, Mycroft era ancora lì a fare Dio-solo-sa-che-cosa. Non si era alterato, Mycroft. Né aveva lasciato trasparire l’agitazione con cui però, in seguito, contattò lady Smallwood, un’importante membro del Parlamento, nonché anche lei invischiata nei lavoretti dell’MI6. Il consiglio d’emergenza, come l’aveva definito Holmes, si era radunato in tutta fretta quella stessa notte e John aveva insistito per partecipare.
“Non biasimo le tue azioni, John” gli aveva detto Mycroft. “ma sappi che gli altri membri non la penseranno allo stesso modo e che non ci penseranno due volte a metterti in ridicolo o a giudicarti.”
Ma poco gliene importava, ormai. Gli sembrava di aver perso tutto e l’unica cosa che gli stava a cuore era tirare Sherlock fuori da quel posto. Il consiglio era parso restio alle proposte avanzate da Mycroft per attuare un protocollo d’emergenza che consentisse, se non altro, di tirare fuori i dipendenti del locale, anche se avrebbe significato farsi scappare il capo dell’organizzazione.
“Sappiamo di tuo fratello, Mycroft, ma non possiamo anteporre affetti di carattere personale alla vita dei nostri cittadini.” aveva osservato Sir Edwin, un alto funzionario dell’intelligence britannica.
“Perché, Sherlock non è uno dei vostri cittadini?” aveva quindi replicato con acidità John.
“Agente Watson, dato che è stato lei a creare questa situazione d’emergenza si risparmi almeno di intervenire a sproposito” lo aveva, però, zittito quello.
“Sherlock è in pericolo! Quel pazzo che stiamo cercando è un sadico il cui divertimento risiede nel farlo soffrire e nel sottometterlo! Non possiamo lasciarlo lì dentro!”
“Vedo che la sua abilità in missione è tanta quanto la sua sprovvedutezza nell’esaminare i casi da esterno.”
“Non me ne starò qui ad aspettare che quel maniaco gli faccia ancora del male!”
“E’ la logica a parlare, agente, o è il cuore?”
“Sono io a parlare perché ho visto quello che c’è là dentro.”
Sir Edwin aveva dunque sospirato, esasperato. “Non comprometteremo di nuovo la missione per Sherlock Holmes, mi dispiace, e anche nel più drastico degli eventi sarebbe una vita contro centinaia, forse migliaia.”
“Dobbiamo tirarlo fuori di lì!”
Era stato allora che John Watson era esploso. Scrutava i volti dei presenti, vi cercava un minimo di comprensione, di umanità, ma non vi era che biasimo e indifferenza. Solo Mycroft, seduto in silenzio accanto a lady Smallwood, pareva mostrare una traccia di compassione nei suoi confronti. John era lacerato dall’impotenza, dal sapere Sherlock solo, senza più Victor né lui a guardargli le spalle, in balia di un pazzo.
“Agente Watson, le condizioni per cui lei è stato ammesso a questa riunione prevedevano il suo stare in silenzio e parlare solo se interpellato.” intervenne con fermezza lady Smallwood. “Perciò può continuare ad assistere in silenzio o se vuole quella è la porta.”
John rimase immobile, appoggiato al grande tavolo attorno a cui sedevano donne e uomini di potere, così distanti da lui. “Fatemi tornare là.” sussurrò poi. “Trovatemi una nuova identità, un modo per camuffarmi. Lo porterò via io. Sembrerà la fuga di un uomo stanco di quel lavoro e di quel luogo.”
“A quanto ci dice, Sherlock Holmes è fondamentale per il nostro uomo. Se dovesse sparire, farebbe delle ricerche e crede davvero che con tutti i suoi contatti non scoprirebbe che è stato portato via dall’MI6?”
John contrasse la mascella fino a farla scricchiolare. Provava l’impulso di rovesciare quella tavolata e urlare tutta la sua disperazione al mondo intero. “Lasciate che lo salvi.”
“No.” sentenziò perentoria la voce di Mycroft i cui occhi vennero presto allacciati da quelli sgranati dell’agente. “Non possiamo correre il rischio. L’unico modo per salvarlo, John, è acciuffare quel criminale.”
“Bene, allora ditemi quello che devo fare e ve lo consegnerò domani stesso.”
Un mormorio di disappunto percorse la sala delle riunioni, mentre gli astanti si scambiavano sguardi d’intesa. Mycroft sospirò profondamente. “Mi dispiace, John, ma a seguito dei recenti avvenimenti non possiamo permetterti di continuare. Ti sollevo dal tuo incarico e ti dichiaro in congedo finché non saremo noi a richiedere i tuoi servigi.”
Un sorrisetto ironico illuminò sinistramente il volto di John. “Stai scherzando, vero? Dimmi che stai scherzando.” Ma il viso di Mycroft era una lastra di marmo. Fece correre nuovamente lo sguardo tra i visi compiaciuti dei presenti, mentre dentro cresceva la consapevolezza che era stato dichiarato non idoneo a salvare Sherlock, il suo Sherlock. “Bene. Voi pensate a salvare la vostra patria e la vostra regina, che io penso a salvare Sherlock. Ah, e non scomodatevi per il mio congedo. Mi licenzio.”
E detto questo schizzò fuori con il suo rigoroso passo militare, furioso e rovente a causa dell’umiliante sconfitta appena subita. Percorse a caso i corridoi del Parlamento, si perse, tornò indietro sui suoi passi, respirava male, gli faceva male la testa… Non seppe dire come fosse crollato a terra, i pugni serrati che pestavano il lussuoso pavimento.
Mi hai mentito anche tu… Alla fine, sei come tutti gli altri… Sono stato così stupido… Dovrei venderti la mia vita?... Fuori di qui non sono nessuno… E soprattutto, non avrò nessuno… Non più… Vattene e non tornare mai più… Io non voglio più rivederti…
E mentre la sua mente veniva scossa da tali pensieri, cercò la forza di rialzarsi, di rimettersi in sesto per elaborare un nuovo piano per salvare Sherlock. Lo aveva perso, e questo non poteva cambiarlo, ma lo avrebbe portato via da quel covo di vipere, anche contro il suo volere.
 
Si svegliò nel tardo pomeriggio, dopo poche ore di tormentato sonno per recuperare l’intera nottata trascorsa prima con Mycroft e poi con quegli avvoltoi del Governo. Provava una ripugnanza mista ad astio verso quella gente. Non li sopportava, non li aveva mai sopportati, ma quella mattina avevano davvero superato ogni limite. Ora, se ne stava chino sulla planimetria del locale che aveva creato lui stesso con quanti più dettagli era riuscito a ricordare. Si sarebbe intrufolato di nascosto, questo gli pareva ovvio – magari dal giardino. I puntini rossi segnati in certe zone corrispondevano alle telecamere piazzate dal capo del Morningstar ed evitarle non sarebbe stato facile, anche perché non poteva essere sicuro che non ce ne fossero altre, magari nascoste in qualche angolo imboscato. Sarebbe entrato dalla scala del personale, e avrebbe disattivato la telecamera oscurandola con lo spray che aveva usato in più occasioni, ma a quel punto, sarebbe stato dato l’allarme, perciò la velocità avrebbe rappresentato tutto. La stanza di Sherlock era vicina a quell’ingresso e ci avrebbe impiegato pochi secondi a raggiungerla. Poi, la parte difficile. Convincere Sherlock a seguirlo. Per questo avrebbe portato con sé la pistola. Forse era meschino, ma non avrebbe esitato un solo istante a puntargliela contro pur di salvarlo. Detto questo si sarebbe fatto dire dove trovare il suo capo e sarebbe andato a stanarlo senza pensarci due volte, gli avrebbe puntato la pistola sull’uccello e l’avrebbe osservato sbiancare per il terrore. Gli avrebbe sputato addosso, gli avrebbe vomitato contro il suo odio per aver osato sfiorare Sherlock, lo avrebbe trascinato personalmente da Mycroft e gli altri spocchiosi del Governo, e avrebbe richiesto di essere lui a strappargli dalle labbra le informazioni.
Avrebbe agito quella notte, quando l’affluenza di clienti gli avrebbe consentito maggiore distrazione da parte del personale tutto. Avrebbe salvato Sherlock. Ad ogni costo.
Alle undici e mezza scese, avvolto dai suoi abiti scuri che generalmente utilizzava per il lavoro attivo sul campo. La sua cintura era pesante di oggetti, la pistola carica di colpi, il suo spirito scevro di una determinazione che forse mai aveva avuto prima di una missione. Non appena aprì la porta di casa, però, scorse una macchina nera lucente parcheggiata di fronte al cancelletto d’ingresso. Un brivido gli percorse la schiena, ma ostentò freddezza e prese a camminare sveltamente verso la fermata dell’autobus, gli occhi che cercavano febbrilmente un taxi su cui montare. L’auto, com’era da manuale, venne accesa e i fanali lo accecarono. C’erano due spiegazioni: la prima era che fossero dei tirapiedi qualunque del capo del Morningstar, la seconda – quella che obbiettivamente temeva maggiormente – era che fossero gli uomini di Mycroft piantati lì per impedirgli di fare una sciocchezza. Sciocchezza che lui non avrebbe esitato a compiere. Prese a correre, imboccando un vicoletto scuro e fetido, dove però una macchina non sarebbe riuscita a passare, e si affrettò verso la strada che si snodava dietro la sua casa. Quella zona non era esattamente l’ideale per mimetizzarsi fra la folla. In giro, a quell’ora, erano in pochi mentre una macchina nera sarebbe stata facilmente confondibile. Doveva evitare quanto possibile di capitare lungo vie troppo trafficate, altrimenti sarebbe stato localizzato in un attimo. Ringhiò di frustrazione mentre correva sul lungo marciapiede limitrofo della strada principale del quartiere: avrebbe perso troppo tempo. Doveva trovare un taxi alla svelta, e sfrecciare al Morningstar. O ci sarebbero stati uomini anche lì? Conoscendo la perizia di Mycroft dubitava che il grande piano di controllo si riducesse ad una sola macchina stanziata di fronte casa sua. Girò su se stesso, gli occhi che vagavano tra i fari delle auto in cerca della scritta arancione sul tettuccio…
Nella foga, andò a sbattere contro qualcuno e mentre si stava girando per scusarsi, nonostante la fretta e la trepidazione, si sentì afferrato, una mano premuta sulla sua bocca. Con un’abile testata riuscì a liberarsi facilmente di quella presa, ma appena l’individuo che aveva cercato di bloccarlo toccò con la schiena la parete di una casa, massaggiandosi il naso sanguinante, un secondo tizio gli fu addosso, stavolta con una pezzetta di sicuro imbevuta di cloroformio. John si abbassò, sostenendosi con le braccia, e assestò un preciso calcio alla rotula dell’uomo che con un gemito straziante si accasciò a terra, le mani a coprire l’osso del ginocchio spostato.
Con una gomitata allo sterno riuscì a respingere nuovamente l’uomo dal naso rotto e a schizzare via, perdendosi in un altro vicolo. Com’era da aspettarsi, quella macchina scura non era l’unica a sorvegliare i suoi movimenti. Con la coda dell’occhio, notò una donna far scivolare la mano nella borsetta di raso.
“Mi scusi, miss.” biascicò afferrandole il polso e tirandola verso di sé, rivelando la mano munita di pistola. “Farà un po’ male.” continuò con tono leggermente cavalleresco prima di torcerle un braccio e scatenare un grido strozzato. Non a caso era il miglior agente dell’MI6.
Sbucò nuovamente sulla strada principale, deciso ad entrare a forza in una macchina, incurante dei civili e delle loro vite così insignificanti, in quel momento. Ma ecco che una seconda macchina nera, di un modello diverso da quella di fronte a casa sua, si accostò a lui, il finestrino abbassato. John fu rapido. Estrasse la pistola e la puntò contro il viso dell’uomo che si sporse verso di lui, ma poi il dito, sul grilletto, esitò. Spalancò gli occhi, mentre l’arma gli cadeva di mano. Di fronte a lui, seduto sul sedile posteriore, accanto a Mycroft Holmes, sedeva Sherlock, negli occhi una luce divertita.
“Buonasera.” esordì il moro senza scomporsi. “Bella sorpresa, eh?”
“S-Sherlock?” biascicò John confusamente e nemmeno si rese conto di due uomini che gli ghermirono brutalmente le braccia, assicurandogliele dietro la schiena.
“Può bastare, idioti. Non vedete che ci sono io, ora?” intervenne Mycroft con voce tanto annoiata quanto sprezzante, che ottenne subito il risultato desiderato: i due lo liberarono immediatamente, ma lui neanche ci fece caso, troppo impegnato a spostare lo sguardo da un Holmes all’altro.
“Che cosa significa?”
“Significa che James Moriarty, il proprietario del Morningstar e la più abile mente criminale che il mondo abbia mai conosciuto, è stato arrestato.” rispose il maggiore con tono apatico. “Tutto questo, grazie alle prove forniteci da mio fratello, il quale ha saggiamente deciso, alla fine, di collaborare con la giustizia. I miei uomini stanno giusto perquisendo ogni centimetro del locale, in cerca di altre eventuali informazioni utili, ma il materiale che Sherlock ci ha gentilmente consegnato è sufficiente a condannare Moriarty alla galera per un totale di ottantaquattro anni.”
“I-io… Dov’è adesso?”
“Lo stanno interrogando. Stavamo giusto venendoti a prendere, ma ci abbiamo messo un po’ a trovarti mentre scappavi mettendo KO tutti i miei agenti.”
John ancora stentava a credere a quello che vedeva. Sherlock era lì. Sherlock era vivo. Sherlock stava bene. Sherlock era salvo. Respirò nuovamente, il cuore infinitamente leggero, la testa ormai sgombera da ogni preoccupazione. L’autista era sceso dalla macchina e ora gli indicava solennemente la portiera anteriore sinistra spalancata, invitandolo a salire, ma lui non riusciva a distogliere gli occhi da Sherlock.
“Stai bene.” sospirò alla fine, un gemito di sollievo, quasi.
Ma l’altro non rispose e si limitò a richiudere il finestrino, celandosi dietro il vetro scuro.
Salì nella macchina, che ripartì non appena ebbe chiuso lo sportello, diretta verso l’uomo che più odiava al mondo, nonostante non lo conoscesse nemmeno. Il percorso per raggiungere la prigione di Pentonville fu denso di un silenzio corposo e imbarazzante. L’autista guidava tranquillamente, gli occhiali da vista inforcati sul naso aquilino, Mycroft era concentrato sul suo cellulare, assorbito completamente da qualunque cosa stesse leggendo. Rimanevano dunque, John, che non riusciva ad evitare ai suoi occhi di correre verso lo specchietto retrovisore, e Sherlock, il cui sguardo, puntualmente, veniva colto in flagrante da quello dell’altro, riflesso sul vetro.
Arrivarono dopo una buona mezz’ora di strada. John scese quasi al volo, tanta era la rabbia che gli si stava accumulando granello dopo granello, e seguì Mycroft che, con passò elegante come al solito, lo guidò attraverso i corridoi della famosa prigione londinese. Sherlock se ne stava diversi passi dietro di loro, con tutta probabilità non aveva chissà quale voglia di rivedere il suo carceriere. E John accelerò anche per questo, perché non poteva concepire l’idea di uno Sherlock ancora spaventato, ancora bloccato nel passato. Sarebbe stato proprio lui a chiudere quella porta e a gettare via la chiave. Sherlock sarebbe stato al sicuro per sempre, dopo quel giorno.
Giunsero di fronte ad una porta sorvegliata da due guardie dei reparti speciali che appena videro Mycroft si fecero da parte dopo aver lasciato la via aperta. Dietro quella pesante anta di ferro, si apriva una saletta scura, dov’erano raccolti sir Edwin e lady Smallwood, affacciati su un ampio finestrone, uno di quelli che conosceva bene, uno dei tanti che aveva visto nel corso dei suoi servigi all’MI6. E fu proprio verso quel finestrone che si affrettò, superando il maggiore degli Holmes, ormai libero da ogni rapporto di deferenza nei suoi confronti, visto che si era licenziato di fronte al Governo intero.
In una squallida celletta con solo una sedia di plastica azzurra, sedeva, con le mani e i piedi immobilizzati, un ometto dal viso leggermente tumefatto, con lo sguardo fermamente rivolto davanti a sé, su di loro – anche se non poteva vederli – nonostante un uomo gli stesse urlando contro domande e sferrando pugni alla conseguente mancanza di risposte.
“E’ lui?”
Certo che era lui. Ma voleva sentirselo dire. Voleva avere il permesso di dare sfoga a quelle settimane trascorse alla sua caccia. Voleva che fosse lo stesso Sherlock a dirgli di entrare e fargli giustizia, ma sapeva che l’altro non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. E da un lato, era giusto. Sherlock era migliore di quella canaglia che sedeva con sguardo vacuo in quella cella, era migliore persino di lui. Lui si era stancato di essere migliore del mondo. Voleva fregarsene, per un attimo soltanto, della sua moralità, entrare là dentro, e riempirlo di botte fino a vederlo agonizzare a terra, rantolare nel suo stesso sangue.
“Sì, l’abbiamo catturato proprio mentre usciva dal locale, grazie ad una telefonata di Sherlock.” rispose Mycroft affiancandoglisi. Per qualche secondo, ogni presente in quella stanza tacque, lasciando che il silenzio venisse riempito soltanto dalle grida dell’agente addetto ad interrogare quello che Holmes aveva prima chiamato Moriarty. “Vuoi entrare, John?”
John non rispose, ma si limitò a volgersi in direzione di Sherlock, il quale lo stava fissando con intensità. Cristo, perché doveva essere semplice cosa difficile capire quello che passava nella mente di quell’uomo? Lo stava pregando di vendicarlo o gli stava chiedendo di non entrare?
“Sì e voglio completa libertà.” sibilò alla fine, mentre sul volto di Sherlock si accendeva un’espressione che gli parve delusa. Era davvero così sbagliato volerla far pagare a quello che lo aveva fatto soffrire per anni?
“D’accordo. Hai cinque minuti.”
L’agente nella cella, richiamato dal maggiore degli Holmes, uscì detergendosi la fronte con la manica bianca della camicia, il viso stravolto, quasi fosse stato lui a subire le percosse. John inspirò a fondo ed entrò. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, gli occhi del prigioniero si puntarono su di lui e, finalmente, sul suo volto vi fu ben altro che insofferenza. Un ghigno feroce gli illuminò l’intera faccia, e la lingua andò ad inumidirgli animalescamente le labbra.
“Bene, finalmente ci conosciamo, Andy Rose. Dubito che sia il tuo vero nome, ma dubito anche che abbia intenzione di dirmelo.”
“Dubiti male, Moriarty. Voglio che ricordi il mio nome e cognome ogni notte che penserai a quanto sangue avrai sputato qua dentro.” rispose con voce piatta, atona. “John Watson.”
“John Watson.” ripeté il detenuto arricciando con soddisfazione le labbra. “Ti piace, Sherly? O preferivi Andy?” disse poi alzando la voce e causando in John un’esplosione di rabbia che lo portò ad avvicinarglisi e a tappargli brutalmente la bocca artigliandogli le guance.
“Rivolgiti ancora a lui e sta’ pur certo che non avrai tempo di pensare il suo nome che ti ritroverai affogato nel tuo stesso sangue.”
“Quanto può essere diverso un alias dalla persona vera. Il dottor Rose sembrava così dolce, persino quando ha finto di essere ossessionato dal mio Sherlock.” sputò fuori Moriarty, nonostante la presa salda esercitata dalle sue grinfie.
“Lui non è tuo.”
“E’ più mio di quanto pensi. Di quanto lui pensi. Siamo legati dallo stesso destino.”
“Sta’ zitto.”
“Di certo è più mio che tuo.”
“Lui non è proprietà di nessuno.” ringhiò aumentando ancora di più la stretta sulla carne di quell’essere. “E ora che tu sarai sbattuto dietro le sbarre… lui sarà libero di prendere in mano la sua vita.”
Una risata sguaiata lo costrinse ad allentare la presa e a farlo scostare, inorridito da colui che gli stava davanti. “Io non me ne andrò mai da lui. Sarò sempre dentro di lui. Mi sono spinto troppo dentro e avrà per sempre una traccia di me in lui. Sarà marchiato come una vacca, come un albero su cui un cane ha pisciato sopra, e tu non potrai-”
John non si rese neanche conto del pugno che partì. Percepì solo il dolore alle nocche e il calore del sangue rappreso sul dorso della mano. La potenza del colpo era stata tale che la sedia si era ribaltata, e con essa Moriarty, che ora era a terra, scosso dalle risa, con la faccia impregnata di sangue.
“Meraviglioso! Ora capisco perché ti piace tanto, Sherlock!”
“Ti ho detto che non lo devi nominare.” ruggì allora abbassandosi su di lui e premendogli il palmo della mano sul naso rotto, cercando di scatenargli quanto più dolore fosse in grado di scatenare. “Ormai, Moriarty, la tua era è giunta al termine. Sherlock non soffrirà più per mano tua…”
“Forse per mano mia no, ma non puoi proteggerlo da tutto.”
“Sì, invece.”
“Oh, Johnny, sei solo uno stolto se pensi questo. E sai perché? Perché un giorno ti sveglierai e Sherlock non sarà più con te. Alla fine, lo perderai perché non sei stato abbastanza forte da proteggerlo.”
Le parole di Moriarty erano fasulle, eppure John non provò l’istinto di colpirlo, quanto di allontanarsi da quella stanza. Invece, le sue gambe erano ancorate a terra, incapaci di muoversi.
“Tempo scaduto.” decretò la voce di sir Edwin in seguito al cigolio dei cardini della porta.
“Soffrirai, Johnny. Soffrirai come un cane.” continuò però Moriarty, mentre tutto quello che lui riusciva a fare era starsene lì, impotente, ad ascoltare quell’irreale vaticino. “Sherlock soffrirà. Sarai tu a farlo soffrire.”
“Watson.”
“Sherlock non sarà mai al sicuro con te. Solo io potevo proteggerlo, e adesso che sarò rinchiuso in gattabuia, tutto quello che potrò fare è guardarlo mentre si lascia distruggere da te.”
“Che stai dicendo…”
“Watson! Ho detto: tempo scaduto!”
“Tu credi che il pericolo che minaccia Sherlock sia io, ma non hai idea di quanto ti sbagli, Johnny. Il pericolo non sono io.”
Delle braccia robuste gli afferrarono le braccia e lo tirarono indietro, lontano da Moriarty.
“Ricordati che non sei nessuno, John Watson. Non lo sarai mai. E assisterai alla distruzione di Sherlock pezzo dopo pezzo. Ascolta le mie parole: Sherlock Holmes è una bomba a orologeria. Il conto alla rovescia è vicino alla fine, più vicino di quanto pensi! BOOM! BOOM!”
La porta venne chiusa con un tonfo, mentre il suo corpo praticamente inerme veniva tirato via con la forza, verso il corridoio da cui erano venuti. John si ritrovò seduto a terra senza neanche capire come c’era finito. Di fronte a lui, inginocchiato alla sua altezza, Sherlock lo fissava con aria turbata. Da quanto erano lì? Istintivamente, la sua mano corse ai ricci dell’altro, affondando tra quei capelli setosi, quasi a volersi accertarsi che non fosse un’illusoria visione.
“Sherlock…”
Sherlock, in risposta, gli poggiò una mano sulla sua, e si guardarono in silenzio per diversi istanti. E ancora, John si chiedeva se l’aveva perso, quell’uomo meraviglioso che gli stava di fronte. Le parole di Moriarty l’avevano turbato così tanto che come uno sciocco era crollato a terra, in un attimo di giramento di testa. Aveva parlato di Sherlock come di un oggetto di sua proprietà, di un animale da bestiame che non era in vendita, di un diamante il cui inestimabile valore poteva essere preservato da lui e da lui soltanto. Solo a ripensare a quell’essere avvertiva la rabbia montare nuovamente.
“John.” John spostò gli occhi da Sherlock a Mycroft, comparso improvvisamente alle spalle di quest’ultimo. “Volevo ringraziarti a nome di tutta l’assemblea. E’ stato solo grazie a te che Sherlock ha deciso di compiere questo avventato passo. E sappi che non ti ho ancora depennato dall’elenco dei miei agenti migliori.”
Avrebbe voluto dirgli che non gliene fregava niente dei suoi ringraziamenti né della sua velata offerta di riprendere il servizio, ma si limitò ad un secco cenno del capo e a rialzarsi in piedi, appoggiandosi alla parete.
“Devo occuparmi di alcune questioni, ancora, ma voi due potete pure andare. Troverete una macchina ad aspettarvi.”
Si avviò con passo incerto lungo il corridoio, pregando che i passi di Sherlock calcassero le sue stesse immaginarie impronte. Voleva compiere il resto della sua strada assieme a lui. A fianco a lui. Lasciare insieme impronte sulla sabbia della loro vita e arrivare alla fine del deserto insieme, per poi voltarsi e ricordare tutti i passi impressi in quel giallo dorato baciato dal sole. Trattenne il respiro finché non udì le falcate indecise di Sherlock seguirlo, lasciarsi condurre. Non si fermò né rallentò per aspettarlo, non finché non furono di fronte alla macchina. Allora e solo allora, John prese coraggio per guardarlo e ammirarlo lì, fermo di fronte al cancello, come un bambino intimorito rimane attaccato alle gambe della propria madre.
“Andiamo da qualche parte?” chiese timidamente, l’intestino che pareva attorcigliarsi su se stesso dall’ansia.
“Insieme… No, meglio di no…”
“Sherlock…”
“Cosa?”
“Ecco, io… Dovremmo parlare?”
“Di che cosa?”
“Di quello che succederà a questo punto.”
Sherlock sospirò e compì un piccolo passo verso di lui, le mani ficcate nel Belstaff e il bavero alzato per ripararsi dall’aria marzolina. “Stando a quanto dice Mycroft, una vecchia amica di famiglia, una sorta di governante per me e mio fratello, affitta un appartamentino grazioso in centro, in un quartiere piuttosto lussuoso, a un prezzo di favore. E… beh, credo che potrei provare a trasferirmi lì…”
“Pensi che riprenderai in mano l’idea del consulente investigativo?”
Un sorriso ironicamente triste comparve sulle labbra di Sherlock screpolate dal freddo. “Non penso proprio, no. Credo che Scotland Yard non riuscirebbe più a fare a meno di me poi… Meglio non viziarli.”
“Capisco…”
Tacquero entrambi per diversi secondi, l’aria della sera che li avvolgeva materna con il suo abbraccio. Nubi dispettose macchiavano il firmamento, coprendo il blu notte, assomiglianti al gas di scarico delle automobili.
“Posso chiederti come hai fatto ad incastrare Moriarty?” Il moro mantenne tenacemente lo sguardo puntato sulle punte dei mocassini. “Sherlock?”
“Conosci i miei metodi.” rispose semplicemente l’altro.
“Che cosa vorrebbe dire?” lo incalzò dunque, avvertendo rabbia fluirgli nelle vene, ignorando quella vocina nella sua testa che gli sussurrava malevolmente che sapeva benissimo come Sherlock aveva fatto.
“Seducendolo. Mi sono autoinvitato in camera sua e mi sono limitato a sedurlo… Sulla parete orale mi ero precedentemente spalmato una droga di mia invenzione che addormenta chiunque la assimili completamente per un lasso di tempo piuttosto ampio. Così, ho dovuto aspettare che mi ripulisse ben benino la bocca con la sua lingua e che la droga facesse effetto. Il resto è stata la parte più semplice. Aveva una stanza segreta nascosta da un quadro… molto caratteristico, per lui. Conoscendolo, non ho avuto dubbi che le sue mani di protagonismo lo avrebbero spinto ad affidarsi a quel dipinto. Ho raccolto ogni cosa, contattato Victor e gli ho chiesto di portare tutto a Mycroft mentre io avrei tenuto d’occhio Moriarty. Non appena si è reso conto di quello che avevo fatto… beh, Moriarty non l’ha apprezzato e così mi ha… sì, insomma, mi ha legato al letto e… Puoi intuire che cosa una feccia come lui sia in grado di fare. Fortunatamente, avevo già previsto tutto e avevo posizionato il mio telefono sotto le lenzuola, facilmente raggiungibile anche con le mani legate. La schermata era già pronta per telefonare Mycroft. Ho avvertito lui che ha avvertito a sua volta i suoi uomini e… eccoci qui.”
John alzò gli occhi al cielo, incredulo che Sherlock si fosse davvero gettato in qualcosa di così folle. “Se solo mi avessi aspettato, cazzo… Non avresti dovuto… non avresti dovuto…”
“Era qualcosa che dovevo fare io.” mormorò con tono scuro il moro, gli occhi ancora a terra. “Per andare avanti con la mia vita.”
“E io?” chiese senza preavviso John. “Io ne faccio parte della tua vita?”
L’altro parve sinceramente sorpreso. “Beh, io… Non so…”
“Sparirai dalla mia vita come ne sei entrato?”
“Tecnicamente, sei tu che sei entrato nella mia.”
“Sherlock, io… non voglio che finisca.” Si avvicinò, pregando con tutto se stesso che non si scansasse e, con suo sollievo, quello rimase fermo e statuario, avvolto nel suo Belstaff scuro. “Questo è… importante. E non intendo solo il fatto che tu mi piaccia da impazzire, ma io credo di non poter continuare senza di te.”
“Tu non hai bisogno di me.” ribatté il moro distogliendo lo sguardo, ma John gli prese il mento tra due dita e lo costrinse a guardarlo nuovamente negli occhi.
“Ti sbagli.” sussurrò semplicemente. “Permettimi di far parte della tua vita, Sherlock Holmes. So che ti ho mentito-”
“Non è più per questo.” lo interruppe Sherlock scuotendo la testa. “Anche se inizialmente mi ha fatto davvero, davvero incazzare e mi ha fatto sentire come se tu mi avessi ingannato riguardo tutto, mi hai permesso di liberarmi delle catene di Moriarty e di liberare tanti altri miei compagni… mentre altri pagheranno assieme al loro capo.”
“E allora che cos’è che ti frena?”
Il moro si mangiucchiò nervosamente il labbro inferiore. “Andy… John.” Si soffermò particolarmente su quel nome che John si era trovato costretto a celargli per diverse settimane e lui si sentì sciogliere. Non pensava che un nome così banale come il suo potesse suonare così dannatamente bene pronunciato da quell’uomo. Si trovò a sorridere e Sherlock, di sicuro, se n’era accorto, perché la parvenza di un sorriso sfilò anche sulle sue di labbra. “John, mi sono prostituto per otto anni e, non fosse stato per Moriarty, avrei anche trovato questa vita più che soddisfacente e appagante. Ora… ora devo ripartire da capo: trovarmi una casa, fare qualcosa con la mia laurea in chimica, capire qual è il mio scopo… E so che la vita, lunga o breve che sia, va avanti, però mi sembra di essere intrappolato in un limbo da cui non uscirò mai…”
“E allora permettimi di aiutarti.”
“Non è una cosa in cui puoi aiutarmi. Su questo, Jim ha ragione: non puoi proteggermi da tutto.”
Quella manifestazione d’intimità con il suo vecchio capo, come il chiamarlo per nome, gli provocò un profondo moto di gelosia, unito alle sue parole. Lui non poteva proteggerlo da tutto, però Moriarty poteva? Che razza di follia!
“Perché lui poteva, invece.” sbottò infatti incrociando le braccia al petto.
“John…”
“Non riesco a capire, Sherlock. D’accordo, lo ammetto, sarei presuntuoso se pensassi che potrei difenderti da tutto, però… lascia che ti stia accanto. Dammi una possibilità, Sherlock.”
Gli occhi di Sherlock si colmarono di dolcezza e la mano gli prese la sua, portandosela alle labbra. John chiuse gli occhi e gli si fece ancora più vicino, in modo che i loro corpi si toccassero. Dio, quanto gli era mancata quella sensazione, sebbene fossero passati appena due giorni.
“E’ quello che vuoi? Starmi accanto?”
“Più di qualunque cosa al mondo.”
“E se andrà male?
“E se andrà male, ci comporteremo di conseguenza. Ma non pensiamo alle cose brutte. Cerchiamo prima di capire da dove iniziare, che dici?”
Sherlock ridacchiò. “Facciamo un periodo di prova?”
“Perché no?”
“Della durata di quanto, se posso chiedere?”
“Che te ne pare con… tutta la vita?”
John osservò il volto dell’altro accostarsi al suo, poi chiuse gli occhi e tutto ciò che percepì fu il calore della bocca del moro a contatto con la sua. In quel bacio, sorrise, colmo di gioia. Dicono che gioia e felicità non sono la stessa cosa. Dicono che la felicità è un qualcosa di effimero, legato a particolari momenti della vita, e che la gioia, invece, sia una condizione costante nella vita di ciascun individuo. Beh, grazie a Sherlock Holmes, John Watson la sua gioia l’aveva appena trovata, perché, cazzo, si sentiva fottutamente bene e libero e leggero, e quello era solo l’inizio.
“Abbiamo tutta la vita davanti.” sussurrò sulle labbra dell’altro prima di continuare a baciarlo con maggiore passione, cingendogli la vita in un abbraccio desiderato e nostalgico, gioioso.
 
 SPAZIO AUTRICI
Bene bene bene... A quanto pare le cose si sono avviate. Sherlock è fuori dal Morningstar o almeno, momentaneamente... Sarà davvero finita qui la sua storia all'interno del bordello? O con Moriarty? John ha rivelato la sua identità e così facendo, nonostante le turbolenze iniziali, è riuscito a permettere che Sherlock si salvasse e che il loro rapporto potesse finalmente giungere ad una svolta... Ma sarà finita qui? (Non so se vi ricordate che la long fic è composta di dieci capitoli + un epilogo... quindi non è decisamente finita qui). Ma per adesso, spazio ai nostri piccoli protagonisti e alla loro relazione - o quasi...

Anyway, questa settimana - come promesso - pubblicheremo due volte: giovedì e domenica così come la settimana prossima, in modo che finiremo definitivamente questa long fic. *si asciugano una lacrimuccia*

Grazie mille a tutti voi che ci seguite, we love you all, e niente, appuntamento a Giovedì 27 - sperando che ci ricorderemo...

AH QUASI DIMENTICAVAMO. BUON NATALE A TUTTI! <3

*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 8
*** God, No. Jesus, No. ***


BEYOND 
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
God, No. Jesus, No.
 
Sherlock camminava lungo Baker Street con aria assente, le mani che stringevano la busta di carta che gli avevano rilasciato per evitare di perdere il contenuto. Erano le sette e mezzo e nei i ristoranti della via si vedevano già i tavolini occupati da avventori affamati, coppie ad un appuntamento romantico, famiglie riunite dopo un considerevole tempo. Non si riconosceva in quel pantano di quotidianità in cui i suoi piedi affondavano: erano passati quasi due mesi, eppure non si era ancora assuefatto a quella vita che gli sembrava così impropria a lui. Più di una notte si era svegliato madido di sudore con la sensazione di avere un cappio stretto attorno al collo e più di una notte aveva pensato di ricorrere alle droghe, o, addirittura, di trovarne davvero uno, di cappio con cui impiccarsi.
Ad un tratto, il cellulare in tasca iniziò a trillare insistentemente, ma non ebbe bisogno di tirarlo fuori per sapere chi fosse: in fondo, conosceva poche persone interessate a contattarlo – Mycroft, Victor e… John aveva provato a contattarlo ripetutamente in quelle ultime due ore, eppure lui non aveva mai risposto. Codardia? Forse. Era sempre più difficile gestire la loro instabile situazione. Percepiva la loro fine avvicinarsi sempre di più, e non perché ci fosse qualcosa di sbagliato nella loro relazione, ma perché lui era sbagliato, incapace di assaporare appieno quel rapporto.
La porta d’ingresso del 221B gli si palesò di fronte con rassicurante concretezza. Entrò in casa e si trascinò su per le scale: la signora Hudson, quella sera, era fuori per un torneo di bridge con chissà quale delle sue tante amiche settantenni. Si stupì, dunque, quando trovò le luci del proprio appartamento accese e un odore invitante provenire dalla cucina. Si affacciò sul vano da cui si levava quel penetrante aroma, e il cuore si strinse appena quando scorse la figura di John voltata, intenta a smanettare col forno.
“John?”
“Ehi! Finalmente! Cominciavo a perdere le speranze.” esclamò l’altro di rimando, rubandogli un bacio a fior di labbra prima di tornare ai fornelli.
“Che stai facendo?”
“Ti preparo una cena degna di questo nome. La signora Hudson mi ha detto che non mangi come si deve da giorni interi.”
“La solita pettegola.” borbottò lui sfilandosi sciarpa e cappotto, indumenti che si portava ancora dietro nonostante fosse, ormai, maggio inoltrato.
Entrando nel soggiorno, notò la tavola accuratamente apparecchiata, con una candela rossa nel mezzo la cui fiammella danzava sul cerino. Si prese alcuni momenti per ammirare l’appartamento riordinato e pulito, così diverso da quell’ammasso caotico che era diventato ultimamente a causa delle sue innumerabili ricerche. Era commovente lo sforzo di John – perché era ovvio fosse opera di John, visto che ormai la signora Hudson si era rassegnata a lasciare che il suo appartamento marcisse nel disordine più totale.
“A tavola.” lo richiamò la voce di John, che ora stava servendo nei piatti un qualcosa che aveva del ragù di carne con… qualcosa di bianco, ma che nonostante l’aspetto appena bruciacchiato, aveva un buon odore.
“Che cosa dovrebbe essere?” chiese accomodandosi al suo posto, mentre il biondo gli versava del vino nel bicchiere.
“Lasagna. Mi sono fatto dare la ricetta da Angelo.”
“Angelo ti ha sul serio passato una sua ricetta?”
“Credo di essergli sembrato piuttosto disperato.”
Sherlock ridacchiò e si avvicinò il calice di vino alle labbra, bagnandosi appena le labbra. “A cosa devo quest’inaspettata visita?”
“Inaspettata in senso buono, spero.”
“Dipende.” replicò con fare misterioso, suscitando un sorrisetto malizioso nell’altro.
“Volevo passare del tempo con te visto che ultimamente ci siamo a malapena sentiti per telefono… Oh, a questo proposito, posso sapere cos’hai fatto tutto il pomeriggio e perché non mi hai risposto?”
“Ti tradivo.” rispose semplicemente facendo schioccare le labbra per il sapore forte del vino. “E’ molto forte. Stai cercando di farmi ubriacare?”
“Dubito che il tuo amante si sia scomodato a farti assaporare un buon vino d’annata.” osservò John buttando giù qualche sorso a sua volta. “Comunque, ti sei divertito con quello?”
Sherlock assunse un’espressione dubitante. “Più o meno… Era un po’ rigido, però non è stato poi così male.”
Il resto del pasto lo consumarono chiacchierando tranquillamente dei risvolti della loro quotidianità, ma mentre esternamente Sherlock ostentasse compostezza e una certa dose di spensieratezza, dentro più guardava quel volto e mandava giù quei bocconi cucinati appositamente per lui, più si sentiva morire.
Alla fine della cena, John raccolse le stoviglie sporche e le depositò nel lavello, aprendo l’acqua calda affinché lo sporco non ingrassasse esageratamente la ceramica. Lui, intanto, si era diretto verso la finestra, le dita intrecciate dietro la schiena e gli occhi che scattavano nervosamente dal buio fuori al bianco della cartellina sul comodino basso accanto a lui. Quando lo scroscio dell’acqua e il tintinnio delle posate tacquero, seguirono diversi istanti di silenzio, finché una dolce melodia risuonò per tutta la casa, proveniente dal giradischi. Le braccia di John gli cinsero la vita da dietro e lo tirarono delicatamente verso di lui, chiudendolo in un abbraccio meravigliosamente rassicurante e protettivo, misto a quelle note celestiali cantate dal vecchio apparecchio della signora Hudson.
“Chopin, concerto per pianoforte numero 1 in Mi minore. Hai scelto a caso o c’è stato qualcosa che ti ha aiutato nella scelta?”
John ridacchiò, mentre gli baciava la pelle che la camicia blu mezza sbottonata gli lasciava scoperta, all’altezza della spalla. “Ho cercato su Internet musica classica romantica e questo è stato uno dei risultati. Visto che avevi il disco mi è sembrato perfetto.”
“Ti prego, dimmi che non sei serio. Dimmi che non hai fatto una ricerca così idiota.”
Le labbra del biondo gli stuzzicarono il collo latteo, concentrandosi su uno di quei nei che, col tempo, Sherlock aveva scoperto essere una sua ossessione. “Se te lo dicessi, mentirei e quindi dovresti trovare un modo per… punirmi.”
Sherlock ruotò appena il suo viso in direzione dell’altro, un nodo alla gola che di colpo gli aveva occluso la trachea. “John, senti…”
“Ti prego sta’ zitto e fammi ascoltare questa meraviglia.” lo zittì, però, l’ex soldato, prendendo a baciarlo con lasciva lentezza, mentre quelle carezze fatalmente seduttrici con le labbra venivano accompagnate da Chopin.
Sherlock ricambiò il bacio con altrettanta calma, sentendo, poi, la mano di John chiudersi attorno alla sua e trascinarlo con sé verso il divano su cui si ritrovarono sdraiati, uno sopra l’altro, persi nelle reciproche carezze e nei reciproci baci. Le dita del biondo si infilarono fra i suoi capelli, incoraggiandolo ad approfondire quel loro contatto, mentre si tendeva verso di lui col bacino, dichiarandogli il suo – già in precedenza chiaro – desiderio. Sorrise amaramente mentre, nella foga del momento, si lasciava spogliare della camicia blu che cadde a terra: quant’era difficile lasciarsi andare… Impossibile.
“Sherlock…” gemette improvvisamente John nella sua bocca. “Sherlock, ti prego…”
Si staccò appena, il giusto per guardare negli occhi dell’altro annebbiati d’eccitazione, le gote arrossate e i capelli sparati in tutte le direzioni. Dio, quant’era bello. “Cosa, John?”
“Scopami, cazzo.” ringhiò prima di prenderlo per il retro del collo e spingerlo nuovamente contro di sé, in un doloroso ed eccitante contatto tra i loro corpi.
John gli baciava ogni angolo di pelle mentre ripeteva come posseduto il suo nome. Lo sentiva risuonare ovunque: nelle sue orecchie, nel suo ventre, nelle sue labbra, assieme a quella preghiera che aveva sibilato la bocca dell’altro.
Sherlock… Sherlock… Scopami… Sherlock… Scopami cazzo…
Gli pareva di essere risprofondato nel materasso del Morningstar, addossato ai corpi dei suoi clienti. Sentiva le loro labbra dappertutto, i loro gemiti, i loro orgasmi… Spalancò gli occhi e si allontanò a fatica da un John accaldato e voglioso che gli aveva praticamente artigliato le spalle per tenerlo con sé. Crollò a sedere a terra, indietreggiando come se avesse di fronte un mostro invece che la persona che per lui significava di più al mondo. Come da copione, John si levò a sedere sul divano, un’espressione deformata dalla frustrazione e da una certa dose di rabbia.
“Posso sapere che cazzo ti prende?” gli sbraitò contro il biondo, i pugni serrati. “Sai quant’è che stiamo insieme, Sherlock? Due mesi! Due fottuti mesi! Due mesi che cerco di convincermi che va tutto bene, che hai solo bisogno di adattarti a questa vita… Ma io… non capisco, Sherlock, sei cambiato! Sei diventato scostante, a malapena mi scrivi un sms al giorno, quando ti invito ad uscire accampi sempre una scusa qualunque che so non essere vera. Quando ci vediamo, a stento ti fai baciare!” Ansimava dalla rabbia, John, e i suoi occhi riflettevano la profondità della sua confusione e della sua sconfinata frustrazione. “Se ti sei stancato di me, di noi, allora ti prego di dirmelo invece che continuare a tenermi a distanza, illudendomi che sia solo una cosa passeggera, che passerà, perché tanto ormai so che non passerà mai!”
Sherlock, gli occhi tristi fissi sull’altro, distolse lo sguardo, un sorriso mesto ad illuminargli il viso pallido. “Hai ragione: non passerà mai.” sospirò chiudendo le palpebre e serrando un pugno sul tappeto. “Non passerà mai, John…”
“Significa che è finita?” boccheggiò John che, nonostante tutto il suo monologo, di certo non si aspettava di aver ragione, o meglio, non sperava di aver ragione.
Sherlock vedeva quel discorso come la scappatoia che in quegli ultimi giorni aveva insistentemente cercato, sperando di potersi finalmente riappropriare della sua vita, una vita che da quando vi era entrato John era stata sconvolta radicalmente. “John… Chi vogliamo prendere in giro? Non può funzionare. Non mi sembra più neanche di vivere da quando me ne sono andato dal Morningstar, sono ancora incatenato in quel posto, con tutto ciò che avevo. E tu… tu non puoi darmi quello che cerco. E io non posso darti quello che cerchi tu.”
Un sorriso incredulo fiorì sul viso di John. “Stiamo davvero cercando due cose così diverse?”
“Sì, John. Io cerco libertà, mentre tu… tu cerchi stabilità. E non conosco nessuno di più instabile di me e…”
“Libertà?” fece l’altro sputando fuori una risatina sbalordita. “Libertà, sul serio? Quando quel bastardo ti teneva al guinzaglio come il suo cagnolino, costringendoti a prostituirti per arricchirsi, ti sentivi libero?”
Sherlock si prese qualche istante per rispondere, infine annuì con poderosa decisione, gesto che svuotò di ogni energia l’ex soldato, il quale crollò nuovamente disteso sul divano, gli occhi persi a scrutare il soffitto.
“Sono andato a ritirare oggi stesso un biglietto per l’Italia. Credo che staccare da tutto questo potrebbe farmi bene.” riprese, allora, per riempire quel silenzio in cui sentiva sarebbe annegato. “Starò fuori a tempo indeterminato… Potrebbe essere una settimana, così come un mese intero… chi lo sa. Andrò sulla costa nord del mar Tirreno e-”
“Perché me lo stai dicendo?” lo interruppe di colpo il biondo, uno sguardo rassegnato che gli tingeva amaramente l’espressione.
“Non ne ho idea.”
John arricciò le labbra e si levò in piedi, poi, come un tornado, sfrecciò in direzione dell’attaccapanni, buttandosi addosso la giacca. “Beh, allora, divertiti, Sherlock. Se hai piacere mandami pure una cartolina per farmi sapere che hai trovato la libertà.”
Fu in quel modo che la serata si concluse. Una voragine senza fine fagocitò l’intero 221B, ormai mezzo vuoto. Sherlock si trascinò in camera, gli occhi che vagavano senza meta, infine prese la sua valigia nera e cominciò a buttarci dentro le prime cose che gli capitavano in mano. Doveva smettere di pensare a John. Domani sarebbe partito per il suo viaggio e quasi l’idea di non tornare lo carezzava suadentemente.
Sherlock era da sempre stato uno che sapeva spassarsela, godersi la vita, soprattutto da quando aveva iniziato a lavorare per Moriarty. Da ora in avanti sarebbe stato lo stesso. Sarebbe scappato dalla realtà, sì, ma avrebbe morso il frutto della vita e ne avrebbe bevuto il succo dolce. Perché, in fondo, la vita era troppo breve per essere sprecata in rimpianti e paure.
 
Camminare. Aveva bisogno di camminare. Via. Lontano da tutto. Lontano da tutti. Lontano da se stesso. Incredibile quanto la vita possa essere puttana. Il primo da cui voleva andar via, era proprio se stesso, e invece eccolo lì, relegato nel suo corpo, perso nei suoi pensieri. Si sentiva così stupido… Non sapeva più niente. Non sapeva se incolpare se stesso per aver fatto allontanare Sherlock o se incolpare se stesso per essersi illuso di poter costruire qualcosa con un uomo che non avrebbe mai accettato di essere posseduto – non nel senso ossessivo del termine. E aveva voglia di urlare. Di urlare e strapparsi di dosso quella bestia che abitava nel suo petto e lo stava divorando membro per membro.
Una cabina telefonica, alla sua sinistra, iniziò a squillare. Un sorriso sprezzante affiorò sulle sue labbra, mentre tirava dritto, le mani ficcate in tasca. Se Mycroft sperava di catturare la sua attenzione per due volte di fila in quella maniera, si sbagliava di grosso. Ma ovviamente, se il Governo inglese in persona ha desiderio di parlarti, rifiutare è semplicemente impossibile.
Salì sulla macchina nera che lo pedinava, ormai, per tutte le strade di Londra, seguendolo con lentezza snervante persino per lui che fuggiva, e non osava pensare a quel povero bastardo d’autista. Una volta accomodato sul sedile posteriore, si volse, aspettandosi di trovare Anthea, come la prima volta, ma sorprendentemente incontrò lo sguardo di Holmes in persona.
“Vedo che la tua melodrammaticità non è cambiata, anche se dovresti inventarti qualcosa di nuovo, questo ormai è superato. Comunque, la risposta è no.”
“Non ho ancora aperto bocca.”
“Non ti scomodare: non ho intenzione di tornare a fare la marionetta al servizio di persone che mi detestano.”
“Alla fine la tua iniziale rovina della missione si è rivelata la salvezza, un po’ come con mio fratello…”
“Non ho voglia di parlare di tuo fratello, Mycroft.”
“E allora mi spiace, ma dovrai trovarla. Sono qui proprio per lui.”
John gli rivolse un’occhiata arrogante, senza mascherare la vena di disprezzo che provava verso lui e tutti gli altri del Governo e dell’MI6. “Vedo che hai tanto potere sulla Gran Bretagna quanta debolezza su tuo fratello. Comunque, la questione Sherlock non mi riguarda più. Abbiamo chiuso.”
“Sì, ho visto dalle telecamere.”
I suoi occhi s’ingigantirono improvvisamente per la sorpresa. “V-vuoi dire che... hai piazzato delle telecamere nel 221B?”
“Oh no, non solo nel 221B, anche a casa tua.”
“Si chiama violazione della privacy!”
“Se sei preoccupato riguardo il tipo di contatto che tu e mio fratello avete avuto in questi ultimi tempi, stai pur certo che non mi sono dilettato a guardarvi mentre… ve la spassavate.”
Sembrava tutto così lontano, ora. Solo un’ora prima era seduto a tavola con Sherlock, chiacchieravano allegramente e sorseggiavano del vino. Solo due ore prima se ne stava davanti ai fornelli, a fantasticare sui risvolti della serata. Solo novanta giorni prima se ne stava nella sua casa, a chiedersi se avrebbe mai trovato la persona giusta. Si era illuso che Sherlock fosse quella persona? Probabile. Fin da bambini, chiunque impara ad associare qualcosa ad un nome. Un cane, una casa, un fiore, mamma, papà… Eppure a quello che provava per Sherlock, un nome non riusciva a darlo. Forse neanche voleva darlo. Ci mancava solo che si mettesse in testa strane idee sui suoi sentimenti, ora che l’aveva perso.
“Ad ogni modo, John.” lo richiamò Mycroft, incrociando le dita in grembo. “Credo che dovresti tornare a Baker Street.”
“E per che cosa? Per farmi umiliare una seconda volta? Per farmi dire che non posso dargli quello che cerca? No, grazie.”
“Ascoltami” lo incalzò, però, l’altro, con voce pacata e quasi fraterna. “Ascoltami, John, perché le cose sono molto più complicate di così.”
“Quando si parla di Sherlock è tutto più complicato.”
“Sei arrabbiato e lo capisco, chiunque reagirebbe come reagiresti tu, però-”
“Io non sono arrabbiato, Mycroft, sono ferito. Preferirei essere arrabbiato, ma non ci riesco. Tutto quello a cui sono in grado di pensare è a come abbia potuto lasciare che scivolasse via dalle mie braccia. Non so più chi sia il vero Sherlock. Una volta mi corteggiava spudoratamente, ci mancava che si mettesse in ginocchio a supplicarmi, ricercava costantemente la mia compagnia, mi provocava, mi sfidava… Era bello. Ora, invece, è distante e freddo, a tratti persino triste, e se sono io quello a renderlo così, allora forse è meglio che faccia questo viaggio e se la spassi come e con chi preferisce.”
Mycroft taceva, i suoi occhi penetranti erano persi sulla strada che sfilava accanto alla loro macchina accostata. John s’interrogò su quali pensieri frullassero in quella mente contorta che apparteneva al maggiore degli Holmes – e da un lato anche al minore – ma non riuscì ad afferrarne nemmeno uno.
“Ho sempre avuto un vanto.” esordì, dopo diversi istanti di silenzio, Mycroft. “E cioè quello di conoscere e leggere mio fratello meglio di quanto io riesca a conoscere e leggere me stesso. Quindi credimi quando ti dico che ci sono ragioni più ampie sul vostro allontanamento e sul fatto che lui tenga a te più di ogni altra cosa.”
John ridacchiò sdegnosamente, scuotendo la testa. “Sì, certo, è facile parlare se non si è stati appena scaricati proprio da lui.”
“Alla fine, John, dopo tanti sproloqui su come ti saresti impegnato a proteggerlo, le circostanze hanno voluto che fosse lui a proteggere te.”
Inarcò un sopracciglio, dubbioso. “Proteggermi? Proteggermi da cosa? Da se stesso? Dal suo passato? Non gli ho dimostrato sufficientemente di essere disposto a combattere contro tutto e tutti per lui – anche contro i suoi fantasmi passati e i suoi demoni presenti?”
“Dall’atterraggio.” sospirò Mycroft con tono rassegnato.
“Dall’atterraggio?”
“John… Non condivido le azioni di mio fratello, ma non posso che rispettarle. Tu hai però il diritto di sapere la verità e di scegliere di conseguenza.”
“Scegliere? Ma… Mycroft, non sto capendo! Mi sta proteggendo dall’atterraggio, è mio diritto scegliere… Che cosa significa?”
“Parlargli. Stavolta, sul serio. Fatti dire tutta la verità. E poi starà a te.” Detto questo, si volse in direzione dell’autista, rimasto in silenzio per tutto il tempo. “Baker Street.”
 
Quant’era trascorso? Un’ora? Due? Pochi minuti? Si era gettato sulla valigia subito dopo averla chiusa, spogliato di ogni intenzione. Avrebbe giaciuto lì fino a che il sole non lo avesse incoraggiato ad alzarsi e a raccogliere quello che era rimasto di lui per quella fuga disperata. Per un attimo, si domandò se fosse la scelta giusta, e sì, si rispose. Voleva vivere davvero. Voleva visitare quel suggestivo paese che aveva più volte progettato di esplorare, sin dalle sue avventure da pirata con Victor.
Victor. Chissà come se la passava. Si erano visti un paio di volte dal tramonto del Morningstar. Solo qualche giorno prima gli era arrivato l’invito al matrimonio per l’inizio di Giugno. L’aveva fatto a pezzettini e gettato nelle fiamme del camino ed era rimasto a lungo a guardare quelle lingue di fuoco crepitare, banchettando con la felicità di un’altra persona. Si era sentito meglio. Per un attimo, i brutti pensieri erano passati e il peso al cuore si era alleggerito. Era meschino? Lo era eccome: disprezzava la serenità, la gioia di una persona a lui cara, di un amico, di un compagno, di un fratello. Eppure, ogni volta che lo sentiva blaterare di quanto felice la sua futura moglie lo rendesse e di tutti i progetti che avevano nel cassetto, mentre fuori stirava le labbra in un falso sorriso, dentro si chiedeva cosa ci fosse di così diverso tra loro. Perché a Victor tutto quello era concesso e a lui no? Perché non poteva trovare anche lui la gioia? Perché quel vuoto doveva corroderlo, divorarlo?
“Aspettiamo un figlio.” gli aveva detto durante il loro ultimo incontro, prendendogli le mani di fronte a due tazze di the fumanti, gli occhi che gli brillavano. “Aspettiamo un bambino, Sherlock.” E quell’ultima notizia aveva segnato la fine delle loro uscite assieme, come se fosse stato un comune accordo.
Ad un tratto, un trillo nel buio. Il campanello. La signora Hudson non era ancora tornata? Non ci aveva fatto caso. Ma poteva essersi scordata le chiavi di casa? Lei, così pignola e perfezionista? Si tirò su come un vecchio e come un vecchio arrancò verso il citofono.
“Signora Hudson.”
“Non proprio.”
Il respiro gli morì in gola e, per svariati secondi, non si azzardò ad inspirare, timoroso che il suo corpo potesse tradire il minimo coinvolgimento.
“Posso salire?” chiese dopo un po’ la voce di John.
Si limitò ad aprirgli la porta d’ingresso e ad accomodarsi con posa altera sulla propria poltrona. L’incrollabilità e la credibilità della facciata avrebbero deciso le sorti della sua intera esistenza. Sarebbe bastato il minimo dubbio, in John, per rovinare ogni cosa. Avrebbe dovuto mantenere il controllo delle sue azioni e, soprattutto, delle sue emozioni. Si sarebbe rifugiato dietro quella barriera di ghiaccio che aveva spesso eretto negli ultimi tempi e sarebbe andato tutto bene. Doveva resistere fino al giorno dopo e poi tutto quello sarebbe stato solo un…
“Ti faccio le mie congratulazioni per la tua commediola. Adesso, se non ti spiace, raccontami la verità.” esordì John irrompendo rapidamente nell’appartamento e lasciandolo completamente senza parole. E adesso? si chiese col cuore che sembrava volergli fuggire dal petto e rintanarsi come un coniglio da qualche parte, lontano da lì.
“L’ho fatto.” rispose seccamente, tentando di mantenere i nervi saldi.
“Cazzate.” ribatté sveltamente il biondo, la fronte corrugata. “Senti, non fraintendermi, sono qui soltanto per una mera questione di orgoglio. Detesto quando le persone mi mentono-”
“Parli proprio tu…”
“Sì, ho sbagliato, ma alla fine la verità è venuta a galla e sono stato io a farla emergere. O sbaglio?”
Sherlock cercava di controllare il fremito che gli scuoteva le viscere, ma sembrava tutto così difficile ora. Era vulnerabile: non dormiva da giorni, a stento mangiava, dopo che John se n’era andato aveva vuotato la bottiglia di vino, e tutte le sue più grandi paure erano lì, impersonate dall’uomo che si ostinava a voler tenere a distanza nonostante avesse bisogno di averlo vicino. In quale patetica telenovela era appena finito?
“Sherlock.” lo chiamò l’altro, con voce soffice ed improvvisamente pacifica. “Sherlock, ti prego, parlami. Sono qui per te.”
“Non ho bisogno di te.”
“E allora scacciami. Guardami negli occhi e dimmi quello che mi hai detto prima, poi accompagnami di sotto e chiudimi la porta in faccia. Solo allora ti crederò.”
La sua convinzione vacillò e, probabilmente, John doveva essersene reso conto, perché si era immediatamente fatto vicino e ora stava lì, in ginocchio, le mani strette alle sue ginocchia, e lo guardava, lo trapassava con quella stupida deferenza e fiducia che provava nei suoi confronti.
“Dimmi la verità, Sherlock. Non sarai mai libero come tanto desideri, se non ti sarai tolto questa zavorra.” gli sussurrò il biondo facendo risalire le mani sulle cosce, finché non incontrò le sue dita allacciate insieme. E lui lasciò che quelle mani che tanto adorava stringessero le sue, illudendosi, per un effimero frangente, che andasse tutto bene. “Te l’ho promesso, Sherlock. Ti ho promesso che ti avrei protetto e lo farò anche adesso.”
Fu allora che Sherlock cedette. Che dopo mesi di silenzio e dolore sopportato in solitudine, si lasciò andare. Fu allora che i suoi occhi s’inumidirono di lacrime calde e che le sue mani si aggrapparono a quelle di John con disperata rassegnazione, mentre un sorriso sconfitto gli si dipingeva in volto. “Moriarty aveva ragione. Ha sempre avuto ragione: non puoi proteggermi da tutto. Però posso essere io a proteggere te. John, permettimi di proteggerti. Siamo ancora in tempo, basta che prendi quella porta e te ne torni alla tua vita, senza di me. Basta pochissimo, John, ti prego-” Un bacio a fior di labbra lo ammutolì, mentre le mani di John gli accarezzavano il volto, dolcemente. Quando si scostarono appena l’uno dall’altro, Sherlock si strinse a John come un bambino indifeso, scivolando a terra e rannicchiandosi fra le sue braccia, le lacrime che gli inumidirono la camicia. “John… John… Sto male.”
John gli accarezzava i capelli, depositando fra i ricci ribelli lunghi baci. “Adesso ci sono io qui con te.”
“No… Non capisci. Io sto male. Sono malato.”
A quelle parole, il corpo di John s’irrigidì, riducendosi quasi ad una statua di pietra, finché non gli prese il viso, costringendolo a guardarlo negli occhi. “Malato?”
Sherlock, in quello sguardo, vi trovò una folle paura che ebbe l’effetto di spezzarlo in due. Ecco ciò che temeva. Non avrebbe mai voluto vedere John in quelle condizioni. Annuì, socchiudendo gli occhi, sfuggendo per pochi attimi dalla verità scritta sul volto dell’altra. “AIDS.”
Accadde tutto in un attimo. John scattò in piedi, privandolo del suo calore. Scuoteva la testa come un ossesso, le palpebre che venivano sbattute irregolarmente, un sorriso irrealmente rigido di stupore sulle labbra. “No… No, no, no, no…” prese a farfugliare vagando per la stanza come un pazzo.
“John…”
“Non è possibile, c’è un errore…”
“John.”
“Mi stai raccontato una cazzata, vero? E’ una sporca menzogna, non è così? Uno dei tuoi giochetti? E’ uno scherzo… solo uno scherzo… Ma certo, tu e tuo fratello vi siete messi d’accordo per piegarmi alla vostra volontà. Ha senso, ha maledettamente senso-”
“JOHN!” sbottò infine, trattenendo un singhiozzo a quella visione, e solo allora John arrestò il suo frenetico su e giù, immobilizzandosi in mezzo alla stanza, gli occhi fissi su di lui.
Lentamente, la denegazione rotolò via dal volto di quello, granello dopo granello, sostituito prima da un dubbio oscuro, infine da una lancinante consapevolezza. Aprì la bocca più volte, ma le labbra tremavano a tal punto che alcun suono ne uscì. Sherlock rimase impotente ad osservarlo spezzarsi e crollare in ginocchio con le mani che arpionavano i corti capelli biondo cenere.
“Dio, no… Gesù, no…” biasciò l’ex militare mentre rovesciava la testa all’indietro, le palpebre serrate e l’intero viso contorto in una smorfia di dolore puro.
Sherlock strisciò fino ad arrivargli vicino e, con cautela, gli sfiorò una guancia con la mano, timoroso di una sua reazione. A quel contatto, John si limitò a riaprire gli occhi, un velo di sconfitta li avvolgeva, catturando la loro solita luminosità. Si guardarono in silenzio, schiacciati dal peso di quella rivelazione.
“Da quanto lo sai?”
“Dal giorno in cui mi hai trovato in bagno completamente ricoperto dalle percosse di Moriarty. Gli avevo appena comunicato i risultati delle analisi del sangue. E… beh, inizialmente non è stato troppo contento di essere stato infettato. Poi ha trovato la cosa divertente, ha detto che eravamo uniti da un unico destino e che era il segno che eravamo fatti l’uno per l’altro.”
John prese un respiro profondo. “E non mi hai mai detto niente.” Non era una domanda, ma l’affermazione sottomessa di un uomo distrutto.
“Non volevo arrivare a… questo. Sarebbe stato inutile.”
Inutile? Quello che provo io sarebbe inutile?”
“John, sto per morire, Cristo! Non basto io per soffrire? Perché coinvolgere anche te!?”
“Dio, Sherlock… Non puoi decidere per gli altri, lo capisci? Hai già fatto i bagagli per partire per l’Italia con l’intento di lasciarmi qui senza di te.”
“Meglio che ci lasciamo qui piuttosto che in una camera d’ospedale, no?”
John gli ghermì le spalle, uno sguardo carico di rabbia e agonia puntato su di lui. “Io non ti abbandonerò.”
Sherlock sgranò appena gli occhi e tacque, mentre le lacrime gli ferivano le guance. Tutto si sarebbe aspettato, meno che quello. Sì, esatto, lui che prima aveva conosciuto Andy Rose e poi John Watson, tutto si sarebbe aspettato meno che volesse rimanergli accanto nonostante tutto quello. In realtà, prima di allora non si era neanche posto il problema: era convinto che lo avrebbe protetto da quel segreto, ma mentre la verità intrideva le sue parole, aveva già programmato come meglio salutarsi senza soffrire troppo. Come se fosse possibile. “John… No, non voglio che-”
“Che condivida con te questo peso?”
“Che mi veda morire.”
John scoppiò a ridere in modo quasi isterico. “Sei davvero un coglione, Sherlock Holmes. Ti seguirei anche all’Inferno.”
“John, questo non è l’Inferno… è peggio.”
Le labbra dell’altro lo baciarono con trapassante dolcezza e gli comunicarono tutto ciò che a parole non sarebbe risultato pienamente chiaro. Capì grazie a quel bacio, Sherlock Holmes. Riaprì gli occhi, osservando tristemente quell’uomo che avrebbe ridotto a pezzi e che lo avrebbe ridotto a pezzi. Si sarebbero fatti del male a vicenda in quel modo, ne era consapevole. Avrebbe vissuto ogni suo ultimo giorno accanto all’uomo che l’aveva salvato e gli aveva dato uno scopo per vivere anche se la vita non era più una questione per lui trattabile. Da quanto gli aveva riferito Mycroft, aveva condannato a morte dieci persone, una delle quali aveva condannato a morte lui. Fortunatamente, i suoi clienti erano ristretti e non avevano mai prediletto un altro amante a lui, perciò almeno i dipendenti del Morningstar, i suoi compagni d’avventure, erano salvi. E se solo John avesse accettato ai suoi primi corteggiamenti… sarebbe stato il suo carnefice.
“John… Sarà un inutile farsi del male a vicenda.” provò ancora, due nuove lacrime che gli rotolavano giù dagli occhi. “Voglio che tu sia felice.”
“E non potrei mai esserlo lontano da te.”
Si passò la manica della vestaglia sugli occhi arrossati, un respiro tremante che gli uscì dalle labbra. “Beh, temo che dovrai presto farci l’abitudine.”
Fu con una pesantezza disarmante che quelle parole raggiunsero John e l’effetto fu semplicemente devastante. Lo tirò a sé, stringendolo con forza, affondando il volto nella sua spalla, forse pianse in silenzio e quello fu solo un espediente per non farsi vedere da lui… ma Sherlock rispose a quel contatto, circondando il corpo dell’altro con le sue fragili braccia, cercando di contenere entrambi i loro dolori. John era con lui… John sarebbe stato con lui… John sarebbe rimasto…
“Moriarty aveva davvero ragione…” sussurrò con voce arrochita dalla sofferenza l’altro, strusciandosi contro di lui. “Su ogni cosa… Un giorno mi sveglierò senza di te perché non sono stato abbastanza forte per proteggerti…”
“Non avresti potuto proteggermi comunque…”
“Avrei potuto… Avrei dovuto, cazzo…”
Sherlock gli baciò il collo e aspirò appieno il suo odore. Gli sarebbe mancato così tanto quell’odore, dovunque fosse destinato ad andare. Sospirò sulla sua pelle, frenò una nuova sequenza di lacrime mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. “Voglio vivere, John.” sussurrò alla fine. “Voglio vivere tutti gli anni che non potrò vivere. E se è quello che vuoi… allora sarò felice di viverli con te.”
John annuì ripetutamente baciandogli il viso, fino ad arrivare alla bocca, ma Sherlock si scostò di scatto, pulendosi la piccola ferita da cui era sgorgato un minimo rivolo di sangue. Gli occhi del biondo si colmarono di tristezza. “Giusto…” sospirò poggiando la fronte contro la sua.
“Incredibile come basti una goccia di sangue per distruggerti la vita…”
“Vivrai a lungo.” mormorò John, arricciando le labbra. “Ci sono terapie che consentono di aumentare la speranza di vita fino a… trent’anni.”
“Che vita sarebbe? Vivrei nel terrore di avvelenare chiunque mi stia intorno.”
“Con le ultime terapie si è in grado di abbassare notevolmente la probabilità per un sieropositivo di trasmettere l’HIV-”
“Sai bene che la probabilità non ha valore quando si tratta della vita. Persino l’1% non può essere ignorato.”
John sospirò e gli baciò i capelli. “Non hai intenzione di curarti, vero?”
Sherlock non rispose e si lasciò avvolgere dalle braccia calde dell’altro. “Parti con me.”
“Tutto quello che vuoi.”
Chiuse gli occhi, lasciando che i suoi occhi ardenti, finalmente, si acquietassero. Soffocò un colpo di tosse, il torace che gli doleva insistentemente – piccoli fastidi a cui ormai era avvezzo. Sorrise tristemente.
Ci sono terapie che consentono di aumentare la speranza di vita… Non hai intenzione di curarti, vero?...
Troppo tardi.

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SPAZIO AUTRICI
Shit, raga. E' venuto fuori un mago', questo capitolo. Ebbene, il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Ora, ragazzi, arriva la parte difficile, purtroppo. Sherlock è malato e John è a pezzi. Ora, devono cercare di risollevarsi e andare avanti finché possono. Il prossimo capitolo sarà incentrato su loro due e sul loro modo di approcciarsi alla situazione in cui sono immersi. Siamo consapevoli che queste tematiche sono forti e potrebbero intristire molti, però chi vorrà farsi forza e continuare a leggere ci renderà immensamente felici. Chi invece deciderà di preservare la propria sfera emotiva intatta, allora avrà tutto il diritto di smettere.

Con questa punta di malinconia, vi auguriamo comunque BUONE VACANZE! Dai, è pur sempre Natale. Per rimediare pubblicheremo le due ff scritte per i context dei vari gruppi Fb as soon as possible. Vi aspettiamo, speriamo numerosi, Domenica prossima con il nono - in teoria - capitolo. Buon proseguimento a tutti, sciauu!!

*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 9
*** Free Me ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
Free Me
 
John contemplava rapito le onde spumose infrangersi contro gli scogli, affacciato sul terrazzo della loro camera d’hotel. Una brezza gentile gli solleticava i capelli, mentre i raggi del sole gli accarezzavano tiepidi il viso. L’Italia era un po’ come se l’aspettava, in fondo. Sull’aereo per Genova si erano ritrovati seduti accanto a una coppia di italiani che, con il loro inglese stentato, li avevano allietati – o tediati, come diceva Sherlock – con le loro chiacchiere e le loro risate grasse. Avevano di certo rallegrato l’atmosfera pesante che gravava su di loro.
“Voi inglesi, con la vostra solita moralità” aveva detto la donna “pensate sempre che la vita vi sia ostile. Guardate Shakespeare, che fine che ha fatto fare a quei due poveri ragazzi!”
Giulietta e Romeo. Personaggi iconici del sapere comune. Chi è che non conosceva gli sfortunati amanti? Eppure, su Giulietta e Romeo era stata creata un’intera cultura, con film, riadattamenti teatrali, musical… Per due ragazzini che, probabilmente, arrivati a trent’anni avrebbero divorziato se fosse stato possibile. E tutte le persone vere che lottavano strenuamente per la loro felicità e il loro amore? Di quelle nessuno aveva notizia. C’erano i serial killer, i terroristi, le catastrofi naturali come protagonisti del tempo.
“Non potrebbe semplicemente essere che, in alcuni – forse molti, anche tutti – casi la vita sia ostile?” aveva ribattuto acidamente Sherlock, mettendo a tacere una volta per tutte la donna.
La vita era ostile. Almeno per loro. Non capiva per quale scherzo della natura fosse toccato proprio a loro. Perché loro? Ma perché chiunque altro? Perché l’essere umano era destinato a soffrire per forza? I predicatori annunciavano il regno dei cieli, dell’eternità, quando la terra che i loro piedi calcavano andava a puttane e centinaia di vite marciavano verso il macello. Sarebbe stato meglio non nascere per niente.
“Non ti cambi?”
La voce di Sherlock lo fece voltare. Neanche l’aveva sentito arrivare. Era andato chissà dove a fare chissà cosa lasciandolo lì completamente in balia del velo di tristezza che ormai dalla rivelazione dell’altro portava in sé, nonostante stesse cercando di non darglielo a vedere. Voleva che Sherlock fosse felice. Voleva che fosse felice con lui. E pareva avergli fatto bene il cambio d’aria: in aeroporto a Genova si era da subito mostrato spensierato e adorabilmente irritante con le sue frecciatine saccenti che Dio solo sapeva quanto gli erano mancate. Sembrava essere tornato lo Sherlock che aveva conosciuto, quel prostituto sicuro di sé, arrogante e maledettamente sexy che gli aveva fatto vomitare la sbornia nel cesso del locale. Ed era dannatamente bello sentirlo ridere nuovamente davvero, incrociare i suoi occhi limpidi, baciargli le labbra per zittire un suo commentino acido. Lontano da lui, però, ecco che tutto prendeva consistenza. Ecco che la malattia, la sofferenza, la mancanza, la verità bussavano alla sua porta, porgendogli il conto come degli strozzini. Peccato che non avessero alcun debito da saldare. Sherlock aveva commesso degli errori, d’accordo, ma perché proprio lui? Perché non quell’arpia di Mary? Perché non quel bulldog di Moran? Perché il suo Sherlock? Il suo dolce, innocente Sherlock…
“Perché? Andiamo da qualche parte?” gli chiese sinceramente stupito – aveva creduto che quella sera se la sarebbero presa con comoda dopo il viaggio e… beh, il resto.
Sherlock sospirò e, avvicinatosi all’ampio letto matrimoniale, afferrò uno dei cuscini quadrati lì adagiati per mera bellezza, lanciandoglielo addosso, in piena faccia. “Dio santo, John, hai intenzione di muovere il culo o pensi di rimanere lì imbambolato a farmi il terzo grado per tutta la notte?”
“Mi hai appena lanciato un cuscino?”
“Sì e devo ammettere che ho davvero una fantastica mira. Tutto grazie alla prima legge di-”
Ma distratto com’era nel suo sproloquio, Sherlock non vide arrivare il guanciale che John gli aveva appena tirato addosso, né tantomeno si accorse di essere stato assalito sempre da lui con uno dei cuscinoni. “John! Ma che diavolo!” sbottò il moro cercando di difendersi a braccia nude dai suoi attacchi. “John! Metti giù il cuscino!”
Ma lui era completamente perso nel suo divertimento sfrenato, dimentico di ogni altra cosa. Gli sembrava di morire di felicità per quel suo stupido comportamento infantile, ma in fondo, era sempre stato pazzo e avrebbe continuato ad esserlo al fianco di Sherlock Holmes.
“JOHN!” continuava ad urlare l’altro, ma lui sapeva perfettamente che la sua era una semplice facciata e che presto… “E va bene, l’hai voluto tu!” esclamò infine il moro, scattando in direzione del letto e lanciandocisi sopra, le mani che afferrarono il secondo cuscinone, ma non fu abbastanza rapido da rialzarsi, perché lui gli era già sopra, ridendo come un ragazzino e scatenando la risata di Sherlock. Si sentiva incredibilmente forte, in quel momento, a dominare nientemeno che Sherlock Holmes.
“Chi è che era il grande Sherlock Holmes? Quello che ha posseduto molti ma che non si è fatto possedere da nessuno?”
Sul viso di Sherlock, un accenno di malizioso divertimento. Accadde in un attimo: vide il moro scivolargli sotto le gambe e, senza che neanche potesse rendersene conto, si ritrovò disteso sul materasso, i pugni bloccati dalle mani di uno Sherlock col fiato corto e appena un poco di catarro.
“Io.” sibilò vittorioso l’altro. “Nessuno, a letto, può sconfiggere lo straordinario Angelo caduto.”
Anche John aveva il fiato corto e i suoi occhi studiavano il bel viso rinato del suo compagno. Era incredibile come si potesse essere felici nonostante tutto… Il pensiero gli attraversò la mente con crudeltà, cogliendolo impreparato. Per un attimo, aveva quasi pensato di concludere così la serata, a rotolarsi nel letto, i loro corpi intrecciati assieme, ma quel lampo improvviso che aveva squarciato la cappa di placida serenità che aveva ottenebrato ogni altra riflessione, lo riportò alla cruda realtà.
Sherlock si chinò su di lui, catturandogli le labbra appena serrate dalla preoccupazione con le sue. John non sapeva se avesse capito tutto e stesse cercando di illuderlo, di illudere entrambi, o se semplicemente, trascinato dall’euforia, avesse provato il desiderio di baciarlo. E il bello era che… che a John non interessava se avesse contratto a sua volta l’AIDS. Desiderava Sherlock, lo desiderava ardentemente, e voleva dargli la stabilità che meritava.
Quando si staccarono, si persero per alcuni istanti nei reciproci sguardi, un accenno di sorriso a fior di labbra. “Se non andiamo ora, dubito che avresti modo di rialzarti tanto presto.” gli comunicò Sherlock, scoccandogli un altro rapido bacio, stavolta a stampo, alludendo quasi ad un possibile rapporto carnale completo, quando aveva messo in chiaro che non avrebbe mai osato neanche pensarci. Ma era il gioco di Sherlock, ormai, quello. La sua personale recita. Il suo palcoscenico. Stava recitando la parte del trentaduenne libero da ogni sorta di inibizione, dedito solo alla leggerezza e al divertimento. E John era l’attore inesperto che si lasciava trascinare da quell’improvvisazione a cui non riusciva a stare dietro, al cospetto di un pubblico che, a volte, si chiedeva addirittura quale fosse la sua utilità accanto ad un uomo magnifico come quello che lo stava intrappolando tra il suo corpo e il materasso del comodo letto della suite dell’albergo.
“Sarebbe davvero sconveniente per le cameriere che poi dovrebbero pulire.” rispose infatti con un ghigno. Forse era stupido ignorare la realtà, fingere solo per logorarsi la notte, rigirandosi nel letto, le lacrime agli occhi, ma se era ciò di cui Sherlock aveva bisogno, allora lui l’avrebbe assecondato.
Sherlock, infatti, ridacchiò, compiaciuto, e si chinò nuovamente su di lui, baciandolo una, due, dieci volte per tutto il viso, infine si scansò completamente, uscendo dalla stanza e intimandogli di muoversi a cambiarsi.
Dopo un paio di minuti, John scese nella reception dove Sherlock, affiancato da un uomo moro, dalla barba castana deturpata da alcuni ciuffi argentei e l’aria di uno che la sa lunga, lo stava attendendo.
“Beh? Che si fa?”
“Gita in barca.”
“Gita in barca!? Alle dieci di sera?!” fece ancora, ingigantendo gli occhi. “Ma…”
“Dio, non penserai che sia pericoloso!”
“Pericoloso no, però sarebbe più prudente rimandare a domattina, no?”
Ma lo sguardo di Sherlock non ammetteva repliche, e così, fu costretto alla resa. Si avviarono al molo dove era attraccata qualche piccola barca di privati o di pescatori amatoriali, guidati dalla figura austera dell’uomo che aveva trovato a fianco del compagno. Salirono sulla barca con la scritta The Devil Within dipinta sulla fiancata bianca in caratteri neri. Rabbrividì istintivamente nel leggere quel nome così assurdo per un’imbarcazione, ma tacque ogni sua perplessità e prese posto a prua, appoggiato al parapetto che abbracciava rassicurante tutto il natante, seguendo le istruzioni di Sherlock che si assentò momentaneamente per conferire col capitano.
I suoi occhi si persero nell’immensità del cielo e delle stelle. Per un attimo, gli sembrò d’essere tornato bambino, e si ritrovò di fronte alla tomba del nonno, gli occhi gonfi di lacrime e le braccia di sua madre a circondargli il corpicino singhiozzante.
“Va tutto bene, John.” gli diceva la sua voce calda e rassicurante. “Il nonno adesso sta bene. E’ volato via, in un posto migliore.”
“Dove, mamma?”
“In cielo.”
“E perché non può venire da me?”
“Perché è tanto, tanto lontano e il nonno farebbe troppa fatica per venire. Però noi possiamo vederlo lo stesso. Stanotte, guarda il cielo e scoprirai che s’è accesa una nuova stella. Quella stella è il nonno, John. E ci guarderà sempre.”
“Anche quando te ne andrai tu ti vedrò come una stella?”
“Sì, John. Tutte le stelle che vedi sono le persone che non ci sono più ma che ci osservano sempre, perché ci vogliono bene.”
“E ogni volta che se ne va una persona nasce una stella?”
“Esatto, John.”
La medesima notte, si era affacciato alla finestra della sua piccola camera e aveva alzato gli occhi verso il firmamento scuro. C’erano poche stelle in quel cielo e – siccome gli piaceva quando la mamma gli parlava spesso d’astronomia – sapeva che era a causa dell’intensità delle luci cittadine. Si era chiesto se la stella del nonno si sarebbe presentata, ma soprattutto, si era chiesto come avrebbe fatto a riconoscerla. Con i suoi occhietti curiosi aveva cercato ed eccola lassù, baluginante, ma chiara: una piccola stella che sembrava sorridergli, proprio di fronte alla sua cameretta. Ed era lui, era certo che fosse lui.
“Non pensi che sia un po’ prematuro cercarmi lassù mentre sono ancora quaggiù?”
La voce di Sherlock lo fece sussultare, ma il suo iniziale stupore venne sostituito da una sensazione di vuoto scatenata da quelle parole. Come faceva, Sherlock, a parlare così della sua stessa vita? Come faceva a parlare così della loro vita? Non era abbastanza fingere di aver interiorizzato quella bomba e di aver anche accettato di buon regola la scelta di Sherlock? Si volse lentamente, la fronte aggrottata, le sopracciglia vicine. Non sapeva che espressione gli dipingesse il viso, ma dall’ombra che s’impossessò di quello dell’altro, capì che doveva essere il riflesso di ciò che sentiva dentro, senza maschere né finzioni.
“Oh.” fece semplicemente il moro avvicinandoglisi. “John… Perdonami, sono un cretino…”
John gli prese le mani e si fece cingere la vita, appoggiandogli la nuca sulla spalla, gli occhi fissi in cielo. “Conosci la stella Nihara?*”
“No.”
“La vedi quella lì? Quella stella piccolissima vicino alla stella Dubhe?”
“Non ho idea di quale sia la stella Dubhe.”
“Dio, Sherlock, ma hai fatto astronomia? La costellazione dell’Orsa Maggiore.”
“Se l’ho fatta, l’avrò rimossa per la sua inutilità.”
John sospirò, celando un mezzo sorriso, e col dito cercò di indicare il più precisamente possibile la stella che aveva nominato, puntando il dito verso l’astro più a nord della costellazione.
“Oh, sì, quella. E tu dici quella piccoletta là di fianco?”
Annuì e strinse appena di più la presa sulle mani dell’altro. “Quand’ero piccolo, mia madre per non affrontare il discorso morte e quindi Paradiso, mi raccontava di come ognuno, ad un certo punto, se ne va da questa vita e diventa una stella. Quando mio nonno è morto, mi ha detto di cercare la sua stella in cielo e io mi sono praticamente fissato con quella piccoletta – come l’hai chiamata tu –
Da ragazzo, ovviamente, ho preso coscienza che erano solo delle piccole bugie dette per non traumatizzare un bambino. Però… però, poi, ogni volta che guardavo il cielo, guardavo sempre quella stella. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che si chiama Nihara.” Tacque per qualche istante, gli occhi allacciati a quell’astro che da tanto tempo soleva osservare, ricordando suo nonno. “Ora in quella stella vi sono tutti coloro che ho perso: mio nonno, mia nonna, i miei genitori, il mio carlino…”
Sorrisero entrambi a quell’ultimo nome, ma poi ritornarono quieti e forse, un poco pesanti nell’essere consapevoli di quel discorso che entrambi per quelle poche ore avevano cercato di evitare.
“Anche io diventerò una stella?”
Dovette trattenersi con tutto se stesso per non lasciarsi andare allo sconforto e alla tristezza. “Se sarai una stella, Sherlock?” gli chiese con un sopracciglio inarcato, voltandosi appena verso di lui, gli occhi velati. “Tu sarai la mia stella, Sherlock. La più luminosa tra tutte e avrai… una stella tutta per te. La stella polare.”
“Addirittura?”
“Sì, così ogni volta che alzerò gli occhi, sarà come averti accanto a me.” La voce gli si incrinò appena e dovette prendere un profondo respiro per non scoppiare davanti a lui. “Sarai il mio nord. Il mio punto fermo… Dio, come suona stucchevole.”
Sherlock ridacchiò, mentre gli baciava teneramente i capelli. “Non merito di avere una stella tutta per me, né di essere proprio la stella polare.”
Si volse quel tanto che gli bastava per incrociare il suo sguardo con quello dell’altro, i nasi che si sfioravano. “Tu ti meriti tutto.” Di nuovo, le sue parole sfumarono, sfiorando il singhiozzo. “Ti meritavi di più.” sussurrò infine, prima di baciarlo con trasporto, due lacrime che minacciavano di uscirgli nel momento in cui serrò gli occhi per assaporare quella bocca che adorava. Sherlock lo sollevò appena da terra, baciandolo con maggiore enfasi, intrecciando le loro mani insieme.
Quando si staccarono, rimasero abbracciati per attimi interminabili, mentre una consapevolezza amara e dolorosa si faceva spazio in lui, deteriorando quel briciolo di autocontrollo che gli era rimasto. Rafforzò la stretta fino a renderla quasi soffocante, timoroso che Sherlock potesse vedere le lacrime che gli stavano rigando le gote. D’improvviso, un botto alle sue spalle lo fece sussultare e voltare. Nel cielo scuro, una trapunta colorata di fuochi d’artificio. Lo spettacolo lo fece rabbrividire di piacere: quei pigmenti, quelle luci, quegli scrosci… Era tutto talmente bello. Infine, tra botti festosi che s’alternavano in cielo con arroganza, quasi, e competizione, svettarono delle luci nitide e stupefacenti. Formavano una parola: John.
Gli occhi di Sherlock erano divertiti nel vederlo muovere il capo da lui al nome in cielo. Ridacchiò appena, prima di prendergli le mani e baciargliele, gli occhi chiusi, le labbra che sembravano sugellare quasi una promessa.
“E’ il mio modo di dirti grazie, John, perché ancora una volta sei riuscito a ribaltare ogni mio piano.” Depositò qualche altro rapido bacio, risalendo sui polsi e poi sull’avambraccio. “So che sarà difficile, soprattutto per te, che ci faremo del male, che soffriremo l’uno per l’altro, però grazie. Nessuno avrebbe mai fatto una cosa così per me. E perdonami, perché se solo non avessi commesso tutte quelle cazzate… chissà, magari la nostra vita insieme sarebbe stata diversa. Perdonami, John. Perdonami per farti ques-”
Ma John gli tappò la bocca con una mano, sussurrandogli di stare zitto, di non osare fiatare perché altrimenti l’avrebbe buttato in mare. Sherlock rimase a guardarlo con occhi grandi di tristezza, mentre lui continuava a mordersi il labbro per non piangere, infine riprese a baciarlo. Non voleva più parlarne. Voleva riprendere il loro teatrino. Voleva anche lui recitare una parte importante, quella dell’attore professionista, sicuro di sé, avviato alla celebrità. Voleva essere in grado di spalleggiare Sherlock e di condurre assieme a lui le redini di quel grande e macabro spettacolo che era la loro vita. L’occhio di bue era puntato su di loro. E loro, sotto quel riflettore, si baciavano come due sposi novelli e non come due sfortunati amanti.
 
Le urla gli straziavano le orecchie. C’era il pianto di una donna in lontananza e gli strepiti di un bambino. E poi spari, granate, esplosioni, polvere, sangue. Se ne stava accucciato dietro il relitto di una vecchia automobile, il fucile tra le braccia, il petto animato da un violento battito cardiaco. Si preparò, rivolse addirittura una mezza preghiera a Dio, poi si levò da dietro il suo nascondiglio, la canna dell’arma puntata contro chissà quale minaccia… Eccetto che, non ve n’era nessuna. Il campo di battaglia era vuoto. Kabul era una città fantasma. Niente più cadaveri o soldati intorno. Solo silenzio e fantasmi. Si guardò intorno confuso, gettò il fucile pesante, si spogliò persino del giubbotto antiproiettile. Aveva caldo e una sensazione di soffocamento gli ostruiva le vie respiratorie. Sentiva il retrogusto amarognolo del sangue in bocca e le mani impregnate della medesima sostanza. Dov’era? Chi era? Cosa faceva lì? Abbassò gli occhi su di sé e si ritrovò completamente ricoperto di sangue vermiglio – la maglietta bianca, i pantaloni verde militare, gli scarponi… E puzzava, puzzava di morte e di dolore, di lacrime e di rimpianti. Cercò su di sé la ferita, pensò di morire dissanguato, ma non provava alcun tipo di fastidio, nemmeno minimo. Il suo corpo era integro, fermo nella sua statuaria e rigorosa posizione. All’improvviso, una goccia gli tintinnò in fronte, scendendogli poi tra gli occhi e sulle labbra. Si portò una mano al viso, intingendo due polpastrelli nel liquido rossastro e lo guardò smarrito. Lo sentì sulla lingua, e quasi gli parve di ricordare un sapore familiare. Alzò gli occhi verso il cielo, un cielo che si era improvvisamente fatto nero. Sgomento, cercò un riferimento, un punto, un qualsiasi cosa che lo aiutasse a ritrovare la strada – la strada per dove? nemmeno lo sapeva. o ricordava? – ma persino il cielo taceva di fronte alla sua perdizione. La stella polare. Dov’era quella cazzo di stella polare? Corse. Scavalcò carcasse di moto e carri armati, superò edifici sbrandellati dalle bombe. Di nuovo, una goccia di sangue gli cadde in fronte e gli si infilò nella maglietta, scendendogli sul petto, assorbita poi dal tessuto. Avvertì un lieve bruciore in quella zona, così si fermò, sfilandosi anche la maglietta. Si studiò, cercò nuovamente una ferita, ma non c’era alcuna traccia.
“Che diavolo sta succedendo?” si chiese col cuore che gli martellava in gola.
Un nuovo ticchettio alla fronte lo fece sussultare. Stavolta seguì il percorso di quella goccia vermiglia, dal suo viso al suo petto e, con sorpresa, la vide cambiare direzione all’ultimo momento, scivolando a sinistra anziché a destra. Una volta arrivata in prossimità del cuore, venne incorporata nel suo petto, lì dove il muscolo principale di ogni organismo batteva.
Fu solo allora che levò nuovamente gli occhi al cielo e, sospeso nell’aria, scorse il corpo di un agnello. Un agnellino nero completamente abbandonato alle spire del vento che lo sollevava da terra, gli occhi chiusi e uno squarcio che gli si apriva nel ventre. Fissò quel macabro spettacolo con gli occhi sbarrati. Così indifeso, così spaurito, così debole e infine, così morto. Perché si doveva morire? Cazzo. La morte era una puttana. Anzi, no, la vita era una puttana. Quell’agnello non meritava di morire così presto. Perché si moriva sempre troppo presto? Meritava tutto. Meritava di più. Chissà quale infame lupo lo aveva ingannato, allontanandolo dalla madre per poi azzannarlo, o chissà quale cacciatore gli aveva sparato un colpo contro solo per rivenderlo e guadagnare con la sua povera vita spezzata… Dov’era il pastore, in quel momento? Dov’era? Perché non l’aveva protetto? Avrebbe dovuto fare tutto quello che era in suo potere per difenderlo dal male, dalla morte, dal dolore… E invece, eccolo lì, morto.
Improvvisamente, una serie di colpi di tosse si diffuse nell’aria e l’agnello sparì improvvisamente. Altro sangue gli piovve dal cielo, rapprendendosi tra i suoi capelli, entrandogli nelle narici e in bocca, soffocandolo, mentre una risata scuoteva cielo e terra, sovrastando persino quella tosse secca che frastornava l’udito.
E’ più mio di quanto pensi. Di quanto lui pensi. Siamo legati dallo stesso destino… Di certo è più mio che tuo… Io non me ne andrò mai da lui… Mi sono spinto troppo dentro e avrà per sempre una traccia di me in lui… Un giorno ti sveglierai e Sherlock non sarà più con te. Alla fine, lo perderai perché non sei stato abbastanza forte da proteggerlo… Sherlock soffrirà. Sarai tu a farlo soffrire… Sherlock non sarà mai al sicuro con te. Solo io potevo proteggerlo, e adesso che sarò rinchiuso in gattabuia, tutto quello che potrò fare è guardarlo mentre si lascia distruggere da te… Tu credi che il pericolo che minaccia Sherlock sia io, ma non hai idea di quanto ti sbagli, Johnny. Il pericolo non sono io.
John urlò, le mani pressate disperatamente sulle orecchie. Di chi era quella voce… Sherlock. Dio, Sherlock… Sherlock…
“SHERLOCK!” gridò infine con quanto fiato aveva in bocca.
Aprì gli occhi in cui ancora erano impresse le immagini di quel tremendo incubo. Tremava e si sentiva ancora addosso il sangue, nelle orecchie quelle parole maligne, sussurrate forse da Satana in persona. Il materasso era scosso da violenti colpi e solo quando si volse alla sua destra, madido di sudore e ansante, si rese conto dello stato in cui Sherlock verteva: tossiva, aveva una mano serrata attorno alla gola, gli occhi rossi, si contorceva nel suo lato di letto.
Scattò in ginocchio improvvisamente terrorizzato e incapace di fare qualunque cosa. Di riflesso, gli prese le spalle e lo costrinse a sedere sul bordo del letto, mentre si lanciava di fronte a lui, per guardarlo e… cazzo, fare cosa? Provò a richiamare le sue conoscenze mediche, ma sembrava aver dimenticato tutto, come se fosse in un blocco preesame universitario.
“Sssh… Sssh… Va tutto bene.” cominciò a sussurrare mentre Sherlock annaspava, in cerca di aria. “Ehi… Ehi, guardami, guardami… Respira, guarda me e respira come faccio io.”
Iniziò a respirare con lui, un lento ed estenuante processo, poi spalancò la portafinestra e, caricandoselo sulla schiena, lo trascinò sul balcone, per respirare.
“Chiamo un’ambulanza.” fece poi, sul punto di scattare dentro a prendere il telefono, ma il moro gli afferrò prontamente il polso e lo tirò indietro, gli occhi rossi che lacrimavano, ma lo sguardo fermo e il respiro più presente.
“E’… è okay… Non chiamare nessuno…”
Per quanto ancora volevano giocare a quel gioco? Per quanto ancora, John, sarebbe stato in grado di assecondare quel folle piano che aveva come termine la distruzione completa dell’uomo più importante della sua vita?
Eppure lo fece. Si inginocchiò su di lui e gli obbedì, come un fedele cane che obbedisce ad un vecchio padrone. Il suo biscottino consistette in una dolce carezza al viso. Chiuse gli occhi e si concentrò su quella mano che percorreva lentamente la sua guancia.
“Così ti distruggi.”
“Esagerato…” borbottò di rimando l’altro, scuotendo la testa e tirandolo verso di sé, in un abbraccio caldo e confortante. “Sarà stata l’aria condizionata dell’aereo… O forse ho preso freddo stasera.”
“Una dispnea? Per dell’aria condizionata? Sherlock-”
“Suvvia, John! Mi stai trattando come se fossi un moribondo. Sto bene, guardami!”
John si staccò e gli puntò addosso uno sguardo carico di rabbia, le immagini del sogno che venivano sfogliate come pagine di un libro dalla sua mente. “Cazzo, Sherlock, così ti ammazzi!” sbottò afferrando il tessuto della maglietta del moro. “Una dispnea non è normale, non nelle tue condizioni!”
Sherlock assorbì silenziosamente le sue parole e lo fissò senza proferire verbo per un po’, infine, gli scostò una ciocca di capelli biondi dagli occhi, un sorriso spontaneo sulle labbra. “Hai avuto un incubo?”
“Sherlock-”
“D’accordo: sto morendo, e allora? Mi sembra di avertelo già detto per la questione droghe: lo stress rovina tutti i giorni della tua vita, la morte solo uno. Tu hai avuto un brutto sogno, io una piccola fame d’aria, la tua serenità è compromessa dai… recenti eventi, io ormai me ne sono fatto una ragione… John, parlami, sfogati, dimmi quello che pensi davvero, insultami, ma fidati di me e non trattarmi come un povero pazzo che cerca un filo d’erba in mezzo al deserto. Sto provando davvero ad essere felice e so che è folle dirlo, ma non posso essere felice se non sei felice anche tu.”
Sì, era decisamente folle, perché John non sarebbe mai potuto essere felice, anzi, non sarebbe mai più potuto essere felice. Non dopo Sherlock, non dopo i suoi baci, non dopo la sua eccentricità, non dopo aver conosciuto il Paradiso solo per sprofondare nell’Inferno, come Lucifero. Ma lui doveva fingere. Per Sherlock. Solo per lui.
“Sherlock… io mi sto abituando, davvero, è solo che… quando ti ho visto in quelle condizioni…”
“John, che stavi sognando? Prima della crisi ti ho sentito mugolare qualcosa e rivoltarti come un assatanato, ti prego, dimmi che c’è.”
Sospirò, stropicciandosi stancamente le palpebre. “Ho sognato l’Afghanistan. Sai, a volte quelle scene tornano… Non devi preoccuparti, ce li ho spesso questi incubi.”
Sherlock continuò a scrutarlo con sospetto. “Stai mentendo.”
Scosse la testa, con quanta più rilassatezza riuscì a trovare. “Non sto mentendo, sei tu che sei paranoico.” Gli baciò lentamente l’angolo destro dalla bocca, poi il mento, e infine poggiò le labbra sulle sue. “Come va il respiro?”
“Se muoio per asfissia da bacio appassionato è colpa tua.”
“Non è un bacio appassionato! A malapena ti tocco!”
Sherlock sorrise furbescamente e si accomodò tra le sue gambe, le mani serrate sui suoi fianchi. John percepì il proprio controllo venir meno – purtroppo era sempre più facile desiderare quella meraviglia di fronte a lui e il non poterlo avere non faceva che aumentare la sua bramosia.
“Sherlcok-”
“Stia zitto, dottor Rose.” lo ammonì il moro con un sorriso malizioso mentre si piegava su di lui per baciarlo prima lentamente, percorrendo ogni centimetro della sua bocca, e poi con più foga, spostandosi poi al collo e poi ancora al petto, fino ad arrivare al basso ventre, punto in cui si lasciò scappare un gemito.
“Sherl-”
“Non farò niente che non vuoi. Io ho… controllato, sono pulito: non ho nessuna ferita in bocca o altre… stronzate varie. Però sappi che mi fermerò se è quello che vuoi…”
John scoppiò a ridere, mentre Sherlock riprendeva a baciarlo, staccatosi dalla sua pancia. “Se è quello che voglio? Dio, se lo voglio… Per favore…”
Non era stata la rassicurazione a farlo decidere. Anzi, ormai quasi non gli importava più di se stesso. Viveva solo per lui, per Sherlock Holmes. Avrebbe perfino preso quel cazzo di AIDS se solo Sherlock non fosse stato troppo puro e buono per trattenersi dal cedere alla passione che a causa delle circostanze stavano cercando di reprimere.
All’improvviso, Sherlock si staccò da lui e arrancò all’indietro, sbattendo contro la ringhiera del balcone. John, in un momento di folle paura, pensò ad una nuova dispnea, ma invece il moro era perfettamente in grado di respirare, nonostante l’accennato fiatone per i baci, però i suoi occhi tradivano una paura folle che mai aveva scorto in quegli occhi.
“Sherl-”
“Che cazzo ho pensato di fare…” sussurrò passandosi le mani affusolate sul viso. “John, io… perdonami, perdonami…”
“Sherlock-”
Cercò di fermarlo, ma l’altro era già scattato in piedi ed era corso dentro, iterando frasi incomprensibili, allora lo seguì e proprio mentre stava per uscire, riuscì ad afferrarlo e a bloccarlo.
“Sherlock, Cristo Santo, mi spieghi che c’è?”
“C’è che non posso più illuderti di stare con una persona sana che può offrirti tutto di sé. Io… io sono una mina vagante, John. Potrei esplodere da un momento all’altro e non voglio trascinarti con me.”
“Sherlock-”
Ma Sherlock lo zittì con un bacio traboccante di accesa passione che si risolse, però, presto. Troppo presto. Lo tenne vicino a sé, gli occhi tristi, le labbra a baciargli i ricci corvini. Stava accadendo tutto così velocemente… Poco prima si stavano baciando con foga e ora stavano lì, abbracciati, memori del presente e del futuro.
“Non posso legarti a me così.”
“Smettila.”
“Non voglio che tu stia con me per pietà.”
“Io non sto con te per pietà, sto con te perché lo voglio.”
Il moro distolse lo sguardo, le labbra crucciate. “E allora sei un pazzo.”
John gli prese le mani e le strinse forte, con sicurezza e devozione. “Solo un pazzo potrebbe sopportarti.”
Entrambi sorrisero, anche se era appena un’ombra quella che attraversava le loro bocche lievemente arrossate. Volevano fingere ma non ce la facevano. Era come un fottutissimo ciclo: passava una fase e si illudevano che era acqua passata, che l’avrebbero dimenticata e non l’avrebbero più attraversata, ma puntualmente si ripresentava, lì, arcigna... Ed erano nuovamente a quella fase.
“Torniamo a letto a farci un po’ di coccole?” propose con tono quasi da bambino lui, accennando un’espressione angelica, ma poi il calore affluito all’altezza dell’inguine lo fece ricredere. “Anzi, scusa… Facciamo che tu torni a letto e io vado un attimo a farmi una doccia fredda, eh?”
Sherlock ridacchiò appena e forse con le labbra articolò addirittura un mi spiace, ma mentre faceva scorrere l’acqua che gli lambiva il corpo, John si chiese perché avrebbe mai dovuto dispiacersi: era una cazzo di persona con una cazzo di malattia che voleva vivere il cazzo di tempo che gli rimaneva. Era sbagliato? Eppure, Sherlock si preoccupava per lui. Sherlock era un agnellino indifeso, e lui… lui pastore, lui amico, lui compagno, lui amante… lui era impotente e lo stava distruggendo.
 
Quella macchina fotografica era semplicemente meravigliosa. Non si era mai dilettato in hobby talmente stupidi come la fotografia – a parte qualche rara occasione di video porno che qualche suo cliente gli aveva chiesto di girare –, eppure gingillare con quell’arnese era davvero meraviglioso. La brezza salmastra gli solleticava il viso gradevolmente. Puntò l’obbiettivo sul sole rosso sangue che s’affacciava pigramente da dietro il mare. Dio, che spettacolo… Fotografò e dopo pochi secondi la macchinetta rigettò la foto nera. La sventolò un po’ e attese, finché sulla carta non comparve il meraviglioso sole vermiglio che faceva capolino da dietro le onde.
“Sherlock!”
Si voltò con un sorriso strafottente ad osservare il compagno che se ne stava a braccia conserte, piantonato in mezzo alla spiaggia privata dell’hotel, un’espressione truce sul viso.
“Qualche problema?”
“Oh, no, assolutamente! Come ti vengono certe idee?”
Il rumore dello scatto della macchinetta seguì quelle parole. “Spettacolare! Assolutamente naturale.” osservò soddisfatto studiando il risultato della fotografia.
“Sherlock.”
“Cosa? Sei venuto benissimo, guarda!”
“Gradirei un briciolo della tua attenzione visto che sono cinque giorni che stai dietro a quel gingillo.”
“Gingillo? Questo è un pezzo unico che mi ha venduto un vecchietto al mercato di Manarola.”
John sbuffò, scuotendo la testa. “E’ una polaroid come tante altre.”
“Una polaroid degli anni Settanta? Osi davvero definirla una come tante altre?”
Il biondo gli si avvicinò senza sciogliere le braccia allacciate al petto, e occhieggiò da sopra la sua spalla la fotografia che gli era stata appena scattata. “E’ orribile.”
“Colpa del soggetto.”
A quel punto, non poté fare nulla per evitarsi un pugno precisamente sferrato alla spalla, che lo fece barcollare vistosamente. Tendeva spesso a dimenticare il passato militare del compagno, ma nonostante tutto scoppiò a ridere di fronte alla permalosità dell’altro. “Scherzavo, dai. Qui in Italia, comunque, c’è un modo di dire che è davvero singolare, qualcosa del tipo… sei bello come il sole: non ti si può guardare.
“Hai davvero voglia di tornare in hotel a pezzettini stasera?” sospirò John alzando gli occhi al cielo. “E comunque mi spieghi perché ci tieni tanto a fare queste benedette foto? Sono giorni che ne fai a centinaia e sperperi i soldi per comprare carta fotografica e le raccogli in una misteriosa cartellina che tieni gelosamente nascosta tra le tue camicie e no, non ho frugato di proposito fra le tue cose, stavo cercando un mio costume da bagno.”
Si accostò all’altro, un sorrisetto malizioso sulle labbra e, con premura, gli appoggiò le mani all’altezza del ventre, accarezzandolo amorevolmente. “Voglio che il bambino abbia qualche ricordo del suo papà visto che non avrò modo di vederlo.”
John, allora, gli diede un altro pugno, stavolta più forte, in pieno petto, sbuffando. “Sei proprio un coglione.” Ma entrambi scoppiarono a ridere, e per un po’ non si udì nient’altro che il suono della loro lieve serenità sottratta al dolore. “No, sul serio” riprese il biondo tornando serio. “Non capisco da dove nasca, adesso, tutta questa voglia di immortalare qualunque cosa.”
Non c’era una ragione precisa, si disse Sherlock. O forse, erano anche troppe. La scure della morte che si stava gradualmente abbassando sulla sua testa gli aveva, forse da un lato, aperto gli occhi, e così era stato in grado di rendersi conto della bellezza di quello che lo circondava. Un tempo, trovava idiota la contemplazione della natura, del cielo, delle stelle, del mondo intero… Ora, invece, ovunque volgesse lo sguardo scovava una piccola meraviglia rara, forse addirittura unica, come quella vecchia macchina fotografica che trattava come un vaso di cristallo. Come John. John era il fulcro di tutte le cose belle di cui i suoi occhi si facevano testimoni. John l’aveva reso l’uomo che non avrebbe mai pensato di essere. Si svegliava, nel cuore della notte, a volte affannato, con gravi difficoltà a respirare, e lui c’era, sempre, lo portava sul balcone e assieme osservavano le stelle e, con le stelle, le persone che erano scomparse. Presto, anche lui sarebbe divenuto un astro e la sua unica consolazione era che almeno sarebbe stato in grado di vegliare su John.
Lo strinse senza rispondergli, strofinandosi contro di lui, un calore genuino si diramò per tutto il suo corpo. Sorrise quando le braccia di John lo premettero con più decisione contro di sé e, con le dita, cercò di accarezzare l’anima di quel piccolo militare in congedo che gli aveva dato tanto. Quando si staccò, riacquistando la distanza, gli mancò il fiato: il sole, sul punto di eclissarsi completamente, illuminò a tradimento il volto soave di John, conferendogli un aspetto angelico, eroico, bellissimo. Il passo successivo fu scattare la fotografia e aspettare. Sulla carta fotografica, una lama di luce rossastra saettava sul compagno, illuminandogli gli occhi indaco e l’ombra di un amaro sorriso, quello che – lo aveva capito – lo coglieva quando pensava alla loro situazione e al loro futuro.
La sventolò fieramente di fronte al viso dell’altro, il petto gonfio d’orgoglio per quel piccolo capolavoro: era davvero la foto più bella che avesse mai scattato e non era per il suo occhio clinico o il paesaggio mozzafiato, ma per quella veridicità nell’espressione di John.
“Questa, John, la porterò con me quando varcherò le soglie dell’Inferno!” esclamò con voce trionfante. “E vedrai se non mi spediranno dritto in Paradiso, tra gli angeli!”
John non sembrava aver colto il senso di quella declamazione: tutto ciò che il suo viso tradiva era un fastidio piccato, solito quando lui parlava senza peli sulla lingua riguardo il suo – non troppo remoto – Fato. “Sherlock.”
“Dio, John, ma che hai, oggi?” sbuffò alla fine, sconcertato dal malumore del suo compagno. “Ho solo voglia di fare qualche foto, che c’è di male? Per di più, dovrò pur trovarne una da mettere sulla tomba, no? Quelle dei miei sono semplicemente-”
Le parole gli morirono in bocca alla vista di un John Watson che, sconvolto, gli diede le spalle, allontanandosi da lui a passo spedito. Lo chiamò, prima con tono interrogativo, poi una seconda volta, ora più preoccupato, infine gli corse dietro, afferrandogli il polso e costringendolo a guardarlo.
“John, che cazzo succede?”
Gli occhi del biondo erano un campo minato di emozioni contrastanti su cui lui, insicuro, camminava, nella speranza di non saltare in aria per un piede messo male. “Che cazzo succede? Succede che non ce la faccio più a sentirti parlare della tua morte come se non ti riguardasse o non riguardasse me! Se hai intenzione di fingere che vada tutto bene, allora d’accordo, ti assecondo, ma non tollero che spari puttanate su quello che ci sta succedendo, okay? Sono stanco della tua fottuta volubilità e non me ne frega un cazzo se sei malato e stai per morire, perché io ci sono qui per te, ma non puoi chiedermi di fare finta di essermi rassegnato, perché non mi sono rassegnato, Sherlock, e mai lo farò!”
Assorbì quella dichiarazione praticamente sputatagli addosso senza battere ciglio, le dita saldamente strette attorno al polso dell’altro. Ora era rabbia ciò che predominava in quelle iridi indaco. E lui, alla fine, si lasciò andare ad un sorriso quasi sollevato.
“Finalmente.”
“Finalmente cosa?”
“Finalmente sei scoppiato.”
“Cosa…”
“Credi che mi diverta a farti soffrire? A scherzare sul tuo dolore? Non lo sto facendo perché sono un insensibile figlio di puttana, John, lo sto facendo per te.”
“Per me?” fece il biondo sbigottito.
“Sì, per te, perché le cose stanno così, John: presto morirò e non c’è niente che possiamo fare per cambiarlo, ma tu devi accettarlo, devi rassegnarti, ma non potrai mai farlo finché non ti sarai liberato di questo peso. Una volta per tutte, John, guardami negli occhi e scolpiscitelo bene in testa: io morirò.”
E un terzo pugno colpì il suo corpo, stavolta dritto in faccia, in pieno zigomo. Avvertì le nocche di John dure e fredde sulla sua pelle. Retrocedette, completamente spiazzato da quella reazione ma forse, da un lato, rincuorato. Era l’unico modo per permettere a John di buttare via tutto quel dolore che si stava tenendo dentro e che, se avesse continuato a soffocare, sarebbe esploso. E Sherlock non poteva permettere che accadesse quando lui non sarebbe più stato lì.
“Come ti fa sentire? Ti fa sentire meglio? Più libero? Guardami, cazzo! Sono quello che ti ha causato ogni sofferenza! Sono il bastardo che ti voleva scopare già dal primo giorno e che se solo tu non avessi avuto la tua moralità e la tua fermezza ti avrebbe legato alla sua stessa fine!”
“Basta!” ruggì di rimando John puntandogli un dito contro. “Chiudi la bocca o ti giuro, Sherlock, giuro su Dio che non risponderò più delle mie azioni.”
“Non fermarti, allora.” esclamò aprendo le braccia e offrendogli il suo intero corpo. “Colpiscimi forte, una, due, cento volte! Finché non capirai che ne hai date abbastanza! Avanti, picchiami!”
Ma un orrore urlante illuminò gli occhi del compagno che, istintivamente, si ritrasse, portandosi il dorso della mano alle labbra e osservandolo con sofferenza. “Fottiti, Sherlock Holmes!”
Lo guardò scappare lontano e stavolta non lo fermò. Rimase a lungo su quella spiaggia, mentre il sole terminava il suo declino, lasciando posto alla sorella luna, e si ritrovò seduto sulla sabbia, scosso dalla tosse e da un lancinante dolore al petto senza nemmeno rendersene conto. Provava caldo e percepiva un’arsura insostenibile graffiargli la gola. Sui granelli dorati, caddero alcune gocce di sangue vermiglio. Ormai, quegli attacchi di emoftoe e di emottisi erano praticamente regolari. Lo coglievano sempre più spesso, in particolare la notte, e aveva imparato a gestirli, sebbene con un’iniziale consistente difficoltà. E soprattutto, al suo fianco c’era sempre stato John. C’era stata la sua forza, il suo coraggio, la sua fermezza, la sua dolcezza, la sua voce, le sue carezze.
Rantolò, rialzandosi a fatica e pulendosi le labbra sporche di sangue col dorso della mano.
“Ehi, giovanotto!” esclamò una voce dietro di lui. “Si sente bene?”
I suoi occhi intercettarono la figura di un vecchietto, in mezzo alla spiaggia, a qualche metro da lui. Provò a parlare, ma il sapore acre del sangue lo colse nuovamente e dovette sputare una seconda volta, osservando poi il veleno che gli scorreva nelle vene posarsi sulla sabbia. Subito, s’inginocchiò e con le mani prese a rimestare la sabbia, cercando di fare affondare i granelli ormai compromessi.
“Giovanotto? Ma cosa sta fac-”
“Si fermi e stia lontano!” gli urlò in italiano, sentendolo vicino, troppo vicino e protendendo verso di lui il palmo della mano per rimarcare il suo comando. “Questa roba è veleno, stia indietro!”
“Ma-”
“Ho detto: stia indietro!”
“Giovanotto, ma lei… lei sta piangendo.”
La voce calda e al contempo flebile dello sconosciuto lo schiaffeggiò con la sua cruda verità. Si portò una mano al viso e sfiorò le sue stesse lacrime, sbigottito. Che cosa ci facevano quelle lacrime sulle sue guance? Erano sue? Erano degli angeli in cielo che lo compativano? Erano di John? Ma quando un singhiozzo a malapena strozzato gli scosse le viscere, si rese conto del dolore vibrante che gli stava scavando all’altezza del petto. Si portò una mano al cuore, le palpebre serrate e la mascella digrignata nell’inutile sforzo di contenere un pianto disperato.
“Non è giusto… Non è giusto… Lui non lo merita…” prese a farfugliare sconnessamente mentre si rannicchiava come un cucciolo indifeso ed impaurito sulla sabbia, i capelli che si impiastravano di quei granelli dispettosi e gli occhi che osservavano da dietro il velo di lacrime la quiete del mare di sera. Il vecchio si chinò su di lui e con fare paterno prese ad accarezzargli i ricci, sussurrandogli gentilmente chissà cosa nella sua lingua. E Sherlock, irrazionalmente, si sentì a casa.
 
Contemplarono, vicini, il mare che si apriva di fronte a loro, le labbra attaccate a due bottiglie di birra. Scrutavano quel paesaggio irrealmente calmo, ossimorico con ciò che lui, in quel momento, provava. Dopo un non definito lasso di tempo, si era ricomposto e aveva cercato di rassicurare quel gentile sconosciuto che tanto gli ricordava Angelo, ma alla fine si era lasciato trascinare al primo bar per prendere da bere e sedersi placidamente in spiaggia.
Ora che analizzava ogni cosa a mente fredda, si spiegava la ragione di quelle lacrime: erano lacrime di frustrazione per la lontananza che, inevitabilmente, divideva lui e John. Avevano fatto entrambi di tutto, ma c’era una voragine a separarli, un immenso muro di Berlino eretto da due popoli che si odiavano reciprocamente, e loro erano solo due pedine messe a caso in quella mappa di desolazione e amarezza. Ora capiva le parole di Moriarty: John lo stava distruggendo. Stava distruggendo quel precario equilibrio che era riuscito a conquistare. Lo stava facendo con l’intento di stargli accanto. Ma la verità era che accanto a John niente sarebbe stato stabile, non così, non in quel momento.
“Allora, giovanotto.” lo richiamò il vecchio, in tono affabile e paterno. “Hai voglia di aprirti un po’ col vecchio Sergio?”
Si portò la bottiglia alle labbra e assaporò un paio di sorsi di birra, cercando forse il coraggio, forse la forza, non sapeva dirlo. “Non c’è molto da dire.” confessò in tutta franchezza.
“Quando si dice così, la verità è che è tutto un grande casino.”
Un grande casino, eh? Sì, lo era eccome. Anzi, dire grande casino era un eufemismo. La morte non era un grande casino, la morte era una frattura netta con tutto ciò che si era creato in passato con sudore e fatica. La morte era una lama che ti pugnalava alle spalle e ti faceva soffocare nel tuo stesso sangue. Quello era la morte. Non un grande casino.
“Sto per morire.” sibilò alla fine, passandosi una mano in volto.
“L’avevo immaginato.”
“Ho l’AIDS.”
“Ora capisco perché hai avuto quella reazione, prima. Posso chiederti perché stavi piangendo?”
Bevve un altro sorso di birra, gli occhi socchiusi nei quali sfilava l’immagine della rabbia scolpita fra le righe d’espressione del compagno. Si chiese quanto dovesse soffrire. Lui, almeno, sarebbe morto e basta. John avrebbe dovuto ricostruire la sua vita pezzo dopo pezzo. Per questo, non poteva fare altro che sperare che il loro rapporto non fosse davvero così forte o essenziale, né per sé né per lui.
“Non ho paura di morire.” disse semplicemente. “Ma ho paura della sofferenza di quelli che mi stanno intorno.”
“C’è una persona in particolare?”
“Dev’esserci per forza?”
“Solitamente c’è, soprattutto se c’è di mezzo un pianto del genere.”
Sherlock si trovò a sospirare: quel vecchietto era più arguto di quanto avesse creduto. “Si chiama John.” esordì dunque. “Ci siamo incontrati nel bordello in cui lavoravo, a Londra. Lui era l’agente incaricato di catturare il mio capo. Fin dal primo momento, ho sentito che era diverso, in qualche modo: non mi guardava come uno da scoparsi, ma come un essere umano con carne, ossa ma anche sentimenti. Quando scoprii di avere l’AIDS era troppo tardi per allontanarlo. Provai a… tenerlo a distanza, a trattarlo come un semplice amico, ma alla fine cedetti. Una volta fuori dal bordello, ho continuato a vivere nella speranza che prima o poi avrei avuto la forza di mettere un punto alla nostra storia, ma alla fine…” Dovette prendere un profondo respiro per pronunciare quelle parole. “Alla fine sono stato costretto a dirglielo e la cosa buffa era che… credevo che una volta per tutte si sarebbe staccato e avrebbe ripreso in mano le redini della sua vita lontano da me. E invece, eccoci qui, in una stupida vacanza sul continente a fingere che vada tutto bene quando in realtà non va bene proprio per niente… Pensavo che trascorrere quello che mi rimane da vivere con lui mi avrebbe aiutato ad essere felice, ma la verità è che non riesco più a vederlo soffrire. Sono un egoista: io morirò e a quel punto sarà tutto finito, però lui… lui continuerà a vivere e io non posso fare altro che sperare che il nostro rapporto per lui non sia così forte.”
“Lo ami.” osservò a bruciapelo il vecchio e Sherlock si trovò a sorridere.
“Non credo di sapere esattamente che cosa sia l’amore, però… John è di certo l’unica persona che potrei mai amare.”
“E anche lui ti ama.”
Scosse repentinamente la testa, con sgomento, quasi. “Oh, no. Non è possibile. Quando ancora lavoravo in quel bordello gli ho fatto promettere che non si sarebbe innamorato di me.”
Sergio scoppiò a ridere della grassa, con la testa a ciondoloni. “Credi davvero che sia così facile, giovanotto?”
“No, ma non ho nient’altro a cui aggrapparmi… E comunque, John non mi ama, no… Non può amarmi. Nessuno si innamora di uno come me. A maggior ragione quelli come lui.”
“E com’è lui?”
“Buono.” iniziò con gli occhi che brillavano un poco di più. “Giusto, sincero, generoso, puro… Io sono la sua completa antitesi. Non potrei mai meritarmi il suo amore.”
Tu meriti tutto… Meritavi di più…
Scacciò quelle parole e tornò ad osservare la linea dell’orizzonte su cui cielo e mare si univano indissolubilmente. La birra era ormai finita e anche la sua forza di parlare. Tutto ciò che desiderava era che John stesse bene.
“Avevo una moglie.” esordì improvvisamente il vecchio. “Si chiamava Bianca. Ci sposammo quando avevamo appena vent’anni. Lei era di buona famiglia, abituata agli agi che suo padre poteva permetterle, mentre io ero un giovane sognatore squattrinato, ma il nostro amore era forte, più forte del volere di suo padre, più forte della diversità sociale, più forte di tutto… Scappammo insieme e ci rifugiammo proprio qui, in una squallida catapecchia che scegliemmo come la casa nostra e dei nostri figli.” Un sorriso amaro sfilò sulle labbra screpolate dell’uomo. “Bianca voleva così tanto dei bambini, anche se entrambi sapevamo che avremmo faticato tanto per mantenerli. Ebbe tre aborti spontanei. Ogni piccolo embrione che le abitava il grembo moriva dopo le prime settimane. Divenne un fantasma, la mia Bianca. Solo mesi e mesi più tardi scoprimmo il cancro che le stava divorando il collo dell’utero. Incurabile. La vidi avvizzire come un fiore delicato trapiantato in un deserto. Mi chiese più volte di andarmene e di lasciarla morire da sola. Diceva che non avrebbe mai potuto sopportare che la ricordassi in quel modo. Così lo feci. Me ne andai di notte dall’ospedale e scappai come un codardo. Non so perché lo feci: io l’amavo più di me stesso. Capii solo dopo che scoprii che era morta col sorriso sulle labbra che l’avevo fatto per lei. Io l’amavo a tal punto da negarmi di tenerle la mano al momento della sua morte, capisci? E’ stata egoista a chiedermi una cosa del genere e io sono stato sciocco ad assecondarla. Non c’è giorno, giovanotto, non c’è un solo, maledetto giorno in cui io non rimpianga l’esserle stato lontano nel momento in cui ha spirato. Ho vissuto cinquant’anni nel dolore e nell’odio nei confronti miei ma anche suoi. Lei credeva che fosse la cosa migliore anche per me, che magari sarei stato in grado di tornare a vivere dopo un po’… ma ti assicuro che non è stata più vita la mia dal momento in cui l’ho lasciata in quella camera d’ospedale.”
Un gabbiano sferzò l’aria, il bianco piumaggio delle ali arruffato dal vento. Si tese verso la luna, l’uccello, e lanciò un urlo stridulo. Dopo poco, venne raggiunto da un secondo esemplare, più piccolo, e insieme planarono sul mare oscuro della notte, così vicini che avrebbero potuto scontrarsi e cadere in acqua al minimo spostamento, ma si fidavano l’uno dell’altro o magari erano semplicemente troppo stupidi per far caso a quel dettaglio.
“So che pensi che la tua decisione sia la scelta migliore per entrambi… ma ti assicuro che il tuo John non potrà mai perdonarsi di esserti stato lontano e… potrebbe diventare come me, alla fine: un vecchio rimbambito chiuso in se stesso e rancoroso verso il mondo intero.” Sherlock guardò gli occhi scuri di Sergio, trovandoci così tanto delle ombre che annebbiavano quelli di John. “Tu lo ami?” chiese di nuovo il vecchio.
“Sì.”
“Allora lascia che sia lui a decidere senza condizionarlo. E non avere paura di amarlo con tutto te stesso ora, perché quest’occasione non dura per sempre, e lo sai. E’ andata prima che tu te ne renda conto, prima che te ne renda conto. Non fare lo stesso errore della mia Bianca e non costringere John a fare lo stesso errore che ho fatto io.”
Sherlock tacque per diversi istanti, gli occhi sgranati. Non voleva che John vivesse il resto della sua vita nel rimpianto e nel rimorso, né tantomeno nell’odio per se stesso… Quella Bianca… sì, era stata decisamente egoista, la sua morte così facile… Aveva persino sorriso, qualcosa di così raro al momento della dipartita. Non sapeva di star condannando l’uomo che amava ad un eterno dolore e ad un’esistenza di tenebre e ricordi.
Come avevano potuto pensare, entrambi, una cosa del genere? Credevano di fare del bene e invece era solo una scusa perché fossero loro a star bene, a morire felici. Non avevano considerato i diritti di Sergio e di John di star loro accanto. Erano stati egoisti. Ma mentre Bianca, ormai, era morta… lui era ancora in tempo per tornare sui suoi passi.
La voglia di vedere John si scatenò in lui con un’irruenza ingestibile, come un prurito che non si riesce a sedere. Il cuore gli pompava febbrilmente in petto e tutto ciò di cui aveva bisogno era rivedere i suoi occhi, il suo sorriso. Si alzò in piedi e rivolse uno sguardo mesto a Sergio. Non vi fu bisogno di parole fra loro. Si salutarono in silenzio, i loro addii aleggiarono muti.
“Grazie.” sussurrò solo Sherlock e il vecchio annuì con un mezzo sorriso.
Corse, Sherlock. Verso l’hotel. Verso John. Verso il suo amore.
 
John venne destato dal suo sonno nel cuore della notte da un delicato tocco al piede. Sbatté ripetutamente le palpebre confuso, mentre digrignava la bocca in un sonoro sbadiglio. Accucciato ai piedi del letto, scorse la figura di Sherlock, le cui labbra stavano depositando piccoli baci sul suo piede.
“Sherlock…” mugugnò strofinandosi le palpebre, assonnato. “Che diavolo succede?”
“Scusa.” rispose l’altro risalendo con le labbra alla caviglia. “Scusa, scusa, scusa…” continuò baciandogli lo stinco, ginocchio, la coscia.
Lo osservò mentre quello montava sul letto, portandosi sopra di lui, e gli prendeva le mani, baciando le dita, leccandole, mordicchiandole appena. E sebbene tutto questo avrebbe dovuto eccitarlo, John non avvertiva altro che la confusione nella sua testa: ricordava il loro litigio, la sua rabbia, il suo desiderio di andarsene il più lontano possibile da Sherlock Holmes. Tornato in albergo, aveva persino accarezzato l’idea di fare i bagagli e tornarsene a Londra, lontano da quell’uomo. Invece era rimasto. Era rimasto e l’aveva aspettato sveglio finché il sonno non aveva preso possesso di lui. E ora, eccoli lì, in una sorta di abbraccio stentato, con Sherlock che lo sovrastava col suo fisico asciutto e si dedicava alle sue mani che portavano ancora i calli dei fucili che aveva imbracciato in Afghanistan.
“Sherlock.” ripeté chiudendo per un attimo gli occhi. “Sherlock, che stai facendo?”
Il moro si mise a sedere sul suo bacino e gli prese il viso tra le mani, senza smettere di depositargli languidi baci su ogni centimetro di pelle. “E’ il mio modo per dirti che mi dispiace.”
“Ti dispiace di cosa?” sussurrò cercando di contenere i tremiti che gli scuotevano le viscere e l’istinto di afferrarlo e baciarlo con irruenza.
“Di essere stato egoista. Ma ti prometto che da ora in avanti sarò tuo, solo tuo, e ti sosterrò qualsiasi decisione prenderai. Non avrò più l’arroganza di sapere cosa è meglio o non è meglio per te. Perciò, John Watson, ti chiedo di fidarti ancora una volta di me, se puoi.”
Se poteva? Non sarebbe stato altrimenti neanche se avesse voluto. John si era spinto troppo oltre in quel pericoloso gioco col fuoco. Sherlock era il fuoco. Sherlock lo ammaliava. Si sentiva un bambino che osservava le lingue di fuoco di un falò per la prima volta, il viso colpito, le labbra dischiuse, gli occhi curiosi.
Il calore del corpo di Sherlock lo cullava come se fosse stato ancora nel ventre materno, al riparo da ogni pericolo. Con dolore, pensò che prima o poi quello stesso corpo sarebbe divenuto gelido al pari di una lastra di pietra. Non voleva che quel tepore si esaurisse. Non voleva che quella fiamma si estinguesse. Non voleva che Sherlock morisse.
Fu una pugnalata in pieno petto. Se l’era detto tante volte – perché deve morire? non è giusto che muoia, perché lui? perché chiunque altro? meritava di più… Ma ora, una nuova consapevolezza, che c’era sempre stata, ma che però aveva sempre soffocato con timore, esplose in lui: non voleva che Sherlock morisse. Non voleva perderlo. Non voleva lasciarlo andare.
Il dolore per quel pensiero lo spinse a stringere il corpo dell’altro in un abbraccio disperato e a catturargli le labbra in un bacio famelico. Lo voleva. Lo voleva col cuore, con la mente, col corpo, con l’anima… Lo fece stendere sul materasso e prese a baciargli e leccargli il collo, mentre gli ansiti dell’altro si facevano più forti. Immagina quei sospiri di piacere affaticati, quei capelli in cui le dita stanno affondando madidi di sudore, schiacciati su un cuscino rigido, quelle labbra che hai ripreso a baciare violacee e quel cuore che percepisci battere forsennatamente al ritmo del tuo tacere. E vedi il bianco. Bianco ovunque. Più bianco del soffitto e delle pareti della tua casa. Lo spogliò della maglietta con un ringhio basso e gli prese tra i denti il capezzolo freddo e ruvido, scatenando un nuovo gemito di piacere da parte del moro. E’ una flebo quella accanto al letto? Cos’è – Docetaxael? Fotemustina? Mitomicina? Continuò a baciargli il petto glabro, poi il ventre, finché le sue dita, non corsero alla toppa dei pantaloni, trepidanti da abbassare la zip.
“John-” gemette l’altro, probabilmente intendendo bloccarlo, ma lui lo ignorò e con uno strattone gli sfilò i pantaloni dalle magre snelle. C’è odore di chiuso nella stanza. Il lettino odora di detersivo misto a medicinali. Il pavimento è ricoperto di riccioli corvini.  Fece per spogliarsi a sua volta, mentre con le labbra sfiorava i boxer scuri del moro, ma le dita di Sherlock si serrarono attorno ai suoi polsi e lo tirarono in un abbraccio stretto, quasi soffocante, protettivo. “John-”
“Lasciami.” masticò, il viso premuto contro il suo petto.
“John, per piacere.”
Un’infermiera entra nella cameretta, cambia la flebo, annota i parametri. Sul viso ha un’espressione grave. Esce dalla stanza scuotendo la testa e dopo poco entra un uomo col camice che ti chiede di uscire. Ti rifiuti, urli, abbracci quel corpo abbandonato sul lettino.
“Ho detto: lasciami andare, cazzo.”
“Sai che non possiamo.”
Ti trascinano via di peso, scorgi gli occhi mezzi velati del paziente disteso, vedi la paura, lo smarrimento, il dolore e tutto ciò che puoi fare è urlare il suo nome mentre vi separano. Anche fuori dalla camera, avverti l’elettrocardiogramma dilatare i battiti e allora, di nuovo, prendi a gridare, in mezzo al corridoio, tempestando la porta di pugni. Poi lo squillo dell’apparecchio e il successivo silenzio.
“John-”
“LASCIAMI!” urlò dimenandosi, scalciando e puntando le mani sul materasso, ai lati del corpo dell’altro, ma la stretta di Sherlock era sicura, ferma, ineluttabile, e mentre si dimenava, gli occhi cominciarono a lacrimargli. “Sherlock…” sussurrò con voce strozzata. “Sherlock…” ripeté mentre si scioglieva tra quelle braccia, acquietandosi, e cercando di contenere il pianto che dal cuore stava risalendo in superficie per esplodere.
“John.” rispose la voce baritonale del moro, intento ad accarezzargli i capelli. “Sono qui. Sono ancora qui.” prese a ripetergli il compagno baciandogli il capo. “Non sei solo.”
“Morirai.” singhiozzò allora lui, strusciandosi contro il suo petto come un bambino che cerca il conforto del seno materno. “Morirai e io non potrò fare niente…”
“Hai già fatto tanto.”
“Avrei dovuto cedere.” sputò a quel punto. “Avrei dovuto fare l’amore con te quando ancora me lo permettevi. Almeno avrei avuto la certezza che ti avrei seguito anche oltre la morte.”
“John-”
“Fai l’amore con me, Sherlock Holmes.” prese a supplicarlo battendo leggermente la fronte contro quel petto magro. “Ti prego, Sherlock… Liberami. Liberami.”
L’abbraccio di Sherlock si fece più dolce, le sue carezze più lunghe, i suoi baci più amorevoli. “Non chiedermi ciò che non potrò mai darti.”
“Sherlock… Non te ne andare.”
“Non me ne vado. Sto qui con te.”
“Resta, ti prego.”
“Per sempre.”
Fu sciocco, forse, sorridere di sollievo per quelle parole, eppure lo fece e sembrò calmarsi un poco. Era stupido, decisamente stupido anche lontanamente crederci, ma conosceva Sherlock e sapeva che avrebbe mantenuto quella promessa. Sherlock ci sarebbe stato per sempre. Dopo e oltre ogni cosa.
Si addormentarono così, l’uno fra le braccia dell’altro, in un letto che profumava d’amore e in una notte piena di stelle luminose che li osservavano benevole e pietose.
 
Lo osservò rincorrere quel magnifico esemplare di pastore maremmano che gli aveva rubato il borsello. Rideva. Una risata cristallina e liberatoria. Sorrise a quella visione. Lo vide entrare in mare e inciampare, crollando in acqua completamente vestito, scatenando il divertimento della piccola Rosie, la figlia di una coppia di inglesi che avevano conosciuto quella mattina in spiaggia. La bambina l’aveva subito preso in simpatia e anche il suo cane, a quanto pareva.
Sherlock mise mano alla macchina fotografica e attraverso l’obbiettivo vide la ragazzina correre incontro a quel John completamente infradiciato e sovrastato dal cagnone bianco. Osservò il compagno accogliere Rosie fra le sue braccia e levarla verso l’alto, un sorriso angelico a increspargli le labbra. Premette il pulsante per lo scatto.
Contemplò l’immagine con un’ombra di tristezza a velargli lo sguardo prima sereno. Com’era bello, il suo John. Pensava di essersi ormai abituato, rassegnato alla prospettiva di lasciarlo. Avrebbe voluto soltanto fermare il tempo a quel dolce pomeriggio di metà giugno e poter rivivere ogni attimo di quel mese che avevano trascorso in quella graziosa cittadina italica.
“Rosie!” chiamò la voce della signora Theresa, la madre della bambina. “E’ ora di prepararsi per la cena!”
“Arrivo! Vieni, Artù?” esclamò, dunque, Rosie, rivolgendo prima a John e poi a lui un frettoloso saluto con la manina rosea e paffuta. “Ciao, John! Ciao, Sherlock! Ci vediamo domani!”
Entrambi guardarono le due inglesi allontanarsi mano nella mano, verso l’hotel, seguite dal fedele Artù. Il tramonto tingeva il cielo di un caldo carminio che si rifletteva stupendamente sull’acqua cristallina. Una volta che le due figure furono scomparse alla loro vista, John si volse verso di lui, i capelli pesanti d’acqua, un sorriso pacifico in viso che Sherlock ricambiò con uno sguardo traboccante d’amore. Era così bello ammettere di amare John. Avrebbe voluto sapere se anche John l’amava. Avrebbe voluto togliersi almeno questo dubbio prima di morire.
Rimasero fermi a guardarsi di lontano, persi nei loro pensieri. Il desiderio di dirglielo, di confessare i suoi sentimenti si affacciò a tradimento nella sua testa. Poteva? Poteva davvero dirglielo? Sarebbe stato meschino da parte sua. No, meglio tacere e fingere, come avevano sempre fatto.
John aprì le braccia, sorridendogli apertamente e incoraggiandolo a correre in quella fortezza che era diventato il suo abbraccio. Abbassò lo sguardo, commosso e amareggiato al tempo stesso. John Watson… Cosa aveva mai fatto per meritarsi John Watson? Dio, quanto lo amava. Lo amava, lo amava, lo amava… Se lo ripeté come un mantra mentre mise avanti il primo piede per iniziare la sua corsa disperata per cercare il contatto con l’altro.
Accadde in un attimo. Si ritrovò a terra, gli occhi rivolti al cielo, le grida di John tutto intorno. Non fece in tempo a capire cosa stava succedendo che il nero aveva già avvolto ogni cosa. L’unica cosa che colse furono le sue dita dalle quali sfuggiva la fotografia che ritraeva la precaria felicità del suo amore.

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SPAZIO AUTRICI
Ciao, ragazzi! Eccoci qua, alla fine... Bel capitolo eterogeneo, con tanti fatti, alcuni belli, altri un po' meno... 

Dunque, che cos'abbiamo... John e Sherlock sono in Italia, nelle Cinque Terre, se non l'aveste capito, e stanno cercando di fingere, per quanto possibile, che vada tutto bene... Ma entrambi sono combattuti, entrambi hanno i loro demoni da fronteggiare. Sherlock sarà capace di fronteggiare i suoi grazie a Sergio, una sorta di specchio di John, quindi è un po' come se Sherlock fosse aiutato da John stesso, diciamo dalla sua versione più anziana. John, invece, viene tirato fuori dal baratro da Sherlock stesso... Un circolo vizioso di distruzione, amore e salvataggi, non trovate?

La fine del capitolo è piuttosto chiara, immagino. Siamo agli sgoccioli - e non mi riferisco solo alla ff... Giovedì prossimo, un bel capitoletto, ragazzi. Ci raccomandiamo di venir preparati con montagne di ciccolato per avere qualcosa su cui ripiegare. XD

Credo che abbiamo detto tutto. Appuntamento a Giovedì prossimo con il penultimo capitolo! Non mancate, vi aspettiamo numerosi!

*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 10
*** You Broke Your Promise ***


BEYOND 
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
You Broke Your Promise
 
Aprì gli occhi in una stanza bigia, dalle pareti mezze scrostate e la luce smorta. Il suo intero corpo vibrava di un’impaziente brama di movimento, ma era come se i suoi muscoli fossero completamente scollegati dalla volontà del suo sistema nervoso. Una stanchezza piombina lo stringeva come una camicia di forza e anche solo il tenere le palpebre sollevate gli costava una fatica immane. Aveva una mascherina schiacciata sul viso e un senso di malessere allo stomaco, una nausea che gli torceva le viscere come dopo aver ripetuto più volte una montagna russa.
“Ehi.”
La voce fu così dolce e così soave che il suo cuore, prima della sua mente, realizzò a chi appartenesse, accelerando appena il battito. Lo vide tra le lunghe ciglia nere che a fatica riusciva a tenere alzate. Lo vide piegarsi su di lui, sorridergli, una mano al viso, le unghie tra i denti. Avvertì la presenza del suo John ancor prima di realizzarla accanto a sé. Si sentì accarezzare i capelli, scostare qualche ciuffo dalla fronte. Chiuse gli occhi sotto quel tocco e cercò di respirare come meglio poteva, ma un dolore al torace lo fece gemere appena.
“Sssh… Va tutto bene. Va tutto bene, non ti sforzare.”
Ma Sherlock voleva sforzarsi, voleva parlare, voleva sapere. Gli occhi di John erano grandi di affetto e preoccupazione, perciò se stava per morire o cose simili doveva saperlo, era un suo diritto. La sua mano si mosse con pesantezza verso la mascherina che gli immetteva quasi a forza l’aria nei polmoni e la sollevò un poco, quanto era sufficiente per parlare. “Sto morendo?”
A quelle parole, poté percepire il fremito che percorse il corpo dell’altro come se fosse appartenuto a lui. “Hai avuto un arresto respiratorio.” iniziò, dunque, a spiegare John, riponendogli delicatamente la mascherina sul viso. “I tuoi polmoni hanno smesso di funzionare per diversi minuti. Quando sono arrivati i medici sono intervenuti tempestivamente con la respirazione artificiale. Il tuo cuore si è fermato per alcuni secondi.” E a questo punto del discorso, la voce del biondo tremolò appena. “Sei morto per undici secondi… Ti tenevo la mano e ho sentito il tuo polso spegnersi…” Tacque, John, e inspirò profondamente, gli occhi chiusi in un disperato tentativo di ricercare in sé un briciolo di forza che gli permettesse di andare avanti, di proseguire. “Hai un carcinoma polmonare.” sputò infine quello, riaprendo gli occhi e puntandoli su di lui, cosa che apprezzò profondamente: chiunque altro, avrebbe cercato di sfuggire al suo sguardo nel rivelargli una notizia del genere, ma John no…
“E dovrebbe essere una novità?” chiese di rimando Sherlock, scostandosi nuovamente la mascherina.
“Non per te, ovviamente.”
“Nemmeno per te.”
Rimasero a guardarsi in silenzio, col sottofondo dei battiti cardiaci segnalati dalla macchina accanto al lettino. C’erano così tante cose che sarebbero dovute trapelare. Tante, tante cose… Ma non c’erano parole per descrivere cosa entrambi provavano in quel momento.
“Hanno provato ad operarti… Ma il tumore si è esteso a tutto il polmone sinistro ed ora sta progressivamente avanzando verso il destro.”
“Quanto mi rimane?”
“C’è tempo.” rispose John stringendo appena gli occhi. “C’è ancora tanto tempo… Però ti dovrai sottoporre ad una chemioterapia.”
“No.”
“Smettila, adesso!” sbottò, infine, il biondo, calciando la sedia accanto al letto su cui, probabilmente, aveva trascorse le ore fino al suo risveglio. “Non è un cazzo di gioco! Si tratta della tua vita! Mi sono arreso sulla questione delle terapie per l’AIDS ma adesso ti prego di smetterla di fare il coglione, perché io non me ne starò qui buono buono a guardarti morire, è chiaro!?”
Sherlock distolse gli occhi, puntandoli sulla piccola finestra velata da una spessa serranda che conferiva un aspetto tetro e fatiscente alla stanza intera. “Sarebbe inutile.” sussurrò nella mascherina, ma John lo udì lo stesso.
“Niente è inutile, a questo punto. Stai morendo, Sherlock, ti restano al massimo quattro mesi… Ti prego, ti scongiuro… Dammi retta, almeno una volta nella tua folle vita.”
E solo allora Sherlock ricordò le parole del vecchio Sergio, la loro conversazione avuta due settimane prima. Sua moglie era stata egoista nel volersi abbandonare alla morte e allontanare l’uomo che per lei aveva deciso di sacrificare il suo futuro, fatto di rimpianti e rimorsi. E lui si era ripromesso che non si sarebbe comportato allo stesso modo con John. Gli doveva così tanto… Avrebbe lottato, ci avrebbe provato, almeno… per John.
“E va bene.” sentenziò sfilandosi ancora la mascherina. “Però a Londra.”
“Certo. Ho già provveduto ad avvisare l’ospedale del trasferimento. Un elicottero ci porterà al Barts appena le tue condizioni lo permetteranno.”
Sherlock si limitò ad annuire e a chiudere gli occhi. Osservò il buio delle sue palpebre, beandosi della mancanza della fastidiosa luce di quel neon che aveva proprio sopra la testa. Poi, però, un fascio luminoso, come quello di un raggio solare, lo inondò. Avvertiva la mano di John stringere la sua, le sue labbra baciargli dolcemente le dita. Sospirò e rafforzò la stretta.
“Ce la faremo.” gli sussurrava John sulla pelle e lui si trovò a sorridere in quell’aggeggio che puzzava di ossigeno e di chissà che altro. “Ce la faremo, Sherlock.”
No che non ce l’avrebbero fatta. Non si può farcela contro un cancro senza praticamente difese immunitarie. E quindi no, era impossibile. Ma Sherlock annuì, accarezzando col pollice il dorso della mano dell’altro.
“Insieme, John.” mormorò nella mascherina, prima che un quieto silenzio spirasse nella stanza.
 
Trascorse una settimana prima del trasferimento. Sette giorni durante i quali John faceva la staffetta tra gli studi medici e la camera di Sherlock. Non assaporava la luce del sole sulla sua pelle da così tanto… e aveva bisogno di una doccia. Aveva decisamente bisogno di una doccia. Percepiva il sudore impregnargli i vestiti e un acre odore prendergli alla gola ogni volta che compiva movimenti ampi. Attorno ai suoi occhi, cerchi violacei che gli conferivano un aspetto quasi spettrale. Mangiava le barrette kinder che prendeva alle macchinette del piano e dormiva a malapena quattro ore ogni notte, svegliandosi per ogni singolo sussulto dell’altro. John aveva smesso di vivere e le sue uniche funzioni si riducevano all’accarezzare e a stringere la mano di quell’uomo che giaceva debole ed emaciato sullo scomodo lettino ospedaliero.
Verso metà Giugno, un elicottero ospedaliero accolse lui e il compagno nel suo ventre metallico e li ricondusse a casa, nella frenetica Londra. La osservò dal ristretto finestrino, la mano allacciata a quella di Sherlock, mentre la sovrastavano in volo.
“Londra?” domandò il moro, forse intuendo il paesaggio che stava ammirando da un suo piccolo fremito, da un aumento del battito cardiaco o da chissà quale altra possibile tecnica di deduzione.
“Sì, ci siamo proprio sopra.”
“Vuoi essere i miei occhi, John?”
E John sorrise, prima di baciargli dolcemente le labbra e iniziare a descrivergli i palazzoni che s’innalzavano come monumenti divini verso il cielo, indicandogli il London Eye e il vicino Big Ben, con il Tower Bridge e Westminster. Il sole di mezzogiorno era alto nel cielo e un caldo afoso li investì mentre venivano caricati giù dall’elicottero.
I giorni che seguirono furono come sospesi. Sherlock era stato chiaro: non aveva intenzione di ricevere alcuna visita o di avvertire nessuno circa la loro presenza lì, ma si era arreso al fatto che Mycroft sapesse e che facesse, dunque, la ronda intorno all’ospedale, come un cane che sorveglia la dimora. Le sedute di chemio erano lunghe, interminabili… John sedeva compostamente accanto alla grande poltrona su cui il corpo di Sherlock sprofondava in quelle ore, il giornale in braccio a leggergli tutti i casi correnti di Scotland Yard.
Al quinto giorno, John, su esortazione di Sherlock, era tornato a casa per riposare alcune ore, cambiarsi d’abito e prendere alcune cose che sarebbero state utili ad entrambi.
“Cos’è quella roba?” chiese il moro indicandogli con un cenno del capo il rasoio elettrico che sfilò dalla borsone che s’era portato da casa.
“Vedo che stai cominciando a rincitrullirti.”
“Non sono rincitrullito, John, so perfettamente cos’è, ma perché l’hai preso?”
“Per farti la barba, geniaccio.” rispose con una scrollata di spalle. “Stai diventando davvero difficile da baciare.”
Sherlock mantenne lo sguardo fisso sul rasoio nero, studiandolo quasi con sospetto. “Passamelo anche sui capelli.”
“Cosa?”
“I capelli. Non voglio vedermi diventare calvo per quello schifo di terapia.”
E così fecero. Quel pomeriggio stesso, John passò con cura la lama del rasoio tra i riccioli morbidi dell’altro, accarezzandoli prima di reciderli come fiori rari che si devono tagliare perché avvelenati. Sherlock teneva gli occhi chiusi, ostentava calma, ma il movimento angosciato del pomo d’Adamo tradiva un’inquietudine profonda. Una volta terminato il lavoro, John si chinò di fronte alla sedia dove aveva fatto sedere il moro e sfregò via i ciuffi corvini rimastigli addosso. Gli occhi di Sherlock si allacciarono ai suoi e un dolce sorriso si formò sulle labbra di quest’ultimo, mentre gli soffiava addosso, ridacchiando teneramente.
John si chinò a raccogliere qualche ricciolo e se li rigirò in mano osservandoli con nostalgia, poi, arricciando le labbra, ne sistemò uno più lungo sul labbro superiore, a mo’ di baffi e Sherlock rise debolmente.
“Come sto con i baffi?”
“Ti invecchiano.”
“Ma sta’ zitto.” rise allora, schiaffeggiandogli lievemente la gamba, prima di immergere nuovamente la mano e tirarla fuori stretta ad una bustina colorata. La aprì e ne estrasse cinque animaletti – un cavallo, una tigre, un leone, una gazzella e un fenicottero.
“Cosa diavolo sarebbero?”
“Animaletti, non vedi? Li ho comprati allo shop al piano terra. Carini, vero? Ah, aspetta.” Di nuovo, prese a frugare nel borsone e stavolta ne emerse con una pallina rosso accecante, bucata da un lato. Se l’assicurò sul naso, poco sopra i baffi che fissò con un pezzo di scotch e, accarezzando il capo ormai calvo dell’altro, vi sistemò in bilico gli animali. “Ho anche la macchina fotografica.” aggiunse tirandola fuori, ridacchiando lievemente alla visione di uno Sherlock corrucciato con in testa degli animali per bambini. “Fammi un’espressione felice.”
E a quel punto, il viso del moro si contorse in una smorfia sciocca, tirando fuori la lingua e restringendo un occhio.
“Un’altra! Adesso di profilo.”
“Ti stai prendendo gioco di me, Watson?” chiese Sherlock con ironia, nonostante la voce stanca.
“Lo faccio solo perché sei bellissimo.”
Non vi era alcuna menzogna in quelle parole. John era davvero affascinato da quella fragile visione che aveva davanti. Il tenue sorriso di Sherlock, i suoi occhi dolcemente socchiusi a causa del fastidio per la luce, e sì, anche gli animaletti che portava in testa. Per accentuare quelle parole, si chinò e gli posò un delicato bacio a fior di labbra, prima di passargli la macchina fotografica per farsi ritrarre a sua volta, ma le braccia di Sherlock erano talmente deboli da faticare persino a sollevare l’apparecchio.
“Okay, okay, come non detto…”
Vi fu una lieve bussata alla porta, nonostante l’avessero lasciata aperta, e sulla soglia comparve la longilinea figura di Mycroft, le labbra strette in quello che sembrava un sorriso malamente represso. John si affrettò a togliersi i baffi e il naso da clown, suscitando l’ilarità di Sherlock che, da parte sua, non sembrava essere minimamente interessato a togliersi gli animaletti dal capo.
“Mycroft.”
“John. Fratellino.” esordì l’uomo esitando, un ombrello nero accanto a lui. “Vedo che le cose vanno… bene.”
“Direi di sì.” rispose lui, lanciando un’occhiata al compagno, seduto dietro di lui, che ridacchiava ancora silenziosamente. “Ehm… Ti inviterei ad accomodarti ma come puoi vedere non abbiamo troppi posti-”
“Ho buone notizie.” lo interruppe il maggiore degli Holmes, guardando più il fratello che l’ex agente. “Ho incrociato il medico giusto mentre venivo qua e mi ha comunicato che le condizioni di Sherlock stanno migliorando. Sembra che sia possibile operarlo fra poco più di una settimana, il tempo di studiare le reazioni del suo organismo alla terapia. Visto tale miglioramento, potrà essere dimesso anche da domani, con l’impegno di tornare due volte a settimana per frequentare le sedute di chemio.”
Sul viso di John esplose una felicità talmente grande da poter risultare finta. Avvertiva come una paralisi facciale – le labbra aperte nel sorriso più grande che aveva mai fatto, gli occhi spalancati sprizzanti gioia, le fossette sulle guance –. Si volse verso Sherlock, una risata cristallina gli fuoriuscì dalle labbra prima di chinarsi su di lui e baciarlo ripetutamente a stampo, mentre quello chiudeva gli occhi e, a sua volta, scoppiava a ridere.
“Domani… Domai, Sherlock, ti porto via. Domani. Domani.” farfugliava sconnessamente percorrendogli tutto il viso con baci fugaci, le mani ad accarezzargli il collo.
“Ho firmato già io tutte le carte.” li informò, ancora, Mycroft, assistendo a quella scena da un angolino della camera. “Che ne dici, John, di andare a Baker Street e avvisare Mrs Hudson dell’imminente ritorno di mio fratello?”
“Io veramente…”
Ma un tocco delicato alla mano lo fece voltare nuovamente verso il compagno che gli sorrideva beato. “Vai.” sussurrò accompagnando alle parole un cenno del capo. “Resterà Mycroft. Torna direttamente domani.”
John sospirò, per niente a suo agio con l’idea di doverlo lasciare di nuovo per più di una mezzora. “Va bene, andrò al 221B. Ma stasera sarò di ritorno in tempo per darti la cena.”
“Che non mangerò.”
Alzò gli occhi al cielo e, passandogli una mano dietro il collo, poggiò la sua fronte contro quella dell’altro. “Il solito bambino.”
Prese il borsone, riempendolo di tutto quello che aveva appena tirato fuori, fatta eccezione per gli animaletti, che Sherlock sembrava apprezzare. Infine, salutò frettolosamente Mycroft e posò un bacio infinitamente lungo e caldo sulle labbra del compagno.
“Aspettami.”
“Sempre.”
E se ne andò.
 
“Perché questa farsa?” chiese flebilmente abbandonandosi contro lo schienale della sedia su cui era accomodato.
“Lo sai perché.”
“C’ho già provato in passato e non ha funzionato.”
“Forse non hai provato abbastanza. Ti rendi conto di quello che combinerai se questa cosa continuerà?”
Un conato di tosse gli troncò la risposta sul nascere e un dolore lancinante al petto lo scosse interamente. La debolezza di quella diavolo di terapia lo stringeva con le sue dita lattiginose, invadendolo dal profondo. “Non se ne andrebbe neanche se glielo chiedessi. E continuerà a farlo anche quando sarò morto.”
“Tutte le vite finiscono, tutti i cuori sono spezzati.” replicò Mycroft tendendogli entrambe le braccia in modo che vi si appoggiasse per rimettersi a letto, ma Sherlock si aiutò con lo schienale della sedia, rischiando di finire per terra se le mani del fratello non l’avessero afferrato in tempo e depositato sul materasso. “E’ sbagliato, Sherlock, e lo sai. Ti sei lasciato coinvolgere nonostante sapessi delle tue condizioni.”
“Era già troppo tardi.” Un dolore al costato gli mozzò il fiato e avvertì il respiro farsi più affaticato, così tese la mano verso la mascherina d’ossigeno e se l’assicurò al viso, prendendo profonde boccate d’aria che inondassero i suoi polmoni malati. Lo amavo già, pensò mentre chiudeva gli occhi. Lo amava già. Lo aveva sempre amato. E si sentiva un cretino per non averlo capito subito e per aver permesso che quell’amore crescesse ogni giorno di più.
“Andrai a casa con una bombola d’ossigeno. Ho pagato caro per farti tornare a Baker Street e vivere in pace finché potrai. Il mio consiglio è che, però, tu tenga da parte John. Soffrireste troppo entrambi.”
Ma a Sherlock non importava. La sua decisione l’aveva già presa da tempo. Quando John aveva accettato di accompagnarlo in quel cammino impervio o forse quando aveva parlato col vecchio Sergio. In ogni caso, aveva deciso. Spostò gli occhi verso la finestra e osservò il cielo di piombo della sua amata Londra. Avrebbe dovuto dire addio a così tante cose…
“Sherlock.” lo ridestò la voce di Mycroft. “So di non essere stato il fratello che avresti meritato… Ma sappi che ti amo profondamente e che farei di tutto per te. Di tutto.”
E lui lo sapeva. Era sempre stato a conoscenza dell’amore di Mycroft e nonostante questo lo aveva sempre attaccato per quegli stupidi strascichi di conflitti che avevano caratterizzato la loro prima infanzia e, in seguito, l’adolescenza.
“Mamma e papà?” chiese con voce roca da sotto la mascherina.
“Non sanno niente.”
“Meglio così. Non voglio che mi vedano… così.”
Vide suo fratello annuire e fissare lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe. Che cosa turbava l’imperturbabile Mycroft? Attese. E infine le parole dell’altro lo raggiunsero: “Non ti dimenticherò mai, fratellino.”
“Non sono ancora morto, Myc.”
Mycroft ridacchiò amaramente e quello che Sherlock scorse nei suoi occhi furono lacrime. Perle luccicanti. Trattenute ma pur sempre presenti. “Meglio dirsi tutto finché ne abbiamo il tempo, no? Per altro credo che questi prossimi giorni sarai piuttosto impegnato a viverli con la persona che ami, o sbaglio?”
Scosse la testa, un sorriso mesto sulle labbra. “John…” masticò osservando le macchie di umidità sul soffitto. “… ti prenderai cura di lui?”
“Naturalmente.”
“E lui si prenderà cura di te.”
“Non ho bisogno che qualcuno mi faccia da balia.”
“Sì, invece.”
Mycroft osservò il fratello chiudere gli occhi e sospirare stancamente. Probabilmente, quello che vi vide non fu altro che un’ombra, il fantasma di un vivo. Sherlock era consapevole del suo aspetto debilitato, del suo pallore, delle crosticine di sangue che gli punteggiavano qua e là il capo. Il fratello si avvicinò e, con le dita, giocherellò con gli animaletti assicurati alla sua nuca con dei pezzetti di scotch. “Che idioti.” sussurrò quello, celando un sorrisetto. “Ora riposa.”
“Che ne è… di Moriarty?”
“E’ morto.” rispose subitamente il maggiore. “Sarcoma di Kaposi. Tre settimane dopo essere stato rinchiuso. Prima di morire ci ha fornito qualche stralcio di informazione sui suoi agganci internazionali. Ha fatto anche il tuo nome.”
Sherlock annuì. Ovviamente Moriarty aveva fatto il suo nome. Lui era stato l’ossessione di quell’uomo per anni. Non si meravigliò del fatto che avesse chiesto di lui, quanto del fatto che fosse morto. Finora l’aveva sempre visto come un essere immortale, come il demone di quel dipinto dietro a cui erano occultate le prove incriminanti. Moriarty era morto. Percepì una curiosa tristezza farsi strada in lui: Moriarty era stato un capitolo importante della sua vita, per quanto negativo, ma non era felice della sua morte, no… Al contrario, sapere che anche lui fosse stato sconfitto azzerava quelle ultime, flebili speranze a cui il suo subconscio si era aggrappato strenuamente.
“Sherlock?”
Guardò il fratello la cui mano, ora, era scivolata a prendere la sua, stringendogliela con forza. Gli sembrò addirittura di scorgere una lacrima al lato dell’occhio destro.
“Ti voglio bene.”
“Lo so. L’ho sempre saputo.”
 
Fu difficile risalire tutti e diciassette i gradini che li separavano dall’appartamento. Mrs Hudson li aiutava come poteva, Mycroft li guardava dalla porta d’ingresso, appoggiato al suo ombrello nero, con occhi tristi. Quando anche l’ultimo scalino fu superato, John si lasciò andare a un sospiro di sollievo, mentre gli scoccò un’occhiata orgogliosa. La dimissione era andata per le lunghe ed era ormai il crepuscolo. Mrs Hudson aveva riordinato tutto con maestria e rapidità, rendendo l’appartamentino confortevole e familiare. Mycroft si decise a salire solo per salutare il fratello e assicurarsi che tutto fosse apposto, mentre Mrs Hudson oppose più resistenza nel lasciarli soli.
Quando la porta si fu richiusa alle spalle della donna, un confortante silenzio invase quelle quattro pareti. Sherlock, le dita strette attorno alla maniglia del carrelletto su cui era adagiata la bombola d’ossigeno, si guardò intorno serenamente, riscoprendo la bellezza di quella casa che aveva a malapena fatto in tempo ad abitare. Si chiese come sarebbe stata un vita condotta lì dentro, magari al fianco di John, con due anelli agli anulari.
Mentre osservava il suo meraviglioso violino riposto con cura nella custodia sul basso tavolino al centro del salotto, pensò che non avrebbe avuto più la forza di suonarlo e un accenno di tristezza bussò alla porta della sua coscienza. Quasi come se avesse intuito il suo stato, John gli circondò le spalle da dietro, strofinandosi contro di lui con amore, facendolo sospirare. Si volse piano, muovendosi con difficoltà con quell’aggeggio da cui dipendeva la sua vita. I suoi occhi incontrarono quelli preoccupati dell’altro. Rimasero fermi così per un po’, finché lui non si sporse, sfiorando delicatamente le labbra del biondo, assaporando il ricordo di quel sapore tanto amato. Poi un secondo bacio leggero, un terzo casto, le braccia di John si abbassarono sulla sua schiena e lo spinsero contro di sé, stringendolo in un abbraccio struggente. Chiuse gli occhi e sospirò mentre il compagno gli baciava la pelle lasciata scoperta sulla spalla dal cotone della maglietta. Percepì le gambe sul punto di cedere, così gli chiese di accompagnarlo a letto.
Si sedette su una sponda e rimase a fissare gli occhi dolci di John che era rimasto immobile di fronte a lui, vicinissimo. Mosse lo sguardo su tutto il volto dell’altro, leggendovi un misto incomprensibile di emozioni. Una volta, quegli occhi lo guardavano con passione e desiderio. E ora? Ora lui era un ammasso di ossicini e pelle cadaverica. Un corpo morto che camminava. Come poteva, John, desiderarlo in quelle condizioni? Per la prima volta, si chiese cosa ne sarebbe stato dell’uomo che amava una volta che lui fosse morto. Avrebbe trovato un’altra persona? L’avrebbe amata come non aveva potuto amare lui? L’avrebbe desiderata tanto quanto aveva desiderato lui? Ci avrebbe fatto l’amore? Si sarebbero sposati e avrebbero formato una famiglia?
Sherlock sarebbe stato solo un frammento nella testa di John. Un ricordo doloroso soffocato in un meandro della sua mente. L’avrebbe dimenticato, John. Avrebbe fatto di tutto per dimenticarlo. Era egoista se pensava che non voleva essere dimenticato? Perché se John l’avesse dimenticato, che cosa sarebbe rimasto di Sherlock Holmes, nel mondo? Nient’altro che la fama per le arti amatorie, il suo soprannome leggendario, la sua relazione con Moriarty… Chi avrebbe pensato a lui a parte Mycroft e, forse, Victor? Victor che l’avrebbe odiato per essere stato tenuto all’oscuro di tutto.
Fu in un istante di disperata incertezza che Sherlock sollevò il tessuto nero della maglietta di John, scoprendogli il ventre, per depositarvi un bacio casto, senza pretese. Poi, mentre le sue mani s’insinuavano sotto la stoffa, accarezzando la pelle abbronzata dal sole italiano, rialzò lo sguardo sull’altro, le labbra schiuse che tremavano nel formulare la fatidica domanda: “Mi scoperesti così? Ora?”
John non sembrò colpito dal quesito. Lo osservò senza battere ciglio per diversi secondi, ma il suo sguardo, lentamente, prese a sciogliersi, rivelando qualcosa di paragonabile alla passione… nonostante di passione non si trattasse completamente. Sherlock ne aveva visto di desiderio nella sua vita al Morningstar… ma mai aveva scorto una cosa del genere. S’interrogò sull’origine di quell’emozione che scavava con sofferenza nel volto dell’altro.
“Io ti scoperei sempre, Sherlock. Sempre.” John si piegò su di lui e lo baciò con estrema lentezza, accarezzandogli le labbra con la lingua. Sherlock aprì con un sospiro la bocca, permettendogli di entrare e possederlo. Si sfilarono la maglietta senza la frenetica e divorante fretta che coglie regolarmente due amanti. John continuò a baciarlo con passionale interesse, dedicando a ogni centimetro della sua pelle d’attenzione, mentre lui esalava tremanti respiri di piacere e paura. Si distesero sul letto, uno sopra l’altro, il biondo che lo osservava con pietoso affetto impigliatosi nel filo della bombola d’ossigeno. Lo aiutò a liberarsi, prima di riprendere a baciarlo con calma, riservandogli amorevoli carezze.
“In un’altra vita… potremo stare insieme.” biasciò all’improvviso Sherlock, inclinando la testa per assecondare i baci sul collo dell’altro. “In un’altra vita… potremo fare l’amore.”
“Non vedo l’ora.” mormorò John in un sorriso prima di distendersi al suo fianco e avvicinarlo a sé, stringendolo contro il proprio petto. “Sherlock?”
“Mm?”
“Non morire.”
Ma a quelle parole, Sherlock non trovò mai il coraggio di rispondere.
 
Percorse il corridoio di corsa, guardandosi intorno con gli occhi folli di paura. La stanza a destra? Vuota. Quella a sinistra? Due vecchiette. La seconda a sinistra? Una ragazza. La terza a destra? Visita medica in corso. Arrivò in fondo, alla fine del reparto, e, finalmente, lo vide: era disteso sul letto d’ospedale, la mascherina a velargli la bocca e la mano di Mrs Hudson a stringere la sua.
“Vi ho trovati.” sospirò di sollievo irrompendo nella cameretta e sorridendo nello scorgere gli occhi di Sherlock illuminarsi un poco alla sua vista. Si chinò istintivamente per baciarlo, ma dovette ovviamente rivalutare i suoi intenti a causa della mascherina. “Scusa, non posso baciarti. Hai quella cosa sulla bocca.”
Sherlock rise debolmente. Mrs Hudson gli aveva raccontato tutto per telefono: stavano cucinando insieme i biscotti al cioccolato, i preferiti di John, prima che Sherlock crollasse al suolo senza emettere il minimo lamento. Nuovo arresto respiratorio. John stava facendo la spesa in quel momento e aveva ricevuto la chiamata solo dopo che Sherlock era stato portato in ospedale. Il traffico aveva fatto il resto. Non c’era stato bisogno di operarlo, si sarebbe rivelato inutile a detta del primario che l’aveva visitato e così si era limitato a somministrargli un antidolorifico per i dolori toracici.
John cercò di velare il proprio nervosismo e la propria preoccupazione, ma Sherlock dovette rendersene conto, perché allungò la mano libera da quella della signora Hudson per stringere la sua. Si sorrisero dolcemente.
“Beh, John, visto che sei arrivato credo che… che me ne andrò a casa a prendergli qualche pigiama pulito per i prossimi giorni.” esordì Mrs Hudson levandosi in piedi e asciugandosi due lacrime che le rigavano le guance. “Vi lascio soli per… Insomma… Io vado.”
Era così straziante scorgere quella vecchietta tanto gentile e cara soffrire in quel modo per un uomo che di certo vedeva un po’ come un figlio. Mrs Hudson lasciò la stanza, ma una volta in corridoio, il suo singhiozzo fu udibile anche a loro.
Sherlock si sfilò la mascherina, nonostante le sue proteste, e chiese di mettergli quella nasale. “Pensano tutti che sia già morto.” sussurrò il moro chiudendo gli occhi. “Anche Mycroft.”
“Lasciali col loro dolore. E’ qualcosa che non si può controllare.”
“E tu, allora?”
A quella domanda, John non rispose non tanto perché timoroso di quello che sarebbe potuto uscire dalle sue labbra, quanto perché non aveva la minima idea di cosa dire. Lui controllava il dolore? Probabilmente aveva semplicemente imparato a conviverci. Lo sentiva ogni secondo lì, a grattargli sullo sterno, a sibilargli nelle orecchie, a lacerargli il cuore. Il dolore c’era e regnava incontrollato, ma John si era arreso al dolore. Si era arreso alla consapevolezza che prima o poi Sherlock sarebbe morto. Si era arreso come Sherlock gli aveva detto di fare quel giorno, in Italia… Aveva accettato tutto quello, si era rassegnato. Ecco come andava avanti.
“John.” La voce affaticata di Sherlock lo distolsero dai suoi pensieri. “Buon compleanno.”
Un sorriso spontaneo gli si affacciò alle labbra. “Come facevi a saperlo?”
“Io so sempre tutto.”
In quel momento, comprese tante cose – i suoi biscotti preferiti, il sorriso che Sherlock gli aveva riservato appena sveglio, il pacchetto rosso fiammante sul comodino bianco accanto al lettino… Gli occhi spenti dell’altro, infatti, corsero alla piccola confezione in un muto invito a prenderla.
Allungò la mano e prese la busta con cura, rigirandosela in mano e scoccando occhiate curiose in direzione dell’altro. Le parole erano come ghiacciate poco sotto l’epiglottide e si ostinavano a rimanere lì, immobili ed inesprimibili. Scartò il regalo con lentezza, senza degnarlo neanche di uno sguardo. Tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi erano gli occhi acquamarina di Sherlock, così distanti, così irraggiungibili.
Quando anche l’ultimo frammento di carta rossa fu scivolato sul pavimento, osservò ciò che stringeva in mano. Era una sottospecie di quadernino rilegato… Anzi no, non un quadernino, decisamente non un quadernino.
“Un album?”
“Aprilo.” sospirò il moro quasi afono.
La prima pagina rivelava l’immagine di una camera d’albergo. La loro camera d’albergo, quella a Manarola, e sul letto che era stato inquadrato era distesa una figura. Era lui che dormiva. Nemmeno s’era reso conto che Sherlock gliel’avesse scattata. Continuò a scorrere gli occhi sulle pagine e sulle fotografie con un’insolita sensazione al petto: in quasi tutte, c’era lui, impegnato in un’attività banale come buttare un biglietto del cinema nel bidone della spazzatura, ordinare da bere al bar dell’hotel, guardare fuori dalla finestra… Sfogliò l’album con lentezza snervante, ripercorrendo ogni singolo istante. Grazie al suo lavoro d’agente, disponeva di una memoria allenata, che gli permetteva di ricordare anche i dettagli più piccoli. Per ogni immagine, ricordava che cosa stesse facendo Sherlock prima di mettere mano a quella macchina fotografica, dove sedeva, con chi parlava, cosa aveva appena detto… Tutto era limpido nella sua memoria. E più andava avanti, più voltare le pagine gli risultava difficile, come se un macigno gli stesse opprimendo la mano. Infine, nell’ultima pagina, non vi era una fotografia, bensì un disegno. Lo studiò con interesse, percorrendo con gli occhi quelle linee precise ed estremamente chiare. Un disegno perfetto.
“Ci credi se ti dico che Mrs Hudson ha tutte le potenzialità per diventare famosa come Van Gogh o Picasso?”
“L’ha fatto lei?”
“Gliel’ho descritta io, ma la mano artistica l’ha messa lei. Il mio era davvero inguardabile.” Ridacchiò, Sherlock, ma un colpo di tosse lo scosse, procurandogli un’espressione sofferente che solo a guardarla procurò in John una scarica di dolore. “E’…” riprese il moro quando la crisi fu passata. “… è l’ultima fotografia che sono riuscito a scattare. L’avevo in mano quando ho perso i sensi sulla spiaggia e… beh, inutile dire che è andata perduta. Ad ogni modo, quella lì è Rosie… quello, ovviamente, sei tu… e quello è Artù.”
Il biondo contemplò il disegno a lungo e si ripeté quelle parole in testa, percependo un dolore sordo all’altezza del petto. L’ultima fotografia di Sherlock. Chissà dove viaggiava, ora… Su quale corrente marina, su quale alito di vento, nelle tasche di quale sconosciuto, nel ventre metallico di quale camion dei rifiuti? L’ultimo capolavoro di Sherlock, perduto.
“Beh… Hai anche lasciato una pagina vuota. Potrei metterci le foto che ti ho fatto io.”
“Ti ricorderebbero troppo di me.”
John strabuzzò gli occhi, confuso. “Perché non dovrei?”
“Vuoi davvero ricordarmi, John?”
Si aprì in un sorriso e distolse lo sguardo, appoggiando l’album di nuovo sul comodino. Cercò le parole adatte, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. “La prima sera in cui ci siamo conosciuti indossavi una camicia porpora e quando mi hai portato in camera tua, la stanza era in condizioni improponibili. Quando ti ho visto davvero quella notte, tenevi in mano il reggiseno dal colore improponibile di una tua cliente che chiamavi semplicemente la donna in rosa. Sempre quella sera hai dedotto il mio passato militare semplicemente guardandomi, hai cercato di avvicinarmi prendendomi la pistola per giocare a detective e criminale con chissà quale modalità erotica e mi hai invitato a venire a letto con te paragonando la spiacevole serata di Cenerentola con quella che avrei potuto avere io assieme a te. E, ancora, quella medesima sera prima di lasciarci mi hai sbattuto contro il muro, facendomi eccitare non poco, e mi hai detto di chiedere di te la prossima volta che mi sarei presentato al locale.”
Sherlock aveva gli occhi appena ingranditi dallo stupore. “Come fai a ricordare così tanti dettagli?”
Sorrise. “Io ricordo tutto di noi, Sherlock. Ogni singolo istante, ogni brivido, ogni emozione… Non voglio dimenticarti, Sherlock, perché un’esistenza senza di te sarebbe vuota. Ti porterò sempre con me, ovunque andrò…”
Si avvicinò a lui e gli baciò la mano, stringendo gli occhi fattisi brucianti di dolore. Non piangeva da quella notte in hotel… E ora sentiva ogni sua difesa essere sul punto di crollare. Osservò lo sguardo vacuo di Sherlock mentre gli accarezzava il dorso della mano, alternando alle carezze piccoli baci.
“Sherlock-”
“Stavolta, prima che mi rianimassero, prima che tornassi in questo mondo… per un attimo ho semplicemente sentito di non essere più qui. Ed era così facile… mi sentivo così libero e leggero, John.” John si sforzò di sorridere, ma i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime nel guardare il viso pallido dell’altro e udire la sua voce affaticata e flebile, proveniente da un altro regno, un’altra epoca. “Ti va bene sentire queste cose?”
Annuì automaticamente, deglutendo un singhiozzo che minacciava di esplodergli in gola al più presto. Attese che quel senso di desolazione e di lontananza volasse via, come una cappa di polvere che viene portata via da un soffio, ma il sorriso distante che increspava le labbra di Sherlock lo fece scoppiare.
“No.” rispose alla fine in un singulto. “No, non sono ancora pronto a lasciarti andare.”
“Ma noi ci siamo già detti addio. Vero?” mormorò di rimando Sherlock alzando con immane sforzo una mano per asciugare le lacrime che bagnavano il suo volto e lui non si scansò, lasciò che quelle dita afferrassero il dolore e lo facessero scivolare via, lontano. Chiuse gli occhi e, per un attimo, gli parve di star bene, di aver riacquistato il controllo e la calma.
Si alzò dalla sedia e si sistemò sul lettino accanto a lui, prendendogli il viso tra le mani e accostando le loro fronti. “Non te ne andrai da nessuna parte senza me al tuo fianco. Questo è l’accordo.”
Sherlock annuì debolmente, prima di far scivolare la propria fronte contro la sua, lasciando che le loro labbra si incontrassero per quella che avrebbe potuto essere la loro ultima volta.
 
La chiesa era avvolta dalla penombra, a malapena rischiarata dalle candele che malati o cari di malati avevano acceso per ricevere una grazia. Non era mai stato un tipo religioso. Non aveva mai creduto in Dio. Era stato battezzato e aveva fatto la prima comunione come tutti i bambini, ma la fede… quella non l’aveva mai avuta. Rispettava e, da un lato, ammirava la forza di quella gente, la loro strenua ricerca del bene.
Sedeva su una panca discosta dalle altre – non che facesse molta differenza visto che la cappellina era vuota – di fronte ad un crocefisso. Osservò il volto del Cristo sofferente, osservò le sue ferite, osservò i suoi rivoli di sangue, osservò la corona di spine che gli fasciava il capo. Sovrappose a quel viso quello di Sherlock. Del suo Sherlock. Sulla sua pelle portava le cicatrici di così tante sofferenze, di così tante ingiustizie… Dov’era Dio? Se lo chiedevano in tanti, quando scoppiava una guerra, quando morivano bambini innocenti, quando il mondo era devastato dall’odio e dalla miseria… E se lo chiese pure lui, lì, davanti alla croce. Dov’era Dio?
Congiunse le mani come ricordava che le catechiste gli avevano detto di fare per pregare e chiuse gli occhi nel ricercare una maggiore concentrazione, una possibile connessione con un’entità ultraterrena, ma proprio mentre stava per parlare, scoppio a ridere, sprezzante di se stesso. Si era perfino ridotto a cercare sollievo in Dio. Il prossimo passo sarebbe stata la droga, probabilmente. Quella, almeno, era certo che avrebbe funzionato.
Fece per alzarsi e tornare in camera, dove aveva lasciato i due fratelli Holmes parlare, ma qualcosa lo costrinse a rimanere fermo, le mani premute contro la panca, il sedere scivolato verso il bordo, l’immobilità a coglierlo sul gesto di levarsi in piedi… Si riaccomodò, muovendo agitatamente le gambe e i pollici delle mani in un’infinita battaglia che non avrebbe mai visto un vincitore e uno sconfitto.
“Dunque…” disse prima di schiarirsi la gola con della tosse finta. “… Non è esattamente il genere di cose che faccio io, però…”
Non riusciva a parlare. I suoi occhi non trovavano pace su di un punto fisso, così si decise ad ancorarli al volto del Cristo.
“Io lo so cosa vuol dire soffrire. Ho letto i Vangeli, sai? E so perfettamente le poche persone che sono rimaste ai piedi della croce a sostenerti nel tuo lungo viaggio…” Un tremore alla voce lo colse impreparato. “Avevi poche persone… E anche lui ne ha poche… Lui ha me e pochi altri. Lui ha sofferto tanto… così tanto… Lui non merita di morire, capisci? E allora perché me lo vuoi portare via, eh? Perché si prostituiva? Perché peccava? Non eri tu quello che diceva chi è senza peccato scagli la prima pietra? E allora perché Sherlock? Perché lui fra tanti?”
Era l’ennesima volta che si poneva quella domanda, ma udirla pronunciata con la propria rabbia e delusione segnò un confine netto con la sua coscienza. Perché Sherlock fra tanti, ma perché chiunque altro fra tanti? Sempre la solita storia, sempre il solito circolo vizioso. E allora qual era il punto nell’essere lì? In cuor suo lo sapeva. E fu con questa consapevolezza che si spinse a continuare.
“Io sto male… Malissimo. Io sto cercando di convincermi che andrà tutto bene, che alla fine arriverà in un posto migliore, ma non ci riesco! Io sarò qui mentre lui è chissà dove, magari mi starà cercando, chiamando, ma io non ci sarò. E non posso tollerare questa idea… Non voglio lasciarlo solo… Perciò te lo affido. Lo proteggeresti per me? Lo terresti al sicuro?”
E forse erano folli le sue parole. Forse stava semplicemente impazzendo per il dolore. Percepì un’ondata di angoscia impregnargli il cuore e l’anima. Dove lo stavano portando i sentimenti? Stava delirando di fronte a un crocifisso, con lacrime invisibili che gli scorrevano sulle guance e la consapevolezza che presto sarebbe tutto finito. Da un lato, il sollievo. Ed era meschino provare sollievo in vista della morte di Sherlock? Forse. Aveva visto la persona più importante per lui sgretolarsi pezzo… dopo pezzo… E si era sgretolato con essa. Aveva visto gli occhi vivaci di Sherlock spegnersi, il suo incarnato candido assumere toni cadaverici, i suoi capelli corvini, spumosi e soffici, crollare sul pavimento, dove sarebbero stati spazzati da un’inserviente qualunque e buttati nella pattumiera.
“Un miracolo, Dio.” implorò chinando il capo, la testa che sembrava voler entrare nel suo petto per mordere quel cuore sanguinante e sputarlo su quel pavimento sacro, dove un prete febbricitante nella sua fede cieca si sarebbe chinato per raccogliere quell’ammasso informe che un tempo aveva battuto con dolorosa nitidezza, facendone, magari, la reliquia di un santo che invece di preghiere in vita aveva pronunciato velate bestemmie. “Un ultimo miracolo.”
Si fermò, incerto. Tentennò, la sua mente debilitata dalla mancanza di sonno e dallo sgomento elaborò diversi pensieri. Non portarmelo via… Prendi me… Dagli una seconda possibilità… Dammi la forza per superare tutto questo… Accoglilo con te… Custodiscilo finché non sarà giunto il mio turno…
“Un ultimo miracolo.” ripeté in un sospiro. “Dammi la forza di amarlo ora e per sempre.”
Seguì solo il silenzio le sue parole. L’odore delle pareti marmoree olezzava intorno a lui, assieme al baluginio polveroso della luce che filtrava dalle vetrate variopinte. Si diede dello stupido, si disse che aveva solo sprecato il suo tempo, maledisse chiunque vi fosse, se vi era, per averli privati di quella felicità che entrambi ambivano col cuore e con l’anima. Si alzò e, quasi più per sfida, si avvicinò a quelle candele che erano state accese in preghiera e che il sibilo freddo dell’aria all’aprirsi e chiudersi delle porte della chiesa aveva spento. Ne prese una nuova e la sistemò assieme alle altre, la scatola dei fiammiferi in mano. Il cerino era umido e dovette fare diversi tentativi prima che s’accendesse. Ora, una timida fiammella danzava sullo stoppino nero, ipnotizzando il suo sguardo. Forse, dentro di sé mormorò un ultimo ti prego, ma improvvisamente una folata di vento invase l’ambiente e la sua debole speranza si spense assieme a quella candela.
“John.” La voce di Mike Stanford, il medico che si occupava di Sherlock, nonché suo caro amico, inondò la chiesa, riempiendo il silenzio lasciato dall’assenza di quel debolissimo crepitio, appena percettibile. “Mi hanno detto che eri qui. Devi venire subito.”
Gli rivolse un’occhiata stanca e posata, fingendo una calma che in realtà non aveva. “E’ ora?”
Il dottore si limitò ad annuire. John, allora, lanciò uno sfuggente sguardo alla sua candela spenta, quella più discosta dalle altre, quella che avrebbe riconosciuto anche tra un milione di candele uguali perché sulla cera portava il suo cuore liquefatto, che era scivolato via al cospetto della fiamma del dolore. Infine, seguì Mike fuori dall’ambiente. Non seppe cosa o perché indugiò sulla soglia, fermandosi, né perché si volse un’ultima volta, gli occhi puntati sulle candele. Erano tutte spente. Ad eccezione di una. Quella solitaria che se ne stava in disparte a bruciare, la fiamma forte e spavalda. Quella che s’era smorzata poco prima. Se vi fu stupore sul suo viso, John non l’avrebbe mai saputo. Era troppo perso a guardare il volto del Cristo e ad accennare un affaticato sorriso di ringraziamento. Ora ne era certo. Ora era pronto. Perché Sherlock non sarebbe stato solo.
 
Entrò. Già dal corridoio, aveva udito i respiri affannosi dell’altro. Lo guardò steso sul solito lettino, circondato dai soliti oggetti, piegato dalla solita malattia. Ma nonostante questo, era tutto nuovo. Quella camera portava con sé l’odore della morte. Non quello putrido degli obitori, no… Quello della mancanza, dell’abbandono, della separazione.
Sherlock aveva aperto gli occhi non appena aveva varcato la soglia. Erano pietruzze, quelle belle iridi un tempo luminose, accese da una vita che ora gli stava sfuggendo di mano. “John.” E vi fu fatica e sangue nel modo in cui pronunciò il suo nome, John lo riconobbe. Era una voce proveniente già da un altro posto, un posto nuovo, uno in cui Sherlock non avrebbe più sofferto, in cui si sarebbe sentito libero e leggero, com’era accaduto prima che lo rianimassero.
“Ehi, splendore.” gli sussurrò teneramente, avvicinandoglisi. L’altro tradì un sorrisetto a metà tra il compiaciuto e l’ironico, ma la debolezza gli impedì di ribattere a quelle parole così vere che lui aveva pronunciato con così tanta spontaneità.
Fece per sedersi sulla sedia, ma la mano di Sherlock prese la sua e lo tirò fiaccamente verso il lettino. “No… Stenditi accanto a me.”
E lui obbedì. Si sdraiò nello stretto spazio lasciato dal corpo ormai pesante dell’altro, sollevandogli appena la nuca per farglici passare sotto il braccio e racchiuderlo in una dolce stretta. Il loro ultimo abbraccio. Il loro ultimo giorno. Con la mano libera, prese ad accarezzargli la fronte corrugata dallo sforzo di catturare aria da incanalare nei suoi polmoni destinati al macello. Rimasero in silenzio per un po’, finché Sherlock non sospirò un poco.
“Non voglio avere segreti.” sentenziò a fatica. “Perciò… Eccone uno: sono gay. Andare a letto con le donne… mi ha sempre disgustato. Non sono… decisamente il mio campo.”
“Se le donne non sono il tuo campo, allora io direi che invece per me lo sono eccome.”
“Credo che tu debba seriamente consultare un oculista, John... se pensi di aver avuto una relazione con una donna.”
“Una donna di nome Sherlock?”
“Potresti chiamarci una tua futura figlia.”
“Non avrò una figlia o un figlio… Non avrò nessuno.”
Sherlock arricciò appena le labbra, le palpebre chiuse suoi occhi stanchi. “Il tuo segreto, dunque?”
“Le donne sono il mio campo, ma lo sono decisamente anche gli uomini.” confessò con un mezzo risolino.
“Da piccolo il buio mi faceva così tanta paura… che facevo spesso la pipì a letto.”
“Quando avevo sette anni ho tagliato un’intera ciocca di capelli a mia sorella mentre dormiva. Aveva rotto il mio giocattolo preferito.”
“Ho sempre avuto un debole per le torte. Tutto il resto è semplicemente sussistenza… Ma le torte sono la mia passione.”
“All’esame scritto di chimica ho preso trenta e lode copiando dal primo della classe.”
“Ho fatto esplodere un laboratorio durante un esperimento, al college.”
“Il mio primo bacio l’ho dato al mio insegnante di Biologia all’università.”
“Io e Victor siamo stati insieme per tre settimane quando avevamo sedici anni.”
“Sono pronto.”
Sherlock inarcò un sopracciglio a quelle parole e, finalmente, riaprì gli occhi puntandoli sul suo viso, così vicino. “Pronto?”
“A lasciarti andare.”
Un debole sorriso illuminò il volto pallido del moro, conferendogli quasi l’aspetto di una volta – solo un fantasma, però, di ciò ch’era stato. “Che cos’è cambiato?”
Gli sorrise e gli baciò dolcemente la punta del naso, sbuffando un respiro tremante. “Ora so che non finirà mai quello che abbiamo.”
“Oltre la morte?”
“Oltre tutto, Sherlock. Vinceremo sempre perché siamo destinati a vincere sempre. Insieme. Ti seguirei in capo al mondo, ti troverei fra tutte i miliardi di individui che popolano questo pianeta. La morte è solo l’ennesima porta da varcare.” La voce gli tremolò appena, scossa dall’importanza di tutto quello. “Vorrei solo aver avuto più tempo… Solo un po’ più di tempo…”
“John.” La voce di Sherlock gli giunse cristallina nella sua cupezza. La trovò bellissima. La trovò disarmante. Quante volte l’aveva colto in fallo quella voce… “Andrai avanti.” Scosse la testa, ma la mano dell’altro raggiunse la sua, ancora intenta ad accarezzare quella fronte ormai quasi sgombera di ogni preoccupazione terrena. “Sì, invece. Andrai avanti con la tua vita e troverai qualcuno che ti amerà, qualcuno che ti saprà stare accanto come io non ho potuto fare. Vivrai ricordandomi, ma avrai qualcun altro da raggiungere una volta varcata la soglia.”
“Non posso andare avanti, non potrò mai.”
“Ci riuscirai.”
“No, Sherlock, io… Io non posso. Ci sei tu. Ci sei sempre stato solo tu. E non cambierà ora soltanto perché saremo costretti a lasciarci.”
“Verrà qualcun altro, John. Qualcuno che ti renderà felice.”
“Non posso essere felice con qualcuno che non sia tu.”
“Perché?”
“Perché io…” Non si rese conto di una lacrima che era scivolata giù sulla sua guancia. Avvertì solo, in seguito, una striscia umida, sulla pelle, la cicatrice di quell’ultima lacrima che si sarebbe permesso di versare di fronte a Sherlock. “Sherlock, io…” Non riusciva a buttare fuori quelle parole, a schiudere quella stanza ormai già spalancata per metà. La porta che conduceva al suo cuore era aperta, gli occhi di Sherlock avevano potuto infilarsi a esaminare qua e là l’ambiente, ma vi era ancora il catenaccio a serrarla. Doveva trovare la forza di aprire quel lucchetto. E pensò alla sua candela, lì, accesa tra tante altre, a quel silenzio tombale, a quel vuoto, e capì che non gli era rimasto molto. Aveva indugiato troppo a lungo. Aveva frenato ogni suo istinto, ogni suo sentimento, ogni sua paura… E aveva sprecato tempo. Così tanto tempo… Il tempo di cui avrebbe avuto bisogno era volato a sua insaputa mentre lui tentennava e procrastinava il momento della verità. Basta, si disse. La candela bruciava ancora. La preghiera aleggiava fra le spoglie pareti dell’Universo: permettimi di amarlo, ora e per sempre. E amalo anche tu, ora e per sempre. E, finalmente, lo avrebbe fatto. “Perché io ti amo, Sherlock.”
Sherlock rimase a guardarlo, le labbra schiuse in un’espressione sorpresa. Come poteva non averlo capito? Come poteva non aver intuito i suoi sentimenti? E se lui era uno sciocco, Sherlock era di certo un ottuso. Che razza di coppia avevano formato!?
Sospirò, e di nuovo il tremore fu incontrollabile. Il sospiro di un amore le cui ali erano state tarpate ancor prima di poter saggiare il primo volo. Un volo che avrebbe potuto condurli lontano, lontano… sulla cresta di onde spumose e brezze primaverili. Avrebbero, insieme, oltrepassato le Colonne d’Ercole con tutti i confini che l’umanità passata e presente aveva posto… Si sarebbero tenuti per mano e avrebbero osservato dall’alto quel mondo efferato, scoperchiando gentilmente i tetti e contemplando le stranezze che accadevano, le coincidenze bizzarre, i piani elaborati, il meraviglioso concatenarsi degli eventi nell’arco delle generazioni e i risultati quanto mai eccentrici che ne derivavano… * Dov’era quel volo a loro precluso? Sarebbe morto con Sherlock? O le sue ali gli avrebbero concesso di innalzarsi verso il cielo e, chiudendo gli occhi, percepire la presenza del suo amato accanto a sé?
“Oh, John… Te l’avevo detto di non innamorarti di me. Non sei quello che si dice un uomo di paro-
Le parole del moro vennero troncate da un attacco di tosse e mentre quel corpicino sussultava, sussultò anche quello di John. John che avvertì tutto il proprio amore dilagare, inondare i campi, distruggendo i raccolti. La forza di quel sentimento colse impreparato persino lui. Si sollevò di scatto, timoroso di pesare sull’altro, ma quello fu lesto nel riacciuffare la sua mano e ritirarlo accanto a sé, stavolta più vicino, rannicchiato contro il suo petto, la crisi terminata. Allora, John prese a baciargli dolcemente la nuca rasata, chiudendo gli occhi e immaginando di posare le labbra tra i ricci morbidi di un tempo.
“Amore… Amore mio… Mio amore…”
Parole appena sussurrate, a malapena, forse, udite, ma percepiva il corpo del moro rabbrividire ad ogni piccolissimo tocco. Era questo l’amore? Un continuo brivido che ti percorre la schiena quando meno te l’aspetti, nonostante il calore, la sicurezza, la pace, la serenità? Era più simile ad un brivido di freddo o a quello di paura? Cos’era, l’amore? Ma la risposta, giaceva tra le sua braccia, accoccolata contro di lui come un bambino impaurito.
“John?”
“Sì, amore?” rispose con voce caricata di dolcezza, perché ora poteva. Ora poteva permettersi di lasciar fluire quell’amore. Non gli importava di quella morte così incombente: quello che c’era fra loro sarebbe rimasto intonso, per sempre e per sempre ancora.
“Mi racconteresti… la nostra altra vita? Quella in cui potremo stare insieme e… e fare l’amore ed essere felici?”
Di fronte a quella fragile richiesta, sentì il proprio cuore sciogliersi e affogare nell’emozione. La loro altra vita… Quella che Sherlock aveva menzionato la notte in cui lui si era finalmente sfogato, in cui era scoppiato in lacrime, in cui tutto era stato sovvertito… La loro altra vita. Quella giusta. Quella a loro favorevole. Quella eterna. “Abitiamo a Baker Street.” cominciò, dunque, accarezzandogli la guancia. “E siamo felici. Molto felici. Facciamo l’amore almeno quattro volte al giorno, spesso svegliando Mrs Hudson.” A quelle parole, Sherlock ridacchiò pacatamente, strusciando il proprio viso contro il suo petto. “Tu aiuti Scotland Yard quando brancola nel buio, ovvero sempre, e riesci sempre a trovare la verità. Sei bello e intelligente e il mondo ti adora. Io ti seguo nei casi e ti copro le spalle, mi assicuro che tu non finisca ammazzato o che abbia abbastanza energie per correre da una parte all’altra di Londra. Quando la tua fama cresce, apriamo in contemporanea due blog – uno mio, in cui tengo un breve resoconto appena romanzato dei tuoi casi più belli e uno tuo, dove annoti alcuni dei tuoi studi strampalati di cui il mondo sentiva un gran bisogno…”
Sherlock tirò fuori la lingua, in una smorfia infantile, ma infine indirizzò lo sguardo sul soffitto, apparentemente perso tra i suoi pensieri. “Scienza della Deduzione.”
“Cosa?”
“Il mio blog. Si chiamerà Scienza della Deduzione.”
“Infatti tutti i clienti che arrivano, hanno visitato il mio blog anziché il tuo dal nome ridicolo.” ironizzò, guadagnandosi un’occhiata infastidita dall’altro. “Siamo felici – l’ho già detto? E… beh, ci amiamo, così decidiamo di sposarci. E’ una cerimonia intima, per poche persone fidate, bellissima e… indimenticabile. Il giorno dopo ci svegliamo prestissimo e partiamo per la nostra luna di miele.”
“In Italia.” puntualizzò il moro scoccandogli uno sguardo allusivo.
“In Italia mi sembra perfetto. Tra l’altro, hai sempre con te quella dannata macchina fotografica con cui mi tormenti ogni due minuti dicendo che ti annoi.”
“Facciamo sesso?”
“Tanto.” ridacchiò. “Davvero tanto, amore mio, ed è bellissimo… Gli anni passano e nella nostra vita entra qualcuno di importante, di molto importante.”
“Un cane?”
“Tu hai sempre voluto un cane ma Mrs Hudson si è sempre rifiutata di vederne girare uno per casa.”
“Un gatto, allora?”
“Direi di no…”
“E allora chi, John?”
“Un bambino.”
Gli occhi di Sherlock si spalancarono appena e lo fissarono con incredulità per diversi attimi. “Un bambino? Ma io… io non lo so fare il padre.”
“E invece sei il papà migliore del mondo. Siamo andati in un orfanotrofio, giù in Sussex, e abbiamo conosciuto un bambino splendido, di cui tu ti sei immediatamente innamorato. Viene dall’Africa ed è già grande, ha dieci anni e nessuno si è dimostrato interessato ad adottarlo. E’ emarginato, da un lato forse anche debole. E tu te ne innamori pazzamente. Ci vogliono due anni per concludere l’adozione. Due lunghi anni in cui il piccoletto non ha fatto altro che guardarti con occhi pieni di speranza e di amore. Sei stato tu il primo ad essere chiamato papà.”
“Qual è il suo nome?”
“Samir.”
Sherlock pronunciò quel nome un paio di volte, quasi a volerne saggiare il sapore, infine il barlume di un sorriso gl’increspò le labbra. “Mi piace.”
Sorrise di rimando, sollevato. “E’ nostro figlio, Sherlock. Ormai è il nostro bambino, nonostante non sia così bambino… Lo cresciamo con quanto amore possiamo, ma l’adolescenza arriva anche per lui ed è traumatizzante: si trova a dover fare i conti con le sue origini, il suo futuro incerto, la scuola, la pubertà… E’ spaurito, il nostro Samir. Con me si è ormai chiuso quasi del tutto, mentre a te non rivolge che poche sprezzanti parole. A diciotto anni, nel giorno della festa del papà, ci fa trovare il tavolino della colazione imbastito di dolci e un biglietto: vi voglio bene. Non lo rivediamo più. Ha preso le sue cose e se n’è andato. Scotland Yard c’informa che ha preso l’aereo più economico da Stansted fino a Tunisi. E’ ritornato nel suo Paese d’origine. Dopo quattro anni, riceviamo una sua lettera: si è sposato e ha tre figlie meravigliose che un giorno ci farà conoscere, ma quel giorno non arriva mai. Continuiamo ad amarlo attraverso quel pezzo di carta con la sua calligrafia confusa e i suoi errori d’ortografia. Continuiamo ad amarci per il resto della nostra vita, litigando, riappacificandoci, facendo l’amore per poi litigare di nuovo. E’ un amore umano, il nostro. Non ha niente a che vedere con film o libri o altre stronzate. E’ un amore faticoso, più volte pensiamo di mollare tutto. A sessant’anni, però, siamo ancora insieme, in un cottage a Littlewick Green, e ci amiamo ancora. Abbiamo dovuto abbandonare Baker Street perché le mie gambe non reggono più e… cedono. Sono debole, Sherlock. E sto per morire.”
“Io non ti lascerei mai morire.”
“Certe cose non si possono controllare.” ribatté sapendo troppo bene quanto fosse vero ciò che le sue labbra avevano appena proferito. “Comunque, una mattina decidiamo semplicemente di inviare a Samir una busta con tutte le nostre foto preferite, quelle dell’Italia e anche quelle più recenti. Vai tu ad imbucarla nella cassetta delle lettere vicino casa. Poi torni e apri il gas, come per fare un caffè. Ti stendi vicino a me e io ti abbraccio come ti sto abbracciando ora. Ce ne andiamo insieme, felici, con la nostra vita alle spalle.”
Tacque e studiò la reazione nel volto di Sherlock. Era stato così naturale raccontare quella storia. Se l’era figurata, prima d’allora, in testa? Il suo subconscio, di certo, aveva accarezzato certe prospettive più e più volte. Sherlock si strinse ancora di più tra le sue braccia e così riprese a sfiorargli la pelle con le labbra. Un attacco di tosse scosse il corpo dell’altro la cui mano andò a ghermire il fazzoletto di stoffa pulito e a portarselo alla bocca. Dopo breve, del bianco non vi fu che qualche macchia tra il rosso del sangue.
“Sherlock-” La sua voce gli giunse angosciata, densa di dolore represso con difficoltà.
“John… Promettimi che continuerai a vivere anche per me…” sussurrò il moro con tono talmente basso da risultare quasi afono e appena vide una scintilla d’incertezza nei suoi occhi, strinse la propria mano sulla sua. “Promettimelo.”
“Te lo prometto.”
Sherlock sospirò, soddisfatto, e si raggomitolò ancora di più contro di lui, un sorriso beato sulle labbra. “John?”
“Mm?”
“Chi l’ha chiesto?”
“Che cosa, amore?”
“Di sposarci. Chi ha fatto la proposta?”
John si scansò appena, per poterlo guardare in volto. “Tu, ovviamente. Io credevo… che tu non volessi impegnarti così seriamente, per questo non ho mai trovato il coraggio per farlo… E quando ti sei inginocchiato, con l’anello, mi sono sentito morire di felicità.”
“Mi sono inginocchiato? Sul serio?”
“Sì… Plateale in questa vita e anche nell’altra.”
Sherlock sbuffò una mezza risata, prima di tossicchiare appena. Alzò lo sguardo su di lui e i loro sguardi s’incatenarono irreparabilmente. “Te l’ho chiesto io…” ripeté il moro prima di accostare le proprie labbra alle sue, scoccandovi un delicatissimo bacio.
“Sì.”
“E tu hai accettato.”
“Sì.”
“Avresti accettato anche in questa vita – nonostante tutto?”
“I miei sì non sarebbero bastati per equiparare la gioia nel sentirti dire quelle parole…”
Sherlock si concesse, dunque, un nuovo sorriso e gli depositò un nuovo bacio a fior di labbra. “Amore mio…” sospirò poi sul suo viso, gli occhi chiusi, il naso a sfiorare il suo. “Devo chiederti… una cosa.”
“Qualunque cosa, Sherlock.”
“Bene, allora… John Watson, saresti disposto a giurarmi amore e fedeltà eterni, ad accogliere l’infinito amore che provo per te e a donarmi il tuo così prezioso per me ogni giorno della tua vita?”
Spalancò le labbra e rimase immobile a fissarlo con gli occhi sgranati. “Sherlock-”
“Rispondimi, John.”
“Io… Sì, certo che sì.”
Sherlock annuì un paio di volte, prima di inspirare nuovamente. “E saresti disposto ad accogliermi nella tua vita, ad amarmi, a prendermi come tuo sposo… finché morte non ci separi?”
Gli occhi di John si riempirono di lacrime e un groppo indistricabile gli occluse la gola. “Sì.” singhiozzò ancora mentre quelle banali gocce d’acqua, che in esse racchiudevano la loro intera storia, rotolavano giù dai suoi occhi.
“John Watson… Mi vuoi sposare?”
“Sì… sì, sì, sì, sì…” prese a farfugliare accompagnando le parole con piccoli baci su tutto il viso. Rafforzò la stretta e percepì la propria morte imminente. Con Sherlock, era inevitabile, sarebbe morta anche una parte di lui. Una grande parte. Lo voleva sposare lì, su quel lettino d’ospedale ed essere agli occhi di tutti il vedovo Holmes. E invece, la gente l’avrebbe guardato e non avrebbe visto altro che un uomo in frantumi, spezzettato in troppi frammenti per essere ricomposto. Sherlock era il suo cuore e la sua anima, il suo amore. E l’avrebbe sposato anche subito, se solo un prete fosse sbucato da un’altra stanza, di ritorno da una confessione o dalla sacra unzione degli infermi, e avesse percorso quel corridoio, passando per caso di fronte a loro.
“Temo che per l’anello dovrai arrangiarti e… anche per il matrimonio.”
“Ti amo, Sherlock.” lo zittì lui, baciandolo veramente per la prima volta dopo giorni interi di piccoli sfioramenti di labbra. Percepì il caldo della bocca dell’altro, quei giochetti esperti con la lingua, quel calore che s’irradia dappertutto per il corpo, mescolandosi al sangue e percorrendo le vene, le arterie, per poi tornare nuovamente al cuore.
In quel bacio, in quel sigillo di labbra e cuori, Sherlock sorrise sinceramente, nonostante la morte, nonostante il dolore, nonostante quell’altra vita che non avrebbe mai potuto vivere. “Ti amo, John.”
 
Si addormentò fra le sue braccia e John ascoltò i suoi respiri pesanti a causa del catarro e delle difficoltà del sistema polmonare. Si addormentò fra le sue braccia e non si svegliò più. Non udì l’elettrocardiogramma impuntarsi ossessivamente su quella nota tenuta che decretava il suo eterno silenzio. Non scorse il triste sorriso di John mentre continuava ad accarezzarlo, nonostante quelle premure fossero ormai inutili, nonostante il suo corpo non fosse divenuto altro che un involucro vuoto. Non trascorse un’ora intera stretto al corpo quieto dell’uomo che amava e che ora era solo in compagnia della morte. Non sentì il calore di quelle labbra sulle sue, di quel muto addio. Non lo vide alzarsi, rivolgergli un’ultima carezza, un ultimo sguardo e prendere la porta. E non notò neppure il suo cenno d’assenso alla domanda del dottor Stanford – se n’è andato? –. Ciò a cui fu in grado di assistere, da chissà che luogo sperduto nell’Universo, fu al pianto di un ometto rannicchiato su una sedia azzurra della sala d’aspetto del reparto, le gambe raccolte contro il petto e il viso affondato nelle mani. Ciò che udì, furono i singhiozzi di quel medesimo ometto che, solo, soffriva e piangeva una scomparsa.
Sherlock Holmes lasciò il mondo dei vivi per entrare in quello dei morti, ma al dolore del suo amore, del suo John non riuscì a non piangere a sua volta. Se fosse stato anima anziché corpo, non lo sapeva. Sapeva solo che quel giorno le lacrime sue e di John si mescolarono, creando un veleno letale che tintinnava sulle piastrelle della sala d’aspetto di oncologia. Nemmeno Dio, a contatto con quel veleno, sarebbe sopravvissuto. Chiuse gli occhi e fu come diventare parte di ogni infinitesimale fibra del Creato.

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SPAZIO AUTRICI
Ehilà, bellissimi e bellessime (bisogna che vi tiriamo un po' su il morale dopo questo capitolo)... Abbiamo detto tanto in questo capitolo che ormai non sappiamo che dire ora. Insomma, siamo un po' bastarde, eh... Ma tanto. Forse ci saranno alcuni che avranno finito questo capitolo con un fazzoletto - da un lato ci speriamo perché vorrebbe dire che siamo stati brave -, ma fatevi forza! Vi vogliamo bene, davvero, e ci dispiace di avervi distrutto in questo modo, ma doveva essere fatto... Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, che pubblicheremo Domenica.

Niente, guys, su col morale <3. Tanti gattini, arcobaleni e zucchero filato a tutti voi!
*kiss*
Alicat_Barbix

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Capitolo 11
*** Yours, Beyond Everything ***


BEYOND
EVERYTHING

 
by Alicat_Barbix
 
 


Epilogo
Yours, Beyond Everything
 
Vi erano tanti che desideravano rivolgere un ultimo saluto a quella straordinariamente contraddittoria persona che era Sherlock Holmes. John osservava i presenti da un angolino della chiesa, seduto in disparte, lontano da tutto, lontano da tutti. Il rito funebre era stato organizzato il più minuziosamente possibile dalla famiglia Holmes, nonostante fossero tutti distrutti dal dolore. Mycroft si era presentato a casa sua due giorni dopo il decesso di Sherlock e gli aveva proposto di prepararsi un discorsetto in vista dei funerali. Ovviamente, aveva rifiutato.
Furono, comunque, in molti a salire di loro sponte e a prendere in mano il microfono, ricordando Sherlock Holmes. Irene Adler prima fra tutti. Non vi erano lacrime sul suo volto, ma il suo aspetto rispecchiava quasi quello di una vedova dignitosa, dagli occhi gonfi per le molte notti trascorse a piangere al capezzale del suo defunto marito ma dall’animo caparbio e statuario anche nella sofferenza. E la gente forse trasse a sua volta quelle conclusioni, perché un lievissimo e rispettoso brusio si spanse per l’ambiente.
“Sarà di certo la fidanzata.” bisbigliò un’anziana donna accanto alla sua panca, giunta lì per chissà quali vie traverse. E lui tacque, nonostante dentro esigesse giustizia, nonostante Sherlock fosse il suo promesso sposo, nonostante fosse il suo cuore ad esser stato fatto a brandelli. Ma Irene parlò schietta del proprio rapporto con Sherlock: nient’altro che una mera competizione, un’eterna lotta tra titani i cui risultati erano noti già dall’inizio della battaglia. Poi, ridiscese i gradoni che conducevano al presbiterio e tornò al suo posto, accanto ad una giovane donna dai capelli biondi che le prese gentilmente la mano, senza pudore.
Fu poi, il turno di Victor. Victor che piangeva e parlava tra le lacrime. Victor che scoccava continue occhiate alla bara del suo più caro amico, di quello che sarebbe dovuto essere il suo testimone di nozze… Vi era rabbia mista al dolore, nelle sue parole. Perché Victor pretendeva di avere una spiegazione per quel silenzio, per quel segreto e John sapeva benissimo che nei momenti in cui quegli occhi chiari scrutavano come impazziti la folla, stava cercando lui per quel diritto di sapere. Ma rimase nascosto dietro alla colonna, seduto mentre tutti gli altri erano in piedi, nero nel nero. Anche il sermone di Victor si concluse in un silenzio paludoso, spezzato unicamente dai passi di quello nel dirigersi verso Celine, il cui ventre era ormai prominente.
E vi furono anche altri che ebbero l’ardire di parlare e ricordare Sherlock Holmes. Parenti, forse. Vecchi amici. John non li conosceva. Con un sorriso triste, si chiese se si sarebbero mai presentati al loro matrimonio. Furono in tanti a salire. Ma di quei tanti, nessuno fu John Watson. Sherlock non l’avrebbe voluto. Sherlock avrebbe ritenuto ogni discorso simile vacuo ed ipocrita. Inutile.
Durante la comunione, scorse la figura tremante di Molly Hooper arrancare lungo la navata principale, il trucco completamente colato e i capelli acconciati in maniera terribile, lugubre quasi come l’urlo muto che echeggiava silenzioso tra quelle pareti.
Lo seppellirono all’ombra di un immenso salice piangente, come se anche la Natura si fosse piegata a quei tragici eventi. Tutto ciò che rimaneva dell’uomo che aveva amato e che continuava ad amare, non era altro che una lapide di marmo nero con poche lettere in ottone: Sherlock Holmes. E di fronte a quella tomba, quando tutti se ne furono tornati alle loro vite in cui quella mancanza avrebbe più o meno portato un vuoto, si lasciò andare al dolore e alle lacrime. Si era ripromesso di non nascondere il suo dolore. Se l’avesse soffocato, sarebbe scoppiato. E lui aveva promesso a Sherlock che avrebbe vissuto. Non solo per sé, ma anche per lui.
“Ti amo… Ti amo, Sherlock.”
 
Tre mesi dopo, il campanello trillò insistentemente alla sua porta. Quando aprì, non poté dirsi esattamente sorpreso nel ritrovarsi davanti Victor. Fu un iniziale reciproco squadrarsi. John aveva sempre indugiato su quella rubrica dove Sherlock teneva annotati tutti i numeri di telefono, ma il coraggio di chiamare Trevor non era mai arrivato. Si accomodarono nell’ampio salotto della villetta e lui si assentò un paio di minuti per preparare il the. Non potevano essere più diversi, pensava mentre l’acqua bolliva. Victor era il ritratto della soddisfazione personale, il viso colorito, disteso, gli occhi vivi, brillanti, privi di occhiaie, il sorriso caldo – sebbene imbarazzato –, un completo elegante a fasciargli il corpo snello e una fede d’oro al dito. Victor era padre, Victor era marito, Victor era vivo. John, invece, percepiva la vecchiaia gravargli sulle sue spalle nonostante non avesse neanche raggiunto i quarant’anni. Non era il lutto ciò che gli martoriava quella precaria esistenza che conduceva dalla scomparsa del suo amore e nemmeno i ricordi. Mycroft l’aveva più volte contattato per richiedere nuovamente i suoi servigi, ma John aveva chiuso con quella parte di sé. Ora lavorava in un piccolo ambulatorio medico e la sua esistenza si riduceva a prescrivere ricette e ad attaccarsi ad un bicchiere di cristallo col whiskey. Non aveva uno scopo, un’ambizione, un futuro. Di fronte a sé, l’unica certezza era il capolinea, dove avrebbe rivisto e riabbracciato Sherlock.
“Come sta Celine?” chiese gentilmente porgendo al suo ospite una tazza col the fumante.
“Meravigliosamente. La maternità l’ha resa ancora più bella e solare.”
“Il piccolo? Maschio o femmina?”
“Abbiamo avuto un bel maschietto, sì… William Scott.”
John si immobilizzò, la tazza sospesa a pochi centimetri dalle sue labbra, e per un attimo non proferì parola. Un sorriso mesto, però, si delineò sul suo viso nel momento in cui poggiò la tazza intonsa sul piattino, depositandolo sul basso tavolino di fronte al divano. “Capisco… William Sherlock Scott Holmes.”
“Volevo che mio figlio portasse sempre con sé qualcosa di lui, perché… beh, senza Sherlock probabilmente non sarebbe mai nato. Chi lo sa…” Anche Victor appoggiò la tazza con tanto di piatto sul tavolino e sprofondò più comodamente nei cuscinoni del divano in pelle. “Abbiamo deciso di utilizzare il primo e il terzo nome, anziché quello che lui adorava e con cui si faceva chiamare perché sarà riservato per un altro scopo.” Inarcò un sopracciglio e attese spiegazioni. Dopo poco, infatti, Victor affondò una mano nella borsa di cachemire che si portava appresso e la tirò fuori con una cartellina.
“Che cos’è?” chiese accettando quest’ultima, quasi per routine più che per curiosità.
“Un progetto. Stiamo mettendo su un’associazione di volontariato che ospiti i bisognosi – drogati, senza tetto, prostituti, orfani – ed eravamo curiosi di-”
Stiamo chi?” interruppe John, sfogliando insofferentemente le pagine bianche imbrattate di ideali e sogni, nonostante una scintilla di interesse si fosse appena accesa in lui.
“Siamo in molti. Io e, ovviamente, Celine, poi c’è anche Irene con Kate – la sua compagna –, Bill Wiggins, Angelo, Molly… Persino Mrs Hudson e, ultimo ma non per importanza, Moran.”
“Moran ha sposato la causa? Sul serio?”
“E’ cambiato.” sospirò Victor sporgendosi verso di lui e studiandone le reazioni. “Andy… Anzi, John.” John alzò gli occhi su di lui e, per un attimo, fu come rivivere ogni istante in quel bordello, accanto ad ognuno di quelli che aveva conosciuto là dentro, Sherlock compreso. Gli sembrava passata un’eternità… Quanto cambia in un anno… La vita intera.
“Andrò dritto al punto senza girarci intorno… Quest’associazione porterà il nome di Sherlock e ospiterà ragazzi e ragazze come lui. E chi, meglio di te, potrebbe portare avanti questo lavoro?”
“Che cosa mi stai proponendo, Vic?”
“Di divenire il presidente. Sherlock lo apprezzerebbe.”
“Sherlock è morto.”
Victor abbassò gli occhi, passandosi una mano sul viso, e forse, forse John sbagliava ad atteggiarsi con tale fredda diffidenza. In fondo, anche Victor aveva dovuto combattere con quell’assenza incolmabile, come lui. Per altro, lui e Sherlock si conoscevano sin da bambini, erano stati amici, fidanzati – a quanto pareva dalla confessione del moro – e fratelli. E infine, Victor non aveva avuto la possibilità di salutarlo un’ultima volta, di stargli accanto un’ultima volta…
“Proprio perché è morto, ritengo che tu debba dare una svolta alla tua vita, vendicare la sua scomparsa.”
“Perché ne parli con me?” chiese ad un tratto. “Cosa ti fa pensare che a Sherlock possa essere importato a tal punto di me?”
Trevor sospirò e gli scoccò un’occhiata allusiva. “Beh, la lettera.”
“Quale lettera?”
“La lettera di Sherlock. Mi è stata recapitata tre giorni dopo il funerale. La stessa cosa per Irene, per Molly e per tutti coloro che conoscevano Sherlock.” John lo guardò senza capire, così Victor proseguì. “E’ di Sherlock l’idea di creare quest’associazione. Ha scritto che vuole che ragazzi come lui, come noi, vengano tutelati e strappati dalle mani della vita di strada, dall’abbandono e dal rifiuto. Vuole che portiamo luce nelle loro vite… come tu hai portato luce nella sua.”
Tacque e così anche lui. Stentava a credere che Sherlock avesse scritto una lettera a tutti meno che a lui. E sì, era un pensiero sciocco, sciocco ed egoista, ma stava brancolando nel buio da mesi interi e ora non anelava ad altro se non a ricevere un barlume di speranza proprio dall’uomo che amava. Aveva accarezzato così tante volte quelle pagine su cui erano state incollate le fotografie della vacanza in Italia… In esse cercava un messaggio, un codice, un miracolo… Ma di miracoli, in vita sua, ne aveva ricevuti fin troppi. E Sherlock era uno di loro.
“Tieni.”
Si riscosse all’esortazione di Trevor, il quale gli stava porgendo una busta di carta. “Che cos’è?”
“Prendila e lo scoprirai.”
E così la prese e la volse. Sul retro, il nome di Sherlock. Il suo cuore perse un battito alla vista di quella calligrafia piccola e ordinata che avrebbe riconosciuto fra mille. Victor, nel mentre, s’era alzato, sussurrando un vi lascio soli, dunque si levò in piedi a sua volta, accompagnandolo alla porta, la busta ancora stretta in mano.
“Vic.” sussurrò all’ingresso, prima che l’altro potesse allontanarsi verso il taxi che lo attendeva davanti al cancelletto. “Mi dispiace non averti avvisato quando… beh, hai capito. Lui non voleva che si spargesse la notizia, capisci?”
Il sorriso che Victor gli indirizzò fu carico di dolcezza e calore, così dannatamente simile a quello di Sherlock, la cui differenza risiedeva semplicemente in quella punta di eterna malizia che lo caratterizzava. “A me dispiace di non aver avuto le palle di passare prima. Ti confesso che… prima di ricevere la lettera di Sherlock, ti ho odiato profondamente. Mi chiedevo perché lui ha avuto la possibilità di rimanergli accanto e io no? Poi, grazie a Sherlock, ho capito e… le cose si sono semplicemente fatte complicate con Celine incinta e poi il bambino… Insomma, tutte scuse per rimandare questo momento. Non so perché Sherlock abbia chiesto proprio a me di consegnarti la sua lettera, ma mi ha fatto il regalo migliore che io abbia mai ricevuto in tutta la mia vita. E’ un po’ come se mi avesse affidato il suo amore per te.”
John, a quelle parole, arrossì appena, gli occhi che fuggirono sul nome scritto sulla busta. “Beh, allora… Grazie.”
Victor non rispose. Si riavvicinò rapidamente a lui e gli circondò il corpo con un abbraccio dolce e confortante. L’abbraccio di un fratello. Anche Sherlock era stato fra quelle braccia e aveva trovato in quelle braccia la forza di sopportare le asperità della vita al Morningstar. Ora era John a trovare conforto in quella stretta tremendamente dolorosa che gli scucì le labbra in un singhiozzo a malapena trattenuto. E se Trevor lo udì, non ebbe cuore di farglielo notare e preferì lasciarlo solo con il suo dolore, salendo in taxi urlando un semplice: “Pensaci per l’associazione! Ah, e John? Il nome sarà Il cuore di Sherlock. Non puoi non farne parte!” Infine, svanì.
John rientrò, gettandosi su ogni finestra sprangandola con le serrande, bloccando ogni singola lama di luce. Quando l’intera casa fu ottenebrata, accese una candela – un gesto abituale che compiva ogni sera, prima di sdraiarsi per cercare di dormire – e si sedette sulla sponda del letto.
 
Caro John,
se stai leggendo questa lettera vuol dire che sono morto. Ho incaricato Mycroft di consegnare ogni mia lettera alla mia morte. Ma la tua, voglio che ti sia consegnata da Victor. Non so quanto sarai informato circa le cause della mia morte, ma… ho l’AIDS, John. L’ho saputo da poco, il giorno in cui mi hai trovato nella mia suite con la faccia piena di lividi. Ad ogni modo… non intendo raccontarti di queste cose, sai? Sto già sviluppando chiari sintomi di un carcinoma polmonare e non credo che mi rimanga molto, perciò che senso ha parlartene? Basta solo uno di noi che soffra. Vorrei, non lo so, avere la forza di andarmene, di sparire dalla tua vita ed evitarti di soffrire. Perciò, se da un giorno all’altro non mi troverai più, spero che non mi odierai o che una delle tue stupide idee non prenda a frullarti in quella tua adorabile testolina – l’ho scritto davvero?
Ascoltami, John… Ho bisogno che tu mi faccia un favore. Voglio che venga creata un’associazione per ragazzi che potrebbero commettere gli stessi errori commessi da me e dalle persone che, nel bene e nel male, mi hanno accompagnato nel mio Inferno. Ho pensato a te. Sei l’unico che riesco a figurarmi davvero in testa, accanto a giovani ribelli come lo ero io, col tuo sorriso, il tuo amore… Voglio che sia tu a gestirla, John. Ti prego, per quanto arrabbiato, deluso, addolorato tu possa essere per la mia morte, ti scongiuro di fare quello che ti chiedo.
John, io… Devo dirti un’ultima cosa prima di salutarti una volta per tutte. E’ una cosa che ho capito da un po’ e che sono costretto a trattenere dal confessartelo di persona… John, io ti amo. Ti amo, John. Sei l’unica persona che non sarò mai pronto a lasciarmi indietro. Sei l’unica persona che ho una paura tremenda ad abbandonare. Mi trema la mano nello scrivere queste cose, John…
Spero… sì, insomma, spero che tu possa essere felice. Su questo almeno, covo abbastanza speranze. Ora che ti ho liberato, John, puoi riprendere da dove avevi interrotto quando sono comparso nella tua vita coi miei casini e la mia maledizione. Puoi trovare una persona da amare, che non ti farà mai promettere di non innamorarti di lei. Che ti accompagnerà ogni giorno della tua vita. Chissà se ce la farò anche io. Questo, ovviamente, è qualcosa che solo io saprò, una volta morto, ma io ci proverò, John, a guardarti. Ovunque andrò, se andrò da qualche parte.
Abbi cura di te, John. Hai reso la mia vita migliore, per quanto breve possa esser stata. Grazie, amore mio. Sii forte, lo faresti per me?
Tuo, oltre ogni cosa,
Sherlock.
 
Erano passati tre anni. Tre lunghi anni in cui John era riuscito, con non poche difficoltà, a riattaccare le pezze di quel cuore strappato che Sherlock gli aveva lasciato.
Quella, era una mattina assolata di Luglio. Era il giorno del suo compleanno. Passeggiava per il cortile del Morningstar, da cui era scomparsa ogni traccia di quello squallido night club, e teneva sottobraccio un album di fotografie. Il suo album.
Passò di fronte a una Molly intenta a giocare a campana insieme ad un gruppetto di bambine della casa famiglia, affiancata dalla figura di Sebastian Moran che sulle spalle teneva un ragazzino di non più di nove anni. Sorrideva, Moran, e nonostante gli anni, ancora faceva strano. Così come non si sarebbe mai abituato all’espressione fintamente schifata che Irene rivolgeva ai mostriciattoli – come li chiamava lei – quando cercavano di abbracciarla.
John proseguì per quei vialetti piastrellati fino ad arrivare ad una sorta di terrazza circondata da un roseto. Il vecchio posto segreto di Sherlock. Da tre anni a quella parte, il suo posto segreto. Si appoggiò alla ringhiera e prese un respiro profondo. Non l’aveva mai ammesso apertamente neanche con se stesso, ma fermarsi lì per qualche minuto, respirando a fondo, cercando l’odore di una notte lontana vissuta accanto ad una persona ancora più lontana, era come un rituale. Un riavvicinamento con quello che era stato e non sarebbe più stato. Era un po’ come ritornare a Sherlock e riviverlo.
Il suo Sherlock.
“Doc?”
Si volse. Di fronte a lui, la faccia lentigginosa di un ragazzotto di diciassette anni che lo fissava con disinibizione.
“Charles. Qual buon vento ti porta qui?”
Charles scrollò le spalle. “Niente, in realtà. Ti ho visto passare e ho pensato di raggiungerti.”
“Come stai?”
“Al solito.”
“E come stai al solito?”
Charles lo guardò con la fronte seccamente aggrottata. Probabilmente stava pensando ad una scappatoia. John aveva imparato a conoscere quel ragazzino che si fingeva un gradasso menefreghista, ma che in realtà dentro nascondeva un magma di emozioni diverse. Non rispose, Charles e distolse semplicemente lo sguardo. Faceva così quando si sentiva messo alle strette. Deglutiva a vuoto, si tormentava le mani dietro la schiena, evitava gli occhi di John… Così simile a Sherlock, si trovò a pensare John.
“Sai, Charles, mi ricordi tanto una persona. Una persona a cui tenevo molto.” disse mentre invitava il ragazzo a prendere posto accanto a sé. “Anche lui mi nascondeva tante cose. Fingeva di essere forte, spavaldo, ma in realtà era la persona più sofferente che avessi mai conosciuto.”
“Sì, doc, non sei il primo a raccontare una storia del genere. Ce la sorbiamo ogni volta da Victor o Irene o Seb… Per voi siamo tutti destinati ad essere fottuti come lo siete stati voi, vero? Anche ammesso che fosse effettivamente così, non avreste comunque alcun potere per salvarci.”
John sorrise tristemente di fronte a quella mezza eruzione di rabbia da parte di un adolescente ribelle. “Hai ragione. Noi non possiamo fare niente. La vita va così. Vuoi essere fottuto nella vita, Charles?”
“No.”
“E allora non hai bisogno di me.” concluse John facendo per voltarsi e andarsene, ma la mano del ragazzo lo trattenne.
“Aspetta… Hai detto che la vita va così. Non basta la volontà, non è così?”
John sospirò. “La volontà fa molto, direi che è essenziale… Ma ci sono altri fattori. Bisogna essere… diciamo così, fortunati. Non tutti nella vita lo sono. Ci sono alcuni che vogliono valere, prendersi la loro rivincita nei confronti della vita, ma che semplicemente sono sfortunati.”
“E se fossi sfortunato? Se volessi con tutto me stesso non restare fottuto e mi impegnassi, ma poi semplicemente non ci riuscissi?”
“Beh, allora si vede che era così che doveva andare. Niente succede per caso, Charles. Chiamala Provvidenza, chiamalo destino, ma tutto segue uno schema. E anche nelle difficoltà, anche quando ci sembra che la vita sia stata ingiusta con noi, che ci abbia tolto tutto senza ragione, che ci abbia schiacciati a terra, dobbiamo avere la forza di rialzarci, perché se rimaniamo a terra non saremo che pasto per il nostro passato.”
Charles inarcò scetticamente un sopracciglio. “Parli strano, eh.”
John ridacchiò. “E va bene. Allora… cercherò di farmi capire. Sai la persona di cui ti ho accennato? Ecco, quella persona importante è morta.” Il ragazzo sussultò impercettibilmente a quelle parole. “Quella persona io… l’amavo con tutto me stesso e l’ho vista distruggersi pezzo dopo pezzo. Aveva fatto molte cazzate, nella vita, è vero… ma aveva deciso di levarsi in piedi nonostante tutta la merda che gli era precipitata addosso. Bene, quella persona c’era riuscita a riprendere in mano la sua vita, ma poi è arrivata la malattia, incurabile, e le difficoltà. Non voleva dirmi nulla. Voleva andarsene dalla mia vita senza accennarmi nulla, per il mio bene.”
“E tu… tu lo hai scoperto dopo?”
“No. Ho ricevuto un piccolo aiuto da parte di un’altra persona molto vicina a quella che amavo e questa persona mi ha spronato a non arrendermi, a pretendere una spiegazione. Ma quando questa spiegazione mi venne data… stentavo ad accettarla.”
Charles tirò fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette, porgendone una a John. Gli occhi del medico si assottigliarono un istante, contrariati, ma alla fine accettò la cicca e se la portò alle labbra, mentre il ragazzo la accendeva. Sbuffò una nuvoletta di fumo. Quella lontana notte, appoggiato alla ringhiera, c’era Sherlock a fumare, a raccontare la sua storia.
“Alla fine lui morì.” sputò assieme al fumo.
Charles sussurrò un oh triste. John osservò il volto del ragazzo adombrarsi. Trascorsero diversi secondi in silenzio, separati da una coltre di amarezza, il retrogusto di un ricordo per John e una scottatura improvvisa per Charles.
“Quindi, doc… sei gay.”
John non poté evitarsi di scoppiare a ridere e rivolgergli un’occhiata allegra. “Più o meno… Ti turba?”
“No, no, macché… siamo nel ventunesimo secolo, è normale… Solo, insomma, lo sanno tutti qui che le ragazze hanno una cotta per te.”
“Per me? Ma ci sono altri molto più-”
“Seb è uno inquietante, Bill ha due occhiaie tremende, Vic è sposato con un figlio… Non ne restano molti.”
“Ah, grazie. Quindi sono il meno peggio?”
“Direi di no, vista la situazione.”
“Che sono gay?”
“No, che ami un uomo morto ancora così vivamente.”
John osservò il profilo del centro di Londra, in lontananza. “Si capisce così tanto?”
Charles annuì. “E tu? Tu ti sei risollevato dalla… caduta?”
“Non lo so. Ma di una cosa sono certo: che questo centro è il frutto del lavoro mio e della altre persone che volevano bene all’uomo che amavo. Insieme abbiamo trovato una ragione per andare avanti. E’ questo quello che cercavo di dirti prima. Nonostante la bruttezza della vita, nonostante le ingiustizie, lotta sempre, Charles. Lotta ogni secondo, di ogni minuto, di ogni giorno, sempre. Anche quando ti sembra che lottare sia inutile. Io lo rimpiango, sai? Forse avrei avuto qualche mese in più accanto a lui… se mi fossi intestardito a…” Tacque, soffocando un groppo di lacrime di cui non si era neanche accorto nel corso del discorso. Charles gli strinse una spalla, osservandolo comprensivo.
“Era una persona fortunata. Il tuo… partner.”
“Ero io quello fortunato.”
“Lo eravate entrambi.”
Altro silenzio, altro conforto nei propri pensieri. Si sedettero sulla panchina a sfogliare l’album delle foto raccolte da Sherlock. Per la prima volta da quando vi metteva occhio, John si poté concedere di ridere di fronte ad alcune scene che prima non aveva potuto guardare senza scoppiare in lacrime. E’ vero, alla fine stava piangendo, ma un sorriso caldo gli dipingeva le labbra.
“Doc?”
John scosse la testa per rassicurare il ragazzo. “Va tutto bene, Charles. E sai una cosa? Mi hai appena fatto capire che ce l’ho fatta ad andare avanti e… a rialzarmi.”
E allora anche Charles sorrise.
Arrivò Victor, con il piccolo William Scott in braccio. Chiese a John se era pronto, ma a quella domanda il medico inarcò entrambe le sopracciglia. Fu nel corso del frangente seguente che accadde. Coriandoli, stelle filanti, palloncini, alcol – dall’odore…. John si ritrovò madido di quello che ipotizzò essere spumante. Un coro di urla festose lo assordò.
Riaperti gli occhi, li vide tutti, dal primo all’ultimo. C’erano tutti. Davvero tutti. Tutti i bambini, i ragazzi e le ragazze, i collaboratori… Persino Mycroft. Happy birthday to you recitava uno striscione colorato e intonavano le bocche di tutti.
Ciò che accadde dopo, beh… potete immaginarlo. John vagava per quella folla che era diventata la sua casa, stringendo mani, abbracciando, baciando… C’era gioia, nell’aria. E c’era gioia, nella sua vita. John aveva creduto che dopo di Sherlock non ne avrebbe più trovata, e invece eccolo lì. Si era rassegnato. Era stato bravo, alla fine. Sherlock era morto, ma non se n’era mai andato davvero. Ogni giorno ne percepiva la presenza. Aveva quasi la sensazione di avere i suoi occhi cristallini su di sé. E quindi, anche Sherlock era stato bravo. Ce l’aveva fatta ad ottenere il permesso di vegliare su di lui, ovunque fosse andato…
Nel coro di risa, nel marasma di pacchi, nella scompostezza degli abbracci… John lo trovò Sherlock. Era vicino a sé, sorridente. Non lo vedeva, però c’era.
“Ce l’ho fatta. Hai visto, amore mio?”

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SPAZIO AUTRICI
Eeeee THE END! Cavolo, gente, che parto... Ce l'abbiamo fatta! *cantano we are the champions ma vengono colpite da pomodori volanti* Che fatica, mamma mia.

Alloraaaa.... Dai, alla fine John ce l'ha fatta ad andare avanti. E la cosa bella è che è stato proprio Sherlock a permetterglielo - Sherlock sa sempre cosa è meglio per il suo Jawn, o almeno pensa di saperlo... *coff coff Mary*. Insomma, ci piace tantissimo anche il fatto che tutti coloro che hanno amato Sherlock si ritrovano dove in realtà si è compiuto il destino fatale di questo, ma che non è più un luogo di dolore e rimpianti, ma un cumulo di cenere da cui rinascere. Insomma, alla fine tutto è andato bene - più o meno... 

Scusateci per il ritardo clamoroso, ma eravamo in giro sulle nostre scope (fra l'altro è pure il compleano di Sherly, quindi questo capitolo ci sta proprio che è un amore - se non consideriamo il fatto che Sherlock qui è morto, ma va beh). Vi ringraziamo infinitamente per averci seguito in questo cammino pieno di ostacoli e di esserne usciti vivi - la maggior parte, per lo meno, forse un po' meno...

Domani inizia la scuola, uffa, che palle, non abbiamo voglia, *urla, gemiti, pianti blah blah blah*, okay, stiamo delirando. Vi aspettiamo per non sappiamo cosa - abbiamo una long fic AU, anzi un crossover in corso, ma non è completo ed è lungi dall'esserlo, quindi onde evitare vittime per le lunghe attese o addirittura l'abbandono totale della storia, se pubblicheremo lo faremo quando o la storia è ultimata o quasi. 

Bene, direi che è tutto! Buona ripresa per chi riprenderà - l'aggettivo buono e il sostantivo ripresa non vanno d'accordo, soprattutto se c'è di mezzo la scuola... Addio a tutti, è stato bello conoscervi, venite al nostro funerale *riferimenti puramente casuali col capitolo coff coff*

*kiss*
Alicat_Barbix

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