L'albero di ciliegio della signora Venturina

di yonoi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L’umano con lo zaino e la signora Venturina ***
Capitolo 2: *** Il corpo sa tutto ***
Capitolo 3: *** La vaniglia e i ciliegi ***
Capitolo 4: *** Nei campi aperti, dietro alla Fortezza ***



Capitolo 1
*** L’umano con lo zaino e la signora Venturina ***


Caro lettore, cara lettrice che ricevi questa storia come dono per Natale, spero che il mio racconto, possa incontrare i tuoi gusti e donarti qualche momento di piacevole svago (più d’uno, chissà… si tratta di un malloppone!). Non conoscendo i tuoi fandom su cui abitualmente scrivi, piuttosto che arrampicarmi su specchi per me troppo fragili (col rischio di scivolare, a mo’ di gatto Silvestro) ho preferito affidarmi al peloso protagonista di questa storia… che non è Silvestro ma è comunque un suo collega felino! Del resto, si dice che nella notte di Natale gli animali acquistino il dono della parola…
Con tanti auguri per questo giorno e per l’anno che verrà.
Yonoi.
 



 
L’albero di ciliegio della signora Venturina
 
 

 
“Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna”
(Mizuma Mahaside)
 
 
 

1. L’umano con lo zaino e la signora Venturina
 


Quando arrivammo all’accampamento del Fratellone era già buio.
Il sentiero che conduceva alla radura, una serie di giravolte ispide tra i cespugli, era immerso in quell’oscurità fitta che si trova soltanto fuori città: dove le ultime luci a un certo punto inciampano al di là delle colline, si spegne finalmente il rumore del traffico e resta solo la notte. E poi la notte accende a una a una le stelle, come fa il Fratellone quando passa un fiammifero sul capo chino delle candele, che subito si drizzano e cominciano a splendere.
Il quartier generale del Fratellone è una roulotte che lui ha scoperto per caso, nel bel mezzo di una radura spelacchiata: terra battuta e buche fangose quando piove, e in estate la polvere che il vento fa girare in piccoli mulinelli e somiglia ai deserti dei libri di avventure.
La roulotte si trova qui da tempi immemorabili. Chi ha avuto la sorte di arrivare prima di noi ha portato via i pneumatici ancora buoni, i materassi delle brande, persino la portiera che il Fratellone ha sostituito con un tendone da doccia. Col tempo, la roulotte si è arresa al suo aspetto bizzarro e ha finito per attecchire come una strana pianta, su cui gli arbusti si arrampicano senza paura.
Quando piove per giorni, in quei diluvi monotoni tipici dell’inverno, si forma tutt’intorno una pozza così grande che ricorda i fossati degli antichi castelli: per questo il Fratellone, dopo averci sguazzato più di una volta fino ai garretti, si è deciso a costruire un ponte levatoio con semplici assi di legno, e ha ribattezzato il nostro rifugio la Fortezza.
A dispetto del nome, la Fortezza è tutt’altro che inespugnabile. Da queste parti, come del resto ovunque, gli umani con lo zaino non li vuole nessuno e qualche cacciatore si è preso il disturbo di tirar fucilate contro il tetto del camper, per evitare ai vagabondi di accamparsi. Quando io e il Fratellone siamo arrivati qui, bastava una pioggerella per allagare la Fortezza, e un temporale più forte per far spuntare i funghi sulla vecchia moquette.
Ci voleva ben altro per impedire al Fratellone di sprofondare in un sonno di sasso, lui che è abituato a dormire sui treni merci, in tenda sotto alle stelle e sotto ai cartoni di tutte le strade del mondo. In ogni caso, riparare le falle è stato il primo lavoro a cui ha messo mano, e adesso abbiamo anche un divano dotato di maxi schermo per le serate in relax.
Collocato al limitare della radura, di fronte a un panorama di colline e di stelle che voialtri, in città, ve lo potete sognare, si tratta a tutti gli effetti un rottame: un pezzo di antiquariato fragile già ai suoi tempi, quando si limitava ad accogliere ospiti che sedevano sul ciglio senza appoggiarsi troppo. Ora l’imbottitura è marcita per le intemperie, gli eleganti piedini sono sprofondati nel fango e le molle protestano quando il Fratellone si butta con tutto il peso. Io invece mi arrampico con maggiore cautela, scuotendo via dalle zampette l’umidità.
Noi qui, ogni sera, guardiamo un po’ di tivù: dentro alla carcassa di un vecchio televisore, il Fratellone accende una fila di candele, alcune dritte e nuove, altre ricurve per il peso della luce e addossate una all’altra, come sul terreno fragile di una torta di compleanno.
Una volta che quella moltitudine di fiammelle comincia a consumarsi – si consumano più che far luce, e il loro riverbero piace al Fratellone perché non scaccia le stelle dal cielo, non le spegne in un crepitio come i neon giù in città – allora il mio compagno suona la sua chitarra e io mi acciambello accanto a lui, sulla vecchia coperta che sa di cane. E questo è molto strano perché lui è appunto un umano mentre io sono un gatto, e quindi questo odore non si capisce da dove viene.
Bene, voi siete molto cortesi a starmi ad ascoltare mentre io in realtà non mi sono ancora presentato: il mio nome è Mozzicone e sto vivendo l’ultima delle mie sette vite.
In tanti anni ho acquistato una grande esperienza dell’animo degli umani. Quando avrò terminato di percorrere l’ultimo tratto del mio cammino, il mio destino – come quello di tutti gli animali protettori – sarà di trasformarmi nella forza di un sentimento, in un talento per cui valga la pena di vivere, in una piccola ma agguerrita fiammella di ispirazione. Potrò essere armonia tra le mani di un musicista, poesia tra due amanti, compassione in un cuore chiuso. Tutto dipenderà dall’umano con cui deciderò di restare per sempre, e il Fratellone ha tutte le caratteristiche per essere il candidato ideale.
Va detto che il mio padrone è un tipo complicato, e sì che di gente strana ne ho vista, in sette vite. Considera la natura l’unica realtà affidabile e autentica, e il mondo dei suoi simili come un luogo in cui non riesce a raccapezzarsi. La vita della roulotte gli offre il sollievo della bellezza, la sincerità della vicinanza alla terra, ma dentro di lui – io lo so – si agitano molte domande senza risposta. Certo vi chiederete come faccio a conoscere così bene i suoi pensieri. Il Fratellone è introverso e parecchio scontroso, ma le sue carezze sono altrettante confidenze.
Noi gatti abbiamo occhi e orecchie nel pelo, quando un umano ci sfiora sappiamo esattamente cosa si agita nel suo spirito. Per questo posso dire di conoscere il Fratellone. Di più, sono qui proprio per raccontarvi la sua storia, che è un po’ anche la mia.

 
******

        
Non sono un gatto di razza ma un semplice europeo dal pelo arancione, quasi rosa sul petto, forse perché in quest’ultima vita sono nato all’ora del tramonto. C’era una luce dolce intorno a me in quel momento, il canto lento del fiume dove mia madre s’era nascosta per partorire. La tenerezza del suo manto proteggeva me e i miei cinque fratelli, le sue leccate ruvide ci aiutavano a sollevare la testa.
Tutti i miei fratellini sono stati annegati, poco dopo la nascita, proprio in quel fiume.
Il padrone di allora lasciò soltanto me perché la gatta non impazzisse, non trovando più i piccoli. Ho sofferto nel vedere mia madre cercare i miei fratelli, e ho dovuto aggrapparmi a tutta la saggezza delle mie vite precedenti per non odiare quell’uomo e venir meno al compito che mi attendeva in quest’ultima esistenza.
Quando il Fratellone mi ha raccolto per strada mi ha chiamato Mozzicone perché sono senza coda. Sono nato così, ma me la cavo ugualmente a saltare sul divano o sulla branda del mio umano, per dormire con lui sotto a quella coperta che sa sempre di cane e va a capire perché.
Ancora prima, quando abitavo insieme alla signora Venturina e mi acciambellavo su una trapunta un po’ più confortevole e soprattutto pulita – noi gatti abbiamo il pallino dell’igiene, per questo ci troverete sempre accoccolati sui panni appena stirati – insomma, a quei tempi mi chiamavo Garibaldi, che poi era il soprannome del defunto marito della signora, ufficiale in pensione.
A dir la verità, io non avevo affatto i baffi così lunghi. E neppure un cipiglio come quello che la buonanima esibiva nel ritratto appeso in salotto, tra una fila ordinata di orologi a cucù e un’ampia tenda sempre piena di spifferi e forse di fantasmi.
L’ambiente, devo dirlo, era parecchio cupo. Abitavamo al piano terra, e anche a mezzogiorno la casa era perennemente immersa nella penombra. Eppure, né i cucù con i loro strepiti, né le voci misteriose impigliate nella tenda potevano competere con lo sguardo di pietra del capitano Giuseppe Tibaldi, punitore di reclute più che istruttore, che finché visse amava firmarsi con l’iniziale del nome e una tempesta di svolazzi. Tanto che chi leggeva si confondeva sempre e alla fine Garibaldi gli restò come soprannome. Probabilmente solo sua moglie Venturina era convinta che quel nomignolo fosse un titolo d’onore.
In realtà il grido arriva Garibaldi! non era un urlo di guerra: era il segnale che risuonava nelle camerate come ultimo avviso per nascondere la radio, riviste che non trattavano di strategia militare, per dissipare il fumo di sigarette strane e poi sparire in men che non si dica sotto alle coperte, che dovevano ricadere ai due lati delle brande per venti centimetri esatti.
Garibaldi in persona passava ogni sera a controllare col metro.
Persino da morto e in fotografia, il vecchio capitano incuteva terrore. Io preferivo girare al largo da quegli occhiacci che ti seguivano ovunque, come se da un momento all’altro dovessero spuntare dalla cornice due mani, tra le mani un bastone e giù botte da orbi.
La signora Venturina, invece, sapeva di vaniglia e aveva la pelle di due misure più grandi dei vecchi. Portava i capelli alla moda di quando era giovane, con due pettini dietro alle orecchie. Da lì si apriva un ventaglio di ricci di carta crespa, lucidati a lungo dal parrucchiere per cancellare ogni traccia di giallo che sa di rancido.
“Vecchia sì, bacucca neanche per sogno,” puntualizzava lei, che la sua vanità se la teneva ben stretta insieme ai ricci ravviati tra i pettini, alla loro preziosa sfumatura di cenere che in certi momenti, complice la penombra, virava decisamente in un azzurro fiabesco.
“Meglio fata turchina che strega di Biancaneve,” rispondeva ai nipoti, una ciurma di ragazzini devastatori che calava come un flagello a Pasqua e a Natale, cacciando dappertutto mani troppo curiose, rompendo soprammobili e cercando di tirare la coda al gatto di casa. Faccenda che, nel mio caso, si presentava assai complicata perché, come dicevo, sono nato senza quell’appendice pericolosa, in grado di attirare l’attenzione degli umani più dispettosi.
“Nonna, hai i capelli blu come la fata di Pinocchio!” Di fronte a quella beata insolenza, la signora Venturina non solo lasciava correre ma addirittura ringiovaniva. Amava lasciarsi travolgere da quell’orda piena di vitalità. Tornava bambina mentre contava fino a cento e poi si metteva in cerca dei nipoti e delle loro risatine nascoste, dicendo ucci ucci.  
Quando li scovava dietro alle tende e in fondo agli armadi – gli abiti buttati per aria e sotto i piedi – se li abbracciava stretti. A nove, dieci anni i nipoti erano già il doppio di lei. Venturina spariva in quell’ammucchiata di abbracci selvaggi, come se fosse la sorellina minore di tutti e la sua pelle piena di grinze, rimboccata qua e là sulle mani e sul viso, fosse soltanto un abito smesso da qualche cuginetto più grande e toccato a lei in sorte, per crescerci dentro come usava una volta.
Quando era previsto l’arrivo dei nipoti la mia padrona si affaccendava per giorni, preparando biscotti a forma di pupazzetti, che decorava con faccine di frutta candita. Poi li lasciava a riposare in file ordinate sopra a uno strofinaccio, sul tavolo della cucina. Di là si diffondeva un aroma che riportava la casa ai tempi dell’infanzia tenera dei suoi figli, ora dispersi ai quattro angoli del mondo.
Ce n’era persino uno che viveva in Giappone. Io l’avevo ben presente perché da quel remoto paese di ciliegi e paesaggi in carta di riso, dopo aver attraversato otto fusi orari insieme alla sua mamma dagli zigomi bianchi, ogni anno piombava tra noi come un cataclisma il nipote più terribile della signora Venturina. Rapido e silenzioso, una volta riuscì a sorprendermi e mi ritrovai a penzolare a testa in giù, legato come una lepre pronta per il salmì, senza neanche capire come c’era arrivato.
La signora Venturina possedeva l’affetto di manica larga dei nonni, ed era disposta a passar sopra a ogni cosa: i vestiti calpestati negli armadi, la cucina in stato d’assedio all’ora della merenda, gli occhi dei pupazzetti che continuava a trovare appiccicati alle suole per giorni, su tutti i pavimenti e fino in fondo al cortile.
Ma il giorno in cui trovò me, appeso come una provola mentre mi contorcevo senza più forze, giunse alla conclusione che era venuto il momento di perdere le staffe.
Cavò lo strofinaccio da sotto ai biscotti e cominciò a menar colpi che fecero impallidire persino la buonanima di Garibaldi. Il fiero capitano seguì tutta la scena con i soliti occhiacci ma anche stringendosi nelle spalle, nel tentativo di parare i colpi e sottrarsi a una spedizione punitiva coi fiocchi.
Nel parapiglia un colpo di strofinaccio lo prese in pieno, facendolo vacillare con tutte le medaglie. Mi sembrò addirittura di sentirle tintinnare, ma forse si trattava di un’allucinazione dovuta al troppo tempo trascorso a testa in giù. Quando riuscii di nuovo a vederci diritto la casa era immersa nel consueto silenzio, l’orda riconsegnata ai rispettivi genitori con l’invito a non farsi vedere per un pezzo.
Io però conoscevo la tenerezza d’animo della signora Venturina, sicché decisi di prendere le mie brave contromisure. A partire da quel giorno, non appena l’aroma dei pupazzetti iniziava a diffondersi per la casa come un segnale premonitore, battevo in ritirata strategica sotto al letto o in cima alla credenza.
Da là attendevo che l’orda passasse, stando ben acquattato nel punto più irraggiungibile dai piccoli umani e dalle loro mani come tenaglie.
Durante il resto dell’anno, il padrone indiscusso di casa era il sottoscritto. Va detto che, come capacità distruttiva, non avevo nulla da invidiare ai nipoti di Venturina, specie quando sentivo il bisogno di far ginnastica e mi dedicavo alle arrampicate estreme su per le tende. A quel tempo ero giovane, ci tenevo a essere in forma e quei tendoni pieni di spifferi erano un ottimo sesto grado per gatti.
Avevo anche il mio tiragraffi personale, che poi era la poltrona sopra a cui la signora guardava la tivù, lavorava a maglia e si appisolava. Molto spesso faceva queste tre cose insieme e io allora mi acciambellavo sulle sue gambe, o acchiappavo il gomitolo e lo portavo a fare due passi per casa. Un’altra attività che mi piaceva un sacco consisteva nell’inseguire i rotoli di carta igienica per tutto il corridoio, attorno ai tavoli e sotto il letto, in una corsa scatenata fino all’ultimo foglio. E poi saltare dentro a quelle strisce morbide e trasformarle in tempesta, brandelli che volavano dappertutto leggeri come in quei vecchi carillon che la padrona spolverava sopra alle mensole, paesaggi in una bolla che a voltarli venivano giù i fiocchi di neve.
La signora Venturina possedeva un’intera collezione di quegli strani marchingegni sonori. Piccole sfere che custodivano all’interno miniature d’inverni oppure di oceani, con tanto di conchiglie e tesori sul fondo.
Ero affascinato dalle melodie che minuscoli rulli attaccavano a suonare quando la mia padrona dava la carica con un colpo di manovella. Strofinandomi contro a quei paesaggi congelati – avessi avuto una coda, l’avrei drizzata in forma di punto interrogativo – cercavo di scoprire dove si nascondevano gli invisibili musicisti che pestavano con fervore su tasti e martelletti.
La signora Venturina invece si commuoveva, perché ogni carillon era un ricordo dei tempi in cui viaggiava assieme a Garibaldi, seguendolo nei suoi trasferimenti in giro per l’Italia: nelle città di nebbia della pianura, sotto la neve ai piedi delle montagne, nelle basi militari spaziose sulla costa. Nei porti spalancati su un mare di gabbiani, il ritmo delle onde simile a quello del cuore.  
Quand’era in vena di nostalgia, a Venturina bastava un giro di manovella per mettere in moto i ricordi. Allora Garibaldi si sporgeva dalla sua cornice di legno e un poco sorrideva, mentre i rintocchi scandivano il tempo dei valzer e i loro volti si facevano più vicini.
 

 
******

 
Fino ai diciassette anni, l’umano con lo zaino era stato una piccola campionessa di ginnastica ritmica: minuta e deliziosa, la schiena ad arco perfetto e i capelli tirati con la massima disciplina in cima alla testa, volteggiava sulla pedana come se non possedesse né peso né ossa.
Dotata di una flessibilità fuori dall’ordinario, il suo corpo era in grado di piegarsi senza sforzo, in perfetta armonia con gli attrezzi: la palla correva sul filo ripido della schiena, il nastro l’avvolgeva durante le piroette e la cosa più straordinaria era il sorriso con cui la Livietta Seriani lanciava le clavette e le riprendeva al volo, come se il peso del mondo le fosse del tutto estraneo.
La gioia che provava si librava con lei e tornava a posarsi solamente al momento di ricevere gli applausi, votazioni che premiavano la sua tecnica impeccabile, medaglie che pesavano sul suo torace scarno, senza l’ombra di curve. 
La sua fisicità essenziale era lodata dagli insegnanti e portata a esempio. Apparentemente indenne allo scorrere del tempo, la sua assenza di forme prolungava una fanciullezza assolutamente perfetta per quel tipo di disciplina, votata alla più totale assenza di gravità.  
Tuttavia, ciò che era perfettamente normale a dieci anni, cominciò a esserlo meno quando le sue coetanee, una dopo l’altra, imboccarono il tunnel dell’adolescenza. Ancora a quindici anni, la Livietta continuava ad essere un fuscello di un metro e cinquanta, con un corpo fermo all’infanzia che ignorava i primi dolori della crescita, malesseri mensili e innamoramenti.
Mentre le altre erano già alle prese con forme che cambiavano a una velocità prodigiosa, il futuro Fratellone viveva relegato in un limbo di orologi biologici senza lancette, ormoni che non si decidevano a dare il via e una struttura fisica che le fece meritare, da parte delle compagne di squadra, il poco lusinghiero soprannome di attaccapanni.
Invece di svilupparsi in curve e morbidezza, la piccola campionessa manteneva intatto il suo fisico tutto a spigoli. Di lì a poco, tra le perplessità di genitori e insegnanti, cominciò a svilupparsi sempre di più in altezza, ad allargare le spalle, a riempirsi di peli come fili di ferro, e quella voce che già usava di rado perché era di indole taciturna, si fece a un tratto sbilenca.
In breve, divenne un enigma. Il viso continuava a mantenersi liscio come quando era appena nata, il naso si affilò, il profilo divenne più gentile ma ambiguo. La voce si stabilì su una tonalità grave ma a un tempo melodiosa. Tanto che per sfuggire alla malinconia e alla curiosità che sempre più si stringeva intorno a lei, la Livietta recuperò la vecchia chitarra di suo fratello, cominciò a interessarsi alla musica e a distrarsi cantando.
Fu a quel punto che, di fronte a quella strana modalità di crescita, s’inaugurò una stagione di accertamenti sempre più approfonditi.
La Livietta venne sottoposta a ogni tipo di analisi in punta di microscopio, che si limitarono a confermare quel che già si vedeva a occhio: crescendo, stava sviluppando le caratteristiche di entrambi i sessi senza che il suo corpo riuscisse a definirsi in un senso o nell’altro.
Dal canto suo, la Livietta era interessata soltanto alla ginnastica: la possibilità di librarsi a mezzo metro da terra, quella disciplina ferrea ma anche rassicurante con cui era cresciuta dall’età di quattro anni. A scuola era un’allieva incolore e disattenta, tutto il tempo lo trascorreva in palestra a e al mondo misterioso dell’altro sesso non riservava turbamenti né attenzioni.
Di fatto si svegliava solamente a ginnastica. Il resto della vita lo trascorreva in una sorta di dormiveglia in vista degli allenamenti. Quando le fu chiesto se le piacevano le ragazze, si limitò a sgranare gli occhi e a tirarsi con forza i capelli dietro alle orecchie.
A toglierle il sonno, a diciassette anni e un metro e ottantacinque, non era certamente il pensiero del sesso. Era piuttosto preoccupata per gli esercizi che, con quel corpo sempre più ingombrante ed estraneo, riusciva ad eseguire con sempre maggiore difficoltà. I piedi troppo grandi inciampavano nel nastro, nel salto non riusciva a calibrare la forza e tutte le figure erano ormai segnate dal vizio della disarmonia e della pesantezza.
Il suo stile di movimento cambiò, e cambiò anche il soprannome: da attaccapanni ad armadio.
Alle ultime qualificazioni regionali ottenne un punteggio ridicolo, e fu a quel punto che i coach si decisero ad affrontare il discorso:
“Tu sai che per la ginnastica occorrono determinate caratteristiche e che molte atlete, nel tempo, sviluppano altre potenzialità. Nel tuo percorso hai già raggiunto ottime prestazioni, ma purtroppo crediamo che, stando così le cose, non sia possibile ottenere di più.”
“Mi state dicendo che non posso più continuare?”
La Livietta si tirò i capelli dietro alle orecchie così forte da farsi male, e quel dolore era niente in confronto ai frammenti di un sogno che si spezza. Mise insieme uno sguardo da cane bastonato e lo indirizzò al direttore della società sportiva, al responsabile dell’agonistica e infine alla coach, a cui il consiglio dei capi aveva affidato lo scomodo ruolo di portavoce.
Mentre il direttore spiava l’orologio senza dare nell’occhio e l’altro boss era intento a guardarsi le scarpe, la signora Morais, che aveva scoperto la Livietta ancora ai tempi dei corsi preparatori, in mezzo a paperelle di quattro o cinque anni, si tirava le parole dalla bocca con le tenaglie:
“A livello amatoriale puoi continuare finché lo desideri. La tecnica la conosci, potresti diventare una brava insegnante. Del resto questa è la prospettiva che si pone quando le cose cambiano e si desidera comunque restare nell’ambiente. Ma l’agonismo richiede un altissimo livello, non ammette passi indietro e questo lo sai anche tu.”
“Io non voglio insegnare.
La Livietta si parlava sui piedi, per la fatica che le costava esprimere i suoi pensieri. Di nuovo attorcigliò i capelli dietro alle orecchie.
“Ce la metterò tutta, ma per favore” – qui dovette fermarsi perché quella strana voce, sbilenca e melodiosa, cominciava a tremare – “lasciatemi continuare.”
Da quel momento in poi, per la Livietta iniziarono le fatiche del gambero: ore e ore di lezioni e continue correzioni - riprendi dall’inizio, concentrati, rifai tutto daccapo – non allo scopo di conquistare nuovi traguardi ma di tornare indietro, alla leggerezza di un tempo.
Mai come in quel periodo si era sentita in gara con se stessa, per superare un corpo che cresceva in direzione opposta alla ginnastica ritmica. Un corpo che volente o nolente era il suo, e non c’era verso di liberarsene perché ogni giorno se lo ritrovava incollato addosso, a partire dal momento in cui s’incontravano davanti allo specchio. Da una parte c’era lei, con i suoi desideri. Di fronte un volto ambiguo e un fisico potente, che però non si capiva cosa voleva essere.
Accettò di seguire una terapia ormonale. Affrontò una dieta severa nella speranza di ridurre l’ampiezza delle spalle col beneficio della magrezza, disposta a tutto pur di non ritrovarsi ad avvizzire su una panca nel ruolo di coach, mentre le sue compagne si libravano sempre più in alto.  
Si sforzò di far rientrare quel corpo da armadio in una disciplina che esigeva flessibilità e acrobazia, stringendosi come una nota che doveva rientrare a tutti i costi nel pentagramma. Poiché il suo fisico era pur sempre quello di un’adolescente, per un certo periodo riuscì a plasmarlo con la sola forza di volontà e il logico corollario di sacrifici tremendi. La schiena tornò a piegarsi, le mani troppo grandi riuscivano a dominare con grande perizia il cerchio, il nastro, le clavette.
Ma quando la ginnastica iniziò a diventare una lotta senza quartiere contro il resto del mondo, la Livietta cominciò a perdere la freschezza, la voglia e anche il senso di quello che stava facendo. Una rivalità senza tregua, l’invidia con cui spiava i risultati delle compagne e si sforzava di superarli, rendevano il suo umore ogni giorno più cupo.
La sera, nel silenzio carico di punti interrogativi della sua stanza, la Livietta passava in rassegna i volti che avevano attraversato la sua giornata: le ragazze della squadra, la coach, i genitori, e si ritrovava con un pugno di mosche, di gelosia e di rancore. Odiava quell’armadio che era costretta a portarsi addosso come il guscio lentissimo di una tartaruga. Eppure, a un certo punto si rese conto che ciò che detestava sul serio era proprio la ritmica, o meglio ciò che restava della sua antica passione.
La strana trasformazione del suo corpo era in fondo il male minore. Di fatto quel corpo incerto, senza meta né sesso, esprimeva esattamente il senso di smarrimento che si sentiva dentro.
In realtà, la Livietta sapeva di avere i giorni contati, quanto meno come atleta.
Le rimaneva la consolazione della chitarra, e nella notte il suo canto divenne più malinconico. Si era in estate e i vicini, che tiravano tardi per via del caldo, aprivano le finestre apposta per ascoltarla. Così, mentre la Livietta piegava sulla chitarra quel suo corpo flessibile senza più alcuno scopo, decine di finestre si accendevano nella notte e si commuovevano insieme a lei. Mentre l’aria d’estate portava qua e là i ricordi, i rimpianti per quello che avrebbe potuto essere e non sarebbe stato mai più, e infine il conforto del sonno.
 

 
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Dieci anni ho vissuto con la signora Venturina, dal giorno in cui il mio primo padrone, che faceva il mezzadro per conto dei Tibaldi, mi portò nella sua casa piena di ombre e di memorie, togliendomi alla campagna insieme a quattro casse di frutta e verdura.  
Feci appena in tempo a salutare mia madre, mentre già stavo chiuso dentro alla scatola con cui avrei affrontato il viaggio verso la città: bontà sua, prima di imballarmi con due giri di spago, il vecchio padrone aveva ricavato un paio di buchi nel cartone per concedermi un filo d’aria.
Cominciava così, dal fondo di una scatola che ancora puzzava di lucido da scarpe e di vecchi calzini, la mia missione di animale da protezione. A soli due mesi e mezzo, ero perfettamente in grado di reggermi sulle gambe, pardon, sui miei gommini. Eppure, non mi sentivo pronto ad abbandonare il nostro riparo nella stalla, il tepore dei fianchi pezzati delle mucche, il grembo di mamma gatta e la vecchia coperta infeltrita dai nostri odori.
“Mi raccomando, figlio,” fece appena il tempo a sussurrare mia madre mentre già mi trovavo stipato sul camioncino insieme a sacchi di mele, patate e una gabbietta di galline forsennate. Stavano dentro in quattro in uno spazio che bastava a malapena per due, le zampe continuavano a incastrarsi dappertutto e tanto per migliorare la situazione, quegli sciocchi volatili avevano iniziato a beccarsi l’uno con l’altro.
Io me ne stavo acquattato sul fondo con le orecchie all’indietro e il pelo ritto un palmo. Se avessi avuto la coda, l’avrei gonfiata certamente come un cannone.
Di là mi giungevano le parole di mamma gatta, il suo antico odore di latte:
“Tutte le missioni cominciano con una partenza,” miagolava mia madre. “Molto probabilmente andrai a stare bene, perché le vecchie signore, in genere, amano i gatti. Ma ricorda che il tuo compito verrà a reclamarti quando meno te lo aspetti.”
Le mie orecchie appiattite si drizzarono un poco in mezzo agli schiamazzi delle galline prigioniere, che rimbombavano nel cassone come fossero cento. Il pelo ritto della mia schiena riempiva tutto lo spazio della cella di cartone, ma quello che mia madre aveva da dire era molto importante. Tirai su almeno un orecchio per ascoltare meglio.
“A noi gatti sono affidati gli spiriti più solitari. La nostra specialità è sanare le ferite che portano alla durezza, che fanno calli nell’anima difficili da sciogliere.”
Il padrone era indaffarato a completare il carico: altre casse di patate, di prugne e pomodori, grappoli di uva arruffata dai moscerini.
Ogni volta che si arrampicava al posto di guida, il camioncino si scrollava con beccheggi da naufragio e le galline s’indiavolavano sempre più.
Mamma gatta fu costretta ad alzare il tono in mezzo a quel parapiglia:
“Ricorda che una missione può non raggiungere il suo scopo, ma ciò che conta è lo sforzo. Potrai anche fallire con gli umani che incontrerai, come è capitato a me col nostro padrone, ma l’importante è riuscire a piantare un piccolo seme. Un fazzoletto di terra buona, o soltanto un granello, si trovano anche negli spiriti più difficili. Il nostro compito è seminare con fiducia: che poi cresca qualcosa, non dipende da noi. A volte occorrono anni, a volte una vita intera non basta.”
A quel punto il padrone cacciò via mamma gatta e con un ultimo scrollone salì a bordo e mise in moto.
Al buio, tra frulli d’ali e schiamazzi che andavano a spezzarsi contro le aste inesorabili della gabbia, le galline iniziarono a beccarsi con più impegno e ferocia.
Anch’io ero spaventato: e poiché in questi casi niente è più contagioso del panico degli altri, decisi di dare inizio alla mia missione portando un po’ di pace all’interno del furgone, anche se non nel senso che intendeva mia madre. Coi nervi a fior di pelo tirai indietro la schiena, raccolsi tutte le forze e cacciai fuori la più potente soffiata di cui ero capace.
Grazie alla cassa di risonanza della mia scatola, il mio ruggito sortì l’effetto di un boato temporalesco. Le galline levarono i colli spelacchiati per quanto lo permetteva la gabbia e subito si zittirono: come se dal buio fosse uscita una mano pronta a tirare il collo a tutta la compagnia.
Il camion sobbalzava sulla sterrata, poi cominciò a filare liscio sopra all’asfalto. Tutti noi viaggiatori, compresi forse i sacchi di patate e di mele, cominciammo a pensare a cosa ci sarebbe capitato una volta arrivati a destinazione. Persino i polli sapevano che da quell’energumeno del nostro padrone non ci si poteva attendere nulla di buono.
 

 
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Non so quale fu il destino delle mie pennute compagne di viaggio. Alla seconda fermata del camioncino, dopo lo scarico dei sacchi al mercato dell’ortofrutta, arrivammo a un quartiere residenziale. Fuori da una villetta, quasi tirammo sotto una vecchia signora che stava controllando la posta nella cassetta.
La signora Venturina, evidentemente assorta in altri pensieri, mi accolse come un pacco recapitato da un postino ritardatario. Per il contraccolpo della frenata, la mia scatola era ruzzolata fino in fondo al furgone. Dentro, io mi dibattevo graffiando come un pazzo, e solo quando arrivai tra le mani di Venturina mi tranquillizzai a un tratto, senza neppure sapere perché.
Forse era il suo odore antico di vaniglia, la lozione all’acqua di rose tamponata sul volto che lasciava una traccia tra le rughe del viso, il peso della carne spessa sui polpastrelli per via del suo mestiere di sarta. Noi gatti possediamo una sensibilità innata per gli odori, siamo in grado di leggerli proprio come se fossero manuali di istruzioni per capire l’umano che abbiamo di fronte.
Quando mi fu permesso di uscire dalla scatola e iniziai a guardarmi attorno, mi ritrovai in un mondo totalmente diverso da quello in cui avevo vissuto fino ad allora. Un’isola separata dal traffico della strada, dove l’unico rumore appena percettibile era un ticchettio che lì per lì non riuscivo a capire cosa fosse. Scoprii che sulla parete sopra di me era appesa una serie di casette molto simili a quelle che in campagna si usano per i passeri.
Dietro ai balconcini e alle persiane chiuse, gli uccellini c’erano veramente. Lo scoprii proprio in quel momento, quando le lancette si allinearono in un rintocco, mettendo in moto un cigolio di congegni a molla.
Tutt’a un tratto si aprirono minuscole porticine e saltarono fuori i cucù, cacciando fuori uno strepito che mi colse di sorpresa e mi spinse alla fuga, sotto alla prima poltrona che trovai disponibile.
Restai nel mio rifugio finché le porticine non tornarono a chiudersi, gli uccellini scomparvero di nuovo nelle casette e nel salotto tornò la quiete.
Piegandosi a fatica, la padrona provò a raggiungermi con un piattino di latte.
Noi gatti consideriamo assolutamente disdicevole farci corrompere dalle moine degli umani. Ma dovete anche sapere che quel latticello emanava un tepore delizioso, ed erano parecchie ore che il sottoscritto non infilava il muso dentro a una ciotola. Date le circostanze, poteva considerarsi valida l’altra fondamentale regola del vivere felino: se lo acchiappi puoi mangiarlo e il resto non conta un baffo.
Sgattaiolai quindi dal mio nascondiglio. Terminato il mio pasto, mi voltai ad annusare due pantofole morbide e un paio di vecchie gambe, nodose dentro a calze dai riflessi azzurrognoli. I capelli della signora erano di una tonalità appena più chiara, piccole onde simili alle increspature del mare in inverno. Sotto alle sopracciglia disegnate con cura, due grandi occhi mi osservavano incuriositi, anch’essi in tinta col resto.
Era una donna anziana, eppure così diversa dalle vecchie della campagna, le contadine ruvide che mi scacciavano a colpi di scopa e distribuivano il becchime sull’aia, sbracciandosi e facendo il verso delle galline.
La mano della padrona scorreva con delicatezza sul mio dorso un po’ ispido, il pelo ancora ritto in parte per lo spavento. A un certo punto l’umana mi sollevò per la collottola, mi prese tra le braccia e poi si mise a ridere. Il mio muso dall’espressione circospetta dovette sembrarle buffo, perché mi indicò un ritratto alle sue spalle, che esibiva due baffoni da generale e un cipiglio terrificante:
“Ti chiamerò Garibaldi, perché somigli a quel buontempone di mio marito.”
L’umano nel ritratto aveva una faccia feroce che io non sarei riuscito a tirar fuori neppure reincarnandomi in un leone. E poi, lo ripeto, io non avevo affatto i baffi così lunghi e anche le mie orecchie non erano così a sventola.
In breve, tra me e Venturina nacque un sodalizio fondato sulla reciproca simpatia e sulla bontà degli odori. Molte sensazioni per me erano nuove, così mi dedicai a esplorare l’ambiente con molta curiosità.
Un forte senso di umidità mi guidò verso un giardino interno. Un sacco di terriccio e un innaffiatoio parlavano di lunghi pomeriggi trascorsi dalla padrona coi guanti da giardiniere, le cesoie e un filo di spago per accompagnare la crescita delle ortensie, le rose spilungone, un ciliegio dai rami curvi come quelli di un salice.
Il ciliegio apparteneva a una varietà che veniva dal Giappone. In primavera si curvava ancora di più, radunava le forze e poi da un giorno all’altro sbocciava una cascata imponente di fiori che duravano pochi giorni.
Neanche una settimana e se ne andavano così com’erano venuti, nella stessa maniera fragile e precipitosa: un soffio di vento prendeva la via di quel quadrato di cielo, scendeva e li levava tutti quanti dai rami, in un mulinello. Nel giardino formavano un fragile tappeto, ma volavano anche per casa e io li ritrovavo persino sotto al letto, a distanza di molti mesi dalla loro fioritura, mentre ancora morivano dentro ai loro profumi.
Tra il ciliegio solenne, le altissime rose, le ortensie bianche e azzurre, il minuscolo giardino della signora Venturina era un concentrato di essenze da far girare la testa. Più tardi scoprii che dietro a ognuna di quelle piante c’era una storia. La maggior parte erano doni dei figli della signora, arrivati fin qui dai quattro angoli del mondo.
Quando il camioncino del mio vecchio padrone aveva quasi rischiato d’investirla, la signora Venturina era intenta a controllare la posta sul vialetto di casa. Quello della posta era un rito quotidiano. Più che le telefonate, che i figli le facevano negli orari più strani per via dei fusi orari, la padrona amava le lettere: perché poteva rileggerle e sentirsi in compagnia dei figli in ogni momento.
Il tempo passava tra i ricordi dell’infanzia di ciascuno e nel difficile compito di decifrare calligrafie ai limiti della comprensione umana. Il figlio maggiore scriveva dall’America con il tipico stile cuneiforme dei medici. Dotato di una scrittura aguzza e ordinata finché era stato studente, man mano che la carriera aveva fatto progressi era diventato sempre più sbrigativo, fino a ridursi a una serie di linee che sostituivano le parole.
Alla signora Venturina occorrevano giorni interi per decifrare quei messaggi. Per di più, il contenuto era quasi sempre banale, notizie telegrafiche sulla salute di moglie e figli, sull’acquisto di una nuova auto, sui riconoscimenti ottenuti con l’attività di ricerca.
Io ricordavo gli scambi di fusa con mamma gatta quando tornavo al nostro rifugio nella stalla, dopo qualche avventura a zonzo per i prati. Le lettere scritte da quell’umano così istruito non valevano neanche un minuto delle nostre fusa un po’ rudi, delle leccate con cui mia madre mi ripuliva dalle scorie delle mie passeggiate solitarie, poi con una zampata mi spediva a gambe all’aria per punirmi per il ritardo.
Il secondo figlio della signora, l’unico che era rimasto in Italia a fare il giudice in Tribunale, compilava molte sentenze ma a sua madre non spediva mai neppure una riga.
L’ingegnere di Kyoto scriveva per compensare la difficoltà di farsi sentire al telefono, e in aggiunta spediva pacchi di cose strane e molte fotografie: ombrellini in carta di riso, borsette ricamate e soprattutto foto del nipote della signora, che soltanto a vederle mi usciva una gobba alta così sulla schiena e attaccavo a soffiare come una locomotiva.
Una volta arrivò, ben sigillato dentro a una scatola decorata di misteriosi ideogrammi, quel famoso ciliegio dall’aspetto di piccolo salice: piccolo veramente, perché all’epoca si trattava di un bonsai. Anche allora, la sua fioritura durò il tempo di un attimo. Nel biglietto che lo accompagnava, l’ingegnere di Kyoto spiegava che in Giappone il sakura rappresenta la bellezza di un solo istante, destinata a svanire presto, in un soffio di vento.
Di lì a poco infatti il ciliegio sfiorì, ma in compenso si ricoprì di foglioline: privo delle potature consuete, incominciò a crescere. Con la bella stagione, la padrona lo piantò in un angolo del giardino. Libero da ogni vincolo, l’alberello bonsai trovò il terreno ideale per espandere le radici e in capo a due stagioni acquistò la fisionomia di ogni ciliegio che si rispetti.
Sotto l’albero del sakura, come sotto a una tenda di fiori e di brezza, io e la mia umana ci occupavamo di giardinaggio e di lavori di sartoria. Nelle giornate estive, restavamo qui finché c’era luce. Io mi godevo il fresco e l’umana col metro al collo sfogliava cartamodelli, prendeva le misure sul tavolo ingombro di stoffe, imbastiva pedalando sulla sua vecchia Singer che portava fin qui dal laboratorio. Poi rientrava e andava a far le prove sul manichino, gli occhiali sulla punta del naso e sulla fronte due rughe per la concentrazione.
Il ciliegio, le ortensie, le rose spilungone la aiutavano a lavorare con più serenità, come se fosse in compagnia dei suoi figli. Eppure, nessuno di loro era presente quando la mia padrona si ammalò improvvisamente. Quel che fecero in seguito, fu vendere la casa e rinchiudere la madre in un luogo dove, secondo loro, poteva essere curata perché da sola non poteva più stare.
Fu così che mi ritrovai per strada, scacciato dagli umani dell’agenzia immobiliare e senza più un tetto sopra le orecchie. Per un po’ continuai ad attendere che Venturina rientrasse come faceva sempre, col piccolo carrello per portare la spesa e il cappello di sbieco sui ricci, perché ai suoi tempi una signora non usciva mai senza.
Qualcosa mi diceva che il posto dove era andata a finire era brutto e triste, una specie di gattile dove gli umani lasciano i vecchi quando non sanno più dove metterli. Mi venne allora in mente di ritrovare Venturina per riportarla a casa, a costo di girare per tutta la città inseguendo le tracce del suo profumo di vaniglia.
Dopo aver atteso a lungo il suo ritorno insieme a Garibaldi, ai cucù nelle loro casette e al ciliegio, mi misi alla ricerca con quella testardaggine che possediamo solamente noi gatti. Ma andiamo con ordine e vogliate scusarmi: ormai anch’io sono un vecchietto e nel narrare tendo a perdere un poco il filo.
 

 

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Capitolo 2
*** Il corpo sa tutto ***


“Fredda più della neve
è, sui capelli bianchi,
in inverno la luna”
(Naito Joso)

  

2. Il corpo sa tutto



Fui io il primo ad accorgermi che qualcosa non andava: una sera già tardi, mentre riposavo sulla poltrona assieme alla mia umana, ho avuto la sensazione di un cambiamento improvviso.
Le ginocchia della signora erano più fredde e nodose del solito, come due rami al gelo malgrado la trapunta con cui amava scaldarsi davanti alla tivù. Sullo schermo passava uno di quei film di guerra che spingevano puntualmente la signora Venturina a cambiare canale, perché la guerra lei l’aveva vissuta da piccola e le era bastata per tutti gli anni a venire.
In quel momento, si era nel bel mezzo di una scena di combattimento, con tanto di elicotteri come cavallette dal cielo, sparatorie furibonde e fiumi di sangue ovunque. Le pallottole fischiavano forte, perché la mia padrona era dura d’orecchi e quindi il volume era tale da dare l’impressione che l’intera battaglia si stesse svolgendo proprio nel suo salotto.
Strano che la padrona non si fosse accorta di tutto quel fracasso di fucili ed elicotteri che parevano volteggiare proprio sulla sua testa. Venturina era solita addormentarsi davanti alla tivù, ma aveva il sonno leggero e bastava una réclame più vivace delle altre per ridestarla sulla poltrona con un sobbalzo. D’altra parte, anche se in quel momento aveva gli occhi chiusi e il capo reclinato, non la sentivo respirare come al solito, a fior di labbra e con la dentiera un po’ storta. Quel russare pesante che sembrava provenire da un meccanismo inceppato, non l’avevo mai sentito e mi mise in allarme.
D’istinto, lanciai un’occhiata al ritratto di Garibaldi e il consueto cipiglio mi parve ancor più torvo per la preoccupazione. Pareva addirittura che il capitano si sporgesse dalla cornice, per rendersi conto personalmente di quel che stava accadendo. Le medaglie scintillavano, accese dai bagliori della televisione. Provai a svegliare la signora Venturina facendole il solletico, strofinandole il dorso inarcato sotto il mento. Di solito, in quei casi, si destava e rideva stropicciandosi il naso, ma stavolta i miei ripetuti passaggi non sortirono alcun effetto.
La stanza era immersa nell’oscurità, rischiarata soltanto dai bagliori del teleschermo, dove un gruppo di soldati dava l’assalto a una collinetta. A una deflagrazione più forte delle altre, accompagnata da un balzo della colonna sonora, notai un particolare che mi inquietò non poco.
La bocca di Venturina era completamente storta, tirata da una parte da un sottile filo di bava. Da quel lato, le dita della mano sulla quale mi strofinavo per attirare la sua attenzione erano completamente flaccide. Mi ricordarono il manichino di plastica su cui la mia padrona, col metro intorno al collo e una manciata di spilli infilati in bocca, faceva la prova degli abiti del suo mestiere di sarta. A ottantanove anni, la signora Venturina lavorava come una ragazza, perché darsi da fare, diceva, mantiene giovane il cervello. Il suo laboratorio era sempre affollato di amiche che portavano sottane da imbastire, cappotti dei mariti con la fodera a pezzi, metri di stoffa per cucire un vestito.
Era una modalità a cui erano abituate le donne d’altri tempi, della generazione di Venturina, quando i tessuti affrontavano una serie infinita di reincarnazioni. Quando il paltò del padre passava ai figli e ai nipoti, si trasformava in sottana per qualche zia, si accorciava in minigonna per la cugina. Poi diventava toppa da cucire su qualche strappo, e terminava la propria onorata carriera come straccio per la polvere.
Impettito sul tavolo, tra scampoli e forbicioni, appunti di misure e cuscinetti puntaspilli, io seguivo i lavori e ricevevo gli omaggi delle signore. Venturina accoglieva le amiche davanti a una tazza di tè, ci si scambiava notizie sui parenti e sui vicini, chi era morto e chi si era sposato, poi si passava alle prove e io ero affascinato dai nomi di tanti tessuti così diversi: organza e lana cotta, e qui mi leccavo i baffi pensando a qualche cosa di buono da mangiare, macramè e soprattutto percalle.
Percalle mi piaceva in modo particolare: mi faceva pensare a qualcosa d’impalpabile come le nuvole in cielo, e soprattutto distoglieva la mia attenzione dal manichino, un umano di plastica che mi terrorizzava con quel sorriso fisso su cui calavano i berrettoni di lana, le stole di pelliccia, i paltò da foderare.
Come la mia padrona mi ripeteva spesso per aiutarmi a vincere la diffidenza, quel manichino dalle braccia legate col filo di ferro non era un umano vivo. Nel momento stesso in cui ricordai di queste parole, nel salotto invaso dai rumori della battaglia, ebbi un presentimento.
Non sapendo che fare, cominciai ad aggirarmi sempre più irrequieto. A un certo punto, appena percettibile sotto al trambusto degli elicotteri, riuscii a intercettare il fruscio di un portone che si apriva nel condominio di fronte. Mi fiondai con un balzo fuori dallo spiraglio di una finestra aperta, e in men che non si dica ero già a strofinarmi sui piedi della vicina, miagolando a gran voce per chiedere aiuto. 
Fu così che imparai che la vita degli umani, così preziosa e fragile, spesso viene salvata solamente dal caso.
Quella sera, le fortunate coincidenze furono due: quella finestra dimenticata aperta – eravamo in estate, ma la mia umana era sempre attenta a chiudere tutto, per paura dei ladri – e il fatto che la signora Marisa Volpicelli, colta da me in flagrante mentre usciva col sacco dell’immondizia, mi conoscesse bene, essendo una delle clienti più affezionate della padrona.
La signora Volpicelli aveva avuto ospiti a cena. Una volta terminata la maratona, si era attardata a riordinare cucina e sala da pranzo. Volpe di nome ma non di fatto, mi fece sudare le sette proverbiali pellicce prima di convincersi che da lei non volevo soltanto una carezza. I miei miagolii avevano una tonalità inconsueta, forse ero rimasto chiuso fuori di casa. Questo era già sufficiente perché la Marisa si attaccasse al campanello della nostra villetta, a suonare una prima volta, poi una seconda con maggiore convinzione e infine una terza, con un’insistenza che già cominciava a diventare ansia.
La Marisa provò a bussare. Dall’interno provenivano solamente i rumori dei combattimenti in corso, echi di sparatorie e urla da fine del mondo. Ci voleva ben altro per destare Venturina dal suo sonno di piombo, anche se io ovviamente facevo la mia parte grattando sullo stipite, a costo di lasciarci le unghie e tutte le zampe.
A quel punto, la Marisa batté in ritirata nel suo appartamento e di là si attaccò al telefono, sempre seguita da me che continuavo a venirle tra i piedi, a strofinarmi e miagolare per mantenere alto il livello di allarme. Aggrappata alla cornetta, la Marisa sbagliò più volte il numero della mia padrona per l’angustia. Quando riuscì finalmente a prendere la linea, restò a lungo in attesa senza avere risposta.
Non sapendo che pesci pigliare e soprattutto come fare a pigliarli da sola, la Marisa svegliò un’altra comare dello stesso palazzo. Di lì a breve, l’intero condominio si ritrovò convocato nella sala da pranzo in vestaglia e bigodini, a scambiarsi pareri e possibili ipotesi – ladri, malori e morti improvvise – finché non fu deciso all’unanimità che era il caso di chiamare il 113.  
Nelle ore che seguirono, a casa della padrona si scatenò uno scompiglio ben peggiore delle scene di guerra che, alla televisione, avevano ceduto il passo a un programma di televendite, dove la conduttrice strillava con più energia della mitragliatrice.
Arrivarono due in divisa che sfondarono la porta. Io entrai insieme a loro, cedendo immediatamente il comando delle operazioni e rifugiandomi sotto a una cassapanca.
I tizi in uniforme constatarono che non c’erano ladri in casa, ma solo la tivù a volume da catastrofe. In compenso la proprietaria non dava segni di vita, e qui stava la catastrofe vera e propria. Arrivò un’ambulanza e in breve tutti furono addosso a Venturina, scuotendola e chiamandola ancora più forte per nome, attaccandola a un sacco di fili strani, caricandola su una barella che schizzò fuori di casa alla velocità del fulmine. 
Da un momento all’altro, mi ritrovai solo.
In un angolo del soggiorno, la televenditrice continuava a lanciare le sue invettive.
Sullo schermo si alternavano le immagini di trapunte e materassi, che a quanto pare costituivano la materia del contendere tra quella tipa feroce e qualche telespettatore sofferente d’insonnia, sicuramente perché riposava sul materasso sbagliato. 
A un certo punto intravidi la sagoma della vicina che si affacciò a controllare l’ordine della casa, sulla testa un ombrello e un bagliore di nubi temporalesche in avvicinamento. La Marisa si guardò intorno e spense la tivù, zittì una buona volta la tipa dei materassi, poi accostò il portone che pencolava fuori dai cardini. Per la fretta di rientrare prima che cominciasse a piovere più forte, si dimenticò di me, né tornò a ricordarsene nei giorni successivi.
Trascorse un tempo che non fui in grado di misurare.
Di lì a poco, la pioggia riempì la casa con l’odore di terra bagnata del giardino: il temporale s’impigliò tra i rami del ciliegio e dovette lottare a lungo per liberarsi, finché non gli restò più una goccia da strizzare né un tuono per protestare.
Infine, restò il ticchettio delle ultime gocce che cadevano dalle foglie, lo scricchiolio di una manciata di grilli in giardino. Un paio di stelle a far capolino dal portone, che già si preparava a far entrare l’alba.  
In tarda mattinata, probabilmente contattato dalla Marisa, arrivò un falegname a sostituire la porta. Quando il nuovo uscio si chiuse, la casa precipitò in un silenzio irreale. I cucù parevano aver perso la parola, si affacciavano timidi dai loro sportellini per annunciare ore che passavano vuote.
Persino Garibaldi aveva smarrito il suo cipiglio e pareva disorientato.
Quando di lì a poco il mio personale segnale orario cominciò ad indicare, con urgenza crescente, che l’ora di colazione era trascorsa da un pezzo, mi resi conto che la vicina si era ricordata del portone sfondato, ma si era anche completamente dimenticata del gatto.
Mi decisi a fare un sopralluogo in cucina, pur sapendo il cibo era ben custodito nella credenza, nella madia e nel frigo a prova di gatto ladro. A quel punto, non mi restava che tentare una sortita dalla solita finestra, per andare a rinfrescare la memoria della Marisa.

 
******

        
A diciotto anni, il futuro Fratellone incappò in un infortunio che, superando di spinta come in un salto in lungo dubbi e perplessità, mise fine alla sua carriera di ginnasta professionista.
Il corpo sa tutto, diceva spesso il medico della palestra. Conosce i nostri malesseri, e quando si vede alle strette prende l’iniziativa e decide per noi.
Questo fu esattamente quello che capitò alla Livietta, che durante il giorno volteggiava e di notte cantava: curva sulla chitarra per sfuggire al suo stesso umore triste, alla sensazione che ormai la ginnastica fosse soltanto un peso dal quale, tutto sommato, sarebbe stato meglio liberarsi al più presto.
Fu quel suo corpo ambiguo, costantemente in bilico tra i due sessi, a scegliere al posto suo.
Aveva una sua intelligenza, il corpo della Livietta, quel fisico longilineo che scendeva a precipizio lungo un metro e ottantotto di leve lunghe, perché così si chiamano, nel mondo della ritmica, le gambe e le braccia. Più precisamente, a rompere gli indugi e dire adesso basta furono le ultime leve, le ossa del piede destro, stanche di sopportare salti e piroette che ricadevano puntualmente sopra alle loro teste. Noialtre, quaggiù, ne abbiamo fin sopra gli occhi – gli occhietti delle ossa, piccole linee d’ombra – di tutta questa fatica per arrivare chissà dove. Adesso noi incrociamo le nostre braccine di spugna e organizziamo un bello sciopero generale, altrimenti detto frattura.
Detto e fatto, lo sciopero generale incominciò in sordina con un forte dolore. Un firmamento di stelle che dal piede le arrivava dritto negli occhi, quando la Livietta atterrava dopo un volteggio oppure caricava sopra alla gamba destra per una piroetta.
La Livietta arrivò a temere il momento dell’atterraggio, e a prepararsi in anticipo alla fitta che l’avrebbe raggiunta all’istante, schizzando dalla periferia più remota in un battibaleno fino al cervello. Là esplodeva in fuochi d’artificio che cacciavano fuori scintille, tutte le luci dolorose del mondo.
All’esterno, la caviglia appariva del tutto normale. Durante la giornata svolgeva ancora il suo compito di accompagnarla a scuola, a casa e in palestra. Solo al momento degli esercizi partivano quelle fitte, brucianti e improvvise come gli scheletri che fanno ciao ciao nel tunnel dell’orrore del luna park.
All’inizio, la Livietta si ostinò ad ignorare quelle prime avvisaglie, al punto da costringere il suo corpo a gridare più forte. Il dolore cominciò a farsi sentire nelle ore di riposo e durante la notte, ma la Livietta restò fedele alla consegna di stringere i denti e proseguire l’allenamento.
La squadra si stava preparando per le qualificazioni europee, il passo successivo sarebbe stata la rappresentanza ai giochi olimpici e impegnarsi al massimo era la parola d’ordine del momento.
Finché un giorno la Livietta si svegliò con i muscoli talmente contratti da non riuscire ad alzarsi. Saltò le lezioni a scuola ma si presentò ugualmente in palestra, zoppicando. La signora Morais la intercettò in spogliatoio, e pochi minuti dopo la Livietta era consegnata in infermeria, stesa sulla barella mentre il medico sportivo ispezionava quella che, fino al giorno prima, era stata una caviglia e adesso aveva tutta l’aria di una salsiccia insaccata male.
Il medico dello sport pareva una di quelle statuette del Buddha felice che s’incontrano nei ristoranti cinesi. Sorriso a salvadanaio, la pancia a quattro pieghe e altre due pieghe sotto il mento, in mezzo una cravatta coi disegni di Paperino. Paperino arrabbiato e col berretto in aria, innamorato coi cuoricini sopra alla testa, alla guida di un’auto da cui volavano via i pezzi, e forse questa era l’unica immagine che sembrava di malaugurio, date le circostanze.
Il dottor Luong, esperto di agopuntura, massaggi e arte orientale, era un recente acquisto della società sportiva. Appena arrivato, aveva attrezzato l’ambulatorio con paraventi di draghi, pagode fiorite e tutto ciò che gli suggeriva la nostalgia per il suo paese, che non era la Cina bensì la Cambogia. La Livietta l’aveva incontrato solamente una volta, in occasione dell’annuale visita di routine:
“Gli uomini al turno dopo,” aveva detto Luong quando l’aveva vista entrare, con i capelli a coda stretta dietro alla testa e la tuta da ginnastica informe sopra al torace. “Ora è il turno di visita delle ginnaste.”
Aveva sottolineato queste parole con un forte cenno del capo, dopo di che s’era levato a guardare dritta in faccia la Livietta Seriani, che lo sovrastava quaranta centimetri più in alto.
“Io sono una ginnasta,” aveva precisato la Livietta senza scomporsi. Malgrado tutto, aveva provato subito simpatia per quell’omino grassoccio che pareva disegnato tutto con il compasso, due sfere anche le mani e il sorriso circolare da un orecchio all’altro.
Gli occhi del dottor Luong, due fessure tra sopracciglia ancora una volta rotonde, si erano raddrizzati per la sorpresa. Le sopracciglia, a momenti, gli sfuggivano dalla testa.
Anima lunga,” così aveva ribattezzato da quel momento in poi la Livietta, “io mi scuso ma in questo Paese è tutto così grande, persino le ginnaste, che devo ancora farci l’abitudine.”
Quel giorno, mentre le esaminava la caviglia con due rughe a perpendicolo sulla fronte, il dottor Luong pareva addirittura più sferico per la concentrazione. Particolare allarmante, non sorrideva affatto, ed era la prima volta da quando la Livietta lo conosceva. Persino Paperino a bordo del suo macinino esibiva un cipiglio che non prometteva nulla di buono. 
“Secondo me si tratta di un semplice strappo.” La Livietta cercava di orientarsi in mezzo alle costellazioni di stelle che le riempivano gli occhi a ogni movimento, a ogni torsione a cui era costretta durante la visita. “Forse un po’ più doloroso del solito.”
“Questa, secondo me, è una bella frattura da stress,” replicò Luong, e le rughe sulla fronte divennero tre. “Bella per modo di dire. Vedremo le radiografie.”
La Livietta sentì il resto delle ossa andarle in pezzi, solamente all’idea.
“Ma io non sono caduta, e non ho fatto nessun movimento scorretto.”
In realtà, sapeva benissimo che una frattura da stress – quanto di peggio possa capitare a un atleta – è dovuta a un accumulo di sollecitazioni che alla lunga compromettono l’osso. Come continuare a saltare su un ramoscello teso alle due estremità, fino a che non si spezza. Le ossa accusano il colpo, ne accusano parecchi poi alla fine si scocciano, e iniziano a inviare alla centrale operativa segnali di allarmi: Houston, abbiamo un problema.     
Il cervello registra e fa presente il fatto a chi di dovere. Ma poiché solitamente il legittimo proprietario continua ad allenarsi, tocca urlare più forte.
La caviglia del futuro Fratellone gridava a pieni polmoni – quei piccoli polmoni di spugna che hanno anche le ossa – e le piccole urla saltarono fuori precise da una serie di radiografie, da cui risultò anzitutto che le fratture erano tre. Una a carico del malleolo, l’ultimo avamposto dell’osso della tibia, capace di strillare acuti da tenore quando per distrazione si prende contro a uno spigolo. Altre due incrinature riguardavano sempre la tibia, che dal tanto gridare aveva ormai smarrito la voce.  
Le prospettive per il futuro immediato furono elencate meticolosamente dal dottor Luong, che per il dispiacere s’era fatto spuntare altre tre rughe in fronte – e di spazio ce n’era, perché era calvo e lustro come il Buddha cinese. Intervento ortopedico per rattoppare i pezzi con opportuni mezzi di sintesi – viti e placche metalliche, come se si trattasse di rimettere insieme l’auto di Paperino – di seguito gesso, stampelle e fisioterapia.
Tradotto in linguaggio ginnico: addio alle qualificazioni europee, e per quanto riguardava le Olimpiadi arrivederci alle prossime. Ammesso di riuscire a realizzare nel frattempo quella perfetta combinazione tra talento e preparazione che è un puro stato di grazia, che capita soltanto una volta nella vita e non è detto neppure che capiti a tutte.
        

 
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Ricoverata in clinica in attesa dell’intervento, la Livietta sprofondò nell’apatia più totale.
Si sottopose alla trafila preparatoria, altre radiografie in varie proiezioni, elettrocardiogramma ed esami del sangue, visita dell’ortopedico e dell’anestesista. Firmò tutti i consensi senza neanche guardare e rifiutò ogni offerta di solidarietà e amicizia da parte della vecchietta che le era capitata come compagna di stanza, voltandosi semplicemente dall’altra parte.
Finì in sala due volte, perché dopo il primo intervento tentò di alzarsi rimediando una caduta rovinosa. Dopo quella bravata si ritrovò alla caviglia, in luogo di un semplice gesso, uno spaventoso apparecchio detto fissatore esterno: una gabbia di ferri che spuntavano dalla carne e si connettevano ad altri, attraverso un complicato meccanismi di viti e rotelle.
Sprofondando a tratti nei sogni saturi di colore degli antidolorifici, la Livietta trascorreva intere giornate a osservare quella complessa architettura che spuntava dalla sua gamba e che le suggeriva l’idea di una città in miniatura, con gli svincoli delle strade e i sottopassaggi. Una città sconosciuta, in cui lei non riusciva affatto a orientarsi. Del resto, non riusciva neppure a riconoscere come sua quella gamba col piede lungo e magro e il ginocchio forte da uomo.
Passò in rassegna le sue membra a una a una, constatando il fallimento pressoché assoluto della terapia ormonale seguita fino ad allora. Soltanto i peli avevano smesso di crescere come fili di ferro. La pelle era liscia e morbida ma i fianchi non si erano per nulla arrotondati, nulla era spuntato al centro del petto e quando riuscì a raggiungere il bagno in carrozzina, le venne incontro un volto che ben poteva essere un volto di donna, a patto di guardarlo senza far caso al resto.
Immobile davanti allo specchio, la Livietta si osservò a lungo in cerca di un barlume di femminilità sicura, ma non trovò proprio nulla.
I capelli divennero lucidi sotto ai colpi di spazzola, sul naso c’era una spruzzata di lentiggini della stessa tinta ramata, le sopracciglia erano alla giusta distanza. Tutto il volto era così regolare e simmetrico che poteva essere di chiunque, di un ragazzo o di una ragazza.
Se poi si voleva dare l’ultima parola al corpo, allora l’atleta Seriani era un uomo senza ombra di dubbio. Senza possibilità di equivoci e soprattutto senza speranza.
Il corpo sa tutto. Quella frase che il dottor Luong amava ripetere, conteneva evidentemente un nocciolo di verità.
Alla Livietta non restò altro che arrendersi. Da quel momento si chiuse in un mutismo assoluto, che era delusione, rabbia, intontimento dovuto ai farmaci, ma soprattutto l’incognita di non saper più cosa fare di se stessa.
 Durante le visite, lasciava scivolare senza nessuna reazione i discorsi dei suoi. Il padre ex nuotatore e la madre ex campionessa di atletica la incalzavano ogni giorno, con già in mente un percorso di riabilitazione coi fiocchi, che l’avrebbe condotta a recuperare il terreno e addirittura a far meglio.
Nel giro di un paio di mesi, grazie ai prodigi della fisioterapia in acqua – il padre l’aveva già iscritta in piscina presso un coach suo amico – si sarebbe ritrovata a volteggiare sulla pedana con più destrezza e più forza di prima.
Le ragazze della squadra confermavano, con la beata ingenuità del loro entusiasmo.
La signora Morais si esprimeva con maggiore cautela, prevedendo tempi più lunghi. Soprattutto, era l’unica a rendersi conto del morale totalmente a terra della Livietta.
Attorno al suo letto si svolgevano ogni giorno veri e propri dibattiti in materia di sport, prestazioni e infortuni a cui partecipava anche qualche infermiera che entrava nella stanza col carrello di terapia, l’ortopedico di turno impegnato nel giro visite, persino l’inserviente che passava col mocio e che nel tempo libero correva da dilettante. Tutti esprimevano il loro parere, compreso il femore Poggi, la signora del letto a fianco che era sola al mondo, non riceveva mai visite ed era felice di ritrovarsi in camera tutta quella gente.
Chi invece non era minimamente interessata all’esito del dibattito era proprio Anima Lunga. La Livietta continuava a trascorrere le giornate con gli occhi fissi al cielo fuori dalla finestra, oppure chiusi in un sonno reale o simulato.
            

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Capitolo 3
*** La vaniglia e i ciliegi ***


“Accatastata per il fuoco
la fascina
comincia a germogliare”
(Nozawa Boncho, 1640-1714)


 
 3. La vaniglia e “I Ciliegi”



Finché non fui cacciato praticamente da un giorno all’altro, rimasi a presidiare la casa di Venturina in attesa del suo ritorno. Non avevo alcun dubbio: prima o poi la mia umana sarebbe nuovamente comparsa sulla soglia, levandosi il soprabito e scuotendo la pioggia dalle pieghe dei ricci. Dopo la malinconia del tempo dell’assenza, la vecchia vita avrebbe ripreso il suo corso. Sicché mi facevo un punto d’onore di mantenere l’ordine assieme a Garibaldi.
Come una vedetta, dall’alto della cornice su cui cominciava a crescere un dito di polvere, il vecchio militare sorvegliava col suo cipiglio i cucù, che non pensassero mica di darsi alla pazza gioia in assenza della padrona, e smettere di far girare molle e ingranaggi per segnare le ore con la massima precisione.
Tutto doveva continuare a funzionare a regime, nell’attesa che Venturina tornasse.
Qualche ragno che si improvvisava giocoliere su e giù per le casette degli orologi a cucù, veniva prontamente spedito a capitombolo dall’uscita precipitosa degli uccelletti. Con il loro strepito mettevano in fuga persino i riccioli di polvere che andavano formandosi, pigri, sotto ai mobili.
Sotto al quadrato di cielo del nostro giardino interno, le rose spilungone, il ciliegio e le ortensie continuavano a seguire il ritmo delle stagioni.
Dal mio quartier generale sulla vecchia poltrona davanti alla tivù, sorvegliavo il mio territorio e rizzavo le orecchie al minimo rumore. Ogni volta pensavo che fosse la padrona, e invece un giorno arrivò un tizio dell’agenzia immobiliare che mi cacciò di casa.
In breve la villetta della signora Venturina fu chiusa, e il cartello Vendesi comparve con due pezzi di adesivo sopra alla porta.
Quel tizio in giacca e cravatta veniva ogni tanto a far visitare la casa ai possibili acquirenti. Ogni volta, per prima cosa, mi cacciava dal cortile dove mi ostinavo a restare in attesa del ritorno, ormai sempre più improbabile, della mia umana.
Neppure la Marisa mi voleva tra i piedi. I primi tempi mi lasciava un piattino sul muretto del condominio, ma poi evidentemente qualcuno ebbe da ridire. Anche da lì fui cacciato, a colpi di ramazza da una portinaia più pelosa di me e grande come quattro ante d’armadio.  
Devo ammettere che non si trattò di una gran perdita. A dispetto delle cene che spesso organizzava con ospiti e tintinnii di posate che arrivavano fino sul marciapiedi, dove io attendevo affamato, la Marisa non aveva nessun talento per la cucina: non sapeva che il polpettone richiede gentilezza e va trattato coi guanti, altrimenti si apre; che il ragù deve essere morbido ma non unto, altrimenti le tagliatelle, per quanti sforzi facciano, non riescono a tirarlo su a forchettate.
Tutti questi particolari io li avevo imparati durante i pomeriggi trascorsi a osservare la signora Venturina, quando si affaccendava nei preparativi per la visita dei figli. Lei cucinava col pensiero dei suoi ragazzi e dedicava tempo al lievito e ai ricordi. E forse per effetto delle giuste proporzioni tra ingredienti ed amore, la pasta si gonfiava sotto agli strofinacci, il ragù borbottava energico sul fornello, i biscotti profumavano tutta la casa.
La cucina della Marisa era frettolosa e priva di grazia. Anche se io ero ben disposto ad accontentarmi degli avanzi come ai tempi della campagna, roba così terribile non l’avevo mai assaggiata, neppure tra gli scarti dal mio vecchio padrone.
Forse, a rendere cattivo tutto il cibo del mondo era la nostalgia che provavo per la mia umana e per la nostra vita insieme. Mi mancavano le carezze delle sue dita rese callose dal puntaspilli, il tepore della coperta serale sulle ginocchia, il suo odore di acqua di rose e di vaniglia. Quella traccia che ancora restava sulla soglia della sua casa si stava assottigliando col passare dei giorni, e ben presto sarebbe scomparsa per sempre.
Io l’avvertivo ancora, e con la sola forza del mio rimpianto continuavo a tenerla stretta tra i baffi. Era l’ultimo filo che mi legava a lei, ogni giorno sempre più fragile e inconsistente.
Prima che potesse svanire completamente, mi venne in mente che quel filo io potevo seguirlo, per vedere fin dove mi avrebbe portato. Era un’impresa ardua persino per l’odorato di un gatto, ma se c’era anche solo una possibilità di ritrovare Venturina, valeva la pena di darsi da fare sul serio.
Era passato molto tempo da quando l’ambulanza aveva chiuso il suo portellone sulla padrona, e più volte la pioggia aveva ripulito il marciapiede dagli odori. Mi avviai ugualmente tenendo tra i miei baffi quell’ultimo filo tenue, e cominciai la mia avventura nella città. Più volte smarrii la traccia effimera che seguivo, tra gli scarichi delle auto, il catrame bollente che un gruppo di operai spargeva sulla strada, l’odore degli umani sotto alle pensiline, che salivano e scendevano a spintoni dagli autobus.
Ogni tanto perdevo la mia preziosa traccia, ma poi poco più in là la riacchiappavo al volo. Non sapevo neppure se era proprio quella, eppure proseguivo.  
Mi addentrai nel mercato, un intreccio caotico di fragranze e fetore. C’era il tepore appena sfornato del pane, dei ragù oleosi e le teglie di pasta al forno. Poi l’aroma pungente degli insaccati, i prosciutti, le spezie. Più oltre l’acqua stagnante e il terriccio dei fiorai, i sacchettini di lavanda dei profumieri e le essenze spruzzate sui polsi delle donne. L’alcool che evaporava lasciava una traccia di rosa e di vaniglia, che però non era quella dolce della padrona.
Imparai che ogni essenza, sulla pelle degli umani, ha una nota diversa. Mi aggrappai di nuovo all’esile filo che conoscevo, e continuai a seguirlo tra i banchi dei macellai e l’odore del sangue. I polli che pendevano con le loro zampe gialle e la carne senza sangue, mi fecero pensare all’ultimo viaggio delle mie galline impazzite.
In fondo avevano avuto ragione a dar di matto: persino i polli capiscono quando arriva la fine, lo fiutano nell’aria perché gli odori, a noi bestie, parlano anche del destino che ci attende.
Poco più in là c’erano le bancarelle del pesce. Siccome anche quel giorno l’ora di colazione era passata da un pezzo, decisi di non lasciarmi sfuggire l’occasione per un buon pranzo al sacco.
Passando radente a un banchetto acchiappai al volo un bel pezzo di sgombro, salvo poi sobbarcarmi una corsa da giaguaro per sfuggire al pescivendolo.
Uscito dal mercato, mi fermai solamente il tempo necessario a consumare il mio pasto, quindi cercai di riprendere il filo delle mie ricerche.
Purtroppo, la fuga mi aveva condotto completamente fuori strada.
Provai a fiutare l’aria in cerca di un appiglio e mi smarrii nei molteplici odori della strada: l’ombra di borotalco di un neonato tutto avvolto nella plastica nuova del suo passeggino, la stanchezza e il sudore all’uscita di un’officina, qualche traccia di forfora sulla sciarpa di un anziano, la stampa del quotidiano che portava sottobraccio. C’era della vaniglia, ma si trattava delle poche briciole di un biscotto caduto a terra, e già attaccato dalle formiche.
Senza darmi per vinto continuai ad annusare, a cercare, ad andare avanti.
Quel giorno scoprii i mille modi di essere, le infinite possibilità della vaniglia: la ritrovai in un cono che si scioglieva sul marciapiede, più oltre l’annusai sulla soglia di una pasticceria, così intensa che mi ritrovai a starnutire.
Continuai a girovagare per tutto il pomeriggio. Di tanto un tanto scoprivo una traccia ma si trattava sempre della vaniglia sbagliata.
A un certo punto cominciai ad avvertire tutto il peso della stanchezza, e quello ancor più grave dello scoraggiamento. Non mi ero mai sentito così abbandonato, e forse anche il cielo era del mio identico umore, perché a un certo punto qualche nuvola scese, e a gocce lente e sconfortate come lacrime incominciò a piovere.
Mi rifugiai sotto al davanzale di una finestra, in un piccolo spazio asciutto di riparo.
Il muro conservava un poco del calore dell’ultimo sole. Di fronte a me, sul viale, cominciava un autunno di foglie gialle e rosse, portate qua e là dal vento insieme alla pioggia.
Le nuvole erano scese così tanto da far buio in anticipo, le auto filavano lustre con i fari già accesi.
Il mondo non poteva essere più triste di così, eppure fu in quel momento che l’odore di Venturina mi raggiunse: non avevo alcun dubbio, stavolta si trattava della vaniglia giusta.
Con un balzo riuscii a portarmi sul davanzale. Da uno spiraglio di finestra lasciata aperta intravidi l’oscurità di un salone ampio, in un angolo un cesto di giochi per bambini, animali di pezza e vecchi pupazzi. Eppure dei bambini non c’era traccia, mancava il loro odore di talco e caramelle appiccicate alle dita.
Aperti qua e là su lunghi tavoli vuoti, c’erano dei volumi. Stampati a lettere grandi, pieni di macchie e con le pagine arricciate, davano l’idea di esser lì da un bel po’.
Probabilmente erano stati sfogliati così a lungo che in quelle illustrazioni non c’era più meraviglia. O forse chi li sfogliava li trovava sempre nuovi e tutte le mattine tornava a sedersi là, a guardare le figure senza ricordare di averle già viste il giorno prima, e quello prima ancora.
Chissà perché, quello stanzone mi suggeriva un’idea di un vuoto tanto grande da stringere persino il mio piccolo cuore di gatto. Forse era per via della puzza di rancido che ristagnava ovunque, mescolando scaglie di forfora e medicinali, pannoloni pieni di urina e verdure lessate.
Ma a un unico odore io prestavo attenzione: la vaniglia di Venturina, che si stendeva sopra a quella cappa come un velo di grazia ed era proprio quella, senza ombra di dubbio.  
Non ci pensai due volte e saltai nello stanzone.
Feci appena in tempo a nascondermi prima d’essere scoperto da un donnone in grembiule e cuffietta, che entrò di spinta insieme a una raffica di vento. Da sotto allo scaffale dove mi ero nascosto, seguii il fruscio delle sue ciabatte pesanti, mentre si affrettava a chiudere la finestra per poi sparire subito da dove era venuta. L’eco dei suoi passi si perse in un corridoio che portava ad altre stanze più interne.
Di là proveniva un filo di luce, un tanfo ancora più intenso e su tutto la traccia dolce della mia umana.
Sgattaiolai rapido in quella direzione, a debita distanza da quel donnone del calibro della portinaia della Marisa, che indubbiamente possedeva la medesima grazia nel menar colpi con la ramazza.
Arrivai a un’altra sala di gente radunata attorno a un televisore. Scene di un telefilm con risate preregistrate, nella sala qualcuno fissava lo schermo apatico, molti altri sonnecchiavano accasciati sopra a sedie a rotelle. Qualcuno si agitava con spasmi incontrollati e spandimenti di bava.   
L’aroma di vaniglia era più intenso che mai: se avessi avuto la coda, l’avrei tenuta ben dritta per la concentrazione, mentre allargavo le pupille nella penombra in cerca di Venturina. 
 

 
******

        
Nel tentativo di distrarla, suo fratello le aveva portato la chitarra da casa:
“Ecco qua, fratellone.” Quello era il soprannome che le aveva appioppato, da quando erano cominciati tutti quei problemi d’identità. “La musica fa bene, dicono addirittura che aiuti a guarire.”
Per un po’, la chitarra era rimasta appoggiata al comodino, e lei l’aveva completamente ignorata. Ma una volta esaurite persino le risorse del malumore, e una volta subentrata la noia, la Livietta s’era decisa a riprenderla in mano e a fare un giro di accordi.  
Era sera, e quel giorno la sua vicina di letto, il femore Poggi, viveva in pieno il suo dramma. La placca che le avevano innestato sulla frattura aveva incontrato l’unico bacillo a piede libero nella sterilità della sala operatoria; e siccome la convivenza tra estranei è sempre il frutto di equilibri sottili e i bacilli sono notoriamente permalosi, per una serie imponderabile di ragioni si era scatenato un ascesso in piena regola. 
La gamba della signora era tutta rigida e gonfia, in linea con la faccia della sua proprietaria, a cui era stato appena comunicato che il giorno seguente sarebbe tornata in sala per un secondo intervento. Per tutto il pomeriggio la Poggi si era abbandonata a una crisi di sconforto in piena regola, a cui comunque nessuno aveva potuto dar retta. Gli ortopedici si erano dileguati, pressati da altri casi, altre radiografie da esaminare in controluce, pazienti da visitare, parenti a colloquio.
Le infermiere passavano con i loro carrelli di terapie agli orari, fleboclisi da infondere, bendaggi da rifare, e chi rifiutava le pillole, chi aveva la febbre alta, chi strappava via tutto e voleva tornare a casa. 
Milioni di richieste e una stanchezza che esauriva ogni pazienza: per il femore Poggi e le sue lamentele proprio non c’era margine, perché la fatica prosciugava persino le parole, e ancor prima la voglia di dire qualcosa.
A quel punto era intervenuta la chitarra della Livietta. Seduta in carrozzina, dando di spalle alla Poggi proprio per non sentirla, la Livietta aveva ripreso in mano il suo strumento e si era concentrata dapprima sugli arpeggi.
Timida da principio, la chitarra aveva incominciato ad armonizzare i suoni, a legarli l’un l’altro e a intrecciare un canto. Anche le dita possiedono una loro memoria, e i polpastrelli della Livietta ricordavano bene quei brani che così spesso le erano serviti per scacciare la malinconia della notte.
Man mano che le dita recuperavano scioltezza, alla melodia delle corde si era unita la voce della Livietta. La sua estensione possedeva la limpidezza femminile, e il tepore accogliente delle tonalità maschili. Era armoniosa, e non solo: innalzava una sorta di cupola protettiva attorno a chi ascoltava, e come la Livietta scoprì quella sera stessa, accolte in quel riparo le ferite ricominciavano a guarire, le cellule si ridestavano dall’inerzia, le trame dei tessuti si rinsaldavano. Il sangue riacquistava calore ed energia, per contrastare le infezioni e il cattivo umore.
I dolori cessavano, perché la potenza del suono rapiva e risollevava. I crampi si allentavano e i pazienti arrivavano persino a dimenticarsi perché erano là.
La Livietta se ne accorse perché quando terminò la sua esecuzione la raggiunse la voce del femore Poggi, ed era una voce nuova, priva della tensione continua dell’angoscia:
“Per favore, signorina, continui.” La Livietta si voltò, stupita, a fissarla.
“Sa che quando lei canta mi sento molto meglio?”
Allora lei riprese a cantare più forte, stavolta senza preoccuparsi di disturbare. Quando infine levò gli occhi dalla chitarra, una serie di applausi la colse di sorpresa. Sulla porta della camera si era radunata una piccola folla di infermieri, inservienti, familiari e pazienti. La Poggi, stretta nel suo sciallino e col femore paonazzo in scarico sul cuscino, aveva addirittura le lacrime agli occhi.
“Ma lo sa, signorina, che mi ha ricordato tempi in cui mio io e marito eravamo morosi, e d’estate andavamo a cantare sulla spiaggia e si faceva l’alba? Non si offenda, signorina, ma la sua voce è uguale a quella che aveva mio marito da giovane.”
La Livietta si strinse appena nelle spalle, ma la vecchia Poggi la costrinse a sorridere.
“Lei non può saperlo, ma mio marito è morto da tanti anni e io ormai vivo solamente di memorie. Eppure, guardi che strano: era da tanto tempo che non pensavo più a quelle notti passate a cantare sulla spiaggia. Adesso, grazie a lei, ho ritrovato un altro prezioso ricordo.”
La Livietta era senza parole. Si limitò a riprendere in mano la chitarra la mattina seguente, e a cantare ancora finché vennero a prendere la sua compagna di stanza per riportarla in sala.
Mentre gli addetti controllavano i documenti, la signora Poggi le strinse la mano.
Figlia mia, ti rivelo un segreto. La notte scorsa, non ero mica qui: ero là, sulla spiaggia assieme ad Arturo, insieme abbiamo ascoltato il rumore delle onde, e quante stelle c’erano, abbiamo provato a contarle ma erano infinite. Poi lui ha incominciato a cantare, ha cantato fino al mattino.”
Il femore Poggi non fece più ritorno nel reparto di ortopedia.
Dopo il secondo intervento, passò in terapia intensiva. Là, durante l’orario di visita, la Livietta veniva a suonare per lei che aveva gli occhi chiusi e non li apriva mai, ed era collegata a tanti cavi e tubi da aver paura ad avvicinarsi.
Alla giusta distanza per evitare intralci e irreparabili danni, la Livietta si accomodava su una sedia. Da qualche giorno aveva cominciato a muoversi con le stampelle, presto avrebbe rimosso il fissatore esterno, e di nuovo lo spettro della ginnastica cominciava ad angosciarla. Riprendere la stessa vita di prima, riprendere e fare finta di essere come le altre, non se ne accorgerà nessuno, io sono una ragazza, e invece cominciava a sentire sempre più estranea la femminilità tipica delle ginnaste, i volti troppo truccati, i movimenti aggraziati. Gli inchini dopo le esibizioni, i nastri, le clavette. Fingere per tutta la vita, persino alle Olimpiadi. Fingere in mondovisione.
Cercava di non pensarci e allora cantava: andava per i reparti e cantava durante i cambi dolorosi delle medicazioni, cantava in pronto soccorso per la gente che attendeva sulle barelle, cantava in pediatria e i bimbi, sbalorditi, smettevano di piangere e battevano le manine.
In terapia intensiva, il suo canto era appena una variazione nel ritmo continuo dei monitor, nel fruscio dell’ossigeno, nel susseguirsi dei tracciati sugli schermi che riportavano i dati di pressione, frequenza cardiaca e respiratoria, elettrocardiogramma.
Dalle loro postazioni simili a navicelle sul ponte di comando di un’astronave, gli altri pazienti ascoltavano appesi ai loro drenaggi, alle sacche bianche di nutrizione artificiale. Le cellule del corpo avvertivano le vibrazioni della musica, sugli schermi i parametri diventavano più regolari.
Solo il femore Poggi, gli occhi chiusi e caduti nelle orbite e sul cuscino, il corpo ridotto a una minima increspatura sul bianco delle lenzuola, era ormai irraggiungibile persino dalla musica.
Dietro al letto snodabile si apriva una parete di sole vetrate. Col buio precoce delle sere invernali si riempiva di stelle e dava l’impressione che l’anziana paziente volasse nello spazio, col suo materasso ad aria e la mascherina per l’ossigeno da astronauta.
Dietro di lei il cielo era un viaggio infinito.
La signora Evelina Poggi, che sulla terra non aveva più legami a trattenerla, visitò molti mondi nelle sue ultime notti. Stelle più gigantesche e ardenti del sole, pianeti dalle temperature talmente sottozero che non potevano viverci neppure i pinguini, galassie simili a carovane di luce.
Finché una notte, proprio mentre si apprestava a levare gli ormeggi per il suo consueto viaggio spaziale, venne a visitarla Arturo, suo marito: aveva con sé la chitarra, il rumore del mare che andava e veniva incessante, e un firmamento intero di stelle tra le mani.
Evelina sorrise, ravviandosi i capelli per mettersi un po’ in ordine. Mosse con cautela le gambe, indebolite dalla lunga permanenza nel letto. Scoprì che in realtà la reggevano meglio di quando aveva vent’anni. Del resto anche Arturo, che le porgeva il braccio con la stessa galanteria dei loro primi incontri, sorrideva con un volto limpido e senza tempo.
Il mattino seguente la Livietta trovò il letto vuoto, già rifatto in attesa del prossimo paziente.
Non fece domande. Tirò con forza i capelli dietro alle orecchie, accordò la chitarra, incominciò a suonare. 
Se si fosse chinata a guardare sotto all’ex postazione del femore Poggi, avrebbe visto qualche granello di sabbia, forse un poco di polvere di stelle conservate a lungo nelle tasche, proprio per quell’occasione.

 
******

        
Contro ogni aspettativa, il donnone a quattro ante che avevo intravisto la prima sera, quando mi ero intrufolato in quello stanzone altrimenti detto sala di ricreazione, aveva il cuore grande almeno quanto il suo fondoschiena: che era come dire le dimensioni esatte della mietitrebbia del mio vecchio padrone. La Clelia amava le bestie, e si limitava a ridere sotto i baffi quando mi vedeva sgattaiolare nei corridoi in cerca della mia umana. In più, era la capo cuoca della casa di riposo I Ciliegi, e anche se cucinava peggio della Marisa mi teneva sempre da parte un pezzo di polpettone, due fegatini di pollo, un piattino di latte.  
Io mi leccavo i baffi e subito tornavo al mio solito posto, sul davanzale dello stanzone dove gli anziani passavano le ore sfogliando vecchi libri illustrati: gli stessi che avevo visto il giorno in cui, seguendo la fragile traccia della vaniglia, avevo ritrovato la signora Venturina.
La sera in cui ero riuscito ad infilarmi nella sala tivù, mi si erano rizzati tutti i peli sulla groppa: la mia umana era l’ombra della donna ben curata che avevo conosciuto. Come la maggior parte degli ospiti che vegetavano in quel gattile per umani, era su una sedia rotelle. Come tutti gli altri aveva lo sguardo spento, gli abiti appiccicati dall’odore di urina e di cavolo lesso.
Stentavo a riconoscerla ma lei, appena mi vide, aprì immediatamente le braccia per accogliermi.
Un balzo, ed ero già sopra alle sue ginocchia.
Intorno, gli altri ospiti componevano uno scenario da incubo. Un paio si agitavano sulla sedia a rotelle, con sobbalzi che parevano spasimi di dolore. Qualcun altro dormiva, e continuava a farlo ovunque si trovasse: davanti alla tivù, a mensa davanti al pasto e col cucchiaio in mano. Forse dormire era una l’unica strategia per sfuggire a quel posto dove, se non entravi demente, lo diventavi nel giro di qualche mese. E se non eri depresso, ti si asciugava presto tutta la voglia di vivere.
Quegli anziani parcheggiati nella sala tivù mi ricordavano le piante del nostro giardino, che vegetavano ognuna nel proprio angolo, destinate a rimanerci fino alla fine. L’unica differenza era che le piante fiorivano, perdevano le foglie, le mettevano nuove. Mentre questi umani si limitavano a deperire.
Eppure quella sera, mentre mi accomodavo in braccio alla mia padrona e cominciavo a far le fusa, mi resi conto che molti ospiti della casa si erano accorti di me. Alcuni mi guardavano sorridendo, altri facevano gesti ancora più scomposti, qualcuno allungava la mano per cercare di accarezzarmi. Tutti erano felici per questa novità insolita che era la presenza di un gatto in struttura.
La Clelia fu la prima a rendersene conto: quando mi consentiva l’ingresso nello stanzone, di nascosto da tutti, allora l’atmosfera si animava improvvisamente. Gli anziani smettevano di contare le ore davanti alle figure sempre uguali dei libri e dicevano micio micio. Chi allungava un pezzetto di pane, chi una mano per accarezzarmi mentre passavo, chi una caramella come si fa coi bambini.
La mia missione di animale da protezione assumeva nuovi risvolti, e ne ero assai fiero.
Una sera, confortato dal fatto che i vecchietti mi adoravano e le inservienti, in genere, erano troppo distratte per fare caso a me, ebbi il coraggio di mettere a segno una bravata in piena regola. Nell’ora in cui le addette facevano il giro per assicurarsi che gli ospiti fossero a letto e tutto filasse liscio, sgattaiolando di stanza in stanza riuscii a raggiungere Venturina.
Restai acquattato a lungo sotto al suo letto. Poi, quando non si udì più alcun rumore, saltai sulla coperta e riposai insieme alla mia padrona tutta la notte, per la prima volta dopo tanto tempo.
Il mattino seguente si scatenò il parapiglia. Spalancando la porta di colpo – quello doveva essere lo stile del posto, perché tutti sbattevano gli usci, la mobilia e anche i vecchi – entrò una di quelle inservienti basse, sgraziate, sottopagate, che trattavano gli anziani con ancor meno garbo di quello che usava il mio padrone della campagna coi sacchi della farina. L’inserviente cacciò un urlo terrorizzato, come fanno gli umani quando scoprono qualche bestiaccia a un tiro di schioppo.
“Un topo! C’è un topo enorme sul letto della Tibaldi!”
Le parole le si strozzavano in gola, mentre scappava fuori urlando e spazzolandosi le gambe frenetica. Arrivano altre inservienti come lei, arrivò l’infermiere che era un ragazzo giovane, sempre con le cuffiette di musica nelle orecchie per sopravvivere alla tristezza di quel posto. Arrivò soprattutto la caposala, una tipa paffuta che scambiava la maleducazione per ordine, la cattiveria con l’essere energici, gli strilli in faccia agli anziani come un modo per comunicare con quelli che, secondo lei, erano tutti dementi.
Prima che si scatenasse una caccia in piena regola, riuscii a darmela a gambe infilando i corridoi a testa bassa, passando tra le gambe di chi saliva le scale per andare a vedere quel topo che ormai aveva raggiunto proporzioni da incubo. Grande come una casa esclusa la coda, che peraltro io non avevo neppure.
Correndo come una scheggia urtai calzini e ciabatte, e sembravo davvero un ratto quando finalmente riuscii a guadagnare il portone, passando sotto agli occhi esterrefatti della Direzione.
Quell’avventura, purtroppo, segnò la fine delle mie scorribande all’interno della struttura.
Una volta esaurite le indagini del caso, la colpa di tutto fu appioppata alla capo cuoca. Questo perché ogni volta che ai Ciliegi succedeva qualcosa, la prima cosa da fare era trovare il colpevole, come nei gialli. Tutti i tentativi per far capire che la presenza del gatto era ben vista dagli ospiti e li tirava fuori dal loro torpore, si risolse in un nulla di fatto. Alla Direzione, in realtà, non importava nulla se gli ospiti vegetavano o erano vispi e in forze. Tanto i parenti venivano a trovarli di rado, pagavano la retta col bonifico in banca senza prendersi il disturbo di venire fin qua.
Io non mi diedi per vinto. Tornai al mio avamposto sul davanzale della sala di ricreazione, ma mi rendevo conto di essermi bruciato tutte le possibilità. La Clelia aveva ricevuto l’ordine tassativo di non darmi più da mangiare, così prima o poi quella bestiaccia se ne andrà.
Le altre inservienti mi scacciavano con la scopa, e quanto alla caposala, badavo bene a filarmela non appena sentivo la sua voce per le scale.
Iniziò per me un periodo difficile, anche perché eravamo nel pieno dell’inverno. Il gelo stringeva e chi passava per strada lo faceva di fretta, senza aver certo il tempo e tanto meno la voglia di far caso a un randagio.
D’altra parte, io non sapevo più dove andare.
Non volevo abbandonare Venturina e neppure la mia missione di animale protettore.
Ma una sera di neve, in cui il buio pareva fatto di schegge che tagliavano il muso, scoprii di non avere neppure più la forza di tremare per il freddo. Già cominciavo a perdere la sensibilità e il gelo s’era trasformato in dolcezza, in uno stato di stupore ormai prossimo al sonno. Con l’ultimo barlume che ancora mi restava, provai a tirare le somme di quello che era stato e di ciò che potevo attendermi per il domani. Ormai anch’io ero anziano, ero giunto alla fine della mia settima vita e in fondo avevo cercato di fare del mio meglio.
Le strade erano deserte, si sentiva soltanto cadere la neve a grossi fiocchi fragili, come lana di gelo.
Decisi di lasciarmi morire sulla soglia dell’ultima dimora, triste, di Venturina. Già mi ero accucciato come facciamo noi gatti quando sentiamo che è giunto il momento di andarcene.
Non ci sarebbe stata per me un’altra vita. Potevo solo rinascere sotto forma di sentimento, e fu allora che pregai di poter rimanere nel cuore di Venturina come un filo di speranza, di nuova energia per vivere in quel luogo deprimente, in quel gattile per vecchi.
Chiusi gli occhi e posai il muso sulle zampe.
In quel momento sentii una mano sollevarmi, ed era calda e gentile. In breve mi ritrovai avvolto in una giacca, coperto da una sciarpa pesante e quella mano, dolce, mi accarezzava.
 

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Capitolo 4
*** Nei campi aperti, dietro alla Fortezza ***


“La campana del tempio tace,
ma il suono continua
a uscire dai fiori”
(Matsuo Basho)


 
 
4. Nei campi aperti, dietro alla Fortezza
 


Quando recuperai le forze e riuscii a guardarmi un po’ intorno, scoprii che mi trovavo infilato al riparo tra una giacca e un maglione, per di più in un luogo asciutto e confortevole.
Allora incrociai lo sguardo dell’umano con lo zaino e restai stupito a guardarlo: lo annusai a lungo per cercare di capire chi fosse, e il suo odore non era né quello delle donne, né quello della pelle più aspra degli uomini. Sotto agli strati di lana – le maglie erano più d’una, come in chi è abituato a stare a lungo all’aperto – il suo cuore aveva un ritmo lento e tranquillo, a dispetto del gelo e della fatica di portare anche me, oltre a un grosso zaino sormontato dalla custodia di una chitarra.
Tutto questo bagaglio lo notai di sfuggita quando il Fratellone lo posò accanto a sé, ai piedi del tavolino di un caffè elegante: uno di quei posti in cui ai gatti, ma anche ai giovani vagabondi, sarebbe vietato entrare.
In quel momento nel locale non c’era nessuno, fuori era molto buio e la coltre di neve assorbiva ogni rumore.
L’umano che mi teneva tra le braccia del suo giaccone contò quattro monete e ordinò un latte caldo. La cameriera gli riservò un sorriso benevolo e addirittura un panno per asciugarsi il viso, i capelli sui quali indugiava qualche fiocco di neve e che erano lunghissimi, lisci e sottili come quelli delle femmine. Anche il viso era fine, scavato da pasti non proprio regolari, ma così delicato che pareva uscito da una di quelle illustrazioni che facevano compagnia agli ospiti dei Ciliegi.
Quando l’umano cavò dallo zaino una fetta di pane e cominciò a inzupparla a bocconi per me, mi sembrò di rinascere: pensai che avevo ricevuto in dono un’altra vita, un’ottava vita extra che proprio in quel momento stava per cominciare.
Le mani dell’umano erano screpolate dal gelo di lunghi inverni, non solo da quell’unica serata di neve. Ma nell’accarezzarmi, possedevano la stessa dolcezza di Venturina. Mi abbandonai a quel tocco e quando, molto più tardi, tornammo a camminare nella tormenta per raggiungere la Fortezza – la roulotte dell’umano fuori città – sapevo dentro di me che avevo trovato un nuovo padrone. In fondo ero contento e sotto ai baffi ghiacciati dal vento sorridevo.

 
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La Livietta Seriani era tornata da poco in città, dopo aver viaggiato a lungo.
Al suo rientro dopo quei lunghi mesi di degenza in ospedale, una volta rimosso il fissatore esterno e con le fratture finalmente saldate, aveva sperimentato la strana sensazione di non riuscire a orientarsi neppure in casa sua. La sua stanza di adolescente, decorata con foto di gare alle pareti e trofei sulle mensole, le era parsa estranea esattamente come la vecchia palestra, la pedana su cui si era esercitata per anni, i corpi delle ginnaste così diversi dal suo.
La coach l’aveva squadrata da capo a piedi, aveva domandato come procedeva la terapia ormonale e la Livietta aveva risposto con un’alzata di spalle.
“Siamo rientrate adesso dalla trasferta per gli europei, la prossima tappa sono i mondiali e tu sai che qualificarsi ai mondiali significa essere ammessi di diritto alle Olimpiadi. La squadra ha fatto un grande lavoro, ma io ho continuato a pensare a te per le competizioni individuali.”
Da tempo la Livietta aveva perso il vizio di tirarsi con forza i capelli dietro alle orecchie. Riprese a farlo in quell’occasione, mentre la coach proseguiva:
“Si tratta della meta più importante per una ginnasta: quattordici Nazioni, le più forti del mondo. Per ogni Paese, una squadra di cinque elementi più due individualiste. Partecipare è già un traguardo. Più in là, c’è solo il podio.”
La coach doveva credere veramente nella Livietta per prendersi l’impegno di schierarla di fronte al mondo con le ossa appena rattoppate da un infortunio. Ma di tutto il discorso la diretta interessata riuscì ad afferrare solo queste parole: più in là.
Ne restò folgorata come da un’improvvisa intuizione.
Doveva esserci qualcosa più in là delle medaglie, degli allenamenti, delle qualificazioni internazionali. Qualcosa che il suo corpo probabilmente intuiva, ecco perché aveva incominciato a muoversi da tempo in una direzione diversa:
“Non posso partecipare,” si sentì dire alla coach. “Non posso, mi dispiace.
In realtà voleva dire non posso perché al mondo esistono anche le cose difficili – ammalarsi, morire – e molto probabilmente la meta di una vita sta oltre il podio olimpico. Cosa desidero per me stessa, e che significato hanno le cose difficili, non me lo sono mai chiesto, e forse è giunto il momento di farsi delle domande e trovare delle risposte.
Tutte queste parole erano troppe per il carattere schivo della Livietta: non sarebbe riuscita a metterle in fila neppure se fosse stato un tipo più estroverso, per via della confusione che aveva nella testa.
Un suggerimento le arrivò dal suo vecchio zaino, che teneva stretto tra i piedi con dentro le calzamaglie, le scarpette e l’asciugamano, e che il mattino seguente caricò di maglioni e ricambi, e il resto se lo sarebbe procurato strada facendo. Era lo stesso zaino che aveva adoperato per anni in trasferta, e che per quanto fosse scolorito e consunto da tutti i posti in cui l’aveva portato in giro, portava ancora la scritta Veritas - società di ginnastica stampata sul davanti.
Veritas. Era esattamente ciò per cui era disposta ad andare in capo al mondo, in un bagno di realtà che doveva per forza darle delle risposte.
Il mattino seguente, lasciò un biglietto ai suoi: Starò via per un po’.
Di fatto era rientrata la sera stessa, spaventata dal buio e dalla pioggia a dirotto che l’aveva sorpresa sulla piazza del paese vicino: la massima distanza che era riuscita a raggiungere a piedi, con quel bagaglio sulle spalle ancora fragili e la paura che si era rivelata più forte della sete di avventure. Aveva addirittura chiamato sua madre, perché venisse a recuperarla con l’auto.
Il viaggio di ritorno si era svolto tra la tempesta e l’incanto. La tempesta verbale che proveniva dal sedile del conducente – non provare a rifarlo, si può sapere cosa ti è saltato in mente? – e poi l’incanto della natura fuori città. Le colline che si levavano verso i primi contrafforti dell’Appennino somigliavano a lei, la più alta delle ginnaste, con quel corpo che cresceva spontaneo e con la stessa forza delle rocce, dei silenzi delle radure, delle cortecce intrise di pioggia.
Il giorno successivo, lasciò un altro biglietto: Telefono quando arrivo.
Questa volta riuscì a spingersi più in là, non riuscendo a resistere al richiamo dei grandi spazi. La natura si aprì dinanzi a lei per poi chiudersi alle sue spalle, senza lasciare tracce. Come fanno i cespugli sui sentieri meno battuti, come fa il mare quando ci si immerge in profondità, e l’acqua forma cerchi lenti che si richiudono. 
Si scordò di telefonare fin dalla prima sera. Poi prese l’abitudine di scrivere a casa poco prima di andarsene dal luogo in cui si trovava. Era la sua strategia per non essere raggiunta dalla vita di prima.
Divenne in tutto e per tutto l’umano con lo zaino, e quando la conobbi viveva in strada da anni. Aveva visitato molti paesi e dormito su molte strade, solamente la rabbia non era riuscita a scaricarla da nessuna parte, continuava a portarsela addosso insieme allo zaino e alla chitarra.
Non era ancora riuscita a far pace con quel corpo che le era cresciuto addosso senza tener conto del suo amore per la ginnastica, per la quale provava una nostalgia dolorosa.
Le mancava la coach, il dottor Luong col suo volto da Buddha felice, le compagne di squadra che pure avevano suscitato in lei i peggiori sentimenti: la gelosia e l’invidia, una gioia feroce quando ottenevano un punteggio inferiore. Eppure, attraverso lo sguardo della malinconia riusciva a vederle per quello che erano: compagne con cui aveva condiviso la fatica degli esercizi, l’avventura delle trasferte, l’ansia prima delle gare, la gioia delle vittorie.
Di nuovo, il Fratellone cercava di sfuggire alla tristezza cantando, e lo faceva anche per necessità: per raccogliere a sera quel pugno di monete che la gente gettava nella custodia della chitarra, e rimediare qualcosa da mettere sotto i denti.   
Da quando c’ero io, non più Garibaldi ma gatto Mozzicone perché, come sapete, son nato senza coda, il Fratellone riusciva a racimolare qualcosa in più, perché la mia presenza aggiungeva un tocco di simpatia. Ma era la musica dell’umano a compiere il miracolo, e anche se il suo cuore era sempre pesante, le note uscivano chiare e trasmettevano un’energia travolgente.
Un pomeriggio, l’umano con lo zaino s’era messo a suonare nel cortile di un ospedale.
I pazienti che passeggiavano in vestaglia si fermavano ad ascoltare: quando riprendevano lenti il loro cammino, sentivano le ginocchia più salde, il sangue che scorreva con maggiore vigore.
Su una panchina poco lontano s’era fermato un uomo, ed era rimasto a lungo.
L’umano con lo zaino non l’aveva notato ma a me non sfuggiva nulla: non gli uccelli grassocci che ogni tanto scendevano a beccare qualche briciola e mi facevano venire l’acquolina in bocca, e neppure quel tizio dall’aria sfinita, che aveva tutta l’aria di pensare al suicidio.
A una prima occhiata, pareva vecchio di cento anni. Ma quando si avvicinò ed era già sera – il giardino era deserto, e in cielo qualche stella preannunciava una notte limpida – vidi che si trattava di un giovane. Grandi occhi febbrili, il viso consumato da qualche malattia o, più probabilmente, da terapie estenuanti.
Il Fratellone levò lo sguardo e fece appena in tempo a incrociare quello del giovane, che gli consegnò una manciata di banconote – tutto quello che aveva nel portafoglio – insieme a un biglietto che poco prima gli avevo visto buttare giù, seduto su quella panchina su cui era rimasto per tutto il pomeriggio.
Per ore aveva tenuto quel foglio sulle ginocchia, e io pensavo che avesse scritto chissà che cosa. In realtà, quel biglietto conteneva soltanto quattro parole: Grazie per la vita.
Non lo rivedemmo più, ma quelle poche parole sortirono l’effetto di un fulmine a ciel sereno nell’anima del Fratellone. Da quel momento, si fece un punto d’onore di tornare a suonare nelle sale d’attesa, nei vialetti dei policlinici, nelle case di cura.
Fu allora che, con quella faccia tosta che possediamo solamente noi gatti, presi l’iniziativa e un giorno lo guidai fino ai Ciliegi, su quel tratto di strada dove ci eravamo incontrati nel tempo dell’inverno. Ora la neve era un mormorio di ruscelli che ruzzolavano a gambe all’aria dentro ai tombini. Nel cortile della struttura, pochi alberi storti – di ciliegi, neanche l’ombra – si scrollavano gli ultimi rimasugli del disgelo, come fanno i cani quando escono dall’acqua e si scuotono il pelo.
All’inizio, il Fratellone non capiva perché mi ostinassi a trottare sempre in quella direzione, non appena mettevamo piede in città: la strada dei Ciliegi era poco frequentata e un pomeriggio di musica fruttava poco e niente, poche erano le monete che cadevano nella custodia aperta della chitarra.
Ma io sapevo che, al di là delle mura della casa di riposo, seduti dietro ai soliti libri illustrati, i vecchietti attendevano il dono della musica. Le finestre della sala di ricreazione rimasero chiuse a lungo, ma io vedevo spesso la sagoma da mietitrebbia della Clelia sostare dietro ai vetri e tendere l’orecchio.
Finché un giorno le finestre si aprirono e poco dopo si aprì, per noi, anche il portone:
“Ragazzo, vieni a suonare,” ci invitò la capo cuoca. “Vieni a far compagnia agli ospiti, ti pago io il disturbo.”
Pochi minuti dopo, ero già sulle ginocchia di Venturina e gli anziani cantavano le canzoni dei loro tempi: i canti degli alpini per chi era stato in guerra e ci tornava ogni volta che il Fratellone suonava, poi i motivetti ascoltati alla radio e sulla pista da ballo insieme alla morosa, le canzoni dei primi incontri, le ninne nanne cantate ai figli. I volti dei mariti, delle mogli e gli affetti di una vita intera ritornavano a vivere, nel canto del Fratellone e nella sua voce ch’era sia da maschio che da femmina. Gli ospiti del gattile avevano le lacrime agli occhi, e dopo la nostra visita continuavano a lungo a rivivere i ricordi e a scambiarsi racconti. All’ora della cena mangiavano con appetito e di notte dormivano, senza destarsi disorientati e gridando che volevano tornare a casa.
Chi voleva davvero tornare alla propria casa, anche soltanto per rivedere il ciliegio del suo giardino, era la signora Venturina. Un giorno ce lo disse, e la sua voce era colma di nostalgia:
“Non so cosa darei per rivedere il ciliegio che mi aveva regalato mio figlio.”
L’ingegnere di Kyoto non era mai venuto a trovarla in struttura, né si avevano notizie del chirurgo che operava in America: solamente a Natale passava il magistrato per saldare la retta. Portava un panettone, due stecche di torrone e subito spariva, inseguito dalla fretta. Il torrone se lo mangiavano le inservienti, tanto quei poveri vecchi non hanno più i denti.
Da un pezzo la capo cuoca e l’infermiere giovane, quello che aveva sempre la musica nelle orecchie per vincere la tristezza, avevano fatto domanda per andarsene altrove. Decisi a chiudere in bellezza, ci proposero un piano ancora più temerario di quello che avevo messo a segno quel giorno, quando mi ero intrufolato nella stanza di Venturina mettendo in subbuglio tutto il gattile.
Evidentemente, fare delle bravate faceva parte della mia missione di animale protettore, ma anche questa volta non mi tirai indietro. Un pomeriggio in cui la Direzione era assente e c’erano tutte le condizioni favorevoli, Venturina uscì in permesso accompagnata dal sottoscritto e dal nipote, ovvero dal Fratellone.
Ci recammo alla vecchia casa della padrona, ma trovammo un cantiere: la villetta era in corso di ristrutturazione, e solo dopo molte insistenze riuscimmo a convincere gli operai a farci entrare.
Del piccolo giardino, però, non c’era più traccia: trovammo solo un cumulo di terra sradicata adibita a deposito per i sacchi di calcestruzzo, pile di mattonelle per rifare i pavimenti e mucchi di calcinacci. Del ciliegio coi suoi lunghi rami pendenti, delle rose e delle ortensie non restava più nulla, e del resto la casa era stata completamente smantellata. Non c’erano più i cucù, e del cipiglio di Garibaldi restava solo l’ombra della cornice su un muro, anch’esso destinato a essere demolito.
Lo sconforto di Venturina era assoluto, ma fu a quel punto che il Fratellone ebbe un’idea: andare a vedere i ciliegi vicino alla Fortezza, là dove si aprivano i campi aperti di un contadino.
Non fu un’impresa da poco. Il Fratellone ribaltò la custodia della chitarra per cavar fuori fino all’ultima moneta e pagare un taxi, poi una volta raggiunta la piazzola di sosta toccò trovare un’auto in grado di caricare anche la carrozzina.
“I soldi non ti bastano certamente, ragazzo.” Il conducente dell’unico taxi a furgoncino squadrò con diffidenza la nostra combriccola, soprattutto i panni randagi del Fratellone. “E in ogni caso, il gatto non può salire. Ci vuole il trasportino a norma di legge.”
Durante i lunghi mesi trascorsi per strada, il Fratellone aveva imparato a cavarsela nelle situazioni più estreme. Mise insieme una storiaccia strappalacrime, dove la vecchia nonna che stava per morire desiderava tanto rivedere per l’ultima volta la campagna dove aveva vissuto per tanti anni, ma il nipote disoccupato e a sua volta malato terminale non disponeva del denaro necessario per realizzare quell’ultimo desiderio.  
Pochi minuti dopo, seduti comodi dentro al taxi, la signora Venturina s’era sentita in dovere di puntualizzare i fatti, fortunatamente sottovoce e all’orecchio del Fratellone:
“Guardi che lei è male informato. Io non sto per morire, anzi non mi sono mai sentita così bene.”
“Zitta, per carità.” Il Fratellone sghignazzava sotto i baffi e sotto ai baffi ridevo anch’io, dal mio trasportino d’occasione ricavato dalla custodia della chitarra. Tenevo fuori solo la testa, e dal riflesso nello specchietto retrovisore potevo vedere il tassista che con un occhio badava alla strada, con l’altro si lasciava scappare, di tanto in tanto, qualche lacrimuccia di commozione.
Poco lontano dalla vecchia roulotte, lungo il versante di una collina, i ciliegi erano nel pieno della loro fioritura. Altri già cominciavano a smarrire nel vento i loro petali fragili, che come aveva detto l’ingegnere di Kyoto, in un giorno ormai perduto tra le pieghe del tempo, rappresentavano la bellezza destinata a svanire presto, un breve istante di ebbrezza.
Ai nostri piedi già si stendeva un tappeto. I fiori si staccavano dolcemente e senza rimpianti, sapendo che l’indomani sarebbero spuntate le gemme e le prime foglie, poi di seguito i frutti e le cicale nei caldi giorni d’estate.
Sotto di noi, la valle aveva l’aspetto del mare al tramonto, una bonaccia increspata appena dal passaggio del vento.   
Restammo a lungo in silenzio, e il mio piccolo cuore di gatto era lieto, eppure anche un po’ triste. Capivo, in quel momento, che anche per me - ben presto - sarebbe arrivata la fine, che ero ormai giunto al termine della mia settima vita. Ma sapevo anche che sarei rimasto nel cuore dell’umano con lo zaino, e anche in quello di Venturina.
Per una volta tanto, il Dio dei gatti avrebbe fatto un’eccezione, riservandomi il privilegio di vivere in due cuori, speranza e forza di entrambi.
I dispiaceri dell’una e i dubbi dell’altro si stavano sciogliendo, cadevano a terra anch’essi senza rumore: e si faceva spazio, tanto spazio dentro di loro per accogliere cose nuove.
Forse un piccolo spazio c’era anche per me.
 

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