Capovolto

di Vella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***



Capitolo 1
*** I. ***


I.
Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell'altra tentava di entrare
in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l'un l'altra,
se ne morivano di fame e di torpore per non volere fare nulla l'una separatamente dall'altra.”

Simposio, Platone
 
Febbraio, 14.
San Valentino
 

«Ti piace un ragazzo?»
Immobilità.
Non era solo il tempo ad essersi fermato, tutto ad un tratto, bloccando la vita mia e di chi mi era attorno. S’era immobilizzato anche il cuore, che di solito sussultava ad ogni domanda, ad ogni insinuazione. Non si dibatteva più nella gabbia toracica. Si era arreso. Mi ero arresa forse anche io?
Avrei dovuto capirlo dalle lacrime che pizzicavano gli occhi, dalle dita che torturavano le pellicine delle unghie.
Avrei dovuto capirlo anzitutto da quello sguardo nocciola, profondamente scosso, che mi guardava con la bocca semichiusa ed il collo così stranamente irrigidito.
Nella stanza era calato un silenzio che qualcuno, sciocco o meno che fosse, aveva pensato bene di descriverlo come assordante.
Non riuscii a tenere testa a mia madre.
Codarda! La mia coscienza urlava fino a far pulsare le tempie: codarda! Lo hai detto oramai, hai sputato fuori la verità vomitandola. Perché sentirsi in colpa?
La luce di un caldo ocra sembrò perdere di potenza, ed il senso di risucchio nel buio mi agitò, mi risvegliò.
Quello stato di sospensione, al di fuori dal tempo e dalla realtà, durò probabilmente a malapena un secondo. Al mio fianco, Alessio si mosse sulla sedia, si schiarì la voce, la sua mano stretta forte sulla gamba di Tommaso.
Il cuore ritornò ad accelerare, perse battiti, li riacquisì, esplose.
Non riuscivo più a riprendere coraggio, a difendermi, a difenderlo. Chinai il capo, il piatto era ancora stracolmo di cibo; sarebbe dovuta essere una serata importante, c’era stata aria di festa e di commozione. L’amore faceva quell’effetto in famiglia, in particolar modo a mamma. Lei era sempre così contenta di ascoltar noi parlare di quel sentimento tanto forte quanto stordente. Perché adesso non trovava parole per rassicurarmi? Perché il mio amore non le faceva esprimere nulla di gentile?
«Greta, rispondimi». La sua voce risuonò acuta, e poi rotta quasi subito da un singhiozzo improvviso, deleterio.
Avrei dovuto dire , è proprio così, che vuoi farci. Devi accettarlo. Tutti voi dovete accettarlo. È andata così e non potete farci niente!, alzando il tono di voce, alzando il mio corpo violentemente. Era come se avessi rotto il vaso più bello del soggiorno, lo avessi urtato in una delle mie corse a perdifiato e adesso non c’era più rimedio, perché non esisteva colla che avrebbe potuto nascondere le crepature di quella realtà così diversa. Ero già esausta.
Mi appoggiai allo schienale e socchiusi gli occhi, come se stessi contemporaneamente chiudendo a chiave i miei pensieri, e furono le sue braccia a stringermi con calore, senza mai lasciare possibilità al calvario della negazione, della regressione di schiacciarmi. La forza di quella nostra verità mi aveva stregato il cuore, e per essa avrei lottato.
Si chiamava Lorenzo. Colui che è cinto dall’alloro.
Colui che mi aveva donato vita.
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Qualche mese prima
 
Era entrato a far parte della mia vita diversi mesi fa. Non contavo più i giorni per non restringere il mio personale infinito in quella stretta e finita realtà. Mi sembrava di star vivendo una trasformazione continua, uno stadio di confusione che in fondo avevo sentito appartenermi da tempi assai più lunghi.
Quella mattina la ricordavo grigia, non c’era il sole a riscaldarmi nel maglione di lino, i corridoi dove solitamente si stava caldi, erano imbarazzanti e freddi.
La sala conferenze affacciava proprio su uno di quelli, gremita di ragazzi.
Le classi del terzo* liceo classico erano accalcate lungo le poltroncine blue e lungo le retro file. Una lavagna multimediale faticava a stare in funzione; l’uomo col microfono camminava avanti ed indietro; c’era energia nella sua voce ed il tono pareva accattivante, quasi di sfida. Vi era dunque un’aria ambigua su un argomento che molti professori trattavano troppe volte con superficialità ingiustificata, che oggi avrei definito con un evidente restio.
In effetti, parlare a degli adolescenti in preda ad un mare di emotività non era mai roba da poco. Le risatine delle ultime file, dove si riuniva chi aveva ben poca voglia di stare a sentire le conferenze, erano ovattate dallo stridio dell’audio fonico; eppure io le sentivo, seduta a metà tra la bassa marea vigile e l’alta marea dormiente.
Era dunque vero che l’eterofobia* non suscitava attenzione, anche se le radio e le televisioni non mancavano di bombardarci con costanza certosina di notizie eterofobe. Il concetto di divulgazione costante non aveva fatto altro che incrementare la nascita di un callo sulle violenze perpetrate. Insomma, la cittadina di V*** non provava più sdegno davanti a simili eventi.
Alice mi stava di fianco, con le gambe accavallate e le converse un po’ sporche. Il suo bel jeans stretto le disegnava delle curve armoniose, ben preparata, femminile. Si girò ad osservarmi, forse mi disse qualcosa, ma non la udii.
«Ehi?!» mi scosse un braccio, e mi ripresi a quel tocco.
Le sorrisi con calore ed appoggiai il mento sulla sua spalla, soffiandole appena nell’orecchio piccolo e grazioso.
«Ho sonno, scusa». Era vero, avevo anche io sonno quel giorno come gli altri. Avevo trascorso la notte a rimuginare su una versione di greco e, proprio come la città di V***, prestavo un’attenzione intermittente a quell’ascolto costretto.
Alice rise, a suo modo. Era così contagioso e divertente. La mano si poggiò sui miei pantaloni sbiaditi e le dita iniziarono a tamburellare verso l’interno della coscia.
«Riposa adesso… così dopo…» mi lanciò un occhiolino, girò il capo nella mia direzione e mi impregnò le labbra screpolate col suo gloss ai frutti di bosco un po’ appiccicoso. Lo ricordo ancora quel sapore, era così dolce che mi riempiva di brividi.
Da lontano, furtivamente, vidi il professor Carrera a mo’ di rimprovero.
Mi sistemai sulla poltroncina.
«Innaturale è il termine che molto spesso sentiamo pronunciare da chi è eterofobo», captai una frase del discorso, senza particolare gioia. Qualcuno sbuffò alle mie spalle prima del grande esordio: «Ma perché, non è una roba innaturale? A me fa schifo. Un uomo e una donna che si baciano in pubblico è una cosa che mi fa senso». Eccolo, il maschio intelligente, Marco.
Il sangue affluì alle mie guance con una rapidità impressionante, mi girai di scatto e lo inchiodai con gli occhi.
«Che idiota sei, Marco. Ma quando ti espellono?» Non ero mai stata brava nell’intraprendere un litigio con qualcuno. Avevo degli ideali, dei valori. Valori di famiglia. Per questo, probabilmente, non fui io a risponderlo. Alice aveva una lingua più sbrigativa della mia, più tagliente ed efficace. Lei ci teneva a queste cose. Io lo sapevo. Per lei l’amore non aveva etichette. Quelle le lasciava agli altri, a chi non s’era mai innamorato veramente. A chi non sapeva cosa significasse il fuoco bruciare dentro. A chi non era stato fortunato, come mi diceva, di incontrare me: il suo mondo.
Mi ritrovai a pensare a mia madre, ai tanti discorsi, a quanto fosse difficile instaurare un rapporto con l’altro, sano.
Non riesco a spiegarmi il vero motivo del perché -a distanza di tempo me lo domando ancora- gli sorrisi. Poggiai una mano sulla testa di Alice ed inclinando appena il capo, dissi: «Marco, sai che Alice è fuori dagli schemi riguardo certe questioni, non essere così esplicito».
Marco divaricò le gambe, non staccava i suoi occhi da quelli di lei; un ragazzo ancora in uno stadio tra l’infanzia e la pre-adolescenza. Era la definizione più giusta. Il suo medio alzato come prova che se l’era chiaramente legata al dito.
«Fifona» sussurrò Alice, girandosi. La scenetta incontrollata perse d’importanza e dopo qualche minuto, l’uomo smise di parlare, una donna alta e dalle guance smunte 
-probabile fosse l’assistente- iniziò a distribuire delle brochure molto colorate, vivaci. ne presi una e l’aprii: vi era un arcobaleno. Chissà perché avevano scelto proprio quel simbolo, quei colori, quella disomogeneità di rappresentazione.
La conferenza era conclusa, le lezioni riprendevano. La massa indistinta di ragazzi si sospingeva verso l’esterno, verso il freddo pungente di quei corridoi.
Il destino, altro che un’accozzaglia di coincidenze, mi impedì di fuggire da me stessa, e me lo avrebbe impedito per il resto dei miei giorni; sulla lavagna apparì di nuovo l’arcobaleno, il relatore era stato circondato da un gruppo sostanzioso di persone. Alice mi schioccò da lontano un’occhiata che non ammetteva repliche, e allora lo vidi.
Lo notai come si notano le persone in generale: distratta, un paio di occhi sfiorati appena, le sue mani cercavano rifugio nelle tasche della tuta, pareva in imbarazzo di fianco ad Alice che, piena del suo spirito guerriero, lo riempiva probabilmente di informazioni sulla giustizia, l’uguaglianza, la parità.
«Sono una branca di idioti in classe tua, davvero. Ma come resisti? Io a quel Marco lo prenderei a schiaffi sul muso tanto da fargli uscire il sangue». Le mie mani le cinsero la vita per cercare di darle un tono più pacato, lei nel frattempo continuava imperterrita sulla scia di insulti e minacce vuote.
Come si presentò? È un ricordo vago che si mischia ad un sapore amaro; il palmo era caldo, più grande del mio, risucchiava dentro la nostra conoscenza. Lo guardai in viso, soffermandomi sulla barba ispida, da liceale, poi sulla voglia rossastra che partiva dal mento e si perdeva nelle pieghe della maglietta.
«Lorenzo»
«Greta».
Mi schiarii la voce.
«Lorenzo va in classe con quel bifolco, stavamo giusto aspettando di parlare con…» s’intromise Alice ed indicò l’uomo della conferenza, «va’ pure, però. Sono discorsi che t’annoiano, lo so».
Era sincera, era energetica. Quanto adoravo quel suo modo di muovere la mascella ripetutamente e le sue mani gesticolare. Era entusiasta, era vera.
Ed io? Cosa ero nei suoi confronti? Ero mai stata sincera fino in fondo? Essermi presa gioco della sua limpidezza restava una colpa che mi portavo dentro, e non c’era farmaco che avrebbe potuto alleviare tale pesantezza dalla bocca del mio cuore.
Quella mattina, mi lasciai alle spalle Alice ed anche lo scudo protettivo che la società aveva costretto che ergessi sui miei sentimenti più profondi.
Lorenzo mi camminava di fianco, non c’era nulla di invasivo nei suoi passi e nel suo tono caldo, così carezzevole. Le nostre aule erano adiacenti, che motivo c’era di non percorrere insieme quella poca distanza, in fondo.
Se non l’avessi fatto forse non avrei dovuto accendere nessun fiammifero, non avrei dovuto dare fuoco a nessuna regola della mia vita. Sarebbe stato un sollievo, certo, ma non ne valeva la pena.
«Io sono arrivato, ci vediamo presto Greta». Seguii quel saluto ed il sorriso gradevole che mi lanciò addosso senza pretese.
Un ragazzo lo precedette nell’entrare in aula, gli scompigliò i capelli arruffati, semi corti.
«Buon giorno, eter*!» si spintonarono, risero. Era imbarazzo quello che vidi dipingersi sul volto definito di Lorenzo. Che razza di nomignolo. I ragazzi avevano questo vizio di chiamarsi eter quasi come se fosse un’offesa. Non avrei mai compreso il meccanismo perverso di quello sfottò. Non dopo una conferenza sull’eterofobia.
Non si girò a guardarmi. Io ero ferma, perdio. Ero impalata su una piastrella dai bordi rossi e lui se ne accorse, eccome… ma gli mancò il coraggio. Me lo avrebbe confessato settimane dopo. Non ebbe abbastanza forza per riguardarmi, e lui non poteva lasciare che trasparisse qualcosa più del dovuto.
E così, non sapevo bene come, iniziai a sudare quando ci incrociavamo tra una pausa ed un’altra. Avevo mai provato quel senso di febbrile eccitazione con Alice? Non è un’attrazione sensata, avrebbe detto mia madre.
Il meteorite dell’insensatezza allora aveva appena distrutto una colonia di certezze in quel pianeta chiamato omosessualità.
 
*(1) terzo anno liceo classico: quinto anno di superiore.
 
*(2) eterofobia: è un termine “coniato” esclusivamente per il racconto in sé. Eterofobia è la paura del diverso, alle volte un termine usato per trattare di omofobia. In questo caso, l’eterofobo è colui che discrimina le coppie eterosessuali. Potremmo definirlo come un gioco di parole tra omofobo ed eterofobo. Ho ritenuto necessario introdurre dei termini specifici per rendere il capovolgimento della realtà il più attinente possibile.
 
*(3) eter: è un termine che sostituisce, in maniera del tutto inventata, il “gay” (a tratti dispregiativo) della società in cui viviamo. Ritenuto necessario sempre per una questione di capovolgimento del racconto.

commento autrice:
per adesso, non ho nulla da dirvi cari lettori!

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Capitolo 2
*** II. ***


La verità abita dentro l’uomo-
Sant’Agostino
 
II.
14 febbraio 20**
«Alessio, tu lo sapevi?» un’altra domanda. Solo domande. Mio fratello, lo vidi, abbassò lo sguardo senza fiatare, si strinse nelle spalle nella sua titubanza, caratterizzante. Tommaso invece, d’altro canto, bevve un sorso d’acqua. Forse era vino. Anche lui evitava di guardare negli occhi mamma. Mia madre.
No, cosa ne sapevano loro? Io non ne avevo parlato. Non ne avevo proferito parola. Impaurita, indifesa. Ero stata brava nell’insabbiare la verità che mi portavo dentro, sulla pelle mia. Neanche Lorenzo –oh, lui…- avrebbe spiattellato a qualcuno quello che sentiva. In fondo, sentivamo uguale. Il nostro cuore si era riunito quella notte di metà autunno, qualche tempo prima, tra il caldo saporito della casa e la frescura del cielo scuro.
No, lui non aveva detto niente a mio fratello, al suo ragazzo, alla mia famiglia. Voleva che fossi io a fare una tale scelta, così importante e, nel nostro immaginario, liberatoria.
«RISPONDIMI!» imperativa, tremenda, la voce della donna squarciò quel silenzio che tenevo stretto caramente al petto.
Fulminea, lanciai un’occhiata ai due ragazzi. Mi ero ripromessa di star calma ma era una promessa vana, difficile da rispettare.
«La gente parla, a scuola, nei bagni…»
«Oh, Alè, sono solo voci di corridoio, smettila» fu glaciale l’interruzione di Tommaso alle parole del suo ragazzo.
Era scuro in viso, abbastanza contrariato. Risi. “Voci di corridoio”. Le mie emozioni erano delle semplici voci, che sarebbero state meglio se lasciate morire con lentezza nei cessi.
«Beh, è stato un piacere confermarle queste voci». Mormorai.
«Cosa dicono?» riprese lei, la donna che mi aveva partorito in clinica, stringendo la mano della mia seconda madre. Loro che conoscevano così bene il significato dell’amore ma che avevano finito per odiarsi e farsi del male, senza il minimo senso.
«Sì, dai, cosa dicono, Tommaso? Dillo cosa dicono.  Perché non parli? Dillo quanto sia perversa e inconcepibile amare una persona del sesso opposto. DILLO!» uno scatto improvviso. Urlai con tutto il fiato in gola fino a sentirmela bruciare. Sbattuta, alterata, mi alzai, rovesciai il bicchiere, spaventai Alessio che sobbalzò, spaventai il gatto che scappò.
Avevo le lacrime proprio sulla punta delle palpebre e non sapevo bene perché i miei nervi avevano già così precocemente ceduto. Non sapevo spiegare cosa provavo realmente, ero anestetizzata.
Sono innamorata di un ragazzo”.
Fu una condanna.
Ne avevamo parlato molteplici volte io e Lorenzo, in auto, nei parchi, tra un caffè ed una risata, nei nostri nascondigli. A cosa era servito? Non c’era la sua forza, la sicurezza di quei momenti si era disintegrata sotto quella giuria, incapace di attraversare quei pregiudizi scottanti, talmente radicalizzati.
Pronunciare quella frase a tavola, tutto ad un tratto, aveva avuto lo stesso sentore di quando si innesca una bomba ad orologeria.
Tic tac.
Bum.
«Perché te la prendi con lui? Non è colpa sua!» Alessio, mio fratello, lo difese. Colpa. Colpa. Era tutta una questione di colpe se decidevi di non lasciarti plasmare come gli altri avrebbero preferito; da quando il mondo aveva memoria propria, gli uomini erano caduti in un baratro profondo, naturale, di continue dispute, rotture eterne, stupidi fraintendimenti e la colpa era divenuto un elemento immancabile, persistente.
La donna e l’uomo insieme erano stati peccaminosi, la storia ce lo aveva insegnato, come anche la nuova religione, chiaramente. Non possiamo riunire il peccato originale, dobbiamo essere ligi alla nostra natura, trovare un equilibrio.
«Non capisco di che colpa tu stia parlando», mi tremavano le mani e forse anche il viso s’era tinto di un rosso concreto, rabbioso.  
«Odio questo vostro modo di fare, lo odio. Questa mentalità così orientata all’omettere, al nascondere, alla repressione. Siete cocciuti, tutti. Perché una persona non può esprimere quello che prova? Preferireste che mi fossi autodistrutta, tacendo. È meglio evitare. Meno sofferenze per voi, più sogni tranquilli».
Peccato che furono parole al vento, sperse in un mare di ipocrisia. Lei non mi stava più guardando, il suo viso si era spento tutt’un tratto; aveva degli occhi vacui, incerti, non mi riconosceva più come figlia, ovvero parte di sé. C’era dell’orrore nella sua espressione, e fu allora che capii quanto la scelta di fare coming out mi fosse costata: l’amore di una madre.
«Sei ingiusta, Greta» mi disse.
Così la società era rimasta fedele alla norma, così la natura sociale aveva vinto ancora una volta sull’individuo. Devastandolo.
-
15 dicembre
 
I nostri vestiti erano sparsi sulla moquette elegantemente, strato dopo strato. Il fiato di Alice lo sentivo sul collo, caldo e prepotente. Percepii la secchezza delle sue labbra strofinate sulla spalla sinistra. Avevo gli occhi aperti, fermi, fissi lungo la parete dipinta da lei, i reggiseni l’uno di fianco all’altro parevano stare a braccetto. Li guardavo interessata, pensante. Fu un pomeriggio unico, di amarezza in gola che percepimmo entrambe. La sua mano si chiuse delicatamente attorno al mio seno, ed io l’abbracciai appena. Mi baciò, ma le mie labbra non erano abbastanza aperte da permetterle di darmi un languido calore. Allora tentò, a malapena me ne accorsi, di entrare per qualche centimetro dentro di me. Con più brutalità del solito, le dita dell’altra mano ricercarono un umido amore. Non trovarono nulla. Chiusi le cosce, mi girai di fianco, la lasciai un attimo confusa.
I colori rosso e bianco di quel suo reggiseno mi destavano da ogni tipo di azione. Ero concentrata su quella fantasia inappropriata.
In realtà, ero persa.
Catturò i miei glutei, scese con la bocca fino ad accarezzarmi da dietro, la salivosa lingua mi donò un brivido insensato di spossatezza.
Allora mi ripresi appena, ritornai da lei, forse accennai un sorriso di circostanza, vuoto di elettrica eccitazione e le salii sopra. Il letto ci risucchiò nelle coperte, le assaggiai i lombi con delicatezza, mordendo, captando un gemito suo, di piacere. E poi mi rifermai. Mi buttai pesantemente al suo fianco ed il cuscino attutì la caduta spericolata.
«Cosa hai?» fu un sussurro a malapena udito.
«Sono stanca».
«È da un po’ di tempo che sei stanca», fu la sua risposta.
Mi misi seduta, chiusi ancor più forte le gambe e me le strinsi al petto a mo’ di riccio.
«Che vuoi dire?»
Quel giorno Alice sbuffò, si allontanò velocemente da me, rivestendosi, senza darmi tempo di seguire le scie del suo corpo, riformarlo nella mia mente, goderne privatamente anche. Mi impedì qualunque languido momento post-intimità ed io sapevo perché: in verità, non c’era stata nessuna intimità.
Il nostro corpo sa esprimere ciò che sentiamo meglio di qualunque altra cosa, è un linguaggio che impariamo a conoscere col tempo e allora cerchiamo di zittirlo perché capirlo troppo non ci piace; ne stavo sperimentando il potere distruttivo e non facevo nulla per rimediare, non mi riprendevo dal mio torpore. Un torpore che mi impediva di essere spontanea, aperta, giocosa a letto, che non mi lasciava via di scampo.
Rivestendosi, il suo messaggio era stato chiaro: non voleva essere presa in giro da me, non voleva mettersi a nudo senza che l’altra parte l’accogliesse; e non era solo una condizione fisica, spogliarsi significava andare oltre la materialità stessa. Stare svestito, toccare un corpo non tuo, permettere che sia guardato, accarezzato, ammirato… si accettava che le barriere del proprio io venissero abbattute, nasceva allora uno stato di fiducia totale.
Questo io lo sapevo.
«Lascia stare», concluse. «Allora? Cosa hai fatto di tanto stancante?» vi era una punta ferita del suo orgoglio che trapelava, sgorgava come sangue da un taglietto in un posto sbagliato e la pelle faticava a reagire, ad essere cucita.
«Dai, non arrabbiarti, ho avuto davvero una giornata pesante, tra un paio di giorni c’è una prova di greco e mi sento persa solo al pensiero di tutti gli autori che devo recuperare. La giornata mi pare troppo breve e non mi sento nel pieno delle mie energie, eppure sono qui da te oggi».
Non rispose. Erano una marea di cazzate sputate con malagrazia, intrise di squallido vittimismo.
«Oh, grazie per il piacere, Greta!» All’in piedi, la felpa che si arrotolava sotto le ginocchia, i capelli un po’ spettinati, un respiro irregolare e degli occhi che fuggivano alla verità che, di soppiatto, si era presentata davanti.
«Non è oggi, o ieri, o l’altro ieri. Non stiamo parlando di un problema che persiste da una settimana, e allora Alice ha deciso di fare i capricci, giusto perché ne ha voglia». Si prese una pausa. Le braccia incrociate sul petto, le mie. «Non siamo mai andate troppo oltre, ho sempre rispettato il tuo essere sfuggente, anche un po’…, lasciamelo dire, pudico, ma nell’ultimo mese non noto un moto d’incertezza, sei solo disinteressata a tal punto che la mia presenza con o senza vestiti non fa proprio nessuna differenza».
Erano parole dure, non riuscivo a biasimarla. La verità era che la stavo ferendo. Stava cercando di difendersi certo, ma c’era anche una grande voglia di capire.
«Sei ingiusta, Alice, e cattiva. Disinteressata io? A noi due? Sei la persona per la quale darei la vita, sei la persona che mi comprende di più. Stare con te è un dono del nostro dio e tu… mi dici questo?»
«Smettila di dire stronzate. Non te ne rendi conto in realtà, Greta. Non te ne accorgi minimamente di quanto tu sia…»
«Dillo. Cosa?» occhi negli occhi, più vicine di prima. Un po’ incazzate entrambe.
«Fredda». Frigida. «O se ti piace di più come termine: riluttante».
Mi fece arrabbiare tanto quel pomeriggio Alice; quel suo modo schietto e tagliente mi infastidì così tanto che non volli sentire ragioni. Mi rivestii, blateravo frasi del tipo “dopo tutto quello che facciamo l’una per l’altra”, “ma assumiti le tue responsabilità di coppia e non trattarmi come l’unica merda”, “quante volte ti sei presa gioco della mia inesperienza?”. Erano frasi senza un senso sentito, lo ammettevo, avevo rifiutato la mia fidanzata. Al rifiuto, non esiste un rimedio immediato. L’amaro resta in bocca. Cercavo di arrampicarmi, di essere brutale, di attaccare per non essere attaccata.
Esagerammo, volevamo aver ragione, non facevamo passi indietro. A distanza di qualche tempo, comprendevo che ero io a non voler cedere, ero io che non volevo dargliela vinta.
«L’amore è amore, Greta. Non sei disposta neanche ad aprirti un po’ di più con me. A goderne del nostro sentimento. Ti basta una misera effusione, e poi metti il broncio, come stai facendo adesso se oso dirti qualcosa che non entra nei tuoi schemi standardizzati.»
Ero seduta sul davanzale di quella stanza colorata. I suoi padri non c’erano, usciti per qualche commissione. Solo io e lei. Talmente che mi sentivo soffocare da quel luogo così intimo e ricco di sfumature pastelli, intriso di disegni e della sua corporea passione, che mi rifugiai nel panna delle nuvole. Non accettavo di ritornare a guardarla. Lei e l’essenza sulle pareti.
Mi buttò addosso una pagina di giornale ingiallita, forse un’edizione di qualche giorno prima, anche un po’ stropicciata. La presi a volo, non capivo. I miei riflessi impedirono di farmi male fuori ma non dentro. Fu davvero cattiva.
«Guarda le persone cosa rischiano per amore, guarda cosa sono disposte a rinunciare o persino soffrire pur di esprimere quello che provano, che desiderano, amano. E tu invece non sai essere sincera con me. Mi rifiuti. Mi allontani ad ogni tocco. Quand’è che inizierai ad essere meno egoista, Greta?». Aveva toccato il fondo.
Di quella pagina, lessi solo il titolo: “Ragazzo pestato dalla famiglia perché etero”.
Non approfondii ma neanche lo dimenticai.
«Egoista sei tu, e melodrammatica anche. Paragoni i nostri problemi a scelte di persone che neanche conosci. Non funziona così. Ero solo stanca». Digrignai i denti, presi le mie cose, me ne andai senza vedere che volto aveva. Se stava piangendo, se era soddisfatta o colpevole.
Facemmo pace, sì, qualche ora dopo. Mi chiamò con voce rauca, assonnata. Aspettavo trepidante quella telefonata.
Lo ammetto.
Entrambe ci scusammo, riempimmo il vuoto che si andava a creare tra i nostri corpi, come tra le nostre menti, con un semplice “ho esagerato, scusa”.  
E poi? Poi m’invitò ad una festa organizzata da qualcuno della classe di Marco.
Anche di Lorenzo.
«Ci andiamo?» «Sì, perché no.»
Non era stato il destino, o il volere di qualcuno che non si conosce.
Erano state le nostre scelte a spingerci verso quell’alta mareggiata.

Commento autore: non sono completamente soddisfatta di questo secondo capitolo, credo che la storia sarà soggetta a numerose revisioni ma... ho deciso che ciò non deve impedirmi di pubblicarne una prima stesura. Spero che possa avervi suscitato qualcosa di gradevole, o più correttamente, di vero. ^_^

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Capitolo 3
*** III. ***


Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.
Critica alla ragion pura, Immanuel Kant
 

III.

 
«Buona serata, Adelina». Tommaso abbracciò mia madre in piedi, così vicina ai fornelli per trovare un’occupazione, o per meglio dire, un diversivo.
Fu un abbraccio terribilmente solidale, che continuò ad aumentare il dolore nel mio cervello.
«Scusaci Tommaso, tu non c’entravi nulla in tutto questo… io non so proprio cosa dire, in realtà». Farfugliava, si sistemava i capelli dietro le orecchie, li ravvivava e torturava, la voce di un tono troppo alto lasciava trapelare un disagio a malapena paragonabile a ciò che sentivo io.
Si figuri”, “ancora buona serata”, “passo in questi giorni”, “Ciao Greta”. Alessio lo accompagnò fuori, sparirono per una manciata abbondante di minuti. Meglio così, me ne sentii sollevata.
«Era il caso di mettere su questo teatrino davanti al ragazzo di tuo fratello?» avrebbe potuto dirmi tante cose in quei minuti di faccia a faccia. Non c’era nessuna barriera a dividerci, se non quella dell’imbarazzo, ma lei credette esser opportuno ricordarmi di quanto fosse stato poco decoroso parlare della mia deviazione davanti ad estranei. Aveva paura mia madre, e come biasimarla. Non accettava che i vicini mormorassero e che gli sguardi delle persone mutassero. Odiava essere al centro dell’attenzione per cose sconvenienti: come il suo divorzio.
La mia presa di coscienza e l’abbandono da parte della mia seconda madre avevano una verità in comune: la delusione delle persone care.
«Parlare davanti a chiunque di questi problemi non ti porta a nessuna, e dico nessuna, soluzione, Greta», si era avvicinata, in una sua calma glaciale. Aveva ripreso coraggio. Bastava un cerotto, Greta, e la bua sarebbe sparita.
Bastava un po’ di sabbia, e tutto era dimenticato, ancora non lo capivo.
«Io non cerco una soluzione».
«Ti senti trascurata? Ho fatto qualcosa che ti ha turbato fino a questo punto, Greta? Parlami. Non c’è alcun bisogno di attirare la mia attenzione così. Non sei più una bambina. È un atteggiamento che hai sempre avuto. Quando Alessio riceveva della premura in più tu facevi di tutto pur di farti considerare a tuo modo. Era un gioco? Il gioco smetteva di piacerti. Era una materia? Iniziavi a non studiarla più. Adesso cosa c’è? Volevi rovinargli questa serata? Ci sei riuscita in pieno,» sospirò, «perché dev’essere tutto così complicato con te?»
Quella banale, banalissima e retorica analisi pseudo-freudiana mi lasciò di stucco, e di per sé ero già abbastanza scossa. Che il problema risiedesse in un meandro indefinito di un’infanzia neutra e poco contestualizzata, mi parve una presa in giro. Alle volte, e mi sembrò vero quella sera più di altre, il cervello umano cerca di creare delle barriere infinitamente alte pur di non perdere un appiglio conforme nella propria visione di realtà.
«Quello che provo non ha nulla a che fare con delle stupide e infantili manie di protagonismo». Farfugliai e lei si schiarì la voce; non ero più certa che mi stesse ascoltando, le mie parole, qualunque fossero il loro valore, avevano perso il ruolo centrale. La conversazione era diventata una corsa contro il tempo alla ricerca di una soluzione immediata.
Portò il busto in avanti e con cautela le sue braccia si allungarono verso il mio corpo contratto e appesantito. Stava cercando evidentemente un contatto con le mie mani incrociate sul tavolo.
«Senti, Greta, sei solo caduta in uno stato confusionale». Titubante, un po’ tremolante, non sapevo a cosa volesse andare a parare ma l’esordio non mi parve promettermi sensatezze.
«Tutti noi viviamo delle simpatie verso l’altro sesso, l’amicizia e l’affetto profondo che si provano sono reali e figurati se una madre non vuole che la propria figlia abbia degli amici», rise, mi accarezzò il dorso delle dita con il pollice, «anche io trovo piacevoli molti uomini. Quand’ero giovane pensavo che i lineamenti del mio vicino di casa fossero incantevoli». Cosa stava dicendo? Dio mio, era ridicolo.
«Ma ce ne passa di buon senso dal provare dell’attrazione fisica o emotiva. Capisco che questa simpatia ti abbia portato a pensare e a costruire un’idea di te che non ti appartiene. Ed io sono contenta che…» respirò ancora più forte, «non ti sei tenuta tutto dentro». Si guardò attorno.
«Io non sono confusa» ribadii e le sue mani si allontanarono dalle mie con lentezza, senza che i suoi occhi si posassero sul mio volto.
«Io lo…», un sussurro, mi presi vari secondi per finire, necessitavo di assaporarne la parola sulla lingua e assaggiarne tutta la dolcezza, «amo».
«Zitta!» mi urlò contro, la calma apparente era stata squarciata dallo straziante dolore dell’accettazione, poggiava il peso al tavolo come se volesse trattenersi dallo scagliarsi contro il mio corpo per strattonarlo con forza e farmi rinsavire dalla miriade di stronzate che quella sera stavano prendendo forma nell’aria.
«Sei solo una ragazzina, non hai la minima idea di cosa sia l’amore».

 
Novembre
La frescura di novembre ci gelava le mani e penetrava nelle stoffe ancora leggere che con ostinatezza osavamo indossare a quel tipo di festa.
Eravamo su una terrazza infinitamente grande ed ovale, la preparazione dei tavoli e dei divanetti era intrisa di stile e di fascino.
Tante formiche imparavano a vivere un briciolo di tempo in quell’universo senza inizio né fine.
Il primo ricordo di quel luogo fu proprio sobrio. Come l’ho descritto. Come lo ricordo.
Ed invece gli altri sembrano così dannatamente confusi.
Come se tutto ad un tratto, nella sciccheria, fosse scoppiata la musica; quella che ti perfora i timpani e ti stordisce male.
La festa di Margherita, una compagna di classe di Marco e Lorenzo, fu proprio uno sballo. Per tutti.
Anche per me.
Senza rendermene conto, la musica mi aveva trascinato nel suo vortice.
«Ma quanto sei…» Margherita, la festeggiata, si era avvicinata al nostro angolo, dove io e Alice bevevamo una coca corretta, alla vodka forse. Non guardava me, a malapena mi rivolse un saluto di conoscenza ma accettò il regalo che le avevamo fatto insieme di buon grado.
Avevo una rivale? Adesso potrei ammettere che sì, quella festa contenne tanti segnali ma che la mia ingenuità era più caparbia di tutte.
«carina!» concluse la frase guardando la mia ragazza. Era un’ammirazione per quel vestito nero e sobrio che le scendeva con dolcezza lungo i fianchi. Stava bene, me ne accorsi quasi subito dopo essere salita nella macchina. Non le dissi niente.
«Ah, ma grazie. Sai che anche la tua festa è proprio carina?» risero entrambe. Bevvi un sorso bello lungo di quella roba contaminata che sapeva di plastica.
«Tu dici? Tra poco Marco parte con le casse e non si capirà più niente…»
«Il condominio non si lamenterà?»
«Ma il condominio deve mettersi in testa che questo terrazzo va sfruttato ogni tanto!» risero di nuovo. Fu una conversazione un po’ stupida che mi arrivò ovattata, sono sincera. Cercai di inserirmi, ricordo, non so esattamente in che modo, ma presto Margherita si dileguò, lasciandoci delle ottime informazioni di servizio.
«Sono contenta che Marco vi abbia invitate!» il suo sguardo ricadde su di me ma non ne ero certa, «divertitevi e non fate complimenti. Quell’angolo lì è pieno di roba buona». Un occhiolino.
L’angolo intriso di fumo.
Intriso di canne. Solo?
«Andiamo».
«Dove?» chiesi subito, allarmata. Alice mi guardò un attimo, roteò gli occhi al cielo e mi smollò il suo bicchiere, «abbiamo bisogno di rilassarci un po’, vieni». Si strinse al mio corpo e provai un senso sulla pelle che non fu piacevole, non fu accomodante, non fu vero.
«Non ti era passata?» i suoi occhi piantati nei miei, uno sbuffo. Il rancore suo non c’era più ma a me… a me non era passata.
«va beh, mi trovi là».
Là era il fumo.
Là era Marco che si allontanava dal gruppo e l’abbracciava contento con una sigaretta in mano sua e poi in quella di Alice.
Decisi di non darle corda, di continuare nella mia caparbietà e mi ritrovai a girare tra la folla liceale. Incontrai, ma più propriamente scontrai, occhi inquieti ed euforici, già sbronzi e assonnati. Nessuno celava un guizzo di felicità.
Francesco, Eleonora, Laura, Paolo, Roberto, Veronica, tanti nomi e tanti legami adolescenziali, labili, fievoli.
No, non mi scontrai con i bicchieri quasi vuoti sulla camicia celestina di Lorenzo.
No, non lo vidi da lontano per poi avvicinarmi. Intenzionalmente.
No, non fu un incontro plateale. Né scontato. Fu però il primo nostro ricordo reale.
In fondo, il mio sguardo stava aspettando di appigliarsi a qualcosa di familiare, che mi potesse dare del calore.
Lo intravidi appena, tra un giubbotto di pelle e una gonna troppo corta. Era di lato all’entrata del terrazzo. Anche lui con quel bicchiere rosso e bianco, imbarazzato ed imbarazzante. C’era una ragazza al suo fianco, appoggiata al muro verdastro che rendeva l’atmosfera più soffocante di quanto già non fosse.
Si chiamava Lucia, l’avrei scoperto qualche tempo dopo, durante una chiacchierata banale, sulla panchina di un parco in fiore.
«Perché non lo sapevi?», «Ma che dici? Non lo avrei mai capito». «Dio santo, che peccato però, è proprio un bel ragazzo».
Il caso è strettamente attaccato alle nostre vite, come un amore malsano e giocoso.
Mi ritrovai così nel mezzo di un gruppetto di gente che conoscevo di vista, incrociati in qualche progetto, o durante le gite scolastiche più remote.
«Ehi Greta, tu che ci dici? Non è che Alice è tutta una copertura?» partirono risate, ma ero troppo interdetta per unirmi al coro e sentivo che c’era qualcosa in tutta quella storia che non mi tornava, chiaramente.
«Cioè?» mi guardai indietro ma non la vidi. Dov’era? Chissà. Ero contenta di quella lontananza passeggera. Sapevo che non avrei dovuto pensarlo. Diamine.
«Niente», disse chi aveva già parlato in precedenza e di cui mi sfuggiva letteralmente il nome. Pure il viso.
Non mettevo a fuoco. La vodka, o perché non volevo.
«Lo vedi quel tipo lì?» Era Lorenzo poco più avanti. Intendeva lui? Sì, forse la traiettoria non era delle più precise con quel dito tremolante, indicativo, ma non mi sbagliai e me ne resi conto presto.
«Sta mollando quella.
I suoi amici dicono che non smette di piangere da giorni.
Guarda come parlano fitto, fitto».
«Che intendi?» chiesi, ancora, forse sembrai un po’ stupida.
«Non lo sai?» pausa. Sorrisetto, «è etero».
Fu una notizia buttata lì, che portò una calma apparente, un momento serio tra il caos più totale. Addirittura, o la mia immaginazione galoppò troppo, sentii qualcuno schiarirsi la voce. No, impossibile. Avevo dubbi persino su quell’accozzaglia di parole.
«Come fai a dirlo? Solo perché lo avete sentito in giro?» Ero curiosa, e pure scocciata. Non capivo cosa fossero quelle emozioni distaccate, a tratti coinvolte.
Il gruppo aveva ormai spostato l’attenzione su qualche altro povero individuo che probabilmente avrebbe preferito vivere senza essere soggetto di quelle analisi intime, pettegole e… di cattivo gusto.
Una calma a rallentatore.
La musica iniziò a riscaldare l’aria insipida ed io entrai nella sala al coperto, tra i tanti gomiti e tra le tante persone.
La bionda, che poco prima avevamo visto con Lorenzo, mi seguì. No, che dico, entrammo insieme.
Non mi guardò.
Non guardò nessuno.
Il suo ero un viso intriso di tristezza e rabbia bollente.
La vidi sperdersi, e così mi girai.
E ci incontrammo noi
.
 

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