Una stagione all'Inferno (Vägen hem)

di kanagawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 5164,837 miles ***
Capitolo 2: *** 3872,627 miles ***
Capitolo 3: *** 2582,418 miles ***
Capitolo 4: *** 1291,209 miles ***
Capitolo 5: *** Vägen hem - 0 mile ***
Capitolo 6: *** capitolo extra ***



Capitolo 1
*** 5164,837 miles ***


Nota: la "g" si legge "gh" nella trascrizione fonetica dei nomi giapponesi, ci terrei molto a una corretta pronuncia. In secondo luogo, attenzione a frequenti salti temporali, non lasciatevi confondere; la maggior parte dei brani in corsivo sono i pensieri di Maki: più precisamente a 17 anni, a 25 anni e a 37 anni, ma sono della medesima persona, quindi poco cambia. I tagli effettuati lungo la storia danneggiano l'unità di lettura; per ora ci sono 3 capitoli; ah, un'ultima cosa: il rating cambierà nel corso della trama, il rosso non è perciò generalizzato. (Delusi? Sollevati?) Ora mi eclisso, buona lettura!


 



Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo…
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica… La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai; tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla… tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili; e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
 
 
 

Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
 
 


 
Vägen hem - 5164,837 miles


 
"Angelo in esilio, Satana adolescente. 
Una specie di dolcezza splendeva sorridente 
in quegli occhi crudeli azzurro-chiari e su quella bocca 
vigorosa, rossa, dalla piega amara."
[Paul Verlaine, su Arthur Rimbaud]


 
Il venerdì era il giorno peggiore. 
Il lavoro in ufficio si accumulava come muffa sulla scrivania e doveva essere completato per il resoconto del finesettimana, e purtroppo, l’incompetenza dei piani inferiori non si smuoveva di un solo millimetro. Si era già visto entrare lunedì mattina sul piede di guerra a sbraitare contro quei quattro neolaureati svegliati in ritardo nella vita, e il tram tram riprendeva, nella noia assoluta, ancora una volta... Sua moglie aveva pensato bene di darsi al volontariato proprio in quella fatidica striscia di tregua a cavallo tra venerdì e domenica, e dunque, eccoci qua.
La macchina si fermò davanti alla scuola elementare, dove, proprio ora, una marea di zainetti rossi stava fluendo più o meno ordinatamente fuori dal cancello. Il chiasso era considerevole. In mezzo al corteo urlante e genitori travolti, vide una manina bianca che si agitava alla sua direzione, come una bandiera in mezzo al mare. La bambina corse verso la portiera aperta e vi si arrampicò su, senza togliersi lo zaino e tenendosi il broncio sul viso, gli fece. «Sei in ritardo.»
Maria Sora Maki, 9 anni, la fiscalità fatta a bambina. Chissà da chi aveva preso...  Il nome le era stato dato dalla famiglia della moglie, da generazioni, di fervida fede cattolica. Per il resto invece, sembrava in tutto e per tutto giapponese: i capelli corvini e la pelle diafana, che nulla aveva ereditato della sua calda sfumatura.
«Sora, mettiti dietro con tua sorella.» Dopo una mugugnata risposta la vide migrare obbediente al sedile posteriore, dove, seduta sul seggiolino che una volta era stato suo, la sorellina di 5 anni dormiva. Aveva le guance colorate di un tenue rosa, le labbra socchiuse, dipinte di rosso come una bambola di porcellana. Tanto bella quanto delicata, Nagisa, un po’ succube della sorella maggiore. L’aveva portata in piscina quel pomeriggio, per il corso di nuoto al quale l’aveva iscritta la moglie, convinta che le servisse per rafforzare un po’ quel suo carattere così timido e quel fisico minuto... E nonostante le discussioni, l’aveva vinta lei. A lui, invece, piaceva così com’era, Nagisa. La sua fragilità, la sua dolcezza, quello sguardo trasognato e quell’aria effimera... Erano qualcosa di prezioso per lui.
Sora era tutto il suo contrario. Seria e imbronciata, del resto impeccabile, onesta, tanto da non esigere che un paio di capricci alla settimana. La mattina si svegliava da sola e si rifaceva il letto con diligenza, dopodiché andava a svegliare la sorella che dormiva nella stanza accanto. Nagisa faceva tutto ciò che le diceva, e non ribatteva mai, a parte quando scoppiava a piangere per qualche richiesta irragionevole, e puntualmente correva in braccio al padre, facendo indispettire la sorella maggiore. Tutte quelle volte la sgridava e lei, offesa ma senza protestare, se ne andava in camera. Era una sensazione di pelle, appena accennata… Non sapeva da dove nascesse quella sorta di diffidenza nei suoi confronti, per quale motivo sua figlia gli riservasse sempre quell’atteggiamento freddo e controllato, quando avrebbe ragione sì a impuntarsi e frignare come fanno tutte le bambine della sua età; come se tra loro mancasse qualcosa, qualche filo di intesa spezzato che gli era sfuggito... In 9 anni, non si era mai sentito chiamare “papà”; e anche se ci aveva fatto presto abitudine a quel “Shin-chan” detto con incuranza, e non voleva ammetterlo, ma nel suo intimo ci rimaneva ancora male, tutte le volte.  
E forse, una parte di lui, fondamentalmente, sapeva il perché. Lo sapeva da sempre ...
 
Questa, era certamente una punizione.
 
Nel viale privato della villetta, era rimasto seduto con i fanali spenti. Le braccia incrociate sul volante e lo sguardo fisso, fremente nelle tenebre.
Le bambine erano salite in casa, e ora certamente se ne stavano davanti alla tv; immaginava le loro risate e il lieve chiacchiericcio dietro l’ombra del divano... Il pensiero vi ricadde fugacemente, per poi trasmigrare nuovamente dal corpo... Agli ultimi cenni di crepuscolo, volgendovi il filo degli occhi incendiati, Maki sospirò.
Si accese una sigaretta. Era da tanto che non gli capitava di fumare, anzi, aveva smesso tempo fa; prima della nascita delle sue figlie. Eppure ora, ne aveva sentito nuovamente una necessità inappellabile...  Quel pacchetto l’aveva acquistato senza pensarci, anche se in fondo non era stato un gesto così arbitrario.
«Mancano … tre giorni ….» Maki mormorò al buio.
L’aroma sprigionato dal tabacco, tuttavia, non sembrò risollevarlo …
Riversò la testa all’indietro e abbassò le palpebre. Con gli anni era divenuto un pensiero tenue e marginale, tanto che a rievocarlo il suo cuore non faceva più i tuffi nel vuoto del passato... Aveva ormai la stessa valenza di un’abitudine dismessa nel corso del tempo, proprio come il sapore di queste sigarette, un capo non più indossato, le strofe di una canzone amata e scordata nel breve bagliore di un’estate.... Un fatto incerto che aveva forma solo nella sua memoria, tanto da dubitarne l’esistenza stessa.
Eppure in certi suoi sogni, poteva ancora delinearne nei minimi dettagli quel volto... E chissà perché in tutti quei quadri di luce gli si rivolgeva sempre con quella linguaccia da angelo mancato e gli diceva immancabilmente qualche stupidaggine. E poi, sorrideva...
Ogni giorno, ogni notte. Non c’era stato un singolo istante che la sua luce lo avesse lasciato. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora ritrovarlo lì, in quella profonda notte senza sogni dietro le palpebre.... 
La sua croce e il suo peccato più splendente.
 
 
 
 
 
Ero certo che sarebbe andato a finire così.
... Un’altra trama seccante a cui far fronte.

Se si osservano bene certi angoli della città, sulle facciate dei suoi palazzi dopo la pioggia, dietro i relitti assopiti delle automobili in sosta, impresso su quel medesimo asfalto fumante, si avrebbe impressione di trovarvi i segni d’inchiostro tracciati da qualche mano sinistra che tende al di sopra dei nostri destini... In quei momenti, mi viene voglia di accartocciare quell’intera pagina immacolata ancora da scrivere e di gettarlo nel primo cestino che capita sul cammino; cosicché, magari, si possa proseguire da qui in avanti....
 
 
C’era un discreto traffico lungo la provinciale, a causa di un blocco a due kilometri di distanza. Forse, un incidente.
Si era accostato al fianco della stradina per fermarsi al minimarket; dopo due ore di guida da Tokyo, anche se era pomeriggio tardi, le palpebre già non reggevano più il peso della luce. Rinfrescata l’anima, Jin uscì sorseggiando un tè in lattina appena acquistato, la spesa in mano, quando fece un incontro interessante vicino ai distributori automatici appena fuori dal negozio...
Vi aveva lanciato uno sguardo incuriosito, vedendolo spiaccicato sul marciapiede, intento a rovistare sotto le macchinette, con fare nervoso... Non lo riconobbe subito, sebbene, fissando quell’insolita sfumatura di capelli, una nota familiare aveva fatto capolino nella sua memoria... Quando il ragazzo, inquadrando l’indugio di un paio di mocassini davanti al proprio naso, aveva levato lo sguardo, finalmente, Jin realizzò chi fosse.
«... Fujima!»
Il cipiglio di scetticismo e lieve stizza, l’ombra d’interdizione si schiarì lentamente nei suoi occhi. «Sei ... Jin, dico bene?» Si alzò in piedi, sorriso un po’ pallido, spolverandosi i pantaloni. Gli batté leggermente sulla mano aperta, spigliato e energico, stringendogliela. «Non ci si vede da tanto.» Jin sorrise a sua volta. «Quando sei arrivato?»
«Due giorni fa...» Fece Fujima, imbucando nel frattempo le monete recuperate. Schiacciò velocemente i tasti, a seguire, la trafila meccanica e il tonfo del pacchetto che cadeva,  riverberanti nel vicolo stretto. Alla fiocca luce del crepuscolo, Fujima si accese una sigaretta, offrendone al vecchio amico, che declinò con riserbo. «Hai già trovato una sistemazione?» In uno sbuffo di fumo, si passò una mano sui capelli un po’ arruffati. «Vagamente... Mi arrangio per adesso.» -E da quando in qua fumi?-  «E quanto rimani?» Considerò Jin, senza scomporsi. «...Non molto. Devo sistemare un paio di cose, poi riparto...»
«Capisco ...» Sapeva di quell’aria cinerea e indifferente, uno strato di antica alterigia che impolverava ancora la sua persona, seppure, gli era sembrato... Stanco; se così lo si poteva definire, quel rimbombo tombale che gravitava nella sua voce, ora più profonda. Anche quando lo aveva visto allontanarsi, nel blu siderale della sera, di lui, si poté scorgere solo un’ombra sottile e inconsistente, come se provenisse da una terra lontana, aliena...
 
Kenji Fujima ... era tornato in città.
 
 
 
Una ventiquattrore in mano, di volata, finì tutto d’un fiato le dieci rampe di scale. Un frastuono di chiavi lungo il corridoio e si sentì la porta aprirsi.
«Sono tornato.» Vociò in attesa della risposta, mentre si toglieva le scarpe all’ingresso. «Bentornato.» Cigolio leggero, uno spiraglio di sorriso si flesse alla sua direzione, allungandosi dalla scrivania semisepolta da pile di libri e riviste. «Stai ancora lavorando?» Chiese il ragazzo, il passo scattante verso la camera da letto. «Ne ho ancora per molto, vuoi cenare?» Senza staccare gli occhi dallo schermo del portatile, rispose e domandò lei, sentendo replicare. «No, mi cambio e esco.» Pochi secondi, neanche il tempo di concludere la frase che le fu di nuovo davanti, chinandosi, per darle un bacio a stampo, le braccia issate sul bordo del tavolo caotico.
«Non fare tardi, amore.» Premendovi contro una guancia con tenero vigore, Maki ridacchiò sommesso. «Ciao.»
La medesima abituale speditezza, rifece tutti i gradini fino a piano terra; fuori, sul vialetto del condominio, una macchina blu lo attendeva. «Sei in ritardo, dovevi essere qui già dieci minuti fa...» Redarguì puntuale, salendo in vettura. «Uffa, capitano, sempre il solito pignolo... Hai fatto tardi pure tu!» Bofonchiò con un cipiglio offeso, Nobunaga Kyota, mentre veniva invitato senza tante cerimonie a spostarsi sul posto del passeggero. «Io sono un manager a tempo pieno. Andiamo.» Ratificò perentorio il maggiore, cinture allacciate e le mani sul volante.
... Un vecchio imprinting che non era mai mutato nel corso degli anni, a sancire il loro rapporto, come se vi fosse in esso un principio universale e imprescindibile: ancora oggi, ai suoi occhi, Shin’ichi Maki continuava a essere un campione di basket, l’Imbattibile capitano del Kainan che mezza Kanagawa aveva professato di sconfiggere, vanamente... Ancora oggi, vi era il timore nei suoi occhi, mentre si posavano sulla figura del senpai; e in essi, riverberante, una punta della medesima adorazione, che tante volte in adolescenza lo aveva turbato.
 
Maki, di solito, era una persona alla mano, anche se a contraddire questa socievolezza c’era una scheggiatura di formalismo e rigidezza che non ammetteva repliche.
Era una semplice uscita tra vecchi compagni di squadra, ma, naturalmente, i ritardi non erano mai stati tollerabili per lui, ora, come molti anni fa a scuola o negli eventi sportivi.
Jin, per l’occasione, aveva scelto un locale un po’ fuori mano; e quando arrivarono, c’era già un manipolo consistente di presenze accalcate all’ingresso. Nel chiacchiericcio sparpagliato sotto l’insegna luminosa blu neon, scorsero presto le tre classi dell’ex Kainan Univ riunita e qualche riconoscibile aggregato fuori lista. L’atmosfera era rilassata e gradevole, forse, anche per la brezza leggera che sfiorava la notte... Alla vista di due amici intimi, Kyota si era acceso come un razzo, sbracciando allegramente, prima di lanciarsi alla loro direzione. Non era cambiato niente dai tempi del liceo, a quanto pare... I soliti schiamazzi, le solite scenate di idiozie disconnesse, l’esuberanza, che nonostante tutto, ritrovava con nostalgia nei salti felini di Kyota Nobunaga... Il Kainan non sarebbe potuto esistere, senza uno solo di loro. Lo pensò con convinzione, Maki, sorridendo a distanza.
Chissà se Kazuma si sarà liberato dagli impegni stasera... Indugiò brevemente, mentre si avvicinava, l’animo disteso e leggero. Jin stava chiacchierando con qualcuno, e non si era accorto del loro arrivo: negli anni, si può dire che era stato lui il cuore del Kainan, sempre, immancabilmente gentile e discreto. Ma Maki sapeva che Soichiro Jin era molto più di questo... Presto o tardi, se ne doveva prendere le dovute difese.
Perché era stata certamente una sua idea... A ripensarci adesso, gli pareva più che ovvio, ma, sul momento, forse, non aveva avuto modo di elaborarlo a mente fredda, buio totale. Non lo aveva visto, anche se era lì davanti, appoggiato agli stipiti, con un bicchiere in mano. Forse era stato per l’aspetto un po’ trasandato e quella sciarpa kefiah* al collo,  se gli era sfuggito il dettaglio della sua presenza....
«Fujima!»
... Di lì, Maki si sentì sprofondare.
 
Lo sguardo andandosi a posare sulla figura pallida ed esile accanto a Jin, in quel triturare distinto di budella... Lui si volse, sentendosi invocare alle spalle.
E tutto, si fermò per un istante.
Tempo, respiro, voci ... La notte continuò a fluire accanto a loro, sospesa infinitamente su di una corda argentata e vibrante. Dislocati in un universo parallelo, come se due riflettori li puntassero solitari su un palcoscenico, mentre gli sguardi si incontravano nell’interludio di un silenzio assoluto.
Ma non c’erano prose da recitare... Perché presto il sorriso era scomparso dai volti di entrambi, per lasciarvi solamente le tracce di un vuoto livido e interdetto.
 



 
"Caught in the riptide,
 
I was serching for the truth..."


 

Come si conobbero … era una storia sfaccettata di forse qualche secolo fa.
Alcuni dicono che avevano già cognizione l’uno dell’altro fin dall’infanzia, altri invero sostenevano la tesi di una conoscenza molto più recente, avvenuta sui campi di basket... Ma fatto sta che, a Kanagawa, dacché Shin’ichi Maki aveva iniziato a imperversare nelle rappresentazioni sportive, Kenji Fujima gli era sempre stato associato, ineluttabilmente.
C’era forse un qualche legame karmico, a stringerli da sempre in quella morsa di attrazione letale. Fin dall’inizio, era stata la repulsione.... E qualunque cosa facessero, non importa la distanza che li separava o gli obiettivi differenti perseguiti, vi era sempre stata una sorta di sincronia silenziosa nel loro reciproco agire. Di questo, gli occhi estranei solo sapevano rinvenire della tensione inesplicabile che li investiva, ogni qual volta che si trovavano in un’approssimabile vicinanza fisica. 
Da matricola, quando era stato controvoglia al palazzetto per assistere a un incontro preliminare, quella, fu forse la prima volta che lo vide, davvero.
Sapeva che lo Shoyo era una squadra di importante e antica istituzione, una sorta di discendenza regale sanciva le loro gerarchie interne; e il fatto di vedere tra quelle file rigide una figura così agile e così... come dire, precoce, era stata una distrazione inattesa per i suoi occhi, vergati dalla noia.
«Chi è quello?» Chiese alla fila del Kainan Univ riversata dietro di sé, i gomiti tesi sulla balaustra degli spalti semivuoti. «Il numero 13? Si chiama Kenji Fujima...» Il capitano gli sorrise, in piedi accanto a lui. «...Potrebbe essere un tuo avversario in futuro, Maki.» Si voltò lui, un sopracciglio arcuato nell’indifferenza totale, rivenendo poi quel medesimo ghigno sadico dal viso, rispose. «Non vedo l’ora...»
 
... Era tutto così infantile. Lo ero io, lo era il basket. E lo è tuttora, per quegli indugi di parole ingoiate, quei silenzi platonici, e per il senso che non c’era mai stato in tutto quanto... Perché la logica, nel tuo emisfero esistenziale, non aveva peso alcuno; e perché, esponenzialmente, mi piacevi per le medesime ragioni.
Stonavi parecchio tra le file dello Shoyo, te l’ho mai detto? Lo pensai sinceramente, la prima volta che ti vidi giocare. Non mi piacevi, e quella punta di insolenza che avevi addosso mi aveva infastidito, a dire il vero, molto più di quel che avrei voluto...
Io mi sono dato una calmata da allora, ma tu... Ancora oggi, risiederesti in quei territori sospesi e impietosi, vorticante, come un cuore incapace di placcarsi. E mi domando, se sono mai stato in grado di raggiungerti... Fujima.
 
Torna da me, solamente questo ti chiedo. 
 
«Che diamine...?! Fermatevi!» Quando si era reso conto di come si era evoluto quello scambio sferzante di battute post partita, il capitano era corso basito a trattenere quelle spalle esili ma funeste dallo scagliarsi contro la matricola del Kainan. Al medesimo tempestivo secondo, il capitano della squadra rivale era intervenuto a sua volta, per porre un muro divisore tra le due teste calde accalcate in una fugace zuffa di corridoio. «La vogliamo piantare di seminare stronzate?! E tu, Maki, fila a cambiarti, SUBITO!» Sbraitò infuriato, e quando lo si vide allontanare sbottando, fece un cenno silenzioso al capitano dello Shoyo che rispose con la medesima discrezione.
Finì tutto lì, ancora prima di sfociare in qualche stupido episodio da pronto soccorso, benché un bel trauma cranico non gli avrebbe fatto male... Solo Fujima era rimasto impietrito nel punto in cui era stato separato da Maki, gli occhi incandescenti bruciati da una furia fredda e irrefrenabile.
 
 

 
"There was a reason,

I collided into you."
 


 
Da una certa distanza di sicurezza, allestita per il repentino stato di shock, Kyota squadrava quella sagoma asciutta e inconfondibile, a occhi sgranati. «Che cosa ci fa lui, qui?!» Sibilò a Jin, il filo di voce distorto tra il timore e una sottile rabbia. «L’ho invitato io.» Fu placido e imperturbabile, mentre lo guardava con una punta di rimprovero negli occhi. «Ma che ti salta in mente, Jin?? Quello...» «Fujima.» Lo corresse, alla vista di una vena pulsante tra le sue tempie. «...Sì, me lo ricordo...» Kyota grugniva disgustato, e perseverò poi con maggior veemenza; stavolta, senza più trattenere la voce: «E anche di tutto il resto, se è per questo! Nel caso te ne fossi scordato, Jin!»
A quel proposito, Jin non aveva più ribattuto alcunché; si limitò a portare il bicchiere alle labbra, mentre lo sguardo si dileguava freddo ...
Non si dissero più altro; cosa avessero pensato in quell’istante, entrambi, coscienziosamente, lo sapevano.
 
Certe cose, Nobunaga Kyota era sempre stato il primo ad accorgersene. Quelle piccole cose che riguardavano in particolare il capitano della squadra di basket.
Sarà che gli capitava spesso di osservarlo, in silenzio, rinvenendo quelle increspature superficiali, a cui altri sguardi non davano peso... Di fatto, a quel tempo, si era preso inavvertitamente una cotta per Maki.
Sapeva bene che il ritorno di Fujima non avrebbe portato a nulla di buono... Come, del resto, era sempre stato per la sua opinione personale, il male che rappresentava quella presenza ambigua e imperscrutabile accanto al suo adorato senpai. Perché ogni volta che lui tornava nei paraggi, Maki, ai suoi occhi, ricadeva in un inarrestabile stato depressivo. Ricordava le sfuriate improvvise e immotivate durante gli allenamenti, quando andava in escandescenza, in mezzo al campo; oppure di quelle fughe veloci, dopo la doccia e il cambio d’abito in fretta e furia... Tutte quelle volte, sapeva, che l’unico motivo plausibile era Kenji Fujima.
 
 





Era tutto quanto studiato, ogni dettaglio meticolosamente, per inscenare quel prevedibile copione di antagonismo da manuale. Scuole diverse, squadre diverse… Nessuna via di mezzo, di fuga, che potesse permettere agli ingranaggi del destino di sbloccarsi lungo il tragitto e sovrascrivere una storia differente. 
Sbagliato. 
Loro erano sempre stati qualcosa di sbagliato, stonato, di oltremodo fuori luogo. In ogni luogo, ogni tempo, ogni frase, ogni parola… E per quanto ci provassero ad avvicinarsi, smussando i rispettivi angoli scabri, inventandosi luoghi d’incontro transitori, sapevano fin dall’inizio che le cose non sarebbero mai state come avrebbero dovuto essere. Che le divergenze del loro ego, così simili eppure inconciliabili, un giorno li avrebbero condotti su strade completamente differenti. 
Maki ricordava vividamente quel senso di necessaria impulsività che aveva animato ogni singolo sentimento sperimento nei confronti di Kenji Fujima, così come ricordava di ogni cicatrice e ogni tenerezza. 
Delicato, abbagliante, crudele. Così gli era apparso una mattina in un vagone treno mentre andava a scuola. 


Leggeva il giornale sul treno una mattina, mentre andava a scuola, e aveva scorto dall’altra parte del corridoio straripato un ragazzo che cedeva il proprio posto a una vecchietta.
Un atto encomiabile, denotava annoiato, occhio gravitante sulle pagine dell’economia... Portava una cartella a tracolla e un’inconfondibile camicia bianca: sul taschino laterale, lo stemma verde dello Shoyo solitario spiccava. Che cosa ci facesse quella bestiolina sperduta su un treno che andava alla direzione del Kainan-dai, decisamente lo aveva disorientato in un primo momento, ma solo in una seconda occhiata, con aggiuntivo e incalcolabile stupore, Maki riconosceva l’appartenenza di quel profilo.
Si teneva a un’asta laterale di sostegno, nel tremolio del treno in corsa, il capo chino a sfoggiare quel sorriso affabile tra le fossette, mentre scambiava qualche svenevolezza con l’anziana di turno che aveva continuato imperterrita ad annuire.... Il cerotto sul mento, memore del quasi pugno ricevuto da lui, Maki fissava sbigottito Kenji Fujima, come se fosse la prima volta che lo vedesse.
Chi... diamine.
Kenji Fujima, ripassò mentalmente il suo nome, quel Fujima dall’eloquente sportività che non aveva avuto scrupoli a saltargli addosso dopo la partita... A rivederlo in quella voltafaccia repentina e assurda, Maki fece finta di nulla, sotto shock, e continuò a leggere il suo giornale.
Non si era accorto di lui, naturalmente, ed era sceso qualche fermata prima. Ancora stordito dall’incontro mattutino, il pomeriggio sullo stesso treno se lo ritrovò di nuovo, così come il giorno successivo e quello dopo ancora... Quasi tutti i giorni, negli stessi orari, puntualmente la sua faccia spuntava tra le teste dei passeggeri. E quasi sempre, portava un paio di cuffiette e ascoltava distrattamente la musica, mentre lo sguardo indagava fuggenti paesaggi lontani... Pian piano, inconsciamente, Maki aveva preso ad osservarlo; quell’altro volto che faticava a scorgere, in mezzo alla folla, come dentro di sé, sebbene non ci fosse alcuna cortina umana a impedirglielo... Il suo silenzio distante, che aveva un che di grave e regale; come il sole si muoveva sulla sua pelle, ridisegnando quel profilo acerbo ai suoi occhi; era delicato, quasi etereo, come se rifuggisse dalle ombre del mondo... E convinto di non essere visto da dove era seduto, camuffato dietro a leggeri occhiali da vista che usava fuori dalle partite, aveva continuato a scrutarlo, come affascinato, sebbene lo facesse con una punta di ribrezzo e avversione... così, senza una ragione precisa.
E quasi che si prospettasse di vederlo sempre, una bella mattina, non lo ritrovò più.
Probabilmente, pensò, aveva cambiato percorso ...
 
Strano come il destino, a volte, ci gioca dei tiri così inattesi... Quando meno te lo aspetti, e quando credi di aver inquadrato tutte le pedine del fato, ecco che... l’alfiere beffardo fa la sua mossa: perché Maki, fino a quel momento, ancora non le conosceva, le regole del gioco....
Due giorni più tardi, quando pensava di non rivederlo più ormai, se lo trovò davanti dirimpetto, il cipiglio truce e le braccia conserte. Non portava più le cuffie.
«Mi stai seguendo per caso?!»
Maki levò lo sguardo dall’estesa superficie del quotidiano, un sopracciglio inarcato che avrebbe voluto dire molto più di quel che mostrava... Lì per lì, davvero, rimase senza parole.
«Perdonami?» Impassibile nello stordimento, si difese, rendendosi conto solo ora di quanto fosse stato ridicolo ad averlo fissato per giorni come un ebete, e... «Non renderti ridicolo; solo perché porti gli occhiali. Ti riconoscerei da kilometri... Shin’ichi Maki.» Sibilò Fujima con voce sfottente e distesa. «Sono giorni che mi spii di nascosto, credi che non me ne sia accorto? Cosa stai tramando??» Replicava imperterrito, gli occhi falciati da una luce furtiva, come se gli leggesse nel pensiero... In effetti, non aveva tutti i torti: il suo atteggiamento non poteva risultare diversamente agli occhi altrui, lui stesso non sapeva cosa rispondere. E siccome l’assurdità di quella situazione era tutt’altro che a suo favore, Maki, per ragioni che tuttora gli erano rimaste oscure, disse allora una cosa ancora più insensata... «Mi stavo chiedendo...» Lo si vide sorridere, in quella scintilla beffarda delle iridi, una vaga consapevolezza, prima di pronunciare a fior di labbra. «Se non vorresti uscire con me?»
«....»
.......
Per un attimo di totale vuoto mentale, erano rimasti a fissarsi inespressivi.
… Nel refrigerio del vagone, aleggiò l’annuncio della fermata imminente … Poi, senza dire una sola parola e lasciandole lì dov’erano, Fujima si lanciò giù dal treno e fuggì via allibito, appena le porte furono riaperte.
 


 
"Nobody know."
 


 
La cena era stata piuttosto chiassosa, ma tutto sommato piacevole, se non fosse stato per quel pensiero costante, che come un ronzio molesto se ne stava aggrappato alle orecchie; la consapevolezza che lui era qui.
Maki si sedeva in mezzo alle teste degli ex compagni, lungo la fila di tavoli accostati. Si davano le spalle, in quel semibuio soffuso di parole e risa fugaci, a tastare con le antenne del corpo la presenza dell’altro, tollerandosi lungo una linea di tensione immaginaria e flebile che traversava le due estremità del piccolo locale. «Allora, Maki! Quant’è che ti sposi?» Fu quella botta allo stomaco che avvertì dopo uno scoppio di risate un po’ brille. Lieve e suggerito silenzio, emergeva la sua voce inconfondibile nel sottofondo di brusio, che, ancora, avrebbe saputo riconoscere tra mille. «... Tra due settimane.» ...E quella risposta fu più seria di quanto aspettasse. In fondo alla sala, nella quiete relativa delle poche sedie vuote, si era accomodato Fujima, le gambe accavallate e le mani in tasche, il sorriso tra le labbra un po’ affettato. Al momento, il suo profilo era impegnato in una rievocazione con alcuni vecchi conoscenti, stranamente, nessuno che ricordasse davvero. E Maki sperò solo che non fosse stato abbastanza sobrio da averlo udito....
No, in realtà, non si erano scambiati una sola parola dacché si erano visti sull’ingresso. Strano, preoccuparsi di un dettaglio simile, quando... In realtà, dubitava enormemente che potesse essere sopravvissuto ancora qualche forma di rapporto tra di loro. Gli sembrava quasi impossibile recuperare l’uso delle parole quando davanti a sé c’era quel muro insormontabile di silenzio cementato e di interdizioni; quando, davanti a sé, c’era... un po’ sciupato, ma Fujima.
E gli sembrò pure assurdo, quando lui gli venne incontro, come nulla fosse, posando il bicchiere vuoto accanto al proprio mezzo pieno. Solo allora, Maki si accorse che il posto accanto al suo era vuoto... «Jin, chi erano di preciso quei tre?» Lui rise in risposta al suo cipiglio seriamente preoccupato. «Ah, credo siano degli imbucati dalle parti dello Shohoku... Non so chi li abbia invitati, forse Nobunaga.» Fece, lo sguardo a ritroso per scorgere i soggetti citati: un cespuglio, un pelo rosso fuoco e.. qualcos’altro del medesimo genere. «Il Kainan ha delle idee molto confuse sul concetto di rimpatriate...» Fece notare Fujima. Rigirò la sedia con una mano e vi si stravaccò all’incontrario, le gambe spalancate con grande galateo. «...Appunto.» Maki replicò a bassa voce, ancora sovrappensiero. Con forse meno intenzionalità di quanto potesse apparire, aveva buttato lì quella prima amena parolina, pensando di essersi segato le gambe da solo, ormai... Ma, con sua enorme sorpresa, Fujima aveva sorriso tra le dita. E ancora più lo fece travalicare, l’affetto inaspettato con cui lo guardò nel medesimo istante, nel pronunciare lieve e incantevole.
«Vero?»
... E la mente gli tornò a svuotarsi.
 
Sempre così indifferente e bastardo. Come se il tempo e le memorie fossero solo meri concetti per lui... No, non lo aveva dimenticato.
 



 
"This feeling begins just like a spark,

Tossing and turning inside your heart.


Exploding in the dark."

 
 
 
Tra le file di panchine della stazione, Fujima pareva titubare impensierito, scrutandosi intorno in cerca di qualcosa... Allora, dietro di sé, sentì tossicchiare leggermente; sicché si voltò, di scatto, un poco tediato da quell’intrusione.
Maki gli sorrise, porgendogli un fagottino nel pugno chiuso. E lui, bianco e interdetto, ne rimase di sasso.
«Lo avevi dimenticato ieri sul treno nella foga di scappare via.» Disse e schiuse la mano alla sua vista: un Mp3 nero con tanto di cuffiette. Il rossore che gli scottò le guance andò a infiammare fino alle punte delle orecchie, e quasi pensando di voler sprofondare, aveva udito la sua voce sopraggiungere ancora, inaspettata... «Scusami tanto.»
 
Perché era cominciato così, semplicemente, tra un silenzio impacciato e qualche saluto timido e frettoloso, incrociandosi ogni giorno lungo quel breve tratto di fermate condivise... Chi fosse stato a porgere il primo cenno, non se lo ricordavano proprio più; fatto sta che poco alla volta, quasi azzardando ad accostarsi a pochi posti di distanza l’uno dall’altro, quando questi erano occasionalmente liberi, avevano preso a scambiarsi qualche parola in più, parlando del tempo, degli esami, di basket... Il basket, che entrambi amavano, anche se non proprio nella medesima maniera... Quasi che fosse un appuntamento fisso, giunto a quella fermata, Maki alzava il naso in attesa di scorgerlo -e giusto per caso, non sia mai- dietro ai riflessi della porta che si dischiudeva rapidamente... Il vento gli danzava tra i capelli, scompigliandoglieli lungo i binari affollati...
Non gli raccontò mai di aver scorso di soppiatto la sua playlist, trovandovi peraltro gusti piuttosto discutibili... Ancora oggi, era rimasto un segreto tra lui e i sedili di quel vecchio e scomodo treno. Nel caso, sospettava che Fujima sarebbe molto probabilmente scappato a gambe levate, stavolta, senza più tornare indietro. Tanto ormai, la figura dello stalker l’aveva fatta in tutte le accezioni possibili...
 
 
 
※※
 

«Lettere d’amore?»
Fujima si buttò con malagrazia sul posto in fondo alla fila, sbuffando pesantemente. «Mi sono rotto! ...Con la scusa del 14 febbraio sono pure triplicate! Maledetto quell’idiota che ha inventato la festa!» Maki fissò il pacchetto di buste sigillate con la medesima circospezione di un archeologo. Erano una ventina, almeno. «Vedo che riscuoti parecchio successo... La tua ragazza? Non sarà gelosa?» Fece un ghigno ironico, mentre gli restituiva il tedioso bottino. Fujima inarcò un sopracciglio, squadrandolo truce in silenzio; poi gli sorrise, dileguando lentamente la stizza, per riporre nuovamente in viso la soave sfacciataggine. «Cosa c’è, Shin’ichi, sei invidioso?» O geloso?  ...Colpo secco andato a segno. Maki si impennò alla battuta, drizzando la schiena, indignato. «Neanche per sogno!»
Sotto i raggi tiepidi del sole invernale, Fujima rise sommesso e delicato, svelando una spolverata di chiare lentiggini sotto la pelle.
... Quelle due fossette innocenti che facevano capolino tra le sue guance, ogni volta che lui sorrideva, ancora non sapeva di amarle; con lo sguardo dilatato, Maki le scrutava come incantato e forse anche un po’ indispettito, come se in esse si celassero segreti più maliziosi di ciò che vedeva...
 
Il rapporto che aveva con le donne, tuttavia, non era dei più rosei; in realtà, le considerava a malapena e non sapeva come relazionarci, come succede tra i cani e i gatti. Le detestava e di fatto, era cresciuto completamente sprovvisto di una figura femminile accanto sé. Una madre.
«Non l’ho mai conosciuta...» Glielo confessò una volta, con un tono talmente leggero, come se avesse parlato del tempo o di una canzone alla radio. «Era straniera, vero?» Fujima lo guardò e accennò un vago sorriso di affermazione. «Perché io non sembro affatto giapponese?» Deviò lo sguardo al veloce scorrere del panorama; dietro alla sbarra del passaggio a livello, i volti uggiosi e indifferenti di un’umanità in attesa, nel lampeggiare a intermittenza del segnale luminoso che via via si faceva sempre più lontano.... «Veniva dalla Scandinavia... Svezia. Io sono cresciuto al fianco di mio padre; dacché ne ho avuto memoria, siamo sempre stati solo noi due.»
 
 
 
La gente diceva spesso che Fujima era un bel ragazzo, e non ci voleva un occhio brevettato per capirlo... Sconvolgeva, e spesso non solo le ragazze.
Quella scheggia di bellezza era forse una dannazione per la sua esistenza costellata di momenti effimeri e devastanti; troppo, anche per un ragazzo di soli 17 anni... E a 17 anni Fujima era un incanto, come mai lo sarebbe più stato in vita sua. Non poteva esserne rimasto indifferente...
Aveva quel genere di fascino che disorientava l’osservatore, a ben guardarlo... I tratti efebici, l’incarnato gentile, la delicatezza un po’ sconcertante e, nell’insieme, era la sua ferocia disinibita a destabilizzare la sintesi sempre un po’ incerta della visione. Se avesse potuto descriverlo... No, non avrebbe mai saputo pronunciare parole tanto audaci.
Questo era quanto lo irritava.
Fujima era un’anima irrequieta, in costante fuga. In superficie, irraggiava di limpida spensieratezza, ma sul fondo, le acque si agitavano torbide, ribollenti di furie annegate.
 
Se spesso ci siamo scontrati per le nostre divergenze, era per il fatto che, in fin dei conti, noi siamo uguali.
Forse non sarò mai in grado di comprenderti, ma questo rimarrà sempre la mia unica certezza, nonostante tutto...
 
Lui non si mostrava, mai. E le ragioni gli erano ben chiare...
Orgoglio.
Si diceva forse che colui che ci conosce meglio non è un amico intimo o un amante, bensì il nostro peggior nemico.
Fuoco e ghiaccio. Non c’erano alternative. Per cui, l’unica... era di sentirsi di merda a sua volta.
 
La prima volta che ebbero una litigata importante, erano già trascorse un paio di vacanze scolastiche e di campionati. Ma la motivazione era ben lontana dai campi sportivi... Anzi, sinceramente, non l’aveva mai capito del tutto.
Dopo averlo apostrofato con tutte le amene offese del suo cortissimo lessico, lo aveva spintonato e dato pure un pugno in faccia -e stavolta per davvero-, molto seccamente se ne era poi andato, tutto uggioso. Questo perché era stato lui a cominciare, a suo dire... Una settimana più tardi, Maki seppe che suo padre era morto.
Allora, aveva compreso di colpo molte cose ...  
Quando lo aveva rivisto, tanti giorni in seguito alla sua lunga assenza, gli era parso solo un po’ più pallido, ma sereno; anzi, distaccato... E aveva negli occhi quella luce brumosa, spenta di chi aveva aria di galleggiare in una dimensione ultraterrena, come se tante cose gli fossero ormai scivolate di dosso. Non gli disse niente, né lui ebbe il coraggio di chiedergli spiegazioni che alla fine non servivano. Si erano guardati, prendendo atto della reciproca consapevolezza in un filo di intesa intrecciata di tanti pensieri; dopodiché, Maki gli si era seduto accanto, lo sguardo saldo rivolto davanti a sé, gli chiese solo. «Come stai?»  
Con un cenno che pareva più un broncio, Fujima annuì, semplicemente.
I suoi occhi erano asciutti, aridi; o più probabilmente prosciugati del tutto, da diverse ore di pianto e sonno mancato. Maki non volle sapere altro.
Fujima aveva 16 anni, ed ora, era solo al mondo.
 
 
“Vivi solo per te stesso, Kenji. Non prenderti pesi inutili e guarda solo avanti. Promettimelo.”
 
 
 
La divisa dello Shoyo, anche se era un completo classico blu, chissà perché, non gli dava mai un’aria del tutto inquadrata. Fujima aveva un profilo di rara eleganza che tuttavia trascurava con quella punta di informale nonchalance, la camicia costantemente sbottonata e le mani in tasche, senza cravatta...
La indossava anche il giorno del funerale, come da etichetta si addiceva a un adolescente in età scolastica. Era rimasto in piedi per tutto il tempo, impassibile. Non aveva versato una sola lacrima.
Sulla soglia, vinta dall’apprensione, zia Satoko gli chiese con il fazzoletto ancora premuto, se voleva passare la notte da loro, ma Kenji aveva rifiutato.
Chiudendosi la porta alle spalle, repentinamente, era crollato con la schiena contro il battente blindato. Forse, era stato un eccesso di stanchezza; non sentiva più le gambe e da qualche secondo, il naso aveva preso a pizzicargli insieme ai brividi sulla pelle. Non aveva una particolare voglia di piangere, in quel momento, ma si ricordava solo di aver come ceduto le difese tutto d’un colpo, esplodendo alla penombra dell’atrio, in totale liberatoria solitudine.
 
Poco tempo dopo, la casa andò in asta, e lui andò a vivere in un monolocale poco distante. Davvero ironico...
 
 
 



 
 Andate pure tutti a quel paese... E basta.
 
In quel piano decisamente mancava aria. Gli uffici dell’assistenza sociale si trovavano al terzo piano del palazzo comunale, e quello era un giorno lavorativo come un altro... Il via vai di personale indaffarato, ombre passeggere fuori dalla porta; una fastidiosa luce bianca al neon... Seduto da solo in quella piccola stanzetta, si era sentito come un animaletto da laboratorio, tenuto in osservazione dell’altra parte del vetro.
«All’inizio sarà difficile, ne abbiamo visti tanti di casi così... A ogni modo, se avrai bisogno di aiuto, di qualunque genere, rivolgiti pure a noi, Fujima-kun.» Così gli fecero, alla fine di una lunga serie di trafile amministrative, affinché lui potesse ottenere quella sorta di “libertà vigilata” ovvero affidamento.
Tutti gli eventi gli passavano davanti ai piedi, come scie di luci a velocità supersonica, e i suoi sensi ne coglievano solo un eco pallido, attutito, come se nulla di tutto ciò lo riguardasse... In quel frangente durato un’eternità tra traslochi costanti e Tribunale dei minori, l’unica persona che gli venne in mente, e che avrebbe voluto incontrare... Era Maki.
 
 
 

※※※
 
 

Al bancone, un barista stava asciugando i bicchieri, mentre gli ultimi clienti lasciavano il locale semideserto. «Scusate se abbiamo fatto tardi.» Maki sorrise al cameriere, mentre saldava il conto della cena. «Si figuri, grazie e arrivederci!» Uscì dalla porta, ripescando da terra un Kyota ormai in catalessia e lo affidò alle cure di Jin, stranamente ancora cosciente e sorridente, nonostante la quantità considerevole di alcool decantato in serata.
Tirò un sospiro di sollievo, finalmente, incamminandosi a nervi distesi, e pensò a dove poteva aver lasciato la macchina... Dopo appena pochi passi, si fermò. A quanto pare, Jin non era l’unico rimasto sobrio quella sera...
Gli fece un cenno, ergendosi contro un palo della luce, una sigaretta in mano. «Pensavo te ne fossi andato...» Abbozzò una sorta di domanda che si sgretolò per strada, mentre tentava di riagganciarsi alla coda di un pensiero lineare. Un agguato in piena regola.
Non gli rispose; gli occhi distanti, Fujima fece involare uno sbuffo di fumo contro le stelle sfavillanti e mormorò vagamente. «Qui si gela...»
Fantastico... In un primo momento, aveva avuto sì l’impressione che lo stesse aspettando, lì impuntato davanti, anche se, era da reputarsi probabilmente un abbaglio... Perché, ancora oggi, la sua persona era rimasta una pagina imperscrutabile di cui poteva tradurre solo punteggiature sospese. E non c’era tempo di tentennare in analisi, perché ogni risvolta poteva rivelarsi una trappola mentale, e annientarlo, ancora prima che potesse concludere un pensiero... Lui spense il mozzicone, rigettandolo nella notte; si voltò, gli fece uno di quei suoi sorrisi indefinibili, per poi finire la frase lasciata sospesa. «...Andiamo?»
... Appunto.
 
Le vie erano ormai deserte, le poche macchine che passavano affianco alla loro sembravano comparire da un sogno, fugaci destando per scomparire poi presto nelle tenebre.
Alla guida, a quell’ora tarda, Maki era più sveglio che mai. La presenza di Fujima gli giungeva attraverso un lieve respiro dal sedile accanto, e a momenti, aveva creduto che si fosse assopito... Ma sapeva di sbagliarsi. I suoi sensi erano sempre vigili, anche quando dormiva, lo sapeva benissimo...
«Dove andiamo adesso?» Focalizzò una domanda fondamentale, quando erano già per strada da 10 minuti. Senza chiederselo, si stavano dirigendo verso il nulla... Le facciate degli edifici della periferia si sostituivano a un paesaggio man mano più campestre; stavano lasciando la città. «Dove vuoi, non importa...» Fu la sua risposta. Come pensava, era perfettamente cosciente e seguiva in silenzio il percorso dal finestrino, forse, studiandosi una via di fuga, nel frattempo...
«... Cos’hai fatto in questi anni?» Chiese di punto in bianco, gli occhi puntati sulla strada. «...In giro, ho viaggiato parecchio; per lo più, in Sudamerica...» Sospirava lui, lo sguardo spento sul medesimo obiettivo, riesumando i resti di una voce fievole e distratta. Subito, calò di nuovo il silenzio, e la notte si riprese il suo spazio nella piccola vettura.
Aveva davvero così poco da raccontargli? Qual’era di preciso il suo scopo; presentarsi a quella serata organizzata, farsi riaccompagnare dopo, rivederlo... a tanti anni di distanza? Per tutta la serata, Maki se l’era chiesto, senza rinvenire alcuna logica. E ora questo silenzio prolungato, sconclusionato, da fargli tracimare i nervi nonostante... Aspetta, che cos’ha detto? «...E tu?» Gli fece, dopo quel lungo minuto di sonno apparente; ed era la seconda volta che ci cascava... Calma, calma, Shin’ichi ... «Lavoro per una grande multinazionale e sono un manager... nel settore dello sviluppo, e... Niente, sono all’inizio della carriera, poco tempo e troppe cose da fare, ecco tutto.» Fece spallucce come per mettere fine a un discorso frivolo; il riassunto della sua vita che aveva un che di inadeguata, piantata in mezzo a loro due. E non era esattamente ciò che sperava di poter dire, quella sera...
Fujima si sistemò la cintura, con fare fortuito, tossicchiando. «Mi sembri sorpreso di vedermi stasera...» Gli tremò un sopracciglio dalla sorpresa... Cosa? ... A quell’uscita improvvisa ne rimase un po’ interdetto. Un attimo, facciamo ordine mentale... Di che diamine stava parlando? O era lui quello fuori dal mondo, o... “Mi sembri sorpreso di vedermi stasera??” Quanto tempo credeva di essere stato via, Fujima?
«È solo una tua impressione.» Maki cominciò seriamente a dubitare della sua sanità mentale, mentre faceva il buon viso al cattivo gioco. Fujima non ribatté alcunché, limitandosi ad annuire, sorrisetto furbesco a incorniciare le labbra...
 
Abbandonata la superstrada, la macchina si era accostata alla zona portuale, rallentando man mano che la strada finiva.
Incoronato da una costellazione di sfavillanti luminescenze, Minato Mirai si ergeva nella notte. Non c’era nessuno in giro, carezzando la baia, quella passerella pedonale pareva un’isola sospesa nella nebbia leggera. Era mezzanotte.
Era sceso dalla vettura con una vaga intenzione di prendere una boccata d’aria e godersi quello spettacolo mozzafiato. Non proferiva parola. Con lo sguardo perso nel vuoto, Maki osservava le luci della ruota panoramica mutarsi dal rosso al viola, al blu... Arrivato al verde, i pensieri si spezzarono. «Erano anni che non vedevo il porto di Yokohama...» Una nuvoletta si era condensata intorno alle sue parole, mentre si teneva le mani ben nascoste nelle tasche della felpa. Nei suoi occhi, quella città aveva un che di estraneo, benché sapesse di appartenerle, così come in passato; e così come in fondo nessuna città del mondo gli era mai parso familiare, perché lui era sempre stato uno straniero, ovunque capitasse.... Non capiva più quali fossero le sue intenzioni, a questo punto. Se ne stava in piedi accanto a lui, come un’incognita leggera a rinvangare pensieri lontani; forse, aspettandosi una qualche considerazione che però non gli giunse... «Io, riparto tra una settimana. Se ti và, possiamo vederci uno di questi giorni...»
Di fronte a quell’invito surreale, Maki era rimasto gelido e immobile. Nei suoi occhi, un crepitio di tempesta. 
...Ora basta.
«... Perché non mi hai mai chiamato né scritto, in questi anni?» La domanda gli uscì del tutto naturale, anche se non l’aveva premeditata; il tono asciutto e neutrale, sapeva invero di accusa. «Sono stato occupato e mi spostavo di continuo; non avevo tempo né modi per...» «Cazzate.» Una smorfia mordace. Poi di colpo la voce si era levata. «Vuoi dire che in ben sette anni non hai mai trovato un maledetto mezzo di comunicazione per farmi sapere che eri vivo in qualche buco del mondo?! Kenji! Sono sette anni!!» Rimarcò a fuoco quelle due parole, non abbastanza da incenerire tutto il suo rancore. «E adesso ripiombi qui, dopo tutto questo tempo, e mi chiedi di uscire come niente fosse?? Mi prendi forse in giro?! E poi, scusa, ma avrei una vita anch’io! Potrei non averne di tempo, ora...» Fu la sua sentenza definitiva, dopo una lunga trafila di spassionata esposizione. Fujima era rimasto di piombo, apparentemente impassibile, eppure scosso nell’intimo; solo dopo un po’, riuscì a formulare una sorta di risposta, e masticare un sottile e confuso «Capisco...» Gli occhi annebbiati.
Maki si sentì di colpo svuotato.
Sospirò, non avendo più altro fiato da infierire.
Il breve ciclone si era progressivamente calmato... Sebbene su quella striscia di terra, nulla all’infuori delle macerie era rimasto.
«In ogni caso, sai dove trovarmi...» Concluse, recuperando un sorriso smorto da terra, e lo salutò poi con un cenno abbozzato, mentre Maki si voltava dall’altra parte, scuro in volto... Senza neanche una risposta, sbuffando con le mani in tasche, riprese la direzione della macchina.
 
 




Kami … Che cazzo ho fatto …






 
"Calling your name in the midnight hour,

Reaching for you from the Endless dream.

So many miles between us now,

But you are always here...
with me.

Oh inside me

I find the way...

Back to you."

Here with me - Susie Suh

 



 
Fine prima parte_




Note: 
Kefiah: sciarpa simbolo del patriotismo palestinese; era superfluo precisarlo. So che potrebbe shockarvi questa immagine -Fujima, raggiante ragazzo della porta accanto, declassato a adolescente ribelle e spiantato-, anch'io finora l'ho sempre inquadrato come tipo serio con un ego da paura -terrore- e senza una grinza di imperfezione. Decisamente lo preferisco così, è... sexy-
Vägen Hem: non parlo lo svedese, non comprendo la logica della sua stranissima grammatica, e probabilmente è una traduzione sbagliata, ma dovrebbe significare "la strada verso casa" - "the way home"; può essere inteso in senso letterale o figurato, intinta di speranza o angoscia, questa strada -e casa-, quello che vi pare. Titolo di poco impatto, lo so... Ma ha un suo perché, si capirà alla fine!

Le ore 18:02 e mi sono appena resa conto di averci messo un'era geologica a pubblicare... Buonasera a tutti! Sono Kanagawa, quella folle che amava Fujima! Una bella sequel per Kenji e Maki dopo "6.766 parole b/n" e "7.133 parole, b/n"? No no, non proprio. Ci sono diversi elementi contraddittori, toni scabrosi e tematiche di dubbia moralità, perché ho voglia di passare al lato oscuro.



 

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Capitolo 2
*** 3872,627 miles ***


 
Il rumore dell’acqua gli avvolgeva le orecchie, nella cortina di vapore che stanziava tutto lo spogliatoio. 
Non c’era già più nessuno, quando Maki uscì dalla doccia e andò ad accomodarsi di fronte al proprio armadietto. D’abitudine, estrasse il cellulare dalla borsa e lo riaccese. Un solo messaggio lampeggiava sul display. Brevemente, lo lesse, e scattò in piedi. Si calò addosso alla meglio maglietta e camicia, sperando di non esserseli messi all’incontrario, la cravatta in tasca, prendendo già la direzione della porta. Tornò indietro, ricordandosi del cellulare lasciato sulla panchina, e in fretta uscì nuovamente.
In corridoio, mentre correva via a gran carriera, incrociò il passo di Nobunaga Kyota, attardato a oltranza e momentaneamente perplesso, ignorando di volata il suo «A domani, senpai.»
Il ragazzo rimase a lungo lì, in piedi, gli occhi un po’ inquieti, a scrutare la direzione della porta abbattuta che ancora cigolava dopo il suo passaggio...
                                                                                                                                                                                          
 
 
 
 Vägen hem - 3872,627 miles
 

"Liberarsi di qualsiasi preoccupazione d'arte e di forma.
Ritrovare il contatto diretto, senza intermediari, cioè l'innocenza. 
Dimenticare l'arte, a questo punto, significa dimenticare se stessi
.
Rinunciare a se stessi non per virtù.
Accettare, al contrario, il proprio inferno."
[Camus, Il primo uomo, appendice]

 

 
Fujima era andato a vivere con un parente che possedeva una villa poco fuori città. Lo zio, un uomo facoltoso e cinico, con cui suo padre non aveva più parlato per anni, era spesso via per lavoro, e le rare volte in cui si ritrovavano a cena insieme, con tutta la famiglia presente, non sprecava mai l’occasione di esprimere la propria “preoccupazione” per lui. Dalla posizione con cui si sedeva, ai gomiti sul tavolo, ogni stronzata bon ton era una scusa buona per inculcargli un po’ di quell’educazione poco ricevuta... Poiché lui era un Fujima.
A ogni bacchettata di petulanza, sentiva una rabbia crescente dentro di sé, ridestarsi con ondate sempre più furenti...
 
Fu in quel periodo, che Maki cominciò a dare segni di instabilità.
Quei caparbi incontri mattutini erano terminati con il cambio di residenza di Fujima, ora costretto a venire a scuola scortato dall’autista; e certo che in circostanze normali, due ragazzi della loro età avrebbero finito sì col perdere i contatti lungo la strada, come era naturale che accadesse: questo, almeno in teoria...
In uno di quei pomeriggi, Maki ricevette il primo messaggio da Fujima.
Capitava raramente, ma appena trovavano cinque minuti liberi tra scuola e basket, finivano per cercarsi a vicenda. A volte se ne andavano in giro allegri per Kanagawa, incuranti dei molti sguardi perplessi, o avversi, che incrociavano sulla strada; e quegli avvistamenti erano diventati ormai una sorta di leggenda metropolitana... Li si trovava da qualche parte lungo l’argine frangionde, verso il tramonto, come due vagabondi a camminare, a ridersela o a spintonarsi, quando non si picchiavano. Le loro siluette si allungavano nel rossore della sera, e una strana malinconia risuonava nelle sirene delle navi al largo...
Era molto difficile, molto complicato.
Avevano entrambi una cattiva influenza sull’altro, e si vedeva...
Si attraevano e si respingevano, un’intesa increspata di litigi continui, furiosi. Incapaci di avvicinarsi del tutto, e tuttavia, impossibilitati a stare lontani l’uno dall’altro... Due poli magnetici opposti in costante e vorticante inseguimento. La medesima cosa avveniva sul campo di basket: questo, fin dalla prima volta che si erano incrociati, l’avevano capito. Inscenavano scontri di potere e personalità che attraevano il pubblico, e per loro era solo un gioco, dove non c’erano limiti di morale e mezze misure, come se ad entrambi non importasse di infrangere il corpo dell’altro, di fargli del male; di potersi sfiorare, collidere... distruggersi.

 
In quel periodo Fujima veniva spesso a trovarlo a casa, attardandosi davanti alla tv a guardare le partite registrate dell’NBA e farsi uno spuntino ozioso che la mamma di Maki preparava, tra quattro chiacchiere di nessuna importanza, prima di addormentarsi... Fuori casa. E le sfuriate del mattino dopo, perché non aveva chiesto il permesso e non aveva neanche telefonato, erano ormai diventate all’ordine del giorno, e con eguale consuetudine le ignorava.
Tutto questo, Maki non lo sapeva.
Una sera lo aveva accompagnato e in quell’unica occasione aveva visto casa sua, rimanendovi sbalordito. «Accidenti, che catapecchia... Quanti ettari sono?» Fischiò sarcastico, in piedi davanti all’enorme villa occidentale settecentesca con giardino a perdita d’occhio. «Mhh, parecchi...» Borbottò evasivamente, Fujima, le iridi brumose e indifferenti, mentre varcava la cancellata.
«Signorino, non si perda, mi raccomando.» Maki gli sorrise pungente e anche un po’ bonario, prima di congedarsi, baciandogli furtivamente la mano ed essere preso a calci di conseguenza.
Incupito e silenzioso, Fujima si avviò verso l’ingresso della casa principale; quando la sagoma di Maki non fu più nel suo raggio visivo, aveva cambiato repentinamente direzione, prendendo la stradina dietro alle siepi per il cancello posteriore.
… Anche quella notte, dormì fuori casa.
 
 
Sotto il getto del rubinetto, la mente distratta dall’infrangersi dell’acqua ghiacciata sulla testa, Fujima avvertì i passi di qualcuno alle spalle.
«Dovresti stare attento.»
Si levò bruscamente, un po’ frastornato. Il profilo uggioso di Hanagata faceva capolino, riflesso nello specchio antistante. «Di che parli?» Con dispiacere abbandonava il refrigerio fugace, per asciugarsi presto il viso. Il compagno parve tentennare, ma poi si fece coraggio e ricomponeva il fiato. «Quello là… Non fa per te.»
«Cosa??» Fu più che altro un pensiero espresso ad alta voce. Fujima lo squadrò obliquo, vedendolo sospirare spazientito, con una punta di quasi biasimo. «Dico solo che non dovresti socializzare con il nemico, tutto qua!»
… Ecco, il punto.
A quanto pare il suo amico era un attento osservatore, nonostante l’apparenza discreta e distaccata; per quale motivo, poi, avesse sentito il bisogno di sollevare tanta polemica, non lo capiva proprio in quel momento... L’unica cosa che gli pervenne fu la propria scintilla di irritazione e quella vena pulsante sulle tempie, mentre replicava un tagliente «Fatti gli affari tuoi.»
Era stato solo un piccolo episodio, mai più ripetuto. Nel giro di un mese preciso, Fujima divenne il capitano dello Shoyo, e Toru Hanagata era il suo vice... Solo a parecchi anni di distanza, ritornandoci sopra, avrebbe compreso le ragioni del suo strano comportamento, quel giorno.  
 
 


E come da programma, alla fine del secondo anno, Fujima avrebbe dovuto prendere il posto dell’attuale capitano della squadra di basket, in congedo per il diploma. Non ci sarebbe stato ostacolo a far sì che la sua personalità già acclamata imperversasse sullo Shoyo, sennonché... Poco prima della fine del secondo anno, aveva ricevuto una brutta sospensione*. Motivo? “Attività lavorativa extrascolastica retribuita non conforme al regolamento, poiché studente e minorenne.” Recitavano le quattro righe di telegrafica accusa sulla lettera bollata Shoyo. Lo Shoyo era una scuola molto seria, una scuola di quel genere.
Era stato sorpreso a trasportare un divano imballato sulle scale di un immobile appena ristrutturato. E questo è quanto. Naturalmente, alla villa si era scatenato subito un putiferio; la padrona di casa, per il dispiacere e la vergogna, non aveva cenato per quell’intera settimana in cui il reietto era rimasto ai domiciliari sotto il suo naso; e lo zio... aveva smesso definitivamente di parlargli. Non che gli dispiacesse tutto questo... Ogni notte, Fujima scavalcava la finestra della stanza per sgattaiolare via furtivamente dalla sua prigione dorata; dove andasse, nessuno sapeva... Forse, si era trovato un altro lavoro...
«Ma perché, ti serve denaro?» Maki lo riprese un po’ scettico, scrutandolo dalla testa ai piedi. In decisamente nessuna piega del suo nobile profilo, poteva suggerire una persona economicamente depressa... «No, ma voglio rendermi indipendente al più presto.» Rispose con un tono così serio che Maki fece fatica a credere, ma si trattenendo dall’approfondire altre osservazioni, al momento. «Scusa, ma mi sembra una cosa stupida, compromettere i tuoi studi in un momento così delicato...»
«A me non interessa fare il capitano, voglio solo giocare a basket!» Fece Fujima, mentre compiva un salto leggiadro in avanti, come per scavalcare abissi immaginari. E si voltò con la medesima impercettibile grazia, puntandogli un dito contro. «E un giorno ti batterò! Ricordatelo!»
Maki sbuffò, strafottente e risollevato. «Sì, continua a pensarlo!»
Sotto il cavalcavia, il passaggio di un treno faceva tremare le transenne arrugginite... Il mondo ancora stabile sotto i piedi e il sorriso che scorreva libero sui volti dei due ragazzi; nulla di tutto ciò, tra pochi attimi, sarebbe più tornato...
 
 
«Sono molto deluso dal tuo comportamento, Kenji. Le attività che scegli di svolgere non si addicono a un Fujima. Ma voglio darti una possibilità, perché sei mio nipote... Se vuoi continuare a giocare a pallacanestro, sei tenuto a farlo in un’università rispettabile e non altrimenti. In caso contrario... Vedi, io sto invecchiando e non ho figli maschi, per cui vorrei che potessi assumere al più presto l’attività di famiglia, come tuo padre avrebbe dovuto fare al suo tempo.»
Se ne stava seduto sulla veranda, con un bicchiere di whisky in mano che aveva continuato a scuotere e scrutare come ipnotizzato, mentre gli faceva quella lunga proposta...
....... E infine, era stato intrappolato.
 
 
※※
 
 
Si può dire di non avere scelte, a volte... Ma non era vero.
Una scelta ce l’aveva. Vincere.
 
L’ultima stagione, l’ultima occasione per dimostrare di essere qualcuno. Benché, nella sua testa, l’accezione di questo “qualcuno” rimaneva ancora molto confusa... Da due minuti e mezzo, l’intero stadio gridava un solo nome. Il frastuono della tempesta sonora ne spezzava le sillabe, per ricomporle stridule e vacillanti nelle sue orecchie... Fu.Ji.Ma.
“Megalomane esaltato…” Si schernì divertito, rigirandosi tra le mani il fatidico pallone rosso. Chiuse gli occhi, e da quel momento in poi, ci fu solo buio.
 
Si chiese come mai non se ne fosse reso conto in tempo, prima che ... Tutto quanto, precipitasse.
Probabilmente, a partire dal momento stesso in cui aveva accettato di sottostare ai loschi piani di quell’individuo che era suo zio, qualcosa aveva già cominciato a scricchiolare... Doveva riconoscerglielo, uomo astuto.
60/62.
Fine dei giochi.
 
E ora, cosa farai? Lascerai che ti prendano, senza far nulla?
 
Non aveva vinto il campionato, non aveva nemmeno avuto l’occasione di esservi ammesso. Scaraventato a terra, ancora prima di poter spiccare il volo, Fujima aveva perso la sua battaglia. Repentinamente, quella libertà agognata gli era stata sottratta.
Versarci sopra delle lacrime, era stato solo fortuito e molto seccante ...
 
 
※※
 
 
“Cosa porteresti con te nella valigia per andare sulla luna, Kenji?”
La testolina bruna recava ancora qualche ciuffo biondo, luce dell’infanzia in via d’estinzione, mentre scrutava in punta di naso il grande disco lattescente galleggiare nel telescopio. Staccandosi per un breve istante, andò a incontrare lo sguardo del padre in attesa, una sigaretta tra le fini dita; sembrò tentennare seriamente... Il respiro rapito dal gelo delle alture, gli occhi si facevano lontani e opalescenti, pur non avendo abbandonato ancora il candore interrogativo dinanzi ai suoi passi. “Non lo so.. Un radioscopio... Credo. Per ascoltare i suoni della terra.”
Lo ascoltò e gli sembrò tutto ad un tratto così risoluto, seppure non capisse ancora le reali funzioni di un -radiotelescopio-, che ricordava di averglielo mostrato solo una volta, quando lo aveva portato con sé al lavoro... “Però ci andiamo insieme, vero, papà?” L’uomo si destò dal fugace stupore, solo per porvi al posto un’ennesima espressione interdetta...  Ma il sorriso affiorava nuovamente, dopo quel lungo attimo di esitazione, rispose al figlio. “...Può darsi.”
L’indomani, i bagagli in mano, avrebbero preso il volo diretto in Giappone... Di sola andata, per quella che sarebbe stata l’ultima tappa del loro viaggio insieme.
 
 
I suoi occhi ora non scrutavano più le stelle, al loro posto ritrovava solo abbaglianti riflettori, mentre si faceva divorare dalla fama e dalla vanità. Da quando, l’aria aveva cominciato a mancargli in quella città? ...Nel momento stesso in cui aveva perduto la partita più importante della sua vita, stranamente, si era anche sentito più leggero... E solo allora, si ricordò del biglietto aereo mai usato che ancora custodiva tra i suoi vecchi calzini da bambino.
 
Vivi solo per te stesso.” Le ultime parole che il padre gli rivolse, prima di lasciare questo piccolo e urlante mondo, tutt’a un tratto, ripresero a bruciare vivide dentro di sé...
 
 

 
La cameriera aveva bussato tante volte alla porta, ma lui probabilmente non l’aveva sentito. «Gradirebbe del tè, signorino?» Si azzardò infine a intrufolare un’occhiata veloce, almeno per accertarsi che fosse in stanza, e lo vide in piedi davanti a un armadio vuoto, completamente assorto ad osservarne l’ignoto contenuto. Sopra la trapunta, gli indumenti rigettati fuori, nella furia di un cambio di guardaroba fuori stagione.
Lo chiamò ancora due volte, prima che lui si risvegliasse dalla trance profonda, volgendole uno sguardo indefinito e distante... «Più tardi, grazie.»
 
Una valigia non andrebbe mai fatta in fretta e furia; questo, almeno, era stato da sempre il suo pensiero...
 
 
 
 
Quel ginocchio avrebbe continuato a tremare in un moto di saccente nervosismo, sotto il tavolino del locale, mentre ascoltava il suo sforzo di mettere insieme una compassionevole seppure sconclusionata spiegazione... «La pianti di fumare?!» Il ritmo si spezzò con una nota acuta, quando una mano venne sbattuta istericamente accanto al posacenere. «E poi scusa, cos’è ‘sta storia che vuoi chiudere con il basket??»
Fujima si leccò il labbro inferiore, ma si tenne saldamente la cicca incriminante tra le dita. Chissà come mai riusciva a tenersi sempre quel cipiglio di aristocrazia, nonostante l’indecenza di una posa così poco ortodossa... «Ho degli agganci nel campo del commercio, alcuni vecchi conoscenti di mio padre... E mi hanno offerto un lavoro di intermediario in America Latina, sai, caffè o roba simile...» Ignorò elegantemente le due domande precedenti di Maki, continuando il monologo, il volto acceso dalle fiamme del tramonto che si riversava sulla vetrata appannata. Aveva nevicato da breve, e quella poca luce era bastata a incendiare il terso cielo invernale, una sera di fine febbraio; i fiori di ciliegio, quell’anno, dovevano proprio aspettare...
Roba simile...” Maki sperò di non aver frainteso nulla di fraintendibile. Le dita incrociate davanti alla bocca, aveva puntellato i gomiti sul tavolo, per meglio cogliere e analizzare le sue scapestrate rivelazioni. «Ti stai cacciando in qualche brutto guaio?» Non fu esattamente una domanda. Fujima alzò le mani, veloce a discolparsi. «Tranquillo! Mio padre era una persona molto giudiziosa, nonostante i suoi problemi... Niente traffici illegali, si intende!»
Esalò un lungo e cinico sospiro, e gli strappò inavvertitamente la mezza sigaretta dalle mani. «Dammi qua, sono troppo nervoso...» Ma già alle prime boccate, il fumo gli si era strozzato in gola facendolo tossire. L’amico sbuffò divertito, riprendendosi il mozzicone e se lo ricacciò incurante in bocca. «Sono contento che ti sia piaciuto.» «Sta’ zitto!» Maki lo guardò di sottecchi, tirando su col naso, e solo brevemente pensò all’intimità di quel gesto scambiato tra di loro.
... Lo trovò stupido.
«Quando parti?»
«Tra un mese.»
Lo stava perdendo.
 
... Questo pensiero passeggero, per un secondo di svista, gli sfrecciò davanti agli occhi, come una stella cadente che non ebbe tempo di cogliere, era scomparso all’orizzonte... Maki sorrise nuovamente, scompigliandogli con affetto i soffici capelli castani. «Spero avrai abbastanza fegato per salutarmi!»
 
Di fatto, a quel tempo, nemmeno per un attimo aveva pensato di fermarlo. Sarebbe stupido pensarlo, perché loro erano amici, in tutte le accezioni in cui si poteva concepire un’amicizia come la loro; un po’ strana, forse sbagliata. E come amico, poteva solo augurargli tutto il bene del mondo, senza tenere nulla per sé, né gelosie né egoismi... Così era stata, finché...
 
Io riparto tra una settimana...
Sembrava uno scherzo, una sorta di de-javù, ritrovarsi nuovamente nella medesima situazione. Solo che, ora... Molte cose erano cambiate.
Non erano più due adolescenti, e probabilmente, non avrebbero più reagito allo stesso modo. Ora era più restio ad accogliere i segnali del Fato -quando questi gli passavano lascivi sotto il naso, sporgendosi fino a toccare i suoi sensi assopiti-, più cinico... Seduto in cucina, all’ora in cui le ombre delle cose si allungavano, Maki osservava un punto imprecisato davanti a sé. Noriko era dai suoi genitori, non sarebbe tornata prima di due giorni.
In quel modesto appartamento, dopo tanto tempo, era solo.
... Se ti và ...
Razza di idiota ... Se lo diceva più che altro da solo, a se stesso. E provava rabbia, indignazione, per quelle parole frivole e prive di peso pronunciate da colui che una volta era stato il suo migliore amico, come se non sapesse... Come ogni sensazione di leggiadria, questa era presto a scomparire, per lasciarvi al posto solo una striscia di volgare pesantezza... Così, lui si sentiva.
Come era possibile vivere così? Lasciarsi dietro tempeste e detriti, e tornare, anni dopo, come niente fosse, per riprendere dallo stesso punto in cui si era interrotti, quella vita che non era mai stata vissuta... Eppure sapeva che sarebbe bastata una sola parola, una sola e lui...
... Anche stavolta, sarebbe passato come un uragano a spazzare via la sua vita? Nel timore, Maki se lo chiese; ma, probabilmente, quel timore non era abbastanza.
Sollevò il telefono mobile dal tavolo ancora prima di averne percezione, quando compose un numero che conosceva a memoria e fece per chiamare... La segreteria rispose al posto suo, “...dopo il segnale acustico.” Esitò, ma per l’ultima volta solo.
 
«Jin, ho bisogno di un favore.»
 
 

※※※
 
 
Alla fermata in cui passava il treno elettrico direzione Kamakura, quel primo pomeriggio di aprile, il flusso di passeggeri non sfiorava il minimo stagionale da molto tempo.
Aveva già sistemato in carrozza i pochi bagagli, a dispetto del lungo volo intercontinentale che avrebbe dovuto affrontare poche ore dinanzi; un bel viaggetto per andarsi a perdere nella foresta amazzonica... Fantastico.
«Il minimo indispensabile.» Fece lui con aria disinvolta, le braccia riunite alla nuca, a godersi il sole di mezzogiorno, tra un po’ di musica e gli sbuffi di Maki alle orecchie. «Scommetto che tornerai indietro alla prima frignata, signorino!» Lo prese in giro, come al suo solito... no, era lui che non se ne voleva separare, ma del resto, parliamo solo di... «Dimmi un po’, quanto starai via?» Si premurò di domandarglielo, sedendosi al suo fianco, mentre aspettavano la partenza del treno. «Mah, sei o sette mesi... Credo.» Liquidò velocemente lui, aprendo uno spiraglio furtivo nell’occhio per scorgere il broncio che aveva assunto il volto del suo migliore amico. Ridacchiò sotto i baffi, quasi deliziato. «Sarà una cosa veloce, dai! Poi torno...» «Dicono che i boa constrictor siano mortalmente letali.» Fujima ne rise di gusto, stavolta, nonostante il suo mero tentativo di fargli calare l’umore. «Non metterò neanche piede nella giungla! Quante volte te l’ho già detto, Shin’ichi?»
No, non gli era passata ancora... Lo guardò con affetto, affievolendo il sorriso. Aveva insistito tanto per accompagnarlo fino a Narita, ma lui non aveva voluto. Preferiva partire in solitudine, in silenzio, senza nessuno intorno, come se fosse stato uno straniero di passaggio in transito per l’aeroporto... Senza identità. Libero.
E questo, per Maki, era sempre stato difficile da concepire... «Come è andato il test...?» Lo chiese più che altro come diversivo. «...ehm, Chimica?» «Economia aziendale... Bene, comunque.» Lo corresse e si limitò a roteare gli occhi, senza più offendersi, ormai avvezzo al suo eloquente disprezzo per l’elite universitario. «Così, adesso ti butterai a capofitto nel pantano degli esami e emicranie martellanti, Shin’ichi Maki?» Un grugnito di affermazione gli sembrò di captarvi in risposta, piuttosto confuso... Nessuno dei due parlò del basket, quel giorno, sebbene fosse stata una presenza perenne fra loro, a deformare un po’ di quell’atmosfera già pregna di nostalgie e rimorsi... Quel punto, che nessuno dei due era riuscito a porre sulla reciproca passione, sospesa e spezzata improvvisamente, nel fiore degli anni … chi per una ragione e chi per un’altra. Ma così doveva essere, nonostante tutto il dolore che ne rifletteva...
«D’accordo, futuro signor avvocato, per me è arrivata l’ora di levarmi di torno.» Fujima si alzò dalla panchina, stiracchiandosi la schiena indolenzita dall’attesa. «Hai idee molto confuse su cosa sia Economia, o sbaglio?» «Non essere petulante.» Forse quel battibecco avrebbe proseguito per altri 5 minuti buoni, ma Maki ebbe il buon senso di andargli a prendere da bere, avvistando un distributore solitario in mezzo al binario. «Senti, stavo pensando...» Chino ad estrarre il resto, gli fece distrattamente. «...Se non dovesse andarti bene, potresti sempre tornare e rivedere i tuoi piani di studi...» Alle sue spalle, Fujima non aveva risposto. Passarono diversi secondi. «...Che ne pensi?» Allora Maki si voltò, per vedere che fine avesse fatto, ma fu costretto a retrocedere, colto di sorpresa da qualcosa che non ebbe tempo di deglutire... Le mani veloci, sulle sue braccia, e le monete che rotolavano in tutte le direzioni....
Da qualche parte lungo la costa, i primi surfisti solcavano le acque fredde, schiamazzando tra le onde... Il tempo era bello, soffiava un leggero vento.
Si era ritrovato sospinto contro la parete nascosta dall’ombra del distributore automatico, senza difesa a proteggerlo da un bacio prepotente quanto inaspettato. Le gambe incastrate alle sue, in un impeto di convulsa passione che faticò a recepire. Era Fujima...
Pensò a quella volta in cui gli aveva raccontato di aver baciato Kiyomi Kanazawa*, strafiga sospirata da mezzo istituto, e di come se l’era tirato per essere stato il primo tra i due a baciare una ragazza... Come se fosse rilevante, un primato del genere...
Oh… cazzo… Cazzo, cazzo. Molto saggiamente, la sua mente glielo ripeteva. Ci fu solo un secondo di lucida oggettivazione in cui si chiese perché, ma anche questo presto si spense... Maki mise le mani tra i suoi capelli, con cattiveria tirandolo a sé, e in lui, la mente e il fiato vollero sprofondare. Lo baciava e si sentiva perduto. Lo baciava... 
Qualcuno doveva aver liberato una bomboletta di ossigeno da qualche parte, perché l’aria ne era talmente satura da dargli i capogiri... Nelle orecchie, il vento gracchiava; odore di salsedine...  Il segnale della partenza giunse come un’intimazione, a scrollare la sua coscienza deragliata. Fujima si staccò da lui, strappandosi via di colpo dall’appiglio di quelle labbra arroganti e si fiondò senza remore dentro al vagone, appena prima che le porte venissero chiuse.
Le gambe malferme, Maki barcollò ancora di pochi passi, prima di ritrovare la stabilità e un po’ di quel fiato che gli era stato sottratto. Si portò una mano ai capelli, pettinandoseli all’indietro, completamente stravolto. Quando si voltò nuovamente, di Fujima, più nessuna traccia. Nel fischio acuto, il treno stava partendo...
... Ansimava anche lui, chiuso dentro allo scompartimento. Era crollato in quel piccolo metro quadrato di spazio e si teneva il viso madido, gli occhi ancora sgranati e le mani che gli tremavano. Si sentiva come se tutta la forza gli fosse stata portata via da un vortice, anche se poco alla volta, la confusione si diradava.
Fujima osservava il panorama da quella scomoda posizione. Passò il controllore e lui non si alzò. Sette mesi... Dio, passeranno, non è così?
 
Sette mesi... che poi divennero sette anni
E quel bacio in stazione, strappato all’ultimo secondo dalla sua bocca, ne divenne infine solo un confuso, abbagliato ricordo.
 
 
※※※
 
 
Da mezz’ora, si aggirava con aria circospetta intorno a quella specie di stabile disabitato, come se da un momento all’altro si aspettasse di intravedere un fantasma tra le finestre frantumate del secondo piano. Si era trovato patetico, si era augurato le più circostanziali parole di sventura nell’attesa, ma niente... Nessun segnale dal cielo.
Aveva chiamato Jin, per accertarsi sull’indirizzo di Fujima. Ma ora che era giunto davanti a... -Se quello si poteva definire tale- casa sua, aveva sentito tutta la volontà venirgli meno. Certo, si era comportato da vero bastardo, quella sera, lasciandolo in mezzo alla strada... Anche se sul momento, aveva pensato solo che avrebbe giocato comunque a suo favore, fungendo da pretesto ufficiale.
... Pretesto ufficiale?
D’accordo, era ora di darci un taglio. Doveva solo chiedergli scusa e poi andarsene, no? Così pensò, indirizzando i primi passi verso l’entrata buio e fatiscente, ma appena sulla soglia, si fermò. Dal retro del locale, sentì scandire un rumore particolare... Rimase giusto quel mezzo secondo in più ad ascoltarlo. Nulla al mondo, avrebbe potuto fargli dimenticare quel suono. Non poteva sbagliarsi... Maki accelerò il passo, superò l’angolo dell’edificio e una rete metallica consumata dalle intemperie, ritrovandosi davanti a uno spazio aperto e incolto, che a prima vista pareva un terreno abbandonato, ma che ben presto si rese conto di essere un campetto da basket.
.... Uno, due, tre slalom immotivati e il salto leggiadro, prima di incassare un canestro nella disinvoltura assoluta e perfetta. Non era mai cresciuto abbastanza da fare un dunk... Ancora adesso, non ne dubitava. Maki osservava le movenze fluenti di quello che una volta era stato uno dei migliori playmaker della prefettura, e che probabilmente, lo sarebbe stato ancora... Nel cuore, si sentiva assalire dalla malinconia.
Lo guardò religiosamente compiere un altro paio di dribbling prima che si arrestasse, pian piano, abbandonando il pallone e lasciandolo rotolare in avanti fino a toccare la recinzione cigolante... Si voltò a scorgerlo, le iridi abbagliate dalla luce, lievemente confuse... Prima di riconoscere il suo volto dall’altra parte del reticolato, e sorridere, senza dire una parola.
Era ... Bellissimo.
Era bastato levarsi quegli orrendi vestiti da nomade mancato e indossare semplicemente una maglietta bianca e dei jeans puliti... E, si era fatto la barba.
Fujima, in tutta la luce dei suoi 17 anni, se ne stava in mezzo a un campo da basket e gli sorrideva.
...In effetti, era stata una pessima idea.
«Pensavo che non ti avrei più rivisto...» Prima che potesse rinsavire dalla perdizione, gli si era avvicinato a piccoli passi, agganciandosi infine alle maglie di ruggine, la testa ciondolante da una parte. Due astri blu elettrico lo fissavano. «Mi sono comportato da idiota.»
«Tutto qua?»
Cosa ti aspetti adesso? «Nient’altro.» Fu un po’ freddo a replicare, ma gli strappò ugualmente uno sbuffo conciliante. «Dì un po’, come mai abiti in un posto così spettacolare?» Fujima scavalcò uno dei buchi aperti nel recinto, la palla incastrata sul fianco, e si instradò verso la porta di casa, seguito da Maki. «Un piccolo prestito...» Fece, ributtandosi la felpa sulla spalla e senza voltarsi nemmeno. «Notevole...» Fischiò lui, il naso per aria ad ammirare le trapassate edilizie.
L’intero edificio aveva aria di essere in stato di abbandono da decenni, a parte un singolo appartamento in fondo al corridoio preservato miracolosamente. Era piuttosto spazioso, chiusa la porta, con la luce accesa, si aveva la sensazione di trovarsi da tutt’altra parte; nessun crepaccio equivoco, nessun filo scoperto e pericolante … «Mi hanno agganciato anche l’acqua, ieri sera... Vuoi un tè?» Notò le poche cose sparse in giro sul pavimento, tra cui un fornellino elettrico trasportabile. Sì, questa era decisamente l’abitazione di un profugo.
«Non sei passato da casa, immagino... Sì, grazie, senza zucchero.» Fujima gli dava le spalle, accucciato, e le mani occupate intanto a trafficare tra pentole e fiammiferi. Sentì lo sfregare della capocchia sulla carta ruvida. «Figurati, quelli mi chiuderebbero in cantina, dovessi metter ancora piede alla villa... Hanno una cella privata, sai...» Quando se ne era andato di punto in bianco sette anni fa lasciando un bigliettino laconico sul cuscino -Grazie di tutto-, pensò alle espressioni che potevano aver fatto lì per lì, ancora adesso gli veniva da ridere... «Bé, disgraziato come sei...» Maki stava pensando alla stessa cosa.
«Ho portato una cosa...» Lui annuì distrattamente. «...Le cassette dei playoff che avevi dimenticato da me.» «Mh, ottimo.» Gli fece atono, lasciando di colpo la trafila di operazioni sconnesse ai propri piedi, e si voltò. «Senti, Maki...» Sfoggiò un bel sorriso da ebete. «Non è che hai portato anche le bustine per il tè?»
Da quella posizione a terra lo osservava, a gambe incrociate, lo sguardo intenso rifuso d’ironia e d’affetto. Dietro alle sue grandi mani congiunte, si intuiva l’ombra di un sorriso e un principio di risa che gli sfuggì tra gli indici intersecati a formare una vaga X. «...Sarà il caso di andare a fare la spesa, che ne dici?»
 
 
«Sono venuto a incontrare il vecchio avvocato di famiglia. C’erano dei terreni che mi aveva lasciato mia madre all’estero; in teoria, avrei dovuto rilevarli al compimento della maggior età, ma ovviamente non n’ero a conoscenza all’epoca.» Maki annuì alle sue spalle, mentre scandagliavano gli scafali di un minimarket di periferia. «E il casato Fujima? Non avrà nulla in contrario?» ...Lui tacque. Non fece inserzioni sul fatto di aver ereditato una cifra cospicua dal nonno paterno appena passato a miglior vita, della conseguente tempesta giudiziaria scatenata in tribunale, dove aveva incrociato lo sguardo freddo del fratello di suo padre mentre usciva sconfitto dall’aula... Tutte queste schegge seccanti  le avrebbe preservate per sé, leggerezze alle quali non era necessario dare voce. «...Non è stato necessario incontrarli.» Fu la sua risposta.
Fujima prese in mano un pomodoro e se lo studiò con distaccato interesse... «A ogni modo, se ti creano problemi, posso presentarti un ottimo avvocato. Un mio fidato compagno di studi ai tempi dell’università.» Con disinvoltura, Maki gli sfilò il pomodoro dalle mani depositandolo nel cesto... Un gesto fortuito che voleva forse trasmettere un filo di fiducia al suo animo, o almeno, così gli era sembrato nel breve intervallo che lo colse con il volto interdetto... Le guance si imporporarono di un vago e restio sorriso, prima di formulare un timido «grazie...»
... Queste attenzioni erano state sempre tipiche di Maki. Cogliere al volo ciò che a parole era mancato, prima ancora della comprensione... In quei suoi occhi intensi e profondi, c’era qualcosa del genere; qualcosa che lo calmava.
Come nel periodo che era venuto a mancare suo padre, lui era stato.... No. Non doveva fare paragoni di quel tipo. In fondo al cuore, aveva sempre provato disagio davanti ai riflessi tangibili di quella consapevolezza: il non voler ammettere, che in un certo senso, se era riuscito a superare quel periodo così difficile, era stato unicamente per la presenza di Maki; e sapere che, bene o male, molte scelte che faceva erano legate al fantasma sottile e morboso del padre, e del suo amore che tuttora lo avvolgeva, come un filo spinato...
Non aveva intenzione di rivederlo, in realtà. Pensava di sbrigare in fretta le sue faccende e di ripartire in settimana, e Maki era stato proprio l’ultimo dei suoi pensieri... Anche se, ultimo, non lo era proprio... Perché non era stata di certo una coincidenza se aveva incontrato Jin, se era andato al ritrovo del Kainan univ, se poi.... Fato e volontà si rimescolavano qui, e il filo si perdeva nel sentiero dell’inconscio.
Forse, in quel momento, non era in grado di valutare appieno le conseguenze delle proprie azioni.... No... La verità è che Fujima sapeva perfettamente ciò che faceva, e di tutto ciò che ne conseguiva se ne fregava in piena legittimità. Costantemente sospeso a una corda precaria, con l’impressione di non essere da nessuna parte, indirizzava i propri passi dove il vento soffiava... Cosicché, volgendovi lo sguardo, non potesse scorgere neanche l’ombra di un’impronta, dietro di sé.
Era felice?
... Sì, lo era. Sempre e dolorosamente.
Parlare ora di fiducia, quindi, era perlomeno superfluo.
 
Comunque, alla seconda morsa data a una succosa mela rossa, si era chiesto precisamente il senso di quel “possiamo vederci uno di questi giorni”.  Fujima era seduto in bilico sul davanzale di un’inferriata arrugginita a guardare la strada di sotto, dove, raramente, lo strisciare lento delle gomme di una macchina marchiava l’asfalto.
Avevano girato un po’ per le vie della città, senza una meta precisa, parlando di cose di poco conto con tono leggero e allegro. Era stato bello, in un certo senso ... Ma ora, lui se ne stava là, di nuovo sprofondato in un lungo e interdetto silenzio, del quale non afferrava il determinante.
Niente da fare, in quei momenti, non sapeva proprio da che parte prenderlo...
«Una volta, mentre ero a Lima, nel bel mezzo della confusione del porto avevo sentito qualcuno gridare in giapponese...» Lentamente si girò verso di lui, sorridendogli appena nella pallida luce che filtrava tra le sbarre. «Quella, è stata la prima volta che ho pensato di voler tornare a casa.»
«Per te il concetto di “casa” è stato sempre molto indifferente, no?» Gli domandò a sguardo basso, Maki. Lui non rispose. “Anche di amicizia...” Mormorò allora, sottovoce, senza farsi sentire. «Sei contento della tua vita, Maki?» Un vento leggero nel cuore, appena a incresparvi le acque; ma non lo mostrò in superficie. Una domanda così maledettamente diretta e franca, eppure snervante e immotivata: da quanto tempo era, che non se la sentiva porre? «Non ho mai avuto pretese particolari... Come le tue, ad esempio.» Con una smorfia, gli rilanciò scaltramente la palla. Fujima masticò una lieve pausa, come se bilanciasse l’impellenza di quelle parole in mezzo alle labbra. «Ho creduto di volere molte cose... Ma alla fine, forse, si ritorna sempre al punto di partenza.»
«Molte cose cambiano...»
«Già.»
«Perché sei tornato?»
«Non saprei ...»
Maki rise, ma senza entusiasmo. Non lo stupì affatto, quella risposta tanto vaga... Mai che si smentisse. Tuttavia, avrebbe voluto di certo sapere se, in questo suo preciso non sapere, avesse avuto in qualche modo un ruolo anche lui, se il suo improvviso ritorno aveva un significato particolare, se... E questo, non glielo avrebbe mai domandato di certo... Quel bacio lussurioso alla stazione aveva significato qualcosa anche per lui?  
Forse, facendo carico pieno di tutte queste risposte, avrebbe potuto tornarsene contento a casa... Ma non sarebbe mai stato pienamente soddisfatto.
«Ti ho aspettato... All’inizio. Ma poi, sono andato avanti anch’io; non è facile attendere qualcuno che ha un senso così precario della normalità... Tant’al più, incapace di voltarsi indietro.» Fu un sospiro trattenuto a lungo, quello che emise davanti a lui. «Ho paura di non avere abbastanza energie per correrti dietro, Kenji...»
«Che senso ha girare così a vuoto?» La domanda lo sorprese. Maki sollevò la testa. Fujima lo stava fissando negli occhi, attraverso lo spazio grigio di quel pomeriggio immobile e disabitato. «...Se sei deciso a non volerlo conquistare, devi solo lasciarlo andare, nient’altro.»
Aveva sentito il preludio di un’incrinatura dentro di sé, simile al rumore di una crepa che si apriva nel muro. Non capiva se era il tono freddo con cui gli si era rivolto o quelle parole impersonali e il vago accenno di sfida... Si sollevò per un’ispirazione involontaria, come se tutte le sue energie lo trascinassero su, e fece per andare verso di lui. «La fai sempre così facile, tu... Il tuo prendere e andartene, e fregartene totalmente di ciò che lasci indietro! In tutti questi anni, io... Ho sopportato, ho fatto finta che tu non sia mai esistito e me ne sono fatto una ragione, eppure... Non lo capisci mai, vero? Quello che potrei provare, quello che ho passato... Non hai idea!» Si accorse di stringergli un polso, mentre l’altro palmo, sbattuto con forza contro il muro alle sue spalle, lo fece sussultare. «...Non hai idea...» Sibilò ancora, gli occhi brillando all’ombra di una furia silente, e il suo fiato caldo e grave a riversarsi sulle labbra contratte di Fujima, ora fattesi decisamente troppo vicine... Socchiuse gli occhi, nel tremore della collera commista a un principio di desiderio; si sentiva ardere dentro e sarebbe potuto andare a fuoco, lì in piedi, e tuttavia, non osava muovere un singolo muscolo. «Maki... Mi stai facendo male.» Sul volto cinereo di Fujima, intravide il baluginare confuso delle sue iridi. Lo lasciò andare, cedendo di colpo posizione su di lui. Se ne allontanò, e con lui, la sua ombra.
Si passò una mano sui capelli e sospirò in contemporaneo, ma quel gesto non parve dargli sollievo come al solito...
«Perdonami, ho esagerato.» Si mosse di un passo verso la porta. «A ogni modo...» Il volto scostato da una parte, non lo guardava più. «...Credo proprio che sia stato uno sbaglio.» Così disse e ne se andò. E Fujima sapeva che non si riferiva al proprio gesto avventato.






 
L'amore vero non è né scelta né libertà. 
Il cuore, soprattutto il cuore, non è libero. 
E lui, in verità, aveva amato con tutto il cuore solo l'Inevitabile.
[Camus, Il primo uomo]
 
 

Fine seconda parte_




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Capitolo 3
*** 2582,418 miles ***


Warning: Non dovrei imbarazzarmene ma il rating rosso non è mai stato il mio forte.
 




Forse lui non se ne rendeva conto.
Non capiva perché le persone trovassero anomalo il loro… legame. Per lui era semplicemente un rapporto d’amicizia intrecciato lungo gli spogliatoi del palasport, dopo le partite… Eppure, pian piano, il mondo intorno aveva cominciato a mormorare.
Lui lo sapeva benissimo. Ma era abbastanza maturo -e fin troppo astuto- da riuscire a capire che non era necessario sbilanciarsi davanti a certi rumori di fondo, a meno che non vi fosse stato un precipuo interesse in gioco… E ci sarebbe invero da domandarsi, a questo punto, perché mai quella stessa intelligenza levigata non gli fu di leva per sollevare il peso capovolto dell’evidenza?
 


In classe faceva decisamente caldo, ma non aveva voglia di migrare verso l’ala refezione, uno dei pochi lidi provvisti di condizionatori nella scuola e ragionevolmente preso d’assalto nelle ore ad esso consacrate. Perciò aveva trascorso la pausa pranzo in ammollo nell’afrore della giovinezza, armato del terzo volume di matematica avanzata e incomputabili sospiri; del resto, con i campionati imminenti, non trovava mai tempo per studiare.
Fu in quel frangente, che un compagno di classe gli fece notifica di una visita. Emerse appena lo sguardo dall’oscuro abisso delle funzioni integrali che scorse sulla porta il sorriso del kohai.  «Cos’è, ora vi date il cambio, tu e Kyota?» Sollevò un sopracciglio di valutazione, vedendo la sua figura irraggiarsi sempre più nell’avvicendarsi dei passi che lo portarono in fondo all’aula, dove il suo banco costeggiava penultima le finestre. «Lo sai che è solo preoccupato per te.» Maki si tolse gli occhiali da lettura che poi posò con calma tra le pagine del libro. «Come vedi, io sto benissimo.»
Jin lo considerò per alcuni secondi, in silenzio. «…Takato-sensei è molto in ansia, e tutti noi pensiamo che….» Il capitano fece uno strano guizzo sulla sedia, scalpitando sui talloni. Si massaggiò le tempie con insofferente rassegnazione. «Non ricominciare con questa storia… Ti faccio notare comunque che non è affar tuo, e poi c’eri anche tu--» Jin si sporse sul tavolo. «Maki, ti sei fatto quasi investire da una macchina!» L’orologio appeso al muro mancò di un secondo. Stavolta, toccò a lui starsene zitto.
Non cogliendo in lui altri segni di vita, Jin riprese a parlare. «Magari certi discorsi di Nobunaga non erano poi così smodati; il fatto è che tu ti comporti in modo strano quando c’è di mezzo Fujima-san, e lo so che finora non mi sono mai espresso, ma… Dopo questo.» Calò le ciglia in un velo d’ombra.
 “Devi darci un taglio.” Gli aveva detto allora, molto conciso. Raramente, il sorriso abbandonava il volto etereo del suo kohai, e quella, era stata certamente una delle scarne volte in cui lo aveva visto con un’espressione tanto perentoria.
 
Quel pomeriggio gli aveva chiesto un passaggio e si era fatto scarrozzare sul sedile posteriore della sua bici fino al cancello del Liceo Shoyo, dove Jin era rimasto in attesa insieme a lui, ben sapendo che era andato per incontrare Fujima.
Doveva assolutamente parlargli. Erano trascorse due settimane e lui continuava a non volerlo vedere. E quando avevano vinto contro lo Shohoku la cosa era anche peggiorata, ora si limitava a sbattergli il telefono in faccia.
In mezzo al corteo di studenti prosciolti dalle lezioni, aveva scorto la sua figura. Gli era andato incontro e si erano messi a discutere dopo qualche secondo; ma non si riusciva a sentire il contenuto del loro discorso che continuava a proliferare tra la folla. Poi Fujima lo aveva scacciato malamente e, tutto scazzato, aveva preso a percuotere il lastricato alla direzione del viale trafficato. Maki gli era corso subito dietro, pregandolo di fermarsi, ma senza evidenti risultati. «Mi spieghi perché ti comporti così?!» Gli agguantò un braccio in mezzo alla strada, costringendolo a voltarsi. «Và pure a fotterti lo Shohoku, visto che ti è piaciuto tanto, e lasciami in pace!!» Lo sguardo folle di rabbia, con uno strattone, si liberò bruscamente dalla sua presa e aveva ricominciato a correre. In quel momento, il semaforo aveva lampeggiato. Jin, che a tratti li perse quasi di vista, sobbalzò lasciando cadere la bicicletta.
… Non si accorsero in tempo. Una frenata acuta li fece ripiegare. Maki urtò di striscio contro il cofano, mentre Fujima aveva evitato di pochi centimetri la curvata brusca dell’auto. Dopo pochi secondi di shock congelato, era scoppiato il putiferio davanti alla scuola. Ma alla fine non era successo niente, solo un gomito sbucciato e tanta paura.
 
… E anche quella volta, come subito dopo l’incidente, con quel solito tono disinvolto aveva sminuito tutto, riponendo un sorriso di imperativa diplomazia, tipico di quando voleva mettere un punto al discorso. Anomalo? … No… Semplicemente, inquietante.
«Ti ringrazio delle tue premure, Jin, ma non c’è davvero nulla di cui preoccuparsi.»    



 
Vägen hem 2582,418 miles 


"Se io non vengo, tu parti lo stesso?"
"Sono già partito."
[C. McCarthy, Cavalli Selvaggi]
 

Cos’era … un amico?
 
Aveva impressione di non comprendere fino in fondo la genesi di un lemma tanto invalso; era come certe particelle imparziali dell’universo semantico, così giuste e cristalline da ispirare ambiguità. Ricordava di aver scritto un tema di giapponese in prima media, su questo argomento, ricavandoci peraltro un gran bel voto in pagella; la maestra l’aveva lodato, ma in verità, nemmeno lui sapeva cosa ci avesse scritto di preciso… Ah, già. Aveva parlato di suo padre.
Ryuichi, primogenito della famiglia Fujima. Scapestrato come pochi, sempre col naso all’insù a fissare il cielo, chiamato perciò ironicamente da suo fratello Ryuji “testa tra le nuvole”, aveva sempre avuto una passione smisurata per le stelle. I Fujima possedevano fin dall’antichità molti terreni, che da generazione a generazione erano andati aumentandosi fino a raggiungere l’attuale ricchezza del patrimonio. Vivevano tutti e quattro -domestici compresi- nella grande villa di famiglia, ereditata dal bisnonno che l’aveva fatto costruire sul disegno di un antico palazzo neoclassico italiano. Kenji non sapeva che nel periodo in cui visse insieme allo zio, gli fosse stata assegnata proprio la stanza che una volta fu di suo padre: si trattava naturalmente di una casa enorme, con lunghi corridoi che si alternavano tra zone di luce e quelle di ombra, bassorilievi in candido marmo di Carrara, le tende di mussola che frusciavano bianche e leggiadre al vento, filtrando viste verdeggianti sul giardino spaziato da grandi cipressi, abeti e macchie di aceri rossi; e tutto questo, nel bel mezzo della prefettura di Kanagawa.
Mentre Ryuji frequentava Legge alla Todai, come era tradizione per tutti i membri maschili della famiglia, Ryuichi, con due anni di ritardo, scelse la facoltà di Astronomia; e appena ebbe possibilità, se ne andò all’estero lasciando le redini della famiglia al fratello minore. All’epoca, doveva averlo incolpato molto, ma Ryuji non era in grado di opporsi al volere di Kenzo Fujima; del resto, lui che era sempre stato posto in secondo piano a causa del fratello, era stato più che soddisfatto così…
Ryuichi visitò diversi avamposti scientifici, nel suo giro intorno al mondo insieme a un equipe di ricercatori, e in Svezia aveva conosciuto sua moglie. L’aveva vista la prima volta a Capo Nord, mentre osservava l’orizzonte offuscato, e la seconda, sulla seggiovia di Abisko. Kristin, i lunghi capelli biondi raccolti in un berretto di lana, e quel sorriso abbagliante come una carezza di sole che scioglieva il gelo della notte polare…  Anche allora, ciò che lo colpì di più, fu il fatto che stesse fissando le scie danzanti dell’aurora boreale con il naso all’insù senza muoversi, per ben mezzora, finché le guance non si erano congelate ad entrambi: allora, si guardarono, accorgendosi dalla reciproca presenza, ormai i soli spettatori del cielo, e si erano sorrisi. La sua espressione rapita e quegli occhi risplendenti nel buio delle luci inafferrabili e sussurranti che mutavano di secondo in secondo… Per Ryuichi, rimasero un ricordo prezioso e indelebile di quella notte.
La terza volta, incredibile a dirsi, si incontrarono lungo il sentiero di Kungsleden mentre era di ritorno dalle pendici del Kebnekaise, e lei andava alla direzione opposta … Fu allora che Fujima decise di fare dietrofront e ripercorrere i 150 km appena fatti con gli scarponi infangati ai piedi, con la sola pretesa di poter conoscere il suo nome. Si sposarono a Kiruna.
Un mese e mezzo di storia d’amore sfociata tra i ghiacci dell’estremo nord. All’epoca erano molto giovani e si somigliavano tanto, entrambi impulsivi e passionali. Kristin era una fotografa paesaggista, originaria del Svealand, naturalmente si trovava ad Abisko per un incarico. Subito dopo la cerimonia -una cappella di ghiaccio, un prete e due colleghi dell’EISCAT * come testimoni-, erano dovuti partire entrambi a causa dei reciproci impegni. Kris scoprì di essere incinta quando era tornata a casa dopo due mesi, ma Ryuichi non era più in Svezia. Si tennero in contatto costante in giro per il mondo e si videro più spesso che poterono, quando il lavoro lo permetteva, tra Tokyo e Stoccolma. Stranamente, fu un periodo molto felice …
Da piccolo, a Kenji piaceva tanto farsi raccontare del posto in cui era nato, quasi che fosse una fiaba prima di addormentarsi. E mai, sul volto di suo padre, aveva scorto un livido  di dolore, mentre glielo narrava… Tutte le volte, lui sorrideva, sorrideva sereno e pieno di orgoglio, sebbene quelle circostanze non rappresentassero solo un evento felice per la sua vita, poiché coincisero anche con la morte di sua moglie.
Al penultimo mese di gravidanza, Kris si trovava in Africa. Certamente, non fu una buona idea … Era rimasta bloccata per via di un’influenza, durante un set fotografico che aveva accettato nonostante le sue delicate condizioni e… Purtroppo, al momento del parto, il suo corpo già logorato dalla malattia non fu in grado di far fronte all’evento. Era una donna temeraria che non si sarebbe fermata davanti a niente pur di inseguire un’ideale e di proteggere ciò che più amava, Ryuichi lo sapeva meglio di chiunque altro… Con un mese di anticipo, Kenji vide la luce sotto il rovente sole del continente africano, e sua madre con un ultimo impulso della sua infinita forza gli fece il dono più prezioso di questo mondo, gli regalò la vita. 
All’ospedale di Algeri, quando li portarono, madre e figlio, entrambi in fin di vita, Fujima finalmente era riuscito a raggiungerli. Uno solo, sopravvisse. Lo aveva preso in braccio, con il cuore a pezzi, pensando a questa nuova vita che stringeva tra le mani … La vita che si era scambiata a quella di Kris. E sentiva, che era amore.
Kenji era cresciuto con gravi problemi di salute, essendo nato prematuro, aveva passato i primi mesi di vita chiuso in una piccola teca di vetro. Ma alla fine ce l’aveva fatta.
Portava i capelli biondi, gli stessi della madre e quegli occhi … Blu, come il cielo limpido e incontaminato del nord, tutte le volte che li guardava, Ryuichi ricordava la sua amata Svezia, terra dove aveva trascorso giorni fieri e indimenticabili, la terra di Kristin.
 
“Se devo proprio dire uno, allora forse è mio padre.
Non si capisce come mai a volte la nostra famiglia si ritrova a rivestire un ruolo tanto differente, quello del migliore amico. Lo è sempre stato, fin da quando sono nato, e sempre lo sarà. Sebbene, ci sono giorni in cui mi auguro di non dover affrontare la sua debolezza e il suo dolore, per quanto sia egoistico. Ma so che lui è forte, in fondo, e non si arrenderà facilmente: perché questa stessa forza mi è stata insegnata da lui.
E con la devozione di un figlio e di un amico, saprò prendermi cura di lui.
Kenji Fujima. Sezione 2, primo anno.”
 
 
Ormai, Fujima doveva aver già scordato quelle parole. Ma ancora oggi, vi riponeva fede ciecamente.
Di certo, spesso si era domandato da dove venisse… Questo affetto. Un atto morboso e ossessivo che lo consumava, veleno e antidoto al tempo stesso, come se non potesse avere liberazione, ed il legame profondo e la forza di trazione che tutto questo attirava, sistematicamente, in una spirale di inevitabile meccanica sentimentale…
 

 
 
 

In quei due giorni, era stato faticoso alzarsi e andare a lavorare.
Dalle stecche delle persiane, l’alba filtrava con una dolcezza quasi fastidiosa. Con gli occhi già aperti in sua attesa, Maki se se stava disteso immobile nel letto a due piazze. Si preannunciava un’altra giornata di mal di testa crivellante …
L’unica consolazione del mattino era il caffè. Dopo essersi riempito due tazze piene, era seduto in cucina a leggere il giornale. La cravatta abbandonata sul tavolo, gli scocciava annodarsela. Dall’atrio, sentì il familiare tintinnare di un mazzo di chiavi, quando una voce femminile si annunciò «Sono tornata, amore.»
«Ancora bevi quella roba?» Entrò a passo scattante in cucina e posò, senza tanto riguardo, due borse stracolme di spesa sul tavolo; dandogli un bacio veloce. «Sì. Come è andato il viaggio?» Noriko si raccolse i lunghi capelli scompigliati e si accasciò su una sedia accanto a lui. «Fiuu… Sono distrutta. Bene, i miei dicono che verranno un giorno prima per darci una mano.» Maki annuì, svuotando gli ultimi sorsi nella tazza e la mise nel lavello, mentre apriva il rubinetto. Con dei movimenti circolari la risciacquò, le maniche della camicia rimboccate a mezzo braccio. «Ottimo, però dall’Hokkaido… Non sarà un problema? Potrebbero stare a casa dei miei genitori nel frattempo, e magari farsi un giro per Yokohama e Tokyo dopo la cerimonia.» Intanto che rovistava nei cassetti per mettere in ordine i soliti prodotti locali portati dal suo paese natale, Noriko fece sì con la testa. «Lo penso anch’io, ma hanno insistito tanto. Certo che già siamo stracolmi di lavoro, tra una cosa e l’altra ci dobbiamo pure sposare … Un paio di mani in più non lo riterrei proprio un male.» Maki rise, e si andò a mettere la giacca per uscire. «Hai ragione. Oggi che fai?» Silenzio. «Mh?» Si affacciò nuovamente, per rintracciare una risposta che forse gli era sfuggita tra le pareti. Noriko si voltò e gli sorrise riluttante. Due splendidi occhi nocciola si fecero sottili e solo allora si accorse che era un po’ pallida in viso. «Ho un piccolo affare da risolvere, quindi sarò in giro.»
«D’accordo.» Le rimandò il sorriso.
Maki chiuse la porta di casa alle spalle, e vi rimase appoggiato contro per pochi secondi ancora. Sospirò, strinse forte il manico della la valigetta in pelle, e pesante mosse i passi verso l’ascensore.
Fuori, il sole faceva capolino tra i grattacieli.
Ci sono giorni in cui buttarsi a capofitto nel lavoro poteva essere l’unica soluzione. Almeno, non doveva occupare la testa con altri pensieri che non fossero carte e progetti… Non si ricordava di quanti caffè avesse preso in quei giorni. Durante le pause il suo collega, Sugimoto -col quale andava sempre a pranzo-, lo veniva a ripescare dalla scrivania e insieme andavano alla saletta per farsi due chiacchiere, poi passavano le segretarie a portare altro tè e caffè, cosicché, tra una tazza e l’altra, la giornata lavorativa si concludeva. Praticamente, non dormiva quelle notti. E non era per la caffeina… «Insomma, tra un po’ dovresti darti una regolata, Maki … Che ne dici di un bel addio al celibato?» Fece il collega accanto alla finestra, il filo di fumo della sigaretta che ascendeva sinuoso contro un cielo nuvoloso. Sotto, a 30 piani di distanza, il traffico cittadino risuonava in uno spartito intermittente e scoordinato. Maki sbuffò. «No, lascia stare. Quello di Oomura mi è bastato.» E lui rise, dopodiché un vicino sopraggiunse. «Pare che sua moglie lo abbia messo alla porta dopo quel piccolo disguido a Ginza…» Altre risate ancora. Aveva riso anche lui, ma era come se non fosse lì, proiettato fuori dal proprio corpo.
Aveva la testa da tutt’altra parte …
Appena scendeva la sera, il quartiere di Shinjuku esplodeva di scenografiche illuminazioni e i palazzi riversavano sulle strade fiumi di impiegati. Il cielo che volgeva al tramonto, acceso di tenue rosa e audace arancio, la cui delicatezza nessuno pareva far caso. Si camminava, in un frastuono umano incredibile, come di milioni di motori accesi; si raggiungeva la metropolitana più vicina, oppure si prendeva la macchina, augurandosi nel caso di non trovare ingorghi.
La città era cresciuta come una foresta. Una luna pallida, svettava tra le creste delle sue cime più splendenti. Ma nulla si muoveva.
Non bisognava fermarsi. Se ci si fermava un istante, si era perduti. Perché in quel singolo attimo, si poteva correre il rischio di venire assaliti dal dubbio e dall’orrore, e sarebbe stata la fine.
Alla domanda “sei contento della tua vita”, Maki, non aveva saputo rispondere. Benché la risposta, dentro di sé, la conoscesse già da tempo. Ed era proprio lì, in un qualche punto imprecisato e inenarrabile sospeso in mezzo alla folla di Shinjuku, quando cala il sole…
Spesso, in momenti come questi, aveva pensato a Fujima.
 
 
Benché sia ora così lontano da casa, quelle forme mi permangono nitide, tuttora.
Sotto il cielo di Tokyo, in mezzo a una folla sussurrante, ogni singolo dettaglio si accendeva e ognuno di essi portava il tuo nome.
 
Quello spigolo di monti da cui il primo raggio di sole filtrava, sulla fiancata immersa nella bruma azzurra del mattino, un fascio di oro infuocava le cime degli arbusti sempreverdi. Allora, sentivo le punte della tua frangia farmi solo il solletico, poiché la pelle assopita non rimembrava ancora il significato di una carezza… Ricordo come era difficile, il risveglio accanto a te…
 
Torna da me, Fujima; solamente questo ti chiedo.
 
 

 
 

Era meglio così, alla fine. Se lasciava le cose così com’erano, col passare del tempo, tutto sarebbe nuovamente scomparso. Come sette anni fa. E lui, poteva finalmente ritornare alla sua solita vita. Già…
Noriko era di nuovo a casa, e questo, un poco lo aiutava. La sera lei gli preparava la cena, mangiavano insieme e poi il tempo passava con un po’ di lettura, oppure davanti a un bel film. I pensieri così si dileguavano, e con essi, i suoi dubbi. Era come vivere dentro a un enorme bolla di serenità, una quotidianità iridescente, irreale, e stranamente dolce. E in fin dei conti, andava bene così…
Fujima era sempre stata la scelta sbagliata nella sua vita, la meno ponderabile e la più sconsiderata. Non sapeva se avrebbe avuto il coraggio di affrontare un’altra volta questa battaglia, il suo inferno personale. Se sarebbe potuto sopravvivere... Avrebbe solo voluto porre fine a questo legame. Tagliare i ponti una volta per tutte col passato e questo male intossicante. Razionalmente era certo di stare facendo la cosa giusta, eppure, per qualche ragione, non riusciva proprio a convincersene...

«E con questo abbiamo concluso! Grazie a tutti per il vostro impegno!»
Tutte le volte era come diplomarsi, e nello scroscio di applausi auto-congratulanti, forse qualcuno avrebbe osato anche lanciare in aria qualche cartella, ma nessuno se lo permise davanti alla testa pelata del dirigente. «Fiuu… Meno male, eh, Maki-san?» Lui annuì e andò a sederci un po’ spossato davanti alla propria scrivania, massaggiandosi gli occhi tra due dita e si allentò la cravatta. Mentre il resto dell’ufficio festeggiava ancora, aprì di nuovo il portatile e riprese a battere i tasti, come nulla fosse. Un collega gli si avvicinò e si appoggiò alla fiancata del tavolo. «Dai, piantala di fare lo stacanovista. Guarda che la promozione non arriva mica per somma di ore lavorative!» Lo fissò sereno in volto e gli sorrise. «No, è che voglio accumulare più ore possibili… Per le ferie di nozze, sai…» L’altro annuì. «Capisco… Dove avete scelto di andare?» Maki fece per guardare il calendario digitale. «Okinawa per cominciare, poi…» Osservando la data, si era improvvisamente bloccato; in quel momento forse gli venne un dubbio … «Kaname-san, che giorno è oggi?» «Il 23, perché?»
Maki rimase immobile sulla sedia.
Rigido lo sguardo davanti allo schermo luminoso, nel tremolio delle iridi che parvero di colpo divenire irrequiete. «Maki-san, c’è qualcosa che non va?» … No … Nulla … che non andasse. Era il 23 del mese e tutto filava come al solito… Perfettamente. «Maki-san…?» Si sentì chiedere una seconda volta. Maki alzò di scatto la testa. Ora, nei suoi occhi si distinse inequivocabile una tinta leggera di panico. «Io…» Pensò a una giustificazione, ma fu troppo veloce e i suoi pensieri non seppero seguire altrettanto rapidamente i suoi passi.
Andò a prendere il soprabito e cominciò a infilarci dentro un braccio, e mentre il collega lo guardava ancora chiaramente confuso, gli fece «Senti, io…» Si morse nervosamente il lembo inferiore delle labbra, lo sguardo un po’ sconvolto che deviò e ritornò ancora sulla sua figura. «…Coprimi, ok? Ho un impegno urgente adesso, e… Mi dispiace tanto!» E non seppe dire di meglio; spolverò un debole sorriso e come per rafforzare il messaggio gli strinse con complicità un braccio. Una pacca sulla sua spalla e fuggi via, mentre il resto del dipartimento festeggiava ancora.
Sulla scrivania, il portatile abbandonato era rimasto acceso…
 
 
Averti o meno accanto a me, in questa esistenza, forse, non ha in realtà molta importanza… La verità è che siamo tutti soli, qualunque cosa accada. Io per primo, ne sono consapevole. Ma il fatto è che non riesco a fermare i miei passi ora, e questo, non so spiegarlo a parole … “Resta con me. Resta per me. Non te ne andare” questo, era tutto ciò che avrei voluto dirti, sette anni fa.
Forse, collidendo, i pezzi di cuore finiscono per rimanere conficcati nel cuore dell’altro.
Questo egoismo, potrebbe mai meritare perdono?
 
 
 
… Forse me ne pentirò per il resto della vita.
 
 
Quando arrivò, ansimava. Quel giorno non aveva la macchina, sempre il momento meno opportuno per conoscere le scomodità della metropolitana …
Non si sentiva nemmeno un fruscio in giro, ed era più che naturale. Bussò alla porta, ma non rinvenne risposta. Allora l’aprì, lentamente… Era pomeriggio tardi, c’era ancora luce, fioca e diffusa che rischiarava i quattro angoli di quello spazio arioso e completamente vuoto. Non c’era più niente. Maki entrò nell’appartamento abbandonato, con una singola dilaniante occhiata che abbracciava l’intero quadrilatero e gli bastò per capire di essere arrivato troppo tardi. Abbassò il capo, sconfortato, ma solo allora si accorse di un’ombra accanto alla porta …
Con un sussulto si voltò.
Era lì, appoggiato contro il muro accanto all’entrata; ai suoi piedi, una borsa e una valigia... Non riusciva a vedere la sua espressione, ottenebrata dalla zona d’ombra.
«Che cosa ci fai ancora qui? Non dovevi essere già partito?» Lo chiese quasi con rabbia.
Le braccia raccolte che si cingevano a vicenda allora ricaddero lungo i fianchi, lievemente il viso deviava e le labbra di Fujima parvero dischiudersi, restie. «Io…» Non riuscì a dire altro, e nell’intento le guance si tinsero di rosso.
Allora Maki fece per andare verso di lui e gli sembrò furioso in quei brevi passi energici, eppure su quel viso non colse altro che il livido di un’incipiente esasperazione. La bocca si serrava fino a divenire esangue e le sopracciglia contratte. «Scusami…» Scuoteva il capo in quel lieve tremore mentre lo ripeteva «Scusami. Ma non posso…» 
e Fujima se lo trovò a un palmo dal naso, senza nemmeno aver compreso appieno le sue parole; sentì le sue mani calde intorno alle guance, avvolgerle, e un soffio di labbra si prese le sue, con foga e precipitazione. «...Non posso più aspettarti ancora.» 
Tempo di assestare che quanto era accaduto, irreparabilmente, nell’istante realizzò la disperazione di quel bacio. Le dita si tesero per aggrapparsi al colletto allentato della sua camicia, si alzò in punta di piedi, la coscienza tremava… Lo sentì mugolare e le sfiorò con maggior veemenza. Un bacio che non lasciava spazio agli indugi del respiro. Fujima strinse gli occhi, costringendo le lacrime di rimanervi confinate…

Fu tutto piuttosto veloce.

Forse era stato Maki a levarsi per primo la giacca, provvedendo poi anche ai suoi indumenti… Lo vide sfilarsi la cravatta con uno strattone piuttosto provocante, intanto udiva il suono metallico di una fibbia che veniva sganciata; si guardò con ansia in basso, e sorprese smaniose le proprie mani sulla cintura di Maki. L’apertura dello zip produsse un rumore secco nell’aria.
Nel tentativo confuso di raggiungere la stabilità di un giaciglio poco lontano, si erano ritrovati a inciampare sopra un intreccio di gambe e scatoloni. Maki sentì il proprio baricentro venire meno di fronte al peso di Fujima che gli si appressava contro, trascinandolo giù con sé, sul nudo pavimento di piastrelle consunte, senza mai smettere di baciarlo un solo istante. Maki estinse una smorfia di dolore misto a irritazione sulle sue labbra, il fondo schiena pulsante di rancore inespresso e un palmo abraso. Si aggrappò maldestro al bordo di un cartone per sollevarsi, ma anche questi finì per crollare sotto la pressione delle sue dita forti, accartocciandosi e strappandosi, inerte.
Non arrivarono mai fino al letto.
Fujima si morse il labbro, abbassando la fronte imperlata in un nugolo di freddo sudore, e ansimò una seconda volta. Tremante il pugno serrato veniva sbattuto con resistenza, ma lo voleva, ne voleva ancora. Non si era accorto dell'acuto gemito emesso da Fujima, nell'istante in cui lo forzava a prenderlo dentro di sé, lì sul pavimento, in quelle circostanze scabre, dopo una stentata preparazione che sapeva fin troppo ingenua, e lo sentiva stringersi intorno, ostile, l'anima corrosa di sanguigno piacere.
Una mano a cingergli la carne cedevole sul fianco, l’altra si impuntava a terra. "Kenji…” si lasciò sospirare, Maki, disconnesso. Un lungo brivido gli percorse la schiena, quando sentì quel nome risuonare nei suoi ansiti, di tale dolcezza e atrocità. Sottile, fu la goccia di piacere che si sciolse nel dolore cementato, svanendo, confuso e intermittente, per tornare ancora alla rimonta, seconda, terza, ondate su ondate, scintille elettriche condensate in tempesta, sempre più intensa, sempre più furiosa…
Lungo le pareti, sospiri scabrosi come mugolio di bestie.
Il minuto e mezzo più lungo della sua vita, ma era durato fin troppo. Avrebbero potuto cedergli le gambe e le braccia, comprese che sarebbe stata imminente, la fine. “Forse me ne pentirò per il resto della vita.” Maki venne con un gemito gutturale e lui subito dopo, affondando il viso tra due pezzi di stoffa che stringeva nelle mani.

“… Per il resto della vita.”
 
 
 


Una macchina passò sotto la finestra, a rintracciare l’esistenza di una strada asfaltata, in capo al mondo; per il resto, quiete e sigarette. Superate le inferriate, la sera si era appena tesa verso le piante dei loro piedi nudi.
La morbidezza un po’ dismessa di un materasso di fortuna abbandonato in un angolo. Un braccio che vi sporgeva languido, era sdraiato a pancia in giù e lo fissava ora con lo sguardo mitigato, interminabilmente. Fujima tese la curva giugulare del collo e fece involare lascivo uno sbuffo di fumo dalla bocca. Aveva aria soddisfatta e indifferente allo stesso tempo, perfettamente a proprio agio nella nudità disinibita; si voltò e lo fissò a sua volta, sorrise. Maki puntellò il gomito, e si stese su di un fianco, sfilandogli la sigaretta tra le dita. Lo osservò sogghignante e vagamente incuriosito, «non ricordavo che fumassi...», e gli sembrò come di avere un dejavu; sì che lo sapeva. Maki, aspirò il profumo del tabacco con una certa compiacenza. «… Ho smesso di farlo quando sono andato a vivere da Noriko. A lei non piaceva.» Ed esalò al contempo una miscela tossica d’impertinenza e nicotina, come per sottolinearsi. Fujima lo considerava in silenzio, con quel mezzo sorriso sospeso pieno di sottintesi, poi gli disse all’improvviso. «Andiamo a fare due tiri, ti và? Come una volta…»
E Maki non si fece pregare.
Giù al cortile, il cielo volgeva al tramonto, ogni canestro vi rimbombava contro fragorosamente. Aveva perso un po’ la mano, negli anni d’inattività; ora, per mirare alle traiettorie doveva tenersi pronto alla possibilità di sbagliare. Ironico, quanto fosse vero anche nella vita … Non c’erano più divise, né orgoglio o rivalità di sorta; ora, erano davvero solo due ragazzi -un po’ cresciuti- che giocavano a basket insieme. Ed erano ancora i due migliori playmaker di Kanagawa, senza il minimo dubbio …
A un certo punto, in mezzo al campo, Maki si era fermato. Il pallone sospeso tra le mani. L’espressione inchiodata a terra, lo fece rimbalzare ancora due volte e lo riprese. «Fujima … C’è una cosa che non ti ho detto. Io …» E qui, il fiato grave sembrò raccogliersi intorno alla sua reticenza ... Kenji lo fissava in attesa e aveva impressione che, in qualche modo, sapesse già. «Io … Mi sposerò tra una settimana con Noriko.» Sì, lo sapeva già, lo comprese nell’istante in cui aveva levato la fronte e incrociato il suo sguardo indefinibile puntato su di sé. Ma non lo accusava.
Perché?
Fujima aveva deviato lo sguardo di appena pochi gradi, all’ombra delle ciglia decrescenti, la sua pelle rimandava i riflessi robbia del crepuscolo. «Sei libero di fare quello che vuoi, Maki … Non esiste nulla e nessuno al mondo che possa giudicarti, ora.» Disse tra le sue labbra tese in un filo di sorriso. Gli occhi brillavano sereni. «A ogni modo se ti preoccupa che io possa dire a …» «No!» Lo intercettò subito, intuitosi del piccolo malinteso; si sentiva un verme. «Non era questo …» Abbassava nuovamente lo sguardo leso di colpevolezza e Fujima gli annuì in consonanza. «Quello che è successo è stato bello, Maki, ma non siamo obbligati a legarci per forza. Ci siamo incontrati ancora e siamo stati bene insieme; e questo è quanto, per quel che mi riguarda … Siamo ancora noi stessi, ora, come vedi, e questo non cambierà, neanche in un lontano futuro.»
Durò tanto quel tratto di oscurità sospesa che faticava a cedere il peso sul mondo … E tutta a un tratto, piombò la notte. Da qualche parte verso ponente, sulle acque ancora infuocate, un transatlantico lasciava silenziosamente il porto illuminato di Yokohama …
Tra i palmi, Maki aveva stretto quel vecchio pallone da basket per tutto il tempo, senza mai lasciarlo.
 
 
 
 
 

Le coltri di nubi ricoprivano il cielo, quando Noriko varcò le porte scorrevoli all’uscita dell’edificio ospedaliero. Il volto era traversato da un flusso di felicità, nel vento fresco del primo autunno; sospirò e si strinse nel suo trench beige, incamminandosi verso il viale trafficato dove avrebbe chiamato un taxi.
A metà discesa delle autoambulanze, appoggiato contro il parapetto, trovò un sorriso aitante e vagamente riconosciuto ad aspettarla. Le porse un cenno con la mano e le venne incontro con fare fortuito, «buongiorno.»
«Nobu-san! Che sorpresa, cosa fai da queste parti?» Il ragazzo le schioccò un’occhiata furbesca, da flirt innocente, facendo spallucce. «Passavo per caso …» La scusa più vecchia del mondo, ma lei non trovò motivi per serbarvi sospetto. Lo conosceva da un paio d’anni e ogni volta che si vedevano, nelle uscite con il suo fidanzato, lui sembrava provarci; a lei però non aveva mai dato fastidio questo, lo trovava garbato e estroverso. «Allora come vanno gli studi? Facevi Scienze Veterinarie, vero?» Lui annuì. «Mi mancano un paio di esami.» E lei aspettò altre considerazioni che però parevano non esserci. «Bé, allora…» Ci accinse a salutarlo, ma fu interrotta. «No, in realtà … Volevo chiederti un consiglio …» Nobunaga si spostò una ciocca corvina dietro l’orecchio, deviando lo sguardo. «…Non ti ruberò troppo tempo, giuro.» Stirò un ennesimo sorriso affettato e la invitò a bere un caffè in un localino dietro l’angolo.
 
Dall’altra parte della città, nel medesimo istante, Soichiro Jin mise giù la cornetta, con un sospiro. Dopo 3 chiamate a vuoto, avvertiva una leggera ansia dentro di sé e si chiese se avesse fatto bene a riferirgli quelle cose, il giorno precedente. Ci si era rigirato sopra per tutta la notte e si era convinto che forse non era proprio una preoccupazione futile … Conoscendo il soggetto e le implicazioni in gioco.
Forse quel suo fare l’occhio onnisciente andava ben oltre le sue medesime capacità di controllo… «Ti prego, non fare sciocchezze, Nobunaga.» Disse inquieto, guardando il telefono immobile sulla scrivania.
 
 
 
Quella notte Maki tornò tardi a casa, ma non c’era nessuno ad attenderlo.
Il letto vuoto e le lenzuola ordinate, come le aveva lasciate quella mattina … Noriko non era ancora rientrata.






 

let me pull the last string for the last time,
for the last time
with all your worries you're standing so still
let me come and see for the last time,
for the last time...
 
 
 
 
 


«Lo faccio solo per il bene del mio senpai, lui non sa quello che fa … Noriko-chan. Non mi odiare, ma le cose stanno così.»
 
Maki si svegliò con la luce negli occhi, era domenica. Una bella domenica mattina, inondata di sole.
Si voltò dall’altra parte del letto, ma non ci trovò nessuno; il cuscino rigonfio, sazio di un biancore abbagliante. Strisciò verso il piccolo bagno annesso alla camera da letto e si sciacquò velocemente il viso. Dopo essersi vestito pronto a uscire, andò in cucina a farsi la solita tazza di caffè, e la trovò seduta davanti al tavolo, da sola.
Lei si voltò lentamente.
«Dove sei stata, eh? Non ti ho …» Si accorse del colorito cinereo e dei lividi scuri evidenti sotto gli occhi, indice di un’intera notte insonne. Aveva pianto. «Amore, stai bene?» Maki le si accostò prendendo posto immediatamente di fronte a lei e le tese una mano. Che lei non strinse.
Ebbe un presentimento …
«Che è successo?» Lo chiese comunque, non prestandosi credito e in buona misura ancora candidamente preoccupato. E invece, la udì replicare fredda e atona. «Dimmelo tu …» Il suo viso non mostrava alcun riso d’ironia …. Con molta lentezza controllata, Maki si sedette.
Era successo.
... E altrettanto in fretta, lui ne assestava il colpo; sebbene non si capacitasse di come potesse essere accaduto, nell’arco di una sola nottata e con un tempismo tanto acuminato. Doveva trovare una giustificazione, ora? Pensò … Doveva attaccare con le prime e risolutive scuse, per potersi assicurare così la vittoria in una battaglia di parole che si annunciava dolorosa e ineluttabile? Quante volte si era ritrovato a ragionare contro tempo su simili strategie preventive, a scuola, sul campo, al lavoro, in famiglia, per non dover poi affrontare conclusioni altrimenti disastrose, per avere il tutto sotto controllo. Ma in quel momento, stranamente, non aveva sentito nessun impulso di difendersi …
Sarebbe andato incontro a morte certa, ma non si smosse di un solo passo da quella consapevolezza. E in fin dei conti, gli andava bene così … Sul volto della fidanzata, vide il chiaro segnale di una delusione. «Perché?» Lei si morse le labbra livide. «Perché non provi nemmeno a discolparti?»
«Cosa vuoi che ti dica?» Teneva lo sguardo abbassato, per puro rispetto. E questo riflesso d’indifferenza, per lei, fu la goccia. La dolcezza del suo viso venne incrinata violentemente. Le palpebre compresse mentre scuoteva il capo, e il fiato che le si spezzò sulle labbra contratte. «Non ci posso credere … Come hai potuto farlo?? … Un ragazzo! Sei stato con un …» E la voce le tremò, poiché non ebbe coraggio di concludere quella frase tanto incresciosa e pensare di poterla associare all’uomo che le stava dinanzi. Nel gemito, si portò subito una mano alla bocca. Una prima goccia cadde contro la guancia, poi ne susseguirono altre due … e fu nubifragio irreparabile sul suo volto.
«Dimmi che non è vero …» Lui non rispose. La stanza si riempì di singhiozzi soffocati e intermittenti, e lui immobile si lasciò sommergere  …
Dopo due minuti si costrinse a calmarsi; e ritrovato il controllo, finalmente, lo sentì spiccare parola. «Te l’avrei detto comunque, mi dispiace che tu l’abbia saputo così …» Non fece cenno su chi potesse essere l’informatore, ma si era già fatto un paio di idee … Benché in quel momento fosse un dettaglio irrilevante, e lui non aveva alcun diritto di rinfacciarglielo. Noriko si asciugò le ultime sbavature di pianto, dopodiché prese a parlare, a voce rotta e bassa. «Noi stiamo per sposarci, Shin’ichi… Questa è la cosa più importante, ora. Mi rendo conto che potrebbero esserci ancora delle indecisioni in te, ma questa cosa va risolta in due, non sei d’accordo?» Stava già tentando di rimarginare la lesione… Maki se ne accorse con un brivido, ma non se ne stupì: in fondo era una ragazza tenace e razionale, e lui si era innamorato proprio per questo. «Non è questo, credimi… Forse non sono esattamente la persona che pensi di aver conosciuto. Neanch’io lo credevo possibile, ma….» La vide posare con discrezione una lettera da referto medico sul tavolo; riconobbe la sigla OCH nell’intestazione -Ofuna Central Hospital-, e ne fu interdetto. «….Sono incinta, Shin’ichi.»
… Quello doveva essere il posto meno opportuno al mondo in cui trovarsi in quel momento, tutto quanto, ogni dettaglio glielo stava urlando; con un certo indicibile distacco Maki ne prendeva nota. E nulla di tutto ciò gli sembrava sensato e reale, come se si fosse proiettato nella vita di un altro individuo; solo che per tutto il primo tempo in cui la recitava, non se n’era reso conto …
Non si accorse del silenzio prolungato che aveva emesso dopo la confessione di Noriko, e quando era riaffiorato, l’aveva vista rabbuiarsi ancora una volta e le lacrime ripresero a scendere, atrocemente silenziose e delicate, sul suo viso come una dolce pioggia d’autunno. «Ti prego, non farmi questo.»
Noriko si levò e si tese sull’estensione del tavolo, intenta a raggiungerlo, ma incapace di scavalcare l’ostacolo. «Shin, dimmi che mi ami ancora.» Fu il suo ultimo disperato SOS alla piattaforma remota del suo cuore.
«Ti amo, ti amo ancora, Noriko.» Ed era così. Parole che avrebbero potuto salvarti dagli abissi e colmarti di irreparabile felicità, perché mai risuonavano tanto vuote e malinconiche? Ormai, la disperazione non era più sufficiente… «Ma questo non basta, vero?» Lo fissò dritto negli occhi e lui non abbassò lo sguardo. Comprese che in quegli occhi amati dove una volta trovava rifugio e tenerezza, ormai non aveva più alcun appiglio; e pensando alla vita che avrebbe dovuto accoglierla piena di luce, ma che era stata distrutta, fatta a pezzi proprio ora davanti a lei, ancora prima di potervi intravedere i primi raggi… Scoppiò nuovamente a piangere, e vi pianse all’infinito, su quel tavolo di cucina; finché lui, levatosi con un muto inchino, non se ne andò, chiudendo la porta di casa alle spalle.
 

 
Non esiste nulla che ci tiene legati, Maki, oltre i nostri corpi noi non ci apparteniamo più.
Un singolo pomeriggio come un’intera vita, e tuttavia nulla cambierebbe. Le nostre esistenze sono disgiunte, in ogni cellula, ogni filamento di capello e ogni nervatura di pelle: anche se ci sfioriamo ora, ci feriamo, e ci amiamo strada facendo, alla fine dei fatti non siamo mai stati in grado di toccarci davvero; e qui davanti a te, c’è solo un altro uomo.
Le similitudini ci confondono, è naturale, lo abbiamo sempre saputo. Ma questo non ci rende il medesimo individuo.
Se hai paura della solitudine è meglio se rimani vicino agli uomini … Io, non ne sono mai stato in grado.
 
 
Sapeva che per quanto ci provasse, non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo … Nello sforzo, probabilmente avrebbe accumulato solo dolore e esasperazione, e infine, lo avrebbe perduto ugualmente. Ma ora, c’era un’unica cosa che voleva fare. A costo di perdere tutto ciò che aveva, la sua carriera, l’amore di una donna, la stima dei suoi cari, e la metà dell’esistenza che gli restava ancora da vivere … Tutto quanto a puttane.
Perché tale era il prezzo.
… Il prezzo per avere accanto a sé Fujima.
 
 

 
 

Tra le file dei passeggeri in attesa al Terminal 2, un ragazzo se ne stava da solo davanti alla grande vetrata che dava sul piazzale di sbarco e osservava immobile le ali monumentali di un aeromobile nel suo trafficare silenzioso. Dietro di lui, comparve un altro ragazzo, pelle abbronzata e tracolla in spalla, e un sorriso spigoloso si riflesse contro il bagliore del vetro.
Lui si voltò di scatto con aria sorpresa, un po’ confusa.
… E in silenzio, gli sorrise a sua volta, perché stavolta non c’era più bisogno di dire altro.
“Volo JL7016 Japan Airlines diretto a Los Angeles delle ore 17:25, è ora in fase di imbarco dal gate 42, preghiamo ai signori passeggeri di esibire la carta di imbarco.”








 
Fine Terza Parte_

 
EISCAT: European Incoherent Scatter Scientific Association. Non ho idea del perché e del per come. Omaggio latente a Carl -perché era lui- Sagan. 

 

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Capitolo 4
*** 1291,209 miles ***


Warning: rosso tendente all'arancio.
 


“Solcando i secoli, oggi un sole fosco si è levato sulla foresta vergine, piena di veleni, maestosa e pesante.
Esalava vapori voluttuosi di orchidee; la giungla odorava di sudore dolciastro e lussuria. 
Perché in questa terra, incompiuta e abbandonata da Dio nella sua ira, gli uccelli non cantano, gridano di dolore,
e colossali alberi intricati si artigliano uno con l’altro come in una gigantomachia, da orizzonte a orizzonte, tra le esalazioni di una creazione che qui non si è ancora conclusa.
... Mi sono guardato alle spalle
e nello stesso odio ribollente si ergeva iraconda e fumante la foresta vergine, mentre il fiume nella sua maestosa indifferenza e condiscendenza sprezzante annientava ogni cosa:
la fatica degli uomini, il peso dei sogni, le pene del tempo.”
 
Werner Herzog, La conquista dell’inutile
 
 
 
 
Vägen hem - 1291,209 miles 


In quei giorni non c’era nulla. Ore vuote, attese, aeroporti sovraffollati, la dogana; tra scali interminabili, controllori grassi e insolenti... Le strade tagliavano attraverso fitte vegetazioni man mano che quell’unico collegamento terrestre procedeva a singhiozzo per poi fermarsi definitivamente nel bel mezzo del nulla, quando il conducente annunciò che la vettura non sarebbe più ripartita a causa di un guasto meccanico; allora erano scesi loro due soli, senza attendere il mezzo di soccorso, e avevano preso a costeggiare a piedi il sentiero battuto per i restanti 35 km... Il sole tramontava alle loro spalle, incendiando precipitosamente tutto ciò che incontrava nella sua discesa. Sulla foresta, la notte tratteneva il respiro in un nugolo di lamenti. Trascinandosi con i bagagli lungo quella polverosa strada peruviana, uno strano guizzo di felicità intrecciava i loro cuori... Quella sera avevano pernottato in un casolare abbandonato, mentre una pioggia leggera cadeva fuori.
Stanchi e affamati, davanti a un fuoco acceso con i mezzi di fortuna si erano saziati con gli sguardi l’uno dell’altro.
Se doveva delineare una prima volta, era stata senza dubbio quella... La prima volta che comprese la bellezza intossicante di quel corpo, ignorata fino ad ora e che adesso rischiava di bruciarlo nella totale perdizione, lasciandolo a fiato corto e senza difese. Il corpo inceneriva e la coscienza si godeva in disparte quello spettacolo, compiacendosene della sua distruzione... E se il mondo fosse finito l’indomani, a questo punto, non gliene importava più un granché.
Lasciò che il calore del fuoco gli sfiorasse la pelle, mentre si adagiava sulla durezza attutita del pavimento sotto il giaciglio dei loro abiti. Le braccia tese a reggerne il peso e subito dietro di lui, sopraggiunse il compagno. Maki si avventò sulle sue labbra, corrodendole in un bacio inquieto e vorace. Il disegno della mandibola, il collo, l’incavo delle spalle; notò che le clavicole tese erano incredibilmente definite e pronunciate, come se scavassero due sottili canyon nella pelle candida; nell’alveo, un piccolo neo sperduto, che colse con delicatezza, come a volerlo racchiudere in una scintilla di memoria istantanea.
Ignorava il volto estatico del compagno, il corpo inarcato sotto di sé a recepire ogni filamento di sensazioni che vi propagava... La mente elaborava silenziosamente diversivi impellenti. Avvertì la mano di Fujima scivolare in un punto dove ora era forse sconsigliato sostare, e con desiderio scoprì di averlo invece aspettato con ansia, quando sentì quel tocco farsi più mirato e preciso. D’istinto abbassò anche il resto degli indumenti, lasciandogli spazio libero di agire. Maki gemé sotto i suoi occhi.
Lo guardò fisso in viso, mentre le mani scorrevano sul suo sesso, godendo di quell’espressione con una certa dose di sadismo. Si umettò le labbra, come colto da improvvisa ispirazione, lo sospinse fino a indurlo a coricarsi sulla schiena; si inclinò verso il bassoventre del compagno andandosi a cercare quella porzione di pelle scossa dai brividi, e la rasentò dapprima con il fiato, preparando il terreno alla scia umida della lingua che discese intermittente e avida, nel clamore del respiro, fino a incontrare l’oggetto del desiderio, puntualmente svettante nell’ansiosa meta. A quel punto, inaspettatamente, Maki soffocò una risata involontaria nell’avvertire un fremito di solletico ribellarsi all’ondata di eccitazione, e gli accostò subito una mano colpevole ai capelli, «scusami», invitandolo a proseguire. Attendibile riscontro, gli morse per ripicca il membro, facendolo sussultare. Aveva decisamente scordato con chi aveva a che fare... E non lasciandogli tempo di assestare quella presa di coscienza, lo accolse tra le pareti umide della bocca, mandando a farsi benedire qualunque sua volontà di protestare. Maki ingoiò un ansito che rischiò di andargli di traverso, la gola secca e desiderosa di aria che cominciò a mancargli repentinamente...
Si accorse, sopra il fascio di confusione mentale, di quanto insperatamente esperta fosse quella piccola bocca vermiglia... Pensò in effetti che, quella da lui considerata un’anteprima assoluta poteva anche non rivestire del medesimo senso per entrambi, in fondo erano trascorsi parecchi anni tra di loro e Kenji era un ragazzo estremamente bello... Quell’indugio traversò fugacemente la notte per poi sciogliersi sotto una calda pioggia torrenziale, la sua lingua superba e vigorosa.
Questo piacere, era così differente; da cosa dipendeva? Forse finora non aveva ancora compreso che cosa fosse realmente, il piacere... Fujima, scandì forte il suo nome quando superò il culmine e sentì il mondo tutt’intorno venire meno. Per un istante. Lasciò che il proprio seme sgorgasse sul suo palato umido, e rovesciò sconfitto il capo all’indietro.
Boccheggiò e non si aspettò più altre mosse dal compagno, ma quella notte Maki imparò a tradimento un altro aspetto del sesso che forse avrebbe preferito anche non subire: per orgoglio maschile, come si suol dire. Quegli occhi belli e assassini, scorse il ghigno breve di Fujima, l’attimo prima di afferrare le sue reali intenzioni....
E questo fu quanto.
 
«Ho come.. impressione che tu ti stia vendicando dopo l’ultima volta, o sbaglio?» Fujima ridacchiò sommessamente, lasciandosi abbracciare senza responso, schiena stretta contro il petto del compagno e il suo respiro lieve tra i capelli. Fuori, una luna affilata si stagliava sopra la foresta, dove ogni canto pareva ora acquietarsi in attesa dell’alba...
 
 
Lima, Pucallpa, Santa Maria de Nieva, Manaus, Belém do Parà, Rio, Buenos Aires, poi giù, proseguendo nella Patagonia argentina fino a Perito Moreno, dove il mondo finisce in una lingua di ghiaccio che avanza imponente per 30 km, prima di tuffarsi nello specchio d’acqua di fronte a sé. Cominciando dal Sudamerica, dove Fujima intratteneva i suoi rapporti di lavoro in un settore marginale noto solo a livello locale, e dove con sorpresa aveva scoperto un portoghese fluente e qualche residuo di spagnolo dalla bocca di Maki -il quale, a dir il vero, masticava egregiamente ben tre lingue straniere per esigenze professionali-, per quasi un anno erano vissuti praticamente in strada, bivaccando in locande gocciolanti dove capitava e la mattina dopo subito in viaggio... Il bagaglio si alleggeriva sempre più, chilometro dopo chilometro, fintantoché non ne fossero contate solo quelle poche cose di reale necessità, mentre i loro passi accanto alle menti si sollevavano sulla strada più leggeri della polvere stessa. Le uniche ansie erano legate alla giornata, alba e tramonto, finché la notte non ricuciva le loro braccia nel segreto delle sue ore.
In quel periodo, ciò che succedeva in Giappone sembravano fatti di un mondo estraneo, lontano anni luce. Il loro cammino procedeva senza una meta definita e senza un futuro, affiancati della certezza di esistere solo e unicamente in quel preciso attimo di respiro, e tutto il resto -la realtà stessa- era solo un sogno.
Subito dopo la sua fuga, nonostante gli scongiuri dei suoi -compresi gli stessi genitori di Maki che ne erano venuti a conoscenza-, la fidanzata che aveva all’epoca, Noriko Hasegawa, per disperazione aveva scelto di abortire. Non la rivide più da allora, per quanto ne sapeva... eppure ci sarebbe comunque arrivato da solo alle medesime conclusioni.
Ancora oggi, gli capitava di pensare a quel bambino mai nato, che Noriko aveva strappato via con rancore dai recessi della propria carne, così come lui nella totale indifferenza non aveva esitato ad abbandonarla... E chissà perché, tutte le volte, gli veniva in mente il volto di sua figlia. Sora.
 
 
 
«In Svezia?»
A Saramiriza, era la stagione delle piogge. In quella piccola città scavata nella foresta pluviale, costantemente sommersa dalle acque torbide del Rio Maranõn, dal quale dipendeva -nella buona e nella cattiva sorte- per i suoi ritmi di vita e commercio fluviale, il corso indolente della sua esistenza si aggrappava con tenacia alle rive fangose del fiume, e un giorno il fiume se la porterà via.
Le abitazioni su palafitte si innalzavano al di sopra del terreno umido: un’unica stanza che odorava di paglia e sigarette, mobilia essenziale-antidiluviano, tra cui, un ventilatore a soffitto. La reticella alle finestre e sopra il letto, come una cascata, si gettava bianchissimo il velo della zanzariera. «...Vorresti andarci?» Maki si mise a sedere sopra la coperta, a gambe incrociate, dove il compagno lo raggiunse, sistemando accuratamente lo spiraglio aperto alle spalle. Gli si coricò tra le braccia, circondandogli la vita con le gambe nude, i capelli ancora umidicci di doccia a sfiorare il collo e la pelle già madida del clima tropicale in contatto. Senza lamentarsi del peso e del caldo, Maki lo tenne stretto a sé.
«Sì, credo sia arrivato il momento...» Gli soffiò sulle clavicole, a occhi chiusi. Maki odorava di muschio e terra bagnata. In certi tratti della pelle, emergeva una vaga nota marina; anche nella cecità di una notte profonda, avrebbe saputo tracciare la mappatura olfattiva del suo corpo... Fujima sollevò il capo e lo fissò negli occhi. «Verrai con me?» E vi brillava, in essi, quella stessa inquietudine devota con cui aveva interrogato suo padre, più di 20’anni fa, quando sognavano insieme una luna lontana e favolosa. Ma lui non sapeva né di quelle stelle, né di quel gelo secco e penetrante.
Per tutta risposta, Maki gli aveva sorriso, prima di posare un bacio lieve e gentile sulla sua fronte, senza dire una parola.
“Sempre.”
 
 
A pensarci bene, non raccontavi spesso di te. Lo so, non è mai stata una nostra peculiarità parlare delle vicende personali; così era anche in passato, in quelle ore vuote spese tra i sedili della metro dove, in fin dei conti, non ci siamo mai conosciuti veramente. Quindi rimane un mistero, il perché io abbia continuato a cercarti, nonostante tutto...
 
Non era per discrezione. Il fatto è che, non era nel suo indole raccontare di sé. Con nessuno.
Di certo, Fujima aveva vissuto momenti di grande solitudine, incessantemente specchiato in se stesso. Potevano scatenarsi tempeste irreparabili nei suoi abissi ed esaurire tutto in essi, ancor prima che una sola goccia riesca a giungere in superficie, e che siano trascorsi secondi o settimane intere, frattempo nel mondo, nulla aveva a che fare con lui e i suoi pensieri.
Ed era consapevole delle tante cose andate perdute lungo questa cieca corsa interiore; ancora oggi, era complice di irrefrenabile angoscia... Eppure, perché.. Perché tuttora non era in grado di fermarsi?
 
Quel giorno, erano venuti a chiamarlo durante l’ora di letteratura giapponese e senza tanti giri di parole gli dissero di rifarsi subito la cartella. Toru che gli sedeva accanto lo aveva guardato in apprensione, mentre con un sorriso gli diceva che sarebbe tornato subito.
Poi, ingoiando le lacrime, Fujima era salito sul taxi che lo avrebbe condotto all’ospedale...
Era l’estate del suo secondo anno di liceo.
 
Si diceva da qualche parte che, prima di venire adottato, avesse vissuto in un ambiente non del tutto adeguato, malsano. Ma erano solo voci... Il padre non godeva di buona salute, questo era vero; così come era vero che spesso e volentieri si abbandonasse anche ai sollievi dell’alcool. Cirrosi epatica. Ryuichi non si era mai risposato.
Per quanto male facesse, era vissuto fino all’ultimo aggrappato al proprio dolore, così come avrebbe goduto delle gioie più feconde in questa esistenza, con la medesima sbaragliante intensità, mentre covava in segreto nel cuore l’angoscia per quel figlio troppo giovane e cresciuto troppo in fretta, che lui stesso aveva rigettato nella solitudine di questo mondo... Non gli disse di essere forte. Non gli chiese perdono.
Brusca e banale, arriva la fine; non fai in tempo a mettere il punto e la frase già si sgretola a piè di pagina.
... Non è che fingesse di essere più forte, o volesse fare lo spavaldo; solo che non sapeva come formularla, quella voragine sibilante che gli scavava tra le pareti del cuore, tanto imponente da paralizzarlo. I sentimenti che provava erano contrastanti. Dopo tutto quel tempo, era difficile sentire ancora un dolore concreto. Rabbia, costernazione, senso di impotenza, sollievo, ma nulla che fosse sufficiente a riempire quel vuoto incontrastato davanti a sé.
Assistere alla lenta caduta del padre verso la commiserazione, al progressivo assottigliarsi del suo arco vitale, con quei suoi occhi di adolescente; vestirlo perché lui non sapeva più distinguere una manica da un taschino, sorreggerlo se i suoi passi si facevano incerti e correggerlo dolcemente quando sragionava... Tenendo stretto a sé per tutto il tempo, come il più caro dei suoi averi, il fardello dell’amore e la consapevolezza insopprimibile che tutto questo un giorno gli verrà strappato.
Si era chiesto allora che cosa avrebbe fatto d’ora in poi... Perché i polmoni si stringevano e gli bruciavano terribilmente nella cassa toracica; perché una volta fuori da quel bozzolo di veleni assuefanti, si era sentito mancare l’aria e non sapeva più come respirare. E avrebbe preferito mille volte tornarsene nel suo antro buio e rimanerci per il resto della vita...
Nessun uomo nasce libero. Non la si sceglie a priori; può capitare.
Inutili attestazioni e scritti probatori, la libertà non avrebbe senso che nella sua stessa privazione; perciò nel momento in cui la vivi, già essa non lo è più. Una sorta di desiderio anemico, di input vitale bruciante e insaziabile, senza nome, senza oggetto, e probabilmente priva di ogni ragione... Perché se si cercasse di spiegarla a parole, sarebbe solo fiato sprecato: vivere o morire non ha importanza, è solo una sensazione, dipende dall’ispirazione del momento.
Un primo passo tentennato, ne avrebbe compiuto altri in mille miglia ancora, senza fermarsi, senza comprendere mai quale sia il suo posto nel mondo. Ma importante è andare avanti, il resto è sulla strada...
“Vivi solo per te stesso. Non prenderti pesi inutili e guarda solo avanti. Promettimelo.” .... Perciò, tuttora, non era capace di contraddirsi.
 



 
"So raise your voices on high tonight...


We came a long long way back home,

To see you one more time,

To see you and say goodbye."



 
Da un giorno all’altro erano partiti. Il volo da Lima per l’Europa, la prima sosta in Spagna, risalendo la costa iberica fino alle Prealpi al confine con l’Italia; qualche escursione nell’entroterra e gite al mare, per respirare a pieni polmoni l’essenza del clima mediterraneo, che ricordava tanto quelle belle stagioni a Kamakura, ma con colori più vividi e molto più schietti. Il viaggio in treno sarebbe stato affascinante, ma optarono per l’aereo a Ginevra, volendo approfittare del caldo per giungere a Stoccolma prima che cadesse la prima neve; di lì, non ci sarebbe voluto molto...
 
Più si andava a nord e più il giorno si faceva lungo, fino a fermarsi del tutto, sospeso a mezzo cielo.
La luce, quella luce intensa e al tempo stesso caliginosa, così tipica in certi paesaggi nordici su tela, da orizzonte a orizzonte, inondava i suoi occhi -abituati ai grigiori metropolitani asiatici quanto i colori estenuanti del sud emisfero-, schiariva e accecava l’immensa vallata fluviale che si estendeva fuori dal finestrino, proprio come un quadro del tardo romanticismo, mentre il treno traballava attraverso chilometri di foreste di conifere, intrecciando, di tanto in tanto, specchi d’acqua dolce spezzati nell’ultima glaciazione.
Era l’estate svedese. Dardeggiante e rigogliosa; fredda e fuggente. La Terra al risveglio dopo una lunga notte di tenebra primordiale...
Al centro del paese, nella contea di Örebro, sorgeva una piccola cittadina di nome Nora. 6796 abitanti, temperatura freddo-mite, precipitazioni, quasi nullo -a parte quelle di forma nevosa che abbondantemente assediano l’intera penisola scandinava a partire da metà novembre-. La ferrovia descriveva un tratto del riva lago prima di arrivare in vista della vecchia stazione con il tetto verde e i mattoni rossi; già da lontano, nella lingua di vegetazione che sporgeva sull’acqua si poteva scorgere il campanile bianco della chiesa toccare leggere le nuvole ancorate al capriccio del vento.
A prima vista, parrebbe un luogo di villeggiatura estiva e magari di pesca sul ghiaccio nella stagione fredda, una località anonima ai più. Non c’era nulla di particolare, di sfarzoso. In quelle stradine lastricate illuminate a festa, nelle vetrine dei suoi modesti alimentari e botteghe o sui volti vigorosi delle persone al passeggio, ogni dettaglio si stagliava nell’amabile insignificanza e vitalità di un qualunque paesello europeo sul fare della sera; così naturale e ovvio, da spezzare il cuore... «Sei teso?» Maki gli strinse una mano madida di sudore, mentre scaricava i bagagli. «No.» Scosse il capo, il lago splendeva vividamente alle spalle della stazione, una serata troppo bella per rabbuiarsi. Sorrise incoraggiante il compagno e gli passò un braccio attorno alle spalle. «D’accordo, andiamo allora.»
La famiglia di Kristin si era trasferita da tempo nella parte meridionale del paese, verso Götaland, dove si godeva di un clima più gradevole. In compenso, aveva lasciato una fattoria nel vecchio Svealand, poco fuori Nora. La si raggiungeva tagliando attraverso una fitta boscaglia di betulle e il sentiero poco praticabile, segnalato su una mappa impolverata recuperata al municipio, era decisamente allusivo ai decenni di abbandono che avrebbero trovato al loro arrivo: divorata da una natura mai addomesticata che si era ripreso il suo diritto di permanenza appena i proprietari furono partiti, scavando il terreno circostante, sradicando recinti, arrampicandosi sulle pareti e scrostandole, laddove recavano ancora tracce di un’antica vernice rossa, come tralci di un’edera metodica ed erosiva. Una bella catasta di macerie da ereditare, a quanto pare... La casa dove era cresciuta sua madre. Schioccandovi uno sguardo ironico, il casolare gli restituì quella medesima transigente malinconia.
Giù al paese, avevano trovato alcune famiglie che si ricordavano ancora dei Marklund, ma nessuno sapeva che Kristin avesse avuto un figlio; era comunque una ricerca senza senso, dettata dalla schietta curiosità... «Che vuoi fare, adesso?» Una sera che erano alla taverna, accanto a una comitiva che brindava a suon di pinte un evento ignoto -gli europei di calcio, stando alla trasmissione in onda-, una dozzina di giovani escursionisti che avevano fatto tavolata con i vecchietti arzilli della zona, alla fine parevano anche loro una coppia di escursionisti. «Andiamo al nord.» Erano decisamente a un punto cieco: di riparare quel residuato post-atomico non se ne parlava proprio, e poi non c’era nessuna reale utilità. Quindi cosa era opportuno fare ora? «Non vuoi andare verso sud?» ...A rintracciare gli eventuali superstiti dei Marklund, forse ancora residenti a Malmö, come sosteneva il baffuto locandiere. Ma Kenji non pareva del tutto convinto, mentre scrutava il sopracciglio arcuato del compagno dal fondo schiumoso del boccale. «No, voglio vedere le montagne.» Maki si allungò sul tavolo con fare inquisitorio. «Non mi sembra che tu stia prendendo sul serio questa faccenda...» Prima di vedere una forchettata mancina infilzargli l’ultima polpetta rimasta nel piatto, «niente affatto, sono serissimo» e il sorrisetto sghembo, se la trangugiava con venale soddisfazione in un solo boccone.

 
 .... E lì, dove il giorno finisce, ho atteso che tu arrivassi.
 
La neve aveva iniziato a cadere mentre erano ancora in viaggio. Sul lungo treno per Narvik, sordo e sonnolento rombo attraverso le sterpaglie interrotte, un poco alla volta, i vagoni si svuotavano. A ogni fermata, sempre meno passeggeri salivano, mentre nella corsia accanto, carichi di metallo grezzo provenienti dalle miniere di Kiruna e Gällivare sballottavano straripanti e imperterriti verso i lontani porti di Luleå, Umeå e Sundsvall lungo la costa: ed era proprio lì, dove erano diretti; quel nord sperduto nella notte polare, senza nome, senza età, che il silenzio del gelo racchiudeva. Il cielo si apriva sul respiro rappreso del mondo e l’estate usciva di scena in quel breve tratto ferroviario attraverso i fulvi colori di un autunno alquanto precipitoso; foreste decidue appena abbozzate, sul delimitare della vista, come sgorbi di carboncino sfumato.
Maki sprofondava in un sonno leggero sulla poltrona accanto alla finestra, ridestandosi intermittente a quei lievi movimenti che il dondolio della ferrovia finiva per inghiottire; mancavano ancora molti chilometri. Nella fila di sedili accanto c’era un bambino che aveva continuato a scrutarli, allungandosi sul bracciolo e impuntando gli azzurri occhioni indiscreti sui loro insoliti profili. La madre leggeva una rivista, assorta. A Murjek, Fujima gli rispose per la prima volta con una breve linguaccia, e da lì, si intrattennero in una lunga conversazione a base di smorfie e boccacce colorite fino all’arrivo della destinazione.
Sulla banchina della piccola stazione, il monello biondo era sceso insieme a loro. Gli si avvicinò e strattonandogli con delicatezza una manica, inaspettatamente, fece un sorriso e scandì in uno sdentato svedese «välkommen tillbaka!*», che lui non comprese. Al sollecito della madre, mentre correva via, Fujima lo osservò che spariva tra le schiene infagottate dei viaggiatori.
A 12.000 metri di altezza, un germe di cristallo ramificato cominciò a precipitare, volteggiando in una traiettoria inesistente attraverso gli strati d’aria sino ad esaurirsi, carico del proprio peso fuggiasco, batuffolo di brina sulle sue ciglia.
Ad Abisko, l’inverno era appena cominciato.
 
 
††
 

«Congratulazione per la promozione, Takeshi-kun!»
Maki strinse la mano al più giovane collega del suo team, che levò raggiante il volto fresco di laurea. «Grazie per essersi preso cura di me in questi mesi, Maki-san!»
Il 66° piano in un giorno feriale inondato di luce, dove raramente un kohai dei livelli inferiori metteva piede, avevano sede quegli ingenti uffici del consiglio di dirigenza, ed era lì che Maki era giunto a 37 anni: salendo gradino per gradino quella ristretta scalinata straripata di impiegati e le loro giovani ambizioni, trasferendosi di piano in piano, dopo un breve lasso di tempo, aveva scalato quell’intero grattacielo nel cuore pulsante di Tokyo. Ora, aveva il mondo sotto i piedi, letteralmente, ma non sentiva di calpestare le nuvole... Al contrario, se allungava il naso oltre la vertiginosa vetrata paronimica in cui era incastonato il suo spazioso ufficio, nei giorni nuvolosi, sopra la città vedeva ammollarsi solo quella cortina impenetrabile di smog e il grigio traffico risuonare.
Eppure, il fatto di poter salire sull’ascensore e premere il tasto di un piano designato PH, dovrebbe farti sentire invincibile...
A fine riunione, precedenza sulla soglia ai dirigenti anziani, per ultimi a lasciare la sala tra un riso scherzoso e l’altro, Maki gli accennò fortuitamente una pacca sulla spalla, da bravo capo informale. «Passa dal mio ufficio dopo, ci sono ancora un paio di carte che dovrei darti.»
Il ragazzo fece un inchino, prima di congedarsi.
... Gemiti soffocati contro la parete. Scossa da leggere vibrazioni, una stilografica rotolava lentamente giù dalla scrivania. In un angolo della stanza, il fusto svettante della Dracena Marginata li osservava nella sua sorda immobilità tropicale.
Infine si rivestirono, e Maki lo sogguardò, le dita esperte a ristringere il nodo della cravatta. «Mi mancherai, Takeshi-kun... Telefonami ogni tanto da Fukuoka, ok?» Lui ridacchiò. «Tanto lo so che non è vero!» Gambe dondolanti sul lucente piano di mogano, lo fissava, senza più dire altro. Gli enormi occhi nocciola brillavano di intelligenze maliziose, su un viso da bambola che la frangia delicata adombrava. 22 anni, tanto bello e avido da provocare un sospiro di dubbio anche ai più scettici del mestiere...
Aveva i capelli castano-dorati.
 
 
Mi chiedo, dove tu sia ora, cosa stia facendo; se non stia sentendo il suono della pioggia o le sirene di questo traffico... Senza accorgermene, il tempo è passato.
Ho ancora negli occhi, l’immagine di quel giorno innevato, tra ciuffi di sterpaglia addormentata, i nostri passi che affondavano sui cumuli bianchi e soffici a valle, inciampando ogni tre e rialzandosi altrettante volte, i polmoni schiacciati dal gelo arido; il sole, il tuo riso. A fiato corto, avevo cercato invano per lo sguardo un orizzonte che vi fosse in quell’azzurro sterminato dell’etere e allora mi resi conto che eravamo ai margini di questo mondo, io e te.
Io e te.
Non passi giorno che non me lo chieda.
Ho timore di star scordando il tuo volto... Se ti rivedessi ora, non so se sarei in grado di riconoscerti ancora. Ma ancora, stringo tra le mani il tuo nome. La sola cosa che mi rimane di te, speranza, sottile, di poterti rivedere un giorno, da qualche parte sotto questo stesso cielo.
 
 
«Maki, siamo nel paese di Santa Claus!» Gridò Fujima adocchiando un cartello stradale con la sagoma di una renna incriminante. E lui si schiaffò una mano in fronte, costernato. «Sì, ma preferivo ignorare questo dettaglio...» A parte la slitta parcheggiata accanto a una staccionata e quel mantello rosso molto sospetto sul sedile -si presume di un operatore turistico-, stavano camminando su una strada statale della Lapponia svedese. Latitudine 60° 49ˈ, a Kiruna era il giorno di Santa Lucia, che segna l’inizio del mese dell’Avvento lungo la processione della notte polare.
Il tempo si ferma al secondo in cui il disco solare tocca l’orizzonte e quelle vibrazioni vi permangono infinitamente, un crepuscolo eterno sul mondo.
Tutt’altro che depresso dalla mancanza di luce diurna, in quei giorni Fujima pareva transitare in uno stato di innaturale euforia, sbandando qua e là come un ubriaco sulle piste innevate. I botti di perforazione nella città mineraria, il sapore del vino speziato accanto al camino acceso e quei terribili bastoncini zuccherati a strisce rosse e bianche che quell’invasato del suo compagno aveva voluto comprare a tutti i costi... Come l’immagine di certe cartoline pacchiane che gli sarebbe capitato di spedire per le sue bimbe, quelle con casette di legno in un bosco tutto illuminato, e che tutte le volte gli faceva venire in mente quel Natale in Svezia con mezzo metro di neve fuori dalla porta. Era, in effetti, un pensiero piuttosto stupido...
 
 
 

Passando in città, aveva acquistato una coppia di “El Commercio” nella solita bettola postale da cui faceva rifornimenti; Fujima era via da due giorni per una trattativa in zona. «Hay un telegrama para usted, señor L’omino, un mezzo giapponese con sangue indio, gli passò il pacchetto di sigarette insieme a un foglio tutto sgualcito dall’umidità locale. «Gracias...» Un po’ sorpreso, Maki lo prese in mano; l’espressione immobile, lo scorse nelle sue poche righe di testo e quando ebbe finito se lo cacciò subito in tasca. Dopodiché pagò la spesa e se ne andò. 
Del suo contenuto, non lo raccontò mai a Fujima. Questo era successo otto mesi fa, a Iquitos.
 
 
 

A un certo punto, il primo grumo di neve cominciò a sdrucciolarsi sugli alberi, e allora parve che quel palloncino asmatico -rimasto impigliato ai suoi rami per tutto l’inverno- avesse deciso di riprendere finalmente quota, nella foschia dell’orizzonte, inondando poco alla volta l’intero altipiano di una luce iridescente. A nord-est, i cumuli di ghiaccio persistevano ancora, gli ultimi a nebulizzarsi sulle praterie ingiallite che lentamente si coloravano di un verde smagliante. A scossoni, la vita veniva risvegliata e un po’ indispettita sgusciava fuori dalle grotte umide per scrutarsi intorno. Faceva ancora freddo in realtà, e più che risveglio, era una sbadigliante levataccia.
E con il sole arrivò anche l’ispirazione. Quando la neve cominciava a sciogliersi, erano tornati nella cittadella di Nora.
Con l’aiuto di alcuni falegnami giù in paese avevano deciso di rimettere in piedi la fattoria, o perlomeno, dare una raddrizzata a ciò che rimaneva della sua struttura portante fatiscente. Gli era sembrata una buona idea, del resto, doveva pur impiegare in qualche modo l’ingente cifra ereditata dai Fujima... Il lavoro era lungo e macchinoso, c’era più da abbattere che ricostruire. Ogni tanto capitava che si affacciasse qualche vicino ficcanaso, sbalordito dall’improvviso movimento nel terreno dei vecchi Marklund e scuotendo la testa poi se ne andava; qualcuno mormorava di una losca multinazionale asiatica, ma quando compresero che era solo un’innocente capriccio edile, si misero il cuore in pace.
Per il resto del tempo, facevano passeggiate nei boschi confinanti o se ne stavano sulla veranda appena riverniciata -praticamente, c’era solo quella- a prendere il sole e guardare quel giardino dall’aria primitiva potato a fatica, in mezzo al quale avevano piantato una tenda per la notte, che per ora era diventata la loro casa.
Le serate davanti al fuoco, avvolti nella coperta di lana, le sue guance infiammate e le note della chitarra che strimpellava. «Dove hai imparato a suonare?» Da Miguel, gli rispose; e quando gli chiese chi fosse, Fujima aveva solo sorriso, senza aggiungere altro...
In quelle giornate così tranquille non c’erano mai imprevisti, a parte i colpi di testa che uno dei due raramente assestava, come la volta in cui Kenji era tornato a casa completamente fradicio dalla testa ai piedi, e mentre quell’altro se ne stava bellamente piegato in due, disse di aver visto un grosso luccio al lago; sempre sghignazzando, Maki gli aveva strofinato i capelli con un asciugamano, dandogli poi un bacio sulla punta del naso. Si era beccato allora un bel raffreddore e per due settimane se ne stette alla larga da qualunque tentazione ittica.
Si sarebbero aggiunti poi un materasso e dei semplici servizi igienici, quando furono abbastanza sicuri che il tetto non gli sarebbe crollato in testa, così da poter abbandonare il frugale giaciglio in giardino, anche se a malincuore.
In quel posto dove non succedeva mai niente, lentamente, stava prendendo forma nei loro occhi e nelle loro mani, un qualcosa di molto simile all’espressione “futuro”. 
 

Un giorno, mentre rientrava dai lavori, era squillato all’improvviso il cellulare.
Vide che la chiamata proveniva da un numero sconosciuto, rispose, ma per lunghi secondi nessuno parlò all’altro capo; un segnale bianco intermittente.
˹... Kenji-kun?˼
Quando stava quasi per mettere giù, una fievole voce femminile emerse dallo speaker. Rimase interdetto con il telefono accostato all’orecchio, lentamente, la destra si appoggiava contro il grezzo ripiano su cavalletto all’ingresso. «Shizune.. Shizune-san, sei tu?» Sentì la donna sospirare, tra sollievo e dolore. ˹Oh, meno male! Sei tu, Kenji-kun! Mi hanno dato questo numero ma non sapevo se--˼ Il tono distorto dall’emozione, riusciva a figurarsi il tremolio della sua schiena ossuta in quel salotto con divano beige che conosceva tanto bene. «Calmati, Shizune, ti ascolto.» Lei ingoiò un singhiozzo fugace. ˹Mi rincresce disturbarti così, ma non sapevo davvero più come comportarmi. Sono mesi che non abbiamo più sue notizie. Non ha mai risposto al nostro telegramma e dopo il Perù non sapevamo più dove fosse e il suo cellulare continuava a non essere raggiungibile, e abbiamo pensato che.. Dio, ero così in pensiero! Allora, mi sei venuto in mente tu, e.. È che non ci ha detto niente quando se ne è andato... Dimmi, è lì con te?˼ Fujima guardò alla soglia della porta. «No, non c’è, adesso.» Sul sentiero, si stava facendo sera. Chiuse gli occhi e immaginò la sua schiena stretta nel cappotto leggero, mentre lo percorreva tra gli scricchiolii del crepuscolo.
˹Capisco...˼ Con un consenso di capo che il suo interlocutore non avrebbe scorto, Shizune Maki infine dava corpo alle proprie supposizioni; il suo cuore di madre l’aveva capito fin dall’inizio. ˹...Ti prego, non voglio accusarvi di nulla. Ormai non importa. Però, ascolta, devi riferirgli che suo padre sta molto male, i medici dicono che potrebbe non farcela e la situazione continua a peggiorare, se va avanti così--˼ Una pausa soffocata e un altro singhiozzo. ˹Io non ce la faccio più così, sono a pezzi... Ti prego, dì a Shin di tornare a casa, noi, noi tutti lo stiamo aspettando, io e suo padre. Kenji-kun, te lo chiedo per favore!˼
Dopo aver chiuso la telefonata, Fujima rimase a lungo al buio, senza staccarsi dal bordo del tavolo.
I pennelli sporchi di rosso abbandonati sul pavimento e i barattoli vuoti. Era l’inizio della primavera, avevano da poco terminato di ridipingere la facciata esterna.
 
 
 
Poi era successo qualche sera dopo. Erano seduti in cucina a rivedere le carte della ristrutturazione e inchiodandosi su un piccolo dettaglio, poco alla volta il discorso era precipitato. Entrambi testardi e incapaci di cedere posizione quando si trattava dell’altro, come al solito. Il primo a perdere la testa fu Maki. «Scusa ma se c’è la possibilità di dare un senso a questo affare non vedo perché dovremo scartarla!» Lasciò cadere malamente sul tavolo il disegno della piantina più allegati burocratici e si accasciò sulla sedia impagliata, proclamando la fine della tregua. Fujima tese il busto sopra quel cumulo cartaceo, le braccia spalancate a dominare la sua visuale oscurata. «Questo affare fin dall’inizio non aveva alcun senso! Perché ti ci sbatti tanto?! Che te ne fai di una fattoria piantata in mezzo al nulla??» Gesticolò nervosamente, mentre Maki se ne stava con le mani in tasche a fissarlo in cagnesco. «Io penso al futuro...»
«Sì, futuro... Sei proprio un ottimista del cazzo!» Fece stridere le gambe della sedia e se ne andò sbattendogli la porta in faccia.
Scese velocemente i gradini della veranda e dietro di sé, un secondo colpo contro gli stipiti. «Se sei già stufo, dillo chiaramente!» La voce alterata di Maki lo esortò a girare i tacchi, in un lampo di furia crescente. «Oh, piantala di fare il gradasso con me! Andiamo, ma ti sei visto?? Dalla mattina alla sera non fai che gironzolare qua intorno, come un pensionato a puntare qualche chiodo e piantare un palo! Per quanto tempo credi di poter andare avanti così, Maki?! Qui non c’è alcun futuro! Perché continui a far finta di niente??» Argomentò più loquacemente del solito e vide l’altro schiaffarsi un palmo esasperato sulle palpebre. «Dio, ci risiamo. Ogni volta che spunta qualche problema tu non fai altro che scappare! Pensi che andandocene risolveremo tutto?? Per una volta, prendi in mano questa merda di situazione e guarda in faccia alla realtà, Kenji!» ...Rimase senza fiato, le labbra socchiuse incredule.
«Io non.. scappo
«Vallo a dire al tuo pallone da basket!»
Un colpo decisamente basso, lo aveva calcolato; si aspettò che tornasse indietro a replicare un bel pugno d’indignazione e stette perciò sulle difensive, invece dovette ricredersi, quando lo sorprese a distogliere quel cipiglio scazzato e soffiare tra i denti qualcosa di sottilmente interpretabile come “fanculo”, prima di ritornare sui propri passi. Sulla soglia, Maki gli gridò ancora. «Che diamine è successo, si può sapere??»
Strisciando le suole sul selciato, Fujima si voltava verso la casa e attraverso le tenebre lo fissò con tacita gravità. Ci vollero secondi prima che rinvenisse parole.
«Mi ha chiamato Shizune.»
... E per quella sera, non ci furono più altre discussioni.
Maki lo riportò in casa, lo issò sul tavolo e gli sfilò le scarpe infangate. Dopo poco, fecero la pace.
 

 
Seduto su un cumulo di tronchi accatastati, guardava la staccionata oltre la quale si stagliava un fosco orizzonte.
Un albero come una sentinella delimitava il confine della fattoria: quella strada polverosa finiva lì, in quel breve tratto di terra che dava inizio all’imperscrutabile, dove dense nubi si sollevavano e le sue iridi, fuochi scalpitanti, vi si tendevano irrequiete... Al fremito delle prime foglie, avvisaglia nel cuore, il vento si alzava.
 
.... È ora di andare.
 
 
Il sottobosco odorava di muschio e mughetto, sotto le palpebre, aloni di iride si spandevano. Lentamente, le aprì. Pilastri scuri si innalzavano contro le trame del cielo, un liquido azzurro si schiariva nella vertiginosa cattedrale silvana. Fujima si sollevò di colpo e prese a correre sul terriccio umido chiazzato di bianchi anemoni, tra i tralci marcescenti di licheni gialli disseminati che saltava con prorompente agilità ferina. Giunse stravolto alla staccionata della proprietà e vi si poggiò contro, il petto ansante, le braccia congiunte a fissare la sagoma del casolare lontano immerso ancora nella nebbia, mentre il respiro si acquietava.
Alle spalle, passi fruscianti e soffocati sul tappeto erboso. Nell’aria frizzante, avvertì il calore di una spalla robusta premere contro la sua un po’ incassata. «Ti sei alzato presto.» Lui annuì, senza distogliere lo sguardo, senza voltarsi.
«Perché non mi hai detto niente?»
Non ebbe risposta.
Dopo un po’, vide il suo braccio sporgersi oltre lo steccato e indicare un punto imprecisato davanti a loro. «Sai quello spiazzo abbandonato laggiù, potremo costruirci una stalla. Sarebbe perfetto per un allevamento di cavalli.» Mimò la forma di una tettoia, il sorriso tra le labbra.
«Maki...»
Tra le dita, si studiò lungamente un rametto secco e in una leggera pressione lo fece spezzare. «È stata una mia decisione.»
I primi richiami presero a pigolare tra i rami, da qualche parte nel cuore della foresta. E le loro sagome immobili l’una accanto all’altra, mentre il giorno sorgeva tutt’intorno, nella roccia addormentata, nei fili di rugiade su ragnatele, in un battito di ciglia come d’ali soffocate, entrambi sul punto di dirsi qualcosa che non sapevano cosa. Se solo quel sole non fosse mai sorto e la neve rimasta sulle colline... Avrebbe pensato di voler restare così, in silenzio accanto a lui, finché uno dei due non avesse ceduto o lo stomaco gorgogliato per la fame.
«Questa non è la tua vita, Maki. Dovresti invece tornare a casa, e poi--» In un unico fiato raccolto, si issò sulla palizzata e con le braccia tese, bilanciò la curva della schiena. In quel punto, se ci si sporgeva un po’, si riusciva a vedere un sorso del lago scintillare tra le fronde di riflessi dorati e le strisce della riva opposta, il campanile bianco e l’eco dei suoi rintocchi sotto i quali il paesello si stava risvegliando. Assottigliò gli occhi e espirò ancora. «E poi dovresti anche sposarti... Una famiglia, avere dei figli.» Sulla superficie dell’acqua, banchi di nebbia caliginosa evaporavano al sole. Il compagno scosse la testa e rise a cuor leggero alle sue parole. «Non ci sono portato per queste cose! Non credo che sarei mai capace di amarli...»
Sorrideva, Kenji, in quell’ondeggiare leggero nel bagliore del mattino, mentre da sopra una spalla lo guardava e gli diceva. «Se fosse tuo, io lo amerei moltissimo.»
 

Che cosa desideravi in quell’istante, Fujima? Quali preghiere avevi covato dentro di te? Me lo sono chiesto spesso... Sono riuscito a darti così poco in questa esistenza, e quelle poche parole, quei gesti esigui, mi chiedo se siano bastati ad alleviare un po’ la tua solitudine.
Ora, finalmente, credo di comprendere quali fossero stati i tuoi desideri per me, quella mattina di inizio giugno, quando il sole sorgeva e io non potevo fare altro che amarti, disperatamente.
 
La mattina successiva, al risveglio Maki trovò nuovamente il letto vuoto, ma in cuor suo sapeva che se anche lo avesse cercato, non lo avrebbe trovato da nessuna parte. Allora si era riparato con il dorso quegli occhi inondati di sonno. L’orizzonte bruciava.
Sul cuscino, un pezzo di carta e poche parole.
“Tra dieci anni. Al solito posto.”
Lapidario e indolore. Un filo di ironia che trasse sottilmente, ma senza alcun riso …
 
 

 
 
 

Siamo arrivati al traguardo, Maki. Non te ne sei reso conto, vero?
Mi dispiace. Perdonami, se puoi... Mi dispiace. Ma io avevo capito che se non me ne fossi andato, tu, pur di mentirmi, saresti rimasto con me fino alla fine; e so quanto male ti faccia, non potevo sopportare di sottrarti alla tua vita.
La bugia che mi hai raccontato, ne sono stato felice. Immensamente felice. Non sono mai riuscito a trovare le parole giuste... Mi dispiace.
Ci sono effettivamente così tante cose che non ci siamo mai detti, così tante cose che avremmo potuto fare insieme, così tante vite da vivere, incontrarci, ogni volta come la prima... Mi chiedo se attaccherai mai quelle assi in cucina, quelle che detestavi tanto; ti ricorderai di pagare i falegnami la prossima volta che vengono? Ora che ci penso, sul tavolo era rimasto del caffè da finire... Quando ti alzerai, immagino sarà già freddo; te ne farai un'altra tazza? Ho scordato di dirti che abbiamo finito ieri l’altro i filtri, li andrai a prendere in paese? Che cosa farai oggi, Maki? In quella casa... Su quella veranda... Vorrei immaginarti mentre vai a raccogliere la legna nel bosco, con indosso quella camicia di flanella a quadretti rossi che portavi sempre sbottonata, sopra una maglietta grigia; vorrei immaginare la tua schiena che si curva verso i rovi, le braccia nude tese e le dita agili a sfiorare l’edera fresca sui cumuli di tralci scricchiolanti, la nebbia dei boschi, il sole che sorge … Tutte le mattine della nostra vita. Sempre, sempre.
Maki ....
 
Aveva preso il pullman al primo chiarore dell’alba, quando Nora ancora dormiva. Si era seduto all’ultima fila, accanto alla finestra, sprofondando a riccio nel riparo tiepido del cappotto. La luce veniva da est, offuscata, lentamente. Baciava il vetro, la fronte ottenebrata, mentre i monti si allontanavano rapidamente in quel muto susseguirsi di fotogrammi inafferrabili e senza nomi, inerpicandosi e srotolandosi incessantemente ai margini della foresta, e i pensieri un po’ sonnolenti, sopra l’algido paesaggio nordico, le sue possenti conifere, le sue rocce aspre e nude; in qualche punto sotto il guardrail, doveva scorrere un ruscello... Aveva mai amato davvero questi luoghi? Tutto sommato, ne era abbastanza indifferente. Ma sarebbe stato bello morire qui, un giorno... Abbozzò quest’idea e subito la accantonò dietro a un sorriso. Lo sarebbe stato di certo.
... La prima volta che lo vide, lui stava leggendo il giornale sul treno. La seconda volta, non lo riconobbe; fu quando gli sferrò quasi un gancio destro dopo la partita. Maki non l’aveva mai saputo. Aveva una carnagione molto particolare, spalle ben piazzate e robuste; scarpe da ginnastica al posto dei mocassini e l’aria imbronciata di chi si è svegliato male la mattina. Per giorni, lo aveva osservato in silenzio, pensando che lui non lo avesse notato... La terza, non avrebbe più voluto lasciarlo.
Gli ci erano voluti 10 anni per capirlo.
Ma ora, non sarebbe tornato indietro...
“.....Signore e signori, vi preghiamo di tenere le cinture allacciate durante la fase del decollo.”
Nel rombo crescente del motore, l’attimo prima che i carrelli si staccassero da terra, sotto il bracciolo del sedile, Maki gli aveva stretto in silenzio la mano... Forse non avrebbe mai più sentito un tale senso di calore e felicità, come l’istante in cui partirono insieme dall’Aeroporto di Narita, dopo quel sussulto di esistenza consumata nell’inseguirsi e rinnegarsi, nel perdersi e ritrovarsi, tornare per scoprire di non essere mai partito, chilometro dopo chilometro da un capo all’altro del mondo, contando i giorni che lo separavano da lui e da quella mano, che ora sentiva distintamente nella sua, e che avrebbe voluto di certo stringere ancora e ancora, e ancora....
....... Maki ....
L’ultima traccia di neve, intravvista su una cima lontana, svanì dietro alla svolta dell’ennesimo tornante. Allora ricadde il sipario e venne buio nei suoi occhi.
Nella vertigine, i timpani che fischiavano per il cambio di pressione, la gola gli si strinse e il respiro cominciò a mancargli. Inchiodato alla rigidezza senza scampo dello schienale, tra le mani, un’ondata di disperazione lo assaliva.
... Maki ......... Maki ....
Sbandò fino alla prima stazione di servizio, dove scese e si precipitò in bagno a vomitare. Saliva, bile, anima. Si accasciò a terra accanto al lavabo e prese a tremare violentemente. Boccheggiò a vuoto ingoiando lacrime, il viso incatenato tra le braccia, il fiato incenerito dagli spasmi. Avrebbe voluto gridare, ma furono solo singhiozzi strozzati, contro una patetica fila di linoleum da rivestimento... Quando finì, dopo qualche minuto, riuscì a trovare la forza per rialzarsi e come niente fosse riprendere il viaggio.
 

Dopo un anno e nove mesi di questa fuggiasca vita insieme, lungo un tratto di strada asfaltata, Fujima lasciò il suo compagno. La sua famiglia. Per ridargli nuovamente la sua libertà e per riprendersi la propria.
I giorni si chiusero dietro al suo cammino e con essi la verità del suo cuore, che mai raccontò ad alcuno. E in fin dei conti, non aveva importanza.






 
"Everything done and said.

Lives beyond the quick and the dead.

Heritage passed along,

To the sons like a blessed song.

So raise your voices on high tonight...


I came a long long way back home,
To see you one more time,

To hold you and say goodbye."

A long way - Josh Garrels


 



 
 

 
Fine quarta parte_


“Välkommen tillbaka”= bentornato, disse il bimbo svedese al protagonista alla stazione di Abisko, che era un po lui stesso.
Saramiriza e Iquitos sono due città peruviane, mi affido al diario del regista di "Fitzcarraldo" per le impressioni sul Sudamerica. 
Secondo Google, la Svezia si sviluppa longitudinalmente in tre regioni naturali: Norrland (Abisko, Kiruna), Svealand (Nora, Stoccolma) e Götaland (Malmö). A dir il vero all'inizio la Svezia non era prevista e la loro separazione doveva avvenire in Perù... Negli stessi luoghi dove si erano innamorati i genitori, volevo che Fujima vi ritornasse insieme al suo compagno.
Mi sarebbe piaciuto poter spiaccicare lungo l'intero itinerario di lettura le basi sonore che avevano edificato la trama seppur barcollante, e invece ve li beccate qua (sempre che ne abbiate compiacimento). Cose a random, senza fondamenta intelligibile:
Coracao Selvagem - Joyce

Mother Earth - Killigrew (non la versione migiore)
Fortune's Fool - Hiatus, Shura
Promise me - Will Young (quarto cap)
 

(Du gamla Du fria - ft. Day, sesto cap)
(Aurora Borealis - John Clarke, sesto cap)


......

La storia non finisce qui... ho impressione di aver tralasciato un mucchio di dettagli vitali. Tipo una scena fondamentale Kainan-Shoyo, oppure il ritorno di Fujima dopo un anno e la rottura definitiva... Se potessi riscriverla. Per il finale, se avrete ancora voglia di seguirmi, vedrò di ponderarci sopra. Tempo. Datemi solo tempo. 

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Capitolo 5
*** Vägen hem - 0 mile ***


 


«Kenji, io mi sto congelando, andiamo a cenare ora?»
Batteva i denti dal freddo, strofinandosi le mani avvolte nei rigidi guanti di pelle che tentava di scaldare, tra una parola e l’altra, nel suo vacuo alitare. Il cielo era di una bellezza mozzafiato, quella sera, in cima allo Sky Station di Abisko, dove il vento immobilizzava le ossa e scarnificava le guance. E immobile lui era, lo sguardo ipnotizzato a cogliere le variazioni musicali nei colori di quel cielo stregato che nessun’altro sembrava udire. Somigliava vagamente a una bestiola primordiale che fissa sbigottito il firmamento in queste medesime terre innevate, un tempo addietro…
Come una fascia di scacciapensieri appesa in alto, che, a un certo punto, qualche mano aveva smosso, facendo ondeggiare. Ma lassù, incendiati di un verde fuoco fluorescente, erano particelle di elettroni e atomi d’ossigeno in collisione, a dar vita a quella muta danza-scontro attraverso i cieli notturni dei secoli, delle ere, incessantemente.
«Vai pure dentro se vuoi…» Non sembrò accorgersi delle estreme condizioni climatiche, Fujima, la punta del naso tutta rossa che puntava in alto e che avrebbe colato pericolosamente di lì a poco, le labbra del medesimo colore socchiuse.
Allora Maki non disse più nulla. Ritornò a guardare il cielo e gli rimase in silenzio accanto per il resto del tempo.
 

 
 
Vägen hem - 0 mile 
 
"Il fatto è che non posso più tornare indietro,
che non riesco a vivere con te né senza di te."
F. Battiato
 


Dire “casa è dove sei tu” è piuttosto facile, ma nella realtà, le cose saranno forse più complicate.
Anche se ci dovessimo incontrare ancora una volta, anche se il cuore dovesse morire ancora una volta, sono certo che ora non sarebbe più un dolore prioritario.
Non si muore per così poco, in fondo. A forza di venire spezzato, il cuore finisce per assumere le qualità di un diamante. Finché si è vivi, come essere costantemente affamati, ci sarà sempre qualcosa che vorremo proteggere. Ora le mie giornate trascorrono serene e posso dire senza dubbio di essere molto appagato. I doni che ho ricevuto dalla vita, tanto immeritati e preziosi, e l’amore che provo per loro, a volte ho impressione che siano in fondo una tua eredità … Mi viene quasi da sorridere a questo pensiero.
Oh, Kenji… Dove sei ora? Mi chiedo se tu riesca a vedere tutto questo; vorrei tanto poterteli mostrare, la luce di questa stagione, la bellezza scintillante nel vigore di ogni foglia, ogni colore, a ogni mutar di marea, tutte le gioie di questo mondo che tu mi hai lasciato, quando te ne sei andato.
… Anche adesso, loro ti appartengono, sai?
Il 7 giugno, quando il sole sorgerà, io, sarò ad aspettarti in quel posto. Non mancare.
 
 
Aveva pensato spesso a quale potesse essere quel “solito posto”.
In questi dieci anni non era mai tornato in Svezia, per mancanza di tempo o di volontà. Ogni giorno c’erano impegni e confusione in abbondanza con cui distrarsi. La città era cambiata nel frattempo; come quel locale all’incrocio dove si recavano nei pomeriggi liberi, a reggere gli sguardi sbigottiti di mezza città tra una chiacchiera e l’altra: ora al suo posto c’era un calzolaio. O magari, il lungo muro frangionde su cui avevano passeggiato spesso in adolescenza; quella scalinata di pietra all’entrata della spiaggia, con il distributore di bibite rimosso da tempo, dove, verso sera, erano soliti a darsi appuntamento…
Tempo fa era passato ancora davanti a Villa Fujima, ma l’aveva trovata in totale stato di decadenza, con l’erba che cresceva fino alla vita e i cancelli sbarrati. A quanto pare, Ryuji Fujima, che all’epoca si era buttato in politica, era stato sorpreso in atti fraudolenti e accusato di bancarotta, per ricoprire i debiti aveva perso tutto il suo patrimonio. Ora quella bellissima residenza era stata messa in vendita dallo Stato, ma dati la fama infausta e il disonorato trascorso, nessuno la voleva acquistare. Questo, era solo uno dei tanti eventi di cronaca succeduti nel corso degli anni, presto dimenticato dalla gente… Come l’esistenza stessa di Kenji, passato sopra la città come un soffio di vento per scuoterne appena il pigro fogliame. Erano lontani i giorni in cui i suoi passi avevano vagato per questi stessi prati abbandonati, il suo giovane animo irrequieto, quegli occhi rabbiosi e i pugni stretti, senza una meta… A questo pensiero, gli si stringeva il cuore.
 


 
 
«Lei giocava a pallacanestro, vero?»
Un giorno gli era capitato di sgranare gli occhi davanti a una frase del genere. Beh, non se la aspettava. Era seduto ad aspettare la figlioletta che finiva la lezione di galleggiamento in piscina, il solito venerdì nero, con le narici pregne di una nuvola di nicotina che il vicino genitore molestatore stava fumando sfacciatamente; l’aveva intravvisto e ivi ignorato qualche volta all’ingresso mentre accompagnava il pargolo, un viso del tutto trascurabile, quanto la sua voce. Gli disse di essere della sua stessa generazione e di averlo visto gareggiare un'estate di 20'anni fa o giù di lì... Non gli smentì, ma disse solo di non ricordarsi bene i dettagli di quel periodo che in fondo faceva parte ormai di una lontana adolescenza. Maki fece vibrare una gamba con latente nervosismo, non sapendo se era per il fumo o le chiacchiere non gradite dell'uomo; non gli era mai piaciuto parlare del proprio passato cestistico, per qualche ragione, tantomeno in questo caso davanti a un perfetto sconosciuto. Perciò tentò di liquidare con un blando «Ci giocavo solo a tempo perso, in realtà…» In realtà era stata più o meno la sua unica ragione di vita per 24 sudatissimi stagioni dell’adolescenza, i tanti trofei, la troppa pressione e le aspettative crescenti e spropositate del mondo intero su di sé, e poi…. Oh, bé, Fujima. «Lei è così modesto! I suoi figli hanno già iniziato?» Fece per offrirgli il pacchetto aperto di sigarette, che lui rifiutò. Invece levò una mano per salutare Nagisa che gli stava sbracciando in quel momento tra gli spruzzi, con un non so che di disperato negli occhi, tutta infagottata tra ciambella e braccioli. Sorrise intenerito. «Veramente non ho figli maschi, anche volendo non potrei insegnarli a giocare.»  
Lo aveva sperato con un sottile timore nel cuore. Naturalmente, nemmeno una volta era stato nominato. E come potrebbe? Se non si scavavano in fondo agli articoli sportivi dell’epoca, difficilmente si potrebbe avere nozione di certi dettagli tecnici, e lui era solo uno dei tanti, numerosissimi, e non era stato di certo il più eclatante… Come se la loro celeberrima rivalità non fosse mai esistita che nella sua mente, puro frutto della sua immaginazione. Sarà un caso patologico?
Per quanti sforzi si facciano, molte cose non possono essere cambiate; di certo, la redenzione non spetta a tutti. Lui ne era convinto… Specialmente, quando osservava le sue figlie. Nagisa e soprattutto Sora, l’incarnazione dei suoi rimorsi, che forse non lo avrebbe mai amato e tantomeno avrebbe potuto ereditare la sua passione: era il peso del disprezzo in quegli occhi scuri dal taglio orientale identici ai suoi, nei quali si sarebbe dovuto rispecchiare per il resto dei suoi giorni…
 

Indugiava davanti alla fila di riviste e giornali, Maki, lo sguardo un po’ perso nel vuoto. La figlia aspettava in macchina, parcheggiata in doppia fila fuori dal minimarket. Prese velocemente una copia di “Asahi Shinbun” dagli scaffali dei quotidiani esposti e di fronte alla cassa, fermandosi un secondo, indicò i pacchetti blu all’angolo del ripiano dietro al commesso. «Mi dia anche quello, per favore.»

“….. Chi è questo Miguel?”

.... Fujima sbuffò al suo ennesimo scocciante terzo grado, facendo sollevare la frangia. Strappò un ciuffo d’erba e strofinandolo tra le dita, lo annusò delicatamente; lo sguardo indifferente. “È meu amante brasileiro.” Con immediata rimostranza, Maki gli fu addosso, schiacciandolo contro il petto sul prato ispido e soleggiato. “Così io sarei il tuo amante giapponese, mh? Scommetto che ne hai qualcuno anche in Svizzera o in Messico, dai, confessa!” Prese a percuoterlo di solletico lungo i fianchi mentre lui si agitava come un’anguilla, le braccia ritratte a proteggersi vanamente. “No, smettila! Ti prego!” e ridendo senza ritegno a ogni sillaba contratta. Il compagno lo torturò ancora mordicchiandogli teneramente la mandibola inerte e ricoprendogli tutte le guance di una profusione di brevi baci a schiocco, che si intervallavano alle vibrazioni delle sue risate......
Quel flash di loro due insieme avvolto in una cornice di felicità quasi stucchevole gli sovvenne molesto e irrazionalmente.
Ogni tanto gli era venuto il dubbio che non avesse continuato a vederlo, quel tale, magari le volte in cui si era allontanato per curare i suoi affari in Sudamerica, stando via anche per diversi giorni; ovviamente, non l’avrebbe mai saputo.
 

Di tutti gli errori, tutte le menzogne, avrei chiesto perdono a lui, poiché è il solo che ne abbia diritto, il solo che possa mai perdonarmi. Ma verso di lui, non sono mai stato colpevole… Probabilmente, è l’unica verità della mia esistenza.
 


Se doveva ripensare a quei giorni, non erano i luminosi riflettori del palazzetto o le vedute sconfinate sull’oceano; non erano quelle strade, quei negozi o le loro lunghe chiacchierate davanti alle tazze vuote… Spogliato il cuore di ogni ricordo e ogni parola, c’era infine un solo luogo.
Sicuramente, anche Fujima avrebbe pensato lo stesso.
Quelle cinque fermate tra le abitazioni e le collinette intravviste a pelo, poi due costeggianti il litorale scintillante e tre ancora nell’entroterra umida. Ogni mattina, da una vita.
Quel posto che non esiste, che pure era sempre stato lì, davanti ai suoi occhi, nella sua memoria, con certezza incontrovertibile; anche se tutto il resto dovesse essere solo una menzogna. Questo era, in fondo, tutto ciò che sapeva; tutto ciò che loro erano.
 
Sarebbero state le 7:23, l’ora in cui il suo viso era solito ad apparire sul binario della stazione al ridosso del suo vecchio quartiere.
Più volte, il consiglio comunale aveva tentato di abolire l’antica linea Enoshima, per rimettere un tratto ferroviario moderno, ma quattro anni fa una petizione cittadina lo aveva fatto desistere. Certo, le stazioni maggiori erano state ristrutturate, ma sulle coordinate geografiche ancora erano le medesime, come ventidue anni fa; anche se ormai, si potevano più che altro considerare un cimelio antico, oggetto di crescente interesse turistico. Nella sua essenzialità, di certo, non sarebbe mai mutato.
Sceso dal taxi, si vide tagliare la strada da un gruppo di adolescenti che correva schiamazzando verso le entrate automatiche. Portavano la divisa dello Shoyo.
Fece biglietto, anche se non doveva andare da nessuna parte, e rimase su una panchina ad aspettare. Seduto immobile ad aspettare. Un uomo parlava al cellulare accanto a lui e discuteva con ardore di piani finanziari. Arrivò un treno e la stazione si svuotava di colpo, per poi riempirsi ancora nello scarto d’attesa. Teenager trafelati di corsa si precipitavano dentro alle porte in chiusura, ansimando a perdifiato, senza tuttavia risparmiarsi di risate. Ancora risa, una donna di mezza età. Respirava il ritmo semplice di una stazione ferroviaria alle prime ore del mattino, dove, lui era l’unico che non avesse una meta a cui dirigersi. Arrivi e partenze, partenze e arrivi. Diventa un presagio palpabile, quando ci si mescola a questa cadenza immutabile, e si impara a cogliere le lievi vibrazioni che precedono il puntuale fischio della locomotiva in dirittura d’arrivo, come se fosse il cuore stesso a invocarla. Le porte si spalancavano, qualcuno scendeva, altri continuavano il viaggio; e tutte le volte si sarebbe aspettato, con il battito accelerato, di morire alla vista del volto che cercava. Ma… A metà mattinata, quando il sole, scavalcato il filo della pensilina, era arrivato a toccare le punte incerate delle sue scarpe, e ancora non era accaduto niente, Maki decise che era ora di andare a prendersi un caffè.
Dalla vetrina del locale, continuò a fissare i movimenti del binario. L’aroma del caffè lo svegliò un po’ di più e si chiese, in effetti, come mai fosse stato convinto che sarebbe arrivato col treno; era pur sempre nei pressi di casa sua, poteva benissimo prendere anche lui un taxi… Così pensando, si diresse verso il ponte che cavalcava la strada ferrata, all’estremità della stazione. Da lassù, avrebbe avuto una visuale migliore, e poi, aveva impressione che in fondo fosse proprio quello il “luogo” in questione.
“E un giorno ti batterò, ricordatelo!”
Si era sentito così stupidamente felice in quell’istante, chissà come mai… Il sole aveva cominciato a battere forte sulla pelle, appoggiato lungo il parapetto scrostato, si guardò l’orologio, erano quasi le 11. Sotto di sé, i treni continuava a sfrecciare a intervalli regolari, ora il flusso dei passeggeri si era attenuato un po’. Aveva avuto tutto agio di osservare degli operai ferroviari al lavoro su un tratto in disuso. Si tolse la giacca, accaldato, che pose sul corrimano, le braccia allargate a sostenere l’ampia schiena flessa. Cedette un attimo il peso della fronte, accasciandosi in avanti con un sospiro; levò di nuovo la testa, e si cominciò allora a scorgere una scintilla di esasperazione nei suoi occhi.
E se avesse sbagliato il luogo dell’appuntamento? Se lo chiese per la prima volta. E se Fujima lo stesse aspettando da qualche altra parte, convinto a questo punto che lui non sarebbe venuto? Ma non era lo stesso dubbio che gli stava sorgendo in questo momento? Ancora un attimo, ancora qualche minuto… Non poteva che trattarsi di questo posto, di questa cavalcavia. Questa convinzione cresceva dentro di sé, con trepidazione, minuto dopo minuto. Tornò giù a bere dell’altro caffè ed era l’ora di pranzo, comprò una rivista, cambiò panchina e prospettiva, passeggiò un po’, infine salì di nuovo sulla sopraelevata quando si rese conto che, nell’aria rinfrescata, il sole stava ormai tramontando. Sirene a largo.
«電車がきます… - Densha ga kimasu…» “Treno in arrivo alla piattaforma numero uno, si prega ai signori passeggeri di attendere dietro alla linea gialla.”

Fujima, non venne.
 
 
 








A volte mi ritrovo ancora a sperare… Ti ho visto in città una volta, mi chiedo se non sia stato frutto della mia immaginazione; camminavi tra la folla, in un giorno feriale. A Roppongi.
Non avevo compreso finora di essere io stesso, quello che si era smarrito.
Le poche certezze strette gelosamente nel pugno, si sbriciolano. E mi domando, se tutto quanto, tutta la strada fatta fino a qui, abbia avuto realmente un senso… Sto vacillando.
 
 
La sera prima, sua moglie gli chiese di portare le bambine al parco, mentre lavava i piatti in cucina.
Le spalle energiche da ex infermiera davanti al lavello e un fisico slanciato che non aveva mai perso la freschezza dei suoi ventitré anni, quando la conobbe quasi per caso a un semaforo, tra colpi di clacson e il frastuono delle sirene. Lui viaggiava su un taxi e lei aveva fretta. Si era ritrovato questa pazza accanto al sedile, dopo che aveva aperto la portiera fregandosene del fatto che il mezzo fosse già occupato, e bellamente disse all’autista di dirigersi verso l’Ospedale Universitario di Yokohama, mentre lui la fissava stralunato quanto il conducente stesso. Si chiamava Naoko Shitamura.
Era stato più o meno 7 mesi dopo il suo ritorno in Giappone.
Accidentalmente bella e preparatissima tirocinante di infermieristica, sarà stato per il suo modo tutto particolare di chiamarlo, come faceva solo sua madre -alla quale fra l’altro somigliava un po’-, o per quel caratterino schietto ma in fondo semplice e privo di complicazioni, e non si può dire esattamente che avesse sposato la prima che passava, ma era quasi vero… All’epoca, suo padre era appena scomparso e la presenza di Naoko fu provvidenziale a casa. Ancora adesso, gliene era molto grato. Non lo si poteva accusare di cinismo, tutto sommato.
Già, ma perché proprio lei?
Maki sollevò il capo dagli avanzi di pratiche che si era portato a casa, quel sabato sera, annuendo distrattamente.
… Ormai non stava più tanto a scervellarsi, a volte, le ragioni delle nostre scelte sono molto più elementari di quanto si creda. Era come se avesse aperto all’improvviso gli occhi, aveva chiaro in mente il meccanismo imperfetto di questo mondo, il cuore stesso non aveva più misteri per lui, e una volta compreso che non c’era niente da perdere, non restava che rilassarsi; questione di abitudine, forse. Ed era strano perché, questo, in fondo, non era il suo modo di vedere le cose.... Era sempre stato il suo.
Del resto, aveva continuato a condurre la medesima vita a scadenze regolari, facendo le stesse scelte di prima, vizi ed errori, senza cambiare mai di una virgola; ma non c’era nulla di male in questo. L’intesa quotidiana con Naoko si spartiva in modo equilibrato, per taciti consensi e stima reciproca; ognuno aveva ruolo nella vita dell’altro in quanto necessario e vincolante, ed era piuttosto difficile per loro riuscire a trovare punti su cui intessere divergenze. La verità è che c’erano tante cose che lei non sapeva e che non le aveva mai raccontato… Quello che aveva fatto, tutto il male che aveva causato, prima di ricevere questa seconda possibilità e ricominciare daccapo, come se non si fosse mai macchiato di alcun peccato. Perché aveva la sensazione che lei, sempre così aperta e perspicace, in fondo, non lo avrebbe capito…
 
«Sono felice che tu sia tornato, Shin. Grazie.» Maki stringeva la mano di sua madre, quel giorno, al ritorno dal funerale. Aveva il pizzo nero della visiera abbassato e la città scorreva tetra accanto ai vetri oscurati dell’auto.
“… Grazie.” Una madre non dovrebbe mai rivolgere un’espressione simile al proprio figlio.
Qualcosa di umido e sgradevole sul petto, qualcosa come il sapore di ruggine, la coscienza che in tutto ciò il mondo andava ancora avanti, lieto e indifferente, senza clamori, senza condanne.
Chissà che anche lui non avesse provato lo stesso, quella volta….
 


«Papà, sete.» Maki si sentì scrollare per una manica, la piccola Nagisa gli arrivava appena alle ginocchia. C'era una festa di compleanno allestita in un parco alla quale era stata invitata Sora e la piccola le fu di scorta, ma come al solito era rimasta rannicchiata in un angolino, senza neanche assaggiare la torta, a fissare tutti quei bambini più grandi che correvano nel parco giochi, con quell’espressione smarrita così tipica di lei. Così che non poté fare altro che portarla a fare una passeggiata nei dintorni, in attesa che finisse lo schiamazzo.
Lo fissava con i suoi occhi da cucciola, aggrappata a una sua gamba. Maki sospirò. «Va bene, ma aspettami qui, non ti allontanare.» E andò dall’altra parte della strada, dove aveva intravvisto il tendone a strisce di un chiosco, senza intanto perderla di vista. «Sono 150 yen, signore.» Le prese una bottiglietta di succo ACE che poi sarebbe toccato a lui finire, e mentre frugava nel portamonete per scovare gli spiccioli sul fondo, si voltò d’istinto a controllare se era ancora nella posizione raccomandata.
Lo era, ma scorse stavolta qualcuno accanto a sua figlia e la cosa lo allarmò. «Mi scusi un attimo…» Maki lasciò la bibita sul bancone e si accostò alla striscia bianca della carreggiata, tentando di farsi sentire. «Nagisa!» La piccola non sembrò accorgersene, teneva per mano lo sconosciuto che si era chinato ad accarezzarle dolcemente il taglio a caschetto… Nell’ondata di apprensione, c’era tuttavia qualcos’altro che lo turbava. Squadrava ora con insistenza quella figura di schiena e ne ebbe una fitta al cuore. Non può essere… Maki attraversò di corsa quella trafficata via a pochi metri dal parco, scansando le automobili in partenza al semaforo, ma quando le giunse accanto, trafelato e incerto, l’uomo era già sparito.
«Nagisa, quante volte ti ho detto che non devi parlare agli sconosciuti!» Si inginocchiò a stringerle le mani gracili. La piccola non disse nulla, fissandolo atona. La prese in braccio e si risollevò in piedi per gettare lungamente uno sguardo irrequieto attorno a sé, ma non vide altro che famiglie al passeggio tra i mulinelli di foglie scricchiolanti e dorate.

Nell’eco delle risa infantili, l’autunno si infittiva.
 

“Se fosse tuo, io lo amerei moltissimo …”




 
 



 
Accadde sei mesi dopo.
 
Tornando a casa un martedì sera, aveva controllato come al solito la posta e nella caterva di pubblicità e bollette aveva trovato un pacco piuttosto ambiguo. Bianco, sigillato con riguardo e leggermente rigonfio. Gli era stato spedito due giorni fa.
Entrò in soggiorno e lasciò cadere il resto del malloppo sul tavolino insieme alle chiavi della macchina, vagamente incuriosito. Trovò uno stiletto. Lo aperse con attenzione e per prima cosa lesse il contenuto cartaceo:
 
 
Mitsui Bank – SMFG “Sumimoto Mitsui Financial Group”
Alla cortese attenzione dell’intestatario delegato Egr. Sig. Maki Shin’ichi
 
Gentile Cliente,
In disposizione delle norme contrattuali inerenti al rapporto di locazione stipulato in data 200X/10/15  per il canone della cassetta di sicurezza n° 4127  presso la filiale bancaria in sede244-0801, Kanagawa-ken, Totsuka-ku, Yokohama-shi, Shinano-machi 516-8 , con la presente Vi invitiamo al rinnovo del contratto di locazione entro 90 giorni previo pagamento del canone annuo pattuito (vedere allegato 1). In caso di mancato adempimento, Vi ricordiamo che la cessazione del medesimo avverrà entro i termini stabiliti con lo svuotamento forzato del deposito tramite il personale incaricato. 
 
Cordiali saluti, 
Responsabile amministrativo filiale Mitsui Bank, T. Kobayashi 
 
 
 
La busta riportava l’indirizzo di uno studio legale, sul fondo, una chiave elettronica e la sua tessera gemella. Nessuna riga in più.
Uno scherzo? Si corrugò in un primo istante, rigirandosela scettico, mentre slegava la cravatta con l’altra mano. “Sumimoto-Mitsui FG”, l’autenticità del timbro era incontestabile tuttavia... L’indomani si recò all’indirizzo riportato nella lettera, pronto a dichiarare la propria effettiva estraneità sul fatto e disdire la presunta proprietà su un cassetto di valore di cui non sapeva nemmeno l’esistenza. Lo ricevettero in una saletta privata e gli chiesero calorosamente le generalità, come se ci fosse stato già altre volte.
«Senta, credo che ci sia stato un errore…» Tentò di chiarire già alle prime battute, ma non fece calare l’inquietante sorriso istituzionale che il dipendente bancario esponeva al di là della scrivania. «Non si preoccupi, l’Avvocato Sakai ci ha dato tutte le disposizioni al riguardo.» Maki rimase restio sulle proprie posizioni e dopo una breve valutazione chiese di poter vedere il contratto.
«Ci risulta che il contenuto non sia mai stato spostato in questi anni, lei è il primo dei cointestatari che si presenta dopo la deposizione. Ne vuole una copia?» disse indicando il fascicolo tre le sue mani, dal quale Maki non distolse lo sguardo che, a ogni riga letta, diveniva sempre più impervio. L'impiegato lo osservò paziente finché non finì di leggere, posò sul tavolo quelle quattro pagine spillate e con un piccolo cenno, lo vide annuire.
«L’Avvocato Sakai ha provveduto finora a tutti i dettagli burocratici in delega dell’intestatario principale, il signor Fujima Kenji non si è mai presentato di persona,» esponeva con tono serafico il giovane impiegato, mentre la battitura intermittente della stampante sovrastava la sua voce, «ma ci è stato dato l’istruzione che qualora cessasse il versamento del canone, ci saremmo dovuti rivolgere a lei, Maki Shin’ichi-san, che è legalmente autorizzato ad aprirlo. Naturalmente, dal punto di vista formale non può ancora entrare in possesso dei beni contenuti: per questo deve contattare l’Avvocato stesso; le nostre facoltà non vanno oltre, mi dispiace tanto.» Allineò con premura tutti i fogli in verticale e li fece appuntare, prima di porgerglieli gentilmente con ancora un sorriso.
Maki, non li prese.
«…Vuole andare a vedere la cassetta?» con tono indulgente, domandò l'uomo.

“Torna a casa, Maki.”

Fin dall’inizio … Tu, fin dall’inizio …

Scesero insieme nella stanza del caveau.
Un lungo, angusto corridoio dalle pareti argentate ripartite in infiniti piccoli moduli, tutti ugualmente numerati; la scarsa illuminazione iniziale non suggeriva appieno le sue dimensioni reali e a ogni battuta di tacco sul pavimento, i sensibilissimi rilevatori a LED si accendevano di una soffusa luce bianca che descritto l’ultimo riquadro di marmo divenne quasi abbagliante. Gli scompartimenti arrivavano fino al soffitto, da cui lampeggiavano spie rosse. Il pensiero di aver firmato anticipatamente una denuncia in cui si dichiara l’incolumità relativa a tutti gli altri cointestatari, in quanto prassi ordinaria, non faceva che renderlo ancora più scettico e inquieto in quel momento...
«Siamo arrivati, è qui.» Gli indicò il personale, presentandogli un palmo aperto che non era un accessorio di cortesia. «Oh, certo…» Maki frugò in tasca per estrarre la chiave che aveva ricevuto insieme alla lettera il giorno prima.
Era un armadietto alto appena 14 cm, oblungo e stretto come il corridoio, il n° 4127, incastrato a metà busto in una pila di gemelle anonime, le cui storie si disperdevano nella notte come un sibilo di vento.
Cosa aveva nascosto, Fujima, in questa piccola e modesta banca del Giappone?
C’era, dal principio, un’infinità di cose che avrebbe voluto chiedergli. Un’infinità di direzioni, di possibilità, di aspettative… di conclusioni, dove conduceva questa strada.
I segreti taciuti da una vita, quel nodo stretto alla gola da togliergli il fiato; il codice sperduto del suo cuore e le chiavi dell’anima ora in suo possesso, dinanzi a questo minuscolo vano che stentava a contenere un singolo mattone della memoria: avrebbe saputo dargliele, le risposte che tanto cercava? Se gli fosse dato di porre una sola domanda…
La chiave venne inserita accanto a quella universale che l’impiegato bancario adoperò simultaneamente. I meccanismi ruotarono in un breve fragore, spaccando il silenzio stantio del sotterraneo. Terminato le proprie mansioni, lo lasciò in solitudine dopo un ossequioso inchino.
… Se gli fosse dato di porre una sola domanda, ora, quale sarebbe stata?
La cassetta era aperta.


 
Da piccolo, sognava di portare un radiotelescopio sulla luna, gli sarebbe piaciuto poter ascoltare i suoni dello spazio in una piccola stazione lunare che, chissà per quale ragione, se la immaginava sempre come un enorme granaio...

La sua voce viaggiava nel mormorio delle rotaie, le dita intrecciate davanti al ginocchio, il volto dai contorni sfocati e radiosi e il suo riso che, così prossimo, echeggiò breve come un disperdersi di ali in controvento... Che cosa stava stringendo tra le mani?
Non sapeva se era un ricordo reale o solo il riflesso di un sogno. Il vecchio vagone treno tutto vuoto pervaso di una luce abbagliante, dove loro due erano i soli passeggeri.

 
... E da lì, da quella stanza buia, avrebbe captato all’infinito i rumori di vita quaggiù sulla Terra… suoni di casa. Sapeva che sulla luna non ci sarebbe mai potuto andare, e allora, suo padre gli regalò una cosa…

 
A 50 metri di distanza ora dalla sua testa, il traffico cittadino scorreva sordo e lento e fumoso, trascinandosi dietro un cielo gravido di neve.
Nella nudità delle quattro placche blindate d’acciaio, altrettanto essenzialmente era stato riposto, dimentico di ogni altra protezione fuorché l’oscurità in cui era avvolto, un unico, immacolato dossier di documenti timbrati. Era redatto in un fitto svedese, allegato a una copia più recente di traduzione in lingua giapponese che avrebbe trovato qualche facciata più in là: l’Atto di proprietà sulla “Fattoria Marklund” a Nora. Mentre lo sfogliava, un immobile abitativo su due piani, il valore ammontato dopo la ristrutturazione, 1000 acri di terreno e foreste sfruttabili allo stato brado e i confini contrassegnati, in un sussurro di pagine sgusciò fuori un ritaglio di carta che, volteggiando, andò a cadere tra i lacci delle sue scarpe. Maki lo raccolse.
 
Non possiedo nulla, ma questo è l’oggetto più prezioso che ho.
 
Tra le mani strinse un foglio appassito che comprese essere un biglietto aereo in turistica, ormai inutilizzabile poiché risalente a più di 30’anni fa. Nel chiarore soffuso della filigrana poté ancora distinguere le brevi righe che rimarcavano il volo SK0984 Tokyo-Narita con scalo a Copenhagen, tastando uno a uno quei minuscoli caratteri quasi estinti…
 
…. Torna a casa, Maki.
 
… La destinazione, Maki non riuscì a leggerla, poiché tutto si fece chiaro e tremulo. Ma in quell’istante, per logica o per istinto, dentro di sé sentì di conoscerla e sentì di averlo in fondo sempre saputo....
"Stockholm".
A mani giunte lo impresse contro le labbra, saggiandovi sopra il calore del proprio respiro e sentendoselo spezzarsi tra le dita, fragile, quanto il ricordo cui vi era sbiaditamente aggrappato. L'addome gli si contrasse forzando l'arco della schiena a flettere verso il suolo, ma Maki non si permise di sprofondare. Il dolore affluiva vivido dalle sue unghie a scatti leggeri e impercettibili, come se il cuore vi pulsasse dentro incessantemente. Non seppe dire da quando la carta aveva cominciato a bagnarsi, per quanto tempo…
eppure aveva la sensazione di non averlo mai afferrato tra le mani, per quanto forte stringesse e male facesse.
E forse tuttora lo rivedeva tornare, conducendo per mano la minore delle sue figlie che lo riportava da lui, quella domenica offuscata, in un parco pieno di bambini ai margini della città, sorridergli…
meraviglioso, come se gli anni non fossero affatto trascorsi.
Sorridergli, perché lui avrebbe fatto lo stesso.
5164.837 miglia, anche se nessuno avrebbe mai saputo cosa fosse stato questo viaggio. 5164.837 miglia, dove forse tutto era rimasto come allora, come lo avevano lasciato. Quella casa, quella veranda, il giardino ancora incolto, la tazza di caffè lasciato a intiepidire sul tavolo, i barattoli di vernice vuoti che stipavano l'atrio spoglio... Tutto quanto cristallizzato nel tempo, come il giorno in cui se ne erano andati.
Non immensità da solcare né mondi da inventare al di là della cara soglia, infine…
Era tutto lì, nelle sue mani, a un solo palmo ora dai battiti infranti del suo cuore. Dove era sempre stato. Sempre, in attesa.
 






 

"Ma io vorrei essere un'aquila

vedere il piano del mondo che inclina verso di noi

e le leggi che si inchinano

lanciarmi a inseguire il tuo deserto

e i poteri solenni
e le porte dorate


cominciare di nuovo il viaggio."



 

 

Note:
1. Il testo citato "Stage Door" di Battiato, benché non sia una fan dalla musica italiana, ma questa canzone appartiene a un'altra parsona.

2.  "5164.837 miglia" sono idealmente la distana aerea che separa Kamakura da Stockholm. Questo era il senso...
3. Treno: Enoshima Dentetsu aka "Enoden". Oltre a essere un'icona di Slam Dunk, era questo il punto di connessione di tutta la seria secondo me, scelto come luogo di incontro, senza ovviamente tenere conto di un'incognita arbitraria: Fujima poteva prensentarsi così come no. Ebbene non aveva mai avuto intenzione di tornare, la promessa di incontrarsi dopo 10 anni era un modo affiché Maki potesse sopravvivere alla sua assenza e nel frattempo andare avanti e rifarsi una vita. Maki non sa nemmeno se è ancora vivo oppure no. Ma la facoltà di scegliere di volerlo scoprire, a questo punto, non è più mia. 


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Capitolo 6
*** capitolo extra ***


 
 AVVERTENZE: Questo non è l’ultimo capitolo. Per leggere l’ultimo andare al capitolo precedente.
EDIT: Ritagliata cronologicamente tra il terzo e il quarto capitolo, questa storia è un lapsus di tempo scritto con uno hiatus di.. forse 3 anni? Probabilmente lo stile non risulta lo stesso, è un capitolo aggiuntivo. Era una delle due cose che mancavano. Siccome ci tenevo a questa storia, per qualche ragione che nemmeno io conosco... Spero non stoni con il resto e che sia una passabile lettura.


 

 

Messaggi ricevuti
29 aprile 14:17
From: K.Fuji@hcg.jp
To: me
Sono qui.
 

Messaggi ricevuti
29 aprile 14:19
From: ShinMaki@xxx.al
To: me
Arrivo tardi, perdono. Vieni verso l’uscita est. Ci incontriamo a metà strada_ _
 

Scrisse al volo il messaggio mentre scendeva di corsa quei dannati gradini ravvicinati, sorvolando il comodo nastro delle scale mobili che vi scorreva imperturbato accanto. Aveva fretta. Troppa, in effetti, anche solo per rendersi conto che un moderno elevatore gli avrebbe risparmiato la metà delle fatiche e fatto guadagnare tempo -non sia mai, Kami-sama, arrivare in ritardo lui, proprio no-, sicché tutte le energie furono ingranate ai tricipiti impazienti e la ragione poteva andare a farsi benedire poiché lui, Shin’ichi Maki - e il nome è una garanzia-, oggi lo avrebbe rivisto dopo 7 lunghi mesi di attesa e non avrebbe aspettato un solo secondo in più, costi quel che costi.
O almeno, così congetturava …
 
Messaggi ricevuti
29 aprile 14:41
From: ShinMaki@xxx.al
To: me
Dove diamine sei??
 

Sulla soglia di una tremolante luce pomeridiana, Fujima dileguò una veloce smorfia e ponderò sulla tastiera poche parole esitanti “all’uscita est…”, che poi cancellò in fretta e corresse semplicemente con un “non ti muovere”. Schiacciò l’invio e si rimise la tracolla sulla spalla.
Reindirizzò i passi verso il sottosuolo di quel labirinto chilometrico, sotto i neon abbaglianti, a tracciare daccapo l’intricato percorso una seconda volta tra flussi in controvento di passeggeri in evacuazione da sommossa simulata, il cuore in gola e uno strano palpito allo stomaco. No, non aveva dormito in aereo, né sul treno, né in metropolitana; masticando poco più di un cracker al sale marino, ma non c’entrava la stanchezza, o il fuso orario. Questo stordimento cosciente, come un velo ovattato sulla nuca. Questa ansia, che sapeva di paura e d’euforia; era forse felicità?
Respira, respira. Ed era ciò che fece a ridosso delle scale mobili che aveva fiancheggiato poc’anzi per risalire e dove, come previsto, aveva sorpassato la discesa trafelata dell’altro in sua rincorsa mancata che era rimasto lì -a metà strada come aveva detto-, come un allocco a maledire i suoi contrattempi, mentre lui lo aspettava alla fine della stazione, dopo aver esaurito la strada su cui si erano prefissati di incontrarsi, ma eccoli lì, tutt’e due, finalmente, a guardarsi con i loro veri occhi, per quanto increduli e impacciati fossero, estorcersi a vicenda di un sorriso che non seppero sedare sotto i muscoli facciali. Fujima si lanciò dalla cima delle scale, lo zaino che ballava dietro di sé, e in una manciata di gradini gli fu sul collo, con tanta foga da sbilanciarlo in quell’unico intenso abbraccio che gli tolse la voce e ogni fiato di ricusa. «Maki, Maki …» Mormorò stringendolo più a sé, e lui ne lambì il respiro umido lungo il tendine mentre ricambiava, le dita tra i capelli setosi. Non frenò all’eco di una risata profonda e suadente che gli accarezzò la gola per sommergere le prime parole che emersero dalle sue belle labbra arcuate. «Stupido.»
Ah, e ancora. «…Bentornato.»
 

D’accordo, non erano 7 mesi. Ne erano trascorsi 12, in realtà, quasi un anno intero ad attendere sue notizie e procrastinare ogni centimetro di ottimismo e tolleranza man mano che il tempo -le ore, i giorni, i mesi- cominciava a pesare su tutto il resto, ma ecco che quasi a ridosso della primavera finalmente giungeva la fatidica chiamata d’oltreoceano, asmatica e tossicchiante d’interferenze tropicali, ad assodare la sua tuttora esistenza da qualche parte disperso nel continente sudamericano: sono vivo, sto tornando. Perfetto, gli rispose; non sarebbe stato Fujima, altrimenti.
No, non era particolarmente risentito. Aveva avuto in fondo il suo da fare nell’anno trascorso, esami, uscite, nuove compagnie, nuova vita; nulla di cui lamentarsi. E in fondo, confidava nel fatto che prima o poi sarebbe tornato, con le sue tempistiche ben intenso. Non era stato deluso.
«Hai solo quello di bagaglio?»
Varcata ormai l’entrata del campus, Maki finalmente mise a fuoco un dettaglio screditato lungo il tragitto di ritorno dalla stazione metropolitana, non del tutto irrisorio in effetti. «Ho con me le cose essenziali, il resto è da un amico a Rio.» Nell’anno che non si erano visti era dimagrito, strusciava le suole Fujima sul selciato del giardino con palme e siepi basse, le lenti scure a infrangere i raggi di un’insolazione decisamente fuori stagione, che fra parentesi gli donavano divinamente, mentre passeggiava con le mani nelle tasche dei jeans stretti, a maniche corte improbabili e un’aria svagata da turista capitato per caso in città. Sarebbe rimasto poco e per nessuna ragione al mondo sarebbe tornato a casa sua in quel poco o più; sicché fu soluzione fatta nel momento in cui Maki telefonò a casa per comunicare ai suoi che per il Golden Week sarebbe rimasto nel dormitorio dell’università con un permesso speciale, al contrario della consuetudine che voleva sgombro e pacifico l’edificio per le prime festività dell’anno accademico in transito, e dal momento che il suo compagno di stanza aveva buona abitudine di non contravvenire alle ferie d’ordinanza, per quella settimana Fujima sarebbe stato suo ospite in incognita.
Non si scambiarono tante parole per tutto il tempo, Fujima gli camminava accanto affacciandosi ogni tanto a infrangere il silenzio con un sorriso, poi niente. Era sempre lui. Era qui… Aveva cercato di dileguare questo punto, Maki, trattenendo a sé quello strato di distacco velato per non dargli ulteriore spazio nel cuore, come si potrebbe affermare la sua non presenza anche se lo aveva di fronte a sé senza sventagliare contraddizioni ontologiche? No, ma non scherziamo, lui non frequentava fortunatamente il dipartimento di filosofia della quale una scettica mente scientifica avrebbe fatto volentieri a meno, cosicché altro non rimase che accettare la sciagurata realtà dei fatti e amplificare stoicamente quel tratto di disagio che pian piano incominciava a formicolare la pelle esposta dopo aver superato la soglia della paura. Le farfalle allo stomaco. No, non voleva sentirsi così.
Incrociarono poco più di due ombre vaganti per diversi isolati di palazzi didattici, per lo più ricercatori infestanti i laboratori in cerca di luce e viveri. L’edificio B4 adibito a dormitorio maschile era un silenzio regnante di bianco su 4 piani, nei giorni feriali intasato di odorosa e chiassosa gioventù, ora filtrava quell’insolita aria di abbandono che qualche volta raramente gli era capitato di cogliere nelle ore di lezione o in certe serate un po’ alla deriva. «Scusa.» Allungò e ritrasse la mano come scosso da elettricità statica nel medesimo istante in cui lui fece altrettanto, come un curioso specchio dei rovesci, ma in perfetta impacciata simmetria. «Scusami tu.» Fujima si portò l’incriminante all’altezza della fronte, accarezzandone lieve una porzione sulle nocche, scuotendo il capo in un riso nervoso. Come un cavallo inquieto Maki indietreggiò di un passo per trottare di nuovo in avanti e sostando sulla maniglia, maledetta, la impugnò infine per dare accesso al proprio ospite. E dire che si era premurato di non mostrarsi in alcun senso ansioso o esasperare ingloriose galanterie, perciò ebbe adito a entrare per primo e lasciare attecchire lentamente la porta dietro di sé senza farlo apparire un gesto di voluta delicatezza ed evitando di sbattergliela in faccia, in fondo. Sospirò, cominciamo bene la settimana. Sperò di essersi sbagliato. Tensione, Fujima era teso. Lui teso… Che sia il fuso orario? Non che indugiasse in dubbi profondi, ma preferiva ignorare alcuni palesi dettagli. Troppo palesi.
Forse era ora di smetterla di fingere… Ebbe l’urgenza di focalizzare un punto stabile sotto di sé per non distogliere gli occhi dallo spazio e dagli eventi, trovò curiosamente avvincente l’incrociarsi dei lacci sugli scarponi marroni. Lui lo sapeva; e sapeva che Fujima sapeva. Questo non potrebbe essere sufficiente a spianare ogni dubbio o avversità? Ma per logica non era mai andato molto lontano con lui, poi c’era il tempo, già, il tempo… E forse quel tempo ingoiato nel silenzio da 12 mesi alimentava la sua ansia irrazionale più di ogni altra cosa. Doveva sapere, sapeva di dover chiedere, avere risposte, conferme, sperando forse in un non rifiuto; a questo punto, una parte di sé capiva perfettamente di averlo già accettato in parte … Ma quale parte, in fondo? Il coniglietto gira intorno all’albero, va nella tana e tira forte …
«Rilassati, sei teso come una corda.» Buttò Fujima gettandosi sul letto -presumibilmente suo- affacciato di fronte alla debole luce del cielo appena rannuvolato che una scrivania ordinata rifiniva sotto il telaio della finestra. Lo zaino afflosciato alla medesima sorte accanto alla fiancata, incrociò le gambe sopra la coperta leggera, le scarpe ancora indossate, batté due volte il materasso con una mano spigliata. «Bel posticino.» Maki si sedette. «Dici?» Che cavolo dici? Sarebbe suonato più sincero. Accavallò le gambe per disperdere lo sguardo in giro vagamente corrucciato.
«Cosa mi racconti?» Gli sembrò di svegliarsi da un lungo trance. «Eh?» Fujima si era allungato in avanti e tendeva ora il collo per vederlo più espressamente in viso. Sorrideva. Sorrideva con quella maledetta punta di malizia negli occhi che sapeva in lui di irritazione e aspettative tradite, di incognite seducenti e trappole insondabili. Adorava quello sguardo. Sorrise, Maki, non potendo velarsi di un moto di tenerezza. «Non so, cosa vuoi sapere?» Chiese piano. Fujima flesse il capo da un lato e divagò sornione. «Qualcosa che ti preme io debba chiedere, immagino.» Lui annuì due volte, vicino, sollevando gli angoli delle labbra. Qualcosa di caldo, denso, senza voce. Un tepore appena percettibile. Non si sfiorarono.
Forse qualcosa stava per finire, o forse iniziava, in quel pomeriggio nuvoloso disperso dietro alle tende di trama ruvida, sul vetro sibilato dal vento che premeva sabbioso, chiuso in un pugno stretto al suo grembo. Che cosa fossero diventati a quel punto non lo sapevano, superate le distanze necessarie anteposte all’ego che un tempo solcavano le differenti battaglie dei loro cuori trincerati, ora esposti nell’ultimo strato di orgoglio che li copriva, la pelle reciproca, latenti e vulnerabili, finalmente se stessi.
Da quando era cominciato? Da quando le cose tra loro si erano evolute fino a prendere il soffio di questa forma effusa e impalpabile? Da una parte coscienti, ché per quanto ostinati mai furono sprovveduti, c’era tuttavia ancora quell’altra metà di loro stessi che si trastullava sul taglio del limite senza alcuna fretta di varcarne la soglia già intravvista, a quanto pare. Se tutto cominciava da un bacio, forse tutto era destinato a terminarvi entro, e in entrambi i casi ne sarebbe bastato uno solo. Uno solo … Lo ricordi ancora il vento che mugghiava nel fischio della locomotiva? Le ricordi le tue dita tra i suoi capelli aggrovigliate? La furia frettolosa e la tenerezza smembrante fra le sue braccia, una goccia lenta di sudore tergeva la tempia. Era aprile.
E improvvisamente si era reso conto che non aveva più bisogno di sapere…
«Ricordami per quale ragione siamo qui…» Riebbe in un mormorio inconscio, Maki, i ricettori sensibili a tastare il respiro di Fujima sulla fessura lacera e delicata delle sue labbra, una, due, tre volte, fino a perderne il conto, quando la ragione in ritardo era giunta finalmente ad accodarsi affannata alla corsa dei suoi sensi. «…Non me lo ricordo.» Soffiò lui preoccupandosi di sprecare meno sillabe possibili. Le parole gli erano d’intralcio.
Il corpo non dimentica. Un anno era passato da quell’unico bacio in stazione eppure era come se non si fosse mai interrotto, come se per tutti quei trecentosessantacinque o più giorni non avessero fatto altro dalla mattina alla sera. Tutte le sensazioni provate quel pomeriggio d’aprile si accesero una a una come fuochi offuscati tra le onde in tempesta lungo le sue membra e lui si lasciò guidare, inseguendo un non si sa quale meta nella cecità più ignara, incespicando ogni tanto per riprendere fiato e sbalordito porsi dubbi su come proseguire. Si sfilò innanzitutto le calzature per buona creanza e aiutò il compagno -amico, amante, o qualunque cosa fosse- a fare altrettanto, fu metodico e delicato mentre slacciava una a una le stringhe delle logorate Converse bianche; Fujima lo osservava come in trance, sorreggendosi sulle braccia, lo sguardo azzurro rapito. La destra cadde sulla punta e si distese, nel tonfo seguì la sinistra. Non fece in tempo a voltarsi e si ritrovò nuovamente quel palpito precipitoso sulla bocca, sospingersi, solleticarla, lo prese da sotto le ascelle e lo issò su di peso, accomodandoselo sopra l’intreccio delle proprie gambe. Lo accarezzò gelosamente sotto la striscia di cotone, mentre si immergeva sempre più nelle viscere del suo respiro, l’alternarsi delle vertebre appena accennate lungo il crinale dell’esile schiena, in cima come ali le scapole appuntite. Fujima gli teneva il viso tra le mani, stringendosi nelle spalle nell’angusto riparo offerto dalle sue braccia. Risalendo aveva rialzato per metà la maglietta ormai sgualcita del compagno lasciandola lì dov’era, le dita forti strinsero un ciuffo di chioma sulla base della nuca costringendolo a sollevare il mento e scoprendo la giugulare inerte su cui Maki affondò immediatamente i denti. Un mugolio di piacere sofferto e un fremito nel basso ventre, mentre i suoi sensi si incendiavano.
La maglietta era sul parquet, rigettata nella confusione alla rinfusa con un altro paio di indumenti. Febbrilmente lucido, per tutto il tempo Maki si chiese quale fosse la procedura esatta, ponderò inumidendosi il labbro inferiore, il viso corrucciato, e prese a sbottonare l’apertura dei jeans che lui portava sentendosi un po’ idiota. Non mancava di immaginazione, senz’altro, ma nella fattispecie Fujima rappresentava un territorio, un avversario del tutto sconosciuto, nonostante quel carico complicato di trascorsa conoscenza reciproca; e ancora una volta, Maki si rendeva conto di non conoscerlo affatto, cosa originasse il piacere e dove confinasse col dolore… Ma lo stesso non valeva forse anche per se stesso? E fu cercando la sua approvazione che le dita presero a misurare per la prima volta l’epidermide tesa e pulsante sfogliata poc’anzi del risvolto di stoffa che l’accarezzava soffocandola, racchiudendone la lunghezza in un palmo madido e comprimendo un soffio di assestamento. «…Non sono pratico, scusa.» Disse muovendosi lentamente quasi a scuotere il capo per imputarsi d’impreparazione. «Stai andando bene.» Sospirò Fujima incoraggiante, altrettanto in difficoltà. Maki si chinò per baciarlo. «Più veloce…» Istruì pazientemente e lui eseguì. Era sempre stato un bravo coach. Stavolta gli ansiti giunsero distinti e Maki si rese meno cristallizzato liberandosi degli ultimi freni attorno alla propria presa, effetto che non tardò a riflettersi maledettamente su di sé e, perciò, nell’intento di scansare lo specchio dell’imbarazzo che era l’immagine del volto dischiuso sotto di lui, andò a divorargli le labbra in preda a un’ansia famelica. Fujima avrebbe voluto ricambiare, era stato sul punto di farlo, ma la mano fu ricacciata nel montare di una fosca marea dentro la testa; rimase là, inerte, le sillabe spezzate sul nascere del fiato, contrarsi di secondi tesi e vibranti finché l’onda non lo raggiunse travolgendolo nell’interezza del suo essere. Fu come una corda che si strappa improvvisamente.
Rimase appoggiato contro la spalla di Maki e ansimò piano. «Troppo in fretta?» Pensò che gli aveva proprio tolto le parole di bocca. «No, va bene. Sei stato bravo.» Recuperò il sorriso in un residuo di fiato e lo premiò di un bacio vellutato. Pareva così calmo, Maki, lì seduto, eppure di quelle periferiche trasformazioni del suo corpo non era stato di certo all’ignaro, essendo peraltro a cavalcioni su di lui; senz’altro non doveva essere stato facile sopportarlo e al contempo riuscire a sorreggere il suo peso tremulo come una colonna portante. Fujima si sganciò dal suo abbraccio scendendo in un terreno relativamente più stabile e si apprestò ad allontanare ogni ingombro tessile, per quanto sottile, possibile ai lati dei suoi fianchi già scoperti che gli impedisse di rimediare. Maki si era già fatto una vaga idea, ma vi rimase ugualmente come paralizzato, mentre sentiva il tocco sulle labbra migrare verso il collo, la spalla un po’ infreddolita morsicata che si contrasse al loro tiepido passaggio, i pettorali sfiorati con le dita fredde e sottili che indugiarono affascinate e ridiscesero ancora sul sentiero accidentato degli addominali ben definiti, ribattezzando il verso delle punte all’altezza del legamento inguinale ed immergersi, laddove i muscoli si tesero allarmati, mentre infine la fronte del compagno si chinava repentinamente a togliervi ogni dubbio rimasto. Lo colse lo stesso di sorpresa. La prima reazione fu di difesa e riluttanza, Maki gli agguantò subito un polso sollevando il resto del braccio che si ripiegò in protesta e con l’altra mano tentò di rinsavire quel capoccione ostinato ma senza riuscire ad allontanarselo. «No…» Soffiò accigliato e ripeté ancora. «No!» Non del tutto convito neppure lui su cosa volesse dire e quanto pesasse realmente quel “no”. Rammentò di non essersi lavato prima di… Si morse un labbro e ansimò, «Dio…» Sentendo salire il sangue alle guance, mentre si portava una mano alle tempie come per distendere le pieghe di rassegnazione quando invece fu il proprio imbarazzo che avrebbe voluto celare. Distolse lo sguardo sopra il lento e voluttuoso inarcarsi della sua schiena, dannandosi di ogni respiro sanguigno contro l’inguine, per tutto il tempo combattuto tra il desiderio di lasciarsi bruciare fino all’ultimo frammento di midollo dalle fiamme dell’inferno e quel vago timore di essere capitato in qualche modo in una situazione senza ritorno, sgradevole, per quanto fosse la cosa più eccitante e sbagliata che avesse mai sperimentato. Si levò la mano dagli occhi e gliela pose tra i capelli. Lo sguardo estatico rivolto in alto e le labbra socchiuse, un rivolo cristallino scivolava sul collo. Fu tentato di assecondare i suoi vezzeggiamenti, solo per un attimo, anche se quell’attimo era durato probabilmente più di quanto la coscienza avrebbe ammesso in seguito, e in uno sprazzo di ragione infine riuscì a retrocederlo dolcemente, sollevandolo tergergli con il pollice quel filo di saliva che rasentava lascivo un lembo delle labbra dischiuse delle quali si riprese velocemente possesso. Non avrebbe permesso che finisse così…
Lo baciò. Lo baciò rabbiosamente per ripagare tutto il flusso di piacere interrotto, seppure per volontà propria, e Fujima si aggrappò a lui con forza, insinuandosi dalla nuca fin sotto le spalle, l’altra mano che andò a cercare uno strappo dei capelli folti di Maki, avvolgerlo in una morsa possessiva e rimasero lì, un po’ traballanti, a divorarsi il fiato a vicenda. Le lingue che si assaggiarono intrecciandosi e respingendosi, incapaci di trovare un equilibrio ogni volta che il ritmo indocile pareva sul punto di spezzarsi e precipitare, senza mai cadere veramente, come due piume al vento. Da piccolo aveva visto al museo di geologia le placche di terra sfregarsi, slittare l’una sopra l’altra fino a fondersi dei loro alieni sedimenti in un unico inscindibile elemento, simile a una cicatrice cauterizzata; aveva immaginato il Fuji-San sfracellarsi tragicamente contro la costa sudcoreana e si era chiesto cosa ne sarebbe stato di casa sua, considerazione non irrilevante per il barcollante arcipelago. Non sapeva perché gli fosse venuto in mente… Era quanto di più lontano possibile dal suo stato d’animo, e sarà che dacché le loro labbra si erano scontrate in quella faglia tremante per lunghi attimi aveva creduto di sprofondare e nel buio a raddrizzarlo fu solo il dolore, il dolore in qualche angolo remoto delle camere cardiache a comprimersi e diramarsi lentamente lungo il torace, i muscoli del collo, le mascelle ormai prossime all’infiammazione, fino a raggiungere il setto nasale in quel pizzicore così tipico di quando il mondo si annebbiava sotto una cortina di luce tremula e lui si sarebbe preso volentieri a schiaffi pur di farlo tacere… Smettila, ingiunse a se stesso con un filo di rabbia mentre i denti affondavano non troppo dolcemente a strappargli un lamento ruvido sulla bocca e sbatterlo contro la testata del letto affinché potesse dominarlo e dominarsi. Maki che, dal canto suo, aveva rottamato la ragione da un pezzo, all’ignaro delle sue battaglie interiori, in quel corpo senza coscienza fu armatura di sola e pura frenesia, sicché, ritto sopra di sé come lo scorse nella nebbia cocente, bianco e longilineo, ebbe in quel momento un singolo pensiero. Si coricò quel tanto basta da aver agio di controbilanciarsi al baricentro del compagno e senza scorgere altre verticalità, accompagnarlo con le mani intorno ai fianchi pronto a violarlo. «Aspetta…» Fu il sussurro che giunse ad arrestarlo, soffocato. «Così mi fai male.» Una luce di malizia in fondo ai suoi occhi sorridenti, mescolarsi alla tenerezza. Fujima si portò le sue dita alla bocca inumidendone le diramazioni metodicamente, sorridendogli tutto il tempo, con lentezza. E per una volta Maki seppe esattamente ciò che doveva fare.
20 minuti circa dopo, adagiato al suo fianco Fujima piegò il collo verso le palpebre distese di Maki vagamente assonnato. «Posso farti una domanda?» Lo sentì annuire. «Stai uscendo con qualcuno adesso?» Maki inspirò e sollevò una spalla per stendersi meglio. «Mi vedo con un paio di ragazze, ma nulla di serio…» Fiatò lui a occhi chiusi e accolse il suo monosillabo in replica che non voleva essere punteggiatura di sottile schifamento né di velata delusione o addirittura approvazione, e in effetti non voleva dire proprio niente. Nell’intervallo rimasero così, soddisfati, silenziosi e senza pretese, uno il soffitto e l’altro il buio, a contemplare ognuno i propri pensieri, dopo un po’ Maki si era svegliato fuori copione a rammentare un particolare sorvolato e lo aveva cercato con lo sguardo, il sorriso caldo e placido come un mare tropicale a lustrare la sua domanda invece un po’ impertinente «…mi stai chiedendo per caso un appuntamento?» Prima che un cuscino in faccia fosse di soluzione per tacerlo con istantanei risultati.
 

Quando si era svegliato al buio qualche ora più tardi aveva pensato che fosse già sera e invece erano le 5 di mattina, avevano dormito tutta la notte, e in effetti a Rio erano le 18 del domani, l’ora in cui era appunto solito a svegliarsi.
Maki dormiva ancora come un ghiro stretto al cuscino. Recuperò un paio di indumenti dal pavimento fiocamente illuminato, se li infilò senza sapere se erano suoi e uscì in cerca dei servizi. Aveva un certo fiuto per queste cose e non si perse nemmeno stavolta. Mentre tornava gocciolando in giro a curiosare con aria casual, rinfrescato senza asciugamani si strofinava il collo evaporante con il bavero della maglietta, aveva incrociato l’ombra furtiva di una ragazza che sgattaiolava fuori scalza da una delle porte lungo il corridoio e sparire cheta cheta dietro l’uscita di sicurezza. Entrò in camera e vide Maki seduto sul letto ad aspettarlo. Gli indicò qualche punto contro il paraspiffero, «sono mie quelle.» Fujima si guardò in basso e sorrise chiudendosi la porta alle spalle. «Mi pareva un po’ strano camminarci dentro.» Maki si rituffò tra le coperte ricordandosi di avere ancora sonno. Un vago blu dipinto sull’intonaco dell’edificio di fronte. «So che ci tieni tanto a provare le mie Converse e ti do vivamente il mio permesso.» Tirò la cerniera a rovistare nella borsa in cerca di una salvietta di scorta e la bocca tanto per dire qualcosa congetturava contro il suo sommo orrore. «Io non indosso quella roba!» Infatti rigettò Maki, uno sguardo di traverso alle scarpe di tela bianca sotto di sé, da sempre disdegnato oggetto di culto a lui indifferente, che per qualche ragione a Fujima non pareva dispiacere. Del resto, lui non era mai stato vanitoso e soprattutto non era mai stato tanto fedele a un singolo repertorio del proprio guardaroba. «Sai che ho visto una tipa uscire da una stanza, prima…» Stroncò sul nascere un bel seminario mentale sulle ginocchia storte di Chuck Taylor e certi lati frivoli di Fujima, perché lui aveva a quel punto già tagliato i ponti col discorso e confinato l’asciugamano spiegazzato nell’antro della sacca. «Ah sì?» Maki si raddrizzò a pancia in su riunendo i polsi alla nuca, affettando interesse per destare interesse nell’altro che gli si venne a coricare sopra a cavalcioni e si tenne puntualmente le scarpe addosso, Fujima puntellò le braccia. «Devo presumere che accada spesso da queste parti.» In diverso contesto avrebbe avuto la garbatezza di motteggiare i sistemi di sorveglianza del suddetto edificio, i quali consistevano in un portinaio 54’enne e la sua sedia di paglia su cui spendere una decennale passione per la lettura di giornali scaduti, e prosaici problemi disciplinali chiamati in causa, ma non sarebbe stato adesso quel momento. «Certo! E succede in ogni stanza!» Maki snudava i bianchi canini in una luce suadente, le arcate sopraciliari a flettersi complici. «È un dormitorio maschile, in fondo, cosa ti aspetti.. Io e il mio inquilino lo facciamo tutte le ser.e!» A una sberla in fronte seguì la sua risata sguaiata. Replicò di tenerezza il suo cipiglio a un tempo indispettito e indifferente, avvicinandolo a sé per un braccio e tutto ciò che non seppe dire lì per lì lo restituì in un bacio, tra spifferi di risa, lungo e languido.
«Togliti le scarpe.»
 

Più o meno verso mezzogiorno si ricordarono di mangiare. Al suo secondo risveglio si era ritrovato a strusciare contro il profumo della pelle calda di Maki, in punta di naso solleticandogli l’incavo del collo, rubandogli un sorriso compiaciuto. «Che c’è?» Bisbigliò. Lo vide sporgersi in avanti appoggiando con le braccia al suo petto nudo e lustrare lo sguardo sotto le lunghe ciglia brune come a volergli confidare un segreto sottovoce. «Non hai fame?» Domandò a mo’ di fusa, diaframma permettendo, con insolita mansuetudine che lo indusse ad accarezzargli la testa e capitolare precoce. «Cosa ti va di mangiare?»
Il servizio del refettorio era strategicamente sospeso per le vacanze e i pochi disgraziati alloggianti ancora nella struttura si dovevano avvalere di alternative che non prevedessero l’incendio accidentale della residenza e i custodi per buona connivenza chiudevano un occhio ai fattorini delle consegne. «Salve.» Passò davanti all’ometto succitato che gli accennò un brontolio confuso tra le pagine inchiostrate dalle quali non si preoccupò minimamente di sollevare lo sguardo, come volevasi dimostrare, lui passava piuttosto inosservato a spacciarsi per lo studente universitario che non era, ma era abbastanza compiaciuto di interpretarne le parti. «Duro lo studio, eh?» Scoppiò la bolla del chewing-gum che ritornò a masticare in faccia all’allegro ragazzo della pizzeria. «A chi lo dici.»
Tornò che Maki si stava strofinando i capelli fumanti di doccia, la maglietta nera appiccicata addosso a rivelarne i contorni tonici del corpo. Si adagiò sul letto con la scatola e incominciò incurante a masticare la sua fetta, mentre se lo squadrava tutt’altro che pudicamente dalla testa agli alluci. «Hanno fatto presto oggi.» Lui annuì facendogli spazio tra le lenzuola stropicciate. Maki fece per incrociare le gambe di fronte a lui, seduto nella medesima posizione. Sbocconcellò a fatica sentendosi osservato, rise nervoso. «Cosa c’è?» Fujima scosse il capo e fece spallucce per trattenere una riga di sorriso senza riuscirvi. Si sentì leggero come aria, come in un letto d’aria, giusto un poco intontito. Non ricordò esattamente che sapore avesse la pizza. Strana sensazione, complicata da definire…  
«Vuoi andare da qualche parte dopo?» Ruminò all’improvviso Maki. «Da qualche parte dove?» Si portò un fazzoletto alla bocca, mentre Fujima si accontentava del dorso della propria destra, senza rinnegarsi di quella sottile eleganza come solo lui sapeva tradurre in qualunque suo gesto. «Non penserai di restartene chiuso qua dentro tutta la settimana… Che progetti avevi?» Maki sistemò rapidamente e diligentemente i resti del pranzo, pose tutto in un angolo a portata di braccio della scrivania e spazzolò in due decisi colpi di mano la coperta adibita a tovaglia. Stava quasi per dire “non sarebbe male” e invece arenò in un «nulla di particolare,» rispose Fujima tornando a ciondolare con le gambe fuori dal letto, Maki lo osservò pensieroso, dopodiché inalò incerto e gli fece. «Ti và una passeggiata?»
 


I piedi a spazzare i petali viola resi crespi e trasparenti dal vento e dalla pioggia sotto il lungo porticato di glicine, c’era il sole e un primo accenno di cicale tra gli alberi, avevano preso a vagare per un po’ senza meta, la cittadella universitaria deserta come un improvvisato paradiso privato non per occhi affrettati a cui sfuggisse ogni bellezza e ogni luce, nello specchio della realtà riflessa sul lago, un mondo vacillante, quel tempo di felicità color seppia in cui le loro giovani sagome slanciate già parevano sul punto di svanire.
«E da quella parte abbiamo l’edificio dedicato a Nishima Yoshio-Sensei 1890-1951.» Fujima ciondolava dal capitello di un pilastro che stava abbracciando in bilico, gli occhiali da sole a schermare qualunque interesse al di fuori di sé. «Chi cavolo sarebbe?» Fiatò retorico ruotando a 180° prima di tornare da Maki in piedi a leggere didascalie che forse lui stesso ignorava. «Padre fondatore della fisica moderna in Giappon.e--» Schiaffato dal basso il depliant si increspò, Maki sobbalzava. «Che fai! Stammi a sentire..» Ma lui non lo fece di certo. Continuò a piroettare agganciato per un braccio solo e spensierato risplendeva, abbagliante, snudando denti candidi alla sua vista… Avanti, indietro, avanti. Come sogno in altalena. Incresparsi delle acque, uno sbuffo di vento le chiome sollevate a sospingere lieve l’asse dell’equilibrio verso la gravità di quelle sue labbra, si posò labile, e si allontanò. Abbagliante…
Il tragitto di ritorno si ridusse a una corsa sostenuta e impaziente con l’unica preoccupazione di raggiungere al più presto il dormitorio, la porta della stanza, l’intimità di quelle tende, per inciampare sul materasso a singola piazza che costituiva il solo rifugio possibile dove il mondo non sarebbe stato di ostruzione a quel loro cercarsi e violarsi feroce, senza remore.
Quella fu l’unica passeggiata che fecero.
 
Per il resto della sua permanenza al campus rimasero chiusi dentro quella stanza, il cellulare a portata di mano per chiamare a domicilio o al massimo qualche capatina al minimarket, senza quasi mai mettere piede fuori dalla porta, e anche se le bibite finivano c’era sempre il rubinetto. A cosa serviva poi? Ogni secondo sprecato in qualche altro luogo che non fosse tra le braccia reciproche sembrava una menzogna, un inutile furto del tempo, perché in fondo seppur sconsiderato e precario era di quel piacere morboso che andavano ricercandosi a ogni ora con urgenza lacerante l’uno nell’altro. E la cosa aveva cominciato a sfuggirgli di mano quando si era reso conto che questo non gli sarebbe bastato… Che tutto il tempo del mondo non gli sarebbe bastato. Bastato per cosa, tuttavia, ancora lo ignorava.
In cuor suo aleggiava quella presenza anomala di un qualche ingranaggio fuori posto, saldato nel punto sbagliato del meccanismo a distorcere tutta la funzione dell’organismo della verità. Che cosa fosse giusto o sbagliato, a quel punto, aveva perso del tutto la ragione. Eppure c’era qualcosa di avido ed egoistico in quella loro cieca esclusione dal mondo, come sospinti dall’ombra di un atto struggente e fatale che paventava l’imminenza della fine, e al tempo stesso, travolti dalla più sconveniente, ridicola, insensata forma di felicità mai comparata. Sette volte condannato e sette volte lo avrebbe rifatto.
Sedeva alla finestra, Maki, sul torso nudo la camicia aperta e una gamba ripiegata sopra la scrivania a rinvangare il colore delle nuvole in cielo, con cipiglio assorto. La sigaretta consumata fievolmente stretta tra l’indice e il medio, andava sgretolandosi nel scivolare via melanconico di ogni secondo. Il tempo non spingeva alle parole, anche perché le uniche che non avessero stonato alla quiete decadente del quadro sarebbero state solamente «torna qui,» come di lì a poco la sua voce vellutata avrebbe sussurrato nell’offrirgli l’attesa di una mano vuota, rovesciata sul cuscino. «Un attimo.» Espirò distratto una voluta di fumo, poi lo guardò, disteso languido a scoprire il dorso levigato di poche minimali imperfezioni e quelle curve scivolare armoniose che avevano così poco di mascolino in sé, come un frammento di bassorilievo appena dissotterrato dalla Storia, le accarezzò allusivo domandandosi se la sua pelle non si sarebbe tesa al tocco del proprio sguardo. Fujima si fece leva sulle braccia, il busto raddrizzato raggiunse il pacchetto di Marlboro lasciato in bilico sulla testata del letto e ne sfilò una per sé, picchiettandola leggermente sul legno nocciola chiaro. Maki gli lanciò l’accendino che senza sorpresa prese al volo. «Non ricordavo che fumassi.» Tagliò via il punto interrogativo, infine, assegnando direttamente un numero infinito a quel nebuloso principio temporale al fine di enfatizzare ciò che stupore non era, Fujima rettificava così cantilenante, dopo aver fatto scattare la scintilla con il pollice due volte finché non si era accesa la fiammella a cui accostò l’estremità della sigaretta, aspirò e si girò per osservarlo, il capo piegato sulla coppa della mano. Maki scrollò via la cenere, «è solo una cosa così, giusto per.. allentare lo stress,» sbuffava evasivo e Fujima lo guardava ancora perché quasi giurò di averci scorto dell’ironia in quel ghigno sibillino sul suo volto. «Non è come pensi…» Roteò gli occhi vistosamente per dare spazio ai sottintesi sotto le ampie sopracciglia inarcate, Maki distolse lo sguardo sapendo di essersi tradito all’istante. Fece per tossire nervoso.
La mente andò a un pomeriggio impacciato di 13 mesi fa, un’altra sigaretta ma identica la stizza, non era passato poi tanto tempo da allora …
«Mi piace.»
«Cosa?» Ti prego, non rinvangare…
«Che fumi.»
Si voltò e lo trovò lì a sorridergli. Maki deviava uno spiffero di fumo interdetto. Capitolò.
 
 

Non so che cosa volessi di preciso… Giusto che durasse un po’ di più, non pretendo l’eternità, ma solo quel po’ in più. Forse chiedo troppo. Sono stato cieco, ma in fondo in fondo, lo sapevo. Più il tempo passava e più mi rendevo conto che stavo mentendo a me stesso, che fin dall’inizio ne ho preso le parti, a quella farsa. Sono stato egoista, ma era tutto ciò che potevo offrirti, il mio egoismo.
 
Si svegliava in certe ore del giorno per trovarselo accoccolato sotto una spalla, i pugni stretti al petto a mormorare sogni tra le labbra socchiuse e rosee. Smarrito e indifeso come mai si sarebbe mostrato alla luce del giorno. E in lui era quel privilegio di sorprendere una rara creatura pascolare nel folto della selva, su cui forse nessun altro occhio umano si era mai riflesso, né di terrore, né di tenerezza.
Sapeva dove andava a pararsi…
Condannato in contumacia.  
 

Nella tasca dello zaino teneva il passaporto e il biglietto aereo di ritorno, glieli aveva trovati un giorno mentre frugava in cerca di un cambio di biancheria per lui che era andato alle docce senza, non intenzionalmente, sia chiaro. Faccia da bambino, da studente. Un bambino che viaggia senza accompagnatore. Non era di certo un segreto, anzi… Ma chissà per quale ragione non diede mai peso a quel fattore già assodato, nemmeno quando lo aveva avuto tra le mani. Il volo era fissato per dopodomani, alle 10 di mattina.
«Che pensi di fare d’ora in poi? Rimani oppure…» Si parlava già del futuro a quell’ora, o in termini più approssimativi, del futuro che scadeva a vista d’occhio. Il discorso cominciava innocente su progetti estivi, paesaggi abbozzati in un tempo felicemente indeterminato, senza impegno, per poi ricadere magari impercettibilmente su una certa frase del tutto fuori contesto e quel tempo, quelle vedute scintillanti tutt’a un tratto si coloravano di toni inquieti, alieni, impregnandosi della linfa sinistra della realtà. Fujima indugiava. «…Credo che tornerò là.» Si finse sprovveduto come lui lo credeva. Si guardava le unghie delle mani e la sua voce ovattata giunse come da un’altra stanza con frequenza ritardata, o forse era solo una sua impressione. «Quindi procede tutto bene.» Assodò. Sarebbe stato scortese non sbilanciarsi in un «già», anche perché un’affermazione in più non faceva di certo danno e frattempo sarebbe valsa quanto quel silenzio che puntualmente venne a giustificare l’infecondità orale, e fu contraccambiato a lungo, finché simmetricamente non si vennero a sovrapporre in un pastrocchio di vocali e consonanti declamabile nel seguente quesito:
“Quando, sai
Pensi, a dire
Di, il
Tornare, vero?” Si fissarono attoniti.
Condivisero un breve riso, poi Maki gli cedette la parola. «A dir il vero...» Fujima le riordinò in cerca di un principio spontaneo. «A Rio si parlava di un prolungamento del contratto, cercavano qualcuno da mandare in Perù per degli itinerari piuttosto scomodi e siccome si stava via molto e molti hanno famiglia…» Fece una pausa rendendosi conto di essersi già perso e con un vago gesto della mano rettificò. «Ormai mi conoscono, mi sembrava una buona occasione e mi sono offerto io.» Maki lo fissò annuendo atono, serrò le labbra tra due sopracciglia levate. «Mi sembra ottimo. Quindi?» Pensava che quel suo quindi fosse ormai assodato per entrambi ma ebbe impressione che forse qualcosa gli era sfuggito, nella risposta che Fujima gli diede di petto. «Quindi nulla cambia per adesso.» Maki scosse nervosamente il capo ridacchiando un po’, «no, cioè» palpebre socchiuse, levò i palmi come per dire alt e darsi tempo di puntualizzare. «Quanto! Quanto pensi di stare via stavolta?» Non riusciva a capire dove stesse l’incaglio al linguaggio che rendeva tanto difficile quella conversazione all’apparenza idiota nella sua elementarità.
«Non lo so.»
Ebbe una frazione di smarrimento.
«Come non lo sai??» Bruscamente, stavolta il tono si levò distinto e inequivocabile; anche se a stento, Maki cominciava a capire… «Non lo so!» Raddoppiava sotto accusa Fujima, un ginocchio a tramare di latente frustrazione, tentò di temporeggiare. «…Un anno o forse anche di più, non c’è nessuna certezza….» E qui si arrestò. «…Che torni?» Fu la voce ferrea di Maki a concludere. Quel silenzio non presagiva che una sola risposta. Frammezzò le articolazioni lentamente recuperando i moti congelati del corpo, si portò incerto una mano tra i capelli e ne strinse una ciocca disordinata, l’espressione difficilmente riassumibile in un solo ragguaglio di incredulità. Seduto sul bordo del letto Fujima tenne una gamba ripiegata verso di sé, lo sguardo scostato da parte per non doverlo affrontare a viso aperto. Nessuno dei due parlò. Maki fece qualche passo per allontanarsi poi tornò subito indietro, come se si fosse improvvisamente ricordato di essere incazzato marcio, gli si avventò contro a voce dispiegata. «E quando contavi di dirmelo?!»
Ma fu freddezza ciò che ricevette in risposta, «era già tutto deciso.» Tanto compassata da spezzargli ogni elusivo autocontrollo e in sé, frammisto al riso gelido, avvertì quella remota fenditura ardersi al buio come carbone assopito nella cenere calda, mentre enfatizzava caustico. «Già   tutto deciso…» Annaspò sul filo dell’esaurimento. «Una settimana!! Te ne sei stato qui a far finta di niente, ti fosse venuto in mente almeno una volta di dire che so “sai, Maki, pensavo di trasferirmi per sempre dall’altra parte del mondo?!” Così almeno mettevamo tutte le carte in tavola invece di prenderci in giro come abbiamo sempre fatto!!» Fujima lo folgorò all’istante. «Ah! Adesso sarebbe “una presa in giro” questo?? È così che la pensi?!» Al diavolo tutto quanto… Tremavano dalle viscere rivoltate di acido e indignazione, le spalle, le braccia, il cuore, in silenzio. Ora la parola era solo grida. «Certo! Da parte tua non poteva essere più chiaro!» Sentiva dolore, ma non fu abbastanza certamente per farlo a pezzi, perché lui sarebbe rimasto lì in piedi finché l’un l’altro non si fossero fatti a pezzi e non ne fosse rimasto che il sollievo delle fiamme, e avrebbe ricordato l’azzurro irradiante di quegli occhi inesorabili e bellissimi, nei quali esanime guizzava la propria ombra poco prima di incenerirsi. «Ma non venire a fare il virtuoso con me! Vuoi forse farmi credere di non averlo capito fin dall’inizio? Che avresti scopato con me per una settimana intera senza saperne niente??» Ipocrisia, oppugnava meticoloso Fujima, levatosi per distanziare solo di pochi centimetri quel capo superbo che tuttavia non poteva superare, senno con astuzie e slealtà. Prese fiato e raddoppiò. «Te lo dico io come stanno le cose! Tu lo sapevi benissimo e hai voluto lo stesso approfittarne!! E non venirmi a dire che ti è dispiaciuto!» Maki era furioso ora, perché sapeva che lui aveva ragione, si impuntò, le mascelle serrate. «Che cazzo stai..!!» Ma l’umiliazione lo scioccò a tal punto che si era ritrovato senza voce, in testa un fuggi fuggi irrazionale di parole sconnesse, mentre quel piccolo residuo di ragione tentava di recuperare ciò che rimaneva di sé. La gola gli bruciò. «...Questa cosa non ha senso…»
Fujima rimase muto nell’ombra del proprio volto, vittorioso senza glorie, e come era insorto altrettanto rapidamente era precipitato il suo temperamento lì in piedi, con flemma spiazzante replicò. «Ti è dispiaciuto scopare con me?» Quasi un sussurro. Si bruciò a pelo e sussultò, dopodiché sembrò sul punto di inveire ancora ma qualcosa lo fece desistere, Maki abbassò le spalle, guardò altrove e infine rispose, piano. «No.»
Avrebbe voluto metterci più astio, più indifferenza, più menzogne di quanto la gravità incensurata della propria voce non seppe instillare.
Non seppe quanto tempo trascorse da quando le grida avevano lasciato spazio al silenzio tra quelle mura. Si era acceso nervosamente una sigaretta, ingiuriando un paio di volte quel maledetto accendino asmatico che gettò tra le coperte terminata l’utilità, la punta incandescente, aspirò inquieto una veloce boccata e rimase lì tutto ingobbito, i gomiti sulle ginocchia, il volto discosto, tenebroso. Trattenne il fiato acre sentendolo scendere rovente lungo la trachea, nutrire le radici cancerose dei bronchi e sazio rilasciarlo nell’aria che man mano andava saturandosi della sua aroma ostica. La mente si dilatò e i muscoli indugiarono languidi. Un filo di fumo ascendeva. «Non penserai di certo che sarei rimasto solo per te.» Maki guardava di fronte a sé, verso quel vuoto sfocato dove la sua sagoma poco più di una macchia defilava la rifrazione dell’iride, e parve balenare lì immobile, allontanandosene di diottria in diottria… E avrebbe voluto dire sì, avrebbe voluto giocarsi quel sfacciato vorrei che rimanessi con me, mettendo in palio tutto il suo orgoglio e la sua fede, fregandosene della perentorietà dei fatti che sapeva non si sarebbero piegati di fronte all’atto di un folle, e tuttavia, quantomeno sconveniente e infantile, seppure molto spassoso, fu per un momento pensarlo… Maki aprì la bocca e ancora una volta a salvarlo fu la ragione. «No.» Fu la menzogna.
«C’è altro che vuoi sapere?» Alluse Fujima retorico. Ma si erano già detti tutto. Tutto o niente. Maki scrollò le spalle e ributtò fumo, corrucciato in fronte. «Vado a farmi una doccia.» Concluse in tono definitivo e non attese. Brevemente si allineò la sua schiena emaciata contro la cornice della soglia prima di sottrarvisi al di là, insieme a uno spiffero di polvere. E il giorno dopo sarebbe uscito ancora da quella stessa porta e non sarebbe più tornato. Sì, c’era una cosa che non aveva ancora detto, Maki pensò. Glielo aveva urlato contro per tutto il tempo nella speranza sciocca che lui se ne rendesse conto, e glielo aveva ripetuto per tutta la settimana dall’alba al crepuscolo in ogni abbraccio clandestino e ogni furtivo sguardo senza che lui stesso se ne rendesse conto; l’unica frase che si era forse scordato di scagliargli contro nella furia cieca del suo cuore, allo stesso modo che subissarlo di epiteti e soprammobili, quell’intraducibile “sono innamorato di te”, alla resa dei conti sarebbe stato ugualmente indifferente. E lui non aveva il potere né la forza di fermare un aereo da 600 tonnellate a mani nude, come non avrebbe impedito il sorgere inesorabile del sole, in quell’indomani dove loro sarebbero invecchiati di un altro giorno, lontani l’uno dall’altro, e nulla sarebbe cambiato. Parole, nient’altro che parole. E anche loro erano solo parole.
Non ci furono lacrime né clamori, perché, in fondo, nessuno dei due avrebbe potuto sopportare la certezza di questo dolore.
Maki scostò la tenda e guardò fuori. Era troppo presto e troppo tardi, ormai, per dirsi addio. Si accese un’altra sigaretta.

 

 
 






 
 



   

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