You don't know what it means to me.

di _Lisbeth_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** You've hurt me ***
Capitolo 2: *** You've broken my heart ***
Capitolo 3: *** And now you leave me ***
Capitolo 4: *** Can't you see? ***
Capitolo 5: *** Bring it back, bring it back ***
Capitolo 6: *** Don't take it away from me ***
Capitolo 7: *** Because you don't know what it means to me. ***
Capitolo 8: *** Love of my life ***
Capitolo 9: *** Don't leave me ***
Capitolo 10: *** You've taken my love ***
Capitolo 11: *** You now desert me ***
Capitolo 12: *** Love of my life, can't you see? ***
Capitolo 13: *** Bring it back, bring it back ***
Capitolo 14: *** Don't take it away from me ***
Capitolo 15: *** Because you don't know what it means to me ***
Capitolo 16: *** When I grow older, I will be there at your side ***



Capitolo 1
*** You've hurt me ***


Capitolo 1 - You've hurt me.
 
1969.

 
- Rog.
 
Il ragazzo sentì la voce familiare provenire dall’esterno della sua camera. Con rabbia sbatté violentemente il bicchiere di vetro che era sulla sua scrivania contro il muro, afferrando dei vecchi spartiti, strappandoli e accartocciandoli. Si mise le mani tra i capelli biondi, tremando e digrignando i denti, mentre cercava di non impazzire. Si sedette sul suo letto, stringendosi i capelli tra le mani e appoggiando i gomiti sulle ginocchia.
 
- Rog, per favore, posso entrare?
 
- Non rompermi il cazzo e vattene via. E’ inutile che resti. – strinse i denti lasciando scivolare le lacrime dai suoi occhioni enormi e del colore del cielo. La porta si aprì comunque, rivelando dei ricci crespi e un corpo magro e alto che era appoggiato all’uscio. Roger lo fissò con gli occhi spalancati, tremante, le occhiaie marcate e le labbra martoriate per i morsi che lui stesso si procurava quando era nervoso. – Esci immediatamente.
 
Brian sentì il cuore diventare un macigno. La camera era un campo di battaglia. Regnava il disordine, i vestiti giacevano buttati sul pavimento, la batteria era a terra. Gli spartiti strappati, piccoli cristalli brillavano sul battiscopa. Non aveva mai visto Roger in uno stato peggiore. Di certo non lo avrebbe lasciato da solo, per alcun motivo. – Rog, devi distrarti.
 
- Che cazzo vuoi, Brian? Vattene, non ho bisogno di te e delle tue attenzioni da… - strinse gli occhi, venendo interrotto da colpi di tosse che gli scuotevano forte il petto. Aveva gridato, urlato fino a graffiarsi la gola, e quelli erano i risultati. Brian gli strinse una spalla, mentre la sua schiena continuava a essere tormentata dai tremiti. – Roger. – sussurrò, accarezzandogli il braccio dolcemente.  Roger drizzò la schiena, tirando su col naso e scansando la mano di Brian dalla sua spalla. – Ho detto di andartene.
 
- No.
 
Il biondino gli lanciò un’occhiataccia, asciugandosi le lacrime, mentre Brian sospirava. – Rog, ti prego, devi dimenticare. Non è successo niente, andremo avanti senza Tim, troveremo qualcuno anche più bravo e più talentuoso. Devi fidarti di me. Sei il batterista migliore che io conosca. Hai una voce pazzesca e…
 
- Io lo amavo, Brian. – disse Roger, gli occhi fissi sul pavimento, le unghie che affondavano nel palmo della mano per via dei suoi pugni chiusi. Brian deglutì, respirando profondamente. – Lo so.
 
- Lo amavo e lui pensava a scoparsi chiunque, sbandierandomelo in faccia. Ma che lo dico a fare a te… Non ne hai di questi problemi.
 
Brian stette in silenzio. Si grattò la tempia con il dito affusolato, guardando Roger. Il respiro si stava calmando, ma poteva sentire la sua rabbia e la sua delusione solo sfiorandolo. – Rog, odio vederti così.
 
Roger si scostò incrociando le braccia. – Come fai?
 
Brian aggrottò la fronte.
 
- Come fai ad essere così… Così fottutamente calmo… Come fai a perdonare in questo modo? – sussurrò il biondino, guardandolo con gli occhioni azzurri rossi per il pianto. Brian non sapeva cosa dire. La vista di quegli occhi lo stava confondendo, non sapeva cosa dire o cosa fare. Si limitò ad abbassare la testa. – Io sono semplicemente rassegnato a molte cose.
 
- A che cazzo sei rassegnato, eh?! – esclamò il più piccolo, alzandosi dal letto a pugni stretti, gli occhi azzurri bruciavano di frustrazione e rabbia. Ma Brian sapeva che non era arrabbiato con lui. Era arrabbiato con la persona che li aveva abbandonati in quel modo menefreghista ed egoista. – Brian tu sei perfetto! Hai una vita perfetta, un cervello straordinario. Suoni il tuo strumento come nessun altro al mondo. Sai fare fottutamente tutto e per questo a volte ti odio. E odio ancor più me stesso per l’invidia che provo. E io sono tanto, tanto stanco di essere solo uno stupido, invidioso, inutile Roger Taylor. Io sono rassegnato. Io. Non tu, che sei così perfetto da far schifo. Non Tim, che ci ha abbandonati così, lasciandomi ancora più solo. Sono stanco. Così stanco. – quando Roger finì di parlare, deglutì. Era sudato, ma tremava e tirava su col naso. Brian scosse la testa, si alzò, guardando fuori dalla finestra. Roger strinse più forte i pugni, graffiando la pelle delicata del palmo. – Reagisci, porca puttana! Non parli nemmeno più, ora? Sono troppo stupido per te, non è così? Troppo stupido per…
 
- Roger, ti sei mai preoccupato per i sentimenti di qualcuno che non sia Tim? – lo interruppe Brian, calmo. Tranquillo, anche troppo, ma il suo cuore era sprofondato. Non riusciva più ad ascoltare le sue parole, le sue urla, i suoi attacchi e le autocommiserazioni. Per lui importava solo Tim. Era solo, lo aveva appena detto. Solo, senza Tim. E lui cos’era, allora?
 
Il ragazzo dagli occhi azzurri socchiuse la bocca, fermandosi. Deglutì. – Io… sì. Che razza di…
 
Brian gli si avvicinò, guardandolo negli occhi, toccandogli leggermente il petto con un dito magro. – Io invece penso proprio di no.
 
Lo scansò prendendolo per le spalle, facendosi spazio dietro di lui, uscendo dalla camera e chiudendo delicatamente la porta.
 
 
 …
 
 
 - Me ne vado da questa band. Basta, ho bisogno di qualcosa che mi faccia arrivare in alto, mi faccia essere qualcuno. Questa roba non piace nemmeno a mia madre, figuratevi se può arrivare a qualcuno che non sa chi cazzo siamo. E’ finita, ragazzi. Avete talento, lo riconosco. Ma questo talento è troppo poco per me.
 
Quando Tim finì di parlare, diede gli spartiti che portava sempre con sé a Roger. Glieli sbatté sul petto senza preoccuparsi di non fargli male. Il ragazzo più piccolo restò zitto, fermo immobile, per un momento. E sentì il cuore bruciare di rabbia, il nodo alla gola sembrava tanto stretto da bloccargli il respiro e le parole. Non era da lui, doveva svegliarsi e riprendersi. Ma non riusciva a parlare.
 
- Cioè… Te ne vai così, di colpo? Senza preavviso? – sbottò Brian, guardando prima Roger, poi Tim. Il piccolo ragazzo dagli occhi azzurri, quello che aveva talmente tanta energia in corpo che la sfogava sulla sua batteria come se fosse l’antidoto a qualunque dispiacere e ferita. Lo stesso Roger, in quel momento, aveva il corpo scosso da tremiti, gli occhi spalancati puntati a terra. E nel vedere il ragazzo in quel modo, Brian aveva solo voglia di prendere il bassista e spaccargli la testa a forza di colpi di chitarra.
 
- Sì, scusami, amico. Solo che ho bisogno di qualcosa di più. Non perdetevela, eh? – disse Tim, voltandosi. Brian gli afferrò il polso, costringendolo a guardarlo. – Ti rendi conto di quanti cazzo di sforzi abbiamo fatto per te e per questa band? Io e Rog abbiamo suonato fino a farci sanguinare le mani, abbiamo scritto giorno e notte senza dormire. E a che scopo? Per farci dire che non siamo abbastanza. Che abbiamo talento, ma… Troppo poco per te.
 
Roger guardò Brian, senza capire appieno ciò che stava dicendo. Il suo pensiero era solo uno, quello di essere stato abbandonato di nuovo. Gli girava la testa, gli occhi bruciavano per le lacrime trattenute.
 
Tim si liberò dalla stretta del riccio con uno strattone, guardandolo fisso negli occhi. – Datti una calmata, dottor May. Accetta e basta, e lasciami vivere. – gli voltò le spalle, andandosene con le mani in tasca, mentre Brian sentiva Roger battere i denti e ansimare, piano. Si girò verso il ragazzo, la persona più importante che aveva. E non aveva il coraggio di immaginare quello che stava succedendo nella testa del migliore amico, non voleva. Avrebbe fatto troppo male anche a lui, perché Roger non aveva il rapporto di semplice amicizia che aveva lui con Tim, Roger Tim lo amava. E pensarci gli faceva anche più male, lo colpiva al cuore come mille lame. Ma Brian neanche se ne accorgeva.
 
Sentì Roger singhiozzare, piano, silenziosamente. Vide il ragazzo lasciar andare gli spariti facendoli cadere a terra, lo vide stringere i pugni, tirare calci al muro e al loro furgone, lo sentì gridare di rabbia e lo vide sbattere le bacchette della batteria per terra, violentemente. Lo vide distruggere la grancassa, ammaccare i piatti. E non poté più sopportare. Lo prese tra le braccia, stringendolo forte, con le lacrime che si affacciavano dagli occhi scuri mentre il ragazzo tra le due braccia urlava, dimenandosi, gridandogli di lasciarlo andare.
 
- Stronzo, lasciami! Lasciami, stupido bastardo! – strillò, picchiandogli il petto con i pugni chiusi, facendogli male per l’energia che ci metteva ma senza fargli mollare la presa. Brian deglutì, stringendo gli occhi per non piangere. Gli accarezzò piano i capelli biondi, delicatamente e dolcemente. Sentì Roger continuare a piangere, smettendo però di dimenarsi. Le sue spalle continuavano ad essere scosse dai singhiozzi, ma le urla erano cessate. Brian sospirò, continuando ad accarezzargli la testa. – Va tutto bene, Rog. Resterò io con te. Torniamo a casa.
 
Il più piccolo singhiozzò, lasciandosi andare sul petto del chitarrista. – Torniamo a casa.
 
 

 …
 
 
 A Roger girava la testa. La luce forte del locale lo accecava e gli sembrava di avere un martello pneumatico che gli fracassava le membra. In quel posto c’era un baccano che gli spaccava i timpani e non gli faceva capire un bel niente. Non sapeva quanto avesse bevuto, sicuramente troppo per ricordare. Aveva voglia di suonare la batteria, o di cantare. L’ultima cosa che ricordava di quella serata, era lo sguardo deluso di Brian nella sua stanza, e gli faceva più male del trapano che gli stava torturando la testa. Si guardò intorno, confuso e stordito.
 
Qualcuno, probabilmente più grande di lui, gli si avvicinò, circondandogli le spalle con un braccio. Era un ragazzo alto e muscoloso, i capelli erano corti e scuri. Roger non sapeva chi fosse.
 
- Ti ho visto suonare la batteria ieri. Non sei niente male, soprattutto per il tuo falsetto. - appoggiò una mano sull’interno coscia del ragazzo, stringendolo con delicatezza. Gli baciò il collo, mentre Roger lo guardava tremando leggermente. Non voleva che nessuno oltre Tim lo toccasse, ma aveva i riflessi rallentati dall’alcool e i sensi annebbiati. Non riusciva a muoversi, non era più in sé. Il ragazzo iniziò a mordicchiargli la pelle sottile e delicata della nuca, mentre con la mano si avvicinava sempre più al cavallo dei suoi pantaloni. Roger gemette.
 
- Hai perso la lingua? – sussurrò lo sconosciuto, mentre gli si avvicinava appoggiando le labbra sulle sue, tenendogli una mano dietro alla nuca. Roger strinse gli occhi, cercando di allontanare il ragazzo con le braccia, fallendo miseramente. L’altro gli strinse i polsi, facendogli male impedendogli di reagire. Roger era confuso, la testa lo stava uccidendo, ma sapeva di doversi riprendere. Era come se corpo e mente fossero separati.
 
Il ragazzo continuò a baciarlo, accarezzarlo, toccarlo, e per un momento Roger si lasciò andare. Pensò a Tim, pensò al dolore che gli aveva fatto provare, che nemmeno tutto lo schifo che aveva ingoiato gli faceva scordare e smise di opporre resistenza. Vide il ragazzo alzarsi, afferrargli il polso, trascinarlo in bagno. E Roger non fece nulla per fermarlo.
 
 
 
Quando uscirono dal bagno, la testa di Roger girava come una giostra. Vide il ragazzo con cui aveva appena fatto sesso scomparire, lasciandolo solo. A Roger non importava. Forse, semplicemente, non capiva. Zoppicò fino alla sala, la schiena e le gambe gli dolevano e lui era sul punto di perdere l’equilibrio e cadere per terra. Si sedette con difficoltà su un piccolo divanetto, da solo, sperduto, ubriaco, pallido e dolorante.
 
Vide un altro ragazzo avvicinarsi, non lo riconosceva, ma gli sembrava un volto conosciuto. Non era molto alto, i capelli erano lunghi, la dentatura pronunciata e la figura snella. Era vestito in modo particolare ed eccentrico, Roger lo trovò strano, ma non in modo negativo, nonostante nella sua condizione non capisse nemmeno cosa fosse positivo e cosa no. Il ragazzo gli si sedette accanto. – Tu sei il batterista degli Smile! Sono Freddie, Freddie Bulsara. Ho saputo… Di Tim.
 
Roger sentì il sangue gelarsi e il cuore fermarsi per un attimo. La testa gli doleva talmente tanto da non riuscire a parlare.
 
- Tutto a posto, tesoro? – lo sentì domandare. Con le gambe tremanti, prese un altro bicchiere e ne buttò giù il contenuto velocemente, che gli fece andare in fiamme la gola. Quel ragazzo assomigliava sempre di più a Tim. Freddie allontanò i bicchierini dalla sua vista. – Non ti fa bene bere così tanto. Hai un aspetto tremendo, caro.
 
- Tim… - sussurrò Roger, la voce solitamente alta e acuta era roca e raschiata. Il ragazzo davanti a lui era Tim, era tornato da lui. Era lì solo per lui e si stava preoccupando per lui. – Tim, scusami, io non volevo.
 
Freddie lo guardò senza capire. – Non so dove sia Tim… Ti chiami Roger Taylor, giusto?
 
Il biondo non lo sentiva neanche più. La vista si appannò, non si sentiva più le mani. Le iridi azzurre si ritirarono dietro alle palpebre, mentre lasciava cadere la testa a ciondoloni, e l’ultima cosa che sentì fu la voce del ragazzo davanti a lui chiamare il suo nome in modo insistente.
 
 
 …
 
 
 La batteria risuonava in tutta la stanza, forte, decisa e rumorosa. La precisione del ragazzo che la suonava era impressionante, il ritmo scorreva nelle sue vene come il sangue, mentre sul suo viso era dipinta un’espressione concentrata e compiaciuta allo stesso tempo. Era l’espressione di qualcuno che riconosceva il proprio talento, lo avrebbe riconosciuto sempre e mai lo avrebbe smentito.
 
Brian ammirava il talento di Roger, ammirava tutto di lui. La perseveranza, la sfrontatezza, la testardaggine e la determinazione. Era un carattere forte, energico, e lo si poteva vedere dalla passione che ci metteva nel suonare quelle percussioni, dai colpi forti con cui colpiva il pedale per suonare la grancassa e dalla maestria che usava nel battere i piatti e il rullante. Quando terminò, respirò profondamente. Poi guardò Brian.
 
- Che ne pensi? – gli chiese. Il chitarrista sorrise al suo migliore amico, scompigliandogli i capelli. – Sei pazzesco, Rog. Puoi fare cose impressionanti, non ho mai sentito nessuno suonare come te.
 
Il biondino aggrottò la fronte, tirandogli uno schiaffetto sulla mano. – Non osare toccarmi mai più i capelli.
 
Brian sorrise, alzando le mani. – Va bene, va bene. Ti chiedo scusa per il disagio che ti sto creando, signorino.
 
Roger lo guardò come se fosse un alieno. – Ma sei ritardato? Perché parli come mia madre?
 
Il chitarrista alzò gli occhi al cielo. – Sei sempre così gentile con me.
 
- Oh, più di Tim sicuramente. – disse Roger, stiracchiando le braccia e sgranchendosi le gambe. Brian sospirò. Tim, Tim, Tim. Era sempre e solo Tim.
 
Roger prese una barretta di cioccolato dalla credenza dove tenevano il cibo, mangiandola lentamente e appoggiandosi al muro. – Cosa si prova?
 
Il ragazzo più alto inclinò la testa. – Mh?
 
- A scopare.
 
Brian inarcò un sopracciglio, ridendo appena. – Perché la fai proprio a me, questa domanda?
 
Il biondo alzò le spalle. – Sei il mio migliore amico. Sei l’unica persona a cui posso farla senza vergognarmi.
 
Brian non capì per quale motivo sentì il cuore sprofondare. Era il suo migliore amico, sì. Cos’aveva da rimanerci male, se era la pura verità anche da parte sua?
 
- Be’, ecco… Io non… Non so descriverlo.
 
Roger sospirò, buttando a terra la carta della barretta.
 
- Raccoglila. – disse Brian, serio. Il biondo si piegò, prendendo la carta e buttandola nel cestino. – Come sei palloso. Davvero non sai descriverlo?
 
- No.
 
- Vorrei tanto saperlo…
 
 

...
 
 
 Roger spalancò gli occhi di scatto. Cosa cazzo era successo? Si portò una mano alla testa, che gli faceva un male tremendo, pensando all’unico ricordo che aveva della sera precedente. O era quella prima ancora? Scosse la testa, infilando le mani tra i capelli, maledicendosi da solo.
 
- No… No, no, no. – sussurrò, la voce era graffiata, non era quasi la sua. Lo aveva fatto. Lo aveva fatto e non ricordava nemmeno con chi. Aveva perso la verginità, era l’unica cosa di cui era certo. Una fitta allo stomaco lo fece piegare in due, facendogli riversare anche l’anima sul pavimento. Tossì, guardandosi intorno. Quello non era il suo appartamento.
 
Brian… Era casa di Brian. Riconobbe le pareti chiare e la moquette. Gli aveva appena vomitato sulla moquette.
 
- B-Bri.
 
Si girò, vedendolo appoggiato sull’uscio, allo stipite della porta. La figura alta e sottile era stranamente minacciosa. Lo sguardo non era arrabbiato, ma era gelido, freddo e serio. Deluso. Roger deglutì, sentendo in gola un sapore che gli fece stringere gli occhi.
 
- Brian… Che ci faccio qui? Mi gira la testa.
 
- Un certo Freddie Bulsara mi ha chiamato, ieri sera. Ha detto che eri “schifosamente sbronzo e svenuto” in un locale di merda che io stesso ti avevo detto di non frequentare. Devo aggiungere altro?
 
La testa di Roger era sul punto di esplodere, così come lo stomaco. Guardò Brian, gli occhi gli si chiudevano da soli e non riusciva a tenerli aperti per la luce che lo accecava. – Freddie… Bulsara?
 
Brian annuì. – Tra una stronzata fatta da te e l’altra, ‘sto Freddie mi ha detto che gli piacerebbe entrare nella band. Al posto di Tim. Abbiamo parlato tanto, sembra molto più intelligente di te e di quello stronzo egoista con cui vorresti scopare.
 
- Non… Non prenderà mai il posto di Tim.
 
- Infatti, è troppo dignitoso per stare in una band in cui c’è un batterista stupido come te. E poi, lo hai sentito cantare?
 
- No, ma…
 
- Allora stai zitto.
 
Roger sbatté le ciglia, schiarendosi la gola dolorante. – Non… Non sei mia madre. Non permetterti a parlarmi in questo modo.
 
- Roger, tu dovresti solo tacere. Devi ringraziare che tu sta notte abbia avuto un posto in cui dormire, solo perché sono troppo buono per lasciarti in mezzo alla strada come il barbone a cui assomigliavi ieri sera.
 
Il biondo si alzò di scatto dal letto, pentendosi immediatamente quando sentì la fitta alla testa diventare insopportabile. Cadde di nuovo sul letto, mentre Brian, sebbene non volesse farlo vedere, gli stringeva le spalle con gli occhi carichi di preoccupazione.
 
- Parlami di nuovo così e io giuro che…
 
- Sì, sì Roger, tutto quello che vuoi. Ora stai fermo e non muoverti. Vado a prendere qualcosa per pulire lo schifo che mi hai lasciato per terra.
Roger lo vide uscire, mentre sospirava per il dolore che si stava estendendo in ogni parte del suo corpo. Brian tornò dopo dieci minuti con uno straccio e un secchio, pulendo la moquette, con lo sguardo dolorosamente impassibile. Il biondo lo guardò. – Sei… Sei arrabbiato con me?
- Macché, vorrei solo ucciderti.
 
- Perché te la prendi così tanto?
 
Brian smise di pulire, guardandolo. – Guarda, non lo so. Forse perché ho visto il mio migliore amico in condizioni improponibili, ieri sera? Non sono come Tim, Roger. A me interessa di te e mi interessa ciò che fai.
 
- Ma che cazzo t’importa? – sbottò il più piccolo. Brian respirò profondamente. – Non fa niente. Sei troppo stupido per capirlo.
- Potresti smetterla di insultarmi?
 
- Rog, io sono deluso. Sono deluso, dispiaciuto, amareggiato e inoltre, la cosa peggiore, è che mi sento anche responsabile. Io avevo promesso a me stesso, a te e a quel cazzo di bastardo di Tim che ti avrei protetto.
 
- Ho vent’anni, Brian.
 
- Evidentemente ne dimostri sedici. E poi io tengo a te. E credo tu debba solo ringraziarmi per questo, ma tanto… Come hai detto tu, ti lasciano tutti da solo, no? E quando uno si preoccupa di farti stare bene, gli sputi in faccia in questo modo. Sei incoerente da far schifo. Mi hai fatto prendere un infarto, quasi. Mi sono preoccupato a morte, avrei voluto uccidere Tim, avrei voluto morire io per quello che hai fatto a te stesso. Hai dato qualcosa di preziosamente importante a chi nemmeno si ricorda il tuo nome.
 
Roger deglutì abbassando lo sguardo. Perché Brian doveva avere sempre ragione? Lo faceva sentire così stupido, così piccolo. Se fosse rimasto con lui… Se non fosse andato in quel locale, sarebbe ancora vergine. Aveva perso la sua prima volta, l’aveva buttata nelle mani di qualcuno di cui nemmeno sapeva il nome. Poi ci pensò su, deglutendo. – C-come lo…
 
- Freddie ha visto tutto. Quel coglione aveva dimenticato anche di chiudere la porta del bagno. – la voce di Brian si spezzò.
 
Il più piccolo strinse gli occhi. Guardò Brian, temendo di averlo perso. – Vieni qui, Bri. Ti prego.
 
- No, Rog. Ora voglio solo restare da solo. Chiamami quando imparerai a non buttare all’aria la tua vita.

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Capitolo 2
*** You've broken my heart ***


Capitolo 2 - You've broken my heart
 
Brian si chiuse la porta alle spalle, respirando profondamente e avviandosi nel suo salotto, dove Freddie lo spettava a gambe accavallate e con gli occhiali da sole inforcati. – Ce ne hai messo, di tempo.
Il chitarrista inarcò un sopracciglio. – E’ casa mia.
- Lo so, ma far aspettare gli ospiti è maleducato. Come sta il tuo amico? – chiese Freddie, togliendo gli occhiali da sole e appoggiandoli sul bracciolo del divano su cui era seduto. L’appartamento di Brian non era molto grande, quella sala era praticamente striminzita, come la sua camera e la cucina, ma in compenso aveva due bagni. La chitarra la teneva esposta alla vista di tutti proprio nella sua stanza, così come l’amplificatore. Il riccio si appoggiò al muro, guardando Freddie e alzando le spalle. – Mi ha vomitato sul pavimento.
Il giovane Bulsara fece una smorfia disgustata, per poi indicare l’asta del microfono che era appoggiata disordinatamente al muro. – Gli hai parlato della band?
- Sì, ma era troppo rincoglionito per capire.
- Da ciò che pare, è sempre così.
Brian sospirò, incrociando le braccia al petto. – Evidentemente. – si sedette su una piccola poltrona in un angolo della stanza, mentre Freddie canticchiava. Il chitarrista pensò che avesse una voce bellissima, unica, speciale. Ed era dieci volte migliore rispetto a quella di Tim. Sorrise. – Per niente male.
Freddie gli rivolse un sorrisetto compiaciuto, incrociando le braccia. – Lo so.
Il telefono di Brian squillò, facendo aggrottare la fronte a Freddie. – Spero sia per una giusta causa, chiunque abbia chiamato ha interrotto il mio canto e dovrebbe vergognarsi.
- Pronto? – rispose Brian sollevando la cornetta. Sentì una voce femminile e familiare dall’altra parte, che gli chiedeva, evidentemente irrequieta, come stesse suo figlio. Il chitarrista deglutì alla domanda di Winifred Taylor, riflettendo. Era arrabbiato con Roger, da morire, ma non voleva far preoccupare eccessivamente sua madre. Sospirò, scuotendo la testa. – E’ qui, con me. Sta bene, solo un po’ di mal di testa e… - cercò un termine che non facesse troppo schifo. – indisposizione.
- Era con te, ieri? – sentì dire dalla donna, poi chiuse leggermente gli occhi. – Sì, ha passato la serata da me e ha dormito qui.
Udì la signora Taylor sospirare, sollevata. Deglutì, nel sentire il suo “Grazie, Brian”. Le aveva mentito. Brian non mentiva quasi mai, e soprattutto, quella era la peggiore situazione in cui mentire. La madre del suo migliore amico (testa di cazzo), che era ancora sotto gli effetti del post sbornia, lo aveva chiamato preoccupata per chiedergli come stesse suo figlio, e lui le aveva mentito. Sospirò, salutando la donna e appoggiando la cornetta al suo posto. Vide Freddie accendersi una sigaretta, e alzò gli occhi al cielo. – Dopo questo la mia casa puzzerà di sbornia e fumate.
Freddie aggrottò la fronte. – Non fumi, caro?
- Non sono quel tipo di persona che fa di tutto per aumentare le possibilità di morire prematuramente.
- Come sei noioso. Ma quanti anni hai?
- Ventidue.
- Oh, pensavo ne avessi qualcosa tipo, che so, settantasei.
Brian ruotò gli occhi nelle orbite e scosse la testa. Poi sospirò, pensando a come aveva trattato Roger. Certo, meritava una strigliata. Ma probabilmente stava passando uno dei momenti più scomodi e incasinati della sua vita, e non aveva nessuno accanto a sé. Aveva perso la verginità con qualcuno che nemmeno conosceva e sicuramente doveva stare di merda per questo. Forse si stava preoccupando troppo, aveva esagerato, probabilmente. Forse il suo dovere era solo quello di stargli vicino, e non quello di urlargli in testa che aveva sbagliato o che era deluso. Il fatto, era che quelle cose lui le pensava davvero, perché sebbene fosse preoccupato per lui e per quanto potesse star male, Roger lo aveva deluso davvero. Non si era dimostrato la persona forte che lui credeva di conoscere, aveva preferito voler dimenticare a reagire. E il fatto, era che non aveva dimenticato proprio un bel niente.
 

 
- Rog, capisco che tu sia curioso, ma ascolta questo consiglio, da migliore amico a migliore amico vergine. Aspetta il momento giusto. Non essere frettoloso, non farlo solo per curiosità. Fallo quando sarai sicuro di ciò che starai facendo.
Roger alzò le spalle, sedendosi sullo sgabello della sua batteria e mettendo a posto le bacchette. – Fai discorsi che farebbe mia madre, anzi, nemmeno lei. E’ una cosa come un’altra, Bri. Non mi devo certo sposare o laureare.
Il chitarrista sospirò. – E’ una cosa importante. Ma non per me, per te. Potresti pentirtene, un giorno. Io mi sono pentito.
- Tim no.
Brian trattenne la voglia di tirargli la chitarra sulla testa. – Non me ne frega niente di Tim. Ti sta parlando Brian May.
- Ascolta, apprezzo i tuoi consigli, ma non ne ho bisogno. Se mi andrà, quando mi andrà, lo farò. Non ci starò a pensare su come una vecchia pazza che parla da sola.
Il ragazzo coi ricci annuì a se stesso. A che serviva parlare a Roger? Tanto, in un modo o nell’altro, avrebbe fatto di testa sua. Forse glielo diceva solo perché sperava non si pentisse, come era successo a lui. Lo aveva fatto con una ragazza, per la prima volta. Era convinto di amarla, per tutto, per come parlava, per com’era caratterialmente e fisicamente. Prima di scoprire la sua omosessualità pochi anni dopo. Ed era ferito, quando aveva dovuto lasciare quella ragazza. Probabilmente se ne era pentita anche lei, non poteva immaginarlo, ma era plausibile.
- La prima volta è importante, Rog. Non la riavrai più indietro.
- Senti, pensala come vuoi. Ti ho domandato cosa si provi, non ti ho chiesto alcun consiglio.
- A volte sei un po’ una testa di cazzo.
Roger sorrise, accendendosi una sigaretta e portandola alle labbra. – Mi fa piacere che tu tenga così tanto al fatto che io scopi per la prima volta con te.
Brian sussultò, spalancando gli occhi e arrossendo leggermente. – Che cosa stai…
Il biondo rise leggermente, alzandosi e tirandogli un cazzotto un po’ troppo forte sulla spalla. Brian fece una smorfia, portandosi la mano sul braccio colpito. – Ahi, ma perché?
- Scherzavo, Bri. Sei la persona più eterosessuale che io conosca.
Brian deglutì, continuando a massaggiarsi la spalla. Poi si voltò, allontanandosi da Roger, leggermente innervosito. – Certo. La persona più eterosessuale che tu conosca. – sussurrò a se stesso, quando fu certo che il più piccolo non lo sentisse.

 

 
Roger ripensò a quel discorso, stringendo il cuscino tra le dita come a volerlo bucare. Deglutì, tremando per le fitte alla testa e allo stomaco. Era corso in bagno una o due volte per vomitare, ma in quel momento non aveva nemmeno la forza di alzarsi. Il suo stomaco aveva smesso di contrarsi, ma gli bruciava ancora come l’inferno. La testa era ancora peggio. Il dolore che sentiva la sera prima non era niente a confronto, in quel momento era come avere tanti spilli conficcati nel cervello, che gli facevano più male ogni secondo che passava. E quelle frasi, quelle maledette frasi, che si ripetevano nella sua mente senza dargli tregua, facendogli girare ancora di più la testa. Brian. Aveva bisogno di Brian.
Erano rari, i momenti in cui Roger Taylor aveva bisogno di qualcuno. Non chiedeva quasi mai aiuto, faceva sempre tutto sa sé e voleva gestirsi da solo in qualunque situazione, anche se ne avesse avuto la necessità non avrebbe mai messo in mezzo gli altri per qualcosa che avrebbe dovuto affrontare lui. Ma in quel momento, si sentiva talmente solo da farsi sovrastare dai pensieri. Ed era anche quello un problema, perché non si faceva comandare facilmente da essi. Era pragmatico e istintivo.
Non si sentiva nemmeno più se stesso, e continuava a pensare alle frasi di Brian e a ciò che aveva fatto. Tutto ciò che pensava, tutto ciò che aveva detto al suo migliore amico un mese prima era eclissato. Avrebbe voluto che la sua prima volta fosse con Tim, aveva promesso a se stesso che mai e poi mai si sarebbe fatto sfiorare da qualcuno che non fosse il ragazzo a cui, anche in quel momento, stava pensando. Qualcosa era andato storto, i pensieri che si accumulavano, l’alcool che li rendeva insopportabili.
Cercò di mettersi dritto, sedendosi e tentando di prendere il bicchiere d’acqua che Brian aveva appoggiato sul comodino accanto a lui. Mentre se lo portava alle labbra, vide il ragazzo più grande entrare, e per poco non fece cadere il bicchiere.
Brian lo guardava gelidamente calmo. Quella calma intimorì leggermente Roger. Come diavolo faceva a essere sempre così dannatamente serio, anche quando si vedeva lontano un miglio che era incazzato nero?
- Lo hai tirato lo scarico? – chiese il chitarrista. Roger lo guardò senza capire. - Che scarico?
- Quello del mio cazzo di bagno, Roger.
Il biondo socchiuse la bocca, mettendo a posto il bicchiere. – Oh. Sì, l’ho tirato.
Brian si sedette sul letto, dall’altra parte, dandogli le spalle. Mise i gomiti sulle ginocchia, prendendosi la testa tra le mani. – Ha chiamato tua madre.
Roger spalancò gli occhi, iniziando a sudare freddo. – Cazzo, mamma.
Effettivamente non si era nemmeno accorto del fatto che non vedesse sua madre da due giorni. Sarebbe dovuto tornare a casa, sua madre aveva bisogno di lui, Freddie avrebbe dovuto chiamare lei, ma come avrebbe fatto, senza il suo numero? A pensarci meglio, effettivamente non sapeva nemmeno come fosse riuscito a mettersi in contatto con Brian. – Come… Come ha fatto a chiamarti?
Il riccio continuò a dargli le spalle. – Chi?
- Freddie.
- Ha chiamato Tim, prima di me. Si conoscono
Roger deglutì quando sentì quel nome. – E… E tu che c’entri con Tim?
Brian si mordicchiò il labbro. Se glielo avesse detto, Roger ci sarebbe rimasto malissimo. Probabilmente anche troppo male, sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso. Ma il vaso era già traboccato la sera prima. Respirò profondamente, cercando di essere più delicato di quanto la rabbia gli permettesse. – Tim ha detto che non voleva saperne niente. Perciò ha dato a Freddie il mio numero.
Roger sentì un il cuore diventare pesante come un macigno. Respirò profondamente, cercando di non buttare all’aria ciò che si ritrovava intorno. Tim non aveva voluto saperne. Era come se non lo conoscesse, come se non se ne importasse nulla di lui. Forse era proprio così, forse a Tim interessava solo di se stesso, o semplicemente non era di lui che si preoccupava. Deglutì. – Te lo ha detto Freddie?
Brian annuì, senza parlare. Cambiò discorso. – Ti ho detto che ha chiamato tua madre.
- Lo so. Ho capito. – rispose Roger, gli occhi gli si erano fatti lucidi e la voce tremava. – Cosa le hai detto?
- Le ho mentito.
Il biondo si girò verso Brian. – Le hai mentito?
- Sì. Le ho semplicemente detto che ieri sei stato con me.
- Perché?
Brian si voltò. Lo guardò per la prima volta dal momento in cui era entrato nella camera. – L’avrei fatta morire di preoccupazione se le avessi detto la verità. E ti ho parato il culo come non meritavi nemmeno.
Roger sorrise. Brian non riusciva mai a non difenderlo, anche se avesse voluto, il biondo era sicuro che il più grande non ci sarebbe riuscito. – Grazie, Bri.
Il ragazzo coi capelli ricci iniziò a tamburellarsi la gamba con le dita, senza rispondergli. Non se ne andò, restò lì, sebbene fosse ancora di spalle al ragazzo. Non riusciva a starli lontano, in quel momento. Soprattutto dopo che gli aveva rivelato la verità su ciò che Tim aveva detto al telefono. Non voleva che stesse da solo, non voleva che accadesse ciò che era accaduto la sera precedente.
- Lasci l’ospite da solo? – chiese il più basso con voce roca, schiarendosi poi la gola dolorante. Brian scosse la testa. – Freddie è andato a casa sua. Ha detto che doveva… Badare ai suoi gatti, o una cosa del genere. E’ un tipo proprio strano, però ha una voce incredibile. Ci siamo dati appuntamento per domani per discutere della band.
Roger annuì, incerto. Non riusciva a pensare a un solista che non fosse Tim, e questo lo faceva arrabbiare con se stesso. Nonostante fosse passato appena un giorno, e nemmeno, dall’abbandono di Tim, lui avrebbe voluto superare subito la cosa, andare avanti. Dopotutto era una fortuna che avessero già trovato qualcuno che, di sua spontanea volontà, volesse entrare nella band. Ma non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero del suo abbandono. Più ci pensava, più il suo desiderio di sprofondare cresceva e sentiva di voler mollare tutto.
- Scusa. – sussurrò Brian, grattandosi il palmo della mano. Il cuore di Roger si ammorbidì nel petto, facendogli sorridere gli occhi e le labbra. – Sono stato irresponsabile. Ne subisco le conseguenze, non devi scusarti di nulla.
- Il fatto è… Che io sono arrabbiato, tanto arrabbiato con te. Ma non voglio lasciarti solo, o farti soffrire più di quanto stai già facendo. Io ti voglio bene, Rog. E non voglio che tu soffra.
Roger bevve un sorso d’acqua, tossendo leggermente per il bruciore alla gola. – Mamma cosa ha detto?
- Niente.
- Niente? Sono via da casa da due giorni e non dice niente?
Brian sospirò, preferendo non risponde. Roger e sua madre non avevano esattamente il rapporto che c’era tra lui e Ruth. Lei e il padre di Roger erano divorziati, e forse al ragazzo non era ancora andato giù il boccone. Inoltre, la salute di Winifred era instabile. Il divorzio dal marito aveva solo aggravato la sua condizione e Roger ne era consapevole, ma probabilmente era una cosa troppo grande per lui, non riusciva a gestirla.
- Come sta? – gli chiese il migliore amico. Brian poté sentire la preoccupazione nella sua voce. – Sta bene. Era solo… Molto preoccupata. - Si alzò dal letto, stiracchiando leggermente le braccia magre. – Vado a prenderti un altro bicchiere d’acqua.
Roger gli afferrò il polso, puntando gli occhi grandi e blu nei suoi. A Brian fece un effetto strano. Lo fece sussultare leggermente, e vedere quelle iridi lo mise a suo agio, lo rilassò. Gli occhi del migliore amico erano gonfi e circondati da aloni neri, ma restavano meravigliosi. Erano così grandi che potevano divorare il mondo al loro interno.
- Non ne ho bisogno, poi mi alzo io. – fece il più piccolo, continuando a trattenerlo. Brian non ne volle sapere. – Te lo scordi.
- Bri, non ho bisogno di…
- Di aiuto?
Roger si morse il labbro. – Sì.
- Devo ricordarti cosa è successo l’ultima volta che me lo hai detto?
 

 
- Bri, porca puttana, lascia quegli scatoloni e torna a fare quello che stavi facendo. Non ho bisogno di aiuto. – disse Roger, acido e spazientito. Stava aiutando Brian a sistemare il nuovo appartamento, dato che il migliore amico era praticamente in alto mare con gli scatoloni e i mobili da sistemare. Era andato da lui di sua spontanea volontà per dargli una mano, e Brian si era anche arrabbiato leggermente con lui per questo. Non voleva causare disturbo a Roger, sapeva che la madre del ragazzo avesse bisogno di compagnia e supporto dopo il divorzio dal marito, e che anche Roger avesse la necessità di riposare e stare tranquillo per lo stesso motivo.
- Rog, apprezzo il tuo aiuto, sul serio, sei la domestica migliore che possa esistere, ma è casa mia. E dovrei sistemarla io.
Roger non lo ascoltò. Era troppo occupato ad allungarsi il più possibile per sistemare le scatole (tra l’altro scatole con scritto “fragile” sul retro) e sistemarle sulla parte superiore dell’armadio di Brian. Era in piedi sull’ultimo gradino di una scala, ma proprio non riusciva ad arrivare al punto necessario.
- Roger Meddows Taylor, mi ascolti, una buona volta?
- Taci, mi distrai.
- Distrarti da che?
- Brian, se cado è colpa tua.
- Rog, non sei esattamente alto per poter raggiungere quella mensola. E lì dentro ci sono dei soprammobili.
Roger aggrottò la fronte, girandosi verso Brian. – A che cazzo ti servono tre scatole con dentro dei soprammobili?
Brian si sentì leggermente offeso. – Sono regali.
- Tre scatole. Tre. Tutte piene di soprammobili.
- Che c’è di male?
- Non so, portarti qualcosa di più utile? Tipo, che ne so, direttamente un ceramista?
Brian alzò gli occhi al cielo. – Roger, scendi.
Ma il ragazzo non lo ascoltò nemmeno per sbaglio. Si alzò sulle punte, saltellò due o tre volte con le scatole, tutte una sopra l’altra, in mano, ma niente. Maledisse la sua piccola statura, e perse di colpo l’equilibrio sulla scala. – Cazzo!
Brian spalancò gli occhi, preoccupato che l’amico cadesse. Poi però pensò che sarebbe stato meglio se Roger si fosse rotto la testa, quando il biondo lasciò andare istintivamente le scatole aggrappandosi con entrambe le mani alla mandola più in basso. Vide gli scatoloni crollare sul pavimento, sentendo un rumore che non gli piacque assolutamente, mentre Roger cercava di scendere stando attento a dove metteva i piedi. Brian restò per dieci buoni minuti con gli occhi strabuzzati fissi sugli scatoloni, per poi guardare l’amico. Roger si grattò una tempia, facendo un sorrisetto innocente. – Be’… non erano poi così importanti, no?
- Io ti ammazzo.

 

 
- Non puoi usarla come paragone. Ferisci i miei sentimenti e mi fai sentire un coglione.
- Vorresti dire forse che non lo sei? – disse seccamente Brian, sospirando e incurvando leggermente la schiena.
- Non esattamente. Meno di te certamente.
- Roger forse ti sei dimenticato che in questo momento ho io il potere e sono molto, molto arrabbiato con te. Potrei cacciarti di casa in ogni momento.
Roger alzò le mani, scuotendo le spalle. – Come vuole lei. Sarò un angelo, da questo momento in poi.
- Ti conviene.
Il biondo sorrise, mentre vedeva Brian uscire dalla camera. – Tanto so che mi ami lo stesso.
Il chitarrista sollevò il dito medio in risposta, dirigendosi in cucina per prendere l’acqua all’amico. Mentre versava il liquido nel bicchiere, aggrottò la fronte nel sentire il campanello suonare. Lasciò il bicchiere sul tavolo, avviandosi verso la porta e aprendola. Si trovò davanti l’ultima persona che avrebbe voluto vedere.
- Ehi, dottor May. – la voce di Tim gli diede fastidio ai timpani. Stava per chiudergli la porta in faccia, ma il ragazzo lo fermò appoggiando un piede nella fessura che era rimasta libera. – Dai, amico, fammi entrare.
- Che vuoi?
- Parlare con te e Rog.
Brian cercò di chiudere di nuovo la porta, più scocciato di prima, ma il piede di Staffel era sempre lì, fastidioso come il ragazzo. Il riccio sbuffò. – Cristo, che vuoi? Ci hai già fatto incazzare abbastanza, vuoi alimentare il fuoco e far scoppiare un incendio?
- Volevo solo parlarvi di Freddie. – rispose l’altro. Brian sentì una voce acuta e leggermente graffiata dietro di lui. – Cosa ci fai qui?
Si girò, guardando il migliore amico reggersi al muro e fissare entrambi con gli occhi blu tremanti.
- Rog! Amico, mi è stato detto che ieri…
- Esci di qui. – disse Roger, secco, la voce gli tremava come le braccia. Brian lo sostenne tenendolo per le spalle, ma il biondo lo scansò con una piccola spinta.
- Dai, non essere rancoroso. Dovresti aver già superato la cosa, non credi? – gli rispose Tim, avvicinandosi e appoggiandogli una mano sulla spalla.
- Non ti permettere a toccarmi. – sbottò il biondo, tirandogli uno schiaffo sul braccio. Brian notò gli occhi lucidi del ragazzo, deglutendo. – Calmo, Rog.
 Staffel aggrottò la fronte. – Ehi, piccoletto, chi ti credi di essere?
- Esci da questa cazzo di casa! – ansimò Roger, e se il chitarrista non lo avesse trattenuto si sarebbe avventato contro l’altro ragazzo. Tim drizzò la schiena, infilando le mani in tasca. Guardò Roger. – Sei pazzo come tua madre.
Il batterista spalancò gli occhi, mentre Tim usciva di fretta dalla casa chiudendosi la porta alle spalle. Brian stava facendo del suo meglio per tenere Roger stretto a sé, ma anche se non sembrava per nulla, il più piccolo aveva una forza che gli tolse il fiato. Si dimenò, cercò di fargli male per liberarsi, ma il chitarrista continuò a stringerlo. Come la sera precedente. – Calmo, Rog. Calmo. – avrebbe voluto uccidere Tim per quello che aveva detto, ma restò tranquillo solo per Roger. Sentì i suoi capelli biondi solleticargli il petto, quando vide le braccia del ragazzo stringersi intorno al suo busto, abbracciandolo. Il cuore di Brian mancò un battito, deglutì istintivamente, mentre allentava la stretta sul corpo del migliore amico, accarezzandogli la schiena con le nocche. Poteva sentirlo singhiozzare mentre lo stringeva forte con le braccia fragili e tremanti. Gli appoggiò le labbra sulla testa, baciandogli dolcemente il cuoio capelluto.
 

 
- Roggie, vieni qui.
Il ragazzino dagli occhi blu si avvicinò titubante a sua madre, guardandola leggermente preoccupato. Deglutì. Sapeva che Winifred fosse malata, malata mentalmente, e non era mai riuscito ad aiutarla, era troppo piccolo, era tutto più grande di lui e sembrava che quel tutto volesse soffocarlo. Sentì la mano della donna afferrargli il braccio e stringerlo con le unghie. Roger gemette, cercò di divincolarsi, ma la forza in quella mano era terribile.
- Roggie, non lasciarmi sola. Michael è andato via, mi ha abbandonata. Non mi abbandonare, Roggie. – tremò la donna. La stretta era diventata insopportabile, tanto che Roger sentiva piccole gocce di sangue macchiargli la manica della giacca.
- Mamma… Lasciami. – sussurrò Roger, stringendo gli occhi per il dolore.
Winifred si fermò, allentando la stretta e guardando suo figlio con gli occhi spalancati. – Ti ho fatto male, Roggie?
Roger la guardò con timore, sospirando però di sollievo quando la donna estrasse le unghie dal suo braccio. Il ragazzo fu spaventato dagli occhi spalancati e vitrei della donna, non l’aveva mai vista in quelle condizioni. – C-cosa ha fatto papà?
La donna lo afferrò per le spalle, scuotendole leggermente e guardandolo fisso negli occhi. Sentì il figlio tremare. – E’ andato via. Mi ha lasciata sola. Mi ha abbandonata per una sporca puttana.
Roger non ebbe nemmeno il tempo di realizzare, che Winifred gli circondò il corpo con le braccia, stringendolo a sé. – Roggie, non andartene anche tu. Non lasciarmi sola.
Il biondo deglutì. Sentì la madre singhiozzare contro il suo petto e abbassò lo sguardo, lasciando scivolare a sua volta una lacrima. 

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Capitolo 3
*** And now you leave me ***


Capitolo 3 - And now you leave me
 
Brian continuò a stringere e carezzare dolcemente il corpo tremante del migliore amico, che pur avendo smesso di piangere continuava a essere scosso da piccoli sussulti. Probabilmente aveva freddo, si disse Brian. Lo lasciò andare per un momento, per poi prenderlo per una spalla aiutandolo a sedersi sul divano. Afferrò una coperta e gliela mise sulle spalle, sedendosi poi accanto a lui guardandolo con apprensione. Non lo riconosceva più, era così… Diverso. Era fragile, indifeso e triste. Roger non aveva mai affrontato così un dispiacere, forse solo dopo il divorzio di Michael e Winifred, ma almeno in quel momento aveva reagito. Ma in quel momento sembrava aver perso ogni voglia di reagire, con tutte quelle cose sommate tra loro. L’abbandono di Tim, l’accaduto della sera precedente e… Quello che Tim gli aveva detto, forse gli aveva fatto più male di tutto. Accarezzò dolcemente i capelli biondi di Roger, sospirando. – Rog, ehi.
L’amico alzò leggermente gli occhi per guardare i suoi. Brian li vide tristi e stanchi.
- Che ne dici di… Guardare un film? Il tuo preferito, ho anche la cassetta! Oppure… Potrei mettere su il vinile di Hendrix, o potremmo ordinare qualcosa da mangiare, tipo…
- Bri, non ho fame.
- No, non ci credo. Tu hai sempre fame.
- Non ora.
Il chitarrista sospirò, guardando l’amico per poi alzarsi. – Dai, Rog. Tirati su, distraiti. Andiamo al cinema, che dici?
- Non voglio uscire. – mormorò Roger. Brian scosse la testa – Se non vuoi uscire, vediamo un film o facciamo qualcos’altro qui. Ma non puoi restare a far nulla, hai bisogno di un po’ di svago.
- Hai rotto i coglioni. – disse il biondino, tirandosi la coperta più vicino. Il ragazzo più grande sorrise leggermente. Almeno qualcosa di Roger era ancora lì. Certamente il linguaggio non sarebbe cambiato nemmeno se gli avessero tolto la batteria. O la macchina.
- Dai, Rog, ho Peeping Tom a portata di mano. Anche Psycho. Sono i tuoi preferiti.
Roger tirò giù la coperta. Gli occhi non erano più lucidi. – Tu odi gli horror. 
- Sì, ma amo te alla follia. – scherzò Brian, prendendo le due cassette e tenendole in mano.
Il biondo sorrise timidamente. Mandò per un attimo a fanculo il pensiero di Tim, le parole che gli aveva detto, le stronzate che lui stesso aveva fatto. Sentiva che se ci fosse stato Brian, avrebbe potuto fare tutto. Avrebbe potuto dire tutto, avrebbe potuto sentirsi libero e supportato. E lo capiva solo in quel momento, mentre vedeva il suo migliore amico certo di ciò che diceva, sebbene fosse un coniglio quando si trattava di film horror.
- E va bene. Peeping Tom sia.
 

 
- Roger, che cazzo succede?! – esclamò Brian, praticamente in piedi sulla sedia per la paura. Sentiva le urla provenire dalla sala, mentre sullo schermo erano proiettate immagini che lui avrebbe evitato di vedere. Sentì il migliore amico ridere mentre sgranocchiava i suoi popcorn. – Le stanno sfasciando la testa.
Brian si fece sfuggire una smorfia disgustata, stringendo il bracciolo della sedia con la mano libera. L’altra era a coprire i suoi occhi. Il migliore amico continuò a dirgli tutti i dettagli, mentre il riccio tremolava. Roger rise. – Sei un senza palle.
- Non sono un senza palle, solo che vorrei dormire, sta notte.
- Appunto.
Il riccio maledisse se stesso e Roger per essere andato a vedere quel film. Lo aveva accontentato perché Tim non era potuto andare con lui, ma tra tutti i film che poteva scegliere, doveva andare a prendere proprio “La notte dei morti viventi”? Aprì leggermente due dita, vedendo di sfuggita il cadavere di Helen per terra, facendosi sfuggire un urletto che fece scoppiare a ridere Roger, mentre una ragazza si girava verso di loro, zittendoli. Brian lasciò andare uno sbuffo frustrato. – Ti odio.
- Lo so.
 
Quando uscirono dal cinema, Brian era praticamente scioccato. Tremava ancora, mentre Roger continuava a sfotterlo facendo battute poco gradevoli. Il riccio lo guardò malissimo. – Non sei affatto divertente.
- Tu invece sì. Sai, forse è meglio che Tim non abbia potuto accompagnarmi. Mi sono divertito di più.
Brian non ci credette. Sapeva quanto Roger ci fosse rimasto male, anche se non lo faceva vedere e non lo avrebbe mai detto a voce alta. Tremante per il freddo e per la visione che lo aveva disturbato non poco, mise le mani in tasca facendo uscire dalla bocca una nuvoletta di fiato caldo, guardando Roger. – Che facciamo ora?
- Io voglio mangiare fino a sfondarmi. Se andassimo a strafogarci di carne? – propose il batterista.
- Ma se sono vegetariano.
- Una pizza?
- Rog, hai appena mangiato un pacco grande di popcorn. Farai indigestione.
- Che palle. Sembri mia nonna.
Il ragazzo più grande alzò gli occhi al cielo, prendendo le chiavi della sua 500 dalla tasca del giubbotto, aprendo le portiere. – Pizza sia.
Roger lo fermò prima che potesse salire. – Mi fai guidare?
- Sì, Roger, in un'altra vita. Quando inizieranno a piacermi i film dell’orrore.
- Brian Harold May, fammi guidare.
- Roger Meddows Taylor, non ti faccio guidare.
Il biondo fece una smorfia scocciata, sbuffando e facendo il giro, salendo al sedile del passeggero, mentre Brian accendeva il motore.
- Prima o poi te la graffio. Ci incido sopra la mia faccia.
Brian sospirò, spingendo il piede sull’acceleratore e partendo, dirigendosi verso la pizzeria.

 

 
- Questo film non ha un senso. Questo uccide le persone senza motivo. – osservò Brian, infilando le mani nella coperta. Roger alzò gli occhi al cielo, indicando il televisore. – Guarda che c’è un motivo. Vuole fare un documentario con la reazione delle sue vittime mentre le uccide.
- Quindi in pratica oltre a essere pazzo è stupido. Chi è così idiota da fare un documentario in cui, in pratica, sbandiera a tutti che… AH! – Brian saltò sul divano, quando il pugnale sistemato sul treppiedi del criminale uccise la povera giovane attrice. Roger non si mosse di un millimetro, facendo un piccolo sorriso.
- Come diavolo fai a restare impassibile?
- Non sono un caga sotto come te.
- Ma l’ha appena uccisa!
- Bravo, vedo che hai ancora il senso della vista.
Brian sbuffò, incrociando le braccia, tremando leggermente. Continuò a guardare il piccolo e vecchio schermo, mentre sentiva il respiro leggero di Roger sulla spalla. Il fiato del ragazzo gli fece venire i brividi, ma non si scostò. La testa bionda del migliore amico era appoggiata sulla sua spalla, e per un attimo Brian ebbe voglia di stringerlo meglio a sé, ma non lo fece. Sapeva che Roger non amasse particolarmente quel tipo di attenzioni, e forse era stato un miracolo che, prima di quel momento, lo avesse abbracciato. Pensò che non aveva mai ricevuto un abbraccio così da parte del ragazzo, mai. E non era stata una brutta sensazione, quella che aveva provato quando Roger gli aveva circondato il petto con le braccia. Lo aveva fatto sentire a casa.
- Bri. – lo sentì mormorare. Guardò il ragazzo. – Sì?
- Grazie.
- Per cosa? – gli domandò, guardando il televisore. Fortunatamente le immagini del film erano diventate tranquille scene quotidiane.
- Per quello che stai facendo per me.
- Anche se mi hai rotto metà dei regali che mi aveva fatto mia nonna, sai che sei importante per me.
- Erano tutti da parte di tua nonna, quei cazzo di soprammobili?
- Sì. Le piacciono.
Roger rise. – Forse anche troppo.
- Non toccare mia nonna.
- No, figuriamoci. Fattene regalare altri.
- Così me li rompi?
- Esattamente. – rispose Roger, sistemandosi meglio sulla sua spalla. Brian sentì il cuore tremare. Guardò per un attimo il migliore amico, che aveva smesso di tremare ed era visibilmente più sereno. Era riuscito a farlo distrarre, ma dall’espressione di Roger (pur sempre più distesa di un’ora prima) capiva che stava ancora pensando a qualcosa che lo faceva star male. Lo strinse a sé.
- Ahia, non sono una spugna.
- Ma se non ti ho fatto niente.
- Solo perché sei un manico di scopa, non vuol dire che tu non abbia forza nelle braccia.
- Sei insopportabile e io sono arrabbiato.
- E allora perché mi abbracci?
- Cristo, ma perché a me? – sospirò Brian, togliendo il braccio dalle spalle di Roger. Il biondo rise. – Dai, sto scherzando. Non era male.
- Mi prendi per il culo?
- Solo un pochino.
- Mi stai dando ai nervi.
Roger sorrise lievemente, mentre vedeva i titoli di coda scorrere sulla TV. Si girò verso Brian. – Era così male?
- Sì. Meno di quello che abbiamo visto al cinema. Però la trama di questo era stupida e inutile. Anche perché…
- Ma stai zitto che mi stanno cadendo i coglioni a terra.
Brian alzò gli occhi al cielo, alzandosi e andando a spegnere il televisore. Guardò poi Roger, vedendolo avvolto nella coperta. – Stai bene? – gli chiese, apprensivo. Il più piccolo scrollò le spalle, deglutendo. – Sto bene, Bri. Mi fa ancora male la testa, ma… E’ tutto a posto.
Il chitarrista gli si avvicinò. Il tono del migliore amico non lo convinceva per niente, ma non disse nulla. Semplicemente scosse la testa. – Ma come devo fare con te? Ti cacci sempre nei guai e devo puntualmente farti da grillo parlante.
- Per me non c’è alcun problema a essere lasciato in pace, Brian. Sono abbastanza grande per gestirmi da solo, chiaro? – sospirò Roger spazientito
- Sì, l’ho notato dalle minchiate che hai fatto ieri.
- Ascolta, non tirare fuori discorsi che non c’entrano.
- Sei scemo?
- Mi conosci da quasi due anni, Bri, dovresti sapere che lo sono.
Brian sospirò e decise di lasciar perdere. Poi vide Roger sorridere, sebbene si vedesse che ancora non fosse di buon umore. – Ti ricordi la prima volta che ci incontrammo?
 

 
- Ciao! Tu devi essere Roger, giusto? – gli disse il chitarrista, con un’espressione accogliente e rassicurante in viso. Roger lo guardò meglio: era molto alto e magro, aveva i capelli ricci e gli occhi color castano chiaro. Un sorriso ampio, sincero e spontaneo era disegnato sul viso allungato e la carnagione era molto chiara, un po’ meno della sua. Il biondo strinse con decisione la mano che gli aveva allungato il ragazzo, sorridendo a sua volta. – In carne e ossa.
- Io sono Brian, Brian May. E’ un piacere conoscerti. Hai fame? – gli chiese il ragazzo, facendolo accomodare nel soggiorno della casa dei suoi genitori. – Mia madre sta preparando dei biscotti e del Thè.
Roger non rinunciava mai al cibo. Adorava mangiare, per questo accettò volentieri la proposta del ragazzo, che si sedette sulla poltroncina di vimini accanto al divano su cui lui era seduto. Una donna alta e mingherlina, molto simile al ragazzo, con i capelli corti e ricci e un sorriso luminoso entrò nella stanza, con un grembiule rosa chiaro e un vassoio colmo di biscotti. Appoggiò il vassoio sul tavolino, guardando poi Roger. – Sono Ruth, la madre di Brian. Spero i biscotti ti piacciano, il Thè è ancora nel bollitore, ma tra poco sarà pronto. E’ bello averti qui, sei così carina!
Roger rimase per un attimo a fissarla con la bocca semiaperta, senza capire. Poi vide Brian spalancare gli occhi, fissando la donna. – Mamma, è un ragazzo. Si chiama Roger.
- Uh, oddio! Devi perdonarmi, caro, sono davvero un’idiota! Ma come è potuto saltarmi in mente? – si scusò la donna, rossa in viso, guardando il biondo con aria mortificata. Il ragazzo più piccolo rise, scuotendo la testa. – Non si preoccupi, signora May.
Ruth sospirò di sollievo, passandosi una mano sulla fronte. – Menomale, che stupida che sono. Stavo per…
- Mamma, credo che il bollitore stia fischiando, vai in cucina a controllare! – balbettò Brian con evidente imbarazzo. La donna sembrò capire subito il disagio del figlio e alzò le mani, annuendo. – Vado, vado. Spero di non combinare altri danni anche con il Thè! – esclamò mentre si avviava in cucina. Brian sospirò, guardando Roger. – Devi scusarla, non le avevo spiegato nulla, le ho detto solo che avremmo avuto ospiti.
- Sembro così tanto una ragazza? – chiese Roger, guardandosi le mani e facendo una piccola smorfia.
- Beh, no. Non so perché mamma ti abbia scambiato per tale.
- In tal caso, spero di essere una bella figa.
Brian lo guardò piegando la testa da un lato. – Beh, io…
- Scherzo. So di essere bellissimo. – Gli rispose, allungandosi per prendere un biscotto. Il ragazzo coi capelli ricci aggrottò la fronte. Roger lo guardò. – Cosa c’è? – gli chiese con la bocca piena.
Brian scosse la testa, cambiando argomento. – Quindi tu sei un batterista. E’ da molto che suoni?
- La batteria no, mi sono appassionato da un pochi anni. So suonare la chitarra e so cantare, soprattutto le note più alte, ma mi sento molto più a mio agio quando suono la batteria, e più portato.
Brian annuì, ascoltandolo. Ruth rientrò nel soggiorno, appoggiando le tazzine del Thè sui sottobicchieri che aveva posato sul tavolino, per poi tornare in cucina. Il riccio prese una delle due tazze, soffiando leggermente per non bruciarsi. – Come ti sei appassionato alla musica?
- Diciamo che ci sono nato, con la musica. Studio canto fin da quando ero piccolo, mio padre è un musicista e ascolto molti artisti.
- Tipo?
- Il mio preferito è Jimi Hendrix.
Brian sorrise. – Per me puoi entrare nella band anche subito.
Roger ridacchiò. – Lo sapevo.
- Purtroppo il solista, che è anche bassista, Tim, oggi non c’è. Però gli parlerò di te.
- Cazzo, tua madre è fantastica a cucinare. Questi biscotti mi fanno venire voglia di un avere un orgasmo.
Brian sollevò le sopracciglia. – Che?
- Spaccano! Credo di essermi innamorato di tua madre.
- Ma cosa?! – esclamò il riccio, fissandolo a occhi strabuzzati. Il biondo rise, dandogli una piccola pacca sulla spalla. – Sto scherzando, amico.
- Ah. – disse Brian, guardandolo con un’espressione tra l’infastidito e il confuso.
- Oh, ma dai, come sei serio. Hai diciotto anni, su con la vita.
- Veramente ne ho venti.
- Sei più vecchio di me, allora. Vai all’Università?
- Sì, studio astrofisica. – gli rispose Brian, serio.
- Che figata! – Roger saltò dal divano, facendo tremare Brian quando fece quasi cadere la tazzina con il Thè all’interno.
- Tu cosa vorresti studiare? – gli domandò il chitarrista, bevendo il suo Thè.
- Odontoiatria. O biologia. Ma l’astrofisica dev’essere sicuramente più bella! – poi aggrottò la fronte. – Aspetta, ma cos’è l’astrofisica?
 

 

- Eri proprio un coglione. E il fatto è che lo sei ancora. – disse Brian, scuotendo la testa e sospirando. Roger fece una smorfia. – Le tue parole sono coltelli.
- Anche le tue. Per la mia sanità mentale e la mia pazienza.
- Eppure sono il tuo migliore amico.
- Mi domando ancora come sia potuta succedermi tale disgrazia.
- Atro che coltelli, questi sono proiettili direttamente sparati nei coglioni.
- Ne sono profondamente lusingato.
- E’ per questo che non riesci a trovarti una ragazza.
Brian lo fulminò con lo sguardo. D’un tratto, il telefono squillò di nuovo. Roger guardò Brian mentre si alzava per prendere l’apparecchio, alzando la cornetta e avvicinandola all’orecchio. Quando la voce dalla parte opposta rispose, il riccio fece un’espressione corrucciata. – Clare?
Roger rizzò le orecchie quando sentì il nome della sorella. Si avvicinò a Brian togliendogli il telefono dalle mani. Alzarsi così all’improvviso gli aveva fatto girare la testa, che ancora gli faceva male per i postumi della sbornia. – Che succede?
- Roger, oh, grazie al cielo sei lì. Stai bene? – sentì dire dalla ragazzina. Quando sentì la sua voce tremare, insistette. – Che è successo?
- Stai bene, Rog?
- Sì, sì, cazzo. Vai avanti, per Dio. Avrai chiamato per un motivo.
- P-papà… L’ha fatto ancora. – deglutì la sedicenne. Il respiro di Roger si fermò per un attimo.
- Cos’ha fatto? – il tono era gelido. Il sangue gli ribolliva nelle vene, il cuore cominciò a battergli all’impazzata. Sentì Clare fare un respiro profondo. – Lui… Lui è tornato a casa urlando, ha iniziato a prendersela con me.
Roger spalancò gli occhi, sbiancando. Sua sorella era da sola, sola con quel matto. Piccola e indifesa. – Clarie, dove sei? Dov’è lui? Ti ha fatto del male? – disse, cercando di assumere il tono più delicato che poteva per non spaventarla di più.
- Sono chiusa in camera mia. Roger, ho paura.
- Ti ha fatto del male, Clare?
- No, io… Sono scappata prima che mi prendesse. Ma lo sto sentendo urlare.
- Resta dove sei, Clarie. Sto arrivando.
- Roger, no. Ti farà male.
- Ho detto resta dove sei. Dammi cinque minuti. – appoggiò la cornetta al suo posto. Dimenticò tutto. Pensò solo a prendere la giacca e aprire la porta. Brian lo prese per il polso. – Ma che fai?
- Devo andare da Clare.
- Roger non puoi guidare. Non sei nelle condizioni nemmeno per fare un isolato.
- Brian, cazzo, ma non capisci? Sei stupido? Mia sorella sta passando il momento peggiore della sua vita probabilmente, è da sola, cazzo! Lasciami immediatamente e fammi uscire!
Brian tirò fuori le chiavi della macchina dalla tasca. – Non ho detto mica che non devi andarci.
Roger lo guardò con occhi stupiti e confusi. Brian stava facendo davvero una cosa simile per aiutarlo? A costo di assistere allo scempio che avrebbe fatto suo padre? – Bri, non…
- Vuoi aiutare tua sorella o no? Muoviti. – uscì dalla casa trascinando il biondo con sé, entrando in macchina e facendo sedere il ragazzo sul sedile accanto al suo.
- Conosci la strada? – gli chiese il più piccolo.
- Sì.
- Come cazzo fai? Non sei mai stato a casa di mio padre.
- Ti accompagnai, una volta. – sterzò velocemente, cercando di andare meno lentamente possibile per arrivare presto all’indirizzo.
- Sono proprio rincoglionito.
- Sì, concordo.
- A sinistra.
- Lo so.
Roger si appoggiò allo schienale, respirando profondamente. Ad ogni angolo che superavano, il cuore gli batteva più forte e l’ansia cresceva. Dopo un bel po’ di chilometri riconobbe la casa da lontano, deglutì e guardò Brian. Il suo sguardo era fisso sulla strada, mentre si avvicinavano sempre più all’edificio scuro.
Il biondo non aspettò nemmeno che Brian si fermasse. Aprì la portiera, sentendo dietro di lui il ragazzo più grande urlargli di calmarsi. Si sbatté il portello alle spalle, correndo davanti alla casa. E si ricordò di non avere le chiavi.
- Merda, merda, merda. – ansimò, cercandole ovunque. Controllò anche sotto allo zerbino per una chiave di riserva, ma non trovò nulla. Nel frattempo, lo aveva raggiunto anche Brian. Si guardò intorno, cercando di capire come poter entrare. E si rese conto che le finestre erano basse. – Prendimi sulle spalle.
- Cosa?
- Brian, prendimi sulle spalle. Adesso.
- Non hai intenzione di entrare dalla finestra, vero?
- E’ camera di Clare, se è ancora chiusa lì come mi ha detto, mi aprirà. – A Roger sorse un dubbio. Non sentiva nulla provenire dalla casa. Niente di niente. Non un sussurro, non una parola, non un grido. Tremante, guardò Brian. – Bri, per favore.
Il riccio lo guardò, respirando profondamente e annuendo. Si inginocchiò lasciando che il ventenne si arrampicasse sulle sue spalle, e stringendo gli occhi si rimise in piedi. Nonostante la statura, Roger non era esattamente leggerissimo.
Il ragazzo sbirciò con gli occhi azzurri dentro alla finestra, e vide una ragazzina accucciata a terra, spaventata, con una racchetta da tennis in mano, forse unica cosa che aveva a disposizione per difendersi. Sospirò di sollievo, bussando con le nocche sulla finestra. Vide Clare sobbalzare, ma poi la guardò girare lo sguardo verso la finestra e aprire la bocca, quando lo vide lì. E poi sentì Brian imprecare per la quarta volta. Sua sorella si alzò, correndo alla finestra e aprendola.
- Bri, spingimi un po’ più su. – disse al chitarrista.
- Sei impazzito?
- Dammi la mano, ti aiuto io. – gli consigliò sua sorella. Roger fece come gli era stato detto, e Clare lo tirò dentro mentre Brian lo agevolava mettendosi in punta di piedi. Quando Roger salì, la preoccupazione invase il corpo del riccio. Il biondo si affacciò. – Grazie, santo May.
- Rog, stai attento. Per favore.
- Sì, sì, che palle. – poi si allungò verso Brian, scompigliandogli i capelli per poi chiudere la finestra. Clare lo strinse forte.
- Stai bene? – le chiese.
- Sì.
- Lui… se ne è andato? Non lo sento.
- No. E’ qui. Ha smesso di urlare, ma non è uscito. Avrei sentito la porta aprirsi.
Roger sospirò, poi guardò la sorella negli occhi. – Perché cazzo sei qui? Perché non sei da mamma?
- Io…
Sentirono un rumore metallico provenire dalla cucina. Forte, stridente. Il maggiore rizzò la schiena e le orecchie, prendendo la mano di Clare per tranquillizzarla. Sentiva la sorella tremare come una foglia, lui deglutì. Si girò verso di lei, mettendole le mani sulle spalle. – Io adesso vado. Tu devi promettermi che resterai qui, qualunque cosa accada.
- Rog, non…
- Promettimelo, Clarie.
Clare respirò profondamente, guardando gli occhi del fratello, identici ai suoi. Lo abbracciò, mentre lui la stringeva a sé di rimando. – Promettimelo.
- Promesso. – sussurrò la sorella.
- Come quando eravamo bambini, okay? Chi infrange la promessa mangia solo verdure per una settimana intera, Clarie. – raccomandò Roger, sorridendole. La sedicenne annuì. Il maggiore le rivolse un ultimo sorriso, prima di salire al piano di sopra. Non aveva preso nulla per difendersi, ma era bravo almeno a tirare pugni e calci. Pensò che non sarebbe potuta andare peggio, quel giorno. Stava di merda per Tim, si sentiva un irresponsabile per come si era comportato e la testa gli faceva ancora un male cane. Ma per sua sorella avrebbe distrutto tutti anche da moribondo.
 

 
Il ragazzino si stropicciò gli occhi quando sentì una voce flebile e tremante chiamò il suo nome.
- Roggie, fratellone. Roggie Rog.
Roger puntò lo sguardò sulla sorellina, sbadigliando e tirando su col naso. – Clare. Che fai? E’ notte fonda. Saranno le tre del mattino.
- Ma fratellone…
- Clarie, vai a dormire. – disse, girandosi dall’altra parte. La bambina di sei anni gli scosse la spalla, e lui si voltò di nuovo.
- Non riesco a dormire, Roggie. – sussurrò la bambina, con le lacrime agli occhi. Appena Roger, seppur assonnato e al buio, vide quelle lacrime luccicanti, si sedette sul letto, guardando sua sorella e asciugandogliele. – Hai sognato qualcosa di brutto?
La sorellina annuì, abbracciandolo. Il maggiore sospirò, ricambiando quell’abbraccio e facendo sdraiare sua sorella nel letto. Prese un libro dallo scaffale più in basso, avvicinandosi alla sorella e sfogliandolo piano. A Roger e Clare era sempre piaciuto leggere, ogni giorno leggevano uno o due capitoli dei libri che la loro mamma comprava, e quando ne finivano uno ne leggevano un altro, e poi un altro ancora. Da alcuni giorni avevano iniziato a leggere “Le Avventure di Pinocchio”, e a entrambi piaceva molto e faceva ridere. Il maggiore si sedette sulla sedia davanti al letto dov’era stesa la sorella, che si era portata le coperte fino al naso per il freddo. – Dov’eravamo arrivati? – chiese Roger, sebbene fosse stanchissimo e non avesse voglia di leggere, ma solo di dormire. Clare si alzò mettendosi seduta, guardando il fratello. – Al capitolo in cui Pinocchio rivede la fatina.
- No. Quello lo abbiamo superato.
- Allora quello in cui fa a cazzotti!
- Nemmeno. Superato.
Clare si toccò il naso con un dito, pensando. Poi prese il libro dalle mani di Roger.
- Ehi! – squittì il maggiore.
- Ecco! Siamo arrivati qui! – esclamò Clare, restituendo il libro a Roger. La bambina sapeva già leggere, anche se non bene, nonostante a scuola ancora non glielo avessero insegnato. L’aveva messa sulla buona strada sua madre, che per prima cosa le aveva insegnato l’alfabeto, poi le aveva fatto scrivere e leggere ad alta voce delle intere parole.
Roger afferrò il libro e annuì, prendendo fiato e iniziando a leggere.
 
- “Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!” esclamò la Fata. “Cioè?” chiese Pinocchio. “Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per bene.”
Dopo poche pagine, il capitolo era finito, così Roger chiuse il libro, assonnato. Sbadigliò, per poi rendersi conto che la sorellina, probabilmente già da un bel pezzo, si era addormentata. Si stiracchiò, alzandosi dalla sedia e mettendo a posto il libro, stendendosi per terra, su un tappeto, lasciando il letto alla piccola Clare. Nonostante quel posto fosse scomodissimo, Roger si addormentò quasi immediatamente, con un’espressione serena sul viso da bambino. 

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Capitolo 4
*** Can't you see? ***


Capitolo 4 - Can't you see?
 
Quando Roger arrivò al piano di sopra, in un primo momento non udì nulla. Nessun rumore, suono, nemmeno il più piccolo spostamento d’aria. Al piano superiore c’erano tre stanze: la cucina, il bagno e la stanza dove dormiva suo padre. Tutte e tre erano piccole e il tetto era talmente basso da far sembrare l’intero piano una soffitta. Il ragazzo deglutì, guardandosi intorno. Quel silenzio lo confuse, ma non abbassò la guardia. Si avvicinò cautamente alla cucina, dove aveva sentito quel rumore ignoto prima di salire. Entrò nella stanza, guardandosi attorno. Il tavolo di legno era sporco e ammaccato, sul pavimento era ammassata la polvere. Roger storse il labbro alla vista di tutta quella sporcizia e incuranza, e proprio mentre si avvicinava al mobile in cui il padre teneva le stoviglie, si sentì afferrare un braccio con forza, prima di avvertire un dolore lancinante che gli attraversò il corpo dalla testa ai piedi e gli fece vibrare la spina dorsale quando rovinò contro il frigorifero. Gemette, scivolando per terra e sollevando la testa per rendersi conto della situazione. Michael lo fissava dall’alto con un’espressione che rassicurò ben poco il ragazzo. Gli occhi rossi e spiritati erano spalancati. Roger vide il piede dell’uomo arrivargli a un centimetro dal viso, e per un pelo sgattaiolò alla sua destra, schivando il calcio e appoggiandosi alla finestra.
L’uomo lo afferrò per i capelli, facendogli sbattere la testa contro il vetro. - Come cazzo sei entrato, bastardo? – Roger sentì il pugno arrivargli direttamente sul naso. Lo tastò con le mani, sentendo il sangue colare. La vista gli si era annebbiata per il colpo alla testa che già gli girava come una giostra, ma doveva liberarsi da quella morsa che era stretta sui suoi capelli, o i colpi sarebbero stati sempre peggiori. Concentrò tutte le forze di cui ancora disponeva e gli tirò una ginocchiata all’inguine che gli fece lasciare la presa, sentendolo gridare.
Ansimando, si appoggiò al tavolo con entrambe le mani, passandosi il dorso della destra sotto alle narici, macchiando la pelle di rosso. Suo padre tossiva appoggiato al vetro, in ginocchio. Roger pensò che quello fosse il momento giusto per darsela a gambe, che fosse ancora in tempo. Sarebbe potuto scappare, infilarsi nella macchina di Brian e andare via da quella casa. Ma avrebbe lasciato da sola Clare, e sarebbe tornato tutto al punto di partenza.
- Brutto pezzo di merda… - sentì sussurrare dal padre, che si rimise in piedi e lo raggiunse, sul viso era dipinta un’espressione terrificante che per un attimo fece arrestare il respiro di Roger. Era l’espressione di un pazzo, di un animale, non di un uomo. Il ventenne ne ebbe paura. Pensò che non avesse mai visto qualcosa di più distorto, di più terribile. Sembrava quasi una bestia affamata e impazzita, e lui pareva essere la sua preda. Cercò di dimenarsi, di reagire all’ansia e al terrore che provava, ma urlò quando le unghie di Michael affondarono nella sua spalla, causandogli un dolore che, sommato agli altri che gli stavano facendo bruciare ogni parte del corpo, gli fece perdere la vista per un momento.
- Sei sempre stato così inutile... – l’uomo gli strinse di più la pelle, facendolo ansimare dal dolore. - Mi hai rovinato la vita, tu come quella troia di tua sorella.
A sentire quelle parole, a sentire quelle cose rivolte a Clare, il cuore di Roger bruciò di rabbia. Ma l’unica cosa per cui riuscì a trovare la forza di fare, fu quella di sputare in uno degli occhi rossi del padre, tremando. – Non osare parlare così di Clare.
- Per quanto ti sforzi, non riuscirai mai a proteggerla. Sei debole. Inutile.
Roger strinse i pugni e i denti, sferrando una testata sulla fronte del padre con le forze rimaste. Il colpo fece cadere a terra entrambi, ma almeno si era liberato. Si toccò la spalla, sentendola sanguinare.
- Porca puttana! – urlò Michael, tastandosi la fronte. Roger si alzò a fatica, ma le gambe non lo ressero abbastanza per tenerlo in piedi. Cadde in ginocchio, mantenendosi al tavolo e scappando, a gattoni. Il cuore gli batteva a mille, la testa sembrava esplodere e ogni fibra del corpo pareva gridare di dolore. Raggiunse il bagno, chiudendosi dentro e ansimando, scivolando sulla porta e appoggiandoci la testa, che gli cadde a ciondoloni. Cercò di calmarsi e riprendere fiato, mentre sentiva il sangue scorrere velocemente nelle vene facendogli pulsare le tempie. Respirò profondamente, deglutendo mentre sentiva il cuore rallentare, fino a raggiungere una frequenza quasi normale. Raccolse tutte le forze per rimettersi in piedi, gemendo quando sentì una scarica di dolore attraversargli il corpo. Si appoggiò al lavandino con le mani, buttando la testa in avanti e prendendo un altro respiro. Deglutì, tremante, e quando rialzò la testa e vide la sua immagine riflessa ne fu quasi turbato. C’era sangue rappreso sulle labbra e sulle punte dei capelli biondi, il naso era diventato di un colore violaceo. Era pallido come un cencio, esausto, le occhiaie marcate e gli occhi semichiusi e rossi. Quello non era lui. Non era il ragazzo sereno e fiero di sé che vedeva ogni volta negli specchi. Quel ragazzo stremato e ferito non era Roger Taylor.
Chiuse gli occhi, tremando. Se non si fosse retto abbastanza al marmo del lavandino sarebbe crollato per terra.
Pensò a quello che stava succedendo. Era accaduto tutto troppo in fretta, in soli due giorni stava rischiando di impazzire. Sentì di aver bisogno di Brian, sentì di voler vedere il suo sorriso, sentì di voler udire la sua voce, forse anche sentire i suoi rimproveri e le sue ramanzine. Aveva bisogno di lui, in quel preciso istante. Aveva bisogno del suo migliore amico per non impazzire, per riuscire a rimanere in piedi. Chiuse gli occhi, sedendosi sul pavimento.
Clare era al sicuro, ma lui sentì di essere sommerso di guai fino al naso. Quel pazzo era nella stanza appena adiacente a quella in cui si trovava lui, e in quel bagno non c’era nemmeno una chiave. Sentì l’uomo gridare qualcosa che lui, per quanto gli girava la testa, non riuscì a capire. E poi vide la porta aprirsi.
Vide uno sguardo carico di pazzia, rabbia, ira e rancore. Terrorizzato, si appiattì contro il muro. Non riusciva a trovare nemmeno la forza di reagire, era pietrificato dalla paura e sapeva che, se anche avesse provato a reagire, l’uomo lo avrebbe devastato in ogni caso. E si odiò per tutto. Per non riuscire a contrastarlo, per non essere stato in grado di proteggere sua sorella, e per la preoccupazione che, in quel momento, stava probabilmente attanagliando la mente di Brian. Brian. Aveva bisogno di Brian.
Quello che accadde dopo fu troppo veloce per poterlo capire. Roger riuscì solamente a sentire il panico invadergli il corpo e appannargli la testa e i riflessi.
Capì di non riuscire più a respirare. Spalancò la bocca, cercò di prendere aria, ma qualcosa glielo impediva.
Lentamente si rese conto della busta di plastica che gli ricopriva la testa e si svegliò di colpo. I sensi si riattivarono stimolati dalla paura. Cercò di sollevare i pugni per colpire suo padre, ma si rese conto di avere i polsi bloccati. Iniziò a dimenarsi, cercando in tutti i modi di prendere anche il minimo filo di ossigeno, agitandosi sempre di più per la fame d’aria. I suoi occhi erano spalancati, ma piano piano l’unica cosa che vide fu il buio. E quando smise di agitarsi, pensò che sarebbe morto. Realizzò di non riuscire a muoversi, di non poter fare nulla per scappare o reagire. Si sentì impotente e debole, aveva sempre più freddo.
“Ho vissuto troppo poco per morire.” riuscì a pensare.
Aria.
Non capì perché suo padre lo stesse trattando in quel modo. Non capì perché Tim li avesse abbandonati. Non capì perché quel ragazzo lo avesse privato della sua verginità la sera prima. Non capì perché non potesse più essere il bambino spensierato con la famiglia serena che era anni prima.
Ossigeno.
E poi pensò a Brian. Ci sarebbe stato male, Brian, se la sua vita fosse finita? Si stava preoccupando in quel momento, Brian? Era triste, Brian? Era arrabbiato, Brian?
La mancanza d’aria iniziò ad annebbiargli i pensieri.
Brian, dov’era, Brian?
Brian, perché non c’era, Brian?
Brian. Roger aveva bisogno di Brian.
Aria.
 

 
- Che stai facendo? – sentì domandare mentre lui, seduto sullo sgabello di fronte alla grancassa, si occupava della sua batteria. Alzò la testa guardando il suo interlocutore, che in quel momento aveva un’espressione curiosa dipinta in volto e le braccia incrociate.
- Sto accordando il mio strumento. – rispose semplicemente, tornando poi a fare ciò che aveva lasciato. Brian sorrise, stupito. Non aveva mai visto nessun batterista farlo. Il giorno dell’audizione di Roger per entrare nella band era arrivato e il chitarrista notò che, sebbene non volesse farlo notare molto, il biondo era leggermente agitato. Appoggiò la chitarra sul muro, e rivolse uno sguardo al ragazzo. – Ci sei?
Senza farselo ripetere due volte, Roger smise di regolare le manopole, afferrando le bacchette e cominciando leggermente a battere sulle pelli dei tamburi. Fu un crescendo di energia, forza, precisione, impegno.
Roger picchiò forte sulle percussioni, mordendosi il labbro per la concentrazione e aumentando sempre più l’energia che ci metteva a suonare. Il cuore gli batteva forte in petto, nelle tempie e in gola, come le sue bacchette stavano facendo sulla batteria. Non si rese nemmeno conto dell’ambiente che lo circondava, pensò solo e soltanto a suonare. E poi sentì una chitarra suonare insieme ai suoi tamburi.
Brian pensò che il suono che producevano la sua chitarra e la batteria di Roger insieme fosse magnifico. Perfetto, pulito, come nessun’altro. Sorrise quando si rese conto di aver trovato chi faceva al caso loro, chi forse si era impegnato talmente tanto da aver raggiunto il massimo della bravura. Vide sul volto di Roger un’espressione concentrata e soddisfatta, fiera, orgogliosa. E smise di suonare, quando il ragazzo batté gli ultimi colpi sui piatti. Il cuore di Brian esplodeva di ammirazione.
Roger si alzò in piedi, allargando le braccia all’altezza delle spalle. – A me è sembrata buona.
Il chitarrista rise, stringendo il suo strumento tra le mani. – Fantastica.
- Sono lusingato. – disse il biondo.
- Sei stato preciso ed energico. Tim vuole intelligenza e forza. E tu sei proprio il tipo di persona che sarebbe in grado di combinare entrambe le cose.
- Lo so.
Brian sorrise, mettendo a posto la chitarra mentre Roger si alzava dallo sgabello. – Quindi? – chiese il biondo. – La risposta definitiva?
- Non essere impaziente. Andiamo a farci un drink. Ti va?
- Se mi va? E me lo chiedi anche?
 
Roger scoprì di andare molto d’accordo con Brian May, sebbene fossero molto diversi tra loro. Il ragazzo era intelligente e brillante, spontaneo e paziente. Era calmo, molto calmo, se paragonato a lui, e di questo Brian se n’era accordo dal primo incontro.
Roger gli sembrava un ragazzo pieno di vita, divertente e solare e allo stesso tempo sveglio e intelligente, ma anche un po’ disordinato e caotico. Era, volendo fare un paragone, una batteria. Lo strumento che suonava gli calzava a pennello e Brian non aveva potuto fare a meno di notarlo.
Parlarono molto, di musica, di studio, e dopo qualche oretta si fecero scappare anche qualche cazzata dovuta alla confidenza che stavano guadagnando.
Quando uscirono dal locale, Roger infilò le mani in tasca, guardando Brian. – Io devo prendere l’autobus. Mi sono reso conto di aver lasciato la macchina davanti a casa mia.
- Come ci sei venuto all’Imperial?
- A piedi. Non era lontano, solo che ora casa mia non è proprio vicinissima.
Brian cercò qualcosa nella tasca, e ne estrasse delle chiavi. – Eccole qui.
- Non posso credere che tu abbia una 500.
- E invece…
- Ti prego, ti stimavo. – sospirò Roger. Brian aggrottò la fronte. – Non ti piacciono le 500?
- Sono oscene.
- Dai, sbrigati o appena saliremo farà i capricci e ti vorrà fuori. Dobbiamo andare a piedi all’Imperial, però. L’ho lasciata lì.
- Nessun problema.
La passeggiata fu piacevole, sebbene facesse abbastanza freddo. Continuarono a parlare e Brian scoprì lo spassionato interesse che Roger nutriva per le automobili. La cosa lo fece ridere, era come se, parlando della sua auto, gli stesse raccontando della ragazza di cui era innamorato. Quel ragazzo era una boccata di vita e serenità.
Dopo un paio d’isolati arrivarono al parcheggio dell’Imperial, salirono in macchina e Brian, facendosi dare le giuste indicazioni da Roger, giunse presto davanti alla casa del ragazzo. Scesero entrambi, e Roger lo guardò ringraziandolo, allungando una mano verso di lui. Fu stupito quando vide Brian avvicinarsi a lui per abbracciarlo amichevolmente. Sebbene Roger non fosse un fan del contatto fisico sorrise, stringendo a sua volta il ragazzo che, ridendo, disse a voce alta. – Benvenuto negli Smile, Roger Taylor.
 

 
- B-Bri… - riuscì a sussurrare Roger, mentre sentiva le forze abbandonarlo sempre più. Stava morendo. Stava morendo e non poteva far niente per impedirlo. Chiuse gli occhi, rassegnato, mentre sentiva le gambe cedere sotto al suo peso. E d’un tratto, però, sentì nuovamente l’aria entrare nei suoi polmoni. Spalancò gli occhi, prendendo la boccata d’aria più grande che avesse mai respirato. Crollò per terra, tossendo e ansimando, cercando di mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava. Riconobbe, a poco a poco, la sorella. Era in piedi, con una padella da cucina stretta tra le mani, con gli occhi spalancati e il petto che si alzava e si abbassava freneticamente.
Roger deglutì, cercando di riprendere fiato, vedendo la busta che aveva sulla testa afflosciarsi per terra. Notò il padre riverso per terra e guardò Clare. Lo aveva salvato. Sua sorella lo aveva salvato.
- Mangerò anche solo verdure per un mese. Ma almeno, non sarò costretta ad assistere al tuo funerale. – sentì dire dalla sedicenne. Il maggiore guardò Michael, respirando profondamente. – N-non è… Non è morto, vero?
- No, non sono mica così scema da ucciderlo. Gli ho semplicemente impedito di uccidere te.
Roger sentì, nel tono deciso della sorella, un leggero tremore. Vide delle lacrime velarle gli occhi azzurri come i propri e sospirò, alzandosi. Il movimento gli costò un dolore e una fatica spossante, ma abbracciò comunque la sorella senza dire nulla. Si accasciò leggermente su di lei, mentre la ragazzina lo stringeva accarezzandogli la schiena. Sentì le spalle di Clare sussultare per i singhiozzi e sospirò, abbracciandola più stretta, per quanto le forze glielo permettessero.
- Rog, io…
- Grazie, Clarie. Sei fantastica. Sei la sorella migliore che potessi desiderare. – si allontanò leggermente, sorridendole e asciugandole le lacrime. – E sono fiero di te.
- Io avrei voluto fare di più. Avrei dovuto fermarlo prima. – mormorò la ragazzina, ma Roger scosse la testa. – Hai fatto anche troppo, Clarie. Hai impedito che morissi soffocato, penso sia abbastanza. – sorrise il ventenne, accarezzandole i capelli. Poi sentì le gambe tremare e cedere, e se non ci fosse stata Clare sarebbe rovinato a terra.
- Andiamo, Roggie. Brian ci aspetta.
Roger tossì, annuendo e cercando di rialzarsi. Brian lo aveva aspettato per tutto quel tempo, e forse lui lo aveva anche fatto morire di preoccupazione.
- Quel santo non mi perdonerà mai.
 
Ogni minuto che passava, la preoccupazione di Brian cresceva sempre di più. Gli stringeva le budella e gli faceva esplodere la testa, mentre i pensieri immaginavano scene a cui lui avrebbe preferito non pensare. Il suo migliore amico era lì dentro, con quell’uomo che avrebbe potuto fargli qualunque cosa.
Erano passate due ore, e ancora lui non vedeva nessuno uscire dalla casa. Clare, che fino a quel momento era rimasta nella camera, era uscita per andare a controllare, e non tornava da troppo tempo. Brian si stava consumando le unghie a forza di mangiarle per il nervosismo, ed era tentato di irrompere nell’abitazione per vedere con i suoi occhi cosa stesse succedendo.
E d’un tratto vide la porta aprirsi. Li vide entrambi, il braccio di Roger era intorno alle spalle di Clare, che lo sosteneva trascinandoselo di peso. Appena notò le condizioni del migliore amico gli venne un nodo alla gola.
Era pallidissimo, quasi cianotico. Aveva sangue rappreso sul viso e sui vestiti, era curvo su se stesso e se Clare non lo avesse sostenuto probabilmente non sarebbe riuscito a tenersi in piedi. Lo vide sorridergli, appena si accorse di lui. Brian sospirò, deglutendo subito dopo.
La ragazzina aprì la portella dell’auto, sedendosi e facendo stendere Roger sulle sue gambe, facendogli appoggiare la testa sulle ginocchia e iniziando ad accarezzargli i capelli. Il biondo guardò Brian dallo specchietto.
- Sono… Contento che tu sia qui. – mormorò, quasi senza voce. Brian trattenne il respiro, forzando un sorriso per rassicurare il migliore amico. – Pensi davvero che avrei potuto lasciarti senza un passaggio?
Roger ricambiò il sorriso. – No. – sussurrò, chiudendo gli occhi, addormentandosi sulle gambe della sorella.
 

 
- Bri, ti prego, dammi un passaggio. – si lamentò Roger per l’ennesima volta. L’amico alzò gli occhi al cielo, sbuffando. – Ma è possibile che tu sia così pigro? Sono pochi isolati, puoi farteli a piedi.
- Sei un amico di merda. E’ questo che vuoi? Che i miei piedi si stanchino? Magari mi si rompono pure e a te non frega niente.
- Non fare tanto la prima donna, non ti sopporto normalmente, figurati quando fai così.
- Mi stai dando fastidio.
- Oh Gesù, ma perché a me? Cosa devo fare per liberarmi da questo peso umano?
- Dargli un passaggio.
Brian gli rivolse un’occhiataccia, e l’unica cosa che Roger fece fu avvicinarglisi stringendogli il braccio. – Dai, Bri. Se vuoi mi metto a ballare la Lap Dance sulla batteria, ma ti prego, mi dai un passaggio?
Il passaggio che Roger stava reclamando in quel modo, lo avrebbe portato all’Università che frequentava, sebbene quest’ultima non distasse molto dalla sala prove in cui erano appena stati. Tim era andato da sua zia per aiutarla con delle commissioni, e Brian non aveva nulla da fare, ma voleva tornare a casa al più presto. Aveva bisogno di risposare un po’ e stare solo, non era proprio in vena di fare nulla se non dormire.
- Tu nemmeno studi per gli esami. Che cazzo ci vai a fare all’Università? – sbottò Brian.
- Ma sì che studio.
- Sì? E da cosa? Pensi che mi sia dimenticato del fatto che, l’altra sera, tu abbia “accidentalmente” buttato dalla finestra il libro di biologia perché non riuscivi a capire un argomento che io stesso ti ho spiegato almeno dieci volte?
- Studio dagli appunti.
Brian indossò un’espressione incredula. – Tu. Tu prendi appunti.
- Sì.
- Certo, Rog.
- Ma perché sei sempre così acido? Non ti basta darmi un passaggio?
- Se ti do un passaggio smetterai di metterti le dita nel naso per disturbarmi mentre mangio?
- Se sei troppo lento a mangiare non è colpa mia.
- Non è necessario che tu mi dia fastidio mentre mangio, però.
- Va bene, smetterò di importunarti. – si arrese Roger. Poi sorrise. – Quindi mi accompagni?
Brian fece un sospiro frustrato, prendendo le chiavi. – Gesù, Gesù, Gesù. – imprecò, aprendo la macchina e salendoci, aspettando che il migliore amico facesse lo stesso.
- Ti amo.
- Non sono interessato.
- Mi sento offeso.
- Mi fa piacere.
 

 
- Ahi! – strillò Roger, quando Brian passò il disinfettante sulla spalla ancora graffiata. Il riccio sospirò. – Scusami. Sto cercando di farti meno male possibile.
Il più piccolo sorrise lievemente, scuotendo la testa. – Non fa niente, apprezzo che tu mi stia aiutando. Il fatto è che questo disinfettante fa… Ah! – sussultò, serrando gli occhi e stringendo una delle maniche della camicia di Brian. Il più grande buttò nella spazzatura l’ovatta che aveva usato per medicarlo, cambiandogli la garza.
Roger stava meglio, ma quella notte non era stata affatto piacevole. Il ragazzo aveva avuto incubi per tutto il tempo, si contorceva per il dolore e sudava freddo. Brian gli aveva tenuto compagnia per tutta la notte, ma il ragazzo non aveva voluto saperne di calmarsi, seppur dormisse. E al più grande si era spezzato il cuore, nel vederlo in quelle condizioni. Fortunatamente, però, dopo aver accompagnato Clare a casa della madre quella mattina, aveva trovato il ragazzo seduto davanti alla TV mentre mangiava dei salatini.
Si era sentito in colpa per averlo lasciato da solo per quei venti minuti i cui era uscito per accompagnare la ragazzina, ma si era rassicurato leggermente vedendo l’amico tranquillo e autonomo.
Roger era un ragazzo che si rialzava facilmente quando cadeva, su questo Brian non aveva alcun dubbio, ma dopo ciò che era successo due sere prima aveva paura che il migliore amico potesse essere cambiato, che l’abbandono di Tim gli avesse fatto perdere la voglia di reagire ai problemi. E invece, aveva sorriso, quando appena era tornato a casa, aveva sentito la voce di Roger fargli: “Ehi, dottore, passami il telecomando che spengo. Ci sono solo stronzate in televisione.”
Roger barcollò appoggiandosi al muro, quando si rialzò. Brian lo fermò subito. – Ehi, ehi, ehi, non così in fretta.
- E dai, mamma, che devi fare ancora? Sto bene. Non sono un rottame.
- Siediti e stai fermo. Ti porto del ghiaccio da mettere su quel bernoccolo. Voglio che si sgonfi il prima possibile.
- Così potrai tornare a tirarmi scappellotti?
- Non ti ho mai picchiato.
- Ma mi prendi in giro? E’ il tuo passatempo preferito, picchiarmi.
- Sta’ fermo lì. Se ti vedo in piedi quando torno ti trucido. – Brian uscì dal bagno e lasciò la porta aperta, mentre Roger guardava fuori dalla stanza.
Il biondo abbassò lo sguardo, toccandosi la spalla. Gli vennero in mente le scene del giorno precedente, lo fecero deglutire e gli diedero fastidio. Sospirò. Pensò che se non ci fosse stata Clare, probabilmente sarebbe morto. E per cosa? Perché era troppo debole per potercela fare da solo. Era incazzato con sé stesso, aveva fatto preoccupare sua sorella e Brian e non era stato nemmeno in grado di risolversi i propri problemi da sé. Era questa la cosa che più lo faceva arrabbiare.
Quando vide Brian tornare con il ghiaccio, cercò di sembrare tranquillo. Accantonò ogni pensiero, lo fece per lui, per non farlo preoccupare.
Il chitarrista gli appoggiò il ghiaccio sulla testa, facendolo gemere. Era freddo sul bozzo che si era formato sul retro della sua testa, gli bruciava leggermente.
- Stai bene? – gli domandò Brian, senza guardarlo. Roger annuì. – Sì, Bri. Come sempre.
- Dio, Rog. Se penso… Se penso a come cazzo mi sono sentito, quando ti ho visto in quelle condizioni, io…
- Brian, smettila. – ribatté Roger, girandosi a guardarlo, incurante del ghiaccio che si spostava sulla sua testa. – Sto bene, ora. Odio quando fai così. Devi pensare che ora io sia qui, vivo e vegeto, stupido come sempre. Non devi soffermarti su pensieri che non hanno a che vedere con questo momento. Io… Io per farlo ho fatto una cazzata. E lo sai meglio di me. – Roger abbassò la testa, quando finì di parlare. Brian annuì, pensando che il ragazzo, (almeno per una volta), avesse ragione.
- Ora, per favore, mi togli ‘sto coso dalla testa?
- No. L’ho appena messo.
- Ma mi si sta ghiacciando il cervello.
- Rog, ma che dici? Quale cervello?
Roger alzò gli occhi al cielo. – Ah, cazzo. Sei davvero divertente. Dovrebbero darti un premio.
Brian sorrise. – Sai che scherzo.
- Mi ferisci.
- Oh, allora c’è qualcos’altro da medicare!
- Ti senti simpatico, oggi?
- Particolarmente. – Brian tolse la mano che reggeva il ghiaccio, appoggiandoci quella di Roger. – Va bene, alzati. Sei libero. Però devi tenerti il ghiaccio sulla testa per altri dieci minuti.
- Sì, così poi mi si ghiaccia pure la mano.
- Smettila di lamentarti.
Roger si alzò in piedi, tenendosi in equilibrio. Sorrise, guardando Brian. – Hai troppa pazienza, con me.
Prevedeva un “lo so” oppure un “ne sono consapevole” ironici, ma quello che ottenne fu il gesto che meno si sarebbe aspettato. Brian lo abbracciò, stringendolo forte a sé e facendolo gemere leggermente quando andò a premere troppo forte su un livido. Il più grande allentò la presa quando lo sentì, chiedendogli dolcemente scusa. Roger sorrise. – Grazie, Bri.
- Ti voglio bene.
Qualcosa, in quella frase, disturbò leggermente Roger. Non seppe spiegarsi il perché, si limitò a ricambiare il suo abbraccio e sussurrare un lieve, incerto, “anch’io”.
 

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Capitolo 5
*** Bring it back, bring it back ***


Capitolo 5 - Bring it back, bring it back
 
Brian sospirò, affacciandosi alla finestra per rilassarsi un secondo, respirando profondamente e appoggiando il mento sul palmo della mano. Chiuse gli occhi, prendendosi una pausa da tutto. Quelle due giornate erano state terribili e sfiancanti, era successo tutto in una volta sola, troppo velocemente, quasi a togliere il fiato. Roger, in quel momento, stava riposando nell’altra stanza. Forse quello era l’unico momento di pausa per entrambi, soprattutto per il più piccolo, che finalmente, dopo due giorni estenuanti, aveva la possibilità di riprendere le forze e il fiato.
E Brian per un attimo aveva smesso di sentire il cuore creparsi in seguito a tutto ciò che era successo al suo migliore amico, a cui teneva davvero più di ogni altra cosa e che quando aveva visto in quelle condizioni, nelle giornate precedenti, avrebbe voluto morire. Non voleva immaginare cosa fosse successo in quella casa. Lo aveva chiesto a Clare, ma la ragazzina aveva scosso semplicemente la testa, deglutendo. Aveva detto: “Non ho voglia di parlarne, ora” e Brian era rimasto in silenzio, annuendo.
Il chitarrista si spostò, prendendo la tazzina di thè che lui stesso aveva preparato, sedendosi sulla sedia davanti al tavolo della sua cucina, appoggiando la tazza alle labbra e bevendo, piano, il liquido caldo. Quel giorno avrebbero avuto appuntamento con Freddie, il ragazzo che aveva conosciuto due sere prima, l’amico di Tim. Avrebbe fatto una breve audizione, come quella di Roger di pochi anni prima, e lui e il batterista avrebbero deciso cosa fare.
Da parte di Brian, Freddie lo aveva convinto subito. Gli era sembrato immediatamente carismatico e con una personalità tutta sua, con quei vestiti stravaganti e l’atteggiamento leggermente femminile. E inoltre, per quelle poche note che aveva canticchiato, la sua voce gli era sembrata unica e precisa, particolare e fresca. Solo che, forse, stava iniziando a pensare che per Roger non fosse il massimo fare le cose così in fretta. A mente lucida si era messo nei panni del migliore amico e si era reso conto che se fosse stato in lui non sarebbe mai riuscito a sostituire la persona di cui era innamorato con un’altra, uno sconosciuto, per altro, nonostante Tim fosse stato uno stronzo con entrambi.
Scosse la testa, continuando a bere il suo thè. Sentì dei passi felpati provenire dal corridoio, e alzò la testa per rendersi conto della situazione. Roger era lì, che piano piano si avvicinava alla cucina. Si stava stropicciando un occhio con la mano sinistra, era in pigiama e aveva i capelli biondi spettinati e crespi. Brian lo guardò, continuando a bere dalla tazzina. – Rog, torna a dormire. Che ci fai in piedi?
- Non ti piace la mia presenza? – fece Roger, appoggiandosi al muro.
- Voglio semplicemente che tu stia a riposo. – gli rispose Brian.
Il biondo sollevò le spalle, tirandosi un ciuffo di capelli dietro all’orecchio sinistro. – Mi faceva male la spalla e non riuscivo a dormire.
- Potresti almeno sederti?
Il più piccolo si sedette sul tavolo, facendo ciondolare le gambe. Il chitarrista lo guardò. – Sederti come le persone normali.
- Dai, non ho malattie. Non te lo contamino il tavolo.
- Scendi, Rog.
Il ragazzo sbuffò, scendendo dal tavolo e spostando una sedia, sedendovisi sopra. Appoggiò il gomito sul tavolo, lasciando che la testa si posasse sul proprio palmo. Gemette quando sentì l’ennesima fitta alla spalla.
Brian alzò subito la testa, guardando l’amico, preoccupato. – Rog.
- Tutto a posto. – si affrettò a rispondergli il biondo, anche se sul suo viso era ancora disegnata una smorfia di dolore. Brian si mosse velocemente, accovacciandosi davanti a lui e abbassandogli il colletto del pigiama, per controllare la spalla del migliore amico. La garza era immacolata, non c’erano macchie di sangue, ma se Roger stava provando tutto quel dolore, considerando la sua buona sopportazione ad esso, allora voleva dire che c’era qualcosa che non andava.
- Bri, sta’ fermo. Non è niente. – sussurrò il più piccolo.
- Fammi controllare. – ribatté Brian, concentrato. Sollevò appena la garza, per vedere qualcosa che non gli piacque. La pelle della spalla era livida e rossa, le ferite causate dalle unghie del padre che aveva disinfettato lui stesso non si erano ancora rimarginate del tutto ed erano scure e profonde. Il chitarrista sistemò la garza al suo posto, vedeva gli occhi di Roger chiudersi mentre deglutiva. – Rog.
- Sto bene. Non è niente. – disse Roger, secco, mentre rimetteva al suo posto la manica del pigiama. Brian si diresse verso il frigorifero, riempiendo un bicchiere d’acqua e porgendolo al ragazzo, che bevve e ripoggiò il contenitore di vetro sul tavolo. – Grazie.
- Perché hai dormito così poco?
Il minore alzò la testa, guardando l’amico. – Che te ne frega?
- Ti sei anche svegliato male, da quello che vedo.
- Non riuscivo a dormire. Hai della Vodka?
Brian lo fulminò con lo sguardo senza dire niente e Roger ridacchiò. – Sto scherzando.
Il maggiore scosse la testa, incrociando le braccia al petto e finendo il suo thè. Cercò di formulare la frase migliore che gli venne in mente, cercò di essere delicato e di non far innervosire il ragazzo più piccolo con le eventuali parole sbagliate. – Rog, ricordi cosa ti ho detto, ieri?
- Mi hai detto tante cose. Una di queste è stata: “Roger, per l’amor del cielo, hai l’alito che puzza di morte!”
Brian aggrottò la fronte. – Non l’ho detto. E’ impossibile.
- E invece lo hai detto e mi sono anche offeso.
- Ma di quando cazzo stai parlando?
- Mentre guardavamo Peeping Tom. Ti sei girato verso di me, mi hai guardato e me lo hai detto. E io poi sono andato a lavarmi i denti.
Il riccio spalancò gli occhi. – No. Ti prego non…
- Sì, ho usato le dita per lavarli.
Brian fece una smorfia disgustata. – Che schifo, Taylor.
- Ad ogni modo. – disse Roger, girandosi nuovamente il ragazzo. – Cosa intendevi?
Il chitarrista sciacquò la tazzina da thè. – Ti avevo parlato di Freddie.
- Ah, sì. Quel tizio strano che doveva accudire i gatti.
- E ricordi cosa mi ha detto?
- Sono ferito, mica scemo. Certo che mi ricordo.
- E tu, quindi…
- Sì, Brian. Non c’è problema. Verrò all’audizione. A che ora è?
Brian aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse. Fu stupito dall’improvvisa perspicacia del ragazzo, di solito il migliore amico era lentissimo a comprendere qualcosa, anche se fosse stata specificata mille volte. – Be’, tra un’oretta, in realtà.
- Ma che cazzo?! E tu me lo dici solo ora, coglione di merda?
- Sei sicuro?
- Mica mi chiamo Brian May. Io vado avanti subito davanti ai dispiaceri.
- Oh, ma certo, Roger. Almeno io mi prendo il mio tempo per riprendermi invece di fare stronzate tipo ubriacarmi come un coglione.
Roger abbassò la testa, non disse più nulla. Brian vide un velo di tristezza annebbiargli gli occhi e si affrettò a balbettare – Rog, io… Non volevo…
Il biondino tirò su il capo sorridendo, dando una pacca sulla schiena del più grande. – Idiota. Ci caschi sempre.
Brian sospirò, guardando Roger come avrebbe fatto una mamma arrabbiata con suo figlio che le aveva appena disobbedito. E il minore, di rimando, sorrise, tirando un pugno leggero sulla spalla del ragazzo. – Io amo prendermi gioco di te.
- Sì, ma non amerai quando un giorno perderò la pazienza e ti butterò giù da una finestra.
- Oh, come siamo aggressivi, dottor May!
- Vaffanculo.
- Brian! Non si usa questo linguaggio a tavola!
- Roger rompicoglioni Meddows fottuto Taylor, se osi darmi fastidio un’altra volta ti caccio di casa.
- Seh, seh, seh, non cacceresti mai una dolce donzella ferita da casa tua. Potresti anche scopartela.
- E’ una richiesta?
- No. Però ti invidierei.
Brian ruotò gli occhi nelle orbite. – Mi chiedo ancora oggi se tu abbia battuto la testa quando eri piccolo.
- L’ho sbattuta ieri. Va bene lo stesso? - Sebbene fosse evidentemente ironico, Brian non poté far a meno di riconoscere un leggero tremore nella voce del migliore amico. Si sentiva, si capiva che fosse turbato.
Roger, d’un tratto, si sentì avvolgere da due braccia sottili e calde che lo stringevano. Non gli diede fastidio come sempre. Forse perché quelle braccia erano di Brian, l’unica persona di cui si fidava insieme a Clare. Lo abbracciò a sua volta ma non capì il motivo per cui, in quel momento, il suo cuore avesse iniziato a battere così fottutamente forte. Si diede da solo dello stupido, si disse di darsi una calmata. Non stava capendo più nulla. Non capiva perché Brian lo stesse abbracciando, non capiva perché sentiva le guance bollire e non capiva perché la schiena di Brian stesse tremando e sussultando. Aggrottò la fronte, staccandosi immediatamente e guardando l’amico. Appena vide quelle lacrime, non poté fare a meno di sentire un nodo alla gola.
Roger non era mai stato un ragazzo empatico. Non se ne era mai importato nulla dei pensieri e dei sentimenti degli altri, nemmeno di quelli di Tim. Pensava che i problemi di qualcun altro dovessero rimanere dov’erano, che non era compito suo occuparsi delle loro emozioni, consolare o dare conforto. Però, dopo tutto ciò che Brian aveva fatto per lui, in soli due giorni, pensò che meritasse la sua vicinanza. Lo aveva fatto impazzire, gli aveva fatto fare avanti e indietro da casa sua a quella del padre, si era occupato di lui per tutto il tempo, e ora piangeva.
Puntò gli occhi azzurri in quelli umidi del migliore amico, incastrando una mano tra i ricci del più grande. – Brian.
Il maggiore si affrettò ad asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, scuotendo la testa e cercando di fermare i singhiozzi. – Sto bene. E’ tutto a posto.
- Bri, che c’è? Perché piangi? – sussurrò, mentre gli occhi di Brian erano puntati a terra. Il ragazzo non disse niente, e questo fece innervosire leggermente Roger, che gli tirò su la testa, obbligandolo a guardarlo negli occhi. – Cosa c’è, Brian?
Il più grande respirò profondamente. – Non hai bisogno di chiedermelo, Rog. Penso che tu possa capirlo da solo.
- No, non posso capirlo da solo, Bri. Non sono te. Non comprendo al volo quello che gli altri provano. Non capisco nemmeno una pagina di biologia, come faccio a capire il motivo per cui una persona, così, dal nulla, scoppi a piangere?
- Roger se tu... Se tuo padre fosse andato oltre, se non ci fosse stata tua sorella… Ora tu… - le lacrime continuarono a scendere copiosamente, i singhiozzi diventarono spasmodici e Brian non riuscì più a respirare per il tappo che gli si era formato nelle narici per il pianto. – Ora tu non saresti più qui.
A Roger venne voglia di gridargli in testa. Urlargli di non preoccuparsi, smetterla di piangere, perché lui era lì, era con lui e niente avrebbe potuto portarlo via dal suo migliore amico, in quel momento. Ma vederlo in quelle condizioni non gli fece avere il coraggio di farlo. Semplicemente gli prese la mano, aprendola e appoggiando il palmo sul proprio petto, guardando l’amico dritto negli occhi. – Cosa senti?
Brian deglutì, ricambiando lo sguardo. – Il tuo cuore.
- E sai cosa significa? – domandò Roger, deciso. L’amico singhiozzò senza dire niente. – Cosa significa, Brian? – ripeté il più piccolo.
- Io…
- Significa che sono vivo, Brian. Significa che sono qui, resto qui, non me ne vado. Respiro, sono davanti a te, ti sto parlando. I miei occhi sono aperti, la mia mente lucida. Sono qui, Brian. Niente mi porterà via.
 

 
- Vieni qui, Brian. – sussurrò Ruth, sorridendo ma con le lacrime agli occhi. Sua mamma e suo papà erano seduti sul prato del loro piccolo cortile, era notte e lui si era svegliato nel sentir piangere la donna. Infreddolito e assonnato, si avvicinò ai suoi genitori tremando, sedendosi tra loro e guardandoli con i suoi grandi occhi color nocciola. – Mamma, perché piangi?
Harold prese la mano del figlio, guardando la donna che tirò sul col naso, continuando a sorridere al bambino. Brian aveva compiuto cinque anni da un mese, eppure sembrava già un piccolo uomo. Era gentile e responsabile, amava aiutare gli altri, soprattutto se si trattava della sua famiglia. Ruth gli accarezzò i ricci scuri come i suoi. – Brian, piccolo mio. Sai, io piango di gioia.
Brian aggrottò la fronte. – Piangi di gioia?
- Sì, Bri. Ricordi la nonna? Ricordi sta mattina, quando siamo andati a trovarla in ospedale?
Il bambino annuì.
- Beh, Bri, la nonna ora sta bene. Non soffre più. – gli disse Ruth, continuando a carezzargli i ricci. Brian sorrise. – E’ tornata a casa?
- No, Brian. Non è tornata a casa. – disse Harold, deglutendo un groppo in gola difficile da mandar giù. – Però, sai, ora è in un posto molto più bello e più luminoso, della sua casa. - Gli prese poi la mano, lo fece alzare in piedi, accompagnandolo sulla piccola terrazza, dove c’era sistemato il telescopio che avevano costruito insieme. Brian lo guardò senza capire. Di solito le cose le capiva al volo, era un bambino molto intelligente. Lui lo sapeva, le maestre lo dicevano sempre. Ma non capì proprio perché suo padre, in quel momento, gli stesse avvicinando il telescopio davanti agli occhi. Guardò comunque attraverso i vetri, osservando il cielo scuro. Brian amava guardare le stelle, la luna e le nuvole. Avrebbe voluto studiarle, un giorno. Conosceva le costellazioni e sapeva a memoria tutti i nomi di tutti i pianeti, ed era stato proprio suo papà a fargli amare tutte quelle meraviglie. L’Universo, i pianeti, le stelle. Sentì Harold abbassarsi per arrivare abbastanza vicino al suo viso.
- Guarda, Brian. Guarda quante stelle. – gli sussurrò amorevolmente, facendolo annuire. – Se guardi bene, se osservi il cielo, noterai un’altra piccola stella, in mezzo a tante alte. La prima stella che vedi, la più bella e più luminosa. Quella è la nonna, Bri. La vedi?
- Sì, papà. Ma quella è solo una stella. Non è la nonna.
- Lo sai, Bri? Quando finiamo il nostro processo vitale, quando andiamo via dalla Terra, da questo pianeta così colorato e bello, meritiamo qualcosa di ancor più luminoso. Siamo ambiziosi, desideriamo il cielo, l’Infinito. Saremo scaldati dalla luce delle altre stelle, avvolti tra le braccia dell’universo, insieme alla luna e ai pianeti. Saremo lontani dalla Terra ma la illumineremo nella notte, proprio come fa la nonna ora.
- Papà, come sai tutte queste cose?
- Non le so. Semplicemente le sogno.
- A me piace sognare, papà.
- Anche a me, Brian. E allora sogna, sogna forte, sogna come se niente fosse importante. E se continuerai a sognare, piccolo Brian, allora vedrai la nonna sempre più luminosa. Come tutte le altre stelle.
 

 
Brian stette in silenzio, continuando a sentire il cuore di Roger battere sotto la pelle mentre ricordava ciò che suo padre gli diceva quando era bambino. Non seppe perché gli fosse venuto in mente quel ricordo. Sapeva solo che gli aveva messo coraggio e forza, esattamente come i battiti continui e tranquilli di Roger, che lo fecero rilassare leggermente.
Roger guardò gli occhi di Brian, ormai non più lucidi. Lasciò andare la sua mano, sentendosi leggermente vuoto quando il ragazzo allontanò il palmo dal suo petto. Guardare quegli occhi color nocciola, sentire il contatto con la mano di Brian, continuò a mandargli scariche elettriche in tutto il corpo, e si chiese, per un momento, cosa cazzo gli stesse succedendo. Stava per impazzire. Si sentiva strano e stupido, così stupido da volersi prendere a schiaffi. Aveva fatto delle cazzate per l’amore nei confronti di Tim, e ora stava reagendo così davanti a un’altra persona? Davanti a Brian, che non poteva essere altro che il suo migliore amico.
Aveva voglia di picchiarsi da solo.
“Stupido coglione. Stupido e inutile rincoglionito demente.” pensò. Quelli erano sentimenti che avrebbe dovuto provare nei confronti di qualcuno che sarebbe dovuto essere chiunque fuorché Brian. Respirò profondamente. Chissà che espressione da ebete aveva in faccia in quel momento. Magari al migliore amico sarebbe anche venuta voglia di prenderlo a schiaffi per farlo tornare a essere un minimo accettabile.
- Dovremmo… Dovremmo andare. – la voce di Brian lo risvegliò dai suoi pensieri, facendolo sentire ancora di più un coglione.
- D-di già? – balbettò il biondo. Il più grande annuì, accarezzandogli la testa bionda e andando in camera per cambiarsi. Roger respirò profondamente, appoggiando la testa sul gomito, scuotendo la testa. Si sentiva un idiota, probabilmente faceva anche bene. Non poteva, semplicemente non poteva anche soltanto pensare all’eventuale idea di provare dei sentimenti diversi dall’amicizia per Brian. Si era dannato e aveva fatto dannare anche lui per colpa di Tim, e cosa succedeva, dopo due giorni? Che cambiasse idea?
Voleva andare avanti, ma non in quel modo. Pensò che forse fosse solo attrazione fisica, qualcosa di temporaneo che non sarebbe durato a lungo. O che gli volesse semplicemente un bene dell’anima e che stesse fraintendendo qualcosa. Però. Però il pensiero del sorriso di Brian gli stava facendo girare la testa.
Brian aveva un sorriso diverso da tutti quelli che gli era capitato di vedere ed era stato la prima cosa che aveva colpito Roger. Forse era anche più bello di quello di Tim.
Quando sorrideva, a Brian sorridevano anche gli occhi. Roger vedeva quei brillanti occhi castani illuminarsi, le sopracciglia sollevarsi e i denti bianchi uscire dal nascondiglio che trovavano sotto alle labbra. Sorrideva spesso, Brian. Ma non era un sorriso sornione come il suo, non era provocatorio. Era un sorriso sincero, caldo e accogliente, che il ragazzo ventiduenne sfoggiava solo quando ne valeva la pena e Roger amava il fatto che, per Brian, valesse quasi sempre la pena di sorridere, tranne quando era arrabbiato, nervoso, preoccupato o esaurito dai suoi comportamenti infantili – come quando, per esempio, masticava con la bocca aperta mentre il povero chitarrista mangiava per farlo infastidire -.
Era diverso dal sorriso di Tim. Era il sorriso di una persona che ne aveva passate tante e che era sempre riuscito, con la sua spiccata intelligenza e la sua forza, ad andare avanti.
Era il sorriso che faceva luce a Roger quando l’unica cosa che riusciva a vedere era il buio.
Brian era diverso in tutto, da Tim. E per un attimo Roger desiderò che, per davvero, potesse provare qualcosa e scollarsi da quel coglione del loro vecchio bassista. E poi si diede di nuovo del coglione.
“Dio mio, come cazzo sei melenso. Sei così tanto una puttana che mi fai venire da vomitare.” sentì nuovamente nella sua testa, sbuffando e alzandosi in piedi. Si diede una piccola sberla per riprendersi da quei pensieri da ragazzina neo mestruata, per poi accorgersi che Brian, cappello in testa, chiavi in mano e cipiglio da chi non stava capendo nulla in faccia, lo stava guardando come se fosse ammattito. – Roger perché ti picchi?
- Io… Mi si era bloccata la mandibola.
- Ti droghi?
- No. Sto solo attraversando la vecchiaia a grandi falcate.
Brian alzò le sopracciglia. – A vent’anni?
- Quasi ventuno.
- Siamo a dicembre del sessantanove, sei nato vent’anni fa. A Luglio. Hai vent’anni.
- E mezzo.
- Smettila di farmi sentire come se ne avessi ventitré. Perché vuoi mostrarti più vecchio di quello che sei?
- Io sono ancora giovane e bello.
-  Sbrigati, non hai ancora messo la giacca.
- Macché giacca. Oltre a essere giovane e bello, sono anche forte e temerario.
- Roger, vai a mettere la giacca prima che io diventi una bestia.
Roger sbuffò avviandosi verso l’armadio del migliore amico con le mani alzate all’altezza delle spalle. – Va bene, mamma, va bene. Obbedisco.
Il biondo tornò pochi secondi dopo, vestito solo con un capotto sbottonato, senza cappello né sciarpa. Brian sospirò. – Se ti prenderai la polmonite non saranno problemi miei. – disse, chiudendo la porta di casa.
 
Freddie Bulsara era seduto a gambe accavallate sulla poltrona in vimini della sala prove che avevano prenotato per quel giorno. Fumava una sigaretta, aveva un’espressione scocciata in volto, i capelli scuri e disordinati ed era vestito con una camicia nera con le paillettes sbottonata fin sotto lo sterno e dei pantaloni bianchi a zampa di elefante che gli coprivano gli stivali per metà. Roger sorrise appena vide quell’abbigliamento stravagante: quel ragazzo aveva uno stile che a lui piacque non poco.
- Siete in ritardo, tesori. Mi avete fatto aspettare e ora la mia gola sembrerà piena di sperma. – sbottò il ragazzo, restando sulla poltrona. Brian si mise la chitarra a tracolla, guardandolo negli occhi. – Scusaci, Freddie. Io e Roger abbiamo avuto un contrattempo. – disse con educazione, lanciando uno sguardo a Roger. Il biondo si avvicinò a Freddie, allungando una mano nella sua direzione. – Sono…
- So chi sei, caro. Ti ho trascinato praticamente in braccio fino a casa del tuo amico, quindi ho un ricordo vivido di te e del dolore che mi hai fatto provare alla schiena. – lo fermò Freddie. Roger sbatté le ciglia un paio di volte.
- Freddie, che hai intenzione di cantare? – cambiò discorso Brian. Il ragazzo lo guardò e sorrise. – All along the watchtower.
Roger batté le mani un paio di volte nel sentire il nome di una delle sue canzoni preferite e il chitarrista si girò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. Sorrise a Freddie, appoggiando le mani sulla chitarra pronto ad attaccare, mentre il biondo si sedeva dietro alla sua batteria.
Quando Freddie si avvicinò al microfono, la chitarra di Brian cominciò a suonare così come i tamburi e i piatti di Roger, mentre il giovane cantante si schiariva la voce prendendo il microfono e avvicinandolo alle labbra, iniziando a cantare dopo poche battute. Il batterista spalancò gli occhi, guardando il ragazzo, affascinato. Pensò che Brian avesse ragione su tutto. Non aveva nulla a che vedere con Tim. Aveva appena iniziato a cantare ma la differenza era abissale. Era intonato, limpido e preciso. Freddie aveva una voce bellissima e un’estensione vocale vastissima. Riusciva a toccare qualsiasi nota, che fosse alta o bassa. Roger. Dalla sua batteria, vide Brian sorridere soddisfatto mentre il giovane Bulsara non sbagliava neanche una singola nota. Il chitarrista gli lanciò uno sguardo e il batterista poté leggere chiaramente la parola: “fottiti” nei suoi occhi. Il biondo alzò gli occhi al cielo, continuando a picchiare le bacchette sulla batteria.
Quando Freddie terminò, allargò le braccia tirando la testa all’indietro, poi la rialzò girandosi prima verso Roger per poi guardare Brian. – Siete fantastici, vi amo!
Il chitarrista allargò un sorriso. – Direi che il sentimento è reciproco. Vero, Rog?
- Sono abbastanza d’accordo. – il biondo si rialzò, raggiungendo i due musicisti e stringendo la mano a Freddie. – A patto che tu mi presti i vestiti.
- Cos’hai nel cervello, caro? Orsetti gommosi? – esclamò Freddie, spalancando gli occhi scuri. – Non pensarci nemmeno!
- E tu pensi che questo atteggiamento ti permetterà di entrare nella band?
- Sì, Roger. – si intromise Brian.
Il biondo sbuffò. – Vaffanculo.
Freddie sorrise, orgoglioso. Il riccio lo guardò. – Tu… Sai suonare qualche strumento? – chiese al ragazzo. Freddie alzò le spalle. – Il pianoforte e la chitarra.
Roger si morse la lingua. – Ah. E il bassista lo prendiamo dalla strada?
- Non partire già con questo pessimismo. Non ne abbiamo così bisogno. E anche se fosse, lo troviamo, il bassista. – disse Brian.
- Dove, nelle patatine?
- Tesori, questo è il mio numero di telefono. – li interruppe Freddie, porgendo a Brian un foglio di carta con delle cifre scritte in alto. – Appena deciderete cosa fare sarò felice di ricevere una vostra chiamata.
- Un momento, Freddie. Noi vorremmo sapere qualcosa di più su di te. – disse Brian, mentre indossava la sua giacca e metteva a posto la chitarra. Bulsara lo guardò, annuendo. – Chiedimi ciò che desideri sapere.
- Come conosci Tim? – disse subito Roger, prima che il riccio potesse aprire bocca. Freddie si sedette di nuovo sulla poltrona, mentre gli altri due ragazzi si sistemavano su un divanetto appoggiato alla parete accanto. La sala non era grande, perciò gli spazi erano ristretti e limitati.
- Frequento l’Ealing College anch’io.
- E tu… Vai d’accordo con lui?
- Abbastanza.
Roger fece un respiro profondo. Brian si accorse dell’espressione leggermente turbata del suo migliore amico e si affrettò a cambiare discorso. – Non mi hai nemmeno detto quanti anni hai, la scorsa volta che ci siamo visti.
- Ventitré.
- Quindi mi state dicendo che io sono il più piccolo? – esclamò Roger.
- Esatto.
Il biondo sbuffò, facendo sorridere Brian.
 

 
- Quindi hai diciotto anni? – fece il solista, masticando. Roger, il quale si era appena presentato a Tim Staffel, non poté fare a meno di fare una smorfia infastidita, ripetendo comunque che, sì, aveva da poco compiuto i suoi diciotto anni. Staffel sorrise, tirando una gomitata amichevole al più grande dei tre, che era occupato ad accordare la sua chitarra. – Capito? E’ appena diventato maggiorenne.
Brian lo guardò aggrottando la fronte, vedendo poi il nuovo batterista alzare le sopracciglia. – E quindi, che vuoi?
- Niente, stavo solo scherzando. Dio, certo che quelli di paese sono proprio dei rompicoglioni. – sbuffò Tim, scuotendo la testa.
- Hai appena detto che il Leggendario Batterista della Cornovaglia è un rompicoglioni appena maggiorenne. Io ti consiglierei di ritirare ciò che hai detto e farti una dose pesante di modestia. – replicò il biondo, infastidito.
Brian sorrise. Gli piaceva, quel ragazzo. Aveva grinta ed era sicuro di sé, sicuramente non si faceva mettere i piedi in testa. E in quel momento, con il leader della band in cui era stato appena preso e dalla quale poteva essere mandato via da un momento all’altro, lo stava dimostrando. Tim rimase zitto per un po’, poi alzò gli occhi al cielo. – Va bene, Leggendario Batterista della Cornovaglia. Resto zitto e metto la coda tra le gambe, così non ti offenderò più.
Roger sorrise sornione. – Bravo, stai facendo la scelta giusta.
- Piccolo e fastidioso.
- E tu quanti anni avresti, scusa?
- Diciannove.
Roger scoppiò a ridere.
- Che cazzo ridi? – sbottò il solista, aggrottando la fronte. Il biondo sollevò le spalle. – Sei certamente un vecchio saggio ed esperto, a diciannove anni. Ti prego, insegnami.
- Ragazzi, volete finirla o no? State entrambi dimostrando di averne cinque, di anni. – li interruppe Brian. Roger diede una pacca sulla spalla di Tim. – Lui sì che è un vecchio saggio.
- Cos’è, vai a convenienza? – domandò il diciannovenne. Brian si massaggiò la fronte con due dita. – Dio, ma perché?
- Sembri davvero frustrato.
- Roger, ti prego. Dimostrami che i diciotto anni li hai compiuti sul serio. – sospirò il chitarrista, incurvando la schiena.
Roger sorrise. Si guardò intorno. Era la sua prima cena con la band e avevano optato per un pub londinese di Carnaby Street, ringraziò di aver compiuto la maggiore età. Si era scolato due birre, nonostante Brian gli avesse consigliato di fermarsi.
La prima volta che aveva visto Tim Staffel ne era rimasto colpito. Era alto, anche se non più di Brian e i capelli erano scuri. Aveva un’espressione annoiata in volto che lui aveva trovato interessante, sebbene non gli fosse piaciuto il fatto che, quando si stessero presentando, Staffel avesse mostrato completo disinteresse nei suoi confronti. A Roger non importava molto delle opinioni che gli altri avevano su di lui, ma almeno un leggero interesse, pensò, avrebbe dovuto esserci, visto e considerato che lui fosse il nuovo batterista della sua band. Non gliene importò granché, ma per tutta la sera l’interesse verso Tim cresceva e cresceva, e lui non sapeva nemmeno il perché. Forse era il suo atteggiamento menefreghista, o la sua intelligenza, forse il modo in cui lo attraeva a livello fisico. Non sapeva spiegarsi nulla, non riusciva. E si diede dello stupido per il modo in cui restava attratto da qualcuno così facilmente e stupidamente, come un bambino ingenuo e troppo curioso.
La serata fu piacevole e divertente, procedette veloce e finì quasi prima che Roger avesse il tempo di accorgersene. Tim lo accompagnò a casa in macchina, e più Roger passava del tempo con lui più se ne sentiva attratto.
E volle picchiarsi da solo quando, il giorno dopo, si rese conto di averlo perfino sognato quella notte.
 

 
Roger appoggiò la testa alla finestra, rilassandosi al ticchettio tranquillo della pioggia contro il vetro. Respirò profondamente, ripensando all’audizione impeccabile e alla voce limpida di Freddie, in cui per la prima volta, dopo che aveva sentito suonare Brian, non era stato in grado di trovare nulla di sbagliato. Al primo colpo, dopo soli due giorni dall’abbandono del solista, avevano trovato la persona che faceva esattamente al caso loro. Era carismatico, aveva una personalità speciale che lo aveva convinto appieno e la sua voce era straordinaria, quasi troppo bella per essere vera. La sua, in confronto, era sporca e graffiata, non aveva nulla a che vedere con quella raffinata e precisa di Freddie.
Ma chi se ne frega, si disse. Nessuno suonava la batteria come la suonava lui e quello era l’importante. La chitarra di Brian, la voce di Freddie e le sue percussioni sarebbero state un mix perfetto e avrebbero potuto fare grandi cose. Però mancava qualcosa. Mancava l’abilità di Tim nel suonare il basso e…
No. Non doveva più pensarci. Avrebbero trovato un bassista come avevano trovato il solista, prima o poi. Doveva riprendersi e tornare il Roger Taylor che se ne sbatteva e pensava in grande, quando guardava il futuro.
E poi, la forza d’animo di Freddie e la sua personalità gli avevano messo addosso energia e carica, era inutile pensare al passato senza concentrarsi sul presente.
In quel momento, però, i suoi pensieri spaziavano dal male al malissimo. Quando la sua testa cominciò a pulsare, ricordò il colpo che aveva subito il giorno prima quando Michael gliel’aveva fatta sbattere contro il vetro della finestra della cucina. Pensò alla sensazione di paura e ansia che aveva provato per colpa della mancanza d’aria, pensò a come si era sentito spacciato e in trappola e si concesse un momento di debolezza. Si era fatto forza davanti a Brian, gli aveva detto di non pensarci, ma in quel momento sentì di aver bisogno di mostrarsi fragile davanti a se stesso. Brian gli aveva sempre detto che nessuna emozione doveva essere repressa o soffocata, che qualsiasi sentimento era giusto e nessuno andava male. E Roger capì di aver bisogno, di nuovo, del suo migliore amico, del suo punto di riferimento. Di chi era più grande e più saggio, di chi lo fermava quando faceva cazzate, di chi lo aiutava a rialzarsi quando cadeva. Si alzò, sospirando e camminando verso la camera di Brian, dove il ragazzo stava dormendo.
Era tardi, poteva essere l’una di notte. Roger aveva detto a Brian che voleva restare sveglio per un po’, da solo, che voleva riflettere e pensare.
- Va bene, basta che appena ti viene sonno tu vada a dormire. Io sono esausto, perciò non riesco proprio a stare in piedi. – gli aveva detto Brian. In effetti, non aveva dormito per due notti consecutive e doveva essere stremato, e lui ne era anche la causa. Sbuffò. Si sentiva un disastro per aver rovinato due giornate della vita di Brian. Il chitarrista faceva di tutto per lui e Roger non faceva altro che causargli guai.
Appena varcò la soglia della stanza di Brian cercò di fare più silenzio possibile. Lo vide rannicchiato sotto le coperte come un bambino non poté fare a meno di sorridere. Brian era ordinato e tranquillo anche nel sonno, mentre lui, come il migliore amico gli diceva spesso tra una risata e l’altra, faceva danni anche mentre dormiva. Per prima cosa, russava. E non poco. Ogni volta che lui e Brian avevano dormito insieme, seppur fossero in letti separati, il più grande non era mai riuscito a prendere sonno.
Il chitarrista gli aveva raccontato un sacco di volte di quando era caduto dal letto, del fatto che ridesse nel sonno, che a volte parlasse, urlasse o addirittura cantasse mentre dormiva.
- Quando dormi ti piace andare in falsetto. E a me non piace che tu vada in falsetto. – gli aveva detto Brian un giorno mentre facevano colazione, dopo un’estenuante giornata in cui lui, il migliore amico e Tim erano rimasti a suonare e avevano dormito sul pavimento della sala prove.
Roger sorrise, nel pensare a quelle giornate. Si sedette sul letto, accanto a Brian.
Il riccio aveva le coperte tirate fino al naso, gli occhi castani chiusi e i riccioli davanti ad essi. Aveva un’espressione serena, e a giudicare del movimento dei suoi occhi sotto alle palpebre chiuse Roger capì che stesse sognando.
- Scusami, Bri. – sussurrò il biondo, sospirando. Titubante gli accarezzò dolcemente i capelli scuri, passando la mano tra i ricci morbidi. Si odiò quando il suo cuore iniziò a battere più forte nel vedere il migliore amico dormire, pregando che quella sensazione fosse dovuta semplicemente dal fatto che fosse stanco.
Brian si mosse ne sonno, sospirò e un movimento del braccio destro fece abbassare le coperte leggermente, lasciando libere le labbra socchiuse e il collo sottile. Quello fu l’unico momento in cui Roger, per davvero, dimenticò Tim. Pensò che il ragazzo più grande fosse bellissimo e ormai il cuore aveva iniziato a battere forte come la sua grancassa. Il biondo strinse gli occhi, respirò profondamente dal naso.
- Vaffanculo. – sussurrò. Spense il cervello, completamente. E la sensazione che provò dopo, quando avendo mandato tutti i pensieri a quel paese baciava Brian era forse la migliore che avesse provato in anni della sua disordinata, incasinata vita.

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Capitolo 6
*** Don't take it away from me ***


Capitolo 6 - Don't take it away from me
 
Roger scoppiò a ridere, stendendosi sul prato del giardino del suo compagno di scuola, allargando le braccia e scuotendo la testa.
Il suo nome era Robert, anche se tutti lo soprannominavano Bob. Aveva lunghi capelli scuri e disordinati, occhi color verde scuro, carnagione olivastra e un particolare neo sullo zigomo sinistro. Roger lo conosceva da tre anni, erano inseparabili dal primo giorno, da quando la professoressa di matematica aveva deciso di punirli entrambi per le battute di scherno nei suoi confronti, facendoli restare nell’aula di detenzione per ben due ore. Avevano legato così tanto che si vedevano sempre dopo la scuola, Roger aveva insegnato a Bob a suonare alcuni accordi sulla chitarra e l’amico lo invitava sempre a casa sua, che era decisamente più grande di quella del biondo. Bob aveva una situazione economica ben diversa da quella di Roger, suo padre era un importante avvocato e sua madre era un’abile sarta, e per questo l’altro ragazzo lo invidiava leggermente. Vedeva la sua grande casa, con quel giardino pieno di fiori e dall’erba fresca, i suoi abiti sempre in perfetto ordine e ogni giorno nuovi e più belli e poi guardava se stesso, che era così esile per il cibo che in casa scarseggiava, la sua piccola e stretta abitazione, i suoi vestiti sgualciti e di seconda mano. Gli sarebbe piaciuto vivere la vita di Robert, però diceva sempre a se stesso che l’invidia non portava da nessuna parte e di certo non gli avrebbe fatto avere una casa spaziosa e i vestiti firmati.
E in uno di quei giorni d’estate in cui, da tempo, avevano finito la scuola, Roger e Bob si trovavano stesi sull’erba a mangiare fragole ridendo e prendendosi in giro a vicenda.
Bob si girò da un lato, guardando Roger appoggiando il gomito a terra e la guancia sul palmo della mano. – Cosa vorresti fare, dopo la scuola?
Roger respirò profondamente, piegando la testa bionda da un lato e pensandoci per un secondo. – Be’, sicuramente non resterò qui. Voglio andare a Londra, vivere a Londra, con persone che hanno i miei stessi ideali e con cui condividere passioni. Voglio confusione e musica, luci e fuochi d’artificio. Berrò quanto cazzo mi andrà e andrò nei locali a divertirmi.
Robert aggrottò la fronte. – Come ci vai, a Londra?
- Ho sicuramente bisogno di una borsa di studio.
- Vorresti laurearti?
- Ovvio che sì. Vorrei studiare biologia, ma penso inizierò con l’odontoiatria. Voglio farmi un nome.
Bob lo guardò, sospirando. Ammirò quegli occhi azzurri così grandi in cui si poteva perdere solo osservandoli, quelle ciocche bionde che luccicavano sotto al sole estivo e quel mezzo sorriso che allargava così raramente ma che lui avrebbe voluto vedere per sempre.
Roger chiuse gli occhi, respirando l’aria fresca e pulita, un braccio era a coprire la fronte per proteggere gli occhi chiari dal sole e le labbra erano arricciate in un sorriso rilassato.
- Rog. – sentì dire dall’amico.
- Mh?
- Tu… Sei mai stato innamorato?
Roger si irrigidì per un attimo, aggrottando la fronte e guardando Bob. – Che vuoi dire?
- Be’, sì, innamorato. Ti sei mai innamorato di qualcuno?
- Nah. – scosse la testa. - Ho altri pensieri per la testa.
Bob non aveva idea di quale fosse la sessualità di Roger. Non parlava mai di ragazze, ma nemmeno di ragazzi. Forse perché, davvero, non era nei suoi desideri trovare qualcuno o innamorarsi. Però si era sempre accorto che, quando si parlava di sessualità e amore, a scuola o in giro, lui non sembrava mai essere a suo agio. Roger infatti, girava la testa, imbarazzato, non diceva nulla e stava zitto. Robert deglutì e prese coraggio, sospirando. – Rog, io devo parlarti.
- So già che ti masturbi ogni giorno nei bagni della scuola e no, non ho bisogno di sapere altri dettagli.
- Io… Non esattamente.
Il biondo si girò a guardarlo, Bob vide gli occhi blu scrutarlo con curiosità. – Allora, cos’è?
Roger spalancò gli occhi quando successe la cosa che meno si sarebbe aspettato in quel momento. Aveva visto Robert accarezzargli una guancia e avvicinarsi velocemente a lui, senza dargli il tempo di realizzare cosa stesse succedendo. Aveva cancellato la distanza tra le loro labbra e lo aveva baciato.
Roger non riusciva a muoversi. Era come pietrificato, non riusciva a capire nulla e il suo cervello stava andando completamente in tilt. Quando si rese conto di ciò che davvero stava accadendo intorno a lui, appoggiò le mani sul petto dell’amico, spingendolo via e toccandosi le labbra. Lo guardò e vide sul suo viso un’espressione ansiosa e pentita.
- Io non… - balbettò il biondo, respirando profondamente per poi alzarsi.
- Roger.
- Ho bisogno di stare da solo. Sto tornando a casa. – disse il ragazzo, prendendo il suo zaino da terra e mettendoselo in spalla, girando le spalle a Bob, mentre l’amico lo implorava di tornare indietro lui varcò la soglia della villa, con una sensazione di amarezza e confusione nella testa.
 

 
Roger si morse un labbro, ripensando al ricordo del suo primo bacio. Quando era successo, il ragazzo era già consapevole della sua omosessualità, ma non voleva averne nulla a che fare. Si era sempre detestato per quella che lui stesso riteneva un’anormalità, una stranezza, un’ambiguità. E in quel momento si odiava ancora di più per aver fatto una stronzata colossale. Aveva baciato, baciato il suo migliore amico, per giunta etero. Non ricordava nemmeno il numero di volte in cui si era dato dello stupido nell’arco di tre ore.
E quando vide il ragazzo in questione arrivare in cucina, in pigiama, coi capelli spettinati e gli occhi ancora socchiusi per il sonno, si sentì ancora peggio. Il povero Brian May era completamente ignaro della stronzata che aveva fatto, e chissà che cazzo avrebbe fatto se lo avesse saputo. Probabilmente lo avrebbe cacciato di casa o gli avrebbe detto che si era fumato troppo tabacco e si era rincoglionito. E invece no, il chitarrista si avviò verso il frigorifero in modo tranquillo e assonnato, prendendo il latte dallo sportello e sussurrando un lieve, sbiascicato - ’ngiorno, ‘og.”
Roger deglutì, facendo finta di non essere fottutamente rincoglionito davanti alla vista di Brian May appena sveglio in pigiama.
“Ma che cazzo sei, pervertito? Un’adolescente arrapata?”
- Buongiorno, Brian. – disse, impegnandosi meglio che poteva per non sembrare un idiota. Vide il ragazzo più alto scaldarsi il latte in un pentolino, stiracchiando le braccia e sbattendo una mano sulla mensola che si trovava proprio sopra ai fornelli. Brian fece una smorfia di dolore e Roger si mise a ridere. – Coglione.
- Oddio, sapevo che questo silenzio non sarebbe durato. – mormorò Brian, sbadigliando e stropicciandosi un occhio. Roger abbozzò un sorriso, per poi vedere il riccio sedersi accanto a lui. Il più grande girò il cucchiaino nella tazza.
- Perché mescoli il latte? – fece Roger.
- Ma ti fai gli affari tuoi?
- E’ acido, quel latte?
Brian alzò gli occhi al cielo, sbuffò e si portò la tazza alle labbra, bevendo lentamente, mentre Roger mangiava il suo toast al formaggio masticando rumorosamente. Il riccio lo fulminò con lo sguardo.
- Oh, ma che vuoi? Ti ho ucciso il gatto, per caso? – sbottò il biondo.
- Non ho gatti.
- Quello che è. Ma perché ti incazzi?
- Mangi come un troglodita!
- Scusi, dolce damigella inacidita, non la disturberò più!
- Ti detesto.
- Io ti odio.
- E’ la stessa cosa.
- E’ la stessa cosa! – lo imitò Roger, rendendo la voce più profonda.
- Io non ho questa voce di merda.
- Io non ho questa voce di merda!
- Cristo, ma quanti anni hai? Quattro? – sbottò Brian, mettendosi le mani tra i ricci.
Roger sorrise, soddisfatto, continuando a mangiare il suo toast mentre il maggiore si passava una mano sul viso stanco. Le palpebre gli cadevano leggermente sugli occhi scuri e i capelli se ne andavano in direzioni tutte diverse e sembrava avessero vita propria e si ribellassero al povero chitarrista che cercava di tenerli in ordine. Il biondo respirò profondamente, mentre l’unico pensiero nella sua testa era uno e uno soltanto e lui stava cercando in tutti i modi di non farlo assolutamente notare a Brian.
- Dobbiamo chiamare Freddie. – balbettò, cercando di pensare ad altro. Il riccio annuì, finendo il suo latte e mettendo la tazza nel lavandino. – Lo chiami tu?
- Aspe’. Io non so nemmeno cos’abbiamo deciso.
- Ma se ne abbiamo parlato ieri. Io e te. A cena.
- Ma non abbiamo…
- Ascolta, Roger. – sospirò Brian, spazientito. – O hai fatto finta di non sentire, perché evidentemente non riesci ad accettare il pensiero degli Smile senza Tim Staffel, o sei un idiota. Le ipotesi sono queste.
Roger strinse forte i pugni. Odiava quando Brian faceva così. Quando se la prendeva con lui senza motivo, trattandolo come se fosse un bambino con la testa tra le nuvole, immersa in pensieri a cui lui, in quel momento, nemmeno stava rivolgendo la minima attenzione. – Non me ne frega un cazzo di Staffel, Brian. Basta. Dici che vuoi aiutarmi, che vorresti farmelo dimenticare ma a conti fatti giri solo il coltello nella piaga. Adoro Freddie, adoro la sua voce e il suo stile, e sai una cosa? Non me ne frega un cazzo di chi vorrei che me lo mettesse in culo, Brian. Voglio solo guadagnare dei cazzo di soldi e suonare. Questo voglio. E non sei l’unico intelligente, qui. Perciò non hai il diritto di crederti tale.
Brian si fece sfuggire un sospiro esasperato, guardando Roger. – Perfetto. Allora, per l’ennesima volta, Freddie è dentro. Decidiamoci a chiamarlo.
 

 
Roger non era il tipo di ragazzo che si poteva definire il “primo della classe”. Non era dotato di una spiccata intelligenza e anzi, tante volte faceva anche fatica ad arrivare a capire cose semplici al volo. Non era nemmeno stupido, però, e non si era mai fatto grossi problemi in merito.
Studiava, si impegnava abbastanza a scuola, ma di certo non era la sua attività preferita. Lui voleva suonare, far tremare i palchi e i locali con la sua batteria, riuscire a emozionare le persone e a far cantare loro la sua musica.
Però, voleva che sua madre fosse fiera di lui. Voleva laurearsi e diventare un medico, perciò, quando doveva impegnarsi a studiare, ce la metteva tutta. Restava su un argomento per ore e ore, giornate intere, ripeteva ad alta voce nella sua camera anche con l’aiuto di Clare finché non imparava alla perfezione le pagine che aveva letto più volte.
- No, Roger. Non ci sei ancora. Possibile che ti venga così difficile fissarti in testa questo paragrafo?
- Clare, stai zitta. Mi metti ansia e pressione e rischio di svenire sul pavimento.
La sorellina sbuffò, alzando gli occhi al cielo e appoggiando il mento sulla mano, il gomito era posato sulla gamba accavallata e la schiena era curva. Erano lì da più di tre ore, Roger aveva già studiato due capitoli, ma gliene mancavano altri tre. Clare era esasperata: odiava quando il fratello si riduceva all’ultimo momento, soprattutto quando avrebbe dovuto affrontare un esame il giorno dopo, con in palio una borsa di studio, per altro.
- Rog, non essere fastidioso e ripeti finché non impari.
- Se dovessi fare il medico, ti prego, non permettermi mai di farmi avere a che fare con cuori umani e cose che ne riguardano.
- Roger, si tratta solo di imparare il funzionamento dell’aorta. L’ho studiata anch’io.
- Sì, ma tu frequenti le medie. La differenza è sostanziale.
- Ripeti. Tutto da capo. Non farmi sentire ragioni.
 
- Signor Roger M. Taylor! – esclamò Clare, correndo per le scale con una busta proveniente dalla cassetta della posta destinata al fratello.
Roger se la vide arrivare in camera come una gazzella impazzita, mentre saltellava sul suo letto tenendo la lettera in mano. Il biondo spalancò gli occhi. – Ma sei scema? Scendi o farai un casino sul mio letto.
La ragazzina si fermò, porgendogli la lettera. Sulla busta c’era scritto “University of East London”, con il suo indirizzo e il suo nome scritti a penna sulla parte opposta. Il cuore di Roger iniziò a battere forte. Con le mani tremanti aprì la carta, trovando un foglio bianco dentro ad essa.
Respirò profondamente, fremendo e cercando di stare calmo. Iniziò a leggere velocemente, gli occhi che correvano repentini sull’inchiostro nero, ansiosi e tremanti.
Il cuore gli si fermò per un secondo. Sollevò lo sguardo, con il pensiero delle strade illuminate e rumorose di Londra nella testa, con il pensiero ai grandi parchi, alle cabine telefoniche, ai pub. Sorrise, guardando Clare.
- Ce l’ho fatta, Clarie.
 

 
Le feste a cui andava Freddie Bulsara erano alcune delle cose con il tasso alcolico più alto che potessero esistere. Il ragazzo li aveva invitati per festeggiare il suo ingresso nella band, ma oltre a loro c’erano almeno altre cento persone. Si era organizzato in una discoteca piccola come un buco su una strada poco lontana da casa di Brian, e sia quest’ultimo che Roger non sapevano nemmeno chi fosse soltanto una di quelle persone. Poco importava. Si stavano divertendo da matti.
Era forse un miracolo che Roger fosse ancora abbastanza lucido da riuscire a riconoscere il luogo in cui si trovava e, con tutto quell’alcool, avesse bevuto soltanto due cocktail.
Ed era ancor più strano il fatto che Brian fosse pregno d’alcool come una spugna. Di solito era lui a fermare i giochi quando vedeva che le cose andavano troppo oltre, ma quella sera era davvero fradicio. E questo a Roger non dispiaceva per niente. Si stava facendo le risate migliori della sua vita e Brian, da ubriaco, era dieci volte più divertente dal solito.
Correva da una parte all’altra, ridendo e cantando le sue canzoni preferite a squarciagola, cosa che non avrebbe fatto mai e poi mai da sobrio.
Roger scoppiò a ridere quando il ragazzo scivolò su un pezzo di carta bagnaticcio che era per terra, cadendo di sedere sul pavimento. Lo prese per un braccio, decidendo di farlo sedere su un divanetto appoggiato alla parete sinistra del locale. Sorrise, sedendosi affianco a lui e osservandolo. Le luci viola gli illuminavano metà del viso, facendo sembrare l’occhio sinistro più chiaro del vicino, che nel buio sembrava quasi nero. I ricci erano umidi e sudati, crespi e disordinati, ma erano forse ancora più belli del solito.
Brian aveva un sorriso stampato sul volto e le guance arrossate, l’odore di alcool che proveniva alle sue labbra entrò nelle narici di Roger.
- Mi sento bene, Rog! – esclamò il ragazzo, abbracciando il biondo talmente forte da farlo tossire lievemente. Roger si staccò, ridendo in modo leggero e tirando un piccolo pugno sulla spalla di Brian. – Lo so, probabilmente riesco anche a intravedere i tuoi neuroni che fanno su e giù nella tua testa.
Il riccio arricciò il naso. – I neuroni non fanno su e giù! Li hai presi per una giostra?
Roger fu stupito dalla capacità di Brian nel contraddire chiunque anche da ubriaco.
- Sono belle, le giostre. Ci andavo sempre con mia madre quando ero piccolo. Giri, giri e giri, non ti fermi finché non lo decide qualcuno. – disse Brian, buttando la testa all’indietro. Roger gliela tirò su, ridendo e scuotendo la testa. – Diventerai una giostra anche tu se non la smetti di bere.
- Te lo immagini, Rog? Brian Harold May: l’uomo che si reincarnò in una giostra per troppo alcool.
- Riesco a vederlo vivido nella mia testa.
Il più grande vide una ragazza passare con dei bicchierini su un vassoio e si alzò per prenderne uno, ma Roger lo trattenne, facendolo sedere nuovamente. – Basta, Bri. Non esagerare.
Il riccio lo osservò bene. Anche Roger era illuminato dalle luci viola, che Brian vedeva leggermente sfocate e confuse. Il più grande sentì una sensazione strana allo stomaco mentre guardava quegli occhi blu. Ora che li guardava bene, gli sembravano quasi delle gemme. Preziosi, chiari e luccicanti. Sorrise.
- Sei bello, Rog.
Roger trattenne il fiato. Deglutì, aprendo leggermente la bocca. Sapeva che Brian fosse ubriaco. Non era lucido, ma il suo cuore stava battendo come un tamburo comunque. Gli venne in mente il bacio della sera prima, quello che gli aveva dato mentre Brian dormiva.
E quasi non ci credette quando il più grande si avvicinò, appoggiandogli una mano sulla guancia attirandolo a sé, sulle sue labbra. Roger spalancò gli occhi. Il cuore ormai sembrava voler prendere il volo e perforare la sua gabbia toracica.
Ma non gli importò più niente. Chiuse gli occhi, appoggiando le mani ai lati del collo di Brian, che lo avvicinò a sé circondandogli la schiena.
Roger sentiva le mani del chitarrista stringerlo, avvertendo allo stesso tempo un brivido che gli corse per la spina dorsale come una saetta, percependo la lingua del riccio farsi spazio tra i suoi denti e iniziare ad esplorarlo come se fosse un tesoro, leggerlo come se fosse un libro aperto e stuzzicando il suo palato e i suoi denti.
Si staccarono per un attimo, per prendere aria. Roger vide gli occhi di Brian osservare le sue labbra, per poi baciarle ancora. Sentì le sue dita affusolate insinuarsi tra i suoi ciuffi biondi e sentì che se non fosse stato seduto sarebbe crollato per terra per come le gambe stavano tremando.
Brian accarezzò la schiena del ragazzo, sfiorandola con le nocche dall’inizio alla fine. Passò le dita in mezzo alle scapole, le fece scorrere giù per la colonna vertebrale e arrivò fin giù, stringendo leggermente le natiche del biondo. Lo guardò, e la vista di quegli occhi così grandi e umidi d’eccitazione gli fece girare la testa. Lo baciò ancora, come se avesse bisogno solo delle sue labbra, solo della sua lingua.
Il più piccolo si alzò, sistemandosi sulle sue ginocchia e avvolgendo le braccia intorno al suo collo, mentre lui saliva e scendeva per la sua schiena provocandogli feroci brividi. Brian lo sfiorava come se lui fosse la sua chitarra, lo accarezzava come faceva con le sue corde quando suonava.
Il moro interruppe il contatto tra le loro labbra, scendendo sulla mandibola e baciando la belle chiara e umida, per poi andare ancora più giù, mordicchiando il collo niveo e sentendo il respiro di Roger accelerare nel suo orecchio.
- Brian… - lo sentì sussurrare. I sensi erano rallentati dall’alcool, ma quel mormorio lo sentì chiaro e forte. Aumentò l’intensità di baci e morsi, succhiando un lembo di pelle appena sopra alla clavicola del ragazzo.
Roger sentì il cuore aumentare sempre di più i battiti, correva nel suo petto come un matto. Chiuse gli occhi, con le labbra semiaperte e sentendo le mani fredde del ragazzo che lo stava baciando infilarsi sotto alla sua maglietta facendolo rabbrividire. Brian lasciò piccoli morsi sulle clavicole di Roger, sul suo collo, sulle sue spalle, come a voler visitare meglio un territorio inesplorato e bellissimo.
Il biondo strinse forte gli occhi quando Brian baciò la ferita che aveva sulla spalla, ma non disse nulla. Deglutì, accarezzando i ricci del ragazzo, a corto di fiato. Sapeva che Brian non fosse lucido, sapeva che il giorno dopo avrebbe, probabilmente, dimenticato ogni cosa. Era come vivere un sogno e lui avrebbe voluto continuare a dormire. Avrebbe voluto poter sentire per giorni il sapore di Brian, avrebbe voluto essere più del suo semplice migliore amico e avrebbe voluto essere suo, avrebbe voluto restare su quelle gambe magre mentre lo baciava, avrebbe voluto che quei baci durassero per sempre.
Il riccio lo guardò. La bocca era semiaperta, gli occhi socchiusi, le guance rosse. Roger riusciva a sentire il battito del suo cuore. Il più grande lo baciò, afferrandogli la schiena quasi con violenza e facendolo stendere sul divanetto. Il biondo volle morire quando fu costretto a obiettare. – Brian, ci sono altre persone.
- Io non vedo nessun’altro oltre te.
 

 
Brian guardò la sua ragazza mentre lo baciava, senza chiudere gli occhi come lei faceva. Sentiva, quel giorno, che c’era qualcosa che non andava. Amava Elena, era consapevole di essere innamorato di lei per davvero, ma qualcosa non gli tornava. La baciò comunque, accarezzandole i capelli corti e scuri, sentendo quelle labbra ormai così familiari appoggiarsi dolcemente sulle sue.
Elena era delicata. Ed era dolce, fine, elegante. In tutto. Cantava, suonava il pianoforte e il basso. Si erano conosciuti in un pub, in cui lei stava suonando. Brian era stato colpito da lei, davvero tanto. L’aveva guardata, gli era piaciuta la sua timidezza e il modo in cui arrossiva prima di iniziare a suonare. E poi l’aveva sentita cantare ed era stato come ipnotizzato da quella voce così dolce e particolare. Era così bella. Gli occhi grandi e scuri, i capelli legati e la frangetta castana che le copriva le sopracciglia, il naso dritto e il corpo armonioso ed elegante. Roger si era accorto subito di come la guardava. – Ehi, Brian May è innamorato! – aveva detto a Tim il biondo, masticando a bocca aperta.
Eppure, sebbene Elena fosse ancora così com’era, lui non riusciva a sentire nulla. Non una scossa, un brivido, un’emozione più forte di un’altra. Ed Elena pareva essersene accorta. Oltre a essere bella e particolare, era anche incredibilmente sveglia e intelligente. Come Brian, dopotutto.
Continuò a baciarlo, e quando fu sul punto di togliergli la maglietta, Brian iniziò a balbettare. – No, ferma, ferma.
Elena sospirò. – Che hai, Bri?
- El, io… Io non sto bene.
- Brian, non è vero. C’è qualcosa che devi dirmi, giusto? – gli disse la ragazza, sedendosi e incrociando le braccia, guardandolo come solo lei sapeva fare. Stavano insieme da un anno e ormai lei lo conosceva fin troppo bene. Elena sapeva scrutargli dentro come se fosse un libro aperto. Brian a volte detestava questa sua empatia, perché riusciva sempre a capire tutto di lui e dei suoi sentimenti. Il riccio abbassò gli occhi e la ragazza gli accarezzò i capelli. – Puoi parlare con me, Bri. Lo sai.
Il ragazzo sospirò, attirandola a sé e stringendola forte. Elena chiuse gli occhi. – Brian.
- El, io… Io non… - balbettò il riccio, accarezzandole i capelli castani. – Io non riesco a capire niente.
Elena si staccò dall’abbraccio, guardando il suo ragazzo e prendendogli la mano. – Ti amo, Brian. Ti amo tanto. E proprio per questo so che le cose sono diverse da prima. Io per te non sono più ciò che sei tu per me, giusto?
Brian spalancò gli occhi, stringendo la mano della ragazza delicatamente, come se fosse qualcosa di troppo prezioso che lui non voleva perdere. – No, El, no! Certo che lo sei. Tu… Tu sei la cosa più importante della mia vita. Ho solo… - abbassò la testa. – Ho solo bisogno di chiarirmi le idee.
- Bri, ho notato tutto. Me ne sono accorta. Non vedo più amore nei tuoi occhi. Certo, vedo affetto, vedo gratitudine e rispetto, ma… Non vedo ciò che vedi tu nei miei. – disse Elena, accarezzandogli una guancia con la mano libera.
Brian sentì il cuore tremare e gli occhi diventare lucidi. – El, io…
- Ti amo, Brian. Più di tutto quanto. Ma non posso, io non posso continuare a tenere imprigionata una persona che non prova lo stesso.
 

 
Roger si svegliò di scatto, guardandosi intorno. Era di nuovo nel letto di Brian, non tornava a casa da tre giorni. Sospirò, passandosi una mano sul viso.  Era successo davvero?
Brian lo aveva seriamente baciato, o era solo una fantasia della sua stupida mente da puttana di seconda categoria? Corse in bagno, davanti allo specchio. E, no, non era una fantasia. Segni rossi e lividi erano stampati sulle sue clavicole e sul suo collo. Enormi. Scuri.
- Cazzo, cazzo, cazzo. – sussurrò, nel panico. Brian non doveva scoprirlo. Non doveva ricordarlo. Era ubriaco fradicio la sera prima e probabilmente aveva già dimenticato ogni cosa. O almeno, così Roger sperava. Ma il problema erano quei succhiotti. – Cazzo! – esclamò, cercando qualsiasi cosa per coprirli. E poi corse nella camera di Brian, illuminato. Prese da uno dei suoi cassetti una delle maglie del riccio, una di quelle con il collo a lupetto. Tolse il pigiama che gli aveva prestato Brian, infilandola.
Sembrava un coglione, con le maniche della maglia che gli scendevano giù per i polsi. Sbuffò. Almeno i succhiotti non si vedevano.
Quando andò in cucina, si sforzò di sembrare più naturale. – Buongiorno! – esclamò.
Brian era seduto davanti al tavolo con le mani sulle tempie e una smorfia di dolore in viso. – Ma che cazzo urli alle nove del mattino?
- Oh, Brian May attraversa i postumi della sbornia!
Il moro alzò la testa per fulminarlo con lo sguardo, e ciò che vide gli fece emettere un sospiro esasperato. – Roger togliti la mia maglia.
- Non ne ho altre. Non mi va di restare con la stessa che ho usato per tre giorni, sai com’è.
Brian sospirò, continuando a battere con il piede sul pavimento. – Soffrire d’insonnia fa schifo. Avrei voluto dormire di più almeno per smaltire un po’ la mia…
- La sbornia.
Il ragazzo sospirò. – Sì, la mia sbornia, okay?
Roger rise. Perfetto. Non ricordava nulla.
- Rog, ti prego, ho bisogno di una tisana.
Il biondo sospirò. – Eccolo, è tornato il dottor Palloso May. Sono felice come una Pasqua.
- Ieri sera ho fatto qualcosa di imbarazzante?
“Oh, no. Hai fatto altro. Ben altro.”
- Nah, giusto un po’ di parolacce contro il governo. – inventò Roger, quando avrebbe voluto dire tutt’altro che quello.
- Parolacce… Contro il governo?
- Eh.
- Cristo, ti prego non mettermi mai più in mano nemmeno un bicchiere di birra.
Il biondo scoppiò a ridere. – Sì, credici. Mi sono divertito troppo ieri.
- Puttana.
- Oh, ma che è?
- Troia di merda.
- Ho bisogno di parlare con tua madre.
- Vaffanculo. – sbuffò Brian, incrociando le braccia. Roger sorrise. Gli dispiaceva, un po’, che Brian non ricordasse. Certo, si stava evitando problemi su problemi, ma avrebbe voluto parlargliele. O, ancora meglio, avrebbe voluto tornare indietro. Avrebbe voluto baciarlo ancora e ancora. Ma non avrebbe mai potuto. Si avviò ai fornelli, iniziando a preparare la tisana al ragazzo. Il ricco aggrottò la fronte. – Da quando sei così gentile?
- Da quando mi hai, tipo, salvato la vita?
Brian annuì. – Penso sia giusto.
E fu mentre Roger preparava la tisana calda, che il moro disse una cosa che gli fece venire voglia di chiudersi in una bara e non uscirne più. Il ragazzo si strofinò la fronte con le dita, girandosi verso il biondo. – Taylor.
- Mh? – disse Roger distrattamente.
- Non so quanto io potrò sembrare rincoglionito quando ti chiederò ciò che sto per dire, perciò sei autorizzato a tirarmi una sberla nel caso in cui io dica una cazzata, ma devi essere più onesto possibile.
“Cazzo.”
- Ma io e te, per caso, ieri sera ci siamo baciati?

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Capitolo 7
*** Because you don't know what it means to me. ***


Capitolo 7 - Because you don't know what it means to me
 
La frequenza cardiaca di Roger era paragonabile a un criceto impazzito su una ruota. Quella domanda lo aveva fatto rincoglionire e confondere, e se non fosse stato appoggiato sarebbe probabilmente crollato a terra. Spalancò gli occhi e tutto ciò che sentì fu il panico che gli arpionò lo stomaco stringendolo talmente forte da fargli venire da vomitare. Brian non poteva averlo scoperto. Brian non poteva ricordarsi di quella cazzo di serata, di quel cazzo di bacio. Avrebbe rovinato tutto, non si sarebbero più guardati nemmeno in faccia e addio Brian, in tutti i sensi.
Il riccio lo fissava, in attesa.
“Se mi guardi con quei cazzo di occhi impazienti di merda, mi spieghi come posso ragionare decentemente?” pensò Roger, prima di mollare il pentolino in cui stava preparando la tisana, scappando più veloce che poteva dalla cucina e chiudendosi in bagno.
- Rog! – sentì urlare dalla cucina. Girò la chiave, appoggiandosi contro la porta con gli occhi spalancati, il cuore a mille e il respiro veloce.
“Cazzo, cazzo, cazzo.”
- Roger, apri! – esclamò Brian una volta davanti alla porta, bussando.
“Sono nella merda. Sono letteralmente in un mare di merda e ci sto anche annegando.”
- Rog, per favore!
Oh, no. Non avrebbe mai aperto, nemmeno sotto tortura. Vedere quegli occhi scuri che lo avrebbero fissato, guardandogli dentro l’anima e soffocandolo con l’impazienza gli avrebbe, come minimo, fatto venire un attacco di panico bello e buono.
“E ora che cazzo faccio?”
- Roger! Voglio solo parlare, davvero!
“Certo. Mi parlerai del fatto che sono un inutile finocchio, mi caccerai di casa e troverai un batterista migliore di me.”
Brian continuò a bussare. Roger non rispondeva e iniziò a diventare leggermente ansioso. Forse non avrebbe dovuto forzarlo, non avrebbe dovuto fargli quella domanda e lasciarlo in pace. Aveva avuto la sensazione di aver vissuto quel momento, aveva ricordato il sapore delle labbra di Roger, per un attimo. Ma non riusciva a capire. La sera prima era ubriaco, da schifo, e per quello avrebbe avuto voglia di prendersi a schiaffi da solo, soprattutto per l’incoerenza che aveva dimostrato di avere, dopo aver fatto ramanzine su ramanzine all’amico per poi fare peggio di lui. Però non credeva di starsi sbagliando. Era impossibile.
La sensazione che ricordava era vivida, nonostante sfocata. E l’unica persona a cui avrebbe potuto chiedere una conferma, era il ragazzo che in quel momento era chiuso in bagno. – Rog, ti prego. Mi stai facendo preoccupare.
Il biondo aprì la porta, lentamente. Brian vide quegli occhi azzurri spalancati e lo guardò balbettare. – No! – sbottò il ragazzo, spingendo via il riccio e allontanandosi, prima che lui lo prendesse per il polso, guardandolo e cercando di essere più rassicurante e tranquillo possibile. – Roger. Sai che comportandoti così mi fai capire l’esatto contrario?
Brian vide il petto del ragazzo iniziare ad alzarsi e abbassarsi velocemente e riuscì a sentire il suo cuore dal polso. Batteva talmente forte che sembrava poter esplodere.
“Ma io e te, per caso, ieri sera ci siamo baciati?”
Il biondo ricordò ciò che l’amico gli aveva chiesto. Iniziò a scuotere la testa, velocemente, scansando Brian e alzandosi. – No, no, no, no.
- Roger calmati.
Il ragazzo si avviò verso il soggiorno, sedendosi sul divano e prendendosi la testa tra le mani, cercando di calmarsi e scuotendo il capo, battendo il piede per terra rapidamente. Vide il riccio entrare, guardandolo. Fissandolo.
- Lasciami stare. – disse, tremando, ricordando quel bacio. Quei baci, le carezze, le parole.
“Non vedo nessun’altro oltre te”
- Voglio solo parlarti. Non puoi scappare sempre dai problemi, Roger. Ho bisogno di chiarirmi le idee, solo questo. Per favore, Rog. – mormorò il moro, sedendosi accanto al ragazzo e guardandolo, mentre si allontanava. Gli appoggiò una mano sulla spalla. – Ho bisogno solo di parlarti.
- No, no, no, no! – sbottò Roger. – No, Brian! Non posso, non possiamo parlarne. Lo capisci o no?
- Rog, è solo una domanda. Ho solo bisogno che tu mi risponda.
- Sì, Brian! Sì. Ci siamo baciati, ieri sera. Adesso cacciami, urlami in testa che sono un finocchio e che…
Roger sentì un dolore bruciante alla guancia, di colpo. Guardò l’amico a occhi spalancati, vedendo che aveva una mano sollevata.  – Ma sei coglione? Perché cazzo mi prendi a botte?
- Non dire mai più una cosa del genere. Non azzardarti a… - vide Brian stringere i pugni, respirando profondamente. – Credi davvero che io sia come tutti gli altri? Che io possa cacciarti per… Questo?
- Sì.
- Roger, cazzo. – esclamò. – Sono il tuo migliore amico. Non mi hai fatto schifo quando mi sei arrivato a casa ubriaco, e dovrei cacciarti per un… Per un bacio?
- Tu sei etero, Brian.
- No, Roger, no! Come cazzo fai a essere così stupido da non averlo capito? – Brian non ce la fece più. Si sentiva impazzire. Prima di tutto per come si era auto demolito Roger, in secondo piano perché era un anno, ormai, che lui era consapevole della sua omosessualità, e non ce la faceva più a tenersela dentro. Soprattutto davanti al suo stupido, lento migliore amico. – Secondo te io ed Elena ci siamo davvero lasciati perché lei era innamorata di un’altra persona? Dopo tutto quello che avevamo passato insieme? No, Rog. Ed era ovvio. E tu non solo non lo hai mai capito, ma stai anche pensando che io sia uno stronzo.
Roger sentì il cuore sprofondare. Non ci arrivò subito, evidentemente perché troppo incredulo per crederci. Ne fu colpito e, in qualche modo, sollevato. Ma non riuscì bene a realizzare. – Sei… Gay?
- Cristo, sì! – urlò Brian, mettendosi le mani tra i capelli. – Sì, Roger. E non avrei voluto dirtelo così, ma… A questo punto, non ho trovato alternative.
 

 
- Tu… Tu ed Elena cosa? – chiese Roger, strabuzzando gli occhi mentre mangiava. Gli pareva che fino al giorno prima i due stessero benissimo insieme. Ogni giorno, dopo aver provato, Brian portava Elena a casa, la quale era stata per tutto il tempo a guardarli suonare, sorridendo di tanto in tanto mentre guardava, con gli occhi che brillavano, il suo ragazzo. Gli sembrava impossibile che fosse potuto capitare.
Eppure Brian sospirò, annuendo e mescolando il suo thè con il cucchiaino. Effettivamente non aveva una bella cera, non doveva aver dormito, quella notte.
- Perché cazzo fino a ieri scopavate come conigli e ora vi siete lasciati? Elena era perfetta per te!
- Rog, credo di essere… - si fermò in tempo. No. Non poteva e non voleva dirglielo. Sapeva che a Roger piacessero i ragazzi, perciò non aveva paura che lui fosse omofobo. Semplicemente non poteva saperlo, non subito, almeno. Anche perché, sebbene Brian ci stesse pensando da mesi ormai, non era sicuro al cento per cento di essere omosessuale. Respirò profondamente mentre gli occhioni blu di Roger lo fissavano impazienti. – Credi di essere?
- No, è che… Non dipende da me, io… Lei…
- Mhmh?
-  Roger, non mi guardare in quel modo. Mi metti ansia e mi fai venir voglia di uccidermi.
- Sono solo quel genere di persona che non riesce a restare paziente mentre fa le file senza sclerare, fai un po’ di conti.
- Io… Semplicemente ad Elena piace un’altra persona. Tutto qui. – mentì il ragazzo, assaggiando il thè cercando di restare calmo e tranquillo. Roger aggrottò la fronte. – Ma che razza di problemi ha quella stronza?
- Roger le parole.
- Oh, no. Le parole un cazzo! Come… Come diavolo si fa a lasciare Brian Harold May per un’altra persona? si devono avere davvero tanti problemi in testa! – sbottò il biondino, saltando in piedi. Brian sorrise, guardando il ragazzo mentre si agitava in quel modo.
- Rog, dai. – disse Brian ridendo leggermente. – Non sono perfetto. Voglio solo che lei sia felice. – si sentì una merda per le bugie che stava raccontando.
- Sì che sei perfetto, brutto cretino. Sei intelligente, gentile, paziente e dolce. Tiri sempre su il morale a chiunque, e se lei ti ha lasciato allora vuol dire che non ha capito assolutamente nulla.
Il cuore di Brian si sciolse. Sorrise, prendendo un altro sorso dalla tazzina. – Grazie, Rog.
- Io vado a parlarle.
- No! – esclamò il riccio. – Non fare stronzate, sto bene.
- Ma se è scema dovrò pur…
- Roger, davvero. – lo tranquillizzò l’amico. – Grazie, sul serio. Ti voglio bene, ma me la cavo.
- Seh, certo.
- Non sottovalutarmi.
- Tu non rompere. Vado a parlarci.
- Finiscila.
Roger alzò gli occhi al cielo. – Certo che non hai un minimo d’orgoglio in quella testa di merda!
Il chitarrista sorrise. – Tu invece ne hai troppo.
- Certo, sono Roger Meddows Taylor. E comunque, ti voglio bene anch’io.
 

 
Ci fu un momento di silenzio, in cui Roger stava cercando di realizzare ciò che il più grande gli aveva appena detto. Abbassò gli occhi e la testa, pensando per un momento a tutte le volte in cui Brian aveva guardato un ragazzo arrossendo, o a tutte le volte in cui, ogni volta che lui ed Elena si vedevano, lei sembrasse ancora perdutamente innamorata del riccio. E iniziò a capire, almeno di un minimo. – Sei gay.
- Sì.
- Ma gay gay, o gay circa?
- Cristo.
- Rispondimi.
- Mi piace il cazzo, Roger.
- Ora mi è chiaro.
- Sono stato io a baciarti? – chiese Brian, una volta calmo. Il batterista si grattò la tempia, deglutendo e guardando il ragazzo. Per un momento ebbe una speranza. Magari Brian ricambiava davvero. Magari lo avrebbe baciato ancora, non lo aveva fatto solo per l’ubriachezza della sera prima. Forse provava qualcosa davvero. – Sì.
Il chitarrista respirò profondamente. Roger non gli piaceva. O almeno, sì, gli voleva un bene infinito, lo ammirava tantissimo ed era il migliore amico che aveva. Non avrebbe mai voluto perderlo, ma non era attratto da lui… In quel senso. Non provava nessun sentimento diverso dall’amicizia nei suoi confronti, e non capiva che cazzo gli avesse combinato l’alcool per farglielo baciare. Sospirò. E si sentì domandare ciò che non avrebbe voluto sentire.
- Io ti piaccio davvero? – gli chiese il biondo, tremante.
- Be’, no.
Roger sentì il cuore dolere.
Brian provò confusione quando vide gli occhi del batterista abbassarsi. Si aspettava una battuta stronza, uno sfottò o un “Cazzo, amico, allora eri proprio ubriaco marcio!”. E invece, non disse niente. Rimase zitto. Gli occhi blu incollati al pavimento e un’espressione delusa in volto.
“Ecco, Roger. Ecco che cazzo succede quando ti fai illusioni inutili, quando pensi che per una volta qualcuno possa amarti. Brian è troppo per te. Avresti dovuto capirlo.”
Il ragazzo deglutì, mentre la delusione invadeva il suo corpo. Amarezza, tristezza e disillusione. Strinse i pugni, non riuscendo, nemmeno per un momento, a guardare Brian. Aveva rovinato tutto. Avrebbe voluto prendere a pugni qualcuno, sfasciare una casa, urlare.
Brian fu scosso da quel silenzio. Mise una mano sulla spalla di Roger, che la respinse tirando indietro la schiena. – Rog, io…
- Lascia perdere. Non ne vale la pena.
- Io ti piaccio, Roger?
- Ho detto: lascia stare.
- Ho bisogno di capire.
- Non riesci ad arrivarci? Non riesci proprio a capire che stiamo rovinando tutto, Brian?
- Non stiamo rovinando un cazzo. Stai facendo tutto tu.
- Sì, esatto! Sono sempre io. E’ sempre mia, la colpa. Ti ubriachi come un coglione e mi ficchi la lingua in gola? E’ colpa di Roger. Iniziamo ad allontanarci per colpa di un bacio del cazzo? E’ colpa di Roger. E’ sempre, fottutamente colpa di Roger.
- Roger, non ci stiamo allontanando affatto!
- Sì, invece. Se ne vanno tutti. Robert se ne è andato, Tim se ne è andato. Te ne andrai anche tu.
Brian lo prese per le spalle, fissandolo con gli occhi scuri decisi. – Io non sono tutti, Roger. Non sono uno stronzo. Ti voglio bene, te lo ripeterò all’infinito. Sei l’ultima cosa che voglio perdere. E Dio solo sa quanto cazzo io mi senta in colpa, ora, per essere stato così brusco. Solo che… Ho bisogno di capire se…
- Non credo tu abbia bisogno di chiedere la mia conferma.
- Ce l’ho, invece.
Roger chiuse gli occhi. Prese un profondo respiro. Si fidava di Brian. Sapeva che fosse diverso. Sapeva che non lo avrebbe lasciato da solo, ma aveva ugualmente paura. Paura di rovinare tutto, paura dell’imbarazzo che si sarebbe creato, paura del cambiamento, della novità. Però sapeva che Brian avesse già capito tutto. Era troppo sveglio, troppo intelligente per non capire.
- Sì. Mi piaci.
Brian si sentì così confuso da aver mal di testa. Fino a tre giorni prima, il biondo stava soffrendo per Tim. E, per carità, era più che felice del fatto che lui si fosse già ripreso, ma gli sembrò strano. Sapeva che Roger scaricasse tutta la rabbia insieme e poi si riprendesse dopo poco, di solito, ma… Erano più di due anni che Roger gli aveva confidato di provare qualcosa per Tim.
- Tu… Lo hai già dimenticato?
- Dimenticato chi?
- Tim.
Roger respirò profondamente. – No. Non potrei. Ma evidentemente ho capito che sono altre le cose per cui vale la pena restare. Solo che quelle cose, forse, non fanno proprio per me.
 Si sentì in colpa da voler sprofondare. Roger stava già di merda da giorni. E quello era l’ennesimo colpo. Da parte sua, che aveva promesso di proteggerlo sempre, di non farlo mai soffrire e di farlo sentire ogni giorno a suo agio, finché avesse potuto. E riuscì solo ad abbracciarlo, stringendolo forte a sé per assorbire il dolore che gli leggeva negli occhi. Era colpa sua, che per colpa dell’alcool lo aveva baciato, facendolo illudere e facendolo stare ancora peggio. Avrebbe voluto solo farlo stare bene, e in quel momento la cosa che lo faceva soffrire era proprio lui. – Scusami.
Roger non ricambiò l’abbraccio. Restò immobile. – Non hai niente di cui scusarti. Non è colpa tua. – si divincolò dalle braccia del ragazzo, stringendo i denti con un groppo in gola. Si alzò dal divano, avviandosi verso la porta.
- Roger, resta qui.
- Ho bisogno di stare da solo.
- No, io non ti lascio da solo. Te lo scordi. Non dopo quello che…
- Ti prego, Brian. Lasciami in pace. Non sono un bambino. Avrò anche fatto una cazzata, l’altra sera, ma ho capito. E so badare a me stesso. Quindi, per favore, lasciami solo.
 

 
Roger aveva sempre odiato la solitudine. Fin da quando era piccolo, stare solo lo aveva sempre messo a disagio. C’era silenzio, interrotto solo dai suoi respiri e, di tanto in tanto, da qualche rumore esterno. Roger aveva sempre avuto bisogno di suoni, di musica, voci, chiasso, risate.
L’unico momento in cui gli piaceva stare da solo, era quando suonava la batteria. Le sue percussioni erano come tesori inestimabili, per lui. Erano soltanto sue e nessuno, a parte lui, avrebbe dovuto toccarle. Ci sfogava tutto, su quei tamburi e su quei piatti. Rabbia, gioia, tristezza, frustrazione.
Clare gli aveva sempre detto che quando suonava la batteria era un fenomeno. Sembrava che, in diciotto anni di vita, avesse fatto solamente quello e la passione che ci metteva era davvero ammirevole. E lui ne era più che consapevole.
Suonava in una band chiamata “The Reaction”, ma lui stesso pensava che, per il suo livello, avrebbe dovuto aspirare a qualcosa di più alto. Per quello stava cercando qualcosa di più.
In quel momento era seduto sullo sgabello della sua batteria, con una sigaretta accesa in bocca e la concentrazione altissima. Muoveva abilmente le mani sulle percussioni padroneggiando le bacchette, suonando battiti puliti e ordinati, ma forti e decisi.
E proprio mentre si concentrava, udì la porta aprirsi e vide una figura familiare entrare. Sbuffò, lasciando le bacchette e guardando il cugino. – Che vuoi?
- Non sa quanto mi duole interromperla, mr. Roger Meddows Taylor, però qualcuno qui ha una proposta per lei. – rispose il ragazzo, andando vicino a lui e facendolo alzare dallo sgabello, curioso.
- Un certo Brian May, chitarrista in una band chiamata “Smile”, cerca un batterista alla Mitch Mitchell. Questo è il suo numero. Secondo me potrebbe incuriosirti.  – gli spiegò, porgendogli una locandina spiegazzata. Roger strinse le labbra, aprendo il foglio e leggendo lentamente tutto ciò che c’era scritto con attenzione.
- Allora? – fece il cugino. Lui alzò un dito, come a fargli segno di aspettare.
Poi prese il suo taccuino e una penna, appuntandosi il numero e il nome del ragazzo che aveva creato l’annuncio. Brian Harold May cercava un abile batterista.
E se non era abile lui, a suonare la batteria, chi altro lo sarebbe stato?
- Deciso? – gli chiese il cugino. Lui sbuffò. – Momento, cacchio. Aspetta due secondi. Che è ‘sta fretta?
- Oh, giusto, la damigella ha bisogno dei suoi tempi.
- Coglione.
- Posso sapere la tua decisione finale?
- Vado a fare una chiamata. – disse Roger, uscendo dalla stanza con il taccuino in mano.
 

 
Brian non sapeva che fare. Roger era nella sua camera, in quel momento. Erano entrambi da soli, soli e feriti. Sospirò. Non avrebbe mai e poi mai immaginato una reazione simile da parte del suo migliore amico, appunto perché lo aveva sempre ritenuto tale e era assurdo che potesse piacergli. Da un momento all’altro, dopo che era stato malissimo per Tim, soprattutto.
Certo, lui adorava Roger. Era la sua spalla, la persona che lui sapeva che lo avrebbe difeso fino in capo al mondo, era forte e divertente, energico, estroverso, anche gentile, a volte.
E non si poteva certo dire che lui non fosse un bel ragazzo, coi lunghi capelli biondi e gli occhi blu e grandi, il sorriso perfetto e il corpo, seppur abbastanza minuto, armonioso. Nel complesso era una gran bella persona, dentro e fuori, nonostante facesse un po’ di cazzate.
Però. Però Brian non aveva mai provato niente se non una forte amicizia nei suoi confronti. Sospirò ancora, massaggiandosi delicatamente le tempie. Lo aveva comunque baciato. Sì, certo, era ubriaco, non era lucido e probabilmente era abbastanza rincoglionito, ma lo aveva baciato. Tra tutte le persone che c’erano a quella festa, doveva andare a prendere proprio lui?
Si sentiva in colpa e si sentiva confuso, di nuovo. Per la seconda volta nella sua vita aveva spezzato il cuore di qualcuno per colpa del casino che regnava nei suoi pensieri confusi, e quella era la cosa che lo faceva stare peggio, perché una delle caratteristiche che lo contraddistinguevano era l’empatia. Sentiva sempre addosso il dolore degli altri, e finiva per star malissimo anche lui, soprattutto quando il dolore, agli altri, era stato lui a causarlo.
Era anche vero che non poteva imporsi di provare qualcosa che, a conti fatti, nemmeno gli passava per la testa. Sospirò, afferrando il suo libro di astrofisica, cercando di studiare qualcosa. Non aveva avuto il tempo per farlo, in quei quattro giorni, e aveva bisogno di ripetere un po’ prima della pausa natalizia.
Il vero problema era che, ogni volta che cercava di concentrarsi, gli veniva in mente sempre la stessa cosa e i suoi pensieri spaziavano dal “Ma che cazzo ho fatto?” al “Sono uno stronzo” al “Vado a flagellarmi, che forse è meglio”. Insomma, cose un po’ tutte diverse che nulla avevano a che fare tra di loro.
E poi non ce la fece più. Chiuse il libro, alzandosi in piedi e camminando fino alla sua camera da letto, dove Roger era da solo. Probabilmente gli avrebbe chiuso la porta in faccia, o gli avrebbe lanciato qualcosa di parecchio pesante sulla testa.
E invece, quando bussò, non sentì risposta. Aggrottò la fronte. Bussò di nuovo. – Rog?
Niente. E allora girò la maniglia, aprendo piano la porta leggermente preoccupato e guardando nella stanza. Era buia, ma lui riuscì a distinguere una figura minuta sdraiata sotto le coperte, e sospirò di sollievo. Cercando di non fare troppo rumore, si avvicinò al letto, sedendosi a gambe incrociate alla sinistra di Roger, sospirando e fissando un punto imprecisato della stanza. Nel silenzio, riuscì a sentire il leggero russare del migliore amico, e sorrise. Ricordò di quando quel rumore, di notte, non gli permetteva di dormire, facendogli buttare tutte le parolacce che conosceva, e guardò il ragazzo.
Le coperte erano cadute a terra e lui era disteso con un braccio penzolante dal letto e l’altro dietro al cuscino, le labbra erano schiuse e le palpebre abbassate a coprire gli occhi chiari. Brian sorrise. Gli si avvicinò, toccandogli il naso con il dito e iniziando a stuzzicarlo, facendo starnutire Roger. Rise leggermente. Niente poteva svegliare il sonno del ragazzo. Però, quando iniziò a giocare coi ciuffi biondi come un bambino, il suo pensiero fu smentito.
- Ma che cazzo di problemi hai… - sbuffò Roger, gli occhi ancora chiusi e la voce impastata. Il chitarrista rise. – Non è ora di dormire.
- Lasciami in pace e vai a masturbarti da un’altra parte.
- Volevo solo parlarti.
Gli occhi si Roger si schiusero, e poi lui si fece sfuggire un sospiro. – Non ne abbiamo bisogno.
- Ho bisogno di chiederti scusa.
- Per l’ennesima volta, non è colpa tua. Ora vattene e lasciami dormire.
- Lo sai che Brian May non è tipo da farsi convincere di un’idea diversa dalla sua, no?
Il più piccolo sbuffò. – Ma vai a cagare.
- Nah.
- Brian, conto fino a tre.
- Va bene.
- Uno…
Brian sorrise. Il biondo aggrottò la fronte. – Due… Ma che cazzo ridi?
E poi non riuscì più a contare, perché le dita di Brian si erano infilate in mezzo al suo collo e sui suoi fianchi, danzando troppo velocemente per fargli trattenere le risate. – May… May basta – ansimò, tra una risata e l’altra, muovendosi nel letto spasmodicamente, mentre Brian continuava a ridere, solleticandogli il corpo.
- Brian Harold… - ci fu una risata più alta delle altre. – May… Oh, e hai rotto il cazzo!
Il riccio sorrise, lasciandolo libero e facendogli riprendere fiato, mentre si tirava su. – Brutto coglione.
- Sei ancora arrabbiato?
- Ma chi cazzo ha mai detto di esserlo? Non sono te.
Il più grande lo guardò, mentre il biondo aveva lo sguardo rivolto alla porta. Sospirò. – Come stai?
- Una pasqua.
- Roger.
- Brian, come dovrei stare? Mi innamoro sempre di chi non ricambia i miei sentimenti. Mi faccio false illusioni e ogni volta che queste illusioni se ne vanno a fare in culo, mi sento un coglione. Ma non fa niente. Me la cavo, come sempre. In vent’anni ho affrontato tanta merda e mi sono sempre rialzato da solo. Non è per un rifiuto che mi butto giù. – disse il biondo, prendendo una sigaretta dal comodino e tirando fuori dalla tasca l’accendino.
- Non in casa mia. E sai che odio quando fumi.
- Sì, sì. – annuì Roger, accendendo ugualmente la sigaretta e portandosela alle labbra, prendendo la prima boccata di fumo e tenendolo in bocca per un po’, prima di soffiarlo via.
- Ti fa male.
- Non sei mia madre.
- Ma sono il tuo migliore amico.
Roger sentì il cuore creparsi. “Sono il tuo migliore amico.” certo. Che si aspettava? Che Brian, dal nulla, gli rivelasse di amarlo? E se lo scopasse pure? Chiuse gli occhi e aspirò il fumo. – Tu sei gay.
- Sì.
- Perché non me lo hai detto prima? Perché cazzo me lo hai tenuto nascosto per un fottuto anno, se dici che sono il tuo migliore amico?
Brian sospirò, abbassando gli occhi. – Io non… Io non lo so.
- Te l’ho detto subito. Sei stato la prima persona a sapere che mi piaceva Tim. E nonostante questo, non mi hai mai detto nulla fino ad ora. Bel migliore amico di merda.
Il riccio aggrottò la fronte. – Rog, io capisco che tu sia arrabbiato, ma…
Il biondo tirò un’altra boccata, facendo tossire leggermente l’amico. – Non so se fidarmi di te.
- Roger, ma che cazzo ti prende? Cosa pretendi? Che tutto ti sia fottutamente dovuto? – sbottò Brian, facendogli stringere le labbra. – Ho bisogno dei miei tempi. Non sono come te. Sono una persona riservata, che ci mette tanto ad aprirsi. E tu dovresti saperlo.
- Mi hai mentito su Elena. Me l’hai fatta avere con lei per un cazzo di anno per averti ferito. E invece sei stato tu, a ferirla. Sei un bugiardo egoista.
- Ascoltami. – digrignò i denti Brian, avvicinandosi e togliendogli la sigaretta dalla bocca, buttandola via e guardandolo negli occhi, prendendogli i polsi sottili tra le mani. – Potrò anche essere un bugiardo egoista. Ma tu non…
- Lasciami. Immediatamente.
Il più grande respirò profondamente, guardando il viso colmo di rabbia del ragazzo. Lasciò andare i polsi di Roger, che si alzò in piedi, dandogli le spalle. - Dobbiamo trovare il bassista.
- Lo… Lo so.
- Elena lo suonava. Sarebbe una buona occasione per baciarle i piedi implorandole di perdonarti per aver fatto lo stronzo e per aver fatto passare lei come tale.
- Elena non vorrà mai suonare con me.
- O forse sei tu che non hai le palle di suonare con lei. – e così uscì dalla stanza, con le mani nelle tasche, sbattendosi la porta alle spalle.  

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Capitolo 8
*** Love of my life ***


Capitolo 8 - Love of my life
 
1973.
 
- Basta, basta, questa cosa non mi convince per un cazzo. Fa schifo. – disse Freddie, ormai non più Bulsara, bensì Mercury, sbuffando e scuotendo la testa, aggiustandosi i capelli scuri. Roger strabuzzò gli occhi. – Mi prendi per il culo?
- Magari, tesoro. Magari stessi dicendo cazzate.
- Cristo! E tu me lo dici solo dopo che mi sono iniziate a sanguinare le corde vocali? – imprecò Roger, mettendosi le mani tra i capelli.
- Senti, innanzitutto non parlarmi con quel tono. E poi, non è colpa mia se oggi non hai voglia di cantare!
Erano ore, ore che cercavano di combinare qualcosa, e secondo lui ci stavano riuscendo anche bene. Il problema era che Freddie, quel giorno, era particolarmente insopportabile ed esigente, perciò, nonostante il povero Roger stesse cercando di fare quell’acuto in modo decente da più di due ore, il caro Freddie non ne era mai soddisfatto. E il biondo avrebbe voluto ucciderlo.
- Secondo me non è male, Fred. – li interruppe l’ultimo arrivato della band, sospirando e sedendosi accanto a Brian. John Deacon era l’unico davvero in grado di riportare la calma tra quei tre. Perché, sebbene Brian fosse un ragazzo tutto sommato calmo e che raramente perdeva le staffe, faceva anche lui discussioni. E certe volte metteva anche benzina nel fuoco.
Invece il bassista era tranquillo e posato, lo era sempre stato, dalla prima volta in cui, in discoteca, si erano conosciuti. Cosa che Freddie, Roger e Brian non erano assolutamente, quando si trattava di registrare e scrivere canzoni.
E la registrazione di “The March of the Black Queen” non era esattamente la più tranquilla che avessero cercato di fare.
- Cancelliamo tutto. – fece Freddie. – Tutto quanto!
- No, hai capito male, Bulsara.
- Prego? Come mi hai chiamato?
Roger respirò profondamente, alzando gli occhi al cielo. – Mercury. Senti, come cazzo ti pare. Bulsara, Mercury, se vuoi non ti chiamerò nemmeno per nome, ma io degli acuti del genere non te li faccio di nuovo.
- E va bene. Li farà Brian.
- Se May fa un acuto rischia di far venire un ictus a tutti e tre.
- Deacy?
- Sai che non so cantare. – disse il bassista, mentre Brian, al suo fianco, si massaggiava le tempie, al limite della pazienza. Freddie sbuffò, mentre Roger lo fissava con un sorrisetto sul viso.
- E va bene. Come vuoi tu. E non guardarmi in quel modo, mi fai sentire una puttana. Rifallo.
- Rifallo?!
- Vuoi diventare una Queen?
- No.
- Vabbè, vuoi diventare ricco e pieno di sesso?
Roger ci pensò un attimo. Poi alzò le spalle. – Sì.
- E allora fammi ‘sto cazzo di acuto e stai zitto.
Il biondo alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi al microfono e tenendo una mano sulle cuffie, chiudendo gli occhi e concentrandosi. Prese un respiro profondo, mentre la voce di Freddie sulla prima incisione veniva accompagnata dalla sua, che si alzava sulle punte per, secondo lui, avere un risultato migliore.
Freddie lo guardava, attento e con le braccia incrociate, mentre Brian aveva degli occhi del tutto diversi. Aveva sempre trovato il falsetto di Roger uno dei più puliti e orecchiabili che avesse mai sentito. Non gridava mai, gli veniva quasi naturale e Brian riconosceva il fatto che il ragazzo avesse delle capacità polmonari incredibili. Prendeva fiato di tanto in tanto, mai in modo brusco o esagerato, solo quando necessitava per forza di riprendere aria. Come se cantare, per lui, fosse un po’ come respirare.
Era così anche quando suonava la batteria.
Brian credeva davvero tanto in lui, così tanto che aveva sempre la costante paura di deluderlo. E lo aveva già deluso più di una volta, perché da quel giorno, sebbene fossero passati ben tre anni e mezzo, il loro rapporto non era più lo stesso, ed era la cosa peggiore che gli fosse capitata. Non voleva perdere Roger, ma aveva capito che il ragazzo proprio non ce la facesse. Non riusciva a far finta di niente, a fingere di voler continuare ad essere il suo “migliore amico”, quando in realtà ciò che provava era ben diverso e non ricambiato. Almeno fino a poco tempo prima.
Infatti, i sentimenti che Brian provava erano completamente differenti da quelli di pochi anni prima, anzi, non c’entravano assolutamente nulla.
E lui si era comportato da vero stronzo, quel giorno. Aveva forzato Roger a confessare una cosa di cui lui non era pronto a parlare e poi, dopo la sua confessione, aveva fatto finta di niente, dimostrando per l’ennesima volta di essere un codardo. Anche se il suo unico scopo era quello di far spaziare i pensieri di Roger, per tirargli su il morale, per non perderlo.
Non provava nulla per lui. Eppure, in quel lasso di tempo in cui erano successe davvero tante cose nella band e nelle loro vite, lui aveva capito di essere così confuso da non capirci nulla. Non provava niente, quando a ventidue anni guardava gli occhi di Roger o lo sentiva cantare, o lo vedeva suonare, o ridere. Gli voleva bene, un bene dell’anima, quello sì. Ma il Brian ventiseienne, quando vedeva Roger Taylor, iniziava a sentire i pensieri mischiarsi e contorcersi, confondersi nella sua testa, chiedergli che cosa stesse succedendo. E la maggior parte delle volte di dava del cretino, quando guardava i suoi capelli biondi e morbidi, gli occhi grandi e blu e i denti dritti e bianchi. Quando sentiva la sua voce, la sua risata, o quando lo vedeva arrabbiarsi per nessun apparente motivo, trovandolo adorabile.
E non era stato mica l’unico ad accorgersene.
John, un giorno, gli si era avvicinato e gli aveva messo una mano sulla spalla, guardandolo negli occhi con uno sguardo comprensivo e tranquillo. – Guarda che non si vede assolutamente che per te sia solo amicizia, nei suoi confronti. – gli aveva detto, quando in realtà nemmeno Brian si era chiarito le idee.
Un giorno in cui John e Roger erano andati a fare la spesa, invece, Freddie era entrato nella sua camera, a braccia incrociate e con lo sguardo di chi pensa di sapere tutto in volto. – Vedo che il culo di Roger ti piace da morire, Brian “Roger è il mio migliore amico e non me lo porterei a letto per nessun motivo al mondo” May.
 

 
- Che… No! Non… Non è vero. Che ti salta in mente? – gli rispose Brian, fissandolo a occhi strabuzzati, incredulo.
- E dai, pensi che io sia stupido? Dalla a bere a qualcuno che non sia Freddie Mercury, caro mio! Perché anche se non si nota, lui capisce qualsiasi cosa e sa tutto di tutti. – gli disse il cantante, sedendosi sul suo letto e rizzando la schiena. Brian deglutì. In effetti, Freddie non aveva tutti i torti. Freddie scrutava, osservava, percepiva e capiva. Captava sguardi e movimenti, ne dava un’interpretazione e, quasi sempre, azzeccava. Il problema era che il riccio non capiva. Non si poteva dire che Roger non gli facesse provare nulla come anni prima, ma lui ancora non ne era convinto. Aveva bisogno di chiarirsi le idee.
- Fred… E’ così evidente?
- Cosa, che io sia una cazzo di diva?
- No.
Il più basso sbatté gli occhi. – Ma come no?
- Intendo… Sai… - iniziò a gesticolare, per poi respirare profondamente. – Roger.
- Be’, gli guardi i glutei come io guardo Mary.
- Lascia stare, Fred. – sospirò Brian, alzandosi. Freddie si piantò davanti a lui, allargando le braccia e puntandogli un dito sul petto. – Adesso raccogli un po’ di palle e mi parli del tuo disagio.
- Se continui a parlarmi di chiappe non andiamo da nessuna parte!
- Era un esempio!
- Lo hai fatto per due volte.
- Siediti, caro.
Brian sospirò pesantemente, sedendosi sul letto e appoggiando il mento sul palmo della mano, seguito dal maggiore, che gli si sedette affianco e iniziò a fissarlo. Lo irritò non poco. – Freddie. Sei inquietante.
- Lui ti piace. Pure tanto. Vorresti scopartelo a sangue e non vuoi ammetterlo. Lo riconosco dal tuo sguardo, Brian “Non voglio avere problemi perché altrimenti la band va a puttane” May.
- Sai che facendo così non risolvi nulla e mi metti solo in imbarazzo, giusto?
- Se non ti stimolo non mi dici nulla.
- Stimolami in altri modi.
Freddie strinse le labbra. Poi distolse lo sguardo, guardando la parete. – Che faresti per Roger?
- Tutto.
- Tutto tutto?
- Sì, Fred.
- Tipo, che ne so, mangeresti un pezzo di carne per Roger?
Brian lo guardò male. – Spiegami che cazzo di domanda è questa.
- Rispondimi.
- No, non lo farei!
- Allora, la riformulo. – Freddie giunse le mani e se le portò al petto, puntandole poi verso il chitarrista. – Se a Roger facesse soffrire il fatto che non mangi quella fetta di carne, la mangeresti?
Brian aggrottò la fronte. – Tu…
- Me la dai una fottuta risposta o devo farti toccare i bicipiti di Roger e vedere il tuo pene che, piano piano, diventa la tour Eiffel?
Il viso del chitarrista divampò e i suoi occhi si spalancarono. – Ma sei scemo?
- No, sto solo perdendo la pazienza.
- E poi dove li vedi ‘sti bicipiti?
- Non è colpa mia se per te esiste solo il suo culo.
Il riccio pensò di impazzire. – Ti prego, lasciami da solo.
- No, finché non mi risponderai a quella domanda.
- Sì, lo farei. Mangerei un pezzo di carne per Roger. Che hai dedotto, mentalista?
- Seconda domanda! – sbottò Freddie, saltando in piedi con l’indice puntato in alto. A Brian venne voglia di infilzarsi la cornea con una forchetta. – Oh Dio, perché?
- Cosa provi, quando gli guardi il cu… - Brian gli lanciò un’occhiataccia. Freddie si corresse prima che il riccio gli lanciasse la chitarra sulla testa. – Cosa provi, quando lo guardi?
Brian fece un respiro profondo e ci rifletté per un secondo. Cosa provava, quando lo guardava? Certamente si sentiva in modo diverso rispetto a quando guardava Freddie o John. Però aveva sempre pensato che fosse semplicemente perché gli mancasse il loro rapporto, che volesse tornare ad essere il suo migliore amico, non un semplice chitarrista nella sua stessa band. Se avesse davvero voluto quello, però, non avrebbe avuto senso il fatto che quando lo vedeva sorridere, o lo sentiva ridere, avvertisse un nodo alla gola che non si sapeva spiegare.
Quando guardava i suoi occhi si sentiva soffocare.
 Deglutì. – Non… Non provo niente.
- E dai, non le dire le stronzate. Almeno non quando arrossisci.
- Non sono arrossito.
- Di solito ‘sta tecnica con Deacy funziona, perché con te no?
- Perché Deacy ha ventidue anni e io ventisei, Freddie.
- O forse è solo ritardato. Allora, senti un groppo in gola? Mal di stomaco, tachicardia?
- Be’, mica deve venirmi un infarto. Però sento sempre il cuore battere così veloce... – riuscì ad aprirsi un po’ di più. Freddie lo metteva a suo agio, sebbene lo imbarazzasse leggermente.
L’altro ragazzo annuì e si alzò, iniziando a camminare per la camera. – Brian, a volte ripensi all’evento di tre anni fa?
Il riccio respirò profondamente. – I-io… Tutti i giorni. – ammise.
- Hai rimorsi?
- Com’è ovvio che sia.
- Ma i rimorsi li hai perché lo hai ferito, o perché ti sei pentito di aver detto di non ricambiare, quando in realtà te lo tromberesti come se non ci fosse un doma…
- Freddie.
- Scusa.
- Io… - il chitarrista deglutì. – Io penso che un po’ mi sia pentito.
- E da cosa lo capisci?
- Dal fatto che… Che mi manca, credo? – Brian si morse un labbro. – Io… Ogni volta che lui non c’è, sento un vuoto nel petto che non so descrivere, Freddie. Ho sempre bisogno di sentirlo vicino. E il fatto che lui ora mi respinga mi rende davvero triste. E ogni volta che lo vedo con qualcun altro, o commenta l’aspetto di qualche ragazzo per strada… Io provo…
- Rabbia?
- No.
- Ti rode talmente tanto l’ano che vorresti buttarti in un fiume?
- No, solo che… - fece una pausa. – Mi sento così stupido per averlo lasciato andare.
 

 
- Sei stato perfetto! Ora però vorrei che tu mi spiegassi perché prima ti fosse venuto quello schifo. – fece Freddie, una volta che Roger ebbe finito. Il biondo aggrottò la fronte e sollevò una cuffia. – Eh? – urlò.
I ragazzi nello studio strinsero gli occhi per l’urlo improvviso del ragazzo, che da lì si sentiva amplificato. John si girò verso Brian. – Non ha fatto questo casino mentre cantava, e lo deve fare adesso?
Freddie ripeté: – Farai bagnare milioni di ragazzine!
Roger strabuzzò gli occhi quando, per la seconda volta, non capì cosa Freddie avesse detto. – Cosa?
John fece un sospiro esasperato e Brian iniziò a battere ripetutamente la testa contro al bracciolo del divano. Freddie alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, facendogli segno di uscire dalla cabina di registrazione.
Il biondo aprì la porta e uscì, togliendo le cuffie e appoggiandole sul tavolo. – Come sono andato?
Il cantante gli si avvicinò, accostando le labbra al suo orecchio. – Benissimo! – strillò, facendolo sobbalzare e fare un passo indietro, con una mano a coprire il povero orecchio. – Ma sei scemo?
- Ora sai cosa si prova.
- A fare che?
- Lascia perdere. – sbuffò John, facendo sorridere Brian. Il biondo stiracchiò le braccia, respirando profondamente. – Ho la gola che implora pietà.
- Ma per favore, per un “Aaaah”. Sai che grande impegno che ci vuole. – disse Freddie, girando gli occhi nelle orbite.
- Se non ci fossero bambini, qui, ti strozzerei.
- Non ci sono bambini. – Fece Brian.
- No? E John che cos’è, un uomo maturo?
- Alla veneranda età di ventiquattro anni sei un vecchio saggio, eh, Taylor? -  rispose il bassista alla provocazione. Roger si limitò a sorridere compiaciuto.
Freddie batté le mani – Be’, bambini. Per me è il momento di lavare i piatti, perché col cazzo che Roger rispetta i turni in cucina!
Roger sollevò il dito medio.
- Acido. – fece Freddie, facendogli la linguaccia e uscendo, avviandosi verso la cucina. John prese il basso dal divanetto, mettendoselo in spalla e schiarendosi leggermente la gola, guardando i due ragazzi. – Vado a dargli una mano. Chissà che casino ci sarà, in quella stanza. Noi ci vediamo a cena, se Freddie non fa esplodere la cucina prima.
- Ciao, Deacy. – gli rispose Brian, mentre Roger lo salutava alzando il palmo.
Il riccio si rese conto che lui e il batterista, in quel momento, erano soli. Dopo mesi. Deglutì, e si accorse che anche Roger stesso lo aveva notato. Infatti lo vide alzarsi, con le mani in tasca. – Io vado a fumarmi una sigaretta.
Non poteva. Non poteva assolutamente farsi scappare quel momento. Lo prese per un braccio, guardandolo. – Aspetta. Resta qui.
Roger lo guardò. Guardò quei profondi occhi castani, deglutendo e socchiudendo la bocca. Non voleva. Non voleva rimanere da solo con lui, perché sapeva che si sarebbe sentito a disagio. Perché sapeva che avrebbe sofferto, e non voleva. Erano anni che non riusciva più a parlargli di qualsiasi cosa. Il loro rapporto si era sgretolato, stava pian piano andando a pezzi e se volevano mantenere un clima decente nella band, Roger non avrebbe dovuto assolutamente parlargli. Perché avrebbe fatto sicuramente danni. Respirò profondamente. – Io… Non posso.
- Perché?
- Devo fumare.
- Fumerai dopo. Però, per favore, resta qui.
Il biondo deglutì nel guardare quegli occhi che lo imploravano di rimanere. Sospirò, sedendosi accanto a lui, facendo però di tutto per non guardarlo. Si limitò a sbattere le lunghe ciglia. – Ecco… Come va?
- Come dovrebbe andare. – disse Brian, appoggiando il mento sulle mani. Che domanda era? Sembrava non si vedessero da anni, eppure vivevano nello stesso appartamento. – Tu come stai?
- Non fosse per la gola che mi sta urlando di smetterla di parlare, sto bene.
Il chitarrista sospirò. E poi pensò che quella fosse la conversazione più falsa che avessero mai tenuto. Guardò il ragazzo. – Perché, Roger?
- Perché ho cantato note altissime per due ore.
- No, io… Io intendo… - iniziò a gesticolare. Faceva così, Brian, quando era in imbarazzo. – Perché non siamo più gli stessi?
Il respiro di Roger si fermò. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi scosse la testa. – Io pensavo che questo argomento fosse chiuso da anni.
- Non lo abbiamo mai aperto.
- Appunto. Continuiamo a non aprirlo.
- Quindi vorresti dirmi che tu riesci a dormire sereno la notte, sapendo di avere una persona per te importante nella tua stessa casa, che da tre anni e mezzo è come se fosse una sconosciuta?
- Sei tu quello che soffre d’insonnia.
- Sono serio.
- Anche io. Semplicemente non voglio parlare sempre della stessa cosa.
- Stai scherzando?
- Ti ho appena detto che sono serio.
Il più grande prese una boccata d’aria. – Non ne parliamo da anni.
- Forse perché è inutile farlo. – disse il biondo, alzandosi e iniziando ad uscire, prima di essere fermato dalla mano del riccio sul suo polso. Non sentiva quel contatto da quell’ultima volta. Il cuore iniziò a battergli forte e sperò che Brian non se ne accorgesse.
- Dobbiamo parlare, Roger. Ti ho perso una volta, perché sono stato un egoista, un codardo e un…
- Un coglione.
- Sì, un coglione. – ammise il riccio. - Ma ho bisogno di rimediare.
- Io non sono arrabbiato con te. – sospirò Roger. Allargò le braccia. – Non lo sono mai stato.
- E allora dimmi perché ti sei allontanato. Spiegamelo. Ti prego.
- Mettiti nei panni di una persona… - si sedette. – Di una persona che è innamorata di te, da tre anni, che sa di essere solo il tuo migliore amico, per te. Che fai? Continui a fingere, o ti allontani?
- Non vorrei perdere il mio migliore amico.
- E invece ti stai sbagliando. – gli puntò un dito contro, appoggiando la schiena allo schienale della poltrona. – Perché conoscendoti, ti allontaneresti anche tu come ho fatto io.
- Non mi conosci, evidentemente.
- Ascolta, io non voglio parlare di questa cosa. Te lo ripeterò all’infinito e non voglio saperne più niente.
- Perdonami.
Il biondo sbuffò. – Dammi solo un buon motivo per farlo.
- Mi manchi, Roger.
 

 
- Roger, mi spieghi che cazzo ti prende?! – sbottò Brian tornando dalla sala prove, mentre Roger si avviava verso l’Università. Non gli aveva nemmeno chiesto un passaggio come l’ultima volta. Il biondo strattonò il suo braccio quando la mano affusolata di Brian gli afferrò la spalla, continuando a camminare.
- Roger! – lo chiamò nuovamente il riccio. Il minore non si voltò nemmeno. – Devo andare all’Università.
- Non ci sei andato per due mesi, e casualmente ora devi andarci?
Il batterista si fermò, incrociando le braccia. – Perché, ora che sta succedendo?
- Succede che voglio sapere perché ti stai comportando così con me.
- Così come?
- Mi stai ignorando, Roger. Da tre giorni.
Roger sollevò le sopracciglia. – Solo perché sto vivendo a casa mia invece che fare il nomade nella tua, non significa che ti stia ignorando.
- Non mi hai parlato per tutto il tempo. Hai riso e scherzato con Freddie, e quando cercavo di parlarti facevi finta di non sentirmi o parlavi a monosillabi. Capisco che tu sia arrabbiato con me, ma…
Il biondo inclinò la testa in avanti. – Ma?
Brian sospirò, avvicinandosi a lui, allargando le braccia e cercando di abbracciarlo. Ma quando era a pochi centimetri da lui, il più piccolo indietreggiò. – Non ho bisogno della tua pietà.
- Non è pietà. Voglio solo… Provare a chiederti scusa. Davvero, ci sto provando in tutti i modi.
- Le tue scuse mi permetteranno di non provare più sentimenti per te?
Il riccio deglutì. Continuò a guardare gli occhi blu di Roger, che in quel momento erano colmi di delusione e amarezza. Non riuscì a rispondere.
- Non voglio perderti.
- Assumiti le tue responsabilità.
- Rog, ti prego. Non posso… Io non posso vivere con l’ansia di averti perso.
Il biondo scosse la testa. – Stammi bene.
Si girò, dandogli le spalle e coprendosi il viso con la sciarpa, iniziando a camminare.
Brian lo guardò, inseguendolo e prendendolo per il polso.
Non riuscì a dire nulla, che Roger si voltò di scatto, il viso contratto in una maschera di rabbia, le labbra serrate e gli occhi azzurri accesi di ira.
Gli sferrò un pugno dritto sul viso, colpendogli il naso e lo zigomo, facendolo indietreggiare, dolorante.
Il chitarrista sollevò la testa, fissandolo con occhi increduli mentre sentiva il sangue scendere copioso dalla narice. Avrebbe giurato che, per una di quelle rare volte in cui lo faceva, Roger stesse piangendo.
- Non mi toccare. – disse il biondo, con la voce tinta di rancore. – Non osare toccarmi mai più.
 

“Mi manchi”.
Roger aveva le labbra schiuse e gli occhi blu increduli. Dopo anni in cui a malapena si erano scambiati un “come stai?”, Brian gli aveva detto che gli mancava. E cazzo, se mancava anche a lui. Poi respirò profondamente. Scosse la testa. – Non ho bisogno di sentire stronzate. Parla chiaro. Dimmi che cazzo vuoi e finiamola qua.
Brian sospirò. Stava perdendo la pazienza. – Quante volte, Roger? Quante volte ancora dovrò ripeterti che mi dispiace, e che mi sento moralmente in colpa? Sono un bugiardo, un egoista, un codardo. Ma tu… - si fermò per prendere fiato. – Tu sarai sempre importante per me. E credo che… Che non riuscirò mai a dimenticarti. Non riuscirò mai a passare sopra a questa cosa che mi sta attanagliando da anni.
Il biondo strinse le labbra, facendo un respiro profondo. Il cuore gli stava battendo forte per le parole del ragazzo, ma non aveva voglia di farsi vedere vulnerabile. Lo guardò, dritto negli occhi. – Io voglio solo proteggermi.
- Da cosa, Roger? Da che cosa?
Il ventiquattrenne si morse la lingua. – Non voglio soffrire ancora.
Brian lo guardò. Sentì il cuore stringersi nel vedere quegli occhi blu così grandi e fragili. Deglutì, e scosse la testa. – Io non ti farò soffrire.
- E questo chi cazzo me lo garantisce?
Il riccio sorrise.
“Buttati, Brian. Non aver paura di cadere.” Questo gli aveva detto, Freddie. E Brian iniziò a pensare che non poteva avere più ragione di così. E quindi si avvicinò al biondo, si buttò.
Gli spostò una ciocca di capelli biondi dietro all’orecchio, mentre Roger lo guardava con gli occhi blu spalancati. – Che stai facen…
Gli appoggiò una mano dietro alla testa, attirandolo sulle sue labbra. E le sentì vivide contro le sue. Morbide, sottili. Non era come l’ultima volta. Riuscì a capire cosa gli stesse succedendo, e si chiese perché cazzo non lo avesse fatto prima.
Roger sentì una scossa partire dal petto e arrivargli allo stomaco. Non realizzò subito, non seppe cosa fare, per un momento. Era arrabbiato, da morire, avrebbe voluto insultarlo, ma la sensazione delle labbra del ragazzo sulle sue gli fece girare la testa e battere forte il cuore. La rabbia si sciolse e fece spazio alla soddisfazione e al piacere. Questa volta lo stava baciando sul serio. Non per colpa dell’alcool ma perché, evidentemente, voleva farlo. Le sue labbra non erano esattamente come le ricordava.
Erano più umide e più soffici e l’odore di alcool non c’era, questa volta. Schiuse la bocca, mentre lasciava che la timida lingua di Brian accarezzasse la sua. Le fecero giocare, danzare, unire. Si avvolsero a vicenda, mentre le mani di Brian sfioravano dolcemente il suo collo e le sue spalle.
Roger si staccò per un attimo, le guance rosse e gli occhi azzurri socchiusi. – Sei un coglione.
Il riccio fece toccare di nuovo le loro labbra, per poi allontanarsi leggermente, sentendo il fiato del ragazzo scaldargli il viso. Lo guardò e lo trovò meraviglioso. Il blu dei suoi occhi era annebbiato dal piacere, le labbra erano umide e rosse e i capelli crespi. – Tu sei bellissimo.
Il batterista deglutì. – Ti odio. - ansimò e cercò nuovamente il contatto con la bocca di Brian, che in tutta risposta scese sul suo collo, mordendolo e baciandolo. Roger rizzò la schiena respirando profondamente, mentre il contatto dei denti di Brian sulla sua pelle delicata gli inviò una scossa giù per la colonna vertebrale. I suoi pensieri erano annebbiati dall’eccitazione e dal piacere. Però, dopo tanto tempo, poteva ammettere a se stesso di aver fatto pace con ciò che lo circondava. E con il ragazzo che, in quel momento, lo aveva sollevato avvolgendo le sue gambe intorno alla sua vita, mentre lo baciava. Roger sentiva le braccia tremare e con esse circondò il collo di Brian, allontanandosi leggermente dalle sue labbra per respirare.
Sentì la schiena toccare il muro quando il riccio ce lo appoggiò dolcemente, continuando a tenerlo stretto, sostenendolo con le mani sotto alle sue gambe.
Brian sentiva che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Era come se, in quel momento, tutti i tasselli di un puzzle scombinato si stessero ricomponendo piano piano. Roger era più leggero di quanto ricordasse, e lui avrebbe voluto rimanere stretto al batterista per sempre. Finché il biondo si staccò leggermente, guardandolo e respirando velocemente. – Credo che… Uno studio di registrazione non sia il posto più adatto.
 
Brian guardò Roger chiudere gli occhi mentre il batterista si mordeva il labbro inferiore inarcando leggermente la schiena, sibilando tra i denti. Gli accarezzò una guancia, cercando di essere più delicato e dolce possibile. Non voleva fargli male, voleva che quella volta fosse migliore della precedente per lui, migliore della sua prima volta sprecata. Voleva fargli sentire tutto l’amore che percepiva, voleva fargli capire che quello che stavano facendo era amore in tutte le sue forme, non solo fisico. Lo baciò leggermente, appoggiò le labbra sulle sue come una farfalla si posa su un fiore.
- Come va? – sussurrò con tutta la dolcezza di cui disponeva, facendolo sorridere mentre apriva gli occhi, accarezzandogli i capelli ricci. Brian non si aspettava una vera e propria risposta, ma quel piccolo gesto gli fece capire che il ragazzo era a posto, stava bene. Lo baciò ancora, aumentando il ritmo delle spinte e facendogli socchiudere le labbra. Il fiato corto ne usciva in piccoli e rapidi soffi.
Roger guardò il ragazzo che era chino su di lui, accarezzandogli i capelli per poi aggrapparsi al suo collo quando lo percepì sempre di più dentro di lui. Il suo respiro aumentò mentre Brian gli stringeva dolcemente la schiena continuando a spingere. Il cuore gli batteva forte, e pian piano il dolore si trasformò in dolce e passionevole piacere che gli fece chiudere gli occhi. Ssentiva il respiro accelerato di Brian sul suo collo.
Era tutto così diverso, e la prima volta non la ricordava assolutamente così. Non aveva più fatto nulla con nessuno, dopo quella sera. Non era stata una bella sensazione. La ricordava dolorosa e aggressiva, violenta e priva di qualsiasi tipo di tenerezza. Invece Brian lo stava facendo sentire a casa, in pace.
Lo faceva sentire amato e accolto, la dolcezza con cui lo accarezzava gli scaldava il cuore e le guance, e mai si sarebbe aspettato di sentirsi così.
Di solito, Roger non amava quel tipo di attenzioni. Gli sembravano troppo sdolcinate e, a volte, forzate. E invece, in quel momento, la delicatezza di Brian era così semplice e naturale che lo fece sentire in paradiso.
Aveva desiderato quella situazione per anni.
Lentamente sentì il ragazzo uscire dal suo corpo guardandolo ansimante, gli occhi lucidi e i ricci increspati. Brian gli sorrise dolcemente, mentre il batterista riprendeva fiato accarezzandogli una guancia.
Il chitarrista sfiorò i capelli di Roger, giocando con le sue ciocche bionde sorridendogli e baciandolo, piano, mentre vedeva il ragazzo rilassarsi sotto al suo tocco respirando sempre più piano, regolarizzando la frequenza dei movimenti veloci del suo petto.
Si sdraiò al suo fianco, non smettendo di guardarlo nemmeno per un secondo. Osservò i suoi grandi occhi blu lucidi, le sue labbra arrossate e i suoi biondi e lunghi capelli che gli incorniciavano il viso facendolo assomigliare a qualcosa di molto simile alla perfezione. Gli baciò la fronte, accarezzandogli una guancia ancora vermiglia e delicata, sentendola calda sotto al suo tocco.
Vide Roger ridere, e il cuore ebbe un piccolo sussulto. – Non sei male come pensavo.
Brian scosse la testa, continuando a sorridere. – Ma smettila. – lo baciò ancora, passando una mano sulla sua schiena con delicatezza. Lo guardò. – Mi sei mancato.
Roger ridacchiò. – Non puoi proprio stare zitto e goderti i momenti, eh?
Il riccio spalancò gli occhi, incredulo. – Ma se hai iniziato tu.
Il batterista lo baciò, sorridendo. – Mi sei mancato anche tu.
- Com’è andata?
Roger gli accarezzò i capelli ricci.
- Magnificamente.
 
 

Lisbeth’s notes.

Ciao a tutti!
Ritorno con i miei angolini per spiegarvi un po’ di cosette riguardo al capitolo: sì, avete capito bene, sono andata avanti non di uno, non di due, non di tre, bensì di quasi quattro anni. Posso giurarvi che dei motivi ci sono.
Innanzitutto, volevo assolutamente inserire il nostro povero e poco considerato Deacy nella fanfiction, perché, diciamocelo, c’era proprio bisogno di uno come lui che portasse ordine ed equilibrio tra questi tre uragani che sono Freddie, Roger e Brian (anche se il mio sogno è quello che il nostro caro Mercury dia consigli anche a me).
Inoltre, volevo sfruttare l’occasione per inserire un po’ di carriera e storia musicale dei Queen, altrimenti la storia non avrebbe avuto senso. E dato che del loro percorso musicale The March of The Black Queen è il mio capolavoro preferito, al secondo posto sorpassata solo da Somebody To Love, era mio desiderio ardente e impellente canticchiarmela nella testa immaginando i falsetti di Roger in studio mentre scrivevo.
Il terzo punto, riguarda il fatto che, per non annoiare nessuno, ho voluto velocizzare un po’ il corso degli eventi, ma tranquilli, tutto ciò che è successo in questi quattro anni sarà raccontato attraverso i soliti flashback.
Spero di non aver turbato nessuno con questa mia scelta, perché davvero prima di farla ci ho pensato davvero, davvero tanto.
E’ stata inoltre la prima volta, in tutta la mia vita, che ho scritto qualcosa come la parte finale della storia, quindi non so come possa essere venuta, ma spero bene, sinceramente!
Fatemelo sapere, magari, in una recensione. Sarò felice di leggervi!
With love,
- Lis.

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Capitolo 9
*** Don't leave me ***


Capitolo 9 - Don't leave me.

Buio, era tutto buio.
Il ragazzo si fece spazio nella camera, deglutendo e cercando di abituarsi all’oscurità della stanza. Il cuore in gola, i movimenti tanto cauti e i passi leggerissimi per poter riuscire a sentire anche solo il minimo rumore. Aveva sentito delle grida, dei colpi e dei rumori che non gli erano piaciuti per nulla.
Deglutì. – M-mamma? – sussurrò, pregando che la donna gli rispondesse. Non ci fu alcuna risposta. La sua preoccupazione e le sue ansie aumentavano sempre più, facendogli male allo stomaco. – Mamma… Clarie? – chiamò, nuovamente, ma non un suono uscì dalla stanza. Pregò di essersi sbagliato. Quelle urla che lo avevano svegliato di soprassalto, magari, erano solo frutto di un incubo o della sua immaginazione.
Roger indietreggiò, cercò l’interruttore della luce e, erroneamente, ci finì sopra con la schiena. Finalmente poté riuscire a vedere qualcosa. C’erano vetri sparsi per terra, probabilmente appartenenti ad un bicchiere frantumato o un piatto. Deglutì. Non c’erano, prima che andasse a dormire.
Si avviò verso la cucina adiacente, premette la mano sull’interruttore.
Urlò.
Corse verso i due corpi femminili e così familiari che erano riversi per terra, inermi, spalancando gli occhi e lasciando che le lacrime gli rigassero le guance. Si inginocchiò accanto alla sorellina, accarezzandole i capelli biondi e scuotendola, piano. – Clarie, Clarie. – sussurrò, scuotendo la testa, incredulo e spaventato. Aveva il cuore in gola e quella vista gli fece girare la testa.
I due corpi erano sanguinanti e immobili, inerti. Non volle crederci.
Ansimante si avvicinò a sua madre, prendendole la mano e stringendola tra le sue dita tremanti. – Mamma…
Scoppiò a piangere, mentre un conato di vomito per la vista e per l’odore gli fece mancare per un secondo il fiato. Iniziò a singhiozzare, scuotendo la donna e la ragazzina, rifiutandosi di pensare al peggio. Gridò i nomi di sua madre e di sua sorella, per poi correre a prendere il telefono, iniziando a comporre un numero.
D’un tratto sentì due mani salde che gli afferravano le braccia, sbattendolo con violenza al muro e stringendogli i polsi. – Tu non dirai niente. E non farai niente. Azzardati ad aprire bocca e dire qualcosa in giro, e sarà peggio per te.
Roger aveva paura, aveva il cuore a mille ed era devastato, mentre guardava ancora le due figure per terra. Ma la paura non gli impedì di provare rabbia. Ira, infinita. Assottigliò gli occhi chiari, sputando dritto in faccia al padre e dimenandosi.
Michael era più alto di Roger di almeno venti centimetri, e pesava forse trenta chili in più. Lo tenne stretto nella posizione in cui lo aveva inchiodato, impedendogli di muoversi.
- Lasciami. – mormorò Roger, cercando di liberarsi. Iniziò ad urlare, pregando che qualcuno lo sentisse, prima di sentire una forte presa sulla sua gola che gli fece mancare l’aria. Le mani erano libere, i piedi anche. Cercò di graffiare le mani del padre, tirando ginocchiate alla cieca, ma quando la stretta si fece più forte iniziarono a bruciargli i polmoni.
- Grida un’altra volta, e ti faccio dimenticare di essere nato.
Fu l’unica cosa che riuscì a udire. Iniziò a non vedere più nulla, piano piano nemmeno i suoni erano più riconoscibili.
Non riconosceva l’ambiente circostante, macchie scure gli offuscavano la vista.
Chiuse gli occhi.
 

 
Il ragazzo spalancò gli occhi, rizzando immediatamente la schiena e portandosi le mani sul collo, ansimando con il cuore a mille. Sentì una presa sulla spalla e un tocco delicato sulla sua guancia, mentre cercava di mettere a fuoco la stanza che lo circondava.
La prima cosa che riuscì a vedere vividamente, furono gli occhi castani di Brian che lo osservavano preoccupati, mentre la mano appoggiata sulla sua guancia la sfiorava dolcemente, con una tenerezza che gli fece avere meno paura.
Non era casa. No, era nella stanza di Brian, quella in cui il ragazzo viveva da poco meno di sei mesi e condivideva con John. Non c’erano corpi per terra, nessuna mano era avvolta attorno al suo collo.
- Tranquillo. Tranquillo, Rog. – sentire la voce di Brian lo rassicurò.
Sentì le lacrime scendergli sulle guance contro la sua volontà, vedendo il riccio sporgersi verso di lui e stringerlo a sé. – Tranquillo, Roger. Sei qui, sei al sicuro. Ci sono io. Sono qui con te.
Il respiro di Roger iniziò a farsi più regolare, sentendo le mani delicate di Brian accarezzargli lentamente la schiena. – Nessuno può farti del male, adesso.
- C-Clare… Mamma… - balbettò, quasi senza voce. Il chitarrista gli passò una mano tra i capelli biondi. – Stanno bene, Roger. Sono a casa.
- D-dov’è… Dov’è lui?
Brian respirò profondamente, guardandolo e prendendogli il viso tra le mani. – E’ in carcere, Rog. Lo sai. E’ sotto controllo. Non può far male a nessuno.
Vide gli occhi azzurri del ragazzo fissarlo, lucidi e spaventati. Odiava vedere Roger in quelle condizioni, non si era dimenticato dei suoi incubi. Gli incubi che lo tormentavano di notte, non lasciandolo dormire. Gli accarezzò uno zigomo con il pollice. – Ci sono io.
Dolcemente, si avvicinò a lui e con tutta la tenerezza del mondo gli lasciò un piccolo, delicato bacio sulle labbra fredde e tremanti.
Roger sentì la tensione allentarsi facendo spazio ad una sicurezza e una tranquillità che, da sempre, solo Brian riusciva a trasmettergli. Si sentì felice ad averlo di nuovo al suo fianco, era sollevato. Fece dei respiri profondi, cercando di calmarsi completamente. – C-c’era… C’erano Clarie e mamma…
Brian gli prese una mano, accarezzandola con il pollice e guardandolo, cercando di rassicurarlo e aspettando che continuasse. Lo vide deglutire. – Loro erano per terra e… E non si muovevano, e lui…
Il chitarrista gli passò una mano tra i lunghi capelli biondi. – Tranquillo, Rog. Stai tremando.
- Ha cercato di uccidere anche me…
Il riccio sentì gli occhi farsi lucidi. Gli venne in mente quel giorno, quello in cui Roger era uscito da quella casa sfinito e devastato, in cui aveva rischiato la vita. Deglutì e chiuse una guancia del ragazzo nella sua mano, accarezzandola leggermente. – Era solo un sogno. Sei al sicuro, ci sono io. Tua madre e Clare stanno bene, okay? E’ tutto a posto.
Roger strinse gli occhi, bloccando l’uscita di ulteriori lacrime e appoggiando la testa sul petto di Brian, che lo avvolse dolcemente tra le braccia. Sentire il cuore di Brian battere contro il suo orecchio lo rilassò e lo fece sentire più tranquillo, protetto e al sicuro. Ripensò alle tante volte in cui lo aveva salvato, in cui lo aveva tirato su dall’oblio, in cui lo aveva protetto e in cui lo aveva allontanato dalle strade sbagliate che stava intraprendendo, e gliene fu grato. Si sentì in colpa per averlo trattato come non meritava per tre lunghi anni, mortalmente in colpa. Lo aveva ignorato, lo aveva fatto sentire malissimo. E forse era l’unica persona i cui sentimenti a Roger importavano. Lo strinse forte. Gli aveva fatto del male quando Brian lo aveva sempre fatto star bene.
- Mi dispiace, Bri.
Sentì il petto di Brian avere dei leggeri sussulti mentre il riccio rideva. – Dispiace a te? Credo che l’unico a doversi scusare sia io, Rog.
- Brutto idiota, ma se quando cercavi di parlarmi ti ignoravo.
- Ecco, sapevo che questa gentilezza non sarebbe durata. – il chitarrista sorrise, baciandolo in cima alla testa. – Non devo farci l’abitudine.
- Decisamente no.
- Ti senti un po’ meglio? – chiese Brian, spostandosi per guardarlo negli occhi. Roger sospirò, alzando le spalle. – Sì. Solo un po’ d’ansia, posso gestirla.
- Su questo non c’è dubbio. Anche se, dovendo rovinare tutto e fare il pignolo, l’ultima volta che hai avuto ansia per qualcosa hai rotto il basso di Deaky.
Roger alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto. – Come se John non bastasse a ripetermelo ventiquattro ore su ventiquattro. Quel basso era una merda.
- Mi dispiace dirtelo ma no, quel basso non era una merda.
- Era il compleanno di Freddie e non gli avevo comprato niente. E poi mi stavi facendo incazzare.
- Io?! Io ti stavo facendo incazzare?!
- Sì.
- Non è una giusta motivazione per cui spaccare un fottutissimo basso.
Il biondo sbuffò. – Ecco, mi mancavano le sue discussioni che mi fanno venire i sensi di colpa, dottor May. La sua saccenteria mi offende e mi dà sui nervi.
- Eppure ieri sera non ti ho dato fastidio.
- Sì, vabbè, che esempio inutile. Ieri sera non stavi parlando facendo il moralista vecchio saggio della situazione. E poi Deacy non si è offeso, quindi la cosa del basso non conta.
- Non c’entra niente che John si sia offeso o meno. Hai comunque rotto un basso.
Il batterista si staccò dal suo petto e gli tirò un pugno sul braccio. – Certo che le rompi le palle. A nessuno piacciono le persone fiscali.
- Promettimi che non mi romperai la chitarra.
Roger sollevò le sopracciglia. – Ma sei serio?
- Sì.
- Vai a cagare.
- Non ho ancora mangiato. Non posso.
- Ma che cazzo?! Che schifo.
- Seh, certo. Mi rutti nelle orecchie tutti i giorni e ti fa schifo una frase detta anche troppo educatamente.
- Tutti i giorni non direi. Fino a ieri non ruttavo nemmeno in tua presenza.
- Mi mancheranno, quei tempi.
Il biondo spalancò gli occhi. – Scusa?
Brian rise, prendendolo tra le braccia. – Sai che scherzo.
- Ti stai prendendo fin troppa confidenza.
- Sì, Rog. Certo. – sorrise il riccio, baciandolo dolcemente. Roger chiuse gli occhi, rilassandosi al tocco di quelle labbra che gli erano così tanto mancate. Finalmente, dopo tre anni, non solo avevano riordinato le cose nel loro rapporto, ma avevano entrambi chiuso ciò che per tanto tempo era rimasto aperto, senza una conclusione. Roger schiuse le labbra, lasciando che la lingua di Brian entrasse in simbiosi con la sua.
Il chitarrista appoggiò la testa al cuscino, tirando su Roger dal braccio, in modo da potercelo avere di fronte. Il biondo spalancò gli occhi per il movimento improvviso. – Piano!
Brian sorrise, appoggiandogli le mani sui fianchi e baciandolo di nuovo, mentre il batterista gli accarezzava piano i capelli, sospirando sulle labbra del ragazzo, che ebbe un piccolo brivido nel sentire il respiro di Roger così vicino al viso.
Sorrise, poi, quando sentì lo stomaco di Roger brontolare. Rise, staccandosi dalle sue labbra e accarezzandogli una guancia. – Mi sembra di capire che tu abbia fame.
- Sai com’è, non abbiamo mangiato ieri sera.
- Colazione con Freddie e John?
- Colazione con Freddie e John.
 

 
- Cazzo, cazzo, cazzo! – urlò Roger, girandosi intorno talmente velocemente che avrebbe potuto consumare il pavimento. – E ora che faccio? E’ fottutamente tardi, non posso comprare niente di decente!
John sospirò, guardandolo agitato e armandosi di santa pazienza. – Rog, per la miseria, datti un tono. Troveremo una soluzione, ci sarà qualcosa di aperto dove trovare un regalo!
Il biondo strinse le labbra, avvicinandosi al più piccolo e prendendolo per le spalle. – John Richard Deacon. Sono le nove e mezza. E lo sai a che cazzo di ora è il party di Freddie?
- Alle dieci.
- E allora mi dici come cazzo faccio a comprare un fottuto regalo?!
- Questo è perché avresti dovuto muoverti prima, Roger. – intervenne Brian, seduto sulla scrivania della stanza di John. Roger respirò profondamente. – Non sei nessuno per dirmi quello che devo fare.
- Per quanto mi riguarda, una volta ero il tuo migliore amico.
Il biondo strinse i pugni, trattenendo il fiato e girandosi, lentamente, verso il chitarrista. Il minore del gruppo si mise tra i due ragazzi, prendendo Roger per le spalle prima che potesse fare qualcosa che avrebbe potuto nuocere il povero Brian. – Non siate infantili, per favore. Ora un regalo per Freddie lo troviamo, d’accordo?
Sia il maggiore che John sapevano che Roger, quando era nervoso o preoccupato, non era esattamente il tipo di persona che cercava di mantenere la calma nelle situazioni scomode. E, come se non bastasse, il commento acido del chitarrista gli aveva sicuramente fatto saltare i nervi a mille, e se prima c’era speranza di tranquillizzarlo, in quel momento non ne vedevano nemmeno l’ombra.
- Leva quelle mani di merda dalle mie spalle di merda, o giuro che ti faccio finire su Marte. – ringhiò infatti il batterista, non ottenendo comunque alcun risultato, essendo le dita di John ancora attaccate al suo corpo.
Brian scese dalla scrivania di legno, andando a riporre il libro di astrofisica nella libreria che condivideva con John - In realtà non potresti farlo finire su Marte. Anche se tu ne avessi la possibilità, lui…
- Non me ne frega niente. Nessuno vuole sentire le tue stronzate da scienziato del cazzo. Non ti rendi nemmeno conto che non interessano ad anima viva. – sbuffò Roger.
- Forse non interessano a te, perché sei talmente stupido e ignorante che tutto ciò che regna nel tuo cervello da ameba è il tuo egoismo da narcisista.
Il biondo assottigliò gli occhi blu, scostando John e avvicinandosi al ragazzo, fissandolo. – Non so chi tu ti creda di essere. Posso semplicemente dirti che non hai il diritto di parlarmi in questo modo, dopo tutto quello che mi hai fatto.
- Io non ti ho mai fatto niente.
- E poi ti chiedi perché io ti ignori. Ecco perché. Perché sei un cazzo di maestrino che crede di avercelo d’oro.
- Ragazzi, basta! Non fate i bambini! – esclamò il bassista. Puntò un dito verso Roger. – Tu hai due anni in più di me. – indicò poi Brian. – E tu, invece, non solo e hai ben quattro, ma ti stai anche comportando come mai mi sarei immaginato che ti potessi comportare!
- Non inserirti in discorsi in cui non c’entri un cazzo. – disse Brian, serio.
- Ma sì, infatti, perché Brian May è così. Con un temperamento invidiabile e una calma disarmante! Quando in realtà non è altro che un codardo egoista.
Al commento di Roger, Brian strinse gli occhi e arricciò le labbra. – Non ti conviene continuare.
- Perché?
- Perché non ho bisogno e voglia di sentire altro.
- O semplicemente perché altrimenti dimostri al nostro povero Deaky che non sei così saggio e pacato come crede.
- Taylor stai zitto. 
- Adesso basta. – disse John, più deciso e diplomatico. - Vi state comportando come dei bambini. Mi sono stancato di questo continuo tira e molla tra indifferenza e rancore. State rovinando tutto e non ve ne rendete conto.
- Ma che cazzo vuoi saperne tu? – soffiò Roger, girandosi a guardarlo mentre Brian sbuffava.
- In questa band c’è bisogno di pazienza e unione. Sono due anni che fate così, due anni! Ma non vi sentite degli idioti per come vi trattate a vicenda?
- Tu non sai niente, John!
- Non potete continuare co…
Il povero bassista non poté terminare la frase, che vide il suo prezioso strumento essere sbattuto con irruenza e forza sul pavimento. Spalancò gli occhi, allargando le braccia mentre Brian si massaggiava la fronte con il pollice e l’indice.
- Il mio basso!
- Ecco, te lo vai a ricomprare! – strillò Roger, mentre si allontanava, uscendo dalla camera. Si girò dubito dopo, guardando il bassista. – E non dire che non ti avevo avvisato!
 

 
- Buongiorno, gioie! – trillò Freddie quando vide i due ragazzi entrare in cucina per fare colazione. John salutò entrambi con un timido sorriso, mentre Roger sbadigliava sedendosi davanti al bassista e Brian salutava con un calmo “Buongiorno, ragazzi”.
- Vedo che avete fatto pace! – disse Freddie, mentre era occupato a farsi una tazza di thè. Roger non ci badò molto. – Dammi dei biscotti.
- Non con questo tono.
Il biondo sbuffò pesantemente. – Posso avere dei cazzo di biscotti, per favore?
- Dobbiamo eliminare ancora le parolacce, ma ci sono già passi avanti. – gli rispose il più grande, mettendo dei biscotti al cioccolato il un tovagliolo e porgendoli al batterista. Brian sorrise mentre mangiava il suo yogurt alla fragola. Gli venne un dubbio. Si chiese quando, se e soprattutto come avrebbero dovuto dire ai due ragazzi che, in teoria, stavano finalmente insieme. Conoscendo Roger, sapeva che lui non si sarebbe fatto molti problemi e avrebbe vuotato il sacco da subito.
Però Brian non era così. Aveva bisogno dei suoi tempi, era molto più razionale e meno istintivo dell’altro ragazzo. Eppure sapeva che sia John che Freddie fossero consapevoli dell’interesse di entrambi nei confronti dell’altro, quindi, che problema poteva esserci?
- Il qui presente John Deacon ha dovuto dormire nel letto di Roger Taylor, sta notte. Non che io lo preferissi in camera sua, anzi, è stato ben più piacevole avere lui in confronto ad un aspirapolvere che mi sveglia ogni cazzo di volta che faccio un bel sogno. – Freddie lanciò un’occhiataccia a Roger. – Solo che, magari, la prossima volta che fate sesso, nascondete le prove come le persone normali.
Brian lasciò il cucchiaino dello yogurt sospeso davanti alle sue labbra, con gli occhi spalancati, mentre sentiva Roger tossire per un biscotto che gli era andato di traverso.
John alzò gli occhi al cielo. – Avevi detto che saresti stato delicato e non avresti usato il sarcasmo.
- Scusami, è solo che sono troppo soddisfatto per aver avuto ragione. – sorrise Freddie. Il bassista sospirò. – Sapevo che avrei dovuto parlare io.
Brian lanciò un’occhiata a Roger, che riprendeva piano piano fiato battendosi dei piccoli pugni sul petto. Vide gli occhi azzurri del ragazzo incrociare i suoi e spalancarsi, mentre le guance del batterista diventavano scarlatte. Almeno non avrebbero dovuto fare la fatica di trovare le parole per dire che stavano insieme.
- Cioè, voi… Ma come cazzo è possibile?! – esclamò il biondo.
Il cantante guardò John. – Il Deacon, qui, mi deve ben cinquanta sterline.
- Ma…
- Ma un bel cazzo di niente, Deacy. Hai dato la tua parola. Quindi, per favore, dammi i miei soldi prima che io diventi vecchio e Brian smetta di essere più alto del metro e ottantacinque. Che, onestamente, è una cosa che non mi fa sentire esattamente a mio agio.
John sospirò, tirando fuori delle banconote e sbattendole sulle mani dell’amico che se le mise nelle tasche dei jeans, soddisfatto. Brian respirò profondamente, chiudendo gli occhi e cercando di realizzare ciò che era appena successo. – Voi avete scommesso su di noi.
- Sì, e per Freddie Mercury è andata alla grande! Per il povero bassista non credo proprio. – esclamò Freddie.
- Siete dei maniaci! – sbottò Roger.
- Tu di essere maniaci non puoi parlare. – sentenziò John. Il biondo allargò le braccia. – Pensavo fossi dalla mia parte!
- Mi hai rotto il basso.
- Non ci voglio credere. Vi prego, ditemi che è uno scherzo.
Brian non sapeva se essere più innervosito da Freddie, che aveva fatto un’altra delle sue stronzate, o da John, da cui assolutamente non si sarebbe aspettato una partecipazione così attiva in una scommessa del genere. Chiuse gli occhi, incrociando le braccia. – Non voglio sapere niente della vostra stupida e depravata scommessa. Parliamo di cose serie, piuttosto. Quando si inizia a registrare?
Roger storse il naso. – Dovevi necessariamente ricordarglielo? Io sono stanco. E non ho voglia di continuare con i falsetti.
- Tranquillo, oggi non dovrai farne. Oggi si suona. – batté le mani Freddie, prendendo un biscotto e trangugiandolo, mentre si avviava nuovamente in camera sua.
Brian colse l’occasione per girare, lentamente, in modo che poco rassicurò il bassista, la testa verso di lui. Espirò dal naso, pesantemente. – Deaky.
John si irrigidì leggermente. – Sì, Bri?
- Sono molto deluso.
- Eh, infatti. Perché, ieri, invece di guardare i cartoni animati alla TV nel tuo letto, hai scommesso con Freddie su… - Roger aggrottò la fronte e guardò Brian. – Su che cosa?
- Perché c’eravate voi, nel mio letto! Attaccati come delle cozze. – John sospirò. – Ho anche perso la scommessa.
- E’ questo il punto!
- Bri, sono amareggiato, ma Freddie mi ha costretto!
- Seh, seh. Tutte scuse del cazzo. – intervenne il biondo. Brian lo fulminò con lo sguardo. Il batterista inclinò la testa da un lato. - Be’, che vuoi? Hanno scommesso pure su di me. Anche se non so su cosa.
John sospirò. – Freddie ha detto che secondo lui lo avreste fatto subito. Io pensavo ci metteste più tempo.
Brian inarcò un sopracciglio. – Che ne sai se l’abbiamo fatto?
- Brian, tu non vuoi che io te lo dica davvero.
- Invece ne ho una certa voglia.
 

 
Il giovane bassista si sarebbe aspettato tutto eccetto quello che stava vedendo.
Dopo una serata sfiancante passata a pulire la cucina e preparare la cena con Freddie, poteva finalmente mangiare qualcosa con i compagni della band in tranquillità e, se Roger non avesse deciso anche quella volta di fare baccano, anche un po’ di silenzio.
Uscì dalla cucina ed entrò nello studio di registrazione, dove aveva lasciato i membri mancanti. Era abbastanza soddisfatto. Per una volta erano riusciti a lasciare da soli quei due senza che si dessero fuoco a vicenda.
Pensava di trovarli dove li aveva visti l’ultima volta, ma niente. Aggrottò la fronte. Roger e Brian sapevano che a breve la cena sarebbe stata pronta, perciò non potevano essere usciti. Arricciò le labbra e tornò indietro, bussando prima nel bagno, per controllare che almeno uno di loro fosse lì, poi nella camera di Roger, ma niente. Fu il turno della camera che lui stesso condivideva con il chitarrista.
Bussò, non sentì nulla. Stava perdendo la pazienza. Non potevano essere altrove. Bussò più forte. Niente.
- Brian, sei qui? – chiese. Sospirò. Non voleva violare la privacy del ragazzo, se la porta era chiusa un motivo c’era sicuramente. Ma in tutte le altre stanze non c’era loro traccia, e lui aveva fame.
A mali estremi, estremi rimedi, pensò. Cauto, aprì la porta. E fu lì che vide tutto.
I due ragazzi erano avvinghiati sul letto, insieme. Nudi. John strabuzzò gli occhi, uscendo immediatamente e più velocemente possibile, chiudendosi la porta alle spalle, con le palpebre ancora spalancate. Rimase per un attimo attaccato alla porta, sperando che i due ragazzi non lo avessero notato o stessero dormendo.
“Che figura di merda, che figura di merda, che figura di merda.” Pensò, mentre si allontanava mangiandosi le unghie. E poi gli venne in mente anche un altro pensiero che lo fece imprecare.
Tornò in cucina più teso di una molla, sedendosi sulla sedia che Freddie aveva sistemato al suo posto e prendendosi la testa tra le mani, ancora leggermente turbato.
L’amico lo guardò, mettendogli un piatto di verdure davanti. – Che c’è, caro? Sembra che tu abbia visto un fantasma. Dove sono Roggie e Brian?
Il povero John iniziò a mangiare velocemente.
- Allora?
- Sta notte dormo con te.
- Capisco sia un desiderio di molte persone, ma sai cosa succederebbe se Brian e Roger dormissero nella stessa stanza, vero?
- Sì. E lo so anche fin troppo bene, dato che sta succedendo proprio in questo esatto momento! – sbottò il bassista, quasi affogandosi con un pezzo di carota.
- Eh?
- Ti devo cinquanta pounds. 
 

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Capitolo 10
*** You've taken my love ***


Capitolo 10 - You've taken my love
 
Roger sorrise dolcemente, mentre si beava delle carezze lievi e delicate del ragazzo. Del suo ragazzo. Dopo lunghi ed interminabili anni, finalmente poteva realmente affermare che Brian fosse effettivamente suo, come il tesoro più prezioso e inestimabile, che aveva ritrovato dopo lungo tempo. Si lasciò accarezzare, guardare e baciare.
Brian passò le dita affusolate tra i ciuffi biondi del batterista, baciandolo leggermente e lasciando che le mani di Roger gli accarezzassero il petto, posando poi il palmo sulla guancia chiara del ragazzo, sfiorandola con delicatezza. Sentì la lingua di Roger toccare le sue labbra chiuse, mentre il chitarrista le riapriva lasciando che la propria si unisse in quella deliziosa, dolce, passionevole danza.
Si staccò leggermente, guardando gli occhi azzurri del ragazzo che aveva di fronte, sorridendo. Roger, di sera, era perfetto. La luce dell’abatjour gli illuminava il viso, mischiandosi al blu del cielo che sembrava riflettersi, sebben più chiaro, negli occhi del batterista. Quegli occhioni un po’ stanchi dopo una faticosa giornata di prove, grandi come quelli di un bambino, con le lunghe e morbide ciglia chiare. Le labbra sottili e lievemente arrossate, leggermente aperte in un sorriso. Brian fece scorrere delicatamente il pollice sulla guancia del biondo, sorridendogli.
Roger, nello sguardo di Brian e nel suo sorriso riconobbe, come riflesso, il suo. Era uno sguardo dolce e sereno, forse quasi innamorato. Si avvicinò maggiormente a lui, prendendogli la mano libera e accarezzandola con il pollice. Brian lo baciò di nuovo, tornando poi a guardarlo negli occhi.
- Mi guardi come Freddie guarderebbe una pelliccia costosa. – osservò il batterista, ridendo. Brian arrossì appena, scuotendo la testa. – Mi spiace, paragone sbagliato. – si sistemò a cavalcioni sopra al ragazzo, chinandosi sulle sue labbra per baciarlo.
- Che paragone dovrei fare? Hai mai visto uno sguardo più rincoglionito di quello di Freddie davanti alle pellicce?
- Mi stai dicendo che ho uno sguardo da rincoglionito?
- Sì.
Brian ruotò gli occhi nelle orbite, appoggiandosi nuovamente sul materasso e sospirando, dando le spalle al più piccolo. Il ragazzo aggrottò la fronte. – Be’? non sei più arrapato?
- No. L’indifferenza è la miglior sfida.
- Se metti il broncio non fai l’indifferente.
- Non sai se ho il broncio. Sono girato di spalle.
Roger, per tutta risposta, rotolò giù dal letto, e con passi leggeri si piantò davanti al viso di Brian, guardandolo e spingendogli entrambe le sopracciglia all’ingiù. Sorrise. – Hai messo il broncio.
Il ragazzo più grande gli diede un colpetto sui polsi con le mani, facendogli abbassare le dita. – Almeno non ho più lo sguardo da rincoglionito.
- Oh, Cristo santo, quanto te la prendi.
Brian afferrò il polso del batterista, attirandolo a sé e baciandolo, mentre sentiva Roger ridere sulle sue labbra. Con un agile colpo di reni il biondo salì nuovamente sul letto, infilando le mani tra i capelli del chitarrista e baciandogli il collo, inviandogli un brivido che lo percorse per tutta la schiena. Il riccio passò le mani sotto al maglione (per altro suo) del minore, percorrendo con le dita il suo petto e la sua schiena magra, respirando profondamente quando i baci di Roger diventarono piccoli, delicati morsi.
Sussultarono quando sentirono bussare. Il biondo scese dal corpo di Brian, mentre il riccio si metteva seduto e si schiariva la gola. – Sì?
- Posso entrare a prendere il pigiama? – la voce sottile di John giunse nelle orecchie di entrambi.
- E’ camera tua. Che cazzo chiedi? – fece Roger.
- L’ultima volta che sono entrato senza chiedere…
- Sì, Deacy, puoi entrare! – sbottò Brian, non lasciando che terminasse la frase, troppo imbarazzato perché lo facesse. Il bassista aprì la porta, sollevato nel vedere i due ragazzi seduti composti e, soprattutto, vestiti. Andò verso l’armadio, iniziando a frugarci all’interno. Roger lo guardò. – Guarda che non rimango mica qui a dormire. Puoi restare.
- Penso che voi due abbiate ancora parecchio da fare. – gli rispose John da dentro all’armadio. – Però io ho sonno e Freddie sta già dormendo come un sasso.
- Quindi?
- Quindi preferisco andare a dormire, piuttosto che aspettare i vostri comodi.
- Quanto sei frustrato. Ti ha rincorso un cane e ti ha strappato i jeans con un morso?
John alzò gli occhi al cielo. – Io un giorno di questi impazzirò. – riemerse dall’armadio con il pigiama tra le mani. – Buonanotte, ragazzi. Vedete di non fare troppo rumore.
- Notte, John. – sospirò Brian, che in quel momento voleva sprofondare. Roger rise. – Nemmeno tu con Freddie.
John si fermò, pietrificato, spalancando gli occhi. Si girò di scatto. – Ma sei impazzito? Il sesso ti dà alla testa o cosa?
Il biondo si accese una sigaretta, sotto allo sguardo contrariato del suo ragazzo. – Sto scherzando.
- Meglio per te, idiota. – sbuffò il bassista, uscendo dalla stanza sbattendo la porta. Roger si girò verso Brian. – Che cazzo aveva?
- Hai fatto una battuta inutile, Rog. E poi Fred è fidanzato.
Il biondo aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta, tenendola in bocca per un paio di secondi per poi soffiarla dalle labbra. Brian alzò gli occhi al cielo. – Quante volte ancora devo dirti che è nocivo?
- Vuoi provare?
Brian spalancò gli occhi. – Cosa? No.
- Ne sei sicuro?
- Sì, Roger. E adesso butta quella cosa prima che la butti dalla finestra.
- Occhio. Se prendi un albero dai fuoco al quartiere.
Il riccio sospirò, scuotendo la testa e sdraiandosi nuovamente, mentre Roger spegneva la sigaretta schiacciandola sotto alle scarpe, sul pavimento. Brian si massaggiò le tempie. – Il pavimento è il mio.
- Senti, io ti ho accontentato, non rompermi ulteriormente il cazzo. – Roger si levò le scarpe senza slacciarle, accoccolandosi di fronte a Brian e guardandolo fisso negli occhi, mentre l’altro ragazzo alzava un sopracciglio. – Mi devi delle scuse.
Il biondo rise. – Sì? E per cosa?
- Mi hai quasi bruciato il pavimento.
Roger alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi di più e sollevandogli il mento, lasciandogli un bacio leggero sulle labbra. Quando si staccò guardò il ragazzo, che aveva ora un sorrisetto ebete sulle labbra. Sorrise. – Non riesci a essere arrabbiato con me. Non ci sei mai riuscito.
Brian sbuffò, ricominciando a baciarlo accarezzandogli i capelli biondi, attirandolo più vicino a sé mentre il più piccolo gli circondava il collo con le braccia. Roger sorrise, appoggiando la testa sul petto del chitarrista, sentendo quest’ultimo accarezzargli uno zigomo e baciarlo sulla fronte.
- Oggi hai suonato da Dio. – affermò il batterista. Brian gli passò una mano tra i capelli. – Freddie vuole la perfezione. E la voglio anch’io.
Roger si beò della voce del maggiore, mista al battito del cuore del chitarrista che gli rimbombava nell’orecchio. Quello era il ritmo che aveva sempre desiderato suonare e udire.
Quando Brian lo sentì sbadigliare sorrise. Lo strinse forte a sé, lasciando che Roger chiudesse gli occhi, cullandosi al flebile suono del suo respiro regolare.
 

 
Brian si alzò in piedi stropicciandosi un occhio, lanciando via le coperte con i piedi. Sbadigliando infilò le pantofole, dandosi cinque minuti per riprendersi dallo spavento che gli aveva causato il campanello quando lo aveva sentito suonare in piena notte. Per una volta che stava riuscendo a dormire come si deve, dovevano proprio suonare alla porta? Sospirò, alzandosi dal letto con calma e grattandosi la testa riccia, sentendo poi il campanello suonare ancora. Sbuffò. – Sto arrivando, Cristo!
Si incamminò verso la porta tremando, avvertendo la mancanza delle calde coperte. Girò la maniglia e quello che vide gli sciolse il cuore, facendogli quasi male.
Roger era davanti a lui, bagnato fradicio dalla testa ai piedi, tremante e con lo sguardo puntato sul suo zerbino. Quella era la prima volta, dopo settimane, che lo vedeva. Gli appoggiò una mano sulla spalla, tirandolo dentro casa. – Rog! Ma sei impazzito? Sta piovendo da morire! – chiuse la porta, facendolo entrare. – Ti porto una coperta.
- No. – disse Roger, freddo, tirando su col naso e scuotendo la testa. – Sto bene così.
- Stavi rischiando di prenderti una broncopolmonite. Ne hai bisogno eccome. – insistette Brian. – Aspettami qui. – gli raccomandò, andando nella sua stanza. Afferrò una coperta calda dall’armadio, tornando poi da Roger e sistemandogliela sulle spalle. Fu felice di rivederlo, sollevato. La cosa che non gli piacque, però, era lo stato in cui il ragazzo si trovava. Si chiese se fosse ancora arrabbiato con lui.
- Vuoi che ti porti dei vestiti puliti? Un pigiama? – gli chiese, apprensivo. Roger sbuffò. – No. Non ho bisogno di niente.
La voce gli tremava come il corpo. Tossì, stringendo meglio a sé la coperta. Brian lo prese dolcemente per il polso, portandolo in cucina e facendolo sedere, guardandolo preoccupato. – Rog.
- Non… Non avevo altro posto in cui andare.
- E’ successo qualcosa in casa?
Vide Roger sbattere le ciglia, mentre piccole goccioline d’acqua scorrevano dai capelli biondi, infrangendosi sul pavimento. – Non ti riguarda.
- Roger, certo che mi riguarda, dato che sei arrivato in casa mia alle tre di notte bagnato fradicio.
- Non ci metto niente ad andarmene, se è questo che mi stai chiedendo di fare.
Brian scosse la testa, appoggiandogli una mano sulla spalla. – Non ti sto chiedendo di andare via. Mi sto solo interessando a te e a come stai.
Il biondo respirò profondamente, tossendo subito dopo. Chiuse gli occhi. – Mamma… Ha fatto una cosa orribile.
Il chitarrista lo guardò, aspettando che continuasse. Lo vide stringere le spalle. – Lei… E’ in ospedale, ora.
- Oh. – il riccio deglutì. Non poteva essergliene successa un’altra. – Come sta?
Roger alzò le spalle. – Bene. Anche se solo fisicamente.
Brian gli accarezzò, piano, il braccio. Il più piccolo lo scansò.
- Lei ha… Tentato il suicidio.
Il più grande restò immobile, senza dire niente. Succedevano davvero tutte a quel ragazzo e lui, che avrebbe voluto solo che stesse bene, era una delle cose che si aggiungevano a tutte quelle oppressive e soffocanti situazioni che lo stavano facendo soffrire in quel modo. Sapeva che Winifred stesse male, davvero male, ma non immaginava a tal punto. Sistemò meglio la coperta sulle spalle di Roger. Avrebbe voluto abbracciarlo, stringerlo forte a sé per cacciar via tutte le sue paure e ogni cosa che lo faceva star male, ma sapeva che se ci avesse provato, non avrebbe fatto altro che farlo stare peggio.
Il biondo rimaneva immobile, appoggiato allo schienale della sedia mentre guardava fuori dalla finestra la pioggia che batteva contro i vetri. Si chiese se il mondo ce l’avesse con lui.
- L’abbiamo scoperta io e Clare, appena in tempo. – mormorò. Brian riuscì a vedere l’amarezza e il peso che il ragazzo si portava sulle spalle solo guardando quei tristi occhi azzurri.
- Io… Io ci sarò, quando vorrai, okay? – gli promise il chitarrista. – Non importa cosa. Anche se sei terribilmente incazzato con me, io… Non ti abbandonerò mai.
Roger trasse un profondo respiro. – Io non ho bisogno di te.
 

 
“Dear friend, goodbye. No tears in my eyes.”
Brian lasciò che la penna scivolasse sul foglio, mentre le parole che aveva in testa prendevano forma attraverso l’inchiostro. Nelle notti in cui non riusciva a dormire, di solito scriveva. Era da tempo che stava pensando a come scrivere quella canzone che tanto lo chiamava. Lanciò un’occhiata a Roger, che affianco a lui dormiva tranquillo, al contrario della precedente notte, in cui era stato tormentato dagli incubi. Sorrise, accarezzandogli divertito i capelli mentre lo sentiva, come sempre, russare. Non voleva distrarsi, e forse avrebbe preferito che, invece di dormire con il ragazzo nello stesso stretto letto, al suo posto ci fosse stato Deaky, nel proprio, che si trovava dall’altra parte della stanza. Lo stava distraendo leggermente e lui aveva bisogno di scrivere un po’, altrimenti non avrebbe mai terminato.
Però il ragazzo al suo fianco era talmente bello quando dormiva. Era quasi angelico, con le palpebre abbassate e le lunghe ciglia che gli solleticavano gli zigomi. Il chitarrista appoggiò foglio e penna sul comodino, appoggiando il gomito sul cuscino per sistemarsi meglio davanti al biondo, sfiorandogli una guancia con la mano destra, mentre lo osservava come se fosse la cosa più preziosa e bella del mondo e spostava il pollice sulle sue labbra, sentendo i piccoli sospiri che ne uscivano dritti sulla pelle. Sorrise, sostituendo il dito con le sue labbra, lasciandogli un’ultima carezza sulla fronte per poi riprendere a scrivere, curvo sul foglio.
“The white queen walks and the night grows pale.”
Gli mancava poco e ciò che stava producendo gli piaceva abbastanza, poteva dire di esserne più che soddisfatto. La canzone si sarebbe chiamata “White queen”.
- Brian. – sentì, dietro di sé, da una voce flebile e familiare. Sussultò per un momento, poi si girò e guardò la fonte della voce. Roger lo stava guardando con i suoi grandi occhi azzurri e assonnati, sbadigliando. Il chitarrista gli accarezzò i capelli. – Dormi, Rog. E’ presto.
Il più piccolo si strinse nelle spalle, sospirando e chiudendo nuovamente gli occhi. – E allora perché sei sveglio, tu?
Brian appoggiò carta e penna su letto, girandosi a guardarlo. – Sai che non riesco.
- Ci hai almeno provato?
- Be’, sì.
- E…?
- E non ci sono riuscito, Rog.
Il biondo sollevò nuovamente le palpebre. Le sbatté un paio di volte, sembrando così simile ad un bambino. – Cosa scrivi?
- Una nuova canzone. O almeno, ci provo. – disse Brian, afferrando il foglio. Roger sbirciò, sebbene nella stanza non ci fosse molta luce e lui, per il sonno, avesse la vista poco chiara. – E’… Sembra bella. Solo, non è troppo… Triste?
Il più grande aggrottò la fronte, guardando le parole che aveva scritto. – Ma no. Non è triste.
Il batterista si sedette a gambe incrociate, stropicciandosi gli occhi e appoggiando la testa sulla spalla di Brian. – Un po’ sì.
- Guarda che anche “The loser in the end” lo è.
Roger alzò le sopracciglia. – Se per te è triste la mia canzone, immagino che dopo aver registrato “The night comes down” tu ti sia tagliato le vene.
- Divertente.
Il biondo sorrise. – E come sarebbe la melodia?
Brian ci pensò su un attimo, per poi iniziare a canticchiare le parole della canzone, sebbene fosse ancora un po’ incerto. Roger sorrise. Il chitarrista aveva una voce dolcissima, così bella e delicata, particolare e calda. Gli accarezzò i capelli ricci, mentre il ragazzo finiva di cantare e arricciava le labbra. – Non mi convince.
Il biondo spalancò gli occhi azzurri. – Cosa? Sei scemo? – esclamò. – E’ bellissima, Bri. Forse con qualche modifica lo sarebbe ancora di più, ma è davvero un ottimo inizio.
Il riccio sospirò. – Devo ancora finirla.
- Bene, allora quando la finirai la proporrai anche a Freddie e Deaky.
Brian sorrise, poggiando lievemente le labbra sulla tempia del suo ragazzo. Trovava dolcissimo il modo in cui lo incoraggiava e spronava, con il suo ottimismo e la sua positività. Poi lo vide grattarsi la testa, stringendo le labbra. – Secondo te faccio schifo a cantare?
- No! – sbottò il chitarrista. – Assolutamente no. Raggiungi note altissime come se respirassi, Rog.
- Appunto. Magari sembro una gallina e non me ne rendo conto.
- Ma smettila. – sbuffò il ragazzo, lasciando il foglio nuovamente sul comodino di legno. Accarezzò la guancia del batterista. – La tua voce è bellissima. Straordinaria.
Roger sollevò le spalle. – Dici?
Il riccio rise. – Ti facevo più sicuro di te, sai?
- Ma io sono sicuro di me. Però sono modesto.
- Sì, solo quando vuoi tu.
- Ma… - mormorò Roger, guardandolo male. – Chi ti autorizza a insultarmi?
- Non ti sto insultando, Rog.
- Ah, no? E allora… - il batterista non riuscì a terminare la frase, portandosi una mano alle labbra mentre sbadigliava. Brian lo fece sdraiare nuovamente sul letto, accoccolandosi di fronte a lui. – Su, Narciso, dormi un po’. – gli sussurrò dolcemente, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia.
- Però dormi anche tu. Altrimenti… - Roger chiuse gli occhi, beandosi delle carezze di Brian. – Altrimenti domani sarai stanco.
- Posso provarci. Però non ti prometto nulla.
- Zitto e chiudi gli occhi.
 

 
Harold May passò dalla camera di suo figlio, vedendolo sveglio e seduto sul letto, mentre stringeva le coperte. Era tardi per il piccolo Brian, sarebbe dovuto essere già addormentato da un pezzo. L’uomo sospirò, entrando nella camera e sedendosi accanto al bambino, accarezzandogli i ricci. – Bri. Non stai ancora dormendo?
Brian scosse la testa e sollevò le spalle. – Non ci riesco.
- Perché non sei venuto da me e Ruth? Avresti potuto dircelo, domani sarai stanco a scuola. – gli disse il suo papà, baciandogli la fronte. Il piccolo sospirò. – Non volevo svegliarvi.
Harold lo guardò sollevando le coperte. – Fammi spazio, dai.
Il bambino si fece più a sinistra, lasciando che suo padre potesse scivolare in quel letto stretto, sebbene per l’uomo fosse davvero piccolo e scomodo. Brian era così diverso dai bambini della sua età. Era brillante e maturo, forse anche troppo. Aveva solo sei anni, eppure aveva la mentalità e i pensieri di un ragazzino tanto più grande. Era preciso, ordinato e straordinariamente intelligente. Harold era sempre stato fiero di lui.
Lo abbracciò, lasciando che il corpicino di Brian sparisse, quasi, tra le sue braccia. – Come mai non riesci a dormire?
Sentì il figlio alzare le spalle. – Non lo so.
- Sai, Bri, anche io a volte non riesco ad addormentarmi. E quando succede, di solito mi giro verso la mia finestra, guardando le stelle.
Brian sollevò la testa, interessato. Le stelle. Gli piacevano, le stelle. Quei puntini luminosi che brillavano nel cielo scuro come delle lucciole. Anche la luna, gli piaceva. A volte prendeva la forma di un ampio sorriso, altre volte, invece, sembrava così luminosa e piena da essere quasi perfetta.
- Le stelle mi fanno pensare ad una luce che brillerà sempre, che non si spegnerà mai, che sempre illuminerà il mondo anche durante la notte. Anche le stelle muoiono, però. Ma nonostante questo, altri miliardi di stelle continuano ad illuminare noi e il nostro mondo. – Harold May si sistemò meglio nel letto del figlio, essendo sul punto di cadere. Brian lo guardò, curioso. – Cosa succede, quando muore una stella?
L’uomo gli accarezzò i ricci. – Mi hai fatto davvero una bella domanda, sai? Vedi, le stelle vivono molto più di noi. Miliardi e miliardi di anni. Ci sono stelle e stelle: le stelle più piccole, quando muoiono, si spengono piano piano, lentamente, forse prima di morire possono impiegare altri miliardi di anni perché la loro luce si consumi.
- E quelle grandi?
- Be’, quelle grandi sono più complesse. C’è un elemento che le tiene in vita, che è l’elio. Quando l’elio si consuma, il cuore della stella diventa molto pesante mentre smette di bruciare, facendola collassare e diventare una Supernova.
- E poi, cosa succede?
- Il nucleo che rimane può diventare addirittura un buco nero.
Brian sospirò. – Povere stelle.
Harold rise, stringendo di più il bambino a sé. – Prova a guardare le stelle. Pensa a quanto complesse e straordinarie siano, perditi nelle loro luci. Sono qualcosa di talmente grande che noi, a confronto, siamo solo dei piccoli moscerini. Dei piccoli uomini vulnerabili e fragili, che hanno bisogno della luce delle stelle per illuminare le loro vite e le loro strade.
Il bambino guardò fuori dalla finestra, sollevando appena la testa dalle braccia di suo padre, spiando il cielo notturno e le sue brillanti, infinite stelle, ripensando a tutto ciò che l’uomo gli aveva raccontato, concedendosi un momento per chiudere gli occhi, sprofondando nel sonno stretto nell’abbraccio del papà. 

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Capitolo 11
*** You now desert me ***


Capitolo 11 - You now desert me
 
Roger si portò la sigaretta alle labbra, accendendola e aspirando, lasciando che l’estremità si illuminasse. Sentì la gola bruciare leggermente e la sensazione del fumo che gli riempiva i polmoni. Si grattò la tempia, allontanando la sigaretta sul posacenere e buttando fuori l’aria mista al tabacco. Roger amava fumare. Lo faceva in ogni momento e situazione. Quando era nervoso fumava, quando era emozionato fumava, quando era arrabbiato o giù fumava. Era la quinta sigaretta in un’ora. Il ragazzo di fronte a lui ghignò appena. – Vuoi mandarti a puttane i polmoni?
- Non sono cazzi tuoi e sicuramente non dovrebbero interessarti. – Roger aspirò ancora, puntando gli occhi azzurri in quelli del suo interlocutore. Tim Staffell, dopo due anni, non era cambiato di una virgola. E lui, ogni volta che lo guardava, sentiva la sensazione di una ferita che si apriva, che veniva lacerata e strappata da lunghe unghie affilate come coltelli. Espirò da un lato, schiudendo di poco le labbra. Tim fece un verso di scherno. – E dai, su. Voglio solo parlare.
- Dimmi che cazzo vuoi e falla finita. – disse Roger, secco. Tim sistemò meglio gli occhiali da sole e sorrise. – Come va con… I Queen?
Il biondo sollevò lo sguardo che aveva puntato sul posacenere, guardando il fumo della sua stessa sigaretta ancora accesa levarsi in aria. – Alla grande. Invece, per quarto riguarda te e la tua piccola band del cazzo, mi pare che non ve la stiate cavando bene.
Staffell strinse le labbra, sistemandosi meglio sulla sedia. – Quanto sei cambiato, Roger Meddows Taylor. Non sembri proprio il ragazzino rompicoglioni con la scodella in testa che eri. Devo dire che questi capelli ti rendono più adatto ad una rock band.
- Sono sempre stato molto più adatto di te ad una rock band. Infatti, come vedi, i Queen stanno facendo già parecchia strada anche senza un bassista fisso.
- Merito di Freddie Bulsara. – Tim incrociò le braccia, mentre Roger chiudeva gli occhi, respirando profondamente e cercando di non saltargli al collo e strangolarlo. – Ripeto, che cazzo vuoi?
- Solo parlare con un vecchio amico.
- Non sono tuo amico.
- Sai, conosco un bassista che non è per niente male, qui.
- Non me ne frega niente di chi cazzo conosci.
- Dimentichi che hai conosciuto Farrokh per merito mio.
Roger scosse la testa, alzando il dito indice e muovendolo a destra e a sinistra. – L’ho conosciuto perché una sera, in cui stavo di merda perché tu avevi fatto la testa di cazzo con me e Brian, sono andato a devastarmi in una discoteca e l’ho incontrato. Non me lo ha presentato nessuno.
- Oh, Brian. Brian May. Come sta, l’osservatore del Cosmo?
- Non ti riguarda. 
- Certo che hai proprio bisogno di scopare, eh? – Tim si avvicinò a lui, abbozzando un ghigno di sfida. – Calmati, biondino. Mi sto solo interessando della noiosa vita di un figlio di puttana montato e pieno di sé. “Io studio astrofisica, suono tre strumenti e sono l’uomo più riflessivo e intelligente del cazzo di mondo. Macché mondo, Universo!” – sputò sul pavimento.
Roger rimase immobile. Fissò la saliva che si era appiattita sul pavimento, con il cuore che bolliva di rabbia, ira smisurata che gli avrebbe permesso di dar fuoco a una casa. Strinse i pugni. Brian. Brian era l’unica cosa che nessuno poteva toccargli.
Alzò gli occhi azzurri, puntandoli in quelli dell’altro ragazzo, gelidi e affilati come fredde lame. Gli afferrò il colletto della camicia, fissandolo e stringendo forte la stoffa bianca. Vide Staffell fissarlo, a occhi spalancati sotto gli occhiali da sole.
- Ripeti quello che hai detto. Immediatamente.
- Che te ne frega? Dopotutto, May ti ha spezzato il cuore, una volta.
Roger sentì il cuore fermarsi. Tirò più forte il colletto, facendo gemere il ragazzo. – Queste sono cose di cui tu non devi e non dovresti sapere un cazzo.
- E’ un figlio di puttana. Lo sai anche tu.
Il biondo sollevò il braccio, caricando il pugno e facendo sussultare Tim. Respirò profondamente. Chiuse gli occhi, abbassando la mano e fissando il ragazzo più grande. – Prova, solo un’altra volta, a dire una cosa del genere nei confronti di Brian davanti a me, e io ti giuro che ti uccido.
 

 
- Porca puttana!
Brian si massaggiò le tempie, sospirando e sperando che quel momento terminasse prima possibile. – Buongiorno anche a te, Fred.
- No, tesoro, buongiorno un cazzo! – esclamò il cantante, buttando all’aria una padella che Brian vide schiantarsi al suolo prima di poterla salvare. Il chitarrista sospirò, prendendosi la testa tra le mani. – Dio, perché?
- Qualcuno mi ha fottuto le sigarette!
- Che fortuna.
Freddie si girò verso Brian, arricciando le labbra e mettendo le mani sui fianchi. – Sì, certo. Fai come se niente fosse. Non aiutarmi, per carità!
- Fred, sono le sette del mattino.
- Appunto! Una delle persone che mi ha soffiato il pacco di sigarette sta dormendo! Tu non fumi, Deaky e Roger sì. Quindi, se si svegliano, è una mia vendetta.
Brian sospirò, coprendosi gli occhi con una mano cercando di non perdere la pazienza. – Freddie, Cristo. Non urlare. Ho mal di testa.
- Preso qualche pasticca?
- No.
- Bevuto troppo?
- Mi spieghi come faccio a bere, se gli alcolici ve li scolate tu e Roger?
- Magari sei andato a qualche festino gay.
Brian si stropicciò un occhio, scuotendo la testa. – Ti sembro uno che va ai festini gay? Di mercoledì sera?
- Senti, che cazzo ne so? Hai ventisei anni, puoi concederti qualunque cosa. E poi, dopo averti visto fare la laringoscopia a Roger nel ’69, su quel divanetto, non mi sembri tanto casto.
Quella era l’ultima cosa che Brian, dopo quattro anni, si sarebbe aspettato di sentire. Puntò gli occhi sulla tazza che aveva davanti a sé, spalancandoli. Il suo viso sembrava esser diventato una caldaia. – Tu… Tu come diavolo…
- Era pur sempre la mia festa!
Il giovane chitarrista voleva scomparire. Certo, di quella serata non ricordava assolutamente niente, perciò sapeva appena cosa, realmente, lui e il suo attuale ragazzo avessero fatto, su quel divano. Stava arrivando all’apice della follia. Stava letteralmente impazzendo.
Chiuse gli occhi, giungendo le mani davanti al naso e sospirando appena. – Io… Ma perché cazzo non me lo hai mai detto?
- Non si viola la privacy degli amici. – Freddie aprì il frigorifero, ci guardò all’interno e lo richiuse.
- Che cavolo fai? – gli fece il minore. Il cantante scosse la testa. – Niente. Nemmeno qui.
- Ora mi spieghi quale genere di idiota metterebbe delle sigarette in un frigorifero.
- Dovevo pur tentare. – sbuffò. - Deacy non mi ruberebbe mai le sigarette, ne sono convinto. E’ stato quella locomotiva del tuo ragazzo.
- Si può sapere che vi prende? Io volevo dormire, ma non ho potuto perché state urlando come delle galline! – esclamò un bassista evidentemente contrariato appoggiato sulla posta, mentre si stropicciava un occhio. Brian fece un sonoro sospiro. – Scusa, John.
Freddie, dal suo canto, si alzò dallo sgabello su cui si era seduto, dirigendosi verso il più piccolo nella stanza e iniziando a tastargli i fianchi e le gambe. John aggrottò la fronte, confuso e leggermente inquietato dall’atteggiamento dell’amico. – Che stai facendo, Fred?
- Ti perquisisco.
- I pigiami non hanno nemmeno le tasche!
- Ora ti metti anche tu a fare il pignolo come Brian May?
Brian sbuffò.
John alzò gli occhi al cielo, tirando uno schiaffo sulla mano di Freddie. – Non serve una laurea per sapere che non mi servono tasche quando dormo!
 - Vaffanculo, vi odio! Odio te, odio quello là –, indicò il povero chitarrista chino sulle sue stesse braccia incrociate. – e odio anche quell’ameba che sta dormendo come se non avesse commesso un furto!
- No! – sbottò Brian, saltando in piedi e sbattendo entrambe le mani violentemente sul tavolo su cui stava mangiando, facendo tremare le tazze e i bicchieri che ci erano appoggiati. – Io! Sono io che vi odio! Cristo, ho mal di testa, non ho dormito per un cazzo perché quel deficiente russa come una lavastoviglie e voi, a prima mattina, vi mettete a giocare a guardie e ladri come dei bambini di cinque anni!
John sbatté le ciglia, restando immobile mentre il più grande tra i tre fissava il riccio come se fosse pazzo.
- Tesoro, se continui così ti verrà un infarto. – osservò, mentre Brian spalancava gli occhi, incredulo davanti a quella situazione che gli stava dando non poco fastidio. – Questo è tutto quello che hai fottutamente da dirmi?!
I tre videro la porta sbattere violentemente contro il muro, notando che chi in quel momento la teneva era il ragazzo biondo che, occhi spalancati e capelli ritti sopra la testa, stava poco prima dormendo in santa pace. John sorrise. – Rog!
- Ma che cazzo di problemi affliggono le vostre teste di merda? – sbottò il batterista, stringendo i pugni e allargando le braccia.
- Tira fuori le mie sigarette! - si intromise Freddie.
- Vedi di non rompermi il cazzo e stai zitto.
- Certo che scopare ti rincoglionisce seriamente!
- E’ quello che ho detto anche io ieri. – disse John, sedendosi affianco a Brian, che ormai stava ansimando e sembrava essere intenzionato a far esplodere la cucina.
- Ma tu che cazzo ne sai? – ribatté Roger.
- Ho vinto una scommessa, tesoro, ci arrivi alle cose?
- Ma vaffanculo. – il biondo sbuffò, buttandosi sulla poltroncina in vimini accanto al frigorifero.
- Ridammi le sigarette.
- Le ho finite.
Freddie assottigliò lo sguardo. – Brutto figlio di…
La frase del cantante fu interrotta dal rumore dei piccoli cristalli che s’infrangevano sul pavimento di legno. Il batterista si voltò di scatto, vedendo il suo ragazzo con una mano sospesa per aria, mentre ai suoi piedi una povera boccia di vetro si era frantumata in mille piccoli pezzi. John portò le mani alle labbra, scuotendo la testa. – Le mie proprietà!
Brian fissava entrambi con gli occhi strabuzzati, la bocca contratta in un’espressione omicida e il petto che si alzava e si abbassava velocemente, mentre il fiato filtrava veloce dalle narici dilatate.
- Dovresti fare un corso per la gestione della rabbia. – osservò Roger, portandosi una mano al cuore.
L’urlo esasperato del chitarrista lo sentì tutto il quartiere.
 

 
John Deacon non sembrava sentirsi esattamente a suo agio, in quel momento. Sembrava… Confuso? Semplicemente, sul suo viso e nei suoi occhi era dipinta un’espressione di puro disagio. C’era un ragazzo strano, biondo, che sembrava essere di uno o un paio d’anni più vecchio di lui. Un amico in comune gli aveva detto che i Queen cercavano un bassista, perciò aveva pensato che, forse, valeva la pena tentare.
Solo che Roger Taylor non gli sembrava esattamente una persona con tutte le rotelle a posto. Su questo non ci pioveva.
Era arrivato da lui tenendo una birra nella mano destra, sorridendo a trentadue denti.
I vestiti che indossava erano assurdi. Aveva un camicione lungo e bianco, con le maniche ampie e i polsi colorati che, al contrario, sembravano essere talmente stretti da potergli far esplodere entrambe le mani e la bottiglia di birra.
I pantaloni che gli avvolgevano quegli stecchini che aveva come gambe erano talmente colorati e luccicanti che risaltavano persino nel buio della stanza.
Il ragazzo era più basso di lui, i capelli biondi erano disordinati in cima alla testa e gli occhi erano talmente grandi che a John non parevano quasi reali.
- Sono Roger! – esclamò il ragazzo, allungando la mano libera nella sua direzione. – Roger Meddows Taylor! Il batterista dei Queen. Tu devi essere John!
Il bassista annuì, stringendogli la mano con la sua, non restando affatto sorpreso dalla forza e dalla decisione che ci mise Roger nel ricambiare. Gli avevano parlato, di Roger Taylor. Dicevano tutti fosse un tipo un po’ strano e, a volte, forse anche un po’… Ambiguo. Una ragazza gli aveva parlato di una volta in cui, alle superiori, che lei frequentava assieme al batterista, quest’ultimo l’aveva per sbaglio urtata con il braccio e subito dopo, girandosi verso di lei senza nemmeno scusarsi, le aveva detto “Ehi, la nostra pelle ha appena fatto sesso”. Poi aveva roteato gli occhi dietro alle palpebre, picchiettandosi il braccio con le dita e restando lì, fermo. Questo la diceva abbastanza lunga.
- Sì, sono io. Molto pia…
- Piacere mio! – lo precedette Roger, lasciando cadere la birra per terra senza nemmeno farlo apposta. John sussultò appena. Il biondo scosse la testa, battendosi la fronte con la mano. – Certo che sono proprio un coglione.
John sorrise appena, divertito. – Non ci sono, il chitarrista e il solista?
Roger fece una smorfia. – Ah, Freddie è rimasto a casa. – sollevò le spalle. – Ha fatto indigestione dopo aver mangiato, per sbaglio, cibo per gatti. – poi cambiò espressione. Sembrava leggermente infastidito, anche leggermente nervoso. – E io e Brian non andiamo esattamente d’accordo.
Il più piccolo alzò le sopracciglia. Aveva sempre creduto che, in una band, dovessero regnare la comprensione reciproca e una grande intesa, tra i membri. Eppure, l’affermazione del batterista aveva fatto intendere l’esatto contrario. Non volle intromettersi, tutta via.
– Ma è qui, Brian? – chiese soltanto, interessato a conoscere il giovane chitarrista. Gli avevano parlato di lui descrivendolo come una specie di genio. Studiava fisica e astrofisica, era un polistrumentista, secondo le voci che aveva sentito. Roger sollevò le spalle. – Sì. Forse si starà già scopando qualcuno che nemmeno gli piace.
Il bassista aggrottò la fronte. – Eh?
- No, niente. – il biondo si grattò una tempia. – Vuoi che te lo chiami?
Il tono era acido e leggermente infastidito, non più allegro ed entusiasta. John annuì comunque. Vide Roger muovere un po’ la testa, per poi allontanarsi e sparire, piano piano, tra la folla.
Roger cercò Brian ovunque, anche nei bagni. Sbuffò quando, dopo svariati tentativi, non trovò nessuno. Si avvicinò ad un ragazzo che stava prendendo della vodka al bancone. – Scusa, hai visto un coglione?
Il poveretto interpellato aggrottò la fronte. – Hai sbagliato persona, credo.
- No, non sono così fatto. Sto parlando con te. Hai visto un coglione?
- Non so di chi tu stia parlando.
- Oh, ma andiamo! – sbuffò il biondo. – E’ alto così – alzò una mano fin sopra la sua testa. – Ha la faccia da coglione, i capelli da coglione e degli zoccoli da coglione.
- Ti rendi conto che se me lo descrivi così io non sappia risponderti, no?
Il giovane batterista si morse la lingua. Scrollò le spalle. – Capelli ricci, occhi castani. Faccia da chi si crede Gesù Cristo. Magro, con un naso di merda.
- E…?
- Ma che cazzo, qua dentro sono tutti rincoglioniti!
- Com’era vestito?
- Come un coglione.
- Come si veste, un coglione?
- Camicia bianca, pantaloni neri a zampa d’elefante. Zoccoli, cazzo. Ci sarà una sola persona con dei cazzo di zoccoli, qua dentro.
- Oh. – il ragazzo con la vodka guardò alle spalle di Roger. – E’ dietro di te.
Il biondo si voltò. Vide Brian parlare con il ragazzo al bancone e deglutì. Le luci della discoteca facevano sembrare il suo sorriso ancora più luminoso. Lo vide girarsi verso di lui. – Rog.
- Ehi, coglione.
Il riccio sospirò. – Per quanto ancora dovrai…
- C’è John Deacon che vuole parlarti.
Brian socchiuse appena la bocca. Annuì, interessato dal discorso di Roger. – Dov’è?
- E’ lì, infondo. Non puoi sbagliarti. Ha la faccia di uno che qua c’è solo perché ce lo hanno trascinato. – il batterista alzò le spalle. – Però non saprei da chi, perché era da solo.  E’ alto e ha dei capelli di merda. Ma che comunque restano meno di merda dei tuoi. Lunghi, mossi, castani.
Brian assottigliò lo sguardo, cercando di distinguere qualcuno di almeno vagamente simile alla descrizione di Roger, per quanto fosse possibile. Vide un ragazzo appoggiato ad una parete, che sembrava cercare qualcuno con lo sguardo. Si guardò il polso, sul quale teneva un orologio. Sospirò, battendo piano il piede per terra e infilando le mani in tasca. Lo indicò a Roger. – E’ quello là?
Il batterista mise entrambe le mani ai lati degli occhi azzurri, stringendoli leggermente. – Boh, non vedo un cazzo.
- Quando ti deciderai a mettere degli occhiali?
- Senti, fammi la cortesia, non rompermi tanto le palle che sono già girate. Comunque sì, è lui.
Brian scese dallo sgabello su cui era seduto, dirigendosi verso il ragazzo in questione, mentre girandosi poteva distinguere Roger importunare un ragazzo con un bicchiere di vodka tra le mani. Sospirò. Sebbene fossero quasi sempre a contatto, era come se non si conoscessero nemmeno. Gli aveva anche chiesto un passaggio in macchina, quella sera, e stranamente il biondo non aveva rifiutato di accompagnarlo. Quella situazione stava iniziando a farlo star male anche a livello fisico. Era talmente stressato che non dormiva da giorni.
Vide il volto di John Deacon illuminarsi, una volta che gli fu davanti e gli sorrise. – Ciao, tu devi essere il bassista, giusto?
Vide il ragazzo annuire e lo salutò con una salda stretta di mano. – Scusami se ti abbiamo fatto aspettare. Sono Brian.
- Sì, lo so.
Il chitarrista mise le mani in tasca, drizzando la schiena. – Ci è davvero impossibile, trovare un bassista. Ci fa piacere che tu sia interessato.
- Eppure ci sono tanti bassisti molto bravi, qui a Londra. – osservò Deacon. Brian sollevò le spalle. – Sì, è vero. Il fatto è che nessuno ci ha mai convinti. Se suonavano bene, non avevano personalità. E se avevano personalità, erano un disastro a suonare.
John sorrise, timidamente. Lo turbò vedere Roger Taylor bere da una bottiglia di birra a testa in giù sul divano. – Ecco… Potrei fare un’audizione, o qualcosa così, credo.
Vide il chitarrista annuire. – Se sei interessato, senz’altro. Ora dobbiamo solo fissare l’appun… - il ragazzo guardò nella stessa direzione in cui era rivolto lo sguardo del bassista. – Credo che Roger sia appena svenuto.
 

 
Le dolci note del pianoforte risuonavano delicate nella stanza, mentre il ragazzo seduto sullo sgabello si concentrava al massimo per farle risultare orecchiabili e assonanti. Appoggiò delicatamente il pollice, il medio e il mignolo della mano sinistra rispettivamente sul Do, poi sul Mi bemolle e sul Sol contemporaneamente mentre con la destra suonava un lento e leggero arpeggio. Respirò profondamente, spostando le mani, per poi farle rimanere sospese per aria sussultando.
- Certo che non esiste cosa che ti riesca male.
Brian si girò lentamente verso la fonte della voce che gli aveva fatto prendere un infarto, alzando le sopracciglia quando vide il suo ragazzo appoggiato allo stipite della porta alle sue spalle, con un sorrisetto soddisfatto sul volto. Vide Roger avvicinarsi a lui e sedersi sul divano che era sistemato accanto al pianoforte, prendendosi il mento tra le mani. – Hai calmato un po’ i tuoi bollenti spiriti, Ludwig?
- Siete due teste di cazzo. E poi starei cercando di concentrarmi.
Roger inclinò la testa da un lato. – Ti do fastidio? – chiese, fissandolo con gli occhi azzurri che gli fecero per un attimo fermare il cuore. Brian sospirò. – Sei veramente pesante.
Il biondo si puntò un dito contro il petto. – Io?
- Esatto.
Roger alzò gli occhi. – Ma senti tu da che cazzo di pulpito viene la predica.
Brian lo ignorò, continuando a concentrarsi sullo spartito. Non poté nemmeno leggere una nota che sentì delle calde labbra appoggiarsi sul proprio collo, mentre delle piccole mani gli accarezzavano i ricci. E mica si limitò a quello. Il ragazzo scese sulle sue clavicole, facendogli buttare la testa all’indietro mentre chiudeva gli occhi e schiudeva le labbra. Brian cercò di spingere via il ragazzo, ma quella testa di cazzo continuava, imperterrito, a mordicchiargli la pelle nivea e sensibile. Si odiò quando si fece sfuggire un gemito. – E che cazzo… - mormorò.
Roger si mosse repentinamente, finendo affianco a lui sullo sgabello e guardandolo con un sorriso stampato in volto e gli occhi azzurri che lo scrutavano come quelli di un bambino. Quando faceva così lo detestava. Roger sapeva che, con Brian, se avesse fatto quello sguardo, avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa. – Che cosa suoni?
- Sto provando a comporre qualcosa di decente.
- Per cosa?
- Per la base di White Queen.
Roger guardò i tasti bianchi e neri del pianoforte, inclinando la testa da un lato e appoggiando l’indice su uno di essi, facendo risuonare un Re minore nella stanza. – Sarei totalmente incapace.
- A fare che cosa?
- A suonare il piano.
Brian sorrise. – E cos’è, esattamente, che te lo fa pensare?
Il biondo alzò le spalle. – Spaccherei i tasti.
Il riccio rise appena. – E’ probabile. Ma ci sono tanti pezzi che potresti suonare, con la tua energia. Sicuramente pezzi in scala maggiore.
- E quelli in scala minore no?
- Se non gradisci i pezzi tristi e malinconici, non penso possa piacerti suonare in scala minore.
Il batterista aggrottò la fronte. – Scusa, e chi ti dice che non mi piacciano?
- Il fatto che quando suono tu dica sempre “Che palle”.
- No, quello lo dicevo quando mi stavi sul cazzo. Per farti sentire una merda noiosa.
- Mi spiace, hai fallito nell’intento.
Roger alzò un sopracciglio. – No, non credo proprio.
Brian gli lasciò un piccolo bacio sulla guancia, guardandolo. – Secondo me ci sono delle composizioni che si adattano molto ad ogni persona, in base al carattere e alla personalità che la contraddistinguono.
Il biondo guardò Brian con gli occhi curiosi di un bambino, appoggiando le dita sui tasti e suonando un La con un Re diesis, creando una dissonanza che fece storcere il naso a entrambi. Roger alzò gli occhi sul riccio. – A quale pezzo mi paragoneresti?
Il chitarrista assottigliò lo sguardo e arricciò le labbra, alzando la testa pensieroso. Poi si girò verso di lui e gli accarezzò una guancia. – Alla marcia di Radetzky.  
Roger sorrise. – Ah sì?
Brian annuì. – Sì. E’ energica, veloce e ci sono un sacco di staccati.
- Lo staccato sarebbe questo? – il minore posizionò le dita sulla tastiera, appoggiandocele appena per poi sollevarle subito. Il riccio sorrise. – Sì.
- Presi lezioni di pianoforte, una volta. Però non mi piaceva. E l’insegnante diceva che sbattevo troppo forte le dita sui tasti.
Brian aggrottò la fronte. – Secondo me non saresti male. Si tratta solo di usare un po’ più di leggerezza e applicare meno pressione sui tasti. Certo, se ti accanisci sulla tastiera non risulterà un bel suono. Però io dico che tu saresti adatto esattamente come lo sono io.
Roger alzò le spalle. – Tu sei più pacato e più delicato di me. La leggerezza fa parte della tua indole. Tu… - il biondo guardò il suo ragazzo. – Tu saresti paragonabile a “Fantasie Impromptu” di Chopin.
Brian sorrise, lasciando un bacio delicato sulle labbra del batterista. Il biondo incurvò leggermente le spalle. – Mi insegni qualche regola?
- Be’, non sono un insegnante, però posso provare. Tanto, sono sicuro che in poche ore saresti capace di suonare meglio di me.
Roger alzò gli occhi al cielo. Il chitarrista gli prese delicatamente le mani tra le sue, appoggiandole sul pianoforte e sollevandole leggermente dal palmo. – Devi tenerle così, come se avessi tra le mani un’arancia. No, non così, non la stai spremendo, l’arancia. Più leggere. Ecco, esatto.
Il biondo guardò le dita di Brian appoggiate sulle sue, per poi rivolgere lo sguardo verso il riccio. Il ragazzo gli lasciò le mani. – Sai riconoscere le note?
- Ah, be’, credo di sì. – Roger appoggiò un dito sul Do centrale. Poi sul Re, sul Mi, sul Fa. Concluse la scala buttando giù il tasto del Si, pronunciando ogni volta la nota che suonava.
- Perfetto. Questa è la scala di Do Maggiore. E’ senza alterazioni e ha un carattere allegro e una tonalità vivace.
- Quella di Do Minore come sarebbe?
- Le uniche differenze si trovano nelle alterazioni. Il Mi è bemolle quando la scala sale, quando scende i bemolle sono anche il Si e il La.
Roger arricciò le labbra. – E il bemolle sarebbe il tasto nero a destra della nota?
- No. E’ quello a sinistra. Quello a destra è il diesis. – suonò il tasto corrispondente alla nota precedentemente citata. – Il bemolle e il diesis sono dei semitoni. Tra i tasti bianchi c’è un tono, tra i tasti bianchi e quelli neri c’è, appunto, il semitono. Per questo, il Mi bemolle corrisponde al Re diesis.
Il biondo annuì.
- Prova a suonare la scala di Do Minore. – fece Brian.
Roger azzeccò tutte le note al primo colpo. Il riccio sorrise, accarezzandogli le mani ancora posizionate sulla tastiera e baciandogli la fronte. – La tua insegnante non capiva assolutamente un cazzo.
- No, infatti. – il batterista si alzò dallo sgabello su cui era seduto, prendendo la mano di Brian e facendo scendere anche lui, attirandolo a sé. Brian si abbassò leggermente, afferrando i fianchi del biondo e lasciandogli un bacio sulle labbra. – Sono fiero di te. Della tua intelligenza e della tua curiosità. Però resta il fatto che sei fastidioso e non mi hai fatto finire la mia canzone.
- Così mi monto la testa.
- Per un paio di complimenti?
- No, perché sono riuscito a darti fastidio.
Brian sorrise, alzando gli occhi al cielo e stringendolo a sé, appoggiando il mento sulla testa bionda del ragazzo, mentre Roger canticchiava, leggermente, quasi sotto voce, la melodia di “Fantasie Impromptu” di Chopin.
 

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Capitolo 12
*** Love of my life, can't you see? ***


Capitolo 12 - Love of my life, can't you see?
 
Il fumo che proveniva dalla tazza di thè che Brian aveva davanti annebbiava i vetri della finestra, mentre al di là di essi la pioggia batteva forte su Londra. Il ragazzo sospirò dal naso, lasciando andare con la mano una zolletta di zucchero che, tuffandosi nel liquido caldo, lo fece schizzare leggermente. Brian fece una smorfia quando vide delle gocce di thè finirgli sulla camicia.
Non aveva notizie di Roger da ore e stava iniziando a preoccuparsi leggermente. Era convinto che il ragazzo stesse bene, non doveva preoccuparsi. Eppure.
Eppure aveva un presentimento che non lo stava mettendo troppo a suo agio. Sapeva che Roger, quando stava male, tendeva a fare cazzate. Certo non era come lui, che quando era con il morale a terra impiegava il suo tempo in qualcosa di sano e in cui poteva concentrarsi, concedersi di spaziare coi pensieri. Leggeva, ascoltava della musica, suonava, scriveva. Roger, invece, era più incline alla distruzione e, a volte, all’autodistruzione. Per questo avrebbe voluto che fosse rimasto con lui.
- Sto uscendo - gli aveva detto, infilandosi il cappotto e mettendosi le mani in tasca. Brian aveva alzato gli occhi dal libro su cui stava studiando. – Dove hai intenzione di andare?
Il biondo aveva alzato le spalle. – Ho bisogno di distrarmi un attimo. Non torno qui. Vado a casa.
- Tu pensi di andare a Truro da solo?
- Sì.
- Con che macchina?
Roger aveva tirato fuori dalla tasca delle chiavi, facendole tintinnare tra le dita. Brian aveva sospirato. – No. Non è il caso.
- Ma che vuoi? Ho vent’anni e tu non sei mio padre.
- Smettila di fare come una quindicenne ribelle e vedi di farti trovare qui prima che io mi addormenti. 
Roger si era portato una sigaretta alle labbra e aveva annuito, alzato gli occhi al cielo, per poi uscire e sbattere la porta.
Brian non aveva notizie di lui da quel momento. Il ragazzo era come sparito, sebbene alla fine avesse ceduto e lo avesse ascoltato. Erano le due del mattino. O lo stava prendendo in giro, o si era ficcato nei guai. Non sapeva nemmeno dove fosse andato.
Si alzò, dirigendosi verso la base dov’era appoggiato il telefono, tentato di chiamare Winifred Taylor per capire se Roger fosse lì o meno. Solo che non fece nemmeno in tempo a prendere in mano la cornetta, che lo sentì squillare di colpo. Aggrottò la fronte. Qualcuno stava veramente chiamando alle due di notte?
Avvicinò comunque il telefono all’orecchio. – Sì?
Una voce ansimante e acuta parlò dall’altra parte del telefono, mentre Brian poteva sentire, in sottofondo, musica e vociare. – Pronto? Brian May?
Fece una smorfia. – Sì. Posso darle una mano? Come ha avuto il mio numero?
- Mi chiamo Freddie. Sono amico di Tim Staffell e… E sono con Roger. – sentì il ragazzo sospirare subito dopo. Sollevato, il chitarrista si appoggiò una mano sul cuore. – Dove siete? Roger sta bene?
- Siamo in discoteca. A Brixton. Lui è… Sbronzo. Schifosamente sbronzo e svenuto.
Brian restò per un attimo a fissare il muro, con il cuore che batteva forte. Lo sapeva. Se lo sentiva. E quando Brian aveva un presentimento, quello era quasi sempre vero.
- Sarò lì in dieci minuti.
 
Quando Brian arrivò a Brixton Road, si precipitò fuori dalla macchina con un’ansia tale da invadergli il petto e bloccargli quasi il respiro. Doveva trovare Roger e lo doveva trovare subito.
Vide che un ragazzo, alto più o meno quanto il suo migliore amico, con i capelli neri e il trucco in viso dello stesso colore era appoggiato contro un muretto bianco proprio di fronte alla discoteca di cui quel Freddie stava parlando, mentre cercava disperatamente di sistemarsi qualcosa tra le braccia. Quel “qualcosa”, ora che guardava meglio, aveva capelli color biondo cenere, una camicia a fiori con larghe maniche e pantaloni strettissimi. Quel “qualcosa” era Roger.
Corse verso quello che doveva essere Freddie, cercando di rimanere calmo, sperando che il suo migliore amico stesse bene.
- T-tu sei Freddie? – balbettò, mentre vedeva il ragazzo tirare su la testa di Roger, che era caduta pesantemente all’ingiù. Il moro sospirò, annuendo. – In persona.
Brian guardò Roger, prendendogli la testa tra le mani. Controllò se respirasse, gli tirò due sberle e lo vide socchiudere gli occhi. Il chitarrista sospirò, sollevato. – Rog. Mi senti?
Vide il biondo sorridere appena, ridere, muovere la testa a destra e a sinistra. Sollevò gli occhi socchiusi al cielo.  – Cristo, che bella la luna.
Brian sbatté un paio di volte le ciglia, cercando di tenerlo sveglio mentre Roger, dal suo canto, abbassava del tutto le palpebre, crollandogli tra le braccia a peso morto.
 

 
Era una giornata strana, a Londra. Insolita.
C’era un bel sole, sembrava quasi estate, la nebbia era completamente sparita e non faceva freddo, tirava solo un leggero vento che, stranamente, era piacevole.
I ragazzi ne avevano approfittato, avevano preso le biciclette per fare un giro a Victoria Park dopo aver registrato in studio.
Freddie e Roger erano avanti, nessuno dei due voleva saperne di mollare ed entrambi pedalavano più veloci che potevano. Avevano deciso di fare una gara, a cui John e Brian, data la lieve stanchezza, avevano rifiutato di partecipare. Loro pedalavano lentamente, piano, guardando di tanto in tanto i bambini giocare sull’erba e divertendosi ad assistere ai litigi e agli insulti che si scambiavano il cantante e il batterista.
- Coglione, stai barando! Sono sull’erba e tu sull’asfalto, non funziona così! – sentirono urlare Roger, che cercava di spostarsi dal prato verde che la bici, lenta, stava percorrendo. Freddie rise e continuò a pedalare. – Tesoro, questa è furbizia! Non è barare!
Roger riuscì finalmente a schiodarsi, raggiungendo il moro, ansimante. Pedalò ancor più veloce e riuscì a superarlo, seppur con fatica. – La furbizia non ti serve, resto comunque più veloce di te! – ansimò, sebbene avesse rischiato di inciampare e cadere dalla bicicletta. Per due volte.
Freddie, dal canto suo, si alzò dal sellino, pedalando tenendosi semplicemente con le dita al manubrio, superando immediatamente Roger. Il biondo frenò, ansimante, per poi ricominciare a spingere con i piedi sui pedali. – Farrokh!
- Sarai anche più veloce, ma io sono più sveglio!
- Io ti ammazzo!
Continuarono così per una buona mezz’ora, mentre Brian e John, stesi sul prato, il più grande appoggiato con i gomiti sull’erba e il bassista sdraiato con le braccia dietro alla testa, si godevano la pace e la calma di quel momento, dopo aver legato le biciclette ad un albero.
La suddetta pace non durò nemmeno dieci minuti.
- Ti odio! Non hai vinto. Hai approfittato anche del fatto che io fossi caduto dalla bici. Sei un bastardo. – Roger, i capelli crespi ed elettrizzati sopra alla testa, si sedette accanto a Brian sbuffando, mentre Freddie sorrideva divertito con le mani appoggiate sui fianchi. – Oh, peccato che io sia caduto ben tre volte, dalla bici. E mi sia anche sbucciato un ginocchio. Eppure, ho vinto.
- Ti sei fatto male? – domandò John, lanciando un’occhiata al cantante, che sollevò le spalle e restò in piedi. – Nah.
Brian avvolse un braccio attorno alle spalle del biondo, baciandogli dolcemente una tempia e accarezzandogli la schiena. – Almeno non ti sei sbucciato un ginocchio.
- Perdere è peggio che farsi male.
- Quanto sei infantile! – esclamò John, dando un morso al panino che aveva portato nello zaino, porgendo gli altri tre ai ragazzi. Roger sbuffò, afferrando il suo quasi con violenza. – Io? Infantile?
- Sì. – dissero in coro gli altri tre, guardandosi poi a vicenda, leggermente confusi.
- Fanculo. Qui ce l’avete tutti con me.
Brian prese il suo ragazzo tra le braccia. Lo baciò dolcemente sotto gli occhi di John e Freddie e quest’ultimo fece una smorfia. – Deacy, piccolo, io direi proprio di lasciare a questi due conigli arrapati il loro spazio. Piuttosto, non è che hai portato un cerotto?
Il bassista alzò gli occhi al cielo, mettendo una mano in tasca e tirando fuori una scatola che quella mattina, completamente sicuro che qualcuno si sarebbe fatto male, aveva riempito con disinfettante, ovatta, cerotti e garze.
- Bene! Perché credo che il mio ginocchio stia andando in cancrena.
John si alzò, prese Freddie sotto braccio e si allontanò, lasciando Roger e Brian lì, l’uno stretto all’altro, su quel prato isolato.
Il biondo aggrottò la fronte. – L’hai fatto apposta?
- Secondo te?
- Sei il solito depravato. Se ci vedesse qualche bigotto?
Brian sorrise, baciandolo dolcemente mentre Roger gli appoggiava una mano dietro alla nuca, sistemandosi a cavalcioni su di lui. – A me non interessa. A te?
Il più piccolo alzò le spalle. – Non direi.
Sulle labbra del chitarrista spuntò un ghigno che fece inclinare la testa di Roger verso destra. – Che c’è?
Non passò nemmeno una frazione di secondo, che il biondo sentì le dita affusolate di Brian infilarsi sotto alla sua maglietta e muoversi velocemente sui suoi fianchi, facendolo scoppiare a ridere mentre scivolava sull’erba, senza fiato. Il chitarrista si sistemò meglio sopra di lui, continuando a solleticargli la pancia e il collo, beandosi della risata chiara e quasi da bambino del suo ragazzo.
Nel sentire quella risata, nel vedere quel sorriso, nel toccare quella pelle, si chiese come avesse fatto, per anni, a lasciare che tutto ciò che aveva davanti non fosse suo. Stava per lasciarsi scappare quel prezioso, divertente, intelligente, eccentrico ragazzo dai capelli biondi, che in quel momento lo stava facendo sentire speciale, fortunato e felice. Mise a freno le dita, guardando il suo ragazzo ansimare e ridere dolcemente. Fece scappare un sorriso anche a lui che, con tutto l’amore del mondo, gli sfiorò una guancia con una mano, osservandolo.
Guardando Roger poteva dire di sentirsi quasi in paradiso. Guardare quegli occhi così grandi e azzurri, quel sorriso sincero e sereno, quei capelli biondi sparsi sull’erba, gli faceva battere forte il cuore, lo faceva sentire a casa.
Brian si stese affianco al ragazzo, continuando a sorridergli, scostandogli una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Sentì che quel momento fosse perfetto. Sentì il sangue pulsare veloce, la testa alleggerirsi. Sarebbe potuto restare a guardare e accarezzare Roger per tutta la vita.
Non seppe esattamente cosa lo spinse a sussurrare quelle parole, non gli importò di nulla, non badò al peso che potessero avere. Semplicemente, le pronunciò. Gli sfuggirono dalle labbra senza esser collegate in alcun modo ai pensieri. – Ti amo.
Il cuore di Roger si fermò, per poi ricominciare a battere velocemente mentre milioni di emozioni e sensazioni diverse si affollavano nella sua testa e gli riempivano il petto.
“Ti amo”.
Quelle due semplici, dolci parole si ripetevano nella sua testa mentre lui quasi non riusciva a respirare. Brian era l’unica persona da cui avrebbe mai voluto sentire quelle parole, ed era l’unica persona a cui avrebbe voluto dirle. Il sorriso del ragazzo che aveva davanti, quelle mani callose ma morbide che gli accarezzavano le guance, quegli occhi castani e luccicanti, gli fecero sentire chiaramente ciò che Brian gli aveva appena detto.
“Ti amo”.
“Ti amo”.
“Ti amo”.
Il sorriso di Roger si aprì sulle sue labbra rosee, che Brian catturò subito dopo, facendole combaciare con le sue.
- Ti amo anch’io, Bri. – balbettò il minore. Il riccio lo trovò adorabile. Gli accarezzò una guancia, attirandolo a sé. Lasciò che Roger chiudesse gli occhi, rilassandosi tra le sue braccia mentre Brian sentiva che avrebbe potuto volare.
 

 
La ragazza che Roger si ritrovò davanti era bella come anni prima. Alta, elegante e fine, con i capelli castani a caschetto e quella frangia morbida che le copriva la fronte. Aveva una chitarra dentro alla custodia sulla spalla destra, portava una giacca pesante e una sciarpa rossa attorno al collo, le calze nere di nylon la riparavano dal freddo e la gonna verde le arrivava alle ginocchia.
La vide sorridergli educatamente, tenendo le labbra chiuse mentre due fossette si formavano sulle guance chiare.
Roger aprì di rimando un sorriso, guardandola sedersi davanti a lui al tavolino del bar.
- Scusami, sono un po’ in ritardo. E’ che ho appena finito di fare una lezione di chitarra a Brenda, la mia cuginetta. – Elena si sfilò il cappotto, infilando la sciarpa rossa dentro una delle maniche e appoggiandolo dietro alla propria sedia. Il biondo alzò le spalle. – Di solito sono io quello in ritardo. Anche perché sono qui da cinque minuti e l’appuntamento sarebbe dovuto essere un quarto d’ora fa.
La ragazza sorrise. Si erano sempre piaciuti a vicenda, c’era sempre stata un’intesa tra loro, anche se Roger tendeva ad essere sempre tanto protettivo nei confronti di Brian, soprattutto dopo che i due si erano lasciati. Ma da quando il ragazzo gli aveva spezzato il cuore, quella mattina del 1969, il biondo si era scusato almeno un centinaio di volte con la ragazza per averla trattata come se fosse una stronza. Elena aveva sempre riso, scuotendo la testa e rassicurandolo, dicendogli che non doveva preoccuparsi, che era normale difendere il proprio migliore amico. Seppur fosse in torto e gli avesse mentito su tutto.
- Di cosa vorresti parlarmi? – gli chiese la ragazza. Roger non sapeva bene cosa risponderle. Le aveva chiesto di incontrarsi in quel piccolo bar, forse solo per sfogarsi con qualcuno. Aveva bisogno di parlare con lei, semplicemente perché necessitava avere risposte. Sospirò. – Ti fa male, parlare di Brian?
La ragazza sbatté le ciglia un paio di volte. Trasse un profondo respiro. – Be’, io…
- Cosa posso portarvi? – la voce della cameriera interruppe quella di Elena, facendo alzare la testa a entrambi. Roger guardò la ragazza, schiarendosi la gola. – Un caffè e una porzione di pancake.
La cameriera annotò ciò che le era stato detto sul block notes che aveva tra le mani. – E per la signorina?
- Un frappè al cioccolato.
La ragazza sorrise, portando via i menù e lasciando continuare Elena. – Vedi, io… Non pensavo mi avessi chiesto di venire qui per parlare di qualcun altro, Roger.
- No, no, non… Non ho intenzione di insultarlo, se è ciò che pensi. – la fermò il ragazzo, mettendo le mani davanti a sé. – Solo… Ho bisogno di parlarti.
- Di Brian?
- No. Non proprio, almeno. – respirò profondamente. – Ecco, io… Ho bisogno di parlarti di me. E… E anche di Brian. Circa.
- Oh.  – Elena annuì. – Ma in che senso?
Roger iniziò a gesticolare frettolosamente con le mani. – E’ che… Io e Brian non ci parliamo da giorni, perché io sono arrabbiato con lui. Tanto arrabbiato. Così arrabbiato che potrei ucciderlo. No, non ucciderlo, ci starei male. Ecco, io…
Elena sorrise, intenerita dall’atteggiamento impacciato e confuso del ragazzo. – E come mai?
- Perché mi ha mentito. Su tante cose. – non accennò alle bugie che Brian gli aveva raccontato su Elena. – E poi… Mi piace. Solo, io… Io non piaccio a lui.
La ragazza sospirò, abbassando di poco lo sguardo. – E lui è arrabbiato con te?
- No. Con che coraggio potrebbe?
Elena annuì. – Ne hai parlato con lui? Gli hai detto perché sei arrabbiato?
La cameriera tornò da loro, appoggiando davanti ai due ragazzi i rispettivi piatti ordinati. Roger tagliò un pezzo di pancake e lo mangiò. – Sì. Ma ero arrabbiato. Lo sono ancora, ma non com’ero quel giorno. Non ho concluso molto.
La ragazza alzò per un attimo lo sguardo, pensierosa. – E lui cos’ha fatto?
- Niente.
- Niente di niente? – aggrottò la fronte. – Non credo.
- Be’, ha cercato di riavvicinarsi a me. Ma non credevo di essere pronto a fidarmi. Quindi gli ho tirato un pugno in faccia.
La bruna spalancò gli occhi. – Che cosa?!
Il giovane batterista sospirò alzando le spalle. – Mi è sfuggita la mano.
Elena sospirò. – Rog. – prese un sorso dal proprio frappè. – E’ normale che tu sia arrabbiato. Però… Non rovinare il rapporto che hai con Brian. Non mandare tutto a rotoli solo per un rifiuto. E poi, forse, quel giorno era solo confuso. Non fartelo scappare, tu che ne hai la possibilità. – sospirò ancora. – Brian è un ragazzo intelligente, dolce, gentile. Ma anche tanto, tanto fragile. Sicuramente non vuole perderti.
- Ma…
- Ascoltami, Roger. – lo interruppe. – Non ne vale la pena. Non vale la pena provare rancore, non vale la pena allontanarti da lui. Ti vuole tanto bene, Roger. Sono sicura che te ne vuole di più di quanto immagini. E quindi, Roger, continua a lottare. Non lasciarti scappare Brian, perché sono sicura che Brian non si lascerà scappare te.
 

 
- Ah, ho vinto! Ho vinto contro Brian Harold May a Scarabeo! – esclamò John, saltando dal divano con un sorriso fiero e soddisfatto stampato sul viso. Brian sospirò, alzando le spalle e guardando Roger che buttava all’aria il gioco e Freddie che rideva.
- E va bene, il Nobel per l’abilità nel trovare delle parole va a John Richard Deacon. Ora, però, io ho fame. – disse Brian, prendendo la scatola che Roger aveva ribaltato e sistemando la stanza. – E sarebbe il turno di Freddie, oggi.
- Che palle. Non può farlo Roger? Non fa niente dalla mattina alla sera.
- Roger – lo interruppe il biondo, parlando in terza persona di se stesso. – Ha cucinato ieri. E avete anche gradito parecchio.
- Siamo fortunati ad essere ancora vivi. – sospirò John, guadagnandosi un’occhiataccia dal ventiquattrenne e sorridendogli di rimando.
Il telefono squillò.
John si alzò dal divano, avvicinandosi alla cornetta e sollevandola. – Pronto?
La reazione che ebbe gli fece guadagnare l’attenzione dei ragazzi. Prima spalancò gli occhi, poi iniziò a balbettare. – Sì, John Deacon. Mi dica.
Il bassista attese la risposta dall’altra parte del telefono. Quando gli giunse all’orecchio, puntò lo sguardo su Roger. – Sì, è qui con me.
Roger aggrottò la fronte. John allontanò la cornetta, mimando, con le labbra “la polizia”. Il biondo spalancò gli occhi. Aveva fatto qualcosa di male?
- Glielo passo. Buona giornata. – John passò la cornetta al biondo che, dubbioso e incerto, la avvicinò all’orecchio. – Sì?
- Lei è il figlio di Michael Meddows Taylor? – sentì, dall’altra parte. Il cuore gli si fermò per un attimo. Deglutì. – Sì.
Brian notò l’espressione sul viso di Roger. La notarono tutti e tre. Il riccio gli fu vicino in un secondo.
- Suo padre è evaso.
Un colpo al cuore.
- E’ entrato in casa della signora Winifred Taylor.
Un secondo colpo al cuore.
- C’era una ragazza, dentro quella casa.
Un altro.
- Era sua sorella.
Roger stava tremando. Brian gli afferrò la mano e gliela strinse forte. I pensieri si stavano affollando nella testa di Roger come formiche. – Clare. – la sua voce si fece tremante e colma di ansia. – Come sta Clare?
- Ho bisogno che lei venga subito qui.
 
Roger scese dalla macchina con il cuore che batteva a mille. C’era Brian, con lui. Aveva insistito ad accompagnarlo, non lo avrebbe lasciato da solo nemmeno per un secondo.
Il suo cuore sprofondò.
C’era un’ambulanza, paramedici ovunque. Polizia ovunque.
Un uomo in divisa lo raggiunse, gli appoggiò una mano sulla spalla. – Roger Meddows Taylor?
- Dov’è mia sorella? Dov’è Clare?
- E’ dentro casa. Stiamo…
Roger non si fece dire altro. Si divincolò, scansandosi e correndo dentro l’appartamento, con il cuore a mille, il terrore e una piccola, minima speranza gli scorrevano nel sangue. Spalancò la porta, si guardò intorno, senza vedere nessuno. Deglutì. – Clarie? – chiamò. Non ottenne risposta.
- Clarie? – ripeté, più forte.
- Clarie? – urlò. Ormai l’ansia si era presa possesso di lui, lo aveva invaso, sommerso. Lo soffocava, incatenava. Corse al piano di sopra, aprì la porta della camera che lui e Clare condividevano, una volta trasferiti a Londra.
Rivide le immagini del suo precedente incubo, sperando di risvegliarsi, sperando di sentire presto la voce di Brian chiamarlo per fargli aprire gli occhi.
Si rese conto che non avrebbe visto mai più il sorriso di Clare. Si rese conto che non avrebbe mai potuto avere dei nipotini, che non avrebbe mai potuto vedere sua sorella sposarsi.
Non avrebbero più potuto litigare, punzecchiarsi, spalleggiarsi, proteggersi, difendersi.
Roger crollò in ginocchio, gli occhi che si riempivano di lacrime che per un momento gli oscurarono la vista, portandola via dal corpo riverso a terra e senza vita della sorella.
Non riusciva a parlare, gli mancava l’aria.
“Ti voglio bene, Roger. Qualsiasi cosa accada, io resterò sempre tua sorella. Sarò sempre dalla tua parte, Roggie”. La voce della sorella si ripeteva nella sua testa, l’immagine del suo sorriso era impressa negli occhi azzurri di Roger.
- No. – sussurrò, con quel filo di voce che gli rimaneva. – No.
Si avvicinò alla sorella, ormai ventenne, bellissima, intelligente, dolce, speciale. Le prese la mano, le accarezzò i capelli biondi come i suoi, le lacrime che non smettevano di scendere dagli occhi azzurri increduli. Qualcosa si spezzò dentro di lui. Crollava tutto a pezzi, come un castello di carte.
Iniziò a scuotere la sorella, urlando.
- Clarie! – strillò. – Clare! Clarie! – Roger sentì di poter impazzire. Sentiva la testa scoppiare, il cuore sanguinare.
Alzò lo sguardo, lentamente. Il dolore si trasformò in ira, pazzia. Senza dire nulla, senza urlare, senza proferire un solo suono, si alzò in piedi. Scese le scale, uscì dalla casa. E lì lo vide. Circondato da poliziotti, ammanettato, immobilizzato. Le gambe si mossero da sole, spinte dalla rabbia e dall’odio. Gli fu addosso in un attimo.
I colpi erano fortissimi, le urla di Roger ancora di più. Lo colpì una, due, tre, quattro, cinque volte. Ansimava, gridava, e in quei pugni ci mise tutto l’odio che aveva represso per anni. Vide suo padre sanguinare, dimenarsi, urlare. Aveva ucciso Clare. Aveva ucciso Clare e meritava solo di provare il dolore che la ragazza aveva dovuto sopportare.
Aveva ucciso Clare e doveva morire.
Due forti braccia afferrarono Roger, tirandolo via dal corpo del padre. Il ragazzo urlò, sferrò pugni e calci.
Il suo cuore stava cadendo a pezzi, stava crollando come il suo mondo.
Clare.
Il sorriso di Clare.
Gli occhi di Clare, così simili ai suoi.
La voce dolce ed entusiasta di Clare.
Clare gli aveva salvato la vita, una volta. E lui non era riuscito a salvare la sua.
 

 
- Roger, piccolo. – la voce di Winifred tremava di gioia, mentre la donna teneva tra le braccia quel piccolo fagottino in fasce. Il fratellino di quella nuova vita, di quella nuova creatura le si avvicinò, timido e felice, accarezzando dolcemente la testa della piccola, ancora senza nome, sorridendo. Roger non sapeva dove fosse il suo papà, lì con lui c’erano solo sua madre e la sua nuova sorellina, ma non ci fece tanto caso. Il viso addormentato e sereno della bimba lo fece ridere, mentre le afferrava un piccolo pugno chiuso, accarezzandoglielo dolcemente. – Ciao, sorellina. Io sono Roger.
Winifred sorrise, accarezzando i capelli dorati del suo prezioso bambino. – Ha i tuoi stessi occhi, sai, Roggie?
Il ragazzino alzò la testa, guardò sua madre affascinato, gli occhioni blu che luccicavano. – Davvero?
- Sì. Sono grandi e azzurri, proprio come i tuoi.
- Sarà bellissima, allora!
La donna rise, asciugandosi le lacrime e baciando la fronte di suo figlio. – Non ha ancora un nome, però.
Il bambino guardò la piccola sorella, continuando a stringerne la mano tra le dita. – Possiamo chiamarla come te.
Winifred gli accarezzò una guancia. – Ma no, Rog. Tu sei tanto creativo, sono sicura che troverai un bellissimo nome, completamente nuovo.
Roger sbatté le lunghe ciglia, sospirando e pensandoci un attimo su. Guardò la bambina, poi guardò la mamma. – Mi piace tanto il nome Clare. E’ semplice e suona bene.
Sua madre gli sorrise dolcemente. – E’ un nome perfetto.  
Gli porse la bambina e gliela lasciò prendere in braccio, seppur sapesse che suo figlio, anche avendo appena quattro anni, non fosse molto delicato. Ma non ci badò molto. Sapeva che Roger, quando voleva, sapeva essere dolce e attento.
Vide il bambino baciare il naso della sorellina, cullarla dolcemente. Roger si avvicinò, piano, alla bimba, sussurrando qualcosa che Winifred nemmeno sentì.
- Ti proteggerò sempre, Clare.

 

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Capitolo 13
*** Bring it back, bring it back ***


Capitolo 13 - Bring it back, bring it back

La ragazzina, accoccolata su se stessa, le ginocchia al petto e la schiena al muro, si mangiava le unghie dal nervosismo. Suo fratello non tornava da troppo tempo. Ad ogni brusco rumore, ad ogni ringhio, ad ogni urlo che sentiva, le sue orecchie si rizzavano immediatamente, attente, spaventate. Le veniva da piangere.
Non avrebbe dovuto chiamare Roger, non avrebbe dovuto mettere anche lui in pericolo. Perché lo aveva fatto? Sarebbe potuta rimanere chiusa lì dentro, sarebbe potuta scappare da sola. E invece, seppur non ne sapesse nemmeno il motivo, aveva chiamato Roger. Aveva messo anche lui nei guai. All’ennesimo doloroso, forte rumore, si premette entrambe le mani sulle orecchie, tremando. Doveva fare qualcosa.
Dopo quel tonfo udì solo il silenzio.
Il cuore le batteva a mille, le lacrime avevano iniziato a scendere, quiete come l’assordante silenzio che proveniva dalle camere del piano superiore. Aveva bisogno di sapere cosa stesse succedendo, aveva bisogno di capire e aveva bisogno di aiutare suo fratello. Raccolse tutto il proprio coraggio e le forze, alzandosi in piedi e aprendo lentamente la porta della camera.
“Devi promettermi che resterai qui, qualunque cosa accada”.
Non poteva lasciare che Roger si facesse male. Avrebbe infranto la promessa, sì, ma quando sentì l’urlo terrorizzato del fratello corse comunque fuori dalla camera, salendo per le scale.
Sentì suo padre ridere. I gemiti strozzati di Roger erano appena udibili, ma sufficienti per far ribollire di rabbia il cuore di Clare.
La ragazzina afferrò la prima cosa che si era trovata davanti. Una padella, pesante da farle quasi cadere le braccia.
Uscì dalla cucina, silenziosa come un gatto. Doveva fare presto. Diede una veloce occhiata alla stanza di suo padre, che era buia e vuota.
Aprì la porta del bagno con estrema cautela e quello che vide la terrorizzò.
Roger aveva i polsi legati dietro alla schiena, si dimenava come un animale in gabbia mentre loro padre lo sovrastava, stringendo un sacchetto di plastica trasparente attorno alla sua testa. Clare capì, dai suoi gemiti disperati e raschiati, che suo fratello stesse cercando disperatamente di gridare, di respirare.
La ragazza non riusciva a muoversi. I suoi occhi erano spalancati, sentiva il corpo tremare, forte, scosso dalla paura e dall’ansia che stava provando per quel ragazzo in pericolo, per la persona che l’aveva sempre protetta e difesa, per la persona più preziosa e importante della sua vita.
Le venne in mente quell’ultimo sorriso, quell’ultimo dolce e sincero sguardo, quegli occhi, identici ai suoi, che la osservavano dimostrandole tutto il bene del mondo.
“Tu sei capace di fare davvero tanto, sorellina. Non preoccuparti per i bulli che ci sono a scuola, perché non valgono nemmeno un briciolo di ciò che vali tu. E puoi giurarci, li ridurrò tutti a pezzettini.”
Non seppe perché le venne in mente quel ricordo. Clare era tormentata dai bulli per la sua dislessia, alle elementari. Eppure, Roger le aveva dato sempre la forza per continuare sulla propria strada, senza mai perdere le speranze.
Vide suo fratello smettere di agitarsi, vide le sue ginocchia cedere.
Non si accorse nemmeno di quando colpì suo padre. Fu un forte colpo, un rumore sordo che la fece risvegliare. Vide l’uomo cadere a terra.
Sentì suo fratello ansimare, mentre la busta che aveva sulla testa si afflosciava, leggera, sul pavimento.
Lo sentì tossire, pallido come la morte e con gli occhi grandi e azzurri spalancati. Clare ansimò, deglutì mentre guardava suo padre riverso a terra. Non lo aveva ucciso, si accertò che l’uomo respirasse. Clare teneva ancora la padella sospesa per aria, il tremore delle braccia che non aveva intenzione di fermarsi.
Lanciò un’occhiata a suo fratello, felice e sollevata nel vederlo recuperare, lentamente, il respiro che gli era stato tolto. – Mangerò anche solo verdure per un mese. Ma almeno, non sarò costretta a venire al tuo funerale.
Vide Roger guardare il padre, spaventato, sperduto, stordito. – N-Non è… Non è morto, vero?
La sua voce, così stanca, debole e rauca, spezzò il cuore di Clare. – No, non sono mica così scema da ucciderlo. Gli ho semplicemente impedito di uccidere te.
Gli occhi di Clare si velarono di lacrime, contro la sua volontà. Non voleva piangere davanti a Roger, voleva fargli vedere e capire che andasse tutto bene, voleva renderlo tranquillo, sereno. Vide il fratello alzarsi, gemere al movimento che gli era costato energie e forza. Lo sentì accasciarsi quasi su di lei, lo sentì mentre le sue fragili braccia tremanti le avvolgevano il corpo, mentre lo sentiva continuare ad ansimare leggermente. Lo strinse a sua volta, facendo attenzione a non fargli male.
- Grazie, Clarie. Sei fantastica. Sei la migliore sorella che potessi desiderare. – Lo avvertì scostarsi, allontanarsi, solo per sentire poi le sue dita affusolate asciugarle le lacrime che lei non era riuscita a fermare, lo vide sorriderle. Quel dolce, bellissimo sorriso, luminoso come la luce delle stelle che cominciavano a spuntare nel buio cielo di Londra. Sentì che fosse tanto fortunata, ad averlo lì con lei. Vivo, cosciente, seppur fragile ed esausto.
- E sono fiero di te.
 

 
- Ti prego, Roger. Parlami, dimmi qualcosa. Qualunque cosa. Per favore.
Brian era seriamente preoccupato. L’ansia gli entrava nel corpo come fosse aria, mentre guardava Roger tenere lo sguardo fisso sul muro. Non si muoveva, aveva smesso di piangere da un po’ di giorni.
Quasi una settimana prima aveva gridato, pianto, urlato per tutto il viaggio di ritorno e per tutti i giorni che erano seguiti. Ad ogni strillo il cuore di Brian si crepava sempre di più, facendogli quasi male.
Brian aveva lividi ovunque, sulle braccia, sulle gambe, aveva un occhio nero e un graffio sullo zigomo, dovuti ai numerosi tentativi di Roger di scappare dalla sua macchina e dalla casa che condividevano in quattro, per tornare da Clare.
Si era sentito urlare cose come “Stronzo” o “Ti odio”. Sapeva che Roger non le dicesse apposta, che fossero solo frutto della rabbia e dell’agitazione, dell’odio che, in quel momento, nutriva verso suo padre. Però gli fecero male comunque.
Brian non ce l’aveva fatta più. Lo aveva preso tra le sue braccia, lo aveva stretto a sé accarezzandogli i capelli, mentre lo sentiva piangere e urlare, mentre sentiva i pugni di Roger battergli contro il petto togliendogli il respiro. Lo aveva visto nelle peggiori condizioni di sempre, ma aveva continuato a tenerlo a sé, a cullarlo, ad accarezzarlo, a proteggerlo.
Accarezzò lentamente una guancia morbida e chiara del suo ragazzo, mentre lo guardava tremare, lo sguardo ancora fisso contro il muro, il corpo, seppur scosso da brividi, immobile.
- Roger. – lo chiamò, spostandogli delicatamente una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Vide due occhi blu puntarsi nei suoi, guardarlo, lucidi. Erano degli occhi disperati e imploranti, imploranti d’aiuto, distrutti e tremanti. Brian accarezzò una guancia di Roger, sentendo però poi la piccola mano scostare la sua, vedendo quegli occhi abbassarsi di nuovo.
- Posso fare qualcosa per te, Rog?
- Riportami Clare.
Brian deglutì. In quelle parole, in quella frase, sentiva tutto il dolore che il ragazzo stava provando. Sfiorandogli nuovamente la guancia sospirò. – Vorrei. Rog, davvero, vorrei. Farei qualsiasi cosa per farla tornare.
Vide Roger guardarlo nuovamente. – Ma non puoi. Tu mi hai allontanato da lei.
Il giovane chitarrista non sapeva cosa dire. Né cosa fare. Era come se la sua gola fosse chiusa, come se le parole non riuscissero ad uscire. Quando Roger strattonò la mano che aveva cercato di prendergli gli si spezzò il cuore.
- Mi dispiace, Roger. Mi dispiace tanto e io…
- Le tue parole non mi riporteranno mia sorella.
Roger era ferito. Talmente tanto da non riuscire nemmeno più a piangere. Sentiva dolore, tanto dolore. Forse troppo. Dolore che lo gli aveva intorpidito il cuore e le emozioni. Era diventato insensibile a quelle ferite che tanto erano profonde da non fargli sentire assolutamente nulla. Solo rabbia.
Clare era tutto ciò che nella sua famiglia gli permetteva di non crollare.
“Tu non preoccuparti. La faccio rimettere io in carreggiata, mamma.” Gli aveva detto quel giorno in cui avevano portato Winifred in ospedale. Gli sorrideva e lo rassicurava come sempre. Roger si sentiva talmente fiero di lei che non riusciva ad esprimerlo neanche a parole. Era matura, dolce, gentile, forte. Non era più la bambina che aveva paura dei bulli e del buio. No. Era una donna. Una donna determinata e altruista, la sorella migliore che lui potesse desiderare.
Come avrebbe fatto, senza Clare? E sua madre, cosa avrebbe fatto? Stava iniziando a realizzare. Stava iniziando a vedere con lucidità la situazione dopo interminabili giorni passati a piangere senza nemmeno capire. Giorni passati svegliandosi e credendo che tutto fosse al suo posto.
Qualcosa, in lui, si era spezzato. Se ne accorgeva da solo. Dal fatto che non sorridesse da giorni, che non avesse voglia di suonare e che non riuscisse neppure più a piangere. La presenza di Brian non era gradita come prima. Voleva solo stare da solo, senza nessuno. Eppure il ragazzo era lì, davanti a lui, sebbene gli avesse detto più volte di andar via.
- Non puoi fare assolutamente nulla, per me. – gli aveva detto, senza guardarlo. – Se proprio vuoi farmi un favore, lasciami da solo.
- Non posso lasciarti da solo. E non voglio farlo, e non lo farò. – gli accarezzò dolcemente uno zigomo. – Voglio solo vederti sorridere, anche se so quanto ora sia impossibile.
Roger chiuse gli occhi. – Tu hai lasciato che lui… Che lui… - strinse forte i pugni. – Avrei potuto ucciderlo. Ammazzarlo come lui ha fatto con Clare.
- Io l’ho fatto per il tuo bene, Roger.
- Ah, sì? – gli occhi azzurri del ragazzo erano iniettati di sangue e rabbia. – E a che scopo?
- Come ti saresti sentito, portandoti il peso della morte di un uomo sulle spalle per tutta la vita?
- Ha ucciso mia sorella. Ha cercato di uccidere me molteplici volte e ha distrutto mia madre. Datti da solo una risposta.
- Io voglio solo farti star bene.
- Non dire cazzate. – Roger si alzò in piedi, allontanandosi dal ragazzo dai capelli ricci che gli appoggiò poi una mano sulla spalla, che lui scansò immediatamente. – Non mi toccare.
Brian deglutì. Stava per lasciarlo andare, quando se lo vide crollare letteralmente addosso. Lo strinse forte a sé per impedirgli di cadere e lo guardò. Era bianco, completamente cadaverico. Lo fece appoggiare nuovamente sul piccolo divano del monolocale, scostandogli i capelli biondi dalla fronte. Gli occhi azzurri erano semiaperti, esausti.
Un moto di apprensione scosse il petto di Brian. Il chitarrista accarezzò i capelli di Roger. – Devi riposare.
- Vattene. – un filo di voce. Talmente basso che il ragazzo più grande lo sentì appena.
- No.
Gli occhi di Roger si spalancarono e il ragazzo scattò a sedere. – Vattene!
Un urlo. Forte e spossante. Gli occhi di Brian si fecero lucidi. – No.
- Vattene, vattene, vattene! – strillò ancora, alzandosi in piedi. – Non voglio più vederti. Ti odio! Ti odio!
Ad ogni grido il cuore di Brian si crepava sempre più. Era come se il dolore che stava provando Roger stesse trafiggendo anche lui. – Roger.
- Non voglio vederti. Lasciami solo. Ti prego.
 

 
Roger sbuffò pesantemente, quando all’ennesimo tentativo il suono della batteria non lo convinse ancora. Riprovò una, due, tre volte, ma ancora non era per niente soddisfatto del suo lavoro. Scosse la testa. Quella non era proprio giornata. Il 1970 era arrivato da ormai due mesi e lui, Freddie e Brian si limitavano a mettere su piccoli concerti in qualche college o locale. E se lui non avesse suonato decentemente quella batteria, non avrebbero fatto altro per anni.
Ricominciò a battere le bacchette sulle proprie percussioni, imprecando quando interruppe il ritmo, di nuovo. Sospirò, facendo cadere le spalle. Alzò la testa dalla batteria, puntando lo sguardo verso la porta del garage in cui suonava. Vide una testa bionda nascondersi dietro allo stipite, per poi alzare un sopracciglio e sorridere, divertito. – Guarda che non c’è mica bisogno di spiare.
- L’ultima volta che sono venuta a vederti mentre suonavi, mi hai urlato in testa di non romperti le palle. – Clare uscì allo scoperto, incrociando le braccia al petto. Roger sollevò le spalle. – Quella volta mi stavi dando fastidio.
Vide gli occhi azzurri di Clare roteare dietro alle orbite. – Sì, certo. Non ti do fastidio solo quando ti cucino i biscotti.
Il ragazzo si alzò dallo sgabello su cui era seduto, andando nella direzione della sorella e toccandole la punta del naso con un dito. – E’ vero. Però devo dire che non sai nemmeno nasconderti bene. 
Clare si sedette sulla scrivania su cui Roger, di solito, scriveva le sue canzoni e le parti per la sua batteria. – Come va con Brian?
Il fratello si accese una sigaretta, portandosela alle labbra. – Vuoi scherzare?
- No. – la diciassettenne fece oscillare le gambe. – Solo che mi manca.
Il ragazzo storse il labbro superiore. – A te? Ma sei scema?
La più piccola scosse la testa. – Gli voglio bene. E’ gentile, e al contrario di te è anche divertente.
- Ma stai zitta. – Roger aspirò un’altra boccata dalla sigaretta. – Comunque… Va bene, credo.
Clare inarcò un sopracciglio.
- Perché mi guardi con quella faccia di merda?
- Perché se andasse bene adesso non saresti qui, ma a casa sua, a fare le cose zozze.
Roger sbatté le lunghe ciglia bionde. – Come, scusa?
- Che? Ti scandalizzi per questo?
Il maggiore sospirò. – Stare con il nonno non ti fa per niente bene.
- No, infatti. – Clare saltò giù dalla scrivania. – Però, come va con Brian? Seriamente.
- Come sempre.
- E che vuol dire “come sempre”?
- Vuol dire che non sono cazzi tuoi.
La sorella mise il broncio, aggrottando la fronte e piegando all’ingiù il labbro inferiore. – Guarda che io ti parlo di David.
- Sì, ma tu sei un’adolescente. E’ normale che tu abbia bisogno di far gossip sulla tua vita privata, Clarie.
Clare alzò gli occhi al cielo. – Hai bisogno che io lo picchi?
Roger aggrottò la fronte. – No?
- Lo hai già picchiato.
- Può darsi.
Clare sorrise, allungando un pugno verso il fratello battendoglielo poi sulla spalla. – Questo è il mio Roggie.
- Mi chiamavi così quando avevi sette anni e non riuscivi a pronunciare “Roger”
- Tu mi chiami ancora Clarie.
Il ragazzo alzò le spalle. – Ti chiamano tutti Clarie.
- Mamma no.
- Cosa cazzo c’entra mamma?
- Mamma mi chiama Clare. – fece una pausa e sospirò, portandosi una mano al cuore. – Anche David mi chiama Clare.
Il fratello storse il labbro. – Cioè, che vuol dire? Che se non ti chiama con un nomignolo non gli interessi?
- Sì.
- Ma se Brian mi chiama “Rog”.
- E’ cotto.
- O, semplicemente, il mio nome è insopportabile da dire. – Roger alzò le mani, rendendo la voce più grave e facendo una smorfia. – “Roger”.
La sorella rise, prendendogli una mano e giocando con le sue dita sottili e affusolate. – Secondo me dovrebbe chiamarti Roggie.
- Finiscila.
- Roggie, oh, mio Roggie!
- Vuoi che da oggi in poi, quando ho bisogno di te, io ti debba chiamare “Clare Meddows Taylor” tutte le volte?
- Per carità! – la ragazza alzò le mani, sollevando di conseguenza quella di Roger. Il fratello sorrise, soddisfatto. Tutto sommato, passare del tempo con sua sorella gli piaceva. Lo divertiva, lo distraeva da tutti i problemi. Sapeva che Clare sarebbe stata l’unica di cui si sarebbe potuto realmente fidare, l’unica che sarebbe rimasta dalla sua parte anche se fosse stato in torto, l’unica che lo avrebbe difeso, l’unica che gli avrebbe davvero voluto bene.
Era sua sorella, sangue del suo sangue. L’avrebbe protetta davanti a qualsiasi cosa.
- Grazie per avermi aiutata a studiare, stamattina. – gli disse la sorella.
- Ti ho aiutata solo perché stavi studiando biochimica. Altrimenti non lo avrei fatto.
La ragazza aggrottò la fronte. – Perché questo razzismo verso le altre materie?
- Perché sono uno studente di biologia. Per me quelle che studi tu sono bazzecole. Se tu mi avessi chiesto di aiutarti in, che ne so, matematica, avrei buttato il libro, il quaderno, la scrivania, te e me stesso dalla finestra.
Clare sorrise, abbracciando il fratello. Roger ricambiò, stringendola più forte a sé.
- Roggie?
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo nel sentire quel nomignolo. – Eh.
- Sei speciale. E io ti voglio tanto bene.
 

 
Brian si svegliò a notte fonda e si sedette sul letto stropicciandosi un occhio e sbadigliando. Si guardò attorno. Era strano non vedere Roger dormire al suo fianco. Ci aveva fatto l’abitudine. Quando sentì un lieve respiro nella stanza, però, si rese conto che c’era qualcun altro, lì. John dormiva nel proprio letto, le braccia sistemate sotto al cuscino e le coperte tirate fino al naso. Probabilmente gli era mancata la sua camera. E Roger, allora? Dov’era?
Lasciò che i piedi si liberassero delle coperte, infreddolendogli tutto il corpo. Con un brivido leggero infilò le pantofole e si alzò, camminò verso l’ingresso e Roger era lì, proprio dove lo aveva lasciato. Piccolo e tremante, distrutto. Il cuore gli si strinse. Non meritava tutto ciò che stava passando. Non meritava di restare lì, immobile, a tremare a notte fonda.
Brian non si fece alcun problema ad entrare. Non gli importava del fatto che, forse, Roger avrebbe urlato ancora. Non gli importava nulla. Voleva solo stare accanto a quel povero ragazzo spezzato.
Il divano affondò sotto di lui, mentre il chitarrista allungava una mano verso il viso del suo ragazzo, spostandogli i capelli biondi dagli occhi.
Roger lo guardò. Era uno sguardo diverso da quello di quel pomeriggio. Era vulnerabile e fragile, disperatamente bisognoso di aiuto. Si lasciò andare al contatto con la mano del maggiore, chiudendo gli occhi.
Brian si avvicinò a lui e gli premette un bacio sulla fronte. Gli prese delicatamente le mani. – Come mai non dormi?
- I-io… Io non… - Roger sembrava sul punto di piangere. Era come se si stesse trattenendo, anche se non ce ne era motivo. Brian se ne accorse.
- Se non te la senti di parlare, non farlo. Ma lasciati andare. Non negarti di essere fragile, non con me.
I singhiozzi scoppiarono immediatamente. Il chitarrista prese il suo ragazzo tra le braccia, accarezzandogli dolcemente la testa, cullandolo sul suo petto. Non si preoccupò delle lacrime che gli bagnavano i vestiti, continuò semplicemente a stringere quel povero ragazzo distrutto come se da quel gesto dipendesse il mondo intero. Perché Roger faceva parte del suo mondo, e non aveva alcuna intenzione di lasciarlo crollare.
- Piangi, Rog. Piangi. – continuò ad accarezzargli i capelli biondi, dolcemente. Sua madre gli diceva sempre che piangere, a volte, era la migliore medicina. Era come gridare, sfogarsi, lasciar andare tutto. Buttare via almeno un po’ del peso che si ha dentro.
“Hai bisogno di piangere, Bri. Piangere vuol dire mostrarsi fragili, ma anche incredibilmente forti. Un uomo è tale solo mostrando le proprie debolezze.”, gli disse Ruth, un giorno, quando lui proprio non voleva sapere di mandar giù una sola lacrima, nonostante quel nodo alla gola fosse più stretto di qualunque altro.
Brian accarezzò la schiena di Roger, che singhiozzava e gli stringeva forte i vestiti
- E’ tutto finito, Bri. – lo sentì sussurrare. – Non la rivedrò mai più.
Lo strinse più forte. Sapeva cosa significasse perdere una persona, lo aveva provato sulla propria pelle. Non disse niente, gli lasciò solo un piccolo bacio in cima alla testa.
- Mi sono comportato come uno stronzo. – Roger tirò su col naso. – Sei l’unica persona che non mi ha fatto del male, eppure ti ho trattato come se…
Brian tirò su il viso di Roger, chiudendogli le guance tra le mani. Gli lasciò un tenero, dolce bacio sulle labbra sottili, sorridendogli poi dolcemente. – Non sei uno stronzo. E non devi pensare a come tu mi abbia trattato. Pensa solo a come tratterai te stesso.
Il ragazzo biondo sembrò non capire, al che il chitarrista gli sfiorò una guancia con il pollice. – Prometti a te stesso che ti rialzerai. Fallo per Clare, per me, per John, per Freddie. Ma soprattutto per te. – Brian sorrise. – Dopotutto, sei Roger Meddows Taylor. Sei forte. Talmente forte da poter affrontare qualunque cosa. Mi sbaglio?
Vide gli occhi del suo ragazzo luccicare. Non seppe dire se brillassero per le lacrime o per qualcos’altro. Lo vide sorridere per la prima volta dopo giorni. – Tu sei Brian May. Non sbagli mai.
Brian sorrise. Lo baciò di nuovo. – E allora, me lo prometti? Te lo prometti?
Brian guardò il batterista abbassare lo sguardo e buttar fuori l’aria. Gli accarezzò le dita. – Dai, Rog. Ne sono sicuro.
- Bri, ma come faccio? – il ragazzo lasciò cadere altre lacrime. – Ormai… Ormai non ho più una famiglia. Quell’uomo non riuscirò mai a chiamarlo padre. Mamma non la vedo da anni, dopo che l’hanno chiusa in clinica. Clare era tutto ciò che rimaneva della mia famiglia e ora… - strinse gli occhi, i denti, i pugni. – E ora non c’è più, Bri.
- Lo so. Lo so, Rog. Ma non per questo non devi permetterti di riprenderti. Io credo in te, tutti credono in te. – sorrise, baciandolo. – E infondo, se smetti di suonare, i Queen dove finiscono? Chi sono i Queen, senza la tua batteria? Senza la tua energia, la tua vitalità, anche la tua rabbia. – rise. – E senza i tuoi acuti. Per carità, non dimentichiamoci dei tuoi acuti.
Gli si sciolse il cuore quando vide Roger sorridere, per la seconda volta. – Saremo noi la tua famiglia. Siamo la tua famiglia.
- Se John è il figlio prediletto non mi va bene.
Brian rise. Era bello vedere che il ragazzo riuscisse a scherzare anche solo un po’. – Ah, dai per scontato che tu e John siate i bambini? Io la mamma casalinga non la faccio.
- Sinceramente non ti ci vedo. Diventeresti ancora più esaurito.
- Ah, perché tu Freddie ai fornelli riesci a immaginarlo?
- Meglio che immaginarlo tornare da lavoro in giacca e cravatta.
Il chitarrista baciò dolcemente il suo ragazzo. Lo guardò negli occhi e gli accarezzò gli zigomi. – Promesso?
Il ragazzo biondo sospirò. Appoggiò la testa sulla spalla del maggiore, chiudendo gli occhi. – Credo di sì.

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Capitolo 14
*** Don't take it away from me ***


Capitolo 14 - Don't take it away from me
 
1981.
 
Roger sospirò quando la bambina nella culla scoppiò nuovamente a piangere. Erano due notti che il povero ragazzo non aveva chiuso occhio per far prendere sonno alla piccola Louisa, nuova arrivata nella casa in cui viveva, da quattro anni, con Brian. Aveva la testa che scoppiava e grossi aloni scuri gli circondavano gli occhi azzurri. Si chinò a prendere la bimba in braccio, facendole appoggiare la testolina sulla sua spalla e accarezzandole amorevolmente la schiena.
- Su, Louisa, fai dormire papà. – sussurrò, esausto. Lanciò un’occhiata a Felix, il secondo arrivato dopo James, che dormiva tranquillo nella sua culla. Sospirò e si passò una mano sul viso.
- Ehi, Papà Orso. Ancora sveglio? – la voce di suo marito gli giunse alle orecchie e Roger si voltò a guardarlo. Appoggiato all’uscio, Brian sorrideva, intenerito nel vedere il biondo cullare dolcemente la bambina che proprio non voleva saperne di dormire.
- Mi sta facendo dannare. Felix e James non erano così, a sei mesi! – sbuffò il povero Roger. Brian rise, avvicinandosi e prendendo tra le braccia la bambina.
- Non vogliamo proprio dormire, eh? – Brian lasciò un bacio sul naso di Louisa, facendola smettere di piangere. Roger spalancò gli occhi. – Ma non è possibile!
Il riccio fece un sorrisetto soddisfatto.
- Non è così che funziona. Perché quando io la cullo, la coccolo e le racconto le fiabe lei frigna, mentre a te basta darle un bacino che diventa un angelo?
- Perché io le piaccio tanto.
- Giuro che se si addormenta uccido sia te che lei.
- Roger, ma che insegnamenti dai a tua figlia? I bambini sono come delle spugne, vuoi che la tua piccola Louisa diventi violenta?
- No, è lei che fa diventare me violento.
Brian alzò gli occhi al cielo, poi si avvicinò a suo marito, lasciandogli un piccolo bacio a fior di labbra. – Vai a riposarti, domani mattina non ho alcuna voglia di vederti di nuovo come uno schizzato che potrebbe dar fuoco alla mia casa.
- Quanto mi stai sul cazzo.
Brian strinse la bambina che teneva in braccio. – Non deviarmi Louisa, lo hai già fatto con James.
- Ma non è vero.
- Devo ricordarti cos’ha detto al suo compagno di classe, la settimana scorsa?
Roger finse di asciugarsi una lacrima, portando una mano sul cuore. – Il mio bambino.
- Alle medie diventerà un bullo e riceveremo un richiamo dai professori ogni giorno.
- Sì, in quel caso gli spaccherò i denti. – Brian gli lanciò un’occhiataccia, poi vide Roger aggrottare la fronte. - A proposito di James. Dov’è?
- Nel nostro letto.
- Sei un padre irresponsabile.
- Intanto Louisa sta dormendo.
Roger respirò profondamente, stringendosi i capelli tra le dita ed emettendo un sospiro frustrato.
 

 
Brian aveva il cuore in gola. Stava letteralmente per morire dalla paura e sentiva di star rischiando l’infarto. Aveva deciso da tempo di chiedere a Roger quella fatidica, spaventosa domanda, ma solo in quel momento stava trovando il coraggio di farlo. Il concerto ad Hyde Park era andato magnificamente. Forse il pubblico più grande che avessero mai avuto, che aveva cantato con loro e li aveva resi orgogliosi e fieri come nessun’altro aveva mai fatto. Quella serata era stata forse la migliore che i Queen avessero avuto modo di vivere.
Ma in quel momento, proprio dietro al palco, Brian non sapeva se essere felice o completamente terrorizzato. Roger stava mettendo a posto la batteria, John e Freddie erano andati a cambiarsi e lui, come un cretino, se ne stava lì in piedi, tremante, stringendo tra le mani la scatolina di velluto. Vide il suo ragazzo passare proprio davanti a lui.
- R-Rog! – esclamò, con un filo di voce. Vide il biondo girarsi verso di lui, guardarlo facendogli chiudere la gola. Roger era sudato dalla testa ai piedi, nel suo largo camicione, coi capelli increspati dall’umido. – Che?
- Potresti… - la voce gli uscì appena. Si schiarì la gola, imbarazzato. – Potresti venire un secondo?
Roger aggrottò la fronte. Solitamente, la prima cosa che Brian faceva dopo un concerto, era darsi una lavata, cambiarsi e mettere a posto la sua chitarra. E invece la preziosa Red Special era appoggiata dietro di lui e il suo ragazzo aveva i ricci appiccicati alla fronte per il sudore. Si avvicinò comunque a Brian e lo squadrò dalla testa ai piedi. – Che cazzo ti tremi?
Il ragazzo respirò profondamente. Riprese coraggio, mise la scatolina in tasca e si avvicinò a Roger, prendendogli le mani e accarezzandogliele. Il cuore sembrava dovergli esplodere nelle costole, probabilmente non si era mai sentito tanto nervoso e spaventato in vita sua. Però voleva farlo. Doveva farlo.
Ripensò a tutto ciò che avevano passato. A come si erano conosciuti, a come erano riusciti, dopo un periodo talmente buio da voler dimenticare, ad aggiustare tutto quanto con un solo bacio, a tutti i sorrisi che aveva visto fare da Roger mentre lo guardava e a quelli che lui aveva sfoggiato stando con il suo ragazzo.
Guardando quei grandi occhi azzurri ricordò quante volte li aveva visti brillare.
Ricordò quanto aveva lottato per tirarlo su dopo la morte della sorella e dopo notti insonni, ricordò le dolci parole che si erano sempre scambiati in quei dolcissimi, magnifici tre anni.
Ricordò quanto ne valesse la pena.
E quindi trasse un respiro profondo, e sorrise davanti allo sguardo confuso del suo ragazzo, stringendogli più forte le mani.
- Roger, amore. – riuscì finalmente a tirar fuori tutta la voce che aveva. – Forse potrò sembrarti pazzo, forse un po’ folle. Potrò sembrarti un idiota innamorato, forse ti verrà da ridere nell’ascoltarmi. Però voglio che tu sappia che questi tre anni, senza di te, non sarebbero stati così dolci, rumorosi, turbolenti, divertenti. Così pieni di musica, di parole così belle che mai mi sarei aspettato di sentire. Di note dolci e aspre, di risate, pianti, urla, sorrisi. E ho sempre pensato che tu fossi proprio così: un mix di emozioni forti, vulcaniche, forse eccessive. – vide Roger sorridere. – E sono arrivato alla conclusione più bella della mia vita, che forse un po’ mi spaventa, ma infondo non me ne importa. – sorrise, accarezzando una guancia chiara del suo ragazzo. – Non me ne importa perché so che è qualcosa di tanto prezioso, di tanto bello da valerne la pena del tutto.
Si inginocchiò, con le mani sfiorò la scatolina che aveva in tasca, mentre guardava Roger sorridere divertito.
- Tu sei tutto quello che voglio e vorrei avere. Sei una nottata all’Opera e una giornata alle corse. Ciò che vorrei vedere da quando mi sveglio a quando mi addormento.
Tirò fuori il prezioso oggetto. – Per questo, Roger Meddows Taylor, - sollevò il coperchio con le dita tremanti. – Vorresti sposarmi?
Roger sentì il cuore battere forte nel petto, guardò gli occhi scuri di Brian, i suoi capelli ricci e quel sorriso che, anche lui, avrebbe voluto vedere dal primo all’ultimo istante della giornata. Sorrise.
Accarezzò i capelli scuri di Brian, rise. – Credo che non avresti potuto scegliere momento migliore di questo, entrambi sudati fradici e puzzolenti, dopo un concerto.
Brian batté le ciglia. – Ho… Sbagliato?
Roger sorrise, inginocchiandosi davanti al suo ragazzo e passandogli una mano chiara sulla guancia. – Certo che voglio.
 

 
Roger si inginocchiò davanti alla lapide chiara, sul prato. Prese un respiro profondo, guardando la fotografia di sua sorella, provando ciò che aveva sempre sentito nel cuore ogni volta che la vedeva.
Clare sorrideva, con un fiore tra i capelli biondi e gli occhi azzurri luccicanti. Lo guardava, come a volergli sorridere per davvero. Come a volerlo salutare, ancora e ancora. E lui quasi sentiva quella mano sottile che quando prendeva quella di Roger sembrava così piccolina, in confronto, appoggiarsi sulla sua spalla. Roger avrebbe voluto anche solo vederla, quella mano. Sfiorarla, tenerla tra le sue come faceva quando, durante la notte, Clare aveva gli incubi. Gli mancava ogni singola cosa. Gli mancava darle fastidio, gli mancava essere infastidito. Gli mancavano i litigi e i giochi che facevano da bambini, gli mancava quella voce che gli diceva di volergli bene, gli mancava vederla nascondersi quando lui suonava la batteria, per non infastidirlo.
Clare, la sua dolce Clarie.
Chissà se poteva vederlo. Chissà se anche a lei mancava.
Andare lì, in quel cimitero, a Roger faceva provare sensazioni strane, contrastanti. Inizialmente non riusciva nemmeno a guardarla, quella lapide.
Clare Meddows-Taylor. 1953-1973. Vent’anni.
Ogni volta, piangeva, quasi urlava. Brian gli era sempre stato vicino, in quei momenti. Lo stringeva forte mentre lui singhiozzava. Non si capacitava di nulla. Non capiva, non voleva capire. Anno dopo anno, la domanda che si faceva era sempre la stessa: come si può finire una vita tanto piccola, nel pieno della giovinezza, che niente aveva fatto di male? Non lo capiva e forse non lo avrebbe mai capito.
Però, man mano che gli anni passavano, che lui cresceva, guardando quella lapide si sentiva sempre leggermente più forte. Piangeva ogni volta, ma dopo quasi dieci anni aveva abbassato la testa, aveva accettato quel destino. Non del tutto, ma si era rassegnato.
Guardava indietro, guardava il Roger ventiquattrenne, disperato, debole, stanco, e si rendeva coto dei passi avanti che aveva fatto. Per merito di Brian, dei Queen, dei bambini bellissimi che aveva adottato, ma soprattutto suo, che ce l’aveva fatta. Aveva promesso che si sarebbe rialzato, e lo aveva fatto. Con dignità, passando in mezzo a tanto dolore che lo aveva tuttavia fatto crescere.
Respirò profondamente, appoggiando i papaveri che aveva portato per Clare sull’erba, davanti alla piccola lapide. Deglutì, sedendosi e distogliendo lo sguardo dalla foto di Clare.
- Ciao, Clarie. Sono di nuovo qui, dopo un po’ di tempo. – fece un altro profondo respiro, asciugandosi una lacrima.
– Mi dispiace non essere venuto, in questi giorni. Ma, sai, io e Bri abbiamo avuto davvero tanto da fare. – sorrise, tornando a puntare gli occhi azzurri sulla foto della sorella.
– Da quando ci siamo sposati, abbiamo sempre voluto prenderci cura di qualche bestiolina. E così abbiamo fatto. Te li ricordi, James e Felix? Non ne avevamo abbastanza, di rigurgiti da pulire e di pannolini da cambiare. Così abbiamo adottato una bimba. – accarezzò i fiori che aveva ai piedi, sospirando.
– Aveva già un nome. Louisa. Ma le abbiamo dato un secondo nome. Indovina? – fece una piccola pausa, come ad aspettare che la ragazza potesse davvero rispondergli.
- Clare. Come te. E’ una bambina bellissima, solo che mi dà proprio il tormento. Non vuole dormire quando ci sono io, e invece con le manine fatate di Brian crolla come un sasso. Credo sia già un po’ viziata da suo padre. – sorrise nuovamente, poi sospirò. – Sai, Clarie, ti penso ogni giorno. Mi manca l’apprensione che usavi nei miei confronti quando facevo qualcosa di stupido, come se fossi tu la maggiore. Mi manca giocare con te e mi mancano le nostre chiacchierate che continuavano fino a notte fonda. Vorrei tanto vederti ai miei concerti. Eri la mia prima vera Groupie. – rise, immergendosi nei ricordi. Una volta, Clare aveva addirittura spintonato una ragazza che ci stava provando con lui.  – A proposito. Ho fatto uscire un pezzo da solista. Si chiama “Future Management”. Forse ti sarebbe piaciuta. So che non ti piacevano molto le canzoni che scrivevo, dicevi che fossero aggressive e che non avessero senso. Però sono migliorato! Te la ricordi, “Drowse”? Te la cantai, una volta. Non ho mai potuto sapere se ti fosse piaciuta o meno, non hai potuto dirmelo. Ma spero di sì. Non voglio mica deluderti, Clarie.
Roger si fermò per un attimo. Si passò un dito sullo zigomo, asciugando l’ennesima lacrima. Strinse i fiori che aveva tra le mani, deglutì. – Se riesci a sentirmi, Clarie, io… Io voglio solo dirti che ti voglio bene. Tanto bene. Te ne vorrò sempre e non smetterò mai di farlo. Però mi manchi davvero tanto. Mi manchi da quel giorno. E potrei anche essere più forte di prima, ma ancora non riesco a capacitarmi del fatto che tu sia andata via. Spero che tu ora stia bene. Perché avevi tanti sogni, che non meritavano di morire. Tu, non meritavi di morire. – la voce gli si incrinò. Le lacrime scendevano copiose, dolorose. Facevano male solo a sentirle. – Vorrei vederti. Oh, Clare, quanto lo vorrei. Vorrei abbracciarti forte, ridere con te e proteggerti da ogni cosa. Se solo ti avessi protetta…
Roger si alzò in piedi, sfiorò con la mano la fotografia della sorella. – Ti voglio bene, Clarie.
Si voltò, sotto la pioggia. Senza un ombrello, indifeso, infreddolito. Con una malinconia nel cuore e nella mente che gli spezzava piano piano il cuore. Con il sorriso di Clare negli occhi, la sua voce nelle orecchie. Con il pensiero che una volta tornato a casa, ad asciugare quelle lacrime ci sarebbero state le voci dei bambini e le carezze di Brian.
 

 
Brian si svegliò di soprassalto, disturbato dal forte temporale che sfuriava fuori dalla finestra. Allungò una mano verso la sua destra, dove solitamente dormiva Roger. Però Roger non c’era. Si tirò a sedere, guardandosi intorno, alla ricerca del ragazzo.
- Rog. – sussurrò, assonnato. Non ricevette risposta.
- Roger? – riprovò, un po’ più forte. Niente.
Forse era andato in bagno.
Aspettò. Sarebbe tornato.
Aspettò.
Aspettò.
Aspettò.
Si alzò dal letto, deglutì. Lo cercò per tutto il monolocale e non lo trovò. Fece tutto il possibile per non svegliare Freddie e John, mentre più camminava più sentiva l’ansia crescere.
- Roger? – chiamò di nuovo. Non sentì nessuna risposta, di nuovo. Quando trovò il bagno bussò alla porta, con il cuore ormai in gola e una sensazione che ben poco aveva di piacevole o rassicurante. Girò la maniglia, lentamente. E fu in quel momento che sentì il mondo crollargli addosso.
Venne investito da quell’odore ferroso che mai avrebbe voluto sentire, talmente forte da farlo tossire. Le piastrelle da bianche erano diventate rosse, tinte di quel liquido che non avrebbe dovuto essere lì, per terra, ma in quel corpo così fragile e pallido che era accasciato sul muro, mollemente abbandonato sul marmo.
Per un attimo si fermò tutto. Brian non ci vedeva nemmeno più. Gli veniva da vomitare e non riusciva a muoversi. Semplicemente non credeva a ciò che aveva davanti agli occhi.
Urlò, d’istinto.
Corse vicino al ragazzo steso per terra in una posizione quasi innaturale, incurante del sangue che gli macchiava i vestiti. Tirò su Roger appoggiando una mano dietro a quella schiena spigolosa, gli afferrò i polsi, dai quali ancora il sangue fluiva senza fermarsi. Si sforzò a ragionare lucidamente. Afferrò le bende che avevano posto negli scaffali, disinfettando più velocemente che poteva i polsi sottili del ragazzo, avvolgendoci attorno le bianche bende, che si tinsero immediatamente di rosso.
Roger aveva i capelli sporchi del proprio sangue, gli occhi sigillati. Per quanto era pallido, Brian riusciva quasi a vedere le sue vene sporgere dalla fronte, dalle palpebre chiuse, dal collo.
- Roger, Roger. – sussurrò, le lacrime che non smettevano di scendere. Roger glielo aveva promesso. Gli aveva detto che si sarebbe rialzato. Che ce l’avrebbe fatta.
Gli aveva mentito.
Perché era lì, steso su quel pavimento, così gelido e pallido? Perché non dormiva tranquillo nel suo letto?
Perché lo stava lasciando da solo?
 Avvicinò l’orecchio al suo petto, all’altezza del cuore.
Battiti deboli, stanchi, lenti. Esausti. Ma c’erano.
Il chitarrista piangeva, era disperato, non sapeva cosa fare. Ma trovò la forza per afferrare il corpo fragile e inerme del suo ragazzo, della persona che amava. Trovò la forza per riuscire a salvarlo in tempo.
 
Quando Roger aprì gli occhi, non riconobbe il luogo in cui si trovava. C’era una grande finestra alla sua sinistra e una piccola scrivania grigia davanti a lui. Sentiva un rumore fastidioso nelle orecchie, intermittente, stridulo e acuto. Si sentiva intorpidito e confuso, non ricordava assolutamente nulla.
Dov’era?
Non era a casa. Nemmeno in quella che condivideva con Brian, John e Freddie.
Sentiva il profumo di Brian intorno a lui. Brian era lì.
Riconobbe quei ricci scuri, proprio davanti a lui. Lo sguardo del ragazzo era rivolto vero la finestra, Roger riusciva a vedere lacrime scendere da quegli occhi color nocciola. Perché Brian piangeva? Perché il suo Brian piangeva?
Puntò lo sguardo sulle sue braccia. Erano entrambe bendate, dal polso fino al gomito. Sul suo petto erano attaccate delle ventose, da cui sporgevano degli spessi fili che terminavano attaccati ad un macchinario, sul cui monitor poteva scorgere delle linee chiare e spezzate. Quel rumore che sentiva era il ritmo del suo cuore.
E forse ricordava.
Ricordava la notte passata a piangere, ricordava di essersi alzato dal letto, di aver baciato Brian, di aver salutato John e Freddie con una carezza, ricordava di aver pianto. Tanto, tantissimo. Ricordava la paura che provava, ricordava il pensiero di Clare.
Clare. Come gli mancava, Clare.
Ricordava di aver chiuso la porta alle proprie spalla, di aver pensato a Clare. Avrebbe voluto tornare da Clare.
Ricordava di aver trovato il rasoio e averne preso la lama.
Non ricordava più nulla.
Cos’aveva fatto? Era ancora vivo. Ma non era quello che avrebbe voluto. Lui voleva tornare da Clare. Cosa ci faceva, lì?
Puntò lo sguardo verso Brian, di nuovo.
– Bri. – sussurrò. Non riconosceva nemmeno più la sua voce. Era debole, fragile, flebile. Brian non gli rispondeva, aveva lo sguardo putato su quella maledetta finestra.
- Brian.
- Me lo avevi promesso.
Il cuore di Roger quasi perse un battito. Quel cuore che avrebbe potuto arrestarsi, morire. Appoggiò una mano su quella di Brian.
- Tu avevi promesso che non… - lo vide girarsi, finalmente. Il viso di Brian era carico di dolore, le lacrime scendevano lentamente da quel viso distrutto. Lo stava facendo soffrire. Roger stava facendo soffrire Brian.
- Bri, io…
- Hai idea di quanto tu mi abbia fatto male? – quella frase era come un gemito disperato, un pianto. – Hai idea del fatto che tu mi abbia praticamente ucciso, Roger?
Roger non ebbe la forza di rispondere. Si limitò a stringere la mano del suo ragazzo, nonostante i polsi gli dolessero.
- Stavi morendo, tu… Tu stavi morendo. Te ne stavi andando via. Mi stavi lasciando da solo.
Brian era completamente distrutto. Era distrutto perché Roger non doveva essere in quel letto d’ospedale. Perché Roger doveva essere a casa. Perché Roger doveva essere felice. Perché Roger non doveva soffrire.
- Perché, Roger? Perché? – probabilmente sapeva già la risposta.
- Non voglio vivere senza Clare.
- No, cazzo, no! – le lacrime scendevano come pioggia. – Pensi che Clare sia felice di vederti così? Pensi che stia bene? La fai soffrire come stai soffrendo tu, Roger. E soffro anche io. E non so con quale forza io sia riuscito a portarti qui, a proteggerti.
- Voglio tornare da lei.
- Basta, Roger. – non suonava come un rimprovero. Più come una preghiera. – Basta. Basta.
- Perché? – urlò Roger, con tutta la forza che aveva. Era arrabbiato.
Arrabbiato perché Brian gli aveva impedito di raggiungere Clare.  – Perché mi hai salvato? Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai rovinato tutto.
- Pensavi che ti avrei lasciato lì? – Brian strinse forte le mani di Roger, lo guardò negli occhi. – Pensavi che avrei lasciato che l’unica persona che abbia mai amato morisse?
- Egoista.
- No. No, tu sei un egoista. Io ti ho salvato la vita quando tu te la stavi togliendo.
- Non ne avevi il diritto.
- Ce l’avevo tutto, il diritto.
- Egoista. – il cuore di Roger accelerò.
- Pensa a come cazzo mi sarei sento, se tu fossi andato via. Probabilmente avrei fatto ciò che hai fatto tu.
- Egoista, egoista, egoista! – il più piccolo si liberò dalla stretta che era sulle sue mani, si dimenò quando Brian tentò di abbracciarlo. Scoppiò a piangere, a urlare, incurante di chi avrebbe potuto sentirlo. Sentì le labbra del suo ragazzo appoggiarsi sulle proprie e sentì le guance bagnarsi di lacrime che non erano le sue. Vide Brian staccare, appoggiargli le mani sul viso e guardarlo negli occhi. Piangeva quanto lui, forse più di lui. Roger percepì le dita di Brian accarezzargli gli zigomi e restò immobile, zitto, a guardarlo.
- Hai idea di come mi sono sentito? Ti ho visto lì, così piccolo, così fragile che sembravi fatto di carta. Ho avuto paura di non poter mai più guardare i tuoi occhi, di non poterti più abbracciare. – il petto del riccio era scosso da singhiozzi insistenti e quasi dolorosi. – Mi avevi promesso di essere forte, Roger. E io ci avevo creduto.
Il biondo sentì la testa di Brian crollare sul suo ventre, mentre le spalle scosse dai singhiozzi vibravano. Sentì la mano del chitarrista stringere la sua, forte, come a volerlo pregare di non andare via. Gli accarezzò i capelli ricci. Capì tutto quel dolore in un momento in cui proprio non riusciva ad essere empatico. E sentì il peso di tutto quel dolore sulle spalle. Se lo aveva salvato, era perché a lui ci teneva. Tanto. E probabilmente non avrebbe voluto vederlo andare via. Passò la mano tra quei morbidi ricci, sentendo quei singhiozzi diminuire.
- Grazie, Bri.
 
 
 
 
Lisbeth’s notes.
Un po’ di ritardo, eh, Lis?
Ciao a tutti, cari lettori. Inizio dicendovi che vi ringrazio davvero tanto per il sostegno che mi avete dato sotto all’avviso che ho pubblicato, siete stati davvero tutti molto dolci ed il fatto che la voglia di scrivere mi sia tornata è anche grazie a voi.
Avete fatto arrivare la storia a 100 recensione e io sono davvero su di giri per questo, grazie mille davvero!
Ora, è il momento di un po’ di chiarimenti. Sì, il capitolo è ambientato nel 1981. Questa storia è, come avete potuto notare, anche composta da diversi salti temporali. Vi anticipo già che prima di finire ce ne sarà un ultimo.
So che le adozioni omosessuali, in quel periodo, non erano proprio facili da effettuare, forse impossibili. Ed è qui che si focalizza il primo punto. Ho voluto comunque inserire questo particolare nella storia, perché l’idea finale ha bisogno di questo per compiersi.
Poi.
So bene che l’ultimo flashback sia abbastanza forte e spero di aver trattato il tutto con il giusto tatto e la giusta attenzione, perché ho fatto di tutto per non rendere la situazione banale o sminuire una cosa così grande che è il tentato suicidio. Inizialmente non ero nemmeno troppo convinta dell’idea, anzi, forse quasi per niente.  Come ho già detto, spero di essere stata delicata e attenta.
Finisco con il dirvi che al momento sto scrivendo una Deacury, che non so se diventerà una long o sarà una semplice one-shot. Se vi andrà, fate un salto!
With love,
- Lis.

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Capitolo 15
*** Because you don't know what it means to me ***


Capitolo 15 - Because you don't know what it means to me

- Come sto? – Brian era agitato, terribilmente agitato. Dire che era nel panico più totale sarebbe come sminuire il fatto che stesse letteralmente per esplodere lì, in quella casa. Su due piedi gli sarebbe venuto un infarto e poi avrebbero celebrato il suo funerale mentre lui era ancora vestito in quel modo. Sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene come un fiume in piena e sentiva che sarebbe diventato pazzo da un momento all’altro. Bazzecole, insomma.
Il problema di Brian, persona molto riflessiva, intelligente e calma, era l’essere ansioso come pochi. Si faceva paranoie su paranoie, andava nel panico per qualsiasi cosa.
La ragazza che era davanti a lui scosse la testa e sorrise. – Sei una meraviglia, Bri. Talmente bello che se tu fossi etero e io non avessi un figlio ti sposerei.
- Non ti consiglierei di dire questa cosa a Roger, Veronica. – disse Freddie, che in quel momento era lì solo ed esclusivamente per infastidire Brian e mettergli più ansia di quanto già non ne avesse, passandosi una mano sulla nuca. – E nemmeno a John.
Veronica scosse le spalle, aggiustando la cravatta di Brian mentre il ragazzo tremava come una foglia. – Se non stai fermo non riesco a mettertela.
- Non sto sudando, vero?
- No, Brian. Profumi ancora di bergamotto.
- I capelli?
- Ce li hai ancora.
- No, dico, vanno bene? Sono in ordine?
- Per l’amor di Dio. Ti stai sposando, non stai andando al patibolo! – intervenne Freddie, sbuffando.
- E’ il giorno più importante della mia vita, Fred!
- Oh, signore. Hai detto la stessa cosa un sacco di volte. Dovevi laurearti, lo hai detto. Dovevi fare la proposta a Roger, lo hai detto. Lo hai detto anche quando abbiamo cantato in concerto per la prima volta. Sei insopportabile quando fai così.
- Ma questo lo è per davvero! – un gemito soffocato gli sfuggì dalle labbra quando Veronica, senza rendersene conto, strinse un po’ troppo la cravatta. – Potrei vomitare sull’altare, potrei sbagliare tutto con Roger e allora sì che sarebbe la fine. Ti rendi conto che se faccio un errore, anche banale, anche minimo, quattro anni di storia vanno a puttane? La mia vita va a puttane!
- Oh tesoro, ne hai già fatte troppe di stronzate per mandarti la vita a puttane.
Brian sbuffò. – Ti ringrazio. Questo sì che mi fa sentire meglio.
- Andiamo, Bri. E’ Roger. Roger!
- Eh, appunto. Roger sarà bellissimo come sempre e io sarò un disastro.
- Qualsiasi cosa farai, la cosa più brutta che potrà farti sarà riderti in faccia e dirti che sei un coglione. – Freddie afferrò le spalle di Brian, alzandosi leggermente sulle punte. – Ma ti ama. Come nessun altro ti abbia mai amato o ti amerà mai. 
In fondo, Brian lo sapeva. Credeva a Freddie. Gli credeva perché si rendeva conto dagli sguardi che quegli occhi azzurri gli lanciavano, dai sorrisi e dal rossore sulle guance del suo ragazzo che, sì, Roger lo amava, come lui amava Roger. E sapeva che lo avrebbe amato ogni giorno, in ogni momento.
Lo vedeva appena sveglio, la mattina, lo amava. Lo vedeva sfinito e sudato dopo i concerti, lo amava. Lo amava quando quei capelli biondi erano disordinati e spettinati, lo amava quando era talmente nervoso da sembrare un gatto indispettito.
Lo amava.
E sapeva, come gli aveva detto Freddie, che probabilmente per Roger fosse lo stesso.
Ma questo mica era abbastanza per farlo calmare. Oh, no. Ci voleva ben altro.
Vedeva i suoi capelli terribilmente crespi, e odiava il suo fisico troppo magro che rendeva l’abito sempre dannatamente largo. Che cosa non aveva fatto, per trovare un completo che fosse della sua taglia. Tutto ciò che gli stava bene era troppo corto, il resto era troppo grande ma della giusta lunghezza. Si aggiustò per l’ennesima volta la giacca, sbuffando quando la vide cadere mollemente sulle spalle. – Sto di merda.
- Oh, Cristo!
 
L’altare non era altro che il giardino di Brian e colui che doveva celebrare il matrimonio era il perennemente sorridente Harold May. Quando Brian gliene aveva parlato, aveva avuto un po’ di paura di quale sarebbe potuta essere la sua risposta. E invece l’uomo gli aveva sorriso e lo aveva stretto forte, non solo felice, ma anche fiero di suo figlio. Brian non poteva essergli più grato.
Solo che quando Harold aveva visto Roger, che sarebbe dovuto arrivare dopo suo figlio, aveva aggrottato la fronte.
Il ragazzo di Brian era di una raffinatezza che mai gli aveva visto addosso. Certo, quella sua bellezza era innegabile, con gli occhi azzurri grandi come quelli di un bambino e i lineamenti dolci. Aveva i capelli più corti, osservò Harold. Doveva averli tagliati prima di arrivare lì e ci stava forse anche meglio. Gli davano un aspetto meno androgino e lo facevano sembrare più grande.
Non sembrava assolutamente lo stesso ragazzino rozzo e un po’ troppo esuberante che ruttava ai pranzi di Natale.
Ma una cosa c’era sempre e restava sempre invariata: Roger era unico in qualsiasi situazione. I vestiti stravaganti erano meno sfarzosi del solito, ma c’erano. Aveva una giacca larga, fiorata, sopra alla camicia bianca abbottonata. I pantaloni erano bianchi e la caviglia era ampia.
E, anche se non sembrava, Roger era sull’orlo di una crisi di nervi. Non voleva renderlo evidente davanti al padre di Brian, ma stava morendo di paura. E se non fosse stato abbastanza? E se Brian avesse cambiato idea, una volta lì, davanti a lui?
Il vero problema era che Roger Brian nemmeno lo vedeva. Si stava chiedendo dove diavolo fosse. Lui era arrivato tardi apposta, così come gli era stato detto di fare. Si girò verso le sedie disposte dietro di lui, numerate e che sarebbero dovute essere degli invitati. Riconobbe i loro produttori e diversi amici. I posti accanto a John e Mary, che sarebbero dovuti essere occupati da Freddie e Veronica, erano vuoti. Tutti gli altri erano stati riempiti. Aggrottò la fronte in direzione del bassista, mimando con la bocca la frase “Dove cazzo è Brian?”.
L’amico alzò le spalle e scosse la testa. Non ne aveva la minima idea.
Roger venne sommerso da paranoie. E se non si fosse presentato? Se lo avesse abbandonato? Se…
- Scusatemi!
La voce del suo ragazzo gli giunse alle orecchie, soffiando via tutti i pensieri negativi di Roger. Il biondo si voltò verso Brian e sentì che il cuore avrebbe potuto schizzargli fuori dal petto da un momento all’altro. Brian era sempre stato bellissimo, per lui. Stupendo, meraviglioso, perfetto. Con quei ricci morbidi e scuri, gli occhi color nocciola così dolci e delicati, il naso leggermente arcuato e le labbra sottili. Con quel sorriso così sincero e luminoso.
Ma quel giorno gli sembrava davvero di essere davanti a qualcuno di incredibilmente bello, in modo quasi impossibile, in quell’abito bianco e nero sulla figura sottile e allampanata.
E per Brian non era certo il contrario. Roger, il suo Roger. Lì, che sorrideva, spaventato quanto lui, nervoso più che mai. Forse, però, un po’ meno del povero Brian, che doveva quel ritardo ad uno svenimento proprio nel bel mezzo di una crisi di nervi. Ma in quel momento tutta la paura scivolò addosso entrambi come pioggia, nel momento in cui si afferrarono le mani, si guardarono negli occhi in un modo che riusciva ad esprimere un milione di parole.
Roger scostò un ricciolo ribelle che era finito sul viso del ragazzo, ridendo divertito mentre Harold cominciava a parlare.
- Ti fai desiderare anche al tuo matrimonio, May? – sussurrò, non riuscendo a smettere di sorridere e facendo avvampare Brian immediatamente. – Scusami, Rog. Io… Io…
- Sei bellissimo.
Bria sentì l’imbarazzo andar via, piano piano. Voleva baciarlo, ne aveva bisogno più di qualunque altra cosa, ma voleva lasciare quel momento per dopo. Gli accarezzò una guancia. – Tu sei indescrivibile.
 
- Puoi baciare lo sposo! – esclamò finalmente Harold, mentre Brian nemmeno gli lasciava il tempo di finire la frase che si era già fiondato sulle labbra del suo ragazzo. Di suo marito.
Fu il bacio più bello della sua vita. Era come se fosse il primo, come se fosse l’unico. Un bacio affamato, un bacio che sembrava perfetto. Roger rideva sulle sue labbra mentre lui gli stringeva forte i fianchi, come a volerlo tenere tutto per sé, come a non volerlo abbandonare per nessun motivo al mondo.
Pensò a quanto avevano lottato insieme, pensò a tutti i sorrisi, tutte le lacrime, tutte le risate e tutte le carezze. Pensò a quei meravigliosi occhi blu, che avrebbe voluto guardare per sempre. Lo strinse più forte. Lo guardò negli occhi.
- Ti amo. – lo baciò.
- Ti amo. – lo baciò ancora.
- Ti amo, ti amo, ti amo.
 

 
- Cos’è quella, papà? Una chitarra? – James si sedette sul piccolo divanetto accanto al vecchio televisore e guardò Brian, indicando lo strumento che aveva preso pochi attimi prima e che voleva far vedere al bambino. Il giovane padre sorrise e scosse la testa, imbracciando quello strumento così particolare, dal manico non troppo lungo e dal corpo rotondo. Pizzicò appena le corde, il cui suono era acuto e fece ridere il piccolo James.
- Questo è un banjolele. E’ uno strumento che ha le caratteristiche dell’ukulele e del banjo.
- Quelli che suona papà?
Brian fece una smorfia. – Anche io li suono.
- Però papà li suona anche ai concerti.
Il riccio aggrottò la fronte e guardò il bambino. – No, in realtà no.
- Sono quelle cose della batteria?
Brian sorrise, intenerito. – Jimmy, no. Non sono i componenti di una batteria. Sono degli strumenti a corde, te li ho anche fatti vedere.
-  Quando?
Il papà si morse il labbro. – Quando… Ah. – alzò gli occhi al cielo. – Quando tu e papà mi avete interrotto giocando con le macchinine.
Il piccolo James allungò una mano verso lo strumento musicale. Brian glielo avvicinò e lo vide enorme tra le braccia del bambino. Sorrise.
Le manine iniziarono a cadere pesanti sulle corde velocemente e Brian fece una smorfia, con il presentimento che quel vulcano – fin troppo simile a Roger – potesse rompere il povero banjolele.
- Jimmy, fa’ un po’ più piano. Quelle corde sono molto delicate e a papà dispiacerebbe tanto se si rompessero.
- Ma uffa!
- Che state facendo? – una voce allegra e familiare giunse alle orecchie dei due: Roger era entrato nella stanza trotterellando con il piccolo Felix tra le braccia.  Brian aggrottò la fronte, sospettoso. – Dov’è Louisa?
- Dorme.
- Sicuro?
- Certo. Cos’è, credevi che l’avessi buttata in un cassonetto?
- No. Pensavo fosse scappata lei perché l’avevi fatta esaurire.
- Divertente.
- Papà. – James fece quasi cadere lo strumento musicale che aveva tra le braccia, facendo per un attimo fermare il cuore di Brian. Roger lo guardò e gli sorrise. – Sì?
- Giochiamo con la palla?
- No! – esclamò immediatamente Brian, non volendo ripetere la scena che si era verificata l’anno prima, quando Roger, per un calcio tirato troppo forte al pallone, lo aveva colpito esattamente sul naso facendoglielo sanguinare. – Nessun pallone! Giocate con… Che so… Della gomma piuma?
Roger e James si guardarono nello stesso preciso momento. Con lo stesso identico sguardo.
 

 
- Non pensi di star studiando un po’ troppo, dottore? – Roger si appoggiò con le mani alla scrivania, curvando la schiena e inclinando la testa per guardare il suo ragazzo. Gli sorrise dolcemente e lanciò poi un’occhiata al libro su cui Brian stava studiando, pieno di cose e parole che lui, studente di biologia, non capiva molto bene. Il suo ragazzo sospirò, accarezzandogli distrattamente una mano e passandosi l’altra tra i ricci disordinati.
Era lì fermo da… Quanto? Dieci ore? Undici? Aveva iniziato al sorgere dell’alba, dopo essersi soffermato ad osservare Roger dormire ancora profondamente e fargli qualche carezza di tanto in tanto. E in quel momento era già tarda sera. A breve avrebbe dovuto scrivere la tesi di laurea, poteva dire di essere ancora a zero con lo studio ed era talmente stressato da non riuscire più a dormire serenamente.
Non che fosse una novità.
Il vero problema, fonte della sua distrazione, era che in quell’appartamento minuscolo non ci vivevano in due. Ma in quattro. Quattro musicisti che tutto erano fuorché silenziosi.
E Brian aveva più volte provato a chiedere con tutta la calma e la gentilezza possibili di abbassare la voce e il volume. Ma ovviamente i tre ragazzi non si erano fermati nemmeno per scherzo. Pensava di poter contare almeno su Roger ma, a quanto pareva, non c’era nemmeno uno squarcio di possibilità che il giovane batterista potesse schiacciare il freno per fermare tutto quel chiasso che, probabilmente, Brian non aveva mai sentito così forte prima di quel giorno. E, ancora, aveva risposto le sue speranze su John. Era stato vano per l’ennesima volta.
Ovviamente non aveva nemmeno considerato l’idea che Freddie potesse calmare le acque.
I tre avevano pensato bene di mettere su un concertino con tamburelli, ukulele, kazoo e triangoli, che facevano un rumore assurdo e che arrivava direttamente nelle orecchie del povero studente disperato. Come se la musica dal vivo non bastasse, Freddie e Roger avevano anche iniziato a cantare in falsetto per capire chi avesse la voce più acuta. Nonostante tutti e quattro fossero perfettamente consapevoli che il batterista avesse un fischietto per cani al posto della gola.
Erano le cinque di pomeriggio quando Brian aveva spalancato la porta del piccolo studio, guardando le teste di cazzo con occhi furenti. Non aveva detto nulla. Semplicemente, dopo aver lanciato il tamburello di Roger a terra, aveva sbattuto nuovamente la porta, chiudendosi dentro la stanza.
In quel momento era in una fase di completa rassegnazione e vedere il sorriso di quel cretino del suo ragazzo lo tirò leggermente più su. Roger si sedette affianco a lui e gli accarezzò i ricci. – Ti porto le scuse di tutti e tre. Avrebbero voluto dartele direttamente, ma come immaginerai stanno già russando.
Vide Brian portare gli angoli delle sue labbra all’insù e ciò fece sorridere anche lui.
- Ci siamo comportati come dei bambini, lo sappiamo. Però ti abbiamo fatto una torta. – si chinò sullo sgabello su cui aveva posato la teglia che conteneva il dolce e la porse a Brian. – Lo so… Non l’abbiamo nemmeno messa in un piatto. Però almeno non l’abbiamo bruciata!
Il riccio continuò a sorridere, attirando Roger a sé e baciandolo dolcemente. – E’ vero, hai pienamente ragione. Siete infantili, imbecilli e completamente fuori di testa. Avete tutti compiuto vent’anni da almeno tre ma sembra che ne abbiate cinque, sette e dieci. Però se non ci foste voi la mia vita sarebbe una rottura di coglioni.
- Sì, tutto quello che vuoi. La mangi la torta?
- Quando finisco di studiare. – disse posando un bacio sulla guancia del batterista per poi tornare con gli occhi sui libri. Per sua sfortuna, Roger non sembrava essere tanto d’accordo.
- Eh no, secchione. – sbottò, appoggiando la teglia sui libri coprendo la visuale a Brian. – Tu adesso mangi e non mi rompi le palle. Sarai arrivato a pesare cinquanta chili! Poi pensi alla tua tesina inutile.
- Non è una tesina. E’ una tesi.
- Fatto sta che non devi rompermi il cazzo.
- Ti sei dimenticato cosa facevi tu?
- Mi comportavo meglio di te.
- Oh, sì, certo. Mi hai cacciato, urlandomi che ero una “cazzo di mammina apprensiva dei miei coglioni”, parole tue, e mangiavi come un morto di fame. E hai strappato il libro. Poi hai dovuto comprarne un altro, e quando sei andato a prenderlo e la ragazza ti ha detto che li aveva finiti tu l’hai chiamata “rincoglionita”. Alla fine te l’ho comprato io.
- Almeno mangiavo.
- Ho mangiato.
- Ficcarsi in bocca dell’erba non è mangiare!
- Era un’intera busta d’insalata!
- Posso sentire il tuo stomaco urlarmi di darti la torta. – si abbassò un po’, all’altezza della pancia di Brian, e finse la voce più acuta che riuscisse a tirar fuori. – Dammi la torta, Roger! Questo pazzo non vuole nutrirmi.
Il chitarrista rise e prese il ragazzo tra le sue braccia. Gli lasciò un bacio sulla testa bionda, mentre lo faceva sedere sulle sue gambe. – Ti hanno mai detto che sei adorabile?
 

 
Brian entrò nell’edificio con un’ansia e una paura che non ricordava di aver mai provato.
Le porte dell’ascensore si aprirono davanti a lui e gli permisero di entrare mentre lui prendeva un profondo respiro. C’era un ragazzo accanto a lui che sembrava distrutto. In lacrime, completamente devastato. Il chitarrista si voltò a guardare i pulsanti che indicavano il numero dei piani e schiacciò su quello che corrispondeva all’ottavo.
Prese un altro respiro e attese. Attese finché non vide le porte aprirsi, uscì.
Un uomo alto, con due grossi occhiali sul naso e un lungo camice bianco lo aspettava davanti alla porta del proprio studio. Non sorrideva, era completamente inespressivo. Solo un po’… Triste? Dispiaciuto? E ciò già preannunciava che niente, in quella giornata, sarebbe andato come avrebbe dovuto.
Lo capì da quello sguardo e sentì tutte le proprie speranze sgretolarsi come carbone. Lo sentì salutarlo e ricambiò cordialmente, mentre il dottore lo faceva accomodare nel suo studio.
Non aveva detto niente a Roger.
Non gliene aveva parlato perché aveva tanta paura. Non voleva che lui soffrisse, non voleva che si preoccupasse troppo presto.
Il ragazzo era stato con lui, la prima volta in cui si era sentito male.
Gli era svenuto davanti agli occhi e si era risvegliato in ospedale, in quell’ospedale in cui da poco era entrato.
Tuttavia, non gli aveva parlato delle sue preoccupazioni. Non gli aveva minimamente parlato degli esami che era andato a fare giorno per giorno e delle parole che i dottori gli avevano detto.
Aveva bisogno di fargli vivere la sua vita come aveva sempre fatto. Senza niente che non andasse.
A Roger avrebbe fatto troppo male.
Ascoltò il dottore con le orecchie ritte, ad ogni parola il suo cuore faceva sempre più male e ogni sua ansia e paura si realizzavano, lo divoravano come cannibali.
- L’esito della biopsia è positivo.

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Capitolo 16
*** When I grow older, I will be there at your side ***


Capitolo 16 - When I grow older, I will be there at your side

La schiena di Roger finì pesantemente contro il muro mentre il ragazzo che lo teneva stretto tratteneva le sue gambe sottili attorno ai propri fianchi, baciandolo sempre con più irruenza e lasciando che il batterista avvolgesse le braccia attorno al suo collo. Robert si staccava di tanto in tanto, giusto il tempo di guardare gli occhi azzurri del ragazzo che da anni aveva desiderato di stringere, accarezzare, baciare.
Roger era più bello di prima. Più bello dell’ultima volta, meno impacciato. Erano passati tre anni da quando lo aveva visto andar via con tanta irruenza da casa sua, quasi scappando, e casualmente aveva avuto l’occasione e la fortuna di rivederlo lì dentro, in quel pietoso pub stracolmo di idioti, a ventuno e ventidue anni. Ma in mezzo a tutte quelle persone aveva visto lui. In mezzo a tutti quegli sguardi anonimi aveva notato gli occhi celesti di Roger. Era cambiato. La statura era la stessa, ma la sua figura era più magra, esile come una foglia. I capelli erano lunghi e più chiari, lo sguardo più triste. A vederlo da vicino, aveva osservato gli aloni neri che gli circondavano gli occhi.
Non aveva avuto nemmeno il tempo di parlare, di chiedergli cosa gli fosse successo per essersi ridotto in quel modo, che aveva visto il ragazzo fiondarsi sulle sue labbra di colpo, senza un motivo. Si era staccato, gli aveva accarezzato i capelli biondi.
“Sei ubriaco, non sai quello che stai facendo” gli aveva detto. Per proteggerlo, per non farlo star male una volta sobrio. Però Roger lo aveva baciato di nuovo, e in quel momento si trovavano in un bagno, premuti l’uno contro l’altro.
Restò per un attimo a fissare, perso e incantato, quegli zaffiri che erano i suoi occhi. Lucidi, grandi, infantili. Meravigliosi. Appoggiò di nuovo le labbra su quelle del ragazzo, sfiorandogli la lingua con la propria. Roger passò una mano sul petto del maggiore e accarezzò la pelle olivastra, provocando dolci ed eccitati brividi sul corpo di Robert.
Il batterista si sfilò velocemente la maglietta, lasciando il petto magro esposto. Robert fece scorrere lo sguardo sulla pelle chiara. Le costole in evidenza, le clavicole sporgenti.  Notò segni rossi evidenti in contrasto con il candore della carnagione di Roger, lividi violacei sparsi ovunque. Restò senza fiato, completamente. Gli accarezzò una guancia e gli scostò una ciocca bionda dalla fronte, notando solo in quel momento la ferita che gli attraversava un sopracciglio.
-Rog… - sussurrò. Quando il ragazzo rischiò di cadere tornò a stringergli le gambe.  
- Che stai aspettando? – ansimò il minore. – Facciamolo.
- Facciamo cosa?
Roger abbassò le mani tremanti sulla cerniera dei jeans del ragazzo, sbottonandoli, nonostante da quella posizione fosse tremendamente difficile. Quando Robert capì il suo gesto ricominciò a baciarlo, facendo scorrere le proprie mani sul cavallo dei pantaloni del batterista. Gli baciò il collo, le spalle, le clavicole.
Solo che, appena cominciò a slacciargli la lampo, si rese conto di quanto grave fosse ciò che stava facendo. Roger era ubriaco e, a giudicare da quello che Robert vedeva, stava anche soffrendo. Non poteva, nonostante lo desiderasse. Più di qualunque altra cosa.
Era tutto così sbagliato. Non era come avrebbe voluto che fosse, forse a Roger non importava assolutamente nulla di lui e lo stato di ebbrezza lo confondeva, lo annebbiava. Forse non era nemmeno consapevole di ciò che stava facendo e il giorno dopo non avrebbe ricordato assolutamente nulla. Non era corretto nei confronti del ragazzo, non era… Giusto. E Robert avrebbe voluto, sì. Avrebbe voluto tanto fare l’amore con lui, da anni, e in quel momento ne aveva l’occasione. Ma non sarebbe stato amore. Sarebbe stato solo inutile sesso tra un ragazzo sbronzo e uno innamorato.
Era consapevole che Roger non provasse assolutamente le emozioni che attraversavano lui, e proprio perché Robert lo amava non osò sfiorarlo.
Lo appoggiò sul pavimento, gli prese la testa tra le mani e gli si avvicinò fino a sfiorargli il naso con il proprio. – Ti amo, Rog. E proprio per questo non posso farlo.
 

 
Brian si sentiva perso. Sperduto, confuso, come un pesce fuor d’acqua. E non da pochi giorni. Da due o tre anni, che in realtà gli sembravano secoli e che non vedeva l’ora che finissero. Il 1972 era stato un disastro come gli anni precedenti. Sì, la band andava discretamente bene, avevano trovato il bassista e si esibivano nei college di tanto in tanto, ma a Brian mancava qualcosa in un modo che era ormai diventato doloroso, tanto da non permettergli di prendere sonno, da fargli perdere l’appetito e, addirittura, la voglia di suonare. E lui sapeva alla perfezione di cosa si trattasse. Aveva bisogno di Roger. Gli mancava il suo migliore amico, il suo complice, lui che si prendeva tutta la colpa per qualcosa che nemmeno aveva fatto solo e soltanto per proteggere Brian.
Gli mancava qualsiasi cosa di Roger. Il suo infantilismo contrapposto alla maturità che dimostrava di avere in tantissimi casi, la sua curiosità, la sua intelligenza, la schiettezza e quel cuore così grande e gentile da poter contenere il mondo e tutta la negatività di esso. Negatività che Roger trasformava in ottimismo e animo, nonostante la vita lo prendesse a pugni ogni giorno, in modi sempre peggiori. Gli mancavano i suoi sorrisi e la limpidezza delle sue risate genuine, a volte anche il suo senso dell’umorismo scontato e immaturo.
Era così diverso da lui ma entrambi sapevano che squadra forte e inseparabile che erano. O meglio, che erano stati.
E Brian ancora cercava una spiegazione che andasse oltre la voglia di Roger di allontanarsi per uccidere i sentimenti non ricambiati nei suoi confronti. Brian non avrebbe mai voluto che un’amicizia così forte e importante finisse. Soprattutto perché non era più sicuro della sua prima ipotesi, che si era dimostrata solida per tutto quel tempo.
Si stava rendendo conto delle sensazioni che provava quando si trovava vicino a Roger non potendolo sfiorare, abbracciare, stringere a sé senza sentirsi colpevole. Quando lo vedeva sorridere i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli che avrebbe provato se per lui avesse nutrito semplice e normale amicizia.
E quel giorno se ne stava accorgendo più del solito.
- Tanti auguri a te, tanti auguri a te! – la voce cristallina di Freddie risuonò per tutta la stanza mentre, dietro di lui, John sorrideva con una torta tra le mani. – Tanti auguri a Roger, tanti auguri a te!
Il sorriso che distese le labbra di Roger fece battere più forte il cuore del chitarrista. Gli occhi azzurri si illuminarono e due piccole fossette incresparono le guance chiare del ragazzo. Brian deglutì, spostò lo sguardo verso la torta che John portava tra le mani e la osservò meglio. Era una semplice cheesecake ai frutti di bosco, su cui erano infilate due candeline, la prima delle quali rappresentante il numero due e la seconda il tre. Il più piccolo tra i quattro appoggiò il piatto di ceramica davanti agli occhi di Roger, seduto con i gomiti sopra al minuscolo tavolo di legno.
Freddie si allungò verso la torta, accendendo le candeline con un piccolo fiammifero.
- Devo fidarmi? Non è che la torta l’ha fatta Freddie? – rise il batterista.
Il maggiore sbuffò. – No, non l’ho fatta io. L’ha fatta Clare.
Roger guardò la sorella, seduta accanto a Brian sul piccolo divano di fronte a lui. Spalancò gli occhi: – Peggio ancora!
A Brian scappò un sorriso nel vedere la ragazza sollevare il dito medio in direzione del fratello. Si schiarì leggermente la voce. – Su, è la tua torta. Mangiala!
- No. Prima deve spegnere le candeline ed esprimere un desiderio. – obiettò Clare.
- E le orecchie non gliele tiriamo? – John si sistemò alle spalle di Roger, spostandogli i capelli biondi dal viso, facendogli storcere il naso. – Quanti anni hai, Deaky?
- So quanti anni hai tu. E ora te lo dimostro. – il bassista iniziò a pizzicare le orecchie del biondo, mentre le voci degli altri tre ragazzi rimasti nella stanza contavano in coro, fino ad arrivare a ventitré.
- Ora esprimi questo desiderio! – John abbassò le mani sulle spalle del festeggiato e gliele strinse.
Il batterista fece un respiro profondo e si allungò verso le candeline. Soffiò, ad occhi chiusi, e quando li riaprì li puntò verso quelli di Brian. Lo vide sorridere teneramente, addolcito da quella scena quasi bambinesca. E si permise, per una volta, di ricambiare quello sguardo con un sorriso ancora più dolce.
 

 
Per la seconda volta nella sua vita, Brian si ritrovò a dover aprire la porta di casa a notte fonda, ritrovandosi anche davanti la stessa persona che aveva visto quand’era successo in precedenza.
C’erano delle differenze, però. La prima era l’abitazione, che questa volta era la casa che lui, Roger, Freddie e John condividevano. La seconda era che la persona che Brian aveva davanti era ridotta peggio di uno straccio: Roger aveva un taglio che gli attraversava un sopracciglio, del sangue secco sul labbro inferiore e un brutto livido sullo zigomo sinistro. Gli occhi azzurri erano stanchi e arrossati.
E queste erano solo le condizioni del suo viso.
Aveva i vestiti sporchi di sangue rappreso, ridotti a brandelli, che lasciavano intravedere il corpo pallido ricoperto di lividi e graffi.
Brian sentì il cuore fermarsi per un secondo.
“No, ditemi che non è vero”, pensò nel vedere il ragazzo ridotto in quello stato. Lo prese delicatamente dal polso e lo trascinò in casa, chiudendo la porta leggermente per non svegliare gli altri due ragazzi addormentati.
Lo accompagnò sul divano e si sedette accanto a lui. Non disse nulla, rivolse lo sguardo verso di lui e restò ad osservarlo per riuscire a captare qualcosa. Qualche emozione, qualcosa di anche vagamente umano in quello sguardo dolorosamente sbagliato, apatico, che su Roger non aveva mai visto. Aspettò che il batterista puntasse gli occhi azzurri su di lui, invano. Gli accarezzò i capelli e non vide alcuna reazione da parte del minore. Stava iniziando a preoccuparsi ancor più seriamente.
- Che ti è successo?
Sapeva già, Brian, quale sarebbe stata la risposta. O almeno, lo immaginava. Non ottenne nulla. Non un sussurro, non una parola. Strinse i denti e respirò profondamente.
- Che è successo? – riprovò.
- Che cazzo può essere successo secondo te? – un mormorio, un sussurro talmente debole e fragile che Brian riuscì appena a distinguere.
Il chitarrista batté appena le palpebre. Si girò a guardarlo di nuovo e lo vide tirare su col naso. – Lo ha fatto ancora, è così?
Vide Roger fare una smorfia. Era la prima espressione che Brian riusciva a vedere su quel viso quella sera. Lo vide sbuffare, scuotere la testa. – Ma perché cazzo dovrei venire a raccontarlo a te?
Il maggiore aggrottò la fronte. Sapeva che Roger fosse ancora arrabbiato con lui, gli dava anche ragione, ma stava cercando in ogni modo di stargli vicino, sapendo quanto stesse soffrendo. Eppure Roger sembrava non interessarsene minimamente. Sospirò. – Perché no?
La domanda fece rivolgere lo sguardo del biondo verso il suo. Sembrava infastidito, forse perplesso. – Perché noi…  - strinse il pugno destro dalle nocche graffiate e tumefatte. – Perché tu non sei il mio migliore amico. Non più.
Brian si impose di stare calmo solo per Roger, solo per le sue condizioni e per la tristezza che già vedeva abbondare nei suoi occhi. Si sistemò meglio sullo schienale del divano. – Ti rendi conto di quanto questo discorso sia infantile e inutile?
Una lacrima rigò la guancia di Roger e quando Brian se ne accorse non disse una parola. Il chitarrista, continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, allungò una mano e la posizionò su quella del ragazzo, stringendola nella propria. Schiuse le labbra. – Metti per un attimo da parte l’orgoglio, il rancore e la rabbia. Permettiti di essere libero dalle catene di cui tu stesso ti sei circondato, Rog.
Sentì un singhiozzo, un colpo di tosse, e gli strinse più forte la mano.
- Perché le cose intorno a me hanno iniziato a cadere a pezzi senza una ragione, Bri?
 

 
Roger rise, baciando la fronte del ragazzo e spostandogli una ciocca di capelli ricci dietro a un orecchio. – Perché sei così paranoico, Bri? Nulla andrà storto, intesi?
Brian, dal canto suo, era talmente agitato da essersi mangiucchiato tutte le unghie della mano destra. Stavano per fare qualcosa di importantissimo, di meraviglioso. Ma anche incredibilmente terrificante. Soprattutto per lui che era ansioso a tal punto da poter esplodere sul posto. – E se non ce lo facessero fare? E’ già abbastanza difficile adottare un bambino, figurati per due persone omosessuali.
- Io so essere molto femminile se voglio. E soprattutto convincente.
Brian sospirò. – Rog.
- Sto scherzando, quanto sei palloso e rompicoglioni.
La stanza in cui li avevano fatti accomodare era graziosa e adorabile. Erano seduti su due poltroncine di pelle nera, circondati da acquari e da muri dalle pareti blu. Era una sala d’attesa piena di piante e pesciolini e a Brian piaceva da impazzire, ma non abbastanza da farlo sentire a suo agio e sciogliere i suoi nervi.
Però sentire le dita delicate di Roger accarezzargli i capelli lo fece sentire un po’ più tranquillo.
La porta della stanza si aprì e Brian sussultò leggermente.
Una ragazza alta, dai lunghi capelli castani e con una montatura spessa appoggiata sul naso uscì dalla porta scorrevole e sorrise. – I signori May-Taylor?
Roger fece un raggiante sorriso e si alzò in piedi. La sua mano era ancora stretta a quella di Brian, che rimaneva appiccicato alla poltrona senza volersi muovere, perciò il biondo perse per un attimo l’equilibrio. Cercando di non perdere anche la pazienza alzò le spalle e guardò la giovane che aspettava davanti alla porta con un’espressione perplessa a incresparle i lineamenti dolci. – E’ solo un po’ agitato.
Brian si alzò a sua volta e quando la donna lo notò rizzò la schiena. – Potete seguirmi all’interno.
Roger si voltò verso il marito e lo pietrificò con lo sguardo, facendolo sbuffare. Entrarono nello studio in cui la ragazza aveva detto di seguirla, che era grande e forse ancora più bello della sala d’attesa. C’era una carta da parati fiorata e una scrivania di vetro era posta in un angolo della stanza, piena di poltroncine colorate e giocattoli per bambini.
La ragazza che li aveva accolti si sedette davanti alla scrivania, facendo segno ai due musicisti di accomodarsi di fronte a lei.
Si schiarì la voce e sorrise, osservando i documenti che aveva davanti agli occhi. – I Queen sono la band migliore di tutti i tempi.
Brian scoppiò in una risatina imbarazzata e nervosa, meritandosi una gomitata nelle costole da parte di Roger, che sorrise gentilmente alla ragazza. – Ci fa immensamente piacere, signorina…
- Chiamatemi Emily. – lo interruppe lei, scribacchiando qualcosa. Tornò a guardare i due negli occhi, la sua espressione era tranquilla e riuscì perfino a rassicurare il povero Brian. Sorrise radiosamente. – Come d’accordo, abbiamo discusso sulla vostra richiesta e la vostra pallina è andata in buca. Avete ogni requisito per adottare James, e a proposito di questo, curriculum impeccabili.
Brian strabuzzò gli occhi e Roger sfoderò un sorriso a trentadue denti, col cuore che batteva forte come una grancassa.
Pensarono a come fosse stato difficile arrivare fino a quel punto, ci erano voluti mesi, si erano scoraggiati diverse volte e avevano pensato altrettanto frequentemente di non potercela fare. Quando avevano ricevuto quella chiamata dal centro d’adozione avevano recuperato ogni speranza, nonostante non ci fosse ancora nulla di certo. Il chitarrista strinse forte la mano del minore.
Emily si sporse leggermente, affacciandosi dalla porta di legno accanto a lei. – E’ molto timido, sarebbe già dovuto essere qui ma si vergognava parecchio.
Brian sussultò quando sentì qualcosa sfiorargli la gamba. Abbassò lo sguardo insieme a Roger, vedendo un piccoletto accucciato sotto alla scrivania giocare con una macchinina giocattolo. Emily abbassò a sua volta la testa per rendersi conto della situazione, e appena vide il bambino scoppiò a ridere. – Ecco dove si era cacciato il nostro James!
Roger e Brian sorrisero nello stesso identico momento. 

 
 
 


Lisbeth’s notes.
Ciao, sono viva!
Scusatemi ancora per l’ennesima assenza, ma questo capitolo è stato cancellato e riscritto almeno una ventina di volte. Avevo tante indecisioni che mi stavano facendo impazzire e che hanno notevolmente rallentato la pubblicazione di questo penultimo capitolo. Sì, siamo quasi alla fine e io sono notevolmente stupita.
Vorrei precisare qualcosa riguardo l’ultima parte del capitolo: so bene che le adozioni gay non potessero essere effettuate negli anni 70, ma mi sono permessa di cambiare un po’ le cose per rendere la storia proprio come avevo desiderato che fosse, come ho precedentemente accennato.
Come avete potuto notare, inoltre, questa è una raccolta di flashback che precede l’ultimissima parte di questa storia, che ho già scritto. Non posso però dare la sicurezza sulla data in cui lo pubblicherò, perché non sarò a casa per un mesetto e non so se potrà esserci la disponibilità per avere un momento per aggiornare.
Siamo quasi giunti alla fine e sono veramente felice dei risultati che ho ottenuto anche grazie a voi e al vostro sostegno.
Spero che il capitolo, seppur breve, vi sia piaciuto. Vi abbraccio!
With love,
- Lis.

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