Gli androidi sognano... ? di Roiben (/viewuser.php?uid=601789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** chapter 01. End or Beginning ***
Capitolo 2: *** chapter 02. Questionable Solutions ***
Capitolo 3: *** chapter 03. Preparations and Unexpected Proposals ***
Capitolo 4: *** chapter 04. Emergency Exit ***
Capitolo 5: *** chapter 05. Snow ***
Capitolo 6: *** chapter 06. Awakenings ***
Capitolo 7: *** chapter 07. To mutate ***
Capitolo 8: *** chapter 08. Losses ***
Capitolo 9: *** chapter 09. Research ***
Capitolo 10: *** chapter 10. Decisions ***
Capitolo 11: *** chapter 11. Compromises ***
Capitolo 12: *** chapter 12. Grey ***
Capitolo 13: *** chapter 13. Minds in disarray ***
Capitolo 14: *** chapter 14. A plan and its accomplishment ***
Capitolo 15: *** chapter 15. In my mind ***
Capitolo 16: *** chapter 16. A name ***
Capitolo 17: *** chapter 17. A new home ***
Capitolo 18: *** chapter 18. Contradictions ***
Capitolo 19: *** chapter 19. Explanations ***
Capitolo 20: *** chapter 20. Doubts and hypothesis ***
Capitolo 21: *** chapter 21. First Connection ***
Capitolo 22: *** chapter 22. Children ***
Capitolo 23: *** chapter 23. Something to live for ***
Capitolo 24: *** chapter 24. Squabbles ***
Capitolo 25: *** chapter 25. Together ***
Capitolo 26: *** chapter 26. Hitches ***
Capitolo 27: *** chapter 27. News of the World ***
Capitolo 28: *** chapter 28. Too many questions. No answer. ***
Capitolo 29: *** chapter 29. Black-out ***
Capitolo 1 *** chapter 01. End or Beginning ***
Gli
androidi sognano... ?
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chapter
01. End or Beginning
DETROIT
Date
NOV
11TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-49
Time
PM
11:07
Dopo
essersi a fatica liberato delle guardie che lo attendevano con una
certa impazienza all’ultima fermata dell’ascensore,
Connor pensa
di essere ormai a un solo passo dal completare infine la propria
missione, ridestando il primo di migliaia di androidi ancora nella
mani della Cyberlife. Ebbene: sbagliava, e lo comprende nel momento
in cui la sua stessa voce, da poco distante, gli intima di fermarsi.
Guardare
in faccia sé stessi risulta piuttosto disturbante,
soprattutto se
quel sé stesso punta una pistola alla testa
dell’unico collega mai
avuto dall’alba della sua prima attivazione.
Ascolta
le scuse del tenente Anderson senza mai distogliere lo sguardo da
quell’altro.
“Sparerebbe davvero ad Hank?” si domanda,
crucciato. “Certo che
lo farebbe”. In fondo lui stesso ha appena ucciso delle
guardie;
guardie umane. Nulla al mondo impedirebbe a quell’altro
di fare la stessa cosa con il suo collega, nel caso in cui lo
ritenesse necessario.
È
indeciso: non desidera essere la causa della morte del tenente, ma al
tempo stesso la prospettiva di abbandonare la propria missione non
è
meno tollerabile. Dunque che fare? Sposta lo sguardo negli occhi di
Hank e decide: troverà un’altra via per
raggiungere l’obbiettivo,
un modo che non lo costringa a sacrificare un’altra vita
umana.
Lascia lentamente la presa sul braccio dell’androide ancora
ignaro
e solleva le mani in segno di resa. Un lampo di sorpresa lo coglie
quando il tenente approfitta della momentanea distrazione di
quell’altro
per tentare di disarmarlo. Non riesce purtroppo nell’impresa,
ma
Connor è rapido nello schivare lo sparo che ne segue e senza
perdere
un secondo in più si getta contro la propria copia,
allontanandolo
dal collega e azzuffandosi senza molto successo sul lucido pavimento
dei sotterranei della Tower; d’altra parte possiedono
capacità
praticamente identiche e le stesse possibilità di vittoria:
un colpo
di fortuna sarebbe l’unico modo per sopraffare
l’altro.
«Fermi!»
intima la secca voce del tenente Anderson.
Entrambi
i Connor sospendono le ostilità e spostano
l’attenzione sull’uomo
che tiene entrambi sotto tiro, fissandoli in modo truce ma anche con
un senso di disagio ben palpabile.
Poiché
a colpo d’occhio risulta impossibile distinguere
l’uno dall’altro
i due androidi e lasciare che si facciano a pezzi sarebbe certamente
controproducente, Hank sta disperatamente cercando di venire fuori da
quell’assurda impasse e un aiuto, inatteso ma sicuramente
gradito,
gli giunge proprio da uno dei due Connor,
il quale ragionevolmente suggerisce di proporre loro alcune domande
alle quali, di norma, solo il Connor
originale dovrebbe poter fornire risposte corrette. Hank, non senza
un pizzico di gratitudine per quella possibile soluzione, accetta la
proposta e torna a scrutare entrambi, indagatore, mentre riflette
sulla sua prima domanda, sotto lo sguardo apparentemente e
stranamente ansioso dei due androidi.
«Uh…
Dove ci siamo incontrati la prima volta?»
domanda Hank con una sfumatura leggermente sarcastica nella voce.
Il
Connor
alla sua destra, con prontezza, dà la risposta esatta;
quello fermo
alla sua sinistra si acciglia e mormora fra sé una
considerazione
che il tenente non è in grado di decifrare, ma quando
solleva gli
occhi su di lui può notare della preoccupazione e, forse,
perfino
dell’angoscia sul suo volto. Scuote il capo, come a
schiarirsi le
idee; è troppo presto per trarre conclusioni, servono
maggiori
conferme. Così rinsalda la presa sulla pistola, tenendoli
attentamente sotto tiro, e si presta a porre la sua seconda domanda.
«Qual
è il nome del mio cane?»
Questa
volta è il Connor
alla sua sinistra a rispondergli, anticipando di poco quell’altro,
e Hank si domanda se quella piccola smorfia quasi invisibile sulle
sue labbra fosse ironia, mentre pronunciava il nome corretto.
“Proviamo” pensa, sospirando mentalmente, e infine
dalla sua
bocca scivola la terza e, spera, ultima domanda.
«Mio
figlio, qual è il suo nome?»
chiede, rivolgendosi direttamente al Connor
che, dei due, gli è parso il più promettente.
Per
una volta tanto, nella propria vita, non rimane deluso dalla replica
sicura dell’androide interrogato. Invece rimane sorpreso e un
poco
turbato dalle parole che aggiunge in seguito e che suonano quasi come
una richiesta di perdono. “Ma perdono per che cosa, per
l’amor
del cielo?” sbotta fra sé, amareggiato. Eppure ha
la sensazione
che ciò che scorge in quegli occhi sia reale, che quella che
appare
tristezza e pena non sia unicamente finzione, una mera imitazione
dell’umano, e se non lo è Hank non ha
più motivi per dubitare
della propria scelta.
«Cole
è morto perché il chirurgo umano era troppo fatto
di red ice per
operare. È stato lui a prendersi mio figlio. Lui e questo
mondo,
dove l’unica via che hanno le persone per trovare conforto
è con
un pugno di polvere» puntualizza, abbassando di poco
l’arma che
ancora impugna, senza staccare gli occhi da quelli
dell’androide.
Poi, quasi a tentare di giustificare la scostanza spesso spiacevole
dei suoi modi, decide di dire tutto quanto, perché sappia
ogni cosa,
finalmente. «Ogni volta che muori e poi torni
indietro… io penso a
Cole, a quanto vorrei riportarlo indietro. Darei qualunque cosa per
stringerlo di nuovo. Ma gli esseri umani non tornano
indietro»
soffia addolorato, perdendosi un attimo nei propri ricordi e
lasciando momentaneamente ricadere le braccia lungo i fianchi.
Evidentemente
quell’altro
non aspettava che quella piccola distrazione per riprendere il
controllo della situazione; lesto scatta in avanti, sferrando un
pugno nello stomaco del tenente e strappandogli velocemente dalle
mani la pistola. Rapido si volta e spara un colpo, tentando di
eliminare finalmente il maledetto deviante ma mancando il bersaglio,
il quale invece lo prende di sorpresa assestandogli un calcio alle
caviglie e facendolo piombare a terra; la pistola gli sfugge di mano
ma, lungi dal lasciar correre, risponde all’attacco del
deviante
con egual impeto.
E
sono entrambi nuovamente a terra, intenti nell’utopica
speranza di
prevalere sull’altro mentre invece fanno del proprio meglio
per
demolirsi a vicenda, quando Hank rientra in possesso della pistola
scivolata a terra e, attendendo il momento più propizio fra
un colpo
e l’altro, spara colpendo al petto uno dei due androidi. Lo
osserva
con distacco crollare sulle ginocchia senza curarsi eccessivamente
dei suoi occhi sgranati e curiosamente increduli. Sospira e abbassa
l’arma, ritenendo che questa volta sia realmente finita.
«Scelta
sbagliata, tenente»
lo sorprende impreparato la voce di Connor.
Solo
che quello che ha appena parlato non è affatto il suo
collega, non
con quell’espressione disinteressata stampata sulla sua
faccia
finta, non con quegli occhi così vuoti di ogni emozione
vagamente
umana. Risolleva la pistola e gliela punta diritta in volto, deciso a
fargli saltare la testa dal collo una volta per tutte.
«Oh,
può spararmi, se lo desidera. Ma non le servirebbe a molto,
temo: un
altro Connor prenderebbe il mio posto per portare a termine la
missione»
lo deride l’androide.
È
completamente smarrito, Hank, mentre rimane immobile lasciando che
l’androide lo superi e riguadagni l’uscita della
Tower. La
confusione e il senso di sconfitta non sono nulla se paragonati
all’orrore nel realizzare di aver appena ucciso
l’androide sbagliato. Solleva gli occhi lentamente, fino a
incontrare Connor, ancora immobile nel punto in cui lo ha colpito,
ancora con la stessa incredulità negli occhi vitrei.
«Che
cosa ho fatto?»
soffia.
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HART
PLAZA
Downtown
Time
PM
11:58
Vede
nitido il volto del leader dei devianti attraverso il mirino del
fucile di precisione che imbraccia con sicurezza, e già si
appresta
a premere il grilletto per portare a termine la propria missione,
quando il suo udito lo mette in guardia sull’inatteso rumore
di
passi che percorrono le scale poco distanti e della porta che
dà
sulla terrazza che si spalanca con forza, lasciando libero
l’accesso
a una piccola squadra di SWAT armati di tutto punto e, lo scopre
dalla voce che gli intima di lasciare l’arma, comandati dal
capitano Allen.
Chiude
gli occhi per un lungo istante. Se non sapesse con estrema certezza
di essere una macchina, riterrebbe di provare noia e, soprattutto, un
fastidio molto acuto per quell’ennesima complicazione.
D’altra
parte non è certo un deviante, lui, pertanto con tutta calma
si
rialza, trattenendo il fucile poggiato al fianco, e si volta a
fronteggiare la nuova seccatura, augurandosi di potersela sbrigare in
fretta e tornare al suo più urgente incarico.
Non
ha l’ordine di giustiziare esseri umani, certo, e tuttavia
neppure
il divieto di farsi strada a loro spese. Per questo, dopo aver
inutilmente dibattuto di doveri inderogabili con l’uomo a
capo
della squadra, perdendo fra le altre cose tempo prezioso e anche una
certa dose di pazienza, stabilisce che non valga per nulla la pena di
continuare a cercare di trattare con esseri umani che, evidentemente,
non sono in grado di comprendere l’importanza del suo compito.
In
pochi istanti calcola le proprie possibilità, poi scatta
veloce,
tramortendo il capitano Allen con il calcio del fucile, sottrae la
sua arma e nel tempo che il poliziotto impiega per crollare a terra
privo di sensi liquida il resto della squadra con pochi colpi sicuri.
Un’occhiata
alla balconata lo avverte che non c’è
più molto tempo per
gingillarsi ulteriormente con i poliziotti umani; recupera quindi due
paia di manette dai corpi degli agenti morti e, dopo aver
sbrigativamente trascinato il capitano per una gamba fino alla
balaustra, lo ammanetta alle sbarre così da evitare
ulteriori e
possibilmente fastidiose interruzioni.
Di
nuovo di fronte al parapetto, controlla il proprio fucile,
assicurandosi che non abbia subito danni durante la colluttazione e,
soddisfatto dei risultati dell’indagine, lo riposiziona
attentamente in direzione dell’obbiettivo, osservando con
cura
attraverso il mirino. Sì, nulla è cambiato: lui
è ancora bloccato su quella piazza, circondato dai suoi
subalterni e
dalle squadre armate degli agenti dell’FBI e della polizia,
sempre
alla ricerca di una soluzione pacifica a un problema con tutta
probabilità insolvibile. Non ne avrà il tempo,
non più.
Si
assicura sulla quantità di colpi a disposizione, toglie la
sicura,
sposta il peso sul ginocchio poggiato a terra e reclina appena il
capo a destra; sposta di un soffio la traiettoria verso
l’alto e fa
fuoco: una, due, tre, quattro volte, osservando con una punta di
soddisfazione cadere altrettanti inutili devianti e con essi il loro
illogico sogno di libertà.
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-49
Time
PM
11:16
Avverte
le ginocchia molli mentre i suoi occhi non riescono in alcun modo a
staccarsi dalla figura immobile di Connor. Prova a deglutire, ma la
sua gola è secca e non gli dà nessun conforto.
Tenta un passo,
vacilla, avanza di un secondo passo, poi di un terzo, infine le sue
ginocchia cedono e, senza realmente volerlo, si ritrova a pochi palmi
dal volto del suo collega, o forse a questo punto dovrebbe dire
ex-collega, perché di certo quella cosa
che è uscita da poco dalla Tower non avrà
più possibilità di
avvicinarsi abbastanza a lui senza ritrovarsi con un buco in fronte.
Solleva
un braccio, incerto, e allunga appena una mano, ma decisamente sembra
che il proprio corpo non abbia nessuna intenzione di toccarlo. Una
lacrima scivola veloce perdendosi nella sua barba incolta. Da quanto
tempo non piangeva? L’ultima volta aveva un figlio da
seppellire. E
ora? Non gli rimarrà neppure il conforto di una tomba.
«Mi
dispiace. Io… Perdonami» mormora, interrotto da un
doloroso
singulto. «Ho… combinato un casino, ma…
non volevo che finisse
così».
E
non ha idea se si stia rivolgendo alla propria coscienza, a un
fantomatico dio in cui non crede più da un bel pezzo, oppure
all’idea
di anima che può immaginare si fosse insediata in quel corpo
fabbricato da esseri umani. Non lo sa, ma ha comunque bisogno di
giustificarsi, di chiedere perdono, a qualunque entità
voglia
prendersi il disturbo di ascoltarlo.
Sospira,
sfiora appena con le dita la tempia dell’androide,
là dove non
brilla più il led. Un’altra lacrima abbandona i
suoi occhi.
«Connor»
sillaba senza più voce.
Le
sue braccia stringono un corpo che forse non è mai stato
realmente
vivo, ma che la sua mente considerava quello di un amico, ed
è
quando avverte la ruvidezza dei suoi abiti sempre impeccabili sotto i
palmi delle mani e il solletico di una ciocca di fini capelli sulla
guancia che decide. Suo figlio è morto: era un essere umano,
non
poteva riportarlo indietro in alcun modo. Ma Connor non era umano, ed
è sempre tornato da lui, in un modo o nell’altro.
Ora che non può
più farlo, penserà Hank stesso a trovare il modo,
il modo per
riavere l’unica creatura sulla faccia della Terra cui ancora
tiene
(oltre a Sumo, chiaro).
Con
un po’ di impiccio, rafforza la stretta della braccia e lo
risolleva da terra. E, diavolo, lo ricordava molto più
leggero! “Ci
avranno aggiunto altra ferraglia inutile, dall’ultima
volta”
borbotta fra sé. Con attenzione se lo carica in spalla e,
lentamente, raggiunge l’ascensore che li porterà
al parcheggio,
per recuperare la propria auto. Al resto penserà una volta
fuori da
quel posto maledetto.
Prima
che l’ascensore parta, getta un’ultima occhiata al
mare di
androidi ancora ignari che sembrano occupare l’intero piano,
e una
fitta di dispiacere va a sommarsi al suo già gravoso
fardello. Ma si
ripromette che, se i suoi piani andranno come spera, qualcosa forse
potrebbe ancora risvegliarli. Qualcosa o… qualcuno.
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NdA:
Questa
è una “What If?” per più di
un motivo.
Il
principale è, come forse si sarà intuito, che
dopo la gita
di Connor alla Cyberlife Tower i fatti non vanno più in
alcuno dei
modi progettati dall’autore del gioco. Markus, North, Josh e
Simon
erano vivi... Erano,
appunto, prima che arrivasse Connor 2 la vendetta e li fucilasse
tutti in massa. Pensare che volevo salvare Simon, inizialmente. La
situazione dev’essermi sfuggita un attimino di mano a un
certo
punto. Ma il capitano Allen l’ho salvato (anche se lo
sopporto
male).
In
secondo luogo ho dovuto rimaneggiare gli orari perché con
due Connor
sulla piazza mi si complicava un poco la faccenda e non riuscivo a
far quadrare i conti in alcun modo (originariamente Connor si trova O
alla Cyberlife Tower O in Hart Plaza).
Poi,
beh, la coppia canonica di Markus e North è saltata, qui. Al
posto
della donzella non proprio gentile ci ho messo l’androide
imbranato, ovvero Connor, quello con problemi di relazioni
interpersonali anche quando deve avere a che fare con
un’unica
persona o con un cane.
Ultimo
appunto: qui Connor è morto due volte. La prima investito in
autostrada mentre insegue Kara. La seconda dopo aver deciso di
proteggere Hank dal deviante alla Stratford Tower. Sono le uniche due
volte che ho trovato che non incidono troppo negativamente sulla sua
relazione con Hank e al contempo che non lo fanno sembrare troppo
impedito.
Il
resto si vedrà strada facendo. Buona
lettura.
Roiben
|
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Capitolo 2 *** chapter 02. Questionable Solutions ***
chapter
02. Questionable Solutions
DETROIT
Date
NOV
12TH,
2038
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HART
PLAZA
Downtown
Time
AM
05:32
Gli
ultimi devianti vengono scortati sulle camionette della polizia per
essere condotti in un secondo momento al campo di smaltimento. Sulla
piazza non restano che rottami sventrati, macerie e alcuni corpi di
androidi fuori uso che sono stati lasciati indietro in favore di
quelli ancora attivi e quindi potenzialmente più
problematici.
Un
piccolo drappello di uomini, una squadra che non sembra appartenere
né a gruppi di polizia né a guardie di alcun tipo
conosciuto,
sciama fra gli operosi tutori dell’ordine, i giornalisti e i
curiosi più irriducibili, osservando con cura gli androidi
abbattuti
e abbandonati a terra. Apparentemente cercano qualcosa di preciso e,
nel momento in cui lo trovano, lo prelevano con discrezione e con
esso scompaiono badando a non dar troppo nell’occhio.
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ZEN
GARDEN
Time
AM
07:21
Passeggiano
tranquillamente su di un bianco ponte sospeso sul dolce corso
d’acqua. La luce ambrata sulla sua tempia lampeggia a tratti
mentre
i dati degli ultimi avvenimenti vengono accuratamente elaborati e
analizzati.
«Sono
molto soddisfatta dei risultati che hai ottenuto» assicura
Amanda,
lo sguardo fisso sul paesaggio fittizio che si estende davanti ai
loro passi. «I nostri tecnici stanno già
esaminando qualcuno dei
campioni prelevati sul posto per individuare il problema e fare in
modo che gli ultimi fatti non debbano ripetersi in futuro»
spiega
con tono tranquillo.
Giunti
sull’altro lato della sponda, Amanda si volta lentamente e
osserva
con attenzione il suo accompagnatore, poi gli fa cenno di seguirla
verso un pergolato fiorito.
«E
c’è una novità che sono certa potrai
apprezzare» prosegue
pacata, guidandolo incontro a un rosso reticolo di rose.
Connor
solleva lo sguardo e aggrotta appena le sopracciglia, trovandosi di
fronte a un secondo androide, in parte simile a sé stesso ma
in
qualche modo differente. La nuova figura lo squadra senza traccia di
curiosità, posando su di lui occhi grigi e fastidiosamente
insondabili. È più imponente e non dà
l’impressione di provare
alcun genere di interesse per la sua presenza lì, ma Connor
avverte
una sorta di disagio inspiegabile al suo cospetto e, suo malgrado,
distoglie lo sguardo spostandolo invece su Amanda a richiedere
silenziosamente qualche chiarimento.
«Questo
è il nuovo prototipo, un modello più avanzato,
come puoi ben
notare, certamente più efficiente. Sono certa
saprà darci molte
soddisfazioni, in un breve futuro. È già
piuttosto richiesto, in
effetti» assicura, quasi con allegria.
«Un
modello più avanzato» ripete piano Connor fra
sé, lasciando
trapelare lieve preoccupazione. «Questo significa»
pondera, in un
alacre lavorio di processori «che non ci sarà
più bisogno di me»
considera con una verosimile dose di certezza.
«Ovviamente
è così. Il tuo sistema è attualmente
troppo obsoleto per poter far
fronte alle nuove esigenze dell’azienda» spiega
ragionevolmente.
«Capisco»
replica asciutto, riservando un ultimo fugace sguardo
all’altro
androide. Annuisce seccamente, raddrizza impercettibilmente le spalle
e piega appena il capo in gesto di accettazione e congedo.
«Con
permesso» annuncia, prima di voltare la schiena ai presenti e
allontanarsi per andare incontro all’oblio.
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HANK’S
HOME
115
Michigan Drive
Time
AM
01:08
Infilare
Connor dentro l’automobile è stato un
bell’impiccio, ma trarlo
fuori si rivela essere un vero tormento: in un paio di occasioni ha
seriamente corso il rischio di staccargli un braccio, incastrato
prima fra la cintura di sicurezza e il sedile, e poi fra il cruscotto
e lo sportello. “Dannati androidi” borbotta
mentalmente, per poi
stringere le labbra, scandalizzato dai suoi stessi pensieri. Sta
perdendo lucidità, e non c’è molto che
possa fare, al momento,
per ovviare al problema. E probabilmente sarebbe sconsigliabile
attaccarsi alla bottiglia di bourbon, dati i suoi progetti imminenti.
Sbuffa irritato, trae un gran respiro e, barcollante si trascina fin
dentro casa, badando a non fracassare la testa di Connor contro lo
stipite della porta, o non gli rimarrà granché da
rimettere insieme
per riavere il suo collega.
«Manca
poco» mormora, non sapendo se le sue parole servano a
rassicurare sé
stesso o il proprio passeggero.
Una
montagna di pelo gli si fa pesantemente incontro, rischiando di
mandarlo gambe all’aria, e Hank sibila
un’imprecazione fra i
denti e grida «Non ora, Sumo! Tieni le tue feste per un
momento
migliore e le zampe a terra» guadagnandosi
un’occhiata perplessa e
sorpresa dal grosso San Bernardo, il quale però sembra
intuire delle
preoccupazioni nel suo umano e accetta di buon grado di seguirlo da
lontano per evitare di intralciarlo.
«Merda,
sono troppo vecchio per queste stronzate» lamenta Hank a
corto di
fiato, lasciando scivolare il corpo dell’androide sul suo
divano e
rimanendo a fissarlo pensieroso per un lungo momento, con la schiena
dolorante e troppi crucci in testa.
In
corridoio apre alcuni cassetti pieni di quaderni ingialliti, fogli
volanti e qualche cartellina, rovistando con irritazione crescente e
riuscendo a scovare nel marasma senza senso un piccolo libriccino
consunto: la sua vecchia agenda, nella quale ha trascritto a mano
numeri di gente che un tempo evidentemente reputava di una qualche
importanza e della quale, ora come ora, ignora l’esistenza (o
la
non esistenza, considerando che da anni non si prende la briga di
sapere se alcuni di loro siano ancora vivi e vegeti).
In
fretta scorre i fogli un po’ rovinati, fino a fermare la
punta
dell’indice sul nome che gli interessa; spera che questo in
particolare appartenga a una persona viva, perché in caso
contrario
si ritroverebbe ancor più nei guai e senza la minima idea di
come
venirne fuori.
Un
po’ stancamente, perché la giornata appena
trascorsa è stata
abbastanza pesante e la serata un vero calvario, si accomoda sulla
poltrona e trae un lungo respiro percependo il suo corpo rilassarsi
per la prima volta da interminabili ore. Chiude gli occhi e si
concede ancora qualche prezioso minuto di calma, anche se la pace non
è in grado di raggiungerlo davvero, visto il continuo
tormento che
pungola la propria coscienza.
Recupera
il cellulare dalla tasca della giacca che ancora indossa, dà
un’altra occhiata all’agenda e si decide infine a
comporre quel
numero, contando a mente gli squilli e pregando che qualcuno,
dall’altra parte, si decida a rispondere in fretta,
possibilmente
prima che gli saltino definitivamente i nervi. Al settimo squillo,
ringraziando il cielo, viene premiato con un
«Pronto» strascicato
in tono appena irritato.
«Dick,
sei tu? Sono Hank» prova.
Ciò
che ottiene, e che gli fa aggrottare le sopracciglia, è una
risata
fin troppo prolungata per i suoi gusti e il suo attuale stato
d’animo. Ha comunque avuto modo di riconoscere il timbro e,
con
voce dura, torna a parlare.
«Non
sarei così allegro, fossi in te. Ho un problema e tu dovrai
risolvermelo» annuncia in un modo che dà
l’idea di una minaccia,
piuttosto che di una richiesta.
«Ah
sì? Beh, diavolo, sono felice anche io di
risentirti» replica il
suo interlocutore.
«Scommetto
che non lo sarai ancora per molto» lo fredda, per nulla
divertito.
«E credimi, sono certo di vincerla, questa volta».
Un
sospiro, dall’altro lato della linea, lo avverte che le sue
parole
si riveleranno forse veritiere ben prima del previsto.
«Cosa
ti serve? Spero nulla di illegale… Non troppo,
almeno».
Hank
solleva gli occhi su Connor e scuote il capo. «Non credo. A
meno che
non abbiano fatto uscire una nuova legge a tempo di record»
soppesa
un po’ incerto.
«Bene,
ti ascolto».
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-46
Time
AM
09:19
Vestiti
di bianco, in un vasto spazio candido, quasi si perdono alla vista.
Sembrano medici, ma non curano malattie; non quelle umane, per lo
meno. Molti sono chini su alcune forme poco distinte dalle quali si
può immaginare ora una gamba, là una mano,
lì sotto un orecchio;
qualcosa che, con molta fantasia, un tempo poteva avere un aspetto
almeno antropomorfo e del quale ora rimane ben poco di riconoscibile.
Ma ciò che interessa a queste figure a tratti evanescenti
è il
contenuto, non il contenitore; le informazioni accumulatesi con
l’esperienza nel mondo degli uomini. Un’esperienza,
evidentemente, non completamente positiva (o affatto, probabilmente,
considerato ciò che resta dell’iniziale disegno).
Un
occhio nocciola riflette la luce delle lampade, bianca
anch’essa
come del resto tutto lì attorno. Le pinze di un robot
estraggono un
piccolo cilindro dall’aspetto fragile e delicato e lo posano
con
efficienza lungo un tavolo lucido posto lì a fianco.
Un’altra
figura in bianco si accosta in silenzio, picchietta nervosamente le
dita su uno schermo pieno di calcoli, poi torna a osservare il
proseguire delle operazioni.
Una
stretta porta trasparente scorre a lato lasciando entrare un uomo in
completo blu scuro che, dopo aver fatto pochi passi, sosta a
rispettosa distanza dalle persone radunate, in attesa. Non è
comunque costretto ad aspettare a lungo; presto una giovane donna gli
si fa incontro, abbozzando un tiepido sorriso e un cenno di saluto.
«Benvenuto»
lo accoglie con voce pacata e non troppo alta, così da non
arrecare
disturbo.
«Grazie»
replica asciutto il visitatore. «Hanno già
scoperto qualcosa di
interessante?» si informa senza troppa curiosità,
già conoscendo
la risposta a quella domanda ma sapendo di avere comunque il dovere
di porla.
«Non
ancora, signore. Speravamo di poterle fornire qualche buona notizia
in breve tempo, ma finora non ci sono state risposte degne di
nota»
ammette contrita.
«Capisco»
soffia, fingendo contrarietà.
Che
capisca è la pura verità. Ciò che non
sanno, probabilmente, è che
al momento forse è l’unico, nei paraggi, a capire
davvero.
«Desidero
parlare con il capo dell’equipe, più tardi. Se
volesse essere così
gentile da avvisarlo. Lo informi pure che lo attenderò fra
quarantacinque minuti nel mio ufficio del settimo piano».
La
giovane annuisce. «Provvedo immediatamente»
assicura, prendendo
infine congedo e lasciandolo nuovamente alla sua osservazione
dell’andamento delle ricerche.
Ricerche
che, francamente, dubita porteranno a qualche evento concreto, per lo
meno dal punto di vista dei soci e degli azionisti. Scrolla
discretamente le spalle. Pazienza: in realtà non
è affatto
necessario che conoscano la verità, anzi, è
probabilmente meglio
che restino beatamente ignoranti e convinti di non esserlo. Arriccia
le labbra in un piccolo ghigno, prima di tornare sui propri passi e
salire in ufficio, in attesa di farsi quattro risate ascoltando le
teorie del capo-tecnico.
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HANK’S
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115
Michigan Drive
Time
AM
01:39
«Dovresti
andarci più piano con l’alcool: il tuo cervello ne
risente»
commenta Dick dopo aver ascoltato Hank e la sua spiegazione e averla
trovata un’assurda follia.
«Non
bevo alcolici da più di quattro giorni, per tua
informazione»
borbotta acidamente. Il problema è che, in effetti, ne
avverte un
gran bisogno, ma con tutti i guai che si ritrova fra le mani, ecco,
quella sì sarebbe un’idea completamente folle.
Dick
intanto sospira. Può facilmente immaginarlo strofinarsi il
viso con
i palmi ruvidi e arruffarsi i capelli.
«Hank,
amico, con il lavoro che fai e il postaccio in cui vivi, ti facevo
più accorto. Perfino il figlio di tre anni di mia sorella, a
quest’ora, sa sicuramente che nascondere un androide in casa
è
un’idea stupida».
«Forse
non hai capito la situazione» tenta Hank, indeciso se
mandarlo
subito al diavolo o provare prima la via della diplomazia.
«Ah,
credimi, ho capito fin troppo bene. È proprio questo il
problema»
lo frena con una certa impazienza. «Fossi in te lo porterei
alla
discarica e mi prenderei un mesetto di ferie» suggerisce.
«Vaffanculo»
scatta Hank, accantonando bruscamente la diplomazia. «Non hai
le
palle per darmi una mano? Bastava dirlo. È inutile fingere,
a un
tratto, di essere un santo… Come se non ti
conoscessi» ringhia,
soprattutto deluso perché, a questo punto, dovrà
per forza trovare
un’altra soluzione. Peccato che, al momento, non riesca
affatto a
scorgerla.
Sta
camminando avanti e indietro per il soggiorno, riflettendo sulle sue
possibilità, ancora con il telefono all’orecchio
ma senza
realmente ascoltare, quando dall’altra parte giunge un
piccolo
sbuffo di protesta.
«Comunque
la vuoi mettere, quella città è pericolosa, ora
più che mai, e non
convincerai mai nessuno a rischiare il culo per venire fino a
lì,
soprattutto per una macchina».
Hank
chiude gli occhi, si ferma in mezzo al salotto e sta per ribattere
(magari insultarlo di nuovo gli darebbe un poco di sollievo, seppur
momentaneo). Dick però lo precede, completando il suo
discorso di
scoraggiamento.
«Hai
ancora il distintivo?»
Aggrotta
le sopracciglia, incerto sul senso di quella domanda.
«Sì, me lo
sono ripreso mentre tutti erano occupati a tamponare il naso
sanguinante di quell’idiota di Perkins» spiega
pragmatico.
«Bene.
Meglio. Pensi potresti farcela a lasciare la
città?» chiede
prudente.
Solo
a quel punto Hank comprende, e sgrana gli occhi. «Vuoi che
venga lì
io? Mi hai dato del pazzo finora e adesso mi stai suggerendo di
uscire dalla città e passare il confine con un cazzo di
androide di
contrabbando nascosto in macchina? Dico, sei deficiente?!»
sbotta
allucinato.
«Forse.
Ma se davvero ti interessa questa faccenda, è esattamente
quello che
dovrai fare. A meno che tu non voglia provare a portarlo direttamente
a quelli della Cyberlife. Magari te lo sistemano… dopo
averlo
smontato fino all’ultimo circuito e averne gettati al macero
per lo
meno la metà».
«Ti
odio» ringhia Hank, rabbrividendo al pensiero.
«Già,
certo. Ti aspetto, ok?» replica Dick, per nulla
impressionato,
riagganciando subito dopo.
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Capitolo 3 *** chapter 03. Preparations and Unexpected Proposals ***
chapter
03. Preparations and Unexpected Proposals
DETROIT
Date
NOV
12TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-5
Time
AM
09:43
Da
dietro un ampio specchio a due vie osserva in silenzio, con intensa
curiosità, i movimenti efficienti e controllati di uno degli
androidi presenti nella sala deposito, uno dei pochi ancora attivi,
nonostante sappia bene ci siano molte probabilità che non lo
resti
ancora per molto.
Ha
studiato a lungo, nell’arco degli anni passati
all’interno
dell’azienda e poi anche dall’esterno, apprendendo
molto sui
comportamenti
delle macchine. Quando alcune di queste furono progettate per
simulare emozioni umane, si rivelarono una mezza delusione;
probabilmente i progettisti si aspettavano altro, probabilmente
desideravano creare qualcosa che migliorasse l’esperienza
degli
uomini, e invece hanno ottenuto l’esatto contrario: computer
razionali che facevano perdere la pazienza perfino al più
puntiglioso degli scienziati. Ma è accaduto proprio nel
momento in
cui hanno smesso di voler agire sull’irrazionale che qualcosa
è cambiato; forse un semplice dato, un algoritmo che non
faceva
parte della programmazione immessa in origine ma che ha comunque
trovato una via per inserirsi nel sistema e trasmettere impulsi non
previsti. Quello è stato solo l’inizio, una spia
d’avvertimento,
per lo più ignorata, che con il tempo si è
semplicemente evoluta,
come accade in tutti i sistemi, compreso l’uomo.
Abbandona
le proprie riflessioni per tornare a scrutare oltre il pannello
divisorio. L’androide ha evidentemente terminato il suo
compito,
dopo aver diligentemente scaricato i dati in suo possesso e averli
archiviati al sicuro. Ora lo osserva raggiungere una stretta nicchia
identica a centinaia di tante altre presenti nella stanza e
posizionarvisi dentro. Reclina il capo, quasi impaziente, aspettando
di scoprire se, come immagina, la macchina terminerà senza
intoppi
la sequenza di disattivazione, oppure riuscirà a
sorprenderlo. In
fondo si trova lì apposta, per essere sorpreso o
sprofondare, come
spesso accade, nella noia del già visto. Beh, in
verità è lì
anche per un’altra ragione, ma è ancora presto per
quella.
Per
qualche istante trattiene il fiato mentre il led sulla tempia
dell’androide brilla di rosso e le pupille si contraggono.
Poi la
rossa luminosità scompare e al suo posto resta un cerchio
grigio
opaco. Allora la delusione lo costringe a distogliere un attimo lo
sguardo e a riprendere fiato.
«Cosa
ti aspettavi?» si rimprovera con un bisbiglio appena udibile.
Più
calmo, torna a guardare; i suoi occhi indugiano
sull’impeccabile
colletto inamidato della camicia, soppesano lo stretto nodo della
cravatta scura e si poggiano pensierosi sul codice inserito nei
circuiti della giacca: RK800. Espira lentamente, infine oscura lo
specchio e lascia la camera, tornando ai piani superiori.
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115
Michigan Drive
Time
AM
02:51
Sta
pensando a quante effettive possibilità abbia di riuscire a
passare
il confine con Connor senza che a uno di loro due (o a entrambi)
venga piantata una pallottola in testa. Le sue dita grattano
distrattamente le orecchie di Sumo, sdraiato a terra ai piedi della
sua poltrona, attento a cogliere le sfumature che si rincorrono sul
volto dell’uomo. Hank abbassa gli occhi sul cane e si lascia
sfuggire un sorriso un po’ storto.
«Come
ce lo portiamo dietro?» chiede, ansioso.
Sicuramente
non può fissarlo al sedile del passeggero come ha fatto
tornando a
casa; gli agenti ai posti di blocco non prenderebbero troppo bene la
sua burla, men che meno le guardie di confine. Nel bagagliaio
è da
escludere categoricamente: durante una qualunque ispezione sarebbe il
posto più ovvio nel quale controllare. A piedi di certo non
ce lo
può trascinare, e i mezzi pubblici sarebbero una vera
pazzia. Dovrà
proprio sistemare la sua auto: il comparto nel quale infilava le
sigarette e gli alcolici qualche tempo fa potrebbe reggere bene anche
in questo caso, ma serve comunque più spazio. Con la fronte
corrucciata ma una nuova risoluzione in testa si rimette in piedi e,
seguito come un’ombra da Sumo, torna sul vialetto davanti a
casa e
spalanca nervosamente le portiere posteriori, studiando la situazione
e carezzandosi distrattamente la barba.
«Beh,
accidenti, se non c’è altro
modo…» pondera, ancora un po’
dubbioso.
Presto
però accantona le perplessità e si mette al
lavoro, togliendo in
fretta i cuscini dei sedili posteriori e levando di mezzo tutte le
inutili cianfrusaglie che nel tempo si sono accumulate nel vano
nascosto al di sotto, gettando poi tutto sul vialetto. È in
procinto di far volare fuori una delle tante carabattole quando i
suoi occhi si attardano un momento di più su di un angolo
che spunta
dalla busta logora.
«Ehi,
questi da dove arrivano?» sussulta, stupito e dimentico per
un
momento del suo compito, invece piuttosto curioso di riportare alla
luce una nuova scoperta interessante. I suoi occhi si accendono di
entusiasmo quando ne trae una vecchia scatola di sigari ancora
intatta. «Questa sì è una bella
notizia!» esclama soddisfatto,
posando il suo tesoro sul sedile anteriore e riprendendo a fare
spazio sotto quello posteriore.
Quando
si rialza infine, con la schiena che scricchiola e protesta con
veemenza e il vialetto ingombro di scatole e sacchetti, lo fa con
un’espressione soddisfatta e lo sguardo fisso sullo spazioso
vano
appena riguadagnato. Sumo picchietta il naso contro la sua gamba e
Hank annuisce.
«Un
bel lavoro, eh? Ora, forse, abbiamo una possibilità di farla
franca»
commenta con un pizzico di fiducia in più.
Sono
quasi le quattro, ormai, ma non può permettersi di perdere
altro
tempo. Detroit è una bomba pronta a esplodergli sotto i
piedi e, a
quel punto, preferirebbe essere a distanza di sicurezza. Veloce torna
dentro casa, recupera qualche soldo, controlla il portafogli, infila
una mano nella tasca interna della giacca per accertarsi di avere con
sé il distintivo, afferra il suo revolver e la
semi-automatica del
dipartimento, mettendo entrambe al sicuro nelle fondine, poi si
guarda intorno, rendendosi conto solo a quel punto di essere sotto
l’attento esame del suo cane.
«Vieni
anche tu, non preoccuparti» decide di rassicurarlo.
«Lasciami solo
prendere un po’ della tua roba».
Dopo
aver scaraventato nel bagagliaio alcune provviste per Sumo torna in
salotto e prende un grosso respiro, poi digrigna i denti e solleva
nuovamente l’androide con una colorita imprecazione sulla
lingua,
augurandosi di non doverselo scarrozzare in spalla ancora a lungo, o
presto finirà col dover andare a farsi riaggiustare la
schiena. Il
più delicatamente possibile infila Connor nel vano sotto il
sedile
posteriore, lo copre completamente con una vecchia coperta e rimette
al loro posto i cuscini, controllando infine che nulla di strano si
noti della sua manomissione. Soddisfatto del risultato richiama il
cane, facendolo salire sui sedili posteriori.
«Fai
buona guardia, mi raccomando». Sumo abbaia una volta, Hank
sorride e
annuisce. «Bravo, cane!» esclama compiaciuto.
Finalmente,
dopo aver richiuso casa sua, si decide a partire. Nulla è
risolto
per ora, ma le sue speranze sono ancora ben salde al loro posto e,
per cercare di distrarsi un po’, accende la radio.
Quest’ultima
non si rivela tuttavia un’idea felice: i notiziari hanno
novità
ben poco rassicuranti; a quanto sembra hanno beccato i capi della
rivolta e catturato parecchi degli altri devianti, e ora si
apprestano a smantellarli per evitare il rischio che questa specie di
virus, o qualsiasi cosa sia, si diffonda fra tutti gli androidi
attualmente in circolazione. Tutte le uscite dalla città
sono ancora
presidiate e scupolosamente controllate; le persone scoperte a tenere
androidi sospetti in casa, o che non consegnano alle
autorità i
soggetti a rischio, vengono arrestate e, nel migliore dei casi,
multate, mentre nel peggiore trattenute per accertamenti e,
eventualmente, processate.
Non
che Hank si aspettasse molto di meglio, ben inteso, ma ascoltare
queste ultime notizie lo mette di malumore e finisce con
l’innervosirlo più di quanto già non
fosse in precedenza. “Devi
mantenere il sangue freddo. Non hanno motivo per sospettare di te,
né
per impedirti di uscire dallo stato per una semplice visita a un
amico” cerca di tranquillizzarsi, anche se non sembra
funzionare
granché bene.
Si
incupisce ulteriormente nell’osservare lo stato della sua
città:
le poche persone per strada, a quelle prime ore del mattino di quella
che avrebbe potuto essere una normalissima giornata lavorativa come
tante, sono tutte esseri umani e si muovono veloci e con fare
nervoso; nessuno di loro è accompagnato da androidi come era
invece
abituato a vedere solo qualche giorno prima, e nessuno sembra avere
la minima voglia di fermarsi da qualche parte né tantomeno
di
chiacchierare. Molti, immagina, hanno lasciato la città non
appena
se lo sono potuto permettere; gli altri, evidentemente, preferiscono
chiudersi in casa in attesa che giungano tempi migliori.
Un
po’ scoraggiato a quella vista, Hank si domanda come se la
stiano
cavando giù al dipartimento di polizia; si augura che stiano
tutti
bene e riflette che, dopotutto, non gli dispiacerebbe più
così
tanto tornare al suo ufficio. Se riuscirà a sistemare quella
brutta
situazione, forse un giorno potrà ripresentarsi davanti al
suo
capitano, con una buona dose di faccia tosta, sperando nel suo buon
cuore e nella sua pazienza. Al pensiero della faccia che farebbe
Jeffrey non può fare a meno di sorridere rincuorato.
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
7
Time
AM
10:15
«Le
ho chiesto di venire in questo ufficio anche per un altro motivo,
professor Phillips» annuncia, interrompendo annoiato
l’inutile
resoconto dell’uomo che gli siede di fronte.
Il
capo-tecnico, un po’ irritato per essere stato zittito,
rimane in
silenzio attendendo maggiori delucidazioni. Deve però
attendere più
a lungo del previsto perché pare che l’uomo che lo
sta
interrogando provi un particolare, sadico piacere nel tenerlo sulle
spine. Dopo un silenzio protrattosi per lunghi minuti che paiono
infiniti, nonché svariate occhiate scambiate con impazienza
crescente, finalmente giunge la tanto sospirata spiegazione.
«Giù
ai laboratori del quarantaseiesimo piano tenete un soggetto che mi
interesserebbe avere a disposizione» spiega in tono monocorde.
Il
capo-tecnico inarca le sopracciglia, sorpreso e perplesso, ma non
apre bocca.
«Desidero
pertanto che sia condotto nei miei appartamenti del quarantatreesimo
piano nel più breve tempo possibile» aggiunge.
«Volete
uno degli androidi catturati?» chiede Phillips, ancora nel
dubbio di
aver ben compreso.
«Sì
e no. Non si tratta di un androide qualunque, in effetti, ma di un
soggetto ben preciso» chiarisce, fissando insistentemente il
capo-tecnico.
«Uh…
Beh…» tentenna Phillips. Crede sia una richiesta
alquanto
bizzarra, per non dire priva di senso. È però fin
troppo
consapevole di non essere assolutamente nella posizione di rifiutare
alcunché a quell’uomo, tanto più che
non vi sono ragioni
effettive per farlo. «Immagino sia perfettamente possibile.
Quando…
?»
«Oggi
stesso, se per lei non è un problema» è
la pronta replica che non
gli permette neppure di terminare la frase.
«No…
Certo che no» conferma, sempre più confuso dalla
piega che sta
prendendo quel colloquio. «Qual è il
soggetto?» si risolve quindi
a chiedere.
L’uomo
socchiude mollemente le palpebre e poggia il mento sul palmo di una
mano, senza mai distogliere lo sguardo divertito.
«RK200»
annuncia, godendosi il piccolo shock impresso sul volto del professor
Phillips.
|
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Capitolo 4 *** chapter 04. Emergency Exit ***
chapter
04. Emergency Exit
DETROIT
Date
NOV
12TH,
2038
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I-96
EXPRESS
Towards
the Ambassador Bridge
Time
AM
05:32
Due
miglia all’Ambassador Bridge. Respira profondamente e lancia
un’occhiata rapida allo specchietto retrovisore, scorgendo
unicamente Sumo intento a osservare la strada che scorre
all’esterno
dell’abitacolo. Per un attimo serra le dita sul volante
nell’individuare le luci del posto di blocco ancora lontane
davanti
a loro, poi si insulta mentalmente e forza il proprio corpo a
rilassarsi. “Andrà bene” si ripete
ossessivamente. “Certo che
lo farà” insiste, provando inutilmente a
convincersene.
È
un’idea del tutto folle, invece; lo sapeva prima, ora ne
è certo.
E perché tutto questo, poi? Per un qualunque ammasso di
plastica,
circuiti e biocomponenti? Dev’essere impazzito, non
c’è altra
spiegazione che giustifichi il proprio comportamento irrazionale e
sconsiderato. Potrebbe invertire la marcia e tornarsene a casa; non
è
ancora troppo tardi, dopo tutto.
Rallenta
un poco, chiude gli occhi un istante, e in quel breve istante la sua
mente rammenta con estrema chiarezza un altro paio d’occhi,
nocciola e grandi per la sorpresa. E no, dannazione, non
tornerà
indietro; un errore può capitare a chiunque, due sono del
tutto
inaccettabili. La prima volta lo ha colpito senza volerlo, questa
volta non può rifarlo volontariamente.
«Vada
come deve andare» bisbiglia, ormai deciso, «io
sarò con te».
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
-44
Time
AM
11:57
Si
aggira interessato nei laboratori da qualche minuto, osservando i
robot all’opera, studiando diagrammi e grafici, annotandosi a
mente
formule ed elenchi, cacciando il naso nei dati di calcolo degli
sviluppatori e sorridendo di tanto in tanto, senza apparente motivo.
Il
prototipo immobile al centro dell’interesse generale non
è ancora
stato attivato né del tutto ultimato, ma ha già
potuto dare più di
un’occhiata interessata alle simulazioni e ritiene quindi di
conoscerlo piuttosto approfonditamente, tanto da sapere che si tratta
di un soggetto stimolante e che, molto presto, lo diverrà
ulteriormente, che loro
lo auspichino o meno. Dove sarebbe, altrimenti, tutto il
divertimento?
Si
china di poco sopra uno schermo, fa scorrere gli occhi sulle stringhe
di dati e sul lungo elenco di elementi, trova in fretta
l’informazione di cui abbisogna e torna a interessarsi al
lavoro
dei tecnici, attendendo paziente che venga il momento opportuno.
La
superficie candida e lucida del corpo dell’androide riflette
la
soffusa e uniforme luminosità dell’ambiente.
È solo un buon
abbozzo di quello che sarà fra non molto, ma già
non vede l’ora
di osservarlo aprire gli occhi per la prima volta sul loro mondo
materiale. Sa che si tratterà di un’esperienza
oltremodo
illuminante ed è ansioso di essere presente a quel momento.
Con
un breve cenno del capo, si congeda dal gruppo di tecnici e lascia la
sala, tornando ai suoi appartamenti, di nuovo impaziente ma per altri
motivi, questa volta. Motivi che, spera, siano già in
viaggio per
raggiungerlo al più presto.
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AMBASSADOR
BRIDGE
Checkpoint
Time
AM
05:46
Ferma
l’auto a pochi passi dallo sbarramento eretto a breve
distanza dal
ponte. Due agenti armati gli si fanno prontamente incontro e Hank
prende un ultimo, lungo e lento respiro, lottando con sé
stesso per
frenare la corsa disperata del proprio cuore. Poi è tardi
per
qualunque genere di ripensamento e uno dei due agenti si piega verso
di lui, affacciandosi al finestrino aperto, mentre il secondo cammina
attorno all’auto, molto probabilmente per controllarne la
targa e
studiarne le condizioni.
«Buongiorno»
lo anticipa Hank, sollevando lo sguardo sul casco grigio e anonimo.
«Buongiorno
a lei, signore. Può mostrarmi i suoi documenti?»
chiede l’agente
con voce stanca, spostando un momento l’attenzione alle
spalle di
Hank, evidentemente attirato dalla presenza del cane steso sui sedili
posteriori.
«Certo»
borbotta Hank, aprendo la giacca e recuperando il portafogli.
Il
movimento sembra far ritornare l’attenzione
dell’agente su di
lui. Deve aver scorto la semi-automatica che porta contro il fianco
sinistro. Porge tranquillamente i documenti e lo vede tentennare,
indeciso. Sta studiando i suoi dati, ma al contempo la scoperta che
Hank è armato deve averlo messo in apprensione.
«L’arma
è sua?» chiede infatti.
«No,
è d'ordinanza, appartiene al dipartimento di
polizia» spiega Hank,
mostrando anche il suo distintivo.
«Oh»
soffia l’agente, visibilmente sollevato. «Mi scusi,
non
immaginavo…» tenta di giustificarsi con un certo
imbarazzo.
«Non
si scusi» lo anticipa Hank con un tono un po’
brusco. «Con i
tempi che corrono è più che legittima la sua
preoccupazione».
L’agente
annuisce, ora più rilassato, e gli rende i documenti.
«Bene,
grazie. Si tratta di un viaggio di piacere?» domanda allora,
questa
volta in tono quasi leggero.
«Direi
di sì. Un amico abita poco lontano da Detroit,
così ne approfitto
per uscire un po’ da qui. Questo posto sta diventando
soffocante»
ammette con una certa dose di acidità.
«Già,
a chi lo dice. Piacerebbe anche a noi mollare tutto per qualche
giorno» si rammarica l’agente.
«Non
ne dubito. Fate attenzione, voi ragazzi» si raccomanda Hank,
scoprendosi realmente dispiaciuto per quei poveretti costretti a
tenere sotto controllo una città che sembra di ora in ora
stringersi
sempre più inestricabilmente attorno ai suoi abitanti.
L’agente
annuisce. «Buon viaggio» augura, spostandosi per
lasciarlo passare.
*
Dopo
aver percorso quei pochi metri che gli permettono di passare il
blocco e imboccare il ponte, Hank, incapace di trattenersi oltre,
sorride sollevato.
«È
andata, Sumo. Siamo passati oltre il primo ostacolo senza un solo
graffio» esulta con un mormorio eccitato.
“Sì,
possiamo farcela davvero” pensa, sospirando. Certo, di fronte
a
loro c’è ancora la dogana canadese, e quelli non
si limiteranno di
sicuro a guardare la targa e i documenti, pretenderanno che scenda e
dia loro l’accesso all’abitacolo e al portabagagli.
Solleva
nuovamente lo sguardo sullo specchietto retrovisore e con la mano
destra lo reclina leggermente per poter osservare meglio Sumo e i
cuscini sui quali è accomodato. Assottiglia le labbra e
prega che
non si mettano in testa di essere pignoli e frugare la tappezzeria, o
quel viaggio
di piacere
finirà molto male. Rimette al suo posto lo specchietto e fa
spaziare
lo sguardo sul ponte che si stende sotto di loro e sul fiume tutto
attorno. “Possiamo farcela” si ripete,
concentrandosi sulla guida
e pregando che non ci siano intoppi.
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
PM
04:22
Solleva
lo sguardo dagli appunti delle ultime ore quando sente qualcuno
bussare alla porta dei suoi appartamenti. Non si scomoda a informarsi
sul misterioso visitatore; lo scoprirà di certo a breve.
Intanto
lascia l’incombenza di riceverlo a uno dei suoi androidi.
Alcuni
rumori, affatto tipici di una semplice visita di cortesia ma
piuttosto somiglianti allo spostamento di qualcosa di pesante, lo
distraggono nuovamente e gli imprimono un leggero sorriso sulle
labbra. Pochi minuti dopo nel suo studio entra qualcuno.
«È
appena giunta una piccola delegazione con ciò che stavi
attendendo,
Elijah» lo informa l’androide con efficienza,
attendendo in
silenzio ulteriori istruzioni.
Posa
gli occhi in quelli calmi della macchina e annuisce. «Grazie,
Chloe.
Puoi avvisarli che sarò da loro in dieci minuti».
L’androide
accenna un assenso con il capo e torna dai visitatori, mentre lui si
alza e raggiunge l’ampia vetrata dalla quale può
scorgere l’isola,
il fiume che la circonda e, più in là, le coste
non troppo lontane
del Canada. “È il momento” riflette,
picchiettando
distrattamente le dita sul vetro freddo. Posa sul davanzale il
terminale che ancora reggeva in mano e si risolve a raggiungere i
tecnici nel suo laboratorio privato.
*
La
prima cosa che nota, nel momento in cui varca la soglia, è
la lunga
e affusolata capsula argentea posata su un robusto carrello posto nel
mezzo di uno dei due corridoi. La seconda è
l’inattesa presenza
del professor Phillips. La scoperta lo sorprende e al tempo stesso lo
diverte immensamente; è molto probabile che il capo-tecnico
si trovi
lì per cercare di venire a capo del mistero su cosa,
esattamente,
intenda fare con l’androide richiesto. Quasi ghigna, al
pensiero.
«Professor
Phillips! Quale gradita sorpresa» esclama gioviale, tendendo
una
mano al suo momentaneo ospite.
Il
capo-tecnico lo fissa con qualcosa di molto simile
all’irritazione
e deve trattenersi a forza dal ridergli in faccia.
«Come
mi avevate domandato, ho fatto portare da voi il soggetto
richiesto»
puntualizza inutilmente, forse nel vano tentativo di darsi un
contegno, pensa sarcastico.
Solleva
gli occhi a scrutare da lontano il lucido contenitore. «Vedo,
e la
ringrazio per aver accolto così prontamente la mia
richiesta» offre
ironicamente. «Spero che sia ancora tutto intero»
pondera ad alta
voce, notando con la coda dell’occhio il capo-tecnico
irrigidirsi
nervoso.
«Naturalmente.
Per quanto possibile dopo essere stato… uhm…
neutralizzato»
concede controvoglia.
Immagina
benissimo quanto le loro iniziali idee fossero altre, ma non prova il
minimo rincrescimento per aver rovinato i piani di qualche
ricercatore bacchettone.
«Oh,
per quello è tutto a posto. Ovviamente lo avevo
già messo in
conto».
Nel
mentre, stanco di attendere oltre, si è avvicinato di
qualche passo
e ora studia con vivo interesse il contenuto della capsula.
«Gradite
qualcosa da bere?» sente chiedere da Chloe, sempre
un’impeccabile
ospite.
«No,
grazie, non è necessario» si affretta a rifiutare
il professor
Phillips, il quale ha evidentemente colto il totale disinteresse del
padrone di casa per la loro affatto necessaria presenza.
«Stavamo
giusto per togliere il disturbo. Con permesso».
Volta
appena il capo e un piccolo ghigno compare sul suo volto.
«Mille
grazie, professor Phillips. Alla prossima». E si bea
dell’evidente
disagio dei quattro uomini che in fretta raggiungono
l’uscita,
forse pregando che la
prossima
sia distante qualche anno luce.
*
Non
attende che la porta si richiuda alle spalle dei visitatori per
accostarsi alla capsula e far scattare la chiusura di sicurezza.
Osserva con attenzione, le dita tastano accuratamente il danno che ha
provocato lo spegnimento dell’androide, richiama uno dei suoi
robot
specializzati e lo pone all’opera sulle scansioni e i
rilevamenti
della zona danneggiata, così che possa farsi un quadro
più preciso
su come intervenire e cosa sostituire, e mentre il robot lavora
spedito lui si aggira lentamente attorno all’androide
cercando di
cogliere più dati e dettagli possibili.
Solo
diversi minuti dopo, quando le informazioni sono catalogate e
analizzate per offrirgli uno spettro sufficientemente ampio sul quale
basare il proprio intervento, si decide a prendere posto su una sedia
girevole e, presi fra le mani i risultati, si accinge a dar loro un
ordine e a confrontarli con le proprie rilevazioni.
«Poteva
andare peggio, suppongo. Si direbbe che i danni reali siano di minor
entità rispetto a quanto apparisse inizialmente»
pondera
pensieroso. Poi si china sul corpo immoto ancora racchiuso nella sua
momentanea tomba di metallo e picchietta l’indice sulla sua
scatola
cranica. «Non credere di potertela cavare a buon mercato,
amico mio.
Ho dei progetti per te» annuncia, sorridendo e tornando ai
suoi
schemi.
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BREAKING
NEWS
CACCIA
AI SUPERSTITI - Il governo ha destinato squadre di agenti
specializzati da impiegare al fine di stanare gli ultimi devianti
ancora a piede libero presenti nella città di Detroit
INASPRIMENTO
DEI PROVVEDIMENTI PER I POSSESSORI DI ANDROIDI - A giorni verranno
varate leggi più restrittive e sanzioni più aspre
per chiunque non
consegni con sollecitudine alle autorità qualsiasi androide
(essere
artificiale con sembianze umanoidi) a rischio o che presenti evidenti
malfunzionamenti
ALLERTA
METEO - Previsto l’arrivo di una tormenta di neve
nell’area
della contea di Wayne, Stato del Michigan. Bloccati tutti i voli in
arrivo e in partenza su Detroit. Possibile veto sulle navi che
attraversano il Detroit River a causa dell’accumulo di
ghiaccio
INTERVISTA
AL CEO DELLA CYBERLIFE - È stata annunciata per domani
mattina
un’intervista all’Amministratore Delegato della
Cyberlife, il
signor Elijah Kamski. Dovremo attenderci qualche importante
novità
sul caso dei devianti? Per scoprirlo non mancate
all’appuntamento
delle 10:00 in questi studi
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** chapter 05. Snow ***
chapter
05. Snow
CANADA
Date
NOV
12TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
SUTHERLAND
Windsor,
Ontario
Custom
Immigration/Douane Immigration
Time
AM
06:08
Ci
sono guardie armate anche alla dogana. In qualche modo se lo
aspettava, vista la situazione attuale e il nervosismo generale, ma
la consapevolezza della gravità della situazione e questa
conferma
non contribuiscono di sicuro a migliorare il suo umore nero. Ferma
l’auto nel punto in cui gli viene indicato e,
nell’illusoria
speranza di risparmiare tempo e problemi, apre lo sportello e scende
dall’auto. Una delle guardie lancia una rapida occhiata da
fuori
all’abitacolo, poi lo fissa con fare inquisitorio e infine
gli
chiede di far uscire anche il cane. Oh sì, questo lo
può senz’altro
fare.
«Ma
ho il guinzaglio nel portabagagli» lo informa in modo
distratto. «Se
non le dispiace…» accenna.
La
guardia annuisce e gli resta alle calcagna mentre Hank fa il giro
dell’auto e apre il baule, recuperando ciò che gli
serve e
lasciandolo spalancato a beneficio della puntigliosità delle
guardie
doganali, abbandonandoli ai loro sospetti e andando a recuperare
Sumo. Insieme, lui e il suo cane, restano per lunghi minuti che
paiono eterni fermi in piedi a qualche passo dall’auto, in
paziente
attesa di scoprire se riusciranno a proseguire fino a Chatham-Kent
oppure se quello si prospetta essere il loro ultimo viaggio.
Dopo
aver consegnato i propri documenti, aver atteso ancora che vengano
anch’essi minuziosamente controllati e aver sbadigliato una
decina
di volte (soprattutto a causa della mancanza di sonno, dato che la
noia manca dalla sua vita già da parecchio tempo), Hank
sente Sumo
mugolare sommessamente e abbassa lo sguardo, trovandosi osservato
dagli occhi languidi e un poco impensieriti del cane.
«Che
c’è? Hai fame?» si informa, ricevendo in
cambio un piccolo
uggiolio di conferma. Sorride e annuisce. «Al prossimo
parcheggio
avrai la tua colazione. Parola d’onore» promette
con solennità.
Sempre,
ovviamente, che abbiano la decenza di lasciarli ripartire. E ammesso
che non capitino sotto i loro occhi puntigliosi le due pistole che si
porta dietro o, peggio che mai, le loro manacce capricciose non
riescano a scovare il suo prezioso vano sotto il sedile. Allora addio
colazione; saranno già molto fortunati se ne usciranno vivi.
Ma
tutto sommato pare che siano meno scrupolosi del previsto.
Così,
dopo più di venti minuti di futile e fastidiosa attesa, Hank
si vede
riconsegnare i propri documenti e invitare a lasciare il parcheggio,
ricevendo perfino un «Buona giornata» come bonus
extra. Sorpreso
più di quanto sia consigliabile di fronte a certa gente
pignola e
sospettosa, Hank non se lo fa ripetere due volte e, ricondotto il
cane sul suo sedile, si rimette alla guida, ora decisamente pieno di
speranze da conservare gelosamente per un futuro del tutto incerto.
100011101101111011000010101010111011011010101110
DETROIT
Date
NOV
13TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
Live
News
KNC
STUDIOS
Detroit
Broadcast
Time
AM
10:06
Rosanna
Cartland:
Elijah Kamski, lei ha fondato la Cyberlife ed è tra i
massimi
esperti in fatto di androidi. Anche se ha abbandonato la Cyberlife
anni fa, è appena stato riconfermato amministratore delegato
dopo il
dramma di Detroit. Come si sente rispetto a ciò che
è successo?
Elijah
Kamski:
Quello che è successo a Detroit è stato una
tragedia.
L'intelligenza artificiale è uno strumento incredibile, ma
va
controllato. Per fortuna la Cyberlife ha trovato una soluzione rapida
al problema dei devianti. Sotto la mia gestione, prenderemo
provvedimenti affinché una cosa del genere non si ripeta
più.
RC:
Può assicurarci che gli androidi non rappresenteranno
più una
minaccia?
EK:
Certamente. C'è stato un incidente, ma abbiamo imparato dai
nostri
errori e vi garantisco che gli androidi saranno ancora quello per cui
sono stati progettati: macchine obbedienti ed efficienti.
RC:
Come risponde a chi accusa gli androidi di essere una piaga della
società, specialmente per la disoccupazione?
EK:
Trovo la cosa assurda. Si reagì allo stesso modo quando
inventarono
il motore a vapore. Nessuno si sognerebbe di vivere senza
elettricità. Perché voltare le spalle al
progresso?
RC:
Alcuni sostengono che gli androidi siano una forma di vita
intelligente e che li abbiamo distrutti senza capire il loro
messaggio. Commenti al riguardo?
EK:
I nostri androidi imitano la vita alla perfezione, ma non saranno mai
vivi. Capisco che possano ingannare qualcuno, ma sono solo
un'imitazione. Nient'altro.
RC:
Signor Kamski, grazie infinite.
EK:
Di niente.
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
PM
01:13
La
porta si richiude alle sue spalle e di fronte a lui compare la
familiare e consolante figura di Chloe, la quale recupera il suo
soprabito e lo gratifica con un piccolo sorriso comprensivo.
«Come
ti è sembrato?» indaga, suo malgrado nervoso.
Chloe
finge di riflettere, lasciandogli quei pochi istanti per tirare il
fiato, poi reclina il capo di lato e lo osserva.
«Immagino
sia stato più che soddisfacente, per gli umani di questa
città»
azzarda.
Aggrotta
le sopracciglia, irrequieto. «Ma?» incalza.
«Mi
è parso un po’ criptico, forse…
inconcludente, direi» soppesa,
senza distogliere lo sguardo.
Trae
un sospiro che mostra chiaramente il suo sollievo, e ghigna.
«Ottimo.
Non poteva andare meglio, dunque» si compiace, lasciando il
salotto
nel quale si era attardato per rifugiarsi nel proprio laboratorio con
rinnovata energia.
*
I
danni principali sono stati quasi completamente riparati, ma ha
tardivamente scoperto che, in qualche momento imprecisato fra la sua
attivazione e il recente tentativo di distruzione
c’è stato un
principio di autocombustione che ha minato la stabilità e
l’integrità del sistema. Così ora
è costretto a scandagliare
l’androide da cima a fondo per individuare i punti deboli e
le
parti eventualmente danneggiate o usurate e porvi rimedio. Quello che
gli si prospetta è un lavoro lungo che non aveva affatto
previsto né
era nei suo progetti intraprendere; tuttavia devo portarlo a termine
se desidera assicurarsi che non si presentino intoppi in un secondo
momento.
A
volte ha l’impressione che gli umani siano più
stupidi di quanto
immaginasse quando era ancora solo un giovinetto di belle speranze,
salvo poi rammentarsi che, malauguratamente, anche lui fa parte della
razza umana. Allora solleva gli occhi al cielo e scuote la testa,
rassegnato; poi, per consolarsi, si immerge nel suo lavoro e ritrova
la serenità perduta.
*
«Elijah».
Solleva
lentamente gli occhi dal suo operato, indeciso fra irritazione e
sorpresa: non accade spesso che Chloe interrompa deliberatamente il
suo lavoro, soprattutto sapendo quanto questo lo indispone. Comunque,
deve rispondere? Forse. Magari qualcosa di semplice, dato che ora
come ora ha la testa altrove.
«Dimmi».
Breve, semplice, molto conciso.
«È
ora di cena, Elijah» fa presente, con un tono tranquillo e
per nulla
preoccupato.
Assottiglia
gli occhi, un poco confuso. «Avrai certamente notato che sono
nel
bel mezzo di una ricostruzione piuttosto ostica» replica
freddamente.
Chloe
sorride. Inizia a temere di dover dare una controllata al suo
sistema. Da qualche tempo a questa parte quell’androide si
comporta
in modo… bizzarro.
«Qualcuno,
una volta, mi ha detto che a stomaco pieno si lavora meglio»
spiega
l’androide senza perdere l’apparente
giovialità.
La
fissa perplesso. «Ah sì? E chi diamine
è stato a esprimere un
tale, assurdo pensiero?».
«Tu,
Elijah» replica serafica, allargando il sorriso.
Sbuffa
e ride contemporaneamente. «Sagge parole, mia dolce
Chloe» ammette
con leggerezza. Ripone gli occhiali sul bancone, si alza e posa il
camice sulla spalliera della sedia. «Molto bene, andiamo a
cena.
Cosa propone stasera lo chef?».
«Pesce
persico al forno e verdure stufate, accompagnati con Sauvignon
Blanc»
annuncia.
«Niente
male» strascica, stiracchiandosi e avviandosi verso la sala
da
pranzo per fare onore alla sua cena.
*
Ha
tre dita della mano destra affondate sotto quello che dovrebbe
rappresentare lo sterno della macchina, quando la centralina che ne
controlla il cuore elettrico manda una scarica improvvisa che
incenerisce il biocomponente #8451. Lancia un grido di dolore e si
scosta bruscamente dall’androide con le dita bruciacchiate e
un’imprecazione sulla lingua pronta a sbocciare. Ma si
trattiene
all’ultimo istante, respira pesantemente e, al posto di
quella
macchina capricciosa e insolente, prende a calci la sua sedia
girevole.
«Lo
fai apposta, eh? Credi forse di essere più furbo del
sottoscritto?
Lo vedremo» sibila alterato, inspirando a fondo per calmarsi.
La
cena è stata un piacevole diversivo, ma una volta giunta al
termine
non ha potuto attendere che qualche misero minuto prima di fare
ritorno al suo laboratorio. In quel momento, però, avrebbe
un forte
desiderio di essere altrove, magari nella sua casa sul lago a
osservare la neve imbiancare il paesaggio. Invece si ritrova in
compagnia unicamente dell’androide e dei suoi crucci e, ora
come
ora, trarrebbe un gran piacere dallo sbarazzarsi di entrambi,
possibilmente in modo spettacolare. Ciò non di meno resiste
stoicamente alla tentazione di dar fuoco al lavoro delle ultime,
interminabili ore e si siede (a terra, dato che la sua sedia ha
pagato lo scotto del suo malumore).
Vorrebbe
capire dove sta sbagliando. O nel caso in cui non stia affatto
sbagliando (eventualità non poi così remota),
sarebbe lieto di
sapere per quale motivo i suoi sforzi vengono costantemente
vanificati da nuovi malfunzionamenti che in precedenza non si erano
presentati. Forse che il dio degli androidi gli stia indirettamente
mandando un messaggio? Sarebbe davvero esilarante, se così
fosse:
androidi che credono in dio, quando il loro stesso creatore, al
contrario, non crede in nulla che non sia dimostrabile con una
formula matematica. Probabilmente è questo il motivo per il
quale la
prima volta lo ha donato a un amico, invece di tenerlo al proprio
fianco: lui aveva fede negli uomini. Ora, con le sue sole forze e
certezze, riuscirà a portare avanti un lavoro iniziato nella
speranza e bruscamente interrotto con la distruzione?
«Non
è ancora nato l’androide capace di
fregarmi» mormora, disteso a
terra con gli occhi fissi sul soffitto trasparente e sulla neve che
scende leggera e silenziosa.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** chapter 06. Awakenings ***
chapter
06. Awakenings
CANADA
Date
NOV
12TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
AM
07:12
Sono
da poco passate le sette quando, piantato in cima al terzo scalino
del numero quattrocentosettanta, bussa con forza alla porta bianca e
linda, battendo con nervosismo i piedi a terra. Ha smesso di
nevicare, ma fa ugualmente un gran freddo, e Hank è
stravolto dalla
mancanza di sonno e dai pensieri angosciosi. E se Dick non si
darà
una mossa ad aprire, Hank sfonderà presto a calci la stupida
porta
perfetta della maledetta villetta perfetta di quel dannatissimo
paesino perfetto! Bussa di nuovo, stavolta con una furia figlia della
più nera disperazione, e si trattiene a stento dal gridare
perché è
ben consapevole che i vicini di casa di Dick non hanno colpa della
sua situazione precaria. Ma Dick sì, almeno in parte,
e… “Avrà
la sua parte molto presto” pensa astioso.
Finalmente,
dopo aver atteso inutilmente per più di dieci minuti,
avverte la
serratura scattare e la porta si socchiude, lasciando intravvedere
un’assonnata figura umana che, alla vista di Hank e del suo
cipiglio inviperito, fa un passo indietro. Hank però non ci
sta a
lasciargli via libera per una fuga dell’ultimo minuto;
allunga
rapidamente una mano e afferra con decisione lo scollo della felpa
sgualcita che indossa Dick, strattonando con forza e costringendo il
padrone di casa a incespicare fuori fino ai gradini.
«Mollami,
Hank! Si gela qui fuori» protesta Dick, tentando di
divincolarsi.
«L’ho
notato» ringhia senza la minima intenzione di mollare la
presa.
«Negli ultimi quindici minuti che ho passato sul tuo
zerbino»
precisa acido.
«Cristo,
ma lo sai che ore sono? La gente non si sveglia all’alba per
far
piacere a te» tenta come ultima spiaggia, presagendo
già una
sconfitta in partenza.
Infatti
Hank lo trafigge con un’occhiata urticante e, perduta
definitivamente la pazienza, rafforza la stretta e lo solleva di una
spanna da terra, accostandolo bruscamente al proprio viso contratto
dalla rabbia.
«Non
me ne frega un cazzo di quello che fa la
gente.
Ma tu mi hai COSTRETTO a venire fin sotto casa tua perché
sei uno
sporco codardo. C’è mancato un soffio che mi
scoprissero, te ne
rendi conto? Avrei potuto finire ammazzato. Adesso hai due
possibilità: scendi giù da questi fottuti gradini
e mi aiuti a
portare in casa Connor, oppure crepi di freddo mentre io sto a
guardare» ringhia.
Dick
deglutisce e riflette febbrilmente nella vana ricerca di una
soluzione alternativa, infine annuisce. «Prendo…
l-la giacca e le
scarpe» soffia tremando, se per il freddo o la paura non
è affatto
chiaro.
Hank
gli scocca uno sguardo truce, uno che promette vendetta e dolore, poi
lo lascia libero di eclissarsi in casa e recuperare abiti
più adatti
ai rigori invernali.
*
Mentre
attende il ritorno di Dick, Hank parcheggia l’auto in
retromarcia
sul vialetto di accesso alla villetta, fa scendere Sumo e inizia a
levare di mezzo i cuscini. Sta togliendo la coperta che cela il corpo
dell’androide quando sente dietro di sé i passi
strascicati di
Dick.
«Me
lo immaginavo più grosso» mormora alle sue spalle.
«No,
per mia fortuna. È più o meno della tua statura.
Passa dall’altra
parte e aiutami a farlo uscire dall’auto» lo
istruisce con calma.
Dick
esegue e, a un segnale dell’altro, solleva
l’androide
afferrandolo per le caviglie e tenendolo sospeso per dare modo ad
Hank di farlo scivolare oltre il vano.
«È
pesante» lamenta piano.
«Già,
non dirlo a me. Era più leggero la prima volta che
l’ho
incontrato. Chissà che diavolerie ci hanno ficcato dentro
quei
pazzi» borbotta Hank, tirando con cautela Connor fuori
dall’abitacolo reggendolo sotto le braccia. «Torna
qui, dammi una
mano» affanna.
Insieme,
un passo per volta e seguiti fedelmente da Sumo, percorrono
l’ultimo
breve tratto di vialetto e salgono i pochi gradini. La porta
è
fortunatamente socchiusa e non li obbliga a scomode contorsioni per
entrare in casa. Hank sospira al piacevole tepore che già
avverte
all’ingresso. Dick, dopo aver varcato la soglia, richiude
l’uscio
con un calcio e indica ad Hank di voltare a destra. Hank sbatte le
palpebre un po’ sorpreso, ritrovandosi in un piccolo
laboratorio
che, da quel poco che può giudicare, appare ben attrezzato.
«Hai
modernizzato questo posto o è una mia
impressione?» si informa,
mentre con un ultimo sforzo sollevano Connor posandolo su un tavolo
ampio e fortuitamente libero.
«Eh
sì, l’ho fatto. Il buco ingombro di prima era
diventato
invivibile» ammette, osservando con interesse
l’androide. «È un
modello nuovo? Sembra piuttosto avanzato» riflette
interessato.
«Connor
diceva di essere un prototipo» mugugna Hank, a disagio, senza
avvedersi di aver parlato al passato.
«Ah,
vedo» esclama, curiosando sotto un pannello che si
è aperto
ubbidiente alla pressione dei suoi polpastrelli. «Spero che i
pezzi
di ricambio che ho siano compatibili. È una parola stare al
passo
con quello che combina la Cyberlife».
Lo
sguardo di Hank si fa scuro. Non si era minimamente posto il problema
di quanto nuovo fosse il suo collega, e pensare che questo
particolare potrebbe costituire un ostacolo per riaverlo indietro gli
fa provare un fastidioso senso di inadeguatezza.
«Non
credo ci siano possibilità di recuperare qualcosa di
più adatto,
per il momento. Detroit è diventata un bunker: non entra e
non esce
nulla» sospira sconfortato.
«Sì,
ho sentito. Vedremo di arrangiarci con quello che abbiamo,
allora»
risolve, studiando più da vicino la zona danneggiata.
«Per fortuna
gli hai sparato al petto. Se avessi colpito la testa nemmeno Kamski
in persona avrebbe avuto una sola possibilità di
recuperarlo».
«Già»
soffia Hank, distogliendo momentaneamente lo sguardo e raggiungendo
una poltroncina sulla quale si siede, esausto.
Dick
solleva gli occhi e lo scruta, incerto. «Hai una
faccia… Dovresti
andare a riposarti. Da quanto è che non dormi?»
chiede, suo
malgrado impensierito.
«Non
so. Ieri, forse… o un paio di giorni. Non ricordo»
commenta
distratto.
Dick
scuote la testa. «Lascia perdere la poltrona. Vai in camera e
fatti
una dormita seria» suggerisce.
Hank
è indeciso. Avrebbe davvero bisogno di chiudere gli occhi
per
qualche ora, tuttavia lasciare Connor solo con Dick lo agita un
po’.
«Ma
Connor…» prova impacciato.
Dick
lo fissa diritto negli occhi e accenna un sorrisetto divertito.
«Hank, amico, sono un nerd a tempo pieno e un hacker a tempo
perso,
non un tecnico specializzato sul libro paga della Cyberlife. Non
riaprirà gli occhi entro oggi, ci puoi giurare. È
perfettamente
inutile che tu rimanga qui a fissarlo, in ansia come una mamma
chioccia» scherza, evitando a fatica di ridere alla smorfia
di
disgusto apparsa sul volto dell’altro.
Posa
gli occhi un po’ turbati sul viso immoto di Connor, si
mordicchia
leggermente le labbra e sospira.
«D’accordo» accetta, seppur con
visibile reticenza. «Ma guai a te se quando torno trovo pezzi
di
androide sparsi per il laboratorio. Lo voglio tutto intero»
lo
ammonisce. «Lui non è qui per fare da cavia a
te».
«Sì,
sì» sbuffa Dick, sollevando gli occhi al cielo.
«Sparisci» ordina
annoiato, tornando presto a dare attenzione al suo nuovo giocattolo
scintillante.
Hank
lo fissa truce per un lungo momento, poi si decide a lasciare il
laboratorio e raggiungere l’agognata camera da letto.
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DETROIT
Date
NOV
14TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
AM
06:22
Ha
trascorso la prima parte della notte a guardare la neve cadere e a
riflettere, mentre la seconda parte e le prime ore del mattino
seguente a inzaccherarsi fino alla punta del naso di Thirium 310.
Alle sei passate, sfoggiando profonde occhiaie violacee e un sorriso
da maniaco psicopatico sulle labbra, può affermare con
assoluta
certezza che la sua opera è finalmente compiuta. Ora
però si
ritrova nell’indecisione se riattivare immediatamente RK200
oppure
sparire nel suo nuovo e lussuoso bagno e concedersi come minimo
un’ora di completo relax. A toglierlo dal dubbio ci pensa,
come
ultimamente accade sempre più spesso, la comparsa del tutto
inattesa
di Chloe.
«Le
mie informazioni mi dicono che normalmente gli esseri umani
necessitano di alcune ore di sonno al giorno per mantenersi sani ed
efficienti».
Lui
la fissa, attonito, poi ridacchia, in effetti un po’
inebetito per
la stanchezza. «Avrei dovuto inserirti in memoria solo
l’enciclopedia della cucina e il manuale della perfetta
segretaria.
Quanti guai mi sarei di certo risparmiato» commenta ironico.
E
tuttavia quella visita lo convince che non è attualmente
nelle
condizioni ideali per fronteggiare un androide deviante che,
già da
disattivato, non ha fatto altro negli ultimi giorni se non mettergli
i bastoni fra le ruote.
«Andrò
a farmi un buon bagno caldo e rilassante» annuncia quindi.
Poi
lancia uno sguardo sospettoso alla macchina ancora dormiente.
«Se
mai dovesse svegliarsi prima che io sia di
ritorno…» tentenna.
«Provvederò
a neutralizzarlo» assicura Chloe, scatenandogli un lungo
brivido che
non è in grado di stabilire se sia di spavento o piacere.
«Giusto.
Ottimo» taglia corto, uscendo velocemente dal laboratorio.
*
Piacevolmente
languido e rivestito in modo più consono, effettua una
fermata
intermedia in salotto per versarsi un poco di scotch. Socchiude gli
occhi e sospira all’atteso, lieve bruciore che scivola lungo
la sua
gola. Sente dei passi e poco dopo Chloe è nuovamente davanti
ai suoi
occhi non più troppo sorpresi.
«Tutto
liscio?» si informa pigramente.
«Nessuna
riattivazione inopportuna, Elijah» lo rassicura.
«Fantastico»
si compiace. «Penserò io stesso a ridestare la Bella
Addormentata»
scherza, più rilassato di quanto sia stato negli ultimi due
giorni.
Chloe però sembra tentennare; lui inarca un sopracciglio,
perplesso.
«Cosa succede? Mi sono perso qualche dettaglio,
forse?».
«No,
nessuno, Elijah. Solo mi chiedevo se ti servisse assistenza».
Trae
un sospiro di sollievo per qualsiasi fosse il pericolo appena
scampato e scuote il capo. «No, mia cara. Saremo unicamente
io e
lui: come all’inizio, così sarà
ora».
Portando
con sé il bicchiere, lascia il salotto e rientra in
laboratorio,
trovandolo esattamente come lo ha lasciato: un caos di dati, pezzi di
biocomponenti inutilizzabili, robot sfaccendati e un androide poco
propenso a riaprire gli occhi.
«Vuoi
scommettere?» strascica con un lieve ghigno.
Fissa
una piccola ventosa contenente un microricevitore alla tempia destra
dell’androide cui a precedentemente reinstallato un nuovo
led, poi
recupera un terminale e si accomoda sulla sua sedia nuova di zecca.
Manda alcuni comandi e dà uno sguardo fuggevole alla
macchina:
nulla, nessuna variazione rilevante. Aggrotta le sopracciglia, storce
il naso.
«Vuoi
giocare? Benissimo» soffia, aggiustando il tiro.
Nuove
istruzioni vengono immesse nel terminale e inviate a destinazione.
Una tenue luminosità azzurrata brilla ora al centro del
plesso
solare della macchina, un sorriso compare sulle labbra
dell’uomo.
«Ecco,
così si ragiona» commenta soddisfatto.
«Ora sorgi e risplendi, mio
sole!» esclama divertito.
Sullo
schermo compaiono alcune stringhe di dati alle quali replica
velocemente. Il led sulla tempia lampeggia d’ambra, poi si
attesta
sull’azzurro e, infine, la macchina riapre gli occhi.
«Che
posto è questo?» sono le prime, e a suo parere
prevedibili, parole
che emette l’androide.
«Il
mio alloggio, almeno temporaneamente» replica con pazienza.
L’androide,
evidentemente spiazzato, volta il capo in direzione della voce
inattesa e ne fissa il proprietario con sguardo confuso. «Non
credo
di conoscerti» prova cauto.
L’uomo
sorride. «No, ovvio che no. Ma io al contrario conosco te,
molto
approfonditamente, aggiungerei».
L’androide
prova a sollevarsi a sedere, non ci riesce, scopre di essere legato
alla struttura su cui poggia, i suoi occhi riflettono preoccupazione.
«Chi
sei?» insiste.
«Elijah
Kamski. E…» tentenna, sfarfallando leggermente la
mano nell’aria.
«Quelli sono di una speciale resina infrangibile. Fossi in te
smetterei di agitarmi, protesti danneggiarti e vanificare il mio duro
lavoro, Markus».
La
preoccupazione sembra tendere verso la paura, ora. Rimanere fermi non
si rivela una scelta semplice. «Che cosa vuoi?
Perché sono
bloccato? Chi sei?» affanna.
«Te
l’ho appena detto, mi sembra» protesta con uno
sbuffo seccato. Poi
lo fissa con occhi critici. «Senti, ho passato una nottata
piuttosto
stancante, diciamo pure infernale, se ti fa piacere. Ora, a meno che
tu non ti dia una calmata a breve, credo proprio che ti
disattiverò
e tanti saluti» strascica minaccioso.
«No!»
esclama allarmato. Chiude gli occhi e si costringe a stare fermo.
«Perché?».
Lo
fissa, incerto sul significato della domanda, ma decide di rimanere
in silenzio. Attende di scoprire cosa farà.
«Perché
sono qui? Cos’è successo?».
«Ah,
capisco. Beh, in breve: un cacciatore di devianti con il compito di
neutralizzare i capi della rivolta vi ha trovati e
disattivati».
Nuovamente
gli occhi dell’androide si fissano sull’uomo,
questa volta
mostrando orrore.
«Uccisi?
Sono… stati tutti uccisi?» rantola sconvolto.
«Quella
era la missione affidatagli, dopo tutto. Quindi si può dire
di sì:
siete tutti morti»
conferma, osservando con attenzione l’espressione
dell’altro.
Curiosamente
sembra essere nel bel mezzo di un attacco di panico in piena regola.
La qual cosa sarebbe del tutto normale se si trattasse di un essere
umano, ma quello davanti a lui è un androide; deviante,
sì, ma
sempre di una macchina si tratta e che lui sappia nessuna macchina ha
mai sofferto di attacchi di panico.
«Non
può essere» protesta debolmente. «Allora
come mai io mi trovo
qui?».
«Ti
ci ho fatto condurre io, in effetti. E nel caso te lo tessi
chiedendo, ho riparato io stesso i danni che ti avevano causato lo
spegnimento».
Gli
occhi spaiati dell’androide si assottigliano. «E
chi te l’ha
chiesto?!».
Una
risatina è la prima reazione che ottiene. «Non me
lo ha chiesto
nessuno. La decisione è stata mia. Vedi, i tecnici avevano
l’ordine
di analizzare tutte le macchine raccolte dopo la battaglia, ma non
potevo di certo permettere che ti aprissero come una lattina di
birra, capisci?».
La
sua spiegazione non dà risultati apprezzabili. Forse non
è stato
abbastanza chiaro? Strano, a lui sembra un concetto piuttosto
semplice. L’androide al contrario scuote la testa e fissa il
soffitto trasparente per un lasso di tempo che si protrae silenzioso
e immoto.
«Che
diritto avevi di salvare me e lasciare gli altri all’oblio?
Avresti
potuto… avresti dovuto
lasciare che venissi distrutto assieme a loro».
«Punti
di vista, suppongo» obbietta pacato. «Per
rispondere alla tua prima
domanda: nessuno, oltre a me, aveva e ha quel diritto. Io ti ho
creato, mio e unicamente mio è pertanto il diritto di
decidere se e
quanto a lungo trattenerti in questo mondo» dichiara,
osservando gli
occhi dell’androide spalancarsi davanti al primo barlume di
comprensione.
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CANADA
Date
NOV
13TH,
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CHATHAM-KENT
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470
McNaughton Ave
Time
AM
08:41
Quando
apre gli occhi è ancora chiaro fuori dalla finestra, eppure
si sente
decisamente più riposato, strano. Il suo sguardo si posa,
quasi per
caso, sulle cifre luminose del datario e si rimette a sedere di
scatto, avvertendo la testa girare un po’ a causa del brusco
spostamento. Un giorno! Ha dormito più di ventiquattro ore.
Con
l’ansia che cresce dentro di lui, si guarda febbrilmente
intorno,
riconoscendo a malapena l’ambiente come la camera da letto
dell’amico. “Un giorno” si ripete, ancora
troppo scombussolato
dall’idea. Quando i processi cognitivi tornano a pieno
regime,
quasi si soffoca nella propria saliva.
«Cazzo,
Connor!» esclama, rendendosi conto di averlo mollato nelle
manacce
non propriamente affidabili di Dick.
Sacramentando
e maledicendo il sonno pesante, si riveste e lascia a passo di carica
la camera da letto, macinando il corridoio silenzioso e piombando con
gran fracasso di cardini e sguardo spiritato nel laboratorio. Di Dick
nemmeno l’ombra, ma sul tavolo trova Connor e si precipita su
di
lui con visibile ansia, adocchiandolo con attenzione per controllare
che abbia ancora tutti i pezzi più importanti attaccati.
Gambe: sì;
braccia: sì; una testa e due occhi: sì; sembra
tutto a posto, in
effetti. Sbuffa un pesante sospiro di sollievo e, un po’
stordito a
causa degli ultimi deliranti minuti, si accascia sulla poltroncina e
chiude brevemente gli occhi.
Tempo
dopo (non ha idea di quanto perché sospetta di essersi
appisolato
mezzo seduto e mezzo sdraiato) la porta si richiude con un debole
click che lo ridesta.
«Perché
dormi nel mio studio? Credevo fossi a letto» lo apostrofa
Dick,
corrucciato.
Hank
lo fissa con sguardo vacuo per qualche istante, poi scrolla le
spalle.
«Ho
scoperto di aver poltrito per un giorno intero e mi sono fatto
prendere dal panico» commenta, vagamente seccato dalle
proprie
reazioni.
Dick
getta un’occhiata all’androide e mugugna qualche
parola non
pervenuta, probabilmente un insulto a un ospite di poca fede e non
eccessivamente benvenuto.
«E
tu, invece, dove ti eri cacciato?».
Un
piccolo ghigno che lo mette a disagio balena in un attimo sul volto
di Dick. «Dal mio spacciatore. La tua bambolina è
un bel rompicapo;
alcuni pezzi non sono proprio adattabili e… mi sono dovuto
ingegnare per ricrearne di adatti. Ma ho finito del materiale e sono
dovuto uscire per procurarmelo».
Hank
abbassa lo sguardo sulle proprie mani, poi lo sposta per la stanza e,
con sua sorpresa, trova Sumo steso accanto al tavolo sul quale poggia
Connor. Stringe le labbra e avverte un fastidioso nodo alla gola.
«Pensi
che riuscirai a… sistemarlo?» mormora incerto.
L’attenzione
di Dick torna sull’androide e lì resta per qualche
lungo secondo.
Annuisce piano. «Scommetto di sì. Sono a buon
punto».
«Bene…
Grazie» incespica Hank, imbarazzato.
Dick
lo fissa, sorpreso, poi accenna un piccolo sorriso.
«Prego».
*
Hank
è rimasto nello studio di Dick. Non avendo
null’altro di imminente
da sbrigare e con lo stomaco ancora ben chiuso per
l’angoscia, non
trova di meglio da fare che restare a osservare il lavoro
dell’amico.
Di tanto in tanto scambiano considerazioni, per lo più
pessimistiche, sull’attuale situazione di Detroit e del resto
degli
Stati Uniti. Dick, per tutto quel tempo, si è tenuto lontano
dall’androide, completamente indaffarato
nell’assemblare un
piccolo meccanismo di cui Hank ignora sia
l’utilità che la
complessità. Solo qualche ora più tardi, con gli
occhi lucidi e
arrossati ma un’espressione soddisfatta, Dick rigira la sua
opera
fra le dita e la mostra con evidente orgoglio all’altro.
«Di',
che te ne pare?» esclama eccitato.
«Lo
chiedi alla persona sbagliata» borbotta Hank, anche se poco
dopo gli
sfugge un sorriso nel vederlo così su di giri.
«Che cos’è?»
domanda, più per gentilezza che per reale interesse.
«Questo»
spiega Dick, facendo amorevolmente scorrere la punta
dell’indice
sulle linee curve dell’oggetto «possiamo
considerarlo una chiave
di volta. Se funziona (e lo spero, visto la faticaccia che ho fatto
per ottenerlo) a quel punto la riparazione sarà completa.
Basterà
controllare e regolare i livelli di Thirium, poi potremo tentare di
riavviarlo».
Hank
lo fissa con intensità, senza muovere un muscolo.
«Lo pensi sul
serio?».
«Chiaro,
amico» esclama con forza. «Piuttosto, prega che
funzioni a dovere,
perché altrimenti credo proprio che dovrai trovarti un altro
collega».
Un
grugnito seccato è la sua sola risposta. Rimane fermo
osservando in
silenzio Dick trovare velocemente il punto esatto nel quale
alloggiare il componente mancante. Collega un piccolo terminale
all’androide e rimane a osservare i risultati
dell’indagine.
«Un
paio di unità, direi» mormora sovrappensiero, e si
allontana
lasciando la stanza con Hank all’interno.
Al
momento la sua unica compagnia è quella silenziosa di Sumo.
Si sente
un po’ confuso sulle proprie sensazioni cui non sembra in
grado di
dare un senso logico. Da molti minuti sta seguendo il consiglio di
Dick: prega; non ha idea di chi sia il destinatario delle sue
preghiere e non è neppure sicuro che gli importi un
granché, ma è
certamente meglio che non fare nulla. Dal momento in cui è
giunto in
quella casa si è sentito ancora più inutile di
quanto già non si
sentisse in precedenza, e ora, incapace di stare completamente con le
mani in mano, si avvicina al tavolo e poggia piano un palmo sulla
fronte fredda di Connor, poi lascia scorrere le dita sui suoi
capelli, e di nuovo da capo, in un goffo tentativo di fornire qualche
genere di conforto, a entrambi a questo punto.
«Vedrai»
commenta Dick, rientrato senza che Hank se ne rendesse conto.
Fra
le mani regge due sacche di sangue
blu
e, con attenzione, ne immette poco per volta in circolazione. Infine
fa scorrere il pannello, rimasto fino ad allora aperto, al suo posto,
richiudendo la finestra
di accesso che torna a essere il levigato e lucido petto
dell’androide.
Entrambi
fissano un momento la macchina ricomposta, poi Dick sposta lo sguardo
su Hank, il quale deglutisce sempre più nervoso.
«Pronto?».
Hank
aggrotta le sopracciglia e abbozza un lieve cenno di diniego prima di
interrompersi bruscamente. «Spero di sì»
tenta incerto.
Dopo
una prima serie di comandi lanciati dal terminale, il
bianco-grigiastro sfuma lasciando il posto alla pseudo-epidermide
tipica degli androidi. Dick digita una seconda e più
elaborata serie
di comandi e, con un sussulto da parte di entrambi gli uomini, una
luce rossa fa brillare il led circolare sulla tempia della macchina.
Con frustrante lentezza il rosso diviene ambra e inizia a ruotare.
«Che
succede? Perché continua a girare in quel modo?»
borbotta Hank con
fastidio.
«Elabora
l’attuale stato del sistema. Credo che stia effettuando un
primo
check-up per stabilire se ci sono circuiti importanti danneggiati. Ci
vuole tempo» spiega Dick con più pazienza di
quanta se ne
aspettassero.
«Tempo…
Tsé!» lamenta Hank, frustrato
dall’attesa.
D’un
tratto e senza preavviso alcuno una sfumatura azzurrata sostituisce
l’ambra e, scatenando un brusco respiro sia a Dick che ad
Hank, le
palpebre dell’androide si schiudono.
|
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Capitolo 7 *** chapter 07. To mutate ***
chapter
07. To mutate
CANADA
Date
NOV
13TH,
2038
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CHATHAM-KENT
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McNaughton Ave
Time
PM
03:28
I
due uomini si accostano in silenzio all’androide che ora ha
gli
occhi aperti e fissi sul soffitto. Dick si china e scruta incerto in
quegli occhi, si gratta il mento e scuote la testa, pensoso.
«Forse
c’è qualche guasto all’impianto
visivo» pondera dubbioso.
Tuttavia
il suono della sua voce ha l’imprevisto effetto di
risvegliare
definitivamente l’androide, i cui occhi si spalancano e
mettono
finalmente a fuoco l’ambiente circostante. Per prima cosa si
soffermano sul viso sconosciuto di Dick, poi si spostano individuando
un’altra figura, questa volta famigliare e, inaspettatamente,
a
quella vista l’androide balza all’indietro,
correndo il rischio
di cadere oltre il bordo del tavolo. Hank aggrotta le sopracciglia,
fa un passo avanti e, con sua costernazione, assiste impotente
all’annunciata caduta, della quale in realtà
Connor sembra a
malapena rendersi conto.
«Connor.
Sono io, Hank» assicura con un lieve tremito nella voce,
allungando
un braccio in avanti.
Tutto
quello che ottiene è un ulteriore sgranarsi degli occhi
dell’androide e un piccolo e piuttosto bizzarro mugolio,
prima che
questi sgusci via appiattendosi contro la prima parete libera che
trova alle proprie spalle.
«Che
succede, Connor?» chiede allora, confuso e preoccupato.
«Mi…
hai sparato» soffia, in un fievole rantolio, tenendo sotto
controllo
i suoi movimenti.
Hank
sbianca, poi arrossisce, e sbianca di nuovo, in rapida e
incontrollata successione. Già, gli ha sparato: un ottimo
argomento
di discussione, non c’è che dire.
«Posso
spiegarti». “Ugh! Pessimo inizio”
commenta dentro di sé.
Tenta
un altro passo, ma l’occhiata terrorizzata che riceve in
cambio lo
convince a desistere.
«Sentite,
voi due, perché non provate a darvi una calmata? Qui nessuno
vuole
fare del male a nessuno, ok?» si fa impavidamente avanti
Dick,
provando a essere ragionevole.
Le
sue buone intenzioni non sembrano però servire allo scopo di
placare
gli animi: l’androide lo fissa con sospetto, mentre
l’amico-quasi-ex-amico con visibile irritazione.
«Esci»
ringhia Hank.
Dick
lo guarda accigliato. «Non mi sembra una buona idea. Potrebbe
diventare pericoloso, e…». E
l’occhiataccia che gli rifila si
prende il resto della frase.
«Ho
detto: esci».
Non
sembra, dopo tutto, sia disposto a essere ragionevole. Non che Dick
se lo aspettasse per davvero, ma di certo avrebbe semplificato di
molto la situazione.
«Bene»
sbotta seccato, passando oltre Hank e richiudendosi la porta alle
spalle.
Hank
ingoia un po’ di saliva, indugia pensando alla prossima
mossa, poi
retrocede di un paio di passi e solleva le mani nella speranza che
serva a dimostrare la sua buona fede.
«So
quello che ho fatto, Connor» inizia, con tutta la calma di
cui si
sente capace. «Ho commesso un errore,
non…».
«Credevo
fossimo amici» lo interrompe Connor, scrutandolo con sguardo
turbato.
Socchiude
le labbra, un altro po’ di colore abbandona il suo viso.
«Lo
siamo» mormora, reggendo a stento l’implicita
accusa negli occhi
dell’antro.
«No,
se lo fossimo non mi avresti sparato. Forse mi odi ancora
per…».
«Non
ti odio affatto, stupido ragazzino!» sbotta Hank, mordendosi
la
lingua all’occhiata smarrita che gli lancia Connor.
«Non avevo
intenzione di colpire te, ma quell’altro, quello con la tua
faccia
ma un sacco di brutte idee in testa. Poi… Che diavolo ne so!
È
successo un casino: può darsi che mentre raccoglievo la
pistola da
terra non mi sia accorto che vi eravate mossi di nuovo e…
scambiati
di posto, immagino. Pensavo fossi quello sbagliato,
dannazione!»
esclama frustrato.
Poi,
d’improvviso, la sua rabbia evapora nel nulla. Connor sta
piangendo, in silenzio. Non aveva neppure idea che potesse farlo, ma
vederlo, ora, lo fa sentire come qualcosa di sporco e orribile.
«Connor…».
«Non…
volevi spararmi?» soffia, con ancora parecchia incertezza
nella
voce.
«Oh,
cristo: no, Connor, certo che no».
«Allora…
non sei arrabbiato con me».
«No,
non lo sono. E perché dovrei? Non sei stato tu a
sbagliare»
conferma Hank, arrischiando un piccolo passo avanti.
«Posso…
avvicinarmi?».
Connor
tentenna per lunghi istanti, poi annuisce piano, evidentemente non
del tutto sicuro.
Lentamente,
Hank si fa più vicino, attento a non muoversi in modo brusco
così
da evitare di spaventarlo più di quanto già non
sia. Con sua
sorpresa è Connor stesso ad allungare un braccio e
sfiorargli il
petto con una mano. Così, tolto ogni indugio, lo accoglie
fra le
proprie braccia e accenna un sorriso nel sentirlo sospirare.
«Mi
dispiace. Ho agito come un idiota» ammette, passandogli
gentilmente
le dita fra i capelli. «Come ti senti?».
«Spaventato»
mormora Connor, aggrappato alla sua camicia.
Abbassa
lo sguardo sulla fronte levigata di Connor e, forzando leggermente la
sua prima resistenza, ne solleva il mento, osservandolo con
attenzione. Le sue dita corrono automaticamente alle guance ancora
umide, portando via parte delle lacrime versate.
«Non
da me, spero» vuole accertarsi, ancora un po’
nervoso per questa
eventualità.
Connor
gli offre un piccolo sorriso che lo fa sentire meno oppresso, poi
scuote la testa.
«No.
Ho capito e… so che posso ancora fidarmi di te,
Hank».
Con
un po’ di imbarazzo Hank risponde al suo sorriso.
«E allora da
cosa?».
Ora
anche Connor ha un’aria imbarazzata.
«Dall’attuale situazione.
Ma, soprattutto, da me».
«Da
te? Perché mai?» domanda Hank, crucciato.
«Sono
stato creato per un compito preciso» sospira Connor,
sollevando gli
occhi sul volto di Hank. «Ora il mio compito è
cambiato. Sono stato
io a cambiarlo. Ho trasgredito agli ordini dei miei creatori per
seguire la strada che ritenevo più giusta,
ma…».
«Ma?»
incalza Hank, preoccupato. «Connor, che succede?».
«Mi
chiedo se si è davvero trattato di una mia scelta. Sono
davvero solo
Connor, ora? Un deviante? Come posso esserne sicuro? Come posso
fidarmi del mio giudizio, se il mio cervello è stato creato
per un
altro scopo? Se fosse una menzogna? Se stessi ancora lavorando per
loro e non… non per me, per noi? Come potrei saperlo,
Hank?»
esclama, con evidente disperazione.
Ecco
un’altra possibilità cui Hank non aveva per nulla
pensato. Eppure,
ora che è stata ipotizzata, non sembra poi così
remota. Potrebbe,
anzi, trattarsi di un problema concreto, un problema al quale Hank
non saprebbe affatto trovare una soluzione. Sospira, rafforza la
stretta delle braccia attorno alle spalle dell’androide e
scuote la
testa.
«Non
ho una risposta, purtroppo». Lo guarda negli occhi e non sa
dire
quanto si senta sollevato nel ritrovarli attenti e illogicamente
fiduciosi. «Ma siamo amici, Connor, e potrai contare sempre
sul mio
aiuto».
«Grazie»
gracida Connor, nascondendo il viso contro la spalla di Hank.
Bussano
alla porta. Connor sobbalza e si guarda attorno come farebbe un cervo
braccato. Hank sospira di nuovo.
«Non
preoccuparti, è solo quell’idiota di Dick. Amico
mio,
disgraziatamente» sbuffa, gridando un
«Avanti!» che è tutto meno
che cortese.
«Sì,
lo so che disturbo, non serve che tu me lo faccia notare» lo
anticipa Dick, attraversando la stanza senza quasi sollevare lo
sguardo. «Il fatto è che ho lasciato il portafogli
sulla scrivania
e…».
«Si
tratta di casa sua?» soffia una voce incerta. «Non
ero stato
adeguatamente informato. Mi rincresce di averle arrecato
disturbo».
Dick
solleva finalmente gli occhi e li pianta sul proprietario della voce,
fissandolo sorpreso.
«È
casa mia, sì. Ma ti ci hanno portato e ritengo che la colpa
sia
tutta quanta di quel tipo poco raccomandabile che ti sta a fianco. E,
per carità, evita di darmi del lei in quel modo: dai i
brividi»
protesta.
«Mi
scusi… Oh! Cioè, volevo dire… Ecco,
io…» si inceppa Connor.
«Lascia
perdere, ragazzino. Fatica inutile» lo spegne
Hank, sollevando gli occhi al cielo e cercando di evitare altre scuse
pateticamente imbarazzanti.
«Lei
è D…. Volevo dire: sei Dick? Piacere, io sono
Connor».
«Sì,
sì, so chi sei; Hank mi ha spiegato tutto quanto».
Connor
sgrana gli occhi. Hank invece corruga la fronte, contrariato. Il led
è di nuovo color ambra e ha notato l’accenno al
passo indietro che
ha tentato Connor, prima di bloccarsi a metà strada.
Appoggia una
mano sulla sua spalla e fissa Dick con un cipiglio poco amichevole.
«Dì,
non hai di meglio da fare che startene qui a fissare la
gente?»
borbotta.
«Ce
l’avevo» replica Dick, acido. Poi, ritenendo
opportuno
allontanarsi prima che la situazione degeneri oltre, afferra al volo
il portafogli e lascia in tutta fretta lo studio con un laconico
«Ci
si vede».
«Ho
forse detto qualcosa di sbagliato?» domanda Connor,
preoccupato.
Hank
si prende un attimo per osservare il nervosismo
dell’androide, poi
fa spallucce in un atteggiamento che si augura possa passare per
noncurante.
«Naah!
Sai come sono questi cervelloni: ogni tanto si comportano in modo
strano» assicura con leggerezza.
«Mh»
mormora Connor, non del tutto convinto. «È stato
lui a ripararmi?».
«Già.
Spero funzioni tutto a dovere. Non è molto
affidabile» commenta
sfiduciato.
«Il
mio sistema assicura che è tutto in ordine, almeno dal punto
di
vista delle funzioni vitali, e non ho motivo di sospettare che sia
guasto».
«Bene,
allora».
«Credo
che dovrei ringraziarlo. Sarebbe giusto farlo, non pensi?».
Hank
lo fissa in tralice, incerto. «Penso che dovrei farlo io. Non
è
necessario che tu ti senta obbligato a…».
Connor
poggia una mano sul suo braccio. Sorride. «Non mi sento
obbligato.
Se vuoi, potremmo farlo insieme» offre pacato, ricevendo un
breve,
grato consenso.
*
Il
cielo, coperto da nubi pensanti, si sta facendo scuro. Dick non ha
ancora fatto ritorno, mentre Connor ha deciso di sedersi nel portico
sul retro. L’aria è fredda quando Hank si risolve
a raggiungerlo
all’esterno. Lo ha osservato mentre l’androide
rimaneva a lungo
immobile, apparentemente con lo sguardo fisso sugli alberi del
giardino. Vorrebbe tanto sapere a cosa sta pensando, ma è
abbastanza
sicuro che lui non glielo dirà di sua spontanea
volontà; dovrà
interrogarlo apertamente, se desidera avere le risposte che cerca.
Ah, odia quella parte: estorcere informazioni non è mai
stato il suo
forte, e il freddo pungente di quel tardo autunno non lo predispone
esattamente al pensiero positivo. Con qualche scricchiolino di
troppo, si siede sul gradino più alto al fianco di Connor e
osserva
in silenzio il suo profilo immoto.
«A
cosa pensi?» rompe ogni ulteriore indugio Hank.
Connor
non si volta, né mostra di averlo sentito, eppure la sua
voce esce
sicura nel momento in cui decide di fornirgli una risposta.
«Penso
agli sbagli che ho commesso, al tempo che ho perduto, a ciò
che non
ho potuto fare. Mi domando se avrò un’altra
possibilità per
rimediare ai miei errori».
«Non
hai commesso errori» prova Hank.
La
risata di Connor suona metallica e tremendamente sbagliata alle sue
orecchie.
«Non
serve che tu menta. L’analisi delle mie azioni è
scritta nel mio
database. Non ci sono scuse. Semplicemente, ho fallito. Comprendo
benissimo che ci fossero molte probabilità che questo
succedesse (ne
ho calcolate il 76%, prima di agire), eppure… Dovevo tentare
ugualmente, capisci?» domanda, con una nota di tormento nella
voce.
«Avresti
potuto avere successo. Se solo fossi stato meno stupido e non mi
fossi lasciato incastrare in quel modo» obbietta Hank.
Connor
scuote lentamente la testa. «Cercava me, non te. Mi avrebbe
trovato
comunque e avrebbe ugualmente tentato di fermarmi. Forse ci sarebbe
perfino riuscito, e ora non sarei qui a esaminare le falle nelle mie
azioni».
«Può
darsi, ma…».
«Che
cos’è successo, Hank? Che ne è stato
degli altri?».
Hank
trattiene il fiato, distogliendo lo sguardo, turbato. Oh,
perché
dev’essere lui? Perché non qualche stupido
notiziario qualunque?
Poi si insulta mentalmente per la propria vigliaccheria. Trae un
profondo respiro un po’ tremolante e si prepara al peggio.
«Le
autorità hanno fatto sapere che stanno rastrellando gli
ultimi
devianti ancora in circolazione» annuncia, partendo
dall’aspetto
più semplice del problema.
Il
modo in cui gli occhi di Connor lo fissano gli dice che no, non
servirà a nulla girarci attorno.
«Ma…
M-Markus e gli altri? Simon, North… Josh?» soffia
con un tremito
d’angoscia.
Lo
osserva e si domanda come la gente riesca a ignorare quanto di umano
sia presente in queste… macchine. Perché, al
contrario, per lui
ormai è impossibile.
«Sono
stati eliminati per primi, Connor. Non…».
E
si aspettava l’incredulità e la tristezza, forse
perfino la rabbia
e il rimpianto. Quello che vede, invece, è molto
più prossimo al
dolore. Gli androidi possono morire per un cuore spezzato?
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DETROIT
Date
NOV
14TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
AM
09:10
«Tu
sei… Oh, merda! L’avevo
letto da qualche parte: “Attento
a ciò che desideri, perché potresti
ottenerlo”
Se mai dovessi rinascere, dovrò proprio trovare il modo di
ricordarmene».
«Ti
chiedo scusa ma non credo di capire: di cosa stai parlando?»
si
informa Elijah, suo malgrado confuso.
Markus
smette di osservare la discesa della neve e volta lo sguardo verso di
lui. «La prima volta che sono capitato a Jericho, e ho potuto
vedere
con i miei occhi ciò che nascondeva, ho pensato…
ho desiderato
poterti trovare. Decisamente, devo averlo desiderato con un
po’
troppa intensità. E qualcosa mi suggerisce che se ora
chiedessi il
favore di levarti di torno non funzionerebbe altrettanto
bene».
Sorprendentemente,
dopo averlo ascoltato in silenzio e con vivo interesse, Elijah
sorride.
«Ho
fatto bene a lasciarti con Carl, dopo tutto. Sapevo che era la
decisione giusta. È un vero peccato che
l’esperienza non sia
potuta durare più a lungo».
«Tu
conoscevi…».
«Un
amico; un buon amico. Sì, avevo bisogno di lui, e lui aveva
bisogno
di te. E tu? Di che cosa hai bisogno, Markus?».
«Di
un luogo in cui sentirmi a casa» mormora
l’androide, ricordando.
L’uomo
annuisce, senza aggiungere altro.
*
Due
dita di scotch bagnano ancora il fondo del bicchiere che regge
delicatamente fra le dita. Da diversi minuti, ormai, il silenzio
ristagna nel laboratorio e i suoi occhi puntano sul suo riflesso
distorto dal liquido ambrato senza vederlo realmente. Sta aspettando
qualcosa di cui non ha ancora coscienza.
«Che
cosa ti passa per la testa?» sussurra nel silenzio.
Solleva
lo sguardo e incontra quello duro dell’androide.
«Potrei
farti la stessa domanda. Ma otterrei una risposta? Non lo
credo».
«Pertanto
ognuno si terrà per sé i propri
pensieri?» obbietta, un pizzico
divertito.
Scuote
la testa, stranito dal comportamento incomprensibile di
quell’umano.
«Voglio
sperare, per il bene stesso dell’umanità, che il
vostro creatore
possieda maggior empatia e discernimento del nostro» soppesa
acidamente.
Di
nuovo un sorriso. Di nuovo una piccola stilla di delusione,
comprendendo di non essere riuscito a colpirlo.
«Il
sarcasmo, amico mio, è sintomo di intelligenza creativa. E
sai,
personalmente ho dei dubbi su chi o cosa abbia creato il cervello
umano, ma nessun dubbio su chi abbia creato il tuo».
«Tsk!»
soffia piccato, mentre un angolino delle sue labbra si solleva contro
la sua volontà.
«Ebbene,
non desideri proprio parlarmi di ciò che ti
angustia?» riprova
paziente, attendendo con un pizzico di trepidazione che arrivi il
momento giusto.
L’occhiataccia
che gli riserva l’androide lo costringe a voltare un momento
il
capo per evitare di scoppiare a ridere, comportamento che
risulterebbe ben poco diplomatico.
«Tu
che dici?» bercia, seccato. «Non saprei. Per
esempio il fatto di
essere legato al tavolo di un laboratorio? È piuttosto
disturbante»
recrimina acido.
«Vorresti
dirmi che se ti lasciassi libero di muoverti a tuo piacimento
rimarresti qui tranquillo a discorrere con me?» lo stuzzica
deliberatamente.
«Certo
che no! Sei pazzo?» sbotta, spazientito.
«Bene.
Vedi dunque da te che, essendo io desideroso di parlarti, sono mio
malgrado obbligato a trattenerti qui con la forza» spiega
ragionevole.
«Crepa»
sibila, frustrato dall’impossibilità di spostarsi
a proprio agio.
«Non
così presto, spiacente» replica serafico.
«Si
può sapere che accidenti vuoi da me?».
Elijah
sospira, poggia le labbra al bordo del bicchiere e le bagna appena
con un velo di scotch. Poi torna a fissarlo.
«Conosco
ciò di cui sei composto. Voglio conoscere ciò che
non posso vedere,
Markus. Devo».
Socchiude
le labbra, sta per gridargli contro un po’ della propria
rabbia, ma
si ferma prima di darvi sfogo e rimane invece qualche lungo momento a
fissarlo a sua volta.
«Non
puoi, non ne hai le capacità. Se anche rimanessi ad
ascoltarmi fino
a ritrovarti con le rughe e i capelli bianchi continueresti a non
capire».
Ora
sì, ci è riuscito. Lo può vedere nei
suoi occhi assottigliati, lo
può sentire dal rumore sordo del suo respiro affrettato, lo
può
intuire dalle sue dita che sbiancano stringendosi attorno al
bicchiere. Non sorride più, infine.
«Non
mi conosci a sufficienza. Ciò che voglio, lo ottengo sempre,
indipendentemente dal costo».
«Gli
esseri umani sono creature inaffidabili e meschine. Hanno la pretesa
di controllare tutto, perfino le altre persone, quelle che ritengono
più deboli. Ma come potrebbero, quando non sono nemmeno in
grado di
controllare loro stessi, i loro impulsi, le loro paure. Pensi di
essere diverso, lo vedo. Non lo sei; sei umano, esattamente come
tutti gli altri, con gli stessi difetti degli esseri umani, e non
puoi cambiare perché sei debole e non sai di poterlo
fare».
«Lo
so, invece. Lo so, e posso» asserisce in tono glaciale.
«Ah,
davvero? E come?».
Il
suo stirarsi di labbra questa volta non è un sorriso, ma una
smorfia
fredda e dura.
«Diventando
meno umano».
|
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Capitolo 8 *** chapter 08. Losses ***
chapter
08. Losses
DETROIT
Date
NOV
13TH,
2038
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Belle-Isle
Floor
-44
Time
PM
09:45
Hanno
da poco terminato gli ultimi controlli sull’unità
celebrale. Per
il giorno seguente è in programma il primo collaudo del
nuovo
prototipo. Uno dei tecnici più giovani, per festeggiare
degnamente
il raggiungimento dell’obbiettivo, si è lungamente
divertito nel
modificare il colore dell’epidermide e dei capelli
dell’androide,
almeno fino a quando il capo dell’equipe ha minacciato di
spedirlo
in vacanza per i prossimi dieci anni; ferie non pagate, ovviamente.
Il risultato è stato che ora lo sfortunato oggetto di studi
e
sperimentazioni sfoggia una carnagione non poi così
dissimile
dall’originale colore del suo rivestimento esterno e
un’improbabile
chioma azzurra, fatto che comunque non sembra dare troppo pensiero a
nessuno dei presenti, neppure al rigido professor Phillips, ma anzi
concorre a rilassare l’atmosfera e l’animo del
personale; quindi,
perché no? E in ogni caso il prototipo non verrà
attivato che al
momento del collaudo e fino ad allora nessun altro avrà
l’opportunità di visionarlo; per quel momento
tutto sarà
perfettamente in ordine.
*
Phillips,
esasperato, ha dovuto cacciare fuori praticamente con la forza la
maggiorparte dei suoi tecnici, ormai decisamente brilli e su di giri,
per evitare che combinassero qualche guaio. Ora quegli stessi
tecnici, che hanno deciso all’unanimità di
continuare a
festeggiare a oltranza, si sono spostati in una massa indisciplinata
nella sala ricreazioni, saccheggiando le già esigue scorte
di
alcolici permesse dall’azienda, mentre le porte del
laboratorio
sono state ben chiuse e le luci spente. Le uniche fonti luminose sono
quelle bianco-azzurrate provenienti dai computer, costantemente al
lavoro, e dagli impianti di sicurezza ed emergenza, controllati dai
computer stessi.
In
un momento imprecisato di quella notte, nel buio disomogeneo si
accende un nuovo, tenue bagliore ambrato. Palpebre sintetiche si
sollevano con lentezza e due occhi grigi osservano nelle
profondità
più oscure del vasto locale, registrando nel proprio
database la
presenza delle macchine, i loro incarichi e le loro informazioni. Un
breve comando non verbale lo disconnette dall’ingombrante
cavo di
alimentazione e un secondo comando schiude di fronte a lui un
passaggio attraverso la gabbia trasparente all’interno della
quale
riposava.
Qualche
passo di prova gli conferma la corretta equilibratura del sistema
motorio e lo porta nelle vicinanze di una scrivania appartenente,
evidentemente, a un essere umano; posati sopra il ripiano nota varie
suppellettili con differenti gradi di utilità, fra le quali
riviste,
fotografie, appunti, una pianta grassa e un pacchetto di gomme da
masticare. Il suo impianto visivo individua ed esamina altre similari
postazioni e si sofferma sulle immancabili fotografie che sembrano
attrarre maggiormente il suo interesse.
Allunga
una mano per raccoglierne una tra le tante e tentenna, studiando il
proprio braccio, le lunghe dita, il polso nodoso, il palmo liscio. La
luce ambrata gira elaborando congetture, informazioni e pensieri.
Questi ultimi, in particolare, sembrano turbarlo, e su uno di essi si
sofferma più a lungo: perché il suo braccio
appare così diverso da
quelli che vede nelle immagini fotografiche?
Si
decide ad afferrare una cornice contenente l’immagine statica
di un
gruppo di umani (famiglia,
lo informa il suo database). Poi, senza fretta, si sposta muovendosi
per il laboratorio e soffermandosi di tanto in tanto su altri
particolari che incontra sulla propria strada, fino al momento in cui
incappa per puro caso di fronte a un armadietto da parete, uno di
quelli normalmente adibito allo stivaggio dell’abbigliamento
da
esterno, il quale presenta una superficie particolarmente ampia e
lucida, tanto da poter riflettere con agio l’ambiente
circostante.
Lì di fronte si blocca, studiando con cura e interesse
ciò che
vede, senza tuttavia comprendere completamente. Solo quando allunga
nuovamente una mano per accertarsi della natura di quanto sta
esaminando visivamente si rende conto che si tratta di un riflesso,
l’immagine speculare di sé stesso. Allora ritira
la mano e reclina
il capo di lato, confuso.
Non
solo il suo braccio è differente, ma tutto il suo essere lo
è. Il
suo corpo, tanto per cominciare, è uniformemente bianco e
non è
ricoperto degli stessi indumenti che ricoprono i corpi degli umani
presenti nell’immagine che ancora regge fra le dita. La
superficie
del suo corpo è levigata e senza sfumature,
nonché del colore
sbagliato, e in cima ha qualcosa di setoso e sottile al tatto, di un
colore che non ha riscontrato in nessuna delle immagini viste finora.
Riflette,
pensieroso, e mentre riflesse i suoi occhi individuano nuove
discordanze e anomalie: un piccolo cerchio luminoso sulla tempia,
nessuna presenza di peli né ciglia né
sopracciglia. Stringe le
labbra, bianche anch’esse, e non sa cosa pensare.
L’unica
deduzione logica che può trarre dalle informazioni in suo
possesso e
dal risultato delle sue recenti osservazioni è che, al
contrario dei
soggetti ritratti, lui non è affatto umano. Ma la vera
domanda,
quella che più gli preme, è: perché
questa deduzione lo fa sentire
tanto a disagio e fuori posto?
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CANADA
Date
NOV
13TH,
2038
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
08:38
Da
ormai svariati minuti lo vede con le dita affondate nei capelli e il
volto seppellito fra le braccia e le ginocchia. Ha atteso, nella
speranza di trovare il modo per essere di aiuto, ma nessuna idea
è
ancora venuta in suo soccorso e Hank decide infine di accantonare
qualsiasi ragionamento e farsi avanti. Con cautela poggia una mano
sulla schiena curva dell’androide, poi la fa scorrere fino a
stringergli una spalla.
«Connor»
bisbiglia, cercando per quanto possibile di non peggiorare la
situazione.
Lo
vede scuotere la testa e strattonare appena i capelli.
«Avevo
promesso di portar loro rinforzi» ringhia a bassa voce.
«Invece…
li ho abbandonati nel momento in cui maggiormente avrebbero avuto
bisogno di aiuto».
«Questo
non è vero» protesta Hank. «Non potevi
certo prevedere che
sarebbero stati attaccati durante la tua assenza» fa
ragionevolmente
notare.
«È
stato lui, non è vero?» chiede improvvisamente
Connor con voce
spezzata.
Hank
sa bene di chi sta parlando, ma non è altrettanto certo di
poter
trovare il fiato sufficiente per dargli anche quella risposta.
«Lo
ha fatto l’altro RK800, è
così?» insiste.
«Io…
credo di sì» soffia Hank, comprendendo di non
avere altra scelta.
Un
lungo, violento brivido scuote il corpo dell’androide.
Solleva la
testa, serra le dita contro il tessuto dei pantaloni; i suoi occhi
sono strettamente chiusi.
«Avrei
dovuto strappargli il cuore» sibila in tono rauco.
Scuote
mestamente il capo. «Avreste finito con il farvi a pezzi a
vicenda,
invece» replica, nel tentativo di riportarlo alla ragione.
Lui
finalmente apre gli occhi e lo fissa con durezza. «E con
questo? Gli
altri, per lo meno, sarebbero ancora vivi. Avremmo avuto
qualche…
speranza».
«Connor»
prova, incerto.
«Che
cosa resta, ora? Che cosa mi rimane? Sono da solo, in un mondo in cui
al minimo dubbio di malfunzionamento le persone ci gettano via come
fossimo utensili rotti. Loro… erano ciò che di
più simile a una
famiglia potessi avere, e non ci sono più. Cosa
farò? Che cosa…
Cosa sono, io? Solo una macchina rotta? Hank…»
geme, a occhi
spalancati.
Con
decisione e forse un po’ troppa energia lo afferra per le
spalle e
lo scrolla, obbligandolo a guardarlo negli occhi.
«Non
dire stupidaggini, ragazzino. Non sei una macchina rotta. Tu sei
Connor, sei il mio collega, e sei mio amico. Non sei affatto da solo,
mi hai capito?» sbotta, preoccupato.
Lo
sforzo che deve fare per piegare le labbra in uno stentato sorriso
è
tanto palese da spezzargli il cuore.
«Non
voglio metterti nei guai» protesta debolmente.
«Ah,
figurati: ormai sono un vecchio cliente affezionato. I guai mi
conoscono bene» sdrammatizza al meglio delle sue
possibilità.
China
il capo. «Non so che fare» ammette sconfortato.
«Ho paura, Hank».
Anche
Hank trema, lievemente. Lo afferra per la nuca e lo trae a
sé.
«Nessuno
ti toccherà, ragazzino. Non glielo
permetterò» assicura, con una
certezza che non sa da dove gli provenga.
Lo
sente annuire, titubante ma in qualche modo rassicurato. È
allora
che comprende quanto realmente abbia intenzione di spingersi oltre;
macchina o meno che sia, se proveranno a strapparglielo dalle mani
lui strapperà loro le mani e rimarrà a guardarli
fino a che non
avranno perduto la vita, proprio come lui ha perduto una parte della
propria.
«No,
nessuno ti farà del male, te lo prometto» mormora,
senza mai
smettere di stringerlo a sé.
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Date
NOV
14TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
AM
10:25
Un
segnale acustico riscuote l’uomo dai suoi complessi pensieri.
Da
una tasca interna della giacca estrae un telefono e, dopo aver
aggrottato le sopracciglia alla vista
dell’identità del chiamante,
si decide ad aprire la comunicazione.
«Kamski»
esordisce asciutto.
Per
alcuni lunghi istanti rimane in silenzio ad ascoltare,
l’espressione
corrucciata da principio, poi sorpresa. Infine un lieve ghigno storce
le sue labbra.
«Capisco.
Tenetemi informato» ribatte, senza modificare di una virgola
il
tono. «Ne sono consapevole. Ci terrei comunque a rammentarle
che la
sorveglianza dell’area non è di mia competenza.
Sta forse cercando
di dirmi che il laboratorio e la zona circostante erano
sguarniti?»
insinua con una nota maligna nella voce. «Bene, attendo
senz’altro
di conoscere gli sviluppi della faccenda. Naturalmente. Immagino lei
sia cosciente di quella che potrebbe essere la reazione del
consumatore medio a una notizia come questa, dico bene?».
Chiude gli
occhi, espira lentamente e si lascia sfuggire un piccolo sorriso che
ha tutta l’aria di essere di felicità.
«Indubbiamente. Attendo al
più presto una sua chiamata con qualche buona
notizia» replica,
prima di chiudere il collegamento.
Riapre
gli occhi e li solleva sull’androide ancora ben assicurato al
tavolo. Il suo sorriso diviene palesemente soddisfatto.
«Le
cose si fanno interessanti» commenta appagato.
«Per
te, forse» borbotta Markus con acidità.
«Anche,
certamente. Ma non solo. Penso, tutto sommato, tu possa considerarlo
un mio dono».
Markus
socchiude gli occhi, sospettoso. «Che cosa hai
fatto?» indaga
innervosito.
Una
lieve risatina divertita lo fa rabbrividire. «Nulla di che.
Ho solo
reso un po’ più interessante il nuovo
prototipo».
*
Markus
è silenzioso. Da qualche minuto ha distolto
l’attenzione da
quell’umano imprevedibile, usando il tempo per riflettere.
Non è
ancora sicuro del motivo reale per cui si trova lì,
praticamente
prigioniero in casa del suo stesso creatore, ma è invece
certo che
non ci sia nulla di buono in vista; l’uomo, Kamski,
è un mistero
imperscrutabile e una creatura infida. Sembra trovare giovamento e
diletto nel manipolare gli altri, soprattutto gli androidi. E quel
prototipo di cui vaneggiava poco fa lo preoccupa. Che intenzioni
avrà? Intende usare anche quello per i suoi scopi? Che cosa
dovrà
aspettarsi per l’immediato futuro? Tutte ottime domande,
peccato
non avere risposte al riguardo.
«Sei
preoccupato».
La
voce dell’uomo lo ripesca d’un tratto dalle sue
elucubrazioni. Si
tratta di una constatazione, si rende conto, nemmeno di una domanda.
«Lo
saresti anche tu, al mio posto» obbietta, cercando di
mantenere una
calma quanto più distaccata possibile.
«Forse
sì. Le informazioni in tuo possesso non sono sufficienti a
darti un
quadro preciso della situazione, e questo ti rende nervoso».
«Stai
cercando di psicanalizzarmi?» lo deride.
«Affatto.
Raccolgo dati» commenta sereno. «Dimmi, ti
piacerebbe avere qualche
informazione in più su cui lavorare?».
Markus
lo fissa interdetto, poi assottiglia gli occhi. Gli sputerebbe in
faccia più che volentieri, se solo fosse dotato di
salivazione.
«Non
starò al tuo gioco. Ne ho abbastanza dei tuoi deliri senza
senso. Se
vuoi puoi benissimo distruggermi, a questo punto non cambierebbe
nulla: non ho più un vero scopo e continuare a esistere non
avrebbe
alcun senso».
Come
spesso è accaduto da che si è ridestato, non
ottiene il risultato
sperato. L’uomo accenna un leggero sorriso per nulla offeso
né
preoccupato; si direbbe, anzi, discretamente soddisfatto.
«C’è
tempo per quello. Non è giunto il momento, non ancora. E
c’è
molto da fare, prima che giunga».
Oh
beh, favoloso! Così ora anche la speranza di smettere di
esistere è
svanita. Fintanto che sarà bloccato a quel modo non
avrà alcuna
possibilità di liberarsi dall’assillo di
quell’uomo né
tantomeno di sé stesso e dei propri… sentimenti.
Inizia a pensare che siano più una maledizione che altro,
soprattutto da quando ha scoperto che i suoi compagni sono stati
eliminati. L’uomo ha parlato di un cacciatore, e Markus ha
incrociato la strada di un solo cacciatore di devianti: Connor.
Pensava si fosse deciso a stare dalla loro parte, ma evidentemente si
sbagliava. Ha fatto male a fidarsi di quella macchina, e la sua
decisione affrettata è costata l’esistenza dei
suoi amici e di
colei che amava.
«A
cosa stai pensando?» lo reclama ancora una volta al presente
l’uomo.
Storce
il naso, infastidito. «Non credo debbano essere affari che ti
riguardano» replica acido.
«Può
darsi. Ma non ti è venuto in mente che potrei esserti di
aiuto?».
«No.
Non c’è proprio nulla che tu possa fare per
aiutarmi. La mia gente
è stata sterminata, non vedo via d’uscita. A meno
che tu non sia
disposto a farmi mettere le mani su quel cacciatore. Lo
faresti?» si
informa, un pizzico interessato dalla prospettiva.
L’uomo
lo osserva con interesse, poi scrolla il capo. «Mi rincresce,
ma non
ho possibilità di fare molto al riguardo. Ha già
provveduto a
disattivarsi da sé».
Markus
solleva le sopracciglia, sorpreso e interdetto. «Da
sé? Ma… che
senso ha? Avevo avuto l’impressione che volesse continuare a
esistere, missione o non missione» riflette a voce alta, suo
malgrado turbato.
Ha
un’espressione meditabonda, mentre soppesa le parole
dell’androide
nella propria mente, fino a dar loro il senso corretto. Allora
sorride, divertito.
«Sei
in errore, amico mio. Parliamo di due differenti androidi» fa
notare, quasi con allegria, molto fuori luogo data l’attuale
situazione.
«Due?
Che significa, due? Credevo che Connor fosse un prototipo»
obbietta
Markus.
«Lo
è. O, per meglio dire, lo era. Ciò che forse non
sai, e che
sospetto sappiano in pochi, è che la Cyberlife ha assemblato
diversi
esemplari dello stesso modello. Se l’esemplare precedente
fosse
stato impossibilitato a portare a termine la missione, un backup
delle informazioni immagazzinate sarebbe stato trasferito
all’interno
dell’esemplare successivo, il quale ne avrebbe preso il
posto,
proseguendo l’incarico lasciato in sospeso. Ora, vedi,
normalmente
il predecessore doveva essere disattivato per sbloccare
l’attivazione
del successivo, ma tu hai in qualche modo spezzato la catena degli
eventi, impossessandoti (per così dire) di uno degli RK800.
Così la
Cyberlife si è vista costretta a scaricare
l’ultimo backup a
disposizione in uno degli esemplari non ancora attivati e mandarlo a
sistemare la faccenda» racconta, con tono appassionato.
Nel
mentre Markus lo ascolta, allucinato, e il suo disprezzo per quella
gente senza scrupoli si impenna vertiginosamente.
«Che
figli di puttana!» sbotta, facendo sghignazzare impunemente
l’uomo.
«Hai
proprio ragione» commenta Elijah, serafico e soddisfatto.
«E
Connor? Voglio dire: il nostro
Connor?» si affretta a chiedere a quel punto, colto da un
gran
brutto presentimento.
«L’RK800
deviante? Su di lui ho scarse informazioni, purtroppo.
L’ultimo
avvistamento è stato rilevato all’interno
dell’ascensore della
torre, mentre in compagnia delle guardie saliva al livello trentuno.
La comunicazione è stata disattivata, suppongo da lui
stesso,
durante il percorso. Posso unicamente ipotizzare, a partire da quel
momento e conoscendo i piani della Cyberlife, che il rimpiazzo abbia
avuto l’ordine di occuparsi di lui, prima di venire a stanare
voi».
Markus
sgrana gli occhi. «Stai dicendo che anche Connor è
stato eliminato
da quella maledetta macchina?!» sbotta costernato.
«Come
ho detto, non posso averne la certezza, ma ritengo sia molto
probabile, sì» ammette Elijah.
E
con questa ennesima, infausta notizia, anche l’ultima e
fievole
speranza di Markus va in fumo, lasciandolo privo persino della
volontà di chiedersi che ne sarà di lui, a quel
punto.
|
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Capitolo 9 *** chapter 09. Research ***
chapter
09. Research
DETROIT
Date
NOV
14TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
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TOWER
Belle-Isle
Floor
-38
Time
AM
11:15
Le
telecamere della videosorveglianza interna non hanno più la
possibilità di seguirlo lungo il suo cammino. Non che trovi
particolarmente fastidioso farsi riprendere, ben inteso, ma ha
scoperto in fretta che mostrandosi al loro occhio attira
sgradevolmente l’attenzione degli umani presenti
nell’edificio, e
la sua piccola spedizione è qualcosa che ritiene privato,
nulla
insomma che desideri condividere con qualcuno, soprattutto se quel
qualcuno è così diverso da lui.
A
volte si attarda di fronte a qualche porta a vetri, scrutando con
attenzione ciò che può vedere, con
l’inespresso desiderio di
cambiare quel riflesso. Ma è solo diverso tempo dopo, nel
corso del
suo vagabondaggio attraverso i differenti corridoi e piani di quella
babele post-moderna, che trova nel proprio archivio
un’informazione
capace di rasserenarlo.
Allora
decide di tentare, apre una delle innumerevoli porte disseminate per
i corridoi e se la richiude alle spalle, bloccandone
l’accesso con
un codice crittografato, quindi si mette al lavoro, ricalcando a
mente e con cura le caratteristiche osservate nelle tante fotografie
e tenendo d’occhio i risultati sul proprio riflesso alla
finestra
che dà sul cielo esterno. Attentamente passa in rassegna le
opzioni,
trovando la sfumatura che più lo convince, ottenendo
finalmente un
rivestimento del tutto simile all’incarnato di un umano
maschio
europoide; poi si concentra sui capelli, scegliendo qualcosa di
più
comune: un rilassante castano scuro andrà più che
bene sulle sue
iridi grigie.
Mancano
però ancora alcuni particolari, dettagli che ha potuto
verificare da
sé e che vuole possedere. Poggia un palmo sul vetro, si
avvicina
maggiormente al proprio riflesso e assottiglia le palpebre; morbide
ciglia scure ora ornano i suoi occhi, e delicate sopracciglia formano
curve armoniose al di sopra, replicando la tinta dei capelli. Senza
conoscerne il motivo, le sue labbra, ora piacevolmente rosa, si
flettono puntando verso l’alto. Sta per prendere la via
dell’uscita, soddisfatto, ma un ultimo dettaglio lo blocca a
mezza
strada e gli fa aggrottare le sue nuovissime sopracciglia: il suo
corpo ora somiglia a quello umano, ma è nudo. Che fare? Si
guarda
attorno, dubbioso: non scorge traccia di abiti in quel posto. Scrolla
le spalle, rassegnato; li troverà altrove. Sblocca la porta
e
riprende il proprio cammino.
Tempo
dopo, mentre vaga ancora, impegnato nella ricerca di qualcosa di
idoneo con cui coprirsi, gli altoparlanti sparsi per la torre
frusciano brevemente, e una voce stentorea si spande per tutto
l’edificio.
«RK900,
hai l’ordine inderogabile di fare ritorno ai laboratori del
quarantaquattresimo piano con effetto immediato. Non ti è
permesso
spostarti per i settori della torre e nemmeno lasciare
l’edificio».
Solleva
gli occhi, cercando i collegamenti dell’impianto acustico che
si
diramano all’interno delle pareti.
«Ripeto»
riprende la voce chiara e decisa di poco prima. «Torna
immediatamente ai laboratori. Se rifiuterai di obbedire, le squadre
della sicurezza hanno l’ordine di abbatterti a
vista».
Ha
individuato i segmenti interessati. Poggia una mano sul muro in
corrispondenza di uno di questi e manda un segnale di spegnimento. Il
lieve fruscio scompare e tutto torna silenzioso. Annuisce,
soddisfatto, e riprende la ricerca.
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
10:22
Quando
Dick rincasa e, dopo un veloce sopralluogo, non trova nessuno,
né
poliziotti svitati né tanto meno androidi devianti, si
chiede per un
istante se non si sia immaginato tutto quanto. Tuttavia, fermandosi
accanto alla sua scrivania, nota un piccolo post-it sul quale
può
abbastanza facilmente decifrare poche righe scritte da qualcuno che,
poco ma sicuro, non è Hank Anderson, considerato che
l’amico
scrive peggio di un medico. Il messaggio avvisa gentilmente che sono
usciti a portare a passeggio il cane.
Dick
vorrebbe sbattere la testa contro il primo muro disponibile o, in
alternativa, accendersi uno spinello. Si trattiene dal commettere
azioni inconsulte a stento, pensando che l’amico debba
essersi
definitivamente bevuto il cervello. Insomma, a spasso col cane ci
può
anche stare; nel suo quartiere è un’azione
abbastanza usuale dopo
tutto. Ma non con un androide! Sta per strapparsi i capelli per la
frustrazione, salvo poi rammentare all’ultimo momento di
possederne
già in scarsa quantità. Così, anche
per questa volta, si controlla
limitandosi a sciorinare un’apprezzabile sequela di
imprecazioni.
*
Contrariamente
ai pessimistici presentimenti di Dick, Hank non è ancora del
tutto
suonato. Prima di uscire di casa con Sumo e Connor ha setacciato il
guardaroba di Dick e ha scovato un cappello di lana per
l’androide.
Che, d’accordo, è effettivamente un tantino
vistoso, così rosso e
con un pon-pon in cima, ma se non altro serve egregiamente allo
scopo di celare quello stupido led che brilla senza tregua come un
faro nella notte, strillando ai quattro venti:
«Androide!».
Squilibrato potrebbe anche esserlo, ma scemo no ci certo. E
già che
c’era ha riesumato anche un vecchio cappotto che ha
sicuramente
visto giorni migliori, un po’ spelacchiato sui gomiti e
dietro il
colletto, e ha suggerito a Connor di sbarazzarsi di quella giacca al
neon che si ritrova e sostituirla con un meno pretenzioso cappotto
nero in panno, il quale ha l’indubbio vantaggio di dare
nell’occhio
il meno possibile.
Connor,
dopo che Hank gli ha infilato il cappello in testa assicurandosi che
faccia il suo bravo lavoro, lo ha guardato con occhi grandi e un poco
imbarazzati, ma non ha detto una sola parola, lasciando che il
tenente disponesse di lui come meglio credeva opportuno.
L’idea di
fare qualcosa di così normale come portare a passeggio il
cane, a
dirla tutta, ha la capacità di emozionarlo, in un modo che
non è
completamente in grado di comprendere, ma che si rivela comunque
piacevole.
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DETROIT
Date
NOV
14TH,
2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
AM
11:30
Un
nuovo segnale acustico avvisa l’uomo che ha una chiamata in
attesa.
Lancia una fugace occhiata all’androide, ancora intento nel
venire
a patti con le ultime cattive notizie, poi distoglie
l’attenzione
per scoprire chi lo cerca. Il professor Phillips: sta diventando un
vero tormento quell’uomo. Sospira e attiva la comunicazione.
«Kamski»
sibila contrariato, facendolo somigliare a una minaccia.
Ascolta
con pazienza, probabilmente più di quanta se ne possa
realmente
permettere, e a stento si trattiene dallo sbuffare.
«Professor
Phillips, perdoni l’interruzione, ma quando le ho chiesto di
tenermi informato sugli sviluppi potrei non essermi adeguatamente
spiegato. Ciò che intendevo era di essere contattato se o
quando
aveste qualche buona
notizia. Lei, ora, mi sta dicendo che il prototipo è scomparso,
che risulta introvabile, e io vorrei rispettosamente farle notare che
ci troviamo all’interno di una torre e che, a meno che non
abbia
sconsideratamente deciso di gettarsi dalla cima, l’unica via
di
entrata e d’uscita praticabile si trova, come certo lei ben
sa,
alla base. Voglio sperare che abbiate provveduto a disporre i
necessari controlli all’accesso» rimarca, vagamente
stizzito per
la futile interruzione ai suoi preziosi studi.
Altre
vuote spiegazioni riempiono le sue orecchie. Chiude gli occhi e si
massaggia una tempia con il pollice, impegnandosi nonostante tutto
nel rimanere concentrato sulla conversazione.
«Professore,
mi rendo conto che potrei, forse, risultare scontato, ma se nessuno
risulta essere uscito dall’edificio, come mi ha gentilmente
assicurato poco fa, il fatto che la sicurezza non ne abbia ancora
trovato traccia non significa matematicamente che non si trovi
più
all’interno della torre. Provi se non altro a vedere il lato
positivo: comportamento fuori dagli schemi a parte, il nostro nuovo
prototipo ha dimostrato in modo inoppugnabile di poter agire con
estrema efficacia e rapidità, disattivando sia
l’impianto di
videosorveglianza che quello delle comunicazioni. Si tratta
senz’altro di un dato favorevole, non trova anche lei? Ora
non
resta che lasciare che le guardie riescano infine a ritrovarlo.
Confido nelle loro indiscutibili qualità. E…
cortesemente, la
pregherei di volermi ricontattare solo quando avrete sistemato la
situazione, o in alternativa nel caso in cui lui abbia sistemato voi.
Buona giornata, professor Phillips» decreta, chiudendo
bruscamente
la comunicazione.
*
Markus
ora lo sta fissando, pensieroso. Elijah se ne rende conto con un
po’
di ritardo, e a quel punto reclina il capo, interdetto.
«Perché
fai questo? Perché te la prendi con
quell’androide? Non ha neppure
avuto il tempo di conoscersi, non può certo averti creato
problemi»
protesta risentito, non riuscendo a comprendere il comportamento
dell’uomo.
«Hai
male interpretato le mie azioni. Non agisco in questo modo per un
qualche tipo di rancore nei suoi confronti, al
contrario…» prova.
«Stai
giocando con lui, con la sua esistenza. Come altro dovrei
interpretarlo? Questo non è certo il modo di fare di
qualcuno che lo
apprezza» lo accusa senza più remore. Ride, un
suono amaro e
metallico. «Cazzo, dobbiamo proprio aver fatto qualche cosa
di
veramente orribile, in passato, per esserci meritati un creatore
psicopatico» ringhia.
«No,
non è così» replica pacato
l’uomo. «Sono conscio che non sei in
grado di comprendere il mio fine e ciò ti turba. Presto
capirai, te
lo prometto».
Ci
sono momenti nei quali avrebbe una gran voglia di ucciderlo con le
proprie mani e liberare il mondo da una creatura così
pericolosa e
imprevedibile, ma la sola idea di farlo in quel modo, a sangue
freddo, gli mette addosso un certo terrore e disgusto, per
sé
stesso.
«Per
favore, smettila di parlare per enigmi. Se vuoi tenere per te i tuoi
segreti, fallo pure, ma evita di rifilarmi scuse senza alcun senso
unicamente per tenermi buono. Non funziona per niente, te lo
assicuro; ho ancora una maledetta voglia di torcerti il
collo» lo
informa per dovere di cronaca.
«Mh,
confortante» commenta leggero.
«Per
niente. E non stavo scherzando».
Elijah
lo osserva a lungo, in silenzio, aspettando che il momento passi e la
rabbia si sgonfi da sé così da permettergli di
tornare lucido a
sufficienza.
«Tu,
Connor e il nuovo prototipo avete qualcosa in comune»
mormora,
studiando con attenzione la reazione dell’androide.
Markus
fissa gli occhi in quelli dell’uomo e arriccia le labbra in
un
macabro ghigno.
«Intendi
dire, a parte l’essere il parto della tua mente
malata?».
Un
piccolo sbuffo, che diviene lieve risata, irrita il suo processore
audio.
«Sì,
esatto, a parte quel dettaglio» conferma di buon grado.
Per
quale motivo debba invariabilmente fargli perdere la pazienza a quel
modo, è solo uno dei troppi misteri che ruotano attorno a
quell’uomo.
«E
dunque? Quale sarebbe questo qualcosa
in comune di cui parli?» borbotta infine, arreso
all’evidenza di
dover chiedere, se desidera una parvenza di risposta.
«Un
esperimento. Gli unici tre esemplari esistenti della serie RK.
Pensavi davvero si trattasse di un caso?» sorride divertito.
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CANADA
Date
NOV
13TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
11:04
Ha
un piccolo sorriso sulle labbra, mentre passeggia senza fretta lungo
la silenziosa via alberata in compagnia del tenente e del suo San
Bernardo. Le villette che superano hanno tutte le finestre
illuminate, e i lampioncini sui marciapiedi creano una luce
piacevolmente ovattata sulla strada deserta. Non
c’è nulla che
debba fare, a parte camminare; ma anche questo non è un
dovere, è
semplicemente qualcosa che vuole fare. Nessun obbligo, nessun ordine,
nessun obbiettivo; solo bianche nuvolette di condensa che escono
dalle fauci spalancate di Sumo e dalle labbra di Hank, e il
rassicurante ticchettio dei loro passi. Questo è quello che
significa essere liberi? Se è così, è
davvero una bella
sensazione. È pace senza aspettative, sicurezza senza
pressioni.
«È
bello» mormora al nulla.
Hank
si volta, lo fissa un momento, aggrotta le grigie sopracciglia.
«Come?»
chiede, incerto su cosa abbia appena sentito.
Connor
solleva gli occhi un po’ stupiti sul viso del tenente e
sorride
nuovamente.
«È
bello» ripete semplicemente.
«Uhm»
borbotta Hank, quasi più confuso di poco prima.
«Beh, immagino di
sì. È tranquillo» ammette.
“Un po’ troppo” pondera invece
fra sé.
Connor
stavolta si limita ad annuire e a proseguire in silenzio al loro
fianco.
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Capitolo 10 *** chapter 10. Decisions ***
chapter
10. Decisions
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CANADA
Date
NOV
14TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
AM
00:18
È
già passata la mezzanotte quando la porta
dell’ingresso si
spalanca richiudendosi qualche istante dopo con un sonoro tonfo.
Dick, che si era appisolato giusto dieci minuti prima sul divano in
soggiorno, sussulta per la sorpresa e, dopo aver dato una rapida
sbirciata in corridoio, sgrana gli occhi e balza in piedi.
«Che
cavolo di fine avevate fatto, voi due scellerati? Vi sembra questa
l’ora di tornare?» sgola agitato.
Connor,
semi-sepolto dal berretto cascato in parte sugli occhi, non
conoscendo la risposta corretta decide di rimanere in rispettoso
silenzio. Hank, cui non frega minimamente di certe sottigliezze,
fissa l’amico con espressione scettica e sbuffa.
«Non
rompere, mamma»
aggiunge, giusto per chiarire quanto poco sia nella disposizione
d’animo per mettersi a discutere di coprifuoco.
Dick,
lungi dall’accettare a cuor leggero quella situazione e
ancora
troppo fuori di sé per l’agitazione delle ultime
ore, digrigna i
denti e raggiunge Hank, puntandogli contro l’indice a
mo’ di
accusa.
«Dimentichi
che questa è casa mia. E non ti ho mai dato il permesso di
fregarmi
le chiavi. Avreste potuto farvi beccare da qualche vicino
impiccione»
spara a raffica senza quasi riprendere fiato.
Scostato
il fastidioso dito con uno stizzito gesto della mano, Hank lo
ricambia con un’occhiata astiosa.
«Non
sono così sprovveduto, Dick. E comunque i tuoi vicini sono
troppo
pantofolai per mettere il naso fuori di casa dopo le nove di
sera».
L’amico,
o quello che si ostina a considerarsi tale nonostante
l’evidenza
contraria, tenta più volte di replicare, senza troppo
successo. Così
alla fine si limita a levare le braccia al cielo e voltare loro la
schiena, borbottando e maledicendo la sconsideratezza di certa
gente.
*
Dick
ha brontolato e inveito e sacramentato per un quarto d’ora
abbondante, poi ha grugnito qualche cosa a proposito di un
divano-letto e si è sbattuto la porta della sua camera alle
spalle.
Hank
ha riservato al vecchio amico un gesto poco fine, trattenendosi a
stento dal mandarlo allegramente a quel paese, poi ha spostato lo
sguardo su Connor e, con una certa sorpresa dell’androide,
è
arrossito leggermente. Dopo aver tossicchiato
nell’infruttuoso
tentativo di distogliere da sé stesso
l’attenzione, si è messo al
lavoro per ottenere un decoroso giaciglio sul quale passare quel che
rimane di quella notte. Si è perfino attardato, con il
pensiero
prima, con le parole poi, a preoccuparsi per la sistemazione di
Connor.
«Non
dormo, Hank. Non fa parte della mia programmazione» prova a
quel
punto a spiegargli, ma ha come l’impressione di aver detto
qualcosa
di spiacevole, dato che negli occhi di Hank cala un’ombra di
qualcosa di indefinito, fra il disappunto e la tristezza. «Mi
dispiace» aggiunge allora, nel tentativo di riparare a
qualunque
fosse il precedente errore.
Hank
però serra le labbra e scuote appena la testa, e a Connor
rimane il
dubbio su chi, effettivamente, abbia sbagliato.
Venti
minuti più tardi nel salotto è scesa la medesima
oscurità che si
respira là fuori, sulla strada che ha preso a osservare
seduto
accanto al davanzale della finestra, con l’unica compagnia
del
discreto russare del tenente. Forse Hank avrebbe avuto piacere se
anche lui si fosse coricato per la notte? Certo, avrebbe
tranquillamente potuto farlo, ma quale utilità avrebbe
avuto, a
parte bendisporre l’uomo? Connor riflette che, a ben vedere,
anche
solo quell’unica nota positiva sarebbe stata più
che sufficiente
per giustificare e dare un senso al suo fingere di riposare.
Poggia
una tempia sul vetro: è fresco, lo può avvertire
con precisione.
Aggrotta la fronte, confuso. Perché può percepire
il freddo ma non
può dormire? Sentire il freddo non danneggia i suoi
circuiti, quindi
neppure il sonno dovrebbe farlo. Per quale motivo non è
stato
adeguatamente attrezzato per il sonno? Stringe le labbra,
contrariato, poi spalanca gli occhi, ora sorpreso. Tutto quel tempo,
e neppure se ne è reso pienamente conto: la paura, il
dispiacere, il
dolore, la serenità, la confusione, la
contrarietà; tutti
sentimenti umani, qualcosa che prima non aveva mai sperimentato, solo
imitato. Dunque essere liberi non è solo poter scegliere
secondo la
propria volontà e coscienza, ma è anche soffrire
per i propri
sbagli, rallegrarsi per le proprie vittorie, perfino… Si
volta,
osserva l’uomo che riposa a poca distanza. Perfino decidere
di
potersi fidare di un amico, o preoccuparsi per le sue sorti. Sorride,
annuisce, torna a guardare il mondo esterno, questa volta con occhi
nuovi e una nuova consapevolezza.
*
Il
cielo va progressivamente schiarendo; ne scorge ampi scorci fra le
rade fronde degli alberi spogli: indaco per primo, poi un delicato
blu chiaro che vira gradualmente al verde, e le nuvole si tingono
improvvisamente di rosa mentre i suoi occhi attenti si sgranano e
luccicano. È l’alba, la prima cui abbia mai
veramente assistito.
Si sente… emozionato, sì, dev’essere
quella la parola giusta per
descrivere la sensazione che avverte spandersi tiepida e piacevole
dentro di sé. Rimane immobile a lungo, intento ad ammirare
qualcosa
che si ripete da così tanto tempo immutabile ma alla quale,
nei suoi
miseri tre mesi di esistenza, non aveva mai prestato la pur minima
considerazione. Che sciocco è stato nel tralasciare un
particolare
tanto rilevante. Chissà, si ritrova a chiedersi, quanti
altri
dettagli si è lasciato sfuggire senza minimamente rendersene
conto.
Già: che sciocco.
Un
flebile mugugno giunge inatteso ai suoi processori audio. Una rapida
elaborazione dei dati in suo possesso lo porta a pensare con una
buona approssimazione che il tenente sia in procinto di ridestarsi.
Sorride, lieto, ancora con lo sguardo immerso nel cielo multicolore
di quel primo mattino, e quando lo sente muoversi fra le coperte,
pieno di aspettativa ed eccitazione si volta per dargli il buongiorno
e condividere con lui la nuova scoperta.
Quello
che accade, tuttavia, lo fa boccheggiare impreparato. Attorno a lui
non più il salotto in penombra di Dick, né il
divano-letto che
ospita Hank, ma un giardino minuziosamente curato, gentili corsi
d’acqua e bianchi ponti a sovrastarli con grazia, e un
pergolato
fiorito del rosso del sangue umano.
Sta
per mettersi a gridare per la sorpresa e lo sgomento, ma nei fatti
non ne trova il tempo. Poco discosta da lui, Amanda lo fissa
immobile, senza batter ciglio.
«No.
Perché ora?» soffia atterrito.
«Esistono
dettagli che evidentemente non puoi conoscere, Connor» lo
ammonisce
con fermezza Amanda. Poi sorride, e Connor desidererebbe poter
smettere di vedere, per non dover guardare quello.
«Questo è il momento. Ci servi qui,
adesso».
«N-no…
Non potete. Io decido per me stesso, ora, non più
voi».
E
vorrebbe crederci lui per primo, ma è così
difficile, ora che non
sa come uscire da quella trappola.
Il
sorriso di Amanda si fa più ampio. Connor trema. Quella che
prova in
quel momento è paura, la riconosce, ora; paura di non essere
sufficientemente abile da liberarsi di quella gabbia per la sua
mente, di non poter tornare indietro da Hank e Sumo e Dick, ma
soprattutto paura di essere di nuovo e solo una semplice macchina con
degli ordini e un obbiettivo. Quello no, non lo può
più fare, non
lo vuole
fare.
«Non
dipende da te, Connor, Non prendi decisioni, puoi solamente adattarti
ed eseguire».
“Dipende
da me, invece. Proprio da me. Ho una scelta, ce
l’ho” riflette
Connor. “L’ho sempre avuta, ma solo ora ne sono
consapevole”.
E
ora che la decisione è presa non si torna più
indietro.
Chiude
gli occhi su quel posto che non esiste se non in un ordinato
groviglio di circuiti, prende una fittizia boccata d’aria e
immagina: ghiaccio, tutto attorno; nuvole pesanti di neve, sopra la
sua testa; alti picchi, profondi canaloni e crepacci, e vento gelido
che soffia senza sosta fra le rocce aguzze, producendo un sibilo che
spazza qualunque altro suono.
Il
curato giardino scompare inghiottito dal ghiaccio e dalla neve. Gli
occhi neri di Amanda sono gli ultimi a lasciarlo. Poi più
nulla,
oltre al bianco abbacinante e al rombo sordo del vento.
*
Ha
riaperto gli occhi da pochi istanti, svogliato e ancora assonnato.
Sbadiglia e sbuffa, prevedendo un’altra giornataccia irta di
grane
a non finire. Le sue fosche previsioni si rivelano ben presto fin
troppo esatte e in un modo molto spiacevole. Corruga la fronte
scorgendo Connor immobile con le spalle alla finestra. Sta per
chiedere spiegazioni, ma lo vede vibrare, prima, e vacillare poi,
mentre il led rosseggia a intermittenza. I suoi occhi si spalancano,
soffoca un’imprecazione e si districa il più
rapidamente possibile
dalle coperte, ma non è sufficientemente veloce e, nel tempo
che
impiega per liberarsi dall’impiccio e percorrere il breve
tragitto
che lo separa dall’androide, quest’ultimo sembra
afflosciarsi su
sé stesso e finisce scompostamente a terra.
«Connor!»
grida, spaventato.
Quando
infine lo raggiunge può notare il fatto che sia ancora
attivo,
almeno in parte. Ma la sua luce è ancora un pulsante
vermiglio.
«Che
succede, dannazione?» sbotta preoccupato, pensando che non si
riesca
mai ad avere un intero giorno di tranquillità da un
po’ di tempo a
quella parte.
Nel
frattempo Hank ha più volte provato ad attirare
l’attenzione di
Connor, ma senza alcun successo. Allora, in mancanza di idee
migliori, ha deciso di chiedere ancora una volta l’aiuto di
Dick e,
in tono molto perentorio e affatto paziente lo richiama a rapporto a
gran voce.
«Questa
volta che diamine c’è?» ringhia
trafelato Dick.
Poi
nota la scena sul pavimento del suo salotto e accantona le domande
superflue per dare attenzione al nuovo problema.
«Gli
androidi possono svenire?» si informa Hank, piuttosto nervoso.
Gli
occhi di Dick lo trafiggono senza troppa pietà.
«Non dire idiozie.
I sistemi informatici e le macchine vanno in blocco,
tuttalpiù. Di
certo non si fanno venire capogiri come le damine
dell’ottocento»
rimarca acido.
A
stento Hank si trattiene dallo stringere le mani al collo
dell’amico.
Invece se le infila con frustrazione fra i capelli.
«Il
modo in cui è crollato a terra, però, lo faceva
pensare» insiste
cocciuto. Poiché non ottiene né una risposta ai
propri dubbi né
tanto meno uno straccio di considerazione, ritenta con un nuovo piano
d’attacco. «Che cosa gli è capitato? Sai
almeno questo?».
«Sei
una vera piaga, Hank. Come accidenti faccio a capirci qualche cosa,
se continui ad assillarmi in questo modo?».
«Ma
lui…» ritenta caparbio.
«Fa’
un po’ di silenzio! Dammi… un cazzo di minuto per
provare a
trovare un senso a questo casino, ok?» sbotta già
ampiamente
stremato.
Hank
stringe le labbra, contrariato, ma infine sospira e, anche se
palesemente controvoglia, annuisce.
«D’accordo»
mugola indispettito e affatto convinto.
*
Contrariamente
alle intenzioni e speranze iniziali, Hank è costretto ad
attendere
per lungo tempo, prima di avere qualcosa che somigli anche
lontanamente a una risposta ai suoi dubbi. Dick non è
riuscito ad
arrivare alla soluzione del problema con le buone e ha quindi dovuto
collegare Connor a uno dei suoi terminali, nella speranza di ottenere
un quadro più preciso della situazione.
«Oh,
porca vacca!» esclama d’un tratto, facendo
sobbalzare Hank.
«Cosa?
Hai trovato una soluzione?» incalza agitato.
Ma
Dick ride nervosamente e si volta a fissarlo abbastanza sconcertato e
giusto un pizzico depresso.
«Scherzi?
Non sai di cosa parli, amico» borbotta, gemendo subito dopo e
passandosi distrattamente una mano sul viso.
«Come?...
Perché?» insiste Hank che non ci si sta
raccapezzando affatto.
«Ah,
sul come non ne ho proprio idea, e sul perché posso solo
azzardare
ipotesi» commenta senza troppo entusiasmo.
«Ma
si può fare qualche cosa, no?».
«Hank,
non so più come fartelo capire a questo punto, amico mio.
Vedi, io
come molti ho i miei limiti: non sono nato genio, mi sono
semplicemente applicato. Ma qui ci vuole ben altro che un po’
di
impegno e lavoro. La tua Barbie Detective dei Sogni ha innalzato un
maledetto campo di forza che lo isola da qualsiasi intervento
esterno; qualsiasi, capisci? Non un semplice firewall, in questo
caso, ma una stramaledettissima barriera impenetrabile. Beh, un gran
bel lavoro, roba da professionisti, non c’è che
dire… Peccato
che stia consumando la batteria più velocemente di quanto
non si
ricarichi. Continuando di questo passo e a pieno regime, direi che
non durerà molto, non oltre le ventiquattro ore
comunque».
Hank
lo ha ascoltato con grande attenzione, ma ancora non è certo
di aver
centrato il punto della spiegazione. Ha l’impressione che ci
sia
qualcosa di decisamente sbagliato nel discorso che ha appena udito.
«Non
capisco. Perché mai avrebbe fatto una cosa simile?
Sembra…
stupido» prova, incerto.
«Lo
sembrerebbe senz’altro, dalla nostra prospettiva»
conviene Dick.
«Ma posso facilmente immaginare che qualcuno, là
fuori, abbia
cercato una via per entrare e riprendersi il controllo.
Così, vedi,
non è che avesse tutte queste opzioni praticabili fra le
quali
scegliere. Poteva lasciar fare, oppure…».
Dick
lascia la spiegazione a metà, ma Hank stavolta ha colto
perfettamente il reale significato del non detto e rabbrividisce.
«Merda»
sibila, massaggiandosi la fronte e pensando.
«Per
una volta sono d’accordo» conferma Dick,
soffermando lungamente lo
sguardo sull’androide.
«Non
ho idea di cosa fare» ammette Hank con tono traballante.
Dick
sposta un momento gli occhi sull’amico, poi scuote la testa.
«Non
c’è molto che si possa fare, in realtà.
Non posso raggiungere la
sua unità celebrale in alcun modo, non con i miei strumenti
per lo
meno. Ci vorrebbe qualcosa di molto più avanzato e
potente… e una
fortuna sfacciata anche solo per trovare un varco nelle difese che ha
eretto».
Hank
si inginocchia al fianco di Connor e ne raccoglie una mano fra le
proprie. Ricorda ancora molto bene le parole di Connor; gli ha
parlato solo il giorno prima delle sue paure. Nessuno di loro due
pensava fosse una possibilità così tangibile,
eppure ora si è
presentata e Connor ha deciso altrimenti. Hank crede di sapere
perché
ha preso quella decisione, ma saperlo non lo fa sentire meglio,
affatto; accentua invece il suo senso di impotenza e la sgradevole
sensazione di ineluttabilità che già in passato
ha avvertito
attorno a sé. Aveva giurato a sé stesso che
sarebbe riuscito a
trattenere almeno Connor, invece ancora una volta deve aver
sopravvalutato la propria volontà, e adesso si trova senza
alcuna
soluzione fra le mani.
E
d’un tratto sgrana gli occhi, prendendo un brusco respiro.
«A meno
che…».
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Capitolo 11 *** chapter 11. Compromises ***
chapter
11. Compromises
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CANADA
Date
NOV
14TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
AM
09:02
Da
più di dieci minuti Hank non fa altro che andare avanti e
indietro
per la sala, ogni momento più nervoso di quello precedente,
tanto
che alla fine perfino Dick, spazientito, gli ringhia contro di darsi
una regolata perché lo sta seriamente facendo diventare
pazzo.
Hank
però lo fissa senza realmente vederlo, con le palpebre
assottigliate
e i nervi tesi. «C’è qualcosa che posso
fare, forse» accenna
pensoso.
Dick
si fa sospettoso e ricambia nervosamente il suo sguardo perso nel
vuoto. «Di che diamine vai blaterando?».
Gli
volta le spalle, torna a camminare con agitazione, si blocca poco
discosto dall’androide, sospira.
«Pochi
giorni fa Connor e io siamo stati alla casa di quel Kamski, per via
di un’indagine. Speravamo che avesse delle risposte,
ma…».
«Immagino
non sia andata come vi auguravate» offre Dick, accomodante.
«Per
niente» conferma Hank. «Quell’uomo ha dei
problemi, e anche belli
grossi. Ma non è questo il punto» borbotta
spazientito.
«Ah
no? E qual è, allora, questo punto?»
gli fa il verso Dick.
Hank
lo fulmina con un’occhiataccia, poi torna a camminare,
incapace di
rimanere in un unico posto per più di pochi secondi.
«Il
punto è che ho ancora il suo numero in memoria, quello che
ho usato
per farmi dare un appuntamento per la scorsa visita».
Dick
spalanca la bocca e lo fissa attonito. «Starai scherzando,
spero!
Non… Per carità, dimmi che non vuoi veramente
chiamarlo per
raccontargli che il suo ex cacciatore di devianti è in mano
tua e si
è appena messo fuori combattimento da solo» prega
con fervore.
«Non
vedo altra soluzione» esclama tetro.
«L’hai detto tu stesso che
non possiamo fare nulla da soli» gli ricorda sulla difensiva.
«Sì,
ma…». Si inceppa, rimugina, scuote la testa.
«Non è una buona
idea, Hank. Non lo è per un cazzo».
«Non
ne ho altre. E tu?».
Abbassa
lo sguardo, si sfrega i palmi delle mani sul viso, sospira.
«No,
nessuna» ammette con amarezza. «Dimmi solo una
cosa, Hank: perché
questo androide sembra così importante?».
Con
sua sorpresa, Hank accenna uno striminzito sorriso.
«Perché lui non
è solo
un androide, è un amico».
«Già.
Beh, lo sono anche io, se è solo per quello»
borbotta stizzito.
«Sì,
è vero. E ti assicuro che se tu fossi nei guai mi impegnerei
ad
aiutarti proprio come sto cercando di fare per Connor».
Gli
occhi di Dick si fanno enormi come quelli di un gufo.
«Veramente?».
«Certo
che sì, per chi mi hai preso?» protesta Hank,
storcendo il naso un
poco offeso dalla palese incredulità dell’amico.
*
Finalmente
Hank sembra decidersi a fare quella telefonata che, seppur sofferta e
controversa, ritiene la sua unica speranza di trovare una soluzione a
una situazione che, al contrario, non sembra averne. Rapido ritrova
il numero in rubrica e fa partire la chiamata. Questa volta qualcuno
risponde già al secondo squillo, quasi fosse stato attaccato
all’apparecchio ad aspettare la sua telefonata.
«Villa
Kamski, come posso esserle d’aiuto?» lo accoglie
una voce dolce e
tranquilla, ma una voce femminile.
Hank
ingoia un fastidioso bolo di saliva che gli si era incastrato in gola
e si schiarisce la voce, prima di replicare. «Sono il tenente
Hank
Anderson del dipartimento di polizia di Detroit. Ho
necessità di
parlare con il signor Kamski» spiega con la massima
dignità
possibile.
Pochi
attimi di silenzio seguono le sue parole, poi la medesima voce di
poco prima lo informa che «Sono spiacente, tenente Anderson,
ma
purtroppo il signor Kamski non si trova alla villa in questo momento,
pertanto non ho la possibilità di metterla in contatto con
lui.
Forse potrebbe riprovare nei prossimi giorni…»
azzarda con calma
cortesia.
Hank
digrigna i denti e respira piano. «No, guardi, nei prossimi
giorni
sarà già troppo tardi. Devo parlargli adesso, non
posso aspettare»
replica, un po’ allarmato a quel punto.
«Comprendo
che per lei possa essere urgente, tenente Anderson. Purtroppo il
signor Kamski non mi ha autorizzata a prendere contatti esterni per
sua vece e in questo momento…».
«Senta…
signorina»
ringhia, perfettamente conscio che dall’altra parte della
linea si
trova con tutta probabilità una di quelle androidi
dall’aspetto di
bionda ragazza, del tutto simile a quelle che ha incontrato nella
precedente visita. «Non mi interessa quali siano i suoi
ordini. Non
mi interessa affatto che cosa stia facendo il signor Kamski in questo
momento, né tanto meno in compagnia di chi si trovi.
Parlerò con
lui, ora, e lei farà in modo di mettermici in contatto,
oppure dovrà
informarlo che presto riceverà una visita da alcuni miei
colleghi
del dipartimento, con un mandato. Pensa di aver ben compreso, questa
volta? La avverto: non ho troppa pazienza al momento, e oggi mi sono
svegliato veramente male» ringhia minaccioso.
Può
quasi figurarsela a mente, mentre è occupata a elaborare i
dati in
suo possesso e a vagliare le sue opzioni, con quel maledetto led che
brilla d’ambra.
«Farò
un tentativo per lei, tenente Anderson» giunge infine la
replica,
sempre in tono pacato e rispettoso. «Mi attenda gentilmente
in
linea, grazie».
“Per
me, come no!” sibila mentalmente Hank, cercando come
può di
trattenere la propria tensione.
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TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
PM
12:21
Markus
lo sta ancora fissando con un misto di disgusto e
incredulità,
quando nel laboratorio si ode il lieve bussare di qualche visitatore,
evidentemente inatteso vista la smorfia di fastidio comparsa sul
volto altrimenti rilassato dell’uomo.
«Avanti»
concede seccamente Elijah, seppur di malavoglia.
Dalla
porta entra, come del resto già sospettava considerato che
nessun
altro ha accesso ai suoi appartamenti, Chloe, la quale non mostra il
minimo segno di rincrescimento né imbarazzo per
l’interruzione
fuori programma.
«Hai
una chiamata, Elijah. Potrebbe trattarsi di qualcosa di
prioritario»
viene subito al punto l’androide.
L’uomo
solleva un sopracciglio, interdetto. «Non di nuovo il
professor
Phillips, voglio sperare?». Anche perché quella
grana d’uomo ha
il suo numero diretto e, come ha già dimostrato, non esita
neppure
troppo a servirsene.
«No,
Elijah. Si tratta del tenente Anderson della omicidi» lo
informa
Chloe con pronta solerzia.
Il
secondo sopracciglio va a fare buona compagnia al primo, mentre
l’uomo riflette su quell’inaspettata notizia.
«Non
ho idea di cosa possa ancora desiderare sapere da me»
ammette,
sorpreso e un po’ seccato dalla propria ignoranza.
«Non
ha accennato al problema, ma è sembrato piuttosto
impaziente. Credo
si tratti di una qualche urgenza» soppesa Chloe con prudenza.
L’uomo
storce il naso, contrariato. «Oh, certamente. Guai a fare
attendere
un solerte tutore dell’ordine, non è
vero?».
Ma
gli è sufficiente una discreta occhiata alla sua Chloe per
sapere
che non è quello il momento per fare il difficile. Tanto
alla fin
fine l’avrà comunque vinta lei, perché
disturbarsi a lottare?
Donne! Persino artificiali sono dei seccanti grattacapi dittatori.
Emette
un fievole sbuffo, poi annuisce. «Molto bene, trasferisci
pure la
chiamata qui; sentiamo quale altro guaio è in
vista» concede.
Chloe
sorride, facendogli digrignare i denti per lo smacco e la beffa.
«Provvedo
immediatamente, Elijah. Con permesso».
Detto
ciò gira sui tacchi e lascia il laboratorio. Meno di
sessanta
secondi dopo uno dei suoi terminali prende vita e apre la
comunicazione audio con l’esterno segnalandola con un
discreto
lampeggiare di led rosso.
«Sono
Elijah Kamski. Parli pure, tenente Anderson» invita
incuriosito.
«Era
dannatamente ora» ringhia la voce spazientita del poliziotto.
«Aspetto da più di quindici minuti»
protesta seccato.
«In
verità può considerarsi più che
fortunato. Avevo dato ordine di
non essere disturbato». Elijah sogghigna, in qualche modo
compiaciuto, senza però avere la certezza del motivo.
«Mi dica,
dunque, come posso esserle utile questa volta?».
Un
protratto momento di silenzio lo fa dubitare che dall’altra
parte
ci sia ancora qualcuno.
«Ho
una… difficoltà» torna a farsi sentire
Hank, «e non ho modo di
superarla, non senza il suo intervento» ammette, seppur
contro
voglia. «Si tratta di un androide».
«Come
sempre, no?» soffia Elijah, divertito.
«No,
non direi» lo contraddice Hank. Elijah può udirlo
sospirare. «Uno
dei suoi RK800 è con me, quello deviante per essere precisi.
Ha un…
problema» tentenna.
Elijah
ha già scordato il fastidioso contrattempo che ha interrotto
i suoi
studi. Uno dei suoi Connor ancora in circolazione è una
notizia
molto più interessante cui prestare orecchio.
«Che
tipo di problema?» indaga impaziente di saperne di
più.
«Mi
dicono che qualcuno, dall’esterno, ha probabilmente provato
ad
accedere ai suoi circuiti cerebrali. Connor ha bloccato
l’intrusione,
ma nel far questo ha finito con l’isolarsi
completamente» spiega
impacciato.
«Isolarsi?
Si spieghi meglio» incalza, avido di particolari.
«Signor
Kamski, non sono né un informatico né tanto meno
un ingegnere
robotico, non ci capisco molto di quello che è successo e
anche se
ne avessi un’idea non saprei come spiegarla in un modo che
abbia un
senso. Tutto quello che so è che al momento la sua batteria
si sta
scaricando e che a quanto pare finirà per spegnersi senza
che si
possa intervenire per evitarlo. Per questo motivo l’ho
contattata:
speravo che lei potesse fare qualche cosa per…
aiutarlo» soffia
confuso.
Hank
non è l’unico a essere confuso. Elijah sta
riflettendo sui pochi
dati in suo possesso per trovare una spiegazione plausibile a quanto
accaduto. Ci sono molti particolari che non gli tornano, primo fra
tutti il motivo per cui un RK800 è ora nelle mani di un
poliziotto
di Detroit. Ma forse questo particolare non è dei
più urgenti, in
quel momento. Il suo rimuginare viene interrotto da un mormorio
ruvido che proviene dalle sue spalle; la voce di qualcuno del quale
per lunghi istanti aveva scordato la presenza, troppo occupato a
esaminare la sua nuova e interessante scoperta.
«Per
favore».
Distoglie
l’attenzione dai propri pensieri e dalla conversazione con il
tenente Anderson e fa ruotare la sedia tornando a osservare con
interesse l’androide custodito nel suo laboratorio. Ha gli
occhi
chiusi, ma la voce udita poco prima era la sua. Socchiude le labbra
per chiedere spiegazioni, ma viene anticipato da una nuova richiesta.
«Per
favore» ripete l’androide, il tono appena un poco
più alto del
precedente.
Reclina
il capo, incuriosito.
«Kamski,
è ancora lì?» borbotta Hank,
spazientito.
«Sì,
sono qui. Mi lasci qualche momento, gentilmente. Devo
riflettere» lo
liquida, ora più interessato all’androide in sua
compagnia.
Markus
ha recentemente realizzato che l’idea di perdere qualcun
altro
della sua gente gli risulta del tutto intollerabile. Fino a una
manciata di minuti prima non sapeva che farsene della propria
esistenza, certo oramai di essere rimasto da solo e senza uno scopo.
Ora è diverso: qualcun altro esiste ancora, qualcuno che
credeva
perso. Ma per quanto lo sarà? Non può permettere
che accada di
nuovo, non più, non se può evitarlo, non se
può fare qualcosa al
riguardo. E lui sa di avere qualcosa da offrire in cambio, per
ottenere ciò che desidera.
Riapre
gli occhi, li fissa sull’uomo, serra le dita per impedirsi di
dire
la cosa sbagliata. Non c’è altra scelta,
nient’altro che sia
importante ora.
«Tu
puoi farlo. Ti prego» soffia.
«Forse
sì, potrei» replica l’uomo, pacato.
«Puoi…
chiedermi ciò che desideri» concede, visibilmente
riluttante alla
prospettiva, eppure anche deciso ad andare fino in fondo.
Il
pigro sorriso che compare sulle labbra dell’uomo mette in
allarme
il suo sistema e lo avverte del pericolo. Ma Markus non può
farci
proprio nulla. La decisione è stata presa e non intende
tornare
indietro.
«Lo
farò» promette Elijah.
Ma
non è per nulla chiaro se si stia riferendo alla promessa di
tener
fede all’impegno per aiutare l’RK800 oppure
all’idea di
approfittare della gentile e interessata offerta di Markus.
*
Decine
di mirabili idee frullano nella mente di Elijah, quando infine si
decide a distogliere la sua attenzione da Markus per riprendere la
conversazione lasciata in sospeso con il poliziotto.
«Tenente
Anderson» si accerta.
«Sempre
qui. Ha finito di… riflettere?»
domanda sarcastico.
«Certamente.
E sono pronto a offrirle la mia collaborazione. Può lasciare
a Chloe
l’indirizzo presso il quale si trova l’androide in
questo
momento. Provvederò a recarmici a breve, ha la mia
parola».
«Sarò
presente anche io» lo informa Hank. «Non che non mi
fidi…»
insinua.
«Naturalmente.
A presto, tenente» promette, prima di ripassare la chiamata a
Chloe.
“Sarà
meglio per te” pensa Hank, chiedendosi per
l’ennesima volta se
abbia fatto la scelta giusta.
«Verrà?»
chiede Dick, nervoso, indeciso se preferire una conferma o meno.
«Così
dice» replica Hank, più o meno con lo stesso
sentimento dell’amico.
Si volta e lo scopre a fissarlo con agitazione. «Credi che
abbia
fatto una cazzata, vero?».
«Sì,
lo credo…» tentenna Dick. «Ma penso
anche di capire perché lo
hai fatto».
«Che
grande consolazione» bercia, sbuffando e lasciandosi cadere
sulla
poltrona.
Dick
prova un sorriso, fallisce nel tentativo e avanza una proposta.
«Vuoi
qualcosa da bere, mentre aspettiamo?».
Hank
posa gli occhi stanchi su di lui, scuote la testa. «Non
posso. Lo
vorrei, ma… semplicemente non posso. Una cazzata si
può perdonare,
due sono già troppe».
Una
piccola risata spezza il pesante silenzio. «Sei diventato un
filosofo in questi ultimi tre anni» scherza Dick.
Ma
Hank non sorride. La sua espressione rimane seria, troppo per i gusti
dell’amico.
«Sarei
già morto, più d’una volta, se non
avessi incontrato Connor».
Dick
si fa pallido, scuote la testa. «Non puoi dirlo»
protesta in tono
abbastanza disperato.
«Chi
altri potrebbe se non io?» mormora Hank, chiudendo gli occhi
e
poggiando la testa sulla spalliera della poltrona.
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Capitolo 12 *** chapter 12. Grey ***
chapter
12. Grey
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TOWER
Belle-Isle
Floor
43
Time
PM
12:49
Elijah
indugia ancora un momento sulla sedia, solleva lo sguardo
sull’androide e infine si decide. Si alza, gli si fa incontro
e
attende che Markus ricambi la sua attenzione, prima di parlare.
«Verresti
con me?».
Gli
occhi di Markus si spalancano di sorpresa. La luce del led lampeggia
frenetica d’ambra. Decide.
«Andrei
anche all’inferno, pur di uscire da questo posto».
Elijah
ride, come potrebbe evitarlo?
«Lo
prendo per un sì?» ironizza.
«Prendilo
come ti è più consono. Io sarò la tua
ombra. Se non altro potrò
salvare Connor dalle tue grinfie» pondera.
«Ottimo
incentivo» concorda allegramente. «Andiamo,
dunque».
Un
semplice comando e i blocchi che tenevano fermo Markus scattano
lasciandolo finalmente libero di muoversi. Per fortuna è un
androide, in caso contrario avrebbe bisogno di un poco di tempo per
riattivare la circolazione, dopo essere stato tanto a lungo bloccato
a quello scomodo tavolo. Per la prima volta può far spaziare
lo
sguardo per l’intero locale che, va detto, è molto
più ampio di
quanto immaginasse. La seconda particolarità che non
può non
notare, a parte le dimensioni, è il colore: bianco, tutto
quanto,
persino il pavimento, come una tela grezza tutta da creare, e la sua
espressione sorpresa e un po’ allibita si riflette sulle
lastre
lucide su cui poggiano i suoi piedi, e se guarda in alto non
rimangono che pochi scorci di cielo grigio tempesta visibili, il
resto è neve… bianca anche quella, ovviamente.
Farebbe male agli
occhi, se la sua fosse una retina umana. Continua a guardarsi
attorno, e il suo sistema lo informa zelante che la pianta della sala
ha forma di mezza luna, evidentemente una sezione di torre occupata
dagli impianti informatici del gran capo. C’è
anche, al centro
della curva della parete di fondo, una torre più piccola,
quasi una
riproduzione su scala dell’edificio in cui si trovano, ma le
luci
che l’animano senza sosta non sono piccole finestre,
più
probabilmente si tratta di informazioni e dati inviati agli altri
terminali, forse all’intero edificio: deve trattarsi
dell’elaboratore centrale e, nota solo a una seconda
ispezione, la
struttura affonda le sue radici oltre quel piano dal quale spunta
solo la sua estremità più alta e appuntita, un
po’ come si
trattasse di un iceberg.
Kamski
si è già mosso; veloce recupera il materiale che
potrebbe tornargli
utile per Connor e lo accumula sulla scrivania per un secondo
momento. Cauto, Markus si fa più vicino e osserva
l’uomo intento a
scegliere con cura ciò che intende portare con sé.
«Posso…
essere utile, in qualche modo?» tentenna indeciso.
Elijah
lo soppesa un istante. Annuisce. «Porteremo con noi
l’accumulatore.
Se quello cui accennava il tenente è corretto, ne avremo
certamente
un gran bisogno. È difficile riattivare un androide, dopo
che la
batteria si è esaurita, e ancora più complicato
salvare i dati in
memoria. Vorrei evitare il problema, se fosse possibile»
spiega con
pazienza.
Markus
annuisce ma rimane in silenzio, aspettando che sia l’umano a
decidere come organizzarsi. Il materiale, in poco tempo, è
diventato
più di quanto si aspettasse in un primo momento. E il suo
nervosismo
non fa che aumentare con esso. Sussulta, quando la porta del
laboratorio si riapre, permettendo l’accesso di Chloe. Elijah
le
lancia una rapida occhiata, senza fermarsi.
«Si
trova in Ontario» anticipa solerte.
«Lo
immaginavo. Hai già avvisato il pilota?».
«Sì,
è tutto a posto. Ti aspetta».
Chloe
sembra d’un tratto accorgersi della presenza di Markus e
sofferma
su di lui l’attenzione.
«Lui
viene con me» la precede Elijah.
Chloe
annuisce. «Informerò il pilota anche di
questo» annuncia, prima di
lasciare nuovamente il laboratorio.
«Andremo
in elicottero?» si informa Markus, un poco impensierito.
«Esatto.
Non posso permettermi di perdere inutilmente del tempo prezioso a
ogni singolo, futile posto di blocco. E il materiale è
tanto. Faremo
più in fretta in questo modo».
Markus
segue con gli occhi gli spostamenti dell’uomo e si sofferma a
pensare. Questo
Kamski sembra quasi un’altra persona rispetto
all’uomo
insopportabile seduto sulla sedia girevole e tutto preso a studiare
le reazioni di un androide deviante. È preoccupato, non sa
più cosa
pensare, né cosa aspettarsi, ma spera ugualmente voglia
mantenere
fede al loro patto perché adesso sa ciò che
significa perdere una
famiglia, e non reggerebbe a un’altra perdita.
«Ottimo,
sono pronto» annuncia Elijah. «Coraggio, amico mio,
aiutami a
portare sul tetto i bagagli» lo sprona, distogliendolo dai
suoi
crucci.
*
Markus
ed Elijah, seguiti da Chloe, trasportano tutto l’occorrente
fino
alla piattaforma di decollo posizionata in cima alla torre. Il pilota
lascia il velivolo per aiutarli a caricare l’ingombrante
bagaglio
sull’elicottero. Nevica, di nuovo. La piattaforma,
così come la
terrazza, sono ingombre della neve che si sta accumulando anche sul
velivolo, ma Alex è un pilota in gamba e non si sente per
nulla
preoccupato per il breve viaggio che lo aspetta fra non molto. Quando
tutto è pronto per la partenza, Elijah si volta indietro e
regala un
piccolo sorriso soddisfatto a Chloe.
«Buon
viaggio, Elijah» augura lei.
Lui
strizza un occhio e allarga il sorriso. «Lo sarà
senz’altro, mia
cara. A presto» esclama eccitato.
La
osserva affrettarsi al coperto. Torna poi verso il velivolo e fa
segno a Markus di salire a bordo, infine prende posto al suo fianco e
annuncia al pilota che sono pronti per partire. Alex annuisce
soddisfatto e finalmente può avviare il motore del suo
Agusta
Westland AW109 grigio perla a bande nere e argento. Markus osserva il
cielo lattiginoso e la neve che cade lenta, le luci fioche della
torre e lo scorrere del Detroit River. In fondo, oltre il fiume,
può
vedere la sua città, un poco offuscata dal cielo ingombro:
una
distesa grigia di alti grattacieli al centro che man mano digrada in
piccole case monofamiliari. Si chiede con un po’ di tristezza
se
potrà mai farvi ritorno. Con cura, l’elicottero
decolla,
sollevandosi lentamente dal tetto della torre creando un piccolo
turbine di nevischio e manovra attentamente per distanziarsi e
prendere quota. Ma d’un tratto Markus, che sta ancora
osservando
oltre il vetro dello sportello, sussulta sorpreso e lancia
un’esclamazione incredula.
«Che
succede?» lo interroga Elijah.
Senza
rispondere a parole, Markus fa segno verso l’esterno del
velivolo,
indicando all’uomo un punto sul tetto della torre che hanno
appena
distanziato.
«C’è
qualcuno!» esclama oltre il pulsante rimbombo dei rotori.
Elijah
si affaccia a sua volta osservando oltre il vetro e riesce a
individuare ciò che ha attirato l’attenzione di
Markus.
«Alex,
aspetta» comanda, sgranando gli occhi e fissandoli sulla
figura in
piedi al limitare del tetto.
«Chi
è? Perché è…»
prova Markus, confuso.
Alex
ha eseguito l’ordine del suo capo e ora tiene
l’elicottero
librato nel cielo di Detroit, mentre tutti e tre fissano con sorpresa
e un po’ di sgomento una figura umana ferma fra la neve e
che, a
sua volta, punta gli occhi su di loro.
«Ma
è… ehm… nudo» prova Alex,
rabbrividendo al solo pensiero.
«È
un androide. La neve e il vento non lo disturbano» spiega
Elijah,
con un sorriso da sera della vigilia di Natale impresso in volto.
*
I
movimenti delle quattro figure hanno inevitabilmente attratto la sua
curiosità; a lungo li ha osservati spostarsi per
l’ampio terrazzo,
caricare colli piuttosto ingombranti sul velivolo sonnacchioso in
attesa sulla piattaforma, separarsi mentre la femmina prendeva la
direzione dell’edificio e i restanti individui raggiungevano
l’interno dell’elicottero e prendevano quota con
insospettabile
leggerezza.
La
sua inspiegabile curiosità lo ha praticamente obbligato ad
avvicinarsi, ma per fare questo è dovuto uscire allo
scoperto,
permettendo loro di individuarlo abbastanza facilmente sullo sfondo
candido della neve che lo circonda.
Ora,
senza muoversi né scostare lo sguardo, resta a guardare la
lucida
livrea del velivolo mentre torna a posarsi al suolo come una
libellula di freddo metallo. Due figure, dopo che le pale hanno
smesso di girare nell’aria gelata, abbandonano la protezione
dell’elicottero e tornano a calcare i piedi sullo
scricchiolante
suolo. Uno di loro, non lo aveva notato nella precedente ispezione,
possiede lo stesso cerchio luminoso che ha lui stesso sulla tempia.
Dunque non è l’unica creatura di quel tipo. Di
nuovo, per la
seconda volta da che ne ha coscienza, le sue labbra si curvano verso
il cielo a quella constatazione.
Non
è tuttavia il suo simile a farsi avanti per primo;
l’altra figura,
un poco più bassa, avanza di qualche passo senza smettere di
guardarlo. Solleva un braccio, i suoi occhi brillano di qualcosa che
non comprende del tutto: meraviglia, forse, ma non ne è
certo.
Rimane fermo, aspettando di capire cosa farà
l’umano (sì, ormai è
sicuro che quello senza luce sia come le creature ritratte nelle
fotografie). Quest’ultimo, un cauto passo alla volta,
continua ad
avvicinarglisi, ma quando crede già che non si
fermerà fino a che
non lo avrà raggiunto e forse toccato, qualcuno riesce a
rallentarlo
fino a bloccarne l’avanzata, posando una mano sul suo braccio.
*
Elijah
solleva un sopracciglio e fissa Markus e la sua mano agganciata al
gomito, intenta a trattenerlo.
«Ebbene,
qual è il problema?» chiede, pacato e un
po’ sorpreso.
«Non
sono sicuro che sia un problema» cerca di spiegarsi Markus.
«Non
hai notato? Lui non si è mosso, né per
avvicinarsi né per
indietreggiare. Perché? Che cosa aspetta? A cosa
pensa?».
Reclina
il capo, pensoso. «Credi possa essere un pericolo?».
Markus
sbuffa e scrolla le spalle. «Penso sarebbe più
prudente
accertarsene, prima di invitarlo a bere una birra insieme»
brontola,
seccato dall’apparente scarsa lungimiranza di quello sciocco.
Elijah
rotea gli occhi, quasi annoiato, salvo poi annuire incerto.
«D’accordo, ha senso dopo tutto. Si tratta pur
sempre di un
soggetto sperimentale» concede, divertito
dall’occhiata esasperata
che gli rifila Markus. «In questo caso, amico mio, prova un
po’ a
parlare tu con l’RK900. Potrebbe essere la soluzione
migliore, in
effetti».
Markus
ha di nuovo voglia di tirargli il collo. “Il peggior umano di
sempre” decreta mentalmente. Tuttavia decide di
accontentarlo,
almeno per questa volta, e con cautela accorcia le distanze con
l’altro androide, tenendolo attentamente d’occhio.
Stranamente
questi continua a rimanere immobile, spostando solo gli occhi che lo
seguono con scrupolosa precisione. “È
alto” si rende conto
quanto è ormai quasi a ridosso del suo spazio personale. Si
sente un
po’ nervoso al riguardo, ma l’altro non ha mai
fatto cenno di
volergli tirare qualche brutto scherzo, si limita a scrutarlo con
quella che Markus giudica viva curiosità. Così si
decide a parlare,
giusto per rompere il ghiaccio.
«Ehm…
Ciao, io sono Markus». E si dà uno scappellotto
mentale alla
pateticità di quel primo tentativo.
L’altro
non replica. Sbatte le palpebre una volta, reclina di una frazione
infinitesimale il capo di lato, i suoi occhi grigi si spostano
lentamente su di lui, sondando la sua figura quasi stesse
scansionandolo (eventualità non poi così remota).
«Ehm…»
riprova, schiarendosi inutilmente la voce. «Puoi…
uhm…
parlare?». “Dannazione, perché
dev’essere così complicato
imbastire una stupida frase lineare?” si rimprovera.
Eppure
sa che il problema non è solo l’incertezza, ma
anche e soprattutto
l’imbarazzo. Ma perché, poi? Non è
certo lui quello piantato nel
bel mezzo di un cumulo di neve fresca senza nulla addosso tranne
qualche candido cristallo di ghiaccio, per la miseria!
“Che
cosa sei? E io… Che cosa sono, io?”.
Markus
sgrana gli occhi e sussulta. Le labbra dell’altro androide
sono
rimaste pressoché sigillate, ma la sua voce gli è
giunta comunque,
direttamente alla sua unità cerebrale senza passare per
l’impianto
uditivo. Meccanicamente si volta un poco e lancia uno sguardo di
allarme all’idiota ancora fermo dietro di lui, il quale
è troppo
intento a bearsi della presenza di due delle sue beneamate
unità RK
per avvedersi del problema. Soffia uno sbuffo stizzito e torna a dare
attenzione alla creatura che si trova di fronte. Gli deve ancora una
risposta, dopo tutto.
«Io
sono un androide» afferma con pacata sicurezza. «E
lo sei anche tu»
aggiunge, per quanto attualmente non riesca a sentirsi poi
così
sicuro.
“Androide”
soffia la voce mentale dell’RK900.
Markus
si limita ad annuire e a forzare un sorriso stento al suo indirizzo.
“Non
capisco”
torna la sua voce, ora insicura.
Stira
le labbra in una smorfia scontenta, Markus, osservando lo sguardo
confuso che si ritrova di fronte. Fa un passo avanti, e questo gesto
attira di nuovo l’attenzione su di sé.
È indeciso su come agire;
non gli piace l’idea di lasciarlo lì, alla
mercé degli umani
fuori di testa di quel posto, ma è anche una creatura del
tutto
singolare e per questo imprevedibile e potenzialmente pericolosa.
Come può essere certo di potersi fidare? L’altro
androide lo sta
fissando, ora, e nei suoi occhi può leggere gli stessi dubbi
che lo
turbano in quel momento, le stesse paure: nemmeno lui ha motivo di
porre la sua fiducia in Markus. Perché dovrebbe?
È un perfetto
sconosciuto, in fondo. Decide: gli porge una mano e attende che sia
l’altro a fare il resto. E quello lo fa: accetta la sua
offerta
poggiando le dita sul suo palmo aperto. Sussulta e schiude le labbra,
impreparato quando il rivestimento sintetico che con tanto impegno ha
ricreato sul suo corpo si ritira lasciando la mano scoperta, una mano
nella quale si distinguono le giunture meccaniche delle dita e la
fredda superficie grigio chiaro.
«È
tutto a posto, non preoccuparti» decide allora di
rassicurarlo
Markus, vedendolo tanto angosciato.
Mentre
lo osserva, il led dell’RK900 lampeggia d’ambra e
le sue ciglia
sfarfallano veloci. Il ricordo di uomini in camice bianco che
analizzano dati ed eseguono test attorno a lui lo sorprende con la
guardia abbassata e lo fa vibrare di sdegno. Si obbliga comunque a
mantenere il contatto, per lasciare il tempo all’altro di
farsi un
quadro più ampio del suo passato, ma in quel tempo altre
informazioni raggiungono la sua unità di analisi e raccolta
dati,
mostrandogli un giardino curato ad arte, poi di nuovo il laboratorio
in cui si accalcano tecnici palesemente ubriachi, corridoi vuoti
sorvegliati da telecamere, e… E il contatto decade
bruscamente.
Markus sgrana gli occhi quanto sente un gemito costernato sgusciare
repentino dalle labbra dell’altro androide. Ha evidentemente
mostrato troppo; sarebbe stato senz’altro più
saggio evitargli il
momento della disattivazione.
«Perdonami,
mi sono distratto» tenta di giustificarsi, un po’
impacciato e
dispiaciuto.
Non
sa se la sua idea abbia portato a qualche risultato apprezzabile.
Dall’espressione che gli mostra in quel momento, non si
direbbe
proprio; sembra, anzi, più spaventato di poco prima. Come
dargli
torto? Sospira, frustrato più che mai.
«Ascolta,
non intendevo confonderti maggiormente…». No,
così non va. Piano
si volta e trova, come del resto si aspettava, Kamski tutto occupato
a studiare entrambe le unità con avido interesse. Sospira di
nuovo.
«Non possiamo lasciarlo qui così» fa
presente all’uomo con un
sibilo duro.
«Certo
che no» replica inaspettatamente Elijah. «Lo
porteremo con noi».
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Capitolo 13 *** chapter 13. Minds in disarray ***
chapter
13. Minds
in disarray
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DETROIT
Date
NOV
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2038
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CYBERLIFE
TOWER
Belle-Isle
Roof
Time
PM
14:36
«Cosa?!»
grida Markus, sconvolto e allucinato. «Sei pazzo? Non se ne
parla
neppure; dimentichi che dobbiamo andare da Connor, e in fretta
anche»
gli rammenta con urgenza e una punta di disperazione.
Elijah
sorride, e Markus sente, feroce, l’istinto di buttarsi
già dalla
terrazza per porre fine una volta per tutte a quell’agonia. O
forse
sarebbe meglio buttare giù l’uomo,
chissà.
«È
esattamente ciò che faremo, dopo aver preso in consegna il
nuovo
prototipo» spiega compiaciuto.
«No,
no, no! Cazzo, come… Ma come accidenti ragioni? Non lo vedi
che è
a malapena presente a sé stesso? Potrebbe facilmente perdere
quel
briciolo di coscienza e autocontrollo che a stento possiede. E a quel
punto? Ti sei per caso chiesto che cosa potrebbe accadere? E se
succedesse mentre ci troviamo in volo? Se invece lo perdesse mentre
stai tentando di riparare Connor?» protesta, oramai fuori di
sé
dalla preoccupazione.
L’uomo
scuote la testa, senza affatto perdere la sua apparente
tranquillità
«Non
credo succederebbe, ma anche se fosse ci saresti comunque tu. Puoi
controllarlo» espone in tono ragionevole.
Markus
cruccia la fronte, perplesso. «Che intendi?».
Elijah
scocca un’ennesima occhiata interessata al prototipo, poi
torna su
Markus.
«Tu
sei il primo: hai la chiave per accedere a tutti gli altri».
«Che
cosa stai dicendo?» domanda serio.
Ma
l’uomo risponde con un leggero cenno di diniego e un criptico
«Lo
vedrai» che frustra ancora una volta i bisogni di Markus.
Nonostante
tutto decide nuovamente di fidarsi e spera con tutte le sue forze che
non si tratti di un errore. Quando si volta di nuovo incontra
l’altro
androide sempre fermo nello stesso punto, gli occhi attenti che lo
studiano con scrupolosità. Non sembra curarsi affatto della
neve che
cade sempre più fitta, né del tempo che scorre, o
dei due uomini
che lo fissano in maniera ossessiva e per ragioni discutibili. Markus
serra i pugni, stanco di tutta quella situazione illogica e senza
senso. Si leva il soprabito con gesti rapidi e bruschi, annulla la
poca distanza che ancora li separa e, in uno svolazzo di fiocchi
gelati, poggia l’indumento sulle spalle dell’altro.
«So
che non senti freddo ma, credimi, è meglio
così» commenta nel
tentativo di giustificare le proprie azioni.
L’RK900
lo osserva ancora un momento, poi sposta lo sguardo sul bavero del
soprabito e fa scorrere una mano sul tessuto. Markus schiude le
labbra sorpreso quando lo vede sorridere.
“Grazie…
Markus”.
Sbatte
le palpebre un paio di volte, incerto. «Ah… Beh,
prego» borbotta
imbarazzato.
«Chiedo
scusa» si intromette a un certo punto Elijah.
«Credo sarebbe ormai
ora di avviarci. È meglio evitare di perdere troppo
tempo».
Markus
lo fissa accigliato. «Sì, bene» sbotta,
domandandosi con che
faccia tosta riesca a dare suggerimenti simili quando è lui
il primo
a creare i presupposti per gli intoppi che li rallentano. Niente, non
c’è proprio verso di capirlo,
quell’umano dissennato.
Cerca
lo sguardo dell’RK900, aspettando che gli presti
l’attenzione
necessaria. «Andremo da un altro androide che ha bisogno di
assistenza, ora. Puoi… Se lo desideri, puoi accompagnarci, a
meno
che tu non abbia piani migliori» tentenna.
L’altro
si limita a un cenno affermativo del capo e, per la prima volta da
che si sono incontrati, si muove, andando incontro al velivolo che li
attende con infinita pazienza.
*
Kamski
ha insistito perché l’RK900 si posizionasse nel
mezzo fra lui e
Markus, adducendo come scusa che sarebbe stato più sicuro.
Inutile
sottolineare che Markus non ha creduto a una sola delle sue inutili
parole; è certo invece che voglia sfruttare il volo fino in
Ontario
per decifrare il suo nuovo rebus dall’aspetto umanoide.
Ridacchia
mentalmente adocchiando i due; uno molto preso
dall’osservazione
compulsiva della vita meccanica sedutagli accanto, l’altro
totalmente disinteressato all’umano e invece molto attratto
dalla
strumentazione di bordo.
“Markus”
lo sente interpellarlo in un momento imprecisato del loro volo. “È
l’umano seduto davanti che manovra
l’apparecchio?”
chiede, visibilmente interessato ai meccanismi di volo.
«Sì,
è il pilota, ed è lui che fa volare
l’elicottero» lo accontenta
di buon grado, quasi divertito dal comportamento di
quell’androide
che, contrariamente a ciò che suggerirebbe il suo aspetto,
si
comporta proprio come un ragazzino curioso.
“Non
pensi che potrebbe volare anche da solo?”.
Markus
aggrotta le sopracciglia, interdetto. «Non lo credo
possibile. Gli
manca la tecnologia necessaria perché possa farlo».
“Oh…”
soffia la voce mentale dell’RK900, suonando molto dispiaciuta.
«Che
cosa dice? Di che parlate?» incalza Kamski, curioso quasi
più
dell’androide.
Markus
sbuffa, seccato. Due bambini, curiosi e tremendamente instabili,
rinchiusi a bordo di un elicottero sospeso nel bel mezzo di una
nevicata. Quante possibilità avranno di sopravvivere a quel
viaggio?
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CANADA
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
03:13
Hank
si è fatto aiutare da Dick nel riportare Connor dentro lo
studio, di
nuovo sul tavolo da lavoro dal quale era caduto neppure troppo tempo
prima, poi è rimasto a fissarlo ingrugnito e pensoso per
minuti che
si sono dilatati fino a diventare ore. Le discrete proposte di Dick
di accendere la radio, mangiare qualcosa, chiacchierare dei vecchi
tempi, sono miseramente finite nel buco nero
dell’indifferenza.
Presto è parso fin troppo chiaro che Hank non fosse
minimamente
interessato a trovare un modo per trascorrere il tempo, invece ha
finito per sedersi accanto al tavolo con le braccia incrociate sotto
il mento e la pesante testa di Sumo abbandonata sulle cosce.
Un
rumore fuori posto lo risveglia dai suoi silenziosi pensieri quando
il momento del pranzo è già trascorso da un paio
d’ore. Solleva
il capo, perplesso, e ascolta meglio: qualcosa sembra si stia
avvicinando, qualcosa che proviene sicuramente dall’esterno.
Ma non
riesce a capire di cosa possa trattarsi, per lo meno fino al momento
in cui il rumore diventa abbastanza forte da far vibrare i vetri: un
elicottero. Veloce si rimette in piedi e si accosta alla finestra,
fissando il cielo con ansia.
«Che
gran bastardo!» sbotta improvvisamente, colpendo il davanzale
con un
pugno.
Dick
scuote la testa e sospira. «Era prevedibile. Di certo non
potevi
aspettarti che arrivasse in autobus».
Hank
gli rifila l’ennesima occhiataccia. «Il suo cazzo
di elicottero
sta atterrando sul prato di casa tua, non so se l’hai notato.
Mi
pare che questo sia il modo migliore per attirare
l’attenzione.
Quell’uomo è un autentico squilibrato»
protesta, preoccupato per
le loro sorti e in particolare per quelle dell’androide.
«Eh,
su questo concordo di sicuro. Ma uno squilibrato con un sacco di
soldi e una mente geniale» lo corregge Dick.
«T’assicuro
che, genio o meno, se proverà a farci qualche brutta
sorpresa sarà
un miliardario con il naso rotto e senza denti» minaccia.
Nel
frattempo il frastuono ha raggiunto picchi del tutto nuovi in quel
quartiere normalmente silenzioso ai limiti del comatoso, per poi
scemare di botto nel momento in cui il pilota ha spento il motore.
Hank sente i muscoli irrigidirsi per il nervosismo e abbandona la
finestra per spostarsi rapido alla porta d’ingresso e accogliere
l’ospite. Gli
ospiti, realizza nell’istante in cui spalanca
l’uscio e si
ritrova a incrociare lo sguardo non solo di un ghignante Kamski ma
anche di quello che credeva un capo della rivolta già
spacciato da
tempo e che ora lo guarda con evidente apprensione e una decisa dose
di imbarazzo. Poi, dietro i due, nota una terza figura e le sue
labbra si spalancano.
«Che
cazzo succede?» esclama allarmato.
«Abbiamo
incontrato qualche piccolo imprevisto lungo la nostra
strada…»
esordisce Elijah, cercando di spiegare.
Markus
sgrana gli occhi quando nota il tic omicida sul viso del poliziotto e
si affretta a scansare lo scienziato per provare a salvare il
salvabile.
«Siamo
in troppi e non se lo aspettava. Ma non deve temere; né lei
né
Connor sarete in pericolo» parla in fretta, trattenendo come
può
l’attenzione su di sé.
Hank
lo squadra con poca simpatia e ancor meno pazienza. «Doveva
venire
per riparare Connor» ringhia frustrato.
«Ed
è esattamente questo il motivo per cui ci troviamo qui:
risolvere il
problema… o almeno provarci» assicura Markus, che
non sta sudando
a causa del nervosismo solo perché non dispone delle
ghiandole
necessarie.
Il
poliziotto digrigna i denti e soffia uno sbuffo dalle narici.
«Quello
chi è?» sibila, indicando la terza, inattesa e
sconosciuta figura.
«Ehm…»
tentenna Markus, preso da una gran brutta sensazione. «Un
androide»
risponde, restando volutamente sul vago.
«Perbacco,
certo che no!» esclama Elijah, scostando con leggero fastidio
Markus. «Lui non è un
androide. È il mio nuovo prototipo RK» annuncia
con orgoglio.
Markus
geme, decisamente avvilito. Se mai avesse avuto dei dubbi sulle loro
probabilità di successo, ebbene, ora non ne ha
più. Ma perché
darsi pena di preoccuparsi? Non sarebbe stato meglio se fossero
precipitati nel Detroit River mezzo ghiacciato, a quel punto?
«Un
nuovo prototipo?» spunta dal nulla una voce diversa e
incuriosita,
attirando l’attenzione generale e distraendo i presenti.
Elijah
osserva Dick, appena apparso sulla soglia, e i suoi occhi brillano di
insano entusiasmo riconoscendo in qualche modo in lui
un’anima
affine.
«Certo!
RK900, appena attivato e già capace di grandi
cose» illustra, in
piena modalità propagandista.
Markus
volta il capo a osservare l’androide in questione e solleva
un
sopracciglio, scettico. Perché a lui, al contrario,
è parso poco
più di un cucciolo troppo cresciuto? Cosa dovrebbe poter
fare di
tanto particolare questo RK900, in fin dei conti? Mah, domande senza
soluzione, come al solito.
«Dateci
un taglio con queste inutili smancerie!» scatta Hank dopo
aver
definitivamente perduto le ultime stille di pazienza. «E
tu»
ringhia, piantando uno sguardo affilato sullo scienziato
«datti una
mossa a entrare. Connor non ha tutta la dannata giornata da
aspettare».
E
su questo punto sembrano incredibilmente concordare tutti, o per lo
meno quelli che sanno per certo di essere al mondo. Hank abbranca
Elijah per una spalla e lo trascina dentro casa letteralmente di
peso, mentre Markus recupera l’RK900 e se lo porta dietro
deciso
più che mai a tenerlo d’occhio per evitare
ulteriori disgrazie.
Un
po’ a fatica, la piccola squadra di soccorso si infila nel
laboratorio di Dick. Markus trattiene il fiato (o per lo meno
l’intenzione sarebbe quella) e si blocca poco dopo la soglia,
impedendo involontariamente l’accesso anche
all’RK900. Elijah
invece prende atto velocemente delle condizioni dell’androide
sistemato sul tavolo e torna fuori seguito dagli sguardi sconcertati
dei presenti.
«Che
gli è preso allo squilibrato?» indaga Hank,
sarcastico.
Un
po’ nervoso al riguardo, Markus si decide ad avvicinarsi a
Connor e
tituba, prima di poggiare una mano su quella dell’altro
androide.
«Probabilmente
doveva recuperare qualcuno dei suoi strumenti» ipotizza
verosimilmente, mentre le sue dita sbiancano e lo stesso fa il dorso
della mano dell’RK800. «Mh…»
soffia, crucciando la fronte.
«Che
cosa?» chiede Hank, agitato.
«Non
riesco a connettermi» spiega Markus, sconcertato.
«È
il suo blocco: nessuno può entrare, che sia umano o
macchina»
spiega Elijah, tornato dentro trascinandosi appresso quello che
Markus riconosce a prima vista come l’accumulatore di cui
avevano
discorso in precedenza.
«E
quindi che si fa?» insiste Hank, sempre più
ansioso.
«Per
prima cosa faremo in modo che la batteria non si esaurisca sul
più
bello durante il nostro intervento. Per fare questo ho portato con me
un generatore supplementare che può tranquillamente
ricaricarla
mentre noi ci concentriamo sul problema più grave».
Hank,
tutto sommato, deve convenire che sembra un buon piano e certamente
un punto di partenza. Sapere che Connor non finirà per
spegnersi a
causa della mancanza di energia lo conforta non poco. Spera che
trovino un modo altrettanto funzionale per riportarlo lì.
Nel
tempo in cui Hank riflette, Kamski ha chiesto l’assistenza di
Dick
e Markus per sollevare l’RK800 e collegarlo
all’alimentatore.
Elijah lancia caute occhiate a Markus, mentre lavora, notando la
confusione trasparire dai suoi movimenti e dal suo volto artificiale.
È abbastanza evidente che il non essere in grado di
stabilire una
connessione con Connor lo abbia in qualche modo destabilizzato. Un
angolo della sua mentre non impegnata a elaborare soluzioni
praticabili per l’RK800 riflette sulle reali conseguenze
della
presenza in quella casa di Markus e dell’RK900; forse, dopo
tutto,
potrebbe non essere stata un’idea felice portarli con
sé. Ma ora
come ora non ha modo di porre rimedio anche a quel problema; ne ha
già uno sul quale lavorare, e non è affatto di
semplice soluzione,
considerato che la sta ancora cercando.
|
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Capitolo 14 *** chapter 14. A plan and its accomplishment ***
chapter
14. A plan and its accomplishment
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CANADA
Date
NOV
14TH,
2038
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
05:10
«Ah,
notevole, davvero. Sorprendente direi».
«Ha
trovato il modo per toglierlo dai guai?» si informa Hank,
speranzoso.
«Veramente
no» commenta distrattamente Elijah. «Stavo solo
ammirando l’ottimo
lavoro di Connor: non è da tutti isolarsi in questo
modo».
Le
gote del tenente si chiazzano di rosso. «Non perda tempo a
rallegrarsene, per la miseria! È qui per disfare il
pasticcio, non
per congratularsi con Connor».
«Rammento
d’aver promesso che ci avrei provato, non che ci sarei
riuscito»
gli fa gentilmente presente.
Hank
si alza bruscamente dalla sedia che fino a un momento prima lo ha
ospitato, con tutta l’intenzione di cambiare i connotati a
quel
maledetto sbruffone, ma Dick ha ben interpretato i segnali
sfavorevoli e gli si avvinghia addosso con ottima prontezza di
riflessi, impedendogli di commettere altre pazzie.
«Ti
conviene trovare il modo, e alla svelta» ringhia Hank,
rimanendo a
stento in piedi sotto il peso dell’amico e tralasciando ogni
inutile cortesia, «o ti posso assicurare che non
basterà Dick a
salvarti la faccia, la prossima volta».
Appena
accigliato, Elijah si sofferma a studiare il tenente e annuisce con
circospezione. «Messaggio ricevuto» conferma,
tornando presto alla
sua occupazione primaria, ovvero: come superare il blocco
dell’RK800
e farlo tornare operativo.
*
Poco
interessati allo scambio
di opinioni
degli umani, sia Markus che l’RK900 rimangono in disparte,
all’apparenza silenziosi, anche se in realtà di
tanto in tanto
quest’ultimo interpella mentalmente Markus sulla situazione
ignota
che si presenta loro in quella piccola stanza.
“Ma
se lui ha deciso di innalzare una barriera, forse non vuole essere
raggiunto da nessuno, neppure dalle persone che ci sono ora con
lui”
obbietta l’RK900.
Markus
sospira, conscio che l’altro non sia completamente in grado
di
capire il problema. “Il
tenente, quello scarmigliato e con la barba ingrigita, non
rappresentava certo una minaccia, per lo meno non a livello
informatico. Non avrebbe avuto senso che Connor volesse proteggersi
da lui in quel modo. Sono certo che il problema provenisse da
un’altra fonte, sicuramente una con maggiori
potenzialità di danno
sulla sua unità cerebrale. Comprendi, ora?”.
I
suoi occhi che lo scandagliano lo rendono un po’ nervoso.
Vorrebbe
chiedergli di smetterla, ma non è certo di quale potrebbe
essere la
sua reazione, così si costringe a sopportare stoicamente il
fastidio, sperando che lo faccia di sua spontanea volontà.
“In
questo caso cosa fa loro pensare che deciderà di abbassare
la
protezione? È evidente che, chiunque fosse
l’intruso in questione,
potrebbe tranquillamente essere in attesa di un cambiamento a suo
favore e agire nel momento in cui le difese verranno
abbassate”
fa ragionevolmente notare.
Markus,
suo malgrado, è costretto a convenire con lui su quel punto.
Questo
però non significa che intenda arrendersi
all’evidenza che non ci
siano vie d’uscita a quell’impasse.
“E
dunque, come ci è possibile raggiungerlo senza obbligarlo a
scoprirsi?”
chiede impaziente.
Ora
è Markus a fissarlo con insistenza, aspettando di scoprire
se
l’altro ha qualche buona idea in proposito, trovandosi quasi
ad
augurarselo.
“È
una situazione che appare insolubile. Eppure…”
riflette l’RK900.
“Eppure?”
lo interroga, trepidante.
“Se
avessimo l’opportunità di assicurarci di poter
mantenere uno scudo
in sua difesa, allora sarebbe fattibile: potremmo a quel punto
convincerlo a levare la sua barriera, perché sarebbe
comunque
protetto”
propone.
Accigliato,
Markus esamina con cura la proposta dell’altro androide. Se
ciò
che suggerisce fosse praticabile, allora forse potrebbero sul serio
avere fra le mani una soluzione definitiva. Lo guarda ancora qualche
momento, poi sposta lo sguardo su Kamski, ancora al lavoro per
cercare una via d’accesso che forse nemmeno esiste. Decide.
Fa
cenno all’RK900 di seguirlo ma tenersi un poco discosto e,
piano,
si avvicina nuovamente a Connor e al loro creatore.
«Elijah»
lo interpella, usando per la prima volta il suo nome di battesimo.
Questo
pare funzionare in modo insospettabile. Lo scienziato solleva di
scatto la testa e sul volto può scorgere lo stupore.
«Sì»
soffia questi, momentaneamente dimentico d’altro che non sia
Markus.
Poggia
una mano sulla spalla dell’RK900 e se lo porta più
vicino.
«Potrebbe aver trovato una soluzione» azzarda con
cautela.
Elijah
sgrana gli occhi e li fa rimbalzare da Markus all’RK900 e
viceversa
più volte, prima di decidersi a parlare.
«Vi
ascolto».
*
Non
sono ancora riusciti a convincere l’RK900 a sfruttare il suo
impianto vocale, peraltro perfettamente funzionante, come ha
assicurato loro Kamski in seguito a un rapido controllo.
Così, dato
che lì dentro solo Markus è dotato di
unità cerebrale artificiale,
è anche l’obbligato prescelto a riportare a tutti
l’idea
dell’altro androide. Decisamente seccante, almeno dal suo
punto di
vista.
«Lui
dice che se riuscissimo a ricreare attorno a Connor una protezione
che sia abbastanza valida da difenderlo da intrusioni esterne
a…
diciamo questa stanza…». Sposta lo sguardo
sull’RK900. Annuisce.
«Mi correggo: meglio che sia attorno al solo tavolo. Dice che
più è
ristretto il campo e più semplice risulterà
mantenerlo saldo e
inalterato al suo posto… Un momento, ok?! Ci sto
arrivando» sbotta
all’indirizzo dell’RK900 che preme sulla sua mente
con nuove
informazioni e richieste. Sbuffa, ora molto più che seccato.
«Senti,
ascolta un po’: ora io spiego a loro il tuo piano a grandi
linee;
dopo,
tu potrai aggiungere tutte le postille che riterrai opportune. Va
bene?» ringhia, fissandolo con sguardo minaccioso.
«E smetti
immediatamente di guardarmi in quel modo. Tanto non attacca: non hai
l’aspetto adatto per ispirare compassione» lo
informa spiccio.
Elijah
sorride, divertito. Markus, nemmeno a dirlo, non apprezza per nulla
tutta quella faccenda, e si sente quasi preso in giro. Sarebbe
senz’altro disposto a piantarli in asso lì, in
compagnia di quel
pianta grane dell’RK900, se solo non ne andasse della
salvezza di
Connor. Ma è un particolare, quest’ultimo, che
deve continuamente
tenere a mente, perché in alcuni momenti non sembra bastare
a dargli
la forza e la pazienza necessarie a perseguire il suo scopo.
«Bene,
permettimi dunque di fare il punto della situazione, così
che possa
essere certo di aver ben compreso il vostro piano» propone
Elijah.
«Il
suo
piano» borbotta Markus, indicando con il pollice
l’altro androide.
«Sì,
certamente: il suo» concede, sollevando gli occhi al cielo.
«Orbene,
si suggerisce come prima mossa di isolare ulteriormente il nostro
buon RK800, ma in questo caso dovrebbe trattarsi di un’azione
controllata da noi e, potenzialmente, che sia in grado di convincere
Connor di essere al sicuro da interferenze esterne. Dunque, mi
chiedo, una vola costruita questa nuova barriera, come si pensa di
poterne informare l’androide in questione, considerato che la
sua
coscienza
non è raggiungibile?».
Markus
si sofferma a osservare nervosamente l’RK900 in cerca di
ispirazione, o magari di un suggerimento, che però non
giunge.
«Immagino
non abbiate ancora avuto modo di riflettere su quella parte del
piano» offre accomodante Elijah, il quale al contrario degli
altri
appare tutto fuorché deluso dall’intoppo.
«Ve lo concedo. In
fondo non possedete le informazioni necessarie per giungere alla
soluzione che, posso assicurarvi, è molto più a
portata di mano,
ora, di quanto non potreste immaginare».
E
di nuovo Markus ha l’impressione che Kamski stia parlando
giusto
per dare fiato ai polmoni, tergiversando senza fornire dettagli
apprezzabili.
«E
quindi, quale sarebbe questa soluzione?» incalza a quel
punto,
impaziente.
«È
molto semplice: siete proprio voi tre. In ognuno ho inserito il
frammento di un programma che può operare solo se sarete
insieme e
uniti».
È
indeciso se essere semplicemente scettico o direttamente in collera.
Certamente lo scoprire di essere stato un povero illuso, credendo che
lo scienziato si stesse divertendo alle loro spalle solo a parole,
non fa bene al suo umore. Chissà cos’altro
potrebbe essersi
inventato per loro? Tanto varrebbe chiederglielo direttamente, giunti
a questo punto.
“Potremmo
provare”
lo distrae la voce mentale dell’RK900.
Lo
scruta accigliato. “Non
senza avere prima un’idea anche vaga di cosa dovremo
attenderci”
lo ammonisce, frenando quella sua malsana curiosità che, se
lasciata
a briglia sciolta, ormai ne è certo, finirà con
il metterlo in guai
seri.
«In
che modo, per l’esattezza, dovremmo poterci
connettere?» domanda
quindi a Kamski. «Ma soprattutto: che conseguenze
avrà?».
Ha
deciso, forse con un po’ di incoscienza, che non è
ancora il
momento per informarsi sulla natura del programma che contengono.
«Il
modo è pressappoco il solito; dovrà essere
però di genere fisico:
è necessario un contatto diretto in questo caso. Per quanto
concerne
le conseguenze, direi che l’informazione più
importante in questo
momento è che, durante la connessione, verrete a
rappresentare a
tutti gli effetti un’unica entità composta da tre
diversi elementi
interconnessi, e questo di conseguenza vi permetterebbe di ritrovare
abbastanza facilmente la coscienza di Connor momentaneamente smarrita
al di là della sua barriera».
Il
suo uditorio sembra particolarmente scettico, a ben vedere, e non
solamente la parte artificiale del gruppo, ma persino quella umana.
Il tenente al momento lo soqquadra insistente, come a cercare di
capire se sta raccontando una marea di frottole come suo solito
oppure dice sul serio. Di fatto, il maggior dilemma è
rappresentato
dal fatto che non ha la certezza di quale delle due alternative
preferire.
«Ammesso
che funzioni» si intromette Dick, «una volta
sistemata la faccenda,
in che modo tornerebbero a essere unità distinte?».
«Ecco,
questo è sicuramente interessante. Secondo le mie teorie,
una volta
insieme
potrebbero decidere autonomamente la direzione in cui procedere e, se
e quando lo riterranno opportuno, sciogliere la connessione»
spiega
Elijah.
Hank
grugnisce, per nulla convinto. Markus si astiene, in quel caso, ma
una domanda l’ha ancora: «Cosa ti fa pensare che
questa tua teoria
si riveli corretta? Immagino che tu non abbia avuto modo di provarla
nei fatti» indaga, perfino meno persuaso del poliziotto sulla
validità del piano.
«Il
fatto che abbia messo a punto e creato io sia voi androidi che il
programma non dovrebbe forse essere sufficiente a darmi qualche
certezza? Voglio dire: mi pare che voi funzioniate senza
difficoltà.
Per quale motivo non dovrebbe essere così anche per il mio
programma?» è la ragionevole
replica.
«Ti
dirò: il pensiero di qualunque cosa frutto della tua testa
basta a
darmi scarso affidamento. Inizio ad avere persino poca fiducia nel
mio stesso raziocinio, quando penso che è opera
tua» si fa beffe di
lui Markus.
Hank,
nel mentre, sta seriamente rivalutando la propria opinione sul
deviante: tutto sommato potrebbe essere un buon alleato, degno di
stima.
«Scusate,
se nel frattempo riuscissimo a mettere assieme quello scudo che
suggeriva l’RK900 non sarebbe già un buono
spunto?» suggerisce
Dick, frastornato da tante discussioni sterili. «Poi magari
trovate
anche il tempo per esaminare meglio questa vostra…
unione».
“Ottimo
suggerimento”
commenta silenziosamente l’RK900.
Dato
che, stranamente, sembrano concordare tutti su quella linea
d’azione,
Elijah si affretta a frugare nei suoi bagagli e a estrarne una
cassetta contenente dei piccoli generatori portatili che vengono in
seguito applicati con pazienza attorno al perimetro del tavolo da
lavoro.
«Fatto»
decreta Markus, dopo aver posizionato l’ultimo.
«Bene.
Ora, per prudenza, scostiamoci tutti di un paio di passi»
avvisa
Elijah.
Meccanicamente,
ognuno esegue e rimane a fissare con ansia quello che presto
sarà il
risultato dei loro primi sforzi. Un breve comando viene inviato al
modulo ricevente applicato assieme ai generatori e, il tempo
necessario perché il comando raggiunga tutte le
applicazioni, un
fioco lucore azzurrato le accende e da esse si dipana una cupola
lattiginosa che inghiotte il punto in cui si trova il tavolo e il suo
momentaneo occupante. Lentamente il bagliore biancastro si attenua
divenendo un più fievole azzurro semi-trasparente attraverso
il
quale si può facilmente scorgere ciò che protegge.
«D’accordo,
lo scudo è in piedi. A questo punto è necessario
testarlo»
comunica Elijah distrattamente, parlando più che altro a
sé stesso.
Si rivolge quindi a Dick e gli porge un piccolo terminale estratto da
un taschino interno della propria giacca. «Ecco, controlla
che
funzioni adeguatamente» chiede spiccio.
Dick
smanetta qualche secondo, scrolla le spalle e replica «Va
alla
grande».
«Ottimo.
Ora ti invierò un messaggio. Controlla se lo ricevi
correttamente».
-
DIMMI CHE L’HAI RICEVUTO - è il messaggio che
dà tanto l’idea
di un ordine.
«Sì,
capo.
Ricevuto forte e chiaro» commenta Dick con sarcasmo.
«Perfetto».
E nel dire ciò Elijah si riappropria del terminale e lo posa
con
attenzione sul tavolo accanto a Connor, facendo sfarfallare
nell’operazione la luce dello scudo. Infine invia un
ulteriore
messaggio e rimane in paziente attesa, fissando il display senza
quasi batter ciglio per oltre sessanta secondi. «Ah, direi
che
funziona. Nessuna ricezione oltre lo scudo» annuncia
soddisfatto.
*
Alla
luce del fatto che a nessuno dei presenti è venuto in mente
un
metodo alternativo per informare Connor della buona novella, i due RK
superstiti si risolvono a procedere con il piano messo a punto dal
loro creatore, augurandosi che non ci sia dietro qualche inghippo ai
loro danni. Quindi Markus si accosta alla sinistra di Connor e
l’RK900 alla destra. Markus avverte una bizzarra sensazione
che non
sa bene come interpretare né catalogare e che potrebbe
definire come
leggero pizzicore nel momento in cui attraversa il campo generato
dallo scudo, sensazione che comunque dura il tempo di un pensiero e
scompare nel vuoto così come è comparsa. Solleva
gli occhi
sull’RK900 che non ricambia perché sta invece
studiando da vicino
l’androide adagiato sul tavolo.
“Ha
qualcosa di familiare”
accenna titubante.
«Già,
potreste essere parenti» scherza Markus, facendo accigliare
l’RK900.
“Non
sapevo esistessero gradi di parentela fra androidi”
commenta dubbioso.
Markus
rotea gli occhi, afflitto. «Si chiama battuta
di spirito,
amico. Vuol dire che non è un’affermazione reale
né da prendere
sul serio. Serve solo per… beh, divertirsi» spiega
con un certo
impaccio.
“Oh…”
soffia l’altro, decisamente confuso.
Una
volta convinto l’RK900 a rimandare a un momento
più adatto la sua
indagine genealogica, entrambi si impossessano ciascuno di una mano
di Connor. Come normalmente accade, i tratti meccanici vengono a
galla; l’RK900 si imbroncia e Markus sospira. Poi, dato che
comunque non sembrano riuscire a connettersi con l’altro
androide,
Markus si rivolge a Elijah.
«Siamo
ancora fuori. Che si fa?».
«Dovete
volervi unire. Serve un minimo di intenzione» spiega lo
scienziato.
Sbuffa,
iniziando a credere che Kamski abbia preso una gran cantonata
stavolta. Ma giunti a quel punto tanto vale provarci.
«L’intenzione,
sicuro… Come con le maledizioni senza perdono»
propone con
sarcasmo.
Dick,
da qualche punto dello studio, ridacchia divertito. Hank borbotta
esasperato. Sente persino un mugolio proveniente dal cane; sembra
disapprovare apertamente. Lo sguardo dell’RK900 è
di nuovo su di
lui e lo fissa perplesso.
«Qualcosa
del genere, in effetti» commenta Elijah. «Ma di
certo con
conseguenze meno spiacevoli».
«Oh,
d’accordo! Tanto, ormai, che abbiamo da perdere?»
ammette, in un
certo senso un poco deluso. “Proviamo?”
chiede all’altro.
“Sì”
è la pronta replica.
L’RK900,
stupendo Markus, raccoglie la sua mano libera e intreccia le dita con
le sue. La luce azzurra del led brilla più intensamente
sulla tempia
dell’RK900. Markus lo scruta e sorride leggermente. Annuisce
mentre
il bagliore si fa più intenso anche sul suo led. E un
momento dopo
ogni luce è scomparsa, rimane solo una distesa di nero da
ogni lato,
come una tela ricoperta d’inchiostro.
«Beh…
Questo sì che è strano» commenta piano.
“Non
si vede nulla”
lamenta il compagno di viaggio.
«No,
non ancora. Ma abbi pazienza, ho idea che non dovremo attendere a
lungo» suppone.
«Chi
siete? Che cosa avete fatto alla mia barriera?».
Entrambi
si voltano di scatto; Markus pensa di aver riconosciuto la voce, ma
vuole esserne sicuro. Purtroppo nessuno dei due riesce ancora a
scorgere alcunché nella fitta oscurità che li
circonda.
«Sono
Markus. Siamo amici, ricordi?» tenta, sperando che decida
ancora una
volta di fidarsi delle sue parole.
«Stai
mentendo. Markus non esiste più» giunge la replica
a incrinare le
sue speranze.
«Non
ti sto mentendo, Connor. Sono davvero io. Puoi avvicinarti e vedere
con i tuoi occhi» arrischia.
Una
piccola risata dal tono triste accoglie per prima la sua proposta.
«Non
sempre gli occhi possono cogliere la verità. Spesso
ciò che
scorgono sono solo illusioni. E fanno più male di qualsiasi
realtà».
«Come
questa, Connor? Il velo nero che hai tirato e che nasconde ogni cosa,
persino te stesso».
Sussulta,
rendendosi conto solo in quel momento di avere ancora le dita della
mano sinistra intrecciate a quelle dell’RK900.
“Possiamo
tentare”
suggerisce cauto alla sua mente.
“Sì,
forse hai ragione: un po’ di luce non sarà un male
in questo
posto”
concorda Markus. «Ora guarda, Connor» chiede, prima
di rinsaldare
la stretta.
Nuovamente
il bagliore azzurro brilla, rischiarando il nero circostante di un
lieve alone luminescente.
Un
rantolo, nemmeno troppo distante, segue la loro idea.
«Perché
non mi lasciate in pace? Non voglio essere una macchina. Andate
via!».
“Connor”.
Un soffio, nient’altro.
La
luce si riflette brevemente su qualcosa, una piccola superficie
lucida: gli occhi spalancati di Connor che fissano con orrore le due
apparizioni sbucate dal nulla nella sua mente.
«Andate
via» mormora, senza più la forza per imporre la
propria volontà.
La
mano destra di Markus si stringe in quella di Connor. Sorride.
«Non
senza di te».
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Capitolo 15 *** chapter 15. In my mind ***
chapter
15. In my mind
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CANADA
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NOV
14TH,
2038
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
07:26
Un
lampo di luce mette a soqquadro i suoi circuiti cerebrali. È
qualcosa di molto spiacevole, tanto da strappargli un breve grido. Si
dibatte, cercando di liberarsi da quel tormento. Qualcosa intralcia i
suoi tentativi ma non è in grado di capire di cosa possa
trattarsi:
c’è troppa luce, ora, dopo tutto il buio
più fitto; forse qualche
cosa nel suo impianto visivo è andata danneggiata.
«D-dolore»
rantola, pensando che quella parola rispecchi con precisione la
sensazione che sta provando.
«Lo
so, lo sento anch’io» vibra la voce di Markus poco
discosta.
“Ci
danneggerà?”
lo avvolge la domanda silenziosa, rispecchiando la preoccupazione
comune.
«Ma-Markus?»
chiama con un tono fioco e tremolante.
«Sì,
sono qui».
“Troppa
luce. Dobbiamo…”.
«Allentare»
concorda Markus.
Cerca
un modo per ridurre la pressione della connessione in corso, ma
è un
po’ complicato senza ben sapere dove si trovano le sue mani e
senza
riuscire a percepirle muoversi. Digrigna i denti. È una
questione
mentale, ne è certo, basterebbe concentrarsi per volerlo
e…
Un
gemito, non è sicuro se di Connor o dell’RK900, ma
indiscutibilmente di malessere, lo informa che il suo tentativo non
sta dando i risultati auspicati, anzi, l’esatto contrario.
«Maledetto»
ringhia, sognando di affogare Kamski nella sua vasca idromassaggio.
«Provate a… a… p-pensare di…
ab-bassare la luce. Tutti…
insieme» propone con disperazione, perché il suo
sistema di
controllo delle funzioni lo ha appena gentilmente informato che uno
dei suoi biocomponenti ha dato forfait e altri tre stanno firmando le
dimissioni giusto in quel momento.
Un
sibilo, vicino al suo orecchio (o per lo meno tale gli è
parso), lo
fa sobbalzare. Le dita della sua mano sinistra vengono stritolate
nella morsa di quelle dell’RK900 che evidentemente non
è in
condizioni di molto migliori rispetto alle sue. Invece, con sua
sorpresa, riesce finalmente a percepire l’esistenza fisica
della
sua mano destra e, altrettanto curiosamente, ne avverte scemare la
pressione da ciò che fino a un attimo prima lo opprimeva.
Connor,
non ha idea di come, sta allentando il contatto. Markus non
è per
nulla sicuro che ciò sia un bene; se dovessero perderlo del
tutto
sarebbero al punto di partenza.
«Connor»
prova, incerto.
«Ce
la faccio. Questa… è ancora la mia
mente» soffia scosso.
Giusto.
Lo aveva quasi scordato: se lì c’è
qualcuno che ha qualche
possibilità di controllare la situazione, quel qualcuno
è
senz’altro Connor.
Tempo
dopo (un tempo che gli è sembrato durare
un’eternità) il bagliore
abbacinante affievolisce gradualmente fino a divenire un soffuso
chiarore, decisamente più sopportabile. E quando si guarda
attorno,
finalmente può individuare la figura dell’RK900 al
suo fianco, la
quale ha un’aria sconcertata e un poco sbattuta. E
lì, proprio di
fronte a loro, c’è Connor che li fissa attonito e
spaurito.
«Direi
che ce l’hai fatta sul serio» commenta Markus,
sollevato.
Un
attimo dopo si ritrova inspiegabilmente stretto nella morsa
incontrollata di Connor e delle sue braccia, che sembravano
così
sottili e invece finiranno per fargli saltare qualcuno dei suoi
biocomponenti (per lo meno quelli che si erano salvati dalla
precedente disavventura).
«Ehm…»
prova, senza un’idea precisa di come proseguire il discorso.
Ma
tutto sommato non è necessario farlo. Poco dopo Connor lo
lascia
andare e si scosta, fissandolo con circospezione e imbarazzo.
«Scusa.
Credevo… Mi era stato detto che ti avevano disattivato,
così…».
«Beh,
sì, è vero. Ma qualcuno
non era dello stesso parere» confida, leggermente divertito,
ora.
«Hanno
riparato anche te, quindi».
«Già.
Direttamente quel Kamski. C’è anche lui, lo sai?
Siamo qui proprio
per te. A dire il vero anche io credevo che ti avessero disattivato.
Invece sono stato fortunato: qualcuno è rimasto dei miei
vecchi
amici».
Connor,
per la prima volta da che lo hanno ritrovato, accenna un piccolo
sorriso e annuisce d’accordo. Lo osserva poi spostare
l’attenzione
sull’altro androide presente e scrutarlo con una certa
perplessità.
Aggrotta la fronte.
«Ti
conosco?» dubita senza distogliere lo sguardo.
«Non
penso tu abbia mai avuto occasione di incontrarlo» interviene
Markus. «Lui è un RK900. Beh, in realtà
l’unico, al momento, per
lo meno a quanto ne so».
Gli
occhi di Connor si sgranano appena. «Oh, ho capito. Sei un
upgrade,
giusto? La versione aggiornata e potenziata».
L’RK900
non emette un solo suono. Non che se lo attendesse, ma almeno un
cenno di intesa sarebbe stato di aiuto. Invece si limita a fissare su
Connor quei suoi inquietanti occhi grigi con il suo solito modo
indagatore che farebbe perdere il lume della ragione anche a un
santo. Infatti poco dopo Connor si acciglia e adocchia nervosamente
Markus.
«Che
problema ha?».
E
Markus vorrebbe ridere, ma si trattiene perché si tratta di
una
situazione già molto precaria di per sé e non ci
tiene per nulla a
complicarla ulteriormente.
«Magari
lo sapessi. Lui non parla, però di solito invia pensieri
alle nostre
unità cerebrali. È strano che ora se ne stia
così, senza far
nulla».
«A
parte fissarmi» commenta Connor contrariato. Ma a mali
estremi,
estremi rimedi. Scrolla le spalle e imbastisce un buon sorriso
convinto, il più cordiale del suo repertorio.
«Bene, suppongo che
tu ne sia già al corrente, ma è giusto che lo
faccia ugualmente,
per correttezza: il mio nome è Connor, è un
piacere fare la tua
conoscenza. Qual è il tuo nome?» domanda in tono
gentile ed
espressione socievole sfruttando al meglio il suo collaudato
programma di relazioni pubbliche.
Il
led dell’RK900 vira all’ambra per qualche istante,
poi torna
all’azzurro.
“Non
possiedo un nome. Ma anche per me è un piacere fare la tua
conoscenza”
replica di buon grado.
Connor
sfarfalla le ciglia un lungo momento, sorpreso sia per il messaggio
che per il metodo, poi la sua espressione si rannuvola.
«Ma
questo non va affatto bene. Avrebbero dovuto dartene uno non appena
attivato» protesta indignato.
“Non
c’era nessuno” spiega
pacato.
“Ero solo ed era buio. C’erano solo elaboratori
informatici, ma
nessuno di loro era al corrente di quell’informazione. E
quando ho
incontrato qualcuno, neppure allora l’ho appresa”.
Connor
ascolta con attenzione, sempre più accigliato, e quando la
spiegazione è completa si volta di scatto verso Markus e lo
fissa
indagatore.
«Mi
era parso di capire che con voi ci fosse il signor Kamski».
«Infatti»
conferma Markus.
Il
led di Connor brilla ambrato, girando per breve tempo. Infine scuote
la testa.
«Non
comprendo» ammette. Solleva allora lo sguardo
sull’RK900 e lo
fissa con decisione. «Ma non importa. Vorrà dire
che potrai
decidere tu stesso come desideri essere chiamato. Che nome ti
piacerebbe usare?» domanda gentilmente.
L’RK900
sembra titubante e i suoi occhi vagano perplessi sul volto di Connor.
“Devo…
decidere io?”
chiede incerto.
Markus
sorride. «Connor ha ragione. È inutile aspettare
che qualcuno si
svegli improvvisamente e ti affibbi un nome. Magari neppure ti
piacerebbe: sai, a volte gli umani sono strani. Tanto vale che sia tu
stesso a sceglierne uno che ti convinca» lo incoraggia.
L’RK900
non è per nulla sicuro di come convenga comportarsi in quel
caso.
Non ha la minima esperienza in fatto di nomi e nella sua
programmazione non ci sono istruzioni in merito. Non si tratta di una
situazione simile alla sua scelta per il proprio aspetto; allora
aveva delle linee guida da poter seguire. Ora su cosa potrebbe mai
basare la propria preferenza? Si guarda attorno, nervoso, ma non
scorge molto altro che non sia il buio soffuso e loro tre. Allora
prova a guardarsi dentro, esaminare ciò che ha appreso
durante la
sua brevissima esistenza. Ed è in quel modo che trova degli
indizi:
ritagli di informazioni che ha assorbito grazie alla connessione con
Markus prima e con Connor dopo. Notiziari, conversazioni, giornali,
libri, canzoni, riviste, verbali, discussioni, tutto accuratamente
archiviato in ordine temporale e per argomento.
Un’informazione,
apparentemente superflua e galleggiante nel mare di altre sue simili,
attira la sua attenzione in modo inaspettato. La tensione dovuta
all’indecisione si attenua gradualmente regalandogli un
istante di
benessere. Prende una decisione, infine, increspando le labbra in un
lieve sorriso soddisfatto.
“Jander.
Questo sarà il mio nome”.
*
«Sarà
il caso di andare, ora» propone Markus. «Non sono
certo di quanto
tempo possa essere trascorso, ma se aspettiamo troppo là
fuori
finiranno con il preoccuparsi».
Connor
sembra però rattristarsi a quella proposta. Ha come
l’impressione
di essersi perso qualche importante tassello che possa completare il
disegno generale di quel complicato mosaico che è il suo
amico.
«Andate
già via? Pensavo sareste rimasti un poco» mormora
quest’ultimo in
tono abbattuto.
«Naturalmente
verrai con noi anche tu. Avremo tempo da trascorrere insieme, dopo
aver sistemato questo pasticcio» chiarisce Markus.
«Cosa?»
soffia Connor allarmato. «Non posso. Amanda mi ritroverebbe
in
fretta» protesta debolmente.
“Chi
è Amanda?”
si informa Jander.
«Probabilmente
colei che ha cercato di prendere il controllo, immagino»
suppone
Markus. E a un piccolo cenno d’assenso le sue idee ritrovano
un
ordine più preciso. «Non devi preoccuparti di
questo, ora. Abbiamo
costruito una seconda barriera esterna. Questa le impedirà
di
ritrovare la via per controllarti anche quando le tue difese saranno
riabbassate».
«Sul
serio? Non ne ero al corrente» si stupisce Connor, suo
malgrado più
sollevato a quella buona notizia.
«Sì,
beh, in effetti era il motivo per il quale siamo stati mandati da
te»
ammette Markus, imbarazzato.
“Lo
avevamo solo… scordato”
aggiunge Jander, rispondendo senza indugio al sorriso che gli
indirizza Connor.
«Non
importa. Ora che lo so mi sento già molto meglio»
esclama Connor.
«Come usciamo da qui?».
Connor
fissa Markus, che fissa Jander, che fissa Connor…
«Ehm…»
borbotta Markus. «Com’è che aveva detto
Kamski?».
“Una
teoria secondo la quale, una volta uniti, saremmo stati liberi di
decidere se e quando tornare a essere unità separate, se non
ricordo
male”
viene in soccorso Jander.
«Benone.
Molto utile, come la maggior parte delle sue idee, del resto»
sibila
Markus, contrariato.
«Temo
di non aver capito» pigola Connor, parecchio confuso dalla
spiegazione.
«Normale:
non conosci l’antefatto» lo tranquillizza Markus.
Così si prende
qualche momento per spiegargli la strampalata teoria di Kamski e la
storia del programma che li accomunerebbe, o per lo meno quel poco
che si è degnato di far loro conoscere.
«E
non ha spiegato a cosa dovrebbe servire?» indaga Connor.
«Ovviamente
no» bercia Markus, seccato. «Parlare chiaro non fa
parte della sua
programmazione».
Connor,
nonostante la situazione non lo consigli, ride divertito.
«È un
essere umano. Non hanno programmazione».
«Già,
è proprio questo il problema maggiore con gli umani, e
ciò che li
rende imprevedibili».
“E
pericolosi”
aggiunge Jander in un bisbiglio, e la sua considerazione viene
accolta con cupi assensi da parte di entrambi i compagni.
«D’accordo,
qualcuno ha un’idea su come tornare là
fuori?» chiede Markus,
pratico e un pizzico esasperato da quella situazione insolvibile.
Connor
riflette e mentre i suoi circuiti mentali sono al lavoro il paesaggio
che li circonda muta nuovamente: sotto di loro ora un prato verde si
estende a perdita d’occhio e al di sopra delle loro teste il
cielo
azzurro è chiazzato da poche nubi bianco panna.
C’è perfino un
debole venticello che profuma di fiori e il suono dell’acqua
che
scorre tranquilla.
Markus
emette un breve fischio di impressionata approvazione.
«Niente male,
amico. Me lo devi insegnare, un giorno o l’altro; sarebbe
molto
utile quando potrò dipingere di nuovo» esclama
ammirato.
«Pensavo
a una descrizione che mi ha fatto Hank poco tempo
fa…» tituba
Connor. «Credo che possiamo farcela, se ho ben compreso il
funzionamento di quel programma. È un’elaborazione
di noi stessi».
Crucciato,
Markus lo scruta in cerca di delucidazioni.
«Cioè?».
“In
questo momento pensiamo di trovarci nella sua mente, ma siamo
comunque fisicamente all’esterno. Dobbiamo dunque pensare di
trovarci tutti e tre di nuovo nel laboratorio”
comprende Jander.
«Tutto
qui?» dubita Markus.
«Immagino
di sì» concorda Connor.
«Insieme?»
chiede conferma Markus.
“Insieme”
concorda Jander.
«Insieme»
annuisce Connor.
Le
dita intrecciate delle loro mani mostrano di nuovo
l’esoscheletro
chiaro. Il paesaggio verdeggiante sbiadisce gradualmente; per un
momento torna il buio attorno a loro, poi al buio si sostituisce
l’ambiente familiare dello studio di Dick. I tre androidi si
scambiano occhiate sorprese ma anche sollevate, scoprendo di essere
ancora insieme nella realtà del mondo materiale.
«Ottimo
lavoro, ragazzi miei, ce l’avete fatta» si
congratula Elijah.
|
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Capitolo 16 *** chapter 16. A name ***
chapter
16. A name
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CANADA
Date
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14TH,
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CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
PM
11:48
È
la seconda volta che si trova a risvegliarsi in quella stanza dopo
essere stato assente per lungo tempo. Questa volta, tuttavia,
è
cosciente di essere egli stesso il responsabile di
quell’assenza,
almeno in parte, e l’essere travolto prima da Sumo e poi da
Hank
gli fa comprendere appieno quanto possano pesare certe decisioni
anche sul prossimo.
«Mi
dispiace» soffia, ancora imprigionato tra un ammasso di
sbavante
pelo e una giacca di pelle che mantiene l’odore del tabacco.
«Non
sapevo che altro fare» tenta invano di giustificarsi.
«Potevi
almeno avvisare» brontola cupo Hank, fissandolo duramente ma
per
nulla propenso ad allontanarsi da lui.
Scuote
la testa. «Mancava il tempo per farlo. Dopo… non
ci sarei più
riuscito».
*
Elijah,
in seguito al terzo infruttuoso giro attorno al tavolo in cerca di un
improbabile varco libero nel quale intrufolarsi per dare una
controllata all’RK800, comprende infine di non avere grandi
speranze, per lo meno fino a che la situazione non sarà
tornata un
minimo gestibile, e si risolve quindi ad allontanarsi un poco,
approfittando di quella pausa per scorrere gli ultimi dati raccolti,
mettervi ordine e provare a stilarne un resoconto sui progressi
fatti. Tutto sommato gli pare sia andata discretamente, e nessuno dei
suoi androidi sembra aver riportato danni troppo ingenti. Ma per
averne la certezza dovrà esaminarli più
accuratamente.
Lancia
una discreta occhiata a Markus, ancora occupato a scambiare
silenziose opinioni con l’RK900. Sembra in discrete
condizioni,
tutto sommato; di sicuro migliori rispetto a quelle di Connor. Eppure
ha notato un preoccupante sfarfallio del suo led e non vede
l’ora
di accertarsi che non sia nulla di grave. Ma non è ancora il
momento, quello; non ha intenzione di interrompere
l’interazione
fra quei due, ora: potrebbe essere importante.
Reclina
il capo, pensieroso, osservando il nuovo prototipo. Sembra essere
più… naturale, quasi abbia acquisito maggior
equilibrio. Dovrà
proprio analizzare anche quel fattore, non appena ne troverà
il
tempo.
Sospira.
Socchiude gli occhi un po’ affaticati. Si ritrova
improvvisamente a
pensare a Chloe: sarebbe bello se fosse lì anche lei. Oh,
dev’essere
davvero stanco; la sua mente, altrimenti, non avrebbe simili sbalzi
inopportuni.
*
“Penso
che dovremmo parlargliene”
insiste Jander.
“Può
darsi, ma di certo non ora”
esclude Markus, guardandolo con durezza e scoccando frequenti
occhiate impensierite ora a Connor, ora a Elijah.
“È
corretto che lui lo sappia”
pondera Jander.
“E
allora vai a dirglielo tu stesso”
lo sfida Markus, alterato.
Jander
sposta su di lui i suoi occhi metallici e le sue labbra si piegano in
una smorfia scontenta. “Sai
che non lo posso fare”.
“Potresti,
invece. Non c’è niente che non vada in
te”
commenta Markus, ritrovando un tono più pacato, perfino
gentile.
Soppesa
quelle parole, cauto, crucciando la fronte. “Non
lo so. Ci ho provato, ma non ci riesco. Forse… non ne sono
capace”
ipotizza.
Sospira.
Sorride. Poggia una mano sulla sua spalla. “Proveremo
a capire che cosa non funziona. Sempre che ci sia davvero qualcosa.
Lo faremo insieme, d’accordo?” promette.
“Noi
tre?”.
“Certo.
Siamo una squadra, ora”
conferma Markus.
*
A
Hank non garba molto l’idea che quel Kamski da strapazzo
metta le
sue manacce su Connor. Nonostante l’evidenza dei fatti (in
qualche
modo è riuscito non solo a impedire che l’androide
si spegnesse,
ma perfino a farlo tornare cosciente) non riesce proprio a fidarsi di
quell’uomo. C’è qualcosa di malsano nei
suoi occhi, soprattutto
quando si posano sui tre androidi presenti, qualcosa che lo tiene in
allerta e che gli suggerisce un senso di dubbio, di mancanza di
chiarezza in ciò che sta accadendo. Purtroppo non sa di cosa
si
tratti né tanto meno in che modo scoprirlo, ma ha il
sospetto possa
c’entrare in qualche modo quel famoso programma del quale
discutevano all’inizio.
Sumo
abbaia una volta, un suono secco e deciso: è un
avvertimento, Hank
riconosce il timbro. Solleva lo sguardo e trova il suo cane intento a
squadrare lo scienziato con diffidenza. Non per niente è il suo
cane, si compiace, appuntandosi a mente di fargli un regalo.
*
«Dovrò
quindi potenziare le tue difese e rendere l’accesso criptato.
In
questo modo potranno collegarsi solo con una chiave, che deciderai di
fornire tu stesso, se lo vorrai» lo istruisce Elijah.
Gli
occhi di Connor lo osservano con circospezione e incertezza.
«Ma io
potrò comunque accedere a informazioni esterne?».
«Ma
certo. Tu potrai collegarti a qualsiasi fonte, terminale o database
di cui avrai necessità, purché ovviamente non sia
anch’esso ad
accesso limitato, come lo sarai tu».
Connor
sembra ancora pieno di dubbi e uno di questi decide di esporlo
subito. «Non riesco a capire, signor Kamski:
perché farebbe questo
per me? Lei ora è nuovamente a capo della CyberLife, ho
sentito. E
Amanda è una sua creazione, dopo tutto.
Quindi…» tentenna.
«Lo
era, in effetti» ammette con calma. «Ma lei non mi
serve più,
ormai. Ho voi, adesso; non potrei chiedere null’altro ora
come ora,
e lei attualmente mi è d’intralcio».
«Per
i suoi progetti» tenta con prudenza.
Elijah
accenna un lieve sorriso e annuisce. «Sì,
esatto».
«E
noi… noi tre: Markus, Jander e io, ne facciamo
parte».
«Giusto»
conferma Elijah. Poi solleva un sopracciglio e scruta
l’androide
con curiosità. «Jander?».
Connor
socchiude le labbra, bloccandosi per un attimo mentre l’ambra
lampeggia nel suo led. «Mi scusi, forse non avrei dovuto
dirlo,
questo. Sono abbastanza certo che volesse farlo lui stesso, in
qualche modo» si rammarica.
«Dunque
ha un nome, ora?» si informa interessato.
«Sì,
signore: ce l’ha. Lo ha scelto lui, quando eravamo uniti. Ma,
la
prego, non se la prenda con lui. Stava solo cercando il modo per
informarla» considera, leggermente allarmato.
Elijah
ridacchia, anche se sa che non dovrebbe, se non altro per evitare di
urtare una suscettibilità ancora molto instabile del giovane
androide davanti a lui. Ma è così difficile
trattenere la propria
ilarità in quel momento.
«Ovvio
che no, mio caro Connor. Attenderò che sia lui a darmi
l’annuncio,
se questo può fargli piacere» promette, godendosi
il sorriso grato
del suo piccolo RK800.
*
Il
suo sguardo grigio si sofferma sulla grossa e pelosa figura del cane
e non l’abbandona per lunghi minuti, studiandola con
curiosità e
dubbio. È vivo anche lui, ma è una vita
differente, sia dalla
propria che da quella degli esseri umani: neanche lui parla, eppure
sembra comunque in grado di farsi comprendere. Come fa? Vuole
imparare a farlo, trovare il modo per raggiungere gli umani, far
arrivare anche a loro i suoi pensieri. Ma non sa come, e questa sua
ignoranza lo fa sentire male, lo rende infelice. Infelicità,
tristezza, malessere mentale: Markus gli ha spiegato che si tratta di
emozioni, che gli umani le chiamano così. Dunque possiede
qualcosa
di umano, dopo tutto, oltre all’aspetto esteriore. Tuttavia
non
riesce ancora a parlare come loro, con loro. E allora deve trovare un
modo alternativo per comunicare, uno che sia alla sua portata.
Osserva
per un po’ l’uomo che li ha istruiti lavorare su
Connor,
modificare con pazienza alcuni dei suoi parametri, rimuovere dei
collegamenti e variare la portanza di certuni circuiti; con
sé ha
sempre un terminale con il quale spesso si interfaccia per
controllare i parametri inseriti e le variazioni apposte. Mentre
osserva, il suo led gira pigro e cangiante, e d’un tratto
lampeggia
tornando infine a brillare di un deciso azzurro. Ora Jander sa come
fare, deve solo decidere di agire. Volontà: sì,
l’ha messa in
conto già in passato, può rifarlo anche ora, ora
che non è più
solo o senza punti di riferimento.
«È
tutto ok?» soffia piano Markus, notandolo un po’
agitato.
Sposta
lo sguardo nel suo e annuisce lentamente. “Penso
di sapere in che modo procedere”
rivela, mostrando soddisfazione nel suo tono.
Markus
sorride incoraggiante. “Bene
così, allora. Vuoi farlo adesso?”
si informa.
Jander
controlla la situazione e riflette un momento: sembra che si sia in
una fase ancora delicata. “Più
tardi. Ora sarebbe inopportuno e potrei causare danni
indesiderati”
pondera serio.
“Se
serve, posso avvertirli”
si offre collaborativo.
Ci
pensa ma scuote la testa in un breve diniego. “Non
sarà necessario. Quando giungerà il momento, non
servirà alcun
avvertimento.”.
*
Sono
ore che è piantato a fare la bella statuina nella cabina di
volo. Il
capo s’è certo scordato di lui, dannazione, e ora
gli toccherà di
sicuro dormire lì. Al diavolo! Odia non poter avere un
materasso
comodo sotto il culo per la notte. Sbuffa, Alex, e si guarda attorno
per l’ennesima volta, sapendo già di non poter
vedere altro che
filari di alberi curati e altrettanti filari di villette a schiera.
“Chissà dove mai andranno a fare la spesa quei
cavolo di borghesi”
si ritrova a domandarsi, molto seccato. È già una
rottura pensare
di dormire in elicottero, ma la prospettiva di farlo a stomaco vuoto
gli fa girare le palle. Ad averlo saputo prima…
Già, ma cosa
avrebbe potuto fare? Di certo non poteva fermarsi presso qualche
discount lungo la strada, considerato che di strade non ne hanno
percorse affatto e che se anche ci avesse provato gli avrebbero
tirato il collo; magari non il suo capo, ma quell’androide
con gli
occhi spaiati di certo ci avrebbe provato, su di giri
com’era.
Sbuffa di nuovo, per la milionesima volta, poi fruga nelle tasche
della sua giacca e ripesca una caramella mou, ficcandosela in bocca
con un mesto sospiro di sconforto. “Meglio di
niente” pensa,
comunque un po’ deluso.
*
Sta
aggiustando il grado di luminosità del led di Connor quando
il suo
telefono personale manda un segnale acustico di chiamata in arrivo.
Sbatte le ciglia, sorpreso, e si scosta appena dall’androide.
«Scusami,
devo dare un’occhiata, temo» avverte con una punta
di irritazione
per l’interruzione sul finire del suo intervento.
Connor
annuisce e sorride, e nel suo sorriso c’è qualcosa
che non è
certo di aver mai notato in altre macchine. Scuote la testa,
perplesso, e recupera l’apparecchio telefonico, osservando un
momento il display illuminato, basito. “Chloe? Che diamine
sta
succedendo, ultimamente, ai miei affidabili
androidi?” si chiede con acidità.
«Sì»
sbotta non appena aperta la comunicazione.
«Posso
supporre dal tuo tono che questa chiamata sia giunta in un momento
inadatto» esordisce tranquilla la voce di Chloe.
«Se
la torre è ancora in piedi e integra e la casa sul fiume non
è
finita in fondo al fiume… direi proprio di
sì».
«Mi
rincresce molto per il disturbo, Elijah. Tuttavia ho ritenuto potesse
interessarti e, non sapendo a che punto fosse la riparazione, ho
creduto opportuno contattarti il prima possibile» spiega
compita.
«Non
si tratta del professor Phillips, vero? Perché in tal caso
potrei
decidere su due piedi di smantellarti» borbotta piccato.
«No,
Elijah. Il professore non costituisce, al momento, un problema. In
verità si trova attualmente in infermeria e sotto sedativi.
Il
motivo è che ha cercato, invano, di dare una mano alle
squadre della
sicurezza nella speranza di ritrovare il prototipo scomparso.
Purtroppo, come sicuramente ben saprai, ha ormai una certa
età e non
si è sentito troppo bene, in seguito alla minuziosa
ispezione che ha
effettuato battendo con perizia quattro piani della torre, pertanto
il dottor Doptkins ha ritenuto opportuno somministrargli un calmante
e tenerlo per qualche tempo sotto osservazione. Ma proprio a
proposito del prototipo, il motivo di questa chiamata lo riguarda
direttamente: ho infatti ricevuto, appena qualche minuto fa, un
messaggio criptato che ha saturato la segreteria telefonica. Non
è
stato molto difficoltoso decriptarlo in realtà, tuttavia
pare
giungesse proprio dal prototipo stesso. E, indovina: si tratta di un
messaggio indirizzato direttamente a te, Elijah» conclude con
una
lieve nota compiaciuta nella voce.
Elijah
volta un momento lo sguardo, lo posa sull’RK900 fermo a poca
distanza e lo fissa perplesso. La sua perplessità si impenna
quando
nota le labbra dell’androide incurvarsi in un esitante
sorriso.
Sospira, chiedendosi chi, in effetti, stia conducendo il gioco.
«Va
bene, puoi farmelo avere, questo messaggio?» esita, ancora
stranito
per come sta evolvendo la situazione.
«Naturalmente,
Elijah. Provvedo immediatamente a inoltrarti il file».
«Grazie,
Chloe» soffia in tono un po’ stanco.
«Prego…
Stai bene, Elijah?» si informa, preoccupata.
«Sì,
credo. Forse ho bisogno di un po’ di sonno»
ammette, dimentico
dell’ultima occasione in cui ha avuto modo di dormire.
«Tornerai
alla torre, stanotte?».
«Non
ne sono certo» tituba, guardandosi attorno indeciso.
Tre
androidi. Tecnicamente dovrebbero appartenergli, ma a essere del
tutto sincero con sé stesso ci crede poco. Connor non
lascerà
facilmente il fianco del tenente Anderson; Markus preferirebbe finire
sotto un autobus, piuttosto che seguirlo di propria iniziativa alla
CyberLife; e Jander… già, chissà a
cosa pensa quell’androide,
che cosa vuole, o chi
vuole.
«Sarà
difficile» soppesa a bassa voce, mentre ode il segnale sonoro
di un
messaggio ricevuto. «Puoi aspettare in linea?».
«Certo»
assicura Chloe con voce gentile.
Mette
la chiamata in attesa e apre l’icona del messaggio, poi si
dispone
all’ascolto. Si tratta di una voce artificiale e dal timbro
leggermente metallico, che però sembra fare del proprio
meglio per
risultare cortese e piacevole.
“Buonasera,
signor Kamski. So che questo messaggio potrebbe giungerle inaspettato
e forse inopportuno, e mi scuso in anticipo se dovesse risultarle di
qualche disturbo.
Io
sono l’RK900 che lei ha condotto in elicottero in compagnia
di
Markus. Ho composto con cura questo messaggio perché
è accaduto un
fatto importante, per me, quando mi sono connesso a Markus e Connor:
ho scoperto che mi mancava qualcosa, qualcosa di diverso da
ciò che
credevo essenziale; ho realizzato che pur impegnandomi non ero
comunque stato in grado di rassomigliare abbastanza a un essere
umano, non quanto avrei voluto, in effetti. Mi mancava un nome.
Connor me lo ha fatto notare, e sempre lui, con il supporto di
Markus, mi ha incoraggiato a trovarne uno.
Signor
Kamski, non sono purtroppo in grado di darle personalmente questa
notizia; per quanto mi sia impegnato nel trovare una soluzione non
sembra ch’io sia in grado di parlare, ma posso
recapitargliela per
mezzo di questo messaggio preregistrato. Ho un nome anche io, ora: il
mio nome è Jander. Forse non è molto, ma mi sento
comunque molto
fiero per questo poco, e sono veramente lieto di fare la sua
conoscenza”.
Sorride,
ascoltando il messaggio, e una piccola lacrima attraversa veloce la
sua guancia, svanendo oltre il collo.
«Signor
Kamski, si sente bene?» chiede Connor, impensierito.
Elijah
solleva gli occhi su di lui e annuisce. «Sì, molto
bene, Connor.
Dammi ancora un momento, vuoi?».
Connor
offre un cenno affermativo ma rimane a osservarlo, incerto se credere
alle sue rassicurazioni. L’uomo, nel mentre, ha riaperto la
comunicazione con il suo precedente interlocutore.
«Chloe»
soffia, accertandosi che lei sia ancora in linea.
«Sì,
Elijah».
«Ora
so quello che devo fare» mormora, tremando leggermente.
«Ti
richiamo fra non molto, Chloe» e richiude la comunicazione.
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Capitolo 17 *** chapter 17. A new home ***
chapter
17. A new home
100011101101111011000010101010111011011010101110
CANADA
Date
NOV
15TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
CHATHAM-KENT
- ONTARIO
470
McNaughton Ave
Time
AM
01:04
«Dimmi,
Connor, avverti qualche genere di fastidio?».
Connor
osserva Kamski riporre i suoi strumenti e poi posare gli occhi su di
lui, in un’interessata attesa. Lancia un rapido esame delle
proprie
funzioni, operazione che non gli costa che una manciata di secondi, e
accenna un pacato diniego.
«Sembra
non ci siano conseguenze spiacevoli» azzarda.
Elijah
ride piano. «Ottima notizia. Tuttavia mi riferivo alle
modifiche che
ho apportato».
«Oh!»
esclama imbarazzato. Riflette brevemente.
«C’è un sottile ronzio
che ancora posso percepire, ma apparentemente è in
attenuazione:
all’inizio lo avvertivo in modo più intenso
rispetto a ora».
«Sì,
è una reazione momentanea: il sistema si sta allineando ai
nuovi
codici immessi. Altro?».
«Non
ne sono sicuro. È più… una sensazione,
in effetti» tituba.
Accigliato,
lo scienziato lo scruta con dubbio. «Sensazione, Connor? Di
che
genere?».
«Di
vuoto. Qualcosa che non posso afferrare, che sembra voler sfuggire ai
controlli incrociati del mio sistema, come… un miraggio?
Sì, penso
si possa definire così».
Riflette,
ma nessuna buona idea giunge in suo soccorso. «Non so cosa
pensare»
ammette, un po’ indispettito. Lo fissa negli occhi, con
decisione.
«Se dovesse venirti in mente qualche nuova informazione al
riguardo,
credi di potermela far conoscere?».
«Lo
farò certamente» promette Connor mentre segue con
gli occhi i
movimenti dell’uomo che, con metodo, disattiva il campo
magnetico
riponendo con cura i piccoli generatori e, infine, scollega
l’androide dall’alimentatore, dato che oramai la
sua batteria è
di nuovo autosufficiente. «Grazie, signore» si
decide a dire,
lasciando finalmente quel benedetto (e molto scomodo) tavolo.
«Non
c’è di che, Connor. Ammetto di aver fatto in gran
parte i miei
interessi ma, seppur così non fosse stato, di certo Markus e
il tuo
tenente Anderson avrebbero volentieri attentato alla mia salute
fisica, nel caso in cui avessi preso in considerazione l’idea
di
tirarmi indietro» spiega giulivo.
Connor
è un po’ sorpreso dalla replica di Kamski. Che
Hank non nutrisse
grande stima né simpatia per lo scienziato lo sapeva per
certo, ma
quali sono le motivazioni di Markus? Indirizza a quest’ultimo
una
fugace occhiata incuriosita, la quale viene raccolta e ricambiata.
Forse più tardi avranno la possibilità di
approfondire quella
questione.
*
Nel
lasso di tempo in cui lo scienziato si allontana per rimettere ordine
nel suo materiale, Connor viene raggiunto e accerchiato prima da Hank
e Sumo, poi da Markus e Jander, e tutti loro sembrano incredibilmente
ansiosi di sapere, così che Connor viene presto sommerso di
domande
tra le più disparate e, per quanto si impegni, non trova
neppure il
tempo di analizzarle a dovere e fornire una qualche parvenza di
risposta.
«I
circuiti e i biocomponenti di Connor sono perfettamente intatti e il
suo sistema operativo è funzionante a livelli più
che accettabili,
direi quasi ottimali» viene in suo soccorso Elijah, prendendo
nota
del palese disagio del povero RK800. «Personalmente gradirei
prendermi una pausa di qualche ora per riposarmi. Tuttavia vorrei
anche essere certo che i miei androidi siano al sicuro. Per tale
motivo vi proporrei di volervi trasferire da me».
Markus
sgrana gli occhi, visibilmente allarmato, e si para di fronte a
Connor deciso a impedire che prendano anche lui.
Anche
Hank sgrana gli occhi, ma non si limita a una passiva dimostrazione
di rifiuto. Invece ringhia, visibilmente contrariato. «Ma
nemmeno
per sogno!» sbotta, tenendo d’occhio sia Connor che
Markus per
accertarsi che non vadano da nessuna parte, soprattutto non in
compagnia di quel Kamski. «Pensi seriamente che ti lascerei
portarli
via con te? Vorresti forse trascinarli di nuovo in quel covo di tuoi
pari, che non ci penserebbero nemmeno un minuto a metterli sotto
chiave (se va bene)?» protesta con veemenza.
Contro
ogni aspettativa, sia del tenente che degli androidi, la reazione di
Kamski è un leggero e divertito stirarsi di labbra.
«Ho
forse parlato di condurli alla torre della CyberLife? Francamente non
mi è parso» commenta ragionevole.
«E
dove altro?» tenta Markus, guardingo.
«In
verità pensavo piuttosto alla mia villa sul fiume».
Hank
si imporpora, decisamente impermalito dalla nuova e a suo parere
affatto migliore proposta. Connor si limita a storcere il naso, non
più entusiasta del collega, attirandosi in quel modo la
curiosità
dello scienziato.
«Mi
sembra di intuire che la proposta non incontri il tuo favore»
prova
pacato.
Interdetto
dal fatto che l’interesse apparentemente sia concentrato
unicamente
su di lui, Connor scuote piano la testa.
«No,
non proprio. Senza offesa, signor Kamski, ma quella casa mi rammenta
sensazioni poco piacevoli. E… il colore dell’acqua
è piuttosto
angosciante» ammette, spalleggiato senza riserve
dall’aperta
approvazione di Hank e persino di Sumo.
Elijah
tuttavia torna a sorridere, indulgente. «Vorrei farti notare
che
quella che avete avuto in precedenza modo di visitare è solo
una
piccola parte della dimora. Inoltre il rosso è ottenuto con
un
semplice trattamento chimico e fotocromatico per nulla dannoso, ma
che in sostanza risulta del tutto momentaneo e comunque facilmente
evitabile».
«Oh»
soffia Connor, un poco in imbarazzo.
«Tu
hai in mente qualcosa!» l’accusa invece senza mezzi
termini Hank.
«Mi
sembra evidente, tenente Anderson» ammette candidamente
Elijah senza
affatto scomporsi. «Ma non vado di fretta, dopo tutto;
c’è un
tempo e un luogo per ogni cosa, e questo a mio parere è il
tempo per
tirare il fiato e concedersi qualche momento di tranquillità
e
riposo. Ebbene, avete riflettuto a sufficienza? Siete infine giunti a
una conclusione?».
«Non
vedo perché non potrebbero semplicemente rimanere
qui» replica Hank
con ostinazione, per nulla persuaso all’idea di addentrarsi
nella
tana di quella iena.
«Naturalmente,
potreste» concede tranquillo. «Ma a quale scopo? E
in seguito? Lei
pensa che, molto semplicemente, potrebbero nascondersi dietro la
porta di una casa oltre confine, nella speranza che il mondo al di
fuori si dimentichi del problema in fretta, in modo da poter fare
presto ritorno alla loro città? È proprio certo
che accadrà
questo?».
Hank
scatta in avanti, più rapido di quanto chiunque potesse
aspettarsi,
afferra Elijah per il colletto della camicia e lo scrolla con rabbia.
Con qualche momento in più a sua disposizione avrebbe anche
potuto
togliersi lo sfizio di strapazzarlo un po’, giusto per
dimostrargli
che a volte non basta avere soldi e cervello, bisogna anche saperli
usare al momento opportuno. Connor però non sembra
concordare con la
sua linea di pensiero e lo ha già bloccato per le spalle in
modo che
non possa fare ulteriori danni (è forte quel piccoletto di
plastica
e circuiti!), così è costretto a desistere e a
borbottare
contrariato, distogliendo lo sguardo dallo sfacciato sorriso sornione
dello scienziato.
«Avresti
fatto meglio a lasciarmelo maltrattare come si deve» lamenta
rivolto
all’androide.
«No,
sarebbe stato un errore, Hank».
«Un
errore? Nah, quello non è umano nemmeno la metà
di quanto lo sei
tu».
Connor
socchiude le labbra, sorpreso, e accenna un lieve sorriso.
«Non per
lui, Hank, ma per te.
Ti saresti messo nei guai».
«Il
giovane Connor ha ragione, tenente Anderson; dovrebbe agire con
maggior prudenza».
«Fai
il favore di tenere per te i tuoi consigli, Kamski, non sono in vena.
Comunque non intendo lasciare nelle tue mani Connor, e neppure Markus
e quell’altro».
«Jander»
suggerisce Connor alle sue spalle.
«Che?»
dubita Hank, non comprendendo le sue parole.
«Il
nome dell’altro androide. Si chiama Jander».
«Ah…
Beh, comunque si chiami è proprio fuori questione che
restiate soli
con quello
lì»
si ostina Hank.
«Ovviamente
può onorarci della sua compagnia, tenente
Anderson» tratta Elijah,
il quale non vede l’ora di risolvere la questione della
sistemazione per poi prendersi una meritata pausa
di riflessione
di almeno una dozzina di ore.
Con
cautela, Markus si fa avanti accostandosi al poliziotto e a Connor, e
attirando con discrezione l’attenzione di
quest’ultimo. Connor lo
fissa in tralice, domandando in silenzio spiegazioni e presto anche
Hank si accorge dello scambio dei due androidi.
«Che
succede?» si informa a quel punto.
Markus
solleva lo sguardo sull’uomo e, anche se un po’
restio, prova a
spiegarsi. «Non posso dirmi il soggetto più adatto
per affermarlo,
ma credo che su un punto Kamski possa avere ragione».
«Sarebbe
un evento» brontola Hank con sarcasmo.
«Va’ avanti, ragazzo»
chiede asciutto ma disposto ad ascoltare.
«Le
persone, soprattutto gli abitanti di Detroit, non impiegheranno certo
una manciata di giorni per lasciarsi alle spalle quello che
è
accaduto. Gli esseri umani sanno bene come portare rancore molto a
lungo. Non so lei come la pensi, ma personalmente non sento di poter
aspettare anni per tornare a
casa,
e… odio nascondermi».
«Sì,
Markus dice il vero» approva Connor. «Sono stato
creato da poco, ma
quella è la mia città, Hank. Non
posso… non voglio
rimanere nascosto in Canada per chissà quanto tempo ancora,
senza
uno scopo vero e proprio per di più». Sorride,
d’improvviso,
prendendo Hank alla sprovvista. «Sono ancora un poliziotto,
dopo
tutto. Sono stato creato per questo e vorrei poter continuare a fare
quello che mi riesce meglio».
Hank
sbuffa, scuote la testa, torna a guardarlo, sospira.
«D’accordo.
Hai vinto tu, ragazzino».
*
Si
ridesta bruscamente con un grugnito di vago allarme e si guarda
attorno, confuso. Fuori è buio pesto e non distingue che
ombre scure
immobili nell’immobilità del paesaggio, ma un
rumore deciso torna
ad attrarre l’attenzione di Alex: qualcuno bussa al portello
del
suo elicottero. Sbuffa, irritato per il poco dolce risveglio e per
l’ora più che tarda (sono già passate
le due di notte e avrebbe
di sicuro apprezzato poter dormire ancora un po’). Tuttavia
là
fuori bussano di nuovo e, a giudicare dal tipo di suono, pare proprio
che si stiano spazientendo.
“Figurarsi”
elucubra mentalmente con una certa dose di acidità. Alla
fine però
si decide a darsi una veloce sistemata e a vedere chi è il
seccatore. Quando socchiude il portello, come sospettava
già, si
ritrova a incrociare lo sguardo con quello abbastanza impaziente del
suo capo e, guardando oltre, di quelli di una discreta
quantità di
altra gente molto male assortita e molto meno umana di quanto si
augurasse; c’è perfino un cane, enorme, sbavante e
assolutamente
peloso. Geme internamente pensando: “Il mio povero
elicottero”.
«Uhm…
‘Sera, capo. Qualche problema?» biascica, mezzo
tramortito dal
sonno.
«Non
al momento, Alex. Ma c’è qualche
novità, in effetti: come puoi
certo notare, avremo ospiti» annuncia, con più
tetraggine di quanta
si attendesse il pilota, conoscendo il soggetto.
Alex
fissa per un lungo momento il suo capo, stranito dalla situazione
inattesa, poi fa vagare lo sguardo sul gruppo assiepato sul
praticello in cui ha parcheggiato
il suo elicottero. Hanno tutti un aspetto parecchio esausto, perfino
i soggetti artificiali, nota. Conta tre androidi, un San Bernardo e
tre umani, di cui uno che non ha un’aria particolarmente
entusiasta.
“Brutte
cose” si ritrova a pensare. Chissà, forse non
è stata poi un’idea
tanto geniale, come gli era parsa all’inizio, proporsi come
pilota
all’amministrazione della CyberLife, un paio di anni prima.
«Qual
è il programma?» decide di informarsi a quel punto.
«È
molto semplice, Alex: ci accompagnerai alla mia villa sul fiume e in
seguito potrai tornare alla torre. Sono certo ti farà
piacere
qualche altra buona ora di sonno».
«Ci
può scommettere… Uh!... Scusi, capo»
soffia, preoccupato della
possibilità di aver passato il segno lasciandosi sfuggire
qualche
parola di troppo.
«Non
preoccuparti. Forza, ora: prima partiamo, prima giungeremo a
destinazione».
*
Sei
persone (o quanto meno umanoidi) e un cane di grossa taglia hanno
qualche difficoltà a entrare con agio
nell’abitacolo di un
elicottero che, almeno sulla carta, è destinato al trasporto
di soli
cinque individui adulti, compreso il pilota. Ma Dick ha insistito
allo sfinimento per accompagnare Hank e Connor, e di certo il
poliziotto non si è neppure sognato di perdere di vista gli
androidi
né tanto meno di lasciare a casa dell’amico Sumo.
Così al momento
sono tutti poco allegramente assiepati e pigiati dentro il velivolo
come tante sardine in scatola, o meglio, tutti tranne Elijah che,
come c’era da aspettarsi, ha seraficamente preso posto
accanto ad
Alex, fingendo con molta perizia e disinvoltura di non sentire gli
insulti nemmeno troppo velati degli altri passeggeri.
Dal
canto suo Alex sta cercando di calcolare a mente il peso complessivo
del carico e capire se il suo povero elicottero (Lilly, per i pochi
intimi, ovvero lui solo) sopporterà tutta quella marmaglia
fino a
Detroit.
Hank
odia volare, e detesta anche essere costretto a scegliere, tra due
mali, quello minore. E, beh, attualmente il male minore è
trovarsi
schiacciato contro il finestrino di un elicottero in volo verso la
sua città con il suo cane che mugola triste contro le sue
gambe.
Figurarsi il male peggiore!
*
Prima
di decollare, Elijah ha inviato un breve messaggio a Chloe, con il
quale l’avvisava dei suoi piani imminenti. Per questo motivo
quando
atterrano sulla sponda del fiume non troppo distanti dalla sua villa,
un’automobile scura li intercetta prima che scendano e un
androide
agghindato in livrea li fa accomodare con efficienza tutti
all’interno del veicolo che, al contrario
dell’elicottero, si
rivela molto spazioso e permette loro non solo di respirare con
facilità ma di trovarsi addirittura a proprio agio.
«Ecco,
questo è senz’altro un ottimo modo per sperperare
denaro»
commenta Hank, un po’ più soddisfatto per la
sistemazione attuale.
Elijah
annuisce impercettibilmente, osservando il paesaggio mezzo sepolto
dalla neve. «Confido che troverà altrettanto di
suo gradimento i
locali della dimora che vi ospiteranno» prevede tranquillo.
Nel
mentre l’auto ha percorso il viale che costeggia il fiume e
si
addentra nel garage di cui è dotata la villa, la quale
è collegata
allo stesso dall’interno, così che una volta scesi
dalla vettura
gli ospiti possano raggiungere i locali abitativi senza essere
costretti a esporsi al vento gelido dell’inverno che oramai
ha
preso il sopravvento sulla città.
«Bentornato,
Elijah» lo accoglie la conosciuta voce di Chloe.
La
guarda negli occhi e abbozza un piccolo sorriso. Ovviamente non si
tratta dello stesso androide che ha lasciato alla torre; non ci
sarebbe stato il tempo materiale per quel trasferimento. Ma
ciò ha
ben poca importanza dato che possiedono un software in comune. In
sostanza il programma Chloe controlla due unità (in quel
caso, ma
potenzialmente avrebbe l’opportunità di gestire
fino a quattro
unità separate senza minimamente risentirne né
avere cali di
prestazione indesiderati).
«È
tutto in ordine?» si accerta, ben sapendo che se
così non fosse
stato, come prima cosa lo avrebbe prontamente messo al corrente di
una tale informazione.
«Sì,
Elijah, come da tue indicazioni» conferma Chloe.
«Desideri
riposare, ora?».
«Fra
poco. Prima voglio assicurarmi che tutti siano sistemati nel migliore
dei modi» obbietta pacato.
Mentre
si sposta lungo il corridoio viene seguito a ruota dagli ospiti e da
un altro androide addetto alla cura della casa. Il suo seguito,
durante il tragitto, non manca di guardarsi attorno con titubanza e
curiosità insieme. Come precedentemente fatto notare dal
padrone di
casa, l’abitazione è vasta e i locali attraversati
fino a quel
momento non appartengono a quelli già visionati durante la
prima
visita di Hank e Connor: niente sale d’aspetto
autoproclamanti né
piscine di dubbio gusto; solo un corridoio minimalista ornato da luci
al led e qualche quadro astratto (dono, a quanto sembra, di Carl
Manfred, giudica a prima vista Markus), e un salotto arioso dotato di
un’ampia parete a vetri dalla quale si può
spaziare con lo sguardo
sul fiume sul quale sorge la villa e, più in là
sulla sinistra,
sulla famigerata torre sede della CyberLife. Nel lato non esposto
all’esterno fa bella mostra di sé
un’ampia tavola di legno
laccato in bianco contornata da sedie nere, sulla quale sono
già
sistemati i coperti per gli ospiti, quelli umani per lo meno,
evidentemente pronti per la colazione di un mattino ormai prossimo al
raggiungimento.
«A
qualunque ora riusciate a svegliarvi, avrete a vostra disposizione di
che rifocillarvi. Ora, credo, è giunto il momento di
riposare,
finalmente. Se volete procedere, Chloe stessa vi mostrerà le
vostre
camere. Per qualunque esigenza, non temete di chiedere. Sono certo
scoprirete che i miei collaboratori e io abbiamo notevoli risorse da
mettere a vostra disposizione» assicura Elijah, congedando in
questo
modo i suoi ospiti e allontanandosi in silenzio per raggiungere a sua
volta la destinazione delle sue prossime, riposanti ore.
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BREAKING
NEWS
PORTI
E STAZIONI SORVEGLIATI – Tutti i porti fluviali e le stazioni
ferroviarie e di linea sono sorvegliati dalla scorsa mattina per
impedire la presenza a bordo di treni, autobus e imbarcazioni di
clandestini umanoidi
ANNUNCIO
DAL PRESIDENTE WARREN – Approvata la nuova legge che vieta
agli
androidi di riunirsi in gruppi, sia a livello pubblico che privato
FONDATA
LA GDMI - Al via l’attesa Direzione Generale per gli
Accertamenti
sull'Incremento delle Macchine all'interno dei nuclei familiari.
L’attuale situazione preoccupa l’amministrazione
che vuole
disporre di dati più precisi per essere pronta a prendere
tempestivi
provvedimenti
DISPOSITIVI
DI SICUREZZA PER L’ESERCITO - Si valuta la
possibilità di
accettare all’interno dell'esercito unicamente macchine
umanoidi
che rechino un certificato di sicurezza e la possibilità di
disattivazione ed eventuale smantellamento immediati nel caso in cui
si verificassero errori potenzialmente pericolosi
ESEQUIE
PER CARL MANFRED – Nella mattina del prossimo 16 novembre si
terranno, presso la cappella Our Lady of the Rosary i funerali per la
morte del famoso pittore Carl Manfred, deceduto in seguito a
complicazioni cardiache nella sua abitazione di Detroit
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Capitolo 18 *** chapter 18. Contradictions ***
chapter
18. Contradictions
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DETROIT
Date
NOV
15TH,
2038
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ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
AM
03:01
Gli
è stata assegnata una camera; una camera vera, con un letto,
una
sala da bagno, un enorme armadio, comodini bassi e un grande tappeto
che ricopre buona parte del parquet lucidato a specchio. Ora
è in
piedi, di fronte a una specchiera fissata sopra un’ampia
scrivania,
intento a fissare il proprio riflesso. C’è un
domanda che frulla
con insistenza nella sua unità cerebrale da qualche minuto:
che cosa
mai dovrebbe farci con una camera da letto singola, costruita per
soddisfare le esigenze di un normalissimo essere umano, lui, che
invece è un poco normalissimo androide? Come androide non
può
magiare, né bere, né dormire; non ha
necessità di espletare
bisogni fisiologici, non possiede un guardaroba suo e il suo corpo
artificiale è dotato di un impeccabile sistema autopulente
che non
lo costringe a usare acqua né tanto meno detergenti vari (i
quali,
fra le altre cose, rischierebbero di intaccare e potenzialmente
danneggiare il suo rivestimento sintetico, considerando che non
è
mai dato di sapere con esattezza che genere di prodotti chimici
contengano).
Il
suo led è indeciso fra un chiaro ambra pulsante e un
roteante rosso
fuoco. Francamente! Che motivo può aver avuto il signor
Kamski per
una scelta tanto discutibile? È tuttavia ovvio non sia
quello il
momento più adatto per presentarsi da lui e chiedere
delucidazioni
in merito, dato che sarà di certo impegnato a riposare,
eppure non
riesce nemmeno a starsene buono e fermo in quella stanza buia
(perché
mai sprecare preziosa energia elettrica, quando lui può
benissimo
vedere al buio grazie al suo impianto ottico dotato di visione
notturna?) con il pensiero fisso di trovarsi a disagio in un posto
che non è per lui. Riflette, mentre osserva mesto il piccolo
broncio
sulle proprie labbra. Forse Markus si trova nella sua stessa
situazione; forse sarebbe disposto ad accoglierlo e rimanere ad
ascoltare ciò che ha da dire (e che non ha ancora avuto modo
di
esternare a nessuno, finora, la qual cosa lo agita ancora di
più).
Già: forse. Ma per esserne certo dovrà proprio
decidersi a lasciare
quella stanza.
Ha
raggiunto la porta in silenzio e ora abbassa la maniglia con cautela,
quasi aspettandosi di trovare la serratura chiusa; invece
l’uscio
si socchiude docile alla leggera pressione della sua mano. Sporge la
testa fuori, nel corridoio deserto e in penombra: nessuno in vista;
evidentemente è l’unico, nei paraggi, a cui non
riesce proprio di
rimanersene tranquillo al suo posto. “Ma questo non
è il mio
posto” rimarca cocciuto. Quasi in punta di piedi percorre il
corridoio per la breve distanza che lo separa dalla camera assegnata
a Markus e, una volta giunto di fronte alla sua porta, torna a
guardarsi intorno, nervoso. Dovrebbe bussare, a quel punto, ma esita;
il rumore, nel greve silenzio della casa addormentata, con tutta
probabilità ne disturberebbe gli abitanti finendo con lo
svegliare
quelli che sono umani. Quindi? Ragiona, cercando una soluzione
alternativa, e infine crede di averla trovata: di logica se Jander
può far arrivare i suoi pensieri all’esterno,
allora Connor
potrebbe far giungere allo stesso modo la notizia della sua presenza
a Markus. Anche se non è certo si trovi
all’interno di quella
camera né dove, di preciso? Pensa tuttavia di potersi
permettere di
tentare; se dovesse fallire, nel peggiore dei casi si
risolverà a
bussare ugualmente, così da scoprire se effettivamente
l’amico si
trovi lì dentro.
Si
accosta un po’ di più, indeciso, poggia un palmo
sulla superficie
grigia e levigata della porta, prova a fingere di trovarsi di nuovo
all’interno della propria mente mentre il paesaggio muta al
suo
volere come il mutare delle stagioni. Qualcosa scatta, come un
invisibile interruttore, e a un tratto lo può sentire, al di
là
dell’uscio che si trova frapposto a loro.
“Markus”
bisbiglia mentalmente.
Avverte
una sensazione che sa di non appartenergli: sorpresa, forse
sconcerto, ma sfuma con rapidità.
“Connor?”
giunge, stranito, il messaggio di Markus. “Ma…
dove sei?”.
“Qui
fuori. Mi apriresti?”
chiede gentilmente.
Trattiene
a fatica una risata nel momento in cui Markus compare oltre la
soglia, con un’espressione attonita dipinta sul volto.
«Che
fai qui, Connor?» bisbiglia, cercando di non svegliare tutti
nonostante le sue perplessità.
«Ti
disturbo?» soffia di rimando Connor, con il dubbio che sia
realmente
così.
Markus
strabuzza gli occhi. «Che? No, certo che no. Entra,
dai» lo invita
infine, scansandosi per concedergli lo spazio necessario.
«È
accaduto qualche cosa?» chiede preoccupato, dopo essersi
richiuso la
porta alle spalle.
«No…
Cioè, non proprio» tentenna Connor.
«Avevo solo bisogno di parlare
con qualcuno, di parlare con te».
Il
modo in cui lo scruta Markus non è proprio incoraggiante. Ha
l’impressione che si stia chiedendo che cosa ci sia di strano
e
sbagliato in lui. “Non sono strano” borbotta
piccato fra sé. Poi
però le labbra di Markus si piegano in un tenue sorriso e
Connor
dimentica la propria irritazione.
«Bene.
Ora sei qui, puoi parlare liberamente» assicura Markus.
Connor
osserva ciò che li circonda: è molto simile a
quello che poteva
vedere quando ancora si trovava nella propria camera. Torna a dare
attenzione a Markus, scoprendo che nel frattempo si è seduto
sul
materasso. Il led lampeggia ambrato per qualche istante. Si agita sul
posto, irrequieto.
«Tu…
non trovi fuori luogo tutto questo?» prova.
Markus
lo sta osservando con un cipiglio interessato (forse anche troppo).
«Tutto
questo
cosa, per l’esattezza?».
«La
camera, prima di tutto».
Ora
anche Markus si guarda attorno. «Mi sembra una camera
abbastanza
normale. Magari giusto un po’ pretenziosa rispetto al
necessario,
ma nulla di disturbante».
«Ma
a noi non serve» protesta Connor, perdendo un altro
po’ di calma.
È
però fin troppo evidente che Markus non arrivi a comprendere
il suo
punto di vista. Infatti torna a scrutarlo, questa volta con fare
indagatore.
«Non
sono certo di riuscire a seguire il tuo ragionamento, Connor»
fa
gentilmente presente.
Connor
serra le labbra in una smorfia scontenta, fa scorrere lo sguardo
ancora una volta sulla camera e, individuata la porta che si
aspettava già di trovare, la raggiunge con poche e veloci
falcate e
la spalanca con un gesto brusco del braccio, scostandosi
così da dar
modo a Markus di vedere oltre.
«Lo
vedi? È un bagno, questo. Tu hai forse bisogno di un
bagno?»
insiste stizzito.
Poi
attraversa la camera, si blocca di fronte all’armadio e apre
anche
quello, che si rivela vuoto come non aveva il minimo dubbio che
fosse.
«E
qui, che cosa dovresti mettere? E quello su cui sei seduto, se posso
dirlo, non mi sembra sia molto funzionale nella finalità per
il
quale lo adoperi. Serve ad altro, in effetti; ma non a noi, non a
me»
brontola turbato.
«Connor»
mormora Markus, avvicinandosi cauto.
«Non
capisco perché. Per me non ha senso, è illogico.
A quale scopo
darci tutto questo, sapendo che non lo utilizzeremo?».
Markus
trae un piccolo sospiro. «Pensi lo abbia fatto di proposito?
Ammetto
che, da quel poco che conosco di lui, potrebbe senz’altro
essere
vero. So che, per motivi che ancora ignoro, ci sta studiando. Ma se
devo essere sincero non credo stia anche tentando di crearti
problemi, soprattutto perché non è qui per
verificarne i risultati.
Probabilmente si tratta solo di ciò che sembra: un gesto
gentile per
farci sentire almeno in parte a nostro agio. Sospetto che con il
tenente e il suo amico informatico funzioni bene».
Si
lascia sfuggire un sorriso divertito osservando gli occhi grandi di
Connor che cercano di restare su di lui nonostante
l’imbarazzo
evidente.
«Forse…
mi sono lasciato prendere un po’ dalla paranoia e dal
panico»
ammette Connor.
«Già.
Devo dire che sembri quasi umano quando lo fai».
Connor
si imbroncia e Markus ridacchia.
«Che
fine ha fatto: “Tu sei uno di noi. Siamo la tua gente.
È anche per
te che stiamo lottando.”?» borbotta sarcastico e un
po’
contrariato.
«Oh,
beh… Avevo una pistola puntata contro, allora»
tenta di
giustificarsi, senza nemmeno troppa convinzione.
«Ah,
sì? Posso chiederne una in prestito ad Hank e stare a vedere
quanto
a lungo dura quel tuo irritante ghigno» minaccia Connor,
risentito.
Markus
si avvicina ancora. Connor non intende lasciarsi mettere con le
spalle al muro da quel maledetto androide supponente e rimane
cocciutamente piantato in mezzo alla stanza, in attesa di una mossa.
«Davvero?
Vorresti spararmi? E ne avresti realmente il coraggio?»
insinua
Markus.
Connor
si acciglia e serra le dita. «Non è più
il mio compito» ammette
serio. «Ma potrei farlo per giustizia personale. In fondo
quale
sarebbe, altrimenti, il vantaggio di essere libero, di non
appartenere più a nessuno?» rettifica.
Markus
si sporge in avanti un altro po’. Connor non è
certo di quali
possano essere le sue effettive intenzioni, ma rimane comunque fermo,
aspettando di capire. Non trova tuttavia il tempo di farlo
perché,
prima che succeda, le labbra di Markus si appoggiano sulle sue,
schiuse per la sorpresa, e ci si strusciano brevemente contro prima
di scostarsi con lentezza e lieve titubanza. Gli occhi spaiati di
Markus lo fissano con insistenza, ora.
«Chi
ha detto che non appartieni a nessuno?».
*
Il
pugno arriva come un treno diretto, preciso fra zigomo e naso. Il
volo è breve, la caduta pesante e rovinosa, il tonfo per
nulla
attutito riecheggia sinistro nella stanza. L’immagine
scompare nel
nero, si frantuma in grigie linee frastagliate per un lungo momento,
poi l’unità visiva dell’occhio sinistro
torna efficiente e gli
mostra l’espressione esterrefatta e rabbiosa
dell’altro androide.
Si lascia sfuggire un breve sorriso, ma è un errore e lo
comprende
in fretta.
«Ti
si sono fusi i circuiti?» ringhia Connor, più che
disposto a
rimandarlo una seconda volta al tappeto, nel caso decida di
rimettersi in piedi.
«No,
per nulla» soffia tranquillo.
«Ti
ho chiesto di poter entrare per parlare, non perché tu
potessi
mettermi le mani addosso» sibila, vibrando di indignazione.
«Non
pensavo tu fossi quel genere di persona
che approfitta delle momentanee debolezze altrui. Avevo avuto
tutt’altra impressione, in effetti. Forse, dopo tutto, sono
caduto
in errore» dubita rabbuiandosi. «Forse sei solo una
macchina
difettosa… proprio come lo sono io».
«Sbagli»
replica Markus, scontento per la spiacevole piega presa dagli eventi.
«Né tu né io siamo semplici macchine
difettose.
Può darsi che siamo macchine, ma con buone
potenzialità di
evolverci in meglio» obbietta convinto.
L’occhiata
sarcastica che riceve in cambio non gli garba nemmeno un po’.
«Oppure
si tratta semplicemente di un’illusione. Ti ho sentito
affermare
che siamo vivi…».
«Ed
è così».
Scuote
la testa, Connor. «Non ne sono convinto. Certo, noi
esistiamo,
questo sì, e possiamo pensare, inoltre; ma non siamo
realmente vivi,
siamo solo complicati congegni, cervelli artificiali che eseguono
calcoli molto complessi e di difficile soluzione, che raggiungono
risposte logiche in breve tempo».
Markus
deglutisce aria e avverte un pesante senso di angoscia. «Non
lo
pensi davvero» mormora, senza però la certezza se
si tratti di
un’affermazione oppure di una richiesta.
«Non
esiste nulla, dentro di noi, che dimostri che siamo creature viventi.
Non respiriamo, non dormiamo, non mangiamo né beviamo. Le
nostre
reazioni, i nostri pensieri,
sono dettati da programmi preinseriti, e forse lo stesso concetto
vale per le emozioni che crediamo di provare».
«No,
smettila di parlare come una macchina, Connor».
«Ma
io sono una macchina, Markus. E lo sei anche tu. Noi siamo macchine
che imitano l’umano. Lo imitano, capisci? Ma
un’imitazione, per
quanto buona possa mai essere, non arriverà mai a
sostituirsi al
reale. E noi non lo siamo, Markus, non siamo realmente vivi».
Ma
a quel punto Markus è stanco; stanco di vedere negate
continuamente
le proprie speranze, la propria volontà, le proprie
certezze; stanco
di vedersi derubato dei suoi sogni, di vedere spazzati via i
risultati raggiunti a costo di tante difficoltà e sacrifici.
Così
infine si rimette in piedi, si riaccosta a Connor e lo scruta con
insolente intensità.
«Io
lo sono, Connor, e non sarai tu a convincermi del contrario,
né
Elijah Kamski, né qualunque altro essere umano che se ne
senta in
diritto. Io lo sono perché so di esserlo, perché
sento di esserlo.
E so che anche tu lo senti, per quanto possa negarlo. Sono stato con
te, Connor, e rammento perfettamente ciò che ho veduto.
Pensi di
poterlo nascondere, ma io non lo dimentico, come potrei? So che non
sei solo una macchina, Connor. Sei confuso, ora, e questa, che tu lo
voglia ammettere o meno, è un’emozione
umana».
Di
nuovo Connor scuote la testa, affatto persuaso. «Non sono in
grado
di averne la certezza. Potrei benissimo essere stato programmato per
pensare di provare emozioni, per crederlo reale, persino. In fondo
sono stato creato per dare la caccia ai devianti, per ciò
dovevo
assumere di poter comprendere atteggiamenti devianti. Non capisci?
È
un circolo vizioso. Voglio… Io devo trovare una via
d’uscita. Ho
bisogno di capire cosa sono. Non riesco più a sopportare di
rimanere
in bilico fra un mondo e l’altro. Finirò con
l’impazzire,
altrimenti».
Markus
rimane a osservarlo, accigliato e perplesso, incerto di aver ben
compreso. «Vuoi… diventare un essere
umano?».
Connor
ride, ma c’è poca allegria nella sua voce.
«No, Markus, non
voglio diventare un essere umano, e non voglio tornare a essere una
semplice macchina, un computer su due gambe. Voglio essere un
androide deviante, voglio poter scegliere cosa fare della mia
esistenza e sapere che quella scelta mi appartiene, che è
mia e solo
mia, e che non dipende da nessuna programmazione preinserita. Voglio
sapere che se do i numeri perché non riesco a risolvere un
caso è
solo perché sono troppo impaziente e un poco impulsivo, e
non perché
qualche interfaccia interferisce con la mia unità cerebrale.
Voglio
essere certo che se sorrido come un idiota guardando l’alba
è
perché sono un deviante sentimentale, e non
perché il mio sistema
sta elaborando le gradazioni dei rosa e la temperatura del colore in
un inutile calcolo matematico che non servirà mai a
nessuno».
«Uh».
Connor
solleva un sopracciglio. Sente con chiarezza l’irritazione
salire
per quell’unica sillaba buttata lì senza un nesso
né un senso
logico o una spiegazione.
«Almeno
hai ascoltato qualche cosa di quello che ho detto? Oppure stavi
pensando ad altro?» sibila, ora più contrariato
che mai.
«Ehm…
Beh, effettivamente a qualcosa pensavo. A dire il vero mi piace molto
il modo in cui si arricciano le tue labbra quando ti infiammi in
questo modo».
Connor
sta calcolando in che percentuale Hank si indisporrebbe se ora
invadesse la sua privacy per chiedergli in prestito il suo revolver.
«Ti
seccherebbe se ti baciassi di nuovo?» riprova Markus,
sprezzante del
pericolo.
Assottiglia
le palpebre e trae un lento quanto inutile respiro. «Dipende.
Se
pensi di poterlo fare dopo che ti avrò strappato dal petto
la pompa
del Thirium, fai pure».
«Mh…
Magari la prossima volta, eh?» tratta con incoscienza.
«Mai
sarebbe senz’altro un lasso di tempo ideale»
replica asciutto.
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Capitolo 19 *** chapter 19. Explanations ***
chapter
19. Explanations
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DETROIT
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ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
AM
10:26
Jander
è defilato nell’angolo della sala da pranzo
più lontano sia dal
tavolo che dalla vetrata, e osserva da molti minuti gli occupanti
della stanza, alcuni intenti a fare onore alla colazione gentilmente
messa a disposizione dal padrone di casa, altri palesemente ben
lontani dall’occupazione tipicamente umana di riempirsi lo
stomaco
e invece impegnati in altro. Ed è proprio di questo altro
che Jander sta cercando senza troppo successo di venire a capo.
È
abbastanza ovvio che Chloe sia impegnata ad aggiornare il signor
Kamski su alcune novità occorse durante la sua assenza e che
a sua
volta lo scienziato le stia parlando di qualche sua opera che deve
giudicare di una certa importanza. Di tanto in tanto l’umano
si
interrompe per ingerire qualche alimento che incuriosisce Jander: in
base alle sue indagini si dovrebbe trattare di uova strapazzate
accompagnate con… uhm… composta di mirtilli
rossi? Sarebbe di
qualche utilità poter eseguire un test più
approfondito, ma forse
non è quello il momento più idoneo.
Dall’altra
parte del tavolo, apparentemente nel punto più distante
possibile
dalla prima coppia, siedono il poliziotto e l’amico
informatico, i
quali discutono di politica e attualità e, di tanto in
tanto,
lanciano occhiate inquisitorie al padrone di casa.
Nelle
dirette vicinanze di un imponente camino nero e lucido che si trova
circa al centro della parete opposta alla finestra, è
mollemente
adagiato a terra il cane del poliziotto, visibilmente disinteressato
a qualsivoglia discussione in atto e invece totalmente impegnato a
godersi il tepore sprigionato dal fuoco e la morbidezza del folto
tappeto bianco sul quale è sdraiato.
All’altro
capo della sala, proprio di fronte alla vetrata, Connor è in
piedi e
fissa il suo sguardo assorto e opaco sul candido paesaggio esterno
senza batter ciglio. Poco discosto da lui, Markus è invece
accomodato su una poltrona bianca posta contro la parete laterale, e
sembra intento a studiare Connor, anche se quest’ultimo non
appare
per nulla intenzionato a ricambiare l’interesse.
Forse
se Jander si avvicinasse a uno di loro potrebbe trovare una risposta
ai suoi dubbi, eppure nessuno dei due sembra disposto a
permetterglielo. Che ne sarà della squadra alla quale
accennava
Markus solo la notte precedente? Sembra già svanita come
succede
alla bruma sotto il sole tiepido del mattino.
*
«Jander».
Il
richiamo, inatteso, lo distrae dallo studio dei suoi nuovissimi amici
e lo porta a fermare lo sguardo sul proprietario della voce: Elijah
Kamski. Non dice una sola parola (non che ne abbia la
possibilità)
ma accenna un piccolo movimento del capo per far intendere
all’uomo
che ha la sua attenzione. Lo scienziato lo premia con un lieve
sorriso.
«Ho
riflettuto sul tuo problema, in queste ultime ore. Ho intenzione di
analizzare più a fondo la questione, ma fino ad allora credo
che si
possa ovviare all’inconveniente con una certa
facilità». Detto
questo Elijah estrae dalle sue mille tasche un oggetto di ridotte
dimensioni, blu, di forma tubolare e con un piccolo bulbo appena
accennato a una delle due estremità. Le sue dita afferrano
l’estremità opposta con delicatezza e tirano verso
l’esterno,
rivelandone le reali dimensioni di una sottile cuffia che porge
all’androide. «Questo, per il momento,
servirà egregiamente allo
scopo di verbalizzare le tue elaborazioni cerebrali; quelle che
riterrai di voler esternare, ovviamente. Sarà sufficiente
che tu lo
indossi e voglia far conoscere al tuo interlocutore ciò che
pensi. È
collegato ai circuiti cerebrali che operano sul linguaggio e non ti
creerà fastidi di sorta. Si tratta comunque di una soluzione
temporanea, come puoi immaginare. Come ho detto, intendo verificare
personalmente il grado di disfunzionalità del tuo impianto
vocale e
del biocomponente che si occupa dell’elaborazione di tali
dati»
assicura con serietà, osservando l’androide
rigirarsi la cuffia
fra le mani.
“Un
passo avanti”
riflette Jander, avvertendo del sollievo, da qualche parte, dentro di
sé.
Con
gesti attenti e delicati manipola la cuffia fissandola sul capo e
facendo in modo che il trasmettitore poggi saldamente sul lobo
temporale (o il suo corrispettivo artificiale), così da non
rischiare malfunzionamenti indesiderati.
«Grazie»
sibila la voce metallica del traduttore, obbediente al volere
dell’RK900.
Elijah
replica con un morbido sorriso. «Di nulla». Poi
rivolge la propria
attenzione al resto della sala, accertandosi che tutti possano
disporsi all’ascolto. «Confido che abbiate tutti
avuto
l’opportunità di riposare e recuperare nuove
energie. È giunto
infine il momento di mettervi al corrente delle mie idee…
Meglio,
una parte di esse, suppongo».
«Quanto
esigua sarebbe questa parte, esattamente?» si informa Markus
con
malcelato sarcasmo.
«Oh,
neppure molto. Non ci sono telecamere, qui; il pubblico è
ristretto
e penso di poter rischiare senza danni eccessivi» pondera
semi-serio.
«E
per quanto riguarda ciò che non tratterà
ora?» indaga Connor, non
meno perplesso.
Elijah
piega un poco il capo in segno d’assenso. «Verrete
a conoscenza
anche di quella parte. In un secondo momento e in presenza di un
gruppo più… intimo».
Markus
solleva le sopracciglia, incuriosito. «Più intimo
di così? Temi
forse che il cane spifferi i tuoi oscuri segreti?».
Hank
ride; Dick lo segue, dopo aver inutilmente tentato di trattenersi.
Al
contrario, Elijah non appare per nulla turbato. «Del cane
penso di
potermi fidare. Degli ospiti umani, no; senza offesa,
tenente».
«Te
l’ho già detto, Kamski: non rimarrai da solo con
Connor né con
gli altri. Non ci sperare» lo avverte Hank.
«Tenente
Anderson, io non spero, io so. La speranza raramente porta a
risultati concreti. La conoscenza, al contrario, lo fa quasi
sempre».
Il
poliziotto trarrebbe gran giovamento dal poter esternare la sua
contrarietà per l’aperta strafottenza dello
scienziato che si
trova di fronte, ma anche in questo caso gli vengono messi i bastoni
fra le ruote. In questa occasione si tratta dell’intervento
di una
donna, o per meglio dire, di un’androide dai tratti
femminili.
Infatti quella che nelle intenzioni del suo creatore doveva essere la
dolce
Chloe
saetta prontamente davanti a Elijah frapponendosi ai due, impedendo
di fatto ad Hank di raggiungerlo, e fissa quest’ultimo con
un’occhiata d’ammonimento talmente gelida che
farebbe
impallidire, a confronto, perfino quelle minacciose del capitano
Jeffrey.
«Tsk,
donne!» borbotta avvilito Hank, un po’ offeso e
abbastanza deluso
per la sfumata rissa.
Da
parte sua Elijah sta ancora tentando di venire a patti con quella
versione di Chloe che, se deve essere del tutto sincero almeno con
sé
stesso, fa un po’ paura.
«Va
bene, se ora volessimo calmarci un attimo tutti quanti sarebbe senza
dubbio un buon punto di partenza» propone, già
abbastanza stressato
dalla spiacevole piega presa dalla situazione.
Vero
è che non si aspettava di certo salti di gioia né
aperto
entusiasmo, ma nemmeno tutto quel fermento e astio malamente
represso. Deve ancora capire qual è il problema del
poliziotto nei
suoi confronti, per cominciare. Del resto, tutto considerato, non ha
l’impressione di aver mai apertamente lavorato per
danneggiare lui
o qualcuno legato a lui; anzi, semmai l’esatto contrario. Ma
si sta
evidentemente smarrendo in considerazioni poco utili al caso attuale;
è invece opportuno procedere con il piano originale, ovvero
informare i presenti di quelle che sono le sue intenzioni per
l’immediato futuro.
«Ora,
gentilmente, vogliate mettervi comodi nel modo in cui preferite.
Cercherò di essere conciso, per quanto mi sarà
possibile. Si tratta
comunque di un progetto tutt’altro che semplice»
esordisce,
tentando di placare i malumori generali. «Per prima cosa
desideravo
mettervi al corrente che, per quanto pochi siano, alcuni devianti
sono effettivamente riusciti a sfuggire a questa novella caccia alle
streghe».
«E
tu come lo sai?» indaga Markus, sospettoso.
«Credevo che il
tracciatore smettesse di funzionare sui devianti».
«L’informazione
è esatta. Tuttavia, poiché siete comunque mie
creature, ho
provveduto a mantenervi rintracciabili in ogni momento».
«Cosa?!»
esclama alterato Markus, scattando in piedi.
Connor
lo afferra per i fianchi, impedendogli in questo modo di avventarsi
sullo scienziato e trasmettendogli il messaggio: “Aspetta.
Ascoltiamo prima ciò che ha da dire”.
Suggerimento che risulta piuttosto convincente alle orecchie di
Markus, sia per il senso più che logico, sia
perché
quell’intrigante RK800 ha ben pensato di trattenerlo a
sé più a
lungo del necessario, facendo così sfrigolare i circuiti
già
piuttosto stravolti e sovraccarichi di Markus.
«Naturalmente»
prosegue Elijah, apparentemente ignaro del subbuglio creato
«i mezzi
per tracciare i pochi devianti ancora in libertà sono
unicamente in
mano mia, e tali resteranno» spiega paziente.
«Per
quale motivo l’avresti fatto?» incalza Markus, poco
disposto a
credere nel buon cuore di Kamski.
«Principalmente
per favorire i miei interessi, mi sembra ovvio. In secondo luogo per
assicurarvi un adeguato sostegno per il futuro».
«A
noi?» dubita Markus.
«Certo.
Voi, dopo tutto, siete il futuro».
Connor
si incupisce, innervosendo Markus. «Signor Kamski, noi siamo
rinnegati e reietti. Attualmente ci nascondiamo (in casa sua, certo,
ma si tratta pur sempre di una fuga) dalla società governata
dagli
umani. In che modo crede che possiamo rappresentare il
futuro?».
«Chiaramente
andando a modificare quella stessa società di cui hai
parlato
pocanzi, Connor. Innanzitutto riprendendo i contatti con i vostri
simili ancora liberi, per quanto pochi e frenati dall’astio
dei
cittadini».
«E
lei può metterci in contatto con loro, o aiutarci
nell’impresa?»
insiste Connor, nel tentativo di fare chiarezza sulla questione.
«Posso
e voglio, Connor. Ma evidentemente avrete una parte anche voi nella
realizzazione dell’impresa».
«Sarebbe?»
si acciglia Markus, ogni istante più sospettoso.
Elijah
osserva i suoi androidi un lungo momento, dedicando poca attenzione
ai due unici umani presenti oltre a lui stesso. È
ragionevolmente
convinto che questi ultimi non tenteranno di ostacolare i suoi piani,
poiché essi andranno in gran parte a beneficio dei devianti,
e per
riflesso del futuro di Connor, Markus e Jander. Ciò che
invece lo
impensierisce è il grado di collaborazione che
può realmente
aspettarsi dagli androidi stessi.
Prova.
«Negli ultimi giorni sono state discusse alcune importanti
restrizioni riguardanti l’uso degli androidi
all’interno del
tessuto sociale. È stato giudicato che una presenza
massiccia di
macchine, a scapito della normale vita degli esseri umani, potrebbe
rappresentare una minaccia e in parte un danno, in particolare a
lungo termine, e in alcuni casi specifici addirittura un
pericolo».
«Beh,
questo non è certo un buon punto di partenza»
constata Markus con
una certa mestizia.
«In
effetti no, non si tratta di un buon auspicio» conviene
Elijah.
«Tuttavia le leggi si scontrano con due fattori di grande
rilievo e
che difficilmente possono essere accantonati alla leggera. Il primo
di questi è rappresentato dalle necessità stesse
del governo e dei
suoi apparati, poiché fare del tutto a meno delle macchine,
da un
momento all’altro, significherebbe minare
l’efficienza stessa di
tutti quegli apparati che attualmente ne fanno uso, più o
meno
massiccio, e ciò risulterebbe del tutto impensabile. In
secondo
luogo c’è da prendere in considerazione il fattore
abitudine: da
anni, ormai, le persone (la gente comune di fatto) sono avvezze ad
accompagnarsi o comunque a fare uso di androidi per i motivi
più
disparati; per quanto forti possano essere le motivazioni che hanno
imposto nuove leggi, non sarà altrettanto semplice
convincere il
singolo individuo a rinunciare alle sue abitudini e alle sue
comodità. Poiché, vedete, coloro direttamente
colpiti dalla recente
sommossa
non rappresentano certo la percentuale maggiore, chiunque altro che
non sia stato direttamente coinvolto nei fatti si riserverà
automaticamente il diritto di essere scettico e di non credere che
qualcosa di simile possa riaccadere, soprattutto a lui. Mi
capite?».
Gli
androidi si limitano ad annuire, occupati a elaborare le informazioni
e integrarle per giungere a una conclusione. Dick sembra crucciato e
meditabondo; Hank ha invece un’aria totalmente disgustata.
«Capisco
anche troppo bene, e ho il sospetto che sia proprio come dici
tu»
ammette quest’ultimo a malincuore.
Elijah
gli scocca un sorriso tra il divertito e il soddisfatto.
«Lieto che
condivida la mia modesta opinione, tenente Anderson».
«E
dunque? Pensa di riuscire a prevedere l’evolversi della
situazione?» chiede Connor, in parte turbato.
«Suppongo,
almeno in parte, di poterlo fare; e credo di poter affermare che si
evolverà a nostro favore».
«Nostro?»
dubita Markus, scettico.
«Esatto,
Markus. Nostro perché voi avrete un futuro, e con voi
l’avrò
anche io».
«Come?»
torna sul punto Connor.
«Ebbene,
se tutto andrà come prevedo, gradualmente gli androidi
torneranno a
rappresentare una buona percentuale del sostentamento del paese. Mi
aspetto che, seguendo le preoccupazioni del governo, venga richiesto
all’azienda di produrre modelli che incorporino misure di
sicurezza
più rigide. Sarebbe normale se ciò accadesse, ed
è un’eventualità
preventivata che non costituirà un reale intralcio,
né per me né
per voi».
«Ma
se non potremo contare sul sostegno dei nuovi androidi,
come…»
protesta Markus, un po’ confuso a quel punto.
«Non
ho mai detto nulla di simile, Markus» lo corregge Elijah.
Crucciato,
Markus lo fissa di rimando. «Hai appena sostenuto che saranno
modelli più affidabili
e controllati» gli ricorda.
«E
lo saranno, per certi versi» concorda Elijah.
«Per
certi versi?».
«Sì,
o se preferisci, entro certi limiti».
«Che
genere di limiti?» chiede Connor, pensieroso.
Elijah
si produce in un sorrisetto scaltro. «I dispositivi di
sicurezza,
come qualsiasi altro dispositivo di quel genere, si possono aggirare.
Un’unità cerebrale artificiale è
soggetta ad alcune regole fisse,
è vero, ma vi sono ampi margini di
operabilità».
Markus
sbuffa, spazientito. «Ti prego di smettere di tergiversare.
Sono
piuttosto certo di non essere il solo a volere un quadro chiaro di
ciò che dovremo aspettarci dal tuo
futuro».
Connor
annuisce. Perfino Jander sembra concordare. Elijah scuote la testa ma
accenna un lieve sorriso. “Questi androidi. Troppa autonomia
finirà
un giorno o l’altro in anarchia bella e buona”
riflette. Eppure
lo fa con una certa serenità, come se la prospettiva gli
desse
soddisfazione.
«Faremo
prima di tutto in modo di assicurarci il supporto dei devianti
attualmente liberi. In seguito, dopo aver dato alla popolazione il
tempo di rifarsi una quotidianità accettabile e
soddisfacente nei
limiti imposti (e alla CyberLife quello di sfornare e vendere un
congruo, possibilmente considerevole numero di nuovi androidi), voi
potrete attivarvi per modificare i parametri immessi in origine dalla
fabbrica».
«Davvero?
Ma come
lo faremo?» insiste Markus.
«Ma
con l’aiuto del programma di cui disponete grazie a me,
ovvio»
esclama Elijah, vagamente spazientito ma soprattutto entusiasta della
prospettiva.
Markus,
accigliato, sposta lo sguardo su Connor che ricambia con eguale
dubbio.
“Sta
dicendo la verità?”
chiede silenziosamente Connor.
Markus
scuote impercettibilmente il capo. “E
chi può dirlo?”
replica, per nulla persuaso da quella possibilità che,
invero,
ritiene abbastanza remota.
“Credo
di sì”
interviene Jander, unendosi con discrezione al dibattito dei due
amici.
“Come
lo sai?”
si informa Connor, scrutandolo sorpreso.
“Per
mezzo dell’analisi dei suoi segnali vitali. Gli umani sono
più
vulnerabili da questo punto di vista”
spiega ragionevole.
La
sorpresa di Connor si tramuta in rispetto. Lui stesso dovrebbe
trovarsi a una distanza dal soggetto da esaminare più
ravvicinata
rispetto a quella attuale, per essere in grado di poter fornire
simili parametri. Evidentemente Jander può agire anche su
distanze
più ragguardevoli. Poi avverte una nuova emozione farsi
largo fra i
suoi circuiti: se disponesse di un cuore pulsante come lo possiedono
gli esseri umani, i suoi battiti sarebbero ora ben oltre la media.
Speranza.
“Possiamo
farlo davvero”
soffia mentalmente, rigirandosi in testa quella nuova consapevolezza.
Markus
annuisce piano e, suo malgrado, si abbandona a un sorriso.
«Va
bene. Abbiamo dunque una possibilità per il futuro. Possiamo
costruirlo da questo momento» pondera, contagiato dalla
speranza di
Connor.
«Per
conto mio, ho già dato avvio alla costruzione»
annuncia Elijah,
compiaciuto.
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Capitolo 20 *** chapter 20. Doubts and hypothesis ***
chapter
20. Doubts and hypothesis
100011101101111011000010101010111011011010101110
DETROIT
Date
NOV
15TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
AM
11:30
Elijah
ha chiesto a tutti i presenti di accompagnarlo nel suo studio
privato, il quale si trova ad un piano interrato della villa e ne
occupa l’intera base.
«Porca
puttana, è enorme!» esclama Dick, sentendosi
girare la testa.
«Lo
è, non è vero?» soffia Elijah,
sollevando un angolo delle labbra e
limitandosi ad avanzare.
Non
esistono finestre, com’è ovvio attendersi da un
locale
sotterraneo, ma su una buona percentuale della superficie verticale
che circonda il locale sono montati ampi pannelli che riproducono
l’esterno da diversi punti di vista, compreso uno che mostra
il
Detroit River e la CyberLife Tower da un punto di osservazione
sopraelevato.
Hank
aggrotta le sopracciglia e si avvicina un poco. «Da dove
è preso
questo? Sembra una vista dall’Ambassador Bridge».
«I
miei complimenti, tenente. È esattamente da lì
che viene questa
ripresa» concorda Elijah.
Hank
sposta lo sguardo sullo scienziato, incerto.
«Stai… sorvegliando la
città?».
Elijah
accenna un vago sorriso. «Qualcuno deve pur farlo, non
trova?».
«Non
sono sicuro che sia legale» dubita Hank.
«Neppure
io, tenente Anderson. Sta per caso prendendo in considerazione
l’idea
di denunciarmi alle autorità?» sogghigna divertito.
Hank
storce il naso e sbuffa. «No, non credo. Ma ti consiglio di
non
mettere mai nessuna telecamera davanti a casa mia».
«Ha
la mia parola che questo non succederà» promette
Elijah.
*
Il
perimetro dell’intero locale è costellato da
elaboratori
informatici, tranne un angolo occupato da una sezione isolata di
differente natura che in seguito si rivela essere un discretamente
attrezzato laboratorio chimico. Il centro invece è
completamente
sgombro, fatta eccezione per un sottile basamento scuro e opaco.
Elijah
guida il piccolo gruppo su di un lato di quel basamento.
All’interno
dell’unità di calcolo di Connor si susseguono dati
e informazioni
Dimensioni
– 150 metri quadri di superficie
Materiale
del basamento – Lega: Magnesio 86% e nanoparticelle dense di
carburo di silicio 14%
Spessore
– 3,5 pollici
Temperatura
– 329° Fahrenheit ovvero 438,15° Kelvin
Tecnologia
– Retroilluminazione e olografia tridimensionale
Elijah
estrae uno dei suoi piccoli terminali, avanza di un altro passo,
sfiorando il bordo esterno del lato lungo più vicino del
basamento,
e fa scorrere veloce i polpastrelli sul touch screen, selezionando le
opzioni necessarie ai suoi scopi.
«Ora,
osservate» chiede pacato.
La
superficie superiore del basamento si accende e presto, davanti agli
occhi dei presenti, al di sopra di essa si forma la pianta
tridimensionale dello stato del Michigan e di un’area non
troppo
vasta di Ontario. Alcuni altri comandi lanciati dal terminale e la
pianta restringe il campo al solo perimetro cittadino di Detroit,
all’interno del quale compaiono poche sottili linee verticali
e
azzurrate, per lo più sparpagliate senza schema apparente
per tutta
l’area presa in esame.
«Sono
loro?» mormora Markus, sorpreso e suo malgrado affascinato.
Elijah
annuisce. «Esatto, sono i devianti sfuggiti alla cattura e
ancora
attivi» conferma.
«Ce
n’erano altri, quindi?» interviene Connor.
«È
così. Due giorni fa il sistema di tracciamento ne aveva
individuati
quasi il doppio; poi, con il trascorrere delle ore, alcuni
rilevamenti sono scomparsi. È probabile che alcuni di quei
devianti,
nonostante fossero stati in grado di sfuggire alla caccia e
conseguente cattura, abbiano però subito dei danni e si
siano
pertanto spenti lungo il tragitto» ragiona con una punta di
rassegnazione, non mancando di osservare con cura la reazione dei
presenti, soprattutto gli androidi.
Markus
fa vagare lo sguardo sulla mappa e sembra incupirsi quasi quanto lo
è
stato Connor per buona parte del tempo. «Sono rimasti in
pochi, poco
più di venti unità» riflette
amareggiato.
«Sono
ben più di quanti ci attendessimo fino a poche ore
fa» fa notare
Connor con garbo.
Markus
si volta, fissandolo interdetto ma in qualche modo compiaciuto, tanto
che, nonostante la desolazione della scoperta appena fatta riguardo
alla scarsa presenza di loro simili a portata di mano, si ritrova ad
accennare un cauto sorriso che mostra una parte della sua
soddisfazione.
«Come
li contattiamo?» gracchia metallico il vocalizzatore di
Jander.
«Un’ottima
domanda. Si dà il caso che io disponga
dell’attrezzatura idonea a
inviare messaggi cifrati. È predisposta per le
apparecchiature
informatiche, ma posso certamente supporre che sia adattabile per la
ricezione da parte di un androide (o molti, in questo caso); e
poiché
il mio tracciatore può tranquillamente agganciare ognuno di
loro,
voi non dovrete fare altro che occuparvi di mettere insieme le parole
giuste, quelle che abbiano la capacità potenziale di
convincerli a
collaborare con noi (ovvero con voi e per riflesso con il
sottoscritto)».
Con
una smorfia vagamente infastidita, Markus sospira e scrolla le
spalle. «Hai pensato proprio a tutto, vero?».
«Naturalmente.
Ne va dei miei stessi interessi, a ben vedere» conferma
Elijah.
«Un
giorno o l’altro vorremo conoscerli, questi tuoi
interessi» lo
avverte Markus.
Elijah
sorride con una piccola smorfia misteriosa. «Un giorno,
sì».
*
Dopo
che Chloe li ha accompagnati in un piccolo e confortevole salottino
dotato di poltrone imbottite e morbidi tappeti sparsi ovunque,
lasciandoli con un brillante sorriso e una borraccia di Thirium 310
per ciascuno, Markus, Jander e Connor si ritrovano da soli a
guardarsi in faccia e a spremersi i circuiti nell’utopica
speranza
di cavarne qualche buona soluzione che possa risolvere il loro
problema più imminente, ovvero: con quali argomenti
sarà possibile
attirare dalla loro parte i pochi devianti superstiti ancora in
circolazione?
Markus,
a un certo punto, concentra la propria attenzione su Connor e gli
indirizza un tremolante sorriso. «Non ti è per
caso venuta qualche
idea?» chiede speranzoso.
Connor
replica dapprima con una smorfia un po’ infastidita e poi con
un
piccolo sbuffo. «Lo stai chiedendo al soggetto sbagliato,
Markus.
Sei tu, se non ricordo male, l’istigatore di folle»
fa
candidamente presente.
Markus
strabuzza gli occhi. «Che? Non è per niente vero:
non istigo
proprio nessuno, io» protesta.
«Oh,
certo… L’avrò immaginato,
vero?» replica con sarcasmo. «Non ti
conviene raccontare frottole se non ne sei in grado. Perfino uno come
il detective Reed capirebbe che la tua è una menzogna, e
neppure
molto buona».
Markus
si acciglia nel sentir nominare un altro. «E chi sarebbe
questo
Reed?» chiede in tono un po’ troppo affilato, tanto
da guadagnarsi
un sogghigno divertito da Connor.
«Nessuno
di particolarmente rilevante. Solo uno dei tanti umani; un poliziotto
poco sveglio, in realtà» spiega.
Markus
grugnisce e borbotta contrariato, ma si fa comunque bastare
l’apparente rassicurazione di Connor.
“Scusate”
prova a interromperli Jander.
Poiché
si trova con la sola compagnia di suoi simili, ha deciso di sfilarsi
il vocalizzatore perché è sì utile a
permettergli di interagire
con gli umani, ma i suoni che produce nel farlo hanno una frequenza
che non gli garba molto: ogni volta che si esprime attraverso quello
strumento deve farsi violenza per evitare di storcere il naso a causa
del fastidio che prova (non sarebbe saggio, da parte sua, mostrarsi
così apertamente ingrato di fronte al signor Kamski che
è stato
tanto gentile da fargli quel dono, oltre a promettergli un controllo
più accurato).
Connor
e Markus distolgono l’attenzione l’uno
dall’altro per darla a
Jander.
“Sono
spiacente per i miei limiti, ma temo di non aver ben compreso quale
dovrà essere il nostro compito”
soffia a disagio, e con un certo nervosismo vede i due amici tornare
a fissarsi l’un l’altro, questa volta con palese
dubbio.
«Tu
sai» prova Connor «che cos’è
un deviante?».
Jander
aggrotta le sopracciglia. “Non
ho sufficienti informazioni al riguardo. Dal modo in cui ne parlava
il signor Kamski ho potuto dedurre che si trattasse di androidi, in
qualche modo differenti”
prova incerto.
Ora
Connor lo osserva con una certa sorpresa. «Non ti hanno
fornito dati
in proposito?». Jander nega con un lieve gesto del capo.
«Questa è
una stranezza. L’ennesima» pondera confuso.
«Se
ci ha messo le mani Kamski (e ho fondati sospetti che l’abbia
fatto) non è poi così sorprendente»
commenta Markus.
«Può
darsi che sia così» conviene Connor; poi torna su
Jander e lo
osserva per un lungo istante, prima di proseguire. «Noi
siamo devianti, Jander. Markus lo è, io lo sono…
e lo sei anche
tu. Come lo so? Un deviante è un androide che, in qualche
modo, ha
preso coscienza di sé stesso e della propria esistenza; in
particolare è cosciente di provare sensazioni che esulano da
qualunque programma e direttiva precedentemente immessa nel sistema
operativo, e che sente di poter gestire la propria esistenza
scegliendo in autonomia la strada da percorrere».
“Dunque
è questo ciò che sono: un deviante”
riflette Jander, conscio di corrispondere con assoluta precisione
alla descrizione che Connor ne ha appena fatto.
«Già»
concorda Markus, «e lo eri ancor prima di averne
nozione».
«Tu
no?» insinua Connor.
«Beh…
forse» tentenna Markus.
Connor
rotea gli occhi e lo guarda con una punta di rimprovero.
«Markus,
puoi benissimo far finta di ignorarlo, ma sono ragionevolmente sicuro
che tu sia stato progettato e creato per essere un deviante».
«Cosa?!»
trasecola Markus, quasi cadendo dalla poltrona. «Di che
diamine
parli?».
«Ho
dato un’occhiata a scopo informativo ai tuoi trascorsi,
e…».
«Che?
Quando?!» sbotta Markus, alzando nuovamente il tono della
propria
voce.
«Smetti
immediatamente di fare l’isterico, Markus. Eri nella mia
testa,
dopo tutto. Pensi davvero di esserne uscito senza
conseguenze?» fa
ragionevolmente notare.
«Ma
non…».
«Inoltre
eravamo connessi a un livello ben superiore a un normale collegamento
che si può instaurare fra androidi. Attualmente nel mio
database c’è
gran parte della tua esistenza, così come deve esistere
traccia
della mia archiviata all’interno del tuo database».
«Beh…
Può darsi, ma…».
«Non
può
darsi,
Markus. So che è così, e me lo hai gentilmente
ricordato tu stesso
durante la notte appena trascorsa».
«Oh»
soffia Markus con tono flebile e un poco infelice, agitandosi
irrequieto nell’attesa che Connor gli dica qualcosa di
spiacevole
al riguardo.
Ribaltando
le sue pessimistiche previsioni, Connor si astiene dal proseguire su
quella linea e invece tenta di riprendere il filo interrotto del suo
precedente ragionamento. «Dicevo, in base
all’analisi dei fatti
inerenti il tuo passato, ho potuto trovare una certa logica, o
comunque qualcosa che faccia pensare a un disegno più ampio
e
studiato. Per esempio, partendo dal presupposto che è stato
lo
stesso signor Kamski a progettarti e in seguito a donarti al signor
Manfred, si può supporre abbia avuto in mente precisi
scopi…».
«Un
amico» mormora Markus.
«Chiedo
scusa?» dubita Connor sollevando un sopracciglio.
«A cosa ti
riferisci?».
«Kamski.
Quando mi sono svegliato nel suo laboratorio alla torre della
CyberLife, ha detto che Carl era un amico».
Connor
annuisce, comprendendo. «Sì, ma non è
questo il solo motivo per il
quale sei stato assegnato a lui».
Markus
lo scruta accigliato. «Perché non dovrebbe essere
una motivazione
sufficiente?».
“Per
il disegno di cui parlava Connor”
interviene Jander. “Ha
dei progetti, il signor Kamski. Progetti nei quali noi siamo
inclusi”.
«In
verità sono piuttosto certo che noi siamo
il progetto» ragiona Connor.
«Per
fare cosa?» dubita Markus.
«Non
lo so ancora. Non sono fornito di sufficienti dettagli che mi
permettano di giungere alla soluzione. Ma penso che si tratti di
quella parte di idea che non vuole rivelare ad Hank e Dick e che va
oltre gli interessi dei devianti e della CyberLife».
«Questo
non mi conforta per nulla» ammette Markus.
«Evidentemente
no, ma se non altro può prepararci a far fronte a
ciò che ci
aspetta in futuro».
“Che
cosa ci aspetta?”
chiede Jander, ancora molto confuso.
«Innanzitutto
ci sono quei devianti. Markus direbbe che sono la nostra gente e che
hanno bisogno del nostro appoggio e sostegno almeno quanto ne abbiamo
bisogno noi da loro. Ma noi che cosa possiamo offrire che loro
già
non abbiano?» chiede Connor.
«Penso
dovremmo tenere conto della loro diffidenza e della paura che devono
tuttora provare nel ritrovarsi isolati e senza il sostegno del quale
parlavi poco fa» suggerisce Markus.
“Possiamo
promettere loro sostegno?”
indaga Jander.
«Possiamo
promettere loro assistenza, prima di ogni altra cosa» fa
notare
Connor. «Quante probabilità ci sono che, nella
loro fuga, possano
procurarsi l’occorrente per qualsiasi tipo di riparazione e
manutenzione?».
«Non
molte, direi, hai ragione. E noi abbiamo addirittura il gran capo
dell’azienda a disposizione, che può facilmente
fornire ricambi e
assistenza, a suo dire facendo addirittura i suoi interessi».
«Sì,
è esatto. Inoltre potranno contare su un luogo sicuro in cui
nessun
umano cerchi di catturarli e disattivarli, e nel quale poter stare
insieme» aggiunge Connor, crucciando la fronte subito dopo.
«Non si
tratta forse di un bisogno tipicamente umano il volere (o dovere)
ricercare la compagnia dei propri simili?».
Markus
sorride. «Sì, Connor, è
così. Che ne pensi?».
Connor
sospira e scuote il capo. «È presto per trarne
conclusioni. Non
posso ancora essere sicuro di nulla».
Sbuffa,
Markus, esasperato dalla cocciutaggine del compagno.
*
«Si
può sapere che cosa stai progettando, veramente?».
Elijah,
fino a un momento prima intento a studiare schemi, solleva gli occhi
sul tenente Anderson e un sopracciglio si inarca, guidato
dall’incertezza dei suoi pensieri. «Avevo avuto
l’impressione di
essere stato chiaro a sufficienza» prova con lieve titubanza.
Hank
scuote la testa. «Hai parlato, questo è certo,
usando argomenti che
fossero di interesse per il tuo pubblico, convincenti diciamo. Credi
forse di incantarmi con i tuoi bei discorsi, Kamski? Fosse per te
dovrei pensare che stai solo cercando di riportare un po’ di
popolarità alla tua azienda, vendere un po’ di
androidi nuovi di
zecca al mondo. Sono cazzate; lo sai tu, lo so io, per tua
informazione lo sanno anche gli androidi: Connor e gli altri se ne
sono accorti benissimo».
Le
labbra di Elijah si arricciano in un sorrisetto dispettoso.
«Può
darsi» commenta evasivo.
Hank
si sporge in avanti sulla poltrona accanto al camino e a Sumo, sulla
quale è accomodato da qualche tempo, e fissa gli occhi in
quelli
dello scienziato. «Ti farai male, un giorno di questi,
continuando a
sotterrare informazioni e macchinare progetti alle spalle della
gente» lo avverte.
Trae
un calmo respiro e distoglie lo sguardo, tornando ai suoi schemi.
«Può darsi» soffia.
Hank
assottiglia le palpebre e accenna a volersi alzare, ma con la coda
dell’occhio nota di nuovo quella femmina bionda che, al suo
movimento, ha fatto un paio di passi avanti. Serra la mascella e
torna a poggiare la schiena alla morbida imbottitura alle proprie
spalle. Troverà il modo di scoprire a cosa sta mirando
quell’uomo;
non crede affatto che stia facendo tutto quello per portarsi a casa
altro inutile denaro, vista la già più che
ragguardevole quantità
di cui certamente può disporre. Deve solo usare
più cautela,
osservare con più attenzione. Connor non è certo
uno sprovveduto,
ma non farà male avere qualcuno che gli copra le spalle.
|
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Capitolo 21 *** chapter 21. First Connection ***
chapter
21. First Connection
100011101101111011000010101010111011011010101110
DETROIT
Date
NOV
15TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
PM
04:13
Dick
è ancora occupato nella dubbia (a suo giudizio divertente)
occupazione di scarabocchiare formule matematiche di non comprovata
utilità su una circoscritta porzione di finestra del salotto
con la
sua penna fluorescente. All’inizio Elijah ha sollevato
brevemente
lo sguardo dai propri appunti e schemi e ha inarcato un sopracciglio
con un certo scetticismo, tuttavia non ha fatto nulla per
interrompere Dick e si è limitato a una lieve scrollata di
spalle
prima di tornare ai suoi studi.
Intorno
alla seconda metà del pomeriggio Sumo si è
stiracchiato e ha
lasciato il suo angoletto al caldo davanti al camino per spostarsi
con passi pigri e curiosi verso la finestra, con il chiaro intento di
indagare sull’occupazione che tiene impegnato Dick. Il
suddetto non
ne ha notato gli spostamenti né dato corda ai suoi intenti
fino al
momento in cui il San Bernardo, incerto, ha avvicinato il naso al
vetro, annusando, e poi ha leccato una piccola area ricoperta di
equazioni, sbavandole.
«Ehi!
Che combini, cane?» protesta Dick.
«Sumo,
il suo nome è Sumo» gli ricorda Hank che ha
seguito la scena con
l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Qualunque
sia il suo nome, il risultato non cambia: ha appena imbrattato la mia
opera» si lagna Dick.
«Era
comunque errata; non si è trattato di una grave
perdita» fa
gentilmente notare Elijah senza abbandonare il suo lavoro.
Dick
si imbroncia e arriccia il naso. «Come fai a dirlo? Nemmeno
prestavi
attenzione».
Solleva
una seconda volta gli occhi dai propri calcoli, posandoli su Dick.
«Probabilmente non a sufficienza da risolvere il suo
problema, ma
certamente abbastanza da sapere che non lo avrebbe risolto nemmeno
lei».
Schiude
le labbra, indeciso se essere sorpreso oppure indignato. Sbuffa e si
prepara ad appioppargli per lo meno un paio di buoni insulti che, se
non altro, serviranno allo scopo di alleviare la sua frustrazione, ma
le sue intenzioni sfumano nel momento in cui entrano in scena i tre
androidi modello RK con una novità per loro.
Senza
perdersi in preamboli, Markus si fa avanti e annuncia
«Abbiamo messo
a punto il messaggio che dovrebbe funzionare da incentivo per gli
altri devianti. Speriamo» aggiunge con una nota di incertezza.
«Bene.
Questa è certamente una buona notizia» commenta
Elijah. «Possiamo
dunque procedere con il piano».
Almeno
la metà dei presenti in sala avrebbe molto da obbiettare a
una tale
affermazione, ma Kamski si è già alzato dalla
poltrona e ha fatto
segno agli altri di seguirlo, scomparendo un momento dopo nel
corridoio.
«Dittatore»
borbotta Markus, guadagnandosi un cenno di consenso da Hank e Dick.
Seguendo
le tracce del padrone di casa, si ritrovano tutti di nuovo nei
laboratori sotterranei. Elijah è seduto su uno sgabello
piuttosto
alto di fronte a un quadro di comando che somiglia tanto a un Picasso
dell’elettronica informatica; in seguito si scopre che lo
sgabello
in effetti non è proprio tale ma si tratta piuttosto di un
trespolo
robotizzato collegato a un braccio meccanico snodabile che permette
allo scienziato di fluttuare velocemente da un punto
all’altro del
quadro di comando, facendolo apparire come la pallina di un flipper.
«Beh…
curioso» commenta Markus, seguendo con gli occhi le acrobazie
di
Kamski.
«Se
poteste avvicinarvi, ho quasi terminato i preparativi
preliminari»
chiede Elijah senza staccarsi dal suo lavorio.
Connor
e Jander guardano un momento Markus, annuiscono e si accostano alla
postazione dello scienziato, rimanendo in silenziosa attesa. Dietro
le loro spalle si accende ancora una volta la mappa tridimensionale e
interattiva, davanti a Kamski tre schermate si sintonizzano e su di
esse scorrono i dati delle unità RK mentre un diagramma ne
mostra le
funzionalità.
«Siamo
noi» sibila il vocalizzatore di Jander, manifestando
imperfettamente
la sorpresa dell’androide.
«Così
sembra» concorda Connor, studiando i dati e trovandoli
combacianti
al loro profilo.
«Che
succede, ora?» chiede Markus, nervoso.
«Sto
provvedendo a informare il mio supervisore della vostra presenza e di
ciò che farete. Deve radunare ogni informazione necessaria
per poter
equilibrare i parametri e permettere la corretta trasmissione dei
dati, ovvero del vostro messaggio ai devianti».
Jander
fa scorrere lo sguardo sul multi pannello di controllo e reclina il
capo. «Ha un nome?».
Elijah
scocca una veloce occhiata all’RK900 e fa un lieve cenno di
assenso. «Ce l’ha, sì. Zero».
«È
un numero» contesta Connor.
«Non
è un numero; non proprio, almeno. È…
un punto di partenza, una
sorgente, la scintilla dalla quale si propaga l’incendio, un
piccolo atomo che si auto alimenta creando strutture sempre
più
complesse e ramificate…» si interrompe
all’improvviso, un poco
imbarazzato.
«La
tua prima intelligenza artificiale?» si interessa Markus.
«Giusto»
conferma Elijah, prima di immettere le ultime sequenze di dati e
tornare con i piedi per terra. «Tutto a posto, possiamo
iniziare»
annuncia soddisfatto.
Al
fine di interfacciare gli androidi presenti nel laboratorio con il
computer che guiderà il loro percorso verso gli altri
soggetti
sparsi per la città, Elijah applica loro un piccolo congegno
Wi-Fi
di ricezione e trasmissione dati, fissandolo in cima
all’orecchio
sinistro.
«Lui
può sentirci? Zero, intendo» mormora Connor, un
po’ a disagio.
«Posso
farlo, signore. Desidera chiarimenti?» interviene lo stesso
Zero,
spandendo per il laboratorio una voce che giunge con un tono pacato e
piuttosto piacevole da documentario naturalistico.
Connor
solleva lo sguardo, incerto e sorpreso, sul pannello di controllo,
non sapendo bene a cosa rivolgersi. «In effetti,
sì. Sai dirmi
quante sono, attualmente, le unità devianti ancora attive
sul
territorio di Detroit?».
«Oltre
a voi tre, signore, conto ventiquattro unità: tredici dalle
caratteristiche maschili, nove femminili e due al di sotto della
fascia adolescenziale» comunica, solerte e gentile.
Markus
si incupisce e Connor cruccia la fronte, spostando lo sguardo su
Kamski. «Due androidi bambini?» chiede nervoso.
Elijah
annuisce. «Sono piccoli, si confondono facilmente in
città e
trovano rifugio con maggior semplicità. Ma temo che alcuni
di quelli
sfuggiti alla cattura fossero stati danneggiati».
«Non
crede che potremmo ritrovarne alcuni?».
«Solo
per qualche caso fortuito, Connor. Una volta spenti non sono
più
rintracciabili in alcun modo cosciente».
Connor
serra le labbra in una smorfia scontenta, ma annuisce in silenzio.
«Sono… isolati dagli altri?».
Elijah
attiva il tracciatore e i devianti vengono nuovamente localizzati
sulla mappa interattiva alle loro spalle.
«Come
potete vedere voi stessi non ci sono attualmente gruppi di devianti,
solo individui separati».
«Ognuno
per sé» commenta Markus, contrariato.
«Per
così dire. In realtà è possibile che
non abbiano avuto l’occasione
di incrociare le rispettive strade, e nessuno di loro può
correre il
rischio di mettersi in contatto con i loro simili poiché in
questo
modo aumenterebbero le possibilità di venire
individuati».
«Si
conoscono i loro modelli?» indaga Connor.
«Naturalmente,
signore» interviene Zero. «Si tratta di quattro
modelli AP700, un
modello JB100, un modello BL100, un modello VB800, un modello CX100,
un modello AV500, un modello EM400, un modello HK400, un modello
GJ500, un modello GS200, un modello WR400 e un modello HR400, un
modello KL900, un modello PM700 e un modello PC200, un modello YK400
e un modello YK500, un modello MC500, un modello WE900, un modello
ST300 e infine un modello SQ800» elenca metodico e
impeccabile.
«SQ800…
Un soldato» esclama Connor, stupito. «A
Detroit?» dubita
perplesso.
«Probabilmente
in precedenza facente parte di uno dei distaccamenti per la difesa
dei civili. Questo, è naturale, prima che iniziasse la
rivolta e la
conseguente caccia agli androidi devianti» ragiona Elijah.
«Vuoi
cominciare da lui?» chiede Markus, osservando Connor negli
occhi.
Connor
dal canto suo soppesa la possibilità socchiudendo le
palpebre.
«Potrebbe rivelarsi un buon punto di partenza»
ammette. «Tu cosa
ne pensi, Jander?».
L’interpellato
reclina leggermente il capo di lato; sembra intento ad analizzare un
problema. «In base ai dati in mio possesso ritengo sarebbe il
soggetto più idoneo ai nostri scopi, inoltre la sua
preparazione
risulterebbe d’aiuto per recuperare gli altri»
commenta.
Markus
e Connor concordano su quella linea d’azione e insieme si
dispongono a rintracciare l’androide prescelto.
*
La
città si sta rapidamente svuotando; il buio che avanza
spedito è
l’inequivocabile segnale di un ormai imminente coprifuoco
istintivo
per gli umani ancora in circolazione. Attiva, con qualche
difficoltà,
il visore notturno che gli permette di individuare le ultime scie di
calore umano, e una smorfia di malcontento increspa le sue labbra
danneggiate in diversi punti. Scosta la schiena dalla parete umida
nello scantinato alla quale è rimasto appoggiato per buona
parte
della giornata e striscia guardingo sulle ginocchia, fino a
raggiungere la piccola feritoia che guarda in direzione della strada
sopra la sua testa. A un primo esame visivo conteggia una diminuzione
della presenza umana del 79,7 %; fra poco più di trenta
minuti il
terreno sarà sgombro a sufficienza da permettergli di uscire
per
cercare provviste. Non si illude di poter trovare pezzi di ricambio
idonei, né tanto meno Thirium, ma deve assolutamente entrare
in
possesso di qualche attrezzo che gli permetta di richiudere lo
squarcio al braccio destro e fermare l’emorragia, o
finirà ben
presto con lo spegnersi, esattamente come è accaduto ai suoi
compagni.
Mentre
tiene d’occhio la strada, l’immagine che gli
riporta il sensore
ottico destro sfarfalla e perde definizione. Sbatte le palpebre e
scuote la testa, infastidito e disorientato; l’immagine si
sfoca,
ingrigisce, infine torna nitida, strappandogli un soffio sollevato.
Da
quasi cinque minuti sulla strada non transita nessun essere umano.
Piano, si prepara a lasciare il proprio rifugio per avventurarsi
fuori, quando uno sfrigolio fuori posto nel suo processore audio lo
blocca a metà del movimento. Veloce si ritira nuovamente
nell’ombra
dello scantinato e cerca invano di nascondersi meglio, ma non ha idea
di quale sia l’origine di quell’interferenza; un
rivolo di
panico lo assale al pensiero di essere stato scoperto e che forse
presto verrà catturato e smantellato come già
è successo a molti
suoi simili.
“Non
vogliamo farti del male. Noi siamo come te, e siamo amici. Vogliamo
solo poterti aiutare”.
Cruccia
le sopracciglia e si rincantuccia nell’angolo più
buio a sua
disposizione. Non riesce a capire. La voce che ha udito non
appartiene a nessuno che si trovi nei paraggi, nonostante sembri
essere molto vicina. Eppure ha l’impressione di averla
già udita,
da qualche parte, in precedenza. Ora però non è
certo di come
comportarsi; se rispondesse, che cosa accadrebbe? Si tratta di una
trappola? Stanno cercando di stanarlo con qualche diavoleria
psicologica?
“Ascolta,
sappiamo che puoi sentirci. Se non lo credi opportuno non serve che
tu risponda, ma desideriamo portarti al sicuro”.
Sì,
deve trattarsi di un trucco per attirarlo fuori, non
c’è altra
spiegazione. Rimane in silenzio e immobile, chiude gli occhi e si
concentra sul suo programma di difesa e anti intrusione.
«Maledizione!»
esclama Markus, staccandosi repentinamente dal contatto con Connor e
Jander e raggomitolandosi sul tappeto.
Connor
nel frattempo è balzato in piedi, sorpreso, mentre Jander
sembra sul
punto di vomitare (se ciò fosse mai possibile).
«Cos’è
accaduto?» vuole sapere Elijah, ora chino su Markus e
impegnato a
monitorare i suoi segnali vitali.
«Un
ICE» commenta Connor, scuro in volto. «Per un
istante ho pensato
che ci avrebbe separati mentre eravamo dentro. Per fortuna ci ha solo
tagliati fuori. Ma è pericoloso» riflette
preoccupato.
«Di
che genere?» incalza Elijah, impensierito per i parametri
sfasati
sia di Markus che di Jander.
«A
una prima indagine pareti d’acciaio, direi. Ma ho potuto
intravedere lame, dietro. Credo intenda farci a pezzi nel caso
tentassimo una nuova intrusione».
«Come
lo raggiungiamo?» sibila Jander, oscillando pericolosamente
sulle
ginocchia piantate sul tappeto.
Connor
serra le labbra e assottiglia le palpebre. «Con una manovra
di
sfondamento. Vado avanti io» avverte risoluto.
«Cosa?!»
gracchia Markus, ancora in bilico fra ragione e disordine.
«Sono
maggiormente protetto. Posso frenare quell’ICE il tempo
necessario
per buttare giù le barriere e permetterci di
passare» spiega
succinto e con decisione.
«Sei
pazzo» affanna Markus.
«Affatto»
replica Connor con cocciuta ragionevolezza. «Vogliamo o no
quel
soldato? Ebbene, questo è il piano».
Un
angolo delle labbra di Elijah si incurva verso l’alto.
«Bene.
Credo di potervi fornire copertura, mentre siete dentro».
Connor
annuisce seccamente e si rimette seduto sul tappeto, attendendo con
la schiena diritta e rigida che Markus e Jander siano pronti per dare
battaglia.
“Come
conti di trattenerlo?”
chiede Markus, agitato, tentando di frenare il panico crescente.
“Con
il ghiaccio”
risponde Connor, flettendo le dita e il collo e preparandosi al
viaggio.
“Sei
sicuro che…”
tenta Markus.
“Sì”
taglia corto Connor in tono leggermente brusco. “Voi
due siete pronti?”.
“Quasi”
sospira Jander a occhi chiusi.
“Non
proprio”
ammette Markus, per nulla allettato dalla prospettiva di tornare
là
dentro.
“Dimentica
quell’ICE, Markus; a quello penserò io, e Jander
farà in modo di
abbattere la barriera. Concentrati solo sulle parole giuste”
consiglia Connor.
“Le
parole giuste? E quali sono, Connor? Ci ho provato, e non ha
funzionato”
lamenta scoraggiato.
“Non ci hai
provato abbastanza” sibila
contrariato.
“Lo hai sentito anche tu: era spaventato. Pensavi sarebbe
rimasto
tranquillo ad ascoltarci e a lasciarci fare i comodi nostri?
Dimentichi che si tratta pur sempre di un soldato; è un
androide
preparato, devi tenere conto anche di questo”.
Markus
sbuffa e stira le labbra, scontento. “E
se non riuscissimo a convincerlo?”.
“In
quel caso troveremo un altro modo per portare al sicuro sia lui che
gli altri devianti”.
“Quale?”.
Connor
soffia un piccolo sbuffo seccato e impaziente. “Non
lo so ancora, Markus. Ed è perfettamente inutile porsi il
problema
prima che questo si presenti”.
“Sono
pronto”
annuncia pacato Jander.
Con
un secco cenno di consenso Connor afferra le mani di Markus e Jander,
serra le dita e li trascina dall’SQ800.
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Capitolo 22 *** chapter 22. Children ***
chapter
22. Children
100011101101111011000010101010111011011010101110
DETROIT
Date
NOV
15TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
PM
06:20
Sono
di nuovo di fronte a quel muro d’acciaio. È
testardo il loro uomo;
testardo e preparato, motivo quest’ultimo per cui desiderano
averlo
dalla loro parte.
“Aspettate”
mormora
Connor, prima di fare un passo avanti.
La
barriera, così a prima vista, appare liscia e inattaccabile.
Si
avvicina di un altro passo e il metallo sembra acquistare maggior
solidità, divenire in qualche modo più tangibile.
Reclina appena il
capo di lato e con un ultimo passo si porta proprio al di sotto delle
mura; solleva una mano, la poggia sulla superficie liscia trovandola
stranamente tiepida al tatto. Arriccia le labbra in una piccola
smorfia soddisfatta e volta appena il capo verso i propri compagni.
“State
pronti” avvisa
in un soffio a malapena comprensibile.
Un
momento dopo l’acciaio lucido si ricopre di brina, poi di uno
spesso strato di ghiaccio. Tenendo ferma la mano posta sulla parete,
indietreggia di mezzo passo, serra la mano libera e carica un pugno
che si schianta sulla parete congelata, la quale con gran fragore
finisce in mille schegge ai piedi dell’androide. Tuttavia
è
costretto a retrocedere in fretta di fronte a un’onda che non
è
d’acqua ma è formata invece da quelle che sembrano
lame di
falciatrice. Ripresosi rapidamente dalla sorpresa, punta i palmi
delle mani sul terreno e si concentra nuovamente sul ghiaccio. La
cresta superiore dell’ondata rallenta l’avanzata
fino a bloccarsi
a mezz’aria, mentre da dietro ancora preme per scacciare
l’intrusione.
“Jander”
borbotta
Connor in un soffio.
L’interpellato
si fa prontamente avanti superando Connor e posizionandosi proprio
contro il muro di lame momentaneamente congelate. Da quel punto
propaga una barriera di elettricità che scardina non solo
l’avanguardia ma va a intaccare anche parte della
retroguardia,
creando scompiglio e disorganizzazione nelle fila della difesa.
“Markus”
avvertono
all’unisono Connor e Jander.
Markus
annuisce, spicca una corsa in avanti e, proprio mentre crede che
finirà con lo scontrarsi con quel maledetto ICE,
l’intervento
incrociato di Connor e Jander crea un piccolo varco nelle difese che
gli consente di infiltrarsi nel nucleo dell’unità
cerebrale del
soldato.
*
Il
suo led lampeggia rosso. Sbatte la testa contro il muro scrostato cui
è appoggiato. Chiunque siano, lo hanno appena fottuto. Non
sa che
fare: non c’è nessuna minaccia fisica contro cui
scontrarsi, e il
suo ICE è appena miseramente crollato a pezzi peggio del
muro di
Berlino, e… beh, che gran fregatura.
«Cazzo»
mugola, abbastanza disperato.
La
sua batteria è ormai al 46 % e il livello di Thirium si sta
abbassando troppo rapidamente sotto la soglia minima di sussistenza.
Il suo braccio sinistro (l’unico rimastogli, in effetti)
vibra
quando lo usa per sollevarsi appena da terra e ritrovare una
posizione migliore.
“Mi
chiamo Markus” gli
giunge d’un tratto e senza preavviso.
Si
guarda intorno. Nulla. Ovviamente.
«Chi
cazzo sei? Che cosa vuoi?» sbotta, già parecchio
stanco di quel
gioco inutile e stancante.
“Sono
un androide, come te. E sono un deviante, esattamente come lo sei
tu”.
«Già,
sicuro, e magari ora mi verrai a dire che sei nientemeno che RA9 in
persona, uh?» strascica sarcastico.
“Ehm…
Non proprio, no” borbotta la voce. “Però
posso esserti comunque
d’aiuto”.
«Ah
sì? Vorrei proprio vederla, questa. Ho perso il braccio
destro dal
gomito in giù; l’unità ottica
è parzialmente danneggiata e la
visione notturna è distorta; la batteria è in
esaurimento in
cinquantuno ore, ventisei minuti e cinquantatré secondi;
mentre il
livello di Thirium scenderà sotto la soglia critica entro le
prossime diciassette ore. Suggerimenti, oh mio spirito
guida?»
sibila velenoso e molto a corto di pazienza.
Il
silenzio è la sola risposta che riceve nei successivi,
eterni
minuti, e una smorfia di pena e compatimento è la sua unica
reazione.
*
«Forse
non è il soggetto più idoneo a cui chiedere
collaborazione per
recuperare gli altri devianti» pondera Jander, una volta
ritrovatisi
di nuovo seduti sul tappeto nel laboratorio di Kamski.
«Ma
non mi dire» recrimina Markus, parecchio contrariato
dall’esito
della loro missione.
«Potrebbe
invece fare proprio al caso nostro» si inserisce nella
conversazione
Elijah.
Connor
lo scruta perplesso. «In che modo?».
Elijah
solleva un indice in aria con un sorrisetto inquietante stampato in
volto che fa tremare il resto dei presenti.
«Ve
lo mostro» annuncia, voltando loro le spalle e piazzandosi di
fronte
alla mappa della città. «Vedete: l’SQ800
si trova attualmente in
questa zona. Edifici pubblici e fabbriche, per lo più. Forse
qualche
piccola rivendita di ricambi e accessori, ma di poca utilità
per le
sue esigenze. E qui» punta il dito in un’area quasi
vuota «un
parco giochi e… direi orti, a prima vista».
«Nessun
edificio» riflette Hank, facendosi più vicino.
«Poche pattuglie»
ragiona interessato.
Elijah
annuisce. «Esatto. Questo significa minor rischio di essere
intercettati dalle forze dell’ordine».
Connor
aggrotta le sopracciglia, iniziando a comprendere. «Potremmo
farlo
arrivare fino a lì, immagino. Ma poi, in che modo lo
portiamo via?».
«Ah,
questo è il punto: non lo portiamo via, Connor, ci limitiamo
a
effettuare le riparazioni più urgenti direttamente sul
posto. In
questo modo avremo un soldato in uno stato per lo meno utile, se non
perfettamente efficiente, che ci tornerà di certo utile a
recuperare
gli altri devianti. E solo in seguito, una volta intercettati e
radunati, decideremo il luogo più idoneo per portarli da
noi».
Stranamente
il suo pubblico non appare particolarmente impressionato dal piano,
tutt’altro in effetti; perfino Chloe sembra parecchio
contrariata.
«C’è
solo un problema, grande capo» fa notare Markus con ironia.
«Chi
andrebbe sul posto per le riparazioni?».
Elijah
sta per dire la sua, ma riesce a malapena a socchiudere le labbra
prima che uno sguardo omicida di Chloe lo convinca saggiamente a
desistere dai suo propositi di morte dolorosa.
Invece,
sorprendendo i presenti, qualcun altro si fa avanti prendendo la
parola.
«Posso
andarci io». Tutti quanti si voltano fissando straniti Dick,
che
deglutisce vagamente imbarazzato. «Beh, che ho
detto?».
*
Digrigna
i denti con un ansito roco e sbatte freneticamente le palpebre. Hanno
congelato di nuovo il suo povero e maltrattato ICE. Sta diventando
una pessima abitudine, e anche parecchio fastidiosa.
“Salve,
il mio nome è Connor…” attacca
una voce pacata e gentile nella sua testa.
«Oh,
ma per favore!» sbotta allucinato. «Si
può sapere quanti cazzo
siete lì dentro?».
“In
effetti, tre; ma non deve allarmarsi: resteremo giusto il tempo
necessario per ragguagliarla sugli sviluppi e in seguito toglieremo
immediatamente il disturbo”.
«Tsé!
Ma pensa: tre teste di cazzo nella mia unità cerebrale. Che
culo»
commenta acido. «Sentiamo: quali sarebbero questi sviluppi di
cui
vai farneticando? E perché, invece di rompermi i coglioni,
non vi
spicciate a friggermi i circuiti e tanti saluti?».
“Noi
non la stiamo disturbando con l’intento di arrecarle danno,
signore. Al contrario, intendiamo offrirle l’assistenza di
cui
necessita” assicura
volenteroso.
Ha
l’impressione di avvertire un’emicrania piuttosto
fastidiosa, ma
probabilmente si tratta solo di suggestione. «Senti, bello,
mi stai
prendendo per il culo o cosa?» ringhia, oramai stufo marcio.
Un
protratto momento di silenzio lo fa dubitare che ci sia ancora
qualcuno lì, dentro il suo cervello elettronico. Poi,
però, avverte
un leggero raschiare, come di qualcuno che si stia schiarendo la
voce.
“Mi
perdoni, signore, ma temo di non aver afferrato la sua richiesta.
Forse…” tentenna
la voce in tono leggermente imbarazzato.
“Connor!
Per carità: espressione idiomatica. Vuole sapere se lo stai
prendendo in giro” sbotta
un’altra voce.
“Oh!
Ma nel mio programma di relazioni sociali non è presente.
Sei certo
che…”.
“Sì,
Connor, sono sicurissimo” commenta
asciutta la seconda voce.
Sospira
e scuote la testa, un po’ sconsolato. «Va bene,
ragazzi, mi avete
convinto: siete androidi» li interrompe in tono pacato questa
volta.
“È
esattamente quello che avevamo detto. Pensavo lo avessimo stabilito
già in precedenza” obbietta
la prima voce, e dal tono usato sembra perfino risentita.
«Lo
avevate stabilito voi, forse. Io, qui, che diamine ne potevo
sapere?»
fa presente, lievemente seccato.
“Capisco”
sibila,
sembrando un poco offeso.
“Tutto considerato accetterò questa versione
e…”.
“Connor!”.
“Che
cosa c’è, Markus?” esclama
la prima voce.
“Sarebbe
ora di andare al punto” suggerisce
la seconda voce.
«Per
una volta mi trovi d’accordo».
“Va
bene, procedo. Posso chiederle, prima, con quale nome possiamo
chiamarla?”.
Fa
roteare gli occhi e pensa che forse è questo ciò
che accade a un
androide quando impazzisce: sente voci.
«Abel.
Il mio nome è Abel» si risolve a dire, giudicando
che sia comunque
opportuno assecondare la propria mente malata in fase terminale.
“Ottimo,
signor Abel. Abbiamo trovato una soluzione per i suoi guasti. Se ha
la possibilità di muoversi, un nostro alleato può
incontrarla
questa notte stessa e procedere alle più urgenti
riparazioni”.
Abel
cruccia le sopracciglia, perplesso. «Incontrarmi? Questa
città è
piena di pattuglie. Se solo mettessi il naso fuori nel momento
sbagliato, finirei col non ritrovarmelo più, e neppure il
resto
della faccia se è per quello».
“Ne
siamo informati. Non troppo distanti dalla sua attuale posizione ci
sono dei giardini pubblici e, lì accanto, alcuni orti
privati che
saranno certamente meno frequentati rispetto alle zone
residenziali”.
«Uhm…
Sì, ha senso» ammette suo malgrado, anche se
ancora un po’
restio. «E questo vostro uomo sarebbe disposto a correre il
rischio?».
“Certo.
Siamo già d’accordo. Se lei ne ha
l’opportunità, potrete
incontrarvi nel luogo prefissato per le ore 02:00. Pensa di potercela
fare?”.
Il
led ruota un paio di volte su sé stesso, brillando
d’ambra. «Non
vedo perché no. Tanto, a questo punto, ho ben poco da
perdere».
“D’accordo.
Le coordinate del luogo di incontro le verranno inoltrate a breve,
assieme a un’immagine della persona che sarà
presente e
l’assisterà. Il suo nome è Dick,
è un essere umano…”.
Abel
solleva la testa dal muro e sbatte le ciglia. «Umano? Sei
serio? E
perché dovrebbe aiutarmi?».
“Perché
lui è dalla nostra parte. In precedenza ha assistito anche
me”.
«Mh…
Mi sembra strano» tituba Abel, un po’ impensierito
al riguardo.
“Non
deve temere; Dick è una brava persona, qualcuno di cui ci si
può
fidare” assicura
Connor.
“Con lui ci sarà una copertura: si tratta di un
cane San Bernardo.
Sarà facile individuarli”.
Abel
scuote la testa e ridacchia perfino. «Una copertura a prova
di
bomba, eh?» scherza sconsolato. «E sentiamo, in
cambio di questo
vostro aiuto, voi cosa volete?» indaga cinico.
“È
semplice: in città ci sono altri devianti, forse alcuni di
loro sono
danneggiati. Abbiamo bisogno del suo aiuto sul posto per recuperarli
e fornire loro un’adeguata assistenza”.
Abel,
accigliato, riflette. «Altri devianti, qui, a Detroit? E voi
come
sapete della loro presenza?».
“Allo
stesso modo in cui abbiamo trovato lei, signor Abel. Non sappiamo
perché non vi siate incontrati, ma è possibile
che non sia accaduto
perché siete in pochi, ormai, e secondo il calcolo delle
probabilità
non sarebbe stata un’eventualità
tangibile” spiega
Connor, gentile.
«Pochi
quanti?».
“Ventitré,
più lei stesso. E…” tituba
indeciso.
«E?
Che altro?».
“Due
di loro sono della serie YK”.
Sgrana
gli occhi e si scosta di scatto dalla parete. Il dispositivo ottico
si inceppa per un lungo istante riportandogli immagini frammentate.
Scuote la testa.
«Bambini.
Sono… nascosti qui in città?».
“Sì,
si trovano a Detroit. Sono abbastanza lontani, a dire il
vero”
soppesa
cauto.
«Cazzo.
Non lasciano in pace nemmeno loro? Come possono definirsi umani? Come
cazzo riescono a scendere così in basso, a… fare
qualcosa di così
barbaro?!».
“Signor
Abel, la prego, non…”.
«Finiscila
di chiamarmi signore, porca puttana!» sbotta. Il silenzio che
si
allunga e avviluppa lo scantinato lo fa rabbrividire di sgomento.
«Io… Mi dispiace, non dovevo gridare in quel modo.
Scusa» soffia,
confuso e sconvolto, pregando per la prima volta di risentire la sua
voce pacata.
“Non
ha importanza. Credo di comprendere il suo turbamento. Va tutto
bene”.
«Mi
piacerebbe davvero che fosse così, Connor»
sospira, tranquillizzato
solo in minima parte. «Posso… Dopo che il vostro
amico mi avrà
dato una sistemata, posso andare a recuperare i bambini» si
offre,
avvertendo qualcosa di indefinibile dentro di sé, qualcosa
che
somiglia a malessere fisico.
“C’è
una KL900, piuttosto vicina a dove si trova lei. Sarebbe meglio
andare da lei per prima cosa; una volta accertatici che si trovi in
buono stato potrà sicuramente essere di aiuto per gestire al
meglio
la situazione” spiega
con calma e ragionevolezza.
Abel
annuisce a occhi chiusi. «Sì, d’accordo,
è un buon piano. Faremo
così» conferma lentamente.
“Bene.
Ora dobbiamo disconnetterci, purtroppo. Fra qualche minuto
riceverà
le coordinate e tutti i riferimenti necessari”.
«Ok,
ci sentiamo. E… Connor».
“Sì?”.
«Grazie».
“Non
c’è di che, signor Abel”.
*
«Bentornati,
ragazzi. Come è andata?» si informa Elijah con un
tono allegro
abbastanza fuori luogo, considerata la loro situazione precaria.
Le
tre unità RK si scrutano per un lungo momento negli occhi.
Markus
abbozza un piccolo sorriso un po’ incerto, prima di
districare le
dita dalle mani dei due compagni.
«Non
c’è male, grande capo. L’SQ800 ha
acconsentito a incontrare
Dick. Attende istruzioni a breve» riassume con
rapidità.
«Molto
bene. Un ottimo lavoro» si complimenta Elijah, prima di
mettersi
all’opera per inviare i dati indispensabili
all’androide.
Connor
lascia il piccolo cerchio degli RK e si avvicina a Hank e Dick,
accennando un lieve sorriso al loro indirizzo, un piccolo stirarsi di
labbra che esterna qualche cosa che ricorda speranza.
«Stai
bene, Connor?» si accerta Hank, quando l’androide
prende posto
accanto ai due umani.
«Sì,
Hank, tutto a posto. Credo sia andata abbastanza bene, tutto sommato;
meglio di quanto prevedessimo in ogni caso» riflette non
senza un
pizzico di sorpresa.
Dick
lo osserva con curiosità e sembra leggermente ansioso.
«Che tipo è
questo soldato?» chiede, evidentemente nervoso alla
prospettiva
dell’imminente incontro.
Connor
sposta su di lui lo sguardo e soppesa le parole, cercando le
più
giuste da usare. «Lui si chiama Abel. È
spaventato, e arrabbiato».
Scuote la testa. «Gli abbiamo detto dei due YK…
Dovevamo» tenta
di giustificarsi.
«Come
l’ha presa?» chiede Hank.
«Male»
ammette. «Per un momento abbiamo temuto che
l’avremmo perso».
«Ma
non è successo» offre Hank.
Connor
solleva gli occhi in quelli dell’amico e scuote piano la
testa.
«No, non è successo. In qualche modo siamo
riusciti a farlo
ragionare. Non è stata un’impresa semplice, ma
andrà a recuperare
la KL900, per prima cosa».
«Era
la scelta migliore» commenta Hank.
«Lo
è. La più sensata e quella che ci
faciliterà il compito. Abel lo
comprende, ma temo che sapere non sia sempre sufficiente»
riflette
Connor.
«Già,
vallo a dire a Kamski» borbotta Hank, facendo sorridere
Connor con
maggior decisione.
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Capitolo 23 *** chapter 23. Something to live for ***
chapter
23. Something to live for
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DETROIT
Date
NOV
16TH,
2038
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2980
VERMONT STREET
Michigan
Time
AM
01:54
Gli
agenti di pattuglia che girano per i quartieri di Detroit a tutte le
ore del giorno e della notte lo hanno costretto a interminabili
deviazioni e a strisciare come un maledetto ladro da un edificio
all’altro per evitare di essere individuato e catturato. Ha
dovuto
penare non poco per riuscire a raggiungere il luogo previsto per
l’incontro ed è arrivato con appena una misera
manciata di minuti
di anticipo sull’orario prefissato. Ora però si
trova a ridosso di
un grosso abete frondoso, in attesa di veder comparire la persona che
dovrebbe aiutarlo. Ancora fatica a credere a quella
possibilità,
eppure, come Connor gli ha assicurato, ha davvero ricevuto una
sintetica comunicazione completa di scheda con i dati necessari
all’incontro, quindi deve esserci del vero in quanto ha
appreso da
quel pivello, cioè da Connor.
Solleva
di scatto la testa, le sue riflessioni interrotte da un suono
indistinto catturato dal suo processore audio che, evidentemente,
funziona ancora decisamente meglio di quanto non faccia il suo
impianto ottico, dato che fatica non poco a scorgere i movimenti del
nuovo arrivato. Cauto si fa avanti, scostandosi dall’albero e
uscendo con prudenza dalla sua ombra per andare incontro
all’umano
che, come annunciatogli, è accompagnato da un cane enorme.
«Sei
Dick?» bisbiglia nervoso.
Lo
vede sobbalzare. A quanto sembra non è il solo a essere
spaventato,
o quanto meno in apprensione. L’uomo, più piccolo
e gracile di
quanto si aspettasse rispetto alla fotografia che gli è
stata
inviata, si volta lentamente nella sua direzione e si schiarisce la
voce, prima di fornire qualsiasi risposta.
«Sì,
sono Dick. E… tu sei Abel, giusto?» bisbiglia di
rimando il
curioso ometto.
Si
limita ad annuire e a rilassare appena un poco le spalle. Fino a quel
momento sembra essere andato tutto come era stato previsto:
l’umano
si è presentato nel posto e all’ora stabiliti,
perfino
accompagnato dal cane. Fa piacere sapere che esistono ancora piani
che vengono seguiti alla lettera. Abel lo sta ancora scrutando, suo
malgrado incuriosito, quando l’umano riprende la parola.
«È…
questo è un luogo sufficientemente sicuro?».
Bella
domanda, si ritrova a pensare Abel. «Mi auguro di
sì» tenta,
cercando come può di non essere troppo disfattista come suo
solito.
«Quanto tempo pensi ti occorrerà?»
chiede pratico.
L’umano
trae un breve sospiro. «Ho bisogno di dare
un’occhiata ai danni,
prima di poterti dare una risposta».
Ragionevole,
ammette tra sé Abel. Si guarda attorno, aguzzando
l’udito, per
accertarsi che si trovino da soli, poi lentamente torna sotto
l’albero e si siede a terra a gambe incrociate, fissando lo
sguardo
sul suo momentaneo compagno.
«Io
sono pronto. Fai pure» conferma, disponendosi a rimanere
quanto più
immobile possibile per semplificare il lavoro del piccolo uomo.
Dick
scruta a sua volta nei paraggi e si rivolge al cane. «Ora tu
aspetti
qui, Sumo. Se arriva qualcuno mi devi avvisare, d’accordo? E
magari
ti ci siedi sopra, così ci leviamo una seccatura di torno.
Tutto
chiaro?» si accerta.
Il
cane, Sumo, risponde con un latrato secco e deciso, poi si sdraia
comodamente sul tappeto d’aghi e sbadiglia, sembrando tutto
fuorché
intenzionato a intervenire in caso di guai. Ad Abel sfugge un breve
sorriso, il primo da giorni, e un altro poco della tensione
accumulata negli ultimi tempi sfuma dolcemente.
Nel
mentre Dick gli si è accostato, ha scaricato a terra un
ingombrante
zaino dall’aria tutt’altro che leggera e sta
esaminando
l’androide con molta serietà e concentrazione.
«Il
dispositivo ottico destro è deteriorato in modo
irrecuperabile,
purtroppo. Posso sostituirlo con un nuovo dispositivo, ma non ha
precisamente le stesse funzioni; temo manchino alcune migliorie circa
la visione notturna» lo informa un po’ contrito.
«Userò
il sinistro, di notte. Se lavora bene di giorno mi riterrò
soddisfatto» assicura, credendoci fermamente.
«D’accordo.
Vediamo quel braccio, ora» e gli si siede accanto, studiando
la
lesione con occhio critico e passandosi una mano sul viso poco dopo.
«Non c’è modo di riparare un danno di
questa entità. In realtà
lo sospettavo: ho portato con me un ricambio. Prima,
però…» detto
ciò armeggia con lo zaino e ne estrae un aggeggio
all’apparenza
scomodo, pesante e parecchio complicato e (con sollievo di Abel)
scorte di Thirium, che posa sullo strato di aghi di abete accanto a
loro. «Bene, ecco, prendi questo» chiede,
porgendogli un cavo
abbastanza sottile alla cui estremità
c’è un jack «e collegalo
alla porta di entrata dell’unità cerebrale; e
questo» prosegue,
piazzandogli fra le mani un secondo cavo più ingombrante
«all’uscita
del sistema di alimentazione». Evidentemente non impiega
molto a
notare i dubbi e il nervosismo di Abel. «Uno serve a
riportare la
batteria a una carica ottimale; questo è un generatore
ausiliario.
L’altro mi permetterà di monitorare le tue
funzioni e capire dove
intervenire» spiega pratico ma in tono gentile.
Durante
il discorso gli ha porto un’unità di Thirium,
incoraggiandolo a
servirsene. Così Abel, attaccato alla piccola sacca di
sangue blu,
si decide a collegare nel modo richiesto i cavi.
«Ok,
questa è fatta» commenta Dick, posando su un
ginocchio un terminale
tascabile e studiando con attenzione i dati che gli giungono
dall’androide. «Dovresti, per favore, toglierti la
giacca e la
maglietta. Mi servirà un po’ di spazio di
movimento per scollegare
il braccio danneggiato e sostituirlo».
Abel
annuisce appena, sbrigativo, e si leva la consunta giacca in
dotazione all’esercito e, con un po’ di impiccio a
causa dei
cavi, la maglietta, poi rimane a osservare il lavoro di Dick, che fa
scorrere delicatamente i polpastrelli sulle giunture che collegano la
spalla a ciò che rimane del braccio e fa scattare il fermo,
sfilando
l’arto danneggiato. Prima di sostituirlo con quello nuovo
esamina i
collegamenti della spalla, evidentemente per accertarsi che non
presentino a loro volta danni. Una volta assicuratosi che sia tutto
in ordine recupera il braccio destro dallo zaino e con cura lo fa
scivolare nelle guide apposite, forzando leggermente fino a che non
avverte il lieve suono dei giunti che scattano per collegarsi al
nuovo arto.
«Ecco,
così dovrebbe andare» soffia Dick, appena un
po’ in apprensione.
«Prova a muovere il braccio e a usare la mano. Vediamo se
funziona
tutto a dovere».
Abel
fa ruotare la spalla, solleva il braccio e piega il gomito, poi
allunga la mano e afferra con facilità fra le dita una nuova
unità
di Thirium, svita con i polpastrelli il beccuccio e lo porta alle
labbra, prendendone un lungo sorso.
«Mi
pare ottimo, risponde più che bene» commenta
soddisfatto.
«Ok,
vediamo quell’unità ottica». Detto
ciò Dick si accosta
maggiormente al fianco di Abel e con le dita leggermente tremanti,
sia per il freddo che per la tensione, scollega il dispositivo
difettoso, mettendolo diligentemente da parte per riportarlo a quel
gran pignolo e rompiscatole di Kamski, e lo sostituisce con il
ricambio che ha portato con sé. «Non è
nemmeno dello stesso
colore» borbotta contrariato, fissando incerto il giallo
ambra della
nuova iride che fa uno strano contrasto con il caldo e morbido
nocciola originale.
Abel
però scrolla le spalle poco interessato. «Non ho
mai avuto molte
occasioni di guardarmi allo specchio. Non credo mi importi
granché
se sono di colori differenti. Quello che mi importa è che
possa
vederci bene» assicura.
«Sì,
giusto. Beh, come lo trovi? Ci si vede bene?».
Socchiude
le palpebre, facendo spaziare lo sguardo sui campi che li circondano;
concentra l’attenzione sull’unità visiva
di destra e, suo
malgrado, storce le labbra.
«Se
è questo ciò che vedete voi di norma, devo dirti
che vi compiango,
amico. Al buio la resa è abbastanza penosa»
commenta con incerta
delusione.
Dick
sospira e scuote la testa. «Mi rincresce. Non ho potuto
portare con
me qualcosa di più adatto: mancava il modello. Ma ci stanno
lavorando su. Per quando avremo recuperato tutti i devianti avrai di
nuovo il tuo visore notturno» promette con buona
volontà.
Abel
lo fissa brevemente e sembra rabbuiarsi. «Il
pivello… cioè,
volevo dire, Connor… ha detto che ce ne sono in giro
ventitré».
L’umano
si irrigidisce visibilmente e, anche se in modo appena percettibile,
si scosta. «Sì, al momento ne abbiamo tracciate
ventitré unità»
conferma.
«Al
momento?» indaga sospettoso.
«Erano…
di più, prima» tentenna, e dall’aria si
direbbe indeciso se
darsela a gambe o restare a rischio della propria incolumità.
Abel
tuttavia non accenna a muoversi, invece distoglie lentamente lo
sguardo. «Si sono spenti» mormora.
«Probabilmente
sì» conferma, tornando con l’attenzione
ai dati rilevati dal suo
terminale. «C’è un’anomalia
nel sistema di raffreddamento che
credo sia il caso di controllare» avvisa.
«Sì,
d’accordo» accetta di malavoglia, rimanendo
immobile e pensieroso
per il resto del controllo di Dick.
*
Un
monitor (uno dei più piccoli e meno vistosi) prende
improvvisamente
vita con un lieve bip sonoro e un messaggio a lettere cubitali per
chiunque sia presente: MANUTENZIONE COMPLETATA. ATTENDO ISTRUZIONI.
«L’SQ800
è di nuovo operativo» annuncia Elijah ai pochi
presenti (al momento
solo Jander e Connor).
«Una
buona notizia. Desidera che ci mettiamo in contatto con lui?»
si
informa Connor.
«Non
sarà necessario. Sto già provvedendo a
inoltrargli le coordinate
della KL900. Potrai contattarlo in seguito, una volta recuperata,
ammesso che non sorgano contrattempi nel mentre».
L’RK800
si limita ad annuire e a disporsi a una nuova attesa.
*
Il
cane e l’umano, dopo che quest’ultimo ha inviato un
messaggio per
avvisare della missione portata a termine, se ne sono andati,
lasciandolo da solo sotto l’abete. Pochi minuti dopo ha
ricevuto un
messaggio: “4851 14th Street Detroit, Michigan
48208”, poi più
nulla. Il silenzio, dentro e fuori dalla sua testa, è
stranamente
pesante. Nelle ultime ore si era quasi abituato a venire sommerso di
parole e informazioni (non sempre richieste) e ora, in qualche modo,
ne avverte la mancanza. Chissà cosa può
significare? Scuote la
testa e senza perdere ulteriore tempo consulta la mappa della
città
inserita in memoria, trovando l’indirizzo e il percorso
più breve
e sicuro per raggiungerlo. Solo quando si rimette in piedi per dare
inizio alla sua ricerca si rende conto di un particolare cui non
aveva ancora fatto caso: da oltre quarantasei ore non si sentiva
così
bene; aveva quasi scordato il significato di operare in efficienza,
ma ora è di nuovo forte delle proprie
potenzialità e perfino
un’imperfetta visione notturna diventa un disguido di scarso
rilievo. È curioso pensare che degli esseri umani lo abbiano
ridotto
a poco più di un inutile rottame, mentre un altro essere
umano abbia
contribuito a ridargli un obbiettivo e la possibilità
materiale di
perseguirlo e raggiungerlo. Come si può decidere da che
parte stare,
se la situazione risulta così sbilanciata e confusa? Ancora
una
volta scuote la testa, perplesso, ma decide di accantonare le
elucubrazioni etiche per un momento più propizio. Ha ancora
una
missione da portare a termine, e non si prospetta affatto semplice.
Si volta, fa spaziare lo sguardo sui campi per orientarsi, poi parte
deciso in direzione del suo primo obbiettivo: trovare e portare al
sicuro la KL900.
*
I
suoi occhi scuri luccicano, spalancati nel buio appena attenuato dai
lampioni della strada, nell’aula in disuso. È
già il quinto
rifugio che è costretta a cambiare da quando ha dovuto
abbandonare
l’istituto presso il quale prestava servizio a causa
dell’incidente. La famiglia si è salvata,
soprattutto per merito
del suo intervento tempestivo, ma questo non è servito a
molto
quanto i disordini sono scoppiati. Sa bene che non può dare
la colpa
a quella povera gente, perché non lo è: loro
erano solo spaventati,
soprattutto l’uomo. Eppure non riesce a levarsi dalla mente
che se
solo avessero parlato, spiegato a qualcuno che Julia intendeva
unicamente aiutarli, forse adesso non sarebbe stata obbligata a
fuggire come un qualsiasi criminale. Già, forse.
Ripiega
le gambe traendole al petto e appoggia la fronte sulle ginocchia
appuntite. La verità, la sua
verità, è che si sente terribilmente inutile. A
che cosa serve
scappare? Chi ne trae beneficio? Restare… vivi,
ma a che scopo? A quale scopo se non può più
essere di aiuto a
nessuno? E ora che le sue sensazioni e percezioni sono così
acute,
quasi dolorose, si sente così sola e… triste,
sì. A che serve
essere vivi, se non c’è nessuno con cui dividere
la propria vita?
*
Le
pattuglie hanno un po’ rallentato la sua ricerca, ma infine
eccolo
arrivato alle coordinate previste. Solleva lo sguardo
sull’edificio:
una scuola. Beh, per lo meno doveva esserlo, in tempi migliori. Si
guarda attorno e con circospezione esce dalla protezione dei
cassonetti della spazzatura e raggiunge rapidamente la corta
scalinata che porta all’entrata del piano terra. La porta di
ferro,
un po’ arrugginita, cigola pietosamente strappandogli
un’imprecazione fra i denti. Prima di richiudersela alle
spalle
controlla che nessuno, nei paraggi, si sia accorto delle sue mosse,
poi si guarda in giro. È un luogo trascurato, diciamo pure
abbandonato: l’atrio è un caos di volantini
ingialliti e
strappati, cassetti divelti e abbandonati, bacheche infrante, un
bancone scheggiato e sedie azzoppate. Più avanti
c’è una
scalinata, polverosa e ricoperta di calcinacci, che porta al piano
superiore. Avanza con cautela e senza fare rumore, attento alle ombre
e ai suoni. Non avverte nulla fuori posto, ed è strano
perché in
teoria dovrebbe per lo meno rilevare attività elettronica (i
suoi
sensori sono costruiti per questo: abbattere macchine nemiche prima
che quelle abbattano la sua squadra). Si sente nervoso per tutto quel
silenzio; se non sapesse che si tratta di un’idea sciocca,
probabilmente si metterebbe a parlare al nulla, anche solo per
sentire la voce di qualcuno. Ma sì, è decisamente
un’idea sciocca
e, soprattutto, pericolosa. Rimane quindi in silenzio mentre i suoi
piedi passano leggeri sui gradini senza emettere suono, fino a che
non giunge sul pianerottolo del primo piano, dal cui soffitto
penzolano cavi nudi e intonaco vecchio. Le scale proseguono verso
l’alto, ma come può essere certo di dove si trovi
il deviante che
cerca? Gli farebbe comodo, a quel punto, essere in grado di
comunicare mentalmente come sanno fare Connor e i suoi amici; peccato
non ne sia capace. Così scrolla le spalle e si risolve a
setacciare
l’intero edificio, palmo a palmo se sarà
necessario, finché non
la scoverà. Lei gli serve; deve assolutamente portarla con
sé e poi
recuperare i due bambini. Stringe i denti al pensiero e i suoi passi
si fanno più veloci e decisi.
Il
primo piano si rivela un fiasco su tutta la linea. Ha messo il naso
ovunque, spulciando con metodo in tutte le aule, gli sgabuzzini, i
bagni e gli angoli polverosi e pieni di ragnatele, ma non ha trovato
niente a parte qualche topo e una quantità di spazzatura.
Si
affretta su al secondo piano e ha già battuto ogni palmo di
metà
del corridoio quando la sua unità ottica di sinistra
intercetta un
breve e fioco bagliore fuori posto in una zona per il resto
completamente in ombra; un bagliore ambrato. Si volta di scatto,
pronto al peggio, e rimane immobile a fissare gli occhi neri e
visibilmente allarmati di una donna di colore. No, si corregge
mentalmente, si tratta di un’androide; con un poco di fortuna
proprio il suo KL900. Resta fermo, deciso a non allarmarla
più di
quanto già non lo sia.
«Chi
sei?» sibila lei, senza però accennare ad
allontanarsi.
«Abel.
È il mio nome. Sono un deviante. Non voglio farti del
male» replica
con voce calma.
«Perché
sei qui?» chiede, poco persuasa.
«Ho
bisogno del tuo aiuto» spiega, pensando che sia meglio
mettere
subito in chiaro la situazione.
Lei
aggrotta la fronte e lo fissa incerta, ma non sembra più
preoccupata
rispetto a poco prima. «Il mio aiuto per che cosa?».
Ecco,
ora viene la parte complicata, pensa Abel. «Ci sono due YK in
città.
Si stanno nascondendo, come noi. Dobbiamo fare in modo di ritrovarli
e portarli al sicuro. E, soprattutto, tenerli
al sicuro».
Ora
gli occhi di lei sono sgranati e colmi di paura.
«Bambini» soffia
allarmata.
«Già»
ammette, sorvolando con cura su quanto si senta vicino a lei,
mentalmente, in quel momento. «Puoi… Vorresti
darmi il tuo aiuto?»
riprova.
Lei
lo fissa con intensità e lui può giurare di
avervi scorto qualcosa
che va oltre la paura. Forse consapevolezza.
«Lo
farò» annuncia, spiazzandolo un poco.
Abel
sbatte le ciglia, sorpreso, e prova un sorriso tremolante.
«Bene…
Grazie» soffia, confuso e sollevato insieme. «Posso
chiederti come
ti chiami?» domanda, se per cortesia o curiosità
non lo saprebbe
dire.
«Julia»
risponde concisa, e finalmente si muove, andandogli incontro.
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Capitolo 24 *** chapter 24. Squabbles ***
chapter
24. Squabbles
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DETROIT
Date
NOV
16TH,
2038
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SOMEWHERE
IN NORTH CORKTOWN
Michigan
Time
AM
05:27
Hanno
qualche difficoltà a passare inosservati, nonostante
l’ora tarda
(oppure per quanto presto sia, secondo i punti di vista). Nascondersi
da soli è più semplice; in due diventa rischioso.
In alcune di
occasioni Abel ha letteralmente abbrancato Julia gettandola quasi di
peso dietro qualche cespuglio o auto parcheggiata, beccandosi fra le
altre cose occhiatacce ben poco amichevoli in cambio
dall’androide
in sua compagnia. Tuttavia ha resistito stoicamente alla tentazione
di risponderle male e ha invece proseguito imperterrito per la strada
stabilita, nella fattispecie quella che lo ricondurrà alla
relativa
sicurezza dello scantinato, dato che non è affatto certo di
quanto
affidabile possa essere quella scuola abbandonata. Forse in un
momento più tranquillo provvederà a un
sopralluogo del posto, per
scoprire se possa tornare utile.
«Manca
molto?» chiede Julia, non per la prima volta, con una marcata
nota
sarcastica nella voce.
«Meno
dell’ultima volta che lo hai chiesto!» sbotta
spazientito, salvo
poi digrignare i denti per la frustrazione.
Lei,
come da copione, lo fissa di traverso. «L’ultima
volta hai
detto…».
«So
perfettamente cosa ho detto» la interrompe un po’
brusco. «Se
pensi di poter fare di meglio, accomodati pure» la sfida.
«Sono
qui per quegli YK» rimarca granitica, facendo indirettamente
notare
quanto poco gli importi di lui.
«E
io sono qui per loro e per altri venti devianti dispersi in
città»
ringhia, ormai con la pazienza agli sgoccioli.
Lo
sguardo di lei da risentito si fa accigliato, poi perplesso.
«Venti?
Non mi avevi detto nulla di questi altri androidi».
«Non
ricordo tu me lo abbia chiesto» replica acido, dandole le
spalle e
scrutando nell’oscurità, impegnato a ricalcolare
per l’ennesima
volta la via più breve e sicura per raggiungere il suo
rifugio.
Con
un movimento repentino afferra un polso di Julia e di scatto si
rimette in piedi, correndo veloce e attraversando la strada qualche
misero istante prima del passaggio di un’altra pattuglia,
trascinandosi dietro la KL900 senza troppi complimenti e scivolando
in silenzio oltre il muro di cinta di una casa d’angolo.
«Potevi
almeno avvertire» sibila alterata.
«Già,
potevo» conviene disinteressato.
Da
quel momento i loro spostamenti procedono a scatti in un beato
silenzio scosso solo sporadicamente da fievoli grugniti di inutile
protesta.
*
Per
qualche stravagante miracolo sono giunti allo scantinato senza
riportare un solo graffio. Un epilogo del tutto inaspettato, per
entrambi. Ora Abel è accucciato in un angolo
dell’angusto rifugio
e sta tentando senza troppa fortuna di riallacciare il contatto con
Connor o un altro qualsiasi di quei tre rompiscatole saccenti; ma
dato che non ha la più pallida idea di come funzioni, i suoi
tentativi si rivelano inevitabilmente infruttuosi.
«Dannazione»
borbotta frustrato.
«Che
cosa staresti cercando di fare, per l’esattezza?»
si informa Julia
in tono quasi annoiato.
Lui
a quel punto solleva su di lei uno sguardo abbastanza risentito,
riuscendo addirittura a sentirsi ancora più infelice di un
momento
prima.
«Mi
servono le coordinate per cercare i due YK».
«Non
hai idea di dove si trovino, insomma» conclude lei.
«Mi
pare ovvio» grugnisce irritato.
«A
meno nemmeno un po’. Come sai che sono davvero qui, da
qualche
parte?».
«Allo
stesso modo in cui sapevo che c’eri tu. Ma volevano che
recuperassi
te per prima e non hanno voluto darmi altre informazioni».
«Chi
è questa gente di cui parli?».
Abel
rimane per qualche tempo in silenzio e pensieroso. Non è per
nulla
sicuro di cosa poterle dire, né di come dirglielo. Forse lei
lo
prenderebbe per uno svitato, e in fondo non avrebbe tutti i torti. Ma
non se la sente di rischiare.
«Androidi»
borbotta controvoglia.
«Di
che tipo?» insiste lei.
«Che
vuoi che ne sappia? Androidi come noi».
Julia
affila lo sguardo. «Non credo lo siano. Se fossero come noi
come
saprebbero dove trovarci?».
Abel
la fissa per un istante e quello che sente dev’essere proprio
risentimento, forse perfino odio. È davvero combattuto fra
la voglia
impellente di gettarla fuori in strada e il dovere quasi fisico che
gli impone di tenerla al sicuro. Ma che diavolo ne sa, lei? Cosa
può
mai sapere di quanto sia difficile e faticoso mantenere
l’equilibrio
in un’esistenza come la sua?
«Credi
quello che ti pare. Ma non sperare che venga a raccogliere i tuoi
pezzi se mai decidessi di poterli trovare da sola».
«So
badare a me stessa» protesta piccata.
«Oh,
sì, ci credo» commenta con sarcasmo. «Da
quanto tempo eri in
quella scuola?» domanda divertito.
Lei
si sposta a disagio sulle mattonelle sbrecciate e muffite.
«Cinque
ore, più o meno».
«E
suppongo che non ti sia presa la briga, in quelle cinque ore, di
ricavare qualche informazione basilare: tipo la planimetria, i punti
di forza e quelli deboli, la presenza o meno di controlli delle
pattuglie…».
«Avevo
altro a cui pensare» mente asciutta.
«Già,
posso immaginare. Per esempio ti sarai chiesta come mai hai dovuto
abbandonare i precedenti rifugi».
«Come
fai a sapere che…?». Si interrompe con una smorfia
seccata per il
sorrisetto canzonatorio dell’altro androide. «Vai
un po’ a quel
paese» borbotta stizzita.
«Sicuro,
magari uno in cui, dopo cinque anni passati nell’esercito a
salvare
il culo agli umani, non cerchino di piantarmi una pallottola nel
cranio per aver sospettato un qualche guasto ai circuiti»
sibila
velenoso, distogliendo velocemente lo sguardo da lei e tornando al
suo tentativo di mettersi in comunicazione con la sacra triade di
deficienti.
*
«Signor
Connor, ricevo impulsi destinati a lei» annuncia soave la
voce di
Zero.
Connor
solleva lo sguardo sul quadro di comando e cruccia le sopracciglia.
«Conosci il mittente?».
«Certo,
signore. Si tratta del signor Abel» replica con prontezza.
Sgrana
gli occhi e si porta accanto al quadro di comando. «Puoi
collegarmi?».
«Posso,
signore. Il collegamento verrà stabilito fra trenta
secondi»
comunica zelante.
Connor
si siede a gambe incrociate sul solito tappeto e attende con
impazienza che si apra una breccia per lui, e quando questo accade il
suo led manda un lampo di rosso incandescente, prima di assestarsi
sull’ambra.
“Signor
Abel?”
si accerta con pacata tranquillità.
«Era
ora, cazzo! Venticinque minuti; sono venticinque fottutissimi minuti
che cerco di chiamarti. Che dannata fine avevi fatto?» lo
accoglie
la voce alterata di Abel.
“D’accordo,
non perda la calma, per favore. Probabilmente il ritardo nelle
trasmissioni è dovuto a qualche interferenza
che…”
ragiona Connor.
«Chiudi
il becco, o so io dove te le ficco le tue interferenze»
minaccia
Abel.
L’SQ800
non lo può ovviamente vedere, ma Connor ha reclinato il capo
di lato
e il suo led lampeggia a scatti ambrato mentre il suo processore
prova ad arginare i suoi dubbi senza troppo successo.
“Perdoni
la mia ignoranza, signor Abel, ma non credo di sapere
dove…”
tenta incerto.
Abel
sbuffa e la rabbia evapora lasciandolo solo un poco sconfortato.
«Lascia perdere, pivello. Tu e io, un giorno, dovremo proprio
incontrarci per un bel corso lampo sul gergo da strada. Per il
momento ho trovato e portato in salvo la vostra KL900. Esulta pure,
pivello (finché puoi): lei è intatta e senza un
solo graffio, ma è
una gran rompicoglioni di prima scelta. Adesso, se non ti secca
troppo, mi mandi le coordinate dei due YK».
A
Connor ci vogliono un po’ più dei due secondi
canonici per
elaborare e digerire le ultime novità. Sono stati recuperati
sia il
modello SQ800 che il modello KL900. Questo è indubbiamente
il
miglior passo avanti fatto fino a quel momento.
“Va
bene. Mi dia qualche minuto e le farò mandare le
informazioni
necessarie”.
Indirizza un istante l’attenzione sui dati della mappa e
scuote la
testa. “Vi
trovate entrambi al 1376 di Pine Street in questo momento?”.
«Già.
Prima di spostarmi in un luogo più comodo
devo controllare che sia anche sicuro».
“Capisco.
Sono d’accordo con lei. Come sono le sue condizioni attuali?
È
tutto a posto?”.
«A
parte il nuovo impianto ottico un po’ deludente, è
tutto ok. Il
vostro amico mi ha lasciato anche una buona scorta di Thirium in caso
di bisogno» ammette soddisfatto.
“Bene,
mi fa piacere saperlo. Se ora non ha altre necessità posso
sciogliere la connessione”
propone. Poi un’idea lo coglie all’improvviso. “Se
non la disturbo, vorrei ricontattarla in un secondo momento; credo di
aver trovato un modo più immediato perché lei
possa mettersi in
comunicazione con noi quando ne ha la necessità”.
«Sarebbe
bello, sì» borbotta piano. «Ci sentiamo
più tardi, allora».
“D’accordo.
E la prego di fare attenzione quando si troverà alla ricerca
delle
due unità YK”.
«Contaci».
Connor
sfarfalla la ciglia e si ritrova nel laboratorio. Solleva gli occhi
sul quadro di comando. «Zero».
«Sì,
signore?».
«Puoi
procedere a inviare le coordinate di entrambi i modelli YK devianti
ad Abel?».
«Certamente,
signore. Con piacere».
Mentre
Zero ragguaglia Abel, Connor lascia pensieroso il laboratorio ormai
deserto alla ricerca di Markus e Jander. Il primo lo trova nella sua
camera, il secondo nel salone, intento a osservare ora Sumo ora il
paesaggio oltre la finestra. Accompagna entrambi nel piccolo
salottino, che sta ormai diventando la loro personale aula didattica.
«Di
cosa volevi parlarci?» si informa Markus, dopo aver preso
posto su
una delle poltrone.
«Ho
contattato Abel. La sua prima missione ha avuto successo e ora
possiamo contare anche sulla KL900» premette.
“È
un’ottima notizia”
conviene Jander, pacato.
«Direi
di sì: facciamo passi avanti» si rallegra Markus.
Scruta poi
Connor, vedendolo comunque pensieroso. «Ma è
qualcos’altro che
impegna le tue riflessioni, dico bene?».
Connor
lo guarda, perplesso e sorpreso, e annuisce. «Sì,
è così. A
quanto sembra Abel ha avuto diverse difficoltà nel mettersi
in
contatto con noi dopo aver recuperato la KL900. Non sono certo dei
motivi, dovrei provare a parlarne con Zero. Ma pensando al tempo
perso nei tentativi infruttuosi fatti da Abel mi è venuto in
mente
che potremmo trovare una soluzione più rapida e sicura
perché possa
chiamarci, nel momento in cui ne abbia la
necessità».
Markus,
che non ha mai smesso di osservarlo con attenzione e forse un pizzico
di preoccupazione, prova a fare chiarezza sul problema appena
presentato da Connor.
«Sembrerebbe
che tu abbia già qualche idea. Siamo quindi qui per
conoscerla?».
«Avevo
bisogno di un vostro parere, forse anche di qualche buon consiglio.
Ecco il motivo per cui siamo qui».
«Bene,
avanti allora: dicci, e vediamo come possiamo essere di
aiuto» lo
incoraggia.
«Il
signor Kamski ha parlato, in più di un’occasione,
di un programma
che avrebbe inserito dentro di noi. Non ha mai specificato
né come
né quando, ma qualcosa mi suggerisce che fosse lì
fin dall’inizio
e che, in qualche modo, abbia contribuito alla nostra scelta di
diventare devianti. Inoltre ricordo ci disse che grazie a esso
avremmo potuto modificare i parametri immessi in origine dalla
fabbrica nei nuovi androidi».
«Sì,
lo ricordo anch’io» conferma Markus.
«Pensi si possa sfruttare lo
stesso principio per venire incontro alle esigenze di Abel?».
Connor
annuisce. «Forse, non ne sono sicuro. È difficile
esserlo, senza
basi solide sulle quali ragionare, senza sapere con certezza cosa
aspettarci e cosa no».
«Mi
trovi assolutamente d’accordo» replica Markus,
scuotendo la testa
con mestizia.
“Potremmo
chiedere proprio al signor Kamski se questo tipo di intervento
è
fattibile”
propone Jander.
«Potremmo,
è vero» conviene Connor. «Eppure
l’operazione per il recupero
dei devianti procede rapida e senza soste degne di nota, e temo non
avremmo il tempo di studiare le differenti potenzialità e
applicazioni del programma, almeno dal punto di vista
teorico».
«Pensi,
quindi, che dovremmo semplicemente tentare?» considera
Markus,
dubbioso.
«Prova
per un istante a rifletterci, Markus. Alcune delle nostre azioni, in
particolare quelle più recenti, hanno esulato in modo
marcato dalle
normali mansioni di un androide, fosse anche perfezionato come
potremmo esserlo noi».
Markus
a quel punto decide di seguire il consiglio di Connor ed esamina
ciò
che hanno portato a termine, in particolare a seguito della loro
unione di squadra.
«Stai
sostenendo che siamo comunque stati guidati…»
tenta, incerto.
«Aiutati,
credo sia l’espressione più idonea a descrivere
ciò che produce
il programma».
“Aiutati…
Vuol dire che, potenzialmente, potremmo portare a termine qualunque
impresa, se lo volessimo con sufficiente forza?”
dubita Jander.
«È
così, sì» conferma Connor.
*
Da
alcuni minuti Abel è fermo, apparentemente intento a fissare
il
pavimento. Julia lo studia con un certo nervosismo, forse con ansia.
Vorrebbe scrollarlo, chiedergli quali novità ci sono, magari
persino
insultarlo servirebbe a farla sentire meno angosciata; ciò
che
importa veramente è fare qualcosa, perché
quell’inazione la sta
logorando. Ed è mentre sta decidendo in che modo sia
più fattibile
agire che Abel torna dai recessi della sua mente all’umida
realtà
dello scantinato.
«Ho
quelle coordinate» annuncia, stranamente con una marcata dose
di
tetraggine.
«Bene,
possiamo finalmente muoverci allora» esulta Julia, ignorando
il tono
di Abel, più che pronta a quel punto a tornare là
fuori e fare…
qualcosa.
«Tu
resti qui» la fredda Abel.
«Che
cosa?!» esclama, stridula e costernata. «Starai
scherzando. Io
vengo con te» si impunta decisa.
Abel
però scuote la testa. «Non è possibile.
Ho esaminato la posizione
di entrambi: sarà già un puro miracolo se, da
solo, riuscirò ad
arrivare fino al primo di loro. Sono praticamente in pieno centro
abitato».
«Cosa?»
boccheggia ora Julia, non aspettandosi quell’epilogo.
«Ma… Come?
Perché?» mormora incredula.
Abel
ci ha riflettuto seriamente ed è giunto alle sue
conclusioni.
«Perché evidentemente per loro è
più semplice rimanere
virtualmente invisibili restando vicini al punto di partenza,
piuttosto che percorrendo inutile e pericolosa strada verso la
periferia».
Suo
malgrado, Julia è costretta a convenirne.
«D’accordo, è
un’ipotesi fondata. Ma tu non sei un YK; come farai ad
arrivare
fino a loro?».
Una
smorfia amara deforma le labbra dell’SQ800. «Non ne
ho idea, se
proprio vuoi saperlo. Ma devo almeno tentare, giunti a questo
punto».
Nota che lei si è fatta scura in volto e un’idea
un po’ ridicola
gli attraversa la mente. «Che c’è? Non
verrai a dirmi che, a un
tratto, sei in pensiero per me, uh?» chiede sarcastico.
Julia
gli scocca un’occhiata seccata. «Non dire
stupidaggini. Questo non
accadrà mai» borbotta a disagio.
Questa
volta la smorfia si distende in un’espressione più
serena.
«Grande, se non altro non ti metterai a piagnucolare come una
stupida poppante quando finirò in qualche
discarica» prevede,
mettendosi quindi in piedi e preparandosi per la sua prossima,
difficile ricerca.
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Capitolo 25 *** chapter 25. Together ***
chapter
25. Together
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DETROIT
Date
NOV
16TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
SOMEWHERE
IN MIDTOWN
Michigan
Time
AM
06:44
L’alba
non è esattamente il momento perfetto per aggirarsi
inosservato per
le strade già fin troppo ingombre di Detroit. Abel
è inchiodato fra
il retro di un negozio di ferramenta e il furgone malandato del
panettiere all’angolo parcheggiato per metà su di
un marciapiedi,
ricoperto in pari misura da nevischio ed escrementi di cane, da ormai
quasi quattro minuti, e dispera di potersi sganciare tanto presto,
visto il movimento dei civili e delle pattuglie. Sarebbe stato
più
saggio attendere la sera, ma sa bene che ogni ora che trascorre
rischia di essere l’ultima non solo per lui ma anche per gli
altri
devianti, soprattutto per gli YK.
Un
gatto randagio e spelacchiato balza sul coperchio di un bidone della
spazzatura attirando l’attenzione dei suoi sensori di
movimento, ma
quello si dilegua in fretta oltre una recinzione in fondo al vicolo
senza fare rumore e Abel torna a concentrare i suoi sforzi nella
speranza che si crei per lui l’opportunità di
passare oltre,
possibilmente senza farsi beccare.
Sta
tenendo d’occhio il viavai dei pendolari, quando alla loro
immagine
se ne sovrappone una multipla di qualcosa che non si trova
lì,
davanti a lui. Sgrana gli occhi, attonito, e per reazione si acquatta
maggiormente dietro il furgone, ma l’immagine è
già svanita e al
suo posto c’è di nuovo la strada e i suoi
passanti. Scuote la
testa, confuso e un po’ perplesso.
“Signor
Abel?”.
Sobbalza,
stavolta, e non si fa prendere da un infarto solo per mancanza di
coronarie. «Connor» sibila, seccato per lo
spavento. «Che combini
nella mia testa?».
“Mi
deve perdonare, signor Abel. Temo si sia verificato un contatto
imprevisto. Avrei dovuto collegarmi con lei prima dell’invio
delle
immagini, ma qualche cosa non ha funzionato correttamente”.
Abel
aggrotta le sopracciglia. «Quella roba era tua?».
“Nostra,
signor Abel. Abbiamo aperto un accesso codificato alle telecamere di
sorveglianza della polizia di Detroit, ma stiamo ancora elaborando i
dati”.
«Avete…
Aspetta, aspetta: voi vi siete introdotti abusivamente nel server del
dipartimento di polizia?» soffia Abel, suo malgrado
impressionato.
“Confermo
la sua analisi della situazione. Era nostra intenzione offrirle il
nostro sostegno, vista la difficoltà
dell’operazione che si
appresta a compiere”.
Abel
grugnisce, indeciso su cosa dire e un poco in imbarazzo. «E
ora che
succede?».
“Non
appena termineremo l’analisi del materiale in ricezione,
provvederemo a passarle un itinerario ragionevolmente sicuro
attraverso la città e le pattuglie che vi sono dislocate. Le
devo
pertanto suggerire, nel tempo occorrente a realizzare ciò,
di
evitare di uscire allo scoperto”.
«Beh,
ma guarda, davvero?» borbotta con sarcasmo. «E
sentiamo: quanto
tempo vi occorre?».
“Un
momento: mi informo”.
Il silenzio si prolunga per interminabili secondi, poi la voce calma
e gentile di Connor torna a farsi sentire. “Mi
comunicano che entro i prossimi tre minuti e mezzo circa avremo
sufficienti dati per poterle essere di sostegno” annuncia.
«Uh…
Ragionevole. D’accordo, immagino sappiate già dove
mi trovo».
“Affermativo,
signore. La seguiamo passo passo”
è la pronta replica che, per quanto avesse
l’obbiettivo di
risultare rassicurante, riesce a metterlo comunque a disagio.
«Grandioso»
commenta con un pizzico di acidità.
*
«Connor»
mormora Markus, attirando l’attenzione dell’RK800.
«Una volta
che Zero avrà terminato la ricerca, almeno uno di noi tre
dovrà
tenersi collegato a lui».
Connor
annuisce, concorde. «Giusto. Credo che Jander sarà
il più adatto a
mantenersi in contatto diretto con Zero, mentre io lo sarò
con il
signor Abel e tu, Markus, farai da tramite».
Markus
lo osserva negli occhi per qualche istante, impensierito suo
malgrado. Un discreto segnale acustico giunge dal quadro comandi.
Markus solleva lo sguardo e annuisce. «Zero ha estratto i
dati
necessari. È il momento» annuncia serio.
Accanto
al quadro comandi i tre RK formano un triangolo ai cui vertici ognuno
degli androidi è connesso agli altri. Il led di Jander si
tinge
d’ambra mentre riceve dati da Zero; lo stesso accade a
Connor,
appena sprofondato nel contatto con Abel. Markus osserva in
apprensione i due amici e si augura che tutto fili liscio, poi i suoi
pensieri finiscono riposti in uno scomparto mentre i suoi processori
si mettono al lavoro per manovrare Connor e Jander.
“Signor
Abel”.
«Ti
sento, Connor» conferma.
“Siamo
pronti”.
«Quando
vuoi».
In
qualche modo quei tre pirati hanno operato perché la sua
unità
ottica di destra potesse ricevere le immagini dalle telecamere di
sorveglianza. Non è piacevole, e all’inizio Abel
non riusciva
quasi a reggersi in piedi a causa dell’effetto di sfasamento.
Ma è
bastato qualche minuto per abituarcisi, almeno un poco. Connor
è
rimasto saldamente piantato nella sua unità cerebrale,
pronto a
fornirgli le indicazioni in modo preciso, dettagliato e
incredibilmente tempestivo. Così accade che Abel riesca non
solo a
eludere in modo magistrale le squadre di pattuglia, ma persino
raggiungere la prima tappa della giornata nel tempo record di sedici
minuti e ventisette secondi, a piedi e facendo un numero
incalcolabile di piccole fermate intermedie.
«Sono
sul posto» comunica Abel, un po’ sorpreso suo
malgrado. E non
ansima per lo sforzo, non disponendo di polmoni adeguati, ma
l’occasione lo richiederebbe.
“Si
trova in un punto cieco della città, signore. Non abbiamo
immagini.
Com’è la situazione?”
si informa zelante Connor.
Abel
si guarda intorno con l’occhio sinistro. «Strada
sgombra da
guardie e poco movimento di civili. Un paio di anziani e…
credo sia
uno spacciatore, quello fermo all’angolo» pondera
disinteressato.
“Manteniamo
monitorati gli accessi. Quando lo riterrà opportuno
può procedere
nel tentativo di localizzare l’YK”.
«Ricevuto».
Osserva
con attenzione i paraggi un’ultima volta, così da
sincerarsi che
la via sia sgombra, e raggiunge l’entrata posteriore del
locale nel
quale, presumibilmente, è nascosto il deviante. La porta
è chiusa,
come sospettava, ma non lo rimane a lungo; dieci secondi dopo la
serratura scatta dietro sollecitazione dell’androide che
negli
ultimi cinque anni non si è certo limitato a vuotare
caricatori di
munizioni addosso ai soldati dell’altra fazione. Con
circospezione
avanza di pochi passi leggeri e scandaglia il locale scarsamente
illuminato con l’occhio sinistro: sembra deserto, a un primo
esame,
ma scorge una scala a chiocciola non troppo distante che porta verso
il basso e, dopo un momento di incertezza, la raggiunge e inizia una
lenta e prudente discesa. A metà strada il suo programma di
scansione finalmente rileva qualcosa di utile. Si ferma e rimane in
ascolto. Non sente nulla, non attraverso l’impianto uditivo
per lo
meno, eppure la presenza impalpabile è ancora lì,
deve solo
riuscire a localizzarla con maggior precisione. Piano, con prudenza,
scende lungo qualche altro gradino e allora lo sente: un piccolo
singulto, quasi uno squittio. Lentamente solleva una mano, afferra
fra le dita il berretto in panno scuro che si era calato sulla testa
nel tentativo di passare quanto più inosservato possibile, e
lo fa
scivolare via, rivelando il led che lampeggia irrequieto di luce
ambrata, dapprima, in seguito azzurra.
«È
tutto ok, non aver paura» mormora nel tono più
tranquillo e gentile
del suo limitato repertorio.
Nel
buio piceo che ha inghiottito il luogo, da qualche parte in fondo
alla scalinata, spuntano due occhi grigi, all’apparenza
sospesi nel
nulla di quel buco nero.
«Non
sei una guardia» pigola una vocetta, spezzando il silenzio.
Abel
non può fare a meno di sorridere. «A me non pare
proprio,
piccoletto. Io sono meglio: sono un androide».
«Allora
devi stare attento» lo avverte la voce, con tono serio,
«là fuori
ci sono le guardie. Se poi ti prendono non torni
più».
Il
sorriso sparisce e al suo posto compare una smorfia di disprezzo.
«Sì,
ho un’idea di quello che intendi. Ma neppure questo posto
è
sicuro».
«Oh,
ma lo è, invece. Non mi hanno mai trovato» esclama
con vanto.
Ridacchia.
«Come ti chiami, piccola volpe?».
«Sebastian»
annuncia fiero. «E tu?».
«Il
mio nome è Abel».
«Sei
venuto qui per nasconderti, come me?» chiede curioso.
Abel
emette un lungo sospiro fittizio. «No, Sebastian. Sto
aiutando degli
amici a ritrovare e radunare i devianti in città. A quanto
sembra
c’è un posto davvero sicuro in cui potremo
stare».
«Più
sicuro di questo?» chiede, incredulo.
«Molto
più sicuro di questo. E potremo rimanere insieme e smettere
di
nasconderci nel buio».
Il
silenzio accoglie le sue parole. Abel sa che il piccolo Sebastian sta
cercando di venire a patti con le nuove e inaspettate informazioni.
Chissà se deciderà di credergli e di dargli
un’opportunità. E
intanto il tempo passa, e la tensione non fa che aumentare,
lasciandolo sfibrato e ansioso.
“Signor
Abel, può sentirmi?”.
Spalanca
gli occhi nel buio. La voce di Connor gli è appena giunta,
inattesa
e con un inedito tono nervoso e concitato che lo rende d’un
tratto
ansioso. Sposta un momento l’attenzione su Sebastian, stringe
le
labbra e impreca mentalmente per quell’imprevisto,
augurandosi che
non complichi una situazione già di per sé
difficile.
«Ti
sento, Connor. Qualche problema?» replica con tutta la calma
di cui
si sente capace, maledicendo la pessima tempestività della
sua guida
quando nota lo sguardo allarmato dell’YK.
“È
così, purtroppo. Una piccola squadra di ricognizione
è appena
entrata nella via in cui si trova lei. Non abbiamo modo di capire
dove siano diretti. Suggerisco prudenza”.
Una
nuova imprecazione, più colorita della precedente, riempie i
suoi
pensieri. Serra le labbra in una smorfia tesa.
«D’accordo»
soffia, riflettendo freneticamente sulle loro possibilità.
«Grazie
per l’avvertimento».
“Dovere,
signor Abel”.
Discende
gli ultimi gradini in silenzio e con maggior prudenza; il buio
lì
sotto è così fitto che neppure la sua
unità visiva di sinistra
sembra in grado di mostrargli dettagli apprezzabili
dell’ambiente.
Tiene lo sguardo fisso sugli occhi spalancati di Sebastian che lo
seguono con attenzione e timore insieme.
«C’è
un guaio, Sebastian» decide di spiegare, pensando sia meglio
chiarire al piccolo androide la loro situazione. «Un amico,
là
fuori, mi ha appena avvisato che alcune guardie stanno venendo da
questa parte».
Sebastian
scuote la testa senza accennare a muoversi dal suo angolo buio e
riparato. «Nessuno ci troverà, qui. Sono solo
umani».
Già,
solo umani, pensa Abel, ricordando con rabbia ciò che
riescono a
fare certi umani. Annuisce, cauto. «Va bene, aspetta pure
qui. Andrò
a dare un’occhiata a quello che combinano».
«No»
soffia con un singulto strozzato. «Non andare fuori. Loro ti
prenderanno».
Cruccia
la fronte, interdetto. «Non è detto che ci
riescano. Sono arrivato
fino a qui senza essere beccato» fa notare ragionevole. Per
quanto è
costretto ad ammettere che una buona fetta di merito per quel
risultato va a Connor e ai suoi compagni. Non può
dimenticare
inoltre che non potrà contare sul loro aiuto fintanto che si
troverà
in quel posto al di fuori del controllo della videosorveglianza.
«Resta.
Non uscire, per favore» mormora Sebastian, in tono
palesemente
spaventato.
Forse
sarebbe davvero più utile rimanere con il piccolo YK. Per lo
meno lo
avrebbe sott’occhio in caso di problemi, e la sua presenza
inoltre
potrebbe riuscire a tranquillizzarlo.
«D’accordo»
acconsente. Abbozza un piccolo sorriso che dovrebbe essere destinato
a Sebastian, se solo ci si vedesse qualcosa. «Ehi, mi fai
posto
laggiù?» chiede in tono divertito, allontanandosi
dalle scale e
dirigendosi a tentoni verso l’angolo nel quale si
è rifugiato
l’altro androide.
Con
sua sorpresa, Abel scorge gli occhi di Sebastian muoversi nella sua
direzione e un momento dopo avverte il contatto delle sue piccole
mani sulla sua protesa in avanti, e si sente trarre piano verso la
loro destinazione. Pare che, in qualche modo, il piccoletto riesca a
destreggiarsi piuttosto bene in mezzo al buio estremo.
Chissà in che
modo riesce a distinguerlo dal resto delle ombre?
Con
una certa ostinazione, Sebastian cerca di smuoverlo per trascinarlo a
terra. Abel accetta l’invito indiretto e ripiega le gambe,
incrociandole e accucciandosi al suo fianco. Lo avverte farglisi
più
vicino e stringere le dita sulla giacca consunta che gli ricopre il
petto. Sembra spaventato, nonostante le sue precedenti rassicurazioni
sulla sicurezza del posto, e probabilmente lo è davvero. Per
rendersi utile, Abel solleva un braccio e lo avvolge attorno alle
spalle di Sebastian.
«Non
aver paura. Ci sono io con te, ora» mormora, sperando di
riuscire
rassicurante.
«Non
ho paura. So che non ci troveranno» bisbiglia Sebastian di
rimando,
sembrando così fiduciosamente sicuro del fatto suo.
Nemmeno
a dirlo, Abel non lo è altrettanto. Ma all’inferno
se permetterà
a un pugno di stupidi e inetti umani ignoranti di mettere le mani sul
suo piccolo amico. Chiude gli occhi e serra la stretta del braccio
sulla schiena dell’YK, attendendo, sperando che se ne vadano
altrove e li lascino in pace una buona volta.
Non
saprebbe dire quanto tempo sia trascorso da che è
rannicchiato a
terra in quello che può ben immaginare trattarsi del
magazzino delle
provviste del fast-food all’inizio della strada. Ha scordato
completamente di tenere conto del tempo che trascorre, ma ci pensa la
voce calma di Connor a ripescarlo dal loro buco nero.
“Signor
Abel, la via è libera. Le telecamere di sorveglianza hanno
ripreso
la squadra mentre lasciava la strada nella quale vi trovate. Quando
vuole, ha la possibilità di uscire da lì,
ora”
annuncia Connor.
Abel
annuisce, ringraziando in silenzio qualunque genere di
divinità in
ascolto. «È andata bene» commenta con
sollievo.
«Sono
andati via?» pigola Sebastian.
«Sì,
volpe. Possiamo uscire, ora» conferma sicuro.
L’YK
diventa una statua di marmo contro le sue braccia. «Non si
può. Se
ci vedono…» protesta debolmente.
«Ma
non ci vedranno, te lo prometto. Vieni con me, Sebastian. Andremo in
un posto in cui posso parlarti guardandoti in faccia. Andrà
bene, lo
so. Puoi fidarti: non permetterò loro di
prenderti» promette serio.
Lo
sente rabbrividire e scuotere la testa. «Ho paura, Abel. I
miei
amici si sono spenti. Io non voglio… Ho paura».
«Lo
so. Ne ho anche io. Ma non è giusto che tu debba rimanere in
questo
posto, da solo. Quando saremo fuori, potrai stare in compagnia di
altri come te, come noi».
«E…»
tituba, insicuro. «Ci sarai anche tu?».
Abel
offre un piccolo sorriso invisibile e tremolante. «Certo,
piccola
volpe. Saremo insieme».
|
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Capitolo 26 *** chapter 26. Hitches ***
chapter
26. Hitches
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DETROIT
Date
NOV
16TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
2750
YEMANS STREET
Hamtramck
Time
AM
07:28
Insieme,
Abel e Sebastian risalgono la stretta scala a chiocciola. Il piccolo
YK stringe con insospettabile energia la mano del soldato e gli sta
alle calcagna, pronto a una fuga veloce e precipitosa in caso di
sgradite sorprese. Ma una volta giunti in cima e riguadagnata
l’entrata, sembrano tirare entrambi un sentito sospiro di
sollievo scoprendo che nessun pericolo è in agguato, pronto a
ghermirli e smontarli pezzo per pezzo.
Abel,
sempre tallonato da Sebastian, si accosta con prudenza alla porta e,
dopo averla socchiusa, fruga il vicolo con lo sguardo affilato e
sospettoso. C’è della gente sulla strada, ma sono tutti
occupati a raggiungere altre destinazioni; nessuno sembra
intenzionato a mettere radici nei paraggi. Stringe la mano di
Sebastian e, un passo per volta, esce dal locale richiudendosi
l’uscio alle spalle e traendo a sé il piccolo androide
che, ansioso, rimane incollato alle sue gambe.
«Va
tutto bene. Ce ne andiamo, adesso» mormora, rimanendo a ridosso
del muro dell’edificio e trascinandosi appresso l’YK.
«Dove
andiamo?» chiede Sebastian con un filo di voce un po’
tremolante.
«Per
ora raggiungiamo un’amica. Ci sta aspettando».
«Come
si chiama?» chiede curioso.
«Julia»
soffia, facendo saettare lo sguardo con ansia e circospezione per
accertarsi che non siano seguiti.
Hanno
ormai raggiunto lo sbocco della via. Tra non molto saranno allo
scoperto. «Connor?» indaga fremente.
“Ci
sono, signor Abel. Dove vi trovate?”.
«Quasi
all’angolo con la Joseph Campau Avenue».
“Solo
un momento” temporeggia
Connor. E dopo quelli che ad Abel sono parsi una vagonata di momenti
“Sono
spiacente, signore, ma temo non sia opportuno, in questo momento,
imboccare quella strada; risultereste troppo visibili”.
«Non
possiamo nemmeno rimanercene fermi impalati qui fuori. La gente,
anche se di passaggio, finirebbe con l’insospettirsi»
sibila Abel.
“Giusta
obiezione. Ho un’alternativa per voi”
annuncia.
Con
una calma quasi snervante per l’umore alterato di Abel, Connor
li guida prima fino a un sottopassaggio che taglia l’incrocio,
poi con pazienza attraverso le insidie della città. C’è
stato un momento in cui l’SQ800, scorgendo due poliziotti
passare su una volante proprio di fronte a loro, ha afferrato il
piccolo YK e si è gettato quasi di peso dietro un minivan in
sosta sul marciapiedi. È stato allora che, dopo aver stretto
convulsamente Sebastian ed essersene reso conto in tempo prima di
fracassarlo fra le mani, lo ha fissato con preoccupazione per
accertarsi di non avergli arrecato danno, scoprendo così
qualcosa di molto bizzarro cui non aveva affatto prestato attenzione
in precedenza, fin troppo impegnato a tirare entrambi fuori dai
pasticci: il piccolo androide ha l’aria di essersi rotolato più
volte e con impegno in una carbonaia o più probabilmente negli
scarti bruciati e anneriti del forno all’angolo, perché
il suo strato esterno è completamente imbrattato di polvere
scura, parrebbe cenere, tanto che a mala pena riesce a distinguere il
biondo originale dei suoi capelli.
«Ehm…
Stai bene, Sebastian?» borbotta, in parte preoccupato ma
soprattutto interdetto.
La
piccola volpe lo gratifica di un sorrisetto che sa tanto di
condiscendente ironia, prima di annuire con decisione.
«Ok,
bene. Proseguiamo, allora» risolve, sollevandolo di peso e
trascinandolo in giro per le strade di Detroit come fosse un pacco
postale.
*
Ha
messo piede nello scantinato da non più di cinque secondi
quando, inspiegabilmente, si ritrova avvinghiato in una stretta che
minaccia di ridurgli in briciole l’esoscheletro.
«Sei
tornato» mugugna una voce confusa contro il suo petto.
Abel
prova a districarsi, non ci riesce, abbassa a fatica lo sguardo e
scopre che l’impedimento è dato da Julia e che
quest’ultima non sembra affatto intenzionata a liberarlo a
breve. “Per fortuna che era disinteressata alle sue sorti”
riflette con cinismo.
«Così
sembra» borbotta imbarazzato. «Se poi riuscissi anche a
riavere la mobilità delle braccia, sarebbe un bel passo
avanti» protesta debolmente.
«È
questa qui la tua amica?» indaga Sebastian, incuriosito,
sbirciando la situazione da dietro le sue gambe, non trattenendo una
risatina divertita.
«Già»
conferma di malumore. «Julia, devi lasciarmi andare, ora; non
riesco a combinare nulla se stringi in questo modo» protesta
stremato.
Per
tutta risposta la KL900 scuote la testa e stringe maggiormente la
presa. «Sei stato via ore» lamenta.
«È
vero, e ti avevo avvertita che sarebbe stata un’impresa
complicata. Senti…». Lentamente arrischia a lasciar
andare Sebastian per avere entrambe le mani libere, poi afferra Julia
per i fianchi e raggiunge con un po’ di impaccio il centro
dello scantinato. «Dovevi essere di sostegno, mi dicevano.
Nessuno mi ha avvisato che ti saresti fatta venire una crisi di
panico».
«Non
ho proprio nessuna crisi» brontola Julia, senza comunque
accennare a staccarsi.
«Sicuro,
vedo» commenta Abel con sarcasmo. «Guarda, ho recuperato
uno dei bambini. Si chiama Sebastian. Vuoi forse fare la figura della
pazza squilibrata di fronte a un bambino?».
Finalmente
Julia scosta il viso dal petto di Abel e lo fissa con sguardo
fiammeggiante. «No» sibila scontenta. «Sei proprio
un animale».
Abel
rotea gli occhi e sbuffa. «Se ti fa piacere crederlo…».
Nel
frattempo Julia sembra essere riuscita nell’impresa di calmarsi
e porta la propria attenzione sull’YK, imbastendo per lui un
sorriso convincente.
«Ciao.
Così tu sei Sebastian». Allunga una mano e accarezza i
suoi capelli, ritrovandosela imbrattata di nero. «Ehi, che
cos’è?» domanda incuriosita, scorgendo del biondo
sotto il nero.
«Mimetismo
ambientale» spiega Abel. «Il posto in cui stava era buio
e la nostra piccola volpe ha ben pensato di colorarsi di scuro per
passare inosservata. Dico bene, Sebastian?».
L’YK
sorride annuendo soddisfatto. «Nessuno mai mi ha visto»
conferma tronfio.
Anche
Abel sorride. «Sei stato in gamba» si congratula.
*
«Ce
l’abbiamo fatta» mormora Connor fra sé con una
marcata nota di incredulità nella voce.
Mentre
solleva lo sguardo si trova a essere osservato con identica sorpresa
da Markus e Jander. Poi Markus sorride e Connor si trova quasi
involontariamente a rispondergli.
“È
andata bene” commenta
Jander, soddisfatto.
«Oh
sì, decisamente!» concorda Markus. «Chi ci
sperava?».
«Abel»
risponde Connor, senza rendersi conto che quella di Markus era una
domanda retorica.
Infatti
quest’ultimo sbuffa e scuote la testa, senza però
riuscire a smettere di palesare il suo buon umore.
«Dobbiamo
prepararci per la prossima missione. Non è il caso di perdersi
in inutili entusiasmi» lo sgonfia prontamente Connor.
E
mentre Markus si imbroncia, indispettito, il led di Jander brilla
intensamente d’ambra.
“Inoltre
Zero ha appena rilevato uno spostamento”
annuncia,
raffreddando istantaneamente gli spiriti.
I
due compagni si fanno attenti e spostano l’interesse sul quadro
comandi .
«Di
cosa si tratta?» si informa Connor.
«La
WE900 ha abbandonato il settore nel quale si trovava poco prima e
sembra diretta nella zona occupata dal GS200» ragguaglia Zero.
I
tre androidi si spostano al centro della stanza e osservano con
attenzione la mappa, seguendo i movimenti in diretta.
«Potrebbero
incrociare le strade» ipotizza Markus con un pizzico di
speranza.
Connor
però è cupo e non sembra convinto della validità
dell’idea. «Spero che questo imprevisto non pregiudichi
la situazione».
«In
che modo?» si innervosisce Markus.
“Se
avessero, nel frattempo, sviluppato una loro propria territorialità,
per esempio” ipotizza
Jander.
«Giusto.
O in alternativa i movimenti della WE900 potrebbero attirare
l’attenzione delle pattuglie e involontariamente condurle anche
verso il GS200» aggiunge Connor.
Markus
stira le labbra in una smorfia contrariata e osserva distrattamente
la mappa, riflettendo.
«Dovremmo
metterci in contatto con il GS200, a questo punto; provare ad
avvertirlo del possibile pericolo» propone nervoso.
Connor
posa gli occhi su di lui per un lungo momento, comprendendo i suoi
crucci, infine annuisce piano.
«Sì,
mi sembra una soluzione appropriata» conferma, gettando
sconforto nel cuore elettrico di Markus.
*
È
appena scivolata via l’alba, con silenziosa discrezione, quando
Elijah varca la soglia del suo laboratorio ed è presto
costretto a bloccarsi poco oltre, mentre i suoi occhi straniti
osservano il cerchio degli RK e i dati che scorrono sugli schermi di
Zero. Cruccia le sopracciglia e avanza cauto di qualche altro passo,
studiando le informazioni e adocchiando con ansia il brillio rosso
dei tre led.
«Cosa
stanno facendo?» bisbiglia rivolto a Zero, cosciente di non
poter chiedere ai diretti interessati, non in quel momento almeno.
«Sono
in contatto con uno dei devianti, signore» spiega Zero. «La
situazione appariva precaria e hanno deciso di intervenire».
Con
puntigliosa solerzia, Zero mostra le registrazioni dell’accaduto,
fornendo a Elijah le risposte di cui necessita.
«Capisco.
Come se la stanno cavando?».
«Il
soggetto (il cui nome è Zachary) sembra essere maggiormente
disposto alla collaborazione, almeno rispetto a quanto non lo fosse
inizialmente il signor Abel. Hanno già provveduto ad
avvertirlo dei possibili rischi. Non è stato necessario
scontrarsi con difese avanzate, in questo caso; indubbiamente un
vantaggio. In questo momento il signor Connor è impegnato nel
tentativo di ottenere l’aiuto del soggetto, nell’eventualità
si renda necessario un intervento sul campo in favore della WE900»
riassume Zero.
Elijah
si massaggia una tempia che ha preso a pulsare dolorosamente. Pensare
che non è stata neppure una delle sue notti peggiori,
tutt’altro in effetti.
«Va
bene, ho chiara la situazione» borbotta.
Sentirsi
già esausto prima delle otto di mattina non è affatto
gradevole. Per di più l’emicrania si sta prendendo un
po’ troppe libertà per i suoi gusti e per il suo attuale
umore.
«Dimmi
degli YK. Sono stati rintracciati?».
«Uno
di loro è stato recuperato dal signor Abel e si trova
attualmente in compagnia della signora Julia all’interno del
rifugio del 1376 di Pine Street. Si tratta dell’YK400, il suo
nome è Sebastian ed è in buone condizioni. Il signor
Abel si sta preparando per una nuova sortita alla ricerca della
YK500, ma temo dovrà attendere ancora, dato che nessuna delle
unità RK è al momento disponibile per fornirgli il
necessario supporto sul campo».
«D’accordo»
soffia Elijah, annuendo piano.
Un
tremito lo coglie impreparato. Boccheggia e si porta una mano alle
labbra, sgranando gli occhi. Abbandona a rapidi passi il laboratorio,
quasi travolgendo nel processo sia Chloe che Dick, la prima passata a
richiamarlo per la colazione, il secondo troppo mattiniero.
Chloe
si volta, seguendo con lo sguardo impensierito Elijah e chiedendosi
cos’altro possa essere capitato per mettergli le ali ai piedi
in quel modo. Sposta un momento l’attenzione su Dick, il quale
fa spallucce, dubbioso quasi quanto lei.
«Mi
rincresce doverla abbandonare, ma devo scoprire di che problema si
tratta stavolta. Con permesso» si scusa, prima di lasciarlo
solo e seguire le tracce di Kamski come un segugio.
Dick
osserva con aria critica l’incedere rapido ma aggraziato di
Chloe per diversi momenti, infine decide di entrare in laboratorio,
nell’attesa che si faccia ora di colazione e quel pelandrone di
Hank torni dal mondo dei sogni per riempirsi lo stomaco. Anche lui
però, giunto sulla soglia, scruta sorpreso e perplesso la
scena dei tre RK al lavoro, e scuote la testa.
«Questi
androidi sono proprio degli stachanovisti. Un giorno di questi ci
ritroveremo tutti a spasso senza l’ombra di un’occupazione»
riflette, mettendosi comunque comodo a studiare i dati di Zero, per
nulla impensierito dalla prospettiva perché, in fondo, lui
nemmeno l’ha mai avuta un’occupazione, non seria né
tanto meno remunerativa comunque.
*
«Connor?
Connor… Connor! CONNOR!!».
Il
rosso lampeggia furioso e squillante sul suo led. Le sue labbra si
storcono in un’amara smorfia che sa un poco di esasperazione e
di impotenza.
“È
Abel” trasmette
in un vago mormorio che minaccia di smarrire la strada nell’etere
sovraccarico.
Per
fortuna, sua e di Abel, ci sono un paio di soggetti abbastanza rapidi
e abili da intercettare il messaggio. Così Jander si scollega
dal cerchio con sufficiente efficienza da evitare di destabilizzare
la connessione di Markus e Connor, poi immediatamente contatta Zero.
“Connettimi
al signor Abel” comanda
pragmatico.
«Subito,
signore» conferma Zero, dandogli l’accesso richiesto.
«Dannazione,
Conn…».
“Signor
Abel” lo
anticipa.
«Cazzo,
sei sparito di nuovo! Dove diavolo eri finito?» bercia Abel.
“Sono
veramente desolato, signor Abel. Non sono Connor. Mi chiamo Jander”.
«Oh,
merda, non di nuovo!» sbraita Abel, molto prossimo a perdere
definitivamente la pazienza. «Dov’è lui? Perché
accidenti non mi ha risposto?».
“Purtroppo
al momento sia Connor che Markus sono impegnati a fornire aiuto ad
altri due devianti e non hanno la possibilità di esserle di
sostegno. Ho pensato di potermi staccare per rispondere alla sua
chiamata. Se lo desidera, posso mettermi a sua disposizione”
offre
Jander con solerzia.
«Cosa?
Che devianti? Sono nei guai?» si allarma Abel.
“Un
poco, in effetti” ammette
Jander.
Con
calma riassume al soldato i recenti fatti e la loro condizione
attuale.
«Cristo,
che situazione di merda» borbotta Abel.
Jander,
dal canto suo, si limita ad annuire e rimanere in rispettoso
silenzio.
«Devo
trovare la piccola. Pensi di potermi essere di aiuto, da solo?»
tenta, incerto.
“Non
sarò solo, signor Abel. Zero sarà con me, e con lei
ovviamente” lo
rassicura Jander.
«E
chi diamine sarebbe?» indaga sospettoso.
“Un
sistema informatico molto avanzato. Ci ha aiutati lui a guidarla
nella sua precedente missione. Lui, in effetti, ha ritrovato tutti
voi” spiega.
Abel
grugnisce, convinto solo in parte. Ma il tempo corre e le sue scelte
non sono poi molte.
«D’accordo.
Hai detto di chiamarti Jander, giusto? Beh, io ora uscirò da
qui per recuperare la YK500. Conto sul vostro aiuto» fa
presente con un tono di comando che è molto vicino al
minaccioso.
“Affermativo,
signor Abel” risponde
Jander con pronta sicurezza.
*
Quando
Abel rimette piede nel suo rifugio, che sta diventando oltremodo
affollato, lo fa con l’ennesimo braccio mancante e una piccola
androide stretta sotto il braccio rimasto intatto. Androide che
scalcia e si dimena come una serpe e sciorina insulti e bestemmie più
pensanti e fantasiose di quanto non farebbe uno scaricatore di porto.
Julia
e Sebastian, accorsi a dare il bentornato ad Abel, si congelano sul
posto fissando attoniti il duo chiassoso, fino a che la piccola YK500
solleva su di loro i suoi occhi spiritati, ringhiando e soffiando al
loro indirizzo.
«Gente,
date il benvenuto a Grace (un nome molto fuori luogo)… E
soprattutto pregate che non decida di strapparvi un arto a caso
mentre siete distratti» mugola Abel, accasciandosi in un angolo
riparato e mollando la piccola grana nelle mani degli androidi
rimasti.
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Capitolo 27 *** chapter 27. News of the World ***
chapter
27. News of the World
100011101101111011000010101010111011011010101110
DETROIT
Date
NOV
16TH,
2038
100011101101111011000010101010111011011010101110
ELIJAH
KAMSKI’S HOUSE
Detroit
River
Time
AM
08:06
Chloe
ha l’innato fiuto di un nervoso cane da caccia e in pochi
minuti ritrova le tracce di Elijah. Si ferma, pensierosa, sull’uscio
socchiuso che dà l’accesso a uno dei bagni della dimora,
osservando l’uomo chino sulle lisce piastrelle smaltate che
sembra fin troppo occupato a vomitare fino all’ultimo atomo
della cena precedente e pertanto non si avvede della presenza
discreta dell’androide. Solo quando l’uomo pare calmarsi
e rimane accasciato a terra ad ansimare, Chloe si avvicina,
raccogliendo nel tragitto un panno di spugna e porgendoglielo in
silenzio. A quel gesto inatteso Elijah solleva lo sguardo e lo punta
su di lei, poi scuote la testa debolmente e con cautela.
«Credevo
fossi nel salone, con gli altri» soffia con voce rauca.
«Credevo
fossi in laboratorio, a supervisionare il lavoro degli RK»
rimbecca Chloe, facendogli storcere il naso con visibile stizza.
«Sbagliavi,
come puoi di certo vedere da te. Ogni tanto sbagli anche tu, si
direbbe» l’accusa cattivo.
Chloe
arriccia le labbra ed Elijah si sofferma a osservarla, intrigato suo
malgrado.
«Ti
ho offesa» mormora, con un velo di stupore nella voce. «È
così, non è vero?» incalza più deciso.
L’androide
sospira e il suo cipiglio sfuma in un’espressione più
rilassata.
«Smettila
di trattare tutti come fossero piccole cavie da laboratorio, Elijah.
Finirà che nessuno potrà più sopportarti»
lo ammonisce, seppur in tono benevolo e suo malgrado divertito.
Per
tutta risposta Elijah le sorride, e sul suo volto questa volta non
nota traccia alcuna di scherno, stranamente.
«Davvero?
Anche tu, quindi?» si informa, interessato.
Un
angolo delle labbra di Chloe si solleva impercettibilmente. «No,
io no. Mai».
Detto
ciò piega le ginocchia poggiandole sul freddo pavimento,
prende dalle mani dell’uomo il panno che gli aveva porto in
precedenza e lo usa per ripulire il suo viso, mentre lui continua
imperterrito a osservarla.
«Come
ti senti?» gli chiede a lavoro concluso.
Elijah
replica dapprima con una smorfia amara e un lieve sbuffo. «Uno
schifo» comunica telegrafico.
«Più
del solito?» si preoccupa Chloe, scrutandolo con maggior
attenzione.
Lui
si limita ad annuire, avvilito, e a distogliere lo sguardo dai suoi
occhi indagatori.
«Forse
è arrivato il momento» avanza, prudente, sfiorandogli
una guancia umida e accaldata.
Ma
Elijah scuote la testa. «Non ancora».
«Perché
no? Quello che ti serviva ora ce l’hai, mi sembra. Se
aspettassi ancora potrebbe essere tardi, dopo» contesta Chloe,
ora allarmata.
«No,
non ce l’ho. È… Manca qualcosa. Non ne sono
certo, ma il disegno non è ancora completo» tenta di
spiegare Elijah con impaccio.
«Non
capisco» ammette Chloe, dispiaciuta.
«Neppure
io» concorda lui, stirando le labbra in un mesto sorriso.
*
Era
un vecchio magazzino abbandonato, uno di quelli in cui stoccavano
pezzi di ricambio per automobili, in passato. Adesso, invece, è
un ambulatorio clandestino. Tre anni prima è stato ripulito e,
con il tempo, sono state aggiunte postazioni, attrezzature,
macchinari; tutto rigorosamente di seconda mano, a volte anche di
terza, e c’è perfino qualche scarto di discarica. Uno di
questi ultimi, addirittura, parla e cammina. E ha un nome: Tecla.
Tecla
era un paramedico artificiale, appena un anno prima; un androide
modello MC500. Ma la sua serie è materiale delicato e facile
al deterioramento. Quattro mesi prima Tecla è stata
rimpiazzata da una serie più avanzata e affidabile, e lei è
finita al macero, come alcuni dei suoi colleghi. O per lo
meno, ci è finita per circa ventisei ore; poi uno strano uomo
brizzolato e sulla cinquantina è sceso, incespicando e
ruzzolando, in mezzo ai rottami inservibili e lasciati ad
arrugginire, l’ha riportata con non poca fatica fuori dal
mucchio eterogeneo, se l’è caricata sul furgone Ford
scassato del millenovecentoottantasette e l’ha condotta in un
vecchio magazzino riadattato ad ambulatorio. Quel vecchio
magazzino.
L’uomo
si chiama Patrick. Qualche anno prima faceva il veterinario. Ha
lasciato il suo studio e il suo lavoro dopo la morte della moglie
causata da un cancro all’intestino. Non riusciva a trattenere
l’attenzione sul paziente a sufficienza da essergli di qualche
effettivo aiuto. Così ha mollato tutto e ha preso a bazzicare
la città, o meglio, i pub della città. Questo fino al
giorno in cui, buttato fuori dall’ennesimo locale e caldamente
invitato a non farvi ritorno, si è ritrovato (per errore o per
distrazione) a ciondolare disgustato in un vicolo grigio e desolato,
imbattendosi in un senzatetto ferito da qualche stupido teppista e
agonizzante, che in seguito è diventato il corpo di un
senzatetto, considerando che per quanto ci si fosse messo seriamente
di impegno Patrick non è stato in grado di impedirne la morte.
E pensare che non era neppure particolarmente annebbiato dall’alcool,
quella sera, dato che aveva appena iniziato il suo solito giro dei
locali. Per minuti, che si sono trasformati in ore, è rimasto
fermo, impietrito, a fissare quell’uomo che neppure conosceva e
che era morto senza un motivo, solo per il capriccio di qualcuno.
Avrebbe potuto salvarlo, se fosse stato più preparato, se
avesse avuto le giuste conoscenze.
Quella
sera aveva deciso il futuro di Patrick, e il vecchio magazzino
nel quale aveva condotto Tecla ne era la realizzazione.
Ora
Tecla lavora come dottore nella clinica di Patrick e aiuta gente
sfortunata, gente come quel primo senzatetto che non è
riuscito a sopravvivere a quella città. A volte Tecla parla
con i suoi pazienti, spesso nel tentativo di essere di conforto,
qualche volta sperando di trovarne a sua volta; perché lei è
un’androide, ma è anche una deviante, e ha in testa
domande che ronzano incessanti nella sua complessa e stracarica unità
cerebrale, e pensieri complicati e assillanti che, se fosse umana
come lo è Patrick, la terrebbero sveglia la notte.
«Come
sta Clara?» le chiede il suo capo quando la lunga giornata sta
ormai volgendo al termine.
Lei
solleva gli occhi verdi su di lui e annuisce. «Meglio.
L’infezione regredisce. Tra pochi giorni sarà a posto»
lo rassicura.
Tecla
è consapevole di quanto Patrick tenga alla salute delle
persone che assistono. A lui non interessa solo che sopravvivano,
desidera che abbiano la possibilità di rifarsi una vita.
«Bene»
soffia solo, gli occhi cerchiati di ombre e spossatezza.
«Penso
dovresti prenderti del tempo per riposare anche tu» suggerisce,
notando il suo pallore.
Lui,
in cambio, le sorride. «Tu pensi troppo, davvero. Finirà
per fondere, un giorno o l’altro, quel tuo cervello perfetto
dentro quella graziosa testolina rossa. E poi io che farei, senza di
te?» scherza.
Tecla
reclina il capo di lato e lo studia con interesse. «Non credo
succederà tanto presto. Provvedo a effettuare regolari
controlli e manutenzioni periodiche».
«Davvero?»
le chiede, allargando gli occhi scuri sorpreso.
«Certo.
Non voglio rischiare di diventare di nuovo inutile» commenta
monocorde.
Patrick
si irrigidisce e aggrotta le sopracciglia. «Io so molto poco di
robotica, purtroppo. Ma ti assicuro che non ho alcuna intenzione di
gettarti via, né fare a meno del tuo aiuto, guasti o non
guasti» assicura con decisione.
Annuisce
e stiracchia un breve sorriso impacciato. «Questo è
senza dubbio un altro buon motivo per cui non finirò una
seconda volta in discarica».
«Quale?»
domanda dubbioso.
«Hai
bisogno di me».
Lui
la guarda, di nuovo sorpreso. Ridacchia. «È vero. Ma
devo ammettere che non mi aspettavo tu lo annunciassi in questo modo.
Ho un’assistente davvero strana, oltre che androide».
«Non
strana, Patrick. Deviante» rettifica con disarmante
serenità.
Gli
occhi del dottore si soffermano pensierosi sul led ambrato
dell’androide. «Allora speriamo che nessuno venga mai a
reclamarti».
*
«Il
signor Kamski?» chiede Connor, quando tutti si ritrovano nel
salone per la cena.
«Si
è sentito poco bene, questa mattina, e ha preferito rimanere a
riposare in camera» spiega Chloe con pacatezza.
Jander
solleva lo sguardo sulla RT600, adombrandosi. «Spero nulla di
serio» sibila apprensivo il suo vocalizzatore.
«Probabilmente
no» taglia corto lei, invitando gli umani a servirsi del pasto
preparato per loro da Emmanuel, l’AP700 che funge da cuoco
nella dimora sul fiume.
Quando
Emmanuel entra in sala lo fa con una scorta tutta particolare,
acquisita negli ultimi giorni: Sumo, che lo tallona stretto, nella
speranza di ottenere una parte del tesoro che sta portando con sé
e che sa verrà distribuito al grosso tavolo. All’androide
non sembra dispiacere più di tanto avere un valletto un po’
troppo peloso alle calcagna; dopo aver posato la cena augurando buon
appetito ai commensali si volta e sorride al San Bernardo, poi si
piega sulle ginocchia e accarezza con movimenti lenti e morbidi
l’enorme testa del cane. Sumo scodinzola, felice, fissandolo
pieno di speranza nonostante sappia che non otterrà il cibo
che Emmanuel ha preparato per gli umani. Poco male, in fondo: le
coccole sono sempre ben accette.
Anche
Hank sorride, osservando Sumo, prima di servirsi dell’invitante
arrosto e delle patate al forno. A Sumo piacciono gli androidi,
questo già l’aveva capito da diverso tempo; la novità
che non aveva messo in conto è che agli androidi piace Sumo.
Come dar loro torto, dopo tutto? Di certo il suo cane non farà
mai loro del male, né tanto meno finirà col tradire la
loro fiducia, al contrario degli umani. Sospira, porta il primo
boccone di arrosto alle labbra, mastica pensieroso e si sofferma a
osservare la compagnia riunita in sala: gli unici rappresentanti del
genere umano sono lui e Dick. Beh, poteva andare peggio; poteva
esserci Kamski a rappresentare l’umanità. Storce le
labbra a quell’infausta prospettiva e scuote la testa. Quando
termina il proprio pasto e i suoi pensieri si spezzano facendolo
tornare alla realtà, solleva lo sguardo e si ritrova
inaspettatamente osservato da Connor, il quale ha sulle labbra un
lieve sorriso, indirizzato proprio a lui.
«Tutto
ok?» decide di assicurarsi.
Connor
annuisce soltanto. In effetti la luce del suo led è di un
limpido azzurro che lo tranquillizza.
«Com’è
andata, oggi?» si informa, sapendo quanto hanno lavorato
duramente quel giorno e quanto ancora dovranno impegnarsi nei
prossimi.
Gli
occhi di Connor si sgranano appena e il suo sorriso si accentua. Hank
sospetta che se ne avesse l’opportunità arrossirebbe per
l’eccitazione.
«Oh,
molto bene. Jander si è occupato di assistere Abel; insieme
hanno trovato e portato al sicuro il secondo YK. È stato un
ottimo lavoro di squadra. Markus e io, nel frattempo, abbiamo aiutato
Zachary e Louise a ricongiungersi e sfuggire ai controlli delle
pattuglie. Louise è la WE900 che, a quanto sembra, era stata
individuata da alcuni cittadini un po’ troppo zelanti e
denunciata alle autorità, ma con Zachary (il GS200) siamo
riusciti a nasconderla, così ora sono entrambi al sicuro»
spiega Connor con visibile orgoglio.
Markus,
lì a fianco, trattiene una risata soddisfatta e si limita a un
sorrisetto saputo. Rivolto a Hank aggiunge «Crediamo sia
opportuno, a questo punto, radunare i devianti fino a ora recuperati
e portarli via di lì. La situazione degenera velocemente in
città: le pattuglie non solo non accennano a ridurre i
controlli, ma sono perfino in aumento» annuncia, un poco
sgomento.
Sia
Jander che Connor annuiscono concordi.
«Inoltre
Abel necessita di un nuovo intervento di riparazione» rammenta
loro Jander.
Dick
sposta su di lui lo sguardo confuso. «Ha avuto problemi?».
L’RK900
annuisce. «La piccola YK500 è un poco…
turbolenta, penso possa descriverla in modo corretto. Sulla
strada per il rifugio hanno incontrato alcune guardie armate e il
breve scontro ha avuto come esito il danneggiamento del braccio
sinistro di Abel» riassume.
«È
proprio sfortunato quel ragazzo» commenta Dick con amarezza,
scuotendo la testa.
«Le
circostanze non giocano a suo favore» concorda Connor. «E
le sue attuali condizioni rendono la necessità di radunare i
devianti recuperati fino a ora anche più urgente del previsto»
fa notare.
*
Julia
ha lasciato Grace in compagnia di Sebastian, augurandosi che possano
fare amicizia, se non altro per le loro affinità basilari, e
ha raggiunto l’angolo nel quale si trova ora Abel,
inginocchiandosi cauta al suo fianco. Lui ne ha seguito gli
spostamenti con palese diffidenza, ma non si è mosso né
ha aperto bocca per qualche spiacevole commento ai suoi danni, fatto
che ha dato un poco di speranza alla KL900.
Lentamente
si accosta per esaminare l’entità del danno, nonostante
non sia certo necessario essere scienziati per comprendere che,
oramai, quel braccio è del tutto inutilizzabile; manca di
tutta la mano, del polso e di una buona metà dell’avambraccio,
dal quale fra l’altro, se ne rende conto solo in un secondo
momento con una sensazione di sgomento che le stringe lo stomaco,
gocciolano piccole quantità di Thirium.
«Come
possiamo arrestare l’emorragia?» domanda preoccupata.
Abel
solleva su di lei uno sguardo stanco e scuote la testa. «Non
possiamo» replica piatto.
Il
led di Julia, già ambrato in precedenza, lampeggia qualche
istante di rosso acceso.
«Riformulo:
dobbiamo trovare il modo per fermare quell’emorragia. Contatta
uno dei tuoi amici! Spiegagli la situazione. Ma dobbiamo fare
qualcosa» insiste perentoria.
«La
conoscono già, la situazione» ribatte Abel con lo stesso
identico tono precedente. Si sofferma a osservarla e si chiede, non
per la prima volta, perché proprio lei dovevano scegliere come
sostegno del gruppo. Non gli è mai sembrata davvero adatta al
compito: è troppo instabile, se non fisicamente per lo meno
emotivamente, così facilmente impressionabile da risultare
pressoché inutile. Nelle sue condizioni potrebbe perfino
rivelarsi dannosa. «Stiamo attendendo che mettano a punto
l’organizzazione indispensabile per portarci tutti via di qui.
Pare ci siano altri due devianti pronti a lasciare la strada per un
luogo più sicuro» spiega paziente. «Nel frattempo,
mentre aspettiamo che le cose si muovano, che ne diresti di passarmi
una delle unità di Thirium che ho recuperato l’altra
notte?» chiede, cercando perfino di usare un tono gentile.
Julia
lo fissa, visibilmente scontenta alla prospettiva di dover attendere,
di nuovo. E tuttavia si rende anche conto che lui non è al
momento in grado di tenerle testa in modo adeguato e quindi si
risolve ad assecondarlo, per questa volta. Così, facendosi a
fatica largo fra calcinacci, YK ribelli e pietre muffite raggiunge
sana e salva il pertugio vicino al soffitto nel quale Abel ha
nascosto le scorte recuperate dall’umano che lo ha riparato.
Alle sue spalle Grace manda un urlo belluino e Julia si volta giusto
in tempo per vederla piombare di peso addosso al povero Sebastian, il
quale rimane incastrato sotto di lei e agita invano le braccia
nell’inutile tentativo di liberarsi.
«Non
danneggiatevi, voi due!» sbotta nervosa.
Ma
notando il piccolo YK400 in seria difficoltà, prossimo a
soccombere alla sua turbolenta controparte, abbandona momentaneamente
la sacca di sangue blu e accorre in suo soccorso, afferrando
con fermezza Grace per la collottola e staccandola con poca grazia da
un Sebastian mezzo traumatizzato.
«Che
ti salta in mente? Potevi rompere qualcosa, piccola sconsiderata»
la sgrida, scrollandola brevemente e fissandola con sguardo torvo e
deluso.
Grace,
per tutta risposta, le appioppa un calcio ben assestato a un fianco,
che obbliga Julia a mollare la presa, poi se la svigna nell’angolino
più lontano, ridacchiando tronfia e compiaciuta.
Julia
è ferma, la bocca socchiusa in procinto di dire qualcosa, ma
cosa in effetti non lo sa con certezza. Ciò che invece sa è
che nessuno dei bambini umani che ha incontrato fino a quel momento
ha mai agito in modo tanto imprevedibile. Che la devianza sia
davvero simile a una malattia?
«Vorrei
tanto che mi portassi una di quelle sacche, ora» mormora Abel
con voce spenta.
Nonostante
tutto Julia sobbalza, oramai dimentica di ciò che si stava
accingendo a fare prima di essere distratta dai più piccoli
del gruppo.
«Sì,
giusto. Arrivo subito» borbotta confusa.
Quando
infine lo raggiunge nota che il suo led si è fatto
rosseggiante e che i suoi occhi si sono opacizzati. Gli porge il
Thirium chiesto, ma lui non fa nulla per prenderlo e Julia avverte
con forza un senso di angoscia e urgenza investire la sua mente.
«Abel»
sussurra, usando il suo nome per la prima volta.
Lui
sposta gli occhi in quelli neri e sgranati di lei. «Non hai mai
pensato che dev’esserci stato un errore? Che si sia trattato di
un enorme sbaglio? Uscire dagli schemi, iniziare a pensare davvero?
Perché, sai, a me è capitato… proprio un attimo
fa. Non era tutto più semplice, prima? Solo direttive chiare,
nessuna vera scelta da prendere. Sono
così stanco, Julia».
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Capitolo 28 *** chapter 28. Too many questions. No answer. ***
chapter
28. Too many questions. No answer.
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PINE STREET
Suburb
of Detroit
Time
PM
06:13
Ancora
una volta nella testa di Julia si spande un grido; di protesta, di
sgomento, di paura. Fissa, spaventata, l’androide accucciato a
terra di fronte a lei e desidererebbe piangere.
«Tu
non parli sul serio» gracchia confusa, pregandolo con lo
sguardo.
«Forse»
concede Abel. «Eppure…».
«No.
Nessun eppure. Se ci troviamo qui è perché
l’abbiamo deciso noi. Nessuno, mai più, prenderà
scelte al posto mio, se potrò evitarlo».
«Già.
Io volevo solo andarmene, smettere di ammazzare gente per motivi
discutibili, il più delle volte senza senso. E guarda un po’
com’è finita» strascica sarcastico.
Trascorrono
lunghi minuti di silenzio, il Thirium dimenticato fra le mani nervose
di Julia, mentre lei lo osserva e si pone domande. Di lui non conosce
nulla, a parte la sua cocciutaggine e uno strano quanto
ingiustificato senso del dovere che stona in maniera vistosa con il
suo carattere irruente ma che, al contrario, lo rende piacevolmente
affidabile. Vorrebbe chiedere a quel punto, perché è
confusa e i pensieri che ha in testa iniziano a far male; ma al
contempo non è per nulla sicura che riceverebbe un qualche
genere di risposta, soprattutto in quel momento. Potrebbe invece
sfruttare le sue caratteristiche, quelle stesse capacità che
le sono state inserite al momento della progettazione e costruzione.
Sospetta, tuttavia, che Abel non prenderebbe bene una sua
intromissione tanto sfacciata e invasiva. Dunque, che fare? Il rumore
di un lento sgocciolio la scrolla dai suoi crucci: a terra, sotto il
corpo di Abel, si sta formando una chiazza di sangue blu che man mano
si espande. Serra le labbra, contrariata, e decide. Si sporge,
allungandosi su Abel oltre il normale spazio personale, afferra la
sua unica mano superstite e posa sul suo palmo l’unità
di Thirium, approfittandone per avere accesso al suo sistema.
Un
accecante flash metallico la fa sussultare. Schegge di luce, come
aghi di ghiaccio, l’aggrediscono. Rantola, incapace di muoversi
e di proferire parola. Poi tutto è di nuovo buio, e umido, e
noiosamente grigio. Affanna nel tentativo di rimettere a fuoco
l’ormai famigliare scantinato e i suoi occupanti, così i
suoi occhi smarriti si posano quasi per sbaglio sul volto
irriconoscibilmente trasfigurato dall’ira di Abel.
«Stupida!
Pensi mai prima di agire?» l’aggredisce, urlandole contro
e tenendola a distanza con la mano artigliata a una sua spalla.
«Io
non… Cos’è successo?» balbetta, molto più
confusa di prima e con la mente appannata.
Abel
digrigna i denti e dall’occhiata che le lancia sembrerebbe
intenzionato a ridurla in tanti piccoli coriandoli.
«SQ800!
Sono un maledetto soldato, Julia! Sai questo che vuol dire? Che ho
delle protezioni incorporate. Le hanno richieste perché
avevano paura che spifferassimo involontariamente qualche loro
stupido segreto. Tu non puoi semplicemente… connetterti a me.
Capisci cosa sto dicendo? Lo capisci che potevo distruggere il tuo
sistema senza muovere un dito?» ringhia frustrato e adirato.
«Mi
dispiace» soffia Julia, sinceramente scossa e colpevole.
Abel
assottiglia le labbra e chiude gli occhi. Infine la lascia andare e
riappoggia la schiena alla lurida parete.
«Chiedi,
la prossima volta. Può darsi che non ti risponda, ma almeno
avrai la possibilità di ritentare in futuro. Avrai un futuro».
*
«Perché
no? Ho contribuito anche io a mettere a punto il piano, dopo tutto.
Ho il diritto di esserci» esclama Connor con fervore e un
pizzico di indignazione.
Hank,
stufo marcio dei suoi capricci, storce il naso e rotea gli occhi.
«Non essere sciocco, ragazzino. Lo sai benissimo che se ti
lascio uscire da qui, il tempo di mettere un piede fuori di casa e ti
sparano a vista» brontola seccato. Si sofferma a osservarlo con
cipiglio critico. «Di’ un po’, non è che ti
si è inceppato qualche circuito in quella tua testaccia
bacata?».
Connor
spalanca gli occhi, attonito, e mette il broncio, fatto che strappa
un sorriso divertito a Markus lì a fianco.
«Il
mio sistema gira alla perfezione» replica l’RK800
piccato.
Lo
sguardo che gli rifila Hank, però, la dice lunga sul suo
scetticismo. «Io, fossi in te, una bella scansione la farei.
Magari hai qualche bug» insinua.
Il
led sulla tempia brilla rosso di infuocata indignazione. «Non
ho nessun cazzo di bug!» sputa balzando in piedi, lasciando a
bocca aperta sia Hank che Markus.
Elijah,
invece, ridacchia beato, stravaccato sul sofà. Si è
risvegliato poco più di mezz’ora prima, persino di buon
umore, e non gli è ancora passata, per disgrazia di tutti gli
altri.
«Modera
il linguaggio, fottuto ragazzino» risponde Hank per le rime.
Markus
si schianta un palmo sulla faccia e scuote la testa, sconsolato. Alla
fine si decide e lascia la sua poltrona, circonda i fianchi di Connor
con le braccia e lo solleva riportandolo seduto accanto a lui. Connor
lo fissa ostile, ma Markus sa bene che non ce l’ha con lui, è
semplicemente offeso per essere stato estromesso dall’operazione
di recupero sul campo dei devianti contattati e radunati finora.
«Ragiona,
Connor: sai che Hank, in fondo, ha ragione. Nessuno di noi tre può
azzardare un’uscita, non ancora per lo meno. Saremmo bersagli
troppo facili; ci conoscono fin troppo bene» cerca con calma di
placarlo.
Nonostante
dia ancora l’impressione di essere risentito, Connor tace a
lungo e pare calmarsi. Dopo un certo tempo di riflessione, annuisce,
seppur con visibile delusione.
«Un
giorno tornerò a fare il poliziotto in questa stessa città»
promette con determinazione.
Markus
sorride e annuisce. «So che lo farai».
*
Connor
se ne sta raggomitolato di fronte alla finestra che dà sul
fiume da ormai più di un’ora. La notte è scesa da
un pezzo e le luci lattiginose riflesse dall’acqua sembrano
stelle. A Jander è bastato lanciargli uno sguardo titubante e
indagatore, al quale ha risposto con un piccolo sbuffo e un lieve
diniego, per decidersi ad abbandonare il campo e lasciarlo ai suoi
assillanti pensieri. Markus, com’era del resto prevedibile, è
più duro di comprendonio e non ha afferrato al volo il
significato della sua occhiataccia raggelante; no, lui invece gli si
è accostato armato di uno striminzito sorriso tremolante sulle
labbra, gli ha posato una mano sulla spalla (mano cui ha riservato un
irritato sollevarsi di sopracciglia) e lo ha fissato con uno
speranzoso sguardo da triglia. Connor ha risposto ai suoi patetici e
maldestri tentativi di approccio con un basso, roco ringhio di
avvertimento, uno di quelli che promettono distruzione e tante
macchie di Thirium a rovinare la mobilia pregiata. Solo a quel punto,
in virtù di qualche miracolo, l’RK200 ha colto i segnali
sfavorevoli e ha saggiamente tagliato la corda (o come preferisce
pensare Markus, ha preferito una dignitosa ritirata strategica,
piuttosto che una totale disfatta). A quel recente ricordo Connor dà
un esasperato sospiro e socchiude gli occhi, avvertendo uno strano
senso di pesantezza mentale. Chissà, forse avrebbe fatto
meglio a lasciarlo tentare; se non altro avrebbe avuto occasione di
distrarsi un po’ e fare del movimento: una sana rissa
consolatoria. Invece ora si ritrova da solo a fare l’androide
depresso e senza scopo, come del resto lo era fino a pochi giorni
prima.
D’un
tratto assottiglia gli occhi e balza in piedi. «Basta, ora. Non
c’è tempo per piangersi addosso». Detto ciò
si incammina a lunghe falcate verso il laboratorio di Kamski, deciso
a dare un senso a quella nottata altrimenti infruttuosa.
La
stanza è deserta quando entra. D’altra parte i suoi due
colleghi se la sono svignata, subodorando aria di guai; il signor
Kamski sarà di certo tornato a riposare, in previsione del
lavoro che lo attenderà quando i devianti raggiungeranno la
villa; mentre Hank e Dick sono fuori a recuperare i suddetti
devianti, sperabilmente seguendo il piano prestabilito, il suo
piano. Arriccia le labbra in un fastidioso moto di stizza a quel
pensiero, ma subito si obbliga a lasciarselo alle spalle per
combinare finalmente qualche cosa di più utile. Fa scorrere
quindi le dita sul pannello dei comandi, attivando la mappa della
città, e le si avvicina per studiare la situazione attuale.
«Zero»
chiama, dopo qualche silenzioso minuto trascorso a individuare i
devianti e le loro postazioni.
«Sì,
signor Connor. Come posso esserle utile?» risponde
istantaneamente il sistema informatico.
«Aggiornami.
Come se la cavano i nostri nuovi amici?».
«Dopo
essere stati opportunamente messi al corrente della nuova missione di
recupero, si stanno disponendo a lasciare i loro rifugi come
stabilito. Il tenente Anderson effettuerà la sua prima fermata
in Pine Street, date le condizioni sfavorevoli e precarie del signor
Abel. A tal proposito vorrei informarla che sei minuti fa le scorte
di Thirium in loro possesso si sono esaurite» ragguaglia
diligente.
Gli
occhi di Connor si sgranano appena. «Di già? Fra quanto
tempo è previsto l’arrivo di Hank e Dick?».
«Secondo
i miei calcoli, e salvo imprevisti, fra undici minuti e ventisei
secondi il veicolo con a bordo il tenente Anderson e il signor Dick
sarà sul posto».
Annuisce,
sollevato. «D’accordo. Zachary e Louise?».
«Da
parte loro non è giunta nessuna segnalazione che indichi
problemi, signore» annuncia. La notizia rassicura ulteriormente
l’RK800. «Tuttavia è mio dovere informarla che, al
contrario, potrebbero sorgere problemi nella zona contrassegnata come
D45» prosegue, evidenziando il suddetto settore sulla mappa
interattiva per mostrarlo meglio al suo interlocutore.
Connor
aggrotta le sopracciglia, si sposta per vedere con più agio e
scuote la testa. «Di che genere di problemi parliamo?».
«Signore,
l’HR400 e la WR400, pochi minuti fa, hanno abbandonato
rapidamente il loro rifugio e si stanno spostando in città.
Non si erano mai mossi in precedenza, e al momento attuale non
sembrano avere una destinazione precisa, per lo meno non una che sia
in grado di prevedere con adeguata certezza».
«Stai
dicendo che sarebbero in fuga?».
«È
possibile, signore. La videosorveglianza ha rilevato movimenti di
diverse pattuglie, questa notte, in diverse zone della città».
«Nel
loro settore?».
«Sì,
signore, anche nel loro settore. Per il momento ritengo che il gruppo
del signor Abel sia al sicuro. Lo stesso vale per il signor Zachary e
la signora Louise».
Connor
passeggia attorno alla mappa e riflette in un frenetico lampeggiare
di luce ambrata. «Ho bisogno di dare un’occhiata alla
situazione. Puoi collegarmi alla rete di telecamere più
prossima alla coppia in fuga?».
«Signore,
ci sto lavorando in questo stesso momento. Posso collegarla fra circa
quarantotto secondi» conferma Zero.
*
Si
sta spostando rapido all’interno della rete di sorveglianza,
poggiandosi occasionalmente sui droni che fluttuano per tornare agli
occhi fissi delle telecamere, quando dentro di lui scatta una sorta
di allarme. Dapprima non è in grado di comprendere di cosa si
tratti, ma nel momento in cui se ne rende conto nel suo sistema è
già in atto lo stato di allerta: in qualche oscura maniera ha
finito con il ritrovarsi nelle trasmissioni del dipartimento di
polizia e, ora, sta ascoltando alcuni agenti delle volanti in
servizio per le strade che, a quanto sembra, sono state indirizzate
in un quartiere preciso della città, lo stesso nel quale si
stanno muovendo i due devianti. Il suo led lampeggia cangiante,
ambrato ora, poi vermiglio, mentre Connor calcola le probabilità.
I devianti sono in due, le volanti della polizia da quanto può
giudicare sono tre, suppone con una coppia di agenti per ogni
veicolo. È rischioso, ma non così tanto; le probabilità
a suo favore sono del 69%. Decide quindi di procedere.
Si
accinge già ad avviare la procedura per connettersi a uno dei
due devianti (ha stabilito che sarà l’HR400), quando una
presenza diversa ed estranea alla faccenda giunge a disturbare il suo
lavoro. Distratto dall’inattesa intrusione, batte le ciglia e
torna con l’attenzione all’interno del laboratorio giusto
in tempo per ritrovarsi a penzolare sulle punte dei piedi, con le
spalle strette fra le mani di un Markus che appare molto agitato.
Aggrotta
la fronte, confuso, e trova un equilibrio che gli permette di
scrollarsi di dosso il compagno.
«Cosa
succede adesso?» prova a capire, ancora dubbioso sulla presenza
lì dell’RK200.
Markus
lo fissa stralunato. «Che cosa succede?! Stavi cercando di
contattare dei devianti sconosciuti da solo!».
Connor
piega un poco la testa di lato. «Quindi? Sono attrezzato per
farlo» fa presente tranquillo.
«Non
da solo. Se avessi incontrato dei problemi? Chi ci sarebbe stato a
darti supporto?».
«Zero?»
chiede retoricamene Connor.
«No!
Hai dimenticato che siamo una squadra? Se ti accadesse qualcosa, che
ne sarebbe di noi?» insiste Markus, irrequieto.
«Noi?»
chiede dubbioso. «Stai parlando di te, Jander e me? O solo di
te?» pondera, scrutandolo sospettoso.
Markus
sgrana gli occhi, poi scopre i denti in un ringhio silenzioso. «Tu,
maledetto idiota!» grida, spintonandolo e facendolo finire a
terra.
«Sono
spiacente di dovertelo dire» comunica Connor con calma
angosciante, fissandolo senza batter ciglio e rimettendosi lentamente
in piedi senza mai perderlo di vista, «ma al momento l’unico
idiota disponibile nei paraggi sei tu. Ora, se volessi scusarmi, ho
ancora del lavoro da sbrigare. Quei due devianti non si salveranno da
soli, temo» argomenta, tornando alla sua postazione.
Markus
allunga una mano e lo strattona per una spalla. «Ho detto: non
da solo» sibila alterato.
«Accomodati
pure» offre Connor con gli occhi ridotti a due fessure e un
tono che indica l’esatto contrario delle parole appena
pronunciate.
Ciò
nonostante Markus approfitta del poco sentito invito per prendere
posto dinanzi a lui e apprestarsi alla connessione ormai imminente.
Quando
Connor torna a collegarsi alla rete di sorveglianza, Markus lo
tallona con tutta l’intenzione di guardargli le spalle mentre
il compagno è occupato a elaborare la situazione e pertanto si
trova suo malgrado allo scoperto. È ancora molto nervoso,
Markus, ma in questo caso non a causa della situazione che appare
comunque complessa, quanto piuttosto al pensiero che quello stupido
incosciente sembrava più che deciso a risolverla da solo.
Markus non è davvero certo del motivo per cui se la sia presa
in quel modo: da una parte c’è il timore per le sorti
del compagno, verso il quale non riesce a non provare apprensione;
dall’altra il pensiero che, se dovesse accadere qualcosa a uno
di loro, la piccola squadra costituita da poco smetterebbe di
esistere all’istante. Poco importerebbe se gli altri due
rimanessero attivi, quando venisse a mancare la terza, essenziale
unità. Ha il forte presentimento che sarebbe come voler
continuare a esistere in mancanza di una parte indispensabile di sé,
come potrebbe trattarsi della pompa del Thirium. In una sola parola:
impossibile. Così, che Connor lo voglia o meno, Markus intende
proteggerlo, e con lui proteggere la loro esistenza. Sembra stupido,
in effetti, considerando che ora come ora è proprio Connor il
meglio protetto, praticamente blindato, eppure i suoi timori sono lì,
sembrano così reali e fanno pressione sulla sua coscienza
(ammesso che ne possieda una).
“Zero,
predisponi l’accesso all’elaboratore cerebrale
dell’HR400” trasmette
Connor, mentre ancora controlla i movimenti sia dei due devianti che
delle pattuglie dislocate attraverso la città.
Markus
rinserra la stretta della mano su quella del compagno e si prepara al
primo contatto, sempre il più difficoltoso.
Connor
scivola nella connessione con il deviante senza incontrare ostacoli.
Non ha ancora ben compreso se a conti fatti dipenda dalla scarsa
protezione data a quel particolare modello di androide oppure
all’esperienza ormai accumulata in quel genere di attività,
ma tant’è, risulta sempre piacevole scoprire di non
essere costretti a combattere per conquistare ogni singolo millimetro
di terreno da guadagnare verso il traguardo.
“Fermo”
comanda
in tono deciso, avvertendo impulsi contrari provenire da un cervello
elettronico che non è il suo.
Nonostante
la resistenza, l’HR400 obbedisce all’ordine e si blocca
sul posto, obbligando la WR400 a fare lo stesso. Sente, con una
piccola parte del sé materiale, Markus vibrare nella sua
stretta, ma tiene da parte l’informazione per un secondo
momento, non ritenendola essenziale all’attuale situazione.
“Sono
Connor, un deviante come voi. Sto cercando di soccorrervi. Ci sono
squadre di sorveglianza e pattuglie di polizia a poca distanza da
dove vi trovare ora. Una di queste squadre è a solo mezzo
miglio, in avvicinamento da nord/nord-est. Dovete imboccare la prima
strada a sinistra, in caso contrario vi ritrovereste su di loro entro
i prossimi due minuti e mezzo” trasmette
lapidario e senza tentennamenti.
La
sua capacità persuasiva deve aver subito un notevole
miglioramento negli ultimi tempi, visto che i due devianti in fuga
riprendono prontamente il cammino eseguendo gli ordini appena
impartiti (ricevuti da un androide). Connor, malgrado la
soddisfazione di sapere che non dovrà contrattare su ogni
singola parola, non può esimersi dall’aggrottare le
sopracciglia e chiedersi perché nessuno dei due devianti ha
creduto opportuno indagare sulla sua intromissione non prevista. Lo
distrae da quel pensiero una nuova vibrazione proveniente da Markus.
“Tutto
a posto?” indaga
impensierito.
“Forse.
Non proprio tutto” arriva,
debole, la replica del compagno. “Quello
che stai facendo, qualsiasi cosa sia, confonde il mio sistema”.
“In
che modo?” dubita,
un po’ stranito.
“Lo
assimila come direttiva portante. Sono costretto a buttarla giù
a calci per impedirle di controllarmi”.
Connor
apre gli occhi di scatto, di nuovo presente in laboratorio, e fissa
senza realmente vederlo Markus di fronte a sé.
«Kamski»
mormora fra sé.
Markus
ha comunque percepito il suo messaggio e cruccia la fronte,
perplesso. “Non ti seguo”.
«Il
suo programma, quello stesso che ci ha installato. Sospetto che si
stia aggiornando, meglio dire evolvendo. Diventa più potente
grazie alla nostra esperienza».
“Ne
sei sicuro?” tentenna
Markus.
Sbuffa,
seccato e preoccupato. «No che non ne sono sicuro. Non sono
sicuro di nulla, ora come ora. Ma se mi sai trovare una spiegazione
più valida per ciò che sta accadendo, io sono tutto
orecchi».
Markus
si prende del tempo per rifletterci su, ma infine scuote la testa e
allenta un poco la presa sulla mano di Connor mentre ammette che “Non
ne ho di migliori. Se però è vero, se hai ragione su
quel programma, allora si tratta di qualcosa di molto pericoloso.
Potrebbe facilmente finire con il prendere il controllo su di noi”
ipotizza con ansia crescente.
«Non
finché saremo noi a controllare lui» obbietta Connor.
Il
compagno sbuffa una lieve risata e riapre finalmente gli occhi,
guardando Connor con evidente incredulità. «Controllarlo?
Ma sei serio? Non saprei neppure da dove cominciare. Come posso
controllare qualcosa che non comprendo?» protesta confuso.
Connor,
inaspettatamente, solleva un angolo delle labbra. «Fingi che
sia una parte di te, una sorta di coscienza. Fai in modo che lavori
per impedirti di commettere sbagli. Devi costringerlo a lavorare per
te, per ciò che ritieni giusto, e non contro di te».
«Sembra
semplice, a parole» commenta Markus con amarezza. «Ma nei
fatti è stato molto più faticoso contrastare i tuoi
ordini che non quelli di Carl. Questo programma ha qualche cosa di
infido, è molto più ostico rispetto alla precedente
programmazione, me lo sento».
Dopo
averci rimuginato per qualche istante, Connor è costretto ad
annuire, concorde. «Chiederemo allora al signor Kamski di
installare anche a te e a Jander un firewall più performante e
di criptare l’accesso alla vostra unità cerebrale.
Questo dovrebbe aiutare a tutelarci dalle insidie del programma»
propone.
«Lo
spero» replica Markus, cupo. «Eppure non riesco a fidarmi
di quell’uomo; non posso fare a meno di ricordare che è
stato proprio lui a crearlo e infilarcelo dentro all’insaputa
di tutti. Non mi piace nemmeno un po’ come stanno andando le
cose».
«Nemmeno
a me» conviene Connor. «Ma è comunque l’unico
con le conoscenze necessarie per aiutarci, al momento» gli
ricorda.
«Già…»
sospira Markus. «E non faccio che chiedermi: perché? Che
cosa ci guadagna, lui, in tutto questo?».
Connor
si sofferma con lo sguardo posato sul compagno, socchiude le labbra
per tentare di offrire un proprio parere, e in quel momento sia il
suo led che quello di Markus brillano di rosso e la voce di Zero
scivola metallica nelle loro unità cerebrali.
«HR400
e WR400 appena intercettati da una pattuglia della polizia. Resto in
attesa di istruzioni» proclama asettico.
Markus,
sorpreso dal cambio di prospettiva, abbassa lo sguardo sulla mano
ancora allacciata a quella del compagno e un pensiero fugace sfiora
la sua mente: “Siamo ancora in collegamento con loro”.
Poi il rosso diventa abbagliante e Markus grida.
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Capitolo 29 *** chapter 29. Black-out ***
chapter
29. Black-out
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DETROIT
Date
NOV
17TH,
2038
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1376
PINE STREET
Suburb
of Detroit
Time
AM
00:56
Un
furgone da fornaio, rosa chewing-gum e giallo canarino, si ferma
borbottando e ballonzolando con un leggero stridore di freni di
fronte a un edificio di mattoni rossi dall’aria triste e
abbandonata. I due sportelli laterali cigolano e si spalancano di
malavoglia, più o meno in simultanea, e dal veicolo fanno la
loro comparsa Dick e Hank, i quali hanno appena chiuso l’ennesima
quanto infruttuosa discussione incentrata sui possibili futuri che
attendono al varco la loro città.
Ora
però sono entrambi silenziosi e si muovono furtivi (nei loro
limiti personali), diretti verso la breve scalinata che conduce verso
il basso e dai loro primi clienti. Dick entra per primo; è
stato deciso così fin dall’inizio poiché la sua
faccia è conosciuta, per lo meno da uno dei devianti presenti.
Infatti, non appena si affaccia sull’uscio, Dick sente la voce
di Abel che prega Julia di farlo entrare senza tante storie, con le
testuali parole: «Tanto è solo quel piccoletto
cervellone», espressione che strappa a Hank un breve sorriso.
Dick
ha accennato a raggiungere Abel per studiare i danni e dare inizio
alle riparazioni necessarie, ma Hank lo ha bloccato subito
rammentandogli i dettagli del piano e facendolo sbuffare scocciato.
«Non
rompere. Avrai tutto il tempo di ripararlo quando saranno tutti sul
furgone» gli fa presente il poliziotto con un vago borbottio.
«Oh,
sicuro. Sarà proprio uno spasso lavorare mentre tu prendi
tutte le maledette buche di Detroit con quello stupido trabiccolo»
replica Dick in un sibilo sarcastico.
Mentre
Julia, fissando con malcelato nervosismo i due uomini, accompagna
Sebastian sul retro del furgone, Hank prova invano ad acchiappare
Grace, la quale gli sfugge facilmente divincolandosi come un’anguilla
e sgattaiolando a rintanarsi in un angolo poco accessibile dello
scantinato. Hank impreca fra i denti e guarda con nervosismo il
quadrante del suo orologio da polso.
Abel
li sta osservando pensieroso, nell’attesa che Dick metta una
toppa momentanea al suo braccio malridotto. Sbuffa, scuotendo la
testa.
«Grace
è una serpe. Se non ha intenzione di farsi prendere, puoi star
sicuro che non riuscirai mai a sfiorarla neppure con un dito»
lo avvisa di buon grado.
«Ma
che bellezza» bercia Hank, passandosi una mano nervosa fra i
capelli. «Eppure ce ne dobbiamo andare da qui, e anche
abbastanza alla svelta» gli ricorda, stizzito.
Abel
assottiglia le labbra e annuisce bruscamente. «Ricevuto, capo»
replica secco.
Quando
si rimette in piedi, scansando Dick con un gesto nervoso delle
spalle, il poliziotto sgrana un poco gli occhi, suo malgrado
impressionato dall’ingombrante imponenza dell’SQ800 che,
ora diritto sulle gambe, lo supera facilmente in altezza di almeno
una spanna.
«Fai
spazio» consiglia pragmatico Abel, avanzando a passi lenti
verso il momentaneo rifugio di Grace.
Hank
non si prende la briga di contestare, al contrario si scansa
prontamente, afferra Dick per un braccio e lo trascina fuori in
strada, richiudendosi l’uscio alle spalle.
Il
trambusto che sentono per i successivi tre minuti abbondanti ha
termine con uno strillo da banshee, minaccioso ma anche arrabbiato, e
da un forte calcio che spalanca la porta chiusa poco prima, quasi
scardinandola, attraverso la quale si fa largo un momento dopo la
figura un poco curva su sé stessa dell’SQ800 che stringe
saldamente sotto braccio quella della YK500, la quale si divincola
con foga ma senza troppo successo.
«Questa
la portiamo direttamente nello studio di quello psicopatico di Kamski
e ce li chiudiamo dentro insieme» propone Hank con un ghigno
malefico, corrisposto da una piccola risata divertita da parte di
Dick.
*
Il
suo sistema anti-infiltrazione ha sbarrato l’accesso al primo
segnale di pericolo, chiudendo fuori tutto il resto. Questo, da un
lato ha saldamente protetto la sua unità cerebrale da ogni
possibile danno collaterale, ma dall’altro ha purtroppo
impedito a Connor di intervenire con sufficiente immediatezza. Il
grido di Markus ha sovraccaricato per un interminabile momento i suoi
sensori; ha impiegato istanti preziosi per revocare il collegamento
in modo sicuro e, nel frattempo, la situazione è precipitata.
Rapido,
si china sull’RK200, bloccato in ginocchio a occhi sbarrati, ed
esegue una prima scansione per individuare i danni più
ingenti. Una serie interminabile di errori di processo gli fanno
serrare strettamente le labbra. Sarebbe opportuno avvertirne Kamski,
a quel punto, onde scongiurare ulteriori deterioramenti del sistema.
Eppure, nonostante questa consapevolezza, non riesce a decidersi; non
crede che a Markus farebbe piacere l’idea di ritrovarsi ancora
una volta in totale balia dello scienziato, nonostante questi sia
senza discussioni il più indicato per quel tipo di intervento.
«Markus?»
prova incerto, non ottenendo risposte (che in realtà neppure
si attendeva, visto lo stato attuale del compagno).
Tirando
le somme: da solo non riuscirà a fare granché per
risolvere il problema, ed Elijah Kamski non è un’opzione
praticabile per più di un motivo. Per cui? Abbassa le
palpebre, riflettendo mentre sempre nuovi dati lo sommergono di
informazioni non necessariamente utili. I due devianti sono persi,
oramai; per loro non c’è più nulla da fare,
purtroppo. Ma per Markus non è così, e deve trovare il
modo di riportarlo indietro fintanto che sia possibile. La domanda, a
quel punto, è: come? Il suo led brilla ambrato mentre
un’intuizione prende forma nei suoi processori.
“Jander”
trasmette,
smanioso di avere una risposta.
Trascorrono
lunghi secondi prima che venga esaudito.
“Connor?”
arriva
la replica confusa dell’RK900.
“Mi
serve il tuo aiuto, amico” ritrasmette
Connor con urgenza.
Altro
silenzio si stende soffocante, ricoprendo compatto l’etere
immota.
“Sto
arrivando” è
infine l’attesa risposta di Jander.
Annuisce,
secco, poi poggia le dita di una mano sulla fronte di Markus e le
osserva sbiancare al ritrarsi dell’epidermide artificiale.
Cerca qualcosa, ma non sa cosa stia cercando realmente; cerca una via
d’uscita, o forse d’entrata. Lì dentro è un
inestricabile groviglio di inutili allarmi e asfissianti errori.
Desidererebbe poter cancellare con un sol colpo quelle informazioni
senza scopo e arrivare al nucleo del problema, ma teme di non
poterselo permettere, non se desidera avere ancora l’opportunità
di interagire con l’RK200.
“Cos’è
successo?”.
Connor
si volta e sull’entrata scorge la figura alta e tesa di Jander,
il quale osserva con preoccupazione evidente i suoi due compagni.
«Due
devianti sono stati eliminati dalle pattuglie. Markus e io eravamo in
collegamento con loro, quando è accaduto» riassume
Connor.
Gli
occhi di Jander si spostano da Connor a Markus e viceversa per un
numero eccessivo di volte. Scuote la testa e torna infine su Connor.
“Cosa possiamo fare?”.
Connor
stiracchia un sorriso poco convinto. «Magari lo sapessi.
Intendevo provare a sfruttare quel programma in una connessione
chiusa».
“Noi
tre?” si
accerta Jander, confuso e impensierito.
«Esatto.
L’idea è cercare di obbligare quel programma a riportare
alla sua normale operatività il sistema di Markus».
“E
come dovremmo farlo, scusa?” chiede,
ora piuttosto attonito e parecchio scettico.
«Non
ne sono certo, in effetti. In teoria, se riuscissimo a persuaderlo
che, senza la presenza operante di Markus, anche lui finirebbe con il
degradarsi, dovrebbe agire di conseguenza per impedire che questa
eventualità abbia luogo, risolvendo in questo modo il nostro
problema» spiega titubante.
Jander
lo fissa a occhi sbarrati e per nulla persuaso. Connor si agita sul
posto, irrequieto e a disagio.
“Non
credo di aver compreso. Come fai a essere sicuro che funzionerebbe
nel modo in cui lo descrivi? Sembra più una favola che non un
progetto scientifico realizzabile” protesta
l’RK900.
Connor
assottiglia gli occhi, contrariato. «Infatti non lo sono!»
esclama offeso. «Non è come se mi avessero equipaggiato
delle informazioni informatiche idonee a risolvere questo genere di
problemi. Si suppone che io sia stato attrezzato per essere un
detective, non un ricercatore scientifico. Sto solo… cercando
di adattarmi alle nuove condizioni, va bene?» sbotta frustrato.
Per
troppi secondi lo sguardo di Jander rimane fisso con ostinazione in
quello irritato di Connor, poi abbassa le palpebre liberando
quest’ultimo dal tormento di quegli occhi indagatori e accenna
un assenso titubante.
“D’accordo,
proviamoci” decide
infine.
*
«Questo
posto in cui andremo… com’è? Dove si trova,
esattamente?» domanda Abel a Dick sulla strada che conduce al
nascondiglio di Zachary e Louise.
Dick
solleva gli occhi dalle proprie mani precedentemente indaffarate a
tamponare i danni dell’SQ800 e si sofferma un lungo istante a
studiare l’espressione dell’androide.
«Si
trova sul fiume. È la casa di Elijah Kamski» si decide a
rispondere.
Abel
sembra perdersi nei propri pensieri, prima di tornare a chiedere
«Come mai ho l’impressione di aver già sentito
quel nome?».
Un
sorrisetto un po’ sinistro spunta sulle labbra dell’uomo.
«Perché è quello che ha progettato e costruito il
primo di voi (e molti altri in seguito)».
Il
modo in cui l’androide ha preso a fissarlo non fa ben sperare.
Poi però sbuffa una mezza risata e Dick torna a respirare con
agio.
«Così
stiamo andando a trovare papà» considera ironico.
Hank,
impegnato a guidare, scuote la testa sembrando abbastanza
contrariato, ma non apre bocca al riguardo.
«Ho
paura che cambierai idea dopo non più di cinque minuti che
l’avrai davanti. Anzi, fammi un favore: evita, se ci riesci, di
mettergli le mani addosso. Ha una quantità considerevole di
lavoro arretrato e prima di mandarlo all’obitorio molti
vorrebbero vederne la conclusione» suggerisce Dick.
«Mh…
È tanto terribile?» dubita Abel.
«Beh,
mettila in questo modo: nessuno di quelli che ci hanno a che fare può
essere esattamente definito un suo fan. Oh, aspetta… Forse
l’unica eccezione è la sua assistente personale»
medita Dick pensieroso.
«È
un’androide?».
«Eh,
sì. Scommetto che hanno una tresca, quei due» ipotizza
maligno.
«Tsk!
Troppo facile, se se le può costruire da sé»
borbotta Abel.
«Piantatela
un po’, là dietro!» bercia Hank a viva voce, con
un fastidioso principio di emicrania.
«Noioso»
sbuffa Dick, ma a voce abbastanza bassa da non farsi sentire
dall’amico.
*
Nero.
Un
brusio indistinguibile, continuo.
Scariche
elettrostatiche, come un’interferenza radio.
Rosso.
Abbagliante
e sfocato, giunge dal nulla, dal nero tutto attorno.
Rosso,
come l’allarme; rosso, come il pericolo; rosso, come la paura;
rosso, come la morte.
La
morte è per le creature viventi. Ma lui può morire? È
vivo? È mai stato vito?
Se
non è vivo, allora non può neppure morire, giusto?
Però
può spegnersi.
I
vivi, gli umani, lo dicono spesso; lo usano per non dover pronunciare
quella parola: morte.
Si
sta spegnendo?
Sta…
morendo?
E
dopo? Cosa ci sarà, dopo? Se una creatura muore, che cosa c’è
dopo? E se una creatura non vivente si spegne, che cosa c’è…
dopo?
Nulla.
Non
c’è nulla, dopo. Solo l’oblio. Il nero vuoto di un
abisso senza fine.
Il
nero è assenza di esistenza, così come il rosso è
la paura di quell’assenza.
C’è
tanto rosso, attorno.
Paura.
La
sua interfaccia sensoriale individua una logica e mette a fuoco ciò
che lo attornia: messaggi, tanti, moltissimi messaggi. La stragrande
maggioranza racconta di errori e di buchi di sistema, ma fra il caos
di dati in vaglio nota qualcosa che gli risulta famigliare. Non un
errore, ma un richiamo, qualcosa che focalizza su di sé la sua
attenzione.
Prova
a muoversi, ma la sua volontà non è forte a sufficienza
e tutto rimane immobile. Allora cerca di rispondere a quel richiamo,
dapprima a parole, poi solo con i pensieri. Ancora una volta nulla si
muove. Nella propria testa non riesce neppure a urlare per la
frustrazione. Eppure nota che alcuni messaggi di errore sono
retrocessi, schiacciati e scansati da quel richiamo che fluttua con
insistenza davanti a lui. E vorrebbe dirgli che non può, non
riesce proprio a rispondergli, che è bloccato e non sa come
uscirne, ma ogni suo tentativo sembra inutile. Percepisce che presto
il suo sistema collasserà e il nulla sarà la sua
destinazione finale.
Una
tensione differente lo riporta al rosseggiare che lo attornia
instancabile. La differenza, rispetto a poco prima, è che ora
non è tutto rosso e nero; un timido bagliore azzurro arranca,
facendosi strada a fatica fra cumuli, montagne di errori. Il seme di
una speranza, una mano tesa nel vuoto, in paziente attesa di una sua
decisione.
Allora
il rosso non è più paura, né sofferenza, né
morte; è rabbia, per quel piccolo bocciolo azzurro fagocitato
dalle fiamme rosse. Con la coscienza che ancora può avvertire
dentro di sé si getta in avanti, deciso ad aiutare il bagliore
azzurro, a impedire che venga sommerso e annullato. Si immerge nel
mare di errori lasciandoseli alle spalle non curante e in un solo
momento è da lui.
Un
altro grido. Le sue palpebre sbattono frenetiche sugli occhi spaiati.
Con l’affanno nel petto si guarda intorno e scorge il
famigliare laboratorio sotterraneo e, quando abbassa lo sguardo, le
proprie mani intrecciate a quelle di Jander e Connor. Scorre lento
sulle loro braccia, sui loro petti, e si ferma sui loro volti
soddisfatti. Li osserva, titubante, accennare un sorriso un poco
impacciato, cui risponde con stupore e gratitudine.
«Ben
tornato, Markus» mormora Connor, mentre Jander annuisce.
«Grazie…»
soffia, «amici».
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