Un nuovo inizio

di Dida77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Decisioni ***
Capitolo 2: *** Intimità ***
Capitolo 3: *** Incubi ***
Capitolo 4: *** Tempo ***



Capitolo 1
*** Decisioni ***


Con gli occhi di Steve

Steve si fermò sul pianerottolo davanti alla porta di casa. Le chiavi già in mano, pronte per essere inserite nella serratura.

Bucky era silenzioso dietro di lui. Non aveva detto una parola da quando erano scesi dall'aereo con cui erano tornati dal Regno di Wakanda.

Non che Bucky avesse parlato molto da quando Steve lo aveva convinto a non farsi ibernare di nuovo.

"Tutto ok?" aveva chiesto più volte Steve durante il viaggio. Bucky si era sempre limitato ad annuire con la testa, senza dire una parola. E un attimo dopo aveva già abbassato di nuovo lo sguardo a terra, ogni volta rigido e immobile come una statua. Come se non avesse il diritto di occupare lo spazio dove si trovava e di consumare l’aria che respirava.

Steve lo aveva lasciato fare. Aveva deciso che per il momento l'unica cosa importante fosse riportare Bucky a casa con sé.
Al resto avrebbe pensato dopo. Avrebbe trovato il modo di sistemare le cose. O meglio, lo  avrebbero trovato insieme.

Ma adesso, davanti alla porta di casa, con le chiavi a mezz'aria, non era più così convinto di riuscire nell'impresa di salvare Bucky dal suo inferno e regalare di nuovo a entrambi una vita normale.
In quel momento la normalità sembrava solo un miraggio lontano, un miracolo per cui pregare.

Steve era un tipo testardo. Lo era sempre stato.
E lì, davanti alla porta di casa, con le chiavi a mezz'aria, decise che avrebbe fatto di tutto per rendere reale quel miraggio. Giorno dopo giorno. Ora dopo ora. Metro dopo metro.

Ma ogni progetto ha bisogno delle sue fondamenta e ogni impresa ha bisogno di un punto fermo da cui partire. E questo caso non faceva eccezione.
Come a tutto il resto del mondo, anche a Steve serviva una certezza da cui partire. Una certezza piccola, ma solida e stabile, su cui basare il suo futuro.

Steve era un tipo testardo. Lo era sempre stato.
E decise che quella certezza doveva trovarla subito. Prima di varcare la soglia di casa. Altrimenti avrebbe dovuto rinunciare subito al suo miracolo.
Doveva affrontare subito il problema, perché dopo non avrebbe trovato il coraggio per farlo.
Doveva agire subito, perché se Bucky avesse varcato la soglia di casa, Steve non avrebbe più avuto la forza necessaria per affrontarlo, ne era assolutamente certo.

Steve era un tipo testardo. Lo era sempre stato.
E invece di inserire chiavi nella serratura e aprire la porta, appoggiò a terra il borsone che aveva ancora a tracolla e si voltò lentamente verso Bucky.

"Sarà difficile" disse con voce incerta.
Tanto valeva ammetterlo subito, sia con Bucky che, soprattutto, con se stesso.

"Sarà difficile e non sono nemmeno sicuro che riusciremo ad avere di nuovo una vita normale. Quello che so, però, è che possiamo provarci. Insieme." disse con voce sempre più sicura, cercando con lo sguardo gli occhi che Bucky si ostinava a tenere ancorati a terra.

"Malgrado ciò che è stato, possiamo provare ad avere di nuovo una vita normale."
Steve parlava piegando la testa per cercare con lo sguardo gli occhi di Bucky, ma questi rimanevano ancora fissi sul pavimento.
Steve decise allora di raccogliere tutto il coraggio che ancora gli rimaneva e continuare.

"Ma solo ad una condizione" Steve si fermò giusto un attimo. Giusto il tempo di gestire la paura folle che gli stava attanagliando il petto e la gola. Perché si stava giocando il tutto per tutto e ne era ben consapevole. Perché, o Bucky avrebbe acconsentito a ciò che Steve stava per chiedergli, o Steve non lo avrebbe nemmeno fatto entrare in casa e allora Bucky se ne sarebbe dovuto andare via per la sua strada. Via per la sua strada senza tornare mai più.

Improvvisamente Bucky alzò lo sguardo e lo guardò, in qualche modo incuriosito dalla piega inaspettata che aveva assunto la conversazione. Come se per la prima volta fosse davvero interessato a ciò che Steve stava dicendo.

Appena Steve se ne accorse incatenò lo sguardo a quello dell’amico e continuò.

"A condizione che tu mi prometta che non te ne andrai. Che non scapperai via, anche se le cose si faranno difficili. Mai. Per nessuna ragione. Perché sappiamo che le cose si faranno difficili. Io sono sicuro di poter affrontare le difficoltà, ma devo sapere con certezza che non te ne andrai.
Altrimenti voltati, vai via e non tornare più. Torna pure in Wakanda a farti ibernare, se è questo che vuoi. Non mi interessa. Ma non varcherai questa porta."
 
Riprese fiato e continuò: "Perché posso sopportare tutto, ma non credo che sarei capace di sopportare di perderti di nuovo. Questo no.”

Steve continuava a guardare Bucky negli occhi. Le guance ormai bagnate da lacrime silenziose. Libere di scendere senza vergogna.
 
Steve guardava Bucky negli occhi e aspettava.
Aspettava immobile una reazione da parte dell’amico, una reazione da cui sarebbe dipeso tutto.

Ma Bucky non reagì e rimase fermo a guardare Steve negli occhi. Come se stesse prendendo la sua decisione proprio in quel momento. Senza fornire alcun indizio su ciò che stesse realmente pensando.

E più Bucky restava immobile, più Steve sentiva il suo miracolo allontanarsi e il suo mondo andare in frantumi. Un freddo glaciale si stava impadronendo di lui. Riusciva a vedere davanti a sé solo un mondo che non era più il suo e sentiva svanire la speranza.

Fino a che, improvvisamente, vide Bucky prendere una decisione.

Lo vide raddrizzare le spalle e alzare il mento, ricordando un po' il Bucky sicuro di sé che conosceva un tempo. Vide una certezza illuminare di nuovo i suoi occhi. E per la prima volta da quando lo aveva ritrovato, vi vide la speranza.

E alla fine, quando ormai non ci sperava nemmeno più, lo vide annuire, convinto. Lo vide accettare quella sola condizione, sorridendo.

Fu un sorriso piccolo ma bellissimo, che fornì loro tutto ciò che serviva per iniziare a ricostruire un futuro insieme. Il loro futuro.

Steve sorrise di rimando. Non serviva altro. Non servivano parole. Tra loro non erano mai servite.

"Ok." disse allora Steve.
"Entriamo in casa."
Si voltò, inserí le chiavi nella serratura e aprì la porta.

***

Con gli occhi di Bucky

I ricordi tornavano a frotte. Tutti insieme. Simili ad un gruppo di persone in fila che sgomitano per cercare di passare prima degli altri.

I ricordi più brutti e traumatici erano i più forti e finivano sempre per vincere sugli altri. La conseguenza era che, per il momento, riaffioravano solo i ricordi associati all'Hydra, con il risultato che Bucky si sentiva sempre più un mostro e sempre più lontano all’essere umano che era andato in guerra settant’anni prima.

Fin dai primi giorni in Wakanda, dopo aver combattuto in Siberia contro Tony Stark, aveva deciso che farsi ibernare era l'unica soluzione possibile. Aveva detto a tutti che lo faceva per esser sicuro di non far più male a nessuno. Vero. Ma la verità era che lo faceva anche, e soprattutto, per far smettere quel tormento continuo nella sua testa.

Lo aveva già detto ai dottori. Avevano già fissato anche la data. Ma non aveva fatto i conti con Steve e con la sua testardaggine.

Perché Steve era testardo. Lo era sempre stato.
E lo aveva guardato con quegli immensi occhi tristi che avevano fatto riaffiorare nella mente di Bucky ricordi buoni. Non i ricordi dell'Hydra, ma i ricordi di quando il mondo era più semplice e il problema più grave era trovare i soldi per pagare l'affitto.

In quegli occhi, più che nel fiume di parole che Steve aveva usato per convincerlo, Bucky aveva visto un barlume di speranza. Aveva pensato, per una frazione di secondo, che potesse esserci un'alternativa. E in quella singola frazione di secondo tutta la sua convinzione si era sciolta come neve al sole.

"Quali alternative ho, se non mi faccio ibernare?" aveva chiesto a Steve a mezza voce, abbassando lo sguardo.
 "Potrei essere ancora pericoloso, nessuno lo sa con certezza."

"Potresti venire a stare da me, almeno per un po'. Come prima della guerra. Poi potremmo cercare una soluzione insieme." aveva proposto Steve.

E Bucky aveva annuito. Anche se si sentiva un mostro e non si sentiva più la persona che era partita per la guerra. Anche se pensava che sarebbe stato meglio morire in quella caduta di settant'anni prima. Anche se non capiva perché Steve si ostinasse a volerlo aiutare. 
Bucky aveva annuito ed era montato sull’aereo con lui, invece di rimanere in una teca in Wakanda.

Ma i ricordi erano ancora un tormento. Tenerli a bada, in qualche modo, era uno sforzo sovrumano. E quando la sua mente non era ricolma del ricordo di ciò che aveva fatto, allora era la vergogna a prendere il sopravvento. Una vergogna assoluta, che non gli permetteva di alzare gli occhi da terra. Anche il solo respirare lo faceva sentire in colpa.

Dopo avergli fatto cambiare idea, Steve non gli aveva praticamente più parlato, tutto preso dai preparativi per il ritorno a casa. Gli chiedeva spesso se andasse tutto bene e lui non aveva la forza che di annuire in silenzio.

Ma era comunque bello sentire la voce di Steve. Come se la sua voce fosse l'unica cosa che lo tenesse ancorato alla realtà. L'unica cosa che gli ricordava che provare a combattere i mostri nella sua testa era possibile.

Aveva paura. Soprattutto in aereo. Paura di perdere il controllo, di far male a qualcuno. Aveva paura di far male a Steve. O, peggio, aveva paura che Steve vedesse di cosa era veramente capace e decidesse che ormai il suo vecchio amico era una causa persa.

Ma avrebbe potuto sempre andarsene. Se le cose si fossero messe male, se i mostri nella sua testa fossero diventati troppo forti, se si fosse reso conto di essere un peso troppo grande per Steve, avrebbe potuto sempre andarsene.

Tanti anni nell'Hydra gli avevano insegnato qualcosa. Se ne sarebbe potuto andare nella notte, mentre Steve dormiva, magari lasciando una lettera di scuse.

Steve era buono, lo era sempre stato.
Ed era circondato da amici. Li aveva visti. Loro lo avrebbero aiutato a superare la sua partenza, ne era sicuro.

Questo pensiero lo aveva aiutato a combattere i suoi timori, che aumentavano di ora in ora. Una via di fuga. Come quando era in missione.

Così aveva seguito Steve a testa bassa, prima in aereo, poi in macchina e infine su per l'ascensore, fin davanti alla porta di casa.

E adesso Steve stava lì, fermo, con le chiavi a mezz'aria.

Ma Steve, invece di inserirle nella serratura, si voltò e disse con voce incerta:
"Sarà difficile e non sono nemmeno sicuro che riusciremo ad avere di nuovo una vita normale. Quello che so, però, è che possiamo provarci. Insieme. Malgrado ciò che è stato, possiamo provare ad avere di nuovo una vita normale "
 
Steve si fermò un attimo e poi continuò
“Ma solo ad una condizione."

Bucky non si aspettava quell'ultima frase, che fece breccia nella nebbia dei suoi tormenti e lo colse di sorpresa.
Allora alzò gli occhi e lo vide. Steve alto e immobile come una statua. Con un atteggiamento di sfida che gli riportò alla mente lo Steve malaticcio di prima della guerra, lo Steve che sfidava i bulli con la sola forza della sua testardaggine.

Poi Steve riprese a parlare, riportandolo alla realtà.
"A condizione che tu mi prometta che non te ne andrai. Che non scapperai via, anche se le cose si faranno difficili. Mai. Per nessuna ragione. Perché sappiamo che le cose si faranno difficili. Io sono sicuro di poter affrontare le difficoltà, ma devo sapere con certezza che non te ne andrai.
Altrimenti voltati, vai via e non tornare più. Torna pure in Wakanda a farti ibernare, se è questo che vuoi. Non mi interessa. Ma non varcherai questa porta."
 
Riprese fiato e continuò: "Perché posso sopportare tutto, ma non credo che sarei capace di sopportare di perderti di nuovo. Questo no.” concluse Steve. Il volto ormai bagnato dalle lacrime
 
Fu come uno schiaffo in pieno volto. Come una doccia gelata.
Non solo per ciò che Steve aveva detto, ma per il modo in cui lo aveva detto. Come se avesse dovuto cercare fin sotto le pietre il coraggio necessario per tirare fuori quelle parole. Lasciando che le lacrime gli bagnassero le guance. Senza vergogna.

Una tenerezza infinita scaldò il petto di Bucky e, improvvisamente, la possibilità di andarsene non era più da prendere in considerazione.
La possibilità di perdere il controllo e far del male a Steve lo terrorizzava, ma capì che la possibilità di passare il resto dei suoi giorni lontano da lui, lo terrorizzava ancora di più.

Per un attimo si sentí di nuovo James Buchanan Barnes, il ragazzo scanzonato che era partito per la guerra. Si sentì come se accanto a Steve tutto fosse davvero possibile.

Allora raddrizzò le spalle e alzò il mento. Come a sfidare tutti i mostri del suo passato che abitavano nella sua mente. Fece cenno di sì con il capo, e mentre lo faceva un sorriso spuntò sulle sue labbra. Un sorriso timido proveniente dalla parte più profonda della sua anima.
 
Steve lo guardò per un istante, quasi incredulo e sorrise di rimando.
Poi si voltò, inserì la chiave nella serratura e aprì finalmente la porta di casa.

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Capitolo 2
*** Intimità ***


Era ormai buio quando varcarono la porta di casa, ma una solida speranza illuminava il sorriso di entrambi.

Steve aprì la porta e allungò la mano a destra oltre la porta per accendere la luce. Poi si fece da parte per far entrare prima Bucky.
"Benvenuto" disse semplicemente mentre Bucky varcava la soglia di casa per la prima volta.

Il soggiorno era spazioso, arredato in toni chiari del beige e del crema. Un paio di enormi porte finestre, adesso chiuse, dominavano la parete sul fondo. Nelle belle giornate la stanza doveva essere inondata di luce.
Un bel cambiamento rispetto a prima della guerra, quando potevano permettersi solo l'affitto di un vecchio scantinato ammuffito, illuminato da un paio di lampade mezze rotte e dove non c'era mai abbastanza luce per permettere a Steve di disegnare. Stranamente, però, non c'erano disegni di Steve appesi sulle pareti o sparsi in giro.

Con un'occhiata veloce Bucky si accorse che in quell'enorme stanza era tutto perfettamente in ordine. Come se non ci abitasse nessuno.

I cuscini beige sul divano color panna, il tappeto grigio a terra a coprire parte di un parquet pulitissimo dove si sarebbe potuto tranquillamente mangiare. Le pareti bianche completamente spoglie.

Un'enorme televisione prendeva posto davanti al divano e al lato. Sulla parete laterale si apriva un camino di tutto rispetto, così pulito che sembrava non essere stato mai acceso. Di fronte al caminetto due poltrone dallo schienale alto, dello stesso colore del divano.

Ma niente che facesse pensare che quella fosse casa di Steve.

Dall'altra parte della sala, una penisola separava il soggiorno dalla cucina. Ma anche questa sembrava poco usata, senza nessun utensile a portata di mano che lasciasse pensare che il proprietario avesse l'abitudine di cucinare.

Questo particolare colpì subito Bucky, allenato da anni dall'Hydra a cogliere anche il più piccolo dettaglio che potesse essere utile in missione. Improvvisamente un ricordo lo colpì in pieno, togliendogli il fiato per una frazione di secondo.

In un attimo rivide se stesso, nel cucinino del loro vecchio scantinato, che preparava le uova per sé e per Steve, tostando il pane sulla vecchia stufa e preparando il caffè per la colazione. Lo colpì forte l'odore del caffè e del pane tostato e gli parve di udire la voce di Steve che parlava mentre preparava la tavola. Per un attimo fu come essere tornato a prima della guerra.

Bucky sorrise tra sé a quel ricordo. Sorrise, guardò Steve, e disse: "Non hai ancora imparato a cucinare, vero?"

Per un attimo Steve rimase sorpreso da quella domanda inattesa, e poi sorrise annuendo e grattandosi la nuca con fare imbarazzato.

"E come sei sopravvissuto fino ad oggi?"

"Cibo in scatola, surgelato o da asporto." rispose Steve.
"Sei un cretino. Potevi imparare."
"Non ne ho mai sentito veramente l'esigenza." rispose Steve abbassando lo sguardo.

La conversazione aveva preso una piega strana, e un silenzio carico di significato era sceso tra di loro. Fu Steve a interrompere quello strano momento.

"Ma sopravviveremo. Non ti preoccupare." disse con aria ancora un po' imbarazzata. "Vieni. Ti faccio vedere il resto della casa" e si mosse verso la sua camera.

"Questa è la mia stanza" disse Steve appoggiando il borsone ai piedi del letto.

Era una camera spaziosa, con un bel letto matrimoniale e una grande porta finestra che aveva l'aria di aprirsi sullo stesso terrazzo su cui si aprivano le portefinestre della sala.

Anche questa era arredata con toni chiari. C'era un armadio, un comodino, una poltrona e un cassettone con sopra solo un semplice svuotatasche di cuoio. Vuoto. Un tappeto a terra, ai piedi del letto e lo stesso parquet pulitissimo che Bucky aveva visto anche in salotto. Nessuno specchio.

Steve decise di dare a Bucky il tempo di guardare tutto con calma.
Il fatto che qualcuno vedesse la sua casa, e la sua camera in particolare, lo metteva in qualche modo a disagio. Non aveva mai portato nessuno lì. Si era fatto aiutare con la casa da Tony e dai ragazzi, ma solo i primi giorni, quando era ancora tutto imballato e i mobili sapevano ancora di nuovo.

Poi basta. Nessuno era più entrato in quella casa che sembrava più la cella di un monaco che una casa vera e propria. Steve ne era consapevole, e sapeva che era la prima cosa che Bucky avrebbe notato. Ma lui era Bucky e con lui non c'erano mai stati segreti. Quindi tanto valeva che sapesse cosa era stata la sua vita da quando lo avevano tirato fuori dal ghiaccio.

Steve decise che non doveva necessariamente continuare ad essere così.

Dopo che Bucky ebbe guardato la sua stanza con l'aria di voler carpire ogni piccolo dettaglio di quella che era stata la sua vita fino a quel momento, Steve si spostò verso il bagno, seguito dall’amico.

Anche questo era spazioso, con un'ampia doccia con un sedile all'interno. Uno specchio, un armadietto chiuso per le medicine e uno aperto, dove una pila di asciugamani di spugna freschi di bucato facevano mostra di sé in un angolo, a disposizione per ogni evenienza.

"L'armadietto è pieno, ma nei prossimi giorni faccio spazio per le tue cose" disse Steve mentre Bucky guardava con attenzione anche questa stanza.

"Tranquillo. Tanto non ho niente da metterci" rispose Bucky con un filo di tristezza nella voce. Solo un filo.

Davvero non aveva niente. Solo i vestiti che aveva indosso, che gli avevano dato in Wakanda prima di partire. Il borsone conteneva solo cose di Steve.

"Questo non è un problema." rispose Steve, contento che, almeno per quello, esistesse una soluzione semplice. "Rimedieremo nei prossimi giorni. Andiamo a fare acquisti" continuò.

"Ma io non ho soldi Steve. Non ho niente..."
Rispose Bucky riportando lo sguardo a terra come aveva sempre avuto prima di varcare la porta di casa.

"Anche questo non è un problema." rispose subito Steve.
"Quando mi hanno tirato fuori dai ghiacci e si sono convinti che ero proprio io, mi hanno dato la paga che mi spettava dai tempi della guerra fino ad oggi. Come se, invece di stare a dormire nel ghiaccio, avessi davvero fatto qualcosa di utile per il paese. E mi hanno pagato addirittura con gli interessi.
Ti posso garantire che i soldi non sono più un problema e che non credo lo saranno mai più. Abbiamo di che vivere tutti e due tranquillamente per il resto dei nostri giorni."

Bucky lo guardò un po' incredulo. Quella era una possibilità a cui non aveva pensato nemmeno lontanamente. Era abituato a combattere per trovare i soldi per l'affitto a fine mese. E il fatto che questo non fosse più necessario lo destabilizzava non poco.

Steve vide il suo turbamento e si avvicinò.
Gli posò delicatamente la mano sul braccio, come per fermare tutti i pensieri che si stavano affollando nella mente di Bucky e gli disse in un sussurro: "Non dirmi che questo è un problema. Ok? I soldi ci sono e non dobbiamo più preoccuparcene. Per adesso è così. Poi, più avanti, parleremo anche di lavoro e di guadagnarne di nuovi, se vuoi. Ma per adesso non facciamo un problema anche questa cosa. Ti prego."

"Ok" rispose Bucky dopo qualche secondo. "E io dove dormo?“ continuò, cercando di alleggerire l'atmosfera che si era fatta un po’ troppo pesante.
"Così va meglio. Seguimi, ti faccio vedere"

Steve si voltò ed entrò nell'ultima stanza. Una camera vicina a quella di Steve, nella zona notte della casa. Anche stavolta Steve accese la luce e si spostò di lato per far passare Bucky.

Lui si avvicinò, il respiro un po' accelerato dall'aspettativa, e guardò quella che sarebbe stata la sua stanza.
Era un po' più piccola di quella di Steve, ma poco, arredata in modo molto simile. Anche qui un armadio, un comodino, una poltrona e un cassettone, un tappeto ai piedi del letto che copriva il solito parquet. E in mezzo alla stanza un letto alla francese che aveva l'aria di essere la cosa più morbida che Bucky avesse mai visto.

"Ti piace?" chiese Steve un po' in ansia cercando lo sguardo dell'amico. Vide che gli occhi di Bucky erano pieni di lacrime che si sforzava di non far scendere. Allora domandò con ansia crescente: "Non ti piace?"

Bucky lo guardò negli occhi e lasciò le lacrime finalmente libere di cadere giù lungo le guance ispide di barba. "È bellissima Steve. Davvero" rispose.
"Lo posso provare?" chiese poi titubante indicando il letto con un gesto della mano.

"Ma certo. È il tuo letto" rispose Steve. Il cuore stretto in una morsa di angoscia al pensiero di cosa potesse aver passato Bucky in quegli anni se la sola vista di un normalissimo letto lo commuoveva a fino a quel punto.
Passare settant'anni a dormire nel ghiaccio e risvegliarsi in un mondo non suo sembrava improvvisamente il paradiso in confronto a quello che aveva passato il suo amico.

Bucky allora oltrepassò la porta della camera, entrò e si mise a sedere sul suo nuovo letto. Timoroso. Come se avesse paura di sciuparlo. E sorrise.

Steve si sorprese a pensare quanto fossero belli quei sorrisi e quanto gli fossero mancati fino a quel giorno. Fino a quando Bucky fosse stato al suo fianco in grado di sorridere, tutto sarebbe andato bene, in un modo o nell'altro.

Si guardarono per alcuni istanti negli occhi.
Poi "Ho fame." disse improvvisamente Bucky sorridendo e riportando bruscamente Steve alla realtà. "Hai qualcosa di commestibile in casa?"

"Latte caldo e biscotti?" rispose Steve.

"Dai, davvero? Mi stai offrendo latte e biscotti per cena? Sei serio?"
"Certo che sono serio. Sono bravo a scaldare il latte" rispose Steve con voce fintamente offesa.

E allora successe. Successe davvero, anche se Steve all'inizio pensava di averlo sognato. Bucky lo guardò serio per una frazione di secondo, poi tirò indietro la testa e si mise a ridere a crepapelle.
Steve guardò incredulo il miracolo di quella risata e poi, dopo qualche secondo, si mise a ridere anche lui.
 
Così, dopo settant'anni si trovarono di nuovo a ridere insieme, come quando erano ancora ragazzi e il futuro sembrava ancora una grande avventura, come in quel video in bianco e nero che girava ininterrottamente al museo e che Steve era andato a vedere così tante volte da quando era tornato.

Risero per alcuni minuti buoni, senza un motivo preciso se non per la gioia di essersi ritrovati. Poi le risate piano piano si affievolirono e Bucky riprese: "Dai allora, scalda questo latte che ho una fame da lupi.”

Tornarono in cucina. Steve aprì la dispensa e tirò fuori un cartone di latte e un’enorme confezione di biscotti con le gocce di cioccolato.
Prese tovagliette, piatti, tazze e cucchiai da uno dei cassetti e li passò a Bucky in modo che apparecchiasse la penisola per due.

"Non ho mai sentito l'esigenza di un tavolo" disse, come per scusarsi mentre Bucky apparecchiava la penisola. "Ma possiamo sempre cercarne uno.”
"No." rispose Bucky dopo un attimo. "Così mi piace.”

Steve aveva acceso solo i faretti sopra la penisola e sopra i fornelli e questi spandevano una luce calda nell'ambiente. Solo la cucina era illuminata, mentre il resto della grande sala rimaneva nella penombra. Il tutto creava un'atmosfera intima e tranquilla. Troppo bella dopo tutte le lotte, gli inseguimenti e le sparatorie dell'ultimo periodo e degli ultimi anni.

Dopo alcuni minuti l’odore del latte caldo invase l'aria. Steve lo versò nelle tazze e i due presero posto sulle due sedie vicine a dove Bucky aveva apparecchiato.

Per un po' non parlarono. La faccia persa dentro due enormi tazze da colazione piene di latte fumante. Avevano aperto la confezione dei biscotti, che pescavano a turno infilando direttamente la mano nel sacchetto. Come se non avessero fatto altro da tutta una vita.

"Scusa, dimenticavo" disse Steve "ci vuoi del cacao o dello zucchero?"
"Cacao? Zucchero? " chiese Bucky con la bocca ancora piena dell'ultimo biscotto inzuppato nel latte.
"Cacao. Ti piaceva il cacao. Non è vero?"
"Certo che mi piaceva il cacao, e anche lo zucchero, se è per quello.  Ma ormai ho finito il latte" rispose Bucky guardando tristemente la sua tazza ormai vuota.

"Allora dobbiamo rimediare", rispose Steve alzandosi e andando ai fornelli a scaldare altro latte. Poi tirò fuori la zuccheriera e la scatola del cacao e ripartirono da capo.

Proseguirono in quel modo fino a quando, infilando insieme la mano nel sacchetto, non si accorsero che era ormai vuoto.

Allora si guardarono e si sorrisero di nuovo. Era già diventata una strana abitudine. Cercarsi con lo sguardo per essere sicuri che l'altro fosse reale e non fosse un miraggio, scoprire che l'altro stava facendo esattamente la stessa cosa nello stesso istante e finire per sorridersi, complici.

"Dai, andiamo a letto" disse Steve alla fine.
"Le tazze possiamo lavarle domani mattina.” Bucky annuì con la testa e si alzò con lui, spensero le luci della cucina e si incamminarono verso le camere.

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Capitolo 3
*** Incubi ***


Dopo aver cenato, Steve e Bucky si mossero per andare a dormire.

Steve fece strada, entrò in camera di Bucky e aprì l’armadio. Era praticamente vuoto eccetto che per le lenzuola e le coperte che ne occupavano solo una piccola parte, maledettamente ordinato, come tutto in quella casa.

“Vieni, ti aiuto a rifare il letto. Sarà meglio mettere direttamente la trapunta, sta iniziando a fare freddo la notte. Che ne dici?”

“Odio il freddo. Vada per la trapunta.” rispose Bucky aiutando Steve a tirare fuori il necessario dall’armadio.

In due sistemarono rapidamente il letto, entrambi silenziosi.

La stanchezza per quella lunghissima giornata iniziava a farsi sentire per tutti e due. In più per Bucky si stava avvicinando il momento più difficile di tutta la giornata. Il momento in cui era costretto a cedere al sonno, abbassando necessariamente le difese, che teneva costantemente alzate nella sua mente, e i suoi mostri si facevano immancabilmente più forti e più cattivi.

Da quando aveva lasciato l'Hydra, gli incubi erano una triste consuetudine. La notte portava sempre con sé una lotta feroce tra il bisogno fisico di dormire e la volontà di non cedere al sonno. Il risultato erano sonni sempre agitati, pieni di incubi inimmaginabili che al mattino non riusciva a ripetere nemmeno a se stesso.

Spesso la mattina si alzava più stanco di quanto non fosse stato la sera precedente, con un mal di testa feroce e i muscoli che facevano male come dopo uno sforzo prolungato.

Sperava che adesso, in questa nuova casa, con Steve di nuovo al suo fianco, le cose potessero migliorare.

Ci sperava, ma non ci credeva realmente. In più, rispetto alla consapevolezza degli incubi che sarebbero immancabilmente arrivati, una nuova preoccupazione serpeggiava giù nello stomaco. Una preoccupazione nuova, data dalla presenza stessa di Steve.

La paura di far del male a Steve e di farsi vedere in preda agli incubi si faceva largo dentro di lui. Molte volte, chiuso nel suo buco di appartamento a Bucarest, si era svegliato rendendosi conto di aver distrutto i mobili della camera. Alla fine aveva deciso che dormire direttamente sul materasso a terra non era un'idea poi così brutta.

E adesso si trovava lì, nel bel mezzo di quella splendida camera, di fronte a quello splendido letto e aveva una paura folle di rovinare tutto. Come un elefante in una cristalleria.

“Ehi Bucky, vuoi fare una doccia calda prima di andare a letto?“ urlò Steve dal bagno.

L'idea non era poi così male, magari l'avrebbe calmato un po’.

“Ok.” rispose subito Bucky.

“Cinque minuti e ho fatto. Vieni pure.”

Effettivamente cinque minuti dopo Steve uscì dal bagno. Indossava un accappatoio chiaro, e si stava asciugando i capelli con un asciugamano.

“Inizia pure. Il bagno è bello caldo. Io intanto ti porto qualcosa per asciugarti e qualcosa di pulito da mettere.”

Bucky entrò in bagno, si spogliò ed entrò rapidamente sotto la doccia, facendo attenzione a non guardarsi allo specchio. La vista di sé e soprattutto del suo braccio era una cosa da evitare il più possibile. Forse da ora in avanti le cose sarebbero cambiate anche per questo.

Il getto dell'acqua calda in mezzo alle scapole era bollente. Nell'appartamento di Bucarest l'acqua arrivava a malapena tiepida. E mentre era sotto il controllo dell’Hydra aveva perfino dimenticato che esistesse l'acqua calda. Non ricordava di aver mai fatto un bagno così caldo, sarebbe potuto rimanere sotto il getto d’acqua per ore.

“Bucky, cosa preferisci? Telo da bagno o accappatoio?” la voce di Steve lo riportò alla realtà.

Bucky non aveva la benché minima idea di cosa rispondere e decise che la cosa migliore fosse essere sincero.

“Francamente non ne ho la minima idea, non mi ricordo.” disse con una vena di imbarazzo.

“Tranquillo, non è un problema” si affrettò a rispondere Steve.

“Facciamo così, stasera telo da bagno e domani accappatoio, così tra due giorni avremo la risposta.”

Bucky sorrise fra sé. Ottima idea, stavano andando bene. “Ok Cap!” disse, “è un’ottima soluzione.”

Non lo chiamava “Cap” dai tempi della guerra, e anche allora era solo per prenderlo in giro. Per lui non era mai stato “Captain America”, per lui era sempre e solo Steve, Stevie nei momenti più intimi, ma solo poche volte e lontani da orecchie indiscrete.

“Allora ecco qua. Ho appoggiato tutto qui sullo sgabello” disse Steve appoggiando il telo e altri asciugamani.

A malincuore Bucky chiuse il getto di acqua calda e uscì dalla doccia. Trovò il telo e gli asciugamani che Steve aveva preparato per lui. Erano caldi, dato che lo sgabello aveva una posizione tattica accanto al calorifero. Bucky scosse la testa sorridendo tra sé, ripensando al fatto che l'amico era quello sempre previdente e organizzato. Certe cose, per fortuna, non erano cambiate e questo faceva sentire Bucky un po’ più tranquillo e fiducioso nel futuro.

Si asciugò, godendosi immensamente gli asciugamani caldi, e si mise la maglietta e i pantaloni del pigiama che Steve gli aveva portato. Poi uscì dal bagno e si affacciò alla porta della camera di Steve.

Lui era già a letto, appoggiato allo schienale che leggeva un libro, la lampada accesa sul comodino.

“Allora buonanotte Steve, vado a letto” disse Bucky.

“Ok Bucky, buonanotte. Tutto ok? Serve altro?“

“No Steve. Buonanotte.”

Steve appoggiò il libro sul comodino, spense la luce e scivolò sotto le coperte, pronto per addormentarsi. Un attimo dopo sentì i passi di Bucky avvicinarsi di nuovo alla camera.

“Steve?”

“Dimmi Buck, cosa c’è?” rispose Steve con un briciolo di apprensione.

“Ti volevo ringraziare. Per tutto. Davvero. Grazie”. Disse Bucky a scatti, come imbarazzato da quelle parole che però erano volute uscire da sole, come se avessero avuto vita propria.

“Buonanotte Bucky.” rispose Steve con il sorriso nella voce.

Una manciata di minuti dopo Bucky era nel suo nuovo letto. La luce spenta.

SI stava godendo quello che era sicuro essere il letto più comodo della storia. Anche la trapunta era spettacolare, leggera ma calda. Niente a che vedere con le coperte a cui era abituato.

Questo secolo offriva lussi a cui pensava di potersi abituare molto rapidamente e senza sforzi. Rimanere svegli in quel bozzolo caldo era molto più difficile che stando sdraiato su un vecchio materasso appoggiato a terra in un pulcioso appartamento a Bucarest.

Dall'altra camera, poi, arrivava il leggero russare di Steve. Ecco un'altra cosa che non era cambiata. A Bucky ricordava tempi migliori, quel leggero russare gli aveva sempre trasmesso un senso di pace, e anche questo non era cambiato.

Decise che per quella sera poteva anche smettere di lottare contro la stanchezza e scivolò nel sonno in pochi minuti.

Dopo una prima mezz'ora di sonno, gli incubi colpirono forte come al solito. Bucky si ritrovò di nuovo al freddo nella foresta russa, il fucile in mano, appostato nella neve per portare a termine la sua prossima missione.

Una macchina si stava avvicinando piano lungo la strada ghiacciata che attraversava la foresta. Sapeva che era il suo bersaglio, aveva avuto tutto il tempo necessario per leggere la targa. Così uscì dal suo nascondiglio e si piantò in mezzo alla strada, imbracciando il fucile. Un solo colpo al parabrezza fu sufficiente a uccidere il conducente.

La macchina sbandò e uscì di strada in pochi metri. Aveva già ucciso il suo obiettivo, ma gli ordini erano di uccidere anche tutti gli altri passeggeri per evitare testimoni scomodi. Si avvicinò quindi alla macchina per terminare la missione, da bravo soldato. Dentro di sé sapeva che non avrebbe dovuto farlo, che avrebbe almeno dovuto lasciare in vita la moglie e la figlia, ma non poteva andare contro gli ordini.

Il suo corpo si mosse come indipendente dalla propria volontà, avvicinandosi alla macchina con il coltello in pugno, pronto per finire il lavoro. Il pianto della bambina si fece sempre più forte, perforandogli i timpani. Le urla di terrore della madre sempre più terrorizzate. A quel punto anche lui urlò forte, per non sentire più quelle voci e tutta quella disperazione che lo lacerava dentro.

Poi ad un tratto qualcosa cambiò.

“Bucky! Bucky!” qualcuno lo stava chiamando preoccupato. Non capiva, nessuno lo aveva mai chiamato così nel freddo inverno russo. Solo “soldato”, senza un nome, senza nemmeno un numero di matricola.

“Bucky, svegliati! Sono Steve. Bucky!”

Steve era sempre più preoccupato. Si era svegliato di soprassalto alle urla disperate di Bucky ed era corso nella sua camera. La trapunta e il cuscino erano a terra, scaraventati lontano, e Bucky urlava disperato, in posizione fetale, con le mani a coprire le orecchie. I muscoli tesi per proteggersi da chissà quale pericolo.

Steve si era seduto sul letto e aveva cercato di svegliare Bucky in tutti i modi. Lo aveva chiamato, aveva acceso la luce, lo aveva scosso. Ma niente sembrava penetrare la nebbia della sua coscienza e riportare Bucky alla realtà.

Steve non sapeva più cosa fare, ormai preoccupato da morire. Fino a quando, improvvisamente, Bucky non smise di urlare e, nel giro di pochi secondi, aprì gli occhi.

Aveva lo sguardo vuoto, il respiro accelerato come dopo una lunga corsa.

Steve lo chiamò di nuovo, una mano sulla spalla per rassicurarlo e per richiamare la sua attenzione. “Ehi Bucky. È tutto ok. Era solo un incubo.”

Bucky voltò la testa e guardò Steve negli occhi per alcuni secondi poi, improvvisamente, lo riconobbe, scattò a sedere sul letto e gli gettò le braccia al collo, aggrappandosi a lui con tutte le sue forze.

Steve aprì istintivamente le braccia e lo avvolse in un abbraccio protettivo, accarezzandogli la schiena con movimenti lenti per cercare di calmarlo.

“È tutto ok, Bucky. Adesso calmati. È tutto ok. Siamo a casa, al sicuro. Ci sono io, ok?”

Visto che Bucky non sembrava calmarsi, continuò.

”Guardami” disse, allentando l'abbraccio per scostare Bucky quel tanto che bastava per farsi guardare in viso.

Bucky alzò un attimo lo sguardo dal collo di Steve per guardarlo negli occhi e sembrò calmarsi un po’. Annuì e tornò ad affondare la testa nel collo di Steve, bagnandolo con le lacrime che avevano iniziato a scendere. Steve rafforzò l'abbraccio e lasciò a Bucky il tempo di sfogarsi. I singhiozzi sempre più forti.

L’istinto di protezione nei confronti del compagno esplose nella mente e nel petto di Steve. La necessità di proteggerlo era quasi tangibile e si mescolava a una rabbia sorda verso coloro che lo avevano ridotto in quello stato. In quel momento avrebbe potuto uccidere un esercito intero a mani nude.

Ma Bucky non aveva bisogno di questo in quel momento. Dopo tanto tempo con l’Hydra o a fuggire da tutto e da tutti, aveva bisogno di sentire che qualcuno si sarebbe preso cura di lui e non lo avrebbe lasciato solo.

Steve lo capì e rafforzò quell’abbraccio.

Rimasero abbracciati in quel modo per parecchi minuti, con Steve che continuava ad accarezzare la schiena di Bucky, fino a quando i singhiozzi non cessarono e il respiro di Bucky non si calmò.

“Ho freddo.” fu la prima cosa che disse.

“Certo che hai freddo. È normale dopo un incubo del genere. Tu sdraiati, io raccolgo la trapunta.”

Bucky si sdraiò, obbediente. Era ancora profondamente scosso e aveva un feroce mal di testa. Quelle attenzioni da parte di Steve, però, avevano il potere di farlo davvero sentire al sicuro e protetto. Lo facevano sentire come se, malgrado tutto, a qualcuno importasse ancora di lui.

Steve raccolse il cuscino e la trapunta e sistemò di nuovo il letto con pochi gesti veloci, facendo attenzione a coprire Bucky fino al mento. Poi accese la lampada sul comodino e spense le altre, in modo da avere un po’ di luce nella stanza, ma non troppa.

Si sedette sul pavimento, al lato del letto, dalla parte dove era sdraiato Bucky. Lui era di nuovo in posizione fetale e Steve aveva ancora la mano sulla sua spalla, per fargli sentire in modo tangibile la sua presenza. Guardandolo negli occhi Steve chiese semplicemente, con voce dolce: “Va meglio?”

Bucky annuì, sforzandosi di sorridere. Il sorriso non raggiunse gli occhi, ma Steve apprezzò comunque il tentativo.

“Succede spesso?” chiese Steve un po’ titubante.

“Ogni notte, da quando ho lasciato l'Hydra. E non migliora” si sforzò di rispondere Bucky. Dopo gli incubi era sempre stanchissimo, come se lo prosciugassero dentro.

“Vuoi parlarne?“ chiese Steve.

“No, preferirei di no” rispose Bucky esausto. Steso al caldo sotto la trapunta la tensione se ne stava andando e la stanchezza stava prendendo di nuovo il sopravvento. Anche il mal di testa sembrava migliorare.

“Dovremmo affrontare il problema. Non puoi continuare così” ma Steve si rese conto che Bucky faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Quello non era il momento per affrontare un problema di quella portata.

“Ne parliamo un'altra volta. Adesso dormi,” continuò “resto ancora un po’ qui, finché non ti addormenti.”

“Una volta ero io che ti dicevo cosí quando stavi male” ricordò Bucky con un mezzo sorriso. “Adesso dormi” rispose semplicemente Steve sorridendo di rimando. “Vediamo se riesci a riposare un po’.”

Bucky chiuse gli occhi per qualche secondo e poi li riaprì improvvisamente chiedendo, con la voce già impastata dal sonno: “Puoi lasciare la luce accesa?”

“Ma certo, non lo diremo a nessuno. Sarà il nostro segreto,” provò a scherzare Steve per allentare la morsa che gli stringeva il petto, continuando a massaggiare le spalle di Bucky da sopra la trapunta, per tranquillizzare più se stesso che l'amico.

In pochi minuti Bucky si addormentò profondamente e i suoi lineamenti piano piano si rilassarono nel sonno.  

Nel vedere l'amico profondamente addormentato Steve tirò un respiro di sollievo.

A quel punto poteva anche decidere di tornare in camera sua per provare a dormire qualche ora, ma si rese conto che rimanere lì a guardarlo semplicemente dormire era molto più bello che tornare nel suo letto.

Fu il freddo a decidere per lui e a costringerlo a tornare in camera sua. Lasciò la luce accesa sul comodino per tranquillizzare Bucky e le porte delle due camere spalancate per tranquillizzare se stesso.

SI aspettava che Bucky potesse avere incubi, ma non si aspettava niente di quella portata. Avrebbero dovuto trovare il modo per uscire da quella situazione, Bucky non poteva sopportare quello strazio tutte le notti. Dovevano trovare una soluzione, e alla svelta.

Ma domani mattina, pensò Steve tornando in camera sua.

Si mise sotto la trapunta, facendo però attenzione a lasciar fuori la testa per esser sicuro di sentire Bucky in caso di necessità e dopo qualche minuto si addormentò.

Steve si svegliò circa mezz'ora dopo, inizialmente senza capire cosa lo avesse svegliato. Gli servirono alcuni secondi.

La voce di Bucky che parlava in russo lo riportò alla realtà come una secchiata d’acqua gelata. In una manciata di secondi fu di nuovo accanto al letto dell'amico.

Bucky si stava agitando nel sonno e stava parlando chiaramente in russo. Steve non capiva una parola, ma non sembrava essere una conversazione tranquilla. Bucky sembrava terrorizzato da ciò che stava vedendo nei suoi incubi, I muscoli di nuovo contratti, il petto che si alzava e si abbassava veloce in cerca di aria. Sicuramente si trattava un altro incubo.

Stavolta, però, Steve non fu colto di sorpresa. Aveva capito che chiamarlo non serviva poi a molto e che, invece, fargli sentire la sua presenza in modo tangibile funzionava molto meglio.

Iniziò allora a massaggiargli le spalle e a dirgli con voce calma: “Ehi Bucky! Sono Steve, Bucky. Sono qui, non sei solo, Bucky. ”

Dopo alcuni istanti Bucky sembrò calmarsi grazie al tocco di Steve. Smise di parlare e i muscoli sembrarono allentare un po’ la loro morsa.

Ma Bucky non si svegliò, sembrò tornare ad un sonno tranquillo senza essersi reso conto della presenza dell'amico al suo fianco. Steve sistemò per l'ennesima volta le coperte e continuò a tenere il braccio sulle spalle di Bucky.

Ormai dormire non era più possibile, quindi andò rapidamente in camera sua, prese una felpa di pile, se la mise sopra la maglietta e tornò in camera di Bucky accovacciandosi di nuovo al lato del letto, deciso a passare la notte al suo fianco. Non sapeva esattamente cosa potesse fare per aiutarlo, ma lasciarlo solo era fuori discussione.

La mattina, quando Bucky aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu Steve addormentato di fianco al letto, seduto in terra, incastrato tra il comodino e il materasso, e istintivamente sorrise.

“Cretino,” disse a mezza voce.

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Capitolo 4
*** Tempo ***


Quando Bucky si svegliò quella mattina, la prima cosa che vide fu Steve addormentato di fianco al suo letto, seduto in terra, incastrato tra il materasso e il comodino.

Ricordava vagamente di aver avuto i soliti incubi quella notte, ma non ricordava molto altro. Probabilmente Steve, preoccupato da quegli incubi, aveva passato la notte accanto al suo letto per tentare in qualche modo di tranquillizzarlo.

“Cretino,” pensò tra sé.

Però doveva ammettere che aveva funzionato, almeno in parte. Quella notte era riuscito a dormire un po’, sicuramente più del solito.

Ma a quale prezzo? Steve aveva passato la notte al freddo, seduto per terra accanto al suo letto.

Senza considerare il fatto che, nel bel mezzo del sonno, avrebbe potuto non riconoscerlo e fargli del male. Il soldato d'inverno era sempre presente nella sua mente, o almeno così credeva, e il fatto che potesse tornare fuori all'improvviso lo terrorizzava, soprattutto la notte.

Al solo pensiero si accigliò e sospirò con disappunto.

Il sonno leggero di Steve si interruppe immediatamente e lui scattò come una molla, pensando che si trattasse di un altro incubo dell’amico.

Quando vide gli occhi di Bucky aperti, però, sorrise, un po’ imbarazzato per tanta sollecitudine.

“Sei sveglio!” disse sorridendo e grattandosi la nuca con quel gesto tanto familiare a Bucky. Un gesto che Steve faceva automaticamente tutte le volte che era imbarazzato.

Bucky annuì, poi, con una nota di preoccupazione nella voce chiese: “Da quanto tempo sei lì?”

“Non saprei, circa quattro ore, credo.”

“Non dovevi passare la notte qui.” rispose Bucky con un tono perentorio che, inizialmente, spiazzò l'amico. Poi Bucky continuò a parlare e Steve ne capì rapidamente il motivo.

“Quando dormo non ho il controllo di ciò che faccio. Non voglio che tu mi stia vicino mentre dormo. Potrei farti male.” disse Bucky serio.

“Stanotte non sembrava un problema” rispose Steve.

“Steve, sono serio. Non voglio che tu mi stia vicino mentre dormo. Stanotte non ero in me, mi ricordo a malapena cosa sia successo. ”

“Appunto.” rispose Steve.

”Il fatto che stanotte tu non fossi in te dimostra quanto tu abbia bisogno di qualcuno vicino.”

“Steve, per favore, voglio solo che tu non ti faccia male e che tu stia al sicuro.” continuò Bucky con un tono implorante nella voce.

“Non posso lasciarti solo ad affrontare tutto questo, Bucky. È fuori discussione!” rispose Steve serio.

“È pericoloso. Lo vuoi capire?”

“Esattamente come era pericoloso che tu mi stessi accanto giorno e notte quando prendevo la polmonite tutti gli inverni prima della guerra. Non ricordo quante volte te lo abbiano detto, sia la mamma che il dottore, eppure non c'era modo di spostarti da lì.”

A quel ricordo Bucky tacque. Era vero. Il dottore era sempre stato chiaro in merito. Ma a lui non era mai importato se fosse pericoloso o meno, se ci fosse il rischio di ammalarsi o meno. Lasciare Steve solo ad affrontare gli effetti della polmonite, soprattutto di notte, era fuori discussione. La febbre, la tosse, i respiri strozzati che non bastavano mai.

Bucky non si allontanava mai dal letto di Steve. Mai.

“Ti prego,” continuò Steve “dammi la possibilità di prendermi cura di te. Non mi allontanare, ti prego.”

Gli occhi di Bucky si riempirono di lacrime, e stavolta non fece niente per fermarle. Erano lacrime buone, lacrime calde che lavavano via lo sporco e il freddo che l'Hydra aveva lasciato dentro di lui.

Bucky le lasciò scorrere per un po’, occhi negli occhi con l'amico. Poi disse sottovoce: “Mi abbracceresti, Stevie? Ne ho un gran bisogno.”

Steve non se lo fece dire due volte. In un attimo fu sul letto con lui, le braccia aperte ad accogliere Bucky, anche lui gli occhi lucidi al sentirsi chiamare, dopo tutto quel tempo, con quel nomignolo tanto amato.

Stettero abbracciati sul letto per un tempo infinito. In quel momento il tempo non esisteva più.

Il tempo aveva giocato con loro per tutta la vita, ma in quel momento perfetto non aveva più potere su di loro.

Quando erano ragazzi il tempo sembrava volare e non ce ne era mai abbastanza per stare insieme lontani da occhi indiscreti.

Poi era arrivata la guerra e il tempo si era fermato come sull'orlo del precipizio, in attesa che Bucky partisse per il fronte.

Poi quella notte, quando si erano ritrovati oltre le linee nemiche, il tempo aveva iniziato nuovamente a volare, tra un combattimento e l'altro.

Poi la caduta, quella maledetta caduta che aveva portato via tutto. Dopo quella caduta il tempo aveva continuato a scorrere inesorabile, ma per Steve non aveva più senso. Non c'era più passato né futuro, era rimasto solo il dolore che, come un buco nero, sembrava risucchiare tutto. Era come se il mondo continuasse inevitabilmente a girare, ma lui fosse rimasto fermo a quell'istante sul treno.

Poi il ghiaccio per l'uno e l'Hydra per l'altro avevano fatto il resto. Uno strappo nel tempo di settant'anni che li aveva catapultati in un mondo che non era più loro, dove il tempo correva a velocità vertiginosa.

Ma lì, abbracciati su quel letto, tra quelle lenzuola, erano di nuovo insieme e il tempo non aveva più potere su di loro.

In silenzio, guardandosi negli occhi, piangendo insieme, si erano detti tutto senza parlare.

Le carezze dell'uno portavano via il dolore dell'altro. Senza più vergogna o ritegno.

“Mi sei mancato così tanto,” disse Steve con un filo di voce. Le mani sul volto dell'amico, del compagno di una vita.

Bucky sorrise. Senza dire una sola parola accarezzò il volto di Steve e si avvicinò a lui. I loro volti vicinissimi. Poi, in un soffio, chiese: “Posso?”

Steve non rispose, semplicemente chiuse gli occhi e aspettò di sentire le labbra di Bucky sulle sue.

E successe. Fu una carezza, solo un soffio, ma fu tutto.

In quel letto, tra quelle lenzuola, il tempo riprese il suo corso, benevolo, portando con sé la speranza di un nuovo futuro insieme.

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