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di Vago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First blink ***
Capitolo 2: *** Second blink ***
Capitolo 3: *** Third blink ***
Capitolo 4: *** Last blink ***



Capitolo 1
*** First blink ***


Il fuoco scoppietta vivacemente all’interno del camino di grigia pietra che ti sta davanti. Le sue lingue rosseggianti sembrano danzare attorno ai ceppi che lo alimentano.
Un forte odore di tabacco da pipa bruciato raggiunge le mie narici, costringendomi a voltare la testa in cerca dell’origine di quell’odore.
Dove mi trovo?
Non riconosco questo posto, non è la mia casa. Mi pare invece una specie di baita montana, le pareti, così come il soffitto e il pavimento, sono interamente ricoperti di lunghe assi di legno di rovere lucidate, le cui venature rossastre sono messe ancora più in risalto dalla luce proveniente dal camino.
Sono seduto su una dura sedia, rivolta verso quella fonte di calore. Mi muovo appena, continuando a muovere gli occhi intorno a me.
Ci sono delle finestre, ma il paesaggio esterno è precluso al mio sguardo dalle imposte che proteggono i vetri dalle intemperie. Le vedo però muoversi leggermente, per quanto le permettesse il gancio le chiude, segno forse del vento che vi sbatte contro.
Accanto a me c’è una vecchia poltrona ricoperta da una logora tappezzeria color corteccia e, su di questa, siede un vecchio dal volto rugoso e i capelli grigi screziati di rosso dal fuoco che su questi si riflette. Il vecchio tira un’ultima boccata alla pipa casereccia che stringe tra le labbra, per poi lasciar allontanare il fumo che gli aveva riempito la bocca. I suoi occhi scuri mi studiano divertiti.
Come ci sono finito qui?
Chi è quest’uomo?
Il calore del focolare mi scalda fin dentro le ossa, sciogliendomi i muscoli al suo tepore.
La tranquillità mi pervade, danzando al ritmo di quelle fiamme grasse e pigre.
Dovrei essere spaventato, dovrei essere terrorizzato, perché non lo sono?
L’anziano soffia un’altra nuvola di denso fumo grigio, un’altra tela su cui il fuoco può specchiarsi. Le sue labbra circondate da una corta, candida barba macchiato dal tabacco bruciato si piegano in un sorriso bonario.
Devo chiedergli cosa sta succedendo. Devo chiedergli dove ci troviamo. Devo sapere perché mi trovo qui.
Perché le mie labbra non si muovono?
Perché il mio corpo si rifiuta di muoversi più di pochi centimetri? Perché non riesco ad alzarmi da questa sedia?
Provo ad abbassare lo sguardo sulle mie gambe, prima c’ero riuscito, prima avevo visto la sedia su cui ero seduto.
Il mio sguardo non si abbassa sotto l’orizzonte dei ceppi ardenti, come se qualcosa impedisse ai miei occhi di proseguire oltre ad essi. Non è qualcosa di fisico, di concreto, è come se il mio cervello avesse paura di guardare il mio corpo, ora che sono interessato alle mie gambe.
Tutto questo mi ricorda qualcosa… se solo riuscissi a concentrarmi!
E perché quest’uomo non parla? Perché mi fissa? Perché mi sta sorridendo?
Merda.
Devo riuscire a parlare, devo riuscire ad aprire la bocca e muovere la lingua.
Il vecchio continua a fissarmi, portandosi nuovamente il bocchino della sua pipa alle labbra screpolate, riempiendosi le guance di quel pesante fumo e trattenendolo per diversi seconda.
Sembra quasi stia pensando a qualcosa.
Il fuoco comincia a rumoreggiare sempre più, forse avendo trovato una parte di legno più verde del resto. Le scintille ricadono numerose sul letto del camino e sul pavimento di fronte a questo.
Il vecchio mi soffia in faccia il fumo di quella sua maledetta pipa, oscurandomi la vista per una frazione di secondo.
Sento il calore lambirmi sempre più le gambe, ma il fumo ancora mi ostruisce lo sguardo.
Le fiamme si riflettono sempre più vivacemente sulla nube grigia che ostinatamente continua ad aleggiare.
Le scintille hanno attecchito al pavimento, divorandolo prima lentamente, poi sempre più velocemente, correndomi incontro.
Sento i miei piedi venire divorati dal calore, non provo però dolore.
Il terrore mi assale il cervello, assieme al piacere per il calore che mi avvolge le gambe e mi scioglie i muscoli, letteralmente.
Cosa mi sta succedendo?
Le fiamme sono oramai alte e precludono ai miei occhi qualsiasi cosa, posso solo immaginare che anche le pareti siano state incluse in quel rogo.
Tutto si fa confuso e buio, che abbia perso gli occhi per colpa di quelle fiamme?
Il calore invade ognuno dei miei sensi, coprendo e soffocando ogni altra sensazione.

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Capitolo 2
*** Second blink ***


Lentamente quel calore abbandona le mie viscere, che come tizzoni si lasciano spegnere dal freddo vento notturno.
Rimango immobile, al gelo e al buio.
Cosa mi sta succedendo?
Perché a me?
Ho ancora un corpo da muovere?
Cerco di allargare le braccia, o, per lo meno, quello è ciò che il mio cervello ha ordinato a queste.
Le mie mani si muovono nell’oscurità, per poi arrestarsi violentemente contro qualcosa, generando un tonfo sordo.
Sento dolore.
Ho ancora delle mani, ho ancora delle braccia, sono ancora vivo.
Cerco di allargare i gomiti, sentendoli quasi immediatamente adagiarsi su una superficie liscia e dura da ambo i fianchi.
Alzo allora, le mani, là dove ci sarebbe dovuto essere il cielo, avvertendo quella identica lastra frapporsi all’intento dei miei polpastrelli di alzarsi ancor più.
Un brivido mi percorre la schiena, appoggiata al suolo, generando alla base del collo per scendere lungo la spina dorsale per raggiungere il bacino e i gomiti.
Involontariamente cerco di piegare le gambe, facendo sbattere le ginocchia contro quello che è il soffitto della mia prigione e riempiendo questa di un tonfo sordo.
Altri piccoli brividi salgono e scendono lungo il mio torace, come scosse di assestamento di un terremoto che non paiono aver intenzione di scemare.
Ho bisogno di capire che cosa mi sta succedendo.
Inspiro a pieni polmoni l’aria stantia che mi circonda, riempiendo le mie narici di un denso odore di polvere e qualcosa di dolciastro che non riesco ad identificare. So però di averlo già sentito, da qualche parte.
Nell’oscurità sento chiaramente il mio cuore battere all’impazzata, rimbombandomi nelle orecchie assieme allo sciabordare del mio stesso sangue.
A fatica chiudo gli occhi, prendendo qualche boccata d’aria attraverso le labbra lievemente aperte, quel tanto che basta per far sibilare l’aria tra gli incisivi e ricoprire la lingua di quell’odore pesante.
Lentamente il mio cuore rallenta la sua corsa, facendo diminuire il pulsare di quella vena sulla tempia destra che avvertivo chiaramente premere contro la mia pelle dall’interno.
I miei piedi scivolano lungo la superficie su cui sono adagiato, tornando a far distendere le gambe.
Ho delle scarpe? E dei pantaloni?
No, non devo farmi queste domande.
Rigetto il desiderio di riaprire le palpebre, costringendo le mie labbra a serrarsi di nuovo e il naso a riempirsi dei profumi che mi circondano.
Polvere, l’inconfondibile odore della polvere. Quell’odore di grigio, lo stesso odore che ricopre quei libri più nascosti sulle mie mensole, lo stesso che sentii quella volta, entrando in quella stanza dopo tutto quel tempo…
C’è qualcos’altro ad accompagnarlo, però…
Credo che sia odore di legno. Ma non legno vivo, non di corteccia né albero. È lo stesso odore spento che hanno i tavoli e le sedie antichi, quelli composti da assi trattate sommariamente.
L’odore dolciastro, però, ancora non riesco ad indentificarlo.
Sia la polvere che il legno hanno un odore secco, questo, invece, lo definirei cremoso.
Sembra odore di erba, ma non l’erba che riempie i campi in primavera o in estate, con il suo aroma pungente, questo è diverso, più mieloso e liquido, potrebbe sembrare quello di foglie secche bagnate. E c’è odore di terra, lo stesso odore di quelle zolle dissodate di recente, che ancora trattengono tra i granuli marroni accesi l’umidità che si lì si era annidata in cerca di riparo dalla luce del sole.
Non riconosco altri odori, oltre a questi.
Inspiro un’ultima volta.
Quello che mi circonda è un buon aroma, anche la nota di polvere che lo colora non è fastidioso.
Il mio cuore si è finalmente deciso a battere normalmente, permettendomi di deglutire il grumo di saliva che mi si era sedimentato in gola.
Permetto alle mie palpebre di scostarsi lentamente sul buio indistinto che mi circonda, piego poi leggermente il collo in avanti, finché la mia fronte non si appoggia al soffitto basso di quella cella.
Quanto sarò riuscito a sollevare il capo?
Poco meno di una decina di centimetri, credo. La mia cella, quindi, non sarà più alta di sessanta centimetri.
Sbatto un paio di volte gli occhi, cercando di far adattare le mie pupille al meglio a quell’ambiente.
Una piccola lama di luce fa sberluccicare la polvere che fluttua sopra di me, nascendo da un piccolo squarcio nel soffitto.
Lentamente, sforzando sugli avambracci e piegando il più possibile le gambe, mi trascino verso i miei piedi, almeno finché le mie suole o chi per loro si appoggiarono sul limite estremo di quel loculo.
Accosto con cautela l’occhio destro alla fenditura, cercando di carpire più informazioni possibili su ciò che mi circonda.
Due alte pareti di terra marrone acceso si ergono come mura ai miei fianchi, accompagnando il mio sguardo verso il cielo, celato da una volta di ossuti rami privi di foglie che a stento coprono le nuvole bianche che le sovrastano.
Un nuovo odore, o forse solo un aroma a cui prima non ero riuscito a dare un nome, mi tocca il naso.
Odore di umidità, lo stesso che precede l’arrivo della pioggia.
Una larga e rossa foglia secca compare sopra al mio campo visivo, trascinata lontano dal suo ramo da un vento che non riesco a percepire.
Piccole zollette di terra si disgregano attorno alla mia cella all’arrivo di un lieve vibrazione, seguita da una seconda e una terza, sempre più forti e vicine.
Un’alta figura si staglia sopra alla muraglia che mi circonda, resa indistinta dalla luce che le proviene da dietro.
Provo ad aprir bocca, a chiedere aiuto.
Le labbra si scostano, ma la lingua non sembra saper ancora fare il suo lavoro. Non un suono esce dalla mia bocca.
La sagoma nera alza un oggetto fine, reggendolo con entrambe le mani, poi una cascata di terra e sabbia investe il mio loculo, facendo tremare il soffitto al quale mi sono accostato.
Piccoli granelli mi cadono nell’occhio, costringendomi a scostare lo sguardo da quella finestra sul mondo circostante.
Un’altra vibrazione del coperchio e un’altra ancora.
Oramai nemmeno la flebile luce che penetrava da quella fenditura riesce a farsi strada fino a me.
Batto le mani e le ginocchia sul soffitto, ma non riesco a produrre nessun suono degno di attenzione.
DI nuovo il mio cuore si lascia avvolgere dal terrore, aumentando il ritmo dei suoi battiti fino a renderli colpi martellanti sulle mie tempie.
L’odore secco di polvere e legno e quello dolciastro del terriccio e delle foglie morte si sono fatti più pesanti, dandomi alla testa.
Il mondo attorno a me si fa astratto per i miei sensi utili, un caleidoscopio di sensazioni indistinte.e narici di un denso odore di polvere e qualcosa di dolciastro che non riesco ad identificare. So però di averlo già sentito, da qualche parte.
Nell’oscurità sento chiaramente il mio cuore battere all’impazzata, rimbombandomi nelle orecchie assieme allo sciabordare del mio stesso sangue.
A fatica chiudo gli occhi, prendendo qualche boccata d’aria attraverso le labbra lievemente aperte, quel tanto che basta per far sibilare l’aria tra gli incisivi e ricoprire la lingua di quell’odore pesante.
Lentamente il mio cuore rallenta la sua corsa, facendo diminuire il pulsare di quella vena sulla tempia destra che avvertivo chiaramente premere contro la mia pelle dall’interno.
I miei piedi scivolano lungo la superficie su cui sono adagiato, tornando a far distendere le gambe.
Ho delle scarpe? E dei pantaloni?
No, non devo farmi queste domande.
Rigetto il desiderio di riaprire le palpebre, costringendo le mie labbra a serrarsi di nuovo e il naso a riempirsi dei profumi che mi circondano.
Polvere, l’inconfondibile odore della polvere. Quell’odore di grigio, lo stesso odore che ricopre quei libri più nascosti sulle mie mensole, lo stesso che sentii quella volta, entrando in quella stanza dopo tutto quel tempo…
C’è qualcos’altro ad accompagnarlo, però…
Credo che sia odore di legno. Ma non legno vivo, non di corteccia né albero. È lo stesso odore spento che hanno i tavoli e le sedie antichi, quelli composti da assi trattate sommariamente.
L’odore dolciastro, però, ancora non riesco ad indentificarlo.
Sia la polvere che il legno hanno un odore secco, questo, invece, lo definirei cremoso.
Sembra odore di erba, ma non l’erba che riempie i campi in primavera o in estate, con il suo aroma pungente, questo è diverso, più mieloso e liquido, potrebbe sembrare quello di foglie secche bagnate. E c’è odore di terra, lo stesso odore di quelle zolle dissodate di recente, che ancora trattengono tra i granuli marroni accesi l’umidità che si lì si era annidata in cerca di riparo dalla luce del sole.
Non riconosco altri odori, oltre a questi.
Inspiro un’ultima volta.
Quello che mi circonda è un buon aroma, anche la nota di polvere che lo colora non è fastidioso.
Il mio cuore si è finalmente deciso a battere normalmente, permettendomi di deglutire il grumo di saliva che mi si era sedimentato in gola.
Permetto alle mie palpebre di scostarsi lentamente sul buio indistinto che mi circonda, piego poi leggermente il collo in avanti, finché la mia fronte non si appoggia al soffitto basso di quella cella.
Quanto sarò riuscito a sollevare il capo?
Poco meno di una decina di centimetri, credo. La mia cella, quindi, non sarà più alta di sessanta centimetri.
Sbatto un paio di volte gli occhi, cercando di far adattare le mie pupille al meglio a quell’ambiente.
Una piccola lama di luce fa sberluccicare la polvere che fluttua sopra di me, nascendo da un piccolo squarcio nel soffitto.
Lentamente, sforzando sugli avambracci e piegando il più possibile le gambe, mi trascino verso i miei piedi, almeno finché le mie suole o chi per loro si appoggiarono sul limite estremo di quel loculo.
Accosto con cautela l’occhio destro alla fenditura, cercando di carpire più informazioni possibili su ciò che mi circonda.
Due alte pareti di terra marrone acceso si ergono come mura ai miei fianchi, accompagnando il mio sguardo verso il cielo, celato da una volta di ossuti rami privi di foglie che a stento coprono le nuvole bianche che le sovrastano.
Un nuovo odore, o forse solo un aroma a cui prima non ero riuscito a dare un nome, mi tocca il naso.
Odore di umidità, lo stesso che precede l’arrivo della pioggia.
Una larga e rossa foglia secca compare sopra al mio campo visivo, trascinata lontano dal suo ramo da un vento che non riesco a percepire.
Piccole zollette di terra si disgregano attorno alla mia cella all’arrivo di un lieve vibrazione, seguita da una seconda e una terza, sempre più forti e vicine.
Un’alta figura si staglia sopra alla muraglia che mi circonda, resa indistinta dalla luce che le proviene da dietro.
Provo ad aprir bocca, a chiedere aiuto.
Le labbra si scostano, ma la lingua non sembra saper ancora fare il suo lavoro. Non un suono esce dalla mia bocca.
La sagoma nera alza un oggetto fine, reggendolo con entrambe le mani, poi una cascata di terra e sabbia investe il mio loculo, facendo tremare il soffitto al quale mi sono accostato.
Piccoli granelli mi cadono nell’occhio, costringendomi a scostare lo sguardo da quella finestra sul mondo circostante.
Un’altra vibrazione del coperchio e un’altra ancora.
Oramai nemmeno la flebile luce che penetrava da quella fenditura riesce a farsi strada fino a me.
Batto le mani e le ginocchia sul soffitto, ma non riesco a produrre nessun suono degno di attenzione.
DI nuovo il mio cuore si lascia avvolgere dal terrore, aumentando il ritmo dei suoi battiti fino a renderli colpi martellanti sulle mie tempie.
L’odore secco di polvere e legno e quello dolciastro del terriccio e delle foglie morte si sono fatti più pesanti, dandomi alla testa.
Il mondo attorno a me si fa astratto per i miei sensi utili, un caleidoscopio di sensazioni indistinte.

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Capitolo 3
*** Third blink ***


Non riesco ad aprire le palpebre, il terrore mi fa torcere le viscere. Sono bloccato e l’unica cosa che il mio corpo mi permette di fare è respirare affannosamente.
Una lacrima mi cola lungo la guancia, cadendo sul mento.
L’odore di bosco che mi avvolgeva è sparito senza lasciare traccia del suo passaggio, ora tutto quel che rimane nelle mie narici è un aroma neutro, un odore di aria privata di ogni contributo.
Tento di scostare le labbra, facendo fluire il flusso rotto del mio respiro attraverso di loro, facendo serpeggiare il fiato tra i denti socchiusi.
Il petto mi trema e con lui le spalle.
La testa mi si fa pensante, se solo non ci fosse stato il collo mi sarebbe caduta in grembo.
Qualcosa mi avvolge le spalle, mi corre lungo la schiena per accogliere il mio coccige e le gambe dopo di questo. Qualcosa di morbido, di accogliete, un tiepido abbraccio inanimato che non ha il coraggio di chiudersi.
Finalmente la goccia cristallina sgorgata dal mio occhio si decide ad abbandonare quell’ultimo lembo di pelle esausta che la tiene legata al mio volto, cadendo inesorabilmente verso un pavimento che non continua a cambiare la sua posizione nei miei confronti.
Un suono lontano, ovattato, timido si fa strada fino alle mie orecchie. Un rumore continuo ma mutevole che pare trovare il coraggio di mostrarsi per poi perderlo immediatamente e rifuggire al mio udito.
Cos’è?
Un tepore leggero comincia a scaldarmi la faccia, facendo inaridire il solco umido lasciato dalla lacrima ormai scomparsa.
Mi mordo il labbro superiore, ho bisogno di sentire qualcosa di certo a cui aggrapparmi per non precipitare nel vortice di follia che mi ha travolto.
Sento gli incisivi inferiori crearsi un solco nella morbida pelle senza tagliarla, stimolando i nervi che vi albergano sotto.
Una sensazione vera.
Deglutisco a forza, mentre il tepore diventa via via più reale davanti a me.
Costringo le mie palpebre ad aprirsi di scatto, con la consapevolezza che più avessi rimuginato sul compiere quest’azione, più mi sarebbe stata difficile da compiere.
Un caminetto mi si mostra davanti, con braci rosseggianti che riposano nel letto che le offre.
I ricordi del fuoco divampante mi attanagliano la testa, i muscoli reagiscono per istinto, spingendomi lontano da quella fonte di calore.
I piedi si puntano sul tappeto su cui poggiano, la schiena preme sul supporto morbido che la sorreggeva, due gambe della poltrona perdono il loro appoggio sul pavimento.
Cado all’indietro, senza poter far nulla per evitare la caduta attutita dal mobilio su cui mi ero ritrovato.
Un orribile lampadario da soffitto  che ricorda fin troppo gli anni sessanta mi guarda sarcastico dall’alto della sua posizione, con le lampadine alogene accese in uno sguardo divertito.
Credo.
Lentamente, strisciando sulla schiena, riporto i piedi al livello del terreno, alzandomi poi lentamente mentre cerco di capire do ve mi trovo.
La mano destra corre senza che me ne possa accorgere al collo, massaggiandone l’attaccatura con le spalle, indolenzita dal colpo appena preso.
È un appartamento piccolo sotto qualunque punto di vista lo si possa guardare. Quello dove mi trovo al momento è, presumibilmente, il salotto, una stanza pervasa dall’odore di polvere e cenere. Il tappeto su cui ora giace la poltrona dall’alto schienale imbottito coperto da un tessuto viola prugna ha perso gran parte dei suoi colori originali per colpa della poca cura riservatagli, divenendo così un ammasso di peluria grigiastra.
Il camino che tanto mi ha spaventato è piccolo, basso e incassato nel muro, un vetro annerito separa le mie membra dalla fiamma che, forse ore prima, aveva arso al suo interno.
Accanto a me un tavolino tondo in legno scuro, dalle gambe arcuate, rimane immobile a sostenere l’irrisorio peso di un centrino bianco probabilmente fatto a mano.
Le pareti sono nascoste alla vista da un’orribile carta da parati beige, su cui spiccano, con un motivo ripetuto fino alla nausea, centinaia di gigli violacei che cercano in vano di rendere meno triste la superficie su cui sono stati posti.
Una sola finestra, alta e stretta, si apre sulle pareti. Le ante della persiana sono chiuse, impedendomi di vedere il mondo esterno ma facendomi intuire, attraverso i suoi spasmi, la presenza del vento che la sferza.
Mi torno a mordere il labbro superiore, masticandolo con i gli incisivi posti sul lato opposto, tentando di attenuare le pessime sensazioni che mi pervadono il petto.
Devo trovare un modo per andarmene, prima che succeda di nuovo qualcosa.
Mi volto, là dove avevo intravisto con la coda dell’occhio lo stipite di una porta.
Eccola lì, un’uscita dall’incubo in cui mi sono trovato.
Un’uscita socchiusa.
Un’uscita socchiusa da dietro la quale mi guarda qualcuno di piccolo. O qualcosa.
Devo andarmene, nulla di quello che potrebbe aspettarmi dietro quell’antica tavola di legno potrà fermarmi.
Mi avvicino lentamente alla maniglia d’ottone gelida, stringendola lentamente tra le dita.
Prendo un’ultima boccata d’aria e tiro verso di me la porta, facendola ruotare sui cardini nascosti.
Un colpo di tosse mi travolge quando la figura nascosta nel buio corridoio successivo alla stanza riesco a riconoscere le forme di un bambino.
Dieci anni, non gli darei di più.
I capelli scuri sono corti, tagliati male. Il pigiama chiaro che indossa è troppo grande per lui, forse l’ha ricevuto da qualcuno cresciuto troppo per indossarlo.
Lui mi guarda con dei grandi occhi nocciola, forse troppo grandi per il suo viso allungato.
Poi mi prende la mano tra le sue dita piccole e mi tira a sé, verso il corridoio, spingendomi a seguirlo.
Perché non dovrei farlo?
È solo un bambino…
No!
Non devo. Devo trovare un modo di andarmene da qui.
Non devo farmi trascinare ancora più a fondo in tutto ciò.
Le mie gambe paiono non volersi fermare, come se tutto quello che potessero fare fosse il seguire la guida che mi tiene la mano.
Nell’oscurità riesco solo a riconoscere l’orribile carta da parati della stanza precedente che mi perseguita.
Poi una scala. Una scala in legno, prima coperta da un drappo violaceo, poi nuda, poi, ancora, non più di legno ma di acciaio, come una scala di servizio nascosta sotto un tetto.
Finalmente la mia piccola guida si ferma.
Siamo giunti a un piccolo pianerottolo senza nessuno scopo se non quello di permettere a chiunque fosse così sfortunato da trovarsi lì di accedere a una porta in acciaio dal maniglione antipanico rosso ben visibile sulla superficie asettica.
Il bimbo guida la mia mano fino al maniglione, per poi abbandonare quel contatto.
Cosa dovrei fare?
Il rumore che mi ha accompagnato dal mio risveglio sulla poltrona è più vicino, più possente, più battente. Mi circonda, rimbomba tra le pareti, rimbalzando tra soffitto e pavimento, facendomi tremare fin dentro le ossa, come una bestia che sferza le sbarre per potermi raggiungere.
Non dovrei uscire.
Non dovrei nemmeno aprire la gabbia che la trattiene.
Il mio braccio prosegue, spingendo il maniglione.
La serratura scatta all’improvviso, permettendo alla porta di aprirsi verso l’esterno.
Un vento pensante e pregno d’umidità mi investe la faccia e i vestiti, trasportando con sé le gocce di pioggia più intraprendenti.
All’esterno la tempesta infuria, il cielo è buio, non una stella riesce a filtrare nella coltre oscura.
Solo un bagliore che fluisce come un liquido dagli estremi  del tetto piatto che mi trovo di fronte ed è quello stesso bagliore che dona riflessi giallastri alle migliaia di gocce che cadono sul pano in cemento per unirsi alle pozzanghere che già hanno invaso il terreno.
Avverto la piccola mano della mia guida premere sulla mia schiena e spingermi verso quella bestia che sferza il cielo con quelle centinaia di schegge iridescenti.
Non riesco ad oppormi a quel consiglio, di nuovo le mia gambe si rifiutano di fare la cosa più sensata.
La tempesta mi avvolge, mi sferza, sento le gocce d’acqua battere sulla mia testa, sulle mie spalle, sul mio petto e le gambe.
Chiudo gli occhi.
Le gocce hanno oramai impregnato completamente i miei capelli, che si sono accucciati sulla cute e lì rimangono immobili. I primi rivoli cominciano a fluire lungo il collo, tracciando e percorrendo decine di sentieri per raggiungere la pelle ancora asciutta che si nasconde sotto i miei abiti.
I miei polmoni si svuotano.
I miei abiti si sono fatti pesanti, madidi di pioggia.
Non posso far altro che allargare le braccia e alzare il viso lucido verso il cielo.
Le gocce di pioggia rimbalzano sul mio viso, le sento tutte, potrei quasi contarle.
I rivoli hanno oramai raggiunto le caviglie, insinuandosi fin  dentro le scarpe che mi coprono i piedi.
Uno stretto sorriso mi si accenna sulle labbra.
La tensione, in un attimo, pare venir trascinata via dai flussi che mi scorrono sulla pelle.
Non so perché lo sto facendo.
Non so perché sono qui, su un tetto durante una tempesta, con le braccia larghe e il viso al cielo, senza neanche tentare di proteggere le mie membra già lerce d’acqua dalle gocce che continuano a sferzarmi.
Non so perché sto sorridendo.
Forse, dopo aver sentito il mio corpo bruciare e percepito i muscoli sciogliersi attorno alle ossa, forse, dopo aver dovuto assistere impotente all’opera di un mio carceriere mentre cercava di trasformarmi in cibo per gli alberi di un bosco e per la fauna che lo abitava, forse, questa è la cosa migliore che mi potesse succedere.
L’acqua mi scorre sul viso, percorrendone i tratti e pettinando i capelli in ciocche incollate secondo il volere del vento che la guida.
Il vento temporalesco mi danza intorno, mi corre addosso, investendomi, abbandonando sul mio corpo il suo carico bagnato.
I talloni mi si sollevano dal piano in cemento e dalla pozzanghera che mi si è creata sotto le suole e che, probabilmente, ora ospita la mia immagine riflessa rotta da decine di cerchi ondosi.

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Capitolo 4
*** Last blink ***


È un turbine di gocce di pioggia, quello che mi avvolge?
Sento freddo, lo sento sotto la pelle, nelle fibre muscolari, dentro alle ossa fino al midollo.
I vestiti ormai lerci d’acqua sono incollati al mio corpo, pesanti come un’ancora ostinatamente incollata al fondale.
La pioggia ancora mi scroscia addosso, sfruttando le mie forme per raggiungere quel tetto in cemento più in fretta, folate di vento, sempre più spesso, però, mi sbattono contro, mi riempiono le narici e la bocca di quelle gocce che continuano incessantemente a cadere dal cielo oscuro.
I bagliori della civiltà a stento si possono riconoscere attorno a questo balcone sul mondo su cui sono stato portato.
Dovrei voltarmi, almeno per controllare cosa ne è stato della guida che mi ha condotto fin qui, ma, ancora una volta, il mio corpo pare aver una propria coscienza che si contrappone alla mia, avendone la meglio.
Onde gelide si formano sul tessuto dei miei vestiti increspati, come vele che si gonfiano sotto la prezza e risalgono il mio corpo.
Improvvisamente la punta dei miei piedi ricade mollemente verso il basso, senza più nessun appoggio a cui assicurarsi.
Dovrei urlare, ma il vento mi riempie la gola non appena le mie labbra tentano di aprirsi.
La pozzanghera che si era creata sotto di me è sempre più lontana, talmente scura da non poter nemmeno mostrare la mia terrorizzata immagine riflessa che va rimpicciolendosi verso le nubi.
Le luci offuscate dalla nebbia di gocce d’acqua si fa sempre più importante, avvolgendo prima il quadrato cinto da bassi muri di sicurezza del balcone e mostrando vagamente dove c’è civiltà e dove questa finisce, in lontananza.
Salgo quasi in linea retta verso il cielo, la maglia che mi copre il petto si gonfia ritmicamente, risalendo fin quasi ad arricciarsi all’altezza del mento, ogni volta che una folata trova uno spiraglio attraverso il quale entrare per frapporsi tra il tessuto e la mia pelle.
Le mie gambe penzolano sul vuoto reso indistinto dal grigiume che ammanta tutto, oscillando appena nel vortice che mi ha abbracciato.
Le raffiche si fanno più intense, strisciandomi addosso sempre più sovente.
I miei arti non riescono più a stare fermi nella posizione in cui li avevo lasciati. Le mani, per quanto provi a tenerle accanto al mio torso, continuano a impattare ed allontanarsi dalla maglia zuppa. Le ginocchia che mi paiono così lontane scalciano in ogni direzione, trascinandosi dietro tutto ciò che le sta sotto.
Sono in balia di quel temporale che mi ha rapito.
I capelli si sono liberati delle gocce che li tenevano fermi sulla mia fronte, unendosi al turbine che li circonda, scontrandosi e allontanandosi in una continua danza.
Il balcone dal quale mi sono levato non è più distinguibile nella bruma illuminata da centinaia di lampioni invisibili ai miei occhi.
Non saprei dire quanto sono arrivato in alto, ma, forse, è meglio non conoscere questa informazione.
Un lampo illumina il cielo davanti a me, in lontananza.
Pochi secondi e un tuono mi scuote le viscere, facendomi torcere lo stomaco con il suo rimbombo.
Una folata più forte delle precedenti mi risale le gambe e il torace, fino a toccarmi il limite della fronte.
Posso avvertire chiaramente il mio sangue venir risucchiato verso il basso dall’improvvisa spinta che ho ricevuto, per poi fermarsi non appena questa si spegne.
Mi pare eterno il tempo in cui non sento nulla attorno o su di me.
Sono sospeso nella nebbia, senza nulla sotto i piedi e senza punti di riferimento se non il baluginio giallastro che mi promette qualcosa di molto lontano sotto le mie suole.
Il sangue mi invade quindi la testa, non appena il mio corpo, privato del sostegno del vento che fino ad allora mi aveva cullato, comincia a precipitare.
Le mie membra volteggiano incontrollate, il sotto e il sopra perdono ben presto un senso, mentre la maglia e i pantaloni continuano ad accartocciarsi e  distendersi.
La pioggia mi cade appena addosso, quasi come se, seguendo l’esempio della brezza, avesse deciso di ignorarmi.
La coltre grigia ancora mi cela ciò che le sta sotto, impedendomi di capire, anche in quegli ultimi momenti, quanto tempo ancora sentirò l’aria che impatta sul mio corpo in caduta libera.
Provo ad inspirare profondamente con il naso l’aria gelida che mi circonda, cercando di calmare il mio cuore impazzito.
È già successo.
Non so cosa stia accadendo ora, ma ho già visto tutto.
Andiamo al prossimo, non posso far altro che rassegnarmi all’impotenza a cui il mondo mi sta mettendo di fronte.
Allargo le braccia e le gambe, cercando disperatamente di stabilizzare quelli che dovrebbero essere gli ultimi metri della mia caduta vertiginosa.
L’aria mi impatta sul ventre e sul viso, non abbastanza solida per rallentarmi o fermarmi.
Finalmente tra il bagliore soffuso si ricomincia a riconoscere la forma del balcone da cui sono partito, sempre più definito, sempre più vicino.
Chiudo le palpebre, aspettando che l’universo si muovesse per me.
Non sento nulla.
Non sento il mio corpo impattare sul cemento bagnato.
Non sento le mie ossa spezzarsi.
Non sento il mio sangue mescolarsi all’acqua delle pozzanghere.
Non sento nulla.
Sento freddo, però.
Apro lentamente le palpebre, intimorito.
Un materasso morbido mi supporta la schiena madida di sudore, cinta da un pigiama che appena ricorda cosa volesse dire essere asciutto.
Mi metto a sedere nella quasi completa oscurità della mia camera.
Il cuore ancora mi batte forsennatamente nel petto.
Lascio che il palmo della mia mano mi percorra i lineamenti del volto, liberandolo dalle gocce di sudore che ancora lo imperlano.
Provo a respirare profondamente, ma ancora i miei polmoni si rifiutano di riempirsi interamente.
Rimango per un po’ seduto immobile, rigido, con il sedere ben premuto sul materasso impregnato.
I miei occhi si perdono nell’oscurità davanti a me.
Insicuri su cosa andare a cercare.
Il mio cuore comincia a rallentare.
Il mio respiro torna a regolarizzarsi.
Il braccio su cui mi sto puntellando smette di tremare.
Gli ultimi postumi del sonno evaporano dal mio cervello, facendolo tornare al suo stato normale.
Ho bisogno di una doccia, ora.









Angolo dell'autore:

Sarò breve, lo giuro.
Spero di avervi intrattenuto, almeno un po'.
So che non è un capolavoro, ma per averlo partorito in mesi concitati in cui non ero al meglio della mia forma fisica e mentale sono abbastanza soddisfatto del risultato.
In ogni caso, grazie per essere passati, grazie per avermi letto, grazie di tutto.
Ora vi lascio, sperando di potervi rivedere, da qualche parte.
Vago

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