Afterwar

di Il cactus infelice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Depressione ***
Capitolo 2: *** Dipendenze ***
Capitolo 3: *** Rabbia ***
Capitolo 4: *** Ricominciare ***
Capitolo 5: *** Attacco di panico ***
Capitolo 6: *** Sesso ***
Capitolo 7: *** Solo ***
Capitolo 8: *** Dolore ***
Capitolo 9: *** Cambiamenti ***
Capitolo 10: *** Esaurimento ***
Capitolo 11: *** Animagi ***
Capitolo 12: *** Natale ***
Capitolo 13: *** Chiacchiere ***
Capitolo 14: *** Ritorno (parte uno) ***
Capitolo 15: *** Ritorno (parte due) ***
Capitolo 16: *** Sangue ***
Capitolo 17: *** Normalità ***
Capitolo 18: *** Casa ***
Capitolo 19: *** Cura (parte uno) ***
Capitolo 20: *** Cura (parte due) ***
Capitolo 21: *** Non sei solo ***
Capitolo 22: *** Figuracce ***
Capitolo 23: *** Lacrime ***
Capitolo 24: *** Conseguenze ***
Capitolo 25: *** Rivelazioni ***
Capitolo 26: *** Potere ***
Capitolo 27: *** I Dursley ***
Capitolo 28: *** L'intervista ***
Capitolo 29: *** Il ballo ***
Capitolo 30: *** Famiglia ***
Capitolo 31: *** Padri ***
Capitolo 32: *** Chiarimenti ***
Capitolo 33: *** Godric's Hollow ***
Capitolo 34: *** Papà ***
Capitolo 35: *** Sirius e Karen ***
Capitolo 36: *** 31 Luglio 1999 ***
Capitolo 37: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Depressione ***


Depressione

 

 

 

Riprendersi da una guerra non è mai facile per nessuno. Alla gioia di aver sconfitto un terribile nemico che aveva minacciato l’ordine mondiale per anni si contrapponevano il peso e la tristezza dell’aver perso i propri cari. E la seconda guerra magica aveva fatto numerose vittime.
Rimettere in sesto Hogwarts non era stato troppo complesso; tutti quelli che ancora si reggevano in piedi e che ne avevano le forze, si erano uniti per ricostruirla. Per alcune cose ci sarebbero voluti un po’ di giorni, ma l’antica scuola di magia e stregoneria avrebbe ripreso il suo solito aspetto imponente e magnifico in men che non si dica. Le creature magiche che avevano aiutato erano ritornate nella Foresta Proibita, le macerie ripulite, le mura riportate in piedi e le aule al loro posto. Dopotutto, era più facile tenersi impegnati che pensare ai propri morti.
Nei giorni a seguire erano stati organizzati dei solenni funerali per chi aveva perso la vita nella battaglia e una lapide con i loro nomi era stata eretta nel giardino di Hogwarts, vicino al Cipresso. La professoressa McGranitt era stata nominata nuova preside di Hogwarts e si preparava ad accogliere gli studenti per il nuovo anno, mentre a Kingsley Shacklebolt era stato affidato il compito di Primo Ministro del Mondo Magico.
Insomma, tutto sembrava volgere per il verso giusto, tornare alla normalità. Sembrava. Si sa che alcune persone però ci mettono di più, non tutti reagiscono alla stessa maniera e non tutti riescono a riprendersi in mano la propria vita così facilmente.
Il lutto è sempre difficile da affrontare e più la persona era amata più l’impatto emotivo era pesante. Se poi le persone perse erano più di una… Be’, in quel caso riprendersi diventava addirittura un’impresa. 

 

I Weasley erano tornato alla Tana e con loro anche Harry. Cercavano tutti di soppesare a quella enorme mancanza che sentivano pesantemente presente. I momenti dei pasti erano i più difficili; Bill, Percy e Charlie venivano in visita più spesso del solito, si parlava del più e del meno, ma l’assenza di Fred era come un’enorme spada di Damocle che trafiggeva il cuore di tutti. George non scherzava più, non faceva più impazzire i suoi fratelli e alle volte si rifiutava di scendere a tavola preferendo rimanere nella sua stanza. Molly aveva tolto l’enorme orologio che indicava i nomi di tutti i componenti della famiglia solo per non vedere quella lancetta che indicava il nome del figlio spaccata in due. Harry l’aveva sentita piangere spesso la notte quando si alzava perché non riusciva a dormire. Aveva iniziato a soffrire d’insonnia e in quei momenti gli avrebbe fatto comodo la presenza di Hermione - tornata a casa per riportare indietro i suoi genitori e ridargli la memoria. Parlare con lei lo aiutava sempre a cambiare le prospettive. Sentiva un senso di pesantezza addosso, qualcosa che lo opprimeva; la sua testa era perennemente in balia di pensieri, si ripassava le scene delle cose che aveva fatto come in un film, delle azioni che aveva compiuto pensando a come avrebbe potuto agire meglio perché tutti si potessero salvare; non si limitava a rivedere nella propria mente solo quell’ultimo anno, ma addirittura anni e anni prima. Come con Sirius. Avrebbe potuto fare le cose diversamente. Avrebbe potuto sconfiggere Voldemort senza tutte quelle morti.
Sapeva che erano pensieri stupidi, che avrebbe solo dovuto gioire per la vittoria della guerra, ma proprio non ce la faceva. Si disse che era solo un periodo, che i primi momenti erano così e che dopo qualche tempo tutto sarebbe passato e avrebbe potuto finalmente godere della pace e del non essere costantemente in pericolo di vita.
Ma adesso, l’unica cosa che poteva fare era stare accanto ai Weasley, la sua famiglia, e a Ron e Ginny. Nessuno meglio di lui poteva sapere come ci si sentiva nel perdere una persona amata. Dicono che farsi forza gli uni con gli altri fosse il miglior modo per guarire.
“Quando se ne andrà questa tristezza?” chiese la ragazza ad Harry, sdraiato nel letto accanto a lei. I due erano soli nella camera della Weasley più piccola, per fortuna, essendo una ragazza, non la doveva condividere con altri.
Harry sospirò. Aveva capito a cosa si riferisse, ma non avrebbe saputo darle una risposta. La tristezza per la morte di Sirius, o dei suoi genitori, non gli era mai passata. Certe volte si faceva sentire meno ma altre pesava come un’incudine. Ma non era tanto certo di voler dire proprio questo alla ragazza.
Perciò si limitò a girarsi verso di lei e a baciarla sulle labbra. Ginny lo tirò verso di sé e cercò di approfondire quel bacio. Gli mise le mani sotto la maglietta, sfiorandogli la cintura dei jeans. Aprì gli occhi per inchiodarli in quelli verdi del ragazzo.
“Facciamolo, Harry”.
Il Grifondoro respirò contro la sua bocca. “Sei sicura?”
“Sì”.
E come per dargli una prova che le sue non erano solo parole, si tolse la maglietta e si slacciò il reggiseno. In men che non si dica, Harry entrò dentro di lei e fecero sesso quasi con urgenza.

 

Giugno e Luglio passarono con una certa calma. Il mondo si stava riprendendo più velocemente di quello che ci si pronosticava e molte persone erano già tornate alle loro solite occupazioni, persino il signor Weasley e i loro figli.
Anche Hogwarts si stava preparando a riaprire i battenti, come la McGranitt aveva annunciato quando era venuta in visita alla Tana, proponendo a Harry, Ron ed Hermione di frequentare l’ultimo anno insieme a tutti gli altri studenti che avevano già frequentato il settimo, ma che ovviamente non avevano ricevuto la giusta preparazione.
Harry e Ron si mostrarono titubanti ma alla fine vennero convinti da Hermione che fece notare loro che avevano ancora molte cose da imparare e che almeno così avrebbero potuto prendersi un periodo di relax prima di pensare a cosa fare delle proprie vite.
“Sto ancora cercando un insegnante di Trasfigurazione e di Difesa contro le arti oscure”, aggiunse la nuova preside in carica. “Se avete delle conoscenze fatevi pure avanti”.
Harry fece un segno di assenso.
“Lo faremo, professoressa, non si preoccupi”, promise la signora Weasley accompagnando l’anziana donna alla porta.
Persino il compleanno di Harry venne festeggiato, anche se il ragazzo non avrebbe voluto. Ma aveva visto negli occhi di Molly che ci teneva e forse questa l’avrebbe tenuta impegnata dal pensare a Fred. Non fu nulla di troppo pretenzioso, solo un pranzo più buono del solito e una torta. In quell’occasione persino George comparve in cucina.
“Ti ho preso una cosa”, disse Ginny trascinando Harry in un angolo della casa dove potessero avere un po’ più di intimità dal resto della famiglia.
“Ginny, non dovevi”.
“Non ti preoccupare. L’ho fatto con piacere”.
Il ragazzo prese in mano il pacchetto che la rossina gli porgeva, pensando a quanto si fosse sforzata per fargli quel regalo con tutto quello che stava accadendo in casa sua. Scartò il regalo e tirò fuori un sottile braccialetto di cuoio con un ciondolo a forma di boccino legato in mezzo.
“È bellissimo, Gin. Ti ringrazio”.
Ginny gli sorrise.
“Mi aiuti a metterlo?”
Dopo aver attaccato il braccialetto al polso del ragazzo, la Weasley buttò le braccia attorno al collo di Harry e lo baciò come se ne andasse della sua vita. 

 

Ma tutto ad un tratto, i primi di agosto, Harry sentì di essere fuori posto in quella casa, si sentì di troppo. In fondo, era sempre stato un ospite, per quanto ormai tutti lo trattassero come uno di famiglia. Ma la signora Weasley gli proibiva di fare qualsiasi tipo di faccenda, anche solo aiutarla ed era stanco di non fare niente. Aveva bisogno di trovare uno spazio suo.
“E dove vorresti andare?” gli chiese Ron quando Harry espresse il suo desiderio.
“A Grimmauld Place. Sirius l’ha lasciata a me. Non posso stare qui in eterno, Ron, casa tua non è un porto…”.
“Lo sai che qui sei sempre il benvenuto”.
“Lo so, Ron. Ma ho bisogno di avere un posto mio”.
“Lascialo andare, Ron”, disse Hermione prendendogli la mano. “Harry ha ragione”.
Ron scrollò le spalle e accettò, anche se non sembrava del tutto sicuro. Harry sperava che non ce l’avesse con lui, ma non aveva voglia di litigare.
Salutò tutta la famiglia Weasley - Molly era piuttosto dispiaciuta nel vederlo andare via - e promise a Ginny che sarebbe venuto a trovarla e che l’avrebbe avvisata quando Grimmauld Place fosse stata pronta. Poi prese il baule e si smaterializzò.

 

Rimettere a posto l’enorme villa che era Grimmauld Place non fu troppo difficile, specialmente quando la notte non riusciva a dormire e allora si metteva a sistemare anche nelle ore tarde, per distrarsi e stancarsi. Kreacher era sempre lì, antipatico e scontroso come al solito, ma gli toccava servire il nuovo padrone. 
“Luridi Mezzosangue! Sporchi traditori, il Signore Oscuro vi maledirà dall’Oltretomba” stava urlando una infuriata Walburga Black facendo agitare anche gli altri personaggi nei quadri, tutti parenti di Sirius, nascosti dietro gli arazzi.
Il suono del campanello distrasse il ragazzo che chiuse di scatto le tende sul ritratto di Walburga. “Taci, mostro!” sussurrò mentre andava ad aprire la porta.
Il suo primo visitatore fu Hagrid. Harry strabuzzò gli occhi nel trovarselo di fronte.
“Harry! Sono andato dai Weasley ma mi hanno detto che stai qui ora”.
“Sì, Hagrid. Vuoi entrare?” Per quanto il Grifondoro adorasse Hagrid e fosse contento di vederlo, era un po’ scocciato di avere visite.
“Vieni qui fuori prima, devo farti vedere una cosa”.
Harry lo seguì nel cortile e si trovò dinanzi alla vecchia moto di Sirius.
“Ta-daaaa!” esclamò il Mezzogigante con un sorriso enorme. “Ho pensato di regalartela. Ci ho tolto il sidecar, tu non ne hai bisogno”.
“Hagrid, dici davvero?”
“Sì, dico davvero. Mi dispiace non essere venuto al tuo compleanno l’altro giorno, ma sai… Con Hogwarts che si rinnova, la McGranitt mi ha chiesto di dare una mano”.
“Capisco, Hagrid, non ti preoccupare”.
“Non ce l’hai con me, vero?”
Harry gli sorrise. “No, Hagrid, non potrei mai avercela con te”.
“Oh bene”.
“Vuoi entrare, Hagrid?” gli chiese alla fine, anche se un po’ titubante. Non aveva voglia di stare in compagnia, ma non invitare Hagrid in casa gli sembrava da maleducati, considerando anche il meraviglioso regalo che gli aveva fatto.
“Grazie, Harry, ma devo proprio andare. Ci sono ancora molte cose da fare e Settembre è quasi alle porte. Sono venuto solo a portarti il regalo”.
Il Grifondoro tirò un sospiro di sollievo quando vide l’amico andarsene per la sua strada. Si avvicinò alla moto e sentì di nuovo il magone. Hagrid non poteva fargli regalo migliore, la vecchia moto di Sirius, ma tra lo stare nella casa del suo vecchio padrino e guidare quella moto non era molto sicuro quanto facesse bene alla sua psiche. Ricacciò indietro le lacrime e rientrò in casa. 

 

Harry davvero aveva pensato che le cose sarebbero andate meglio con il passare dei giorni, invece si sentiva sempre peggio.
Non aveva voglia di fare nulla, né di alzarsi dal letto né di prepararsi da mangiare. Spiluccava qualcosa giusto per calmare il brontolio dello stomaco e alle volte chiedeva a Kreacher di pensarci lui ma temeva che l’elfo lo potesse avvelenare e allora preferiva non chiederglielo troppo spesso.
Ciondolava in quella casa oscura, piena di ricordi e memorie, come un fantasma e poteva ben dirlo che si sentiva più morto che vivo.
Gli arrivò pure qualche lettera, da Ron, da Hermione e da Ginny e tutti gli chiedevano quando sarebbe tornato, gli dicevano di non stare da solo. Harry non rispose a nessuno di loro. Persino prendere carta e penna gli risultava difficile e vedere i suoi amici… al solo pensiero gli tremavano le gambe. Non ce la faceva, non ne aveva le forze. Dentro di lui capiva bene qual era il sentimento che glielo impediva, ma ammetterlo era una questione ben più ardua.
Fino a che un giorno fu proprio Ginny a rompere quella barriera. Si smaterializzò direttamente dentro casa e per poco non fece venire un infarto ad Harry.
“Si può sapere che ti prende?” lo aggredì la ragazza. “Non rispondi alle lettere, non vieni a trovarci… Che stai facendo, Harry?”
Il bambino sopravvissuto la guardò con i suoi occhi verdi in una maniera che la sconcertò.
“Gin, perché sei venuta qui?”
La Grifoncina strabuzzò gli occhi. “Come sarebbe a dire? Sono la tua ragazza, o te lo sei scordato? È una settimana che non abbiamo più tue notizie”.
“Non dovevi venire qua”.
“Harry, si può sapere che ti prende?”
“Niente, Ginny!” le urlò. “Solo… Perché dovete starmi sempre addosso?”
“Chi è che ti sta addosso?”
“Tu e Ron ed Hermione. Con le vostre lettere e… le vostre parole, il vostro affetto. Io non ce la faccio più”.
“Che cosa?” chiese Ginny, gli occhi sgranati per lo sgomento.
“Vorrei solo che mi lasciaste in pace”.
“Anche io?”
“Sì, Gin, anche tu”.
“Vuoi che ci lasciamo?”
Il ragazzo deglutì e alzò lo sguardo sulla ragazza. Attese un attimo prima di dire quelle parole che gli sarebbero pesate come un macigno sul cuore. “Sì. Non voglio stare con te, non… posso. È meglio che ti trovi qualcun altro”.
Ginny lo guardò come si guarderebbe un pazzo omicida. Sapeva di averle fatto male, di averla ferita e forse in modo irreparabile. Ma preferiva chiuderla subito piuttosto che trascinarla in quella che sapeva sarebbe stata una vita difficile, accanto a lui.
La rossina scosse il capo e tutto quello che riuscì a dirgli fu: “Come vuoi, Harry. Tanto riesci sempre a rovinare tutto”. Poi si girò sui tacchi e se ne andò lasciandolo di nuovo solo in quella buia e triste casa.
Non sapeva cosa gli fosse preso, lasciare Ginny non era stata una cosa premeditata e non pensava che lo avrebbe davvero fatto, ma era stata come un’illuminazione, una vocina che gli diceva che lo doveva fare se davvero ci teneva a lei. Altrimenti l’avrebbe trascinata in quel baratro nel quale stava cadendo e dal quale non sentiva di potersi tirare su.
E poi, lei aveva ragione: sapeva solo rovinare tutto, rovinare le vite degli altri. 

 

***

   

Eccomi qui, con questa long-fic che non so quanto esattamente sarà long.

Molti capitoli sono già pronti per cui penso che aggiornerò ogni sabato. Non ho terminato di scrivere la storia, ma nella mia testa è già conclusa per cui non dovrete aspettare in eterno gli aggiornamenti. A meno che io non venga rapita dai Mangiamorte e data in pasto a Nagini. Non si sa mai.
Questo è il primo capitolo, un po’ sbrigativo forse, ma serve per introdurci alla storia che vedrà come protagonista Harry Potter (per cui, se lo odiate come personaggio, ahimè, forse è meglio per voi che torniate indietro. Oppure sono talmente brava che ve lo farò amare ^-^). Ci saranno tantissime parti introspettive che analizzeranno la sua psiche e tutto quello che lui fa dopo aver sconfitto Voldemort e, credetemi, non saranno belle cose. Anzi.
I momenti angst per il nostro Salvatore non sono ancora terminati.
 
Comunque sia, questa storia è nata dal mio infinito amore per James Potter e tutti i Malandrini per cui (piccolo spoiler ma tanto lo avrete letto nell’introduzione) sì, ci sarà un bel ritorno da parte di qualcuno dal regno dei morti (wink wink wink). Ma prima di arrivarci vi dovrete sorbire qualche tristissimo e disagiatissimo capitolo sulla depressione di Harry. 

 

Detto questo, ho già detto troppo.
Io vi prego, vi scongiuro, vi supplico, vi chiedo in ginocchio di lasciarmi qualche recensione. So che è ancora molto poco su cui basarsi, ma ditemi cosa ne pensate e se vorrete continuare la lettura. Datemi dei consigli o delle critiche, delle opinioni o dei suggerimenti. 

Se poi vi va, nel mio profilo trovate anche delle oneshot su Daredevil e Torchwood, altri due fandom che adoro. 

Bacioni a tutti,

Cactus.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Dipendenze ***


DIPENDENZE

 

Avrebbe dovuto prevedere il pugno di Ron, avrebbe dovuto capire che non l’avrebbe passata liscia. Ma in fondo, sapeva di meritarselo e per qualche vena masochista che aveva dentro, sentire quel dolore pungente alla guancia e il sapore ferroso del sangue che gli colava dal labbro era quasi un sollievo.
Si era sorbito per circa mezz’ora la rabbia di Ron e il suo sbraitare di quanto fosse un pessimo amico e che gliel’avrebbe fatta pagare per aver ferito sua sorella. Poi lo aveva abbandonato sbattendosi la porta dietro le spalle. Harry era rimasto a fissare l’uscio chiuso, seduto sui gradini dell’ingresso, come un baccalà.
A dire il vero non era nemmeno ben sicuro di cosa fosse successo. In meno di ventiquattr’ore aveva perso sia la sua ragazza che il suo migliore amico.
Se davvero aveva pensato che dopo la battaglia contro Voldemort le cose sarebbero migliorate, be’, quello era un inizio pessimo. 
Quella sera però trovo la scorta di alcolici che Sirius teneva nascosta nella propria stanza. Stappò la bottiglia di Whiskey e la alzò verso una foto poggiata sul comodino che ritraeva il suo padrino insieme a suo padre. Quella stanza era l’unica cosa che non aveva avuto il coraggio di toccare e ora gli sembrava una sorta di mausoleo.
Prese il pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca. Lo aveva comprato quel pomeriggio, approfittando per fare un giro di prova con la moto e aveva scoperto che andare in moto non era male e che quella di Sirius si guidava piuttosto facilmente. Quando si era accorto che era finito davanti a una tabaccheria, pensò a tutte quelle persone che dicevano che fumare gli calmava i nervi e l’ansia e così decise di fare un tentativo.
Dopotutto, se non lo aveva ucciso Voldemort, non lo avrebbe fatto nemmeno un cancro ai polmoni. E se anche accadeva, poco male.
Purtroppo, non aveva tenuto conto delle persone che lo avevano riconosciuto e delle ragazzine - anche qualche signora più anziana - che gli si erano appese alle braccia per fare una foto. I complimenti che gli avevano fatto per aver sconfitto il Signore Oscuro e aver evitato altri anni di guerra lo avevano fatto sentire a disagio e terribilmente fuori posto. Sentiva di non meritarseli, quei complimenti. Proprio per nulla. Evitava persino di leggere La Gazzetta del Profeta per non imbattersi in qualche notizia che lo riguardasse.
Ma si limitò a ringraziare e ad andare via, appuntandosi mentalmente di non andare più in giro per il Mondo Magico.

 

Riuscì a prendere sonno solo verso le tre di notte, dopo aver svuotato tutta la bottiglia di Whiskey ed essersi fumato cinque sigarette. 
Il mattino dopo lo colse con un mal di testa fotonico. Il campanello stava di nuovo suonando, questa volta ininterrottamente.
Era venuto a Grimmauld Place per stare un po’ da solo e avere un po’ di pace, ma a quanto pareva lì i visitatori fioccavano più di quanto non lo facessero alla Tana.
Lentamente si alzò dal letto, stropicciandosi gli occhi e reggendosi la testa scoppiettante, e ci mancò poco che rotolasse giù dalle scale. Chiunque fosse lo scocciatore, sperava solo che avesse davvero un’emergenza di cui parlargli.
La luce lo accecò non appena aprì la porta - e non fu certo d’aiuto per il suo mal di testa - ma riuscì comunque a distinguere la possente figura di Kingsley Shacklebolt fermo sulla soglia.
“Ministro!” esclamò il ragazzo.
Quella visita davvero non se l’aspettava.
“Chiamami pure Kingsley, Harry. Non servono tutte queste formalità tra noi due”.
“D’accordo”.
Harry lo lasciò entrare e richiuse la porta. Lo accompagnò su per le scale, verso la cucina, cercando di nascondere il fatto che avesse dormito malissimo e che si fosse ubriacato.
“Ti va del caffè?”
“Molto volentieri, grazie”.
“Lo hai arredato bene, questo posto”, osservò il mago più anziano, guardandosi attorno. I due erano seduti al tavolo della cucina, sorseggiando il caffè. Harry lo aveva fatto alla maniera babbana e il Ministro dovette ammettere che era davvero buono.
Il ragazzo scrollò le spalle, incurante del complimento. Non gli sembrava aver fatto granché, aveva solo ritinteggiato le pareti, dato una ripulita e riparato ciò che era rotto. Ah, e aveva anche comprato pentole, piatti e posate nuovi.
“Che ci fai qui, Kingsley?” chiese Harry dopo un po’. Lo vedeva chiaramente nei suoi occhi, che non era venuto solo per assicurarsi che stesse bene e fare due chiacchiere. Kingsley era un uomo pratico, era stato un Auror dopotutto, e gli Auror non perdevano tempo in frivolezze.
“Dritto al punto, ragazzo, apprezzo questa cosa”.
Il Grifondoro sorrise terminando il suo caffè. Il mal di testa era migliorato.
“Come saprai alcuni Mangiamorte sono ancora in fuga”.
A dire il vero Harry non se lo era chiesto e in quegli ultimi giorni il pensiero non lo aveva nemmeno sfiorato. Che cosa fosse successo ai Mangiamorte che non avevano ucciso durante la battaglia ad Hogwarts non era certo una cosa alla quale si sarebbe potuto interessare. Almeno, finché Shacklebolt non lo aveva messo al corrente.
“Ci stiamo facendo dire i nomi da quelli che sono già stati arrestati, ma nonostante molti siano morti combattendo con Voldemort, altri sono ancora in fuga. Alcuni dei quali sono noti per essere pericolosi e molto legati alla causa del Signore Oscuro. Senza contare i simpatizzanti e coloro che piangono la dipartita di Voldemort”.
“D’accordo e… quindi?
“Quindi bisogna trovarli e rinchiuderli ad Azkaban. Gli Auror del Ministero ci stanno già lavorando, ma è un compito difficile e noi siamo in carenza di… personale adatto. Anche noi abbiamo perso dei membri importanti”.
Harry abbassò lo sguardo e si passò una mano tra i capelli nervosamente.
“Ci sono le nuove reclute, i nuovi ragazzi che si allenano per diventare Auror, ma ci vorrà del tempo perché siano pronti. Intanto servono persone capaci. Quindi ho pensato a te”.
“A me?” Harry alzò di nuovo gli occhi sull’uomo di fronte a lui, questa volta sorpreso.
“Tu sei stato via un anno per cercare gli Horcrux e ti sei combattuto contro i Mangiamorte. Senza contare che hai sconfitto Voldemort in persona, più e più volte”.
Il Grifondoro annuì ma dentro di sé pensava che gran parte del merito andasse ad Hermione: senza di lei e le sue cure, la sua furbizia, non ce l’avrebbe mai fatto. E anche tutte quelle volte che aveva sconfitto Voldemort, si era quasi sempre trattato di fortuna.
Ma decise di tacere questa parte a Kingsley. Forse aveva capito dove il Ministro volesse andare a parare.
“Ti sto chiedendo di darci una mano. A stanare i Mangiamorte, intendo. Non come Auror, per quello ci vuole un diploma, ma come un appoggio. Ovviamente non ti manderei in missione da solo, avrai sempre almeno un’altra persona al tuo fianco. Che ne dici, Harry? Ti va?”
Harry assimilò le informazioni e la richiesta. Ricordò quando, appena un anno fa, lo consideravano troppo giovane e innocente per affrontare una guerra e combattere, persino Kingsley. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea? Solo quell’ultima missione dalla quale era uscito vincitore?
“Se vuoi pensarci ti do il tempo che ti serve”.
“No!” esclamò Harry. “Accetto. Darò una mano a catturare i Mangiamorte rimasti”.
Kingsley sorrise. “Allora, ho fatto bene a non menzionarti subito che ci sarebbe pure un compenso. La paga è buona”.
“Non importa”.
“D’accordo. Prima inizierai con gli allenamenti. È importante che tu sappia maneggiare bene gli incantesimi di attacco e combattere. Oggi alle due vai da Vince a questo indirizzo” e gli poggiò un biglietto sul tavolo. “Sarà lui il tuo allenatore”.
“Perfetto”.
Kingsley si alzò dalla sedia e cominciò a dirigersi verso l’uscita. “Ho saputo che tornerai ad Hogwarts. Spero che questo lavoro non interferisca coi tuoi studi”, aggiunse il Ministro voltandosi un’ultima volta.
“No, Signore. Non succederà”.
Quando Shacklebolt se ne fu andato, Harry tirò un sospiro e si sentì un po’ più alleggerito. Praticamente era un lavoro piovuto dal cielo che non si sarebbe mai aspettato di avere, ma ne fu contento. Aveva trovato il suo scopo, la sua missione. Stanare un po’ di Mangiamorte avrebbe aiutato la sua psiche.
Osservò l’ora; era ancora troppo presto per mettersi a bere, ma nulla gli impedì di accendersi una sigaretta.

 

“Ciao, Harry Potter”.
Vince era un uomo sulla trentina, alto, con un fisico ben formato e i capelli corti. Era molto pratico, non gli piaceva chiacchierare troppo e faceva quello che doveva fare senza girarci attorno. Inoltre, cosa che piacque molto ad Harry, non si fece mettere in soggezione dal fatto che avesse davanti il Bambino Sopravvissuto, colui che aveva sconfitto Voldemort per ben due volte.
Lo stava aspettando in una specie di palestra, con un ring al centro e diverse altre attrezzature.
“Essere un bravo combattente significa saper usare le armi a propria disposizione…”, disse Vince calandosi immediatamente nella parte dell’insegnante. “Ma essere un combattente eccezionale significa vincere anche senza le proprie armi. Per questo oggi voglio che metti via la bacchetta. Inizieremo con un corpo a corpo”. 
Ed Harry ebbe subito l’impressione che sarebbero andati d’accordo. 

 

Harry trascorse tutti i giorni, per diverse ore, in quella palestra, allenandosi con Vince, con e senza bacchetta. L’uomo gli insegnò tutti i movimenti di difesa personale, ma anche come attaccare colpendo nei punti giusti e addirittura la tecnica del soffocamento.
Il ragazzo imparava velocemente e sembrava tollerare bene la stanchezza. Dopo qualche giorno di allenamenti fisici, avevano iniziato a usare la bacchetta, ma solo perché Harry realizzasse che usare le mani per aggredire era persino meglio che usare la magia.
Nonostante la sua forza di volontà e la sua resistenza, il Grifondoro però si ritrovava sempre a crollare sul divano, le gambe pesantissime e ogni muscolo indolenzito. E quella sera non fu da meno. Sperava di riuscire ad addormentarsi subito, ma ben due gufi picchiettarono contro la sua finestra: uno portava la lettera da Hogwarts in cui erano scritti tutti i libri e i materiali che doveva portare per quell’ultimo anno e l’altro invece recava con sé una lettera di Andromeda.
Harry esitò su quest’ultima: la strega gli chiedeva quando sarebbe passato a trovarla per salutare il piccolo Teddy.
Teddy, il suo figlioccio.
Teddy, un altro orfano come lui.
Un neonato innocente reso orfano da una guerra che non lo riguardava.
Una vittima.
Per colpa sua.
Per colpa sua Remus e Tonks erano morti e non sarebbero mai più riusciti a rivedere loro figlio, a vederlo crescere e diventare adulto.
Prima James e Lily e ora loro due.
Harry afferrò il collo di una bottiglia di birra vuota e la lanciò contro la parete di fronte. Infine, accartocciò la lettera e la buttò insieme alle altre a cui non aveva intenzione di rispondere. 

***

Eccomi qua con il nuovo aggiornamento del sabatp. 
Spero che questo nuovo capitolo via abbia soddisfatti, ci sono un po' di novità per Harry. 
Non ho molto da dire, vi chiedo solo di lasciarmi delle recensioni per sapere l'andazzo. Ringrazio tantissimo coloro che mi hanno già scritto e chi ha messo tra le seguite questa mia storia. 

Ci becchiamo sabato prossimo.
Besitos,

Cactus.

 


 

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Capitolo 3
*** Rabbia ***


RABBIA

 

La prima missione per Harry avvenne prima del previsto.
Era andato da Vince per allenarsi, quando questi lo informò che il capo degli Auror, un certo Atticus Melvin, gli aveva chiesto di andare a Nocturn Alley a catturare Roockwood, avvistato proprio da quelle parti.
“Secondo me sei pronto. E poi, come capirlo meglio se non con l’azione in campo?” 
Harry afferrò la sacca da boxe che Vince gli lanciò all’improvviso con i riflessi degni di un giocatore di quidditch e annuì. Non se lo aspettava così presto ma non aveva intenzione di tirarsi indietro. Provava diverse emozioni, ma nulla di lontanamente riconducibile alla paura. 
Mancavano due giorni al rientro a Hogwarts e il Grifondoro non si era degnato di andare a trovare i suoi amici. Sperava solo che avessero capito l’antifona, lasciarlo in pace. Ma ad Hogwarts non sarebbe stato così facile. 

 

Vince ed Harry si incontrarono in un vicolo di Nocturn Alley verso le dieci di sera. Il sole era già tramontato, non c’erano stelle in cielo e men che meno dei lampioni decenti perciò il quartiere era particolarmente buio. A rendere il tutto ancora più inquietante erano i vicoli vuoti ad eccezione di qualche mendicante. I negozi erano chiusi, alcuni addirittura sprangati, mentre alcuni edifici avevano le finestre rotte o muri mancanti.
Harry ricordava di aver già fatto un giro per Nocturn Alley in passato e non gli sembrava messa così male. Un gatto randagio gli attraversò la strada di colpo e per poco non cadde a terra dallo spavento. Estrasse la bacchetta dalla tasca imprecando sottovoce.
“Inizi già a fartela sotto, Potter?” lo canzonò una voce dietro di lui.
La figura di Vince, questa volta coperta da un mantello e da dei vestiti neri - anziché dalla solita canotta e la tuta con cui lo vedeva in palestra - capeggiava sul marciapiede di fronte a lui.
“Andiamo. Cerchiamo di sbrigare questa faccenda il prima possibile. Ho una fidanzata che mi aspetta a casa”.
Il ragazzo osservò le spalle dell’uomo più grande sorpreso nel sapere che aveva una fidanzata. Non gli sembrava un tipo da sentimentalismi, ma effettivamente non sapeva nulla del suo allenatore. Il suo pensiero volò immediatamente a Ginny, ma anche ai suoi amici che non avevano idea che lui si trovasse lì, a dare la caccia a un pericoloso Mangiamorte.
“Mi dicono che Roockwood frequenti spesso un locale da queste parti. Andiamo lì e lo teniamo d’occhio”.
Vince fece per entrare nel locale, più una bettola che un locale a dire il vero, quando si bloccò. “Sei troppo riconoscibile”, disse ad Harry. “Sarebbe troppo strano che il Salvatore del mondo magico girasse da queste parti. E attireresti troppo l’attenzione”.
Harry alzò gli occhi al cielo: la sua condizione veniva a tormentarlo anche in quelle circostanze. Si tirò su il cappuccio della felpa nera e se lo calò sugli occhi.
“Aspetta un attimo”.
Vince gli puntò la bacchetta in faccia e mormorò un incantesimo. Gli occhi di Harry passarono dal verde al nero.
“Non so quanto un cambio di colore degli occhi possa funzionare, ma se stai così potresti passare inosservato”.
E finalmente entrarono. In silenzio, si accomodarono ad un tavolo quadrato e si guardarono attorno cercando di non farsi notare troppo. Ma tutti i commensali erano presi dalle loro chiacchiere e dal loro baccano, quasi tutti ubriachi. Un cameriere con delle ferite in faccia venne a prendere le loro ordinazioni. I due presero del whiskey e Vince pagò subito.
“Riesci a vedere Roockwood?”
Harry osservò un po’ in giro fino a che non fermò lo sguardo su un uomo dai capelli scuri seduto al bancone.
“Credo sia quello al bancone. A ore due”.
Vince si avvicinò alla sedia del ragazzo per osservare meglio senza dare nell’occhio. Se si fossero fatti vedere che cercavano qualcuno avrebbero destato sospetti.
“Sì, è lui”.
Ma dovettero aspettare circa un’ora perché finalmente la situazione si smuovesse. Il Mangiamorte se ne era rimasto seduto al bancone tutto il tempo, da solo, ordinando alcolici e scolandoseli come fossero acqua.
Chissà, forse era disperato per la dipartita del suo “capo”.
“Andiamo, forza! Si sta alzando”, esclamò Vince a bassa voce e i due gli furono subito alle costole, cercando di non farsi bloccare la strada dagli altri avventori.
Roockwood si diresse verso un’uscita sul retro e finì in un vicolo che puzzava di piscio e vomito. Sopra la sua testa alcuni panni freschi di bucato erano stesi su dei fili. Si muoveva a zigzag, piuttosto instabile sulle gambe.
“Ehi, tu! Roockwood!” gridò Vince nella sua direzione.
Il Mangiamorte si voltò trovandosi due bacchette spianate alla testa. “Maledizione!” imprecò mentre tirava fuori la propria. Non esitò a lanciare uno schiantesimo mancando però entrambi i suoi assalitori. Probabilmente si stava pentendo di tutto quell’alcol che aveva bevuto e che lo aveva reso poco lucido. 
“Everte Statim!” mirò Vince colpendo l’altro dritto al petto. 
Il nemico cadde a terra e subito, sia Harry che Vince, si mossero nella sua direzione. Ma Roockwood stringeva ancora la bacchetta tra le mani e colpì il più grande con una Stupeficium. Vince volò indietro di un metro e cadde di schiena. 
Harry lo disarmò velocemente e lo afferrò per il bavero tirandolo in piedi con la sola forza delle braccia. 
Roockwood gridò e chiuse gli occhi iniziando a implorare. “Ti prego, ti prego. Non uccidermi”. 
“Sarebbe troppo facile”, gli sussurrò Harry in faccia dandogli un pugno sul naso. Ma un pugno ne tirò un altro e poi un altro ancora finché non lasciò crollare il Mangiamorte di nuovo a terra colpendolo sempre più forte.
“Harry!” si sentì chiamare, ma fece finta di non udire. Si stava sfogando, si sentiva bene finalmente, perché doveva smettere?
“Harry!” 
Questa volta Vince gli bloccò il braccio. “È finito, smettila. Lo portiamo ad Azkaban”. 
Il ragazzo osservò il viso dell’uomo a terra deformato dal sangue che gli colava da tutte le parti e con un sospiro si alzò. 
“Andiamo, forza!” 
Afferrarono Roockwood da entrambe le parti e si smaterializzarono. 

 

La mattina del primo settembre fu una specie di condanna per Harry. Per qualche frazione di secondo gli balenò per la testa di darsi malato o di mandare un gufo alla professoressa McGranitt dicendole che non voleva più frequentare quell’ultimo anno ad Hogwarts. Ma poi si ricordò che scappare dalle difficoltà non era proprio nello spirito di un vero Grinfondoro e si decise a tirare fuori le palle e a ignorare il cerchio alla testa che gli martellava - si era ubriacato di nuovo la sera precedente.
Inoltre, la sua coscienza gli ricordò che aveva ancora degli amici, o almeno così sperava, e forse era il caso di cercare di rimediare ai danni che aveva fatto. 
Tuttavia, per evitare la folla che si sarebbe riversata al binario nove e tre quarti, Harry arrivò con largo anticipo e salì subito sul treno. Scelse uno scompartimento vuoto qualsiasi e si sedette. Chiuse pure le tende per evitare di vedere qualsiasi altra persona potesse passare fuori. 
Nessuno degli studenti, però, osò sedersi con lui. Alcuni lo salutarono entusiasti, altri si limitarono a lanciargli un’occhiata e a distogliere lo sguardo mentre i più piccoli e timidi si sentivano troppo in soggezione dal Salvatore del mondo magico. 
Ed Harry fu grato a questa cosa. 
Ma solo quando accanto alla sua carrozza passarono Ron ed Hermione l’espressione del Grifondoro cambiò. Ron si limitò a lanciargli un’occhiataccia e ad andare oltre - e le occhiatacce di Ron non erano mai facili da ignorare, sembrava davvero volessero ucciderti, - Hermione invece si fermò e raggiunse l’amico. 
“Harry!” Lo abbracciò di slancio. “Ci sei mancato in questi giorni”. 
Il ragazzo la guardò scettico. “Davvero?” 
“Sì. A tutti quanti, alla signora Weasley soprattutto. Pure a Ron sei mancato anche se non lo ammetterà mai. Sai com’è fatto, devi solo dargli un po’ di tempo. Ce l’ha con te perché hai mollato sua sorella”. 
“Lo so, Mione, lo capisco”. 
“A proposito di questo”, Hermione punto gli occhi castani in quelli di Harry e assunse il suo miglior cipiglio preoccupato. “Che è successo? Perché hai lasciato Ginny così all’improvviso?” 
Harry ricambiò lo sguardo, affranto. Già, perché? Come poteva spiegarlo a Hermione? Come poteva spiegarlo a sé stesso? 
“Perché ho bisogno di… capire alcune cose. Non me la sento di imbarcarmi in una relazione ora”. 
“Ma la guerra è finita, Voldemort è sconfitto. Non hai più nulla da temere. Puoi goderti questo anno ad Hogwarts senza preoccupazioni e anche dopo”. 
Il ragazzo avrebbe voluto farsi una risata perché le parole di Hermione gli parevano così assurde e false in quel momento. Era certo che lei ci credesse e avrebbe tanto voluto avere la sua stessa certezza. 
Ma c’era un demone peggiore che doveva combattere ora, peggiore di Voldemort. Se stesso. 
“Credo che mi serva solo un altro po’ di tempo, Mione”. 
L’amica annuì e il Grifondoro sperò davvero che lo avesse capito. Magari sì, magari aveva capito meglio di quanto non avesse capito lui. 
“D’accordo. Vado a cercare Ron”. 
Rimasto nuovamente solo, Harry si appoggiò al finestrino del treno deciso a godersi la solitudine. Forse era meglio così, essere lasciato in pace era la cosa migliore. Dopotutto, non si era trasferito a Grimmauld Place per nulla. 
Ma qualcuno bussò nuovamente sul vetro del suo scompartimento e vide dei sorridenti Neville e Luna che lo salutavano dall’altra parte.
“Ci possiamo unire a te?” 
“Certo”. 
Nulla era cambiato nei suoi amici; Luna indossava la sua solita collana di tappi di bottiglie e gli spettroccoli, era vestita con colori incredibilmente cangianti e i lunghi capelli biondi erano legati in una morbida treccia laterale. Neville si era fatto più grande e più maturo e forse c’era addirittura un accenno di barba sotto il suo mento. 
“Sono proprio contento di ricominciare Hogwarts quest’anno. Adesso le cose andranno meglio”. 
Già, quante volte aveva sentito quella frase? Adesso le cose andranno meglio. Sì, ma quando? 
Quando era quell’adesso? Perché Harry non lo sentiva neanche un po’ vicino. 
Luna si perse a parlare di Nargilli e Gorgosprizzi e altre cose strambe e in fondo, ad Harry andò bene così perché era contento che non si parlasse di Voldemort o della guerra o di chi era morto o del perché Ron ed Hermione non fossero lì con lui. 

 

Era piacevole vedere che alcune cose non erano cambiate, come Hogwarts ad esempio. La guerra aveva scosso numerose persone che ne avrebbero portato i segni per molto, molto tempo, ma la scuola di magia e stregoneria metteva addosso una sorta di pace e di tranquillità. Come aveva sempre fatto, soprattutto quando c’era Silente.
Gli studenti vennero accolti nella Sala Grande con i tavoli divisi nelle quattro casate e il cielo stellato sopra di loro.
Subito dopo lo Smistamento, la professoressa McGranitt presentò i due nuovi insegnanti che quell’anno entravano a far parte del corpo docente, Phillip Brightly per Difesa contro le arti oscure, un uomo sulla trentina piuttosto affascinante che fece sospirare moltissime ragazze, e Dedalus Knox per Trasfigurazione, un altro uomo ma di mezz’età.
“Hogwarts dovrebbe puntare di più su insegnanti donne”, fece notare Hermione mentre si spegneva l’applauso che aveva accolto i nuovi arrivati.
“L’importante è che punti sulla loro bravura e la simpatia”, rispose Ron.
“Harry, tu cosa ne pensi?” chiese la riccia all’amico seduto di fronte a lei. Harry avrebbe di gran lunga preferito non unirsi alla conversazione, ma ormai era stato chiamato in causa.
Alla fine Ron aveva ceduto a sedersi al tavolo con lui, o meglio, era stato costretto visto che la sua ragazza non voleva andare altrove. Tuttavia non aveva smesso di guardarlo in cagnesco anche se ora sembrava più tranquillo.
“Non saprei, Mione. Ron ha ragione ma effettivamente ci sono poche donne tra i professori”.
Hermione spostò lo sguardo sul rosso e sembrava voler dire “ecco, vedi che ho ragione?”. L’intensità di quel pensiero era talmente forte che non serviva lo dicesse davvero. 
Harry invece percorse la tavolata dei Grifondoro con gli occhi notando Ginny seduta qualche metro più in là che conversava tranquillamente con Katie Bell. Sentì una morsa allo stomaco.
In treno e nel tragitto fino al castello era riuscito ad evitarla, ma erano dello stesso anno e sarebbe stato difficile non parlarsi.
Maledizione a lui e al suo cervello bacato! 

 

*** 

 

Eccomi qui con l’aggiornamento di sabato.
Questo capitolo è abbastanza tranquillo. I ragazzi sono tornati ad Hogwarts e a quanto pare tutto sta per riprendere il suo normale corso. O forse no.
Continuate a seguire per sapere come andrà avanti, ma cercate anche di recensire, fatemi sapere cosa ne pensate e se avete qualche idea del perché Harry abbia questo comportamento strano.
Mi piace sentire l’opinione dei miei fan :) 

Critiche costruttive ben accette. 

 

Besos,

Cactus

 

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Capitolo 4
*** Ricominciare ***


RICOMINCIARE

 

Harry entrò nel dormitorio dei Grifondoro dove era rimasto tutto immutato. Le tende rosse ancora decoravano i letti e in tutta la stanza si respirava un tranquillo torpore. Il suo baule, come quelli degli altri, erano già li ad attenderlo.
Persino i suoi compagni di stanza erano rimasti sempre gli stessi: Neville Paciock, Dean Thomas, Seamus Finnigan e Ron Weasley.
“Harry, sei stato formidabile a sconfiggere Lord Voldemort!” esclamò Seamus non appena si ritrovarono nell’intimità della loro stanza lontana dalla confusione degli studenti. “E poi quell’entrata ad effetto… mitico! Mia madre non ha fatto altre che parlarne quest’estate. Credo che mio padre ora un po’ ti odi”. Disse l’ultima frase ridendo.
Harry si ricordò che il padre di Seamus era un babbano e probabilmente non ci capiva nulla di questioni magiche o delle vicende con Voldemort. Il moro invidiò un po’ quella situazione di completa ignoranza. 
Vide Ron chinarsi davanti al suo baule e lo raggiunse. 
“Ron?” chiamò Harry piano. “Io… Mi dispiace. Possiamo per favore parlarne?” 
Il rosso richiuse il baule e si voltò verso l’amico. “Non ce l’ho con te, Harry”, gli disse. “Solo… Non capisco”. 
Harry tirò un sospiro di sollievo. Litigare con Ron tutto il tempo quell’anno sarebbe stata la pugnalata allo stomaco definitiva. Si inginocchiò accanto a lui. “Tua sorella merita di meglio”. 
“Come puoi dirlo? Ti ha aspettato così tanto, vi siete cercati per tanto tempo… Non puoi buttare tutto all’aria così”. 
Quelle parole gli rimasero per un attimo impresse. Aveva davvero buttato tutto all’aria? Oppure stava salvando Ginny, come appunto cercava di convincersi da quando l’aveva lasciata? Non era stato mai campione nel prendere le decisioni giuste ma finché si trattava di rovinare la vita a sé stesso poco gli importava. Non voleva più coinvolgere altre persone nelle sue crociate. O nei suoi disastri emotivi.
I ragazzi condivisero un pacchetto di caramelle tutti i gusti più uno e si raccontarono le vicende di quella estate - un’estate che tutti finalmente riuscirono a godersi dopo la sconfitta del Signore Oscuro - contenti di sapere di potersi godere un anno senza intoppi. Harry se ne restò in disparte sdraiato sul suo letto, ascoltandoli parlare e ridere. Per quanto provasse a farsi coinvolgere da tutta quell’allegria, una vocina dentro la sua testa gli diceva che lui non poteva, che non se lo meritava. 

 

La mattina seguente tutti gli studenti si prepararono per le lezioni. Quelli del primo anno si guardavano attorno un po’ spaesati e quelli più grandi calpestavano i corridoi dell’enorme castello con fare sicuro, già perfettamente orientati verso le aule in cui dovevano andare, e a conoscenza dei dispetti che facevano le scale.
Harry e Ron non avevano alcuna lezione quella mattina, mentre Hermione li aveva abbandonati per la lezione di Antiche Rune.
I due ragazzi vennero però interrotti dalla professoressa McGranitt che li raggiunse a metà corridoio del settimo piano.
“Potter! Avrei bisogno di parlare un attimo con lei”.
Harry lanciò un’occhiata stranita a Weasley e seguì la preside verso il suo ufficio, chiedendosi quale diamine di motivo potesse avere per chiamarlo in disparte il primo giorno di scuola. Non aveva davvero fatto niente.
“Non ti tratterò a lungo”, lo rassicurò la donna. “Volevo soltanto chiederti se ti andava di essere di nuovo capitano della squadra di quidditch”.
“Oh”. Quello davvero non se lo aspettava.
“Che dici?” La McGranitt lo guardò con uno strano sorrisetto.
Il ragazzo lanciò un’occhiata ai quadri di Silente e Piton che in quel momento dormivano placidamente nelle loro cornici.
“La ringrazio dell’offerta ma preferirei di no”. 
Le labbra della professoressa si piegarono in una nota di dispiacere, ma la donna cercò di nasconderlo subito. 
“Ne sei sicuro?” 

“Assolutamente”.
“Oh, d’accordo allora”.
Non aveva pensato al quidditch in quell’ultimo periodo, non aveva pensato nemmeno di fare i provini per entrare in squadra, figurarsi se pensava di venire nominato Capitano.
Ma quell’anno avrebbe avuto altro a cui pensare. Era sicuro che la missione affidatagli da Shacklebolt gli avrebbe impegnato un certo tempo e non poteva prendersi altri impegni. Senza contare che… Be’, anche il quidditch faceva parte di quella serie di cose che gli procuravano il malessere interiore. Pensare di riprendere in mano la sua vecchia scopa, la Firebolt… Gli veniva quasi da vomitare. Com’era possibile tutto ciò? Che cosa gli stava succedendo?
“Harry”, chiamò di nuovo la McGranitt. Harry alzò lo sguardo su di lei con fare sorpreso, come se fosse strano vederla lì. Quando lo chiamava per nome anziché per cognome, era chiaro che voleva uscire dal suo ruolo di insegnante. “Tutto il Mondo Magico ti è grato per quello che hai fatto”. 
“Sì, certo, professoressa”, la interruppe. Era stanco della gente che si congratulava con lui, stanco di quelli che erano orgogliosi e che lo inneggiavano a salvatore. Non sentiva di aver salvato nessuno. “Ho solo fatto quello che andava fatto”. 
“Be’, hai avuto più coraggio di tutti noi”. 
Harry si alzò in silenzio e si diresse verso la porta dell’ufficio. 
Sì, ma non è stato abbastanza quello che hai fatto, gli diceva una vocina dentro la testa. 

 

Non sapeva dove fosse finito Ron, comunque non se la sentiva di stare in compagnia e approfittò del deserto del castello per andare fino alla guferia.
Alcuni gufi erano appollaiati sui trespoli, altri si spettinavano le piume. Harry pensò a Edvige. Gli mancava anche lei, era sempre stata una presenza rassicurante quando viveva coi Dursley e gli ricordava che il suo mondo non era quello dei babbani bensì Hogwarts e che presto l’avrebbe rivista.
Gli era stata fedele fino alla fine. E aveva perso persino lei.
Non gli andava più di ricordare, di pensare alle persone che lo avevano abbandonato perendo per una causa che non era loro, per proteggere lui. Persino Ron ed Hermione avevano abbandonato le loro case e i loro affetti per accompagnarlo in una missione suicida alla quale potevano benissimo astenersi. Solo per lui.
Che cosa aveva fatto per meritare tutto quell’affetto? Niente. Lui semplicemente esisteva e tutta la sua esistenza gli pareva priva di significato in quel momento.
Ricacciò indietro le lacrime e tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette che si era portato dietro, quando sentì rumore di passi dietro di lui.
Una ragazza dai capelli scuri e la divisa di Grifondoro lo guardava ferma sulla soglia della porta. Non ricordava di averla mai vista.
“Ciao!” lo salutò.
Harry sperò solo che non gli chiedesse qualche foto o autografo.
“Ciao!” 
“Ci sei solo tu?” 
“Sì”. 
“Bene”. E senza degnarlo di altre attenzioni, prese un gufo e gli legò una lettera attorno alla zampa. 
Nessuna richiesta assurda.

 

Si riunì con Ron ed Hermione solo nell’ora di Pozioni. 
Si era scordato che Ginny seguiva il settimo anno con lui e per poco non gli venne un accidente quando se la vide passare accanto. Ma la ragazza non fece nulla per fargli capire il suo stato d’animo. Evitò di salutarlo e persino di guardarlo, il che poteva effettivamente essere interpretato come uno stato d’animo. E non molto positivo.
I Serpeverde si accomodarono sui banchi opposti a quelli di Grifondoro, come al solito. Harry guardò nella direzione di Draco Malfoy che si limitò a prendere il proprio posto senza fare caso a nessuno. Era strano trovarsi a una lezione di Pozioni e non subire le solite frecciatine e gli scherni del biondino e degli altri Serpeverde. 
Anche quello era uno strascico di ciò che la guerra si era portata dietro, la mancanza di spavalderia dei Serpeverde. Dopotutto, molti di loro erano figli di Mangiamorte o simpatizzanti e alcuni dei loro genitori erano stati portati ad Azkaban, tra cui quelli di Draco Malfoy. Il fatto che fossero scappati nella battaglia finale non li aveva salvati. 
Il Professor Lumacorno entrò incespicando quasi sui suoi piedi. Non appena vide Harry la sua espressione si illuminò e cominciò a prodigarsi in una serie di osservazioni sulla sua vittoria contro Voldemort, con tanto di complimenti e ringraziamenti. 
“Professore, potremmo soltanto fare lezione e basta?” lo interruppe ad un certo punto Harry. Stranamente nessuno aveva commentato quell’episodio. 
Verso sera, subito dopo cena, Harry decise di abbandonare i suoi amici - o meglio, lasciare loro un po’ di spazio nella Sala Comune e andare a rifugiarsi nella stanza delle necessità. 
Stando ad Hogwarts non poteva allenarsi così spesso con Vince, quindi decise di chiedere alla stanza una palestra e cavarsela da solo. 
Aprì la porta e trovò dentro tutto quello che gli serviva, attrezzi, pesi, un ring e persino dei bambolotti mobili che potevano simulare la lotta corpo a corpo. 
Il ragazzo sorrise tra sé e sé e si tolse subito la maglia. Finalmente poteva sfogare un po’ lo stress della giornata. Non che avesse avuto particolari impegni, ma stare in mezzo alla gente lo estenuava. 

 

***

 

Siamo al quarto capitolo, di nuovo tutto abbastanza tranquillo.
Vi risparmio le ciance e vi chiedo solo, come sempre, di lasciarmi una recensione. Noi autori siamo sempre felici di riceverne. 

 

Grazie e a sabato prossimo!
Cactus. 

 

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Capitolo 5
*** Attacco di panico ***


ATTACCO DI PANICO

 

Harry pensava davvero che le cose sarebbero andate meglio, pensava che gli servisse solo qualche giorno di pausa per capire che davvero aveva sconfitto Voldemort e che ora poteva godersi la vita come non aveva mai fatto prima d’ora.
Pensava che fosse normale sentirsi triste per quelli che erano venuti a mancare durante la guerra, ma che dopo tutto sarebbe passato e finalmente sarebbe stato felice per la sconfitta del Signore Oscuro. In fondo, anche Ron aveva perso un fratello eppure ogni giorno sospirava di contentezza - probabilmente dovuto anche alla sua relazione con Hermione.
Invece lui non ci era ancora arrivato nonostante fossero passati mesi e sentiva che non ci sarebbe arrivato mai, alla fase felice. Sentiva, anche se si dava dello stupido per pensarlo, che lui non se lo meritava, di essere felice. Rivedeva dentro la sua testa le morti di tutte le persone che gli erano state care, a cominciare dai suoi genitori, Sirius, Remus e Tonks, Fred, Dobby, Silente, persino Edvige e continuava a pensare che dei modi per salvarli ci sarebbero stati, che se avesse agito diversamente si sarebbero potuti salvare. Questi pensieri gli impedivano di dormire e, a tutto quello, si erano aggiunti pure gli incubi, in quelle poche ore che finalmente riusciva a conciliare il sonno.
Non erano come gli incubi che aveva quando Voldemort era vivo, di questo era certo, non era la cicatrice a procurarglieli - quella ormai non faceva più male - erano incubi… Be’, normali. E forse addirittura più dolorosi perché non gli mostravano una realtà che avrebbe potuto cambiare. Sognava di essere felice con i suoi e con Sirius, scene di vita quotidiana, magari stavano pranzando insieme e poi… Poi si svegliava e si ricordava che erano morti e che non avrebbe mai più potuto pranzare con loro. E allora aveva solo voglia di piangere e urlare. 
“Harry, non hai una bella cera. Sei sicuro di aver dormito bene?” gli chiese Hermione quando lui e Ron la trovarono in Sala Grande per colazione. Probabilmente le occhiaie non aiutavano a nascondere il suo stato d’animo. 
“Sì, Hermione, tranquilla. Colpa di Dean che russava”. 
“Fì. Confermo… Dean ruffa tutta la notte”, aggiunse Ron con la bocca già piena. Hermione purtroppo aveva fallito miseramente nel fargli togliere quel vizio. 
Se fosse stato solo il russare di Dean a tenerlo sveglio Harry sarebbe stato ben contento. Quello che non capiva bene era cosa lo trattenesse dal dire tutto ai suoi due amici, degli incubi, del malessere… Forse la stessa cosa che lo tratteneva dal rivelare il lavoro che stava facendo per Kingsley. 
I gufi entrarono dalle finestre volando in cima alle teste degli studenti e consegnarono lettere o giornali. Hermione si vide consegnare la sua Gazzetta del profeta, mentre Ron ricevette un’altra lettera dalla madre. Da quando era morto Fred era diventata un po’ ossessiva nei confronti dei suoi figli e voleva sapere tutto ciò che stavano facendo. Ron e Ginny, che erano i più piccoli e non poteva andare a trovarli facilmente, ne risentivano particolarmente.
Anche Harry si vide recapitare una lettera quella mattina, ma non appena lesse il mittente la accartocciò e la gettò sul tavolo. Era la terza lettera che una testata giornalistica gli inviava per chiedergli un’intervista. 
“Perché non lo fai, Harry?” gli chiese Hermione, al che l’amico inarcò un sopracciglio sorpreso. “Potresti raccontare la tua versione”. 
“La mia versione? Qual è la mia versione, Hermione?” 
“Be’, non lo so. Alle persone piacerebbe sapere quello che hai fatto, cosa hai passato”. 
“Non ho passato nulla di diverso da quello che hanno passato tutti gli altri in questa guerra. Se volete, potete farla voi l’intervista. In fondo, eravate con me a cercare quei dannati Horcrux”. E dicendo quello, si alzò di colpo dal tavolo allontanandosi di gran fretta.
Hermione rimase a fissare il tè che aveva di fronte, sorpresa e sconvolta dal tono duro e leggermente arrabbiato di Harry. Sapeva che non aveva avuto una bella esperienza con Rita Skeeter, ma lei non esercitava più e questa volta era sicura che nessuno avrebbe inventato notizie. Non si parlava che della sconfitta di Voldemort e di come Harry lo avesse ucciso. Era certa che avrebbero dato persino il rene, i giornalisti, per sentire come erano andate le cose da chi, quella battaglia, l’aveva vissuta in prima persona dall’inizio alla fine. 
Ma capiva anche che ad Harry non piacesse esporsi. 
“Sai, Hermione, forse Harry ha ragione. Potremmo farla noi l’intervista”. 
“Non essere scemo, Ron”. 

 

Harry si appoggiò - o meglio dire, crollò - contro la parete di un corridoio del secondo piano cercando di incanalare più aria possibile. Stava soffocando, anzi, aveva la sensazione di stare soffocando.
Non c’era nessuno che lo tenesse per la gola e nulla gli era andato per traverso. Era tutto nella sua testa. 
Stava avendo un attacco di panico. 
Ringraziò mentalmente Merlino che il corridoio fosse vuoto; tutti gli studenti si erano diramati nelle loro aule per le lezioni e anche lui sarebbe dovuto essere a lezione di Trasfigurazione. Ma proprio quando stava andando verso l’aula, qualcosa lo aveva paralizzato lì sul posto. Le immagini dei suoi peggiori incubi gli avevano attraversato la testa come un film in flashforward e non aveva saputo frenarle. Ora gli incubi non lo tormentavano solo di notte. 
Aveva sentito il fiato venirgli meno subito e gli sembrava che tutto il castello avesse iniziato a vorticargli sopra. Si era fermato in un angolo per lasciare che la gente attorno a lui se ne andasse e riprendersi, ma non era servito a nulla. 
Si accorse di essere vicino a dei bagni e con una mano si allungò spingendo la porta. Crollò in ginocchio aggrappato al bordo di un lavandino. 
Forza, Harry, respira. Non puoi morire in un lurido cesso per un attacco di panico, si diceva. No, nemmeno l’auto-convincimento stava funzionando. 
Percepì vagamente una porta dietro di lui sbattere e dei passi. Appoggiò le mani sul pavimento freddo sperando che almeno quel contatto lo riportasse alla realtà. 
“Porco Godric! Potter!” esclamò una voce maschile che gli parve di riconoscere come quella di Malfoy. “Che ti prende?” 
Il Serpeverde gli si piazzò di fronte e gli puntò gli occhi di ghiaccio in faccia, scontrandosi con quelli verdi e disperati del Grifondoro. 
“Hai sconfitto il Signore Oscuro e ti fai venire un attacco di panico?” 
Gli appoggiò le mani sulle spalle e mantenne il contatto visivo. “Ascoltami. Concentrati sulla mia voce. Inspira ed espira. Okay? Con molta calma. Inspira ed espira”. 
Harry seguì le istruzioni alla lettera e si aggrappò a quel piccolo aiuto - decidendo che avrebbe lasciato a un altro momento lo sconcerto per essersi lasciato aiutare da Malfoy.
Draco si protese per aprire il rubinetto. 
“Ascolta lo scrosciare dell’acqua e rilassati. Respira con calma”. 
Il respiro del moro poco alla volta tornò regolare e finalmente si calmò. Come tutto quello fosse successo ora gli sembrava assurdo e ridicolo. Solo un attimo prima stava camminando verso la lezione e poco dopo si era ritrovato in apnea e col mondo che girava attorno a lui. 
“Mi hai fatto prendere un colpo, Potter!” esclamò Malfoy, per aggiungere subito dopo all’occhiata basita dell’altro. “Non avrei saputo come giustificare il tuo cadavere altrimenti”. 
Harry ridacchiò e si alzò lentamente da terra. 
“Grazie, Malfoy”. 
“La comunità magica mi deve un favore. Ho salvato il suo eroe”. 
“Che ci facevi nel bagno di Mirtilla Malcontenta?” 
Il biondino si guardò attorno come se cercasse una buona giustificazione da qualche parte. 
“È l’unico bagno che non viene usato da nessuno. Mi piace fare i miei bisogni da solo”. Il tono altezzoso e irritato non era andato perdendosi nella voce del Serpeverde, ma Harry capì subito che gli stava mentendo. Capiva quando qualcuno voleva starsene in pace per conto proprio. 
Tuttavia, ignorò la questione e annuì semplicemente.
“Be’, ti ringrazio per l’aiuto”. 
“Non ti preoccupare. Non lo dirò a nessuno”. 
Certo che non lo avrebbe detto. 

 

Harry non disse niente dell’attacco di panico ai suoi due amici e anche quello andò ad aggiungersi alla lista delle cose che stava tacendo.
Ma quel sabato c’era la visita ad Hogsmeade e si era promesso che si sarebbe svuotato la mente e si sarebbe lasciato contagiare dall’aria allegra di Ron, Hermione, Neville e Luna. Ginny li aveva mollati dicendo che usciva con qualcun altro, ma non aveva dato troppe spiegazioni.
L’aria fresca di Ottobre stava già iniziando a farsi sentire e prima di uscire si avvolsero tutti nei cappotti e nelle sciarpe.
La fortuna di Harry però non voleva girare a suo favore: non appena misero piede nel villaggio, molte teste cominciarono a girarsi verso di loro, chi sorpreso, chi incredulo, chi meravigliato. Una ragazza rincorse il moro per farsi fare l’autografo.
“Grazie! Grazie!” continuava a ripetere mentre si allontanava.
“Amico, questa gente ti divorerebbe se potesse”, osservò Neville.
“Se quello mi può aiutare a sparire non mi dispiacerebbe”, commentò l’amico con tono frustrato. 
In quel momento desiderava soltanto sedersi ai Tre manici di scopa e bersi una burrobirra parlando di cose frivole. O non parlando affatto. 
Gli venne quasi il voltastomaco a pensare che si sarebbe dovuto abituare a tutte quelle attenzioni, alle persone che lo fermavano e gli chiedevano autografi o gli facevano i complimenti - complimenti che a lui sembravano del tutto fuori luogo e inappropriati. Si sentiva così a disagio. Ma non era quello il caso di farsi venire un altro attacco di panico. Piuttosto, avrebbe iniziato a considerare l’idea di andare a vivere in una caverna senza alcun contatto umano, come i migliori eremiti. 
“Potresti sempre riempirti di Gorgosprizzi così la gente non ti si avvicinerebbe”, gli disse Luna col suo solito fare indifferente. Nessuno però commentò.
Raggiunsero il locale abbastanza velocemente e cercarono un tavolo appartato. Non avendo troppi clienti in quel momento, Madame Rosmerta andò subito da loro a prendere le ordinazioni, lanciando un occhiolino ad Harry. 
“Non ricordo quand’è stata l’ultima volta che siamo stati ad Hogsmeade senza che succedessero cose strane”, esordì Ron afferrando la sua Burrobirra non appena gli venne servita. 
Hermione parve rifletterci un attimo. L’ultima volta che ci erano stati avevano rischiato di farsi beccare dai Mangiamorte e poi ricordava quella volta al sesto anno quando Katie Bell era stata incantata per portare una collana avvelenata a Silente. Quante cose erano successe e quante ne erano cambiate. 
Il locale cominciò a riempirsi degli studenti che, come loro, avevano deciso di abbandonare Hogwarts per qualche ora, nonché altri maghi e streghe più grandi, chi con famiglia, chi da solo. Harry si calò in testa il cappuccio della felpa, notando qualche altra occhiata verso la sua direzione -  o forse stava solo diventando paranoico.
“Sbaglio o è appena partito un flash?” chiese Neville guardandosi attorno. 
La porta dei Tre manici si aprì di nuovo e una chioma rossa comparve sulla soglia. A quanto pareva, Ginny aveva davvero un accompagnatore e sembravano piuttosto intimi a giudicare dalle risatine della ragazza e da come gli stava aggrappata al braccio. 
I due andarono a sedersi ad un tavolo e la ragazza non parve aver notato nessuno di loro. 
“Credo si chiami William o Lucas. Forse Melvin”, disse Luna osservando la coppia. 
Gli sguardi dei tre amici si voltarono verso Harry. 
“Che c’è? Ginny può uscire con chi vuole”. 
Il che era vero, non stavano più insieme e lui non aveva diritto di parola su di lei. L’aveva lasciata lui, dopotutto, e non aveva senso che i suoi amici si preoccupassero che potesse essere geloso. Certo, era pur sempre la sua ex e vederla con qualcun altro non lo lasciava indifferente. Ma aveva fatto bene a lasciarla. Aveva fatto bene? 

 

I quattro passeggiarono per Hogsmeade un po’ a caso, senza una meta precisa, godendosi l’aria ottobrina e guardando le vetrine dei negozi, finché non comparve davanti a loro la grande insegna dei Tiri Vispi Weasley.
“Dai, andiamo a trovare mio fratello”, disse Ron correndo verso l’ingresso del negozio.
A dispetto di ciò che tutti avevano pensato, George Weasley non aveva chiuso il negozio. Lo stava ancora portando avanti, vendendo e progettando nuovi scherzi ma al suo fianco aveva deciso di assumere Lee Jordan che era stato grande amico dei gemelli ed era stato ben felice di accettare quell’offerta. Anche lui era rimasto colpito dalla morte di Fred e quello gli sembrava un ottimo modo per onorare la sua memoria. 
“Ciao, ragazzi!” li salutò George pimpante. Nonostante facesse di tutto per tornare a essere il solito Weasley scherzoso e divertente, si vedeva che soffriva ancora. Perdere un fratello era terribile, ma perdere un gemello doveva essere persino peggio. 
Harry non aveva idea di come dovesse sentirsi - certo, lui aveva perso molte persone care nel corso di quegli anni - ma qualcosa gli diceva che non era comunque paragonabile. O che quantomeno il paragone non se lo potesse permettere.
Si allontanò dal resto del gruppo quasi senza accorgersene, rimanendo a fissare una specie di fontanella con dei piccolissimi pesci che nuotavano e saltellavano. 
“Si chiamano Luminacei”, disse una voce dietro di lui che lo fece sobbalzare. “Si illuminano al buio”. 
“Oh wow!” 
“Puoi prenderne uno se vuoi. Puoi prendere qualsiasi cosa in questo negozio senza pagare”. 
“Ti ringrazio, George, ma non è necessario”. 
Il rosso stava per allontanarsi quando Harry lo richiamò. “Tu come fai?”
George inarcò un sopracciglio. 
“Come fai ad andare avanti? A svegliarti tutte le mattine e ad avere voglia di lavorare e… fare cose?” 
“I ricordi, credo. So che Fred vorrebbe che io fossi felice. Questo negozio era un sogno suo più che mio e mi odierebbe se lo lasciassi fallire. Rivedo Fred in ogni oggetto che c’è qui dentro e, anche se ora fa male so che tra un po’ di tempo starò meglio”. 
“Già”. 
Harry annuì ma non ne era del tutto convinto. Forse per George poteva funzionare, ma a lui i ricordi facevano solo del male. Pensare, ricordare, rivedere le persone che aveva perso… A volte alzarsi dal letto era più difficile che cercare gli Horcrux. 
“Harry. Andrà meglio. Non devi mollare ora”. 

 

*** 

 

Spero che i vostri sabati siano più allegri con gli aggiornamenti della mia fanfic!!!
Come state? Siete già andati a vedere I crimini di Grindelwald? Cosa ve ne è parso? Fatemelo sapere in una recensione, possiamo discutere del capitolo ma anche del film ^^
Intanto ringrazio quelle persone che hanno già commentato la mia storia e l’hanno inserita tra le preferite, le seguite e le ricordate. Vedo che state aumentando un po’ alla volta e mi fa proprio piacere.
Vorrei sapere cosa ne pensano anche le persone che per il momento seguono in maniera silenziosa. Su, non siate timidi :) 

 

Per il resto, vi auguro un buonissimo weekend e ci vediamo al prossimo sabato!!!
Bacioni 

Cactus

 

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Capitolo 6
*** Sesso ***


SESSO

 

Quando gli arrivò un messaggio da parte di Vince che gli diceva che il giorno dopo sarebbero andati a caccia di Mangiamorte, Harry si sentì sollevato. I giorni ad Hogwarts passavano lentamente, era un’agonia sempre maggiore e sentiva che sarebbe esploso presto.
Quella distrazione lo avrebbe distratto per un po’. Uscire dal castello non sarebbe stato difficile; avrebbe usato il passaggio segreto che portava ad Hogsmeade e da lì si sarebbe smaterializzato.
Andò nella stanza delle necessità ad allenarsi la notte prima; sapeva già che il sonno non sarebbe arrivato tanto presto, quindi poteva usare quelle ore in modo più proficuo. 
Il Mangiamorte di turno era Antonin Dolohov. Harry se lo ricordava alla battaglia di Hogwarts; insieme a Yaxley faceva la guardia nella Foresta Proibita quando lui si era consegnato. Non aveva idea di quanti ne avesse uccisi, ma di sicuro erano tanti e meritava Azkaban tanto quanto gli altri Mangiamorte.
Vince gli diede appuntamento in mezzo ad un parco giochi nei pressi di Liddlein Town, a quella tarda ora deserto se non per qualche gufo. Harry non c’era mai stato e gli sembrò la cosa più inquietante che avesse mai visto, con alberi i cui rami parevano sottili mani che si allungavano per prendere tutto quello che si avvicinava, complici anche le fogli cadute che li avevano resi spogli.
“Andiamo!” disse Vince non appena lo vide.
A Harry piaceva che non si perdesse in frivole conversazioni. Non aveva voglia di mettersi a discutere sul suo stato di salute o sui suoi stati d’animo.
“Pare che un’anziana signora lo avesse visto mentre portava a spasso il cane. Lo ha riconosciuto da una delle foto segnaletiche che abbiamo messo in giro e ha contattato il capo Auror”.
Già. Gli Auror si erano presi la briga di individuare tutti i Mangiamorte fuggiti e apporre le loro foto in giro con la dicitura “Ricercati”.
La stessa cosa che avevano fatto con Sirius, ma almeno questa volta non braccavano gli uomini sbagliati.
Lo trovarono che dormiva su una panchina, un braccio steso sopra la testa e l’altro ciondoloni. Harry si chiedeva quanto i servitori di Voldemort potessero essere stupidi: bazzicavano ancora a Londra sapendo di essere ricercati anziché scapparsene in qualsiasi altro paese del mondo. Forse  aspettavano ancora ordini da qualcuno.
“D’accordo, Harry. Ci limitiamo a catturarlo, poi lo portiamo ad Atticus. Ci penseranno gli altri a interrogarlo”.
Harry annuì stringendo forte la bacchetta fino a farsi venire le nocche bianche.
Vince puntò la bacchetta contro il Mangiamorte e pronunciò sottovoce l’incantesimo di incatenamento, ma non fece in tempo a finire la formula che un gufo bubolò risvegliando l’uomo sulla panchina e distraendo gli altri due.
Non si sa se siano stati i riflessi di Dolohov o qualche fortuna dalla sua parte, ma si accorse di Vince ed Harry con le bacchette in mano pronti ad attaccarlo; immediatamente estrasse la sua e lanciò uno Schiantesimo verso il più grande. Vince cadde a terra con un tonfo sordo. Harry fece per protendersi verso di lui ma vide l’altro cominciare a scappare.
Non c’era tempo. Forse avrebbe preso l’ennesima decisione sbagliata nella sua vita, ma si mise ad inseguire Dolohov. Se Vince stava bene si sarebbe ripreso, se fosse morto non ci avrebbe potuto fare più di tanto.
Dolohov aveva le gambe lunghe e lo aveva scartato di un bel po’, ma Harry era ripieno di rabbia ed energia e gli teneva testa.
“Sectumsempra!” gridò mancandolo.
Il secondo colpo andò a tiro.
Il Mangiamorte cadde bocconi sul selciato e il ragazzo gli fu subito sopra a cavalcioni.
“Harry Potter”, sussurrò con tono divertito. “È un onore essere uccisi da colui che ha ucciso il Signore Oscuro”.
“Stai zitto!” Lo riprese Harry tirandogli un pugno in faccia che gli fece sanguinare il labbro. Questo servì solo a far divertire Antonin ancora di più.
“Sai, ho ucciso quel tuo amico. Il lupo. Com’è che si chiamava? Lupin?”
Ed Harry non ci vide più. Gli rifilò un altro destro e poi si alzò in piedi sovrastandolo. Gli vennero in mente le parole che gli disse Bellatrix quando aveva ucciso Sirius, che doveva volerlo, lo doveva volere per davvero altrimenti non avrebbe funzionato.
Ed Harry lo volle, lo desiderò con tutto il cuore, fare del male, torturare… “Crucio!”
Dolohov si dimenò come un pesce fuori dall’acqua che sta morendo e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Il Grifondoro si sentì pervadere da un’ondata di… Non avrebbe saputo definire nemmeno lui cosa fosse, ma era qualcosa che per un attimo lo fece stare bene e che gli fece andare via i pensieri che non avevano smesso di tormentarlo in quell’ultimo periodo.
“Crucio! Crucio!”
Fu di nuovo sopra al Mangiamorte afferrandolo per la collottola. Dolohov squittì sotto di lui. Il sangue gli era scivolato ovunque in faccia e c’era qualcosa di bagnato tra i suoi pantaloni, segno che si era fatto la pipì addosso.
“Dimmi dove si nascondono gli altri Mangiamorte! Dimmelo!”
“Non lo so. Non lo so!”
“Harry!”
Harry si girò e vide Vince venire verso di lui zoppicando leggermente. “È finita. Portiamolo via”.
Anche quel lavoro era stato portato a termine e un altro Mangiamorte era stato reso alla giustizia. Vince ed Harry avevano appena abbandonato l’ufficio di Atticus Melvin e avevano avuto il permesso di tornare a casa, dopo aver compilato il rapporto.
Harry stava per smaterializzarsi ad Hogsmeade quando Vince lo chiamò.
“Harry, sei stato bravo a non esitare e a inseguire Dolohov, ma ricordati una cosa. Noi non torturiamo”.
Già. Le cruciatus. Era stata la prima volta che Harry usava una maledizione senza perdono - o meglio, la seconda contando l’Imperius, ma la prima volta che faceva del male a qualcuno volontariamente. E si era sentito così bene. Forse perché si trattava di un Mangiamorte o forse perché… Non osava nemmeno lui pensarci, si faceva paura da solo.
“Torna ad Hogwarts e fatti una dormita”.
Cosa che fece. Harry dormì quella notte, dormì dopo essersi fumato tre sigarette e aver svuotato due bottiglie di birra certo, ma dormì e non sognò nulla. 

 

L’indomani mattina, come era logico, Harry non riusciva a state sveglio e non erano servite a nulla le tre tazze di caffè che aveva fatto fuori in dieci minuti.
Perciò alla lezione di storia della magia gli fu facile addormentarsi sul banco. Ma non era certamente l’unico: Ron andava in stato catalettico ogni cinque minuti, Neville aveva preso a scarabocchiare sui suoi appunti e in generale tutti i Grifondoro russavano grandemente, persino quelli con gli occhi aperti. Dopotutto, il professor Ruf era famoso per la sua lentezza nel spiegare, unita ad una voce monotona.
Solo i Corvonero riuscivano a stargli dietro. Ed Hermione. 
“Ragazzi, anche questa materia è importante”, disse la ragazza all’amico e al fidanzato dopo che furono usciti dall’aula. “Sarà una materia presente ai M.A.G.O.”.
“Tanto tu ci presterai i tuoi appunti, Mione”, rispose Ron guardandola malizioso.
“Te lo scordi, Ronald”.
“E dai, si chiamano doveri nei confronti del tuo ragazzo”.
“Essere il mio ragazzo non ti dà questo tipo di privilegi”.
“Come sarebbe a dire?”
Il battibecco tra i due proseguì mentre camminavano lungo il corridoio diretti alla lezione successiva, ma Harry si era completamente estraniato e le loro voci gli arrivavano attutite. Continuava a ripensare a quello che era successo l’altra notte con Dolohov e a come lo avrebbe facilmente ucciso se Vince non fosse intervenuto.
Ma era normale tutto quello? Era giusto? Per Diana, cosa gli stava succedendo? Perché non riusciva a stare bene? Perché non riusciva ad essere tranquillo e felice come Ron ed Hermione? Se lo meritava, si meritava un’esistenza normale, felice, una relazione con Ginny eppure… Eppure dentro la sua testa c’era il caos, pensieri che si accavallavano, sentimenti distruttivi, sensi di colpa… Sapeva che era tutto solo nella sua testa ma non riusciva a liberarsene. 

 

Harry Potter non era mai stato un playboy e non aveva mai avuto particolare successo con le ragazze. Di certo non era uno che si fiondava a letto con la prima che gli capitava a tiro.  
Era pure stanco di essere continuamente il terzo incomodo tra Ron ed Hermione e anche un po’ stufo di vederli scambiarsi continuamente effusioni. Poi ci si metteva pure Ginny con quel nuovo ragazzo col quale andava sempre in giro. Quando li aveva visti scambiarsi quel bacio in Sala Comune gli era scattato qualcosa.
Lanciò un’occhiata alla ragazza dai capelli neri che stava facendo un solitario seduta al tavolo vicino al camino - ricordò di averla già visto in guferia il primo giorno di Hogwarts - e continuò a guardarla insistentemente finché lei non se ne accorse. Le fece un sorriso malizioso e poi la raggiunse al tavolo.
“Posso unirmi alla tua partita?”
“Io avrei in mente un’idea migliore, Harry Potter”.
La ragazza alzò lo sguardo su di lui mordendosi il labbro inferiore.
“È libera la tua stanza?”
“Credo di sì”.
Si alzarono quasi in sincrono e si diressero verso il dormitorio maschile. Fu lei a spingere Harry contro la porta e a baciarlo senza esitazione.
Prima di buttarsi sul letto e togliersi i vestiti sigillarono la porta. 

 

“Stai meglio senza occhiali”. 
Harry sorrise debolmente alla ragazza stesa accanto a lui nel letto. Erano entrambi nudi e il Grifondoro ripassava con la mente gli istanti di poco prima, quando erano intenti a fare del sesso.
“I tuoi occhi si notano di più. Se non hai particolari problemi alla vista, conosco un incantesimo che può ridarti le diottrie che hai perso”.
“Ci penserò”.
Il ragazzo si allungò verso il cassetto del comodino e prese il pacchetto di sigarette. “Vuoi?”
La ragazza accettò ed Harry gliela accese con la bacchetta.
“Ai tuoi compagni non dà fastidio se fumi in camera?”
“A dire il vero non ho mai fumato in camera e loro non sanno che fumo. Aprirò le finestre”.
“Non sapevo fossi così trasgressivo, Harry Potter”.
Harry sorrise. “Non lo sono, infatti. Almeno, non apposta”. Afferrò anche il posacenere che teneva nello stesso cassetto e lo mise in mezzo al letto, notando le sfumature blu tra i capelli scuri della ragazza.
“Non ti ho chiesto come ti chiami”.
“Karen. Ma puoi chiamarmi Kiki. Gli amici mi chiamano così”.
“Siamo amici?”
“Abbiamo appena fatto del sesso casuale, direi che è un buon punto di partenza”.
“Ottima osservazione”.
Rimasero a fumare in silenzio per un po’ finché Kiki non spense la sua sigaretta ed infine scavalcò il ragazzo per scendere dal letto e iniziare a vestirsi.
“Non ti preoccupare, non ti chiederò di metterci insieme o cose simili”.
“Non lo avevo pensato”.
Lei lo guardò con un sorrisetto che aveva del furbesco e si allacciò le scarpe. Harry la guardò uscire dalla porta e poi continuò a fumarsi la sua sigaretta in tutta tranquillità. Forse stava un po’ meglio. Forse.

 

Dopo cena Hermione era riuscita a convincere Harry a venire a studiare in biblioteca con lei e il ragazzo aveva accettato solo perché pensava che un po’ di compagnia lo avrebbe distratto e svagato un po’.
Ma c’erano ragazze che continuavano a occhieggiarlo un po’ da tutte le parti e non riusciva a concentrarsi su quel tema di Erbologia come avrebbe voluto. Possibile che la gente lo trovasse figo solo perché aveva ucciso Voldemort? 
Inoltre, continuava a pensare a come fare per riuscire ad andare a caccia di Mangiamorte senza Vince, per conto suo.
Forse era pazzo anche solo a pensarlo, ma ormai si era rassegnato all’idea di essere così e di non potersi più salvare.
Non sapeva dargli una definizione, ma dopotutto, forse, nemmeno importava.

 

***

 

In un’intervista la Rowling disse che se Harry avesse saputo usare meglio la sua bacchetta avrebbe sicuramente venduto più copie, almeno di più di 50 sfumature di grigio.
Ebbene, è arrivato il momento per Harry di usare quella bacchetta.

 
Ringrazio quelli che sono arrivati fino a qui, chi ha messo questa mia innocente storiella tra le seguite e tra le preferite e chi ha recensito, anche se siete ancora pochini.
Su su, fatevi avanti, bastano anche poche parole.
Mancano ancora una decina di capitoli per il grande plot twist, forse meno. 

Ciancio alle bande, vi auguro un buonissimo weekend!! Ci risentiamo sabato prossimo e, chi lo vorrà, nella casella qui sotto dedicata alle recensioni :) 

 

Cactus.

 

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Capitolo 7
*** Solo ***


SOLO

 

Harry, Ron ed Hermione avevano deciso di andare a trovare Hagrid quel pomeriggio appena finite le lezioni. 
Il buon Mezzogigante si aprì in un radioso sorriso non appena li vide approcciarsi alla sua capanna.
“Ragazzi! Come mi fa piacere vedervi”.
“Ciao, Hagrid!” salutò Ron.
“Scusaci, Hagrid, per non essere venuti prima ma siamo stati un po’ indaffarati”, aggiunse Hermione.
“Non preoccupatevi. Capisco, le lezioni, cercare di riprendersi dopo… be’, dopo quello che è successo e… le persone che non ci sono più”.
“Già”.
“Ron, mi dispiace tanto… per tuo fratello”.
“Grazie, Hagrid. Sì, sai è stato difficile… Ma ora va un po’ meglio”.
Harry girò la testa dall’altra parte e guardò fuori dalla finestra a cui vide Thor che faceva rotolare una enorme zucca.
“E tu, Harry? Come stai?”
Harry si girò verso di lui e lo guardò come se gli avesse fatto una domanda strana.
“Bene, Hagrid, sto bene”. Sapeva di star mentendo ma non poteva dire altro. No, non se la sentiva di dire la verità. Qual era la verità poi? Che aveva degli incubi che lo lasciavano insonne? Che aveva iniziato a bere e fumare? Che dava la caccia ai Mangiamorte per… Per cosa?
E l’attacco di panico? Doveva dire anche di quello?
“È stato straordinario come hai ucciso Voldemort. Anche se ci hai fatto prendere a tutti un bel colpo, fingendoti morto a quel modo”.
Harry sorrise imbarazzato.
“È stata un’idea improvvisa”.
“Comunque… vi va del tè, ragazzi?”
“Certo, Hagrid”.
Hagrid andò ai fornelli e mise a scaldare l’acqua in un bollitore mentre i tre Grifondoro prendevano posto.
“Certo che è strana questa sensazione… sapete, di calma, di tranquillità, sapendo che non succederà nulla, che non c’è più voi-sapete-chi a minacciare tutti. Bella, ma strana”.
“È vero. Finalmente un anno normale”, ridacchiò Ron.
Harry si grattò il braccio nervosamente e guardò di nuovo da un’altra parte.


Mentre tornavano verso il castello, Harry adocchiò Neville e Luna seduti vicino al Lago Nero. Con la scusa di volergli parlare, si allontanò da Ron ed Hermione che lo lasciarono andare senza troppe storie, distratti com’erano a parlare di tutt’altro. Da quando stavano insieme non facevano che andare in giro tenendosi per mano e parlare di qualsiasi cosa. Per fortuna ora battibeccavano meno, ma forse perché Ron aveva iniziato a venire più incontro alla ragazza rispetto a prima.
Harry non aveva avuto la minima intenzione di andare da Neville e Luna, voleva solo una scusa per essere lasciato solo.
Andò alla rimessa delle barche e si sedette lì tirando subito fuori una sigaretta. Gli calmavano davvero i nervi, non pensava che fosse una cosa davvero funzionale. Anche se probabilmente si trattava solo di un effetto placebo, ma comunque gli andava bene così. Ormai ne era dipendente.
Il vento si alzò leggermente scompigliandogli ancora i capelli che stavano diventando un po’ lunghi e rabbrividì leggermente per il freddo.
Non c’era nessuno, solo calma. Harry avrebbe tanto voluto che quella calma ci fosse anche nel suo stato d’animo, ma così non era.
Da quella distanza riusciva a vedere il Platano Picchiatore che muoveva i rami per far cadere alcune foglie ormai secche e pensò che avrebbe potuto farci un pensierino, a quell’incantesimo che gli aveva suggerito Kiki. Pensò anche al fatto che dall’altra parte del parco avevano eretto il monumento ai caduti della seconda guerra magica e che avrebbe evitato quella zona come la peste; non se la sentiva per nulla di leggere i loro nomi scritti sulla lapide: Remus, Tonks, Malocchio, Fred… avevano fatto incidere persino quello di Sirius e quello di Piton.
Stava quasi per finire la sigaretta quando qualcuno lo chiamò.
“Potter”.
Draco Malfoy era dietro di lui e lo osservava con cipiglio quasi curioso.
“Malfoy”.
“Come mai non sei coi tuoi amichetti? Lenticchia e So-tutto-io?”
Harry si stupì che non avesse detto Mezzosangue per riferirsi ad Hermione.
“Sai com’è, non viviamo in simbiosi”.
“Strano. Ero convinto di sì”.
Il Grifondoro scrollò le spalle e spense la sigaretta contro il suolo.
“Speravo di potermene stare da solo”, continuò Malfoy. In tutte quelle frasi non c’era stato alcun tono di astio stranamente.
“Puoi sempre girarti dall’altra parte e fare finta che io non ci sia”.
“Fai lo spiritoso, Potter?”
“No, Malfoy, ma sai com’è, sono venuto qui anche io per poter stare da solo”.
Harry si alzò e si spolverò i pantaloni della divisa. “Comunque me ne vado quindi avrai il posto tutto per te”. E cominciò ad allontanarsi con l’idea di fare un po’ di palestra nella Stanza delle necessità. 

 

Alla fine forse un modo per andare a caccia di Mangiamorte da solo lo aveva trovato. Almeno per quella notte.
Nel bagno al settimo piano Harry aveva sentito dire da due Serpeverde che avevano avuto notizie da Gregory Goyle - non direttamente - e che si aggirava ancora per Londra, nella sua vecchia casa a Marduck Pane.
Era un’informazione da prendere con le pinze, ne era ben consapevole, ma sapeva anche che se non avesse fatto un tentativo si sarebbe grattato le mani tutto il tempo. Doveva fare qualcosa. In fondo, il vecchio Harry Potter non era ancora uscito del tutto da lui, quello che doveva sempre cercare di risolvere le situazioni, quello che voleva buttarsi all’azione senza prima riflettere… Almeno qualcosa era rimasto. 
Naturalmente non disse nulla a Vince di quella informazione. Aspettò che i suoi compagni di dormitorio fossero profondamente addormentati, prese la Mappa del Malandrino e il mantello dell’invisibilità e si diresse a passo sicuro al passaggio della Strega orba.
Non aveva paura, non sentiva nemmeno l’ansia. Aveva solo voglia di combattere perché almeno quello - anche se solo per pochi minuti - lo avrebbe fatto stare bene.
Si smaterializzò in un vicolo del quartiere e andò a cercare la casa di Goyle. Sapeva bene che era un Mangiamorte, dopotutto discendeva da una famiglia di fieri purosangue e Mangiamorte, ricordava bene che nella battaglia finale aveva combattuto al fianco di Voldemort.
Non gliel’avrebbe fatta passare liscia.
La casa era una specie di mansione a due piani con un giardino spazioso. Ma il Grifondoro non si perse troppo a contemplare l’abitazione.
Calatosi il cappuccio in testa, entrò dal cancello aprendolo con troppa facilità. Se davvero il ragazzo era lì dentro, non si era preoccupato troppo della sicurezza.
Entrò dentro casa trovandosi davanti un lungo corridoio d’ingresso. Chissà quante stanze c’erano dentro, le avrebbe dovute controllare tutte.
La prima era la cucina, perfettamente in ordine e pulita. Lanciò l’incantesimo Revelio ma nulla ne venne fuori.
Andò al piano superiore e scoprì una specie di salotto con un camino spento e delle coperte sparse sul divano. Inarcò le sopracciglia e si addentrò nella stanza con passo lento.
Gli parve di percepire qualcosa in un angolo.
“Revelio!” Gridò e la figura di un uomo tozzo e senza collo gli apparve sul muro di fronte.
“Goyle”, disse piano tenendogli la bacchetta puntata contro. Il Mangiamorte fece per estrarre la sua ma con un colpo scattante l’altro lo disarmò.
Goyle iniziò a tremare.
“Ora non fai più tanto il coraggioso”. Con un altro colpo di bacchetta lo legò come un salame a una sedia di legno e iniziò ad avvicinarglisi piano.
“Crucio!”
Il Serpeverde urlò e si contorse.
Harry ormai gli era a pochi centimetri dalla faccia e lo guardava come fosse la cosa più schifosa che avesse mai visto.
“Sectumsempra!” Gridò di nuovo e l’incantesimo gli tagliò il braccio dal quale iniziò a sgorgare del sangue copioso.
Harry non era più Harry. Quella furia, quello sguardo, quella voce non gli appartenevano. E anche quella sensazione di benessere che sentiva nel torturare così una persona.
Ma in quel momento sembrava non curarsene.
“Dove si nascondono gli altri Mangiamorte?” chiese soffiandogli in faccia.
“No-non lo so”.
“Crucio!”
Altre grida.
“E perché non state scappando? Perché siete ancora qua? State tramando qualcosa?”
“No-no. Te lo giuro!”
A Harry non importava nulla di avere di fronte a sé un ragazzo della sua stessa età, che era stato suo compagno di scuola e che non aveva mai perso tempo a punzecchiarlo insieme a Malfoy. Probabilmente non aveva nemmeno ucciso così tante persone come i Mangiamorte più anziani, forse nessuno.
Ma di nuovo, ad Harry non importava in quel momento.
“Crucio!” 

 

Alla fine si era trattenuto.
Non aveva più continuato.
Qualcosa lo aveva fermato. Forse un accenno di attacco di panico, forse il pensiero di qualcuno che si sarebbe schifato nel vederlo così.
Aveva raccolto un Goyle semi-svenuto e lo aveva portato ad Atticus che quella notte era in compagnia del Ministro.
“Harry!” esclamarono sorpresi quando lo videro materializzarsi col Mangiamorte.
“Ne ho trovato un altro”.
I due uomini guardarono il Serpeverde steso ai piedi di Harry e poi guardarono il Grifondoro, entrambi abbastanza sbigottiti.
“È Gregory Goyle. L’ho catturato”.
“E perché è… sta sanguinando?” gli chiese Atticus quasi temendo la risposta.
“Mi ha attaccato”, si inventò sul momento Harry. “Abbiamo combattuto un po’. Si riprenderà”. E di quello era sicuro perché prima di portarlo lì aveva cercato di curargli le ferite almeno un po’. All’ultimo gli era venuto in mente che forse non sarebbe stato apprezzato il fatto che lo avesse anche torturato.
“D’accordo. Lo porto subito ad Azkaban”. Atticus prese il Mangiamorte e si smaterializzò.
Kingsley ed Harry rimasero da soli nell’ufficio. Harry fece per andarsene ma Shacklebolt lo trattenne per una spalla.
“Harry, stai bene?” Gli chiese notando lo sguardo stanco e tormentato del ragazzo, i capelli spettinati e un accenno di barba trascurata da qualche giorno.
“Sì, benissimo”.
“Ti ho affidato questo compito perché so che sei bravo e che… Insomma, hai un conto aperto coi Mangiamorte, ma… Se non te la senti, se ti pesa posso…”.
“No, mi piace questo lavoro. Non mi pesa affatto. Goyle è stato solo un po’ difficile”.
“Hai ricevuto la paga del mese scorso?”
“Sì, l’ho ricevuta”. Il ragazzo gli sorrise debolmente per fargli intendere che fosse tutto apposto. 
“Sei andato da solo stanotte?”
Harry esitò un attimo prima di rispondere. “Sì!”
“Harry, per l’amor del cielo!” Il Ministro si portò una mano alla testa pelata con fare sconvolto. “Non puoi andare da solo a cercare i Mangiamorte. È pericoloso”.
“Non era mia intenzione. Ho sentito dei ragazzi ad Hogwarts… dicevano che forse Goyle si trovava nella sua vecchia casa. Sono solo andato a controllare, non pensavo di trovarlo davvero lì. Non mi sembrava il caso di disturbare Vince per una cosa del genere”.
Kingsley sospirò e chiuse un attimo gli occhi come per calmarsi. “D’accordo, ma non farlo mai più. Non andare da solo”.
“Certo”.
Non era sicuro come l’uomo se la fosse bevuta né se se la fosse bevuta davvero - forse non insisteva perché in fondo era Harry Potter, il ragazzo che tutti amano e idolatrano - comunque sia lo lasciò tornare ad Hogwarts dopo avergli fatto compilare il rapporto. E mentre scriveva Harry sapeva di stare mentendo spudoratamente.
Ma Harry non tornò ad Hogwarts. Si materializzò nella Londra Babbana ed entrò nel primo locale aperto che trovò. Almeno avrebbe potuto bere in santa pace senza essere riconosciuto. 

 

Non era tornato particolarmente tardi l’altra notte ma comunque era riuscito a dormire un paio d’ore. Si era lavato con cura i denti per togliersi l’odore e il sapore dell’alcol dalla bocca, ma non aveva avuto le forze di mettersi la cravatta. 
“Qualcuno dei ragazzi vuole organizzare una mega-festa per Halloween”, disse Dean quella mattina a colazione.
“Chi?”
“Non lo so, mi pare Steven. Nella Torre dei Grifondoro”.
“La McGranitt non ne sarà molto contenta”.
“Non sarebbe la prima festa clandestina che organizza. Prenderà le giuste precauzioni”, disse Katie.
“Voi ci andate?”
“Perché no?”
“Tu, Harry?”
Harry si accorse di loro solo alla domanda di Ron ed alzò lo sguardo dalla tazza di caffè che teneva stretta tra le mani.
“Cosa?”
“Vieni alla festa di Halloween?”
“Non-non lo so. Non credo”.
“E dai, ci divertiremo!”
Non era certo nel suo momento migliore per andare ad una festa. Senza contare che ad Halloween, diciassette anni prima erano morti i suoi genitori. Possibile che i suoi amici non se lo ricordassero? Certo, non che negli anni passati lui ci avesse mai fatto molto caso, non si era mai fatto problemi ad andare alle feste, ma ora non riusciva a sopportarlo.
Solo Hermione parve accorgersi del suo stato d’animo diverso dal solito, distratto e tormentato, e continuava a fissarlo dalla parte opposta del tavolo.
“Che hai fatto alla mano?” gli chiese.
Harry si guardò la mano destra che aveva le nocche leggermente escoriate e arrossate. Tra le altre cose, l’altra notte aveva tirato un paio di cazzotti in faccia a Goyle.
“Ho preso a pugni l’anta dell’armadio”, disse Harry senza pensarci troppo. Ormai era diventato bravo a raccontare bugie. “Non voleva chiudersi”.
Peccato che Hermione non fosse una che se le beveva facilmente. 

 

*** 

 

Eccomi al solito aggiornamento del sabato. Harry diventa sempre più impulsivo e distante.
Mi perderò in poche chiacchiere, ringrazio come al solito chi mi sta seguendo, anche se silenziosamente. Ragazzi, non abbiate paura di lasciarmi una recensione, i commenti sono sempre ben accetti : ) 

Buon fine settimana a tutti,
Cactus.

 

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Capitolo 8
*** Dolore ***


DOLORE 

 

Harry per poco non svenne mentre entrava nell’aula di Trasfigurazione con Ron ed Hermione. Si dovette aggrappare allo stipite della porta e Ron lo sorresse per una spalla.
“Harry! Che succede?” chiese una Hermione spaventata.
“Credo di aver avuto un mancamento. Ho dormito poco”. 
“Vuoi andare in infermeria?” gli chiese l’amica. “Non ti preoccupare, spiegheremo noi al professore”.
“Sì, grazie”.
Senza aspettare troppo, Harry abbandonò i suoi amici e cominciò ad andare in direzione dell’infermeria. Ma lungo la strada quasi sbatté contro la teca che raccoglieva le coppe vinte a quidditch dalle varie case. Si fermò a guardare quella di Grifondoro, l’anno in cui suo padre, James Potter, aveva portato la casa rosso-oro a vincere il campionato. C’era persino una foto incorniciata che ritraeva suo padre con in mano il boccino, in mezzo agli altri membri della squadra. Identico a lui tranne nel fatto che James in quella foto sorrideva. Non c’erano foto in cui non lo avesse visto ridere.
Harry invece si era dimenticato come si ridesse. Non ricordava nemmeno quando era stata l’ultima volta che lo aveva fatto.
Guardando quella foto, quelle coppe, sentiva la mancanza del quidditch, l’ebbrezza del volo, il vento che gli spettinava i capelli, la velocità…
“Signor Potter!” La voce acida della professoressa McGranitt lo distrasse e quasi lo fece sobbalzare. “Lei non dovrebbe essere a lezione?”
“Stavo andando in infermeria”.
“Si sente poco bene?” Questa volta il tono della donna si addolcì e lo guardò quasi con preoccupazione.
“Ho solo bisogno di dormire un po’”.
“Allora vada, su, non perda tempo”. 
Harry lanciò un’ultima occhiata alla teca e se ne andò. Ma anziché scendere le scale per andare in infermeria, risalì fino al settimo piano e raggiunse la torre di Grifondoro. Non aveva mai avuto intenzione di andare da Madame Chips e non aveva nemmeno voglia di stare a lezione. 
Nella Torre, seduta su una poltrona, trovò Kiki intenta a leggere un libro. 
“Non dovresti essere a lezione?” le chiese. 
“Anche tu”. 
“Touché!” 
Passarono qualche momento in silenzio a guardarsi finché lei non lo interruppe. “Possiamo sempre riprendere da dove abbiamo lasciato l’altra volta”. 
“Sì, ma andiamo da un’altra parte”. 

 

“Quindi questa stanza può far apparire tutto quello che vuoi”.
“Esattamente”.
“Quindi se io volessi, ad esempio, un cielo stellato sopra la mia testa può farlo comparire?”
Detto fatto, sopra le loro teste comparve un cielo finto pieno di stelle.
Harry e Kiki erano abbracciati nudi sul letto a baldacchino della stanza delle necessità dopo aver appena finito di fare sesso.
“Ti va di fumare?” le chiese il ragazzo.
“Sempre”. 
Cominciarono a fumare in silenzio, sotto il calore delle lenzuola e le stelle che davano quel tocco di romanticismo eccessivo che li faceva sentire un po’ scomodi. Ma fecero finta di niente.
Harry chiuse gli occhi e si lasciò andare contro il cuscino mentre inspirava lentamente il fumo della sigaretta. 
“A cosa sta pensando il Salvatore del Mondo Magico?” chiese Kiki dopo un po’, appoggiandosi a un braccio per guardarlo meglio. 
“Che è un caso disperato”, le rispose ridacchiando. 
“Addirittura”. 
Harry si girò su un fianco e rimase a guardare il viso chiaro di Kiki, i suoi occhi castani, il seno perfettamente rotondo… Era davvero una bella ragazza e le si era già affezionato. Non l’avrebbe mai amata come amava Ginny - perché sì, amava Ginny anche se l’aveva lasciata andare - ma le voleva bene. Vedeva in lei le fragilità che sentiva dentro di sé, anche se in parte. 
“Ti andrebbe di fare una cosa che non solo contravviene le regole di Hogwarts ma che è pure illegale?” 
Kiki si aprì in un sorriso malizioso. “Sarebbe?” 
“Diventare Animagi”. 
“Wow! Mi porti sulla cattiva strada, Harry Potter”. 
“Solo se lo vuoi”. 
“Certo che lo voglio. Non sono mica una paurosa Tassorosso”. 

 

“Si può sapere dove sei stato, Harry?” chiese - quasi gridò - una Hermione piuttosto infervorata.
Harry e Kiki erano rientrati nella Sala Comune dei Grifondoro poco prima di cena e forse avevano speso più tempo di quello che credevano nella Stanza delle necessità.
“Ero in giro con Kiki”, rispose lui. “A proposito, Kiki, loro sono Hermione e Ron”.
“Piacere”, disse Hermione gentilmente alla ragazza per poi tornare a rivolgersi a Harry, inarcando le sopracciglia. “Ci hai fatto preoccupare. In infermeria non c’eri e Madame Chips ha detto di non averti visto”.
Il moro si morse il labbro. Questa volta mentire non sarebbe stato facile. 
“Be’, non ci sono andato alla fine. Non mi andava. Mi sono fatto una dormita e ora sto meglio”. 
“Dai, Hermione, lascialo stare. Non serve metterlo alla gogna”. 
Quelle parole parvero calmare la ragazza o comunque la fecero desistere dal dire qualsiasi altra cosa. 
“D’accordo, però vieni a cena”. 
“Certo, Hermione. Mi cambio e vi raggiungo”. 
Harry corse verso le scale del dormitorio, seguito con lo sguardo da una Kiki confusa. Non conosceva Harry così bene, non da vicino quantomeno, ma sapeva per certo che quel pomeriggio non lo aveva trascorso a dormire. Quello che però aveva imparato in quegli anni - osservandoli a distanza - era che quei tre erano molto uniti. Ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa che non erano abituati a mentirsi l’un l’altro. 
Non sono affari tuoi, si disse. Non ti conviene intervenire.

 

“Ma secondo te sta bene?” chiese Hermione mentre scendeva le scale insieme a Ron.
“Chi?”
“Harry! Chi altri?”
“Perché non dovrebbe stare bene?”
“Non lo so. Lo vedo assente e parla poco ultimamente”.
“Hermione, è adulto. Non dobbiamo sempre preoccuparci per lui”.
La ragazza non aggiunse altro ma storse la bocca con fare perplesso; non era del tutto convinta. Ma si disse solo che quella era un’abitudine, dopotutto avevano trascorso sette anni a preoccuparsi per l’amico. Una volta tanto doveva cercare di rilassarsi e basta. Harry, in fondo, non si era ancora cacciato in nessun guaio.  

 

Harry!”
Gli parve di udire la voce di Vince gridare il suo nome, mentre assorbiva un’altra Cruciatus. La seconda, forse?
Non riusciva nemmeno ad urlare. Sentiva il pavimento gelido sotto di lui, sotto i palmi delle mani e la schiena, e ciò lo aiutava a mantenere il contatto con la realtà. A dire il vero, ricordava le cruciatus peggiori di così, quando fu Voldemort a torturarlo in quel modo nel cimitero dopo il Torneo Tremaghi. 
Quelle non facevano così male. Sì, facevano male ma era un dolore fisico più sopportabile. Era solo dolore fisico. Il dolore fisico lo poteva sopportare. Era quasi un sollievo. 
Le torture smisero all’improvviso. 
Le mani calde di Vince sulla sua pelle bruciarono quasi come fuoco. 
“Merlino santissimo, Harry! Come ti senti?” 
Lo aiutò a mettersi seduto e il ragazzo vide con la coda dell’occhio il Mangiamorte steso e legato come un salame. 
“Sto bene, Vince, non ti preoccupare”. 
“Sei sicuro? Forse dovrei portarti in ospedale”. 
“No, niente ospedale… Sto bene”. 
“Ma ti ha torturato”. 
“Vince, mi riconoscerebbero e preferirei non attirare l’attenzione su quello che stiamo facendo”. 
Harry riuscì a rimettersi in piedi anche se stava leggermente tremando. Il suo allenatore non poté far altro che concordare con lui. 
“D’accordo, ma se senti anche un solo leggero malessere fatti vedere dall’infermiera”. 
“Certo!” 
“Torna ad Hogwarts. Ci penso io a portare lui ad Azkaban”. 
Il giovane Grifondoro gliene fu grato; si sentiva abbastanza stanco e quella sera non avrebbe fatto altre deviazioni. Vedeva già il suo letto nel dormitorio e qualcosa gli diceva che avrebbe dormito quella notte. 
Ma si sbagliava: gli incubi vennero a visitarlo anche quella notte, i volti di Sirius, di Remus, di Fred, Silente, dei suoi genitori, tutti quanti… sognò persino il piccolo Teddy. 

 

“Ronald, piuttosto ti aiuto a cercare le informazioni per il tema. E ti aiuto anche a scriverlo. Ma non te lo faccio copiare”, si sentì dire da una Hermione infervorata mentre si sedeva a tavola per la colazione. Il suo ragazzo la seguiva dietro.
“Ma è difficile”.
“Non è difficile. Non posso prepararti sempre tutto io”.
Solo in quel momento parvero accorgersi di Kiki ed Harry seduti di fronte a loro.
“Buongiorno, ragazzi”, salutò la ragazza.
“Harry! Non ti ho sentito alzarti questa mattina”.
“Mi sono alzato presto”.
“Voi ci andate alla festa questa sera?”
“Oh, è vero. È Halloween”.
I gufi entrarono dalla finestra quasi tutti insieme a consegnare la posta e i pacchi. Hermione ricevette la sua solita Gazzetta ed Harry si vide recapitare le solite lettere dei giornalisti. Non esitò un attimo ad appallottolarle.
“Pensi che andranno avanti ancora per molto?” gli chiese l’amico.
“Spero che, tempo un anno, l’interesse affievolisca”.
“Sono sicura che sarà così”. 

 

Alla fine anche Harry si era lasciato convincere ad andare alla festa. Dopotutto, si svolgeva nella Torre dei Grifondoro e restarsene a letto - anche se poteva silenziare la stanza - non sarebbe stato da perdenti, ma peggio. Nonostante tutto gli era rimasto un briciolo di orgoglio.
Non si era aspettato tutta quella gente però. La sala era stata ingrandita all’interno per poter far stare quanta più gente possibile perché non c’erano solo i Grifondoro ma anche diversi imbucati delle altre case, persino qualche Serpeverde. Quello che però non si sarebbe mai immaginato era la gran quantità di alcol, ce n’era quasi più del cibo. Harry si appuntò un promemoria mentale: chiedere a Steven dove e come si era procurato tutto quell’alcol. 
C’era anche della musica, ma non eccessivamente alta, per poter permettere alla gente di parlare.  Era facile supporre che avessero usato un incantesimo per insonorizzare la stanza altrimenti la McGranitt sarebbe già entrata dal ritratto della Signora Grassa come una furia
Il ragazzo si servì un bicchiere di qualcosa che gli parve vodka e si unì al suo gruppo di amici in un angolo. 
“Decisamente non sono fatta per questo tipo di feste”, disse Hermione guardandosi attorno, quasi spaesata. 
“Se vuoi andiamo via”, rispose Ron mettendole un braccio attorno alle spalle. 
“No dai, restiamo un po’. Ci vuole un po’ di svago”. 
Dopo quello che avevano passato nei mesi precedenti, la ragazza non aveva nemmeno tutti i torti. Ma Harry, dal canto suo, si sarebbe allontanato più che volentieri. Troppo caos, troppa gente, troppe ragazze che lo occhieggiavano, tutto troppo. Troppi i suoi pensieri, troppa la sua ansia. Non riusciva a rilassarsi, non ci riusciva per nulla e quindi decise che si sarebbe attaccato alla vodka. Quando quella finì passò alla birra e poi a qualcos’altro che la mattina dopo non sarebbe riuscito a ricordare.
Hermione e Ron ad un certo punto sparirono, Harry non avrebbe saputo dire dove, Neville parlava con Dean e Seamus di qualcosa che non gli interessava affatto e gli parve di scorgere da qualche parte Luna che ballava nel suo modo strano. In lontananza vide persino Cho con delle amiche e il piccolo Dennis Canon servirsi al buffet. Dennis Canon. L’immagine fugace del fratello Colin, morto durante la battaglia, gli passò per la mente insieme a tutte quelle volte che aveva cercato di immortalarlo con la sua stupida macchina fotografica. Gli aveva dato sui nervi a quel tempo. Ma ora avrebbe accettato volentieri anche di partecipare a un set fotografico pur di rivederlo scorrazzare in giro. Non era nemmeno maggiorenne quando era morto. 
Tracannò la sua birra. 
“Haaaaaaarry!” Qualcuno gridò il suo nome. Una lunga chioma scura gli cadde addosso solleticandogli la faccia. Kiki gli era saltata sulla schiena e ci si era aggrappata come un koala. “Guarda, c’è Malfoy!” Gli fece notare la ragazza puntando il dito verso una poltrona. Il Grifondoro la fece scendere e guardò i suoi occhi stralunati; aveva sicuramente esagerato con l’alcol anche lei. “Dai, andiamo a salutarlo!” 
L’amica lo prese per mano e lo trascinò letteralmente verso Malfoy. Harry si chiese vagamente che diavolo ci facesse Malfoy alla festa dei Grifondoro, ma era troppo ubriaco per indagare oltre e persino per opporre resistenza. 
I due ragazzi si sedettero sul divano accanto a lui, uno da una parte, uno dall’altra.
“Che diavolo ci fai tu qui, Sfregiato?” fece il Serpeverde stizzito. 
“Pensavamo volessi compagnia”, rispose Kiki. 
“Da voi? Due Grifondoro?” 
“Be’, sei nella Torre dei Grifondoro. Che ti aspetti?”, fece Harry. 
Draco non rispose, probabilmente ammettendo nella sua testa che il Grifondoro-rompicoglioni-ho-sconfitto-Voldemort aveva ragione. Non sapeva nemmeno lui perché fosse lì, lo aveva trascinato Astoria Greengrass e da un po’ di tempo aveva preso a fare un po’ troppo spesso quello che voleva lei. 
“E voi due quanto siete ubriachi? I vostri aliti sanno di distilleria” chiese Malfoy. 
“Quanto basta”, rispose Kiki. 
I due ragazzi continuarono a chiacchierare stupidamente, Kiki provocando Malfoy e lui tenendole testa stizzito. Se qualcuno gli avesse raccontato solo un anno fa che sarebbe successa una cosa del genere - cioè che si sarebbe seduto di sua spontanea volontà accanto a Malfoy e che avrebbe pure riso alle sue battute - gli avrebbe dato del visionario. 
Ma, ricordiamolo: Harry era troppo ubriaco. 
Poi però si dissociò completamente dai due. Vide Ginny pomiciare con un ragazzo, non sapeva chi fosse, e tutto gli parve immediatamente senza alcun senso. E sarà stato per quello, sarà stato l’alcol, l’atmosfera, la confusione del ragazzo, il suo masochismo, Harry decise di accontentare una delle ragazze che non hanno smesso di occhieggiarlo per tutta la sera.

 

***

 

NO, NON MI ERO DIMENTICATA DELL’AGGIORNAMENTO! È STATA SOLO UNA GIORNATA MOOOOOLTO IMPEGNATIVA, TRA LAVORO E RELAZIONI SENTIMENTALI. 

MAAA…. NON È ANCORA MEZZANOTTE PER CUI SONO PERFETTAMENTE IN TEMPO. 

 

Harry: Ma perché stai urlando? 

 

TACI!! DEVO FARMI SENTIRE.
COME AL SOLITO RINGRAZIO CHI MI STA SEGUENDO FINO AD ORA, CHI HA MESSO QUESTA STORIA TRA I PREFERITI, LE SEGUITE E LE RICORDATE E SOPRATTUTTO CHI RECENSISCE E MI LASCIA I SUOI COMMENTI. CONTINUATE A FARLO, MI RACCOMANDO : )

 

BUONANOTTE A TUTTI,

CACTUS.

 

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Capitolo 9
*** Cambiamenti ***


CAMBIAMENTI 

 

Harry gettò la testa nel water e vomitò tutto l’alcol che aveva ingerito la sera precedente.
“Miseriaccia, amico!” esclamò Ron dietro di lui. “Che hai fatto?”
Il moro mugugnò qualcosa di incomprensibile e si trascinò fino al lavandino dopo aver tirato l’acqua.
Aveva bevuto, ecco cosa aveva fatto. Aveva bevuto eccessivamente e ora le tempie gli pulsavano come se ci fosse qualcuno che batteva dei martelli, gli sembrava di avere il sapore della morte in bocca e la nausea alla bocca dello stomaco rendeva tutto ancora peggio.
Persino Dean e Seamus che erano ancora nei loro letti non sembravano passarsela meglio. 
“Sei sparito dopo. Io ed Hermione ti abbiamo cercato”. 
Lui non era sparito, pensò, erano i suoi amici che erano spariti. Si era trovato a tenere compagnia a Malfoy, prima di… Non ricordava esattamente come erano andate le cose. Sapeva di essersi portato a letto una ragazza, non avrebbe saputo dire chi fosse però e men che meno come era stato. 
Che era successo? Era collassato sul letto e lei se n’era andata? Almeno, lo avevano fatto in quel dormitorio? Non ricordava… Se Ron ed Hermione lo avevano cercato, sicuramente saranno passati anche dal dormitorio. Forse lui non era lì. 
Maledizione! 
Superò Ron e si buttò di nuovo sul letto infilandosi sotto le coperte. Per quella giornata sarebbe decisamente rimasto a letto a poltrire. 
“Non vieni a fare colazione?” gli chiese Ron. 
Harry sbuffò. Possibile che bisognasse spiegargli tutto? 
“No, Ron. Non vengo. Ho bisogno di dormire”. 
Weasley richiuse la porta dietro di sé sbattendola leggermente ma ad Harry vibrarono persino i neuroni. 
L’unica cosa positiva che aveva tratto da tutto quel bere era la notte di sonno. Non aveva sognato nulla, non si era nemmeno reso conto quando stava per addormentarsi. 

 

Si era abbandonato nel prato vicino alla rimessa delle barche. L’aria era frizzantina e si era dimenticato di mettersi la sciarpa. Ma poco male, il freddo lo teneva cosciente, gli pizzicava sulla pelle quel tanto che gli bastava per concentrarsi su quel leggero dolore fisico e non più su quello mentale.
Guardò il taglio che si era fatto sul braccio. Aveva capito perché le Cruciatus non gli avessero fatto così male, o almeno pensava di averlo capito, ma era così chiaro nella sua testa.
Il dolore fisico, in fondo, non è così terribile, è passeggero, è sopportabile, non torna a tormentarlo una volta cessato. Non era come il dolore mentale, emotivo, psicologico. Questo tipo di dolore gli provocava incubi, ansia, panico, pensieri distruttivi, lo gettava nell’alcolismo.
Sapeva dentro di sé che farsi del male era una cosa da idioti, che non avrebbe davvero risolto le cose - non nel lungo periodo - eppure una vocina nella testa gli diceva che il lungo periodo non aveva importanza, che doveva trovare un modo per stare bene ora, smettere di tormentarsi e se farsi un taglietto di tanto in tanto lo poteva aiutare anche solo cinque minuti allora lo avrebbe fatto. Sentiva ancora il pizzicorio della pelle che si cicatrizzava. 
Gli sarebbero rimaste le cicatrici? Pazienza, aveva già smesso di contarle. 
“Potter! Che fai? Mi segui?” si sentì una voce dietro di lui. 
Harry si affrettò ad abbassare la manica per nascondere la ferita. 
“Malofy! A dire il vero sono qua da prima di te, quindi semmai sei tu che segui me”. 
Il Serpeverde si sedette accanto a lui senza guardarlo. 
“Niente battutine astiose?” 
“Non ne ho voglia”. 
Il Grifondoro sospirò. Malfoy era decisamente cambiato, quella guerra aveva segnato profondamente anche lui, forse in modo irreparabile. I suoi genitori erano ad Azkaban e chissà come doveva sentirsi a riguardo. Strano che non lo odiasse e non cercasse di attaccare briga per questo. Ma forse aveva capito, era cresciuto e aveva compreso. Harry non era il nemico, Voldemort lo era e andava sconfitto. Quello che poi era capitato ai genitori di Draco non era stato nelle mani di Harry. Fosse stato per lui li avrebbe anche assolti, dopotutto Narcissa lo aveva aiutato nel suo piccolo modo. Ma capiva anche la posizione del Ministero: i coniugi Malfoy erano dei Mangiamorte, avevano il Marchio e avevano aiutato il Signore Oscuro nella sua ascesa. 
Era strano che anche Draco non ci fosse finito, ad Azkaban, visto che portava pure lui il Marchio. Sapeva che il giovane Serpeverde non aveva voluto tutto quello, che era stato coinvolto in qualcosa in cui non credeva davvero sotto chissà quali minacce e paure - e probabilmente questo era capitato anche a diversi altri giovani che erano capitati tra le fila di Voldemort - ma dovevano comunque pagare, volenti o nolenti. 
Malfoy magari non era ad Azkaban ma nel suo modo ne pagava le conseguenze. Bastava guardarlo in faccia. 
Harry tirò fuori una sigaretta e ne offrì una anche al ragazzo seduto accanto a lui. 
“Per Salazar, Potter! Vuoi che mi uccida con quelle?” 
“Tutti dobbiamo morire prima o poi”, fu la risposta laconica del moro. 
“Sì, ma preferisco non farlo soffrendo”. 
“Come vuoi”. 
Il Grifondoro mise in bocca la sigaretta e l’accese con la bacchetta. 
“Come mai da solo, Potter?” 
“Come mai tutte queste domande, Malfoy?” 
“Siamo qui entrambi, preferisci stare in silenzio?” 
“Io mica ti ho invitato a sederti con me”. Harry si girò a guardare l’altro con un sorrisetto divertito. Provocare Malfoy era diventato così facile. 
“Comunque sia, non mi va di stare nel castello, c’è troppa confusione”, rispose infine. 
“Troppi fan che ti chiedono la foto?”  
Fosse solo quello il problema, pensò Harry. Coi fan e i pettegolezzi ci aveva fatto il callo. Era tutto il resto che non andava. Erano le persone in generale, era lui, erano le voci, le risate, i fantasmi che gli pareva di vedere ad ogni angolo. 
“E tu, Malfoy? Come mai non sei coi tuoi amici?” 
“Quali amici?” 
Il senso di amicizia che aveva Draco non era certo lo stesso che aveva Harry. Lui si circondava di persone che poteva sfruttare e usare per il proprio interesse, come facevano più o meno tutti i Serpeverde e come gli aveva sempre insegnato la sua famiglia; non fidarsi mai di nessuno, non dare troppa confidenza. Le persone non sono buone di natura e non ci penseranno due volte a tradirti se si sentono minacciate. Tiger era morto, Goyle era a marcire ad Azkaban, Pansy per qualche motivo non gli parlava più e Zabini aveva deciso di non tornare ad Hogwarts. Le uniche compagnie che aveva erano Theodor, che parlava poco, e le sorelle Greengrass. Astoria, poi, era sempre così allegra e sorridente che alle volte gli dava sui nervi. Ma solo alle volte perché il più delle volte, invece, era proprio quello che serviva per sorridere. 
Anche Harry avrebbe avuto bisogno di un’Astoria, si vedeva lontano un miglio. Ma conoscendolo, sicuramente portava quel peso - qualsiasi fosse - da solo. 

 

“Posso tagliarti i capelli?” chiese Kiki ad Harry mentre questi apriva un libro e cominciava a sfogliarlo. 
“Che cosa?” 
“Sono brava a tagliargli. Potrei farti una pettinatura super-figa”. 
Il ragazzo la guardò perplesso. 
“Sono lunghi, ti stanno bene, ma posso fare di meglio”. 
“Non-Non saprei”. 
“Dai!” 
La ragazza spostò una sedia sotto il suo sedere per farlo accomodare e chiese alla Stanza delle necessità di farle apparire un rasoio. 
“Ehi! Che vuoi fare con quello?” chiese il ragazzo, allarmato. 
“Tranquillo, non te li taglio a zero. E se proprio non ti piace, possiamo usare un incantesimo per farli tornare come prima”.  
Con quella rassicurazione, Harry la lasciò fare. Dopotutto, aveva appena usato su di lui un incantesimo per ridargli completamente la vista e doveva dire che senza occhiali si stava molto meglio. 
Kiki raccolse i capelli che gli cadevano ai lati con delle forcine e iniziò a tagliare. Harry guardava i suoi capelli cadere in morbide ciocche scure e pensò che, qualsiasi cosa l’amica gli avesse fatto, sarebbe andata bene. Forse un cambiamento fisico lo avrebbe aiutato. 
“Ta-daaaaah!” gridò Karen mettendo via il rasoio. Davanti ad Harry comparve uno specchio e il ragazzo osservò il proprio riflesso. Non si era mai immaginato con quella capigliatura, eppure non gli dispiaceva. Affatto. Kiki gli aveva tagliato la parte sottostante dei capelli che ora erano molto corti. 
“Puoi farti la coda, così si vede”, disse la ragazza prendendo un elastico e legandogli i capelli in un piccolo codino. 
“Mi piace”. 
“Visto? Non ti stanno male”. 
“Affatto”. 
“È un po’ audace come cosa però a me piace molto”. 
“Grazie, Kiki”. 
Per lo meno sarebbe riuscito a farli stare in ordine.
“Dai, iniziamo a esercitarci ora”. 
Harry tornò a sfogliare i libri che aveva portato, cercando tutte le informazioni su come diventare degli Animagi. Per fortuna ora per entrare nel Reparto Proibito della biblioteca non si era dovuto nascondere sotto il mantello dell’invisibilità e andarci in piena notte. 
I due ragazzi restarono alzati fino a tarda notte, un po’ a leggere e un po’ a esercitarsi. A quanto pareva, per riuscire a trasformarsi in animale, serviva solo una forte volontà mentale e tanta energia magica, e non erano del tutto sicuri di esserne così in grado. 
Tuttavia, non mollarono, non finché Kiki non iniziò a sbadigliare. 
“Potremmo concludere per stanotte”, disse la Grifondoro. 
“D’accordo. Tu vai pure, io resto un altro po’. Controlla sulla Mappa del Malandrino se c’è qualcuno in giro”. 
“Oppure…”. Kiki lo guardò con un sorriso malizioso. “Potremmo fare altro”. Gli si avvicinò lentamente e poggiò le labbra su quelle del ragazzo. 
Harry ricambiò il bacio e la prese in braccio, lei gli strinse il bacino con le gambe. La Stanza delle necessità non esitò a far comparire un letto matrimoniale per i due. 

 

Sirius era in piedi davanti a lui, proprio come lo ricordava. Gli stava sorridendo e lo chiamava per nome. Accanto a lui c’erano anche i suoi genitori, Remus e Ninfadora. 
“Sirius!” sussurrò Harry correndogli incontro. Ma quando cercò di abbracciarlo, questi scomparve. Si girò verso James e Lily ma successe lo stesso. Erano come ombre che si disperdevano in nuvole di fumo ogni volta che tentava di toccarli. 
Lo spazio attorno a lui divenne nero e dei suoni sibilanti uscivano da tutte le parti, forse da delle pareti che non riusciva a distinguere perché era troppo scuro. Il ragazzo ci mise un po’ a capire che stavano dicendo. “È colpa tua, colpa tua. Tu li hai uccisi. È colpa tua, tua! Stupido, ragazzo!” 
Infine, quelle voci divennero urla. Harry si rannicchiò piegandosi su se stesso, le lacrime che sgorgavano come da dei rubinetti aperti. 
Poi successe tutto in una frazione di secondo: si era ritrovato nel letto di una stanza al buio e faticava a respirare. Maledizione! Aveva un altro attacco di panico. 
“Harry!” lo chiamò una voce accanto a lui. Kiki aveva acceso la luce della lampadina sul comodino e si era messa seduta accanto al ragazzo che si era aggrappato al suo braccio come fosse un salvagente.
“Cazzo, Harry! Respira!” 
Harry ci provava con tutte le sue forze ma gli risultava difficile. Com’era possibile che un atto naturale e normale come respirare gli risultasse così difficile? Inspirò ed espirò lentamente, iniziando a contare fino a cinque tra un’esalazione e l’altra. 
Un po’ alla volta parve calmarsi. 
“Ehi”, lo chiamò di nuovo Kiki con voce dolce. Gli mise le mani sulle spalle e gli si sedette dietro la schiena. “Cerca di calmarti. Va tutto bene. Sei con me e va tutto bene”.
Quando capì di essere riuscito a regolarizzare il respiro, il ragazzo si appoggiò contro il suo petto. 
“Scusami, ho solo fatto un incubo”. 
“Doveva essere un incubo terribile se ti ha fatto venire un attacco di panico”. 

 

La mattina seguente Harry e Kiki non parlarono dell’episodio avvenuto quella notte. La ragazza avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, se stesse meglio, se poteva fare qualcosa ma l’espressione dell’amico le suggeriva piuttosto di lasciar perdere e aspettare un momento migliore. 
I due si sedettero al tavolo dei Grifondoro per la colazione quando ancora la Sala Grande non si era riempita di studenti. 
“Gin?” 
“Hm?” La rossina si girò verso Alicia che l’aveva chiamata con un tono strano. 
“Non ti sembra che Harry sia… Non so, diverso? Più… Attraente?” 
La piccola Weasley guardò di sottecchi nella direzione da cui vide arrivare Harry e pensò che l’amica avesse davvero ragione e lei lo aveva notato da un po’ ormai. Era più muscoloso, i suoi pettorali si notavano persino sotto le camicie, aveva dei bicipiti abbastanza evidenti e quel taglio di capelli, nonché la barba un po’ sfatta ma con uno certo stile rendevano tutto il quadretto… Smise di pensarci e spostò lo sguardo da un’altra parte. Le fantasie sessuali su Harry l’avevano tormentata per diversi anni e aveva avuto bisogno di uno sforzo mentale fortissimo per smettere di farli dopo che lui l’aveva lasciata. Aveva persino iniziato a frequentare quel Mike per riuscire a distrarsi. Ma Mike a letto si muoveva come un verme e aveva smesso di contare quante volte ormai con lui fingeva l’orgasmo. 
Le faceva schifo. 
Si sarebbe gettata tra le braccia di Harry anche in quell’istante ma aveva pur sempre un orgoglio. E poi, era lui ad averla lasciata. Non l’amava, questo doveva essere il motivo. Non era difficile da credere visto che ormai andava sempre in giro con quella tipa dalle meches blu e le gambe chilometriche. 

 

*** 

 

Ebbene, Harry è diventato un emo XD 
Harry: Maledetta! Ma che ti ho fatto di male? 
Taci!! 
Il taglio di capelli che mi ero immaginato è uno che va di moda ora (so che negli anni Novanta probabilmente non era così), con la rasatura sotto e sopra i capelli più lunghi, magari legati. 
E a Harry penso che gli starebbe bene. 
Be’, era ora che il ragazzo cambiasse un attimo.

Comunque, scusate il ritardo nell’aggiornamento, ma ho lavorato tutto il giorno. Bando alle ciance, ciancio alle bande, mi raccomando, lasciatemi i vostri commenti. 
A sabato prossimo! 

Cactus.

 

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Capitolo 10
*** Esaurimento ***


ESAURIMENTO

 

Harry osservava il cadavere di Walden Mcnair steso a terra e privo di vita. Era stato così semplice, aveva solo puntato la bacchetta e… E il lampo di luce verde lo aveva colpito in pieno petto.
Fatto.
Certo, il Mangiamorte aveva tentato di fuggire, lo aveva respinto, gli aveva lanciato incantesimi, schiantesimi e maledizioni, ma Harry era più veloce, più scaltro, più agile.
Non sapeva nemmeno come gli fossero uscite quelle due parole, non è che lo avesse premeditato. Aveva solo ricordato tutti i lampi di luce verde che avevano lanciato i Mangiamorte nel corso delle loro misere vite e gli era sembrato giusto così. Perché tenerli prigionieri in un posto dal quale potevano scappare - era molto difficile scappare da Azkaban, ma comunque si poteva - quando la soluzione più facile, veloce e meno rischiosa era eliminarli definitivamente. 

Gli si avvicinò lentamente e con cautela e con un colpo di bacchetta lo spedì al Ministero. Era giusto che tutti sapessero che c’era un altro Mangiamorte in meno. Poi si allontanò da quel vicolo e decise che una birra non gli avrebbe guastato la serata.

“Harry, hai intenzione di alzarti prima o poi?” chiese Ron lanciando il proprio cuscino addosso all’amico.  

Per tutta risposta Harry si infilò ancora di più sotto le coperte e mugugnò qualcosa.
“Io non ho intenzione di aspettarti. Vado a fare colazione. Sto morendo di fame”.
Ron si diresse verso la porta seguito da Neville.
Harry esalò un sospiro e si girò a guardare il soffitto sopra la propria testa. Non aveva alcuna voglia di alzarsi quella mattina, si sentiva apatico e svuotato. Che senso aveva poi? Andare a lezione, prendere appunti, studiare, stare in mezzo alla gente, rispondere alle domande… Non ne aveva davvero le forze quella mattina.
Magari avrebbe saltato la prima ora, dopotutto c’era solo Pozioni e lui odiava quella materia e quella mattina proprio non ce l’avrebbe fatta a seguirla. Probabilmente avrebbe anche vomitato nel calderone, non era sicuro di sentirsi troppo bene.
Per fortuna tutti i suoi compagni avevano abbandonato la stanza lasciandolo da solo.
“Ron, dov’è Harry?” chiese Hermione al ragazzo vedendolo arrivare senza il suo migliore amico.
“È ancora a letto. Probabilmente salterà la colazione”.
“Come sarebbe a dire?”
Il rosso alzò gli occhi al cielo.
“Perché non lo hai tirato giù dal letto?”
“Hermione, non sono sua madre. Se vuole dormire lascialo dormire. Si merita un po’ di tranquillità ogni tanto”.
“Sì, ma non può saltare le lezioni… o i pasti. Non è sano”.
Ron sospirò. Capiva il punto di vista della sua ragazza, ma cercava anche di capire Harry. Quell’ultimo anno ne aveva passate di cotte e di crude, più di lui ed Hermione se sommato a tutti gli anni precedenti in cui il suo amico si era dovuto scontrare con Voldemort, o aveva perso qualcuno di caro. Stava solo cercando di dargli un po’ di spazio, di respiro, e comprendeva il suo volersi rilassare e liberare degli obblighi. E per Godric, se Harry voleva prendersi una giornata di riposo chi era lui per impedirglielo? Solo Merlino sapeva quanto lo avrebbe voluto anche lui, ma poi Hermione lo avrebbe trascinato a lezione per le orecchie.
“Comunque, non lo so. Sono preoccupata. Harry è strano da un po’, sembra che ci eviti. Non gioca nemmeno a quidditch”.
“Forse vuole solo tenersi lontano dai guai e dalla gente. Lo sai che ormai la gente non fa che guardarlo e cercare di avvicinarlo”.
“Non lo so. Penso che dovremmo comunque parlargli”. 

 

 

Alla fine, ad un certo punto, Harry si era alzato. Non aveva dormito per nulla dopo che Ron e gli altri se n’erano andati, era semplicemente rimasto a rigirarsi nel letto e sospirare. Ci aveva provato con tutte le sue forze, ad alzarsi, ma sembrava quasi che ci fosse una forza a trattenerlo lì, come un peso che sentiva venire dall’interno. Non avrebbe saputo identificarlo, ma quando aveva provato a mettere giù i piedi aveva sentito freddo e, lanciando un’occhiata alla finestra, al cielo nebuloso e l’aria grigia, si era ritratto andando a nascondersi di nuovo sotto le coperte. Il mondo, quel giorno, gli sembrava troppo malvagio per poterlo affrontare. Proprio lui, lui che aveva sconfitto Voldemort, battuto un drago al Torneo Tremaghi e ucciso un basilisco, non riusciva più ad alzarsi dal letto per paura… Paura di cosa poi? C’erano state diverse cose che gli avevano fatto paura, i Dissennatori, ad esempio, ma quella volta non avrebbe saputo dare un nome a quella paura. 
Solo poco dopo l’ora di pranzo si era fatto forza e in qualche modo si era trascinato fuori da letto. Non aveva nemmeno avuto voglia di mettersi la divisa, si era solo infilato un paio di jeans e una maglietta a caso. Tanto le lezioni erano finite e non c’era bisogno di essere formali. Chissà se Ron ed Hermione lo avevano coperto, chissà se si erano chiesti qualcosa. Nessuno era venuto a cercarlo comunque. 
Probabilmente, a farlo alzare dal letto era stata soprattutto la fame. Sentiva un certo languore ma l’ora di pranzo era passata e in Sala Grande non avrebbe trovato nulla. Si diresse alle cucine allora e sbocconcellò qualcosa che gli diedero gli elfi domestici. 

Winky fu felice di vederlo, lo salutò molto cordialmente e scambiò con lui alcune parole. Ma Harry non si trattenne a lungo.
Tornò di nuovo nella Sala Comune dove trovò Ron ed Hermione che sembravano quasi aspettarlo.
“Harry! Stai bene?” chiese la Granger quasi aggredendolo all’ingresso.
“Sì, Hermione. Perché non dovrei stare bene?”
“Non sei venuto a lezione”.
“Ah già”, rispose Harry passandosi una mano tra i capelli con fare nervoso, dimenticandosi che ormai li teneva legati. “Scusa, ero piuttosto stanco”.
“Ma ora stai meglio?”
“Sì, Mione”. Le sorrise rassicurante. “Non ti preoccupare”.
“Ce lo diresti se ci fosse qualcosa che non va?” Il tono della Grifondoro si faceva sempre più sospettoso e indagatore. Hermione non lasciava perdere facilmente le cose.
“Scusa, amico, le ho detto che sta un po’ esagerando”.
“Non preoccupatevi, ragazzi, sto bene. Stamattina avevo solo bisogno di dormire un po’ di più. Non salterò più nessuna lezione. Promesso”. E per enfatizzare di più la sua risposta, Harry fece il segno della croce sul cuore e mostrò un sorriso che sperava fosse abbastanza convincente.
I due ragazzi non fecero in tempo a dire null’altro, che la porta della Signora Grassa si aprì di nuovo facendo entrare una Kiki piuttosto vivace quella mattina che abbracciò Harry da dietro.
“Harry Potter!” gridò. “Ti ho trovato! Ho bisogno di te!”
“Ciao, Kiki!”
“Oh, ciao Ron. Ciao, Hermione”, salutò la ragazza vedendo che era in compagnia. “Andiamo, Harry”. Prese il ragazzo per mano e lo trascinò fuori.
Hermione sospirò e si buttò su una delle poltrone. “Non so, non sono convinta”.
“Di cos’altro hai bisogno?” le chiese Ron sedendosi accanto a lei. “Ha detto che sta bene, che voleva solo dormire un po’. Lo vedi anche tu che è sempre stanco ultimamente”.
“Sì, ma mi chiedo perché. Perché è stanco? Perché non dorme la notte?”
La ragazza si zittì improvvisamente come se stesse pensando a qualcosa. “Tu dormi con lui, saprai se ha degli incubi o qualcosa… se si lamenta nel sonno”.
“Non ne ho idea, Mione. Non l’ho mai sentito lamentarsi e poi sai che quando io dormo non mi svegliano nemmeno i cannoni”.
“Già”.
Il fuoco scoppiettava davanti a loro nel camino, calmo e leggero che quasi rilassava.
“E poi quella ragazza, Kiki… Non lo so, non mi convince”.
“Che ha che non va?”
“Non lo so, è… Troppo per uno come Harry. Non è il suo tipo. Perché gira con lei?”
“Harry sarà libero di scegliersi le compagnie che vuole. Se gli piace che c’è di male? Ed è… pure carina”. Il giovane Weasley si pentì non appena quella frase uscì dalla sua bocca. 

 

Harry e Kiki si erano chiusi nella Stanza delle necessità per continuare a esercitarsi a diventare Animagi. Kiki gli aveva rivelato che ci aveva preso gusto e voleva a tutti i costi riuscire a trasformarsi in un animale.
Ma dopo più di un’ora che stavano provando, avevano ottenuto poco. Solo ad Harry erano spuntate delle strane corna da un lato della testa che il ragazzo si era preoccupato non sarebbero più scomparse. Ma dopo poco, come erano apparse, erano anche scomparse. Aveva già capito in che animale si sarebbe trasformato, anche se non aveva mai avuto dubbi.
Karen invece non aveva avuto alcun tipo di successo. Solo Harry però aveva notato che aveva fatto un gesto strano, si era passata una mano dietro l’orecchio in un gesto tipicamente canino.
“Facciamo una pausa, dai”, sospirò la ragazza sedendosi sul tappeto. “Sono stanca”.
“D’accordo”. Harry la imitò.
“Ti ho chiamato perché volevo fare una cosa insieme a te”. Kiki mostrò un sorriso malizioso e tirò fuori da una tasca una piccola bustina trasparente con qualcosa che a prima vista apparve origano, ma Harry ci mise poco a capire.
“Chi te l’ha data l’erba?”
“Un ragazzo di Tassorosso. Non la spaccia ma l’ho convinto a vendermene un po’”.
“Fai sul serio?”
“Certo! Dai, Harry, vuoi diventare un Animagus illegale, non mi dirai che hai paura di fumare un po’ di erba”.
“Assolutamente no!”
Karen tirò fuori tutto l’occorrente per preparare una canna come si deve e i due ne fumarono una per ciascuno.
“Senti qualcosa?”
Harry fece una smorfia perplessa ma piuttosto ridicola. “Non saprei. Cosa dovrei sentire secondo te?”
“Non saprei, forse delle voci nella testa”.
“Di quelle ne sento già troppe”.
I due amici si guardarono negli occhi seri e quasi spaventati quando ad un certo punto scoppiarono a ridere all’unisono e non smisero che dopo un paio di minuti.
“Okay, forse ora sta facendo effetto”, disse Karen faticando a riprendere fiato.
“Mi sembra di vedere tutto più… ampio. È normale che sia così?”
“Non lo so, forse stai diventando cieco”.
E scoppiarono nuovamente a ridere. Harry non ricordava più da quanto tempo non ridesse, non era nemmeno sicuro di saperlo fare ancora. Ma quel momento con Kiki… Sapeva che non era la cosa migliore da fare, che sentirsi felice per effetto di una droga non sarebbe durato a lungo e prima o poi gli avrebbe fatto male, ma… Non ne poteva più di sentirsi in quel modo, stanco e svuotato, infelice e misero. 
“Kiki”, chiamò Harry quando i due furono piombati nuovamente nel silenzio. 

“Dimmi”.
Il ragazzo si sdraiò e tirò un’altra boccata di fumo. “Sto lavorando per Shacklebolt”.
“Il ministro?”
“Sì. Sto aiutando a catturare i Mangiamorte rimasti in circolazione”.
“Come gli Auror?”
“Più o meno. Solo che non lo sa nessuno”.
Karen si accomodò accanto all’amico e spense la sua sigaretta che era ormai finita. “E perché non lo sa nessuno?”
“Perché non l’ho detto a nessuno, nemmeno a Ron ed Hermione. Non sarebbero d’accordo con quello che faccio, direbbero che è pericoloso”.
“È pericoloso, Harry”.
“Lo so, ma… Mi fa stare bene, in qualche modo. Sento di avere uno scopo”.
Kiki si girò verso l’amico e lo guardò con espressione grave. “Ma tu ce l’hai uno scopo. Sono sicura che per Ron ed Hermione non devi essere o fare chissà cosa, catturare i malvagi, solo per farti volere bene”.
“Non è per loro che lo faccio, lo faccio per me. Ho bisogno di fare qualcosa”.
“Uccidere Voldemort non ti è bastato?”
Harry abbassò lo sguardo e spense la sigaretta contro l’indice, apposta, per farsi male. “Non l’avrei voluto. Niente di tutto quello. Voldemort, la guerra, la morte dei miei genitori, la profezia… Tutto questo io non lo volevo. Non era uno scopo per me, è qualcosa che è successo e basta”.
“E ora, catturando i Mangiamorte, pensi che sia una scelta tua? Che sia qualcosa che fai perché lo vuoi veramente?”
“Sì, forse”.
La Grifondoro si rimise a sedere portandosi indietro i capelli lunghi.
“Harry, tu non stai bene. Te lo leggo in faccia e l’ho notato già da un po’. Quello che fai, quello che facciamo io e te… Andare a letto insieme, diventare Animagi, bere, fumare canne… Lo fai perché non stai bene. E penso tu abbia bisogno di aiuto”.
Era quasi certa di aver superato un limite. Non era mai scesa così in intimità con Harry, non a livello emotivo, non si era mai azzardata a dirgli certe cose o a criticarlo ed era sicura che ora lui si sarebbe arrabbiato e l’avrebbe mandata al diavolo.
Ma non fu così. Harry, con molta calma, si tirò in piedi e si spolverò i pantaloni.
“Forse hai ragione, Kiki. Ma ho bisogno dei miei tempi. Starò bene, lo so, devo solo capire come”.
“Allora cerca di capirlo prima che sia troppo tardi”. 

 

Quando Harry e Kiki ritornarono alla Sala Comune stavano di nuovo ridendo per qualcosa. Trovarono di nuovo Ron ed Hermione, questa volta intenti a studiare. 

“Oh, ciao!” li salutarono. “Non pensavo di trovarvi qua”.
“Harry, che fine avevi fatto?” gli chiese Ron.
“Ero andato a… sai…”. Dirgli che si era fumato una canna con Kiki non gli sembrava una buona idea.
Karen ed Harry si guardarono e ridacchiarono sotto i baffi.
“Siamo solo andati a piantare dei semi… in aula di… Erbologia”, disse Kiki col tono più solenne possibile, ma fallendo miseramente.
“Andiamo, Harry. Lasciamoli studiare”.
I due salirono le scale verso il dormitorio maschile.
“Adesso dovrai ammettere che Harry è stato piuttosto strano”, sbottò Hermione mentre guardava l’amico salire verso la stanza.
“Hermione, non ti va bene quando Harry non ci parla e non ti va bene quando ride. Cosa dovrebbe fare?” 

“Lascia perdere, Ronald!”  

 

***

 

Siamo quasi alla resa dei conti. 

Tutti i suoi amici si stanno rendendo conto che Harry ha qualcosa che non va. Ma cosa?? 

Continuate a seguire la storia e lo scoprirete ;)

 

Ci tengo molto a ringraziare le persone che leggono questa fanfic, vedo che state aumentando sempre di più anche se siete piuttosto silenziosi. Io vi invito ed esorto a lasciarmi i vostri commenti, non mangio mica sapete? ^^ 

 

Detto questo, devo darvi una brutta notizia. Purtroppo sabato prossimo l’aggiornamento salta perché sarò all’estero e dubito di avere il tempo (o la connessione wi fi) per poter aggiornare. Quindi ci risentiamo tra due settimane.

 

Ne approfitto per augurarvi buone feste. 

 

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Capitolo 11
*** Animagi ***


ANIMAGI

 

Nonostante le insistenze di Ron ed Hermione, Harry aveva deciso di rimanere ad Hogwarts quel giorno e saltare il giro ad Hogsmeade. Incontrare le persone - o evitarle nel suo caso - sorridere a chi gli chiede un autografo, sentire lo scatto dei flash lo avrebbe solo spazientito.
Può darsi anche che la facesse tragica, come diceva Hermione, ma in ogni caso non gli andava. Sarebbe stato troppo caotico.
Perciò vagava per Hogwarts senza una meta precisa, incrociando solo gli studenti più piccoli del terzo anno e qualche fantasma.
Solo quando uscì sul ponte coperto e vide che non c’era nessuno, tirò fuori dalla giacca una bottiglia di birra e iniziò a bere, chiedendosi come avesse fatto a cadere così in basso. Riusciva a stare bene, più o meno, solo quando era ubriaco e il fatto che avesse ucciso un uomo a sangue freddo, dopo averlo premeditato oltretutto, non lo sconvolgeva più di tanto. D’accordo, era un Mangiamorte, un uomo che aveva commesso più atti malvagi di quanti se ne potessero contare probabilmente, ma era pur sempre un omicidio. Non è così che si doveva giudicare una persona, ma c’era qualcosa in lui che lo aveva spinto fino a lì, qualcosa che lo faceva stare bene nel vedere soffrire delle persone che ne avevano fatte soffrire altre perché non era giusto che loro fossero fuggiti e non la stessero pagando per ciò che avevano fatto… Per ciò che avevano fatto a lui, per essere stati dalla parte di un pazzo che gli aveva ammazzato i genitori e rovinato la vita.
Ma sapeva anche che non sarebbe mai riuscito a tornare indietro, non dopo questo e ciò si andava accumulando a tutti gli altri suoi dolori. Non sarebbe più stato felice, non poteva, non ne era capace, ormai se ne rendeva conto; per questo i tagli sulle sue braccia erano aumentati, cercava qualcosa di alcolico da buttare nello stomaco ogni giorno e se vedeva una ragazza che lo occhieggiava non esitava a farci sesso, una volta persino nei bagni. Lui non diceva nulla, loro non chiedevano altro, si accontentavano di quel breve attimo intimo col Salvatore del Mondo Magico che all’improvviso era diventato figo agli occhi di tutti.
Persino gli allenamenti in palestra e quelli con Kiki per diventare Animagi erano mere distrazioni, soltanto dei modi per smettere di pensare.
Si aggrappava al dolore fisico, a quei momenti fugaci e all’annebbiamento mentale per stare bene almeno cinque minuti.
Non sapeva quanto sarebbe durato però; non poteva durare a lungo, prima o poi sarebbe crollato definitivamente. Forse presto, forse persino l’indomani.
Trangugiò un altro sorso e sorrise amaro mentre guardava il panorama che si stendeva di fronte a lui, l’acqua e il cielo che sembravano quasi un tutt’uno. Non riusciva più a evocare un Patronus. Ci aveva provato l’altro giorno e non c’era nessun ricordo felice che non fosse accompagnato da qualcosa di terribilmente doloroso, persino quel piccolo intenso ricordo felice dei suoi genitori che aveva usato per imparare a evocare l’Incanto Patrono non lo rendeva più felice perché poi si ricordava che i suoi genitori erano morti; anche se pensava a quei momenti piacevoli passati con Sirius, si ricordava subito che era morto pure lui ed era morto perché lui era stato troppo stupido e aveva creduto alla trappola di Voldemort.
Non avrebbe rivisto nessuno di loro.
Anche il castello gli ricordava troppe cose dolorose. Proprio lì, su quel ponte coperto, cinque anni fa aveva conversato con Remus dei suoi genitori e anche Remus… e Dora… Si sentiva male per Teddy perché sapeva cosa voleva dire crescere senza genitori, non poter dire mamma o papà come prima parola.
Non sarebbe più stato felice, non avrebbe più potuto evocare un Patronus.
Si rendeva conto che avrebbe avuto senso parlarne con Ron ed Hermione, chiedere aiuto a loro che gli erano sempre rimasti accanto, però qualcosa lo tratteneva. Non avrebbe saputo dire se la paura, il giudizio o qualcos’altro. Vedeva che loro due stavano bene, erano felici insieme, erano riusciti a riprendersi e a ritornare alla normalità. Non poteva buttarli giù con sé, costringerli a gestire e portare con sé un problema che non li riguardava. Era per questo che aveva lasciato Ginny, anche se gli mancava da morire e avrebbe soltanto voluto stringersi al suo petto e piangere fino a esaurirsi.
Si chiedeva se lo avrebbero capito, cosa avrebbero pensato, come avrebbero reagito se avesse raccontato tutto. Non era mai stato bravo a parlare dei suoi sentimenti.
Che cosa lo avrebbe salvato? Che cosa?
“Harry?”
Harry si girò verso la voce che lo aveva chiamato e vide Kiki che lo guardava con uno sguardo che non le aveva mai visto addosso.
“Pensavo fossi andata ad Hogsmeade”.
“Non ne avevo voglia. Tu?”
“Volevo evitare la confusione”.
“Capisco”.
La ragazza vide la bottiglia che il Grifondoro stringeva in mano e gliela prese. Svuotò quel poco che era rimasto in un sorso e la lanciò lontano verso il mare.
“Wow! Che lancio”.
Kiki gli sorrise. “Che ne dici se facciamo qualcosa di più divertente che stare qua a deprimerci?”
“Tipo?”
“Andare a fare shopping. Io lo faccio sempre quando sono un po’ giù”.
“Non saprei… non sono molto per lo shopping”.
“Puoi accompagnarmi. Andiamo in un centro commerciale babbano, non ti preoccupare”.
Forse fu proprio quello a convincerlo ad accettare l’invito di Kiki, una piccola distrazione non poteva fargli male. 

 

Alla fine avevano raggiunto un centro commerciale poco fuori Londra, vicino a uno degli aeroporti, con la moto di Harry. Karen era stata titubante a salirci inizialmente ma alla fine si era lasciata convincere.
Dopo aver percorso diversi negozi ed essersi provati svariati vestiti - Kiki aveva costretto pure Harry a comprarsi le più svariate camicie nonché jeans che lei guardava in maniera affascinata ma che avevano solo fatto sbuffare il ragazzo - avevano deciso di crollare in un fast food e concedersi un po’ di cibo.
Peccato che fosse sabato e a quanto pareva mezza città aveva deciso di fare quello che stavano facendo loro.
Intanto però la ragazza si mangiava il suo gelato senza troppe preoccupazioni e Harry finiva la sua bibita.
“Allora, è stata una giornata spesa bene?” gli chiese la Grifondoro.
“Umpf, sì dai”, rispose l’amico lanciando un’occhiata alle buste con i vestiti.
“I cambiamenti nella vita sono importanti. Una pettinatura nuova, dei vestiti diversi… Possono influenzare in maniera positiva sulla psiche”.
Potter inarcò un sopracciglio confuso un po’ dalle sue parole. Forse Kiki capiva più di quanto lasciasse intendere, forse non gli stava attorno solo per il sesso e la mera compagnia. Non si era mai chiesto esattamente che tipo fosse Karen, gli piaceva stare con lei e basta, era bella e non lo annoiava. No, non l’amava e non ci sarebbe mai stato insieme, ma era un’amica e in quel momento era quell’amica di cui aveva bisogno, che non faceva domande e che non pretendeva nulla da lui. Non era come Ron ed Hermione, loro lo conoscevano da troppo tempo, loro avrebbero fatto di tutto per farlo stare meglio ad ogni costo, loro non lo avrebbero lasciato in pace. Forse proprio per questo preferiva la sua compagnia a quella dei suoi due amici.
“Sai, Kiki, mi sembra che tu sappia tutto di me e io invece non so niente di te”.
La ragazza sorrise. “Che cosa vuoi sapere?”
“Non lo so, qualsiasi cosa tu voglia farmi sapere”.
“Che il mio colore preferito è il viola, mi piacciono i girasoli e adoro i cani?”
Harry rise. “Intendevo qualcosa di più personale”.
“Non mi piace parlare di cose troppo personali, non sono brava in quello”.
“Nemmeno io lo sono. A meno che non abbia una bottiglia di alcol in mano”.
“No, Harry, tu non sei capace nemmeno in quel caso”.
“Ehi, non sfottere!”
Rimasero di nuovo in silenzio mentre Kiki finiva il suo gelato. “A dire la verità anche io non so quasi nulla di te. Voglio dire, so le cose che sanno tutti… di Voldemort, dei tuoi genitori… Ma non so molto altro”. 
Il ragazzo sospirò. “Forse è meglio così. Se sai troppo potresti scappare”. 
“Wow! Addirittura!” 
“Chissà. Io scapperei fossi in te”. 
“Sono una Grifondoro. Quelli che scappano sono i Serpeverde”. 
“Touché”. 
“Comunque, direi di tornare al castello. Potremmo allenarci ancora”. 

 

Harry uscì dalla doccia avvolgendosi in un asciugamano e si specchiò. I capelli erano lunghi fino quasi alle spalle e la barba era da sistemare.
Prese una lametta e si mise della schiuma da barba. Quando ebbe finito di togliere i peli in eccesso dalla lametta scivolò una lama. La guardò cadere a terra ed emettere un piccolo tintinnio al contatto col pavimento freddo.
Il ragazzo la raccolse e se la rigirò tra le mani. La portò al proprio avambraccio e osservò come il sangue rosso sgorgava e scivolava lungo la sua pelle bianca. Era quasi ipnotico.
Rialzò di nuovo lo sguardo sullo specchio e fece un salto sul posto. La figura di Sirius lo guardava da dietro, riflessa nello specchio, gli occhi azzurri vacui e tristi puntati su di lui, come se lo stesse giudicando o forse… Sembrava triste.
Ma durò solo una frazione di secondo perché il Grifondoro chiuse un attimo gli occhi e il padrino era sparito. Harry si girò per controllare ma non c’era nessuno con lui. Era arrivato davvero a quel punto? Ora aveva le allucinazioni?
Maledizione!
Buttò la lama in un cestino e si rivestì in fretta. Lo avrebbe dimenticato, doveva dimenticare tutto. Stava impazzendo. 

 

“Credo che ci siamo riusciti, Harry!” esclamò Kiki tornata in forma umana. 
Avevano pensato sarebbe stato più difficile e invece era stato anche abbastanza semplice. Harry si era trasformato in un cervo solo un attimo prima che la sua amica prendesse le sembianze di un lupo grigio.
Si avvicinavano le vacanze di Natale ormai e Hogwarts si era addobbata come tutti gli anni. Freschi alberi pieni di decorazioni brillavano un po’ ovunque e c’erano delle lucine colorate su tutte le scale. Sembrava quasi che gli elfi questa volta si fossero dati più da fare che negli anni precedenti. 
“Ce l’abbiamo fatta, Kiki”. 
I due si sorrisero e si sdraiarono sul letto che la Stanza delle necessità aveva messo a loro disposizione. 
“E ora che siamo Animagi, cosa ne facciamo?”
“Non lo so, potrebbe sempre tornare utile un giorno”. 
Karen si protese verso il ragazzo e lo baciò sulle labbra. Harry ricambiò il bacio e con un colpo di reni si spinse per essere sopra di lei. 
La ragazza gli tolse la camicia passando ad accarezzargli subito i pettorali. 

 

Ron ed Hermione avevano deciso di tornare alla Tana per le vacanze di Natale, con una capatina dai genitori di Hermione perché il suo ragazzo li potesse conoscere - con tanto di palese nervosismo da parte del rosso.
L’invito alla Tana naturalmente era stato esteso anche ad Harry, ma il ragazzo aveva rifiutato. I due amici erano rimasti piuttosto sorpresi, ma il moro li aveva convinti dicendo che sarebbe rimasto al castello per studiare un po’, cosa che aveva reso felice Hermione e forse era stato proprio questo a far smettere alla ragazza di fare domande.
“Se è per Ginny, non farà problemi”, cercò di rassicurarlo Ron.
“No, non è per Ginny. Non ti preoccupare”.
Al giovane Weasley dispiaceva vedere l’amico così distante. Le parole di Hermione gli erano entrate nelle orecchie più forti del previsto e aveva iniziato a fare più caso al comportamento dell’amico. Harry gli sembrava diverso, non solo nell’aspetto, ma quasi in ogni cosa. Ricordava quando lo trascinava di notte per il castello o quando escogitavano piani per evitare che qualche catastrofe capitasse; era sempre Harry a dare quella spinta, a convincerli a perseguire la strada giusta anche se pericolosa, a non starsene con le mani in mano.
C’era sempre quel scintillio nei suoi occhi quando ad Hogwarts succedeva qualcosa e lui finiva per esserne protagonista: eccitazione, emozione, curiosità…
Ora non lo vedeva più. Ora vedeva un Harry apatico e stanco, senza troppe emozioni. Certo, faceva sempre le solite cose: andava a lezione, studiava con loro, mangiava, parlava e ogni tanto spariva la notte ma forse per sgattaiolare con Karen da qualche parte - per quello lo capiva - ma per la maggior parte del tempo sembrava essere assente. Come se il suo corpo ci fosse ma la sua testa e il suo cuore no.
Eppure non avrebbe saputo dire se fosse il momento di preoccuparsene. 

 

***

Rieccomi tornata!!
Come sono andate le vostre vacanze? Avete mangiato a sazietà? Vi siete riposati? Domani ultimo giorno di ozio e poi si ricomincia col lavoro, lo studio, le solite menate. 
E il nostro Harry sta sempre peggio. 
Voi che dite? Finirà male o finirà bene? Ai posteri l’ardua sentenza. Anzi, a voi lettori. 
Fatemi sapere con un commento e ci risentiamo sabato prossimo :)

 

Baci,
Cactus.

 

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Capitolo 12
*** Natale ***


NATALE

 

Harry si schioccò le mani.
Non poteva credere alla sua sfacciata fortuna, aveva beccato due Mangiamorte in un colpo solo. Uno gli pareva di ricordare fosse Corban Yaxley e l’altro era una faccia sconosciuta. Ma il tatuaggio dei Mangiamorte brillava in maniera chiara alla luce del fuoco che i due avevano acceso per riscaldarsi.
Li aveva trovati in una capanna abbandonata fuori Londra, vicino alle campagne. Era riuscito a farsi soffiare alcuni nomi dei Mangiamorte latitanti prima di uccidere McNair e con un incantesimo di localizzazione li aveva trovati. Non pensava avrebbe funzionato davvero, ma a quanto pareva quel libro che aveva trovato nel Reparto Proibito della biblioteca di Hogwarts era efficace.
L’incantesimo non era stato facile, non gli aveva indicato il punto preciso, ma si era Materializzato a qualche chilometro da lì e trasformato in cervo per annusare qualche traccia e trovare un qualsiasi posto dove due Mangiamorte potessero nascondersi.
E in meno di un’ora aveva fatto bingo!
Ora osservava i due da dietro una parete mentre scaldavano dei fagioli.
“Dobbiamo andarcene, Azaya!” disse Yaxley con tono tranquillo. “Non possiamo stare qui, ci stanno cercando ovunque”.
“Non possiamo”.
“Perché ti ostini?”
“Mi ostino perché il Signore Oscuro potrebbe tornare”.
“È morto! Lo hai visto anche tu cadere!”
“Sciocchezze! Questo non lo puoi sapere con certezza”.
Ora le voci dei due si erano fatte più infervorate.
“Hai visto cos’è successo agli altri. Gli hanno dato il bacio dei Dissennatori. E McNair è persino stato ucciso. Quegli Auror non si fanno più scrupolo”.
Le fiamme crepitavano nel silenzio del posto e forse solo qualche ululato di lupo si poteva udire in lontananza.
I due tacevano ora, impegnati a mangiare direttamente dalle latte.
“Yaxley, credo che non siamo più soli”, sussurrò Azaya al compagno.
Harry approfittò di quel momento per sferrare una Stupeficium che li mandò gambe all’aria. Fu Yaxley il primo ad alzarsi afferrando subito la bacchetta.  
Volò un altro schiantesimo che distrusse una parte della parete della capanna. 
“Sectumsempra!” gridò Harry colpendo Yaxley di striscio ma provocandogli un taglio che cominciò a sanguinare copiosamente. 
Azaya gli lanciò una Cruciatus da dietro ed il ragazzo cadde in ginocchio. Sentì il dolore pervaderlo lungo la spina dorsale ma non urlò, non cadde, non si contorse. Strinse i denti e accolse la sofferenza come un’amica. Poi allungò il braccio dietro di sé e lanciò un’Everte Statim che mandò di nuovo al tappeto l’altro.  
Yaxley stava scappando verso la porta, pronto a fuggire e a mollare il suo compagno come solo una schiappa Serpeverde sapeva fare. Ma Harry sorrise maligno e con una mossa della bacchetta lo tirò di nuovo dentro. 
Non si aspettava certo che il Mangiamorte cadesse proprio tra le fiamme del fuoco che era  rimasto acceso al centro della stanza. Questi cominciò a gridare forte, urla infernali. Le fiamme lo avvolsero come una coperta e la capanna, fatta di legno, ci mise poco a prendere fuoco. 
Harry stringeva ancora la bacchetta in mano, osservando la scena. Uscì dalla porta, quel tanto che bastava per non rimanere anche lui intrappolato e, anche se avrebbe potuto fermare tutto quello - perché nessuno meritava di morire in un modo tanto atroce - rimase semplicemente a guardare inespressivo, l’arancio delle fiamme riflesso nei suoi occhi verdi e apatici. 

 

Il campanile in lontananza rintoccò dodici volte. Harry si voltò dove sentiva il suono della campana e si ricordò che era Natale.
Infilò le chiavi nella serratura del portone di Grimmauld Place quando sentì uggiolare. Accanto a lui, nell’oscurità, era comparsa una strana figura a quattro zampe. Inizialmente il ragazzo non riuscì a identificarla, ma poi vide che si trattava di un piccolo cucciolo di cane che a malapena gli arrivava ai polpacci.
“E tu? Da dove sbuchi?”
Il cagnolino gli si avvicinò lentamente, annusando tutto attorno come per assicurarsi che non ci fossero pericoli.
La pioggia quella notte non aveva smesso di cadere abbondante ormai da qualche ora e il cucciolo era fradicio. Harry si inginocchiò e lasciò che gli leccasse le mani per fargli capire che poteva fidarsi.
Non era molto sicuro di saperci fare con gli animali - Edvige era stata il suo unico animale da compagnia ma era una civetta indipendente, Edvige… - sicuramente non aveva mai avuto un cane e sapeva che non erano semplici da gestire, tuttavia quel poveretto era lì fuori tutto solo, bagnato fradicio e spaventato. Si guardò un attimo attorno per vedere se c’era qualcuno, ma a quanto pareva tutti si erano chiusi in casa per non dover affrontare la pioggia.
Allora Harry lo prese in braccio e lo portò dentro con sé.
Una volta dentro casa, asciugò entrambi con un colpo di bacchetta. Avvolse il cucciolo in una coperta e lo lasciò sul divano tremante. Andò in cucina per cercargli qualcosa da mangiare. Non era molto sicuro, ma forse gli avanzi che aveva preparato Kreacher sarebbero andati bene.
Non sapeva se fosse perché erano effettivamente buoni o se era solo perché aveva fame, ma il cane cominciò a divorare tutto senza pietà.
“E ora? Cosa ne faccio di te?” sussurrò il ragazzo mentre osservava l’animale mangiare. Notò che aveva il pelo nero e folto e due chiarissimi occhi azzurri, quasi del colore del ghiaccio. Non se ne intendeva molto di razze canine ma avrebbe potuto dire che quello era un pastore di qualche tipo. Un pastore molto piccolo.
Non aveva un collare né altro che potesse indicargli se appartenesse a qualcuno. Forse si era perso, forse qualcuno aveva ucciso la sua mamma…
“Felpato”, sussurrò di nuovo Harry.
Già, quel cane gli ricordava troppo il suo padrino Sirius quando assumeva la sua forma Animagus.
Harry gli si sedette accanto per terra e lo lasciò mangiare in pace.

 

Harry non aveva fatto molto quel giorno, anzi, non aveva fatto quasi nulla. Si era alzato tardi, era rimasto a fissare il soffitto per un po’, aveva girovagato per la casa, spiluccato il pranzo che gli aveva preparato Kreacher e bevuto di nuovo più del dovuto.
Solo verso sera si era deciso a portare a spasso il cane perché forse non era il caso di fargli fare la cacca in casa, Kreacher aveva maledetto tutti i Mezzosangue diverse volte per il regalino puzzolente che aveva dovuto pulire nell’atrio.
Non si era comunque allontanato troppo, sempre timoroso di essere riconosciuto da qualcuno e di essere fermato per inutili chiacchiere.
Le strade erano quasi vuote, la maggior parte dei negozi chiusi. Tutti avevano preferito trascorrere il Natale in casa coi propri famigliari piuttosto che fuori nel freddo di Dicembre. Quell’anno però non aveva nevicato.
Aveva sbirciato da lontano attraverso le finestre di qualcuno: tavole piene di cibo, bambini allegri, regali, parenti che vengono da lontano… Il Natale era quello dopotutto, allegria, festa, spensieratezza. Per almeno un giorno all’anno le persone si lasciavano i rancori e i problemi alle spalle.
Anche lui ne aveva trascorsi di Natali così, coi Weasley dopotutto aveva trovato la sua famiglia e si sentiva a suo agio, a casa… Ma quell’anno non era così e non certo per colpa dei Weasley. Sapeva che sarebbe potuto andare da loro quando gli pareva ma… Di nuovo qualcosa lo tratteneva, quel qualcosa che in quegli ultimi mesi lo tratteneva dall’essere felice, dal lasciarsi andare, dal godersi la vita, dal semplice stare bene.
E vedere tutti gli altri essere felici e sorridere lo mandava in bestia. Perché loro sì e lui no? Cosa avevano di speciale tutti gli altri? Perché gli altri sapevano come godersi la vita?
La guerra era finita, erano tutti al sicuro, lui era al sicuro. Già, ma quale prezzo aveva dovuto pagare per tutto quello. Avrebbe potuto anche lui avere un Natale felice in famiglia se solo avesse agito diversamente quando avrebbe potuto, se le cose fossero andate diversamente, se… se… se… Tanti se giravano nella sua testa, tutti “se” così insignificanti. Se solo avesse potuto riportare indietro il tempo avrebbe fatto le cose in maniera diversa.
Era questo che lo tormentava: il fatto che avrebbe davvero potuto agire in maniera diversa. E, per quanto ci provasse, per quanto sapesse che era un pensiero stupido, non riusciva a toglierselo dalla testa.
“Ehi, Straniero!”
Kiki lo sorprese vicino al portone di casa sua, le mani affondate nelle tasche e il cappuccio in testa che si confondeva coi suoi capelli scuri.
“Che ci fai da queste parti?”
“Ho pensato che fossi solo. Non si dovrebbe stare soli a Natale”.
“E tu? Non hai qualcuno con cui festeggiare?”
“Ho già dato”. 
Karen gli sorrise e spostò lo sguardo sul suo cane. “E lui chi è?” 
“Si chiama Felpato”. Alla fine il Grifondoro aveva deciso di rimanere su quel nome. 
“Felpato? Come diavolo ti è venuto quel nome?” 
“L’ho sentito in giro”. 
“Dai, fammi salire. Si congela”.   
Harry aprì il portone e salì in casa insieme a Kiki. Appena furono nell’atrio, liberò Felpato dal guinzaglio e fece accomodare l’amica in cucina. 
“Wow! Questa casa è…”. 
“Grande?” 
“Macabra”. 
Il Grifondoro non si aspettava quel commento, ma alla fine dovette effettivamente concordare con l’amica. 
“Ti va una birra?” 
“E me lo chiedi?” 
Harry tirò fuori dal frigo un paio di birre e le aprì. 
I due amici passarono il resto della serata chiacchierando del più e del meno, bevendo, fumando - anche erba - parlando dei compagni e imitando in modo grottesco i professori. 
Alla fine, verso le undici, Harry aveva riso talmente tanto che gli faceva male la mandibola e Kiki era caduta dalla sedia. 
Quel Natale aveva decisamente preso una piega più positiva. Avevano abbandonato la cucina da un pezzo per trasferirsi in salotto, dove avevano quasi finito la scorta di birra di Harry, e il cane ogni tanto andava dall’uno all’altro per farsi coccolare, guardandoli incuriosito e confuso quando scoppiavano a ridere.
“Perché non andiamo a trovare Malfoy?” propose Kiki a un certo punto. 
Harry inarcò un sopracciglio e assunse un’espressione disgustata. “Perché mai dovremmo fare una cosa del genere?” 
“Perché sarà da solo e nessuno dovrebbe stare da solo a Natale”. 
“Ma è Malfoy! Cosa ci importa?” 
“A me importa!” 
“Ma per caso sei innamorata di lui?” 
Kiki spalancò gli occhi. “Cosa? Non dire sciocchezze!” 
Alla fine Harry si lasciò convincere dalla ragazza - probabilmente più per effetto dell’alcol che altro - e i due si smaterializzano a Malfoy Manor. 
“Secondo te Harry starà bene?” chiese Hermione titubante. 
“Perché non dovrebbe?” fece Ron addentando l’ultimo biscotto rimasto nel piatto. Sua madre aveva sfornato una quantità di dolci industriale. 
“Non lo so. È rimasto ad Hogwarts, da solo… Forse avremmo dovuto insistere un po’ di più”. 
“Non credo. E poi, non penso sia solo. Starà con Kiki”. 
“Tu dici?” 
“Sì, probabilmente è per quello che è voluto rimanere”. 
Hermione scrollò le spalle e andò alla finestra. “Forse. Dici che lui e quella ragazza… Sai… Si frequentano?”
“Probabile”. 
Hermione si staccò all’improvviso dalla finestra e saltò su una delle poltrone. 
“Be’, è una bella cosa… Insomma, che dopo Ginny lui…”. 
“Ehi!” Li salutò la voce di Ginny dalle scale. “Di che parlavate?” 
“Di niente!” rispose Ron con troppa foga, le orecchie che stavano già diventando rosse. 

 

Draco Malfoy strabuzzò gli occhi quando vide davanti alla propria porta niente meno che due Grifondoro, tra cui lo Sfregiato.
“Che diamine ci fate qui voi due?” chiese brusco.
“Ti sembra questo il modo di accogliere due amici?” fece Kiki.
“Amici?”
“Portiamo birra e fumo”, aggiunse Harry mostrano una busta che reggeva in mano.
“Ci fai entrare? Si congela qui fuori”.
Il Serpeverde si spostò dall’uscio, più per istinto che altro, e i due superarono la soglia per entrare in casa.
“Wow! Questa casa è più grande di quella di Harry”.
Karen cominciò a muoversi per i corridoi della dimora, sbirciando in tutte le stanze, come se ne cercasse una in particolare. Harry le stava appresso come un bambino alla propria madre e Malfoy guardava che cosa diamine i due stessero facendo.
“Di grazia, potrei sapere perché siete venuti a disturbarmi a quest’ora?”
“Non stavi dormendo, vero? No, perché abbiamo pensato che potessi essere solo e ci dispiaceva e allora…”.
“A voi dispiaceva?”
“E dai, Malfoy, non fare l’asociale!” esclamò Kiki entusiasta entrando in quello che capì essere il salotto. “Apriamo queste birre e festeggiamo insieme”.
Harry stappò tre bottiglie di birra e ne passò una al biondo davanti a lui che lo fissava ancora come un ebete. Il padrone di casa la prese e ne bevve un sorso. Non aveva le forze di protestare o di cacciarli di casa e in fondo non voleva. Era vero, era stato solo a Natale e quello era stato il Natale peggiore della sua vita, secondo forse solo all’anno precedente quando c’era Voldemort in casa sua.
I due ospiti si accomodarono sul suo divano e continuarono a bere.
Era ora di seppellire l’ascia di guerra, pensò Malfoy. A che pro portarla ancora avanti? In fondo Potter in quella veste non era male, spensierato, ubriaco, che non lo guarda con cattiveria e non gli risponde in maniera scontrosa. E la sua nuova amica sembrava simpatica. E carina.
“Forte casa tua! È più bella di quella di Harry”, disse Kiki dopo aver svuotato qualche altra bottiglia e fumato due canne smezzate.
“Era del mio padrino quella casa”, precisò il Grifondoro.
“Sirius Black?”
“Allora la gente sa proprio tutto di me”.
“Diciamo che quella parte della storia di Black è difficile da ignorare”. 
Harry trangugiò un altro sorso e Kiki si voltò a guardarlo. Erano tutti e tre seduti sul pavimento con la schiena appoggiata al divano. 
“Mi dispiace che sia morto… com’è morto”. 
Il ragazzo annuì. “Forse ora è più felice”. 
“Ma tu non lo sei”. Quando disse questo il suo tono era talmente basso che forse non la sentì nessuno dei due ragazzi. 
Draco allora si intromise: “Io non… Non volevo fare quello che ho fatto. Stare con Voldemort, intendo”. 
“Non è colpa tua, Malfoy”. 
“Sì, però… Volevo avere più palle”. 
“Ti avrebbe ucciso”. 
“Magari qualcuno si sarebbe ricordato di me come una brava persona”. 
“Siamo pieni di brave persone che sono morte. Ora puoi essere una brava persona viva”, rispose Kiki. 
Malfoy ed Harry ridacchiarono. La ragazza aveva terribilmente ragione. 
Draco in quegli ultimi mesi aveva avuto il tempo di riflettere, di riflettere su quanto coglione era stato e su quanto si fosse sbagliato su tutto. Il Mondo Magico non sarebbe stato migliore senza Mezzosangue o Nati Babbani. E aveva sbagliato a prendersela con Potter in tutti quegli anni, non lo aveva mai odiato in realtà. Ma era abitudine, gli era stato insegnato così, sentirsi superiore e tormentare tutti i Mezzosangue e i Grifondoro che simpatizzavano troppo con i Babbani. 
Chi l’avrebbe mai detto che un giorno si sarebbe trovato a bere birra a Natale con due Grifondoro di cui uno proprio il Salvatore del Mondo Magico? 
“Grazie, Potter. Per avermi salvato la vita nella Stanza delle necessità”. 

 

***

 

Vi dico solo che dopo il prossimo capitolo finalmente si entrerà nel vivo della situazione. E arriveremo al punto per cui questa fanfiction è nata, il momento che tanto attendevo di farvi leggere.
Non mi perderò in altre chiacchiere, ringrazio solo i miei silenziosi lettori e li esorto a non essere più silenziosi. Fatemi sapere cosa ne pensate. 

Un bacione,

Cactus.

 

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Capitolo 13
*** Chiacchiere ***


CHIACCHIERE

 

Harry aveva finalmente trovato il coraggio di andare da Andromeda e, dopo aver esitato fuori dalla sua porta per ben dieci minuti, aver fatto all’indietro il viale di casa almeno tre volte e aver sbirciato dalla finestra, si era deciso a suonare. O meglio, lo aveva convinto di più l’occhiataccia che gli aveva lanciato la vicina di casa.
Andromeda si aprì in un sorriso radioso non appena lo vide.
“Harry! Che bello vederti”.
“Signora Black, io… Forse avrei dovuto avvisare”.
“Oh no, assolutamente. Tu non devi avvisare. Ma ti prego, chiamami Andromeda, non mi sento ancora così vecchia”.
La donna lo fece accomodare in casa e tornò di nuovo in cucina.
“Ti andrebbe una tazza di tè?” gli chiese.
“Certo!”
Harry si mise a osservare l’ambiente circostante, le pareti coperte da una carta da parati floreale, le piastrelle un po’ consumate, le tende verde chiaro alle finestre, il caminetto in salotto. Era un ambiente decisamente semplice e rustico, tutto il contrario di quello che ci si aspetterebbe di trovare nella casa di un membro della famiglia Black. Ma Andromeda aveva rifiutato quel cognome ormai da anni.
Il ragazzo scorse le foto poggiate sul caminetto che rappresentavano tutte Ninfadora, da piccola e da adolescente, e il marito Ted. Alcune li mostravano tutti e tre insieme sorridenti.
Sentì il cuore stringersi in una morsa che gli rese quasi difficile respirare e pensò di scappare a gambe levate da quella casa e andare a nascondersi sotto le coperte dove si sarebbe potuto lasciare morire di fame, sete e sofferenza.
Per fortuna Andromeda lo distrasse da quei macabri pensieri. “Immagino che tu sia venuto a trovare Teddy”.
“Esatto!”
“Vai pure di sopra, io finisco di preparare qui. Seconda stanza a destra”.
“Grazie”.
Harry salì le scale col cuore che batteva ancora all’impazzata e andò quasi come un automa dove gli aveva indicato la donna.
Teddy dormiva profondamente nella culla, le manine piegate all’insù e un ciuffo di capelli blu che spuntavano dal cappellino. Meda gli aveva messo una copertina con delle paperelle.
Il Grifondoro si appoggiò alla culla e rimase a guardarlo, improvvisamente sentendosi più calmo. Gli sembrava che fosse il bambino più bello del mondo. Non che avesse visto tanti bambini o ne avesse granché esperienza, ma Teddy era decisamente dolce e tenero, il perfetto connubio tra Remus Lupin e Ninfadora Tonks. Era una fortuna che non avrebbe dovuto soffrire del morbo che aveva attanagliato la breve vita di suo padre. Sopra la culla erano appesi dei sonagli a forma di luna, sole e stelle. Harry sorrise a questa sorta di ironica coincidenza; o chissà che Andromeda non lo avesse fatto apposta.
Guardando Teddy cercò di immaginarsi che futuro potesse avere e sperò che fosse il più roseo possibile, anche se sapeva che avrebbe sempre sentito quella forte mancanza nel petto, quella che aveva accompagnato anche lui fin dall’infanzia e che lo stava accompagnando tutt’ora. Teddy però aveva altre persone che gli volevano bene, aveva la nonna e aveva lui, il suo padrino e il ragazzo si disse che avrebbe fatto di tutto per renderlo felice e spensierato, per non fargli mancare nulla e per soppesare alle mancanze che avrebbe potuto sentire.
Ma si rendeva perfettamente conto anche che in quelle condizioni non ci sarebbe mai riuscito. Aveva lasciato Ginny per questo ma con Teddy non poteva tirarsi fuori.
Harry tornò di nuovo in cucina proprio mentre Andromeda serviva il tè.
“Dorme?”
“Come un sasso”.
“Beato lui”, sospirò la donna ridacchiando subito dopo.
“Già”.
Come tutti nella famiglia Black, anche Andromeda era stata dotata di una bellezza straordinaria, quasi fuori dal comune, ma si vedeva che quel periodo di guerra l’aveva colpita in modo irreversibile. Il suo viso emanava stanchezza e disillusione e gli occhi facevano sfoggio di un bel paio di occhiaie nonché un po’ di rossore. Sicuramente anche lei aveva passato molte notti a piangere. Certo, come biasimarla, dopo aver perso il marito all’improvviso e poco dopo anche la figlia. 
“Sai, sento la sua mancanza tutti i giorni. Di Ninfadora intendo”, disse la donna sedendosi a tavola. “La vedo in ogni angolo di questa casa. È qui che io e Ted l’abbiamo cresciuta. Non stava un attimo ferma, dipingeva sulle pareti con i suoi pastelli e sporcava ovunque quanto tornava dal giardino. Aveva una capacità di sporcarsi nel fango che apparteneva solo a lei”. 
Harry sorrise potendo figurarsi perfettamente nella testa l’immagina di una piccola Tonks dai capelli rosa chewing-gum che correva in giro per la casa e combinava disastri. 
“Non è giusto che mi sia stata portata via così. Era troppo giovane, troppo… troppo buona e gentile. Anche Remus, certo. All’inizio non ero felice di quel matrimonio, che avesse scelto lui, sai, per quella cosa della… licantropia. Però ho visto come l’amava e come lui le dava attenzioni. E mi sono detta “chi sono io per impedire a mia figlia di stare con la persona che ama”? Nella mia famiglia è già stato fatto fin troppo, per troppe generazioni nessuno ha mai permesso che entrasse l’amore in casa, solo interesse. 
E poi quell’amore è riuscito darmi un nipote meraviglioso come Teddy. Mi dispiace solo che non conoscerà mai i suoi genitori”. 
Harry annuì e sorseggiò del tè per nascondere le lacrime che gli si stavano creando sul bordo degli occhi. Di nuovo gli venne la tentazione di fuggire. 
Andromeda però scosse il capo e si ricompose mostrando di nuovo un sorriso dolce, bello. Sembrava quasi che avesse appena gettato la triste sé stessa per riprenderne una più felice. 
“Scusami, immagino tu non sia venuto per sentire questi discorsi deprimenti. So che anche tu hai perso molto. Tu e Teddy avete vissuto la stessa tragedia, diciamo, sono certa che lo aiuterai da questo punto di vista”. 
“Assolutamente”, rispose il ragazzo. “E mi dispiace, Andromeda, per tutto”. 
“Suvvia. Non è colpa tua. È stata la guerra, solo quella”. 
Era vero? Era solo la guerra? Solo quella? E se si fosse potuta evitare? 

 

Hogwarts stava per riaprire i battenti dopo le vacanze di Natale e Harry era tornato al castello prima di tutti gli altri studenti. Dopotutto, erano tutti convinti che lui avesse trascorso lì le vacanze. Era davanti a uno specchio nella sua stanza, da solo, e osservava il tatuaggio dell’ungaro spinato che si era fatto fare sul pettorale destro.
Kiki gli aveva chiesto di accompagnarla a fare un piercing al sopracciglio e, guardando tutti quei disegni nel negozio del tatuatore, aveva preso quella decisione d’istinto. E doveva dire che gli piaceva parecchio. Ma probabilmente non lo avrebbe mai fatto vedere agli amici, non presto quantomeno.
Felpato era seduto sul pavimento vicino al suo letto e lo guardava con fare curioso. Aveva deciso di portare il cane con sé; lo avrebbe tenuto nella Stanza delle necessità durante le lezioni. Non si fidava a lasciarlo con Kreacher. Senza contare che coccolarlo, in qualche modo, lo faceva sentire meglio. Persino Felpato gli si era affezionato e lo seguiva dappertutto, obbedendo docile.  
L’espresso per Hogwarts arrivò la sera, puntuale come al solito, e il banchetto di inizio del secondo semestre fu inaugurati. Harry fu contento di rivedere Ron ed Hermione, gli erano mancati. Anche Karen si aggiunse al loro tavolo, con un leggero sdegno da parte di Hermione che però lo nascose bene. Non ne capiva esattamente il motivo, ma quella ragazza non le piaceva troppo: innanzitutto, Harry non l’aveva presentata ufficialmente e lei si intrometteva nella loro amicizia come se ci fosse da sempre, e soprattutto non aveva idea se i due stessero insieme oppure no. Ma qualcosa le diceva che non era il caso di chiederglielo.
Per non dire che Karen le ispirava qualcosa di… Qualcosa di losco, come se volesse approfittare della fama di Harry. Dopotutto, perché altrimenti gli si sarebbe avvicinata solo quell’ultimo anno?
“Come sono andate le tue vacanze, Harry? Hai studiato?” gli chiese Hermione.
Harry si voltò verso Kiki esitante. “Abbiamo studiato insieme”, rispose la ragazza per lui. “Il castello senza studenti è tranquillo, si studia bene”.
Hermione sorrise ma quel sorriso emanava tutta l’acidità di cui era capace. 
“Ehi, guardate qui!” esclamò ad un certo punto Neville, seduto vicino a loro. Reggeva in mano una copia della Gazzetta del Profeta e la guardava con interesse “Dice che due Mangiamorte sono stati trovati morti vicino alle campagne. Erano completamente carbonizzati”. 
“Fai vedere!” fece Hermione strappandogli il giornale dalle mani. “Oh Santo Merlino! Chi sarà stato”. 
Kiki lanciò un’occhiata di sbieco ad Harry, come se con lo sguardo volesse chiedergli se lui ne sapeva qualcosa ma allo stesso tempo avere conferma. Il ragazzo ricambiò quell’occhiata ma senza mostrare alcun particolare stato d’animo. Continuò a mangiare, impassibile. 
“Non sanno chi sia stato”. 
“Be’, che ti importa? Erano Mangiamorte”, disse Ron. 
“Non dico che non meritassero di morire, ma questo è atroce”. 
“Ehi, Harry!” gridò qualcun altro lungo la tavolata. Harry si protese verso la voce che lo chiamava ritrovando il volto di Seamus che lo guardava con uno sguardo malandrino. “È vero che ti sei fatto Jane di Corvonero?” 
Harry sorrise. “Potrebbe essere”. 
“Wow, amico! Quella è una figa”. 
A quel punto tutti gli sguardi dei ragazzi erano rivolti verso il bambino che è sopravvissuto e chi con le parole, chi con lo sguardo, gli facevano i complimenti per essersi portato a letto uno dei sogni erotici maschili di Hogwarts. 
Anche l’attenzione di Ginny era rivolta verso di lui ma la ragazza non disse nulla né mostrò segni di fastidio. Almeno non da fuori. Dentro si sentiva morire. 

 

Harry non ce la faceva più. Aveva decretato così il giovane Grifondoro. Le giornate si susseguivano tutte uguali, tutte noiose e tutte terribili. Solo gli allenamenti in palestra gli davano una valvola di sfogo, nemmeno da Vince aveva più avuto notizie. 
Ogni tanto stava con Felpato nella stanza delle necessità ma se si assentava per troppo tempo i suoi amici si insospettivano e così cercava di passare più tempo possibile con loro, di essere amichevole come al solito. Si piazzava un sorriso finto in faccia e andava avanti. 
Le risate di tutti gli altri gli davano fastidio, le chiacchiere inutili… Solo con Kiki riusciva a rilassarsi un po’ perché passavano il loro tempo a bere e fumare. 
Ma i tagli sul suo braccio erano aumentati e aveva anche avuto altri due attacchi di panico. Gli incubi non lo lasciavano in pace e nemmeno i pensieri distruttivi nella sua testa. Come se non bastasse, aveva paura che quello con l’alcol stesse diventando un problema serio. Non trovava più gusto nemmeno nel portarsi a letto le ragazze, non dopo la ramanzina che gli aveva fatto Hermione anche se non l’aveva capita fino in fondo. Apprezzava le idee dell’amica ma alle volte gli sembrava solo molto fissata. 
L’unica cosa buona era che i giornalisti sembravano essersi stufati di mandargli lettere per chiedergli interviste. 
Comunque sia, era arrivato anche marzo portandosi via la neve e gli ultimi soffi di vento freddo. Gli insegnanti parlavano dei M.A.G.O. e di quello che avrebbero dovuto fare dopo delle loro vite. Fino all’anno precedente Harry era sicuro di voler essere un Auror, come i suoi genitori, ma ora non era nemmeno certo di avere ancora una vita; si muoveva, camminava, parlava, esisteva e basta. Sopravviveva. 
Come in quel momento, mentre camminava reggendo la mappa del malandrino in una mano e una bottiglia di whiskey nell’altra; era notte fonda e il ragazzo voleva solo andare nella stanza delle necessità per stare un po’ da solo. 
Ma le scale decisero di cambiare proprio quando stava per salire al settimo piano e lo portarono da tutt’altra parte. Così Harry si ritrovò nella torre di astronomia vuota e buia a quell’ora della notte. Decise che gli sarebbe andata bene comunque, non aveva più voglia di vagare e inoltre vide sulla mappa che il caposcuola di Tassorosso stava girando proprio fuori di lì e non voleva certo farsi beccare. 
Si sedette vicino al terrazzo, stringendo le ginocchia al petto e stappando la sua bottiglia. 
Si rendeva perfettamente conto che non poteva continuare così ma non sapeva come fare, non sapeva come tirarsi fuori. Non gli bastava solo la sua forza di volontà e dirlo agli amici… Non ne aveva il coraggio. Avrebbe significato ammettere che stava crollando, che non era così forte come tutti pensavano. Loro lo avevano aiutato già troppo, quello ora era un problema suo. Una guerra poteva riguardare tutti, ma i suoi problemi interiori erano solo suoi. 
Fu così che prese quella decisione, all’improvviso. Era rimasto un’ora seduto sul pavimento freddo a bere e aveva capito che non c’era più speranza per lui. Non sapeva come riprendersi e non sapeva nemmeno se ne avrebbe avuto le forze. Dopotutto, per quale motivo? Lui era sopravvissuto a quella guerra ma tantissimi altri no, tantissimi altri che meritavano di sopravvivere molto più di lui. Non era giusto. 
Salì in piedi sulla balaustra del terrazzo e guardò di sotto. Gli anni di quidditch gli avevano dato un buon equilibrio ma se fosse caduto non gli sarebbe importato. Anzi, sarebbe stato più facile riuscire in quello che voleva fare. 
Certo, Ron, Hermione, Ginny e tutti i Weasley avrebbero sofferto per un po’ ma poi sarebbero andati avanti accantonandolo come un ricordo, forse a tratti spiacevole. Ma sarebbero andati avanti, come avevano già fatto. Non poteva e non voleva trascinarli nel suo baratro, sarebbe stato meglio per tutti se… Se la faceva finita, persino per Teddy. 
Almeno così avrebbe avuto un po’ di pace e forse, forse, avrebbe rivisto i suoi genitori e Sirius. 
Si sporse leggermente con un piede e spalancò le braccia pronto a lasciarsi andare, ma una voce dietro di lui lo trattenne. 
“Ehi, posso unirmi a te?”
Kiki era dietro di lui e lo guardava senza alcuna espressione. Non aspettò alcuna risposta ma andò dritta verso Harry e salì anche lei sul parapetto. Gli prese la mano.
Harry la guardò sorpreso e confuso. “Cosa fai?” 
“Mi butto con te. È quello che vuoi fare, no?” 
“Kiki…”. 
Kiki spostò lo sguardo davanti a sé verso il campo da quidditch e strinse più forte la mano del ragazzo. “Gli amici ci sono nel momento del bisogno, giusto?” 
“Kiki, io non voglio che tu ti butti”. 
“Nemmeno io voglio che tu ti butti”, gli rispose lei puntando gli occhi scuri in quelli di Harry. “Ma ti sostengo. Sono qui per te”. 
Harry sospirò e chiuse per un attimo gli occhi come se cercasse di capire che cosa fare. Lasciò andare la mano dell’amica e scese dal parapetto, ritrovando di nuovo il terreno sotto i piedi. Kiki fece lo stesso e si sedette per terra trangugiando un sorso del whiskey di Harry. Quella cosa era stata decisamente una delle più avventate che avesse mai fatto. Non aveva idea di come sarebbe finita. 
“Sai, Harry… Mio padre se n’è andato quando avevo solo otto anni”, disse la ragazza quando Harry le si sedette accanto. “Ha preferito una donna più giovane di mia madre e l’ha lasciata da sola con due figli da crescere. Non ho più saputo nulla di lui da allora”. 
Harry si accese una sigaretta e ne offrì una a Kiki, chiedendosi perché gli stesse raccontando quella storia. 
“Mio fratello si è iscritto all’Accademia per diventare Auror appena uscito da qui. Era bravo, davvero bravo ed era una brava persona. C’era sempre per me. Lui si è preso cura di me quando nostra madre non ce la faceva ad alzarsi dal letto perché era stata lasciata. Mia madre non era mai stata una donna particolarmente forte. 
Poi mio fratello è morto nella battaglia contro Voldemort. Mi sono chiesta come avremmo fatto io e mia madre da sole, cosa ne sarebbe stato di lei. Ma… pochi giorni dopo, durante l’estate… L’ho trovata che penzolava dal lampadario della sua camera da letto. Si era impiccata e il suo collo era storto perché si era rotto in modo strano. Faceva impressione. Sono rimasta ferma lì immobile a guardarla per dieci minuti perché non riuscivo a crederci. Credevo che quella non fosse mia madre, che fosse un molliccio o qualcosa di simile, che mi stesse facendo solo uno scherzo. Ma evidentemente per lei il dolore della perdita di un figlio è stato troppo e non le importava che ci fosse un’alta figlia che aveva bisogno di lei. Non lo so… Mia zia mi ha accolta in casa sua ma lei non ha idea di come si cresca un’adolescente di diciotto anni”. 
Harry rimase spiazzato. Non si era mai chiesto le origini di Kiki o chi fosse la sua famiglia, forse troppo concentrato sul proprio dolore per badarci e si maledisse anche per questo. 
La ragazza gli appoggiò la testa sulla spalla. “Perciò ti capisco. Capisco quello che provi, capisco il tuo dolore. Hai perso troppe persone che ti erano care”. 
“Non so come andare avanti, Kiki”. 
“A volte è dura. Certi giorni vorrei solo sotterrarmi. Ma noi siamo qui e dobbiamo vivere anche per coloro che non ci sono più”. 
“Non è giusto. Perché loro… Cosa abbiamo noi di tanto speciale per essere ancora qui?” 
Karen cercò di trattenere le lacrime prima di continuare a parlare. “È il senso di colpa che ti logora, vero? Il senso di colpa al fatto che tu sia sopravvissuto e qualcun altro no”. 
Kiki non poteva esprimerlo meglio e finalmente aveva trovato una definizione a quello che stava pensando nella sua testa. Lui stesso, nei suoi sogni, attraverso i volto di Sirius e dei suoi genitori, si accusava del fatto che era sopravvissuto, che ce l’aveva fatta mentre loro no. E tutti loro erano molto più meritevoli di lui. Avevano molto di più da perdere rispetto a lui, cresciuto senza genitori e senza una vera famiglia. 
“A volte è solo il destino, a volte… A volte c’è qualcosa di più. Perché non dovresti meritare di sopravvivere?” 
“Non lo so, Kiki. È solo troppo difficile”. 
“È tutto nella tua testa, Harry. Solo nella tua testa. È di questo che dovresti liberarti. Fatti aiutare”. 

 

*** 

 

Devo dire che scrivere questo capitolo è stato abbastanza intenso e forte. Ma spero di essere riuscita a rendere tutto abbastanza. Me lo direte voi, spero.
Nel prossimo capitolo finalmente ci sarà la svolta e vedremo se Harry riuscirà a riprendersi. 

 

Fatemi sapere cosa ne pensate in un commento. 

Bacioni, 

Cactus.

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Capitolo 14
*** Ritorno (parte uno) ***


RITORNO
(parte uno)

 

La professoressa McGranitt si alzò di corsa dal letto, si infilò la vestaglia e corse a vedere cosa fosse stato quel rumore proveniente dal suo studio.
Mai avrebbe creduto a quello che si trovò davanti: James Potter, Lily Evans, Sirius Black, Remus Lupin, Ninfadora Tonks e Fred Weasley che la guardavano sbigottiti e spaventati. 
La donna ci mise una frazione di secondo a riconoscerli per davvero - convinta per un attimo che stesse solo sognando - poi capì che tutto quello non era normale. Estrasse la bacchetta e la puntò contro di loro. 
“Chi diamine siete?” chiese l’ex insegnante minacciosa. Nella sua testa passarono le immagini di Inferi, Mangiamorte sotto Polisucco o qualsiasi altro incantesimo di Trasfigurazione. Ma appena la sua testa partorì quelle ipotesi, le dovette anche escludere; gli Inferi erano decisamente riconoscibili e loro non si comportavano come tali. Per quanto riguardava la Polisucco, era decisamente difficile prendere dei capelli o parti del corpo da persone che erano morte e sepolte. Restava solo la Trasfigurazione. 
“Chi siete?” 
“Calma, Minerva”, disse quello con la faccia di Remus alzando le mani in segno di resa. Dietro di lui Tonks la guardava smarrita. “Siamo noi. Siamo davvero noi”.
“Porco Salazar! La professoressa McGranitt in vestaglia. Non credevo avrei mai visto una cosa del genere”, aggiunse Fred ridacchiando. 
Minerva si ritrovò a sorridere a fior di labbra: tra tutte le ipotesi peggiori, per quanto impossibile, per quanto irreale, per quanto fuori da ogni logica umana e magica, le si era insinuata anche la possibilità che quelli potessero davvero essere loro, i Malandrini con Tonks, Lily e Fred. 
Certo, lei non era una donna che si lasciava troppo ai sentimentalismi ed era perfettamente cosciente di ciò che la magia poteva e non poteva fare, ma i miracoli potevano accadere. Erano già accaduti in passato. 
“L’Ordine della Fenice, Minerva. Te lo ricordi? Grimmauld Place è stata la nostra base e Silente ne era il custode segreto”, le disse Sirius. La McGranitt capiva, raccontare qualcosa che soltanto loro potevano sapere era il modo migliore per guadagnare la sua fiducia. Ma poteva fidarsi davvero? 
“Voi dovreste essere morti”, disse la donna quasi in un sussurro. 
“Già. Ma siamo qui. E non abbiamo idea di come sia successo”, rispose Tonks. 
Gli unici che non avevano ancora parlato erano James e Lily, sembravano quelli più spaesati. Minerva li osservò attentamente e sentì un moto di commozione salirle verso il petto. Tutti loro avevano lo stesso aspetto e la stessa età che avevano nel momento in cui erano stati uccisi e James e Lily erano incredibilmente giovani, i loro volti non avevano alcuna ruga e potevano tranquillamente essere scambiati per degli studenti di Hogwarts. Solo in quel momento la donna realizzò che i due erano poco più che maggiorenni quando la tragedia di Voldemort era capitata sulle loro vite. 
La preside si decise finalmente ad abbassare la bacchetta, anche se non era ancora del tutto sicura di non essere in pericolo. 
“Devo… Devo portarvi in infermeria. Poppy Chips farà i dovuti controlli”. 
“Certo”, disse Remus. 
Per fortuna a quell’ora della notte Hogwarts era più o meno deserta, fatta eccezione per i fantasmi e Pix il Poltergeist che volò sopra le loro teste canticchiando una stupida filastrocca. Gli studenti erano tutti nei loro letti. Persino i quadri stavano russando nelle loro cornici.
Minerva lasciò che fossero Remus e Dora ad aprire la fila mentre lei li seguiva per ultima, la bacchetta stretta in mano nel caso qualcuno di loro tentasse di attaccarla. 
Dire che Madame Chips fu sconvolta quando vide entrare un gruppo di persone che sapeva non essere più tra i vivi è un eufemismo; la donna per poco non diede i numeri. Ma la professoressa McGranitt riuscì a calmarla e a chiedere di usare tutti gli incantesimi di riconoscimento che sapeva fare. Venne chiamato anche il professor Lumacorno che, a differenza delle altre due donne, non reagì in nessun modo particolare. Probabilmente era ancora troppo assonnato per rendersi veramente conto di ciò che stava accadendo. Dopotutto, era stato svegliato piuttosto bruscamente. 
“Pensa dovremmo dirlo al Ministro?” chiese l’infermiera rivolta alla preside. 
“Sicuramente dovrà essere avvisato”. 
“Scusate, ma che sta succedendo? Noi… quanto tempo è passato?” chiese James a quel punto. Era la prima volta che parlava e la sua voce era piuttosto incerta. Era seduto sul letto accanto a Lily e sembrava confuso e smarrito come un cucciolo abbandonato poteva esserlo. 
I due professori e l’infermiera li guardarono con un velo di malinconia. 
“James… Voi… Voi vi ricordate di quello che è successo? Che eravate morti?” 
“Mi ricordo di Voldemort che entra in casa nostra e…”. 
Improvvisamente gli occhi di Lily si spalancarono. “Harry! Dov’è Harry? Come sta?” quasi gridò scattando in piedi.
La McGranitt le mise le mani sulle spalle per calmarla. “Calmati, calmati”. La rossa parve tranquillizzarsi un po’ ma il suo respiro si era fatto più accelerato. 
“Credo che dovremmo raccontare le cose con calma”, disse l’anziana donna rivolta verso Madame Chips. Si sedette sul letto opposto al loro e prese un sospiro. 
“Sono passati diciassette anni da quella notte”, cominciò. 
“Oh”, fu il semplice commento di James. 
“Voldemort è scomparso quella notte, ma non era morto. L’incantesimo di Lily ha protetto vostro figlio e ha fatto sì che Voldemort si indebolisse. Ma cinque anni fa è riuscito a tornare di nuovo”. 
“Ma ora è stato sconfitto? Non c’è più, vero?” chiese Sirius avvicinandosi alla donna. Sperava davvero che fosse così, sperava di essere tornato in un mondo di pace. 
“Sì, certo”, prese in quel momento la parola Madame Chips. “È stato Harry a ucciderlo”. 
“Harry? Mio figlio?” fece James. 
“Sì. C’è stata una battaglia qui ad Hogwarts. Alla fine ha vinto Harry. Ma questa storia forse è meglio che ve la racconti lui”. 
“E bravo Harry! È riuscito di nuovo lì dove tutti gli altri hanno fallito”, commentò Fred ridacchiando e mettendosi le mani in tasca. 
“Dov’è? Vogliamo vederlo”, disse allora Sirius. “È qui al castello?” 
“È notte fonda. Starà dormendo. Forse è meglio avvisarlo domattina”, fece notare il professor Lumacorno. 
“Senza contare che dobbiamo capire come avete fatto a tornare in vita”, aggiunse Madame Chips. 
Tutti i suoi incantesimi le avevano confermato che si trattava davvero di loro e che non era stato posto alcun incantesimo o sortilegio. Non c’era nessuno scherzo e nemmeno qualche maledizione. 
“Di sicuro si tratta di un incantesimo molto potente. Chi può essere stato a farlo?” 
“E soprattutto perché?” 
Improvvisamente cadde il silenzio nella stanza, interrotto solo dal ticchettio di un orologio appeso alla parete. 
“Io devo vedere mio figlio. Devo vedere Harry”, disse improvvisamente Lily alzandosi. 
“Lily, calmati. Harry sta bene”, cercò di tranquillizzarla Remus. 
“Ho bisogno di vederlo coi miei occhi. Voglio vedere che mio figlio sta bene”. 
“Perché non aspettare domattina? Starà sicuramente dormendo”. 
“Ehm, ehm”, li interruppe una strana voce. Tutti i presenti si voltarono verso uno dei quadri che aveva parlato. Era un piccolo folletto con uno strano cappello verde. “Ho sentito che parlate del giovane Potter. Non credo proprio che il ragazzo sia nella sua stanza. L’ho visto girovagare per i corridoi non molto tempo prima”. 
“Come sarebbe a dire? A quest’ora gli studenti non possono girare per i corridoi del castello” chiese la McGranitt in tono indignato. 
“Oh, le vecchie abitudini sono dure a morire”, commentò Remus alzando gli occhi al cielo mentre vedeva Sirius e James ridacchiare sotto i baffi. 
“Mi domando da chi abbia preso”, aggiunse Black. 
“Be’, cosa aspetti? Chiamalo!” ordinò la McGranitt al quadro. Il folletto non se lo fece ripetere due volte e sparì. 
“Povero ragazzo! Sarà sconvolto nel vedervi”, osservò Madame Chips dando una sistemata ai letti nervosamente. 
Tutti se ne rendevano ben conto, ma James, Lily e anche Sirius non potevano aspettare. Tutto quello era assurdo, ma se erano tornati c’era un motivo. Harry aveva sconfitto Voldemort e quello bastava loro; il resto se lo sarebbero fatto raccontare. 
C’era nervosismo nell’aria; Sirius camminava avanti e indietro per l’infermeria, Fred si guardava attorno, James e Lily erano seduti sul letto e lo stesso Remus e Tonks che tenevano le dita intrecciate. 
Solo in quel momento Sirius parve accorgersene e si bloccò a guardarli come un baccalà. 
“Ma voi due?” chiese. “State insieme”. 
I due arrossirono e si guardarono. Poi Tonks rispose con orgoglio: “Ci siamo sposati quando tu eri impegnato a essere morto”. 
Il volto di Black si aprì in un sorriso a trentadue denti e andò subito ad abbracciare i suoi amici. “Ora siamo imparentati, Remmie! Hai sposato la mia cuginetta”.  “E meno male che dicevi che non ti saresti mai sposato, Lunastorta”, aggiunse James con un sorriso dolce. 
"James”, sussurrò Sirius voltandosi verso l’altro amico. Restò a guardarlo imbambolato per qualche secondo, poi si protese ad abbracciare anche lui. 
“Felpato, così mi strozzi”, biascicò il povero James. 
La McGranitt e Madame Chips sorrisero tra di loro, felici di rivedere i Malandrini tornare in tutta la loro smagliante forma. 
“E ci sei anche tu, Lily!” 
“Oggi Sirius è in vena di affetto”, commentò Remus mentre guardava l’amico abbracciare la rossa. Solo Fred era rimasto in disparte perplesso. 
Era decisamente confuso, ma sapeva solo che in quel momento avrebbe tanto voluto rivedere la sua famiglia, i suoi fratelli, sua madre… 

 

Harry camminava verso l’infermeria piuttosto stanco. Quando quel folletto nel quadro lo aveva chiamato per dirgli che la professoressa McGranitt lo stava cercando in infermeria aveva pensato che lo stesse prendendo per i fondelli. Cosa diavolo voleva la preside da lui a quell’ora? E soprattutto, perché in infermeria?
Il folletto ci tenne a precisargli anche che c’era un trambusto e che diverse persone lo stavano cercando. Il ragazzo pensò subito che doveva essere successo qualcosa di grave, dopotutto, andava sempre così nella sua vita. Ma aveva bevuto abbastanza alcol da non andare in panico. Prima di varcare la soglia della porta, si premurò di far scomparire la bottiglia di birra vuota che teneva in mano.
Quanto avrebbe voluto essere a letto in quel momento… 
Harry aprì la porta di colpo e si trovò davanti subito la professoressa McGranitt, Madame Chips e il professor Lumacorno che lo guardavano con delle strane espressioni. 
Poi fece un altro paio di passi oltre l’ingresso e vide che effettivamente la stanza era piuttosto affollata. Appena riconobbe quei volti pensò che stesse iniziando ad avere seri problemi con l’alcol e che ora gli stava facendo avere le allucinazioni. O forse era solo la sua mente. Vedeva dei fantasmi, delle persone che dovevano essere morte. 
“Harry, hai deciso di cambiare look!” esclamò una voce dal fondo e che gli sembrò appartenere a George Weasley. Ma quel ragazzo aveva entrambe le orecchie. Possibile che… Fred? 
“Harry”, questa volta fu Sirius a chiamarlo. Sirius, com’era possibile? Poi vide anche Remus e Tonks e… No, non poteva essere. Quelli non potevano essere davvero i suoi genitori. 
“Harry, tesoro”, lo chiamò Lily ferma in piedi di fronte a lui. 
Il ragazzo scosse la testa. 
“Harry, a quanto pare qualche incantesimo ha fatto tornare tutti loro da…”, iniziò la professoressa McGranitt senza sapere come rendere tutta quella situazione meno sconvolgente. 
Il ragazzo era decisamente pallido e sembrava avere il respiro piuttosto frenetico. Non si sarebbe stupita se lo avesse visto svenire lì all’istante. 
“Non sappiamo come sia potuto succedere, ma…”. 
“No!” urlò Harry. “No, questo non è reale. Questo deve essere un fottutissimo scherzo”. Non diede a nessuno il tempo di reagire perché scappò via sbattendo la porta dietro di sé. 
Non si fermò finché non ebbe svoltato un paio di corridoi, senza sapere esattamente dove si trovava. Aveva il respiro accelerato e stava sudando freddo. Forse gli stava venendo un altro attacco di panico. Si appoggiò contro una parete e scivolò a terra. Non poteva essere, non voleva credere a quello che aveva appena visto. Le parole della McGranitt gli risuonavano nelle orecchie, “tornati”, “non si sapeva come”, ed una vocina dentro di lui gli diceva di crederci, che magari un miracolo era avvenuto. Ma ogni cosa in lui cercava di scacciarla a tutti i costi perché quelle cose non accadevano, non a lui, quantomeno. E se si fosse scoperto essere una fregatura non avrebbe più retto. 

 

“Be’, direi che è andata proprio bene”, commentò Sirius ironico. 
“Lasciategli del tempo”, disse Minerva umettandosi le labbra. Non si aspettava certo una reazione normale e tranquilla da parte di Harry, ormai aveva imparato a conoscere il ragazzo. Anche se doveva ammettere che quella reazione è stata strana persino per uno come lui. “Ritrovarsi davanti i propri genitori che erano… Insomma, non è certo una cosa facile da digerire”.
James accarezzò una guancia alla moglie e guardò di nuovo verso la professoressa. “Quanti… Quanti anni ha?” 
“Harry? Diciotto”. 
L’uomo inarcò un sopracciglio. “Che ci fa ancora ad Hogwarts?” 
La preside sospirò sedendosi. “È una storia lunga”. 
“Fino a poco tempo fa Hogwarts era sotto il controllo di Voldemort”, iniziò Remus. “E Piton ne era il preside”. 
“Piton? Severus Piton?” esclamò Lily, gli occhi illuminati per la sorpresa. 
“Abbiamo creduto tutti fino alla fine che Severus Piton fosse dalla parte di Voi-sapete-chi”, aggiunse Lumacorno. “Ma a quanto pareva aveva fatto il doppio gioco per Silente”. 
“E dov’è Silente? Perché lui non è qui?” chiese la giovane Evans a quel punto. 
“Cara…”, fece la McGranitt prendendole le mani. “Silente è… morto, circa un anno fa. Insieme a tanti altri che sono morti per questa guerra. Sono io la preside di Hogwarts ora”. 
“Oh”. 
“Scusate, non vorrei interrompere questo racconto, ma…”, prese la parola Fred allora. “Anche io vorrei tanto rivedere la mia famiglia. Harry ha avuto la sua occasione, io vorrei la mia”. 
La McGranitt gli sorrise e annuì. “Ma certo”. 

 

*** 

 

Ho atteso a lungo di poter pubblicare questo capitolo e finalmente ci sono arrivata! Il clou della storia.
Devo ammettere anche che non ne sono del tutto soddisfatta, insomma, è difficile rendere bene il ritorno di persone che dovrebbero essere morte e descrivere le reazioni di tutti. Forse mi è uscito più comico che drammatico.
Comunque sia, fatemi sapere cosa ne pensate. Questa è solo la prima parte, sabato prossimo ci sarà la seconda e… vi consiglio di prepararvi per un po’ di dramma. 

 

Cactus.

 

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Capitolo 15
*** Ritorno (parte due) ***


RITORNO
(parte due) 

 

Ron e Ginny furono i primi a essere chiamati in infermeria, naturalmente li seguiva anche Hermione perché Ron si era fatto prendere dall’ansia e voleva che la sua ragazza fosse al suo fianco - la guerra aveva instillato in tutti loro un profondo disagio che li faceva subito pensare al peggio.
Ma bastarono un paio di battute da parte di Fred per eliminare ogni malessere e far capire ai due Weasley che quello era davvero loro fratello. Non sapevano come, non sapevano perché ma Fred era tornato. La loro famiglia era di nuovo unita e finalmente questa volta le cose sarebbero davvero tornate alla normalità. Anzi, persino meglio.
Anche per Molly e Arthur Weasley essere svegliati nel cuore della notte fu piuttosto traumatico, soprattutto doversi precipitare nell’infermeria di Hogwarts. Il patronus della professoressa McGranitt li aveva lasciati interdetti. Non persero nemmeno troppo tempo a vestirsi.
Ma appena videro loro figlio… Be’, Molly Weasley passò attraverso diverse fasi: prima ebbe quasi un mancamento, poi scoppiò a piangere ed infine lo abbracciò forte e ci mancò poco che lo uccidesse davvero. La reazione di Arthur fu più pacata, solo perché era un uomo posato, ma comunque anche lui fece fatica a nascondere la propria commozione. 
Fred si sentì leggermente sopraffatto da tutto quello, ma dovette anche ammettere che non aveva mai visto sua madre prodigarsi in tutti quei gesti d’affetto nei suoi confronti. I due riportarono il figlio a casa salutando velocemente gli altri due figli con la promessa che comunque si sarebbero rivisti in un paio di settimane per le vacanze di Pasqua. 
“Ma Harry dov’è?” chiese Hermione guardando verso gli altri presenti nella stanza. Il professor Lumacorno si reggeva a malapena in piedi, ancora troppo assonnato. 
“Non-non è tornato in Sala Comune?” chiese la McGranitt. Sembrava quasi spaventata. 
“No, noi non lo abbiamo visto”. 
“Il suo letto era in ordine. Non è proprio venuto a dormire”. 
“Possibile che stia girando ancora per il castello?” fece Remus passandosi una mano tra i capelli color miele. 
Tutti i presenti si guardarono, qualcuno preoccupato. James e Sirius ricordavano le loro passeggiate notturne per il castello quando erano studenti, perciò non li sorprendeva che Harry facesse altrettanto. Però qualcosa nelle espressioni dei suoi amici suggeriva loro che forse non era del tutto normale. 
“Ma lo avete visto?” chiese Ginny. 
“È stato qui, ma è scappato quasi subito. Immagino che vedere delle persone morte tornare in vita sia sconvolgente”, disse Sirius ridacchiando. 
“Allora tornerà”, fece Hermione tranquilla. “È impulsivo, gli serve solo del tempo per calmarsi”. 
Nella stanza scese il silenzio, nessuno fiatò più. Madame Chips stava quasi per mettersi a preparare i letti per i suoi ospiti, quando Ginny parlò di nuovo: “Ho una brutta sensazione”. 
“Che intendi?” le chiese il fratello. 
“Secondo me dovremmo cercare Harry”. 
“Pensi gli possa essere successo qualcosa?” chiese Remus guardando la ragazza con uno sguardo strano. 
“Non lo so, ma… Secondo me è meglio se lo cerchiamo”. 

 

Harry camminava per i corridoi mal illuminati di una piccola casa in periferia dove si supponeva si nascondesse uno dei Mangiamorte che lui e Vince avrebbero dovuto catturare l’indomani. Tanto per cambiare, aveva deciso di agire da solo.
Era stata una nottata pazzesca, ancora non riusciva a credere a quello che aveva visto né a quello che gli avevano detto. Aveva rivisto i suoi genitori, Sirius, Remus, Tonks e Fred. Li aveva rivisti vivi e vegeti quando sapeva con assoluta certezza che dovevano essere morti. Non era possibile riportare in vita le persone, questa era una delle poche certezze che aveva avuto nella sua vita - una certezza che lo aveva aiutato a non precipitarsi in biblioteca per cercare libri sulla negromanzia - e Silente era sempre stato chiaro su questo.
Allora com’era possibile? Perché ora erano tornati? E soprattutto, erano tornati davvero? Sentiva che sarebbe crollato, tutto dentro di lui sarebbe crollato su sé stesso. Non voleva pensarci, non voleva pensare alla possibilità di avere per davvero le persone che amava accanto a sé e poi vedersele strappare via di nuovo. Se ci avesse creduto anche solo per un attimo e poi fosse rimasto deluso non ce l’avrebbe più fatta e nemmeno Kiki gli avrebbe impedito di lanciarsi dalla torre di astronomia. Per cui no, non era reale tutto quello.
Per distrarsi aveva trovato quello come alternativa, altrimenti sarebbe rimasto al castello a tagliarsi  le braccia o rischiare di andare in coma etilico.
Ma il Mangiamorte non si trovava da nessuna parte e soprattutto lui non sapeva nemmeno dove stava andando, si muoveva a caso e senza fare troppa attenzione. Non era la serata migliore per dare la caccia a qualcuno ma i nervi dovevano essere sfogati.
“Chi sei?” chiese una voce dietro di lui. Harry si voltò e si trovò davanti a una bacchetta puntata alla testa.
Sorrise. “Expelliarmus!” Il mago venne disarmato, la sua bacchetta volò lontano.
Il Grifondoro gli si avvicinò per averlo più vicino, la bacchetta tesa e ogni briciola del corpo che si tendeva all’adrenalina che lo avrebbe accompagnato nello scontro.
Peccato che in quel momento Harry dimenticò alcuni degli insegnamenti di Vince, soprattutto quello che diceva di non sottovalutare mai il proprio nemico e non avvicinarglisi mai troppo, specie se non si era sicuri che fosse completamente disarmato. Era troppo distratto quella notte, troppe cose gli frullavano per la testa.
Il Mangiamorte estrasse rapidamente un pugnale dalla cintura dei pantaloni e lo affondò nello stomaco del ragazzo.
Harry sentì un dolore lancinante che lo colse di sorpresa e lo fece piegare leggermente in avanti. Strinse le mani attorno al pugnale ancora affondato dentro la sua carne e percepì il sangue caldo e denso che aveva iniziato a scorrere. Il Mangiamorte ne approfittò per scappare, mentre il ragazzo crollava lentamente in ginocchio.
Il mondo cominciò a diventare offuscato davanti a suoi occhi e brividi iniziarono a percorrergli il corpo. Prima di chiudere gli occhi pensò che forse ora avrebbe rivisto Sirius e i suoi genitori per 
davvero, nell’aldilà, senza alcun inganno.

 

“Prendiamo la Mappa del Malandrino”, disse Hermione mentre pensavano a come trovare Harry senza dover attraversare l’intero castello. 
“La Mappa del Malandrino?” chiese James sorpreso. “Quella Mappa esiste ancora?” 
“Certo, Jamie”. 
Ron sospirò. “Harry la porta sempre con sé, dubito l’abbia lasciata in camera. Senza contare che se si trova nella Stanza delle necessità la Mappa non lo segna. Se Harry non vuole farsi trovare sa come farlo”. 
“Allora cosa proponi?” gli chiese Ginny. 
Ron alzò le spalle senza sapere esattamente come rispondere. 
“Forse è con Karen!” esclamò ad un certo punto Hermione. 
“Chi?” 
“La ragazza, quella con cui gira sempre. Forse lei sa dov’è!” 
“La signorina Wilson?” chiese la McGranitt. 
“Sì! Proprio lei”
“Pssst, scusate!” li interruppe nuovamente il quadro che prima aveva portato Harry da loro. “La signorina Wilson è nella Sala Comune dei Grifondoro. Posso dirle di venire qui”. 
“Certo, Taddeus. Facciamo così”. La McGranitt cercava di non darlo a vedere ma anche lei era preoccupata per il suo studente. Aveva osservato Harry nell’ultimo periodo, senza farsi vedere, e aveva notato che effettivamente il ragazzo non sembrava più essere sé stesso. Se i suoi amici erano preoccupati per lui, aveva motivo di esserlo anche lei. “Intanto manderò una lettera al ministro per far sapere del… della vostra presenza”. 
Karen non ci mise molto a presentarsi in infermeria, anche lei confusa come lo erano stati tutti gli altri poco prima. Quando vide tutta quella gente che l’attendeva strabuzzò gli occhi. 
“Che succede? Siete qui per arrestarmi?” 
“Signorina Wilson, stiamo cercando Harry. Lei lo frequenta molto, saprebbe dirci dove si trova in questo momento?” 
Kiki guardò tutte quelle persone con sospetto e si morse il labbro incerta. “Perché? Che cosa volete da Harry?” 
“Siamo i suoi genitori”, le rispose James. 
La ragazza strabuzzò gli occhi incredula. “Ma pensavo foste… come dire… morti”. 
“Non ci è chiaro come sia potuto succedere, ma tutti loro sono tornati in vita a quanto pare”. 
“E Harry è scomparso?” 
“Diciamo che non ha reagito bene quando ci ha visti ed è scappato. Ma vorremmo sapere dov’è e se sta bene”, le spiegò Sirius. 
Karen questa volta si morse il labbro più forte cercando di metabolizzare tutte le informazioni. I genitori di Harry erano tornati in vita e anche quell’uomo che le aveva parlato che somigliava tanto a Sirius Black - da quello che ricordava dalle foto sui giornali anni fa. In fondo alla stanza vedeva il suo ex insegnante di Difesa contro le arti oscure insieme a una strana ragazza dai capelli rosa, probabilmente anche loro tornati dal regno dei morti. Quella situazione aveva dell’assurdo persino per lei. 
“Io oggi non l’ho visto”. 
“Ne sei sicura?” 
“Sì”. 
Era da una settimana che in realtà lei ed Harry si vedevano abbastanza poco e aveva avuto come l’impressione che l’amico cercasse di evitarla. La Grifondoro imputò quello strano comportamento al fatto che forse lui non voleva parlare di quello che era successo sulla torre di astronomia, o che sarebbe potuto succedere. Si erano limitati a incontrarsi un paio di volte per correre nella foresta proibita trasformati in Animagi, ma lui non aveva quasi proferito parola. 
E vedendo tutte quelle facce sconvolte, la preoccupazione iniziò a salire anche a lei: e se Harry avesse deciso di riprovarci? Di salire di nuovo sulla Torre e questa volta buttarsi sul serio? Era certa che non bastava il ritorno delle persone a lui care per risolvere tutti i suoi problemi interni. Anzi, forse quello li peggiorava persino. 
Doveva fare qualcosa, doveva aiutare quelle persone a ritrovare Harry e accertarsi che stesse bene. Ma non era sicura di dover raccontare della torre o delle cose che si erano detti o delle cose che avevano fatto. 
Eppure… 
Poi le venne in mente. 
“Chiedete al Ministro!” 
“Cosa?!” esclamò la McGranitt. 
“Il Ministro. So che Harry lavora per lui. Dà la caccia ai Mangiamorte, insieme ad un Auror. Forse è andato con lui, non lo so”. 
“Come sarebbe a dire?”
“È quello che dico. Me lo ha detto Harry. Sentite il Ministro”. 
Come se fosse stato chiamato, Kingsley Shacklebolt apparve dal camino dell’infermeria, un po’ polveroso e piuttosto trafelato. 
Guardò tutti i presenti nella stanza come stralunato. “James! Lily!” esclamò. “Quando Minerva mi ha mandato quella lettera pensavo stesse delirando, invece… Voi siete qui. Com’è possibile?” 
“Shacklebolt! Hai affidato ad Harry un lavoro suicida?” lo aggredì subito Sirius avvicinandoglisi quasi minaccioso. 
“Kingsley! Perché Harry lavora per te?” gli chiese la McGranitt osservandolo con cipiglio severo. 
“Pensavo lo sapessi. Pensavo te lo avesse detto”. 
“Non ci ha detto nulla”, rispose Ron. “A nessuno di noi”. 
Il Ministro passò gli occhi dall’uno all’altro dei presenti mentre loro tenevano gli sguardi puntati su di lui. C’era chiaramente qualcosa che non andava. 
“È successo qualcosa? Dov’è Harry?” 
“È quello che speravamo ci dicessi tu”, gli rispose Remus, dando man forte a Sirius. 
“Lo hai mandato a catturare qualche Mangiamorte stanotte?” 
“No, non stanotte. So che lui e Vince dovevano andarci domani, ma…”. 
“C’è la possibilità che Harry sia andato stanotte?” 
“Forse. Vince mi ha accennato al fatto che alle volte Harry agisce da solo, che…”. 
“Ovvio che ci è andato!” lo interruppe Ginny stringendo i pugni. “Fa sempre così”. In quel momento si stava chiedendo perché diamine si fosse dovuta innamorare di un ragazzo così impulsivo. Si chiedeva persino perché, dopo tutto quel tempo, fosse ancora innamorata di lui e perché si stesse ancora preoccupando.
“Dove?” chiese Sirius. 
“Jacobson. Dovevano catturare Jacobson in una casa in periferia”. 
“Allora andiamo a cercarlo lì”, fece James. 
“Forse non è il caso che voi veniate”. 
“È mio figlio, dannazione!” gridò James. Stava quasi per gettarsi addosso al povero Ministro per aver coinvolto suo figlio in una cosa del genere. Non stava capendo molto della situazione, era tutto confuso e sconnesso; era improvvisamente tornato dal regno dei morti, senza sapere perché e dalla sua dipartita erano passati diversi anni. Quello che però sapeva per certo era che suo figlio poteva essere in pericolo - quel figlio per il quale si era sacrificato diciassette anni fa e che amava più della sua stessa vita, tanto quanto amava Lily. Non c’era morte che potesse reggere a quello. Lily, al suo fianco, sembrava dello stesso avviso. 
“Jamie”, lo chiamò calmo Sirius. “Non ha senso che veniamo tutti, rischieremmo di metterci in pericolo. Io vado con Kingsley, okay? Se Harry è lì vedrai che lo riporteremo indietro”. 
James guardò l’amico intensamente e a Black parve di scorgere nei suoi occhi tutto quello che a parole non riusciva a dire. 
“Lo prometti?” gli chiese Lily. 
“Certo!” 
“Andiamo allora. Usiamo il camino per arrivare nel mio ufficio e da lì ci smaterializziamo”. 

 

Il sangue che poco prima sgorgava dalla ferita allo stomaco di Harry ora sembrava essersi bloccato. Il volto pallido del ragazzo era in penombra, illuminato solo dalla poca luce che proveniva da fuori.
Il corpo era immobile in una pozza di sangue denso e scuro. Non c’era alcun rumore, alcun suono. Solo un opaco silenzio. 

 

*** 

 

Eccomi qui col solito aggiornamento del weekend. Non mi dimentico mai. 

Non ho molti commenti da fare se non: ce la farà Harry a salvarsi? 

Lo scoprirete nella prossima puntata.

Intanto, lasciatemi i vostri commenti. 

 

Bacioni, 

Cactus.

 

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Capitolo 16
*** Sangue ***


SANGUE

 

Sirius e Kingsley si materializzarono nel posto nominato precedentemente dal Ministro. L’Animagus cominciò subito a guardarsi attorno nella casa polverosa e piena di spifferi. Non gli piaceva per nulla quel posto. Fece subito luce con la bacchetta e si incamminò.
“Stiamo attenti. Potrebbero esserci dei Mangiamorte o chissà cosa qui dentro”.
Ma la priorità di Sirius in quel momento era trovare Harry - nel caso fosse stato davvero lì -. Senza contare che ce l’aveva con Shacklebolt per aver coinvolto il suo figlioccio in qualcosa di mortalmente pericoloso.
Superarono diverse stanze e svoltarono in un paio di corridoi trovandoli tutti vuoti. Stavano quasi per mollare quando a Sirius parve di vedere qualcosa.
“Là, vicino alla finestra”, indicò Black. 
Shacklebolt puntò la propria bacchetta nella direzione indicatagli e notò che effettivamente c’era una figura stesa per terra. 
“Potrebbe essere una trappola”. 
Il cuore di Sirius batteva all’impazzata. Quella figura stesa a terra gli pareva terribilmente familiare. Si mosse con cautela, la bacchetta spianata, cercando di raggiungere quella figura il più velocemente possibile senza abbassare la guardia e quando riconobbe il volto pallido del figlioccio steso in quella pozza di sangue per poco non si mise ad urlare. 
“Harry!” 
Si inginocchiò accanto al ragazzo e premette subito sulla ferita da dove sbucava il coltello, ritrovandosi le mani piene di sangue in un attimo. 
“Sirius, fermo! Rischi di provocargli un’emorragia”, gli intimò Kingsley avvicinandosi. 
“C’è troppo sangue. Merlino!” 
L’uomo non aveva mai visto tutto quel sangue, non pensava nemmeno che una persona potesse perderne così tanto; si chiese se qualcuno potesse sopravvivere a una tale perdita di sangue ma solo pensare all’eventualità che Harry potesse essere morto lo faceva stare male. Non erano pensieri che poteva permettersi in quel momento. 
“È vivo!” esclamò il Ministro inginocchiatosi accanto al ragazzo per sentirgli il battito. “Il polso è debole ma è vivo”. 
Sirius parve riprendersi un attimo e guardò il mago di fronte a lui come se attendesse istruzioni. Non riusciva a pensare in quel momento, davvero non ci riusciva. 
“Dobbiamo portarlo in ospedale ma potrebbe essere pericoloso smaterializzarlo”. 
“Non c’è tempo, Kingsley. Non c’è tempo!” 
L’altro parve riflettere per qualche secondo dopodiché annuì: “D’accordo. Ma fai molta attenzione”. 
Black non se lo fece ripetere due volte e, coperto Harry con tutto il corpo come a fargli da scudo, scomparve con un pop. Kingsley lo seguì immediatamente. 

 

Quelli che erano rimasti in infermeria attendevano impazienti notizie da Sirius e il Ministro. Speravano solo di non vederli tornare a mani vuote ma con buone notizie.
Purtroppo, il Patronus argentato di Sirius non sottese alle loro aspettative. La voce chiara ma tremante del mago si sparse per la stanza dicendo che Harry era ferito e che li aspettava al San Mungo.
Immediatamente tutti si precipitarono verso il camino ignorando le proteste della professoressa, che però raccomandò a Madame Chips di non lasciare il castello e di avvisare gli altri professori.
Trovarono Sirius nella sala d’attesa appoggiato a una parete e la testa tra le mani. Non appena li sentì venirgli incontro, cercò di darsi una parvenza di umanità.
“Che succede?” gli chiese Lily. “Come… Come sta?”
“Non lo so. Lo hanno portato dentro. Non mi hanno detto ancora nulla”.
“È il sangue di Harry quello?” gli chiese James notando i vestiti e le mani dell’amico macchiati di rosso.
“Sì. Stava… Qualcuno lo ha pugnalato. C’era tantissimo sangue”.
“Oddio!” esclamò Hermione affondando il viso nel petto di Ron che la strinse forte a sé. Lily crollò su una delle sedie dietro di lei, pallida come un lenzuolo. Le sembrava di dover vomitare. James invece rimase a guardare l’amico come se non lo vedesse.
“Jamie?” lo chiamò Remus con calma, appoggiandogli una mano sulla spalla. “Vieni, siediti”. Lo accompagnò a sedersi vicino alla moglie e gli si inginocchiò davanti come di solito faceva per consolare o rassicurare qualcuno. Poteva solo immaginare quello che James e Lily dovevano star passando in quel momento; tornare dalla morte era già traumatica come esperienza - ne sapeva qualcosa anche lui - ma rischiare di perdere un figlio, dopo anni senza averlo visto, rendeva tutto persino peggiore.
“Voi siete i parenti di Harry Potter?” chiese un guaritore spuntato accanto a loro.
“Sì!” esclamò Lily scattando in piedi come una molla.
“Ehm… Tutti quanti?” chiese ancora.
“Ci dica solo come sta”, fece Hermione a quel punto, gli occhi gonfi. “Per favore”.
Il guaritore prese un respiro profondo. “Sarò sincero. È grave. Ha perso molto sangue e temiamo che il coltello possa aver perforato qualche organo vitale. Per ora lo stiamo curando, i guaritori faranno il possibile”.
Nessuno riusciva a crederci. Stavano perdendo Harry. E forse, chissà, sarebbe successo davvero. Non importa quante ne aveva scampate il ragazzo, forse davvero questa volta sarebbe morto. Ma le parole del guaritore avevano attraversato le loro orecchie quasi come una sorta di velo opaco.
“Perdonatemi ora, ma devo tornare dentro”.
Con un’ultima occhiata a quel gruppetto stranamente assortito - tra cui gli parve di scorgere i volti della preside di Hogwarts nonché quello dell’attuale Ministro della Magia - il guaritore lasciò la sala d’attesa e varcò le grosse porte dove tenevano Harry.
“Che cosa vuol dire che faranno il possibile, James?” chiese Lily girandosi verso il marito e stringendogli la mano. “Non devono fare il possibile. Devono salvarlo e basta”. Stava tremando e il cuore le batteva talmente forte che se lo sentiva uscire dal petto.
James la guardò negli occhi cercando di infonderle tutta la sicurezza di cui era capace che, all’attuale stato delle cose, era piuttosto poca.
“Vedrai che ce la farà, Lily. Vedrai che ce la farà”.
A quell’ora della notte l’ospedale non era particolarmente gremito di persone, non c’era nessuno nella sala d’attesa del reparto emergenze e tutti poterono sedersi sulle sedie presenti. Tranne Kiki che si sedette per terra in un angolo, preoccupata tanto quanto gli altri ma che non sapeva esattamente come interagire. Stava cercando di trascorrere la solita noiosa e tranquilla serata quando era stata catapultata in quella situazione assurda e decisamente stressante. Si era affezionata troppo ad Harry perché morisse. Senza contare che non avrebbe più avuto nessuno con cui condividere l’erba e la birra. 
“È colpa tua!” proruppe ad un certo punto la voce di Sirius rivolta a Kingsley. L’Animagus gli si avvicinò minaccioso e alzò il pugno probabilmente per tirargli un gancio destro coi fiocchi. Solo la prontezza di riflessi di Remus gli impedì di spaccarsi la mano contro la faccia del Ministro. 
“Sirius! Sta’ calmo”. 
“Remus! Come diamine faccio a stare calmo? Perché ha mandato Harry a fare una roba del genere?” 
Shacklebolt si alzò e guardò i tre Malandrini dispiaciuto. “Non volevo rimanesse ferito, non era mai stato nelle mie intenzioni. Harry ha sconfitto Voldemort, catturare gli altri Mangiamorte non doveva essere difficile per lui. Non l’ho mai mandato a farlo da solo, sapete che per le missioni bisogna sempre essere in due”. 
“Solo perché Harry ha sconfitto Voldemort non lo rende diverso dagli altri ragazzi di diciotto anni. Per l’addestramento da Auror ci vogliono quattro anni. Lui non ha nemmeno finito Hogwarts!” gli disse Remus che teneva ancora Sirius per un braccio per paura che potesse avere qualche altro scatto. 
Shacklebolt non seppe più cosa rispondere perciò abbassò lo sguardo. Sapeva che se Harry fosse morto quella notte sarebbe stata anche colpa sua. Di sicuro qualcuno lo avrebbe incolpato. E cosa avrebbe fatto il Mondo Magico senza il suo eroe? 
A quel punto la professoressa McGranitt decise che era arrivato il momento di intervenire, qualcuno doveva pur fare da paciere. “Non serve a niente in questo momento dare le colpe a qualcuno. Cerchiamo di restare tutti uniti e pensiamo ad Harry”. 
“Scusami, Minerva. È meglio se io vado, ci sono molte cose che devo ancora fare. Per favore, tenetemi aggiornato sulle condizioni di Harry”. Lanciando un’ultima occhiata a Sirius e con uno svolazzo della veste da mago, Shacklebolt si smaterializzò. 
Nella sala calava di nuovo il silenzio mentre tutti tornavano ai propri posti. 
“Però…”, cominciò Ron e tutti si voltarono verso di lui. La tensione si tagliava con un dito e quando qualcuno parlava era come se questo li facesse tornare alla realtà. “Perché Harry ha deciso di fare una cosa del genere?” 
“Perché è Harry”, gli rispose semplicemente Ginny. “Perché se qualcuno gli offre di cacciare i Mangiamorte lui lo fa. Perché vuole diventare un Auror ed è un buon modo per cominciare, no?” 
“Sì, ma non dirci nulla… Siamo i suoi amici”. 
A quella frase di Ron sentirono un verso sarcastico provenire da un angolo. Sembrò che solo in quel momento tutti si fossero accorti della presenza di Kiki. 
“Sei qua tu?” fece Ron senza nascondere l’astio. 
“Dove dovrei essere?” gli rispose la ragazza. “Sono preoccupata tanto quanto voi”. 
“Preoccupata? Come se conoscessi Harry da una vita! Non ho mai capito perché gli gironzolassi intorno, probabilmente ti interessa solo perché è famoso. E poi, perché tu sapevi di quello che stava facendo per Shacklebolt? Se fossi un’amica glielo avresti impedito!” 
“Ronald!” cercò di richiamarlo Hermione ma anche la sua protesta fu debole. 
Kiki si alzò in piedi e fronteggiò Ron dal centro della stanza. Sembrava stranamente calma per essere appena stata insultata davanti a tutti. Di certo il suo autocontrollo - così poco Grifondoro - l’aiutava. 
“Perché? Tu pensi di essere stato un amico migliore di me? Tu o Hermione? Forse se non foste stati impegnati a pomiciare e aveste cercato di parlare seriamente con lui magari ora non ci troveremmo qui. E magari vi sareste accorti che Harry preferisce passare le notti con me in giro per il castello a bere e fumare, anziché a dormire. Magari vi sareste accorti che si sveglia con gli attacchi di panico. Magari vi sareste accorti di tante cose. E tu!” si girò verso Ginny. “Se davvero lo ami avresti insistito di più per restare con lui, non lo avresti lasciato andare. Quindi non accusate me”. 
Nel suo monologo non aveva urlato né sbottato. Ma aveva lasciato tutti basiti e nessuno osò contro-ribattere. Nessuno sapeva se a colpirli di più era stato il tono con cui aveva parlato o quello che aveva detto. 
Kiki lasciò andare un ultimo sospiro e abbandonò anche lei la sala, sparendo nel corridoio. Non pensava che la nottata potesse diventare persino peggiore. 
Si diresse al bar del piano sottostante e ordinò un caffè. Se dovevano stare lì tutto il tempo almeno voleva cercare di restare sveglia e nel pieno delle sue facoltà mentali. 
Mentre aspettava, si accorse che anche gli altri l’avevano seguita. Rimase quasi basita nel vederli tutti seduti al bar, anche se a due tavoli diversi. 

 

“Comunque è proprio vero che Harry è la copia sputata di suo padre”, osservò Ginny mentre guardava in direzione di James seduto tra Lily e Sirius a pochi tavoli da loro. “Pensavo fossero gli altri a vederlo, invece sono quasi identici”.
“È vero anche quello che dicono sugli occhi di sua madre”, aggiunse Ron.
“Secondo voi che cosa intendeva dire Karen con quello che ha detto”, disse Hermione che invece stava pensando a tutt’altro.
“Non lo so, ‘Mione”.
“Per la miseria, Ron, dormi in camera con lui. Ti sarai accorto di qualcosa”.
Ron si guardò le mani quasi colpevole. Non aveva passato molto tempo a parlare con l’amico e quando parlavano era sempre di cose frivole e sciocchezze. Cercava di non stargli troppo addosso e perlopiù di godersi l’anno.
“Certo che è proprio un’ironia crudele. I suoi genitori tornano in vita e lui rischia di morire”.
“Non morirà”.
“Non puoi saperlo”.
“Ho riavuto mio fratello, non voglio perdere… Non voglio perdere anche Harry”.
“E se fosse proprio questo il punto!” esclamò Hermione mettendosi dritta sulla sedia.
“Che intendi?”
“Resuscitare i morti è praticamente impossibile. E se anche fosse possibile, il prezzo da pagare deve essere sicuramente alto. E di solito, una vita richiede in cambio una vita”.
“Stai dicendo che Harry potrebbe davvero morire? Perché mio fratello e tutti loro sono tornati indietro?”
“Forse non solo lui”. 
“Non può essere”. 

 

Kiki reggeva il suo caffè in mano indecisa se andare a sedersi al tavolo dei resuscitati o di quello del trio. Oppure andare dalla professoressa McGranitt che guardava fuori dalla finestra. 
Si rigirava tra le mani un pezzettino di carta cercando di prendere il coraggio per fare quello che voleva fare. Non era sicura che fosse una buona idea però qualcosa doveva fare. 
Quella notte le aveva fatto realizzare che stare vicino ad Harry come aveva fatto per tutto quel tempo non era stata la soluzione migliore. Perciò avrebbe agito in maniera indiretta. 
Si avvicinò al tavolo dei Malandrini e si sedette accanto a loro. 
“Voi siete i genitori di Harry?” chiese guardando James e Lily.
I due annuirono. 
La ragazza tirò fuori dalla tasca un fogliettino su cui c’era scritto qualcosa in calligrafia elegante. 
“Penso che questo un giorno potrà esservi utile”. 
“Che cos’è?” le chiese Sirius. 
“È un indirizzo. Di una… dottoressa”. Non era sicura come spiegarlo nel miglior modo possibile senza spaventare quelle persone già abbastanza sconvolte. “Mi ha aiutato molto quando ho avuto delle difficoltà”.
“Che tipo di dottoressa?” 
Kiki esitò per qualche secondo prima di rispondere. “È una psicologa”. 
I maghi la guardarono leggermente sbigottiti. “Perché nostro figlio dovrebbe aver bisogno di una psicologa?” 
“Magari non ne avrà bisogno. È solo che…”. 
“C’entra con quello che hai detto prima?” fece Remus calmo sorridendo alla ragazza. Se la ricordava tra i suoi studenti al terzo anno e voleva prendere in mano la situazione prima che Sirius o James potessero dare in escandescenze. 
“Sì. Ma è meglio se ne parliate con Harry prima. Io… Io non voglio essere invadente ma non posso nemmeno…”. 
“Nemmeno cosa?” 
“Stare a guardare mentre Harry si fa del male”. 
Quando il guaritore di prima era tornato da loro per portare notizie, nessuno era riuscito a capire qualcosa dalla sua espressione. 
“Sta bene. Se la caverà. Avrà bisogno di molto riposo nei prossimi giorni e un paio di trasfusioni di sangue. Per fortuna il coltello ha evitato gli organi vitali”. 
A quelle parole tutti tirarono un sospiro di sollievo. 
Decisero anche che sarebbe stato Sirius a entrare in camera da lui per aspettare che si svegliasse. Per quanto James e Lily desiderassero vedere il figlio, sapevano anche che non era il caso di sconvolgerlo. 
Perciò ora Sirius sedeva su una sedia e osservava il figlioccio dormire tranquillo, probabilmente solo grazie ai sedativi. Le coperte lasciavano intravedere le bende che lo fasciavano quasi fino al petto. 
Intanto gli stringeva la mano cercando di non pensare a come potesse essere finito in quella situazione e perché. 
Non ci mise molto a vederlo muoversi lentamente e sbattere le palpebre. 
“Ehi!” lo salutò dolcemente sorridendogli. 
Harry cercò di metterlo a fuoco meglio che potè. 
“Sirius?” lo chiamò con voce roca. 
“Ciao. Sì, sono io”. 
“Allora sei davvero vivo”. 
Sirius ridacchiò mentre si alzava per guardarlo meglio e accarezzargli i capelli. 
“Decisamente vivo. Ma tu che fai? Noi torniamo dal regno dei morti e invece tu cerchi di andarci?” 
Harry spostò lo sguardo dall’altra parte senza dire nulla. 
“I medici dicono che te la caverai ma hai perso molto sangue. Eravamo tutti preoccupati per te”. 
“Tutti?” 
“Sì. Ron, Hermione, Ginny. C’era qui persino la McGranitt”. 
Harry piegò le labbra in un sorriso debole che si trasformò in una smorfia di dolore quando sentì tirare i punti. 
“Ci sono anche…”. 
“I tuoi genitori? Sì”. 
Il ragazzo non seppe più che dire. Aveva davvero pensato che fosse tutto soltanto un sogno, un brutto scherzo che aveva partorito la sua mente ormai andata eppure Sirius era ancora lì e lui era stato ferito e niente era cambiato dalla situazione che aveva visto in infermeria. Forse non serviva più rifiutarsi di credere. 
“Vorrebbero vederti. Ma capisco se tu non vuoi, immagino che non sia facile…”. 
“No, okay”. 
“Cosa?” 
“Va bene. Falli pure entrare”. 
“Sei sicuro?” 
“Sì, Sirius. Sicurissimo”. 
Vide Sirius allontanarsi e chiuse un attimo gli occhi. Quando li riaprì pochi secondi dopo James e Lily - che aveva potuto vedere soltanto in foto e immaginare nella proria testa - gli stavano sorridendo dai due lati del letto. 
“Ciao, tesoro”, lo salutò sua madre poggiandogli una mano sui capelli come aveva fatto poco prima Sirius. 
“Ci hai fatto prendere un bello spavento”. 
“Mi dispiace”, sussurrò il ragazzo mentre una lacrime solitaria scendeva all’angolo del suo occhio. “Per questo casino”. 
“Non ti preoccupare. Andrà tutto bene”.
Andrà tutto bene. Finalmente quella frase non suonava più come una bugia, finalmente acquisiva il suo senso e lui iniziava a crederci.
Andrà tutto bene, pensò mentre chiudeva gli occhi troppo debole per restare ancora sveglio. 

 

*** 

 

Eccomi qua, un po’ in ritardo rispetto al solito ma è stata una giornata lunga. Ho compensato però con un capitolo un po’ più lungo.
Vi confesso che mentre lo scrivevo, per una frazione di secondo, ho pensato di uccidere davvero Harry. Sarebbe stato un karma orribile però molto efficace per creare angst XD

Ma no, sono troppa buona alla fine dei conti. 

 

Che mi dite??
Fatemi sapere con un commento e ci risentiamo sabato prossimo. 

 

Bacioni,

C.

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Capitolo 17
*** Normalità ***


NORMALITÀ

 

Quando il giorno dopo Harry si risvegliò al San Mungo fu quasi sorpreso di ritrovarsi sua madre accanto al letto. Nella confusione dell’altra sera e nel dormiveglia che lo aveva visto rincoglionito dagli antidolorifici aveva creduto si fosse trattato di un sogno - un bel sogno, certo - ma pur sempre un sogno e si era quasi rassegnato a tornare allo stato apatico e distruttivo che lo aveva contraddistinto in quegli ultimi mesi.
Perciò, quando si svegliò, rimase imbambolato a guardare i lunghi capelli rossi di Lily che le incorniciavano il volto perfetto su cui spiccavano due occhi verdi identici ai suoi. Sua madre era persino più bella di come appariva nelle foto o di come lui era riuscito a immaginarla.
La donna stava sistemando dei fiori in un vaso quando si accorse di lui.
“Ehi, sei sveglio!” lo salutò con un sorriso radioso. “Come ti senti?”
“Uno straccio. Ma sono stato peggio”, le rispose cercando di mettersi seduto, ma un dolore lancinante lo fece quasi stramazzare di nuovo e faticò a trattenere un gemito.
Lily gli corse subito in aiuto.
“So che probabilmente somigli a tuo padre, ma cerca di stare un attimo tranquillo”.
“A proposito, dov-“. 
Come se fosse stato richiamato con qualche forza mistica, James comparve proprio in quel momento sulla soglia della porta reggendo due tazze di caffè. 
“Ecco! Parli del diavolo e spuntano le corna”, commentò Lily sorridendo al figlio. 
“Stavate parlando di me?” 
“Stavo dicendo a tuo figlio di non agitarsi come facevi tu quando Madame Chips ti costringeva in infermeria”, lo prese in giro la moglie andandogli incontro. 
“Lo sai che non puoi costringere un Potter a letto”. 
Harry assistette a quel siparietto sorridendo tra sé e sé sentendosi il cuore più leggero. A dire il vero, non era ancora del tutto sicuro che non si trattasse di un sogno. Ma in ogni caso gli bastava solo non svegliarsi. 
“Tesoro, purtroppo la cannella non l’avevano. Va bene lo stesso?” chiese James passando una delle tazze a Lily. 
“Non ti preoccupare, tesoro”. 
“Sirius non è ancora tornato?” 
“A quanto pare Shacklebolt lo sta ancora strapazzando”. 
“Shaclkebolt?” fece Harry confuso. 
James si girò verso il figlio e gli andò subito incontro sedendosi accanto a lui sulla sedia. “Il Ministro vuole farci altri controlli. Nessuno capisce come siamo potuti tornare, perciò si vuole accertare che… Non siamo demoni, mostri o cose del genere”. 
Harry inarcò un sopracciglio. 
“Ma tranquillo. Gli abbiamo detto che non vogliamo perdere troppo tempo con questa storia, non finché non ti sarai ripreso completamente”, aggiunse Lily finendo il caffè. 
“Ma voi… Avete dormito stanotte?” chiese il ragazzo. 
“Abbiamo dormito per diciassette anni. Credo che fare le ore piccole sia il minore dei nostri problemi”. 
Effettivamente i suoi genitori sembravano così sereni, tranquilli e riposati. Come se non fossero mai morti e si comportavano con lui come se lo avessero visto tutti i giorni e lo conoscessero alla perfezione. Lui invece era quello confuso, sbigottito e spaventato. Soprattutto spaventato. Aveva paura di vederli dissolversi davanti a lui, scomparire, andarsene così come erano apparsi. 
Ma un bussare alla porta lo distrasse dalle sue elucubrazioni. 
“Ehi, disturbo?” 
“Kiki!” 
“Entra pure, cara”, la fece accomodare Lily. 
“Sono solo venuta a vedere come stavi”. 
“La McGranitt ti ha dato il permesso per uscire?” 
“Quale permesso? Ho usato il passaggio della strega orba per arrivare a Hogsmeade e poi mi sono Smaterializzata qui”. 
Harry ridacchiò cercando di mettersi comodo sul letto. 
“Mi stai già simpatica”, le disse James. 
“Dai, Jamie, non darle corda. Non dovrebbero uscire dal castello”. 
Karen lanciò un’occhiata ai genitori di Harry e poi guardò l’amico con un ghigno scettico ma divertito e il ragazzo le rispose con una scrollata di spalle. I due si capirono con quei semplici gesti.
Improvvisamente però il moro si rabbuiò. 
“Oh merda!” 
“Che succede? Ti fa male qualcosa?” esclamò sua madre spaventata.
“Felpato!” 
“Sirius? Che c’entra lui?”
“No, non Sirius. Il mio cane. Felpato! L’ho lasciato nella Stanza delle necessità. Sarà spaventato. Forse è morto di fame!” 
Kiki gli strinse un braccio per tranquillizzarlo. “Non ti preoccupare. Vedrai che starà bene. Andrò a recuperarlo io”. 
“Puoi farlo?” 
“Certo. Basta che mi dici dove cercarlo”. 
Harry spiegò all’amica come fare per trovare Felpato nella stanza delle necessità e la ragazza corse subito via promettendo che sarebbe ritornata presto. 
“Perché tieni un cane ad Hogwarts?” gli chiese Lily guardando il figlio perplessa. 
“Perché era solo e abbandonato. Non potevo lasciarlo per strada”. 
La donna sospirò e decise di lasciar perdere. Non importava se fino a poche ore prima fosse defunta, sarebbe sempre rimasta ligia alle regole.  

 

Alla fine anche James e Lily si erano dovuti allontanare, “ma solo per un po’" avevano promesso. Sirius era rimasto in stanza con Harry e stava sfogliando la Gazzetta del Profeta di quel giorno, troppo distratto per capire qualcosa di quello che leggeva. Continuava a lanciare occhiate al figlioccio che sonnecchiava nel letto del San Mungo e già in un paio di occasioni aveva dovuto allontanare dei giornalisti che erano venuti a curiosare. Come fossero venuti a sapere che Harry era in ospedale era… Be’, in realtà non era un mistero, sicuramente qualcuno dello staff se lo era lasciato sfuggire.
In ogni caso, ora che era tornato, non avrebbe più permesso che ad Harry succedesse qualcosa. Già il fatto che fosse rimasto ferito in quel modo lo lasciava basito, ma aveva già guardato storto Shacklebolt a sufficienza per tutto il tempo che lo aveva trattenuto al Ministero per fare i controlli.
Rimase a osservare il ragazzo un po’ di più; forse per la stanchezza, forse per la preoccupazione, ma gli sembrava quasi che qualcosa lo tormentasse, un incubo o…
“Ehi, disturbo?” una ragazza ferma sulla soglia della porta lo distrasse dai suoi pensieri.
Anche Harry parve svegliarsi di colpo - o forse non stava dormendo affatto - e si voltò subito verso Karen che gli sorrideva.
“Ti ho portato una cosa…”, disse la ragazza un po’ titubante. “Sentiva la tua mancanza”.
Il piccolo Felpato saltò da sotto la giacca della ragazza sulle coperte del letto e lasciò un paio di leccate vivaci e vigorose sulla guancia di Harry.
“Felpato! Per fortuna stai bene”.
“Hai chiamato quel cane come me?” chiese Sirius leggermente sbigottito.
“Be’ sì, è tutto nero”.
Karen non stava capendo molto di quel dialogo, ma lasciò stare. 
“Comunque, non ci siamo ancora presentati. Io sono Sir…”. 
“Lo so!” Lo interruppe la ragazza. “Qualche anno fa le tue foto erano un po’ ovunque”. 
Sirius ridacchiò ma le porse la mano lo stesso. “Io sono Karen”. 
Poi la ragazza tornò a rivolgersi all’amico: “Harry, se vuoi te lo tengo io finché sei qua”. 
“Possiamo farlo noi”. 
James e Lily entrarono nella stanza piuttosto allegri. La signora Potter si era legata i capelli in una morbida treccia, e stranamente i capelli del marito erano più pettinati del solito. 
“Shacklebolt ci ha dato il permesso di tornare alle nostre vite”. 
“Come?” 
“Be’, non può tenerci tutto il tempo sotto sorveglianza. Siamo noi, siamo normali… Se ora siamo qui possiamo tornare alle nostre vite. Intanto, cercherà di capire come abbiamo fatto a tornare in vita. E visto che i giornali ne parleranno, dirà che ci siamo finti morti per nasconderci da Voldemort”. 
“E Remus e Tonks? E Fred?” chiese Harry. 
“Be’, loro… Non credo che la gente ricordi tutti quelli che sono morti nella battaglia finale”. 
Il ragazzo nel letto annuì lentamente, senza sapere esattamente che pensare. Era contento, certo, ma… Perché dovevano sempre esserci dei ma nella sua testa?
“Pensavamo di ricostruire la nostra vecchia casa a Godric’s Hallow”, concluse James. “Quindi, Harry… se ti va… sì, insomma… Stare con noi, quando ti avranno dimesso da qui”. 
Harry guardò i genitori come se vedesse due alieni davanti a sé. 
“Ma se non vuoi capiamo. Sei già grande e…”. 
“Sì, okay!” esclamò il ragazzo quasi troppo in fretta. “Va bene”. Il cane si lasciava coccolare tra le sue braccia. 
“D’accordo!” sbottò a quel punto Kiki allontanandosi verso la porta. “Io intanto me ne vado. Ho delle cose da studiare. Ci vediamo, Harry”. 
“Salutami gli altri, Kiki”. 
“Sarà fatto”. 
Harry coccolò il cane in silenzio per un po’ cercando di assimilare quelle ultime informazioni. Godric’s Hollow. Con i suoi genitori. A casa. 
Temeva ancora che tutto quello fosse soltanto un bel sogno e che presto si sarebbe svegliato. 

 

Harry era in ospedale da qualche giorno ormai e ne aveva le scatole piene. Voleva tornare alla sua vita normale - anche se era evidente che non sarebbe stata la stessa vita di prima - voleva tornare ad Hogwarts dai suoi amici e mangiare al banchetto della Sala Grande. Il cibo del San Mungo faceva davvero schifo.
Si tirò su dal water con un po’ di fatica, i punti al fianco gli tiravano e gli sembrava di avere ancora le budella sconquassate, e gettò la sigaretta dentro tirando lo sciacquone. Purtroppo i suoi incubi non gli avevano ancora dato tregua e nemmeno quel senso di malessere.
Continuava a chiedersi… Perché i suoi genitori? C’erano tante altre persone che erano morte durante la guerra, genitori che avevano perso i figli, eppure… Era stato scelto lui, erano state scelte le persone alle quali lui voleva bene.  Amos Diggory aveva tutto il diritto di riavere indietro suo figlio Cedric, anche le famiglie di Colin Canon e Lavanda Brown sarebbero state felici di riabbracciare i loro figli. 
Voleva sbattere la testa contro il muro per non pensarci più, per non sentire più queste assillanti voci che lo tormentavano e lo facevano sentire in colpa. 
Si asciugò in tutta fretta una lacrima e uscì dal bagno, proprio nel momento in cui Remus e Tonks facevano il loro ingresso con il piccolo Teddy. 
Harry sorrise alla coppia e la Metamorfomagus corse subito ad abbracciarlo. 
“Perdonaci, volevamo venire a trovarti prima ma mia madre ci ha praticamente tenuti in ostaggio”. 
“Non c’è problema”.
“Una cosa pazzesca. Volevo quasi morire di nuovo per non doverla più sopportare”. Fu una semplice battuta ma per Harry ebbe l’effetto di una doccia gelata. Cercò di non darlo a vedere. 
“Tu come stai, Harry?” gli chiese Remus premuroso come al solito. 
Il ragazzo scrollò le spalle e si sedette sul letto. “Meglio. Stanco. Ho fame. Il cibo qui fa schifo”. 
“Oh, certo che lo è. Credo che gli ospedali abbiano una regola specifica sul servirti cibo schifoso”,   scherzò Tonks. 
“Voi come state? Teddy?” 
“Teddy è il bambino più tranquillo che abbia mai visto. Non piange quasi mai se non quando ha fame”. 
“Avrà preso da te, tesoro”. 
“Lo vuoi prendere in braccio?”
Harry annuì e Remus gli passò subito il neonato in braccio. Immediatamente i capelli del piccolo si tinsero di rosso. Il ragazzo sorrise nel guardare quella minuscola creatura dormire profondamente tra le sue braccia, indisturbato e ignaro delle brutture del mondo. E forse ora, con i suoi genitori lì con lui, la maggior parte di quelle brutture gli sarebbero state risparmiate.  
Forse era arrivato il momento di godersi, per una buona volta, la vita.  

 

*** 

 

Finalmente arrivo con un capitolo un po’ più leggero e tenerino.
Ce la farà il nostro Harry a ritornare sulla retta via o continuerà sulla perdizione dell’alcol e dell’autolesionismo??
Lo scopriremo nella prossima puntata!!

Saluti!
Cactus. 

 

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Capitolo 18
*** Casa ***


CASA

 

Alla fine vennero a trovarlo anche Ron ed Hermione - che erano riusciti a estorcere in qualche modo il permesso dalla professoressa McGranitt per uscire da Hogwarts - e i signori Weasley con un carico di dolcetti perché il buon Arthur ricordava bene quanto facesse schifo il cibo dell’ospedale. 
Harry venne stritolato in uno dei soliti abbracci stritola-ossa di Molly e ci mancò poco che gli si riaprissero i punti, mentre Hermione lo tartassò di domande su cosa esattamente fosse successo, su chi lo avesse aggredito e sul perché fosse tanto stupido da andare in cerca di Mangiamorte da solo. Per fortuna Ron intervenne a calmarla e a farle lasciare perdere la questione. Ma dallo sguardo della ragazza si capiva che sì, avrebbe lasciato perdere, ma non per molto. 
“Ti saluta Ginny, Harry”, disse Ron a un certo punto per cambiare discorso. “Era indecisa se venire, sai…”. 
“Grazie. Ricambia il saluto e…”. Harry si interruppe bruscamente. Cosa avrebbe potuto dire? Che gli dispiaceva? Che era un coglione fatto e finito? Che l’amava da morire e che l’aveva lasciata solo per proteggerla? Ormai non ci credeva più nemmeno lui. E forse ormai era troppo tardi per rimediare. 
Prima di andarsene la signora Weasley gli disse che se avesse voluto tornare alla Tana per la convalescenza e per le vacanze di Pasqua era il benvenuto. In realtà lo aveva dato per assodato, dal suo sguardo si capiva quanto ne sarebbe stata contenta e quanto non vedesse l’ora. Riavere tutti i figli a casa - Fred compreso - la riempiva di gioia e per lei Harry era come un figlio. 
Ma il ragazzo dovette rifiutare. I suoi genitori lo stavano aspettando a Godric’s Hollow, avevano sistemato la casa per lui e doveva iniziare ad allacciare quel rapporto che non aveva mai avuto. 
I suoi genitori… quanto la parola suonava strana. 
In ogni caso, Il Salvatore del Mondo Magico non era quasi mai rimasto da solo in quei giorni: Sirius, James e Lily si erano alternati continuamente per tenergli compagnia. Tra l’altro Sirius lo stava brutalmente stracciando a carte e Harry non riusciva a rassegnarsi di essere così incapace, tra le risate a latrato del padrino. Si erano interrotti solo quando una giovane medimaga era entrata per cambiare la fasciatura al ragazzo. 
Nella stanza era caduto un silenzio teso, rotto solo dai movimenti leggeri della ragazza che svolgeva il suo lavoro. La poverina, leggermente rossa in viso, lanciava ogni tanto occhiate al volto di Harry, soffermandosi sul suo petto nudo e sul profilo del tatuaggio del drago che gli decorava il pettorale. Il ragazzo, dal canto suo, faceva finta di niente, la lasciava fare tenendo le braccia dietro la testa ma si era accorto dell’imbarazzo dell’altra e della sua timidezza. 
Sirius, seduto su una poltrona, ridacchiava sotto i baffi. 
“D’accordo, spara!” sbottò a un certo punto Potter quando lei gli ebbe richiuso la fasciatura nuova. “Che cosa vuoi? Una foto? Un autografo?” 
La medimaga arrossì ancora di più e abbassò lo sguardo, questa volta apparendo davvero in crisi. Harry non era stato particolarmente aggressivo, ma trovarsi davanti a una figura così importante e famosa era per lei un evento incredibile. 
“V… Volevo solo un autografo”, balbettò la poverina non osando guardarlo. 
“Hai carta e penna?” 
La ragazza tirò subito fuori un bloc notes e una penna e glieli passò. Probabilmente se li era già preparati prima di entrare nella stanza. 
“Come ti chiami?” 
“Sharon”. 
Harry scarabocchiò velocemente qualcosa e le ripassò di nuovo gli oggetti. Lei sorrise felice come una bambina il giorno di Natale. 
“Grazie, grazie!” esclamò riponendo nelle tasche carta e penna e raccogliendo disinfettanti e garze. Uscì dalla porta senza guardarsi indietro e ci mancò poco che inciampasse nei suoi stessi piedi. 
Sirius si sentì finalmente libero di scoppiare a ridere. 
“Quella ti stava mangiando con gli occhi”. 
“Ho notato”, gli rispose il figlioccio con tono scocciato. 
“Potevi chiederle di uscire”. 
“No, grazie. Non è il mio tipo”. 
Lo sguardo del suo padrino si fece improvvisamente serio con una luce maliziosa negli occhi. 
“E chi è il tuo tipo? Karen?” 
“Che cosa? No! Cosa te lo fa pensare?” 
“È carina”. 
“Sì, ma… non mi piace. Non in quel senso. Non voglio starci insieme”.
Black non gli rispose subito; si prese del tempo per studiare l’espressione del figlioccio e tirare le sue conclusioni. 
“Però qualcosa tra voi due c’è stato”. 
Harry sospirò e si mise seduto a gambe incrociate. 
“Be’, sì. Ma siamo solo amici. Amici con benefici, tutto qua. Le voglio bene”. 
“È brava a letto?” 
“Dai, Sirius! Non voglio parlare di questo con te”. Harry mise giù le gambe dal letto per alzarsi e il padrino gli corse subito incontro per aiutarlo. Potter prese la giacca per tirare fuori l’inseparabile pacchetto di sigarette. 
Al che Sirius lo scrutò torvo. “Ma che davvero?” Spostò lo sguardo dal ragazzo al pacchetto di sigarette che questi stringeva tra le mani. 
“Che c’è? Ne vuoi una?” 
“No, grazie. E nemmeno tu dovresti”. 
“Ho scoperto che aiutano a rilassarsi”. 
“E ti fanno venire anche il cancro ai polmoni”. 
“Sono sopravvissuto a Voldemort. Sono sopravvissuto a una coltellata. Davvero pensi che mi ucciderà un cancro ai polmoni?” 
“Non sfiderei la sorte”. 

 

Dopo qualche giorno Harry venne dimesso dal San Mungo anche se a detta di una preoccupata Signora Weasley - che veniva a trovarlo in ospedale troppo spesso - doveva restarci ancora. Ma i medimaghi erano preoccupati per l’attenzione che una persona del suo calibro attirava e avevano paura che a lungo andare gli altri pazienti potessero diventare inquieti, anche se questo non lo dissero esplicitamente. 
James e Lily non insistettero molto perché non vedevano l’ora di riavere il loro figlio a casa e avrebbero approfittato delle vacanze di Pasqua per poterlo conoscere meglio. 
Per quello Sirius aveva deciso di lasciare loro spazio e chiedere ad Andromeda di poter stare da lei. Almeno finché non sistemavano le loro vite e lui si trovava un posto suo in cui stare. Non aveva decisamente intenzione di tornare a Grimmauld Place.  
I coniugi Potter erano riusciti a sistemare la loro vecchia casa a Godric’s Hollow, riparare i danni dovuti all’impatto con l’Avada Kedavra quando Voldemort li aveva attaccati e pulirla. Mancava ancora qualche mobilio, ma ci avrebbero pensato col tempo. 
“Ti abbiamo preparato la stanza. Vieni di sopra?” gli chiese James prendendogli lo zaino con le poche cose che i suoi amici gli avevano portato da Hogwarts. I suoi genitori avevano già provveduto a prendergli il baule. 
Harry seguì il padre al piano superiore, guardandosi intorno quasi spaesato. Quella era casa sua… suonava così strano e ne aveva quasi paura. Continuava a chiedersi quanto sarebbe durata, quanto ci avrebbe messo questa volta prima che tutto gli venisse di nuovo portato via. Sapeva bene che quei pensieri erano stupidi e autodistruttivi ma non poteva fare a meno di pensarci. 
“È un po’ spoglia ma magari ci metterai quello che vorrai tu. Poster, foto, quello che vuoi. Se ti serve qualcosa non esitare a chiedercelo”. 
“È… è perfetto”, disse Harry osservando il semplice letto a due piazze, un grande armadio bianco, gli scaffali e la scrivania sotto la finestra che dava sull’ampio giardino. 
“Abbiamo messo degli incantesimi per impedire ai curiosi di avvicinarsi quindi non ti dovrai preoccupare che qualcuno ti spii dalla finestra”, lo informò il padre ridacchiando. “Abbiamo dovuto allontanare qualche scocciatore mentre sistemavamo… Vogliono tutti sapere… Be’, sai… Per quanto ne sanno loro non eravamo mai morti ma ci eravamo solo nascosti. Ma è meglio non raccontare troppi dettagli”. 
“Certo”. 
Ci fu qualche frazione di silenzio carico di tensione che sembrò durare troppo, mentre Harry si guardava attorno come se vedesse la stanza più bella del mondo e James non sapeva come comportarsi. Avrebbe tanto voluto abbracciarlo ma non era sicuro che fosse il modo giusto di approcciarsi. E se suo figlio non amasse i contatti fisici? 
“Be’, tu mettiti comodo. Io aiuto tua madre con la cena”. 
James uscì dalla porta quando il figlio lo richiamò. 
“Ehi”.
“Dimmi”. 
“Grazie”. 
Si sorrisero, intenerito James, contento Harry. “Non c’è problema”. 

 

Harry guardò l’orologio appeso al muro della cucina e vide che erano le tre del mattino. I suoi sicuramente stavano dormendo.
Si era svegliato di colpo, sudato, con l’affanno, con un altro di quegli incubi che - a quanto pareva - non avevano smesso di tormentarlo. Se aveva pensato che tutto si sarebbe sistemato col ritorno delle persone che amava, se aveva pensato che la sua vita sarebbe tornata com’era e la sua testa avrebbe smesso di fargli quegli scherzi, be’… si era sbagliato di grosso.
Forse, da un certo punto di vista, la situazione era persino peggiorata. A tutti i suoi sensi di colpa ora si aggiungevano anche quelli di riavere i suoi genitori. Lui aveva avuto questo privilegio, ma tanti altri no. E perché lui?
Non riusciva a spiegarselo e meno ci riusciva più si logorava più stava peggio. Appoggiò le mani sul tavolo inclinandosi in avanti per cercare di calmare il respiro. Percepì vagamente Felpato che zampettava vicino a lui. Sperava di non aver svegliato i suoi genitori.
Prese dell’acqua dal rubinetto e svuotò il bicchiere quasi in un sorso. Mentre appoggiava il bicchiere nel secchiaio, la sua attenzione venne attirata da un paio di forbici che erano rimaste lì quasi a caso, forse le aveva usate sua madre. Appoggiò lentamente una mano sul manico, indeciso.
Non voleva avere un altro attacco di panico ma lo sentiva nascere, premere per mandargli in pappa il cervello e farlo smettere di respirare, soffocarlo. Premette leggermente la lama contro la pelle bianca del braccio sinistro già martoriato. Sapeva che non lo doveva fare, che non era saggio e che doveva smettere con l’autolesionismo ma sentire il dolore fisico lo aiutava a calmarsi, a seppellire i suoi demoni. In fondo, una cicatrice in più non era niente in confronto al dolore mentale che stava provando.
Il sangue iniziò a scorrere lentamente e vedere quel colore così intenso, quel rosso talmente scuro da sembrare quasi nero lo aiutò a rimanere aggrappato alla realtà, alla cucina della sua casa in Godric’s Hollow.
Il secondo taglio fu più profondo e da lì alcune gocce di sangue si infransero contro il pavimento. Il cane accanto a lui stava abbaiando forsennatamente ma Harry lo udiva come da lontano, non ci faceva caso. Non fece caso a niente finché non vide la luce accendersi prepotente. Allora guardò il proprio braccio pieno di strisce di sangue che gli scorrevano sui polsi come rigagnoli, guardò le forbici macchiate e guardò la faccia di suo padre immobile sulla soglia che lo guardava sconvolto. 
“Harry?” chiamò James. 
Il ragazzo lasciò cadere le forbici e nello stesso momento James si mosse per afferrare uno straccio e legarglielo attorno ai tagli. 
“Che stavi facendo, eh? Si può sapere che diamine stavi facendo?” gli chiese quasi con aggressività, accompagnandolo a sedersi su una sedia. 
“Io… Io…”, biascicò il figlio impercettibilmente, tremando. 
James sbirciò sotto lo straccio e vide che il suo avambraccio era costellato di tagli cicatrizzati. Senza dire altro gli si sedette accanto e gli circondò le spalle col braccio che non era impegnato a tenere premuto lo straccio sulle ferite. Harry nascose il viso nell’incavo del suo collo, inspirando l’odore del padre e concentrandosi ad ascoltare il ritmo del suo cuore per sincronizzarlo col proprio. Non diceva niente, tremava e basta
Quando Lily sopraggiunse in cucina, li trovò così. Ma le bastò dare un’occhiata al pezzo di stoffa macchiato di sangue sul braccio del figlio per capire tutto. In silenzio, si scambiò uno sguardo col marito, gli occhi di entrambi pieni di dolore. 
Le parole che aveva detto loro Kiki qualche giorno prima in ospedale risuonarono nelle loro teste: “Io non voglio essere invadente ma non posso nemmeno stare a guardare mentre Harry si fa del male”.   
“Lily, hai ancora l’indirizzo di quella dottoressa?” chiese James alla moglie parlando con voce chiara e forte.
La donna annuì. 
“Bene, ci andiamo domattina”.  

 

*** 

 

Ops. Sono una brutta persona, lo so XD 
Quanto mi piace l’angst. Fatemi sapere che ne pensate e ci sentiamo sabato prossimo ;) 

Bacioni,
C.

 

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Capitolo 19
*** Cura (parte uno) ***


Capitolo decisamente delicato. Spero di non offendere la sensibilità di nessuno. 

 

CURA
(parte uno)

 

I Potter si presentarono alla dottoressa Lana McNamara l’indomani mattina con espressioni piuttosto tese. La donna li fece accomodare subito dopo aver congedato un altro paziente e sorrise in direzione di Harry sapendo benissimo chi era e con chi aveva a che fare. Dal viso pareva piuttosto giovane ma il suo sguardo faceva intendere che sapeva il fatto suo.
Il ragazzo la fronteggiava dalla parte opposta della scrivania, le gambe incrociate sulla sedia e le mani che tormentavano il bordo della felpa. Non era del tutto a suo agio. 
“Sai che tutto quello che dirai qui rimarrà confidenziale”. 
“Quindi non lo andrà a spiattellare ai giornali?” chiese Harry in tono leggermente irritato e pungente.
“Assolutamente no”, rispose l’altra senza scomporsi. “Ci tengo alla mia licenza”. La dottoressa gli sorrise cercando di essere il più rassicurante possibile e il ragazzo si sistemò più comodo sulla sedia, lasciando andare il respiro che non si era nemmeno reso conto di trattenere. 
“Perché sei qui?” gli chiese McNamara. 
Già, perché era lì? Sentiva di dovere un favore ai suoi genitori che l’altra notte lo avevano trovato in condizioni a dir poco pietose, ma lo doveva anche a sé stesso perché era arrivato a un punto di non ritorno, in una situazione da cui non sapeva più uscire. 
Ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di pensare che stare seduto in quell’ufficio così ampio e pieno di libri, e finestre grandi fosse una perdita di tempo. Perché una psicologa avrebbe dovuto sapere come aiutarlo? 
“Preferisci che restiamo da soli?” gli chiese allora la dottoressa notando la sua esitazione e spostando lo sguardo sui suoi genitori seduti accanto a lui. 
Lily ebbe uno scatto quasi impercettibile; avrebbe preferito rimanere.
“No, va bene. Possono restare”, rispose il ragazzo e la madre si tranquillizzò subito. In fondo, non gli dava fastidio che sentissero. Non sapeva esattamente dove quell’incontro lo avrebbe portato, ma in fondo aveva mostrato ai suoi genitori il suo lato peggiore quindi perché non farli assistere?
“Allora ti farò una serie di domande e voglio che tu mi risponda il più sinceramente possibile”. 
Harry annuì lentamente e cercò di prepararsi mentalmente. 
“Quei tagli te li sei fatti da solo?” 
Harry abbassò lo sguardo sul proprio braccio sinistro notando le cicatrici scoperte. Non aveva nemmeno fatto caso che aveva lasciato la manica della felpa tirata. 
“Sì”, rispose senza esitare. 
“Perché?” 
Sospirò: “Perché… Perché il dolore fisico mi fa stare meglio. Mi fa dimenticare per un po’ quello che… che sento dentro”. 
“E cosa senti dentro?” 
Esitò. Poteva dire davvero quello che sentiva davanti ai suoi genitori? Poteva dirlo di fronte a quella dottoressa che lo avrebbe bollato come malato probabilmente e fattogli chissà cosa? Non voleva finire in un ospedale. Ma non voleva nemmeno stare male. 
“Qualcosa… Qualcosa che mi fa stare male. Tanto male. Mi impedisce di concentrarmi su altro, di stare con i miei amici, di… essere felice”. 
Lana lo scrutò per qualche secondo in silenzio con espressione comprensiva. Non era dura e nemmeno giudiziosa. Aveva capito che cosa attanagliava l’anima di quel ragazzo che le stava di fronte, di quel ragazzo che aveva salvato il Mondo Magico più e più volte nel momento esatto in cui era entrato. Le domande che gli faceva servivano solo per averne conferma. 
Ora toccava a lei salvarlo. 
Anche James e Lily lo guardavano, in silenzio, cercando di non intervenire in alcun modo, ma tutto quello che avrebbero voluto fare era consolare il figlio che stava combattendo contro una lotta interna piuttosto pesante. 
“Hai sofferto di attacchi di panico?” 
“Sì, diverse volte”. 
“Dipendenze? Ne hai? Prendi delle droghe?” 
Harry parve riflettere per un po’ a quella domanda. “No, quelle no. Ma ho iniziato a fumare e bevo. Spesso. A volte per riuscire ad addormentarmi”. 
“Hai mai… pensato al suicidio?” 
Il ragazzo si morse il labbro. Non aveva il coraggio di guardare in faccia i suoi genitori per rispondere a quella domanda, e nemmeno la dottoressa. “Sì”. 
“E hai cercato di farlo? Intendo, toglierti la vita?”
“Sì, ho provato ma… Be’, sono ancora qua quindi…”. Harry preferì non entrare nel dettaglio di quella notte in cui aveva bevuto un po’ troppo e Kiki lo aveva salvato sulla Torre di Astronomia. 
Lily aprì bocca per dire qualcosa, gli occhi luccicanti di lacrime, ma James la fermò afferrandole un braccio. Quello era il momento di Harry. 
“E cos’è che provi? Sai dirmi come si chiama ciò che ti fa stare male?” 
Sentiva di potersi fidare di quella donna, la sua espressione e il suo sorriso rassicurante gli ispiravano fiducia; erano così tutti gli psicologi? Forse era arrivato il momento di dirlo ad alta voce, quello che aveva capito da un po’ di tempo e che non aveva mai trovato il coraggio di pronunciare chiaramente nemmeno nella sua testa. 
“Senso di colpa. Mi sento in colpa… per tutto quello che è successo da… insomma, da quando sono nato. Per le persone che sono morte nella guerra. Insomma, so che è stupido, che certe cose non sono dipese da me, ma… Non riesco a fare a meno di sentirmi così perché sì, certe persone sono morte per colpa mia perché avrei potuto fare qualcosa diversamente. Mi sento in colpa perché avrei potuto sconfiggere prima Voldemort e magari tutto il casino non sarebbe successo. Mi sento in colpa perché i miei genitori sono qui, mentre quelli degli altri no. C’è chi ha perso dei figli, dei fratelli, degli amanti e io invece sono ancora qui e mi sento come se… Come se fossi dovuto morire io, capisce? Perché io non avevo nulla da perdere. Non riesco più a evocare un Patronus perché tutti i miei ricordi felici sono legati a qualcuno che ora è morto, questo senso di colpa mi impedisce di essere felice. E non riesco a dormire la notte perché questo pensiero mi divora, ho degli incubi che mi perseguitano e… Sento che impazzirò”. 
Lana McNamara scrisse qualcosa sul suo taccuino e lo cerchiò calcando la penna: sembrava che le parole del ragazzo non l’avessero minimamente toccata, mentre James e Lily si sentivano divorare dentro. 
“Harry”, mormorò Lily quasi impercettibilmente, meravigliandosi da sola per la voce tremula e spaventata che le era uscita. 
Harry lasciò andare il respiro che aveva quasi trattenuto durante quel monologo, sentendosi finalmente liberato. Lo aveva detto e non era morto. Ignorò la madre e non si voltò nemmeno a guardarla. Sapeva di averli sconvolti entrambi ma era giusto che anche loro sapessero perché tutto ciò li riguardava. 
“Harry, tu soffri di PTSD”, disse alla fine la dottoressa con fare solenne come se in quella parola si concludesse tutto. “Sindrome post-traumatica da stress”, aggiunse notando il sopracciglio alzato del ragazzo. “Tutti i tuoi sintomi ricadono in questa diagnosi. Hai vissuto un’esperienza fortemente traumatica che ora ti provoca incubi, forte ansia, il tuo cervello continua a ripensarci, a rivedere le immagini di quella esperienza e ciò ti impedisce di funzionare come si deve durante la normale vita quotidiana. Giusto?” 
Harry annuì. 
“Chi soffre di questa sindrome tende a provocarsi del male da solo e mi sembra che tu lo stia facendo con l’abuso di alcol e quei tagli. Alle volte può succedere che si abbiano degli improvvisi scatti d’ira o rabbia. E anche pensieri suicidi”. 
“Ma… Ma è curabile?” chiese James decidendosi finalmente a prendere la parola.
“Certo. È una condizione mentale, ma si può aggiustare se ci si lavora. La sindrome post-traumatica da stress è stata scoperta quando i soldati babbani sono tornati dalla prima guerra mondiale. Lo stress di quell’esperienza traumatica li faceva rivivere i momenti della guerra a ripetizione, di giorno e di notte. Tu, Harry, hai vissuto una situazione particolare, che non molte persone hanno vissuto. E quelli più forti sono più facili a soffrirne, quindi non vederlo come la fine del mondo, okay?” 
Harry annuì sentendosi un po’ più rincuorato. Quella dottoressa, con le sue parole, la sua voce rassicurante e gentile era riuscita a tranquillizzarlo in poco tempo. Quindi quello che sentiva, quel malessere, aveva un nome ed era una cosa che aveva perfettamente senso, non era lui che stava svalvolando. 
Lana si chinò per prendere qualcosa dal cassetto, un piccolo contenitore di vetro con delle piccole cose rotonde che sembravano caramelle che gli mise davanti, sul tavolo. C’era un’etichetta ma da quella distanza il ragazzo non riusciva a leggere.
“Inizia prendendo queste, una al giorno, mi raccomando”. 
“Cosa sono?” 
“Antidepressivi. Non ti preoccupare”, aggiunse vedendogli apparire un’espressione angosciata. “Ti aiuteranno perlopiù a dormire e a gestire meglio l’ansia. Sono più forti di una pozione Sonno.Senza-Sogni, non dovrai prenderle per sempre. Poi vorrei che ci incontrassimo un paio di volte a settimana, per parlare e capire come gestire la cosa, va bene? Parlerò io con la professoressa McGranitt per farti uscire da Hogwarts e venire da me”. 
“Grazie”, riuscì soltanto a dire il ragazzo prendendo in mano le medicine, sentendosi leggermente confuso. Quella dottoressa sembrava saperne parecchio di lui e a Harry venne il dubbio che potesse essere una legilimante, cosa che non era da escludere trattandosi di una psicologa. 
La McNamara li accompagnò alla porta continuando a sorridere incoraggiante e dolce. Era decisamente giovane, ma sapeva svolgere quel lavoro. 
“Harry, ci aspetti un attimo? Vorrei parlare con la dottoressa”, disse Lily a un certo punto guardando intensamente il figlio che si allontanò senza dire una parola, tirando fuori dalla tasca le sue sigarette. 
James invece osservava la moglie confuso. 
“Quanto è grave?” chiese la donna rivolgendosi alla dottoressa, andando subito al punto, con tono deciso e preoccupato. 
Lana sorrise per l’ennesima volta quella mattina. “Dipende da come la volete vedere voi. Io ho a che fare con i disturbi della mente e della psiche umana, non posso darvi delle risposte certe. Se Harry risponde bene alle sedute con me e alle medicine che gli ho dato, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ho trattato altri pazienti con PTSD, la guerra contro Voi-Sapete-Chi ha sconvolto molte persone e ho avuto in cura i più svariati tipi di disturbo. Posso mostrarvi le mie referenze se questo vi farà sentire più sicuri”. 
“Non è questo, è solo che…”. 
“Siete preoccupati perché non conoscete bene vostro figlio e non volete fare qualche sbaglio, immagino…”. 
James inarcò un sopracciglio sbigottito perché aveva indovinato i suoi pensieri; quella donna era davvero una legilimante. 
“Si possono organizzare delle sedute tutti insieme se avrete delle difficoltà nel costruire un rapporto. Ma intanto vorrei concentrarmi su Harry. Se lo riterrò necessario, allora organizzeremo”. 
“E se… se Harry non dovesse migliorare?” si intromise allora James. 
Lana sospirò. Le sembrava di trovarsi di fronte due persone troppo giovani, spaventate e inesperte su come gestire tutte le difficoltà dell’avere un figlio - il che effettivamente era così a giudicare da quello che aveva captato nelle loro menti - perciò doveva usare tutta la pazienza di cui era capace. “Se il suo stato psicologico si farà più grave… ci sono dei centri specializzati”. 
“Tipo il reparto psichiatrico del San Mungo?!” esclamò James. 
“Non necessariamente. Ma lì saprebbero trattarlo meglio, con medicinali e pozioni più forti. Ma sono certa che non sarà questo il caso”. 
Solo la presa salda di James impedì a Lily di sfracellarsi contro il pavimento. Chiuse per qualche secondo gli occhi e cercò di tornare alla realtà. 
I Potter capirono di aver già chiesto abbastanza e che era il momento di congedarsi. Col peso sul cuore uscirono dallo studio e trovarono Harry che li aspettava appoggiato al muro, fumando una sigaretta. La spense non appena vide i genitori arrivare. 
“Andiamo a casa”. 

 

“Harry, se vuoi tornare a dormire vai pure… Magari puoi prendere una di quelle pastiglie”, sussurrò Lily al figlio non appena rientrarono in casa. Non voleva che suo figlio prendesse quelle medicine, non voleva che stesse così male, non voleva che se ne andasse a dormire perché voleva stare con lui, parlargli e confortarlo. Ma in quel momento non poteva pensare a sé stessa.
“Mi sa che lo farò”, rispose il ragazzo dando una carezza a Felpato. Non aspettò che i due gli rispondessero, si limitò a salire velocemente al piano superiore senza guardarsi indietro. Si sentiva improvvisamente spossato e pesante. Era stata una mattinata… assurda. 

 

***

 

Confesso che non sono una esperta di disturbi mentali, di sindromi post-traumatiche da stress, né altro di queste cose. Ahimé, è in momenti come questi che mi dispiace non aver studiato psicologia.
Ma allora perché hai deciso di affrontarlo in questa storia, mi chiederete voi. Perché sono sensibile alla tematica, un po’ per esperienza personale e un po’ per esperienza altrui. 
Inoltre, anche se Harry Potter è solo una storia di fantasia e Harry è un personaggio inventato che può fare tutto, vivere esperienze orribili senza esserne troppo segnato, ma è pur sempre un essere umano e come tale alcuni crolli li dovrà avere. Credo che anche i maghi ogni tanto possano stare male e avere bisogno di vedere uno psicologo - anche se la Row non ne ha mai parlato, ma esisterà pure la magi-psicologia. 
Per me questa non è solo una storia di fantasia, per me ha anche tanto a che fare con la realtà. E simpatizzo tanto col personaggio di Harry. 
Spero di non aver scritto delle cazzate; so che è sempre un rischio parlare di questioni di cui non se ne sa molto, specialmente se hanno a che fare con la psiche umana quindi non vorrei aver toccato la sensibilità di qualcuno. Se così è, ditemelo, ditemi se ci sono degli errori e provvederò a correggere. 

 

Ora mi dileguo, ho parlato più del mio solito.
Bacioni,
Cactus.

 

 

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Capitolo 20
*** Cura (parte due) ***


Preparatevi a molti dialoghi…

 

CURA
(parte due)

 

Lily osservava il figlio dormire placidamente nel proprio letto, la testa penzoloni da un lato, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro lento. Felpato dormiva acciambellato ai suoi piedi. 
La scoperta fatta quella mattina l’aveva lasciata… be’, sconvolta. E preoccupata. Immensamente preoccupata.
La verità era che lei non sapeva nulla di quel ragazzo, era suo figlio ma non sapeva assolutamente nulla di lui, nemmeno le cose più banali come quale fosse il suo colore preferito o che dolce gli piacesse mangiare.
Durante i giorni in cui lei e James avevano sistemato casa aspettando che Harry uscisse dal San Mungo si era esaltata al pensiero di averlo a casa, di conoscerlo e magari fare delle cose insieme. Certo, non pensava sarebbe stato tutto rose e fiori, ma non pensava nemmeno che sarebbe stato così difficile. E non sapeva se era pronta, se era pronta a prendersi cura di qualcuno che era mentalmente instabile, che aveva subito traumi che lei non riusciva nemmeno a immaginare. E il fatto che si trattasse di suo figlio rendeva tutto peggiore. Non riusciva a ignorare la morsa che sentiva all’altezza dello stomaco.
Percepì James che le si avvicinava da dietro e solo allora si distrasse dai quei pensieri. Il marito le circondò la vita con le braccia e la trasse a sé.
“Che ti prende, Lils?” le chiese gentile notando la sua espressione corrucciata.
“Sono preoccupata, Jamie”.
“Lo so. Lo sono anche io. Ma dobbiamo essere forti, per Harry. È l’unica soluzione perché non credo che lui ora come ora lo sia”.
“James, io…”, cominciò la ragazza interrompendo subito la frase senza sapere come continuare. Che cosa voleva dire? Non lo sapeva nemmeno lei, non sapeva come comportarsi. Aveva il terrore che potesse fare qualcosa di sbagliato.
Si girò verso James e lo guardò con gli occhi lucidi, le labbra piegate in una smorfia triste.
“Ehi, amore mio. Non fare così”, le sussurrò lui posandole un bacio sulla fronte. “Ce la faremo, vedrai. Hai sentito la dottoressa. Secondo lei Harry starà bene”.
Lily sospirò e con le braccia circondò il collo del ragazzo stringendosi più forte a lui, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Ringraziava Merlino di avere lui al suo fianco perché lui era la sua roccia, quello che non si arrendeva mai.
Voleva dare voce ad altri pensieri e preoccupazioni, ma preferì rimanere in silenzio perché non voleva tediare anche James. Almeno uno dei due doveva rimanere speranzoso. Si ricordò di quella volta che, anni prima, avevano scoperto della profezia e del fatto che si sarebbero dovuti nascondere da Voldemort. Lei era quella più spaventata e preoccupata, aveva retto solo perché c’era James a darle la forza. Come erano andate le cose, be’, non serviva raccontarlo… Forse anche per questo ora non riusciva a stare tranquilla. 
Solo dopo qualche momento decisero di separarsi e andare al piano di sotto. Proprio in quel momento la casa venne inondata dal suono del campanello.
Andarono ad aprire trovandosi davanti Sirius e Remus, con un sorrisone sfrontato il primo e un’espressione dolce il secondo. 
“Abbiamo pensato di fare una visitina ai nostri amici”, annunciò Sirius tutto allegro. “Altrimenti, ci sarebbe toccato assistere Andromeda e Tonks in cucina. E non era proprio il caso. Non voglio morire di nuovo”.
“Dai, entrate!” li fece accomodare James, intervenendo per primo perché Lily non sembrava ancora del tutto ripresasi.
I due uomini varcarono la soglia e si guardarono attorno nella cucina luminosa e ordinata.
“Dov’è Harry?” chiese Sirius immediatamente.
“Sta dormendo”, fu la semplice risposta di Lily.
Marito e moglie si guardarono in silenzio ma comunicandosi un milione di cose. Ora dovevano raccontarlo a loro, glielo dovevano, in fondo erano amici e volevano bene a Harry. Ma non erano sicuri se ad Harry sarebbe andata bene. Insomma, c’erano mille varianti in tutta quella situazione.
“Che succede, ragazzi?” chiese Remus allora, intuendo subito qualcosa. Il viso sconvolto e lacrimante di Lily parlava da sé.
“Sedetevi”, li invitò James.
“No, davvero. Cosa succede?” fece questa volta Sirius, il sorriso che lasciava spazio alla preoccupazione. “È successo qualcosa a Harry?”
“Sì. Ma ti prego, prima siediti”.
Probabilmente - secondo il suo carattere - Black non avrebbe obbedito così facilmente, ma voleva sapere al più presto che diamine stava succedendo ai suoi amici e che cosa ci fosse che non andava, perciò si sedette pesantemente, imitato subito da Remus.
Anche James e Lily si accomodarono.
“L’altra notte abbiamo trovato Harry qui in cucina…”, cominciò James, esitante. “Stava…”.
“Si stava tagliando”, concluse Lily per lui. I due amici strabuzzarono gli occhi. “Non sappiamo esattamente cosa volesse fare, forse solo farsi del male - almeno era quello che Lily sperava - però se il cane non avesse abbaiato e James non fosse venuto…”.
“Stai dicendo che…” cominciò Sirius ma non ebbe il coraggio di concludere la frase.
“Non lo so. Ha altri tagli sul braccio sinistro. Ne è pieno”, continuò James. “Vi ricordate l’indirizzo che ci ha dato quella sua amica? Quello della psicologa”.
“Karen”, specificò Remus.
“Be’, lo abbiamo portato lì. In pratica è venuto fuori che Harry soffre di… Cosa ha detto che ha?”
“PTSD. Sindrome post-traumatica da stress”.
“Oh”, fu il commento di Remus che era molto meno confuso rispetto a Sirius. Probabilmente, uno intelligente e acculturato come lui, ne aveva già sentito parlare.
“E cosa sarebbe?”
“Qualcosa che ha a che fare con la mente. Insomma, una condizione mentale che subiscono alcune persone dopo che vivono esperienze traumatiche. Come è successo ai soldati babbani dopo la prima guerra mondiale”, spiegò Lily ricordando le parole della dottoressa McNamara.
“Harry le ha detto che non riesce a dormire. Ha gli incubi tutte le notti, ha iniziato a bere e fumare, a farsi del male da solo perché…”.
“Per la guerra, vero?” chiese Remus comprensivo. Vedeva James e Lily parecchio sconvolti e tutto quello che voleva fare era rassicurarli. Poteva comprendere quello che stava passando Harry, lui stesso aveva terribili ricordi della guerra contro Voldemort, sia della prima che della seconda, le preoccupazioni, l’ansia di perdere Dora o tutte le persone che amava… Solo per qualche miracolo ancora sconosciuto ora si trovava nella cucina dei suoi due migliori amici e non avrebbe rinunciato a quella posizione per nulla al mondo.
Ma Harry aveva combattuto in prima linea, aveva perso molto più di altre persone e, ad aggravare le cose, era la sua giovane età. Nessun ragazzo avrebbe dovuto passare quello che ha passato lui.
“Sì. Ha detto… ha detto che si sente in colpa”.
“Per cosa?”
“Per le persone che sono morte. Perché altre persone sono morte al posto suo”, concluse Lily ora più infervorata. “Capite! Ha detto proprio che lui non aveva nulla da perdere, che doveva morire lui al posto di tutti quelli che sono morti”.
Un silenzio grave cadde nella cucina, sembrava che tutti avessero trattenuto il fiato. Sirius guardava James che faceva scorrere la propria bacchetta tra le dita, lo sguardo immobile sul tavolo.
Sirius aveva trascorso anni a vivere col senso di colpa per quello che aveva fatto ai suoi amici, per averli convinti a scegliere quel traditore di Peter Minus come Custode Segreto. Certo, non poteva saperlo che lui lavorava dalla parte di Voldemort, però poteva non convincere James a fare una cosa del genere. In fondo, a lui non sarebbe importato morire per proteggere il suo migliore amico, suo fratello.
Ma Harry… perché Harry? Che colpe aveva lui? Lui era solo una delle tante vittime. Anzi, se aveva perso i genitori era soltanto colpa di Sirius. Tuttavia sapeva che il figlioccio era fatto così, era sempre pronto a sacrificarsi per gli altri, a rinunciare a sé stesso. Non avrebbe mai permesso che Sirius si incolpasse di qualcosa, piuttosto la colpa se la sarebbe addossata lui. 
“Harry ne ha passate tante”, mormorò allora Remus interrompendo il silenzio e tre paia di occhi si spostarono su di lui. “Lui ha sconfitto Voldemort. Su di lui è dipeso tutto praticamente, la profezia non sbagliava. Mi stupirei se stesse bene piuttosto”.
“Comunque sia la dottoressa ci ha detto di stare tranquilli. Gli ha dato degli antidepressivi e vuole che vada da lei”.
“Quindi è una strizzacervelli”, commentò Sirius.
“Be’, sì. Ma se lo può aiutare va bene così”.
Sirius sospirò e si passò una mano sul pizzetto. “Si riprenderà, non vi preoccupate. Lo aiuteremo”.
“Il fatto è che non sappiamo niente di lui”, sospirò Lily scrollando le spalle stanca. “Anzi, le prime cose che scopro è che è depresso e ha pensieri suicidi”.
“Lily, tesoro”. James prese la mano della moglie accarezzandole dolcemente le dita per infonderle calma. “Stai tranquilla. Noi non possiamo farci prendere dal panico, okay? Harry ha bisogno di noi e noi dobbiamo essere forti. Perché lui non lo è in questo momento e se ci lasciamo abbattere sarà solo peggio”.
Lei sospirò non potendo dare torto al marito. Di nuovo, ringraziò mentalmente Merlino che ci fosse James con lei.
“Piuttosto, Sirius”, continuò Potter rivolgendosi all’amico. “Ti andrebbe di restare qua da noi? Tu hai passato più tempo con Harry e so che… A te è legato. Ci farebbe comodo… Insomma, una mano”.
L’altro sorrise a quelle parole e annuì con forza. “Ma certo! Ci mancherebbe”.
Per quanto quella richiesta gli facesse piacere, si sentiva titubante. Nemmeno lui conosceva Harry così bene, avevano passato insieme solo tre anni e tutto perché lui aveva avuto la brillante idea di farsi imprigionare ad Azkaban e poi farsi uccidere. Avrebbe voluto avere più tempo con il figlioccio, avrebbe voluto tenerlo con sé e crescerlo come un figlio come aveva promesso a James e Lily di fare e magari le cose sarebbero andate diversamente…
Si sentiva così arrabbiato e frustrato, ma come aveva detto prima Ramoso non potevano permettersi di farsi sorprendere dalle emozioni. Non quando c’era Harry così instabile. 

 

Dopo essersi fatto una bella dormita, Harry scese le scale al piano inferiore da cui sentiva provenire dei rumori. Si immobilizzò sulla soglia della cucina, osservando il padre che imprecava contro una caffettiera senza accorgersi di lui.
Sorrise tra sé e sé divertito.
“Ti serve una mano con quella?” 
James sobbalzò leggermente, abbandonando l’oggetto sul mobile da lavoro, arrendevole. Lily gli aveva lasciato l’incombenza di ripulire quell’oggetto babbano assurdo.
Harry, senza dire niente, gli si avvicinò e svitò la caffettiera senza difficoltà, lasciando cadere nel lavello il filtro.
“Questo fa bene al terreno, lo puoi usare per concimare le piante. Oppure svuotarlo qui, è ottimo anche per le tubature”. E lasciò scorrere i resti del caffè nel lavandino insieme all’acqua che si colorò di marrone.
“Grazie”.
“Figurati”.
Harry si girò con l’intento di uscire - l’atmosfera divenuta improvvisamente troppo calda - ma James lo afferrò per un braccio piazzandoselo davanti.
“Come ti senti?” gli chiese, lo sguardo serio.
“Bene”, rispose l’altro troppo velocemente. Non lo aveva convinto, per nulla, non lo avrebbe convinto nemmeno se avesse usato il sorriso più sincero che avesse potuto. “Non volevo spaventarti l’altra sera, mi dispiace”.
“No, Harry”, fece James senza distogliere gli occhi nocciola dal viso del figlio. “Non farlo. Non chiedere scusa. Non hai nulla di cui scusarti o sentirti in colpa”.
“No?”
“No. Senti, so che probabilmente non riesci a prendermi sul serio e probabilmente non te la senti di confidarti con me perché non mi conosci e perché… Insomma, so di essere giovane di aspetto e lo sono, ho solo ventun’anni, tre anni più di te e… Non pretendo che tu mi chiami papà ma voglio che tu sappia che ci sono. Io e tua madre ci siamo, per qualsiasi cosa. Faremo del nostro meglio perché ti vogliamo bene. Tutta questa situazione è assurda, ma sei nostro figlio e…”.
Si interruppe di colpo quando sentì il corpo di Harry premere contro il suo. Il ragazzo si era slanciato per abbracciarlo e, appena James aveva realizzato questa cosa, si era ritrovato a sorridere come un cretino oltre la spalla del figlio, le braccia che in automatico andavano a circondargli la schiena.
“Hai freddo?” gli chiese dopo qualche istante di silenzio, senza staccarsi.
“No”.
“Stai tremando”, gli fece notare per giustificare la sua domanda.
“È solo che non pensavo che un giorno avrei potuto abbracciare mio padre”.
Allora James se lo strinse a sé appoggiando il mento sulla sua spalla e Harry lasciò andare le spalle e tutto il corpo, sentendosi in qualche modo più leggero e libero. Aveva tanto su cui lavorare ancora, tante cose da sistemare nella sua testa ma le parole di suo padre, così sincere e pure, lo avevano convinto che sì, poteva farcela, non era solo e non era del tutto perduto. 

 

***

Be’, non ho molto da aggiungere. Quello che mi premeva far passare in questo capitolo è la difficoltà ad adattarsi - chiamiamola - di Harry ma soprattutto di Lily e James che tutto d’un tratto sono tornati dalla morte ritrovandosi con un figlio già adulto e con… be’, un po’ di problemi. Non credo possano essere così tranquilli e felici, visto anche che sono molto giovani.
Non so se ci sono riuscita, me lo direte voi. 

 

A sabato prossimo!! 

Cactus.

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Capitolo 21
*** Non sei solo ***


NON SEI SOLO

 

Harry, in bagno davanti allo specchio, si stava pulendo la ferita con del disinfettante, come gli avevano detto di fare in ospedale. La ferita era ancora gonfia ma i punti sembravano essere a posto.
Lily, passando accanto alla porta aperta, si fermò a guardarlo.
“Ti serve una mano?” gli chiese. 
“Forse sì”, rispose il ragazzo. In realtà non gli serviva affatto una mano - si era curato abbastanza ferite da esserci ormai abituato - ma era un’occasione per stare da solo con sua madre. 
Lei gli si avvicinò con calma e prese disinfettante e garza con le sue dita eleganti, per poi piazzarglisi davanti. Erano quasi alti uguali.
“Sai, ho curato Sirius così tante volte quando lavoravamo per l’Ordine. Lui non faceva mai attenzione”, gli disse, forse più per evitare il silenzio che altro. 
“Sai curare le ferite?” 
“Qualcosa sì. Le nozioni di primo intervento fanno parte dell’addestramento Auror. Ma io ho studiato qualcosa di più”. Gli sorrise alzando lo sguardo per incontrare quelli del figlio identici ai suoi. Nel farlo, si soffermò sul suo fisico asciutto, modellato, il tatuaggio sul pettorale e non potè fare a meno di notare che aveva altre cicatrici, oltre a quelle sull’avambraccio e a quella recente al fianco. 
“Ci saresti stata utile mentre cercavamo gli Horcrux. Ron si è spaccato un paio di volte”, commentò il ragazzo in tono ironico. Ma Lily non sembrava altrettanto divertita. Riusciva solo a pensare che Harry era troppo giovane per avere tutte quelle cicatrici e per tormentarsi così tanto.
“Hai… Hai un altro cerotto?” chiese infine, ritrovandosi sorpresa nel notare che la voce le era uscita incerta e quasi intimorita. Sperava solo di non essere rimasta a fissarlo come un baccalà. 
Harry si allungò oltre la madre per prendere il cerotto pulito che aveva lasciato sul lavandino e lo tolse dall’involucro. 
“Potrei usare Ferula se preferisci”, disse allora la donna. 
“Questo andrà più che bene”.  
Mentre Harry si metteva il nuovo cerotto sopra la ferita, si sentì chiedere di nuovo: “Ho saputo che hai vissuto con la famiglia di mia sorella. Com’è andata? Insomma, so che quel tricheco di Dursley è un po’ difficile…”. 
“Diciamo che non gli stavo molto simpatico”, fu la risposta laconica di Harry che voleva tagliare corto. Sua madre faceva decisamente troppe domande e non gli andava di rispondere a nessuna di quelle. “Poteva andarmi peggio”. 
“Che vuoi dire?” 
“Niente, lascia stare”. 
“Harry”. 
Harry afferrò la maglietta e cercò di infilarsela senza tirare i punti. Quando riemerse con la testa, guardò la madre con occhi stanchi. Lei gli spinse indietro alcune ciocche di capelli che gli erano cadute sulla fronte, delicatamente come se temesse di fargli male.
“Okay. Meglio che vada a vedere che stanno combinando tuo padre e Sirius”, disse infine lei ora sorridendo imbarazzata. Harry si morse il labbro mentre la guardava andarsene, i lunghi capelli rossi che le svolazzavano sulla schiena. Ma perché doveva sentirsi così? Perché non poteva essere felice di riavere i suoi genitori e potergli raccontare tutto? 

 

Harry sedeva sulla panchina in veranda, Felpato nel suo grembo a farsi coccolare e una sigaretta tenuta stretta tra le dita, quando Sirius lo raggiunse e si sedette accanto a lui. 
“Ehi”.
“Ciao”. 
“Ti è affezionato quel cane”. 
“Gli animali tendono ad affezionarmisi”, commentò il ragazzo ripensando alla sua Edvige. A volte era quella a cui pensava più spesso tra tutti i cari che aveva perso. Dobby compreso. 
I due rimasero per qualche istante in silenzio, contemplando il giardino che avevano di fronte. Harry continuò a fumare, cercando nella propria testa qualcosa da dire. Era come se avesse esaurito il repertorio. 
“Harry?” chiamò ad un certo punto Sirius. “Stai bene?” Domanda idiota da fare in quella situazione, ma l’uomo non sapeva che altro chiedere. Non voleva stare in silenzio, voleva parlare, parlare di quello che tormentava il suo figlioccio perché in quel momento quello era il pensiero che tormentava anche lui. 
“Sì, ho solo tanto sonno. Queste pastiglie mi danno sonnolenza”, fu la risposta dell’altro, abbastanza evasiva. 
“Potresti non prenderle”. 
“Almeno dormo senza incubi”. 
Sirius sospirò. Un sospiro enorme, stanco, tormentato, uno di quelli che prendi per farti coraggio. 
“Harry… L’ultima volta che ci siamo visti eri un ragazzino vivace, coraggioso, che non aveva paura di esporsi e… Come sei arrivato da quello a questo?” gli afferrò il braccio sinistro e sollevò la manica della felpa esponendo le cicatrici sull’avambraccio. 
Harry spense la sigaretta e ritrasse il braccio, senza guardare il padrino, come se non riuscisse a reggere il suo sguardo. 
“Sono successe tante cose, Sirius”. 
“Lo so. Posso immaginare. Ma io rivoglio quel ragazzino. Non quello depresso che ho davanti ora”.
“Lasciami lavorarci”. 
Harry si alzò all’improvviso facendo quasi cadere Felpato che si ritirò indietro sulla panchina. Sirius imitò il figlioccio. Non era stata sua intenzione rimproverarlo, forse gli era uscito un tono troppo stridulo, ma lui era così, si agitava per niente. È solo che gli faceva male vedere quello sguardo vuoto e senza speranza in una delle persone che più amava al mondo. 
“Lo sai che potrai sempre contare su di me? Per qualsiasi cosa, io ci sono”. 
Harry gli sorrise. “Lo so”.
“Vorrei che me ne parlassi. Di quello che è successo, della guerra, degli Horcrux. Tutto quello che hai dovuto passare. Tutto”. 
“Sirius, io…”, Harry abbassò lo sguardo, triste, forse persino deluso ma verso sé stesso. Sapeva che prima o poi ne avrebbe dovuto parlare e in realtà lo voleva, ma gli riusciva così difficile. Sirius  e i suoi genitori meritavano di sapere che cosa aveva passato, che cosa aveva dovuto affrontare - soprattutto se voleva cercare di costruirci un rapporto - ma non se la sentiva. C’erano così tanti ricordi che non voleva far riaffiorare, tante cose che avrebbe solo voluto seppellire, forse addirittura cancellare. Quei stessi ricordi che lo avevano portato a farsi del male, a ubriacarsi nel mezzo della giornata, a isolarsi, a torturare i Mangiamorte… 
Il padrino, notando la sua esitazione, gli prese un braccio e lo strinse come a volerlo confortare. 
“Non c’è fretta. Posso aspettare. Solo… per favore, se sentirai di nuovo l’impulso di dover… Insomma, di farti del male o qualsiasi altra cosa, vieni da me. O da James e Lily. Siamo qui per te”. 
Harry gli sorrise e annuì. Solo allora Sirius notò il bracciale legato al polso del figlioccio. 
“E questo cos’è?” chiese con tono del tutto diverso. 
Harry mise gli occhi sul braccialetto di pelle col ciondolo a forma di boccino - del quale si era quasi completamente scordato - e spalancò gli occhi. “Era un regalo”. 
Poi ebbe come un’illuminazione. Qualcosa gli scattò dentro, qualcosa che in quel momento gli sembrava giusto fare. 
“Senti, devo fare una cosa. È importante. Ma giuro che torno presto”. 
Fece per precipitarsi alla porta, quando venne bloccato da Lily che proprio in quel momento stava uscendo dalla casa. 
“Cosa…?” esordì la donna confusa, vedendo il figlio in quello stato. 
“Scusa, esco un attimo. Ma ti prometto che torno per cena”. E Harry rientrò di corsa in casa, verso la sua camera, dove afferrò la giacca di pelle nera e si smaterializzò. 
Sirius, ancora fermo fuori dalla porta di casa, rispose con una scrollata di spalle all’occhiata stranita che gli rivolse Lily.

 

Quando Harry si materializzò con un POP alla Tana, venne subito accolto da una Molly allegra ed entusiasta.
La donna, in un primo momento, fu colta alla sprovvista ma quando ebbe riconosciuto il ragazzo che aveva di fronte, lo stritolò nel suo solito abbraccio da madre premurosa e affettuosa, gli stampò due baci bavosi sulle guance e cercò di offrirgli qualche torta o dolce che aveva preparato quella mattina - una gran quantità persino per i suoi standard.
Harry però le disse che aveva bisogno di parlare con Ron, Hermione e Ginny e dalla sua espressione capì che doveva trattarsi di qualcosa di importante. Non insistette oltre a trattenerlo, lo mandò subito al piano superiore. Il ragazzo ringraziò solo di non essere costretto a incontrare qualche altro membro, probabilmente tutti impegnati al lavoro. 
Tutti e tre erano seduti in camera di Ron, i suoi due migliori amici abbracciati sopra il letto e Ginny per terra accanto a loro che faceva uscire delle bolle dalla bacchetta. 
“Harry!” esclamò Hermione, la prima a vederlo entrare nella stanza. Sembrava davvero contenta di trovarlo lì, anche se un po’ sorpresa. Di sicuro non se lo aspettava. 
“Ehi!” salutò il moro. 
“Che ci fai qui?” 
“Ehm… Volevo parlarvi”. 
“Oh. È qualcosa di grave?” La solita Hermione che non poteva fare a meno di preoccuparsi. 
“Be’, dipende dai punti di vista”. 
E così Harry si unì ai suoi amici e confessò tutto: di quegli ultimi mesi trascorsi a Hogwarts in uno stato di totale apatia e depressione, degli attacchi di panico, dei tagli sulle braccia, dell’alcol, dei sensi di colpa, della dottoressa McNamara, della sindrome post-traumatica da stress - cercando di spiegare il meglio possibile che cosa fosse, con Hermione che specificava che aveva letto a riguardo in un qualche libro dei suoi genitori - del lavoro e dell’attività fisica che aveva usato come valvola di sfogo. Certo, tralasciò alcune parti, quelle che non gli sembrava il caso di dire perché nemmeno lui stesso riusciva ad ammetterlo a sé stesso: non disse niente della Torre di Astronomia e di Kiki che lo aveva salvato quella notte e non disse nulla dei Mangiamorte uccisi o lasciati morire. 
Quando finì di raccontare, un silenzio pesante e carico di tensione calò su di loro. Nessuno sapeva come reagire, cosa dire o come comportarsi. Nessuno era pratico di quelle situazioni. 
Fino a che Hermione non si alzò di scatto dal letto, raggiunse l’amico e lo abbracciò con talmente tanta foga che quasi lo buttò a terra. 
Harry emise un gemito quando la ragazza gli schiacciò ferita. 
“Oddio, scusa!” esclamò lei guardandolo rammaricata. “Mi dispiace”. 
“Non ti preoccupare, va tutto bene”. 
“Harry?” chiamò Ron a quel punto. “Perché… Perché non ce ne hai parlato? Avremmo potuto aiutarti”. 
“E come? Non sapevo nemmeno io cosa avessi né perché mi sentissi così. Nemmeno io sapevo come aiutarmi. E poi, non era giusto che vi coinvolgessi anche in questa cosa. Avevate le vostre cose a cui pensare, non…”. 
“Harry!” lo bloccò Hermione. “Sei il solito testardo cocciuto e un po’ scemo. Siamo tuoi amici, tutto ciò che ti riguarda, riguarda anche noi. Pure i tuoi problemi. Non li devi affrontare da solo. Certo, abbiamo sofferto anche noi ma non per questo non avremmo potuto aiutarti. Anzi”. 
Harry spostò lo sguardo su Ginny, l’unica da cui in quel momento avrebbe voluto sentire qualcosa. Cosa ne pensava lei? Cosa ne pensava di lui ora che aveva ammesso questa cosa, questa sua… debolezza? E invece stava zitta. Lei, che aveva sempre la risposta pronta, una risposta pungente ma sempre azzeccata, ora se ne rimaneva in silenzio. E non lo guardava. Harry si sentì morire. 
“Abbiamo affrontato tante cose insieme, di certo non smetteremo di farlo ora. Non importa che siano gli Horcrux o… Qualche disturbo mentale. Va bene. Supereremo anche questo”, disse Ron. 
“Ron ha ragione. Vedrai che si sistemerà anche questo”. 
Il moro sorrise ai suoi amici già più rincuorato. Dirlo davanti a qualcun altro, ammetterlo, lo aveva reso reale ma al contempo meno insormontabile. Se gli altri credevano che si poteva aggiustare allora così doveva essere. Non era debole, era solo vulnerabile in quel momento e non c’era nulla di male. Aveva capito che finalmente poteva mettere da parte quella corazza blindata che si era costruito e lasciarsi un po’ andare, cercare riparo e conforto. 
“Ti va di rimanere a cena?” chiese a quel punto il suo migliore amico. “Alla mamma farebbe molto piacere”. 
“Mi piacerebbe ma mi sa che sarà per un’altra volta. Ho promesso a mia madre che sarei tornato a casa presto”. 
Hermione a quell’ultima frase puntò gli occhi su di lui con un cipiglio strano. “Com’è? Sì, insomma… Riavere i tuoi genitori? Poterli rivedere”. 
Harry scrollò le spalle. “È strano. Non lo so, voglio dire… Sono contento ma so anche che sono giovani e… Non voglio che si sentano a disagio”.
“Lo capisco. Ma sai, io penso che apprezzerebbero se tu ti confidassi anche con loro. Insomma, li abbiamo visti in ospedale. Erano così preoccupati e… Ci tengono a te, davvero molto. Non ti lasceranno solo”.  
Prima di congedarsi, Harry guardò verso Ginny e le chiese se potevano parlare loro due da soli. Il suo silenzio lo aveva destabilizzato, non riusciva a interpretarlo; probabilmente lei ce l’aveva ancora con lui e l’avrebbe capita se non avesse più voluto saperne di lui, se avesse voluto che sparisse dalla sua vita. Ma quando la ragazza accettò e gli disse di uscire sulle scale un po’ ne fu sollevato. Almeno era ancora disposta ad ascoltarlo. 
“Gin, immagino che ce l’avrai con me e… Insomma, non era mai stata mia intenzione ferirti”, iniziò il ragazzo approfittando del fatto che lei gli stava dietro e non poteva vederlo in faccia, altrimenti temeva avrebbe perso tutto il suo coraggio Grifondoro. “Ma avevo paura che restando con me tu… Insomma, non volevo portarti a fondo con me o farti stare sempre in pensiero. Avevi appena perso Fred e non volevo essere un altro motivo per cui…”. 
“Harry”, lo bloccò Ginny prendendolo delicatamente per un braccio per farlo voltare verso di sé. I due rimasero sulle scale, appoggiati al corrimano, lei un gradino più in alto per poterlo guardare meglio in viso. “Sei un idiota. Davvero, sei un idiota”. 
Il ragazzo inarcò le sopracciglia confuso. Le parole della piccola Weasley stonavano col suo tono quasi dolce. 
“Non capisco perché pensi sempre queste cose. Cerchi sempre di sacrificarti per gli altri e questo… Questo è stupido e inutile perché non serve. Ho perso un membro della mia famiglia, d’accordo, ma l’ho affrontato insieme a tutta la mia famiglia, lo abbiamo affrontato insieme e tu fai parte di questa famiglia. Tu sei la mia famiglia”. 
Harry, a quelle parole, strinse più forte la mano di Ginny sentendosi scaldare dentro. Voleva dire qualcosa ma gli sembrava che la ragazza non avesse ancora finito. 
“Questo non lo devi mai dimenticare. Io ci sarò sempre per te così come Ron, mia madre e tutti quanti. Non ce l’ho mai avuta con te, pensavo solo che non mi amassi più”.
“No, Gin! Non è così. Ti amo e mi dispiace tantissimo… Vorrei… Vorrei…”, Harry prese un grosso respiro prima di concludere. Gli sembrava quasi di dover spostare macigni che pesavano tonnellate. “Vorrei che tornassimo insieme perché mi manchi da morire ma capirei se tu, sì ecco, se tu non volessi. Anche perché dovresti prenderti anche tutto il caos che c’è nella mia testa”. 
Ginny gli si avvicinò ancora e appoggiò la propria fronte contro quella di Harry, guardandolo negli occhi verdi con i propri color cioccolato. “Sarei onorata di poter prendere tutto il caos che c’è nella tua testa”. Gli sorrise teneramente. “Ho avuto a che fare con sei fratelli maschi, sono stata posseduta da Voldemort, pensi che tutto questo mi spaventi? No, neanche un po’. E ti prometto che farò di tutto per aiutarti e sistemare, almeno un po’, questo casino. Okay?” 
“Okay”. 
Harry le mise le mani sui fianchi e la tirò verso di sé per baciarla. Ginny si lasciò andare e ricambiò il bacio; solo Merlino sapeva quanto entrambi lo avessero agognato. 

 

Prima di tornare a casa Harry passò da Grimmauld Place per recuperare la moto di Sirius, così tornò a casa con quella facendo precipitare Lily, James e Sirius fuori non appena sentirono il rombo.
“Cosa diamine…”, cominciò Lily, interrotta prontamente da Sirius che esclamò: “Ma quella è la mia moto”. 
“Sì. Me l’ha data Hagrid”, rispose Harry avvicinandosi ai tre col casco in mano. “Se vuoi è di nuovo tua”, aggiunse porgendo le chiavi al padrino. 
L’uomo le guardò leggermente sbigottito, poi sorrise al figlioccio. “No, non la voglio. Tienila pure”. 
“Oh certo, perché un oggetto pericoloso gli serviva proprio”, commentò Lily in tono un po’ acido rientrando in casa. 
“Io l’ho guidato per anni, quell’oggetto pericoloso”, le fece notare Black mentre lui e i due Potter la seguivano verso la cucina. 
“Sì, ma tu sei tu… Harry è mio figlio e non voglio che si faccia del male”. 
“Ah quindi a me non ci tieni?” piagnucolò Sirius scherzosamente.
Harry e James se la ridevano alle loro spalle. 
“Smettetela di fare le comari”. 
“Io vado a cambiarmi”. Harry corse su per le scale, seguito come sempre dal cagnolino. 
“La cena è pronta, fai in fretta”, lo avvisò la madre. 

 

Dopo cena, i Potter e Sirius si sedettero sul portico per continuare a chiacchierare, i due uomini con una bottiglia di birra ciascuno e Harry col suo inseparabile pacchetto di sigarette.
“Entro la fine di quest’anno riuscirai a smettere di fumare?” chiese James al figlio in tono quasi di rimprovero.
“Non lo so, ma quando sarò meno incasinato potrei provarci”, fu la risposta laconica del figlio, al che nessuno osò commentare. A Lily e James non piaceva essere troppo invadenti o severi - non si sentivano in condizioni di esserlo, un po’ perché Harry era ormai maggiorenne e un po’ perché stavano ancora cercando di costruire un rapporto. Senza contare le sue condizioni mentali instabili. Volevano prima di tutto cercare di essergli amici, anche se non erano sicuri di quanto la cosa potesse funzionare col ruolo di genitori. 
“Dove sei stato oggi?” gli chiese Lily riferendosi all’improvvisa fuga di Harry prima di cena. 
“Alla Tana. Dovevo parlare con Ron ed Hermione e…”. 
“E?” 
“E chiedere a Ginny se… se voleva rimettersi con me”. 
I tre guardarono il ragazzo piacevolmente sorpresi. 
“E lei cosa ha risposto?” 
“Ha detto di sì”, rispose Harry cercando di non mettersi a sorridere come un ebete ma dentro di sé stava urlando dalla contentezza. Almeno qualcosa nella sua vita lo aveva sistemato - lo sperava - e dal canto loro, Sirius, James e Lily non potevano che vederlo come un segno di miglioramento. 
“Quindi tu e Ginny…”, commentò Black con fare pensieroso. “Non pensavo ci fosse qualcosa tra di voi”. 
“Ci siamo messi insieme un paio di anni fa. Poi l’ho lasciata per dare la caccia agli Horcrux. Insomma, non potevo farla aspettare e… Non sapevo nemmeno se sarei tornato”. 
A quelle parole gli altri tre ebbero un sussulto. Perché un ragazzo di appena diciotto anni doveva avere tutti quei pensieri di morte.
“Quindi, questi Horcrux…”, cominciò James con l’intento di scoprire qualcosa di questi famosi Horcrux e di come Harry avesse fatto a sconfiggere Voldemort. Il ragazzo non aveva detto ancora nulla, non aveva raccontato assolutamente niente, né della caccia agli oggetti maledetti di Tom Riddle, né della Foresta Proibita in cui sarebbe dovuto morire né di quando aveva visto i fantasmi di tutte le persone che aveva amato e perso. Loro non avevano insistito, ma chiaramente smaniavano dalla voglia di saperlo. 
Harry però non se la sentiva ancora di raccontarlo, non voleva sconvolgere i genitori e non gli andava di rivangare dei ricordi dolorosi in quella giornata che era andata meglio delle altre. Si maledì per aver tirato fuori l’argomento, tuttavia venne salvato quando l’attenzione di tutti i presenti venne spostata su un animale a quattro zampe che li guardava da distanza; un lupo grigio con intensi occhi scuri. 
Harry, riconoscendo sotto quella pelliccia l’aspetto da Animagus della sua amica, si alzò e le si avvicinò lentamente. 
“Harry”, lo chiamò Lily preoccupata e incredula nel vedere il figlio avvicinarsi a un animale tanto pericoloso. Non capiva come un lupo potesse essere finito da quelle parti. 
“Tranquilli, è solo Karen”, rispose il ragazzo accarezzando il pelo folto dell’animale che improvvisamente cambiò aspetto ergendosi sulle due zampe e infine prese totalmente il volto di Kiki. 
“Sei un Animagus!” esclamò James. 
“Non glielo hai detto, Harry?” chiese lei. “Eppure sei stato tu a chiedermi di diventare Animagi!” 
“Diciamo che mi è passato di mente”. 
I due si avvicinarono al portico e Kiki afferrò subito il pacchetto di sigarette dell’amico rimasto sul tavolo. 
“Quando siete diventati Animagi?” chiese Sirius, anche lui stupito come gli altri accanto a lui. Certo che Harry stava riservando un bel po’ di sorprese ultimamente. 
“Qualche mese fa”. 
“E tu in cosa ti trasformi?” domandò James. 
Harry, anziché rispondere, si trasformò prendendo la forma di un cervo dalle corna corte e il manto color caramello. Era decisamente imponente. James lo guardò con una certa commozione negli occhi. 
“Immagino che non vi siate fatti registrare”, disse Lily il cui tono però non era affatto arrabbiato o contrariato. Anzi. 
“Troppa burocrazia”, rispose semplicemente il figlio. 
“E troppo noioso, fare le cose legalmente”, aggiunse Karen, beccandosi una risata divertita da parte di Sirius e un occhiolino furbesco, al che lei ribatté accarezzandosi il labbro superiore con la punta della lingua. 
“Ti posso parlare?” chiese Harry rivolto all’amica. Lei socchiuse gli occhi incuriosita da quella richiesta ma acconsentì. 
I due entrarono dentro casa e il ragazzo si buttò subito sul divano, lasciando spazio all’amica che gli si sedette vicino. 
Per la seconda volta quel giorno Harry dovette raccontare tutto - o quasi, visto che Karen comunque sapeva già un po’ di cose avendole condivise insieme -. Ma questa volta non fu difficile. Si rese conto che più lui raccontava la cosa più iniziava ad accettarla e meno gli sembrava insormontabile. 
“Sai, lo avevo immaginato”, disse la ragazza quando Harry finì di parlare. “Anche se io avevo pensato che fosse depressione. Però PTSD ha senso, insomma dopo tutto quello che hai passato”. 
Karen si passò i palmi delle mani sui pantaloni neri sentendole sudaticce e piegò una gamba sotto il sedere per stare più comoda e girarsi verso Harry. 
“A proposito di questo…”, fece questi. “Penso di doverti chiedere scusa”. 
“Per cosa?” 
“Sono stato talmente concentrato sul mio, di dolore, che non ho mai pensato al tuo. Insomma, tutto quel tempo eri lì con me, ci siamo ubriacati insieme spesso e… Anche tu hai perso delle persone ma io non ti ho mai chiesto nulla, non ho mai cercato di ascoltarti…”. 
“Harry!” lo fermò lei prendendogli una mano. “Non dire sciocchezze. Non era certo responsabilità tua. Non stavo con te perché tu mi ascoltassi. Stavo con te perché mi piaceva la tua compagnia. Anzi, sono io a doverti chiedere scusa perché, anziché cercare di fermarti e di capire cosa provavi, ho assecondato il tuo dolore. Vedevo in te il dolore che provavo io, ma non avrei dovuto contribuire”. 
Harry sospirò e sorrise all’amica. “Allora diciamo che siamo pari”. 
“Siamo pari”. 
“E, Karen… Siamo amici. Quando avrai bisogno vieni da me”. 
“Anche tu, Harry”. 
I due si abbracciarono d’impulso, sentendo entrambi l’esigenza di concludere quel momento di sincerità con un gesto d’affetto naturale. 
Harry, tra le braccia dell’amica, si sentì sommergere dall’affetto. Quella giornata era stata emotivamente intensa, ma in modo positivo; prima Hermione e Ron, ora Kiki e Ginny con cui si era rimesso insieme. I suoi genitori e Sirius erano di nuovo con lui e sarebbero rimasti, ora ne aveva la certezza. Finalmente le cose stavano tornando al loro posto, finalmente la sua vita avrebbe potuto prendere una giusta piega. 

 

*** 

Eccomi, un po’ in ritardo rispetto al mio solito, ma questa volta con un capitolo più lungo.
Che dire?? C’era da raccontare parecchio qui. Qualche tassello comincio a tornare al suo posto e chissà, forse finalmente Harry avrà la sua meritata pace. 
Ho scritto tante volte il ricongiungimento di Harry e Ginny nella mia testa e volevo che venisse, se non perfetto, almeno commovente ed emozionante. Naturalmente le parole non bastano mai.
Ma sarete voi a dirmelo. 

 

Vi auguro un buon weekend. 
Cactus.

 

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Capitolo 22
*** Figuracce ***


FIGURACCE

 

Quella mattina James si trovò di fronte a una scena piuttosto comica: Harry, a quattro zampe, che scendeva e saliva le scale di casa cercando di convincere il piccolo Felpato a fare altrettanto, per insegnare al cane a usare i gradini. 
James se ne stava in piedi vicino all’ingresso, le braccia incrociate, ridacchiando sotto i baffi.
Sirius lo affiancò poco dopo e rimase anche lui per un po’ a guardare il figlioccio, incuriosito e un po’ confuso.
“Sta sul serio insegnando al cane a fare le scale?” chiese all’amico.
“Sì, ed è abbastanza divertente da vedere”.
“Effettivamente”.
Rimasero ancora per un po’ li a guardare, quando Sirius si voltò verso James e lo guardò con espressione improvvisamente seria.
“Come va, Jamie?”
“Be’, lo vedi anche tu… Finché fa queste cose sembra che stia bene però non so come si senta davvero dentro ed è questo che mi preoccupa…”.
“No. Intendo, come stai tu. Come state tu e Lily”.
James rimase un attimo perplesso da quella domanda venuta fuori tutto d’un tratto. Sirius non era mai stato uno che chiedeva spontaneamente come qualcuno si sentisse, né si mostrava troppo preoccupato delle persone o delle cose. Anche se magari lo era.
“Io… Io sto bene, Sir. Davvero. Certo, sono sempre in pensiero e… a volte mi sveglio la notte e vado in cucina a controllare che Harry non stia di nuovo… Sì, insomma, controllo che Harry sia nel suo letto a dormire”. 

“Jamie, tu e Lily cercate di non mettervi troppo da parte. Lo so che ora il vostro pensiero è su Harry, ma pensate anche a voi stessi perché se voi state male questo non gli gioverà di certo”.
James sorrise all’amico annuendo. Da quando Sirius era diventato così saggio e dispensatore di buoni consigli? Probabilmente invecchiando. 

“Comunque, sei pronto? Dobbiamo andare dai Weasley oggi”.
Potter sospirò; i signori Weasley - questi famosi signori Weasley che lui aveva incrociato solo un paio di volte al San Mungo - li avevano invitati a pranzo a casa loro per Pasqua e aveva dovuto accettare, anche se non se la sentiva molto di stare in mezzo alla gente, specialmente quella che non conosceva. Voleva concentrarsi sulla sua famiglia, su suo figlio. 

Tuttavia in qualche modo si era trovato impossibilitato a rifiutare. 

 “Uff, non so se ho voglia”. 

“Dai, sarà divertente. Il signor Weasley ti piacerà e poi ci saranno anche Remmie e Tonks con il piccolo Teddy. Comunque sia, i signori Weasley adorano Harry, è praticamente un membro della famiglia quindi gli farà piacere stare un po’ con loro”.
“E con Ginny, vorrai dire”. 

“Be’, anche con Ginny, certo”. 

 

Il pranzo dai Weasley era andato meglio di come i Potter avessero previsto; il signor Weasley aveva monopolizzato Lily chiedendole informazioni e funzionalità di alcuni oggetti babbani e lei pazientemente cercava di spiegarlo il più semplicemente possibile. Lui pendeva dalle sue labbra e borbottava “davvero affascinante” a ogni sua frase.
I gemelli invece sembravano essere diventati complici di James e Sirius che avevano preso a raccontare dei loro scherzi ai tempi di Hogwarts facendo ridere gran parte della tavolata e indispettire Percy. Persino Bill - che si era unito al pranzo insieme alla moglie Fleur - aveva sghignazzato sotto i baffi un paio di volte. Anche Tonks non aveva perso tempo a raccontare delle sue marachelle e Andromeda alzava gli occhi al cielo ogni volta che ripensava alle lettere che le venivano mandate per dire dei comportamenti inadeguati della figlia. 

Molly invece sembrava particolarmente felice e ben disposta, era gentile con tutti e aveva preparato un pasto addirittura più buono del solito, il che era tutto dire. 

“Dove sono Harry e Ginny?” chiese all’improvviso la donna. I due giovani si erano ritirati da poco più di mezz’ora, dopo che il pranzo si era concluso e tutti erano rimasti a chiacchierare. “Ron, li vai a chiamare? Sto per tirare fuori il dolce”. 

Ron si allontanò verso le scale, in direzione della camera della sorella. Ma quando aprì la porta si pentì di averlo fatto: le sue orecchie, così come il viso, divennero subito di un acceso color porpora e gli occhi sgranati come due bulbi di fronte alla scena che si era ritrovato davanti: sua sorella stesa nel letto di schiena mezza nuda e il suo migliore amico sopra di lei, anche lui senza maglietta e con la faccia tra le gambe della ragazza a… No, Ron non voleva pensare a quello che le stava facendo.
Appena avevano sentito la porta aprirsi, i due si erano voltati verso di lui e ora lo guardavano con un misto di orrore e imbarazzo. 

Ron richiuse la porta lasciandoli soli. “Io lo uccido”, mormorò Ginny coprendosi la faccia con le mani. Harry, ancora sopra di lei, ridacchiò. Stranamente l’entrata a sorpresa di Ron non lo aveva lasciato troppo sconvolto. 

“Aaaaahhhh! I miei occhi!” aveva preso a urlare Ron nel frattempo, mentre scendeva velocemente le scale al piano inferiore. “I miei occhi, aiuto!! Cosa ho visto!!”
Le sue grida avevano attirato l’attenzione di tutti gli altri che ora lo guardavano con un misto di curiosità e preoccupazione. L’entrata in scena di Ginny che, sporgendosi dal piano superiore contro la ringhiera, gli urlò “Ronald, potresti imparare a bussare!” fece tirare loro le somme  su cosa dovesse essere successo e, naturalmente, scoppiarono a ridere.

“E voi potreste sigillare la porta!” urlò Ron di rimando alla sorella. “E poi si può sapere che diamine… Anzi no, non lo voglio sapere!”

“Ron, se vuoi posso Obliviarti”, gli disse Harry scendendo le scale con tutta calma, rimettendosi la maglietta lungo il tragitto e legandosi meglio i capelli. 

“Hermione, nostro fratello è troppo scandalizzato. Vuoi dirci che ancora non gli hai fatto inzuppare il biscotto?” domandò scherzosamente George guardando la malcapitata che in quel momento arrossì e non disse nulla. 

“Harry, ora che hai attentato alle virtù di nostra sorella dobbiamo ucciderti”, aggiunse Fred cercando di indossare la sua espressione più seria ma per nulla credibile. “Sai, è una questione di onore famigliare”.

“Dipende, Fred”, lo corresse George. “Se ora ha messo un marmocchio nella sua pancia non possiamo lasciare nostra sorella a fare la madre single”.
“Giusto, George”. 

A quelle parole Harry sbiancò e guardò verso il padrino che se la rideva della grossa.
“Ehi!” li richiamò Ginny con sguardo assassino. 

“Sono troppo giovane per diventare nonno”, fece James. 

“Nessuno qui diventerà nonno. O madre”, lo rassicurò Ginny sbuffando. A volte si chiedeva cosa avesse fatto di male per meritarsi quella famiglia di pazzi. 

“Anche perché dopo questa Ron farà di tutto per impedirvelo”. 

“Bill, ti ci metti pure tu?”
“Scusa, ma è troppo divertente”.
“Billy sa divertirsi, a differenza di qualcun altro, vero Perce?”

Percy alzò gli occhi al cielo ma non disse nulla.
In quel momento sopraggiunsero i signori Weasley con un’enorme torta che stavano facendo levitare verso il tavolo e tutti si zittirono subito. La discussione non venne più tirata fuori, ma sarebbe stata difficile da scordare.
“Forza, sedetevi che è il momento del dessert”. 

“Era ora!” esclamarono i gemelli. “Noi dopo dobbiamo tornare al negozio”.

“Ma è Pasqua! Non lavorerete mica per le feste!”

“È business, mamma! Non possiamo permetterci troppe pause altrimenti i clienti non vengono più. E noi sappiamo quanto sono importanti i clienti”.

“Che negozio è?” chiese James incuriosito.

“Fred e George hanno aperto un negozio che vende prodotti per fare scherzi”, spiegò Ginny. 

“Ma è molto più figo di Zonko. Passate a trovarci. Siamo a  Diagon Alley”.

“Vendono anche robe illegali, ma questo non ditelo alla mamma”, sussurrò la ragazza in direzione dei suoceri e di Sirius; quest’ultimo si lasciò andare alla sua tipica risata a latrato.

“Che poi io devo ancora capire come hanno fatto. Non penso che vendendo merendine marinare a Hogwarts abbiano fatto tutti quei soldi”, fece Ron accigliato.

A quelle parole Harry si mosse sulla sedia come se fosse improvvisamente scomodo e assunse un’espressione strana che non sfuggì a Hermione. La ragazza spalancò la bocca improvvisamente consapevole. Harry le fece segno di tacere cercando di non farsi notare, ma quello scambio di sguardi non sfuggì a quelli che erano seduti più vicino a loro, ovvero James, Lily, Sirius, Remus e naturalmente Ginny. Nessuno di loro però aveva intenzione di tradire il ragazzo.

“Harry, tu...”.

“Si però non parliamone qui”.

“Hai finanziato tu il negozio dei miei fratelli?”

Harry scrutò lo sguardo della sua ragazza cercando di decifrare quello che stava pensando. Sperava non fosse arrabbiata. Certo, lei non era Molly Weasley ma Harry non era sicuro di cosa ne potesse pensare. 

“Be’, secondo te perché non mi fanno mai pagare quando vado da loro?”

Dalla parte opposta alla sua, James e Lily sorridevano al figlio impercettibilmente ma teneramente. 

 

Il pranzo proseguí tranquillamente e serenamente, con i gemelli che se ne andarono poco dopo il dessert e anche Bill e Fleur si sarebbero volentieri ritirati a Villa Conchiglia per godersi il loro giorno di vacanza, ma mollare così mamma Molly non era sembrato corretto, specie ora che la francese iniziava a entrare nelle sue grazie. 

Harry, invece, con la scusa della sigaretta, uscì fuori. Sentiva il bisogno di prendere una boccata d’aria. Qualcosa iniziava ad agitarsi dentro di lui; forse la presenza dei suoi genitori e i Weasley, tutti insieme nella stessa stanza a parlare e ridere come fosse la cosa più normale del mondo quando non lo era. Almeno per lui. Temeva ancora di potersi svegliare e scoprire che era tutto solo un sogno. Magari nel sottoscala di Privet Drive. 

Proprio quando i suoi pensieri stavano per partire per la tangente e probabilmente mandarlo ancora più in confusione, vide venirgli incontro Tonks con il piccolo Ted fra le braccia. Si era scordato che i due erano usciti poco prima perché il bambino aveva iniziato a piangere, forse agitato dalle troppe voci che sentiva. Ma ora pareva che Teddy fosse più tranquillo, anzi, iniziò a ridere non appena vide Harry e i suoi capelli cambiarono colore in blu. O forse semplicemente il suo ridacchiare era dovuto al saltellare allegro della madre che lo stringeva tra le braccia. Ma Harry si sentí immediatamente raddolcito e più rilassato. 

Gettò a terra la sigaretta fumata a metà e salutò i due. 

“Vuoi prenderlo in braccio?” gli chiese Tonks. Harry allungò le braccia e il bambino quasi gli si fiondò addosso. 

“Sta iniziando a camminare, sai?” 

“Davvero? Wow! Scommetto che sarai precoce in tutto quello che farai”. 

“Lo spero. Spero prenda da Remus da quel punto di vista. Io non ero molto portata per lo studio”. 

“Ma sei un bravo Auror”. 

“Ti ringrazio. Potresti esserlo anche tu”. 

Harry sospirò mettendo Teddy a terra e tenendolo per le manine mentre provava a farlo camminare. Pensò a qualche altra cosa che potesse dire ma fu la ragazza ad anticiparlo. 

“Sono contenta che tu sia il padrino di Teddy. Remus ha fatto un’ottima scelta. Sei un bravo ragazzo, Harry”.

Harry le sorrise grato perché frasi come quelle erano ciò di cui aveva bisogno anche se lui non era tanto sicuro della loro veridicità. Sapeva che chi gliele diceva era sincero, lo vedeva in quel momento nello sguardo di Tonks, il problema era cercare di convincere anche sé stesso. In quegli ultimi mesi aveva fatto tutto tranne che essere un bravo ragazzo, e men che meno un buon padrino per Teddy. 

Prima che potesse dire qualsiasi cosa però, la porta si spalancò e gli altri uscirono facendo parecchio baccano. 

“Facciamo una partita a quidditch!” propose Ron entusiasta. 

“Oh no. Mi sa che hai detto le parole magiche”, fece Sirius guardando James a cui si erano illuminati subito gli occhi. 

“È da una vita che non gioco a quidditch”. 

“Allora devi riprendere. Harry, tu giochi con noi?” Ron si rivolse all’amico non appena lo vide arrivare. 

“A cosa?” 

“A quidditch naturalmente”.

“No, io stavolta passo”.

“Come sarebbe a dire?”

James, Lily e Sirius si voltarono a guardarlo ma solo i primi due sembravano incuriositi. Sirius lo guardava perplesso; lui ricordava bene quanto Harry amasse il quidditch e quanto giocasse bene. Non rifiutava mai la proposta di una partita. 

“Con te in squadra vincerei di sicuro”, cercò di convincerlo Ron, puntando sul suo faccino da cane bastonato e il tono di pietà usato e a cui Harry non poteva dire di no in quanto il suo dovere di migliore amico lo avrebbe fatto sentire in colpa.

Ginny però, sembrando capire la diatriba di emozioni che si stava svolgendo nella testa del ragazzo, a giudicare dal suo sguardo tormentato, gli andò in soccorso. 

“Ragazzi, la ferita di Harry non è ancora guarita del tutto. È meglio se lui non gioca. Sarà per la prossima volta”.

A quello nessuno poté replicare. Harry la ringraziò con un semplice sguardo dolce e lei gli rispose con un sorriso, senza fare domande o dire nulla. 

E così, a volare in cielo attorno alla Tana, furono Ron, Ginny, Bill e Fleur - in due squadre diverse perché volevano vedere chi era il migliore tra loro - James, Sirius e persino Percy ed Hermione anche se erano i più scettici tra tutti. Un po’ titubante, più che altro per la sua imbranataggine, si aggiunse anche Tonks. Le squadre naturalmente erano più ridotte e anche impari, ma con James e Ginny in fazioni opposte c’era speranza per entrambe. 

Chi era sprovvisto di scopa ne ebbe una in prestito e la partita iniziò senza troppe perdite di tempo. 

“Ti posso parlare?” si sentì chiedere Harry dalla voce calda di Remus. Il ragazzo annuì e il licantropo affidò Teddy a Lily, seduta con Andromeda a guardare la partita. Poi gli fece cenno di entrare in casa e lo precedette in salotto, passando accanto a Molly che sistemava la cucina facendo volare oggetti ovunque. 

“Come stai, Harry?” gli chiese il suo ex professore sedendosi sulla poltrona. 

“Bene”. Aveva perso il conto di quante persone gli avessero ormai fatto quella domanda.

Remus inarcò un sopracciglio osservandolo di sbieco e non credendogli minimamente. 

“James e Lily mi hanno detto di... Insomma, di quello che stai passando”. 

“Certo che te lo hanno detto”. Harry non era sicuro di quante persone volesse che fossero messe a conoscenza della sua condizione, ma immaginava che finché era Remus andava ancora bene. E poi, James e Lily avevano bisogno anche loro di confidarsi e sfogarsi con qualcuno - un figlio malato non era facile da gestire da soli - e quindi Remus e Sirius entravano in gioco. Malato. Così si sentiva. E gli dispiaceva aver gettato addosso ai suoi genitori - giovani e inesperti - un peso del genere. 

“So che probabilmente te lo sarai sentito dire da tanti, ma se ti serve parlarne, puoi contare su di me. Questa non è una cosa che devi affrontare da solo. Non puoi affrontarla da solo”.

“Lo so”. 

“Forse ti sembrerà che nessuno ti può capire, ma credimi, non è così. Anche solo parlarne aiuta molto. Con Ron, con Hermione e Ginny. Non tirarti indietro”. 

“È che non voglio che si preoccupino. Non voglio spaventarli”. 

Remus emise un profondo respiro alla ricerca delle parole giuste. Capiva cosa attanagliava il ragazzo, in qualche modo ci era passato pure lui. 

“Penso che la guerra contro Voldemort sia stata abbastanza spaventosa per tutti. Credimi, se hanno affrontato lui non si tireranno di certo indietro ora”. 

Harry sorrise leggermente e alzò lo sguardo sul professore passandosi una mano tra i capelli che erano sfuggiti al codino. 

“Sai, anche io ho avuto i miei momenti bui. Non sono sempre stato bene... psicologicamente parlando”. 

Harry questa volta guardò l’uomo seduto di fronte a lui con sguardo incredulo e più interessato. 

“Avere una condizione fisica può avere ripercussioni anche sulla psiche. Sentirsi inadatti, sbagliati, farsi schifo, pensare di non meritare nessuno. Ci sono passato. Ma i miei amici, tuo padre e Sirius, mi hanno aiutato moltissimo. Anche tua madre, semplicemente la loro presenza mi è stata di conforto. Averli come amici e capire che per loro in me non c’era nulla di sbagliato. Quindi, non sottovalutare gli amici. E parlane anche con i tuoi genitori. So che è l’unica cosa che vogliono. Che tu ti confidi con loro, che gli parli e che gli permetti di starti vicino. Probabilmente ti sembreranno inesperti perché sono giovani e, credimi, anche io sarò terrorizzato quando Teddy sarà adolescente, ma non ti abbandoneranno mai”. 

“È che io non voglio che... Insomma, sono appena resuscitati e... l’ultima volta che mi hanno visto avevo un anno e non sapevo nemmeno parlare, mentre ora ho quasi la loro età e sto male”. 

“La vostra è una situazione peculiare ma non significa che debba fallire. Io e Sirius aiuteremo. E comunque non è un problema tuo, ora, preoccuparti degli altri. Lascia che siano gli altri, stavolta,  a preoccuparsi per te. Lascia che siano James e Lily a essere i tuoi genitori”.

Harry fissò di nuovo i propri occhi verdi in quelli ambra del licantropo, le sue parole che lo scaldavano da dentro.

“Io non voglio sentirmi così. Ma non so come gestirlo. Questa volta è una cosa mia, è una cosa di cui dovrei avere il controllo e invece non ce l’ho. Almeno Voldemort era una persona, bastava un Avada Kedavra ed era sparito. Ma questo...”.

“Lo so. La mente, le emozioni, possono davvero essere una piaga da gestire. Ci vorrà del tempo. Ma io so che tu sei forte e che non ti lascerai abbattere facilmente. Sei un combattente, Harry. E ti stimo. Davvero tanto”. 

Remus non avrebbe mai dimenticato quando quel ragazzo, appena maggiorenne, lo aveva preso a male parole per aver deciso di abbandonare Tonks, dimostrandosi essere molto più saggio e maturo di quanto non lo fosse lui a trentasette anni. E non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza per averlo convinto a tornare. 

 

I ragazzi che avevano appena finito di giocare a quidditch atterrarono delicatamente a terra sudati e stanchi. 

James si girò verso Ginny, vicina a lui e col boccino in mano. 

“Complimenti. Sei brava”. Si sentiva un po’ in imbarazzo per essere stato sconfitto. 

“Grazie. Ma gioco a quidditch quasi tutti i giorni, quindi ero avvantaggiata”. 

“Devo riprendere la mano”. 

“Sai, sei ancora una leggenda a Hogwarts. Harry lo sa e credo che anche questo lo abbia spinto a impegnarsi nel quidditch e ad amarlo. Harry è davvero bravo. Grifondoro ha vinto quasi sempre con lui come cercatore”.

“Quindi gioca anche lui?” chiese James con occhi luminosi. Era felice di sapere che suo figlio avesse ereditato così tante cose da lui. Quantomeno quelle di cui andava orgoglioso. 

“Certo. Ed è il migliore”. 

“E perché non ha voluto giocare stavolta? Non è per la ferita, vero?” 

La ragazza scosse il capo. “Non lo so davvero. Credo sia per tutto quello che ha passato. Forse non se la sentiva. Non ha più ripreso in mano la scopa. Magari proverò a indagare e... a convincerlo”.

“Non ti preoccupare. Non voglio forzarlo a fare nulla”. 

Ginny osservò James allontanarsi e andare incontro alla moglie, notando la sua postura un po’ abbattuta. Era la prima volta che si sentiva dispiaciuta di aver sconfitto qualcuno a quidditch. Ma era stato più forte di lei, non aveva potuto lasciarlo vincere. Tuttavia, prese la decisione che avrebbe aiutato il suo ragazzo ad avvicinarsi ai suoi genitori. Lo doveva a lui e anche a quei due che le piacevano così tanto e che Merlino solo sapeva quanto si sentissero inadatti nella figura di genitori in quel momento. 

 

***

Eccomi di nuovo qua, con un capitolo più casalingo e tranquillo. No, nemmeno Remus poteva tirarsi indietro dal farsi una bella chiacchierata con Harry. Ormai lo stanno facendo tutti XD Il ragazzo sarà pure stufo.
Harry: Be’, sei tu l’autrice di questa storia. Dimmelo tu. 

Cactus: Zitto.
Harry: E comunque hai un nickname assurdo. 

*Lancia Harry in uno sgabuzzino* Okay, grazie per essere arrivati fino a qui. Fatemi sapere cosa ne pensate e ci sentiamo sabato prossimo. 

 

Cactus.


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Capitolo 23
*** Lacrime ***


LACRIME 

 

Harry era in camera sua, seduto a terra a gambe incrociate e chino sul baule nel tentativo di riordinarlo. C’erano un sacco di cianfrusaglie lì dentro che non riordinava da un po’. Gli era parso di aver sentito al tatto persino una chewing-gum appiccicata sul fondo. 

L’indomani ripartiva per Hogwarts e non era molto sicuro di come si sentisse; da un lato Hogwarts era sempre stata la sua casa ed era felice di rivederla, insieme a Hermione, Ron e Ginny coi quali doveva riallacciare un po’ i rapporti. Dall’altra però si sentiva in colpa a lasciare i suoi genitori. Sapeva quanto dovesse ancora lavorare sul rapporto con loro. Aveva però bisogno di una pausa, di rendersi conto che se non si vedevano per un po’ loro non sarebbero scomparsi, ma sarebbero rimasti lì ad aspettarlo. A casa. 

Insomma, era da un po’ di giorni che non avrebbe più saputo dare una definizione al marasma di sentimenti che provava. 

E poi entro due mesi anche quell’anno di studi si sarebbe concluso e allora avrebbero avuto tutto il tempo del mondo. 

“Harry?” Si sentì chiamare dalla soglia della porta. Suo padre e sua madre lo stavano guardando quasi titubanti. “Possiamo parlare?” Il ragazzo annuì incerto. 

James e Lily si sedettero accanto a lui. Harry richiuse piano il baule. C’era della tensione nell’aria. 

James prese un grosso respiro prima di cominciare.

“Volevamo dirti che io e tua madre siamo orgogliosi di te”. 

Harry puntò i suoi intensi occhi verdi sui volti dei genitori, incuriosito da dove quella conversazione sarebbe andata a parare. 

“E non perché hai sconfitto Voldemort”, continuò l’altro. “Per quello ci pensa già tutto il mondo magico. Siamo orgogliosi ad averti come nostro figlio e non avrei potuto desiderare un ragazzo migliore. Anche se non ti abbiamo cresciuto noi - e Merlino solo sa quanto questo mi dispiaccia e quanto mi senta in colpa - sei venuto fuori splendidamente. Siamo orgogliosi perché sei un amico fantastico per Ron ed Hermione e Kiki, perché sei un ragazzo eccezionale per Ginny, perché non vuoi far soffrire nessuno, nemmeno noi”. 

“Lo vediamo che cerchi ancora di tenerti tutto dentro per non spaventarci”, si intromise Lily. “Ma ti assicuro che non è necessario. Possiamo sopportarlo. Vogliamo solo che tu sia te stesso. Se devi soffrire, soffri. Ne hai tutto il diritto. Noi non sappiamo tutto quello che hai dovuto passare, possiamo solo immaginarlo, e non ti costringeremo a raccontarcelo, ma ti prego, non mandare giù tutto”.

Harry non disse niente. Capì che era il suo turno di parlare ma non riuscì a dire nulla. Rimase in silenzio e semmai il silenzio potesse fare rumore, be’, quello era un silenzio che urlava. Lui voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ci riusciva proprio. La sua bocca era come intorpidita, le parole avevano perso di significato, la lingua si era incollata al palato. 

Così fece l’unica cosa sensata che gli venne in mente, l’unica cosa che sentiva di voler fare - e che avrebbe dovuto fare già mesi prima - l’unica risposta che poteva dare. 

Pianse. 

Fu come un temporale preannunciato da tuoni e piccole gocce di pioggia che in pochi minuti si trasformano in gocce grandi quanto un’unghia; gli occhi gli si riempirono di lacrime prima ancora che potesse accorgersene - figurarsi trattenerle - e mentre ancora guardava i genitori le lacrime cominciarono a scendere, una dopo l’altra, infradiciandogli le guance. Non disse nulla e, se non fosse stato per le lacrime, il suo volto sarebbe rimasto impassibile. 

“Oh”, sospirò James sorpreso. Di certo non si erano aspettati quella reazione. Ma quando James capì che le lacrime stavano per diventare una tempesta, si protese verso Harry e lo strinse forte al petto. 

Harry si lasciò andare; buttò le braccia attorno al collo del padre e affondò la faccia nell’incavo della sua clavicola. Fu allora che cominciò a singhiozzare, scosso da tremiti. Quelle erano probabilmente tutte le lacrime che non aveva versato in diciotto anni di vita. 

Ma fu soprattutto quello che provava dentro a scuoterlo in una maniera che quasi lo spaventò: una  cascata di emozioni tutte accavallate e confuse, come un paio di cuffie del vecchio Walkman di Dudley che si attorcigliavano quando le teneva in tasca e che gettava sempre a terra in preda alla rabbia perché non riusciva a districarle. Sollievo, malinconia, paura, ansia... ma anche tenerezza e una certa gioia sia per quello che gli avevano appena detto i suoi genitori sia perché c’era suo padre a tenerlo tra le braccia e a sussurrargli cose come “lascia andare”, “sfogati”, “andrà tutto bene”, mentre sua madre gli accarezzava i capelli piano. 

Pianse. 

Pianse ancora.

E ancora. 

E ancora. 

Non sapeva quante lacrime una persona potesse piangere in una volta sola. Ma ad un certo punto si fermò, le lacrime smisero di uscire, i singhiozzi si fermarono. Tuttavia non si staccò dal padre. Non subito almeno. Voleva ancora godersi quel torpore, il suono ritmico del suo cuore che batteva, le sue braccia forti. Non sapeva quanto tempo fosse passato, gli sembravano ore ma dovevano essere solo pochi minuti. 

“Stai bene?” Gli chiese ad un tratto James. 

Solo allora Harry si decise ad alzare il capo guardando i genitori con gli occhi che, bagnati di lacrime, erano ancora più verdi. Sembravano foglie nella rugiada. 

“Sì. Scusa, ti ho bagnato la maglietta”. 

James gli sorrise. “Al diavolo la maglietta. Se vuoi puoi pure soffiartici il naso”. 

Harry ridacchiò. 

“Non devi ritornare a Hogwarts se non te la senti”, gli disse Lily. 

“No, va bene. Ci torno. E poi, ci vedremo a Hogsmeade”. 

“Certo”. 

Nessuno di loro era sicuro se dovevano ignorare quello che era appena successo, accantonandolo come un momento intimo in cui Harry si era concesso di lasciarsi andare, o se invece voleva parlarne. James e Lily erano così spaventati e Harry così incerto. 

Il ragazzo si asciugò le ultime lacrime rimaste con la manica della felpa e poi guardò di nuovo i genitori. 

“Non l’ho mai fatto, questo. Non ho mai pianto”.

“Oh”. 

Almeno ora sapevano qualcosa della vita di loro figlio; un piccolo dettaglio insignificante ma che per loro valeva il mondo. 

“Puoi rifarlo tutte le volte che vorrai”, gli disse Lily. “Quando ne sentirai il bisogno”. 

Harry annuì. “Lo so”.

 

 

Harry arrivò alla stazione di King’s Cross dove si ricongiunse con Ron, Hermione e Ginny. Diversi sguardi si voltarono nella sua direzione, non sapeva se per il suo essere il Salvatore del Mondo Magico o se era perché le persone che lo accompagnavano dovevano essere... Be’, morte. In ogni caso insieme formavano un bel gruppetto.

Ma presto ignorò tutti gli sguardi perché i suoi amici lo coinvolsero nelle loro chiacchiere. Anche Kiki lì raggiunse, col suo solito sorriso e i capelli raccolti in una coda alta che la invecchiava un po’. 

“Sei meglio dal vivo che non nelle foto segnaletiche”, disse questa rivolta a Sirius. L’uomo alzò un sopracciglio perplesso. 

“Non era il mio profilo migliore”. 

“Ah allora dovrò buttare quella che conservo nel baule e fartene un’altra”. La ragazza rise contagiando anche l’altro. Sirius dovette ammettere che Kiki era una ragazza piuttosto particolare, decisamente diversa da Hermione e Ginny. Era un po’... Be’, come quelle con le quali usciva lui quando era più giovane: maliziosa, senza peli sulla lingua, spigliata, ironica e... carina. Non un carina casuale. Quei pantaloni scuri sicuramente non li aveva messi perché non aveva trovato altro nell’armadio. Le stavano bene e lei lo sapeva. 

E... e aveva diciotto anni ed era amica del suo figlioccio. 

Sirius, ripigliati e non fissare una ragazzina.

“Comunque ora che si avvicinano i M.A.G.O inizio a essere terrorizzato”, esordì Ron distraendo gli altri due dalle loro occhiate. 

“Se studiassi regolarmente non lo saresti”. 

“Hermione, mi presterai i tuoi appunti, vero?”

James, poco interessato a quei discorsi, guardò verso Ginny che, come se avesse percepito la sua occhiata, alzò lo sguardo su di lui e vide che la stava chiamando in parte. 

I due si allontanarono senza farsi notare, la voce di Ron in sottofondo. 

“Mi prometti che ti prenderai cura di mio figlio?” le chiese lui parlando in tono basso e a Ginny bastò percepire il suo tono serio, anche se tranquillo, per capire quanto l’uomo ci tenesse a quella promessa. Senza contare che era andato subito al dunque. 

“Certo che te lo prometto”, rispose lei decisa. “Non gli succederà nulla”. 

“Grazie”. 

“E di cosa? Conosco Harry, si riprenderà. E se non dovesse farlo con le buone, ci penserò io con le cattive”. Sorrise all’ultima frase ma James intuì che lei sarebbe stata capace di farlo. 

I due tornarono dagli altri, nella testa di James vorticavano solo due parole: “conosco Harry”. Certo che lo conosceva, meglio di lui. E, anche se era felice che suo figlio avesse la ragazza, gli dispiaceva che lei lo conoscesse da più tempo di lui. Non che fosse colpa sua ma proprio perché non era colpa sua forse faceva ancora più male. 

“Che cosa vi siete detti tu e mio padre prima?” chiese Harry alla propria ragazza quando furono saliti sul treno e rimasti leggermente indietro lasciando che fossero Ron, Hermione e Kiki a cercare uno scompartimento libero. 

“Come?”

“Non fare finta di niente. Vi ho visti che vi allontanavate”.

Ginny cercò in fretta una risposta sensata da dare - non era sicura che James volesse far sapere al figlio quello che le aveva chiesto - ma per fortuna Ron ed Hermione li chiamarono perché avevano trovato uno scompartimento vuoto. Quella conversazione finì lì. 

“Io te lo devo chiedere, Harry”, comincio Hermione in un tono che anticipava che non avrebbe ammesso scuse. Il ragazzo, mentre si sedeva di fronte a lei,  guardò l’amica un po’ preoccupato perché quando qualcuno iniziava con una frase di quel tipo aveva già imparato che era una domanda un po’ scomoda. Anche Kiki, accomodatasi vicino al finestrino, lanciò un’occhiata scettica all’altra ragazza. 

“Hai finanziato coi tuoi soldi il negozio dei gemelli?” 

Harry per poco non cascò dal sedile; si era immaginato una domanda peggiore ma immaginava che ormai una cosa del genere poteva essere rivelata. 

“Ho usato i soldi del Torneo Tremaghi”. 

“Cosa?! Hai pagato il negozio dei miei fratelli?!” esclamò Ron sconvolto. 

“Be’, è un bel negozio”, osservò Kiki, ora tornando alla sua aria indifferente. 

In quale modo la conversazione sarebbe potuta proseguire non si scoprì mai perché Neville e Luna aprirono la porta dello scompartimento e sorrisero radiosi. 

“Possiamo sederci con voi? Seamus ha fatto cadere delle caccabombe nel suo scompartimento e c’è puzza ovunque”. 

“Io penso che sia un buon odore. Mi ricorda quello del terriccio fresco in cui allevavo i miei Pescorvuncoli”.

I cinque fecero spazio ai nuovi arrivati e il viaggio proseguì in tutta tranquillità.

 

*** 

Ci tenevo molto affinché la scena di Harry che piange venisse emotivamente bene. Spero di esserci riuscita ma me lo direte voi.

Ho un po’ paura di stare dando troppo spazio a James e poco a Lily nel loro rapporto con Harry. Spero di riuscire a recuperare un po’ questa cosa più avanti. Insomma, mi dispiacerebbe far percepire che Harry si senta più legato al padre che alla madre. Nel mio immaginario lui li ama allo stesso modo. 

I Pescorvuncoli sono una mia invenzione, non esistono nel mondo di zia Jo xD

Ma qualcuno l’ha spottata la nuova ship? ^_^

 

Alla prossima, 

Cactus

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Capitolo 24
*** Conseguenze ***


CONSEGUENZE

 

“È come se non avessi più nulla da fare.

Dopo aver sconfitto Voldemort, è come se la mia 

Esistenza avesse raggiunto il suo scopo”.

“Ti senti come se la tua vita non avesse più senso. 

Prima avevi un obiettivo preciso ma 

ora che lo hai portato a termine  hai un mondo di strade davanti a te

Che puoi prendere e non sai cosa fare”.

“Esatto”.

“Ti devi abituare”.

 

Harry rotolò sull’altro lato del letto matrimoniale, quello libero, e si sedette buttando le gambe oltre il bordo. Ginny gli si avvicinò e gli accarezzò la schiena pallida.

“Domani mattina  non abbiamo lezioni. Io, Ron ed Hermione pensavamo di fare una sessione di studio. Ti unisci?”

Harry si girò verso la ragazza e le prese la mano. “Sì ma vi raggiungo più tardi. Domattina devo vedere la dottoressa”.

Ginny abbassò lo sguardo come fosse imbarazzata. “Okay. Ci trovi in biblioteca”.

Harry si alzò e iniziò a cercare i propri vestiti caduti da qualche parte per terra e sparpagliati insieme a quelli della Weasley. 

“Harry!” Lo richiamò lei. “Come stai?” 

Il ragazzo salì di nuovo sul letto e le sorrise, chinandosi su di lei. “Sto bene. Smettetela di preoccuparvi”.

“Lo sai che non possiamo”.

Harry non disse nulla ma finì di vestirsi e raccolse i vestiti di Ginny lanciandoglieli sul letto. 

“Forza o farai tardi agli allenamenti”.

“Perché non torni in squadra?” gli chiese lei allora in tono del tutto casuale mettendosi addosso la maglia. 

Harry si rabbuiò ma cercò di sembrare tranquillo. “Non ne ho molta voglia. E poi, non siete già al completo?”

“Lo sai che non vedo l’ora di trovare un motivo valido per buttare Alison dalla squadra”.

“Lei è una brava cacciatrice”.

“Lo sono anche io. E tu sei un bravo cercatore”.

“Non credo la squadra sarebbe felice che io tornassi all’improvviso e a scapito di qualcun altro”.

“Non so se lo hai notato, ma la gente ti adora. Credo tu non possa fare più nulla ormai che li scontenti”. 

Harry sospirò e, appena fini di allacciarsi le scarpe, fece il giro del letto per raggiungere la ragazza. “Non mi convincerai a tornare in squadra”. 

“Non voglio convincerti. Non devi giocare se non ti va”. 

“Gin, ci sono alcune cose che fanno ancora male”. 

Ginny mise le mani sui fianchi del ragazzo e si strinse a lui. “Va bene”, gli sussurrò. “Ma mi prometti che non terrai più segreti?”

“Te lo prometto”. 

Si baciarono per un po’ prima di lasciare la Stanza delle Necessità e tornare ai propri affari, Ginny al campo di allenamento e Harry... be’, Harry tornò indietro al settimo piano e chiese alla Stanza di dargli la sua solita palestra. 

 

Harry camminava per gli ampi corridoi di Hogwarts quasi deserti - erano tutti a lezione o in giardino visto il bel tempo - diretto verso la biblioteca. Stava tornando dalla seduta con la dottoressa McNamara e non è che avesse granché voglia di mettersi a studiare, ma sapeva che Hermione non avrebbe perso occasione di rimproverarlo se avesse saltato la seduta di studio. Ed inoltre, ci teneva anche lui passare i M.A.G.O. 

“Kiki!” esclamò incrociando lo sguardo dell’amica a pochi metri da lui. “Dove stai andando?” 

“A cercarmi qualcosa da fare”. 

“Perché non vieni a studiare con me in biblioteca? Ci sono anche Ron, Hermione e Ginny”. 

La ragazza soppesò bene quell’invito, indecisa se accettare o meno. Qualcosa le diceva che non corresse buon sangue tra lei e gli amici di Harry. 

“Non lo so. Non credo di stargli molto simpatica”.

“Ma non dire sciocchezze. Dai, vieni”. 

Prima che lei potesse aggiungere altro, il ragazzo la prese per un braccio e la trascinò verso la biblioteca a pochi metri da loro. Karen non trovò la forza di controbattere, men che meno quando vedeva Harry così di buon umore.

“Ciao!” salutò il ragazzo non appena raggiunsero il tavolo occupato dai tre. “Kiki si aggiunge a noi. Non vi dispiace, vero?” 

I due Weasley ed Hermione si guardarono perplessi e un po’ scontenti, ma non trovarono il coraggio di lamentarsi. Hermione iniziò a spostare le proprie cose con fare scocciato per fare spazio all’altra. 

Nessuno aggiunse altro e lo studio prosegui in silenzio. 

“Come è andata, Harry?” Chiese Ginny a un certo punto, alzando lo sguardo verso il proprio ragazzo. Tutti capirono a cosa si stesse riferendo e in men che non si dica Harry si trovò altre tre paia di occhi puntati addosso. 

“Bene”, fu la sua risposta laconica. Non avrebbe aggiunto nulla di più. Gli amici sapevano che le sedute dalla psicologa erano solo affar suo e riservate, ma non smettevano mai di sperare che rivelasse qualcosa di più. Lo avevano trascurato già una volta, non avrebbero ripetuto di nuovo lo stesso errore. 

“Perché ogni anno Pozioni diventa sempre più difficile?” si lamentò Ron, accasciandosi sulla sedia. 

“E meno male che Lumacorno almeno è simpatico”. 

“Be’, io non vedo l’ora che questa tortura sia finita”. 

A quell’ora la biblioteca non era troppo piena ma Madame Pince fulminò comunque il loro tavolo per intimare loro di fare silenzio. 

Dopo una mezz’ora Ginny si alzò dal tavolo perché doveva correre agli allenamenti. Quel weekend ci sarebbe stata la partita contro Corvonero e dovevano prepararsi. Salutò Harry con un bacio, sotto lo sguardo schifato del fratello, e si allontanò velocemente. 

Ma passò solo qualche secondo prima che anche Kiki si alzasse e corresse via senza dire nulla. In corridoio, richiamò la rossa prima che svoltasse l’angolo. 

“Che c’è?” 

Kiki la raggiunse in quattro falcate. “Volevo solo dirti di non vedermi come una minaccia. Tra te e Harry, intendo. Non sono interessata a lui in quel senso”. 

“Lo so”. 

“Okay”. 

Ginny si sistemò meglio la borsa in spalla e cercò di raccogliere le idee per quello che stava per dire. 

“Non sono una persona gelosa. Non tendo ad arrabbiarmi se vedo che Harry parla con altre ragazze. E poi, so distinguere lo sguardo che usa per me e quello che usa per te”. 

“D’accordo. Ottimo allora”. 

La rossa stava per allontanarsi di nuovo quando parve ripensarci e tornò di nuovo a guardare Kiki. 

“In ospedale... non avevi tutti i torti. L’ho lasciato andare troppo facilmente, non avevo capito. È solo che...”.

“Non ti preoccupare. Non avrei dovuto essere così dura” 

“Sono contenta che almeno abbia avuto te. Qualcuno”. 

Karen sorrise immaginando quanto dire quelle cose costasse sforzo alla ragazza di fronte a lei. 

“Amiche?” le chiese porgendole la mano.

Ginny la afferrò prontamente e la strinse con decisione. “Amiche”.

 

Harry e Ron camminavano chiacchierando e ridendo diretti verso la Sala Grande per la colazione. Ron se ne era uscito con qualcuna delle sue battute idiote e Harry non si era potuto trattenere dal ridacchiare. Sembrava prospettarsi una giornata abbastanza buona. 

Stavano scendendo le ultime scale quando incapparono nella preside McGranitt accompagnata dal Ministro della Magia. Entrambi mostravano delle espressioni tutt’altro che rilassate. 

“Signor Potter, Signor Weasley”, salutò la professoressa arricciando le labbra. “Immagino vi starete dirigendo a fare colazione”. 

“Sì, professoressa... ehm, Preside”, fu la risposta mesta di Ron. Quella donna riusciva a mettergli ancora soggezione, nonostante la guerra gli avesse concesso di vedere il suo lato umano e vulnerabile. 

“Non vogliamo perderci i biscotti migliori”, aggiunse Harry facendo per allontanarsi. 

“Ehm, Harry. Vorrei parlare un attimo con te”, disse allora Kingsley. 

Harry si irrigidì senza quasi accorgersene e guardò Ron con sguardo serio. “Vai pure. Vi raggiungo subito”. 

“Okay, ti tengo il posto, amico”. 

Ron si allontanò varcando presto le enormi porte della Sala Grande, ma non prima di aver lanciato un’occhiata preoccupata all’amico, un’occhiata che però sembrava voler dire qualcos’altro. 

“Minerva, se puoi lasciarci soli...”, disse in tono gentile il Ministro, guardando la donna accanto a lui, senza perdere la sua tipica cordialità ma allo stesso tempo deciso. 

La professoressa parve rimanere un po’ risentita da quella richiesta, come se non se lo aspettasse, ma non le restò fare altro che lasciare i due. 

“Potter, sono contenta tu stia bene”, disse a Harry prima di allontanarsi. 

“La ringrazio, Preside”, rispose lui. 

“Harry”, cominciò Kingsley, osservando l’ultimo ragazzino del primo anno che entrava nella Sala Grande. In corridoio erano rimasti soltanto lui e Potter. Il Ministro gli si avvicinò e dallo sguardo scuro che esibiva Harry capì che forse, qualsiasi cosa avesse avuto da dirgli, non doveva essere felice. Sperava solo non si trattasse di un altro Mago Oscuro da debellare. 

“A proposito del lavoro che ti avevo affidato”. 

Harry aprì bocca per dire qualcosa ma la richiuse subito, notando che Kingsley avesse altro da dirgli. E no, non doveva essere la richiesta di andare a catturare qualche altro Mangiamorte. 

“A proposito di alcuni Mangiamorte che abbiamo trovato... stranamente morti”. 

“Oh”. 

Harry se li era scordati. Come aveva fatto a scordarseli? Immaginava che con tutto quello che era successo negli ultimi giorni poteva anche permetterselo. In fondo, dei Mangiamorte non sono il primo dei suoi pensieri. 

“Uno è morto a causa delle maledizioni cruciatus e due sono morti bruciati... vivi” .

Harry spostò lo sguardo verso la statua del gargoyle che si trovava dietro il Ministro trovandola improvvisamente interessante. 

“Io so che tu ne sai qualcosa quindi non mentire”. Il tono di Kingsley non ammetteva molte scappatoie. 

Harry non aveva mai pensato alle effettive conseguenze di quello che aveva fatto a quei Mangiamorte. Per lui non valevano la briga, né la pena. Erano Mangiamorte, avevano commesso dei crimini, ma... era stato davvero giusto punirli così?

“Abbiamo usato degli incantesimi di rivelazione e l’ultima bacchetta usata su quei cadaveri era la tua”. 

Certo che era la sua. Non aveva mai pensato che il Ministero si sarebbe fatto così furbo. Soprattutto, non aveva mai pensato che qualcuno si sarebbe preso la briga di indagare su come fossero morti dei Mangiamorte. 

“Ti prego, Harry, dimmi che hai un’ottima scusa”. 

“Se le dicessi che è stata auto-difesa mi crederebbe?”

“Uno non usa le cruciatus per legittima difesa”. 

No, non lo fa. Uno usa le cruciatus per fare volontariamente del male. 

“Non scherzare, Harry. Questa è una questione seria. Ora che Voldemort è morto stiamo cercando di fare le cose come si devono al Ministero, di fare tutto nella legalità e impedire che atti ingiusti vengano fatti passare lisci”. 

Harry inarcò un sopracciglio; se questa politica fosse stata applicata in maniera coerente e corretta anche qualche anno fa lui avrebbe passato meno guai.

“Andare a caccia di Mangiamorte da soli è contro le regole. Questa è la prima legge che un Auror deve tenere a mente. Senza contare che le cruciatus sono maledizioni senza perdono e si finisce ad Azkaban per questo”. 

Harry desiderò che il pavimento sotto di lui si aprisse in una enorme voragine che lo avrebbe risucchiato dentro e fatto sparire dalla faccia della Terra. Si vedeva già sbucare Auror da tutte le parti del castello, arrestarlo e portarlo urlante ad Azkaban, senza diritto di processo o di difesa. In pasto ai Dissennatori, la sua paura più grande. Non sarebbe sopravvissuto due ore là dentro. 

Invece ciò non successe. 

C’era solo Kingsley a fronteggiarlo davanti a lui con volto severo in un corridoio deserto. 

“Dimmi che non hai ucciso tu quei Mangiamorte”. 

“Non volontariamente”. 

“Che vuoi dire?” 

“Be’, non ho dato fuoco io a quei due Mangiamorte. Nello scontro sono finiti nel falò che avevano acceso loro”. 

Sono rimasto a guardare. 

“E hai usato le cruciatus”. 

Il ragazzo annuì, gli occhi ancora fissi sul gargoyle. 

“Harry”, fece a quel punto il più anziano, questa volta come se si sentisse improvvisamente stanco ed esasperato. “Io... non sono l’unico a sapere questa cosa. So quello che hai passato e so che non è stato facile per te... Ma non posso fare favoritismi o insabbiare le cose. Torturare e uccidere restano comunque dei crimini anche se si tratta di Mangiamorte. Che razza di Ministro sarei se la facessi passare liscia a te ma non a qualcun altro?”

Stavolta Harry trovò il coraggio di puntare gli occhi sul volto di Kingsley, uno sguardo quasi supplicante. Ma non lo supplicò, Harry non lo avrebbe mai fatto. Cosa c’era da supplicare poi? Aveva sbagliato, ne era consapevole e non era sua fortuna riuscire a passarla liscia. 

Di nuovo, per l’ennesima volta si trovava nei guai con la legge e questa volta interamente per colpa sua. 

Cosa avrebbe detto ai suoi genitori, agli amici, a Ginny quando fossero venuti a conoscenza di questa cosa? Lo avrebbero odiato per aver torturato delle persone? Ma più probabilmente questa cosa non l’avrebbe mai scoperta se fosse finito ad Azkaban. Là dentro non avrebbe potuto rivedere più nessuno. 

“Senti, ora vedremo il da farsi. Mi vedrò coi miei collaboratori e... Ti farò sapere cosa decideremo”.

Lo congedava così? Senza una vera risposta? Cosa doveva fare ora? Aspettare una lettera che gli diceva di presentarsi volontariamente ad Azkaban? O magari lo avrebbero informato del giorno e dell’ora in cui gli Auror sarebbero venuti ad arrestarlo per non farsi portare in carcere in pigiama e pantofole. 

Si passò nervosamente una mano tra i capelli entrando in Sala Grande. Era già tanto che non stesse avendo un attacco di panico. Non si accorse nemmeno della ragazza di Tassorosso ferma dietro una colonna, la bocca aperta in un’espressione ridicola.

Trovò Ginny e i suoi amici seduti al solito posto al tavolo rosso-oro. Li raggiunse senza neanche accorgersi di stare camminando o di muoversi. La sua mente era in totale oblio. 

“Ehi, cosa voleva Shacklebolt da te?” Gli chiese Ron. 

“Niente. Sapere come stavo”, fu la risposta veloce del moro. 

“Non poteva mandare una lettera?”

“Si vede che voleva uscire dal suo ufficio”.

“Abbiamo pozioni dopo?” Chiese Hermione, tirando fuori il suo libro. “Ripassiamo la pozione dell’altra volta”. 

“Hermione, mi fai finire di mangiare almeno?”

I suoi amici continuarono a parlare di lezioni, M.A.G.O., della prossima gita ad Hogsmeade, ma Harry non ascoltò nulla di tutto quello, impegnato a non far trasparire la propria preoccupazione e la propria paura, camuffandole dietro un sorriso di circostanza. Quando Ginny gli prese la mano sotto il tavolo lui ricambiò la stretta ma non se ne accorse nemmeno. 

 

***

 

Nuovi guai in arrivo per il nostro Harry. Questa cosa della dura lex sed lex mi ha sempre affascinata come tema di discussione e l’ho sempre trovata affascinante. È giusto applicare la legge in ogni situazione e ad ogni persona? Oppure ogni situazione ha due pesi e due misure? Va bene fare favoritismi? In fondo, la legge è uguale per tutti. 

 

Fatemi sapere la vostra e ditemi anche cosa ne pensate del capitolo. 

Un bacio, 

cactus. 

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Capitolo 25
*** Rivelazioni ***


Capitolo lungo e intenso 

 

RIVELAZIONI 

 

Quando Harry entrò nella Sala Grande non si aspettava di certo di vedere tutte quelle teste voltarsi nella sua direzione con altrettanti occhi fissarsi su di lui. Insomma, ci era abituato, dopo aver sconfitto Voldemort la gente non faceva che occhieggiarlo, sorridergli timidamente o chiedergli autografi, ma questa volta gli sguardi erano diversi. Era come... Era come se fosse tornato al suo quinto anno e tutti lo osservavano curiosi o preoccupati - o magari arrabbiati - perché credevano mentisse su Voldemort e che fosse diventato pazzo. 

Li ignorò andando a sedersi al solito posto dove Ron, Ginny ed Hermione lo stavano aspettando. Ma alle loro occhiate, uguali a quelle di tutti gli altri nella Sala Grande, non poté restare zitto. 

“Okay, cosa succede?” 

“Non hai letto la Gazzetta del Profeta?” gli chiese Hermione tesa. 

“No”. La Gazzetta non era esattamente il suo giornale preferito. Non lo era nessuno quando parlavano di lui. 

La ragazza gli passò il giornale con le mani tremanti. I tre non distolsero lo sguardo dal ragazzo mentre scorreva velocemente con gli occhi le parole. 

 

Harry Potter minacciato di finire ad Azkaban dal Ministro.

 

Recitava così il titolo della prima pagina. Harry non avrebbe voluto leggere ma dovette farlo per capire se Shacklebolt fosse veramente così bastardo e quello fosse il suo modo di fargli sapere che lo avrebbe arrestato. Apparentemente no. Il giornale parlava di uno studente di Hogwarts, anonimo, che aveva sentito la notizia per caso. 

Certo. E chissà quanto lo hanno pagato per uno scoop del genere. 

La reazione di Harry fu completamente opposta a quella che i suoi amici si erano aspettati: scoppiò a ridere. Non una risata divertita, ovviamente, sembrava piuttosto isterica e la cosa li spaventò alquanto. La risata, come era iniziata cessò, d’un colpo, e Harry si coprì la faccia con una mano, sospirando. 

“Merda!” 

Il resto della Sala aveva smesso di guardarlo, ma tutti si passavano varie copie del giornale e mormoravano. 

Chissà cosa stavano pensando. Nel testo era chiaramente scritto che la minaccia veniva dal fatto che lui aveva torturato e ucciso dei Mangiamorte, commettendo quindi un crimine che la nuova giurisdizione non poteva far rimanere impunita. Poi divagava su altre questioni, facendo un breve riassunto sulla sua vita - da quando aveva sconfitto Voldemort la prima volta a un anno, al Torneo Tremaghi, fino ad arrivare alla seconda caduta di Voldemort e la scoperta che i suoi genitori e il padrino erano ancora vivi, chiedendosi come dovesse aver appreso lui quella notizia -. Sembrava più un articolo di gossip che di un quotidiano di cronaca. Per fortuna non lo aveva scritto Rita Skeeter. 

Chiunque fosse quel dannato studente aveva praticamente sentito tutto della sua conversazione con il Ministro.

“È vero, Harry?” chiese la voce di Kiki, sopraggiunta in quel momento, anche lei con una copia della Gazzetta. 

Harry alzò la testa verso di lei, sentendosi improvvisamente svuotato. Cosa poteva dire ora? Non poteva mentire, il giornale diceva la verità. Come l’avrebbero presa i suoi amici? Ma soprattutto, come l’avrebbero presa i suoi genitori? Dovevano aver letto la Gazzetta. Per fortuna era sabato e c’era la visita ad Hogsmeade perciò lo avrebbe scoperto di li a poco. 

“Il Ministro ha minacciato di farti rinchiudere ad Azkaban?”

“Sì”. 

“E il resto? Il resto di quello che dice l’articolo è vero?”

Harry scrollò le spalle e scosse il capo senza avere il coraggio di guardare nessuno dei suoi amici. 

“Cosa vuoi che ti dica, Mione? Vuoi che ti dica di no?”

Hermione sbatté le mani sul tavolo allontanandosi con la sedia con fare nervoso. Ron guardò nel proprio piatto e Ginny fissò gli occhi castagna sul volto del proprio ragazzo. Solo Kiki non sembrava turbata da quella dichiarazione. Lei sapeva del lavoro di Harry; chiaramente non ne conosceva le dinamiche ma non si stupiva nemmeno. 

Soltanto in quel momento Harry parve realizzare la gravità di quello che aveva fatto. 

“Be’, non credo che succederà”, concluse Kiki. La determinazione nel suo sguardo era inconfondibile. 

“Come fai a saperlo?”

“Perché non ha senso! Volete sul serio dirmi che torturare e uccidere dei Mangiamorte, e sottolineo Mangiamorte, coloro che hanno commesso reati ben più gravi e fatto cose orribili, sia un crimine?”

“Lo è se cambia la legge”.

“Oh troppo comodo cambiare legge ora. E comunque, stiamo parlando di Harry, non di una persona qualunque”. 

Come se avesse voluto confermare apposta le parole di Kiki, Seamus Finnigan passò in quel momento davanti al loro tavolo e guardò in direzione di Harry. 

“Ehi, Harry! Se Shacklebolt ti fa davvero arrestare io sono pronto a radere al suolo il Ministero”. 

Anche altri ragazzi di Grifondoro annuirono e si schierarono con quella risposta. Ma certo, i Grifondoro per lo più erano figli di Auror o altri eroi della guerra; ad alcuni di loro i Mangiamorte avevano portato via i genitori o qualche amico e famigliare. Forse solo i Serpeverde... Harry non osò guardare al tavolo dei Serpeverde. 

“Lasciamo perdere. Andiamo ad Hogsmeade”. 

Il moro si alzò bruscamente e cominciò ad allontanarsi verso l’uscita, seguito dallo sguardo attento e preoccupato degli amici. 

 

“Jamie, hai letto?” chiese Lily precipitandosi in cucina come una furia, i capelli sparati in varie direzioni come avesse preso la scossa. 

James e Sirius erano in piedi vicino al tavolo, gli sguardi lividi. I due uomini stavano guardando un’altra copia aperta sul tavolo di fronte a loro che era stata recapitata dal gufo di casa Weasley pochi minuti fa. 

“Probabilmente è uno scherzo. Deve essere uno scherzo”, sussurrò Sirius, ma dal tono non sembrava crederci. 

James continuava a leggere e rileggere quel titolo scritto a caratteri cubitali sulla prima pagina e gli sembrava quasi di riuscire a sentirlo urlare. Quel giornale stava davvero parlando di suo figlio? 

“Andiamo ad Hogsmeade. Sono sicura che Harry ha una spiegazione”. 

 

Harry era preoccupato per i suoi genitori più che di tutti gli altri. Probabilmente avevano già letto la notizia è chissà quale idea si erano fatti. 

La cosa che temeva di più era deluderli. E dopo il discorso che gli avevano fatto la sera prima di partire... Si sentiva uno schifo. In quel breve periodo era riuscito a far quadrare le sue emozioni, a trovare una sorta di pace, la terapia stava funzionando. Ma ora, tutti i suoi malesseri sembrava stessero tornando. 

Non voleva trovarsi di nuovo al punto di partenza. 

Lui e i suoi amici si erano seduti ai Tre manici di scopa e avevano ordinato tutti delle Burrobirre -  tranne lui che in quel momento aveva bisogno di qualcosa di più forte - e stavano aspettando l’arrivo di James, Lily e Sirius che sarebbero dovuti arrivare da un momento all’altro. 

“Se Kingsley vorrà sul serio farti arrestare si troverà l’intero Mondo Magico sotto casa coi forconi. Harry, non puoi credere sul serio alla sua minaccia. Le persone sono dalla tua parte. Ti adorano tutti”, disse Kiki guardando l’amico che si era praticamente accasciato sul tavolo. Harry ringraziò che nessuno stesse facendo troppo caso a lui; in quel momento non avrebbe sopportato i curiosi che gli chiedevano l’autografo o che facevano strane domande.

“Kiki ha ragione. Insomma, tu sei Harry Potter. Sarebbe una barzelletta se finissi ad Azkaban proprio tu”, aggiunse Ron. 

Il moro aprì bocca per rispondere qualcosa, ma si bloccò non appena udì la chiara voce di Sirius che salutava Madame Rosmerta con qualche commento giulivo e lei che rispondeva “Sirius, dodici anni ad Azkaban, una apparente morte... Eppure non sei cambiato per nulla”. 

Fu Felpato il primo a raggiungere il tavolo dei ragazzi, saltando subito nel grembo di Harry. 

“Come sei diventato grande”, lo salutò il ragazzo accarezzandolo tra le orecchie e lasciandosi leccare la faccia.

“Ehi!” 

Poi guardò i genitori che si accomodavano sulle sedie libere rimaste e Sirius, non appena si liberò di Madame Rosmerta e dei suoi prominenti seni. 

“Che succede, ragazzi?” domandò James notando le facce grigie dei giovani. 

Lo avevano letto? Si chiese Harry. Lo sapevano? O facevano finta di niente?

“Oh, stavamo solo chiedendo a Harry se preferisse i mandarini o le arance. Così da sapere cosa portargli in carcere”, disse Kiki tranquillamente, fugando in quel modo ogni dubbio. 

Ron scoppiò a ridere ma cercò subito di trattenersi altrimenti si sarebbe strozzato con la Burrobirra, mentre Harry le lanciava un’occhiataccia. 

“Spiritosa”. 

“Dimmi che Shacklebolt stava scherzando”, fece Sirius, riportando subito la serietà al tavolo. 

Harry non rispose, lasciò che fosse il silenzio a rispondere per lui. 

“No, è tutto vero”, rispose infine. “Intendo... tutto”. 

Harry percorse con lo sguardo sia i genitori che Sirius, cercando di fargli capire, senza doverlo dire, che anche la parte dell’articolo che parlava di torture ai Mangiamorte era vera. 

Lily, quella più vicina a lui, gli prese la mano sotto il tavolo. Harry ricambiò la stretta; quel semplice gesto aveva avuto il potere di confortarlo almeno un po’. Capiva che sua madre non ce l’aveva con lui.

“È ridicolo. Shacklebolt non può fare una cosa del genere. Lo ammazzo se lo fa”, sbottò Sirius. 

“È lui il Ministro”, gli ricordò Harry. 

“E quindi?”

“Può essere il Ministro quanto vuole, ma sta sbagliando”, si intromise Kiki. “In questo modo non si terrà la poltrona. Certo, deve applicare la legge ma tu... insomma, tu hai fatto un favore alla comunità ai danni di te stesso. Questo sarebbe il suo modo di ringraziarti?” 

“Senza contare che quelli a cui hai fatto del male erano Mangiamorte e non persone a caso incontrate per strada”, aggiunse Ginny, avvicinandosi di più a lui e lasciando che il cane le appoggiasse la zampa sulla gamba.

“Hai ucciso Voldemort davanti a... quante? Migliaia di persone?” Continuò Kiki infervorata ormai dal suo discorso. “Per quello non ha detto nulla però. E tutti quelli che hanno ucciso i Mangiamorte combattendo durante la guerra? Andrà a cercarli casa per casa per arrestarli? Persino gli Auror. Anche mio fratello ha usato incantesimi vietati ma... Che cosa dovevano fare? Per quel che mi riguarda, in guerra non si può essere corretti. E finché tutti i Mangiamorte non saranno catturati, per me la guerra non è ancora finita”. 

Per qualche secondo calò il silenzio, come se le parole di Kiki avessero colpito tutti. Effettivamente nessuno di loro avrebbe saputo spiegarsi meglio. James, Lily e Sirius sapevano bene cosa volesse dire combattere una guerra e cosa si è dovuto fare. 

“Be’, se ti fanno un processo... puoi sempre avvalerti dell’insanità mentale. In fondo, non eri del tutto in te quando hai combattuto quei Mangiamorte”. 

“Grazie tante, Hermione, così anziché ad Azkaban mi rinchiuderanno in manicomio. Credo di preferire i Dissennatori a questo punto”, le rispose l’amico nervosamente. Hermione alzò gli occhi al cielo. Probabilmente nulla avrebbe potuto consolare o tranquillizzare Harry in quel momento.

“O potrai sempre trasformarti in cervo ed evadere”, suggerì Kiki scherzosamente, lanciando un’occhiata a Sirius.

“Oh, ce lo vedo... a incastrarsi con le corna tra le sbarre della cella”.

“Non credo si arriverà a tanto”, cercò di tranquillizzarlo Ginny. “Probabilmente ci stiamo fasciando la testa per niente”. 

Ma le sue parole non sortirono l’effetto che sperava. Harry si alzò di scatto e buttò giù l’ultimo sorso di whiskey che gli era rimasto nel bicchiere. Poi tirò fuori il pacchetto di sigarette e si diresse verso la porta. Nemmeno il cane lo seguì.

“Ottimo. Direi che siamo degli amici fantastici”, commentò Ron mentre si accasciava sulla sedia con viso sconsolato. 

“Sei preoccupata?” chiese James guardando verso Ginny. 

“È solo che non mi aspettavo sarebbe stato così difficile”. 

Tutta quella situazione avrebbe di nuovo buttato giù Harry? A questo si riferiva Ginny? Forse prima o poi Harry avrebbe raggiunto un punto di non ritorno. Aveva così tanta paura. 

“Scusate”, mormorò Lily a un certo punto, alzandosi anche lei e puntando la porta senza guardarsi indietro. 

 

Harry aveva raggiunto il retro dei Tre Manici di Scopa, dove sapeva non avrebbe trovato nessuno ad eccezione di qualche gatto randagio, e si accucciò contro il muro stringendosi nella giaccia di pelle dalla quale tirò fuori il pacchetto di sigarette accendendosene una. Lasciò che il fumo gli abbracciasse i polmoni per aiutarsi a trovare la calma; era quella la sensazione che provava una persona dipendente dal fumo?

Merlino, in cosa si stava trasformando la sua vita? Un fallimento e un disastro dopo l’altro, ogni anno era sempre più difficile. E ora c’erano persino i suoi genitori a guardare, a guardare lui che non sapeva tenere in mano la propria vita. 

Erano arrabbiati? Erano delusi? Non lo sapeva e non lo sapeva perché era scappato prima di scoprirlo e sentirsi sprofondare da una possibile verità che non sarebbe stato in grado di reggere.

“Ehi!”

Il ragazzo non aveva nemmeno sentito Lily avvicinarsi. Lei gli si sedette accanto, incurante del pavimento sporco che le avrebbe macchiato i jeans. 

“Stai bene?”

Che domanda stupida, Lily.

“Insomma, è ovvio che non stai bene e io ti sto facendo una domanda stupida, è che vorrei solo aiutarti...”.

“Ehi!” Harry poggiò la propria mano su quella di Lily bloccando in quel modo il fiume di parole che stava venendo fuori. Si girò verso di lei e la guardò negli occhi identici ai propri. Mai come in quel momento sua madre gli era parsa una ragazzina. “Non preoccuparti. Sto bene. Sono... sono abituato a queste cose”.

Lily si morse il labbro e inarcò le sopracciglia; cosa voleva dire? Quante ne aveva passate?

“Sei... arrabbiata? O delusa?” chiese il ragazzo, decidendosi infine a porre quella domanda, altrimenti sarebbe rimasto a rodersi per tutto il tempo. 

Lily spalancò gli occhi stupita. “Cosa? No! Assolutamente no! Come ti viene in mente?” 

Harry scrollò le spalle. “Be’, ho fatto un po’ un casino...”.

“Tesoro, non c’è alcuna cosa che tu possa fare per cui io potrei rimanere delusa”.

Ed era vero, Lily lo sentiva dentro. Suo figlio aveva fatto cose che un ragazzino della sua età non avrebbe mai dovuto fare, era stato forte e coraggioso più del necessario e mai e poi mai gli avrebbe rimproverato qualcosa o fattolo sentire a disagio. Certo, forse era un po’ di parte, forse il fatto che non era riuscita a essere con lui per tutti quegli anni e non averlo aiutato nei momenti difficili le rendeva più difficile essere una madre a tutti gli effetti, ma diamine!, Harry aveva sconfitto Voldemort e ora aveva tutto il diritto di fare qualche errore. Non che secondo lei torturare qualche Mangiamorte fosse un errore. Forse pensarlo la rendeva una brutta persona ma per quanto la riguardava li avrebbe sterminati tutti. 

I Mangiamorte avevano distrutto le vite di molte persone. 

“Anche io e James abbiamo combattuto i Mangiamorte, cosa credi? In guerra si fa quello che si deve fare e non sempre sono belle cose”. 

“Ma hai mai usato la maledizione Cruciatus contro qualcuno?” le chiese Harry guardandola serio. 

Lily scosse il capo in senso di diniego. 

“Ecco, appunto”.

Harry si alzò con un colpo di reni e si allontanò dalla madre, gettando a terra la sigaretta finita. Quel gesto spiazzò la povera Lily, ma decise che non avrebbe lasciato perdere. 

Si alzò anche lei dal pavimento freddo e raggiunse di nuovo il figlio, affiancandolo. Stavano guardando verso la Stamberga Strillante. 

“Tesoro... Io... Io non so bene come ti senti, non posso capirlo. Ma so che non finirai ad Azkaban, te lo posso giurare. Io, tuo padre, Sirius, Remus... non lo permetteremo. Dovranno passare sui nostri cadaveri prima”. 

“Lo hanno già fatto”, mormorò il ragazzo senza guardarla.

“Cosa?”

“Sui vostri cadaveri. È già successo, siete morti per salvare me. Tutti. Quindi no, questa volta non andrà così. Se devo andare ad Azkaban, va bene. Ho fatto un errore e devo pagarne le conseguenze, come tutti. Voi non c’entrate nulla stavolta. Non permetterò che... Insomma, non è un problema vostro”.

Lily rimase a guardare Harry sbigottita e spaventata; cosa voleva dire? Harry si sarebbe fatto portare ad Azkaban sul serio? Non voleva pensarci. Rinchiuderlo ad Azkaban equivaleva a farlo morire.

“Harry...”. 

In quel momento la porta dei Tre Manici si aprì e ne sbucarono Sirius e James seguiti dai ragazzi e dal cane che andò subito incontro ad Harry per farsi grattare dietro le orecchie. 

“Che dite se approfittiamo comunque di questa bella giornata e andiamo a farci un giro?” Propose Sirius stiracchiandosi le braccia. “Non ha senso preoccuparsi ora”. 

“Per me va bene”, lo appoggiò Harry accendendosi un’altra sigaretta. Lily avrebbe voluto ridire, non era in vena di passeggiare per Hogsmeade come nulla fosse e voleva proseguire quella discussione con suo figlio perché voleva saperne di più, voleva capire cosa avesse inteso con quelle frasi. Ma dagli sguardi degli altri capì che non era il momento di fare i capricci, perciò si accodò.

 

La prima tappa del gruppetto fu Mielandia e subito dopo i Tiri Vispi Weasley. I gemelli furono molto felici di vederli e li accolsero come fossero ospiti d’onore. 

“Harry, non perdi mai occasione per far parlare di te”, lo salutò George con un largo sorriso, sbucando da delle scale a pioli. 

“Nel bene o nel male, i giornali adorano avere la tua faccia in prima pagina”, gli diede man forte Fred. 

“Non ti preoccupare. Tra le nostre innumerevoli invenzioni, potresti trovare qualcosa per aiutarti a evadere”. 

Harry ridacchiò. “Non serve, ragazzi. Sarò felice di fare compagnia ai Dissennatori”. 

Capivano che Harry avesse bisogno di sdrammatizzare un po’ ma a nessuno di loro piaceva il modo in cui Harry scherzava sulla questione. 

“Naturalmente anche i genitori del nostro finanziatore possono prendere quello che vogliono”, dissero i gemelli intromettendosi tra James e Lily. “Qualsiasi cosa e non serve che paghiate”. 

“Oh grazie”. 

“Di niente. Dopotutto, senza di voi non ci sarebbe stato questo negozio”. Fred e George si allontanarono per servire altri clienti lasciando i Potter di stucco. La semplicità e la naturalità con cui dicevano certe cose era disarmante. 

“Ciao!” Kiki si sentì salutare mentre guardava delle caramelle che provocavano il vomito. Si voltò e vide Sirius accanto a lei. 

“È sempre cosi affollato questo negozio?” 

“Di solito sì. Ma i gemelli riscuotevano un certo successo anche quando vendevano cose sottobanco ad Hogwarts”.

“Geni del crimine, allora”. 

“Più o meno”. 

Kiki fece finta di essere interessata alle caramelle, scorse persino con le dita per vedere i vari gusti ma la verità era che non sapeva nemmeno cosa stesse leggendo sulle etichette. 

Si sentiva a disagio e non sapeva nemmeno perché. Sapeva solo che era quell’uomo a farle quell’effetto e doveva uscirne a tutti i costi. Ma come? Non poteva semplicemente andarsene perché sarebbe stato piuttosto rude e trovare un argomento di cui parlare si stava rivelando difficile. Cosa poteva chiedere a un uomo che non conosceva affatto?

Per fortuna ci pensò Sirius stesso a tirarla fuori da quell’impiccio.

“Cosa ne pensi? Di Harry intendo”.

Kiki sospirò. “Continuo a sostenere quello che ho detto prima. Non possono incarcerare Harry. Non sarebbe giusto e lui non se lo merita. Lo capirebbero tutti. Insomma, ha salvato l’intero mondo magico, per non dire tutto il mondo e... Che cavolo! Non se lo merita”. 

Sirius sorrise alla ragazza che sembrava aver davvero preso a cuore quella situazione. Indugiò particolarmente sul suo viso e sull’espressione aggrottata che però non la imbruttiva affatto come avrebbe fatto con qualche altra persona. 

I due si allontanarono dalle caramelle vomitose perché un gruppo di ragazzini volevano guardarle. 

“Posso chiederti una cosa?” domandò Karen. 

Sirius la guardò incuriosito.

“Come... Come sei sopravvissuto ad Azkaban? Insomma, sapendo di essere innocente e tutto quanto”.

Sirius assunse un’espressione strana che Kiki non riuscì a decifrare ma che la fece pentire di avere fatto quella domanda. Ma che le salta a in mente? Nemmeno la conosceva. 

“Scusami. È una domanda personale, non serve che rispondi”. 

“Tranquilla. Non ti preoccupare. A dire il vero, sei la prima che me lo chiede”. 

“Davvero?”

“Sì”. 

Era una cosa che aveva stupito persino il mago e non poco, ma dall’altro lato aveva ringraziato per quella mancanza di interesse perché non si era mai sentito pronto ad affrontare quell’argomento. E non pensava che tutti gli altri ne fossero disinteressati, ipotizzava piuttosto che non volessero sapere, che non volessero chiedergli perché la risposta sarebbe stata troppo brutta. Più volte aveva visto negli occhi di Remus, durante la guerra, quella muta domanda che però non aveva mai avuto il coraggio di porre. 

Ma adesso... adesso non gli sembrava più così difficile. E non gli dispiaceva che fosse Karen a chiederglielo. Aveva già capito che quella ragazza aveva una sensibilità speciale tutta sua.

“È stato... Be’, straziante. Ma sai, i Dissennatori ti impediscono di pensare lucidamente quindi.. .era come se avessi vissuto in una sorta di apatia per tutto quel tempo. Non ragionavo più quindi non mi rendevo del tutto conto di dove ero o di cosa era successo. Avevo dei momenti di lucidità e allora mi ricordavo e... stavo male perché io avevo convinto James e Lily a scegliere Minus al posto mio, quindi... la responsabilità della loro morte è anche mia. Quindi in realtà, dentro di me pensavo di meritarmi quella cella”. 

Karen rimase a bocca aperta. Come era possibile assumersi la colpa per una cosa del genere?

“Non è vero. Non è stata colpa tua, non potevi saperlo. Sono sicura che James e Lily non ti abbiano mai accusato”. 

“Oh lo so. Sia mai che James veda del marcio nei suoi migliori amici. Nemmeno in Peter lo aveva visto. Ma nemmeno io dopotutto”. 

L’aria tra i due si era fatta piuttosto densa e carica, ma venne spezzata non appena udirono James chiamarli dall’altra parte, vicino alla porta. 

“Mi sa che è il momento di andare”. 

“Mi sa anche a me”.

 

A un certo punto della gita, Ron ed Hermione si staccarono dal gruppetto per godersi il loro paio d’ore romantico. Anche Kiki pensò un paio di volte di allontanarsi, ma non trovò mai l’occasione giusta per farlo. E poi, c’era sempre qualcosa che la tratteneva, una battuta di Sirius o il suo modo di provocare e prendere in giro James. Quei due erano una bella accoppiata. Notò che anche Harry ogni tanto se la rideva sotto i baffi e le fece piacere. Merlino solo sapeva quanto quel ragazzo avesse bisogno di divertirsi. 

Verso sera si avvicinarono ad Hogwarts. I due Malandrini e Lily li accompagnarono fin quasi alla porta - o almeno avrebbero voluto se non ci fossero state le barriere protettive attorno al castello che impedivano l’acceso a estranei. 

Harry si voltò verso i tre, rimasti indietro. Kiki e Ginny si allontanarono di qualche passo capendo che quello sarebbe stato un momento più intimo. 

“Be’ ci vediamo”, disse il ragazzo. 

James annuì leggermente cercando qualcosa di intelligente da dire, ma non venendogli in mente nulla si slanciò verso il figlio e lo strinse a sé. Harry ricambiò l’abbraccio senza esitare.

“Mi raccomando, campione. Non preoccuparti. Si sistemerà tutto”, gli sussurrò all’orecchio. Poi fu il turno di Lily e infine di Sirius. 

“Vedi di fare impazzire Gazza, mi raccomando”, gli disse James. 

“James!” lo rimproverò Lily guardandolo di sbieco. Harry sorrise intercettando l’occhiolino di Sirius. 

“Guardate chi c’è”, si intromise a quel punto Ginny indicando due figure che si avvicinavano al castello, una delle quali era Draco Malfoy, riconoscibilissimo dalla chioma bionda. 

“Potter!” esclamò questi non appena lo vide; ignorò completamente le altre persone presenti e si tenne a un metro di distanza. La sua posa sembrava cauta. 

“Sono stupefatto di quanti modi tu riesca a trovare per far parlare di te”. 

“Lo prenderò come un complimento”. 

“E sai... mio padre probabilmente ti starà preparando un giaciglio nella sua cella ad Azkaban. Sarà felice di condividerla con te”. 

Harry inarcò un sopracciglio perplesso su come gli fosse uscito quel riferimento a suo padre in un contesto del genere. Tuttavia, non sembrava esserci alcun tono astioso o provocatorio nella sua voce, sembrava davvero volesse fare della sana ironia. Un po’ black humor ma pur sempre ironico. 

“Sono certo che Lucius Malfoy non sarebbe l’unico felice di vedermi ad Azkaban”. 

“Sai, è davvero ironico. Il Salvatore del Mondo Magico ad Azkaban. Ho riso per un buon quarto d’ora”. 

“Mi fa piacere che qualcuno si sia divertito”. 

“Draco!” Malfoy lanciò un’occhiata alla ragazza dai capelli scuri che lo aspettava all’ingresso della scuola e che lo aveva chiamato. 

Il biondino tornò di nuovo a rivolgersi a Harry. “Ci vediamo, Potter”. Non aspettò di essere ricambiato, semplicemente  se ne andò. 

“Cosa voleva Malfoy da te?” chiese la voce di Ron, sopraggiunto in quel momento insieme a Hermione. “Qualche altra presa in giro?”

“No, a dire il vero. È stato... gentile”, gli rispose Harry che fissava ancora il punto in cui Malfoy era sparito, imbambolato. 

“Quello... quello era Malfoy?” chiese James con due occhi sbigottiti. 

“Sì. Malfoy Junior”, gli rispose Sirius. 

“E non capisco perché non sia ad Azkaban”, aggiunse Ron con l’astio nella voce. 

“Lascia stare, Ron”, fece Harry cercando di chiudere la discussione. Non aveva voglia di aprire un altro dibattito sul perché secondo lui non era giusto che Draco Malfoy si trovasse ad Azkaban e non voleva nemmeno tornare a odiare il Furetto o litigare con lui per i corridoi. Dopotutto, c’era un motivo se avevano passato il Natale insieme, bevendo e fumando erba. 

 

***

 

Bene, spero vi sia piaciuto questo capitolo lungo. Non lo volevo dividere in due parti perché non mi sembrava il caso, dopotutto non succede di fatto granché. 

Comunque questo tema della giustizia e della legge che è uguale per tutti mi sta abbastanza a cuore, come avrete capito, ma mi sono sempre chiesta se andasse applicata in ogni circostanza. Dopotutto, basta pensare anche alle nostre guerre e al fascismo, a cosa hanno dovuto fare i partigiani, 

Ma non è questo l’ambiente adatto per parlare di politica. 

 

Fatemi sapere che ne pensate e ci sentiamo alla prossima puntata. 

Bacioni, 

Cactus.

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Capitolo 26
*** Potere ***


POTERE

 

Kingsley Shacklebolt non riuscì nemmeno a esalare una vocale quando si trovò la mano di Sirius Black premuta contro il collo, la schiena andata a sbattere violentemente contro la parete sotto il peso del mago. Se gli sguardi avessero potuto uccidere, quello di Sirius Black lo avrebbe seccato più velocemente di un Avada Kedavra. 

“Se osi mettere le mani addosso al mio figlioccio giuro che ti faccio a pezzi!”

“Cosa?” rantolò il mago dalla pelle scura.

“Non fare il finto tonto”. 

“Sirius, cosi lo uccidi”, disse James fermo dietro di lui. “Non voglio vedere anche te ad Azkaban. Di nuovo”. 

Per fortuna James era in grado di far ragionare Black che, anche se esitando, lo lasciò andare. 

“Vuoi davvero rinchiudere Harry ad Azkaban?” gli chiese di nuovo. 

Il Ministro si portò una mano a massaggiare la gola, cercando di recuperare del colore. 

“Dopo tutto quello che ha fatto?”

“Ha torturato delle persone”. 

“Dei Mangiamorte. Non sono persone”. 

“Certo che lo sono. E usare la maledizione cruciatus resta illegale. Nemmeno nell’Ordine della Fenice lo abbiamo fatto”. 

“Solo perché tu non avevi le palle di farlo”. 

Kingsley alzò lo sguardo su Sirius e lo guardò con sfida. 

“Non so cosa farò con Harry. Non posso fare come se nulla fosse. Sto solo cercando di fare quello che è giusto per la comunità e questo significa anche dare il buon esempio”. 

“No, tu stai solo facendo il bastardo e quello che fai è ingiusto e ingrato”. 

“Senti...”, si intromise a quel punto James avanzando e fronteggiando il Ministro che ricambiò il suo sguardo con un sopracciglio alzato. Gli faceva ancora effetto vedere James Potter vivo e vegeto davanti ai propri occhi, quel ragazzo poco più giovane di lui che ricordava dai tempi del primo Ordine. “Io non so nulla delle dinamiche politiche ma... se decidi di sbattere mio figlio ad Azkaban, giuro che ti renderò la vita un inferno. E tante persone possono confermarti che sono in grado di farlo”. 

Sirius diede man forte all’amico aguzzando la vista e stringendo i pugni. “E ora vattene”, berciò. 

Shacklebolt si allontanò leggermente umiliato. Inimicarsi Potter e Black era proprio un buon modo per iniziare la settimana. Maledizione a lui e alla sua decisione di ripristinarli come Auror. Ora se li sarebbe beccati tutti i giorni.

 

I giorni proseguirono normalmente. Harry si tenne impegnato con le lezioni, lo studio, gli amici e gli allenamenti. Andò persino a vedere la partita di quidditch, Grifondoro contro Corvonero, e dovette ammettere che lo entusiasmò parecchio. Per qualche secondo sentì la mancanza dell’ebbrezza che provava in volo. Ma la visione eccitante di Ginny che catturava il boccino lo distrasse. 

Tuttavia, il pensiero della sua chiacchierata col Ministro continuò a tormentarlo. Non aveva idea di cosa aspettarsi. I giornali non scrissero più nulla, non c’era molto altro da scrivere. Ma la gente sicuramente ne parlava anche se nessuno osava avvicinarsi per chiedergli qualcosa. Piuttosto, i suoi compagni di stanza gli mostrarono solidarietà. Quello lo consolò, non del tutto ma un po’ lo distrasse. In fondo, non poteva ignorare il fatto che le parole di Kiki avessero un fondo di verità: aveva salvato l’intero Mondo Magico, possibile che non contasse nulla? 

Quello che lo sorprese ancora di più però fu ricevere lettere quasi tutte le mattine, dai fan principalmente, che gli mostravano il loro supporto. Le donne in particolare - per il malcontento di Ginny - si dimostravano sdegnate da quella mancanza di rispetto nei suoi confronti e gli dicevano che loro avrebbero fatto di tutto per liberarlo se davvero fosse finito ad Azkaban. E, qualcuna più audace, gli proponeva metodi “focosi” per consolarlo. Ginny non perse tempo a bruciare quelle lettere. 

Ce n’erano altre però che mostravano invece il loro sdegno. Qualcuno sarebbe stato favorevole alla sua prigionia. Non tanti ma comunque in buon numero per far dubitare Harry. 

“Lasciali perdere. Non sanno quello che dicono. Saranno figli di Mangiamorte o simpatizzanti”, gli diceva Ron.

Persino i giornali non mollavano il tiro, specialmente dopo quella rivelazione. Lo invitavano tutti a rilasciare un’intervista e a raccontare della sua vittoria su Voldemort. Harry era rimasto sbigottito da quante riviste di gossip c’erano nel Mondo Magico. Alcune Ron le conosceva perché sua madre vi era abbonata.

“Secondo me dovresti farlo, Harry”, esordì Hermione un pomeriggio in cui lei, Ron, Harry, Ginny e Kiki se ne stavano sdraiati sotto un castagno in una giornata particolarmente calda che li aveva fatti rinunciare allo studio. “L’intervista. Accetta la proposta di uno di quei giornali”. 

“Perché dovrebbe farlo?” chiese Ron; Hermione non si era mai mostrata particolarmente convinta di quelle lettere - quasi moleste - però ora tutto d’un tratto sembrava avesse cambiato idea. 

“Perché dovrebbe far sapere il suo punto di vista. Sopratutto, dopo quell’articolo sulla Gazzetta”. 

“Stai dicendo che Harry dovrebbe farsi intervistare per giustificare il suo comportamento a qualcuno? Come una toppa”, fece Kiki mettendosi a sedere.

“Non sto dicendo questo. Però la gente muore dalla voglia di sapere cosa è successo, come sono andate le cose. Non dico che devi raccontare proprio tutto, però qualcosa sì. E questo è il momento giusto”. 

“Non lo so, Mione”, sospirò il moro. “Non so se mi va di parlarne con qualcuno che non conosco”. 

“Be, puoi sempre farti intervistare da Xenophilius Lovegood”, scherzò Ginny. 

“Certo. Finiremmo per parlare di Nargilli e Gorgosprizzi”. 

Il Cavillo doveva essere l’unico giornale che non gli aveva chiesto un’intervista. 

“Andiamo a trovare Hagrid”, fece allora Harry chiudendo il discorso. 

 

“Come sono contento di vedervi!” esclamò Hagrid non appena vide i ragazzi avvicinarsi alla sua capanna. Anche Thor li salutò allegramente, saltando e correndo in mezzo a loro. “Anche tu, Karen. Da quando vi frequentate?”

“Da quando abbiamo trovato delle cose in comune”, rispose la ragazza con una scrollata di spalle. 

Il Mezzogigante li fece accomodare in cucina e servì loro del tè e alcuni biscotti che aveva sfornato lui stesso ma che i ragazzi si premurarono di non mangiare, fingendo di aver già mangiato troppo al banchetto. 

“Comunque io non ci credo per nulla a quello che dicono i giornali”, disse l’uomo deciso, alzando il mento come a dare più enfasi alla sua affermazione. “Sono tutte balle. La Gazzetta del Profeta non ha mai detto la verità”. 

“Grazie, Hagrid”, rispose Harry. Non aveva cuore nel dirgli che in realtà quella volta la Gazzetta non aveva mentito perché forse Hagrid era una delle poche persone che davvero sarebbero rimaste male nel sapere che aveva torturato delle persone.

“Tu non sei preoccupato, Harry, vero?”

“Per nulla”. 

“Non devi esserlo infatti. Il Ministro non ci capisce niente. Da quando siede su quella poltrona, Kingsley ci ha perso la testa”. 

“È quello che dico anche io”, aggiunse Kiki. 

“Ma gliela farò vedere io. Se osa torcerti un capello potrei mandargli un mio animaletto e...”. 

“Hagrid!” lo richiamò Hermione prima che potesse concludere qualsiasi minaccia avesse avuto in mente. Non aveva mai visto Hagrid così infervorato. 

Harry sorrise. “Ti ringrazio, Hagrid, ma non voglio che tu faccia nulla. Sono sicuro che non succederà niente”. 

Voleva crederci pure lui però. Nonostante lo dicesse a tutti, non riusciva a convincersene. 

 

Una domenica mattina, mentre faceva colazione con i suoi amici, Harry ricevette un biglietto ripiegato da un gufo grigio. 

 

Appena ha finito la aspetto nel mio ufficio, Signor Potter.

Preside Minerva McGranitt. 

 

Harry lanciò un’occhiata alla Preside seduta al tavolo dei professori; l’anziana strega ricambiò da sopra la tazza di tè che stava sorseggiando col mignolo alzato. 

“La McGranitt mi vuole nel suo ufficio”. 

“Cosa vuole da te?”

“Non vorrà mica espellerti?”

“Per Morgana, Hermione, perché devi essere sempre così drastica?”

“Vuoi che veniamo con te?” gli chiese Ginny accarezzandogli le dita della mano. 

Harry scosse il capo. “Non vi preoccupate. Sono sicuro che non sarà nulla”. 

E invece Harry percorse tutta la strada fino al settimo piano col cuore in gola, pentendosi di non aver chiesto ai suoi amici di restare con lui. Bussò all’ufficio della preside con le mani sudaticce. 

Appena sentì il forte “Avanti” della McGranitt entrò con cautela sbucando prima con la testa. Certo, non si aspettava coriandoli e trombe da festa, ma nemmeno tutta quella folla di persone. C’erano i suoi genitori, Sirius e Remus con Tonks, da una parte, seduti su delle comode poltrone. E dall’altra i gemelli e persino i signori Weasley. Dietro la scrivania, insieme alla McGranitt, si stagliava l’alta figura di Kingsley Shacklebolt. 

Il suo momento era giunto, pensò Harry, avevano intenzione di arrestarlo, proprio lì, in quel momento e davanti a tutta quella gente che conosceva bene e che lo avrebbe visto umiliarsi. 

“Accomodati, Potter”, gli disse la Preside cordiale. 

Harry si avvicinò ingoiando saliva. Guardò verso il padre che gli sorrise. Cosa stava succedendo? Raggiunse la poltrona libera che presumibilmente doveva essere per lui ma evitò accuratamente di sedersi. 

“Tranquillo, Harry, non sono qui per farti arrestare”, gli disse il Ministro appoggiandosi alla scrivania ampia e fronteggiando la piccola platea.

Harry rilasciò il respiro che non si era nemmeno accorto di trattenere. Era salvo, per un altro giorno almeno. 

“A dire il vero, lasceremo cadere questa cosa. Non sono del tutto d’accordo e non sono certo di quanto sia saggio, ma devo anche dare ragione ai miei collaboratori che mi fanno notare il tuo servizio non indifferente alla comunità magica. E a quanto pare se ti facessi rinchiudere ad Azkaban avrei un bel po’ di maledizioni pendenti sulla testa”. 

Shacklebolt alzò le maniche del mantello sopra il gomito. “Non so se ti sorprenderà saperlo ma sembra che quasi tutti siano dalla tua parte. Non so nemmeno quante lettere e Strillettere mi sono arrivate che mi dicevano che non potevo fare una cosa del genere. Insomma, sei il loro eroe e se ti  imprigionassi mi odierebbero tutti. Probabilmente mi odierei pure io”. 

“Ci sei arrivato, Shacklebolt”, mormorò Sirius giocherellando con la propria bacchetta.

Il Ministro ignorò quella frecciatina. “Però vedi di rigare dritto d’ora in poi. Non offro seconde occasioni di solito”. 

“Sì, Signore”, fece Harry appoggiandosi coi gomiti allo schienale della poltrona. Ancora si chiedeva però perché fossero stati chiamati anche gli altri. 

“Non abbiamo finito”, esordì a quel punto la Preside. “Io e il Ministro, insieme a fidate persone del Ministero, pensiamo di aver scoperto come avete fatto a tornare in vita”. E quelle ultime parole furono indirizzate in particolar modo ai Malandrini, Lily, Tonks e Fred.

“Cosa avete trovato?” 

“Abbiamo dovuto scavare a fondo, cercare in vecchi documenti archiviati e quasi dimenticati. È un tipo di magia molto antica, talmente antica che non è documentata in nessun libro reperibile”, iniziò a spiegare la McGranitt, interrotta da Shacklebolt. “Più che una magia è un riflesso involontario e spesso inconsapevole”. 

“Come le magie che fanno i maghi da piccoli?” chiese Lily per capire meglio. 

“Più o meno. Ma non è una cosa che possono fare tutti”. 

“E quindi chi lo avrebbe fatto? Chi ci avrebbe riportati in vita?” domandò James. Si percepiva chiaramente che odiava tutta quella suspense e voleva saperne di più. 

Gli sguardi della Preside e del Ministro si spostarono su Harry. “L’unica persona in questa stanza che vi conosce e ha un legame forte con tutti voi”. 

Harry tutto d’un tratto si sentì sotto osservazione, quando vide tutte quelle paia di occhi posarsi su di lui. 

“Io?”

“Proprio tu”. 

“Come...?”

“Sono molto rari i maghi che hanno dentro di sé un potere simile. Noi ne abbiamo documentati tre nei nostri archivi, ma si tratta di supposizioni. Eppure è la cosa più plausibile”. 

“E sai questo cosa vuol dire, Harry?” gli chiese la McGranitt. 

Il ragazzo fece segno di no. 

“Che sei il mago più potente del mondo. Ma questo lo avevamo capito quando hai sconfitto Voldemort. Però riportare in vita i morti è tutta un’altra cosa, è magia ultraterrena. Specialmente riuscire a farlo senza conseguenze, senza altri sacrifici in cambio”. 

“Continuo a non capire”, fece Harry confuso. “Io avrei riportato in vita delle persone inconsapevolmente? Come diamine è possibile una cosa del genere?”

La McGranitt sospirò. “Non ti sei mai chiesto da dove proviene la magia che possiede un Mago o una Strega? Non è nella bacchetta, Harry. Il nucleo magico non risiede in un pezzo di legno, quello è solo un tramite. Ci sono stati maghi che erano in grado di praticare magie e incantesimi senza aver bisogno della bacchetta. Forse, visto il tuo potere, potresti riuscirci anche tu. La magia si trova nel cuore, nell’anima, persino nelle emozioni. La magia arriva quando tu ne senti la necessità per un motivo o un altro. Per questo i bambini fanno magie involontarie. Una magia in grado di riportare indietro i morti richiede forti emozioni, di solito dolorose o... difficili da sopportare e tu...”.

Harry non ebbe bisogno di sapere come si concludeva la frase della McGranitt, aveva capito cosa la donna intendesse. Lui era arrivato vicino al suicidio da quanto stava male e quello doveva aver scatenato l’incantesimo di risuscitamento. 

Il ragazzo si passò una mano tra i capelli. Non era sicuro di come dovesse sentirsi ora riguardo a quella rivelazione. Spaventato? Felice? Forse entrambe. Era il mago più forte del mondo, poteva resuscitare i morti e... chissà che altro.

“Ovviamente magie di questo tipo richiedono un consumo di energia enorme. Ora sei stato fortunato, ma vedi di non resuscitare qualcun altro. Cinque persone sono già troppe. Potrebbe causarti dei danni e potresti...”.

“Morire?”

“Sì, anche”, concluse Shacklebolt. 

Quindi non avrebbe comunque potuto fare nulla per Malocchio, Dobby, Edvige, Colin Canon o Piton e Silente. Bella fregatura. Un potere che poteva usare una volta soltanto. Ma doveva considerarsi comunque fortunato. Aveva avuto una seconda occasione con i suoi genitori, poteva conoscerli e vivere la sua vita con loro, come un ragazzo qualsiasi. E non sarebbe nemmeno stato arrestato. Finalmente la fortuna girava dalla sua parte.

Si trovò a sorridere. 

“Potete andare, comunque. Questo era quanto avevamo da dirvi”, disse la McGranitt congedando gli ospiti. 

Harry lanciò un’occhiata ai quadri di Piton e Silente coperti dalle tende. Prima di andarsene la signora Weasley non poté fare a meno di trattenersi dall’abbracciare Harry. Il ragazzo si ritrovò a sorpresa in quella stretta morsa che erano l’abbraccio di mamma Molly, riscaldato dal suo petto e il suo corpo in carne. 

“Grazie, Harry, mi hai ridato Fred”, disse lei a mo’ di spiegazione. 

“Suvvia, mamma. Così Harry perderà tutta la sua credibilità di mago cattivo e pericoloso”, la rimproverò Fred bonariamente. Poi, inforcarono il camino. 

I Malandrini e Lily chiesero di poter parlare con Harry e uscirono in corridoio. Anche Tonks li seguì. 

“Come stai, tesoro?” chiese Lily guardando il figlio. 

A cosa si riferiva? Alla sua salute mentale? Fisica? O alla scoperta appena fatta?

“Bene”, rispose il ragazzo. Dopotutto, ora non aveva nulla per cui essere infelice.

“Come va lo studio?” fece Remus. 

“Abbastanza bene. Hermione ci mette sotto per cui... quello va bene”.

I M.A.G.O si avvicinavano sempre di più e in fondo gli faceva piacere che almeno quell’anno avesse solo gli esami come unica preoccupazione.

“Ti va una partita a Quidditch?” chiese a un certo punto rivolto al padre. Non era stata una decisione ponderata, lo aveva deciso di getto. Ma si sentiva di buon umore e voleva fare un regalo al padre. 

James lo guardò sbigottito. 

“Dici... Dici sul serio?” 

“Sì. Il campo è libero per le prossime due ore. Facciamo una sfida io e te, il primo che prende il boccino vince”.

“Ci sto”. 

 

Harry e James iniziarono a prepararsi, James si fece prestare la vecchia divisa di Ron e la sua scopa, mentre Harry rispolverò la propria Firebolt. Quello che non immaginavano era però che la notizia della loro sfida avrebbe fatto il giro della scuola in così poco. C’erano diversi studenti seduti sugli spalti, non quanto a una normale partita ma più che a dei normali allenamenti, come se la sfida a quidditch tra i due Potter, padre e figlio, fosse l’evento del secolo. 

E probabilmente lo era. C’era addirittura chi raccoglieva scommesse. Lily decise che non avrebbe fatto il tifo per nessuno.

“Come mai Harry ha cambiato idea?” chiese Hermione seduta vicino a Kiki. 

“Non lo so”, rispose questa senza distogliere gli occhi dal campo.

James finì di infilarsi i guanti e richiamò la scopa.

“Ti propongo una scommessa”, fece Harry fronteggiando il padre. 

“Di che tipo?”

“Chi vince può chiedere all’altro ciò che vuole”. 

James aggrottò le sopracciglia. “Qualunque cosa?”

“Sì. Che cosa vuoi?”

L’uomo esitò un momento prima di rispondere. “Voglio i tuoi ricordi. Non tutti, ma quelli più importanti”. Forse stava sbagliando ma quello gli sembrava l’unico modo per sapere della vita di suo figlio visto che non ne voleva parlare. Dopotutto non era detto che avrebbe vinto. Aveva sentito parlare della bravura di Harry sulla scopa. 

“D’accordo. Se invece vinco io voglio che tu chieda scusa a Piton per come ti sei comportato con lui quando eravate a scuola”. 

James per poco non ebbe una sincope. Che cosa ne sapeva Harry del suo rapporto con Piton?

“Come sarebbe a dire?”

“Accetti o no?”

James ci pensò un po’ su. “D’accordo. Guarda che mi sono allenato però”. Era vero, da quando aveva subito quell’orribile sconfitta da parte di Ginny aveva trascorso i suoi momenti liberi a volare con una scopa nuova di zecca che si era comprato pochi giorni dopo aver ripreso a lavorare.

I due si strinsero la mano e si alzarono in volo dove li aspettavano Ginny e Dean Thomas che si sarebbero dovuti occupare dei bolidi. Il pubblico iniziava ad andare in fibrillazione. 

James e Harry sgommarono con le proprie scope senza alcuna esitazione; Harry, approfittando del vantaggio di una scopa più veloce, riusciva sempre a stare qualche metro più avanti, ma James gli teneva testa abilmente. Fecero qualche giro e manovra, padroneggiando e fendendo il cielo con maestria, giusto per dare qualcosa di emozionante al pubblico. Ci mancò poco tuttavia che un bolide colpisse Harry nella nuca, ma il ragazzo con prontezza di riflessi sfruttò la presa del bradipo per capovolgersi e finire a testa in giù sul manico della scopa. 

La gente sugli spalti per poco non ebbe un infarto, Lily e Hermione soprattutto. 

Poi Harry lo vide, il boccino d’oro che svolazzava a pochi metri da lui, come a volersene fare beffe. Partì alla carica spingendo la scopa al massimo. James ci mise solo qualche secondo in più ma poi lo raggiunse in un sostenuto testa a testa. Harry allungò la mano e sfiorò la pallina dorata ma quella riuscì a fuggirgli. I due Potter rallentarono di colpo per non rischiare di finire contro gli spalti. 

Harry si voltò a fronteggiare il padre per riprendere fiato. 

“Tutto bene?” gli chiese James. 

Harry annuì. James non perse altro tempo e ripartì. 

La cattura fu semplice, nonostante la gara fosse durata circa un’ora. Forse James approfittò semplicemente della stanchezza di Harry o forse fu fortunato, oltre ad avere la propria bravura, ma alla fine si ritrovò col boccino ben stretto tra le mani. 

Harry lo guardò stringere l’oggetto alato, entrambe le mani strette sul manico della scopa e un’espressione un po’ incredula. Lo sguardo tra i due durò pochi secondi, poi Harry senza dire niente iniziò a scendere verso terra. James lanciò uno sguardo di scetticismo in direzione di Ginny, ferma con la mazza in mano, che gli rispose con una scrollata di spalle come a dire che non sapeva nulla. 

“Harry!” lo chiamò James quando entrambi poggiarono i piedi per terra. “Sei... Sei arrabbiato?” 

Il ragazzo si voltò verso di lui e inarcò le sopracciglia. Erano da soli nel campo. 

“Certo che no! Perché dovrei?” 

“Non lo so. Hai... Hai fatto una faccia strana. E non hai detto niente”.

Il più giovane sospirò e percorse quei pochi passi che lo separavano dal padre. 

“Non sono arrabbiato. È stata una bella partita, non mi aspettavo di vincere. È solo che... Non scherzavo quando dicevo che il quidditch mi ricorda alcune cose che... Insomma, ci sono dei ricordi che mi fanno ancora male”. 

Quelli di cui parlava Harry erano ricordi felici del suo sport preferito, tuttavia erano sempre legati a qualcosa di doloroso: Sirius che gli regalava la Firebolt e poi moriva due anni dopo, per colpa sua. La medaglia di suo padre nella teca di Hogwarts. Anche lui morto per colpa sua. Insomma, Harry si sforzava a mettere ordine nella propria testa ma gli serviva ancora del tempo. 

“Non dovevamo giocare per forza”. 

“No, va bene così. Lo volevo io. E poi, se non provo, non riuscirò mai a superarli”. 

James gli sorrise passandogli una mano tra i capelli. 

“Sai cosa facevo a Sirius sempre quando era triste?”

“Cosa?”

“Questo”.

James lo tirò con forza verso di sé e si buttò a terra tirandoselo appresso. Poi, con un colpo di reni, ribaltò le posizioni e lo fece finire di schiena sul prato. Harry non si aspettava di certo che iniziasse a fargli il solletico, tuttavia si ritrovò a ridere a crepapelle e a dimenarsi come fosse preso dalle convulsioni. Soffriva terribilmente il solletico. 

James riuscì a farsi strada attraverso la sua divisa e lo solleticava ovunque. 

“Smettila ti prego”, gli diceva tra le risate. 

James smise solo dopo un po’, ma si fermò a guardarlo a quattro zampe sopra di lui. 

“Che c’è?” gli chiese Harry quando fu tornato in sé. 

“Hai riso. Finalmente. Vorrei che lo facessi sempre, che ridessi di più”. 

Harry tornò improvvisamente serio e fissò il padre negli occhi. Era vero, in quegli ultimi mesi aveva fatto una fatica bestiale a ridere, anzi, non ricordava nemmeno più come si ridesse. Ma era felice che fosse stato suo padre a sbloccarlo. 

“Torniamo dagli altri. Si staranno chiedendo cosa stiamo facendo”, disse infine il ragazzo interrompendo quel momento che stava diventando troppo melenso. 

“Harry!” lo richiamò James quando si furono alzati. “Non serve che mi dai i tuoi ricordi. Non è necessario. Va bene così”. 

 

Lo fece lo stesso. Harry chiese alla professoressa McGranitt il favore di lasciarlo usare il pensatoio del suo ufficio, cosa che stranamente la donna gli concesse, probabilmente motivata dal fatto che era Harry, Salvatore del Mondo Magico e suo allievo preferito. 

Il ragazzo si fece accompagnare anche da Sirius e James. 

“Torno subito”, disse il ragazzo. “Intanto voi potreste chiarirvi”. Lanciò un’occhiata al quadro di Piton appeso accanto a quello di Silente e poi fece un occhiolino in direzione del padre. 

James spalancò la bocca quando capì quale era stato il piano di Harry tutto il tempo. 

“Piccolo stronzetto”, sbottò, ma il figlio era già sparito. Dopotutto, era figlio di suo padre.

Sirius lo guardava confuso. “Che sta succedendo?”

“Potter”. La voce altezzosa di Piton non aveva perso il suo tono nemmeno ora che parlava da un ritratto. “Sei peggio degli scarafaggi. Non ci si libera mai di te”. 

“E tu sei sempre brutto, anche attraverso un quadro. Dimmi un po’, lo shampoo non ce l’hai nemmeno li?”

Ma James, per qualche motivo che non capiva e che un po’ lo spaventava, si pentì subito di quelle parole. In fondo, Severus era morto e, per quanto tra di loro non fosse mai corso buon sangue, mancare di rispetto a un morto era troppo crudele persino per la loro inimicizia. E poi, lo doveva fare per Harry, diamine!

Sapeva che Piton aveva giocato un ruolo importante nella guerra per l’Ordine della Fenice. 

“Mocciosus, ascoltami bene perché non lo ripeterò un’altra volta”, prese un bel respiro prima di proseguire. “Ti chiedo scusa. Sono stato una merda con te durante gli anni di scuola. Non era giusto. Mi dispiace”. 

Sirius per poco non cadde a terra di testa. Fissava James come si gli fossero spuntate le antenne sulla fronte. 

Anche Piton era piuttosto sconvolto. 

“Felpato, non voglio essere solo in questa cosa. Chiedi scusa anche tu”, fece poi James all’amico dandogli un colpo sul braccio. 

“Cosa? Io che c’entro in tutto questo?”

“Lascia perdere, Potter”, li interruppe il quadro dell’ex professore. “Se proprio ci tieni a farti perdonare, fammi parlare con lei”. 

James lo guardò confuso. 

“Con Lily”. 

“Perché dovresti parlare con lei?”

“Non fare domande”. 

“È mia moglie, certo che...”. 

Severus sbuffò. “Sei proprio tardo. Fammi parlare con Lily. Ho bisogno di parlare con Lily”. 

Forse perché l’ultima frase era stata detta con un tono che sembrava vagamente di supplica o forse perché James si convinse davvero ad aiutarlo, uscì fuori per chiamare Lily. 

E dopo poco Lily entro nell’ufficio, richiudendosi la porta alle spalle. 

 

*** 

 

Vi starete chiedendo perché io abbia interrotto qui il capitolo e se il dialogo tra Lily e Piton avverrà nel prossimo. La risposta è no. La verità è che ho delle difficoltà col personaggio di Piton. Ho pensato per giorni a cosa i due si sarebbero potuti dire, come sarebbe potuta andare e non mi è venuto niente di decente. 

Perciò ho deciso di lasciare all’immaginazione del lettore, un po’ come facevano Puškin e Chekov nei loro racconti. Però chissà che non mi decida a esplorare la questione un po’ più in là. 

A me Piton come personaggio non è mai piaciuto però sentivo che c’era bisogno di inserire un confronto tra lui, James e Lily, altrimenti la storia sarebbe stata incompleta.

 

Comunque spero non abbiate sul serio pensato che avrei fatto rinchiudere ad Azkaban. Pensiamo anche ai Partigiani e a quelli della Resistenza che hanno combattuto i nazi-fascisti, uccidendoli e commettendo altri crimini. Eppure gli saremo sempre grati per averci liberato da una dittatura che prevedeva l’uccisione di milioni di persone. 

Ma non è questo il luogo più adatto per parlare di queste questioni. Cerchiamo di mantenerci su toni leggeri. Dopotutto, sempre di una fanfiction si tratta.

 

Bene, spero di aver detto tutto. 

Vi auguro una splendida pasqua, lasciatemi qualche commento e ci risentiamo alla prossima. 

 

Baci, 

Cactus.

 

 

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Capitolo 27
*** I Dursley ***


I DURSLEY 

 

Lily e James si guardarono sconvolti una volta usciti dal Pensatoio. Avevano appena passato l’ultima ora immersi nei ricordi di Harry, quelli che lui aveva deciso di passare loro. E l’unica cosa a cui riuscivano a pensare era che avevano perso troppo. Decisamente. E non avrebbero mai più avuto indietro quel tempo. 

Harry ne aveva passate tante: il trattamento dei Dursley, il Torneo Tremaghi, il Mondo Magico che lo considerava un bugiardo, le persone perse, i tentativi di Voldemort di ucciderlo... Non c’era da stupirsi che fosse distrutto. 

“Lily”, chiamò James a bassa voce, appoggiando piano la propria mano su quella della moglie. 

Lei puntò gli occhi verdi sul volto dell’uomo con uno sguardo glaciale che gli fece quasi paura. 

“Voglio ucciderla... Mia sorella... non posso crederci. Jamie, come hanno potuto trattarlo così?”

James non seppe cosa rispondere. Non aveva mai pensato che un giorno suo figlio sarebbe cresciuto coi Dursley. Aveva pensato a Sirius o Remus nell’eventualità. Addirittura Codaliscia prima di sapere da che parte stesse. 

“Andiamo da loro. Jamie, ho bisogno di parlarci”. 

“Tesoro, per quanto io voglia lanciare una maledizione a quel tricheco di Dursley, non penso che presentarci davanti alla loro porta sia una buona idea. In fondo, ci credono ancora morti”. 

“Se muoiono di infarto tanto meglio”. 

Lily si precipitò verso le scale, probabilmente diretta in camera a prepararsi. James invece uscì in veranda, appoggiandosi con le mani alla balaustra.

Poco dopo vide Sirius venire verso la casa con la tipica camminata che usava quando voleva rimorchiare, le mani affondate nelle tasche. Gli ricordava il giovane Sirius dei tempi di Hogwarts; il suo amico si era abituato abbastanza in fretta al ritorno alla vita, mentre lui ogni tanto si ritrovava piuttosto confuso e si sentiva un pesce fuor d’acqua. Dopotutto, il mondo era un po’ cambiato rispetto a come lo aveva conosciuto lui. E tutta la situazione con Harry non aveva aiutato molto. 

Magari avrebbe potuto aiutare il suo amico a trovare una donna, era solo da troppo tempo. Così si sarebbe distratto. A Hogwarts avevano fatto spesso questo gioco, cercare la partner giusta, trovare la ragazza giusta per ognuno di loro. Ma non era mai stato facile, ora che ci pensava. Remus e Peter erano i più testardi. 

Peter... 

“Ehi!” lo salutò Black. “Che c’è?” 

James non si era nemmeno accorto di essere rimasto a fissarlo come un baccalà. 

“Ci hai mai pensato? Al fatto che Peter... Insomma, Codaliscia potesse essere un Mangiamorte”.

Sirius tirò fuori le mani dalle tasche e se le sfregò contro i pantaloni, appoggiandosi alla ringhiera accanto a James. Perché diamine gli veniva in mente ora questa cosa?

“No, ovviamente. Altrimenti non ti avrei mai convinto a scegliere lui come Custode Segreto”.

“Sì, ma intendo... dopo. Quando ci ha traditi, non hai pensato al perché lo abbia fatto? Perché ha scelto di stare dalla parte di Voldemort? Magari... magari c’è un motivo preciso che non ci ha mai detto...”.

“James, Peter parlava poco. Non diceva molto di sé o di quello che provava. Ci seguiva e stava in silenzio. Io ho sempre pensato che avesse dei problemi per questo lo lasciavo stare con noi. Non lo vedevo capace di prendere decisioni di sua spontanea volontà”. 

“Appunto, per questo dico... Forse lo abbiamo trascurato e non lo abbiamo ascoltato a sufficienza”. 

Sirius tirò un profondo sospiro e si stropicciò gli occhi con le dita come fosse stanco. 

“Ramoso, non intenderai assumerti la colpa della decisione di Minus? Non lo abbiamo mai trascurato, lo abbiamo sempre coinvolto in qualsiasi cosa facessimo, era nostro amico e dovrebbe solo ringraziarci per questo perché altrimenti la sua vita ad Hogwarts sarebbe potuta essere più difficile”. 

James capì benissimo cosa l’amico intendesse: loro, i Malandrini, erano i più popolari e fighi della scuola, nessuno scherzava o osava mettersi contro di loro pertanto chiunque fosse nel loro giro, anche la ragazza di turno, era lodato come un Dio. Peter era un po’ la pecora nera, tutti si chiedevano come facesse ad andare d’accordo con i Malandrini eppure erano amici, stavano sempre insieme e quindi anche Peter aveva il rispetto della popolazione di Hogwarts. Altrimenti, con la sua timidezza e il suo essere impacciato sarebbe stato invisibile. 

“Ha scelto lui quella strada, non so perché e non so quando. Non era stato costretto, non era sotto incantesimo. Era lui. Ricordati che è anche colpa sua se tu e Lily siete morti, se Harry ha passato tutto quello che ha passato, tra cui crescere senza voi due, ed è colpa sua se io sono finito ad Azkaban. E non mi uscirà mai dalla testa il fatto che una parte della colpa sia anche mia perché io vi ho convinti a scegliere Minus”. 

James si raddrizzò puntando i piedi a terra come se vi si volesse ancorare, e puntò gli occhi nocciola in quelli chiari dell’amico. Che cosa diamine stava dicendo?

“Sirius, come puoi pensare una cosa del genere? Non è colpa tua”. 

“Andiamo, James, nemmeno tu puoi negare che se non ti avessi convinto a scegliere Minus tutto questo non sarebbe successo. Io sarei stato disposto a morire per voi”. 

“Non puoi saperlo. Magari sarebbe successo lo stesso”. 

“Non è vero. Dovevamo andare avanti col piano originale. Tu... Tu infatti non eri convinto e io avrei dovuto darti ascolto”. 

La voce di Sirius si stava spezzando e l’uomo dovette interrompersi di colpo. Non voleva piangere di fronte all’amico, aveva già versato numerose lacrime nella sua cella ad Azkaban e nella sua stanza a Grimmauld Place. 

James gli si avvicinò e gli sorrise cercando di infondergli sicurezza. “Senti, non rivanghiamo il passato. È andata come è andata e adesso abbiamo una seconda possibilità”. 

“Si, ma ci sono delle cose che non recupereremo mai”. 

“Puoi pensarla così. Oppure puoi semplicemente lasciar stare e andare avanti. Abbiamo una seconda possibilità. Non sprechiamola nei rimorsi”.

Sirius annuì lentamente fissando il muro bianco di fronte a sé.

“Hai ragione”. 

“E poi... non ti ringrazierò mai abbastanza per essere stato accanto a Harry. E per esserti sacrificato per lui”. 

“Non abbastanza. Avrei dovuto esserci di più”.

“Pretendi sempre troppo da te stesso”. 

Probabilmente James si sarebbe slanciato verso Sirius per stringerlo in un abbraccio, perché lui era quello che abbracciava le persone, ma Lily aprì la porta di colpo. 

“Sei pronto, James?” chiese al marito. 

“Dove andate?” domandò Sirius. 

“Lily si è messa in testa che vuole andare a trovare quell’amorevole donna di sua sorella”. 

 

Lily suonò il campanello due volte prima di vedersi aprire la porta del numero 4 di Privet Drive. Era probabilmente troppo arrabbiata per pensare prima a un piano per non far venire un infarto a sua sorella, o forse non le importava, ma James si stava chiedendo come sarebbero andate le cose ed era un po’ preoccupato delle conseguenze. 

Lui che si preoccupava delle conseguenze? Forse stava davvero invecchiando. 

La faccia cavallina di Petunia Evans in Dursley aprì la porta con cipiglio ingrugnito. Aveva un grembiule legato attorno alla vita sopra un orrendo abito a fiori molto kitsch. 

Strabuzzò gli occhi nel trovarsi quelle due persone davanti, quelle persone che non potevano essere in alcun modo davanti alla sua porta. Chissà quali pensieri le passarono per la testa, probabilmente i soliti che potrebbero passare a qualcuno che vede due persone morte comparire nella propria casa: che doveva essersi addormentata e star avendo un incubo, che qualcuno le stava facendo uno scherzo oppure... la magia, quella fottuta magia dalla quale aveva cercato di scappare per tutta la sua età adulta. 

“Vorrei tanto poterti dire di essere il fantasma di tua sorella tornato qua per tormentarti, ma non è così”, esordì Lily quando ebbe capito che l’altra sarebbe rimasta a fissarla e basta. Non era svenuta e non stava urlando, era già qualcosa. Ma Petunia sembrava essere diventata un blocco di ghiaccio. 

“Fammi passare, Tunia”. La più giovane la spinse via malamente e si fece strada verso la cucina. James seguì la moglie senza fiatare, i sensi all’erta come se si trovasse in territorio nemico. 

Petunia richiuse la porta, non senza aver prima guardato che nessuno li avessi visti dalle altre case, e raggiunse i suoi non graditi ospiti. 

“Petunia, se vogliono venderci qualcosa di’ che non siamo interessati”, si sentì urlare la voce forte di Vernon Dursley dal piano superiore. 

“C’è anche lui. Bene”. 

Lily, con un gesto della bacchetta, spostò una sedia facendola stridere violentemente contro le piastrelle del pavimento, e la indicò alla sorella. 

“Siediti”. 

In quel momento il grosso pancione di Vernon Dursley si intravide scendere dalle scale, per poi fare spazio al faccione arrossato che sbiancò non appena vide i due giovani insieme alla moglie. Erano passati vent’anni dall’ultima volta che li aveva visti eppure ogni tanto i loro visi lo perseguitavano negli incubi. 

Il signor Dursley aprì bocca per dire qualcosa - o urlare - ma fu prontamente fermato con un’agile manovra di bacchetta di James che lo spedì disteso sul divano legato e imbavagliato. Non aveva voglia di sentirlo blaterare, l’ultima volta che l’aveva fatto non era andata tanto bene. E inoltre non gli sembrava che Lily fosse in vena di essere pragmatica. Sperava solo che ora non comparisse anche il mini tricheco. 

Petunia non obbedì subito e la sorella dovette ripeterle l’ordine, questa volta in tono perentorio, la bacchetta alzata. Solo allora la più vecchia decise di fare come le era stato chiesto, spaventata dal bastoncino di legno che si vedeva davanti agli occhi. 

Vernon mugugnò qualcosa impedito dal bavaglio, e si agitò per quanto le corde glielo permettessero. Il suo viso era diventato ancora più rosso e gli occhi sembrava gli sarebbero cascati dalle orbite. 

“Non starò a spiegarti con quale assurdo e complesso incantesimo siamo tornati in vita io e James”, cominciò Lily guardando fisso Petunia che sembrava essere divisa tra il voler piangere e l’urlare. 

“Sappi solo che so come avete trattato mio figlio. Non starò nemmeno a chiederti perché, tanto so già la risposta. Tu e quel muflone idiota e senza spina dorsale di tuo marito non siete... Siete mai stati capaci di amare alcuno al di fuori di voi stessi”. 

James continuava a passare lo sguardo da uno all’altro dei Dursley, pronto a intervenire se la situazione si fosse fatta critica. Ma doveva tenere d’occhio anche Lily. Lei poteva essere la donna più dolce e gentile del mondo, ma quando si arrabbiava diventava peggio di una furia. 

“Non ho mai capito questo tuo astio nei confronti di noi maghi. Per quale motivo? Eri gelosa? Pensavi che mamma e papà volessero più bene a me? Per queste stupidaggini da bambina capricciosa hai dovuto maltrattare mio figlio? Non bastava che ci fosse un pazzo assassino a dargli la caccia, dovevate tormentarlo anche voi?” Ora era Lily quella che sembrava essere sulla soglia delle lacrime, ma più per la frustrazione che altro. 

“Lily, io...”, cercò di intervenire Petunia facendo per alzarsi.

“Resta seduta!” le urlò l’altra spaventando anche James. “Non ti muovere o giuro che ti schianto!” Le puntò di nuovo la bacchetta contro. 

“Lils, tesoro, stai calma”, le disse James ma la moglie fece finta di non sentirlo. 

“Certo, non avrei mai affidato mio figlio alla tua famiglia, non mi sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello, però non avrei nemmeno mai immaginato che tu, sangue del suo sangue, lo avresti trattato alla stregua di un cane. Anzi, peggio”.

“Tu non puoi capire, Lily”. 

“Non posso capire cosa? Tunia, non dire cazzate. Io sono morta! Ho dovuto abbandonare mio figlio, l’ho dovuto... tu non sai cosa si prova a tornare indietro e vedere quante cose ti sei persa, vedere che tuo figlio è cresciuto ed ha cercato di fare il meglio che poteva, vederlo stare male... e questo anche per colpa tua!”

Lily si zittì di colpo rendendosi conto che forse aveva parlato un po’ troppo. 

Trasse un grosso respiro e ricacciò indietro le lacrime. “Sai cosa? Non riesco neanche ad essere arrabbiata. Mi fai talmente pena, tu e la tua famiglia di poveri mentecatti con una vita noiosa e misera mi fate talmente pena che non riesco ad essere arrabbiata. Ci penserà la vostra vita di merda ad affossarvi”.

James sbarrò gli occhi incredulo. Non aveva mai visto la sua Lily imprecare così tanto o sperare il male per qualcuno. 

La ragazza si girò sui tacchi e si diresse alla porta. 

“Andiamo, James. Non abbiamo più nulla da fare qui”. 

“Aspetta, Lily!” La fermo Petunia prima che uscissero. 

Le due si guardarono per qualche secondo, indecisa la più vecchia e infuriata la seconda. 

“Harry... come sta? Dimmi, come sta?”

“Ti importa davvero?”

Petunia non rispose, non fece alcuna mossa. Le importava? Da qualche parte, nelle profondità del suo cuore, sì le importava. Dopotutto, lo aveva cresciuto quel ragazzo, lo aveva visto compiere tante più cose di quante non ne avesse viste Lily. Non lo aveva mai odiato davvero, solo che... Le ricordava qualcosa che lei non aveva mai avuto e le ricordava quella sorella che aveva perso. 

“Come non detto”, sospirò Lily e uscì dalla porta, seguita in silenzio da James. Vernon Dursley fu lasciato sul divano legato e imbavagliato, ma sarebbe stato libero non appena loro avessero girato l’angolo. 

I due camminavano spediti, o meglio, Lily camminava spedita, senza guardarsi né indietro né attorno, lo sguardo basso e i capelli lunghi che svolazzavano attorno a lei come fiamme. James cercava di starle dieto, senza sapere come comportarsi. 

“Lily! Lily! Aspetta!” La fermò afferrandole la mano. La voltò verso di sé e vide i suoi occhi verdi completamente umidi per le lacrime mal trattenute. “Lily, fermiamoci un attimo”.

“Perché? Perché dobbiamo fermarci?” Chiese lei con aggressività. 

“Perché stai male”.

“E allora?”

“E allora non voglio che tu stia male”. 

James la spinse contro il proprio corpo per stringerla, nonostante lei facesse resistenza. Solo dopo qualche tira e molla, la ragazza si lasciò andare e permise a James di cullarla li in mezzo al marciapiede di Privet Drive dove probabilmente alcuni sguardi curiosi li spiavano dalle finestre. 

“Non voglio che tu stia male. Non per colpa loro”.

“Hai visto come lo hanno trattato? Tutti quegli anni? Non gli hanno dato un briciolo di amore. Non è giusto. Io...”. 

Scoppiò in lacrime contro la spalla di James che la cullò come aveva fatto con Harry un mesetto prima. 

“Lo so, tesoro. Lo so. Ma non possiamo farci niente ora. Possiamo solo compensare, okay?”

Si ripeté in testa le parole che aveva detto a Sirius poco prima: non potevano tornare indieto, potevano solo andare avanti e cercare di non sprecare la seconda possibilità. 

Lily annuì sollevando lo sguardo su quello dolce del marito. Aveva ragione, ora l’unica cosa che potevano fare era compensare dando a Harry tutto l’amore possibile. 

“Andiamo via da questo posto. Mi mette i brividi”. 

“Certo”. 

I due ripresero a camminare mano nella mano, sotto la luce rossastra del tramonto, diretti a un posto isolato dove potersi Smaterializzare.

“Comunque, eri eccitante così arrabbiata. Ma anche spaventosa. Mi hai messo paura”, disse James calmo. 

“Scusami, Jamie. Avevo bisogno di sfogarmi”. 

“Secondo te penseranno che siamo stati un miraggio?”

“Non lo so. Può darsi. Non mi interessa più”. 

 

***

 

Eccomi qua! Avevate paura mi fossi dimenticata? 

Mi sono divertita molto a scrivere questo capitolo sui Dursley, ci stava un incontro con i Babbani. Mi sono invece sempre chiesta quale fosse stata la vera motivazione per cui Codaliscia avesse scelto di stare dalla parte di Voldemort. Mi sembra troppo banale si fosse trattato solo di semplice paura. Non lo so, credo che la Row non lo abbia mai veramente spiegato. Ditemi le vostre teorie. 

 

Vi auguro un buon fine settimana. 

Baci, 

C. 


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Capitolo 28
*** L'intervista ***


L’INTERVISTA 

 

Quando la professoressa McGranitt annunciò che ci sarebbe stato un grande ballo il giorno dell’anniversario della Battaglia di Hogwarts scoppiò una concitazione generale. Perlopiù gli studenti ne erano contenti; c’era chi era semplicemente contento di potersi divertire e rilassare dopo mesi di studio intenso e chi avrebbe approfittato dell’occasione per passare una serata col proprio partner o conquistare il cuore di qualcuno. Ma altri non vedevano tanto di buon occhio il voler ricordare una battaglia che ha portato via tanti morti con una cosa così sfarzosa e allegra.
Harry si accodava a questi ultimi, non tanto perché l’evento non gli sembrava adatto, ma perché oltre agli studenti, ci sarebbero stati anche tutte le persone che avevano partecipato alla battaglia, che avevano collaborato per la liberazione da Voldemort e, soprattutto, persone importanti del Ministero e i giornalisti. Sapeva già che l’attenzione sarebbe stata su di lui. 
“Che dite? Sarà divertente!” fece Hermione una mattina durante la colazione. 
“Davvero, Hermione? Un ballo? Se c’è una cosa che odio quanto i ragni è ballare”, si lamentò Ron addentando un panino con la marmellata. 
“Dai, Ron. Non dobbiamo ballare. Possiamo dondolare sul posto”. 
“Voi dondolerete, io ho tutta l’intenzione di ballare”, si intromise Neville con un sorriso smagliante. Dopotutto, Paciock aveva piacevoli ricordi dell’ultimo ballo che era stato organizzato a Hogwarts per il Torneo Tremaghi. 
“Ma sentilo! Voglio proprio vedere”, lo prese in giro Seamus beccandosi un pugno sulla spalla dall’amico che rispose lanciandogli addosso un’oliva. L’altro la afferrò e se la mise in bocca. “E ho tutta l’intenzione di invitare Hannah Abbott”. 
Ma oltre alla festa, la Preside aveva anche annunciato che quella sarebbe stata l’occasione per gli studenti dell’ultimo anno di vivere l’ultimo giorno ad Hogwarts; aveva deciso, infatti, di concedere alcune settimane libere dallo studio, a casa, per coloro che dovevano studiare per i M.A.G.O cosicché potessero prepararsi al meglio. 
Di questo non protestò nessuno, nemmeno Hermione. Nei giorni seguenti, si sentì parlare soprattutto della festa per i corridoi del castello. 
Harry invece si era lasciato convincere dai suoi amici a rilasciare un’intervista, quella per cui i giornalisti tanto agognavano. Perciò scelse un giornale, quello che secondo Hermione sembrava essere il più affidabile, e riuscì a organizzare, preferendo recarsi lui stesso alla loro redazione piuttosto che farli venire ad Hogwarts. In fondo, voleva che la questione fosse tenuta a basso profilo, almeno prima dell’uscita del pezzo.
La giornalista che lo accolse e che avrebbe fatto le domande, Mary Woodson, era una signora sulla trentina, con la faccia piena di trucco, i capelli che le scendevano in morbidi boccoli sulle spalle e dei tacchi vertiginosi. Harry davvero non capiva come facesse a stare in piedi su quei cosi, forse con qualche magia. Non lo fece sentire troppo a disagio, si mostrò disponibile e amichevole - naturalmente solo dopo avergli fatto i suoi complimenti e avergli detto quanto intervistarlo e stare con lui nella stessa stanza fosse per lei un onore, frasi alle quali Harry iniziava ad abituarsi ormai, ma dopotutto non aveva molta scelta - e gli promise che la loro sarebbe stata una semplice chiacchierata. Il ragazzo ringraziò mentalmente che Mary non avesse una penna prendi-appunti che scriveva quel cacchio che le pareva. 
“Allora, com’è la vita del Salvatore del Mondo Magico?” chiese la giornalista rompendo il ghiaccio. Il suo tono fu scherzoso e rilassato, suggeriva un’intervista senza troppe pretese ma Harry si sentì stringere lo stomaco a quella domanda. Come andava la sua vita? Non era sicuro di quanto volesse rivelare in quel momento alla comunità magica. Per fortuna che a un certo punto gli portarono del Whiskey Incendiario; forse lo avrebbe aiutato a rilassarsi. 
“Direi… piuttosto normale. Come quella di qualsiasi altra persona”. 
Mary rise. “Non ci credo. Davvero. Sei la persona più famosa del Mondo Magico, quella di cui si parla di più. La gente muore dalla voglia di sapere, di conoscerti meglio, di sapere come è stato sconfiggere Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato”. 
Harry sospirò buttando giù un sorso dell’alcolico. “Non c’è molto da sapere. Ho fatto quello che andava fatto”. 
“Non tutti avrebbero avuto le palle di farlo”, commentò Mary in tutta schiettezza. Iniziava a piacergli quella tizia. 
“Forse. Ma ho avuto anche tanta fortuna. Ho sconfitto Voldemort diverse volte…”. Harry notò l’espressione vagamente sconcertata della donna di fronte a lui al sentir pronunciare quel nome, ma il ragazzo fece finta di niente; non gli andava a genio che la gente avesse ancora paura di pronunciare il nome di Tom Riddle anche ora che era morto. “… e il più delle volte non avevo nemmeno idea di cosa stessi facendo. E comunque, non ce l’avrei mai fatta senza i miei amici”. 
E allora Harry raccontò qualcosa della faccenda degli Horcrux, dei mesi che passò insieme a Ron ed Hermione a dar loro la caccia e a nascondersi dai Mangiamorte e della Battaglia di Hogwarts. Un riassunto piuttosto spicciolo rispetto a tutto quello che era successo davvero, all’ansia, allo stress, alla paura, alla disperazione… 
“E il drago?” chiese Mary. La fuga dalla Gringott a cavallo di un drago non era passata inosservata  a nessuno della comunità magica e la giornalista lo guardava con due occhi luminosi, probabilmente eccitata all’idea di sapere come qualcuno avesse cavalcato un pericoloso drago. 
“Quella è stata tutta improvvisazione”. 
“E che mi dici degli ultimi articoli usciti sulla Gazzetta che ti riguardano? Sai, la storia dei Mangiamorte… torturati”. 
Se c’era qualche motivo per cui Harry era titubante all’idea di rilasciare un’intervista era proprio quello, ma Hermione gli aveva detto che era suo diritto non dover rispondere a tutte le domande. Il ragazzo abbassò lo sguardo e si guardò le mani titubante. 
“Sai, è stato… è stato difficile dopo. Uno di solito non pensa alle conseguenze di una guerra, quando si combatte in prima linea si pensa soltanto al presente, a quello che si deve fare, ad affrontare il nemico e poi… E poi, quando è tutto finito, devi fare i patti con quello che è successo, con quello che hai passato e con le persone che hai perso. Ho sbagliato, mi pento di quello che ho fatto a quei Mangiamorte. Ma non ero molto in me, soffro ancora di stress post-traumatico e…”, Harry si bloccò a un tratto quando si rese conto di quello che aveva detto. Guardò Mary che, dallo sguardo con cui lo scrutava, moriva dalla voglia di sapere che altro avrebbe detto. Non sembrava starlo giudicando né altro. Ormai aveva lanciato il sasso, tanto valeva mostrare la mano. “Insomma, sono umano anche io. Avevo perso tanti amici e non stavo bene. Non mi sto giustificando, sia chiaro, però… Ho sbagliato, ecco”. 
“Penso che tutto il Mondo Magico concorderà nel dire che nessuno giovane come te avrebbe dovuto affrontare una cosa simile”. 
“Non è che avessi molta scelta”. 
“Che intendi?” 
Forse spinto dai leggeri effetti dell’alcol che iniziava a sentire e dall’aria amichevole e disponibile di Mary, Harry raccontò di Silente, di quello che era il suo piano, della profezia che lo indicava come il Prescelto - della quale comunque si era parlato in lungo e in largo anche nei giornali - e del fatto che anche lui sarebbe dovuto morire insieme a Voldemort. Ma si premurò di tralasciare il dettaglio che lo vedeva essere un Horcrux e di come erano andate le cose di preciso nella Foresta Proibita.  
“E i tuoi genitori?” 
A quel punto Harry prese un altro sospiro e trangugiò l’ultimo sorso.
“Ammetto che quella è stata una bella sorpresa ma anche uno shock. Sono contento ma stiamo ancora cercando di costruire un rapporto. È una questione privata, comunque”, rispose semplicemente tagliando corto. 
“Ho un’ultima domanda, una cosa che a questo punto tantissimi nel Mondo Magico penso si stiano chiedendo, in particolare le donne”, Mary gli mostrò un sorriso malizioso e voltò la pagina del suo taccuino per trovarne una pulita. “Sei single?” 
Harry si trovò a ridacchiare. “No. Ho una ragazza”. 
“Deve essere fortunata”. 
“Oh no, sono io quello fortunato. Lei è perfetta, da tutti i punti di vista. Insomma, ci vuole pazienza e coraggio a stare con me e lei è entrambe le cose. Paziente e coraggiosa”. 
“Ci tieni molto a lei”. 
“Da morire”. 

 

La rivista per la quale Harry aveva concesso l’intervista era un settimanale perciò si dovette aspettare mercoledì per vederla pubblicata.
Il moro si svegliò piuttosto teso quella mattina: temeva che alcune delle sue parole sarebbero state travisate o cambiate, addirittura si stava pentendo di alcune cose che aveva raccontato, ripensando che forse doveva dirle meglio. Ma, soprattutto, lo imbarazzava l’idea delle foto. Non aveva messo in conto che avrebbero potuto chiedergli anche di fare un set fotografico; dopotutto, quello non era un quotidiano come la Gazzetta, ma una rivista che puntava tanto anche sulle foto e sulle immagini, non si sarebbero accontentati di una sua vecchia foto tirata fuori da chissà dove. Si era sentito a disagio a fissare un obiettivo con le espressioni che gli dicevano di fare e che non si sentiva affatto proprie, dopo essere stato vestito e pettinato.
Tuttavia, quando il giornale uscì e venne passato di mano in mano tra gli studenti di Hogwarts durante la colazione, e pure tra gli insegnanti, Harry dovette ammettere che non gli dispiaceva. Persino le foto non erano venute male, anzi. 
“WoW!” esclamò Karen guardando la foto che occupava due pagine in verticale e che mostrava un Harry serio, la mascella serrata e lo sguardo tagliente. Sedeva su una poltrona, la schiena piegata in avanti con i gomiti poggiati sulle ginocchia e la bacchetta tenuta mollemente tra le dita. La camicia rossa che gli avevano fatto mettere era leggermente aperta sul petto per lasciar intravedere il tatuaggio del drago. I capelli scuri e lunghi gli erano stati legati in una treccia che partiva dall’alto. Ma ciò che attirava soprattutto l’attenzione erano gli occhi di un verde intenso, quasi del colore dell’anatema che uccide, che fissavano dritto in camera. Distoglievano l’attenzione da tutto il resto e a tratti sembravano voler intrappolare lo spettatore. Lo sfondo della foto era scuro, si intravedeva solo la poltrona marrone su cui lui stava seduto e una finestra con delle tendine corte aperta dietro. Quella particolare foto non si muoveva
“Ginny, temo proprio che dovrai fare molta attenzione. Mi sa che molte ragazze si appenderanno questa foto in camera”. 
La rossa sbuffò ma era troppo concentrata a guardare una foto più piccola - e magica questa volta - in mezzo all’intervista che mostrava Harry in piedi, leggermente di profilo e vestito completamente di nero - jeans e una semplice maglietta dallo scollo a V - in cui il ragazzo si passava la mano tra i capelli spettinati e spostava lo sguardo dalla parte opposta rispetto alla fotocamera - come volesse sfuggire all’obiettivo - mentre accennava un sorriso sghembo ma dolce, vagamente in imbarazzo. Lo sguardo era tenuto basso perciò il colore degli occhi non si vedeva. Ma Ginny era incantata da quella foto e da quel sorriso.
“Ehi, Harry!” lo chiamò Seamus Finnigan alcuni posti più in là, sventolando la rivista. “Hai intenzione di diventare il nuovo sex symbol?” 
Harry gli tirò addosso un fazzoletto spiegazzato che Seamus cercò di evitare lanciandosi su Dean Thomas mentre rideva come un idiota. 
“Direi che è andata bene”, commentò Hermione passando la rivista in mano a Ron. 
“Gin, hai letto l’ultima parte?” chiese il rosso alla sorella. 
La ragazza sfogliò la sua rivista all’ultima pagina; non aveva letto praticamente nulla, concentrata come era sulle foto. Si fermò sulle domande e le risposte che parlavano di Harry e lesse più volte, lo sguardo che si addolciva sempre di più e quasi si commuoveva. 
Quando alzò lo sguardo su di lui i suoi occhi color cioccolato erano lucidi. “Oh, tesoro. Grazie”. 
“E di cosa? Ho solo detto la verità”. 
La ragazza gli poggiò un delicato bacio sulla bocca e lui socchiuse le labbra per lasciar entrare la sua lingua. 
Qualcuno accanto a loro imitò il suono di un conato. “Per favore, potreste evitare di farlo davanti a me?” si lamentò Ron al che i due innamorati si staccarono subito sorridendo divertiti. 
I cinque amici si alzarono per andare a lezione. Purtroppo, Harry non aveva tenuto molto conto di quelli che gli avrebbero chiesto di autografare la rivista, chi per sé stesso, chi per la madre, la zia, la sorella, la nonna o una qualche lontana parente. Harry, pazientemente, le firmò tutte, ma in pausa studio decise che ne aveva abbastanza e si ritirò per un po’ nel dormitorio. 

 

“Lily, cosa vi siete detti tu e Piton quel giorno a Hogwarts?” chiese James alla moglie mentre erano in pausa dal lavoro e si bevevano un caffè nel bar del Ministero. Lui era appena tornato da un giro di pattuglia perché un’anziana strega aveva avuto l’impressione di aver visto un Mangiamorte in fuga nascondersi nel suo giardino. Invece era solo il suo dannato gatto. 
Era bello tornare al lavoro, ma era stato un po’ meno bello cercare di ignorare le occhiate e i sussurri della gente al loro passaggio. Anche se potevano capire quanto alla gente facesse strano vedere delle persone credute morte per tanti anni.
Lily alzò lo sguardo sul marito aggrottando la fronte. “Perché me lo chiedi?” 
“Così, per sapere”, fece James scrollando le spalle per cercare di essere il più neutrale possibile, ma la verità era che moriva dalla voglia di sapere.
“Nulla di che, Jamie”. 
“Come sarebbe a dire? Sei rimasta a lungo in ufficio”. 
“Non ci sono rimasta così tanto. Non ci siamo detti nulla di davvero importante, sai… Voleva chiedermi scusa per - insomma, per come sono andate le cose”. 
“Per averti chiamata Mezzosangue”, disse James stizzito. Possibile che dopo tutti quegli anni gli rodesse ancora? 
“James”, lo rimbrottò Lily. “Possiamo lasciar perdere? Insomma, sono passati anni e - dispiace anche a me. Sai, mi sento un po’ in colpa per… tutto. Forse avrei dovuto perdonarlo. Magari non si sarebbe unito a Voldemort se…”. 
“Ehi”, la interruppe il marito. “Non pensarci nemmeno. Non provare a prenderti la colpa per le scelte di Piton. Lui ha deciso di seguire Voldemort”. 
Lily si scambiò uno sguardo dolce ma un po’ mesto con James e finisce il proprio cappuccino. Probabilmente entrambi volevano parlare ancora di quella cosa, chiarire e togliersi tutti i sassolini dalle scarpe perché in fondo Lily ci stava ancora un po’ male per la fine della sua amicizia con Severus e anche per come era morto, alla fine, sacrificandosi per suo figlio - da quello che aveva visto dai ricordi di Harry - per il suo ruolo pericoloso nella guerra contro il Signore Oscuro. Gli aveva detto - o meglio, lo aveva detto al quadro di Piton - quanto gli fosse grata e che desiderava davvero aver potuto sistemare le cose. 
Severus aveva capito e le aveva augurato di essere felice. Ma Lily non poteva fare a meno di pensare che non era giusto e che sarebbe stato difficile essere davvero felici sapendo tutto quello. Peccato che in realtà lei sapesse molto poco. 
Sirius li interruppe bruscamente buttando sul tavolo davanti ai loro occhi la rivista che gli era capitata tra le mani poco fa e che sfoggiava in copertina una bella foto artistica di Harry.
“Leggete un po’ qua”. 

 

***

 

Non so se in questo capitolo Harry mi sia uscito un po’ OOC. Però insomma, ormai ha 18 anni, ha sconfitto Voldemort. Diamogli un po’ di fiducia in sé stesso e autostima! 
Spero abbiate apprezzato. 

Bacioni,
C.

 

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Capitolo 29
*** Il ballo ***


IL BALLO

 

“Temi che se ti rilassi troppo e ti permetti di essere felice,
potrebbe succedere qualcosa di spiacevole”.
“Non sono mai stato davvero felice. Non a lungo”.
“Ora non è più così, lo sai, vero?”
“Io lo so, però… Devo convincermene”.
“Rilassati, Harry, respira. Ora puoi respirare”.  

 

L’intervista aveva fatto sì che le persone parlassero di Harry Potter - Salvatore del Mondo Magico, Golden Boy - se possibile ancora di più. Dopo la richiesta di autografi da parte dei suoi compagni,  gli erano arrivate lettere tutti i giorni, riviste e giornali che volevano che rilasciasse un’intervista anche a loro - gelosi perché Harry aveva scelto un’altra - e fan che gli mostravano tutta la loro solidarietà e la loro vicinanza - specialmente inerente al suo stress post-traumatico, dicendogli che non era l’unico che si trovava in quella situazione e che lo capivano - gli facevano ancora i complimenti e sottolineando quanto gli fossero grati.
Almeno ora Harry si era tolto ogni dubbio riguardo quell’intervista e se prima si era pentito di aver parlato dei suoi problemi mentali, ora non ne era più così turbato.
Ma la lettera che più gli fece piacere fu quella di Sirius e dei suoi genitori che gli dicevano che ammiravano come avesse gestito le domande e gli ripetevano nuovamente che erano orgogliosi di lui; ma aveva come l’impressione che i suoi genitori avrebbero trovato poche occasioni per non essere orgogliosi di lui, tuttavia ne era felice in ogni caso. 
Il problema iniziò a porsi però quando le ragazze iniziarono a occhieggiarlo troppo spesso, a salutarlo e sorridergli per i corridoi e qualcuna di loro gli regalò persino dei dolcetti, ma Harry non si fidò a mangiarli per paura che fossero pieni di pozione d’amore e Ron ne ricordava bene qualcosa. Qualcuno cercò persino di invitarlo al ballo, non tenendo conto del fatto che lui avesse già la ragazza. E Ginny era una da temere parecchio. Nessuno si capacitava come avesse fatto a non prendere provvedimenti verso quelle ragazze che gli avevano regalato i dolci, ma si giudicava superiore. E si fidava di Harry. Dopotutto, nell’intervista le aveva dato buon credito.
La data del ballo di commemorazione si avvicinava sempre di più, così come quella degli esami, la parte che più preoccupava Hermione, ma aveva comunque trovato il tempo di andare con i suoi amici a comprare un vestito per l’occasione. 
Harry e Ron se li erano fatti fare su misura e aspettavano che arrivassero via gufo. Ron non avrebbe certo voluto ripetere l’esperienza del Ballo del Ceppo e il suo orrendo abito che tanto gli aveva ricordato zia Tessa.
Il moro si stava allontanando dalla Guferia quando notò Karen seduta vicino al Lago Nero. Esitando un po’ all’inizio, decise alla fine di raggiungere l’amica. La ragazza era seduta sul prato col mantello appoggiato sotto il sedere e fumava con calma una sigaretta, gli occhi chiari persi in contemplazione di qualcosa di fronte a lei. Sul lago si poteva vedere qualche increspatura, ma nessuna traccia della piovra gigante. 
“Ehi!” 
“Ciao!” lo salutò lei. 
“Ti spiace se mi siedo?” 
“Fai pure”. 
I due restarono per un po’ in silenzio, lasciando che i raggi del sole primaverile scaldassero i loro volti pallidi. 
“Me ne offri una? Ho dimenticato il mio pacchetto al castello”, chiese Harry prendendo il pacchetto di sigaretta buttato ai piedi di Karen. 
“Ma certo!” esclamò la ragazza gentilmente. Non gli avrebbe mai rifiutato una sigaretta o altro, ma Harry percepiva che in quel momento non era del tutto in sé. 
“Che cos’hai, Kiki?” le chiese accendendosi la sigaretta con la bacchetta ed esalando le prime boccate. 
“Non ti preoccupare, non è nulla”, rispose l’altra passandosi le mani sulle gambe coperte dalle calze scure della divisa in un gesto nervoso. Per tutto quel tempo non lo aveva guardato negli occhi nemmeno per sbaglio. 
“Kiki…”, la richiamò Harry in tono di rimprovero. 
Karen sospirò e finalmente si voltò a guardarlo, da sopra il proprio braccio teso. Tutto il suo corpo era teso, le braccia allungate per raggiungere le caviglie e circondarle con le mani in un istintivo gesto di protezione.
“È solo che… Stavo pensando…”. 
“A cosa?” 
“Alla fine della scuola”. 
“E?” 
“E non lo so… Qua mi sentivo al sicuro, in qualche modo. Aver conosciuto te e i tuoi amici ed essere… Sì, insomma… Dalla morte di mio
fratello e di quella di mia madre non ho tanta voglia di tornare a casa. Mia zia non è la persona più amichevole e a casa mia starei da sola. Non mi va di mollare tutto questo, di non vederti più. E inoltre, non so nemmeno cosa fare della mia vita dopo”.
 
“Karen!” esclamò Harry appoggiandole una mano sulla spalla cercando di essere il più rassicurante possibile. Nell’altra reggeva la sigaretta. “Non smetteremo di vederci solo perché non andremo più a Hogwarts”.
“Lo so, però… Adesso lo dici, ma sai come vanno a finire certe cose… Ci si perde di vista e…”. Il suo tono sembrava diventare sempre più piagnucolante.
“Kiki!” Il ragazzo sospirò. Qualche mese fa probabilmente non lo avrebbe pensato, ma non gli dispiaceva del tutto di andarsene da Hogwarts. A casa c’erano i suoi genitori ad aspettarlo - e ogni tanto ancora faticava a crederci - e pure Sirius, il suo figlioccio e Remus. La sua vita finalmente stava andando lungo la retta via, si sentiva di nuovo sé stesso e ora finalmente poteva sorridere sapendo di potersi concedere un futuro felice, lontano dalla minaccia di Voldemort o dei suoi tormenti. E voleva che anche alla sua amica fosse concesso ciò. Gli dispiaceva che lei non avesse potuto avere la seconda occasione che aveva avuto lui e magari rivedere suo fratello e sua madre - era una cosa sulla quale stava ancora lavorando, il suo senso di colpa - ma era innegabile che Karen se la stava passando male e lui doveva esserci per lei, così come lei c’era stata per lui. “Io non ho intenzione di allontanarmi da te. Continueremo a vederci e frequentarci, uscire tutte le volte che vorrai”. 
Fece scivolare la mano dalla sua spalla all’avambraccio, stringendole poi il polso in un gesto d’affetto.  
“Karen?” la chiamò, ora con voce incerta.
“Sì?”
“Posso farti una domanda scomoda?” 
Lei lo guardò incuriosita. “Non lo so, prova”. 
“Hai mai… Hai mai avuto contatti con tuo padre da quando se ne è andato?” 
“No, nessuno”. 
“E hai mai pensato a cercarlo? Per sapere dov’è, cosa fa. Sai, per dirgli di tua madre e tuo fratello, se non lo sa”. 
Lei non rispose subito, non lo guardò, tenne gli occhi fissi sul Lago Nero.
“Non lo so, non credo mi interessi. In fondo, nemmeno a lui importa di me o della mia famiglia”. 
“Non dovete essere amici o… Insomma, non devi vederlo come un padre. Solo parlarci, magari capire perché se n’è andato”. 
“Se n’è andato perché era stufo di noi!” rispose l’altra quasi urlando, questa volta stizzita. 
Harry le lasciò andare il polso, zittendosi e finendo la sigaretta. 
“E poi, non saprei nemmeno dove cercarlo”, aggiunse Karen questa volta più calma, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe. 
“Si può chiedere al Ministero. Avranno certamente gli indirizzi di tutti i maghi”. 
“Non sono così sicura che me lo daranno con facilità”. 
“Potrebbero darlo a me. Sai, come Salvatore del Mondo Magico la gente mi concede tutto piuttosto facilmente”. 
Karen fronteggiò lo sguardo del ragazzo, inizialmente perplessa e sbigottita, poi si aprì in un sorriso divertito e genuino. 
“Idiota!” 
“È vero! Basta che mi dici il suo nome e posso provare a chiedere qualcosa”.
“Si chiama Marcus… Marcus Wilson. È un Nato Babbano. Ma non credo di volerlo cercare”. 
I due continuarono a ridere, finendo a parlare questa volta di cose più frivole, come il ballo, gli esami e i professori, fumandosi altre due sigarette a testa. 

 

“Kiki, tu con chi vai al ballo?” chiese a un certo punto Ginny, seduta insieme a Harry, Ron ed Hermione nella sala comune dei Grifondoro, dopo cena. Quattro paia di teste si voltarono verso la ragazza dai capelli scuri, persino quella di Hermione nonostante fosse immersa nella lettura di un libro di Aritmanzia. 
“Con nessuno”, rispose l’altra noncurante. 
“Come sarebbe a dire?!” esclamò Ron. “Nessuno ti ha invitata?” 
“Sì, mi hanno invitata. Un ragazzo di Corvonero e anche Seamus però io… Ho detto di no”.
“Perché mai?” fece Hermione, il tono delicato. 
Karen sospirò, spostando lo sguardo verso le fiamme che crepitavano nel camino regalando loro un atmosfera confortevole e calma. 
“Non so, non mi andava molto. Di solito le persone si aspettano sempre che sia qualcosa dopo… dopo gli appuntamenti intendo, specialmente dopo i balli e a me non va”. 
“Non deve essere così per forza. È solo un ballo, sono certa che Seamus o quell’altro ragazzo lo avrebbero capito”. 
“Non mi va di deludere le aspettative di nessuno. E poi, perché bisogna per forza andare con qualcuno? Posso anche andarci solo con i miei amici?” La ragazza esitò leggermente sull’ultima frase, sentendo salire all’improvviso una certa indecisione. Aveva forse dato troppo per scontato che sarebbe stata insieme agli amici, ma loro erano tutti accoppiato e sicuramente avrebbero ballato insieme e magari preferito trascorrere una serata romantica. 
“Certo che sì! Non devi andarci con nessuno se non ti va. Ti faremo compagnia noi”, la rassicurò Harry sorridendole. 
“Assolutamente!” aggiunse Ginny, rannicchiandosi meglio tra le braccia di Harry. La conversazione si esaurì lì e ognuno tornò a rivolgersi ai propri affari, ma Harry continuò a lanciare sguardi di sottecchi in direzione di Karen che sembrava essere piuttosto immersa in qualche pensiero poco piacevole. 

 

Harry aspettava che Ginny scendesse dalla stanza delle ragazze per potersi dirigere alla festa. Era praticamente solo nella Sala Comune, gli ultimi primini erano usciti pochi minuti prima felici nei loro abiti eleganti. Lui non era abituato ad essere così elegante, gli dispiaceva non poter andare in jeans e maglietta, ma doveva anche ammettere che quella camicia nera, il gilet aderente grigio, sotto cui spuntava la cravatta nera come la camicia e perfettamente annodata - grazie ad Hermione - non gli dispiaceva. Si sistemò la cintura che gli tenevano su i pantaloni scuri come il resto del completo e fece per passarsi una mano tra i capelli, ricordandosi all’ultimo che Kiki glieli aveva legati in una treccia, proprio come nelle foto della rivista. 
Sospirò e si fermò vicino al camino, appoggiandovisi con un braccio e la mano stretta a pugno. Se avesse detto di non essere nervoso avrebbe mentito; non era ancora abituato a stare in mezzo a tanta gente, con tutti che lo guardavano e che cercavano di avvicinarlo per parlargli. Il pensiero che quella d’ora in poi sarebbe potuta essere la sua vita, con la paura della gente e della fama, e si sentì torcere lo stomaco. 
Quando vide Ginny scendere le scale però, tutte le sue preoccupazioni e le sue ansie sparirono in un attimo. Rimase a fissare la ragazza come un baccalà; indossava un lungo abito verde smeraldo che si intonava perfettamente con gli occhi di Harry - anche se il ragazzo probabilmente non fece caso a quel dettaglio - con un’ampia scollatura davanti e leggermente più lungo dietro, a mo’ di piccolo strascico. I capelli le scendevano in morbidi boccoli sulle spalle e la schiena. Non si era truccata molto - Ginny non lo faceva mai - ma il leggero ombretto e il mascara mettevano in risalto i suoi occhi color castagna.
“Sei… Sei bellissima”, le disse. 
“Anche tu”. 
Ginny gli si avvicinò piano - e solo allora Harry notò che portava i tacchi - e i due si baciarono per qualche momento. 
“Andiamo?” le chiese il ragazzo porgendole il braccio. 
Mentre scendevano dalle scale della Torre di Grifondoro diretti verso la Sala Grande, incrociarono Karen che cercava di non rotolare giù dalle scale con i suoi tacchi vertiginosi. 
“Bel vestito!” commentò Ginny guardando la figura dell’altra ragazza, più alta di lei. Aveva un vestito nero che la arrivava poco sopra le ginocchia e le lasciava scoperta la schiena quasi completamente, legandosi attorno al collo. Sotto aveva deciso di indossare le calze a rete. I capelli, legati in una coda alta, le scoprivano il viso su cui spiccavano gli occhi azzurri cerchiati da un trucco pesante, anche se non esagerato, e un paio di pendenti sottili e argentati alle orecchie.
Anche a Harry piacque molto il vestito e Kiki lo indossava sicuramente bene, ma si premurò di non dire nulla davanti a Ginny. 
“Vi va un’entrata plateale?” chiese il ragazzo alle altre due. 
Ginny e Karen inarcarono le sopracciglia incuriosite. 
“Sai che mi piace sconvolgere la gente”. 
Harry allora offrì un braccio a ciascuna e i tre insieme continuarono la discesa verso la Sala Grande; quando arrivarono alla scalinata principale, tutti gli occhi - o quantomeno quelli delle persone lì presenti, che non erano poche - si voltarono verso di loro, chi stupito, chi deliziato e chi pronto a fare gossip. Harry incrociò lo sguardo del padrino e del padre vicino alla porta dell’ingresso ed entrambi gli sorrisero, Sirius malizioso. 
Harry li salutò con un cenno e si fece largo nella Sala Grande, ma tutti si spostarono automaticamente al passaggio dei tre, come se avessero ricevuto un ordine silenzioso. 
Come previsto, Hogwarts si affollò parecchio la sera del ballo. La Sala Grande era stata allargata e decorata a tal punto da essere irriconoscibile. Da una parte c’era un enorme palco che ospitava un gruppo famoso nel Mondo Magico che avrebbe cantato per la prima parte della serata e l’orchestra in seguito, e il Castello si riempì di persone, coloro che avevano partecipato alla battaglia e alcuni membri del Ministero, rappresentanti del governo attuale e Auror, tra cui Harry riconobbe Vincent e Atticus. 
La serata si aprì con un discorso sul palco da parte del Ministro della Magia e della Preside su quanto fosse importante celebrare quell’evento, su quanto tutti loro presenti in quella stanza avessero dato per combattere l’Oscurità e su quanto ancora avrebbero potuto dare, cercando di lavorare soprattutto sull’unione e la collaborazione tra tutti i Maghi e le Streghe, non solo del Regno Unito ma di tutto il mondo, e la McGranitt rincarò dicendo che quel lavoro spettava soprattutto ai giovani - le promesse del futuro di quel mondo - e di non lasciarsi abbattere o dividere soltanto per le Case a cui appartenevano. Ogni riferimento velato ai dissidi ormai leggendari tra Grifondoro e Serpeverde erano casuali. 
La McGranitt aveva chiesto a Harry, nei giorni precedenti, se gli sarebbe piaciuto dire anche la sua, ma il ragazzo aveva gentilmente rifiutato. Poteva affrontare un’intervista, ma non il parlare su un palco davanti a mezzo mondo magico inglese. 
Ginny riuscì a trascinare Harry sulla pista da ballo prima che qualsiasi curioso avesse il tempo di avvicinarli. Incrociarono anche Ron ed Hermione; Ron si sforzava il più possibile di non pestare i piedi della ragazza ed Hermione era… be’, era bellissima. I capelli, solitamente ricci e indomabili, le ricadevano lisci e morbidi in una cascata castana e indossava un vestito blu, stretto in vita e più largo dal busto in giù. Quel coloro le donava particolarmente. 
Purtroppo per Harry non potè evitare tutto il tempo di finire al centro dell’attenzione. Kingsley Shacklebolt lo avvicinò cordialmente presentandogli un paio di colleghi del Ministero che non vedevano l’ora di conoscerlo - e di certo non erano gli unici - e anche Atticus e Vincent lo avvicinarono a un certo punto della serata. 
“Ci farebbe piacere averti in squadra”, gli disse Atticus facendo alzare un sopracciglio ad Harry; non si aspettava una cosa del genere da parte del capo degli Auror dopo il casino che aveva combinato. “C’è bisogno di qualcuno come te. Se te la senti naturalmente”.
“Io- Non lo so. A dire il vero ci devo pensare”, rispose Harry rimanendo sul vago. In quegli ultimi giorni ci aveva pensato spesso, a cosa avrebbe voluto fare una volta uscito da Hogwarts e se diventare Auror era stata la sua vocazione per diversi anni, ora non ne era più tanto sicuro. Si rendeva conto che forse lo voleva diventare per i suoi genitori, non perché fosse una cosa che lo ispirava davvero. Ma ora i suoi genitori erano lì con lui e non si aspettavano nulla da lui, se non che facesse quello che si sentiva. E poi, dare la caccia ai Maghi Oscuri non lo aveva portato a una condizione mentale positiva. Per tutta la sua giovinezza aveva combattuto, combattuto una guerra e sconfitto Voldemort… Perché doveva continuare a farlo?
Quando i Weasley passarono per salutarlo, Harry si sentì molto più sollevato. 
“Allora, Harry, nostra sorella ti sta facendo impazzire?” gli chiese Fred col tono canzonatorio che lo contraddistingueva. “Non ti preoccupare, a noi puoi dirlo. Sappiamo com’è”. 
“Smettetela voi due!” si lamentò Ginny guardando storto i fratelli e stringendo più forte la mano di Harry. 
“Dopo quelle foto… Immagino che debba scacciare via un bel po’ di spasimanti”, rincararono i gemelli, ignorando totalmente l’espressione corrucciata della sorella. Erano tra i pochi coraggiosi che non si facevano intimorire da Ginny. 
Harry sorrise imbarazzato e decise che non avrebbe risposto a quel commento. Fred e George ci avevano azzeccato ma non era assolutamente il caso di dirlo davanti a Arthur e Molly.
“Proprio bolle le foto, Arrì!” aggiunse Fleur che si faceva passare un bicchiere da Bill. 

 

La serata procedeva. Erano già passate diverse ore e probabilmente tra pochi attimi sarebbe salita sul palco l’orchestra per dare il via alla fase dei balli lenti.
A Karen non importava tanto, né della musica né dei balli lenti. Non aveva voluto avere alcun accompagnatore anche per quel motivo. Aveva lasciato i suoi amici a godersi quella parte, a viversi il loro momento romantico.
Dal canto suo, tutta quella gente, la confusione, le persone che parlano, spingono, ridono… Era diventato soffocante. Perciò era uscita nel cortile dell’orologio, allontanandosi abbastanza per non essere notata, ma comunque abbastanza vicina per sentire gli schiamazzi in lontananza.
Tra le mani reggeva il bicchiere di vino che aveva preso dal buffet. A quanti era? Il quinto? Sesto? Non avrebbe saputo dirlo, ma sicuramente aveva bevuto più di quanto avesse mangiato e ora si sentiva la testa leggermente frastornata.
Raccolse le gambe contro il petto e tirò in giù i lembi del vestito per coprire le gambe il più possibile, inutilmente però perché quel vestito era estremamente corto. Avrebbe potuto usare un incantesimo di riscaldamento, ma non si fidava delle sue abilità magiche in quel momento, con la testa che girava per gli effluvi dell’alcol. 
E poi, l’aria fresca della notte che le pizzicava lì dove la pelle era scoperta non le dispiaceva, la faceva sentire viva e legata alla realtà. 
Estrasse una sigaretta - ne aveva nascoste alcune nel reggiseno per ogni evenienza - e se l’accese con l’accendino. 
“Scusami!” sentì dire da una voce vicino a lei. Non si era nemmeno accorta che qualcuno si era avvicinato. “Non ti avevo vista. Era buio”. 
Sirius sostava a pochi passi da lei, illuminato leggermente dalla tenue luce delle stelle. Karen alzò lo sguardo su di lui e lo guardò inespressiva.
“Non volevo disturbarti. Ti lascio alla tua solitudine”.
“No, aspetta!” esclamò lei abbassando le gambe. “Puoi restare. Non mi disturbi”. 
“Sicura?” 
“Ma sì, certo”. 
Sirius si sedette sulla panchina accanto alla ragazza, vicino ma non troppo. Teneva anche lui tra le mani un bicchiere. 
“Avevo solo bisogno di un posto tranquillo”, disse lui come per giustificarsi.
“Qui è tranquillo”.
I due rimasero in silenzio per qualche istante, sorseggiando il vino e guardandosi attorno. 
“Non hai un accompagnatore?” le chiese allora l’uomo. 
“No. Non mi andava”. 
“Capisco”. 
“E tu? Nessuna… accompagnatrice”. 
Sirius si aprì in un sorriso amaro. “No, nessuna. Potrei anche aver perso il mio… le mie doti da conquistatore”.
Karen si voltò a guardarlo con uno strano sorriso in volto, qualcosa che suggeriva che voleva saperne di più. “Si suppone che tu avessi avuto delle doti da conquistatore”. 
“Non per vantarmi ma, sai, qui a Hogwarts ero quello con cui quasi tutte le ragazze volevano uscire”. 
Kiki rise. “No, non ti stai vantando”. 
“Okay, forse un po’ sì”. 
“No, non direi proprio. Uno che si vanta avrebbe detto tutte le ragazze. Tu hai detto quasi”.
Sirius ridacchiò divertito e Karen lo seguì a ruota. 
“E qual era la tua frase da rimorchio? Qualcosa tipo <>”.
“Oh, non ero così banale”.
“E cosa facevi?” 
Sirius si alzò di scatto e si posizionò di fronte alla ragazza che colse quel gesto come invito e lo imitò. L’uomo era parecchio più alto di lei, se ne accorgeva soltanto ora che ce lo aveva a pochi centimetri dalla faccia.   
“Non dicevo assolutamente nulla. Chiedevo alle ragazze di uscire e loro accettavano”. 
“WoW! Dovevi proprio avere un fascino irresistibile”, scherzò Karen ma senza una particolare intonazione nella voce, fissando il volto di Sirius e i suoi occhi scuri, due occhi che sembravano dei pozzi profondi che la mettevano a disagio da un lato, ma dall’altro la attiravano come magneti. Anche le labbra, circondate dal pizzetto, erano così invitanti e le avrebbe soltanto volute sfiorare o anche soltanto toccarlo, un braccio, il petto, la vita, qualsiasi cosa… Qualcosa le diceva che quel fascino di cui il mago si vantava di possedere da giovane non era ancora del tutto scomparso. 
Ma probabilmente erano solo gli effetti dell’alcol. 
Sirius sorrise. “Può darsi”. 
I due rimasero a guardarsi per un po’, in silenzio, disturbati solo dal suono della musica e della gente che chiacchierava all’interno del castello. 
Karen venne percorsa da dei brividi. 
“Hai freddo?” le chiese Sirius. 
Lei scosse il capo; voleva dirgli che quei brividi non erano causati dal freddo dell’aria di Maggio, ma da quella eccessiva vicinanza. Il suo corpo le stava chiaramente suggerendo qualcosa. 
Sirius però si tolse la giacca del completo elegante e gliela mise sulle spalle. 
“Sei anche un gentiluomo oltre che affascinante”, disse lei mordendosi il labbro inferiore. 
“Forse è meglio se rientriamo. Non è il caso che ti ammali”, disse invece il mago e Karen sentì che l’incanto di quel momento si era improvvisamente infranto, come uno specchio che sbatte contro il pavimento. E se ne dispiacque. Immensamente. 
Camminarono con calma verso il castello, di nuovo verso il caos, la confusione, la gente. Prima che la ragazza avesse il tempo di restituirgli la giacca, Sirius era già stato avvicinato da qualche conoscente e trascinato tra la folla. 

 

Malfoy era decisamente cambiato, pensava Harry mentre finiva di fumare la propria sigaretta e guardava il biondo di sottecchi. I due si erano ritirati in un piccolo angolino leggermente nascosto, stanchi di dover affrontare la folla. 
“La fama ti ha già stufato, Potter?” fece Malfoy indossando il suo solito sorrisetto sghembo, ma senza alcun astio nel tono. 
“La fama non mi è mai piaciuto, Malfoy”. 
“Touché!” 
Solo un anno fa non sarebbero stati in grado di parlare così civilmente senza ricorrere alle bacchette. Harry non poteva fare a meno di ricordare il giorno di Natale che avevano trascorso lui e Kiki al Malfoy Manor e quanto quella casa fosse grande e quanto dovesse essere incredibilmente silenziosa con un solo abitante. Gli dispiaceva un po’ che Lucius e Narcissa fossero ad Azkaban. In fondo, Narcissa Malfoy lo aveva aiutato; ma nemmeno lui, che era il Salvatore del Mondo Magico, poteva avere tutto quel potere. Gli dispiaceva anche aver sospettato e lottato contro Draco tutti quegli anni: forse, se si fosse comportato in maniera differente con lui fin dall’inizio, forse se non lo avesse attaccato al loro sesto anno quando lo aveva visto piangere nei bagni ora Draco starebbe un po’ meglio, non avrebbe magari perso i genitori e non avrebbe trascorso parte della vita dalla parte sbagliata. Era palese che Draco non avesse voluto tutto quello, che non voleva davvero essere un Mangiamorte e che non credeva del tutto alle idee di Voldemort. E anche se non lo diceva, si vedeva che ne stava pagando le conseguenze ora. Un po’ come Harry. 
In quel momento, la testa di James Potter sbucò tra i due ragazzi scoprendo il loro nascondiglio. 
“Mi sembrava di aver sentito la tua voce”, disse rivolto al figlio e notando solo in un secondo momento che c’era anche Draco. 
“Devo raggiungere Astoria. Ci vediamo, Potter!” fece il Serpeverde prima che James avesse anche solo il tempo di salutarlo. Gli passò accanto senza guardarlo. 
“E quindi quello è il figlio di Lucius Malfoy”, commentò James quando l’altro si fu allontanato. 
“Eh già”. 
“Sono contento che non abbia seguito la strada dei genitori”, disse James sedendosi accanto al figlio. 
Harry non aggiunse altro, si limitò ad accendersi un’altra sigaretta. Alcune cose erano troppo difficili da spiegare e in ogni caso, quella non era la sera giusta per parlare di cose complicate.
“Come stai, tesoro?” 
“Sto bene”. 
“Allora perché ti nascondi qua dietro?” 
“Avevo bisogno di stare un po’ da solo… Sai, troppi sguardi”. 
“Capisco. Sai, la gente ci sta chiedendo un po’ troppo com’era essere prigionieri di Voldemort o perché non ci avesse uccisi. Non so, a volte mi chiedo se le persone pensino prima di aprire bocca”. 
“Credo di no, non lo fanno mai. La curiosità è più forte”. 
James ridacchiò. 
“Ginny dov’è?” 
“In bagno. Credo ci sia una fila lunga perché è via da un po’”. 

 

“Teddy dove lo avete lasciato?” chiese Harry quando vide Remus e Tonks arrivargli incontro. Con tutta la confusione della serata, la musica, la gente che passava in mezzo era stato difficile riuscire a beccarli prima o fermarsi a parlare con chi avrebbe voluto. Magari ne avrebbe approfittato ora che si stava facendo tardi e alcune persone stavano già andando via.
“È con mia madre”, gli rispose la Metamorfomagus. “Che ha deciso di concederci questa serata”. 
“Ehi, Sirius!” esclamò Harry a un certo punto vedendo il padrino passargli vicino. Lo prese per un braccio e lo trascinò vicino al muro.
Black lo guardò seriamente: capiva dall’espressione del figlioccio che doveva esserci qualcosa che non andava.
 
“Potresti controllare Karen, per favore? L’ho vista vagare per i corridoi del terzo piano. Da sola. Non so perché. Forse non sta bene”. Gli passò un pezzo di pezzo di pergamena piegato che Sirius riconobbe subito essere la Mappa del Malandrino. “Per favore. Non vorrei le succedesse qualcosa”. Sarebbe andato a controllarla lui stesso, ma non gli andava di lasciare Ginny per inseguire un’altra ragazza, un’amica con cui aveva fatto sesso più volte per giunta.
“Ma certo!” fece l’altro prendendo la mappa con un sorriso. Lo poteva fare, per Harry, era bello sapere che il figlio del suo migliore amico fosse una cosa così bella persona da preoccuparsi per tutti i suoi amici. E poi… Una strana scossa lo aveva percorso quando Harry gli aveva detto che forse Karen non stava bene. 
Non esitò un altro istante e si precipitò subito fuori dalla Sala Grande. Appena si fu allontanato un attimo, tirò fuori la bacchetta e colpì la Mappa del Malandrino pronunciando le parole che non aveva mai scordato. Era strano tenere di nuovo tra le mani quel pezzo di carta pieno zeppo di disegni e nomi. 
Eccolo lì, il puntino indicante il nome di Karen Wilson, proprio al terzo piano. Era ferma. 
Sirius praticamente corse per le rampe di scale, sperando che non decidessero di spostarsi proprio mentre lui passava, e arrivò al terzo piano. Sentiva qualcosa di strano dentro di sé, lo sentiva anche prima quando era fuori in cortile da solo con Kiki… Qualcosa che non aveva più sentito da molto, molto tempo. 
Trovò Karen seduta per terra, in un corridoio, di fronte a lei c’era un ragazzo che sembrava volerla trascinare via per un braccio. Lei opponeva resistenza, il capo chino. 
“Ehi!” gridò in direzione dei due, guardando fisso il ragazzo e avvicinandosi velocemente. Non fece in tempo a distinguere il volto del tipo che questi corse via, come se fosse stato beccato a fare qualcosa che non doveva. Il braccio di Karen cadde mollemente, lei rimase lì, la schiena appoggiata al muro. 
“Stai bene?” le chiese Sirius, inginocchiandosi di fronte a lei non appena la ebbe raggiunta. Indossava ancora la giacca che le aveva prestato.
“Sì”, mormorò lei senza alzare lo sguardo. 
“Che ci fai qua per terra?” 
“Non - Non lo so. Volevo solo allont- allontanarmi dalla gente. Sono così stanca”. 
Ubriaca, decisamente ubriaca.  
“Dai, ti porto nella tua Sala Comune”, disse Sirius con un sospiro, aiutandola ad alzarsi. Questa volta Kiki non oppose più alcuna resistenza, ma seguì il mago docilmente come se di lui si fidasse. La sorresse con un braccio per la vita per tutta la strada fino al settimo piano - che fosse dannato Godric che aveva deciso di mettere la Sala Comune dei Grifondoro così in alto! - e ogni volta che la ragazza barcollava, la sua presa si stringeva sempre più sicura e forte. In una situazione diversa, avrebbe sicuramente amato quel contatto fisico. Ma tuttavia, non potè fare a meno di apprezzare quanto il corpo della ragazza fosse… Be’, attraente. E sotto quel vestito corto non era difficile sentirlo.
“Parola d’ordine?” sbottò la Signora Grassa melliflua non appena i due le si piazzarono davanti. 
“Io non la so. Spero tu te la ricordi”, disse Sirius rivolto alla ragazza mezza addormentata che si reggeva in piedi solo grazie al suo braccio. 
“Panna montata!” esclamò Karen. “No, no, aspetta!! Pizza surgelata. No, no!” 
Sia la Signora Grassa che Sirius la guardarono perplessi. 
“Colabrodo! Sì, colabrodo!” 
“Potete entrare”. 
Il quadro si spalancò aprendo loro la strada verso la sala tutta decorata di rosso e oro. Colabrodo? Sul serio? 
Sirius constatò che la Sala non era affatto cambiata da quando ci viveva lui e una perforante ondata di nostalgia e malinconia lo pervase. C’erano persino le due poltrone dove di solito si sedevano lui e gli altri Malandrini, nell’angolo che tutti i Grifondoro sapevano appartenere a loro quattro. 
Karen si lanciò praticamente sul divano mugugnando. Per fortuna non c’era nessuno.
“Non posso portarti nella tua stanza”, disse Sirius inginocchiandolesi accanto. Purtroppo le stanze delle ragazze erano progettate per scacciare via i ragazzi che tentavano di salirvi. Chissà perché ciò non veniva applicato anche a quelle degli uomini. Era un po’ sessista la questione, a ben pensarci. “Ma tu non restare qui. Vai a letto, riposati. Forse domani ti sveglierai con un po’ di mal di testa, ma passerà”. 
Karen mugugnò qualcosa, la faccia sprofondata nel cuscino. Quando si voltò a guardare Sirius con gli occhi gonfi dalla stanchezza e dall’alcol, il trucco le si era sbavato. Eppure il mago non potè fare a meno di pensare che fosse carina anche in quel modo, con quell’espressione così tormentata e triste. 
Che stai facendo, Sirius? Hai vent’anni più di lei, lascia stare. 
Afferrò la coperta appoggiata sullo schienale del divano e la coprì. Poi si alzò e fece per andarsene. 
“Sirius?!” lo richiamò lei. 
Il mago si voltò trovandosi davanti il volto, questa volta più sveglio, di Karen che lo fronteggiava sempre con quello sguardo addolorato. 
Lui tornò indietro, gli occhi fissi sulle sue labbra gonfie e arrossate, invitanti… Poi il resto accadde in un attimo. Fu Karen a prendere l’iniziativa, ma col passare del tempo Sirius non ne sarebbe più stato così sicuro perché non è che lui si fosse ritratto, da quel bacio, non è che lui l’avesse spinta via. Non subito almeno. Gli ci volle qualche secondo per realizzare che sì, lei lo stava baciando e anche lui stava baciando lei, le loro lingue avevano preso a giocare, a guizzare l’una nella bocca dell’altro ed era bello, era strano ed era particolare, nonostante entrambi sapessero di alcol e di stanchezza. 
Era il primo bacio che Sirius riceveva da… Una vita. 
Ma non poteva continuare. Lei era un’amica di Harry, una studentessa, aveva appena diciotto anni. Lui invece… Lui non poteva darle niente, non a quel punto della sua vita. 
“Grazie”, mormorò lei tornando a stendersi sul divano. 
Sirius la guardò un’ultima volta prima di uscire dalla Sala Comune. Quello era decisamente un bacio che si scambiano le persone quando sono ubriache; lei non avrebbe ricordato nulla il giorno dopo, non le sarebbe nemmeno importato. Era solo un modo per concludere in maniera divertente quella serata. Lo aveva fatto anche lui innumerevoli volte nei suoi tempi d’oro. 
A Sirius invece faceva male, dannatamente male, proprio lì al centro del petto. 
Avrebbe avvisato Harry che Karen era sana e salva sul divano della Sala Comune e ci avrebbero pensato Hermione e Ginny a portarla in camera. 

 

*** 

 

Arrivo con l’aggiornamento in tarda serata, scusatemi. Purtroppo ho esaurito i capitoli e li sto scrivendo di settimana in settimana. Ma sono anche piena di cose da studiare, ho sei esami da preparare a giugno, da scrivere due tesine e fare persino delle traduzioni. Che Merlino mi aiuti!!
Tuttavia non voglio deludervi e a questa fanfic ci tengo. Spero di riuscire a scrivere un po’ di più nei prossimi giorni e di poter aggiornare già dalla mattina sabato prossimo. 

Che dire? Io schippo Karen e Sirius dall’inizio di questa fanfic. Fatemi sapere voi invece che ne pensate, della coppia ma anche del capitolo o della storia. Ah, e se siete fantasiosi, trovate un nome per la Karen/Sirius XD 

E ditemi le vostre teorie su come potrebbe andare avanti. Amo le teorie.
XOXO

Vi lascio con una foto di Karen, o meglio, una foto di come me la immagino io Karen. 

Un bacione,

C.

 

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Capitolo 30
*** Famiglia ***


FAMIGLIA

 

Prima di impossessarsi dello scompartimento che avevano trovato libero, Harry trascinò Karen da una parte e fece passare gli amici, chiudendo la porta dietro di loro. 
Kiki lo guardò con occhi spaventati. 
“Devo darti una cosa”, disse il ragazzo all’amica, dolcemente. Le prese una mano e le mise sul palmo aperto un pezzetto di pergamena sgualcita. La ragazza guardò le lettere e i numeri che erano scritti sopra, all’inizio un po’ confusa, ma poi capì che si trattava di un indirizzo. 
“Sono riuscito a farmi dire dove abita tuo padre”. 
Karen spalancò gli occhi, indecisa su cosa provare. 
“Come - come hai fatto?” 
“Te l’ho detto. La gente praticamente fa quello che io le chiedo. Ho solo dovuto spedire un gufo”.  
“WoW!” 
“Comunque… Non lo devi fare per forza. Ma tienilo per ogni… evenienza. Magari un giorno, magari quando… Ti sentirai pronta. Tutto qua. Nessuna pressione, nessun impegno”. 
La Grifondoro chiuse un attimo gli occhi e distese le labbra in un leggero sorriso. “Ci tieni proprio tanto, eh?” 
“Tengo a te. E non voglio che tu abbia dei rimpianti. Non voglio che tu ti senta sola”. 
Karen aveva fatto tanto per lui, gli era stata vicino con disinteresse, solo per la sua compagnia e per la semplice voglia di uscire con lui. Lo aveva fatto ridere e divertire nel suo periodo più buio e lo aveva aiutato a uscirne. Era tempo che ricambiasse. 
“Grazie, Harry”. 
Karen prese il foglio e se lo infilò in tasca entrando nello scompartimento. Non era sicura di cosa provare, non era sicura di niente. Non sapeva se voleva rivedere suo padre o se dovesse davvero farlo o se lui l’avrebbe voluta rivedere. 
In quel momento la sua mente vagava all’altra sera e, al pensiero di quello che era successo nella Sala Comune, si voleva seppellire e non guardarsi più allo specchio. Ricordava bene il bacio che aveva dato a Sirius, anche se avrebbe preferito esserselo dimenticato, insieme ad altre parti di quella serata che erano un po’ nella nebbia. Ma il bacio no, il bacio era ben vivido nella sua mente. Ed era così imbarazzante. Non il bacio in sé, ma il fatto che lei lo avesse baciato, così, a tradimento, senza sapere se l’altro lo volesse - anzi, di certo non voleva, perché mai avrebbe voluto? -. Probabilmente non l’aveva respinta subito e non le aveva fatto una scenata solo perché era educato. Anzi, l’aveva pure accompagnata e messa al sicuro. Le aveva prestato la sua giacca! Cazzo! La giacca che stava nel suo baule ora. Gliel’avrebbe dovuta restituire. 
Ora voleva soltanto picchiarsi da sola. Non avrebbe mai più potuto guardare in faccia l’uomo. Ma perché doveva essere così impulsiva?
Eppure… il sapore delle labbra di Sirius sembrava ancora alleggiare sulle sue ed era… era dannatamente buono. 
Avrebbe tanto voluto parlarne con qualcuno, ma non c’era nessuno con cui potesse farlo. Harry era fuori discussione. Per ora almeno. 
Hogwarts diventava un puntino sempre più lontano quando il treno prese velocità correndo sui binari. Non era l’ultima volta che l’avrebbero vista, c’erano gli esami ancora a cui tornare. Ma era l’ultima volta che la vedevano come giovani studenti di una scuola. 

 

Dopo cena, Harry prese da parte Sirius e gli chiese se potevano parlare. Il padrino lo guardò con due occhi profondi e preoccupati, ma lo seguì fuori sul portico senza commentare. 
“Che succede?” chiese. 
Harry sospirò, indeciso su come iniziare quella conversazione. Voleva raccontare a Sirius di suo fratello, dell’ultimo gesto eroico col quale si era riscattato, ma non era sicuro di come l’altro l’avrebbe presa. 
“Ecco”, iniziò con titubanza, la voce bassa. Si schiarì la gola. “Si tratta di tuo fratello”. 
Sirius inarcò le sopracciglia. “Cosa c’entra mio fratello?” Harry nemmeno lo conosceva. 
“Quando davamo la caccia agli Horcrux”, disse il più giovane. “Abbiamo scoperto che tuo fratello, Regulus, sapeva degli Horcrux che Voldemort aveva creato per assicurarsi l’immortalità”. Tirò fuori dalla tasca il famoso ciondolo che lo aveva perseguitato tutto l’anno precedente e lo passò a Sirius che lo prese in mano quasi in automatico. 
“Aprilo”. 
L’uomo obbedì e trovò subito il biglietto piegato in più parti che era custodito dentro. Lo lesse velocemente. 
“R.A.B.?” fece, stupendosi della propria voce spezzata. “Mio fratello… Mio fratello ha cercato di uccidere Voldemort?” 
“Più o meno. Voldemort non poteva essere ucciso senza prima aver distrutto gli Horcrux. Regulus non sapeva quanti fossero, probabilmente pensava fosse solo uno…”. Harry si interruppe controllando l’espressione del padrino, che però stava ancora fissando il biglietto scritto con la calligrafia di suo fratello. “Regulus si era pentito… Di essere un Mangiamorte, insomma. E ha cercato di combatterlo dall’interno. Purtroppo, gli è andata male”. All’ultima frase abbassò la voce, gli occhi ancora su Sirius. “Quello l’ho trovato insieme a Silente quando ero al sesto anno. Era custodito in una caverna piena di Inferi e bisognava bere dell’acqua maledetta per prenderlo. Silente ci ha quasi lasciato la pelle, era una missione impossibile da fare da soli. Regulus si è fatto aiutare da Kreacher ma gli Inferi lo hanno… preso. Prima di morire ha affidato il ciondolo, quello vero, a Kreacher e ha lasciato quello falso insieme al biglietto. Quelli che stai tenendo in mano. Kreacher ha tenuto l’Horcrux a Grimmauld Place senza sapere come distruggerlo, poi Mundungus se lo è preso e lo ha venduto alla Umbridge. Io, Ron ed Hermione siamo riusciti a prenderglielo per miracolo”.  
Harry si zittì. Sirius non aveva spiccicato parola per tutto il discorso, ma non aveva nemmeno alzato lo sguardo sul figlioccio. Il ragazzo non avrebbe saputo dire cosa provasse, la sua espressione non lasciava presagire molto. 
A un tratto si lasciò cadere sulla panchina del portico, il ciondolo e il biglietto ancora tra le mani. 
“Quindi mio fratello non era così idiota come credevo, e nemmeno convinto di tutte quelle scemenze sulla purezza del sangue che ci inculcava nostra madre”.
“Già”, sospirò Harry sedendosi accanto a lui. 
“E questo non lo sa nessuno?” 
“No”. 
Sirius strinse i due oggetti in un pugno, sgualcendo il biglietto. Ora la sua espressione si era fatta più dura, quasi minacciosa. 
“Per questo te l’ho detto. Vorrei… Vorrei che questa cosa si sapesse, che venisse fuori. Sai, si parlerà molto di questa guerra, di chi ha combattuto, sia da una parte che dall’altra e vorrei… Insomma, Regulus ha fatto una cosa importante e coraggiosa e dovrebbe essergli riconosciuta”. 
Sirius finalmente si voltò a guardare Harry e questa volta con del luccicchio negli occhi. 
“Davvero? Lo faresti davvero?” 
“È il minimo che posso fare”. 
“Non sei tenuto”.
“No, ma… Anche Piton ha avuto la sua giustizia per quel che vale e anche Regulus dovrebbe”. 
“Grazie”. 
I due rimasero in silenzio per un po’, contemplando la notte primaverile e il cielo scuro sopra di loro. 
Harry avrebbe voluto fare qualcosa di più per Sirius, immaginava quanto quelle parole lo avessero sconvolto, un po’ come quando lui aveva capito che per tanti anni Silente lo aveva cresciuto come un’arma. 
“Sirius, stai bene?”
“Credo di sì”, rispose l’altro un po’ troppo velocemente. “È solo che… Per tanti anni ho trattato di merda mio fratello, l’ho allontanato convinto che fosse come i nostri genitori, che avesse permesso loro di fargli il lavaggio del cervello. E invece… Se magari avessi fatto le cose diversamente, forse ora sarebbe vivo. O comunque non si sarebbe unito a Voldemort”.
“Be’, non puoi saperlo questo. Magari sì o magari no”. 
Sirius fissa un punto di fronte a sé, di nuovo silenzioso. 
“Però… Potrei provare…”, fa Harry titubante. “Ho già fatto tornare in vita te e mamma e papà, magari potrei provare anche con tuo fratello. Non so come funziona ma se l’ho fatto Harry un modo ci sarà”.
“No!” risponde Sirius quasi gridando, guardando il figlioccio grave. “Non ci pensare. Hai sentito la McGranitt, è troppo pericoloso. Potresti morire”.
“Ho riportato in vita sei persone, cosa vuoI -“. 
“Harry, ho detto di no. Non ti farò rischiare una cosa del genere. Sei persone sono già troppe, non sappiamo come potrebbe andare se lo rifai. Non se ne parla”. 
Harry sospira e si lascia andare contro lo schienale della panchina. 
“Quello che vuoi fare è già tanto. Non voglio che riporti in vita mio fratello. Mi dispiace che sia morto, certo, e mi dispiace non averlo… Non essermi comportato con lui come avrei dovuto. Ma preferisco di gran lunga avere questo rimpianto piuttosto che farti rischiare la vita per un mio capriccio”.
Harry sorride mestamente e tira fuori il pacchetto di sigarette. 
“Cerca di non avere troppi rimpianti, però. Ho passato tanto del mio tempo a ripensare a come avrei potuto fare meglio le cose e… credimi, non serve a nulla e ti fotte il cervello”.
Sirius scoppia a ridere, questa volta parve essere sollevato. Tutto il suo corpo si rilassa. 
“Credo che il mio cervello sia già abbastanza fottuto”. 
“Bene, allora non peggiorare la situazione”. 
Harry tira un paio di boccate di fumo prima di parlare di nuovo. 
“Comunque, fammi sapere se te lo vuoi tenere. Quel ciondolo, così faccio una copia. Ho promesso a Kreacher che glielo avrei restituito”. 
“Kreacher?” 
“Sì. Era molto legato a Regulus e quel ciondolo… Be’, a quanto pare è l’unica cosa preziosa che ha”. 
Sirius sbuffò rimettendo il biglietto nel ciondolo e ridandolo a Harry. 
“Non mi serve. Ho già abbastanza con cui ricordare mio fratello”. 

 

Un giovedì pomeriggio Harry, Ron, Hermione, Ginny e Kiki si erano ritrovati tutti insieme per una sessione di studio a casa Potter, alla quale ne sarebbero seguite molte altre.
Hermione era intenta a scrivere degli appunti su un foglio di pergamena, il bordo della mano destra macchiato d’inchiostro, mentre Ron sfogliava svogliato le pagine di un libro e Harry leggeva il libro di Difesa contro le arti oscure grattando ogni tanto la testa di Felpato che gli stava sdraiato in grembo. Ginny aveva appoggiato il capo contro la sua spalla e cercava di decifrare alcuni appunti delle lezioni. 
Kiki ad un certo punto si alzò di scatto e con un sospiro annunciò che doveva andare in bagno. 
“Ragazzi, non è possibile che siate già stanchi. Abbiamo appena iniziato”, li rimproverò Hermione osservando le facce degli amici. 
“Ma stiamo studiando da due ore!” le fece notare Ron lamentoso.
“Appunto!” 
In quel momento si udì il Pop di una Materializzazione provenire dal cancello e i ragazzi notarono subito la figura di Sirius avvicinarsi a loro. 
Felpato gli corse subito incontro. In quei giorni in cui Harry non c’era stato, il cane si era affezionato soprattutto a lui, evidentemente riconoscendo un suo simile. 
Sirius lo coccolò non appena questi gli venne incontro poggiandogli le zampe anteriori sulla pancia e reggendosi in equilibrio sulle due posteriori. 
“Come va, ragazzi?” chiese l’uomo, notando i quattro amici seduti al tavolo sotto il portico. Era una bella giornata di sole e faceva abbastanza caldo per stare all’aperto. 
“Andrà meglio non appena avremo superato questo capitolo”, rispose Ginny guardando Sirius da sopra il braccio di Harry. 
“In quale battaglia è morto il Re dei Goblin, Wilfrick III?” chiese Hermione ignorando il nuovo arrivato. 
Gli altri si limitarono a guardarsi tra di loro, come se cercassero la risposta nei reciproci sguardi. 
“Nell’ultima?” le rispose Harry alla fine, con tutta la serietà di cui era capace.
Passarono alcuni brevi istanti prima che Ron, Ginny e Sirius scoppiassero a ridere all’uniscono con una risata nasale; Hermione invece gli tirò un pezzo di carta appallottolato facendo finta di essere arrabbiata ma in realtà anche lei aveva un sorriso divertito stampato sulle labbra. 
“Non lo so, ‘Mione, io non seguo Storia della Magia”. 
Sirius decise di lasciare in pace i ragazzi e rientrò in casa lasciando la porta sbattere dietro di sé. Aveva ancora una risata stampata sul volto quando alzò lo sguardo e si ritrovò Karen ferma in piedi sulla soglia del salotto. 
“Oh, ciao!” lo salutò lei con voce eccessivamente stridula. Lui le sorrise e inclinò il capo come a volerla osservare da un’altra angolazione. Kiki si sentiva fortemente a disagio; Harry le aveva detto che a casa sua non c’era nessuno perché erano tutti al lavoro, ma Sirius doveva essere rientrato prima. 
“Tutto bene?” le chiese lui notando che la ragazza non accennava a dire altro né a muoversi. 
“Sì”, rispose lei troppo velocemente e sempre con quella strana voce. Che doveva fare? Tirare fuori la storia del bacio? Dirgli che le dispiaceva? Sì, era vero che le dispiaceva, ma non per il bacio in sé. Le dispiaceva che fosse stato così, puzzolente di alcol e precipitoso. Ma magari questa seconda parte non gliela avrebbe detta.
Aprì bocca per dire qualcos’altro, quando la porta si spalancò di nuovo e Harry comparve sulla soglia. Lei rimase come un baccalà. 
Il ragazzo osservò i due fermi nel salotto, muti, apparentemente impegnati in un gioco di sguardi, e inarcò le sopracciglia.
“Tutto bene?”
“Sì, sì, tutto a posto!” si affrettò a rispondere l’amica, gratagli per essere entrato e averla salvata da quel momento imbarazzante. Lo avrebbe quasi abbracciato. 
“Sono venuto a prendere una birra. Tu la vuoi, Kiki?”
“No, grazie. Torno a studiare”. E uscì di nuovo sul portico. 
Sirius scrollò le spalle e iniziò ad andare verso le scale. 

 

*** 

 

Altro capitolo di passaggio, lo so, molto leggero. In realtà ora ci saranno un bel po’ di capitoli così… Questa fanfic non è nata per parlare di guerra o battaglie, ma per tutto quello che viene dopo, cioè il dramma e i traumi.
That’s it. 

Fatemi sapere cosa ne pensate, non siate timidi. Apprezzo anche i lettori silenziosi, lo sapete, ma se voleste dirmi la vostra anche in due righe ne sarei molto felice. 

 

Per il resto, passate un bel weekend.

Cactus.

 

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Capitolo 31
*** Padri ***


PADRI 

 

Harry stava cercando di praticare della magia senza l’uso della bacchetta. Era seduto per terra in veranda, con Felpato in un angolo che lo guardava tra il curioso e il confuso - il pastore tedesco ormai aveva raggiunto una bella stazza - e la sua concentrazione era tutta lì, sul cercare di richiamare la piccola pallina rossa che usava per far giocare il cane posizionata a un metro da lui. Inizialmente aveva cominciato urlando Accio e muovendo le mani a caso e si era sentito un idiota, poi aveva deciso di limitarsi a fissare l’oggetto con le braccia protese in avanti e a pensare intensamente all’incantesimo.
Per fortuna a casa non c’era nessuno che potesse assistere al suo rendersi ridicolo; eccetto il cane, ma non è che avrebbe parlato. 

A un certo punto gli era parso di averla vista muoversi ma potevano anche solo essere i suoi occhi che si erano incrociati e gli stavano dando le allucinazioni.
Un improvviso Pop lo distrasse dai suoi esercizi. Karen era comparsa nel giardino di casa sua e lo stava guardando con un sopracciglio alzato. 

“Non sono sicura di voler sapere cosa stai facendo”. I shorts corti a vita alta che portava mettevano ancora più in evidenza le sue lunghe gambe snelle. Le ciocche blu che aveva sempre portato tra i capelli erano scomparse. Si era truccata piuttosto leggermente quel giorno, solo un po’ di eye-liner che aiutava a mettere ancora più in risalto i suoi grandi occhi chiari. Tra le mani teneva una giacca scura. 

“Nulla di che. Solo degli esperimenti”, rispose Harry alzandosi in piedi. “Che ci fai qui?” 

“Sono venuta a chiederti una cosa”. 

“Dimmi”. 

Il ragazzo la fece accomodare al tavolo sotto al portico. 

“Ho deciso che voglio incontrare mio padre”.

Harry aprì la bocca sorpreso; aveva sperato che Kiki volesse incontrare il padre ma non aveva davvero pensato lo avrebbe fatto. 

“E mi piacerebbe che mi accompagnassi”. 

Harry si mosse inquieto sulla sedia. “Ne- ne sei sicura?” 

“Di quale parte? Incontrare mio padre o te che mi accompagni?”
“Io che ti accompagno”. 

“So solo che non voglio andarci da sola e… Tu sei il mio migliore amico e ti vorrei al mio fianco. Siamo stati insieme nel periodo più difficile”. 

Harry le sorrise annuendo. “Certo. Certo che ti accompagno”. 

“Grazie. Magari… domani? Prima che io cambi idea”. 

“Assolutamente!” 

I due rimasero in silenzio per un po’, ognuno pensando agli affari propri. “E un’altra cosa”. 

“Dimmi”. 

“Sirius è in casa?”
“No, è al lavoro. Perché?”

“Perché ho la sua giacca. Me l’ha prestata la sera del ballo e mi sono dimenticata di restituirgliela. È stato gentile”. 

Karen gli passò la giacca che ha tenuto tra le mani tutto quel tempo e Harry se l’appese al braccio. 

“Gliela restituirò, non ti preoccupare”. 

“Grazie. E a proposito, come sta?” 

“Chi?” 

“Sirius, chi se no?” 

Harry non era del tutto sicuro di capire; perché mai Kiki si interessava allo stato di salute di Sirius che comunque ha visto sì e no in un paio di occasioni? Ma rispose ugualmente: 

“Sta bene”. 

“Okay”. 

Karen avrebbe voluto che aggiungesse qualcos’altro, tipo che cosa faceva quando non era al lavoro, se si vedeva con qualcuno… soprattutto se si vedeva con qualcuno, e sperava che non fosse così. Per la barba di Merlino, perché si stava ossessionando con un uomo che aveva il doppio dei suoi anni ed era per giunta il padrino di Harry? Era assurdo ma non riusciva a togliersi il suo viso, i suoi occhi, le sue labbra dalla testa. 

“Sei venuta qui solo per questo?” le chiese Harry, ora più curioso che altro. 

“Ehi, anche io sono felice di vederti!” lo prese in giro l’amico. 

Harry rise. “Dai, lo sai che intendo”. 

“Tranquillo. Volevo chiederti questa cosa di mio padre in persona. E riportare la giacca. Salutami la tua famiglia”.

“Sarà fatto. A domani, Kiki”. 

 

Poco prima di cena Harry era uscito per portare a spasso il cane e Sirius lo aveva seguito. Le giornate si stavano allungando e c’era una piacevole aria tiepida che rendeva la serata piuttosto piacevole, insieme alle tinte crepuscolari del sole che calava dietro l’orizzonte colorando il cielo di rosa e rosso. 

Non c’era quasi nessuno per le vie di Godric’s Hollow se non qualche passante totalmente indifferente ai due che camminavano. Quella cittadina una volta era decisamente più viva, ma con le due guerre molte persone avevano deciso di andarsene dai luoghi magici o dalla stessa Gran Bretagna. 

“Come stai, Harry?” chiese Sirius a un tratto, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni. 

“Bene”, rispose Harry, osservando il cane che trotterellava davanti a lui tenuto al guinzaglio. Aveva iniziato a intuire perché Sirius fosse venuto con lui, forse c’era pure lo zampino dei suoi genitori, ma non gli importava, anzi, doveva ammettere che gli faceva piacere che ci fosse qualcuno che si preoccupasse per lui e che non fossero Ron, Hermione o i Weasley ma una famiglia davvero sua. 

Sirius lanciò un’occhiata ai tagli sull’avambraccio sinistro del figlioccio, visibili sotto le maniche corte della maglietta. 

“Sto bene. Dico davvero”. Il ragazzo gli sorrise e l’uomo ricambiò con un ghigno. “Piuttosto, tu come stai?”

“Sto bene. È bello tornare… Alla propria vita”. 

“Immagino”. 

“È assurdo che i giornali non ne stiano parlando di più. Insomma, di voi, di me… di tutta questa situazione”. 

“Non mi dirai che ti mancano”. 

Harry rise. “No, per niente”. 

I due rimasero in silenzio per qualche altro istante, prendendo la via per il parco. Harry tirò fuori il pacchetto di sigarette e con una sola mano riuscì a estrarne una e ad accendersela con un incantesimo silenzioso. 

“Come va lo studio?” 

“Procede. Credo che Kiki ucciderà Hermione prima o poi. La sta facendo impazzire con Storia della magia”. 

“Sai, Kiki per certi aspetti mi ricorda te. O James”, fu il commento di Sirius, l’espressione ora stranamente tesa.
Harry annuì ma non commentò quella frase. “A proposito, mi ha restituito la tua giacca. È in camera mia, dopo te la do”. 

Sirius si era scordato della giacca. “Grazie. Quando siete diventati amici tu e lei? Durante la guerra?” 

“No, dopo”, fu la risposta pronta di Harry. Fece per aggiungere altro ma poi esitò, titubante se rivelare tutto. “Lei… È stata lì quando ne ho avuto bisogno. Non che Ron o Hermione non potessero esserci, ma loro mi conoscono da troppo tempo e… Insomma, non era di loro due che avevo bisogno, non col modo di fare che hanno. Sai, la fissazione di Hermione nel cercare di risolvere ogni cosa e l’insistenza di Ron. Karen stava con me e basta, mi lasciava fare senza farmi la lezioncina”. 

“Capisco”. 

“E poi…”. Harry sospirò. Non era sicuro se fosse una buona idea raccontare proprio tutto a Sirius, ma voleva farlo, almeno a lui, magari non a James e Lily.

Il padrino parve notare la sua titubanza perché lo esortò. 

“E poi?”

“E poi”, Harry continuò a camminare, più lentamente, senza guardare l’altro, inspirando dalla sigaretta. “Una sera, poco tempo prima che voi tornaste… ero sulla Torre di Astronomia, ubriaco… Stavo male, era stato credo il momento in cui ho raggiunto l’apice del mio malessere. Io… Ho scavalcato il balcone. Ero abbastanza sicuro di volermi buttare di sotto”. 

Sirius accanto a lui ebbe un fremito ed Harry era quasi certo che la sua espressione fosse sconvolta, occhi e bocca spalancati, ma non osò controllare. “Kiki è arrivata e… Mi ha convinto a non farlo. È rimasta con me, abbiamo parlato e… Niente. Non so se mi sarei davvero buttato di sotto se lei non fosse venuta, non so… Insomma, non voglio ripensarci”. 

Sirius si bloccò afferrando con forza il braccio di Harry e tirandolo per far voltare il ragazzo verso di sé. Aveva un’espressione scura dipinta in volto. 

“Harry…”.

“Non devi preoccuparti. Ora sto bene. Non lo rifarò più”. 

“Harry…”, ripetè Sirius. Harry giurò che stava cercando di trattenere le lacrime. L’uomo non disse altro ma tirò Harry verso di sé e lo strinse in un abbraccio forte, il più forte che gli avesse mai dato. Felpato si girò nella loro direzione e li guardò incuriosito quando il guinzaglio cadde dalle mani di Harry. 

“Promettimi che semmai vorrai rifare una cosa del genere mi cercherai. Ti prego”. 

“Te lo prometto”, si affretto a dire Harry. Il suo lato egoistico era contento di aver condiviso quell’informazione con Sirius, ma d’altra parte gli dispiaceva avergli addossato il peso di quella consapevolezza.

Solo dopo diversi istanti Sirius lo lasciò andare. “Non dire nulla a… mamma e papà. Per favore. Non voglio che si preoccupino”, chiese Harry guardando il padrino negli occhi. 

Sirius gli sorrise e gli spettinò leggermente i capelli. “Certo”. 

“Comunque, dovrò ringraziare Kiki quando la vedo”, aggiunse quando i due ripresero a camminare. 

“Mi ha chiesto di te, sai? Credo tu le stia simpatico”. 

“Davvero?” 

Il cuore di Sirius fece una strana capriola nel petto, la bocca si piegò in un leggerissimo sorriso di allegria senza che se ne accorgesse. Improvvisamente, aveva voglia di vederla. 

 

Karen alzò gli occhi sulla casa bianca davanti a cui lei e Harry si erano fermati con la moto. La sua mascella serrata indicava quanto fosse tesa in quel momento.
Non era una casa particolarmente grande, che potesse indicare che le persone che ci vivevano fossero ricche, ma non era nemmeno piccola. Aveva anche un bel giardino con delle rose, un paio di altalene ed era tutta bianca. Sul piano superiore c’era persino un balcone. Poteva essere una di quelle case che sognava di avere quando era piccola. Invece la sua era sempre stata disordinata e col giardino rovinato.
Harry le si affiancò dopo aver parcheggiato la moto. 

“Vuoi che venga con te?” 

La ragazza voltò il capo nella sua direzione, l’espressione indecifrabile; il cuore le batteva da morire. 

“Sì, ti prego”. 

Con calma, i due iniziarono ad avvicinarsi alla porta d’ingresso. Karen cercò di sbirciare dalle finestre ma non riusciva a intravedere nulla; c’erano le tende. 

Non aveva la minima idea di cosa aspettarsi, non sapeva nemmeno cosa voleva aspettarsi. Improvvisamente aveva iniziato a pensare che quell’idea, l’idea di incontrare suo padre, non fosse la migliore. Si sarebbe volentieri voltata indietro per scappare a gambe levate.

Ma c’era Harry accanto a lei e la sua sicurezza dava sicurezza anche a lei; Harry non era mai scappato da qualcosa, non era tipico dei Grifondoro e lei era una Grifondoro. 

Arrivarono davanti alla porta e Karen bussò quasi senza accorgersene, il pugno che tremava.

Udirono delle voci, voci particolarmente infantili, prima che qualcuno venisse ad aprire dopo diversi istanti. Una donna comparve sulla soglia, una donna dall’aspetto giovane, i capelli biondi e ondulati che le cadevano sulle spalle a incorniciare un volto perfetto, dai lineamenti morbidi. 

Sorrise ai due senza preoccuparsi troppo di ricordare il loro aspetto. 

“Vi serve qualcosa? Se vendete qualcosa non siamo interessati”. 

“No, non vendiamo nulla”, rispose Karen in tono scocciato. “Stiamo cercando una persona… M- Marcus Wilson. È in casa?” 

Il sorriso sul volto della donna scomparve per essere sostituito da un cipiglio confuso e probabilmente un po’ irritato. 

“Lo conoscete? Siete suoi colleghi?” 

“Più o meno”, fu Harry a rispondere cercando di tagliare corto quella parte. “Avremmo bisogno di parlare con lui. Ce lo chiama o ci fa entrare?” La faccia dura del ragazzo probabilmente sortì l’effetto voluto su quella donna perché li lasciò lì per andare a chiamare Marcus, senza aggiungere altro.
I due giovani sentirono parlare dentro casa, voci concitate, toni preoccupati… Poi, dopo quelli che di nuovo parvero istanti eterni - Karen aveva iniziato a sudare e quasi non respirava - un uomo comparve sulla porta. Restò appoggiato allo stipite con un braccio mentre con l’altro teneva la porta mezza aperta in modo da farci stare solo la propria figura senza far sbirciare dentro. 

“Sì? Cosa volete?” chiese in tono severo.
Karen spalancò gli occhi. Era invecchiato, certo, i suoi capelli scuri avevano assunto una colorazione sale e pepe e si era fatto anche crescere una folta barba leggermente più scura dei capelli. Ma quello era decisamente suo padre, il naso con la gobba era decisamente quello che gli ricordava anni fa, quando era piccola. 

Aprì la bocca per dire qualcosa ma restò a boccheggiare come una scema. Solo il tocco quasi impercettibile di Harry, in piedi dietro di lei, le fece riprendere coscienza. 

Marcus guardò lei e poi scrutò Harry dall’alto in basso, uno strano guizzo nell’espressione corrucciata. Si stava probabilmente chiedendo perché quei due gli stessero facendo perdere tempo. 

“Sono Karen”, esordì Karen, la voce meno ferma di quanto avesse voluto. 

Fu il turno dell’uomo di strabuzzare gli occhi e spalancare la bocca. Kiki avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa stesse pensando. 

“C-Come?” 

“Karen. Tua figlia”. 

Marcus uscì fuori chiudendo la porta dietro di sé, non prima che Karen riuscisse a sentire risate di quelli che - poteva dirlo con certezza - erano bambini piccoli. 

“Karen?” ripeté lui come se non ci credesse. 

La ragazza sperava che dicesse qualcos’altro, che la abbracciasse o la invitasse in casa facendole conoscere quelle persone di cui sentiva le voci, che le presentasse quella donna e le spiegasse chi fosse perché ora aveva troppe idee e ipotesi confuse in testa e non voleva farsi strane idee. Suo padre l’aveva abbandonata da piccola, aveva abbandonato la sua famiglia, ma era comunque disposta a dargli un’altra possibilità, a sentire le sue ragioni. 

“Che ci fai qui?” fece l’uomo e Karen sentì qualcosa spezzarsi dentro di lei. Rumorosamente. Come un piatto che cade. Le lacrime iniziarono a pungerle gli occhi. 

“Che cosa intendi?” 

“Non dovresti essere qui. Tu… Insomma, perché sei venuta?” Il tono dell’uomo non era aggressivo ma nemmeno troppo gentile. Pareva scocciato e forse un po’ arrabbiato.

Kiki si voltò dall’altra parte chiudendo per qualche istante gli occhi, il tempo di riprendersi e trovare la forza di fronteggiarlo. Non aveva avuto aspettative, ma non aveva nemmeno voluto quel tipo di reazione.
Harry era ancora lì, vicino a lei, una presenza silenziosa ma ferma e lei quasi non lo vedeva.

“Certo!” esclamò quando tornò a fronteggiarlo. “Certo! Perché sono venuta per rovinare la tua bella vita con… Con chi? La tua nuova famiglia? Immagino che tu e quella donna stiate insieme e che quelli che sento ridere siano i tuoi figli. Quindi ti sei fatto una nuova famiglia”. Fece una pausa. “Speravo… Non lo so cosa speravo. Forse che ti fossi pentito o qualcosa di simile. Ma adesso capisco che non eri tu il problema, ma noi. Almeno per te. Perché non sei uno di quelli che scappa dalle responsabilità. Scappi solo dalle cose che non ti piacciono”. 

Marcus cercò di dire qualcosa, ma si interruppe di colpo esalando solo un mormorio patetico. 

“Allora sarai felice di sapere che Daniel e la mamma sono morti”. 

Tutta l’ansia e la paura che aveva provato prima ora si erano trasformate in rabbia. E le piaceva, era la sensazione che non la faceva sentire debole. Non voleva mostrarsi debole di fronte a lui. 

“Ora non hai più fantasmi da temere che possano perseguitarti. Goditi la tua nuova famiglia”.

Karen cominciò ad allontanarsi dalla casa e dal padre senza voltarsi indietro. Harry fece per seguirla, ma lui si fermò e guardò l’uomo con occhi pieni di giudizio, ricambiato da uno sguardo vagamente spaventato. Infine, rincorse l’amica e insieme tornarono alla moto. 

 

Karen ed Harry erano ritornati a casa di quest’ultimo e la ragazza, in completo silenzio, si era seduta al tavolo della cucina vuota. Aveva lasciato cadere un paio di lacrime quando Harry era andato verso il frigorifero per prendere un paio di birre, ma le asciugò velocemente non appena l’amico tornò da lei per metterle davanti la sua bottiglia che aprì con uno svolazzo della bacchetta. 

Sempre in silenzio, bevvero entrambi qualche sorso. Harry si sedette sull’altra sedia accanto a lei e la guardò. La ragazza aveva ancora gli occhi umidi. 

“Ti va di parlarne?” le chiese piano Harry. 

Karen scrollò le spalle. “Non c’è molto da dire. Lo hai visto anche tu”. 

“Se vuoi possiamo creare una statua a sua immagine e riempirla di maledizioni”. 

Kiki esalò una piccola risata che la aiutò a rilassarsi e mando giù un altro paio di sorsi. 

“Mi sa che non è stata una buona idea. Non sarei dovuta andarlo a cercare”. 

“Non ne sono convinto. Saresti stata nel dubbio tutta la vita. Okay, sai che è uno stronzo ma è meglio saperlo”. 

“Forse avrei preferito restare nell’illusione”. 

Harry si strinse nelle spalle e assunse un’espressione pensierosa. “È un punto di vista che non ho mai condiviso. Io preferisco saperle le cose, per quanto brutte. Ci sono state alcune cose della mia vita che avrei di gran lunga voluto sapere prima”. 

Karen finalmente alzò lo sguardo su di lui, gli occhi dolci e un po’ malinconici. Quella sua frase nascondeva ben di più di quanto dicesse.

“Ah siete voi”, li sorprese la voce di Lily, sopraggiunta in quel momento insieme a James e Sirius.

Karen sorrise nella loro direzione ma la sua espressione ancora un po’ sconvolta non passò inosservata. 

“Che è successo?” chiese James preoccupato, avvicinandosi ai ragazzi. 

Harry abbassò lo sguardo, indeciso su cosa dire. Non voleva rivelare i segreti dell’amica. Karen sospirò. 

“Ho incontrato mio padre. Erano... dieci anni che non lo vedevo. Forse di più”. James e Sirius si sedettero al tavolo di fronte a lei, Lily si appoggiò contro il piano del lavoro. 

“Diciamo che non sembrava molto contento di vedermi. Ha abbandonato mia madre e la nostra famiglia per... farsene una nuova. Ho dei fratelli che non ha nemmeno voluto farmi conoscere. E non so quale delle due cose faccia più male”. 

Nessuno seppe cosa dire così nella stanza cadde di nuovi il silenzio, questa volta più pesante. 

“Cercarlo è stata una cosa stupida”, continuò lei. 

L’espressione di Harry si contorse; era stato lui a convincerla ad andarlo a cercare e ora non era più tanto sicuro che fosse stata una buona idea. 

“Lasciatelo dire da qualcuno che non ha avuto buoni rapporti con la propria famiglia”, si intromise Sirius guardandola con attenzione e Karen si sarebbe volentieri lasciata trascinare in quello sguardo se si fosse trovata in uno stato d’animo più gradevole. Non poté ignorare però il proprio cuore che aveva cominciato a fare le bizze, come faceva sempre quando c’era Sirius nei paraggi. 

“Non ha importanza chi ti mette al mondo. Non ha importanza quale sangue o cognome porti. E non vale la pena stare male per qualcuno che non ti vuole bene quanto dovrebbe o quanto meriteresti. Soprattutto se si tratta dei genitori. La famiglia te la puoi anche scegliere”.

Lanciò una fugace occhiata in direzione di James; lui era stato la sua famiglia per... praticamente sempre. Lui, Lily e Remus. E ora anche Harry. James ricambiò l’occhiata con una complice.

Karen gli sorrise. 

“E poi, pensa se nascevi in una di quelle famiglie ossessionate dalla purezza del sangue. Credimi, da quelle non ne esci sano”. 

Karen avrebbe voluto prendere la mano di Sirius e stringerla tra le proprie. Era lì, appoggiata sul tavolo, così vicina... le venne da chiedersi quante ne avesse passate lui. Era ben saputo, lo avevano scritto pure i giornali, che i Black erano tra le famiglie più ossessionate dalla purezza del sangue, seguaci e affiliati di Voldemort. 

“O se vuoi possiamo sempre prenderlo a pugni”, fece James cercando di buttarla sul ridere. “O affatturarlo. Magari... Felpato, ti ricordi lo scherzo dei fuochi d’artificio nel water?”

“Oh si!”

“Potremmo fare quello”.

Karen si ritrovò a ridere, ora molto più rilassata e in pace con sé stessa e, mentre Lily alzava gli occhi al cielo per le idiozie che sparava suo marito appoggiato dal suo migliore amico, la ragazza si trovò a dare ragione a Sirius: la famiglia si può scegliere e lei aveva già scelto la sua. 

 

***

 

Se Harry avesse lo spirito di osservazione di Hermione avrebbe già capito che tra Kiki e Sirius c’è qualcosa xD. 

Vabbè, spero vi siate goduti questo semplice capitolo e lasciatemi qualche commento. Non fate i timidi. 

 

Baci, 

Cactus.

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Capitolo 32
*** Chiarimenti ***


CHIARIMENTI

 

“Come lo prendi il caffè, Karen” chiese Lily quando vide Karen scendere in cucina per la colazione. La ragazza aveva accettato l’invito di rimanere a dormire dai Potter, non sentendosela di tornare a casa propria dove sarebbe praticamente rimasta da sola. 
“Nero e amaro, come la mia anima”, rispose Karen vivacemente. Si sentiva piuttosto di buon umore quella mattina e voleva godersi questo stato d’animo finché durava. Aveva ragione Sirius, non poteva permettere che qualcuno di insignificante le rovinasse la vita o l’umore. E a proposito di Sirius: l’uomo era seduto a tavola, la faccia immersa nel giornale, e non le era mai parso così affascinante. 
Cercò di ignorarlo, come faceva lui con lei, e si sedette a tavola, Lily che le porgeva la sua tazza di caffè. 
Ron, Hermione e Ginny si erano uniti e Karen si ricordò in quel momento che avevano una sessione di studio quella mattina. 
“Dovrò chiedere a Harry di insegnarmi la Fattura stordente”, disse Ron a un tratto, riflessivo. “Sai, quella strana”. 
“Harry non farà un bel niente prima della sua tazza di caffè”, si sentì dire dalla voce di Harry mentre scendeva le scale e dopo pochi secondi comparve anche lui nella cucina con addosso solo un paio di jeans chiari. Reggeva la maglietta in mano e sul petto nudo spiccava il drago tatuato. Tutti gli occhi si puntarono su di lui. 
“Che c’è?” Chiese Harry notando quegli sguardi strani mentre si metteva la maglietta.
“Ti sei tagliato la barba”, rispose Hermione dando voce ai pensieri di tutti. Il ragazzo infatti sfoggiava un viso pulito e liscio, senza più quel pizzetto che si era fatto crescere negli ultimi mesi insieme ai capelli. 
“Be’ si. Era diventata impegnativa”, rispose Harry sedendosi accanto a Ginny. 
“Finalmente. Ora te lo posso dire. Stai meglio senza”, fu il commento della ragazza.
“Potevi dirmelo che non ti piaceva!” Si lamentò Harry in tono sorpreso. 
“Scusa, non volevo turbarti”. 
“Da quando in qua ti preoccupi di non turbarmi”. 
“Ehi!” Ginny gli diede un colpetto dietro la nuca in finta aria rabbiosa e Harry mugugnò qualcosa, sotto le risate divertite di tutti gli altri che avevano assistito alla scena. 
“Sono le nove del mattino, smettetela di battibeccare come marito e moglie”, li rimproverò Karen bevendo il suo caffè. 
Sirius chiuse il giornale e si alzò riponendo la propria tazza nel lavello. Karen lo seguì di sottecchi mentre usciva dalla cucina. 
Dopo una rapida colazione i ragazzi decisero di accomodarsi in salotto per cominciare a studiare. Hermione tirò fuori l’immancabile libro di Storia della Magia insieme a quello di Aritmanzia e si mise subito al lavoro. Harry e Ron decisero di darsi da fare con Pozioni. 
Quando Karen, poco dopo, adocchiò Sirius che scendeva dalle scale, si alzò di colpo e senza dire nulla si allontanò dagli amici per andargli incontro. Nessuno la richiamò, troppo presi a studiare. 
Nel momento in cui la ragazza se lo trovò davanti però, si bloccò. Non si era preparata un discorso, anzi, aveva agito piuttosto di impulso, mossa dal desiderio di chiarire quello che avrebbe dovuto chiarire già giorni prima. 
“Ehi!” esclamò, più per non restare a fissarlo come un baccalà che altro. “Ti- Ti posso parlare?” Chiese cercando di essere il più naturale possibile. 
“Certo”, rispose l’uomo gentilmente. Lei si spostò verso la porta di ingresso dove non c’era nessuno e non erano sotto gli occhi dei suoi amici. 
“Io... volevo chiederti scusa”, cominciò la ragazza e, accorgendosi dell’occhiata perplessa che le aveva lanciato l’altro, si affrettò ad aggiungere. “Per quella sera, a Hogwarts. Anzi, prima volevo ringraziarti per avermi accompagnata sana e salva e poi... si, insomma... chiederti scusa per quel bacio. Non è stato opportuno e... Insomma, è stata una cosa stupida. Ero ubriaca e ho agito di impulso. A volte mi succede”. 
Karen scrollò le spalle e abbasso lo sguardo imbarazzata sentendo caldo. Sperava solo di non essere arrossita come una adolescente qualsiasi. Si appoggiò contro il muro sentendo lo sguardo di Sirius addosso. Sentendo tutta la sua presenza addosso, anche se non la stava toccando e nemmeno le stava troppo vicino. Perché lui aveva quel potere di farla sentire nervosa e fragile molle un budino? Perché la osservava con quei profondi occhi neri e quel sorrisetto sghembo?
“Nessun problema”, sentì dire dalla voce dell’altro e rialzò lo sguardo su di lui. “Non ti preoccupare... per il bacio. Non me la sono presa”. 
“Mi fa piacere”.
“Anzi, non è nemmeno stato così terribile”.
Karen ridacchiò nervosamente. Che cosa voleva dire? Gli era piaciuto? O forse no? Forse la voleva solo prendere in giro. 
“Sapevo di alcool. Immagino che il mio alito non fosse dei migliori”. 
“Avevo bevuto anche io”.
I due rimasero a guardarsi per un po’, indecisi su chi avrebbe dovuto dire qualcos’altro. 
“Davvero, non ti preoccupare, Karen. Anzi, se ti sono sembrato... Rigido, o non lo so... Strano... Sono un po’ fuori forma da quel punto di vista. Dodici anni ad Azkaban e due anni nell’aldilà non aiutano molto per quanto riguarda le ragazze”. 
Karen gli sorrise dolcemente e si staccò dal muro per avvicinarglisi e poggiargli una mano sul braccio. Di nuovo, agiva di impulso. Aveva sentito l’irrefrenabile voglia di consolarlo dopo quella sua frase. Lo avrebbe volentieri abbracciato e baciato di nuovo per fargli dimenticare Azkaban e qualsiasi incubo lo tormentasse. Tuttavia, già quel contatto che si era permessa forse risultava troppo e persino strano. Chissà cosa stava pensando Sirius. 
“È come andare sulla scopa. Una volta che hai imparato non lo dimentichi più. E poi, non mi sei sembrato strano, anzi...”.
Il bacio era perfetto, pensò ma non lo disse. 
Sirius lanciò un veloce sguardo sulla mano della ragazza stretta attorno al suo braccio ma non commentò. Rimase con gli occhi fissi sul volto di Karen. 
“Tu piuttosto, come stai? Sai, con tutta la faccenda di tuo padre...”. 
“Bene. Non è la fine del mondo dopotutto”.
“Sirius!” Chiamò ad un tratto la voce di James dal piano superiore. “Sei pronto?”
Karen lasciò andare il braccio di Sirius e gli sorrise ritornando verso il salotto. “Torno dagli altri”, disse senza aspettare una risposta. Entrambi si ritrovarono a maledire mentalmente James per averli interrotti. 

 

La chiacchierata con Sirius aveva mandato a puttane tutta la concentrazione di Karen e ora si ritrovava a fissare il proprio libro senza capire nulla di quello che vi stava scritto. Un paio di volte Ginny le aveva lanciato strane occhiate come se si fosse accorta del suo nervosismo. Perché oltre alla poca concentrazione, faceva fatica persino a stare seduta. Sapeva che forse avrebbe dovuto parlarne con qualcuno ma non se la sentiva; Harry era troppo vicino a Sirius e non aveva idea di come l’avrebbe presa e con Hermione, Ginny o Ron non aveva tutta questa confidenza. Senza contare che Sirius, be’… aveva vent’anni più di lei e non tutti prendevano bene qualcosa del genere. E poi a che pro? A che pro parlare di una cotta momentanea per un uomo più grande che di certo non era interessato a lei? Ma lei non era così, non era una che si prendeva cotte… 
“Harry, facciamo una pausa?” chiese Ginny a un certo punto guardando il proprio ragazzo per fargli capire che la frase era indirizzata a lui. Harry alzò un sopracciglio ma annuì semplicemente e fece segno alla ragazza di seguirlo fuori. 
Quando i due uscirono sulla veranda, Ginny richiuse piano la porta dietro di sé e non tolse lo sguardo da Harry. Il ragazzo capì subito che non voleva semplicemente fare pausa. 
“Cosa c’è?” 
“Mi è arrivata una lettera”, cominciò la ragazza interrompendosi di colpo. Harry la incoraggiò con lo sguardo ad andare avanti. “A quanto pare, quest’ultimo anno, alcuni allenatori e giocatori di Quidditch sono venuti in incognito a Hogwarts per vedere gli studenti giocare. Ogni tanto lo fanno, per le nuove reclute, sai…”. 
“Okay”. 
“E… Mi hanno chiesto di provare a entrare nelle Holyhead Harpies. Hanno detto che ho del potenziale e vorrebbero avermi in squadra. Ovviamente dovrei fare un provino, però… Sì, ecco, non mi dispiacerebbe”. 
Harry le si avvicinò all’improvviso con un ampio sorriso sul volto e le mise le mani sui fianchi. “Ma è fantastico!” 
“Dici davvero?” Ginny tutto d’un tratto si trovò a rilassarsi completamente tra le braccia del ragazzo; nemmeno lei si era resa conto di essere stata così tesa. Non sapeva esattamente di cosa avesse paura, ma non aveva potuto dire con certezza che ad Harry avrebbe fatto piacere.
“Certo! Te lo meriti. Loro guadagnerebbero un ottimo membro in squadra. Perché me lo chiedi?” 
“Perché, insomma… Anche tu sei bravo, molto più di me e ti meriteresti di entrare in una squadra. E poi, potrei essere spesso fuori città. Ci alleneremmo perlopiù a Londra, però sai com’è… Le competizioni sportive si fanno anche fuori”. 
Harry scosse il capo tirando la ragazza verso di sé. “Gin, non ti preoccupare. Io non ho interesse a entrare in una squadra di Quidditch, insomma, sarebbe… Troppo. Ne ho abbastanza di giornali che parlano di me. E per quanto riguarda l’altra cosa, devi pensare al tuo futuro prima di tutto… Potremo vederci comunque, con le Passaporte, la Metropolvere…”. 
Ginny sorrise e si alzò sulle punte dei piedi per dargli un bacio veloce sulle labbra. “Grazie”. 
“Non c’è bisogno che mi ringrazi. Anzi, mi dispiace, in questi giorni ti ho un po’ trascurata. Dovremmo uscire da qualche parte, solo io e te”. 
“Non ti preoccupare di questo. Anche se mi farebbe piacere uscire da sola con te. Tu come stai piuttosto?” gli chiese infine la ragazza, col volto ora più serio e accoccolandosi di più contro il suo petto. 
“Bene. La mia terapista mi ha anche diminuito gli antidepressivi”. 
“È un’ottima cosa”. 
“Lo è”. 
Ginny gli sorrise e gli diede un altro bacio sulle labbra; questa volta rimasero a baciarsi qualche istante di più.
“Comunque, Harry…”, sospirò Ginny quando si staccarono, senza allontanarsi da Harry però. Anzi, semmai strinse ancora di più le mani sulla sua maglietta. 
“Sì?” 
“Karen non ti sembrava un po’ strana prima?” 
“In che senso?” 
“Un po’ distratta, nervosa…”. 
Harry si morse il labbro fissando il muro sopra la testa della ragazza. I suoi amici non sapevano nulla dell’incontro tra lei e il padre e lui di certo non aveva intenzione di rivelarlo. Ma se davvero Ginny aveva notato un certo nervosismo da parte di Karen, forse era il caso di parlarle perché non stava bene come diceva di stare.
“Non saprei”. 
“L’ho vista parlare con Sirius prima. Poco prima che ci raggiungesse”. 
“Ah sì?” 
“Sì”. Ginny scrollò le spalle. “Non lo so. Mi chiedevo solo cosa i due avessero da dirsi”. 

 

“Ehi, Sir!”
Sirius alzò lo sguardo su James che lo guardava dalla sua scrivania nell’ufficio degli Auror. Aveva quel solito sorrisetto sghembo stampato in volto, quello che ad Hogwarts faceva intuire subito che avrebbe combinato qualche malefatta.
“Che ti prende? È da mezz’ora che fissi quel foglio senza averci scritto niente sopra”.
Sirius spostò lo sguardo da James al verbale che doveva compilare; non si era nemmeno accorto di essere rimasto a fissarlo come un idiota. La verità era che stava pensando a Karen, non poteva mentire a sé stesso. Ripercorreva nella testa la conversazione di quella mattina, il bacio che si erano scambiato al ballo e tutti gli altri momenti - pochi - in cui erano riusciti a scambiare qualche parola. Lei che gli chiedeva con tenerezza come fosse stato essere rinchiusi ad Azkaban, la sua risata genuina, i suoi occhi stanchi e ubriachi, persino il volto da pianto che aveva avuto dopo l’incontro col padre… Tutto questo… Non faceva che pensarci e sentiva una strana sensazione addosso. La conosceva bene ma non voleva dire quale fosse, non voleva ammetterlo. 
“Niente, James. Sono solo un po’ distratto”. 
“Lo vedo”. 
Sirius tornò a rivolgere l’attenzione al suo foglio di pergamena, questa volta cercando di concentrarsi sul lavoro, ma James lo stava ancora fissando. Sentiva i suoi occhi nocciola addosso, come se lo stessero toccando. 
Si voltò di nuovo a guardarlo, un sopracciglio alzato. 
“Felpato, di solito quando tu sei così distratto è perché pensi a una ragazza”. 
Sirius alzò gli occhi al cielo e sbuffò; James non sarebbe mai cambiato, ma dopotutto era ancora fermo ai suoi ventun anni. Non che in realtà gli desse fastidio, era l’uomo più felice della Terra perché aveva di nuovo il suo migliore amico accanto e perché si preoccupava sempre per lui. Tuttavia quello non era proprio il caso giusto per ficcare il naso. Come poteva dire a James che… Che aveva una cotta per Kiki, la migliore amica del suo figlioccio e con vent’anni in meno di lui? Sempre se di cotta si poteva parlare alla sua età. 
“Oh Santo Godric!” Sentì a un certo punto esclamare e voltandosi vide che aveva spalancato sia occhi che bocca. “Ho indovinato! Ti piace qualcuna!” 
Dananzione!! Perché James doveva sempre essere così perspicace? 
“Chi è??” 
“Non te lo dico, James!” 
Era inutile negare. 
“E perché? Quando mai tu non mi dici le cose?” 
Sirius sbuffò più forte, ma con la coda dell’occhio Black lo vide agitare la bacchetta per innalzare quello che doveva essere un incantesimo silenziatore per impedire ai loro colleghi Auror che stavano passando di sentirli. 
“Non ci sente nessuno, puoi dirmelo”. 
“É meglio che tu non lo sappia, Jamie”, gli disse Sirius in quello che doveva essere un tono perentorio, accompagnato da un’intensa occhiata. Se solo James fosse uno che si lasciava intimorire. 
“Perché mai?” L’espressione di James era decisamente perplessa. “È una nostra collega?” Parve soppesare qualcosa per un attimo poi aggiunse: “È un uomo? Perché va bene, Sirius, non è mica una brutta cosa. Basta che non sia Moony, sai lui è sposato, anche se voi due…”. 
Sirius per poco non cadde dalla sedia, ma cercò di ricomporsi subito. “Oh per le mutande di Merlino! No, Ramoso, non è un uomo e non è nemmeno una nostra collega”. 
“E allora chi?” 
Sapeva che finché non glielo avesse detto non sarebbe rimasto tranquillo, e non poteva nemmeno mentirgli dicendogli il nome di una tizia a caso perché altrimenti avrebbe fatto di tutto per metterli insieme e quello voleva decisamente evitarlo. 
Ma poi, pensò, che male ci sarebbe stato nel dirglielo? In fondo era James, si erano raccontati cose molto più strane e assurde. Non lo avrebbe giudicato. 
Era James e lui aveva bisogno di parlarne con qualcuno. 
“Karen!” disse infine quasi senza rendersene conto. 
James gli puntò gli occhi addosso perplesso. “Chi?” 
“Karen”, ripetè Sirius questa volta a voce più bassa, il timore nello sguardo. 
“Karen chi?” 
“Quante Karen conosci, James?” 
Il più giovane parve rifletterci un attimo, poi, quando realizzò la cosa, strabuzzò gli occhi e li fissò nuovamente sull’amico. “Aspetta… Karen, Karen? L’amica di Harry?” 
Sirius annuì piano mordendosi il labbro inferiore. 
“Porca troia, Sirius!” 
“Lo so”. 
“Ha diciotto anni!” 
“Lo so”.
“Ha l’età di Harry. Potrebbe essere tua figlia”. 
Sirius sbatté la piuma sulla scrivania e abbassò lo sguardo. Ora si sentiva davvero una merda. Forse non glielo avrebbe dovuto dire, magari sarebbe andato a dirlo anche a Remus, Lily o peggio, ad Harry che lo avrebbe detto a Karen e… Lo avrebbero giudicato tutti. 
Ma fu soprattutto la seconda affermazione di James a scuoterlo, a fargli quasi venire la pelle d’oca. Sì, poteva essere sua figlia ma non lo era. Non c’era nulla di perverso.

 

*** 

 

Alla fine Sirius ha confessato a James di provare qualcosa per Karen. Cosa succederà ora? La situazione si smuoverà? 
Accetto le vostre teorie e lasciatemi qualche commento : ) 
As usual, a sabato prossimo!! Ma vi lascio con un'altra foto di Karen.

 

C. 

 

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Capitolo 33
*** Godric's Hollow ***


Questo capitolo è abbastanza inutile. A dire il vero potete anche non leggerlo, non è così indispensabile per la comprensione della storia XD Ma se lo leggete, be’ aspettatevi un capitolo molto ma molto leggero. Più leggero dei precedenti e questo è tutto dire. Ho scritto questo capitolo per la mia goduria perché ultimamente sto leggendo un sacco di fanfic di HP piuttosto tristi e tragiche e quindi mi sono detta “Fuck it! Ho bisogno di qualcosa di divertente, scherzoso e famigliare, almeno per una volta”.
Ciancio alle bande, buona lettura.

 

***

 

GODRIC’S HOLLOW

 

Il giorno degli esami arrivò e Harry, Karen, Hermione, Ginny e Ron si trovarono per l’ultima volta a falcare i corridoi di Hogwarts. Era bello rivederla di nuovo intera e maestosa anche dopo essere stata quasi distrutta da una guerra.
Alcune aule del settimo piano erano state adibite apposta per gli esami dei M.A.G.O e quando i ragazzi salirono l’ultima rampa di scale trovarono già diversi studenti seduti per terra lungo il corridoio, chi a chiacchierare e chi a ripassare nervosamente. 
Neville, Seamus e Dean li avvicinarono subito. “Ragazzi, sono nervoso da morire. Stamattina volevo vomitare”.
“Forza, Neville, andrai alla grande. Al massimo puoi sempre usare la carta del “ho tagliato la testa a Nagini””. 
James, Lily e Sirius avevano deciso di accompagnarli e nell’attesa avevano deciso di andare a trovare Hagrid che mostrò un incredibile sorriso a trentadue denti non appena li vide. 
“James! Lily! Sirius! Come sono felice che siete qui!” Effettivamente il Mezzo-gigante non era mai parso così contento. “Venite, venite. Vi offro una tazza di tè”.
Sirius grattò la testa a Thor mentre si faceva spazio dentro la piccola capanna di Hagrid, augurandosi che non avesse anche i suoi famosi biscotti. 
“L’ultima volta che eravate stati qui eravate dei scriccioli dispettosi”, ricordò Hagrid mentre versava il tè dentro delle tazze, le mani un po’ incerte. 
“Oh, me lo ricordo. Quando il mondo era un posto un po’ più semplice da vivere”. 
“Chi l’avrebbe mai detto che voi… Insomma, dopo tutto quello che è successo, il casino, voi-sapete-chi… Eppure voi siete tornati”. Hagrid si asciugò velocemente una lacrima che stava cercando di scappargli nella barba. 
Sirius spostò lo sguardo; lui decisamente non voleva ricordare quei tempi. 
“Suvvia, Hagrid, non vorrai diventare sentimentale ora”, scherzò James prendendo la sua tazza.
“Hai ragione. Parliamo di cose felici, ora. Come sta Harry?” 
“Sta bene”, si affrettò a rispondere Lily. “Ora sta sostenendo gli esami con gli altri. Sta meglio”. 
“Me lo ricordo quando sono andato a prenderlo, da quei Dursley. Era uno scricciolo alto poco più di questo tavolo. Ma aveva una forza… E poi dovevate vederlo come volava. Silente lo ha ammesso nella squadra di quidditch il primo anno. Mi spiace dirtelo, James, ma è persino più bravo di te”. 
“Se non stessi parlando di mio figlio, Hagrid, potrei offendermi”. James rise contagiando pure gli altri. 

 

Gli ospiti di Hagrid avevano perso leggermente la cognizione del tempo su quanto fossero rimasti a chiacchierare, quindi furono piuttosto sorpresi nel vedere Harry venire verso la capanna. 
“Hai già finito?” 
“Sì”. 
“E gli altri dove sono?” 
“Hermione si è fermata a parlare con qualcuno, e Ron, Karen e Ginny stanno ancora finendo”.
“Com’è andata?” 
Harry scrollò le spalle. “Credo bene”. Per fortuna per la gran parte degli esami si era trattato di fare dimostrazioni pratiche e quello gli riusciva bene, ma aveva come l’impressione che gli insegnanti non avessero voluto tormentarlo troppo. Qualche vantaggio per aver salvato il mondo doveva pur averlo. Quando però il professore di Difesa Contro le Arti Oscure gli aveva chiesto di evocare un Patronus, aveva esitato. L’ultima volta che aveva tentato di farlo aveva miseramente fallito perché non gli sembrava più di poter essere felice. E non aveva più avuto il coraggio di tentare… Ma ora, davanti al professore lo aveva dovuto fare e ci era riuscito. Il suo bellissimo cervo argentato si era materializzato davanti alla sua bacchetta senza alcun problema. 
Ciò sembrava averlo messo ancora più di buon umore, ma non aveva intenzione di dirlo ai suoi genitori, non ancora.
“Mettiti comodo, Harry. Stavamo giusto parlando delle tue doti di quidditch”, disse Hagrid servendo anche al ragazzo una tazza di tè. 
“Oh”.
“Ma come ci hai trovato?” chiese Sirius curioso. 
Harry estrasse la Mappa del Malandrino dalla tasca guardando il padrino con un sorriso sghembo che ricordava molto quello di James. 
“Che lo chiedo a fare”. 

 

Verso sera, per premiare i ragazzi, James e Lily decisero di portarli a fare un giro per Godric’s Hollow. In quella stagione dell’anno, approfittando del clima più sereno e delle giornate che si allungano, il piccolo villaggio magico si popolava di mercatini e di concerti.
Sirius naturalmente si unì alla compagnia - si sapeva dopotutto che ovunque andasse James lo seguisse anche l’altro e viceversa - e i due riuscirono a convincere anche Remus e Tonks che infilarono Teddy nel passeggino e li seguirono. 
Per non perdersi nulla, Harry legò il suo cane al guinzaglio - felice come una Pasqua per quella passeggiata fuori dall’ordinario - e lo portò con sé. 
Felpato, tuttavia, era a disagio. Non aveva messo in conto la presenza di Karen. In quegli ultimi giorni si erano incrociati solo casualmente e per pochi secondi, ma ora avrebbe dovuto passare diverso tempo con la ragazza. James non aveva detto nulla agli altri, ma non aveva nemmeno ripreso in mano la conversazione con l’amico, tuttavia Sirius si sentiva il suo sguardo addosso e non sapeva come interpretarlo. Lo stava giudicando? Gli stava dicendo mentalmente di stare lontano da Karen? 
Lui ci provava anche, a starle a debita distanza, ma chissà per quale motivo se la ritrovava sempre a pochi centimetri di distanza. Iniziò a chiedersi se per caso lei non lo facesse apposta. Ma no, doveva essere tutto nella sua testa.
“Ma sono meravigliose!” esclamò a un certo punto Hermione, gli occhi puntati su una bancarella piena di cose scintillanti. 
“Sono pietre magiche”, le disse James con un tono dolce. “Sono incantate per non smettere mai di brillare. E in teoria dovrebbero portare buona sorte o speranza, qualcosa del genere. Ma io ho sempre faticato a crederci”. 
Hermione inarcò un sopracciglio. 
“Vuoi andare a vederle?” 
James aprì la strada invitando la ragazza ad andare verso la bancarella. Lily li seguì afferrando la mano del marito. Anche Ron imitò la propria ragazza, lasciando indietro Harry e Ginny; quest’ultima seguì il proprio olfatto che la portò a girare lo sguardo verso un chioschetto che vendeva delle frittelle. 
“Potrei morire per averne un po’”, sospirò la ragazza. 
Harry abbassò lo sguardo su di lei. “Ne vuoi? Te le prendo”. 
“Non ti preoccupare”. 
“No, davvero. Mi farebbe piacere”. 
“Se proprio insisti”, disse Ginny con un sorriso divertito. I due si avvicinarono al chioschetto e si fecero servire un paio di porzioni. 
“No. Non voglio che paghi. Non posso far pagare il ragazzo che ci ha liberati da Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato”, disse il venditore quando Harry cercò di porgergli i soldi. 
Harry strabuzzò gli occhi. “Come sarebbe a dire?” 
“Dico davvero. Godetevi le vostre frittelle e tornate a trovarvi”. 
Ginny passò lo sguardo dal proprio ragazzo al venditore e alla fine sorrise a quest’ultimo. “La ringrazio. È davvero gentile da parte sua”. Fece lei quando capì che Harry sarebbe rimasto a fissarlo come un baccalà, troppo sorpreso. Era abituato alla gente che lo fissava, lo indicava e gli chiedeva autografi, ma non a ricevere le cose gratis - a meno che non fosse dal negozio dei gemelli, ma quello era diverso -. 
Ginny lo trascinò via verso Sirius, Karen, Remus e Tonks. “Tesoro, mi sa che ti dovrai abituare a queste cose”. 
Harry alzò gli occhi al cielo quando sentì qualcuno sussurrare il suo nome dal ciglio della strada.  Evidentemente aver addosso gli occhiali da sole non era sufficiente. Felpato si sedette ai suoi piedi pacifico. 
“Se vuoi tiro fuori le tette così li distraggo”, scherzò Karen guardando Harry con un occhio e Sirius con l’altro. Sirius si voltò dall’altra parte perché ebbe l’improvvisa sensazione di star arrossendo. 
Harry vide che un paio di ragazze lo stavano spudoratamente fissando, probabilmente erano state loro a dire il suo nome, ma le ignorò. Se non si avvicinavano loro, non lo avrebbe di certo fatto lui. 
Godric’s Hollow si stava riempiendo sempre di più di maghi e streghe, famiglie, coppie che passeggiavano, musicisti che suonavano a lato della strada e persone che si fermavano a fare compere o semplicemente si godevano la tiepida serata. Harry sperò solo di non essere notato da altri perché altrimenti non ne sarebbe uscito fuori. Le ragazzine, a quanto pareva, erano troppo timide per prendere qualsiasi iniziativa. 
“Che ne dite se andiamo a mangiare?” propose James quando tornò lui, Lily, Ron ed Hermione si riunirono al gruppo. 
“Io ho fame”, disse Ron. 
“Tu hai sempre fame”, fece Hermione alzando gli occhi al cielo. 
“Ho bisogno di crescere”. 
Harry e Ginny scoppiarono a ridere contemporaneamente e Ron li guardò perplesso.
“Dai, andiamo a mangiare”. 
James decise di condurli verso un ristorante che ricordava trovarsi nei paraggi e, quando vide che dopo quasi vent’anni era ancora lì, fece quasi i salti di gioia; si premurò di assicurare a tutti che si mangiava bene prima di entrare. 
Il ristorante era abbastanza pieno quando entrarono, ma vennero subito accolti da un’atmosfera confortevole e intima, nonché da una giovane cameriera un po’ timida ma gentile che diede loro un grande tavolo in un angolo e aspettò che tutti si furono accomodati - esitando incerta quando gli occhi le caddero su Harry - prima di andarsene. 
“Ron, vedi di non divorare tutto il menù”, Ginny disse al fratello in finto tono di rimprovero. Ron si esibì in una risata cinica sussurrando un “Spiritosa”. 
“Hanno la birra buona!” esclamò Karen leggendo il menù. 
“Quale?” le chiese Sirius. Erano seduti uno di fronte all’altro. 
“La Tactical Nuclear Penguin”. 
Ci misero poco a scegliere cosa mangiare - approfittando dei consigli di James che in quel posto aveva mangiato più di una volta e aveva assaggiato diverse pietanze - e non appena arrivarono le birre Harry si alzò per andare in bagno. 
Karen si allungò per prendergli il bicchiere di birra. “Fate finta di niente quando torna”, disse nascondendola sotto alla propria sedia. 
“Lo sai che ti ammazza vero se gli tocchi il cibo?” La avvertì Ron.
“È proprio per questo che lo faccio”, disse lei.
Quando Harry tornò notò subito che c’era qualcosa che non andava e le occhiate silenziose che si lanciarono tutti gli altri lo insospettirono. 
“Dov’è la mia birra?” chiese il ragazzo crollando sulla propria sedia. 
“Birra? Quale birra?” fece James, lo sguardo più innocente possibile. “Remmie, tu sai niente di una birra?” 
Lupin guardò James. “No. Dovrei?” Harry sospirò; quindi persino il suo ex professore aveva deciso di stare a quel gioco. 
Gli occhi verdi del ragazzo si fissarono su Karen. 
“Perché stai guardando me?” 
“Perché so che sei stata tu”. 
“A fare cosa?” 
“A rubarmi la mia birra”. 
Sirius e Tonks nel frattempo facevano di tutto per non scoppiare a ridere. 
“Io? Non farei mai una cosa del genere”. 
“Certo, come no. Immagino che sia stato Teddy allora. E magari se l’è pure bevuta tutta finché ero in bagno”. 
A quel punto Sirius non si trattenne più e per poco non crollò con la testa sul tavolo in preda alle risate. Teddy dal canto suo dormiva tranquillo nel suo passeggino; Felpato era fermo sotto il tavolo con una ciotola di acqua che gli aveva portato la cameriera poco prima. 
“E chi può dirlo? I neonati, dopotutto, fanno cose strane”. 
Harry sorrise sospirando. 
“Tanto lo sai che posso tranquillamente richiamarla con un Accio”. 
“Be’, allora fallo”. 
Come se avesse obbedito a un ordine inconsapevole, Harry pensò intensamente all’incantesimo Accio nella propria testa e si figurò la propria birra che tornava al suo posto in suo possesso senza nemmeno una goccia sprecata e così accadde; sotto gli sguardi attoniti dei presenti, il bicchiere di birra volò in mezzo alle persone da sotto la sedia dove Karen l’aveva nascosta e si adagiò sul tavolo di fronte a Harry. 
“Miseriaccia! Come hai fatto?” esclamò Ron. 
Harry aveva passato quasi tutti i giorni ad allenarsi a fare incantesimi senza l’uso della bacchetta, chiuso in camera o quando era da solo. Ci teneva davvero a sfruttare quel potere. Tuttavia era la prima volta che gli riusciva così facilmente; le uniche cose che aveva ottenuto mentre si allenava erano state spostare la palla di qualche centimetro e sollevare una piuma, ma solo dopo un intenso sforzo. Evidentemente la magia rifletteva gli stati emotivi più di quanto pensasse. 
“Mi sono allenato”. 
James e Lily lo guardavano. Loro non ne sapevano nulla. Harry non lo aveva detto a nessuno. 
“Be’, è una bella cosa”, gli disse Remus. 
Harry si chiese se sarebbe anche stato in grado di evocare un Patronus o Schiantare qualcuno senza l’uso della bacchetta. 
La discussione venne interrotta quando finalmente i piatti cominciarono ad arrivare al loro tavolo. 
“Quindi, quali sono i vostri progetti ora, ragazzi?” chiese Tonks a un certo punto della cena cercando di mantenere il tono il più leggero possibile nonostante la domanda sia tutto fuorché leggera. 
“Pensavo di fare domanda per l’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche del Ministero”, rispose Hermione prontamente. Probabilmente era l’unica che aveva le idee già chiare riguardo alla sua carriera futura. 
“Qualcosa mi dice che sentiremo ancora parlare del C.R.E.P.A.”, la prese in giro Ron trangugiando un boccone del suo hamburger. 
“Dai Ron, sai benissimo che c’è bisogno di leggi che garantiscano i diritti basilari anche alle Creature Magiche. Alcune subiscono troppe discriminazioni”, contestò la ragazza. 
“Questo è vero”, disse James lanciando un’occhiata a Remus; il suo migliore amico aveva dovuto soffrire discriminazioni per troppo tempo a causa della sua licantropia, specialmente sotto il governo di Caramell che aveva emanato una legislazione che impediva ai licantropi di avere un lavoro e non si era mai capacitato di come una cosa del genere fosse stata possibile. Come si poteva pensare che delle persone - normalissime persone e per giunta intelligenti e gentili, come era il caso di Remus - non potessero godere di diritti fondamentali per qualcosa che non era colpa loro. Ci aveva sofferto lui, figurarsi quanto avesse dovuto soffrirci Remus. Con Kingsley per fortuna le cose erano cambiate e a Remus era stata offerta una carica al Ministero affianco ad Arthur Weasley nella gestione degli affari Babbani, ma c’era ancora tanto lavoro da fare su quel fronte. 
“Cos’è il C.R.E.P.A.?” chiese Lily. 
“Un’associazione che aveva creato Hermione quando eravamo al quinto anno”, rispose Ron ancora prima che la sua ragazza avesse il tempo di aprire bocca. “Comitato per la Riabilitazione degli Elfi Poveri e Abbruttiti. L’unica iscritta era lei. E io e Harry naturalmente, perché ci ha costretti”. 
Karen scoppiò a ridere. “Ecco perché quell’anno continuavo a trovare minuscoli vestiti in giro per la Sala Comune”. 
“Gli Elfi hanno smesso di pulire la nostra Sala Comune per paura di ritrovarsi in mano una di quelle cose e venire liberati”, aggiunse Ron. 
Hermione sbuffò.  
“Be’, in ogni caso penso che Hermione sia la più qualificata per ricoprire quella carica al Ministero”, disse Remus, al che Hermione mostrò un timido sorrise e mormorò un debole “grazie”. 
“Harry, io e te faremo l’Accademia insieme, vero?” esclamò a un certo punto Ron guardando intensamente verso Harry che inarcò un sopracciglio. 
“Ehm… veramente… Non lo so”. 
“Come sarebbe a dire che non lo sai?” 
Ron sembrava genuinamente sconvolto. 
“Dopo quello che ho fatto a quei Mangiamorte?” 
La tavolata rimase in silenzio per qualche istante.
“Dai, amico, non posso farlo senza di te”. 
“Non penserai ancora che sia colpa tua?” gli chiese Karen. 
“No. Però… Credo di non avere più voglia di combattere. Tutto qui”. 
Quasi tutti lo guardarono pieni di comprensione e il volto di Harry pareva tutto ad un tratto emanare stanchezza. Ginny gli strinse una mano sotto il tavolo. Lo sguardo di Ron era invece dispiaciuto.
“Comunque sia, Ron, te la caverai anche senza di me”. 
“Sarà divertente allenarti”, gli disse Sirius. “Proverò ad andarci leggero con te”. 
Quando la conversazione si spostò sugli insegnanti di Hogwarts, avevano già tutti finito di mangiare e Teddy si era svegliato e aveva iniziato a piagnucolare, così Remus lo prese in braccio e lo portò fuori, lasciando che Tonks continuasse a godersi la serata. 
“Basta parlare di queste cose noiose. Piuttosto, mi metto a imitare Piton”, disse Karen trangugiando il suo ultimo sorso di birra. 
“Oh, questo lo vorrei proprio vedere”, fece James. 
“No, fai la McGranitt. Ti riesce meglio”, le suggerì Harry che non desiderava rivivere il ricordo del suo ex insegnante di Pozioni che si era sacrificato in nome del Bene Superiore. 
“Non vi permetterò in una sola serata di imbrattare questo nome comportandovi come una balbettante bambocciona banda di babbuini”, fece Karen in una perfetta imitazione della Preside di Hogwarts, assumendo addirittura il suo stesso cipiglio e facendo ridere tutti. Poi si prodigò nell’imitazione della professoressa Sprout e di Vitious e di quasi tutti, a dire il vero, eccetto quella di Remus perché: “No, non imito i miei professori preferiti”; peccato che Lupin però non fosse stato presente. Ma Tonks si appuntò mentalmente di farglielo sapere.
 

 

La serata si concluse con Karen, Harry, Ginny, Ron ed Hermione che decisero di andare a farsi qualche giro per i locali, mentre gli adulti se ne tornarono a casa insieme al cane di Harry. 
Fecero il giro di alcuni locali tracannando birra e in uno di questi incontrarono addirittura Dean e Seamus che furono ben felici di unirsi alla loro compagnia. Harry si trovò costretto anche a firmare qualche autografo, ma le birre che aveva bevuto lo aiutarono a sciogliersi e quindi non ci pensò troppo. Dean ovviamente ne approfittò per prenderlo in giro beccandosi uno scappellotto da parte di Harry che lo fece cadere perché ormai l’alcol gli aveva tolto ogni equilibrio; il ragazzo scoppiò a ridere come un dannato ritrovandosi col culo per terra.
La sfortuna fu, invece, che Karen convinse Ginny ad assaggiare un paio di cocktail particolarmente forti; ma Ginny non era abituata come Karen a bere alcolici e si trovò presto a non reggersi più in piedi. 
Fu quello il momento di abbandonare la loro serata. Dopotutto, era ormai notte inoltrata, quasi l’alba. 
“Perché siamo a casa tua?” chiese la ragazza, aggrappata alla camicia di Harry, quando vide che si erano smaterializzati dai Potter. 
“Perché sei ubriaca marcia e non ho intenzione di riportarti così dai tuoi genitori”. Per fortuna anche Ron gli aveva dato manforte sulla questione, sicuro che i signori Weasley si sarebbero parecchio arrabbiati se Ginny tornava a casa ubriaca. Perciò l’aveva lasciata andare con Harry. “Quindi dormi da me”. 
“Ma non sono ubriaca”. Non appena pronunciò quelle parole, la ragazza si sporse in avanti e vomitò sul selciato del giardino di casa. Harry alzò gli occhi al cielo. 
Si affrettò a pulire con un colpo di bacchetta e si mise Ginny in spalla senza quasi fare fatica. Lei non si oppose. Non appena raggiunse il portico, vide James guardarlo con uno strano sorriso. 
“Scusa, ti ho svegliato?” gli chiese Harry. 
“No. Ero sceso per prendere un bicchiere d’acqua e vi ho sentiti. La fai dormire nel tuo letto?” 
“La cuccia di Felpato non mi sembra una buona alternativa”. 
“Mi raccomando, se fate cose sconce silenziate la porta”.
“Con lei in questo stato potrebbe solo esserci uno stupro”. 
James rise e seguì il figlio dentro casa. 

 

*** 

 

Purtroppo oggi aggiorno un po’ tardi.
Ahimé, questa settimana ho dato due esami e ne ho altri tre da dare quindi lo studio ha la priorità sul resto in questi giorni. 
Solo una piccola nota riguardo il capitolo: magari qualcuno di voi la conosce, comunque la Nuclear Tactical Penguin Beer esiste davvero, è un marchio scozzese con una gradazione alta e un costo abbastanza esoso. È la birra da cui prende il nome anche il gruppo italiano Pinguini Tattici Nucleari di cui mi sto altamente drogando (e che citano spesso HP nelle loro canzoni). 
Nel caso non li conosciate, andate ad ascoltarli : )

 

Nota di servizio: non so se qualcuno di voi bazzica anche nei siti stranieri di fanfic. Io ho un account su AO3 dove ho intenzione - stasera o domani (più probabile che sia domani) di pubblicare una fanfic, sempre di Harry Potter, ma questa volta in grande stile Drarry (e sarà in inglese). 
Per chi vuole, spero mi segua anche lì. Il nickname è Cactus94
Ma come? Ti sembra saggio iniziare un’altra fanfic con questa che stai ancora scrivendo?? Be’, la verità è che manca davvero poco alla conclusione di questa storia, tre o quattro capitoli circa (epilogo compreso), per cui questa avventura sarà presto finita e mi concentrerò su altre storie. 

Mi raccomando, dateci dentro coi commenti. Almeno prima della fine XD 
Un bacio,
C.

 

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Capitolo 34
*** Papà ***


PAPÁ

 

Ginny si accasciò sul tavolo della cucina con la faccia sulle mani. Harry rise versandosi del caffè. 

“Ne vuoi un po’ anche tu?” chiese alla ragazza che alzò gli occhi su di lui solo per lanciargli un’occhiata di sbieco. 

“Se metto qualcosa nello stomaco lo vomito”. 

Harry ridacchiò di nuovo. 

“Ehi! Come andiamo?” domandò Sirius facendo il suo ingresso in cucina. 

L’occhiata che prima Ginny aveva rivolto ad Harry ora fu lanciata a Sirius. 

“Potresti non urlare?”

Sirius lanciò uno sguardo complice al figlioccio che scrollò le spalle. 

Di soppiatto, senza fare rumore, Black si avvicinò alla ragazza. “Se parlo così va bene?” le chiese urlandole nell’orecchio. 

Fu fortunato che Ginny non avesse con sé la bacchetta altrimenti non sarebbe rimasto nulla del mago. 

“Maledetto bastardo!” 

“Si, sono anche quello”. 

Harry scoppiò a ridere rumorosamente. 

“Vi maledico. Tutti e due!” 

“Ah questi giovani”, borbottò Sirius uscendo dalla cucina. 

“È colpa di Kiki che mi ha fatto bere quei cocktail”.

Prima di sparire al piano superiore, Sirius riemerse di nuovo in cucina ma solo con la testa. “Ah Harry, i tuoi sono a fare la spesa. Io vado al lavoro”.

“D’accordo”.

 

Harry e James erano nel retro del giardino, il primo impegnato a tirare una pallina al cane che la rincorreva e gliela riportava e il secondo a piantare delle rose con l’aiuto della bacchetta. Con un incantesimo prima creava un buco nel terreno dove era più morbido e poi piantava le rose che Lily aveva deciso di comprare. 

“Per fortuna ero bravo in Erbologia altrimenti tua madre me la pagava cara”.

Harry ridacchiò. “O magari potresti non farti schiavizzare da lei”. 

James inarcò un sopracciglio in direzione del figlio e scrollò le spalle. “Sai com’è tua madre, non le puoi dire di no o diventa una iena”.

Harry sospirò; qualcosa gli diceva che a James non dispiaceva fare quelle cose per Lily, non gli sarebbe mai dispiaciuto. 

James rimase per qualche tempo a osservare il proprio lavoro ma in realtà la sua testa era da tutta un’altra parte: Harry non li aveva mai chiamati mamma e papà, nemmeno per sbaglio e nemmeno quando parlava di uno dei due all’altro. Non li chiamava nemmeno James e Lily. Erano sempre lui o lei. Naturalmente, non poteva pretendere di diventare improvvisamente papà quando erano 17 anni che non vedeva il figlio e nell’aspetto sembrava un ventenne. Però avrebbe mentito se avesse detto che la cosa non gli mancava. 

Sentiva anche la necessità di parlare con il figlio, non sapeva esattamente di cosa ma di qualcosa.  Avevano fatto degli immensi passi in avanti per conoscersi e allacciare un rapporto però sentiva che c’erano ancora delle cose che mancavano. E temeva che sarebbero mancate sempre. 

“Che ne pensi?” chiese al figlio cercando di distrarsi da quei pensieri. 

Harry gli si affiancò e osservò quel lavoro fingendo parsimonia. 

“Sembra a posto. Ma farai meglio a chiederlo a colei che ti ha incaricato il lavoro”. 

James percepì il tono scherzoso che il figlio aveva usato ma non poté fare a meno di tornare ai pensieri di poco prima. 

“Andiamo dentro?” 

“Va bene”.

I due rientrarono in casa, preceduti dal cane che si affrettò alla sua ciotola dell’acqua. Fu nell’ingresso che lo sentirono, il suono. Il forte rumore di una Materializzazione e poi dei passi affrettati che fecero accapponare la pelle a entrambi i Potter. 

Passarono pochissimi istanti prima che sentissero la porta di ingresso esplodere in mille pezzi dietro di loro, troppo pochi perché uno dei due avesse il tempo di reagire o capire cosa stesse succedendo. Harry si sarebbe chiesto col senno di poi se fosse stata una distrazione o semplice impreparazione. Ma la guerra gli aveva insegnato a tenere i sensi all’erta, a non abbassare mai la guardia. Solo che non erano più in guerra. Merlino, perché nella sua vita doveva finire tutto così male? 

“Potter!” gridò un uomo fissandolo come se volesse ucciderlo solo con lo sguardo. Delle cicatrici gli solcavano il volto, i capelli sporchi e troppo lunghi gli stavano appiccicati in faccia e anche i vestiti non erano certamente freschi di lavanderia. Harry notò il tatuaggio dei mangiamorte attraverso la manica strappata della camicia. 

Prima di avere il tempo di reagire, l’aggressore li disarmò senza troppa fatica. 

“Harry, va via! Scappa di sopra. Io lo trattengo!” gli urlò James. 

Harry sentì una paura tremenda attraversarlo dalla punta dei piedi fono alla radice dei capelli. E non era la pura per la propria vita, a quello era abituato. 

“Col cazzo che ti lascio qui!” gridò di rimando a James. 

Felpato arrivò di corsa avventandosi sulla caviglia del Mangiamorte che venne colto alla sprovvista ma fece presto a riprendersi e a colpirlo con uno Schiantesimo che lo mandò a sbattere con un guaito contro il tavolino del salotto. 

Harry seguì la traiettoria con orrore.

“Cosa vuoi?” chiese James al loro aggressore sperando di guadagnare del tempo; non che avessero molte possibilità di chiamare aiuto, le loro bacchette erano in mano a quel Mangiamorte. 

“Solo vendicare il mio Signore. Uccidere il ragazzino”. 

“Dovrai passare sul mio cadavere”.

“Quello lo farò di sicuro”.

Prima che Harry o James avessero il tempo di fiatare, James si vide sbalzare sulle scale e sbattere di schiena su uno dei gradini. Una fattura tagliente gli passò il braccio da parte a parte facendolo urlare di dolore. 

Harry sentì che stava cominciando a iperventilare. Non poteva farsi prendere da un attacco di panico in quel momento. 

Non di nuovo, non di nuovo, continuava a ripetersi come un mantra nella testa. 

Quando il Mangiamorte lanciò una cruciatus contro suo padre trovò la forza di reagire. 

“Lascialo stare! É me che vuoi? Allora prenditela con me”.

“Harry, no”.

Il Mangiamorte sorrise sadico nella direzione del più giovane. 

“Sempre il solito eroe, eh Potter?” 

Harry rimase immobile augurandosi che le sue parole avessero avuto effetto. Il Mangiamorte immobilizzò James con delle corde e cominciò a lanciare Cruciatus contro Harry. La prima lo spedì a terra, col sedere sul primo gradino. Ma non urlò. 

“Harry!” sentì il padre urlare dietro di lui. 

“Questo si che è divertente”, mormorò il Mangiamorte. 

Alla seconda cruciatus Harry dovette aggrapparsi al corrimano e mordersi la lingua. Non voleva urlare, non voleva far preoccupare suo padre. Stava bene, poteva resistere, tempo fa le Cruciatus non gli avevano fatto così male. No certo, perché era mentalmente debilitato. Ora era un po’ diverso. 

“Crucio!” urlò il Mangiamorte una terza volta.

“Ti prego, lascialo stare”, lo supplicò James strattonando le corde. “Lascialo stare, è solo un ragazzo”.

“Un ragazzo che ha ucciso il mio Signore”.

“Il tuo fottuto Signore era un pazzo”.

Harry si piegò in avanti sentendo gli occhi pungere per le lacrime e fitte in tutte le parti del corpo. Aveva come la sensazione che sarebbe esploso. 

“Facciamo così. Più parli più lui si becca le cruciatus. Crucio!”

Questa volta Harry non poté impedirsi di tirare un urlo che però gli morì in gola poco dopo. Sarebbe volentieri svenuto, magari si sarebbe solo lasciato andare. Ma non poteva perché allora suo padre sarebbe rimasto alla mercé di quel tizio. James continuò a dimenarsi ma non si arrischiò a dire nulla. 

Fu allora che venne colto da un’illuminazione. Avrebbe dovuto pensarci prima, era sempre la sua poca agilità mentale a distrarlo; sopra la testa del Mangiamorte c’era un lampadario grande abbastanza per abbattere l’uomo se gli fosse caduto sopra. Harry si era allenato a fare incantesimi senza bacchetta, avrebbe solo dovuto far cadere quel lampadario sulla testa dell’aggressore... Peccato gli servisse la concentrazione e le Cruciatus non abitavano.

Tuttavia, non demorse. Con un piccolo contatto visivo, per non farsi notare, fissò il lampadario immaginandolo cadere addosso al Mangiamorte. Gli ci volle più di qualche tentativo. Solo quando sentì l’altro pronunciare Avada - non sapeva se nella sua direzione o in quella di suo padre - ce la fece con un ultimo sforzo mentale che lo prosciugò. Il lampadario crollò con un gran fracasso addosso al Mangiamorte che finì a terra sotto il peso dell’oggetto e non si rialzò. James venne immediatamente rilasciato dalle corde magiche e si precipitò dal figlio ancora prima di controllare se il nemico fosse davvero svenuto. 

“Harry!” lo chiamò prendendogli un braccio.

Harry si girò verso di lui con il viso bagnato di lacrime e l’espressione sofferente. Stava respirando male.

“Stai sanguinando”. 

Disse al padre guardandogli il braccio pieno di sangue. 

“Non importa”.

“Devi andare al San Mungo”. 

Harry non sembrava del tutto cosciente di quello che stava dicendo. 

“No. Devo mandare un Patronus. Non possiamo lasciarlo incustodito. Ci serve aiuto”.

James si allontanò dal figlio solo per prendere la propria bacchetta ed evocare un Patronus da mandare agli Auror. 

Poi tornò da Harry e lo cullò tra le proprie braccia finché non arrivò l’aiuto. 

 

“A quanto pare le barriere attorno alla casa sono cadute”, disse Sirius quando tornò da James che sedeva pazientemente sul letto della stanza del San Mungo che avevano riservato a lui e Harry. I Medimaghi avevano ricucito il braccio a James - per fortuna non era una ferita profonda ma gli avrebbe fatto male per qualche giorno - e avevano detto che sarebbero tornati a visitarli più tardi in quanto non erano così gravi, per la scontentezza di James che aveva detto loro che Harry era stato torturato con le Cruciatus e col cazzo che non era grave. Ma Harry si reggeva in piedi, anzi, in quel momento stava camminando avanti e indietro per la stanza e quindi ai Medimaghi era sembrato altro che grave; dopotutto avevano altri pazienti da curare. 

“Ora le ho rimesse su e ho sistemato il casino”.

“E il Mangiamorte?” 

“Morto”.

Harry sussultò. 

“Era legittima difesa”.

Il Ministero si curava troppo poco ormai dei Mangiamorte - potevano essere biasimati? - e a nessuno importava quando un Mangiamorte moriva. Ma era un’altra persona che si aggiungeva alla lista dei cadaveri collezionati da Harry, non importava che gli dicessero che era legittima difesa. 

“Tesoro, perché non ti siedi?” gli chiese James indicandogli il letto. 

“Sto bene”, mormorò il ragazzo senza guardarlo. Si sentiva ansioso, nervoso. Un Mangiamorte era penetrato nella sua casa, aveva aggredito suo padre e tutto perché stava dando la caccia a lui. Era colpa sua, di nuovo. Sarebbe potuta finire male se... no, non osava pensarci. 

“Non puoi stare bene”. 

“Harry”, lo chiamò Sirius piano “Per favore, mettiti a letto”.

Harry non fece in tempo a rispondere perché in quel momento Lily spuntò sulla soglia della porta, gli occhi pieni di preoccupazione.

“Jamie, che è successo?” chiese andando verso il marito. 

“Non ti preoccupare. Un Mangiamorte ci ha attaccati ma stiamo bene”.

“Sei sicuro?” 

“Certo”, le rispose Potter confermando la risposta con un bacio. “Harry lo ha messo al tappeto”, aggiunse con un sorriso in direzione del figlio. 

Lily si girò verso di lui, gli occhi dolci ma senza perdere quel velo di preoccupazione. Fu in quel momento che Harry sbiancò di colpo e la stanza attorno a lui prese a girare come una giostra. Dovette appoggiarsi al muro dietro di lui che per fortuna non era troppo lontano. Gli altri tre se ne accorsero subito ma fu Sirius che lo raggiunse per primo e lo prese al volo perché non cadesse. 

Harry aveva avuto un mancamento ma non era svenuto. 

“Cazzo!” esclamò Felpato. “Continuerai a dire di stare bene?” gli chiese con un velo di rabbia nella voce. “Vieni a letto”.

Harry si lascio accompagnare a letto, questa volta senza opporre resistenza; si sentiva tutto d’un tratto svuotato e stanco. 

“Chiama un’infermiera”, gli disse James.

“Sirius”, chiamò Harry con voce debole aggrappandosi alla maglietta dell’uomo prima che potesse allontanarsi. Guardava per terra e respirava a fatica. “Devo vomitare”.

I riflessi di Sirius fecero appena in tempo ad afferrare un cestino nelle vicinanze e a metterlo davanti a Harry prima che questi si svuotasse lo stomaco. 

“Vado a chiamare qualcuno”. Lily uscì dalla stanza di corsa. Nel frattempo Sirius ripulì il vomito dal cestino e aiutò Harry a stendersi, premendogli una mano sulla fronte. Era caldo, doveva avere la febbre.

“Come sta Felpato?” chiese Harry allora, sempre molto debole. 

Sirius gli sorrise dolcemente e gli si inginocchiò davanti per guardarlo negli occhi umidi. “Sta bene. È un po’ sotto shock ma si è ripreso. Credo dovrai fargli qualche coccola in più e dargli dei biscotti”.

Harry bofonchiò qualcosa e chiuse gli occhi. 

 

Verso sera James e Harry vennero dimessi e poterono tornare a casa. I medimaghi fecero tutte le visite che poterono su Harry fino a che non lo dichiararono fuori pericolo; avrebbe avuto qualche tipica conseguenza post-Cruciatus, come febbre e nausea, ma tutte cose che sarebbero passate con una buona dose di sonno. Gli diedero solo un paio di pozioni stabilizzanti per precauzione. 

Perciò, non appena messo piede in casa, Harry si rannicchiò sotto le coperte insieme a Felpato che si fece volentieri fare le coccole. 

Dopo qualche minuto sentì bussare alla porta. 

“Possiamo parlare un attimo?” gli chiese James fermo sulla soglia. 

Harry annuì sollevandosi leggermente dal letto. 

James si sedette sul bordo accanto a lui e prese un grosso respiro. 

“Quello che hai fatto oggi è stato dannatamente coraggioso. Coraggioso ma stupido. Ti prego, non farlo mai più”.

Harry abbassò lo sguardo. “Avresti preferito che torturasse te?”

“Certo”, rispose James senza esitare. “Avrai anche salvato il mondo ma il compito di proteggerti resta sempre mio e di tua madre”.

Harry sentì pungere gli occhi per le lacrime ma non volle piangere. Non sapeva se essere arrabbiato o preoccupato. 

“Lo avete già fatto ed è stato abbastanza”.

James gli poggiò una mano sulla schiena accarezzandogliela lentamente. Harry incontrò il suo sguardo. Non c’era severità negli occhi di James e nemmeno durezza. Forse solo comprensione. Allora anche Harry addolcì il proprio sguardo. 

“Non sarà mai abbastanza. Tu non hai idea di cosa sarei disposto a fare per te, perché tu stia bene. Pensi che sia stato piacevole vedere il Mangiamorte che ti torturava e non poter fare niente?” 

“Non voglio che vi succeda qualcosa”, disse Harry lasciandosi ricadere sul letto con un tonfo come se il corpo gli pesasse troppo per poterlo sostenere. “Non posso perdervi di nuovo, te e la mamma. Non posso, non lo sopporterei”. Finalmente lasciò cadere una lacrima. Forse era anche la febbre a renderlo così emotivo, pensò.

James gli tolse alcuni capelli dalla fronte calda, indugiando per accarezzarlo. Vederlo così gli spezzava il cuore, capì che c’erano ancora tante cose che tormentavano suo figlio.

“Tu ti senti ancora in colpa per me e la mamma”, disse a quel punto James quasi sussurrando. Sembrava una constatazione che faceva più a sé stesso che una domanda rivolta a Harry. 

Harry comunque annuì.

“Posso prendere tutti gli appuntamenti che vuoi dalla dottoressa McNahmara, posso assumere tutti gli antidepressivi del mondo e posso ascoltare ogni parola di conforto, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che sia stata colpa mia. Mi dispiace”. 

James chiuse gli occhi per qualche istante senza smettere di accarezzare i capelli del figlio. Sospirò.

“Fa parte di te”, disse piano come colto da una realizzazione. C’erano stati troppi traumi nella vita di suo figlio perché li potesse superare così facilmente. O perché li potesse anche solo superare. E faceva un male cane. Faceva un male cane ma non poteva farci niente. 

Harry annuì mordendosi il labbro inferiore. Era una cosa che aveva già capito da un po’ e sapeva che doveva solo imparare a conviverci. Non andava male, poteva ancora funzionare bene, divertirsi e stringere relazioni, ma ogni tanto quei pensieri prendevano il sopravvento e allora la giornata diventava meno buona. Ma era così, faceva parte di lui, quello era lui. Lui era i suoi traumi, i suoi sensi di colpa. E andava bene così. 

“Ti lascio riposare”, disse a quel punto James alzandosi e andando verso la porta. 

“Papà!” chiamò Harry sollevandosi di colpo e guardando il padre negli occhi, già mezzo fuori dalla porta. “Ti voglio bene”.

“Ti voglio bene anche io”, rispose James sforzandosi tantissimo per mantenere ferma la voce. Solo quando fu in corridoio, lontano dalla stanza di Harry, si permise di lasciar andare un singhiozzo insieme alle lacrime. Ma in mezzo a tutto quello, stava sorridendo. 

Harry lo aveva chiamato papà.  

 

Fu così che James tornò in camera da Lily alcuni minuti dopo, trovando la moglie seduta sul letto intenta a spalmarsi un unguento sulle mani. 

La moglie non gli badò troppo quando lo vide rientrare ma non appena notò il suo sospettoso silenzio, alzò lo sguardo e vide che aveva ancora il volto bagnato di lacrime e gli occhi arrossati.

“Jamie, tesoro! Che succede?” chiese lei accompagnandolo a sedersi e abbracciandolo dal lato. 

“Harry mi ha chiamato papà”, sospirò lui con la voce incrinata fissando l’armadio davanti a lui. 

Lily lasciò andare una risata che cercò di frenare quasi subito; in realtà le veniva da ridere per la tenerezza nel vedere James così commosso per una cosa del genere, ma sapeva quanto per lui fosse importante essere chiamato Papà da Harry e non voleva che la sua risata sembrasse una presa in giro. Ma sentiva il cuore caldo di dolcezza.

“Oh tesoro, ma è bellissimo. Te l’avevo detto che prima o poi sarebbe successo, gli serviva solo del tempo”.

“Lo so ma... Non pensavo...”, mormorò l’altro finalmente incrociando gli occhi verdi di Lily che gli sorrideva con quella dolcezza che possedeva solo lei. 

Lei gli passò una mano sulla schiena e appoggiò la fronte sulla sua spalla, circondandolo con le braccia. Poi lasciò andare un sospiro. 

Quello era il momento giusto, si disse, aveva aspettato anche troppo. Doveva dirglielo.

“Amore”, lo chiamò piano, quasi con cautela. Non alzò subito lo sguardo su di lui, lasciò che prima le rivolgesse tutta la sua attenzione. 

Poi si raddrizzò e gli prese entrambe le mani tra le proprie, sistemandoglisi più vicina. James alzò un sopracciglio perplesso e leggermente preoccupato. 

“Sono contenta che a te e Harry non sia successo niente”, disse seriamente. 

“Be’, grazie”, fece James in tono ironico non sapendo come dover prendere quella affermazione.

“No, intendo...”, continuò Lily, gli occhi che guardavano da una parte all’altra come se cercasse da qualche parte le parole da usare. 

Al diavolo!, si disse alla fine. Sarebbe andata dritta al punto. 

“Mi sa che presto ci sarà un’altra persone che ti chiamerà papà”.

James corrucciò il viso in un’espressione perplessa. Lily non disse nulla, voleva lasciare che fosse il marito a tirare le conclusioni, tuttavia tenne gli occhi fissi sul suo volto per studiarlo; James era un libro aperto per lei.

Quando le parole parvero trovare il loro posto nella testa del mago, lui spalancò occhi e bocca, una perfetta O di sorpresa. 

“Sei...”.

“Sì, sono incinta”, esalò lei con un sorriso tra il contento e il dubbioso. Non era sicura se James avrebbe preso bene quella notizia, anche se forse era brutto pensarlo da parte sua. 

“Oh Santo Godric. Avremo un altro bambino”.

“Sì!” 

James portò le mani di Lily alle proprie labbra e le baciò con forza. Poi la tirò a sé e la strinse in un abbraccio, affondando il viso nei suoi capelli profumati. 

Lily finalmente si lasciò andare in una risata di pura gioia, senza più alcun dubbio. 

“Avremo un altro bambino”. 

 

***

 

Hahaha ops, Lily è incinta.

 Be’ fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo. 

 

Un bacio,

C.

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Capitolo 35
*** Sirius e Karen ***


SIRIUS E KAREN

 

Karen sentì suonare al campanello due volte mentre si precipitava ad aprire la porta. Non poteva nemmeno lavarsi i denti in pace. Probabilmente era sua zia che si era dimenticata le chiavi e la casa non si apriva certamente con un semplice Alohomora. 

Forse era proprio il caso che si trovasse un lavoro e se ne andasse a vivere per conto proprio. 

Quando apri la porta però, pronta a rimproverare la zia, rimase a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Quello che le si parava davanti non era affatto sua zia. Era suo padre. 

“Che cosa vuoi?” gli chiese indossando subito un’espressione fredda; non si aspettava di trovarselo davanti ma non voleva fargli capire di essere impreparata. 

“Possiamo parlare?” le chiese lui, qualcosa nel tono che suggeriva una certa incertezza. 

“Pensavo ci fossimo detti tutto”.

Marcus esitò alla ricerca delle parole giuste. “Ho sbagliato quella volta, non avrei dovuto trattarti in quel modo. Mi hai colto alla sprovvista”.

Karen sospirò. Non si aspettava quella sincerità. “Sono tua figlia. Come fai a non aspettarmi?”

“Lo so. Vorrei... vorrei solo parlare. Poi prometto che non ti disturberò più, se non mi vuoi”.

La ragazza si decise finalmente ad alzare lo sguardo su di lui notando del dispiacere nei suoi occhi. Sapeva che non era una buona idea, che probabilmente se ne sarebbe pentita, tutto nel suo corpo e nella sua coscienza glielo stava dicendo, eppure lo fece lo stesso... si spostò e lo fece entrare in casa. 

 

Quella sera i ragazzi decisero di andare a giocare a Bowling in un posto che conosceva Hermione a Londra. La ragazza rimaneva sempre più sconvolta dalla poca conoscenza di Ron delle attività e dei passatempi Babbani e si era imposta di istruirlo il più possibile; Ginny naturalmente era curiosa e quindi decise di unirsi più che volentieri e convinsero anche Karen che non aveva tutta questa voglia di divertirsi a causa della visita del padre - della quale però non aveva detto niente a nessuno - e, dato che Sirius era capitato nel mezzo dell’organizzazione del progetto e che non aveva nulla da fare quella sera, volle approfittare per tentare di recuperare la sua gioventù perduta andando a divertirsi. Ma non poteva negare che a suo favore aveva giocato anche il fatto che ci fosse Karen. 

E così erano arrivati sulla pista pronti a sfidarsi a coppie perché a detta di Ginny ci si diverte di più quando si compete. Karen, Harry e Hermione conoscevano il gioco e quindi le coppie erano ben equilibrate; le due coppie di fidanzati naturalmente giocarono assieme e questo quindi lasciò fuori Karen e Sirius che dovettero giocare assieme, per l’imbarazzo - ma anche leggera contentezza - di entrambi. Entrambi avevano realizzato che, anche se non si erano visti per qualche giorno, quello strano subbuglio di stomaco che sentivano quando stavano vicini o si parlavano non stava passando. 

La sfida ci mise poco a entrare nel vivo: Ginny ci mise poco a capire come si gioca - non che ci volesse chissà che talento a detta sua - e ben presto lei e Harry finirono in testa. Ma dopotutto alla ragazza non piaceva perdere e avrebbe fatto di tutto per vincere in qualsiasi sport. 

“Attenta, sorellina, che tutta questa competitività potrebbe danneggiarti il cervello”, la prese in giro Ron guardandola male.

“Geloso, Ronald?” Lo punzecchiò la sorella dopo aver fatto cadere tutti i suoi birilli ed essere tornata accanto a Harry che le diede un bacio come premio.

Sirius prese il suo posto sulla pista; anche lui e Karen se la stavano cavando piuttosto bene, erano solo di qualche punto sotto a Harry e Ginny. 

“Evvai!” gridò Karen contenta quando Sirius riuscì a buttare giù tutti i birilli nel suo torno. Lui ammiccò nella sua direzione mentre tornava al proprio posto. 

 

A casa, James e Lily facevano zapping in televisione - quella che Lily aveva deciso di prendere per tenersi aggiornata sul mondo Babbano - mentre divoravano un pacco di biscotti. O meglio, Lily aveva preso il monopolio dei biscotti. Era appena al secondo mese di gravidanza, non aveva nemmeno un accenno di pancia e il bambino doveva ancora formarsi, eppure iniziava già a soffrire di nausee mattutine e le sembrava di avere delle voglie. Aveva come l’impressione che quella sarebbe stata una gravidanza lunga e difficile. Ma con Harry era stato facile dopotutto, non poteva avere tutta questa fortuna anche la seconda volta. 

“Jamie?” chiamò.

“Hmm?” mugugnò il marito seduto accanto a lei senza togliere gli occhi dalla tv. 

“Secondo te quando dovremmo dirlo a Harry? Del bambino, intendo?” 

James con calma girò la testa verso la moglie e alzò un sopracciglio, pensieroso.

“Non... Non saprei. Dici che dovremmo aspettare il momento giusto?” 

“Be’, non credo sia una buona idea buttargli la notizia come niente fosse mentre facciamo colazione. Non è come annunciare che andiamo a fare la spesa. Stiamo parlando di un bambino che si aggiungerà alla casa, stiamo parlando di allargare la famiglia”.

James sospirò. 

“Non saprei, Lils. Prima o poi glielo dovremo dire. Lo dovremo dire a tutti”. 

“Sì ma lui dovrà essere il primo a saperlo”.

“Certo che sarà il primo a saperlo”.

Rimasero in silenzio per qualche altro istante, poi James, tenendo gli occhi fissi sulla televisione ma senza seguire davvero le immagini, chiese piano. “Secondo te Harry non sarà contento del bambino?”

Lily spostò i biscotti sul tavolino di fronte al divano e si girò con tutto il busto verso il marito. 

“A dire la verità, non lo so. Potrebbe anche essere contento e penso che lo sarà è solo che... mi sembra sia troppo presto”. La ragazza si morse il labbro. “Abbiamo appena cominciato a costruire una famiglia con lui, dobbiamo ancora conoscerci bene. Non so nemmeno quanto Harry stia bene, dopo tutto quello che ha passato... Non voglio che questo bambino risucchi tutta la nostra attenzione e rischiamo di perdere di vista Harry. Non dico che trascureremo Harry, ma sai bene quanto un bambino abbia bisogno di attenzioni”. Solo quando smise di parlare realizzò di essere stata forse troppo dura; non voleva aver dato l’impressione di pensare che questo bambino fosse un peso per lei, ma non poteva nemmeno tenersi tutto dentro. C’erano troppe cose in ballo. 

James non apri bocca se non dopo qualche istante. Le prese le mani tra le proprie e cercò di mostrare l’espressione più sicura e confortevole che aveva nel proprio repertorio.

“Lo so, però ormai è andata così. Non ho intenzione di trascurare Harry, naturalmente, e non lo farò. E mi prenderò anche cura del bambino. Ce la faremo, ne sono sicuro”. 

L’ottimismo di James era qualcosa che le scioglieva sempre il cuore e che la sorprendeva in positivo; anche se a volte poteva apparire come qualcosa di infantile e illusorio, era quello di cui lei aveva bisogno in momenti come quello, era la sua ancora, il suo appiglio. Lo era sempre stato e non ci avrebbe mai rinunciato. Era una delle qualità che l’avevano fatta innamorare di James dopo anni e anni passati a respingerlo. 

Se James diceva che ce l’avrebbero fatta allora sarebbe stato così. Dopotutto, le aveva promesso che avrebbero protetto Harry quando c’era Voldemort a minacciarlo e così era stato. Anche se non tutto era andato secondo i piani, però Harry era sopravvissuto e Voldemort non c’era più. 

 

Dopo la partita, vinta con un ultimo grosso scarto da Harry e Ginny, seguiti da Sirius e Karen e subito dopo da Hermione e Ron, i ragazzi si sedettero attorno a un tavolino del bar del bowling per bere qualcosa. 

Erano tutti intenti in una accesa conversazione sul Bowling - con Ron che si prodigava a spiegare quanto il quidditch fosse uno sport più interessante di qualsiasi altro sport bannano - quando Karen si alzò dal tavolo dicendo che doveva andare al bagno. 

Ma non andò in bagno. Si diresse verso l’uscita e si fermò vicino all’ingresso accendendosi una sigaretta. 

Era contenta di essere uscita, si stava divertendo ed era riuscita a distrarsi, ma il pensiero del padre ogni tanto la colpiva e si voleva mangiare le mani. Le dava fastidio che quell’uomo riuscisse a rovinarle anche i momenti belli come quello.

Non che la conversazione di quella mattina fosse andata male, anzi, avevano parlato parecchio e si erano chiariti alcune cose ma Marcus le aveva messo addosso una confusione pazzesca. Le aveva detto di aver parlato alla sua nuova famiglia di lei, di suo fratello e le aveva detto che se avesse voluto glieli avrebbe fatti conoscere. Avrebbe potuto conoscere i suoi fratellastri. E Karen non aveva idea di cosa fare. Conoscerli avrebbe significato perdonarlo e avvicinarsi a lui e non era sicura se era quello che voleva o se era quello che doveva fare. 

Non sapeva esattamente quanto tempo era rimasta lì fuori, aveva quasi perso la percezione dello spazio attorno a lei fino a che non sentì la voce di Sirius dietro di lei. 

“Ehi”.

“Ciao!” lo salutò cercando di apparire più tranquilla possibile. 

“Stai bene?” le chiese lui in tono gentile.

“Sì, avevo solo bisogno di fumare”.

Sirius la affiancò e per qualche tempo rimasero in silenzio a fissare la strada di fronte a loro. Karen apprezzò che non stesse cercando di fare conversazione ma la sua presenza la rallegrava. 

“Stamattina ho rivisto mio padre”, disse a un certo punto lei senza guardarlo, il tono quasi disinteressato. Solo allora si rese conto di avere la necessità di parlarne con qualcuno. 

“Oh”, disse solo lui. 

“In realtà non è stato terribile. Abbiamo parlato civilmente, mi ha detto che se voglio può presentarmi la sua famiglia. Mi ha chiesto scusa”.

Karen pestò con forza la sigaretta che fece cadere a terra.

“E che ne pensi?” 

La ragazza sospirò voltandosi a guardarlo. “Non lo so. Riesco a gestire gli stronzi, posso rispondere quando sono arrabbiata ma quando qualcuno chiede scusa e fa il pentito... Non lo so, mi manda in confusione e non so che fare”.

Sirius scrollò le spalle. “Forse non sono la persona che conosci meglio con cui vorresti parlarne ma... le famiglia non sono mai semplici. Però il fatto che sia venuto a chiederti scusa è già qualcosa”.

“Sembrava sincero, dico davvero”. Continuò Karen che ormai si era lasciata trasportare. “Però non posso passare così facilmente sopra al fatto che ci ha abbandonati”. 

“Tutti commettiamo degli errori”, le rispose il mago, una morsa al cuore nel ripensare ai propri errori che aveva commesso - come rifiutare il fratello e convincere James a scegliere Peter come Custode Segreto -. “A volte non ne siamo consapevoli e a volte sì però li facciamo lo stesso perché è più semplice cosi. Non dico tu lo debba perdonare però puoi sempre riavvicinarti. Potete cominciare a costruire qualcosa da dove avete lasciato, ricominciando da capo. Dagli la possibilità di diventare una persona migliore imparando dagli errori che ha fatto”. 

Karen annuì impercettibilmente e tornò a rivolgere gli occhi alla strada.

“Torno dentro. Dico agli altri che ci raggiungi tra poco?” 

“Sì”.

Prima che Sirius avesse il tempo di rientrare, la ragazza lo richiamò.

“Sirius!”

“Sì?” 

Karen raccolse tutte le riserve del proprio coraggio Grifondoro e si decise ad agire di istinto - perché se ci avesse pensato troppo non lo avrebbe mai fatto - e percorse quei pochi passi che li separavano con urgenza. Prese il viso di Sirius tra le mani, lo guardò un attimo negli occhi e infine lo baciò. Esitò solo un pochino, per dare il tempo all’altro di respingerla se avesse voluto. Ma Sirius non la respinse, anzi, le appoggiò le mani sui fianchi e intensificò il bacio, schiudendo le labbra per permettere alle loro lingue di incontrarsi. 

Non fu certo un bacio casto ma nemmeno troppo violento. Quella pressione allo stomaco così come il cuore impazzito nel petto aumentò in entrambi. 

“Questa volta non è un bacio da ubriaca”, sussurrò la ragazza a pochi centimetri dalla faccia del mago quando smisero di baciarsi, ma senza separarsi. 

Sirius sorrise divertito e contento. “Meno male altrimenti avrei cominciato a pensare di avere qualcosa che non va”.

Karen alzò lo sguardo per guardarlo negli occhi neri con serietà.

“Credo che tu davvero mi piaccia, Sirius”.

“La cosa è reciproca”, rispose lui dopo un attimo di esitazione. “Però dovremmo parlarne”.

“Sono d’accordo”.

Si baciarono ancora, tra una battuta e l’altra, prima di rientrare leggermente arrossati e ritornare in silenzio dagli altri cercando di fare finta di nulla. 

 

Alla fine la verità venne fuori. Quella di Sirius e Karen. Ovviamente i due non riuscivano più a stare in silenzio. Sirius si era confidato con James e la notizia si era presto diffusa dopo che Karen si era confidata con Harry - che aveva preso la notizia come una vera sorpresa a ciel sereno; le confessò che non se lo aspettava però dopo averci ponderato un po’ dovette ammettere anche con se stesso che effettivamente aveva senso, che i due - visti i caratteri - avrebbero anche potuto fare una bella coppia. E poi, li conosceva entrambi per cui non se la sentiva di essere del tutto contro. C’era solo la questione della differenza di età che era quello su cui anche tutti gli altri avevano un po’ di remore. 

Eppure, sia James, che Lily e poi anche Remus e Tonks consigliarono a Sirius di invitare Karen a un appuntamento, quantomeno per parlarne. 

Perciò Harry si era trovato costretto in camera dell’amica per aiutarla a scegliere qualcosa da mettersi per l’appuntamento.

“Sei sicura che non vuoi che chiami Ginny o Hermione?” le chiese il ragazzo mentre Karen tirava fuori altri vestiti dall’armadio. Ne aveva già buttati diversi sul letto, tutti piuttosto corti e sul nero, il che non dava troppi dubbi su quali fossero i gusti della ragazza. 

“È il tuo padrino, tu conosci bene i suoi gusti”.

Harry avrebbe voluto dire che no, lui i gusti di Sirius in fatto di ragazze o di come le preferisse non li conosceva affatto, ma Karen gli sembrava abbastanza disperata e quindi si limitò ad alzare gli occhi al cielo e a mettersi comodo nella sua poltrona. Tuttavia, tra sé e sé si ritrovò a sorridere al pensiero che, se l’amica perdeva tutto quel tempo a decidere cosa indossare, significava che ci teneva quantomeno a fare bella figura. 

“Quell’abito lì è carino”, le disse, decidendo che sarebbe andato su quelli che erano i suoi gusti. 

“Quale?” 

“Quello che hai lanciato sulla scrivania”.

Karen tirò su l’abito che Harry le aveva indicato e se lo provò.

Trascorsero così altre due ore prima che Harry riuscì a tornarsene a casa, lasciando che Karen finisse di prepararsi. Stava salendo verso la propria stanza quando, passando accanto a quella di Sirius che aveva la porta aperta, questi lo fermò. 

“Ehi Harry!” 

Harry si girò verso di lui con espressione stanca, guardò dentro, notò il padre seduto sul letto e l’armadio aperto davanti a cui stava Sirius.

“Mi daresti una mano? Non so cosa mettere”.

Harry impallidì di colpo e iniziò a sudare.

“No, anche tu no, ti prego”.

 

Erano fuori da appena un’ora e Karen si stava già divertendo; superato il primo momento di imbarazzo - in cui non sapevano esattamente che dirsi - Sirius aveva cominciato ad ammaliarla con delle battute e con i racconti degli scherzi che lui e i Malandrini facevano a Hogwarts e la ragazza si era trovata più volte a doversi asciugare gli occhi per le risate. 

Non pensava che Sirius fosse così divertente. 

“Avrei proprio voluto vedere la faccia della McGranitt”, disse la ragazza finendo l’ultimo pezzo del tacos che avevano comprato. 

Per l’appuntamento avevano scelto la Londra Babbana e quindi ora si erano avvicinati nei pressi di St. James Park.

“Ti va di entrare? Magari troviamo qualche scoiattolo”, le chiese l’uomo quando si ritrovarono davanti ai cancelli aperti del parco.

“Certo!” rispose lei entusiasta. 

Passeggiarono alcuni minuti in silenzio, godendosi l’aria calda e la natura del parco. Sirius ogni tanto lanciava occhiate a Karen che era decisamente attraente con quel vestito nero che le arrivava poco sopra le ginocchia. Guardando il suo corpo giovane, le sue lunghe gambe perfette, il suo viso ancora pieno di entusiasmo e innocenza... non si era mai sentito così vecchio e inadatto a frequentare una ragazza.

A un certo punto decise di sedersi sulla panchina che trovarono lungo il sentiero. 

“Parliamo un attimo?” le chiese in tono serio.

“Okay”, rispose lei sedendoglisi accanto, il cuore che batteva all’impazzata. 

Si guardarono attorno per qualche istante prima che Sirius azzardasse di nuovo: “Che cosa... che cosa vogliamo fare?” 

“Riguardo a cosa?” chiese Karen ma sapeva benissimo a cosa l’altro si stesse riferendo. In fondo, erano usciti per quell’appuntamento anche per parlare di loro due.

“Di noi”.

Karen sospirò. “Tu cosa vorresti fare?”

“Non lo so”.

Karen spostò lo sguardo e lo fissò sull’albero che aveva di fronte. Aveva paura che quella chiacchierata non finisse come lei sperava. Poteva capire come si sentisse Sirius, lei era solo una ragazzina e anche se era matura forse non lo era abbastanza per un uomo di trentotto anni. Non lo avrebbe biasimato se non l’avesse voluta. 

“Tu mi piaci”, disse allora lui dopo un po’. “Però... Insomma, io sono troppo vecchio per te. Tu avrai sicuramente dei desideri, dei sogni... Non voglio tarparti le ali”.

Karen inarcò le sopracciglia girandosi verso di lui. “Questo lascialo decidere a me”. Disse lei prendendogli una mano. “Mi piace stare con te. Sei divertente, sei gentile e... Sei anche bello. Mi piace come mi fai sentire quando mi stai accanto e non voglio rinunciarci”.

“Però come la mettiamo con le differenze tra di noi?” chiese lui. Il cuore aveva cominciato a battergli più forte dopo quei complimenti.

“Quali differenze? Dobbiamo ancora conoscerci bene”.

“Abbiamo vent’anni di differenza. Non possiamo essere uguali”.

“Certo che non lo siamo. Ma questo non riguarda solo la differenza di età. Anche avessimo meno anni di differenza non saremmo uguali”. 

Karen si zittì per qualche secondo, come pensando a cosa aggiungere.

“Senti, tu vuoi dei figli?” gli chiese a un certo punto lei. 

Sirius spalancò gli occhi ed ebbe un sussulto.

“Perché e questo che potrebbe essere un grosso problema nel breve termine”, aggiunse Karen a mo’ di spiegazione. “Se tu vuoi dei figli domani potrebbe essere un problema”.

“Io... Io non lo so. Non ci ho pensato, non credo nemmeno di volerne. Sono vecchio per queste cose e... Insomma, i bambini sono una grossa responsabilità”.

“Esatto”, rispose la ragazza. “A me nemmeno piacciono. Sicuramente ora non ne voglio”. 

Sirius sospirò e si ritrovò a ridacchiare. Strinse più forte la mano della ragazza e con l’altro braccio le circondò le spalle. Karen gli appoggiò il capo sulla spalla e si sentì più sicura. 

“Perché non ci godiamo il momento? Ci frequentiamo, vediamo come va... A me non importa che tu abbia vent’anni più di me, non mi sono mai piaciuti i ragazzini. Spero che a te non importi che io sia appena maggiorenne”.

“Grazie a Merlino sei maggiorenne altrimenti già mi vedevo con le manette”.

Karen alzò il capo su di lui guardandolo con dolcezza.

“E penso tu sia stufo delle manette”.

“Decisamente”.

Sirius si abbassò leggermente per raggiungere le labbra della ragazza e i due si baciarono per un po’ prima di continuare con la loro passeggiata, questa volta mano nella mano. 

 

***

 

Giusto per la cronaca, sto in una relazione da due anni con uno che ha 20 anni più di me quindi so di cosa sto parlando XD (e questo capitolo ha un che di personale anche perciò spero tanto lo abbiate apprezzato).

Fatemi sapere cosa ne pensate e a sabato prossimo col penultimo capitolo.

 

Bacioni,

C.


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Capitolo 36
*** 31 Luglio 1999 ***


31 Luglio 1999

 

Lily e James decisero di organizzare una festa a sorpresa per Harry per il suo compleanno e ovviamente assoldarono anche Sirius e Remus che furono ben felici di dare una mano, specialmente il primo, e Hermione, Ron, Karen e Ginny si offrirono volontari con entusiasmo. Ognuno decise di occuparsi della propria parte, Ron ed Hermione nel dirlo ai Weasley e nell’invitare gli altri amici di Hogwarts, come Neville, Luna, Dean e Seamus, mentre Ginny lavorò con i gemelli per preparare dei fuochi d’artificio e altri effetti speciali che sarebbero potuti essere adatti all’occasione; Karen e Sirius invece decisero di andare a caccia di decorazioni e di una torta. Ovviamente era un’occasione per loro per stare un po’ da soli e concedersi qualche altro appuntamento visto che avevano poche occasioni per stare assieme.

Naturalmente dovevano agire nel modo più discreto possibile per non far sospettare nulla a Harry, ma Ginny rassicurò tutti dicendo che lui aveva lo spirito d’osservazione di un Koala che ha fatto indigestione di eucalipto. Tuttavia cercarono di non nominare minimamente il compleanno del ragazzo facendo finta di essersene scordati.

I genitori gli lanciarono ogni tanto delle domande nel modo più casuale possibile per scoprire cosa gli sarebbe piaciuto avere in regalo e in generale tutti quanti cercarono di farsi vedere il meno possibile nei giorni precedenti i preparativi. 

Harry naturalmente non sospettava niente, sapeva che Ginny era impegnata con gli allenamenti perché alla fine dell’estate aveva il provino per le Holyhead Harpies e Ron ed Hermione si godevano la loro storia d’amore preparandosi anche per le loro future carriere - Ron era ancora certo di voler fare l’accademia -. Anche Karen aveva la sua vita. 

Perciò si era trovato spesso per conto suo a passeggiare, allenarsi e andare in giro o giocare col cane; in fondo non gli dispiaceva potersi godere un’estate tranquilla senza pensieri su Voldemort o sulla guerra a tormentarlo, senza i fantasmi del passato a perseguitarlo, e soprattutto senza i Dursley a stargli col fiato sul collo. Stava addirittura pensando di prendersi un anno sabbatico da qualsiasi cosa, ma vedere i suoi amici così impegnati con le loro vite e le loro carriere gli stava mettendo una certa pressione. Ma non aveva davvero idea di cosa fare.

“Non so, Harry. Tu potresti fare letteralmente qualsiasi cosa”, gli disse Ginny una sera mentre i due se ne stavano sdraiati sul divano del salotto di casa Potter, Ginny appoggiato con la schiena al bracciolo del divano, una mano impegnata a fare zapping alla TV e l’altra a pettinare i capelli del moro che teneva la testa appoggiata nel suo grembo.

Harry soppesò quelle parole: effettivamente col suo status avrebbe davvero potuto fare qualsiasi cosa, era sicuro che se anche avesse chiesto di poter fare lo spogliarellista in un Night Club per maghi e streghe lo avrebbero assunto subito senza provino solo perché era lui. Non che desiderasse fare lo spogliarellista, ci mancherebbe.

“Prenditi il tuo tempo. Non c’è alcuna fretta”, aggiunse la ragazza in tono dolce accarezzandogli con le dita la cicatrice. Harry rabbrividì sotto quel contatto così tenero e familiare. Non si era mai sentito così amato come in quegli ultimi mesi da quando i suoi genitori e Sirius erano tornati e se da un lato la cosa lo rendeva immensamente felice - di una felicità che non avrebbe saputo descrivere - dall’altro un po’ ne aveva paura perché più si avevano persone a cui tenere più era facile perdere qualcuno. Ed Harry era abituato a perdere le persone che amava non a riaverle indietro. Non poteva credere che la ruota finalmente stesse girando dalla sua parte. 

Harry chiuse gli occhi per un attimo e lasciò andare un paio di respiri profondi godendosi il tocco morbido della ragazza. 

Glielo dicevano tutti che doveva prendersi il suo tempo, era anche ora che pensasse un po’ di più a sé stesso, persino la McNahmara glielo aveva ripetuto. I suoi genitori non gli mettevano alcuna pressione, anzi - ma Harry dubitava lo avrebbero mai fatto. 

“Harry sta dormendo?” chiese la voce di sua madre piano, entrando silenziosa nel salotto.

Ginny si voltò con calma verso di lei. 

“No, sono sveglio”, rispose Harry senza aprire gli occhi e senza spostarsi di un millimetro. Sarebbe potuto rimanere in quella posizione per sempre da quanto stava comodo. 

“Piccioncini, la cena è quasi pronta”, si udì allora la voce di James, anche lui sulla soglia del salotto.

Harry si stiracchiò e decise che era ora di alzarsi. Buttò le gambe giù dal divano e lanciò un’occhiata stanca a Felpato, addormentato tranquillo nella sua cesta.

Era davvero una tranquilla sera di fine luglio.

 

“Secondo me l’altra è più buona”.

“Sì ma l’altra è più rinfrescante e visto che è estate ci sta”.

Sirius mise giù la forchetta con la quale aveva assaggiato la quarta torta che la pasticciera stava facendo provare a lui e a Karen; la giovane ragazza, sulla trentina, capelli castani e ondulati e gli occhi turchini, non aveva smesso di sorridere verso i due e il suo tono era rimasto gentile tutto il tempo, ma l’Animagus aveva come l’impressione che non vedesse l’ora che se ne andassero. A Karen non sembrava importare. 

Era da quasi un’ora che lui e la ragazza si trovavano nella pasticceria designata per scegliere una torta per il compleanno di Harry. Molly si era offerta di prepararla più che volentieri - Lily era un po’ impedita sul versante dolci - ma aveva già messo a disposizione sé stessa e la cucina per fare gli stuzzichini e non era sembrato giusto disturbarla così tanto.

“Non lo so, Sirius, io preferisco il cioccolato”.

“È la torta per il vostro matrimonio?” chiese la pasticciera con voce timida. Probabilmente si sentiva solo a disagio a starsene in silenzio durante il loro discorso.

Karen e Sirius si scambiarono un’occhiata un po’ allibita, arrossendo entrambi. 

“Oh no!” rispose in fretta la ragazza, ridendo imbarazzata. “Stiamo scegliendo la torta per il compleanno di un nostro amico. È una festa a sorpresa e vogliamo che sia... memorabile, ecco”.

“Oh scusatemi”, disse la donna allontanandosi verso il retro. “Torno subito, ragazzi”.

Non appena la pasticciera se ne fu andata, i due si guardarono vagamente divertiti ma ancora un po’ imbarazzati. 

“Be’ direi che questa è una di quelle cose da raccontare”, disse Sirius dopo un po’ ridacchiando. 

“A chi lo dici”.

Sirius e Karen si guardarono per diverso tempo, uno di fronte all’altro; sul volto dell’uomo era dipinta un’espressione particolare, una via di mezzo tra un sorriso dolce e uno malizioso.

“Ehi”, la chiamò piano quando vide che la ragazza aveva abbassato lo sguardo fissandosi la punta dei piedi. 

Infine le si avvicinò eliminando quei pochi centimetri che li separavano, le appoggiò una mano sul fianco e si abbassò per baciarla. Karen reagì subito e d’istinto, alzandosi sulle punte delle sue scarpe da ginnastica e circondando il collo dell’uomo per ricambiare il bacio. Aveva scoperto che le piaceva baciare Sirius, l’uomo era un gran baciatore.

Sirius la attirò di più a sé cingendole la vita con entrambe le mani. Purtroppo però dovettero separarsi troppo in fretta per i loro gusti perché la pasticciera li interruppe con un colpo di tosse: povera donna, era già la seconda gaffe che faceva con i due. Sicuramente ora li odiava da morire. 

Si misero d’accordo di fare una torta al cioccolato con della frutta sopra in modo che fosse più rinfrescante e finalmente Sirius e Karen poterono abbandonare la pasticceria.

“Tu hai idea di cosa regalare a Harry? Sono giorni che ci penso”, disse Sirius quando si ritrovarono in strada.

“Avevo pensato a qualcosa di Babbano. A Harry piace fare sport quindi pensavo a uno di quegli orologi super digitali che mostrano il battito cardiaco, le calorie perse e cose così. Si usa quando pratichi esercizio fisico”.

“WoW! Sembra figo”.

“Se vuoi possiamo regalarglielo insieme”.

“Perché no?”

 

Il giorno del compleanno arrivò abbastanza in fretta e ormai era tutto pronto. Erano tutti piuttosto nervosi e eccitati la mattina a colazione, James e Lily parlarono poco ma Harry sembrò non farci troppo caso, concentrato com’era a contemplare la sua tazza di caffè. 

A Sirius toccava il compito di portarlo fuori di casa fino a che questa non fosse stata pronta con le decorazioni e tutto il resto. Stranamente Harry non disse niente sul fatto che fosse il suo compleanno, e tutti si astennero dal fargli gli auguri. Dovevano semplicemente fare finta di dimenticarmene ma con la sorpresa che si prospettava non fu troppo difficile.

Quando Sirius legò Felpato al guinzaglio, chiese al figlioccio se lo voleva accompagnare a fare una passeggiata. Harry non avrebbe mai detto di no al suo padrino.

“Volevi parlarmi di qualcosa?” chiese Harry dopo qualche minuto di silenzio.

“No, perché?” 

“Perché quando le persone mi chiedono di accompagnarle da sole da qualche parte è perché mi vogliono parlare”, rispose il ragazzo, aggiungendo dopo un po’ con una risatina “oppure mi vogliono stuprare. Dipende dalle situazioni”.

Sirius scoppiò a ridere. “Spero non ti sia capitata quest’ultima situazione”.

“Per fortuna ancora no”.

Passeggiarono ancora un po’ col cane che li guidava davanti trotterellante. 

“Comunque volevo farmi un tatuaggio. Tu dove hai fatto il tuo?” 

“In un negozio Babbano a Londra. Mi ci ha portato Kiki”.

“Dai, andiamo!” 

“Adesso?” 

“Ma si, perché no?”

Sirius sapeva che fare un tatuaggio avrebbe occupato abbastanza tempo senza dover inventare altre scuse e non gli dispiaceva farsene un altro, oltre a quelli che aveva già sul petto.

I due si smaterializzarono in un punto di Materializzazione della Londra Babbana e Harry condusse il padrino verso il negozio che si trovava a Whitechapel. Dovettero prendere un paio di metro per arrivarci ma Harry notò non senza una leggera sorpresa che Sirius sembrava cavarsela abbastanza bene con le metropolitane. Forse non era la prima volta che ne prendeva una.

“Cosa posso fare per voi due?” chiese un ragazzo pieno di tatuaggi su tutto il corpo non appena Harry e il padrino - insieme al cane - entrarono nel negozio.

“Io volevo fare un tatuaggio”, disse Sirius. 

“Ma noi ci siamo già visti?” chiese all’improvviso un altro ragazzo sbucato da un’altra porta, quella dell’ufficio privato. Stava guardando verso Harry.

“Sì, ero venuto un po’ di tempo fa con un’amica”.

“Ma si, sei quello del drago sul petto”.

“Proprio io”.

“Come ti sei trovato? Ti ha dato problemi?”

“No, assolutamente”.

“Perfetto”.

L’altro tatuatore invece si rivolse a Sirius. “Cosa vorresti tatuarti?”

“Non ho idea sinceramente”.

“Prova a guardare tra i nostri disegni se trovi qualcosa che ti piace”.

Sirius scorse con gli occhi alcuni bozzetti appesi vicino all’ingresso e attorno alla scrivania pensieroso; erano tutti molto belli e lui non era uno di grandi esigenze. Non dava ai tatuaggi un significato particolare.

“Che ne dici di questo?” gli chiese Harry mostrandogli il disegno di un cane.

Sirius lo guardò di sbieco. “Sul serio?” 

“Dai è carino”. Harry ghignò beccandosi una spallata dal padrino.

“Fattene uno anche tu”.

“Non lo so, poi dovrei farne un terzo perché i tatuaggi non vanno mai in numeri pari”.

“Be’, è una scusa per farne il più possibile”.

Dopo qualche sguardo in più Sirius si decise per il disegno - a colori - di una rosa rossa sull’avambraccio sinistro, qualcosa che nessuno avrebbe mai associato a lui. Anche Harry venne convinto a farsene un altro, un albero che gli ricordava un po’ il Platano Picchiatore, sulla schiena. 

I due tatuaggi occuparono abbastanza tempo per l’ora della festa. Sirius controllò l’orologio e sentì la moneta magica che gli aveva dato Hermione - quella che avevano usato i ragazzi nell’Esercito di Silente - vibrare nella sua tasca;  quello era il segnale che ormai era tutto pronto.

“Dai, andiamo a casa”, disse solo e non diede nemmeno il tempo al ragazzo di ribattere che afferrò lui e il cane e li Materializzò fuori dal cancello di casa Potter. 

I due percorsero il selciato che li separava dalla porta di ingresso in silenzio e, non appena Harry varcò la porta, dopo qualche istante di totale silenzio, sentì un coro di “sorpresa” travolgerlo come un’ondata. 

Il ragazzo alzò gli occhi sui presenti, con genuina sorpresa e confusione nello sguardo. Sembrava davvero che non capisse cosa stesse succedendo. Prima tutti quelli che lo fissavano dentro casa, oltre ai genitori, Ginny, Ron, Hermione e Karen, riconobbe anche tutti gli altri Weasley, Luna, Neville con la ragazza Hannah, Seamus, Dean e persino Lee Jordan e Angelina Johnson. Dietro di loro c’erano anche Remus e Tonks. Poi si voltò verso il padrino fermo dietro di lui che sghignazzava come quando da giovane combinava una marachella con gli amici.

“I gorgosprizzi ti hanno mangiato la lingua?” gli chiese Luna osservandolo con un sorriso. 

“Pensavi davvero che ci saremmo scordati del tuo compleanno?” fece Ginny avvicinandosi al ragazzo e prendendogli una mano. Harry inarcò le sopracciglia. La giovane Weasley allora spalancò occhi e bocca in un’espressione tra lo stupore e il divertimento. “Oh per le mutande di Godric! Tu ti sei scordato del tuo compleanno”.

Harry si ritrovò ad annuire. “Sì. Me ne sono genuinamente scordato. Non sapevo nemmeno che fosse il trentun luglio oggi”.

Qualcuno scoppiò a ridere.

“Harry!” esclamò Hermione sconvolta.

Ginny invece lo spinse verso di sé e lo abbracciò forte ma teneramente. “Be’ non ha importanza perché ci abbiamo pensato noi e abbiamo deciso che ti meritavi una festa come si deve. Allora, ti piace?”

“Da morire”, mormorò il ragazzo col viso affogato nei capelli di Ginny, inebriandosi del suo odore. E non mentiva, quella festa gli stava già piacendo da matti. Non aveva mai avuto il privilegio di avere una vera festa di compleanno, men che meno a sorpresa. Quando i due si staccarono, si voltò verso Sirius e lo guardò con un che di rimprovero. “Quindi è per questo che stamattina mi hai trascinato fuori casa”.

“Certo! Mi sono fatto persino marchiare per te”.

“Che intendi dire?” fece James osservando l’amico con l’espressione di qualcuno che temeva la risposta.

“Siamo andati a farci un tatuaggio”. E come per rimarcare la cosa, Black mise in bella vista a tutti la sua rosa rossa.

“Merlino santissimo! Con tutti i posti dove potevi portarlo, proprio da un tatuatore doveva essere”.

“Ehi, è un tuatuaggio bellissimo. Anche quello di Harry”.

In quel momento si intromise Ron: “Amico, potrai raccontarci tutto del tuo bellissimo tatuaggio ma ora basta con le chiacchiere che in cucina c’è un buffet spettacolare”.

“Ronald!” Lo sgridò Hermione. Il ragazzo si strinse semplicemente nelle spalle.

Nel dirigersi verso la cucina Harry si trovò a dover abbracciare praticamente tutti gli invitati - l’abbraccio di Molly quasi gli spaccò le ossa - che gli augurarono un felicissimo compleanno. Harry non si era mai sentito così benvoluto. Aveva come l’impressione che sarebbe stata una giornata ricca di emozioni. E dire che fino a pochi minuti fa non ricordava nemmeno fosse il suo compleanno.

“Dopo dovrebbe raggiungerci anche Katie”, gli disse Angelina quando lo lasciò andare dall’abbraccio. 

“Così avremo quasi tutta la squadra di quidditch al completo”, esclamò Fred contento. “Si potrebbe fare una partita “.

“E avete anche tre ex capitani di Grifondoro”, aggiunse Ron prima di addentare un pezzo di torta tartara. 

James alzò un sopracciglio verso i ragazzi, attirato dal discorso. “Chi sarebbero?”

“Angelina, Harry e Ginny”, rispose Neville. 

“Fai pure quattro”, disse allora James con finta aria disinteressata.

“Sei stato capitano?” chiese Angelina in tono vivace.

“Certo!”

“È vero! C’è la tua targa a Hogwarts! Come ho fatto a dimenticarmene?”

“Non chiedergli di parlare del suo anno da Capitano o non smetterà più di tirarsela”, disse Lily guardando Angelina e lanciando occhiatine al marito nel frattempo; questi mise su il broncio.

“Io non me la tiro. Vero Harry che non me la tiro?”

Harry sbatté le palpebre un paio di volte come lo avessero appena tirato giù dal letto. “No, non tiratemi dentro questo discorso”.

“Quantomeno l’intelligenza non l’ha presa da te, Jamie”, fece Sirius ridendo

“Ma ce l’avete con me oggi?” 

Tutti i presenti scoppiarono a ridere.

La festa proseguì nel migliore dei modi, tutti chiacchieravano allegramente, facevano battutine, mangiavano e quando arrivò Katie Bell alcuni decisero di organizzarsi in due squadre e sfidarsi a quidditch. 

Dopo la partita anche l’alcol cominciò a scorrere a fiumi. I signori Weasley a un certo punto abbandonarono la baracca e quando Harry li salutò sentì l’esigenza di allontanarsi per un po’. Uscì sul portico dove non c’era nessuno, solo l’allegro chiacchiericcio e le risate dei suoi amici lo raggiungevano attutiti dalla distanza. Si accese una sigaretta e bevve un sorso di birra dalla bottiglia che si era portato dietro. 

Si asciugò le lacrime che gli stavano leggermente bagnando gli occhi accorgendosi che stava sorridendo come un ebete. Non era mai stato uno che piangeva tanto e non aveva mai pensato che avrebbe pianto di felicità. Non sapeva se attribuire tutte quelle sensazioni all’alcol o alla pura gioia che stava provando.

Remus lo trovò così quando uscì, appoggiato alla ringhiera che fissava il giardino di fronte. 

Harry si asciugò di nuovo velocemente le lacrime e cercò di ricomporsi. Ma naturalmente al licantropo non sfuggiva nulla.

“Ehi, tutto a posto?”

“Si, si”, si affrettò a rispondere l’altro schiacciando il mozzicone nel posacenere. “Avevo solo bisogno di un po’ d’aria”.

“Harry”, lo richiamò l’altro in tono di leggero rimprovero ma comunque dolce. 

Harry alzò gli occhi sul suo ex professore e sospirò. “È solo che è strano... tutto questo. Sai... fino a pochi mesi fa la mia vita era alla deriva. Stavo solo pensando al modo più veloce per farla finita e ora... Ora non potrei essere più felice. È così travolgente e mi fa anche un po’ paura”.

Remus gli sorrise col sorriso più dolce che Harry lo avesse mai visto fare. Forse solo in quel momento realizzò davvero quanto volesse bene a quell’uomo.

Quasi non lo vide avvicinarsi, ma sentì quando questi lo avvolse in un abbraccio caldo e confortevole. 

“Oh Harry”, sussurrò tenendolo stretto. “É perfettamente normale. E ricordati che tutto questo è merito tuo, solo tuo. Sei stato tu a riportarci indietro, a dare una seconda possibilità a me e mia moglie, a permetterci di veder crescere nostro figlio”. Poi si staccò e lo guardò dritto negli occhi. “Hai messo tu fine a quella guerra. Hai così tanto di cui essere fiero”.

“Grazie”, disse Harry in tono basso sentendo di nuovo le lacrime pungere.

“Non devi ringraziarmi. È solo merito tuo”.

Harry avrebbe voluto dire qualcos’altro, ma in quel momento la porta si aprì di colpo facendo sbucare le facce di Ron e Neville, allegri più del solito.

“È il momento di aprire i regali”.

Harry ridacchiò e andò verso il salotto. I regali non erano sicuramente tanti quanti ne riceveva Dudley - ma suo cugino era un caso particolare - tuttavia erano di gran lunga più di quanti ne avesse ricevuti in tutta la sua vita. Hermione, come al solito, non si smentì e gli regalò un paio di libri, ma questa volta erano dei romanzi di autori Babbani che a lei erano piaciuti molto e che secondo lei Harry doveva assolutamente leggere. Ron gli regalò una specie di GPS magico che serviva per rintracciare maledizioni semplici - probabilmente sperava ancora che l’amico lo seguisse nell’Accademia Auror - e i gemelli un cuscino incantato che si metteva a cantare quando era ora di svegliarsi. In pratica doveva funzionare come una sveglia ma i gemelli hanno detto che è ottimo per fare gli scherzi e sostituire il cuscino di qualcuno con quello incantato così che quello si mettesse a cantare nelle ore più improbabili facendo venire un infarto al povero malcapitato.

Ginny invece gli regalò una collanina con i loro nomi incisi sopra e gli promise che sarebbe stato il primo e ultimo “regalo così smielatamente romantico” che gli faceva. Ma Harry indossava ancora il suo braccialetto col boccino e quindi la sua affermazione non era del tutto vera ma il ragazzo si premurò bene di non contraddirla.

Il regalo che lo sorprese più di tutti fu quello dei suoi genitori: un biglietto per due persone per farsi una vacanza dove voleva lui e quando voleva lui. Harry decise che ci avrebbe pensato molto bene a dove voleva andare - con Ginny ovviamente - perché fino ad ora non si era mai concesso una vacanza.

“Ma quindi voi due state insieme ora?” chiese rivolto a Karen e Sirius dopo aver aperto il loro regalo. Il fatto che glielo avessero fatto insieme doveva essere un segnale.

“Diciamo che ci stiamo lavorando”, rispose la ragazza con un sorriso malizioso in direzione di Sirius. Lui ricambiò l’occhiata avvicinandosi di più alla ragazza. 

“Comunque questo cocktail è davvero buono!” aggiunse Kiki osservando il proprio bicchiere pieno di un liquido rosa.

“Lo ha fatto James. Non chiedermi cosa ci ha messo dentro”, le disse Lily.

“Dovrai darmi la ricetta cosi lo aggiungo all’elenco di cocktail che so fare”. 

“Sai fare i cocktail?” le chiese Katie leggermente stupita.

“Abbastanza da aprire un bar”.

Harry fissò per qualche istante le venature del tavolo di legno di fronte a lui come colpito da un’idea e poi alzò lo sguardo sull’amica: “Sai che non sarebbe una cattiva idea?” 

“Che cosa?”

“Aprire un bar”.

“Harry, per aprire un bar ci vogliono soldi. E anche clienti”.

“E si dà il caso che io di soldi ne abbia”.

Karen si inginocchiò di fronte a lui per essere alla sua stessa altezza che stava seduto di fronte al tavolino del salotto e lo guardò improvvisamente eccitata. “E basta dire alla gente che ci sei tu e i clienti pioverebbero come la pioggia a Dicembre”.

I due amici si sorrisero annuendo lentamente; forse, senza volerlo, avevano appena avuto l’illuminazione perfetta per il loro futuro.

 

Verso sera, quando ormai era calato il sole e quasi tutti se n’erano andati dopo il taglio della torta, Sirius e Karen si erano ritrovati in un angolo schiacciati contro il muro a baciarsi come se non si vedessero da mesi. Avevano cercato di resistere all’urgenza di baciarsi e toccarsi per tutto il tempo della festa - non volevano ancora sbandierare a tutti la loro frequentazione - ma non appena si erano ritrovati da soli ne avevano approfittato. 

La stanza di Sirius si trovava proprio lì vicino e, senza nemmeno pensarci davvero, l’uomo aveva trascinato la ragazza dentro, chiudendosi la porta alle spalle con un colpo.

Tutto questo senza smettere di baciarla.

Karen mugugnò con la lingua ancora avvinghiata a quella del mago, mentre le mani le correvano sotto la sua maglietta.

Quello non era per nulla un bacio casto.

“Sirius, smettila di fare il gentiluomo o l’unica pervertita qua sembrerò io”.

Sirius ridacchiò.

“Quindi ho il tuo permesso di toglierti la maglietta?”

“Toglimi tutto quello che vuoi”.

Forse stava mettendo troppa fretta e troppa urgenza a tutto quello, ma voleva davvero sentire la pelle di Sirius a contatto con la propria, voleva le sue mani e... Be’, era eccitata abbastanza.

Sirius le prese i lembi della maglietta e la sollevò; Karen lo aiutò alzando le braccia e facendosi scivolare l’indumento di dosso. Non aveva mai fatto caso che Sirius fosse così alto, ma forse perché lei stavolta non indossava i tacchi.

Le mani della ragazza corsero subito ai bottoni della camicia dell’uomo. Quando però gli slacciò il primo bottone, baciandogli il collo, lui la bloccò con una mano.

“Aspetta”.

La ragazza alzò lo sguardo e incatenò i propri occhi chiari in quelli scuri di lui. 

“Che c’è?”

“Io...”. Sirius abbassò lo sguardo; sembrava titubante. Karen capì che forse era il caso di rallentare, forse a lui non andava.

“È da un po’ che... non lo faccio”, mormorò lui senza guardarla, arrossendo.

Karen a quelle parole sorrise e gli circondò il collo con le braccia posandogli un bacio sulla guancia.

“Non ti preoccupare. È come andare sulla scopa. Una volta che hai imparato non te lo dimentichi più”.

Sirius ridacchiò e alzò di nuovo lo sguardo su di lei.

“Tu lo vuoi? Vuoi che lo facciamo?”

“Solo se lo vuoi tu”.

Sirius annuì e i due ripresero da dove avevano interrotto, ma questa volta dandosi più tempo. Quando si ritrovarono sul letto, Karen in mutande e Sirius con ancora i pantaloni addosso, lei gli stava sopra e gli percorreva tutto il petto villoso con dei piccoli baci.

Poi con una mano gli slacciò i jeans e sentì che era duro. Gli accarezzò piano il pene da sopra le mutande facendolo mugugnare. 

Sirius lasciò andare un sospiro sentendosi percorrere da brividi di piacere. A un certo punto strinse la presa sui fianchi della ragazza e ribaltò con un colpo le loro posizioni, facendo cadere Karen di schiena sul letto. La ragazza rise leggermente.

Era arrivato il momento che prendesse lui il comando. Dopotutto non era conosciuto come il puttaniere di Hogwarts per nulla. 

 

Dopo il sesso, Sirius e Karen rimasero sdraiati per diverso tempo sul letto senza dire nulla, sorridendo e cercando di riprendere fiato. Potevano entrambi dire che la loro prima volta era stata decisamente piacevole.

Solo dopo un po’ Karen si girò verso di lui e gli poggiò una mano sul petto per accarezzarlo, percorrendo con le dita i tatuaggi runici.

Lui allungò un braccio per stringersela addosso.

“Visto? Come andare su una scopa”.

“Non sono mai stato bravo a volare”.

“Ma in questo sei bravo”. Karen alzò lo sguardo e gli sorrise maliziosa. Lui ridacchiò per nascondere l’imbarazzo del complimento.

A un certo punto sentirono dei colpi provenire da fuori e qualcosa di colorato spuntare nel cielo.

“Devono essere i fuochi di Fred e George”.

I due si alzarono dal letto pigramente, affacciandosi - ancora nudi - alla finestra, Karen davanti stretta tra le braccia di Sirius.

 

Quando tutti gli ospiti se n’erano andati, Harry si era steso sul divano in attesa che Ginny uscisse dal bagno. Era stanco ma felice.

“Pensi che dovremmo dirglielo ora?” chiese Lily guardando James. 

“Perché no?”

“Non lo so, é il suo compleanno”.

“É una bella notizia, Lils”.

Lily lanciò un’occhiata dalla soglia della cucina verso il figlio. Probabilmente non ci sarebbe mai stato un momento giusto per quella notizia.

“D’accordo, andiamo”.

I due si diressero insieme verso il salotto e si sedettero sul divano vicino alle gambe del figlio.

Harry alzò lo sguardo verso di loro e li guardò incuriosito.

“Tesoro, sei abbastava sobrio?” gli chiese il padre.

Harry annuì mettendosi seduto. Era un po’ brillo, ma non troppo.

“Che succede?”

“Io e la mamma dobbiamo dirti una cosa”.

L’espressione del ragazzo si rannuvolò immediatamente. Ecco, lo sapeva che non poteva tutto tirare per il verso giusto.

“Che c’è che non va?” 

“Oh no, tesoro!” esclamò Lily prendendogli una mano. “A dire il vero è una bella notizia”.

Harry cercò di esortarli a parlare con uno sguardo.

“Ti piacerebbe l’idea di...”, cominciò James titubante. “Avere un fratello o una sorella?”

Harry inarcò un sopracciglio perplesso per qualche istante finché non capì che cosa quella frase volesse dire e si ritrovò a spalancare la bocca sorpreso. “Sei... incinta?” chiese guardando la madre.

Lily annuì sorridendo. Prima che avesse il tempo di realizzarlo la donna si ritrovò stretta in un forte abbraccio da parte del figlio ma fu subito pronta a ricambiarlo.

“Sei contento?”

“Certo che sono contento”, rispose il ragazzo quando si staccò dalla madre. Non poteva credere che quella giornata stesse diventando ancora più bella.

“Però vorremmo che tu sappia”, si intromise allora James. “che questo bambino non ci distrarrà da te. Saremo sempre al tuo fianco. Per qualsiasi cosa ti servirà”.

Harry gli sorrise. “Non preoccupatevi. Non sono un bambino”.

“Lo sappiano, tesoro”, fece Lily. “Sappiamo che non sei mai stato un bambino davvero. E dopo tutto quello che hai passato vorremmo solo che tu stessi bene. Io e tuo padre ci saremo sempre. Non potevamo esserci prima ma ora ci saremo. É una promessa”.

 

*** 

 

Spero vi sia piaciuto questo capitolo come io mi sono divertita a scriverlo :) 

Per quanto riguarda i tatuaggi sul petto di Sirius, so che nei libri lui non ha tatuaggi ma nel film sì. Era stata una scelta di Gary Oldman e Cuaròn ai tempi del terzo film e l’ho trovata un’idea piuttosto affascinante (ma sono di parte visto che ho una passione per i tatuaggi). 

Comunque fatemi sapere che ne pensate e a sabato prossimo con l’epilogo. 

 

Baci,

C

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Capitolo 37
*** Epilogo ***


EPILOGO 

 

Cinque anni dopo 

 

Karen raggiunse Harry dietro il bancone dandogli un’allegra pacca sul culo. 

“Il ragazzo del colloquio è arrivato”, gli disse. “L’ho fatto accomodare in ufficio”.

“Grazie”, rispose Harry lanciando la pezza sporca che aveva usato per ripulire i bicchieri. “Puoi finire tu qua di pulire?” 

“Certo!” 

Era già tardo pomeriggio e c’erano ancora varie cose da allestite nel locale prima del concerto di quella sera. Si aspettavano un mucchio di clienti - come al solito, quel bar non era quasi mai vuoto - ma in aggiunta quella sera avevano invitato un gruppo famoso a suonare e quindi sarebbe brulicato di giovani ragazzi pieni di ormoni che avrebbero continuato a bere e cantare e ballare sotto il palco.

Harry si diresse verso il retro dove lui e Kiki avevano adibito una piccola stanzetta angusta e senza finestre a ufficio, come loro lo chiamavano, ma in realtà era solo un posto dove tenere alcuni scatoloni, cianfrusaglie e oggetti per il locale che ancora non avevano deciso dove mettere. E anche per intervistare le persone che si candidavano per lavorare lì. Forse non era il posto migliore dove fare accomodare i possibili futuri dipendenti, essendo eccessivamente piccolo e pieno di cose e piuttosto buio se non per la lampadina appesa al soffitto, ma andava bene così. 

Harry entrò nell’ufficio e trovò un ragazzo seduto alla scrivania. Gli sorrise e si sedette dalla parte opposta, di fronte a lui. Era un giovane di bell’aspetto, coi capelli scuri, leggermente rasati e lasciati un po’ in disordine nella parte alta della testa, come se li avesse modellati in quel modo apposta. Aveva un viso pulito, di ragazzino appena ventenne e, se non fosse stato per il taglio sul sopracciglio destro, sarebbe sembrato assolutamente innocente. Era quel dettaglio del sopracciglio a renderlo più aggressivo e maturo.

“Tu devi essere Evan”, disse Harry in tono cordiale. 

“Si”.

“Ho letto il tuo curriculum. Hai diverse esperienze”.

“Si, abbastanza”.

“Vuoi fare il cameriere qui?” 

“Mi piacerebbe, sì”.

Harry lo guardò in silenzio per qualche istante, studiandolo. L’altro fronteggiò lo sguardo, solo vagamente nervoso. Aveva gli occhi di un particolare color caramello.

“Vedo che hai lavorato da Madame Rosmerta”.

“Sì per un po’ di tempo. Subito dopo Hogwarts”.

Harry sfogliò con calma il curriculum del ragazzo senza perdere l’espressione cordiale con la quale aveva accolto Evan fin da subito.

“Senta, glielo devo dire...”, cominciò Evan a un certo punto, ora con del timore nello sguardo. Stava muovendo la gamba sotto la scrivania in segno di agitazione.

“Dammi pure del tu”, lo interruppe Harry. Poi lo incoraggiò a continuare.

“Io sono un lupo mannaro. È giusto che te lo dica perché dovrei assentarmi dal lavoro alcuni giorni al mese nel caso mi assumessi. So che ci sono delle leggi che proteggono i lupi mannari dalle discriminazioni sul lavoro, ma... insomma, non sempre va come dovrebbe. Il mio precedente datore di lavoro mi ha licenziato perché mancavo troppe volte. Ma non è che posso farci qualcosa, mi serve almeno una giornata, prima e dopo la luna piena, per riprendermi. Forse potrei gestirlo meglio, ma...”.

“Ehi!” lo interruppe all’improvviso Harry sfiorandogli con le dita le mani che si stava tormentando sul tavolo. “Non ti preoccupare”. Gli sorrise. 

“Ho bisogno di un lavoro... e tu hai, insomma... so che tu non- non discrimini le persone”.

“Certo che no. Ti ringrazio per avermelo detto”.

“Be’, non è un segreto. Sono registrato come lupo mannaro nel registro delle creature magiche del Ministero, prima o poi viene sempre fuori”.

Harry annuì lentamente e si lasciò andare contro lo schienale della sedia riponendo da una parte il curriculum di Evan. Guardò per qualche istante il ragazzo come soppesando la prossima domanda.

“Posso chiederti come è successo?”

Evan inspirò silenziosamente. “Mio padre era un Auror. Ai tempi della guerra si era inimicato un Mangiamorte piuttosto potente, con un posto al Ministero. E, sai come sono loro, non perdonano facilmente. All’inizio erano solo minacce ma poi... Ha mandato un lupo mannaro a mordermi. Non a uccidermi, proprio a mordermi. È quello che fanno per vendicarsi di chi gli mette i bastoni tra le ruote. Colpire le persone che amano”.

Harry is ritrovò ad annuire lentamente fissando con sguardo vuoto il tavolo sotto i suoi occhi; sì lo sapeva bene, la stessa cosa era successa a Remus.

“Per questo io ti sono molto grato di aver sconfitto Tu-sai-chi”, disse Evan ma senza quel tono che tanti ostentavano quando parlavano con lui, da adulatori; Evan era genuino.

“Se ti serve una mano conosco una persona che potrebbe aiutarti. Con le trasformazioni e tutto il resto”. Harry sapeva che Remus non avrebbe mai negato aiuto a un giovane lupo mannaro.

“Ti ringrazio. È successo quando avevo dodici anni quindi ci sono abituato ormai. È solo un po’ più difficile, ma okay”.

“Facciamo così. La luna piena è dopodomani, giusto?” Harry lanciò un’occhiata al calendario lunare appeso dietro il ragazzo, quello che avevano regalato a Karen e che lei aveva deciso di appendere in ufficio. 

Evan annuì.

“Allora prenditi il weekend per riposarti e lunedì vieni a cominciare la settimana di prova. Pagata ovviamente. Ti manderò gli orari con un gufo”.

Al ragazzo si illuminarono subito gli occhi e si aprì in un sorriso gigantesco.

“Certo, assolutamente! Grazie!”

“Figurati”. Harry si alzò e gli porse la mano. “Ah e un’altra cosa”.

“Si?”

“Non dirò nulla agli altri dipendenti, ma Karen, la mia socia... a lei dovrò dirlo. È un problema?”

“No, assolutamente”.

“D’accordo”.

Evan si congedò decisamente felice di come si era svolto il colloquio. Harry tornò nel locale dove Karen stava preparando dei tramezzini al bancone. Una canzone metal stava inondando la stanza con le sue note aggressive, ma il volume era tenuto piuttosto basso.

“Allora, come è andata?” gli chiese l’amica.

“Bene. Gli ho detto di venire lunedì per la prova”.

“Di già? Pensavo volessi intervistare più persone”.

Harry sospirò. “Preferirei di no. Quasi tutti gli altri sono venuti qui per conoscere me, non perché volessero davvero questo lavoro. Lui era l’unico con diverse esperienze”.

“I problemi della fama”.

Harry afferrò un pacchetto di patatine dal mobile sopra la testa e una ciotola che avevano appena pulito.

“A proposito, il ragazzo è un lupo mannaro”, disse Harry con nonchalance.

“Oh”.

“Organizzerò i suoi turni in modo che non coincidano con la luna piena”.

“Harry Potter, difensore dei reietti”. Karen rise beccandosi un pugno leggero sulla spalla da parte di Harry mente le passava accanto con una ciotola piena di patatine. Con quella, si avvicinò a uno dei tavoli disposti all’interno del locale, dove una bambina dai lunghi capelli castano-ramati sedeva davanti a un blocco da disegno e dei pastelli.

“Ehi, Lydia! Guarda cosa ti ho portato!” disse alla bimba che alzò i grandi occhi nocciola su di lui e sorrise felice di fronte alla ciotola di patatine.

“Siiii”.

“Ma non mangiarne troppe o poi non riuscirai a cenare”.

Harry pensò che probabilmente James e Lily non sarebbero stati contenti di quello snack prima di cena, ma dopotutto a questo servivano i fratelli maggiori, a viziare le sorelline più piccole.

“Ti piace il mio disegno?” gli chiese Lydia mostrandogli il disegno che aveva fatto. 

Harry osservò l’opera d’arte - un tipico disegno da bambini piatto e dalle linee imprecise ma pieno di colori - in cui riconobbe sé stesso, la sorellina, i loro genitori e un cane dalle orecchie a punta, probabilmente Felpato.

“È bellissimo, tesoro”, le disse lasciandole un bacio sulla tempia.

“Te lo regalo”.

“Ma grazie. Questo lo appendo in camera mia, che dici?” 

Lydia annuì contenta afferrando una manciata di patatine e ficcandosele in bocca. Poi prese un altro figlio e ricominciò a disegnare. A quella bambina piaceva un sacco disegnare, poteva starsene per delle ore in un angolo coi suoi pastelli - i muri di casa ne erano un po’ risentiti - in silenzio e senza quasi farsi notare. Lydia era una bambina particolarmente tranquilla e silenziosa, molto osservativa. A differenza di Teddy che, invece, era un bambino decisamente vivace e sempre in movimento, con una voglia di esplorare che andava a discapito dei pericoli. Aveva quasi due anni più di Lydia, che invece ne aveva cinque, però il ragazzino riusciva sempre a coinvolgerla in qualcuna delle sue avventure e spesso e volentieri a loro si univa anche Victoire - la primogenita di Fleur e Bill - che aveva la stessa età di Lydia. Ma sembrava che le due bimbe fossero unite solo per la loro amicizia con Teddy.

Gli adulti a volte li osservavano e potevano giurare di saperla lunga. Ognuno scommetteva su chi delle due tigresse avrebbe vinto il cuore del giovane Lupin. Ma il giovane Lupin all’amore - o alle ragazze - non ci pensava affatto.

Harry portò via il disegno e tornò di nuovo al bancone mettendosi a tagliare della frutta per i cocktail.

“Come va la convivenza con Sirius?” 

Karen si accese una sigaretta appoggiandosi al piano cucina, accavallando le lunghe gambe avvolte in un paio di calze a rete.

“Bene. Ci stiamo trovando bene. Anche se devo ammettere che comunque ci vediamo meno di quello che pensavo, tra il mio lavoro e il suo”.

“Non ti preoccupare, ad agosto andiamo in vacanza e potrete vedervi quanto volete”.

Karen e Sirius stavano ormai insieme da cinque anni e da un paio di mesi erano andati a convivere nell’appartamento che il mago si era comprato poco dopo che Lily e James avevano annunciato la seconda gravidanza. 

Tuttavia erano molto lontani dal pensiero di sposarsi o avere dei figli e probabilmente, conoscendoli, non ci avrebbero mai pensato. Non erano quel tipo di coppia.

Ma Karen avrebbe ringraziato mille volte per quanto Sirius le avesse fatto del bene, soprattutto nell’aiutarla a gestire il rapporto col padre. Non che lo avesse davvero perdonato o altro, non sapeva ancora come sentirsi riguardo a quello, tuttavia ogni tanto si scrivevano e uscivano a cena per parlare solo di cose insignificanti. Quando poi Marcus aveva conosciuto Sirius - Karen li aveva presentati solo per un senso di dovere - e questi aveva iniziato a farle una predica sul fatto che avessero troppi anni di differenza, lei gli aveva detto senza troppe sottigliezze di starsene zitto sulla questione perché non aveva alcun diritto di farle la lezioncina, viste anche le sue dubbie scelte riguardo la famiglia.

Aveva deciso di riavvicinarsi principalmente perché voleva conoscere i suoi fratellastri - due maschietti ormai adolescenti che era riuscita a influenzare coi suoi gusti musicali - ma con la nuova moglie del padre non faceva nemmeno lo sforzo. Non che avesse qualcosa contro di lei personalmente, semplicemente non le interessava conoscerla.

Ogni tanto le capitava ancora di piangere per suo fratello e allora Sirius la accoglieva tra le proprie braccia e la cullava lasciandola sfogare. E Karen faceva lo stesso per Sirius, quando ancora i ricordi di Azkaban o della guerra riemergevano, specialmente negli incubi. Insomma, si ancoravano l’uno all’altro.

“Questo mese torna anche Ginny?” chiese Karen all’amico.

“Sì”.

“E le chiederai di sposarti?”

Harry sorrise tra sé e sé. “Quella è l’idea”.

Harry aveva comprato l’anello per Ginny già alcuni mesi prima, ma lo aveva confessato solo a Karen e le aveva fatto promettere di non dire nulla. Nemmeno Ron o i suoi genitori lo sapevano e il ragazzo non aveva intenzione di dire nulla fino alla proposta. Sperava solo che Ginny accettasse.

“Comunque vi invidio, a saper gestire così una relazione a distanza”.

Harry scrollò le spalle. “Abbiamo sempre entrambi un sacco da fare quindi non ci pensiamo tanto. E poi, so che lei è contenta con le Holyhead Arpies, quindi va bene così”.

Karen spense la sigaretta e scese dal tavolo con un colpo di reni. 

In quel momento la porta di ingresso si aprì e James, Lily e Sirius fecero il loro ingresso.

A Karen si illuminarono subito gli occhi non appena vide il fidanzato.

Sirius le diede un bacio sedendosi su uno dei trespoli al bancone.

“Com’è andata?”

“Stancante”.

“Birra?” chiese Harry guardando i tre nuovi arrivati.

“Ci sta”.

Harry riempì tre pinte di birra e, appena finirono di schiumare, le smaterializzò con uno schiocco di dita verso i genitori e il padrino seduti poco lontani. Ormai aveva imparato a maneggiare la magia senza bacchetta con una maestria incredibile, era persino capace di schiantare qualcuno. Tuttavia non girava mai senza la sua bacchetta. Hermione gli diceva sempre che con i suoi poteri era sprecato a lavorare in un locale, ma a Harry quel lavoro piaceva sempre di più e ormai non gli risultava nemmeno più difficile avere a che fare con la gente. A volte approfittava persino della sua fama e delle occhiatine che gli lanciavano le persone, soprattutto le ragazze che a volte venivano lì e si sedevano a un tavolo da cui meglio riuscivano ad ammirarlo. 

Lydia si avvicinò a passo silenzioso verso i genitori e James la prese subito in braccio facendola accomodare sulle proprie gambe. 

“Che hai combinato tu oggi, Frittella?” le chiese guardandola con dolcezza.

“Ho fatto un disegno per Harry”, rispose la bambina circondando il collo del padre con le braccine magroline e solleticando il viso dell’uomo con i capelli un po’ elettrici. I capelli erano decisamente una firma dei Potter. 

“Sì, ed è un disegno bellissimo”, rispose il ragazzo guardando la sorellina con gli occhi a cuoricino. Harry era decisamente perso per quella bambina. Spesso e volentieri si comportava con lei come un padre più che come fratello.

“Prima o poi verremo sommersi dai tuoi disegni, Lydia”, disse Lily ridendo e spostando i capelli dalla fronte della figlia. La loro casa era piena delle sue opere d’arte, la cucina e persino la stanza di Harry che non mancava mai di appendere un disegno della sorellina alla parete della propria camera da letto; quando era nata lui sembrava quasi più emozionato dei genitori. Anche il nome lo aveva scelto lui. Che la adorasse era indubbio.

La bimba ignorò il commento della madre perché i suoi occhi erano attratti da qualcosa all’ingresso del locale.

“Teddy!” sentirono esclamare da Lydia e tutti i presenti si girarono verso Remus appena arrivato insieme al figlio.

“Ehi, Remmie!” lo salutò Sirius. 

Teddy e Lydia si corsero incontro e sparirono da qualche parte verso il fondo del locale. 

Era il momento di tenere d’occhio i due bambini perché avrebbero potuto tranquillamente combinare qualche disastro. E per fortuna ancora non padroneggiavano una bacchetta.

Remus raggiunse gli amici al bancone.

“Una birra anche per lei, prof.?” gli chiese Karen in tono squillante. Naturalmente Lupin non pretendeva che lo chiamasse ancora prof e gli desse del lei, ma Karen si divertiva così qualche volta.

“Volentieri. Ma devo tornare a casa presto altrimenti Dora mi affattura sul serio stavolta”.

“Ah Lunastorta, anche tu vittima innocente delle ingiustizie delle mogli?” lo prese in giro James afferrando la sua birra.

“Ti ricorderemo con affetto, Remmie, quando Tonks ti costringerà ad accompagnarla a fare shopping”, aggiunse Sirius. 

“Per fortuna a Dora non piace fare shopping”.

“Quello sarà problema tuo, Felpato, temo”, disse di nuovo James.

“Ehi!” esclamò Karen a quel punto, girandosi verso i tre uomini perché sentita chiamata in causa. “Io non costringo nessuno a fare shopping. Ci vado da sola”. 

All’improvviso sentirono Harry tossire; il ragazzo stava quasi per strozzarsi con la propria birra mentre cercava di trattenere le risate.

“Ecco, è la tua punizione per aver sghignazzato”, gli disse Karen. 

“Scusa”, bofonchiò il ragazzo alzando gli occhi al cielo.

“Dai, vai a lavorare che siamo indietro con tutto quello che c’è da fare”, aggiunse poi l’amica.

“A che ora è il concerto?” chiese Sirius.

“Alle nove”, gli rispose la ragazza. 

“Allora ci vediamo stasera”.

“Quindi vieni?”

“Se non muoio di stanchezza”.

I due fidanzati si salutarono con un bacio frettoloso e Sirius lasciò il locale smaterializzandosi appena fuori. 

Poi fu il turno anche degli altri tre che, non appena recuperarono i bambini, augurarono buon lavoro ai ragazzi promettendo che sarebbero passati a una qualche ora della serata. Se i bambini li avessero lasciati ovviamente.

Karen richiuse la porta del locale dietro di loro, ringraziando mentalmente Merlino di non avere figli, e alzando il volume della musica. 

Il Malandrino si doveva preparare per una serata epica. 

 

***

 

Ebbene sì, questo è il finale. È sempre un dispiacere concludere una storia, è un po’ come vedere un figlio che hai cresciuto a fatica prendere in mano da solo le redini della propria vita, ma dall’altro lato sono anche contenta perché ho portato a termine una cosa e questo tipo di traguardi, portare a termine le cose, sono importanti nella vita. Inoltre, la conclusione di questa fanfic mi permette di iniziarne una nuova. Eh si, perché ho assolutamente intenzione di tenere vivo questo account con le storie (principalmente di Harry Potter), ho già una fanfic pronta e non vedo l’ora di farvela leggere. A mio dire è ancora più bella di questa. 

Quindi non siate troppo tristi. L’unica cosa che non so è la data di pubblicazione; non penso sarà la prossima settimana, probabilmente quella dopo quindi tenete d’occhio il mio account.

 

Ci tengo molto a ringraziare le persone che mi hanno seguita fino a qui, sia i lettori silenziosi che hanno messo questa storia tra le preferite, le seguite e le ricordate (siete davvero tantissimi), e soprattutto ringrazio chi mi ha dedicato un po’ del suo tempo lasciandomi le recensioni. In particolar modo ringrazio Nag_95 che mi ha commentato ogni capitolo quasi dall’inizio alla fine. Spero di risentirti anche nelle mie prossime storie, ormai per me sei come un amico di penna :) 

Sappiate che i vostri commenti, le vostre opinioni sono ciò che tengono alto l’umore di un autore e la sua voglia di scrivere. Certo, io principalmente scrivo per me stessa, ma che senso ha scrivere su carta qualcosa se poi non lo legge nessuno? 

È stato un piacere viaggiare con voi. 

 

Un bacione e arrivederci. 

Cactus.

 

 

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