Gradazioni di paura

di Lau33
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gelido cremisi ***
Capitolo 2: *** Oro bordeaux ***
Capitolo 3: *** Rimpianto scarlatto ***



Capitolo 1
*** Gelido cremisi ***


GELIDO CREMISI




 

È una sera come tutte le altre. Normale, ordinaria. Non che in realtà lo sia per una qualunque famiglia; è solo una delle nostre solite sere.

I piatti infranti sulle piastrelle incrinate della cucina, le bottiglie ormai non più colme di quel liquido vermiglio tanto amato da lui, quanto odiato da me ed Anna. La porta ancora spalancata e percossa violentemente dal vento. 

Ed io, sola.

Dondolo sulla solita sedia in legno, stringendo le fedeli perle del rosario, naufragando nella loro trasparenza. 

 

Dio Padre, stai vicino a Maurizio, Anna e me in questo momento di grande sofferenza. Santa Maria, unisci la nostra famiglia frammentata e rotta a causa del peccato. Cristo Signore, non abbandonarmi, almeno tu, in questa triste notte.

 

Il mio sguardo, forse in cerca di distrazioni, si posa sull’imponente specchio alla mia sinistra, che sovrasta la credenza, incontrando la figura ovattata di una donna di mezza età, con un lucente maglione rosso. E sulla credenza, ritrovano la stessa immagine, solo di dimensioni più ridotte, circondata da una cornice graffiata e apparentemente protetta dietro un vetro in frantumi. L’espressione della donna in foto, è così diversa da quella nello specchio. Poco più di una decina d’anni le separa; solo qualche anno di dolore in più, qualche anno di paura in più. 

Com’ero diversa, com’era diversa la nostra famiglia in quella foto. 

Anna sulle spalle di Maurizio, mentre tenta di aggrapparsi a quel mio maglione che la attirava tanto, perché aveva il colore del fuoco, del sole che brucia. E lui che abbraccia me. Abbraccia me.

È irreale vederlo vicino al collo di una donna e non a quello di una bottiglia. 

Riesco ancora a ricordare sulla pelle il suo tocco, quello delle carezze, quello di cui ero innamorata, e non l’impeto violento dei suoi palmi, delle sue nocche, delle sue suole scabre.

Sembra così anormale non notare lividi sulla mia pelle in quella foto. Com’è cambiata la nostra vita. Svelo delicatamente il polso e l’avambraccio, sollevando la  manica lievemente infeltrita e rivelando macchie bluastre, nate giorni o settimane addietro. O forse, proprio questa sera. 

Quante volte ci ho pensato? Quante volte mi sono riproposta di farla finita, di mollare tutto, scappare via con Anna e lasciare una volta per tutte quella vita, che tale non si può definire. Quante volte mi sono riproposta di divorziare da quell’uomo che non era in grado di fare nulla, se non del male. Quante volte ho guardato negli occhi della mia bambina, terrorizzata dalla nostra stessa famiglia, e mi sono sembrati occhi di un’adulta, che aveva già vissuto e patito eccessivo dolore.

Quante volte ho pensato di infrangere quegli ideali cristiani di famiglia, amore e rispetto a cui mi sono sempre aggrappata?

E quante volte sono fuggita, pavidamente, da una decisione definitiva. Quante innumerevoli volte ho pensato nella mia testa ‘Maurizio, io voglio divorziare e quelle parole sono rimaste mute, mentre sentivo nell’addome dolori lancinanti e i suoi maledetti occhi, freddi, furenti, si riflettevano nei miei come se stesse per uccidermi.

Come se lo volesse.

Quante notti come questa ho vissuto, notti trascorse a ripensare agli errori del passato e a quella paura che mi affligge ancora adesso. 

La paura di cambiare.

Cambiare vita, distruggere tutto quello che ho costruito in vent’anni di matrimonio, trasgredire quel credo a cui mi affido ciecamente. Ho paura di quello che potrebbe succedere ad Anna, a me ed anche a lui. Perché in fondo non riesco a togliermi dalla testa che una piccola parte di Maurizio è ancora quella di sempre, quella affettuosa, romantica e gentile che mi aveva fatto credere nell’amore. Non riesco ad accettare il fatto che una persona possa cambiare così tanto. Non riesco ad accettare il fatto che mio marito possa essere divenuto un etilista, aggressivo e violento, più simile a una bestia, che a un uomo. Perché lo ha fatto?

Non lo riesco a credere.

Mi sono chiesta spesso cosa potesse significare tutto questo, perché Dio abbia scelto un simile destino per noi; per me. Mi sono chiesta se fosse una prova, un’afflizione da superare per dimostrare la mia devozione. Mi sono chiesta quale decisione dovessi prendere, ma ripensandoci continuamente capii che non ero in grado di prenderne nessuna. 

Non sono abbastanza coraggiosa per cancellare i miei ideali e tradire Dio, anteponendo il divorzio e la felicità individuale alla fede. Ma non sono nemmeno abbastanza buona per donare a Maurizio il perdono.

Semplicemente, non scelsi. E successivamente capii che era troppo tardi per scegliere.

La responsabilità di avere nelle mie mani la nostra vita è troppo grande da sopportare, così come il peso gravante di quel dolore. La paura di sbagliare e non poter più tornare indietro. 

Quale più misera esistenza?

Non essere nemmeno in grado di difendersi e continuare a subire, subire, subire. È insopportabile e insuperabile per me. Non riesco a non pensare che mi devo rivolgere a Dio, che se ha voluto questo per me lo devo accettare e mi devo fidare di Lui. Io mi fido di Lui. Mi fido da troppi anni.

 

Striscio stancamente i piedi verso la cucina, camminando lenta, lenta, ripiegandomi su me stessa, come se fossi schiacciata da qualcosa più grande di me. E mi ritrovo sul pavimento, tra i cocci di vetri distrutti e di tre vite infrante. Le mie dita tumefatte si feriscono e vedo la stessa tinta del maglione sgorgare da esse. Un rosso che contiene una sfumatura blu. Soffocante cremisi.

Raccolgo i frammenti di vetro e asciugo il vino sul pavimento. Cremisi.

Descriverei la paura proprio con questo colore. La paura è qualcosa di freddo, che mette i brividi, che ti raggela. Ma anche qualcosa di caldo, furente, che non riesci a distinguere dal fuoco infernale. Credo sia questo il vero peccato. Il mio peccato.

La paura è qualcosa che ti avvolge, ti stringe e ti soffoca in una stretta mortale, senza lasciare alla tua flebile anima una via di fuga, senza lasciarti nemmeno intravedere un’alternativa alla sua morsa opprimente. E Dio solo sa quanto è doloroso questo stesso gelido fuoco.

E toccando quel liquido, sento sulla pelle quelle fiamme ardenti. Le sento divorarmi, come quando lui spalanca la porta di casa con la cassa di vino sotto un braccio, e avanza ondeggiando verso di me, serrando i pugni.

Gli schiaffi, i calci, ripetuti giorno dopo giorno. La nostra quotidianità, se così si può chiamare. Pugni, graffi.

 

Anna una volta mi chiese, urlando, tra le lacrime ‘Perché continui a subire?’.

Le sorrisi, ‘Gesù porse l’altra guancia’.

Non credo abbia mai accettato questo insegnamento. E nemmeno io, in fondo.

Come non credo di essere una buona cristiana, poiché la mia mente è pervasa da dubbi più che da certezze. Eppure quanto vorrei che non fosse così, che vivessi nell’imperturbabile felicità di cui parlavano gli antichi, che perseguissi l’atarassia del sapiente senza lasciarmi travolgere da incertezze e timori. Ma non è così.

Porsi la prima guancia e poi l’altra. Ma sappiamo tutti di non avere infinite guance.

Ma infinite paure.

 

Ripenso a quella fotografia, alla rappresentazione della nostra vita famigliare, incrinata, ma ancora intatta, dopotutto. Dopo tutto.

Pensavo che non sarebbe mai cambiata quella fotografia, perché è solo un oggetto, qualcosa di inanimato. Eppure anche le foto cambiano. Se dapprima raffigurava solo il tipico quadretto idilliaco della nostra famiglia perfetta, priva di difetti e contraddizioni, ora è divenuta l’effimero ricordo di essa e in noi, guardandola, è nata la consapevolezza che nulla potrà essere recuperato. Che non è nulla se non una semplice foto. 

Non è cambiata la foto, ma il nostro modo di vederla.

 

Le cose cambiano, Rachele.

 

Me lo ripeto sempre; tuttavia, ciò che non cambia è la mia codardia.

Nemmeno questa sera sono riuscita a trattenerla qui, a non farla fuggire tra i sibili di vento gelidi della notte, a non farla scomparire nel buio. Anche stasera non sono stata in grado di fermare Anna.

La mia piccola Anna. Anche lei è cambiata.

Raggelo pensando alla sua metamorfosi da dolce bambina, gentile e scherzosa, a ragazza irruente, astiosa che aspetta solo il compimento dei diciotto anni, il prossimo mese, per fuggire da qui. Anna è tanto stanca di tutto questo.

Sento nella mia mente le urla squarcianti che si sono rivolti questa stessa sera, in una lite senza fine. Maurizio aveva quasi finito per infrangere il vetro contro di lei, mentre Anna lo prendeva per il collo della camicia, madida di vino. Poi Maurizio se n’era andato, forse con la sua auto, in compagnia di altro vino, e in cerca di altro vino ancora. E Anna sarebbe scappata di lì a poco, dopo avermi rivolto accuse ostili che mi sento ripetere da anni. Anche io sono stanca.

Ma non posso fare a meno di chiedermi dove siano andati e quando torneranno a casa. 

 

'Sai, mamma, vorrei che ci fosse un modo per chiedere al tuo Dio di cambiare questa vita di merda.'

 

L’ultima frase prima che se ne andasse. Anche io vorrei che ci fosse, Anna. Mi dispiace.

L’istinto mi dice di andare a cercarla, non mi piace litigare con lei. È l’unica gioia che mi rimane e non posso perderla. Dove sei?


 

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Capitolo 2
*** Oro bordeaux ***


ORO BORDEAUX




 

Non ricordo più dove mi sto dirigendo, forse verso il bar o la locanda. È notte?

Nelle mie mani sento il volante, lo sto stringendo; credo di stare guidando, ma non riesco a distinguere la linea di mezzeria dalla bianca luna. Com’è candida la luna, stanotte, come in quella poesia di Leopardi.

Ma devo stare attento, sto guidando. Forse mi dovrei fermare.

Penso di aver già sentito questa frase. Forse mi dovrei fermare.

Forse dovrei smetterla di fare questa vita, di sprecare la mia precaria esistenza nell’alcool. Quante volte me l’ero ripetuto, quante lo avevano urlato loro.

Se solo non fosse così confortante.

Mi trovo davanti alla solita locanda, la mia unica casa ormai. Con un corpo morto che non riesco più a sentire, mi butto sulla sedia in legno davanti al bancone e le parole vino, vino mi escono dalle labbra, solo apparentemente serrate.

«Mauri, ormai non ti aspettavo più. È quasi l’una.» penso sia Nick, davanti a me. All’incirca. La sua figura è confusa, come ogni altro pensiero nella mia testa.

Finalmente arriva, in un bicchiere di vetro trasparente, fine, così differente dal mio aspetto trasandato. Le mani subito si lanciano a capofitto per aggrapparsi a quel vetro cristallino, e la bocca ingurgita quel liquido, senza lasciar passare aria. Perché è questa la mia aria adesso.

Il bicchiere si riempie di altro oro rosso scuro. Il vino. Bordeaux*, appunto, meravigliosa illusione in una vita di fallimenti. Un colore elegante, nobile; violento come il rosso, freddo come il viola.

Quando avevo iniziato? Forse sei o sette anni fa, non ricordo. Non ricordo quasi nulla, a dire il vero. Se non il motivo per cui cominciai e la sensazione inebriante della prima volta.

Non sempre le persone sono abbastanza forti da affrontare a mani nude i mostri della vita; io non sono una di quelle. 

Ho perso mia madre, il lavoro e poi tutto il resto. Avevo paura. Avevo bisogno di qualcosa che mi desse la forza di vivere, quel poco che bastava per non suicidarsi. Ma non era mai abbastanza.

I singoli bicchieri diventarono bottiglie, le bottiglie casse intere. Non ero mai sazio di quel prezioso aiuto bordeaux, che era capace come nessun altro di farmi sentire in un mondo differente, ovattato, cullato dalla leggerezza dell’ebbrezza, invece di essere devastato da sofferenze e ingiustizie.

Ho perso mia madre, il lavoro e poi tutto il resto. Avevo bisogno di qualcosa per non pensare al mio dolore e al mio essere patetico. Il vino sembrava cancellare tutti i vorticosi pensieri. Sembrava dissimulare la mia paura nei confronti della vita, congelandola con le sue sfumature blu, per poi incendiarla con il suo rosso.

 

Ma anche quello, dopo alcuni anni, sembrava sfuggire dal mio controllo. Così come tutta la mia vita. La violenza iniziò ad impossessarsi di me, le mani si muovevano più velocemente dei pensieri e non riuscivo a fermarle. O forse non volevo.

Iniziai a provare un sentimento simile all’astio verso Rachele, che credeva tanto nel suo Dio e aiutava più i parrocchiani che me. Quell’astio si tramutò in odio, furente ed aggressivo, non mi trattenni più. Iniziai a usarla come sfogo. Mi chiesi perché non fosse morta lei, invece di mia madre. Poi l’odio diventò qualcosa di più simile all’indifferenza. Come se tutti quei comportamenti, quegli sfoghi, fossero ormai entrati a far parte dell’abitudine, della normalità. Come se non mi importasse più nulla di lei.

Non so descrivere la sensazione che provo quando mi accanisco su di lei… So solo che è in qualche modo appagante. Forse perché testimonia realmente che sono in grado di fare qualcosa. Qualcosa di giusto, perché è lei ad aver sbagliato.

Ma anche questo non è abbastanza per me. Posso percuoterla quanto voglio, ma non riporterà indietro mia madre, né la mia dignità. E tutta questa spirale genera altro odio, altra aggressività, altra violenza.

Tutto ciò che rimane è il mio alcool. Non mi importa nemmeno più di mia figlia, che un tempo amavo così tanto. Nemmeno lei è stata in grado di aiutarmi, considerandomi come se fossi io il colpevole. Non mi importa?

 

Mamma che cosa dovrei fare? Ma chi sta sbagliando? Dove sono…?

La testa è più confusa del solito, sento un forte dolore in mezzo alla fronte, penetrante. Cosa succede?

Faccio inavvertitamente cadere il bicchiere ancora colmo, urtandolo con il gomito, mentre mi sto alzando dalla sedia. Non mi importa che sia caduto. Non mi importa?

Barcollo verso la macchina, incurante delle urla di Nick che mi richiamano dentro il locale. 

 

Non permettere tutto questo. Non hai perso tutto.

 

Quelle parole risuonano nella mia mente con la voce di mia madre. Non l’avevo più sentita dal giorno della sua morte. Mai mi era apparsa in sogno. Perché adesso?

Metto in moto e con quello che sembra il mio piede spingo più forse che posso, per andare più veloce, più veloce. Come lei.

Forse non è ancora tutto perduto, vero mamma? Ho ancora lei. Io non voglio che Anna mi odi. Nella fotografia nel nostro salotto, sembravamo così felici di stare insieme. Sembrava così felice, non mi odiava ancora. Ora invece non fa altro che accanirsi contro di me, eppure non posso togliermi dalla testa che non se n’è ancora andata. 

Mamma, non ho perso tutto.



 

 


*Il nome bordeaux deriva dall’omonimo vino francese.

 

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Capitolo 3
*** Rimpianto scarlatto ***



RIMPIANTO SCARLATTO




 

Infilo il casco e sollevo il cavalletto. Ancora una volta avevo sentito il bisogno di andarmene da lei. Da quella casa, che non faceva altro che ricordarmi anni di violenze e atrocità.

Tutto iniziò sette anni fa, quando avevo solamente dieci anni. Ero una bambina, e vedevo ogni giorno mio padre tornare a casa con uno strano colorito in volto, ondeggiando come se avesse avuto il mal di mare. Non sapevo nemmeno cosa fosse l’alcool. Ma imparai presto a riconoscerlo.

L’alcool è la scintilla che fa scatenare un incendio dirompente, che travolge inconsapevolmente le vite di chi lo assume e di chi gli sta vicino. Mio padre iniziò a bere, e poco dopo iniziarono le violenze su mia madre. Non dimenticherò mai le sue urla stridenti che l’accusavano di essere la causa delle sue sofferenze, che le intimavano di stare zitta o altrimenti…

O altrimenti? Nonostante stesse zitta, la picchiava comunque, e continua tuttora. E col tempo la sua figura diventava sempre più incomparabile con quella che la me bambina aveva sempre avuto nella testa. Una persona completamente diversa. Se all’inizio cercai di scacciare il pensiero di avere un padre alcolizzato, rinchiudendomi nella mia stanza e rifugiandomi nell’angolo più sicuro e protetto della casa, sperando che tutto ciò non fosse vero, col tempo non riuscii più a dissimulare la consapevolezza che non avrei mai potuto crescere con un padre su cui contare.

Che non avrei mai potuto avere un padre.

 

Quante volte ho cercato di fermarlo, ma le mie braccia deboli non reggevano il confronto con le sue. Quante volte l’ho pregato di smettere, ma sembrava avere il vino perfino nelle orecchie. Quante volte ho cercato aiuto, ma lui mi fermava prima che potessi farlo; ed era meglio non protestare.

Crescendo, diventai insofferente verso questa situazione. Non riuscii più a sopportarlo: nella mia mente continuavo a vedere l’immagine dei suoi pugni nell’addome di mia madre. Continuavo a vedere quel sangue scarlatto macchiare il pavimento.

Non cercai più di fermarlo.

Ho paura. Semplicemente, questo. Ho paura di lui, di come possa evolvere la situazione, di cosa possa fare a me e a mia madre, arrivato al limite. Ho paura di diventare come lui. Ho paura di ammettere ad altri e a me stessa che il mio vero padre, colui che avrebbe dovuto crescermi con tutto l’amore che un genitore può dare, è in realtà ciò che mi sta rovinando la vita.

E come me, anche mia madre ha paura, non solo di lui e delle sue azioni violente, dei suoi impulsi nervosi, dei suoi scatti di rabbia, ma anche di ciò che saremmo potuti diventare. Trasgredendo i suoi idolatrati ideali cristiani di famiglia perfetta, di amore, di rispetto. Mi sento immensamente diversa da lei, ma forse siamo uguali. Lei ha paura di infrangere quelle sue sacre leggi a cui si aggrappa come fossero verità universali. Io ho paura di dire a me stessa la verità, ho paura di accettare la realtà.

Abbiamo entrambe paura di quanto la nostra vita possa cambiare.

 

E come lei ha la sua fede in quel Dio, io ho la mia moto, per scappare da questo dolore. Sentire il rombo del motore quando accelero o lo stridere dei freni quando rallento. Amo tutto di lei.

In una di queste sere, salire sulla sua sella è indispensabile per me. Devo fuggire da questa vita, in qualche modo. Un po’ come fa anche lui…

Tutti scappiamo da qualcosa. Ognuno ha i propri peccati.

Sento il vento macchiarmi di velocità, di quell’unica colpa che non riesco ad espiare, di quell’unica certezza che mi rende, agli occhi di un qualsiasi altro essere umano, viva. Attraverso lo spesso vetro della visiera vedo la candida luna che si riflette sull’asfalto; la luna sembra così lontana da questa vita.

Ripenso a ciò che ho detto a mia madre. A quanto avrei voluto un’altra vita e a quante volte mi sono chiesta perché non potessi averla. Perché dovessi seguire quel Dio di mia madre, che tanto dolore aveva previsto per me nella vita. Con la mia moto mi sembra di sfuggire a quel suo volere onnipotente, con la velocità mi sembra di vivere secondo le mie regole. In libertà.

 

Ho deciso di fuggire da Dio, ma non mi sono mai chiesta quale dei due sia più veloce. Forse è davvero più veloce di me.

 

Non faccio in tempo a sterzare, la macchina che mi viene incontro viaggia a una velocità pericolosamente alta; non faccio in tempo a frenare, la macchina che mi viene incontro ondeggia, come mio padre quando torna a casa. Ondeggia come lui, proprio perché c’è lui dietro al volante. E non si è accorto di me, né della doppia linea continua dipinta sull’asfalto.

 

L’esplosione percuote il silenzio della notte e infrange il suo buio infuocandolo di rosso. Scarlatto, il colore delle fiamme vive.

 

Mi chiesi se Dio avesse deciso tutto questo per noi. Mi chiesi perché. Ma Dio non rispose alle mie domande, forse perché non c’erano risposte.

 

Credo di aver perso conoscenza per qualche minuto, mi risveglio in una nube di fumo, con la vista annebbiata. Non credo di aver mai sentito un dolore così forte. Cerco di trattenere il respiro, che sembra infilzare il mio addome come una lancia. Cerco di non pensare al fatto che non ho sensibilità nelle gambe e che avverto un dolore lancinante alla testa. 

Solo ora sento l’acuta sirena dell’ambulanza rimbombarmi nelle orecchie e percepisco le mie mani strette in due morse. Sono i miei genitori.

I miei genitori mi stanno stringendo le mani, sono uno accanto all’altro, vicini, senza grida o aggressioni. Stanno piangendo.

 

Vorrei chiedere a mia madre se il suo Dio mi potesse salvare, ma non lo faccio. Dalle sue mani congiunte, capisco che lo aveva già chiesto lei; dai suoi occhi pieni di lacrime, capisco che nemmeno a lei era stata data risposta. Sto morendo.

 

Alzando gli occhi, pesanti come macigni, mi resi conto che, anche quella notte, mia madre indossava quel maglione. Quel maglione rosso che aveva nella fotografia di dodici anni fa. Il maglione sanguigno, come ciò che sgorga dal mio addome come un fiume in piena. Un rosso scarlatto. Come l’amara nostalgia che provo perdendomi tra i fili di lana. Il suo maglione, quello a cui mi aggrappavo da bambina come fosse un appiglio ed io una scalatrice. Come fosse una sicurezza su cui arrampicarmi. Un vecchio maglione, ricucito innumerevoli volte da mia madre dopo essere stato strappato nelle lotte quotidiane, ma che ogni volta acquistava più fascino, forse perché, proprio come si crede in Giappone, un oggetto rotto ha più valore di uno integro. In Giappone, le fenditure dei vasi infranti si impreziosiscono con l’oro.*

Ammirai la bellezza di quel maglione pieno di crepe, come la nostra famiglia. Mi resi conto di non aver mai provato a ricucirle, di non aver mai provato a vedere dell’oro in quel dolore. Non abbiamo mai provato a vedere il dolore degli altri. Le paure degli altri.

Anche mio padre ha paura, anche mia madre ha paura, anche io ho paura. Perché non ci siamo mai aiutati?

 

«A-abbiate il coraggio di affrontare la paura.»

 

La mia mano si avvicina febbrilmente a quella manica rossa che ora è così difficile distinguere dal resto. Sento l’intreccio della lana carezzarmi i polpastrelli. E tiro con tutta la forza che mi rimane, come se fosse il mio ultimo compito. Credo lo sarà. Tiro un filo di lana dalla manica del maglione di mia madre, come fosse una corda spessa. È un movimento quasi istintivo. Ho bisogno di quel filo. Ho bisogno di un pezzo di infanzia, di forza e di spensieratezza da portare con me, ho bisogno di un ultimo appiglio prima di arrampicarmi sulla grande montagna dell’oblio. Ho bisogno di aiuto per affrontare la grande paura.

Mia madre e mio padre mi stringono la mano, io stringo quel filo.

Mi aggrappo a quel rimpianto di vita non vissuta e di dolore mai affrontato, per non ripetere questo errore. Spero che i miei genitori l’abbiano capito, e che il nuovo grande dolore della mia morte dia loro la forza per superare il precedente. Sento le urla di mia madre nelle orecchie e le lacrime di mio padre sulla pelle. Sto morendo.

Ma questa volta non è una fuga pavida, ma coraggiosa. Sorrido. 

Finalmente ho trovato quella forza di cui avevo bisogno. Sono pronta ad affrontare la paura.

Immaginavo che la grande fuga avesse un sapore diverso, acre o amaro. Invece, è immensamente dolce.

 

 

 


*Kintsugi: l’arte di riempire con l’oro le crepe degli oggetti in frantumi.

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