GELIDO CREMISI
È una sera come tutte le altre. Normale, ordinaria. Non che in realtà lo sia per una qualunque famiglia; è solo una delle nostre solite sere.
I piatti infranti sulle piastrelle incrinate della cucina, le bottiglie ormai non più colme di quel liquido vermiglio tanto amato da lui, quanto odiato da me ed Anna. La porta ancora spalancata e percossa violentemente dal vento.
Ed io, sola.
Dondolo sulla solita sedia in legno, stringendo le fedeli perle del rosario, naufragando nella loro trasparenza.
Dio Padre, stai vicino a Maurizio, Anna e me in questo momento di grande sofferenza. Santa Maria, unisci la nostra famiglia frammentata e rotta a causa del peccato. Cristo Signore, non abbandonarmi, almeno tu, in questa triste notte.
Il mio sguardo, forse in cerca di distrazioni, si posa sull’imponente specchio alla mia sinistra, che sovrasta la credenza, incontrando la figura ovattata di una donna di mezza età, con un lucente maglione rosso. E sulla credenza, ritrovano la stessa immagine, solo di dimensioni più ridotte, circondata da una cornice graffiata e apparentemente protetta dietro un vetro in frantumi. L’espressione della donna in foto, è così diversa da quella nello specchio. Poco più di una decina d’anni le separa; solo qualche anno di dolore in più, qualche anno di paura in più.
Com’ero diversa, com’era diversa la nostra famiglia in quella foto.
Anna sulle spalle di Maurizio, mentre tenta di aggrapparsi a quel mio maglione che la attirava tanto, perché aveva il colore del fuoco, del sole che brucia. E lui che abbraccia me. Abbraccia me.
È irreale vederlo vicino al collo di una donna e non a quello di una bottiglia.
Riesco ancora a ricordare sulla pelle il suo tocco, quello delle carezze, quello di cui ero innamorata, e non l’impeto violento dei suoi palmi, delle sue nocche, delle sue suole scabre.
Sembra così anormale non notare lividi sulla mia pelle in quella foto. Com’è cambiata la nostra vita. Svelo delicatamente il polso e l’avambraccio, sollevando la manica lievemente infeltrita e rivelando macchie bluastre, nate giorni o settimane addietro. O forse, proprio questa sera.
Quante volte ci ho pensato? Quante volte mi sono riproposta di farla finita, di mollare tutto, scappare via con Anna e lasciare una volta per tutte quella vita, che tale non si può definire. Quante volte mi sono riproposta di divorziare da quell’uomo che non era in grado di fare nulla, se non del male. Quante volte ho guardato negli occhi della mia bambina, terrorizzata dalla nostra stessa famiglia, e mi sono sembrati occhi di un’adulta, che aveva già vissuto e patito eccessivo dolore.
Quante volte ho pensato di infrangere quegli ideali cristiani di famiglia, amore e rispetto a cui mi sono sempre aggrappata?
E quante volte sono fuggita, pavidamente, da una decisione definitiva. Quante innumerevoli volte ho pensato nella mia testa ‘Maurizio, io voglio divorziare’ e quelle parole sono rimaste mute, mentre sentivo nell’addome dolori lancinanti e i suoi maledetti occhi, freddi, furenti, si riflettevano nei miei come se stesse per uccidermi.
Come se lo volesse.
Quante notti come questa ho vissuto, notti trascorse a ripensare agli errori del passato e a quella paura che mi affligge ancora adesso.
La paura di cambiare.
Cambiare vita, distruggere tutto quello che ho costruito in vent’anni di matrimonio, trasgredire quel credo a cui mi affido ciecamente. Ho paura di quello che potrebbe succedere ad Anna, a me ed anche a lui. Perché in fondo non riesco a togliermi dalla testa che una piccola parte di Maurizio è ancora quella di sempre, quella affettuosa, romantica e gentile che mi aveva fatto credere nell’amore. Non riesco ad accettare il fatto che una persona possa cambiare così tanto. Non riesco ad accettare il fatto che mio marito possa essere divenuto un etilista, aggressivo e violento, più simile a una bestia, che a un uomo. Perché lo ha fatto?
Non lo riesco a credere.
Mi sono chiesta spesso cosa potesse significare tutto questo, perché Dio abbia scelto un simile destino per noi; per me. Mi sono chiesta se fosse una prova, un’afflizione da superare per dimostrare la mia devozione. Mi sono chiesta quale decisione dovessi prendere, ma ripensandoci continuamente capii che non ero in grado di prenderne nessuna.
Non sono abbastanza coraggiosa per cancellare i miei ideali e tradire Dio, anteponendo il divorzio e la felicità individuale alla fede. Ma non sono nemmeno abbastanza buona per donare a Maurizio il perdono.
Semplicemente, non scelsi. E successivamente capii che era troppo tardi per scegliere.
La responsabilità di avere nelle mie mani la nostra vita è troppo grande da sopportare, così come il peso gravante di quel dolore. La paura di sbagliare e non poter più tornare indietro.
Quale più misera esistenza?
Non essere nemmeno in grado di difendersi e continuare a subire, subire, subire. È insopportabile e insuperabile per me. Non riesco a non pensare che mi devo rivolgere a Dio, che se ha voluto questo per me lo devo accettare e mi devo fidare di Lui. Io mi fido di Lui. Mi fido da troppi anni.
Striscio stancamente i piedi verso la cucina, camminando lenta, lenta, ripiegandomi su me stessa, come se fossi schiacciata da qualcosa più grande di me. E mi ritrovo sul pavimento, tra i cocci di vetri distrutti e di tre vite infrante. Le mie dita tumefatte si feriscono e vedo la stessa tinta del maglione sgorgare da esse. Un rosso che contiene una sfumatura blu. Soffocante cremisi.
Raccolgo i frammenti di vetro e asciugo il vino sul pavimento. Cremisi.
Descriverei la paura proprio con questo colore. La paura è qualcosa di freddo, che mette i brividi, che ti raggela. Ma anche qualcosa di caldo, furente, che non riesci a distinguere dal fuoco infernale. Credo sia questo il vero peccato. Il mio peccato.
La paura è qualcosa che ti avvolge, ti stringe e ti soffoca in una stretta mortale, senza lasciare alla tua flebile anima una via di fuga, senza lasciarti nemmeno intravedere un’alternativa alla sua morsa opprimente. E Dio solo sa quanto è doloroso questo stesso gelido fuoco.
E toccando quel liquido, sento sulla pelle quelle fiamme ardenti. Le sento divorarmi, come quando lui spalanca la porta di casa con la cassa di vino sotto un braccio, e avanza ondeggiando verso di me, serrando i pugni.
Gli schiaffi, i calci, ripetuti giorno dopo giorno. La nostra quotidianità, se così si può chiamare. Pugni, graffi.
Anna una volta mi chiese, urlando, tra le lacrime ‘Perché continui a subire?’.
Le sorrisi, ‘Gesù porse l’altra guancia’.
Non credo abbia mai accettato questo insegnamento. E nemmeno io, in fondo.
Come non credo di essere una buona cristiana, poiché la mia mente è pervasa da dubbi più che da certezze. Eppure quanto vorrei che non fosse così, che vivessi nell’imperturbabile felicità di cui parlavano gli antichi, che perseguissi l’atarassia del sapiente senza lasciarmi travolgere da incertezze e timori. Ma non è così.
Porsi la prima guancia e poi l’altra. Ma sappiamo tutti di non avere infinite guance.
Ma infinite paure.
Ripenso a quella fotografia, alla rappresentazione della nostra vita famigliare, incrinata, ma ancora intatta, dopotutto. Dopo tutto.
Pensavo che non sarebbe mai cambiata quella fotografia, perché è solo un oggetto, qualcosa di inanimato. Eppure anche le foto cambiano. Se dapprima raffigurava solo il tipico quadretto idilliaco della nostra famiglia perfetta, priva di difetti e contraddizioni, ora è divenuta l’effimero ricordo di essa e in noi, guardandola, è nata la consapevolezza che nulla potrà essere recuperato. Che non è nulla se non una semplice foto.
Non è cambiata la foto, ma il nostro modo di vederla.
Le cose cambiano, Rachele.
Me lo ripeto sempre; tuttavia, ciò che non cambia è la mia codardia.
Nemmeno questa sera sono riuscita a trattenerla qui, a non farla fuggire tra i sibili di vento gelidi della notte, a non farla scomparire nel buio. Anche stasera non sono stata in grado di fermare Anna.
La mia piccola Anna. Anche lei è cambiata.
Raggelo pensando alla sua metamorfosi da dolce bambina, gentile e scherzosa, a ragazza irruente, astiosa che aspetta solo il compimento dei diciotto anni, il prossimo mese, per fuggire da qui. Anna è tanto stanca di tutto questo.
Sento nella mia mente le urla squarcianti che si sono rivolti questa stessa sera, in una lite senza fine. Maurizio aveva quasi finito per infrangere il vetro contro di lei, mentre Anna lo prendeva per il collo della camicia, madida di vino. Poi Maurizio se n’era andato, forse con la sua auto, in compagnia di altro vino, e in cerca di altro vino ancora. E Anna sarebbe scappata di lì a poco, dopo avermi rivolto accuse ostili che mi sento ripetere da anni. Anche io sono stanca.
Ma non posso fare a meno di chiedermi dove siano andati e quando torneranno a casa.
'Sai, mamma, vorrei che ci fosse un modo per chiedere al tuo Dio di cambiare questa vita di merda.'
L’ultima frase prima che se ne andasse. Anche io vorrei che ci fosse, Anna. Mi dispiace.
L’istinto mi dice di andare a cercarla, non mi piace litigare con lei. È l’unica gioia che mi rimane e non posso perderla. Dove sei?
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