A Chrismas Carol - L'uomo che avrebbe ricordato il Natale

di Selena Leroy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue - L'uomo che aveva dimenticato il Natale ***
Capitolo 2: *** Future - L'uomo che aveva dimenticato il sorriso ***
Capitolo 3: *** Present - L'uomo che aveva dimenticato la felicità ***
Capitolo 4: *** Past - L'uomo che aveva dimenticato il dolore ***
Capitolo 5: *** 25 December - L'uomo che ricordò il Natale ***



Capitolo 1
*** Prologue - L'uomo che aveva dimenticato il Natale ***


PROLOGUE – L’UOMO CHE AVEVA DIMENTICATO IL NATALE


Il tempo di Yusaku Fujiki veniva scandito dal ritmo incalzante dei ticchettii che la tastiera produceva sotto il rapido lavorio delle sue mani. Gli occhi scorrevano sullo schermo in un tremore che denunciava la fugace lettura dedicata allo schermo, la mente per lo più concentrata su dove ogni lettera e ogni numero avesse luogo sotto le sue dita; aveva poco tempo, il ragazzo, e una mole di lavoro che altri, al suo posto, avrebbero volentieri delegato ad un periodo più fertile di libertà.
Fu un bussare improvviso a interrompere l'idillio tecnologico nel quale aveva deciso di sprofondare. Interrotto il lavoro, con la barra sottile a indicare la possibilità di inserire nuovi codici e lo schermo nero dalle cifre verdi, Yusaku staccò lentamente la sua mente dalla costruzione digitale che stava realizzando per prestare orecchio e occhi ad uno dei suoi coinquilini - e uno dei pochi amici che la vita gli avesse concesso.
"Yusaku-san, noi stiamo andando" furono le parole di Yuya Sakaki, le guance congestionate dal freddo e gli occhi lucidi di sonno. Quella mattina, in effetti, era stato costretto ad alzarsi alle prime luci dell'alba perché, nella sua sbadataggine, aveva rimandato all'ultimo l'impacchettamento dei vari suoi beni e della mole di regali da portare a casa - finendo di produrre l'assordante rumore delle valigie chiuse e degli scatoloni incerottati solo una decina di minuti addietro.
Alle sue spalle, il giovane non era da solo. Yuma Tsukumo, infatti, l'altro suo coinquilino e il secondo amico che la vita gli avesse mai concesso di avere, sorrideva con l'ottimismo che non lo abbandonava mai, gli occhi brillanti di gioia imminente e le mani avvolte in guanti di morbido cotone.
"Sei sicuro di non voler venire con me ad Heartland?" fu la domanda con cui si annunciò, ed era l'ennesima replica a cui Yusaku assisteva.
"Vi ringrazio, ragazzi, ma ormai ho deciso che voglio rimanere qui per completare il mio lavoro di tesi. Se riesco a finirlo entro la fine dell'anno, riuscirò senza alcun dubbio a laurearmi entro tempi brevissimi"
"E noi sappiamo quanto tu tenga alla puntualità per quella questione delle borse di studio, ma... Significa anche che ti rovinerai il natale" replicò Yuya "Ne sei davvero, davvero sicuro?"
Yusaku annuì, perché aveva già conosciuto le argomentazioni dei suoi amici nei giorni precedenti, e sapeva che quelle  a cui stava assistendo erano solo gli ultimi tentativi guidati più dalla disperazione di saperlo solo che dalla speranza di averlo davvero come compagno di viaggio.
"Non dovete preoccuparvi per me, io starò bene"
I due si guardarono tra loro, tutt'altro che convinti.
"Beh... se davvero hai deciso così... almeno permettici di..." iniziò Yuya, correndo a perdifiato nella sua stanza per prendere qualcosa che aveva evidentemente dimenticato.
"... permettici di darti questo" completando la frase del suo amico, in una previdenza che lo aveva reso, forse per la prima volta, attivo in riflessi che non avevano da riguardare sfide folli e ostacoli di studio insormontabili, le mani di Yuma andarono a recuperare - sembrava dal nulla, visto che apparve all'improvviso - un vistoso pacco rettangolare colorato di sfumature azzurrine.
"Un pensierino" si aggregò Yuya, stringendo tra le mani un piccolo involucro dalle tonalità dell'indaco.
Yusaku apparve imbarazzato, dinanzi a quell'insolita generosità.
"Scusate, ragazzi, ma... non ho nulla per ricambiare" e si diede dello sciocco, per non aver speso nemmeno un minuto del suo tempo a fare qualcosa di carino per loro. Sarebbe bastato anche un pacco di dolciumi - d'altronde parlava di due ghiotti di prima categoria - e invece doveva fare la magra figura dell'ingrato.
Nonostante tutto, comunque, i due ragazzi risero di cuore.
"Credo di parlare per entrambi quando dico che non volevamo un ringraziamento" disse Yuma - e trovò concorde il suo compare con un energico cenno di assenso.
"Questo è un modo per dimostrarti che anche se sei un musone, stacanovista, fissato con i computer, taciturno il più delle volte e incapace di intessere delle normali conversazioni civili..." iniziò Yuya.
"Ehm... amico, non credi di stare un po' esagerando?" lo interruppe Yuma, in imbarazzo per lui.
"Quello che voglio dire" continuò l'altro, capendo di dover tagliare corto "è che sei parte della nostra banda, un nostro caro amico. E Natale è il momento perfetto per dimostrarlo"
"Senza tutti questi giri di parole, la penso come lui... quindi ecco a te. Confesso che mi sono fatto spiegare dal commesso che cosa stavo comprando, ma... spero che ti piaccia"
Ed entrambi con un sorrido a trentadue denti, misero i loro presenti sull'unico mobile di quella stanza spartana.
Ringraziandoli dal profondo del cuore - perché, al di là del regalo, era davvero commosso dal bene che gli dimostravano - si ripromise mentalmente di trovare, anche dopo Natale, il tempo necessario per restituire loro quella dichiarazione d'amicizia.
Yusaku Fujiki non avrebbe mai conosciuto Yuya Sakaki e Yuma Tsukumo, se le circostanze non avessero creato le giuste dinamiche per approfondire la loro conoscenza. Come Yuya aveva specificato, infatti, egli era incapace di intessere conversazioni normali, era diffidente verso il prossimo e il più delle volte amava restarsene per le sue. Era da anni che lo si considerava un misantropo, a detta dei più, e lui tanto ci aveva convissuto con quella parola da non trovarla più nemmeno denigrante. Anzi, si era ormai convinto che fosse l'unica capace di esprimere appieno il suo essere.
Originario della città di Den City, aveva fatto armi e bagagli quando un importantissima borsa di studio gli aveva consentito di continuare i suoi studi nella prestigiosa università di Miami, direzione facoltà di ingegneria informatica. Già abilissimo con i computer fin da quando ne aveva memoria, aveva visto in quell'occasione la possibilità di far fiorire il suo ingegno senza incorrere in strade sbagliate; già a sedici anni aveva rischiato di farsi coinvolgere in un gruppo di anarchici hacktivisti che lo volevano al loro servizio, a diciotto era stato costretto ad entrare nell'archivio della scuola per migliorare la pagella di uno che gli aveva promesso di pagare tutti i suoi debiti per il piccolo favore chiesto in cambio. In altre parole, aveva sempre avuto un piede nel mondo civile e uno in quello dell'illegalità, e stanco di una situazione in bilico che non lo soddisfaceva, aveva deciso di far fruttare il suo unico talento nella speranza che qualcuno lo notasse. Cosa che poi era successa.
Den City e Miami erano distanti anni luce, agli occhi di un ragazzo che non aveva nemmeno la patente; costretto da cause di forze maggiore a trovare quindi un alloggio a poco prezzo, era dovuto venire a patti col fatto che il suo desiderio di solitudine non sarebbe mai stato accettato, specie se si considerava che, quanto più era alto il numero di coinquilini, tanto minori erano le spese.
La loro convivenza non era iniziata subito; i due erano più piccoli di lui di un anno, e l'inizio della sua esperienza di fuorisede il giovane l'aveva trascorsa con un gruppo di medici squattrinati che, incapaci di reggere le dinamiche di una grande città, si erano infine ritirati altrove.
Yuma Tsukumo aveva il sogno di diventare archeologo, esattamente come suo padre. Di quel mestiere vedeva il piacere dei viaggi, delle scoperte, dell'avventura; disinteressato alla mole di studio che lo aspettava, aveva deciso di barcamenarsi in quella missione senza tener conto dei suoi limiti - limiti che, come avrebbe scoperto più tardi Yusaku, lui era comunque brillante nel superarli.
Yuya Sakaki, invece, non aveva avuto alcuna intenzione di formalizzarsi in un ambiente universitario. Aveva accettato di iscriversi alla scuola di recitazione di Miami solo perché le lezioni avvenivano nel meraviglioso teatro cittadino che aveva capienze di spettatori da far girare la testa.
Con un talento eccezionale e il centouno per cento di energie speso per ciò che più amava fare, Yuya Sakaki si era però dovuto confrontare con il grave problema degno dei figli d'arte: Yusho Sakaki era stato una stella nel firmamento di Miami, e molti credevano che suo figlio, per leggi naturali mai scritte né sentite, doveva per necessità essere una sua copia sbiadita. Era per questo che, nonostante Yuya fosse proprio nativo di quella città, aveva abbandonato in fretta il suo nido per cercare l'occasione giusta - l'occasione per dimostrare che lui non era suo padre, che aveva grandissime capacità e il desiderio di metterle in mostra.
In breve, se i suoi primi coinquilini avevano fatto presto a capire che il silenzio e il disinteresse erano gli unici modi per approcciarsi a Yusaku, con quei due terremoti la pace stessa aveva assunto un concetto relativo; incapaci di vivere senza combinare guai, incapaci di esternare i loro pareri divergenti senza urlare, incapaci di lasciare pulita la cucina o gli alti ambienti della casa dopo averli usati, per Yusaku, almeno in principio, aveva avuto inizio uno dei periodi più faticosi della sua esistenza.
All'inizio, invero; il tempo in cui aveva trovato irritante il loro chiacchiericcio, le loro risate, il loro modo esagitato di fare, l'incapacità di farsi i fatti propri, sparì nel giorno in cui fu nuovamente lasciato solo in quell'appartamento - un'altra festività ad obbligarli a esagerati festeggiamenti - e scoprì che i vuoti erano troppo desolati, i silenzi troppo inquietanti e i grigi troppo sbiaditi. Con sgomento, e pure una punta di rammarico, si era reso conto di aver riso in sordina alle loro sciocchezze, di essersi preoccupato quando uno dei due commetteva una sciocchezza e si ritirava con qualche arto fasciato, di essersi sentito a casa quando i due si mettevano intorno alla tavola - in attesa che lui cucinasse, perché era l'unico capace di prendere in mano un tegame senza far esplodere ogni tipo di ingrediente che passava in convento - e raccontavano minuziosamente quello che avevano fatto. Era stata un evoluzione così graduale che nemmeno l'aveva afferrata se non quando la realtà non aveva stravolto le carte in tavola.
E, da allora, nonostante i suoi sentimenti e la sua misoginia urlassero il contrario, sentì nel suo cuore il desiderio di far parte di quei colori, di essere parte di quei racconti e di non fare più lo spettatore di un duo, ma di essere parte di un trio. Era qualcosa che lo Yusaku Fujiki degli anni passati non se lo sarebbe mai sognato; forse avrebbe perfino prenotato un posto in una qualche clinica isolata, alla ricerca della sua tranquillità perduta. E invece, nel presente, non riusciva più a vedere del male nella semplice compagnia di due persone esuberanti.
Forse Yuma e Yuya nemmeno se ne erano accorti, di quel suo cambiamento, o forse sì. Yusaku non seppe mai dirlo, ma di certo la loro gentilezza nei suoi confronti non venne a diminuire nemmeno per un secondo.
Nel 24 dicembre dell'anno corrente, con loro due nuovamente fuori per godersi le vacanze con le rispettive famiglie, Yusaku aveva per un attimo temuto che la situazione iniziale, quello della claustrofobia che minacciava di ucciderlo all'interno di un minuscolo appartamento, sarebbe riapparsa minando tutta la sua determinazione e tutta la sua misantropia; però il ragazzo sapeva che, quella volta, avrebbe dovuto fare di necessità virtù.
La borsa di studio esisteva, certamente, ma aveva delle scadenze che imponevano agli studenti di non prendere nemmeno in considerazione la possibilità di andare fuori corso; era quindi una corsa contro il tempo, quella che lui doveva necessariamente fare, e benché sentisse il cervello a pezzi e le mani brucianti, aveva compreso che l'unica alternativa possibile era quella di preparare l'ultimo esame e allo stesso tempo gettare le basi per il nuovo programma che sarebbe stato oggetto della sua tesi. La mattina l'avrebbe dedicata ai libri, la sera ai codici binari che avrebbero permesso al suo computer una connessione maggiormente rapida sui server di ultima generazione.
Ciò che aveva fatto anche quel giorno; l'orologio segnava già le 22:45, mentre si apprestava a concludere un’ultima patch e salvava tutti i progressi messi in atto.
"Penso che sia ora che vada a letto" si disse dunque, alla chiusura dei programmi.
Si distese sul rigido materasso che amava tanto, sotto le pesanti coperte di flanella che l'amico Yuya aveva portato per lui direttamente dalla sua casa paterna.
Si ripromise di dormire profondamente, perché l'indomani sarebbe stata una giornata dura.
Non aveva alcuna idea che il peggio dovesse ancora incominciare.

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Capitolo 2
*** Future - L'uomo che aveva dimenticato il sorriso ***


FUTURE – L’UOMO CHE AVEVA DIMENTICATO IL SORRISO


Svegliati"
Un bisbiglio nella notte nera senza luna.
"Ho detto di svegliarti"
Un bisbiglio insistente, e anche molto permaloso.
E Yusaku comprese che era ben più di un qualcosa di onirico quando uno scrollare deciso andò a scuotergli la spalla. Allarmato, alzò la testa di scatto, superando all'istante l'intontimento dovuto al sonno.
Dinanzi a lui, vai a vedere per quale assurdo e inspiegabile motivo, stava un uomo totalmente sconosciuto, mai visto prima di quel momento. E lo avrebbe ricordato altrimenti, il ragazzo, perché quel bizzarro segno dorato che gli attraversava la fronte sarebbe stato davvero difficile da dimenticare. Dall'alto di metri che Yusaku non sapeva raggiungere, lo fissava con occhi scrutatori, occhi di un colore che ricordavano il cielo quando le prime luci della sera iniziano a diffondersi al seguito dell'inabissarsi del sole.
"E tu chi diavolo sei?!"
Il primo pensiero del ragazzo, ora decisamente allarmato, fu di avere davanti un qualche ladro esperto dell'intimidazione; a ben pensarci, non ricordava di aver chiuso a chiave la porta, quando era andato a dormire, ed era certo che Yuma e Yuya non lo avessero fatto per il semplice fatto che erano coscienti di quanto il loro amico più anziano odiasse sentirsi un topo in gabbia. Venuto a patti con la claustrofobia quando aveva sette anni, aveva capito che solo convivendo con il suo problema sarebbe sopravvissuto senza morirci; e quando i suoi due coinquilini avevano supposto di fare un favore a Yusaku assicurandosi della sicurezza senza consultarlo, ritrovandolo in seguito ansante nell'atrio del loro appartamento ne erano venuti a patti anche loro.
Quindi si diede mentalmente dello stupido, lasciando che la mano, in modo apparentemente naturale, andasse sotto al cuscino per riprendere il cellulare che aveva lasciato nelle coltri ancora calde. Il numero della polizia era già impostato tra le scelte rapide, pochi tasti pigiati e le forze dell'ordine avrebbero ricevuto una sua segnalazione.
Ma Yusaku non aveva ancora capito che la notte aveva in serbo per lui numerose sorprese.
"Sono lo Spirito del Natale Futuro" disse infatti quello, presentandosi con la stessa solennità di chi sbandiera al mondo di possedere una multinazionale al suo comando "E puoi chiamarmi Yusei Fudo"
A quel punto, Yusaku si convinse che le sue previsioni andavano riviste, e che quello che aveva davanti non solo era un ladro, ma anche sotto l’effetto di stupefacenti. Male, si disse, perché con uno che ha cancellato la razionalità con una striscia di coca, difficilmente si riusciva a ragionare.
Pensò però di provarci comunque. Alzando solo un braccio, perché l'altro stava ancora tentando di raggiungere il suo vecchio telefonino di un'era generazionale differente, cercò di parlare mantenendo la calma.
"Ascolta, amico, io non ti farò niente" iniziò "Ma ascoltami: qui non c'è denaro. Ti assicuro che hai scelto la casa sbagliata, perché qui si trovano solo tre studenti squattrinati, uno più povero dell'altro" e non aggiunse che l'ultimo della catena era proprio lui perché non gli sembrava necessario.
"Ehm... io non voglio soldi" fece quello, evidentemente confuso "Scusa, ti ho detto che sono lo Spirito del Natale Futuro. Cosa ti fa credere che voglia essere pagato?"
"Non ho nemmeno la droga, se è quello che cerchi!" disse Yusaku, e un po' si rimproverò per aver fatto trapelare la sua irritazione nel tono di voce stanco.
La sua vita era appesa ad un filo, insomma, e non poteva permettersi di farlo infuriare dimostrando quanto sbagliato fosse violare un domicilio privato.
Yusei, nel frattempo, si passava una mano tra i capelli nero corvini, e sul viso gli si dipinse un tono sconsolato.
"Ogni anno la stessa storia" e lo diceva a se stesso, a quanto sembrava "Più si va avanti e più gli scettici ti chiudono la porta in faccia"
Poi lo fissò intensamente.
"Meglio finirla in fretta, visto che ho un mucchio di cose da fare questa sera"
Yusaku non seppe prevederlo ma, da sotto la mantella indaco, quella indossata dall'uomo per nascondere tutto il suo corpo, saltò fuori una mano guantata di nero che, con violenza, si ancorò al braccio ancora alzato. A quel punto il mondo perse i suoi colori, ne riprese di nuovi e Yusaku combatté contro un senso di vertigine mai provato prima.
"Ma... dove siamo?"
Di sicuro non nella sua stanza. Nella sua stanza non c'era asfalto, e da claustrofobico sapeva dell'esistenza di muri che delimitavano il suo spazio vitale; invece, davanti a lui, tutto quello che fu in grado di vedere si articolava nei numerosi piani di una grossa azienda costruita ai margini di una città che non seppe definire - non ricordava un quartiere simile a Miami, e di sicuro non esisteva a Den City. Deduceva di trovarsi in periferia solo perché il numero di esseri umani che abitavano quello spazio sembrava pari a zero.
"Siamo nel tuo futuro, Yusaku Fujiki" disse Yusei, lasciandogli il braccio con cui lo aveva sorretto per tutto quel tempo "E per la precisione a Los Angeles. Bel posto, permettimi di aggiungere"
Yusaku era troppo sconcertato per replicare. La sua razionalità, quella fredda logica che chiedeva sempre spiegazioni alla fisica per cercare un chiarimento, non avrebbe mai accettato un discorso simile come risposta ad una sua sensata domanda. Al tempo stesso, tuttavia, si rendeva conto che una delle prove richieste dalla ragione lui già la possedeva, e se la ritrovava davanti agli occhi. Era infatti impossibile che la prestidigitazione potesse realizzare un trucco simile, e comunque un simile artificio avrebbe richiesto tempo, preparazione e studiate messe in scena. Nemmeno Yuya Sakaki, con tutto il suo talento, ne sarebbe stato capace.
"Sto sognando" pensò allora, certo che quella fosse l'unica strada utile per non impazzire.
Ne aveva già sentito parlare, in effetti. Li chiamavano sogni lucidi, ed erano quelli stati mentali in cui un essere umano è perfettamente cosciente di trovarsi in un mondo onirico. La capacità dei sogni lucidi era quella di permettere al sognatore di fare ciò che la sua mente diceva, lasciandolo abbastanza cosciente da agire secondo natura e non secondo viaggi pindarici inspiegabili.
"In un certo senso è così"
Aveva parlato ad alta voce, a quanto pareva, perché Yusei Fudo si era persino preso il disturbo di rispondergli.
"Aspettà, quindi io sono in un..."
"In realtà no, ma sinceramente non ho voglia di perdere parte del mio tempo a spiegartelo. Se un razionale come te non può accettare tutto questo, allora, puoi semplicemente credere a quello che vuoi. Tanto, a me il lavoro non cambia"
E nei suoi modi spicci si evinceva con violenza quanto poco desiderasse svolgere quello che stava facendo. Yusaku, che più di lui non aveva a cuore approfondire qualsiasi cosa fosse in atto in quel momento, si chiese quindi per quale assurdo motivo ne fosse rimasto coinvolto. Poi ricordò che era un sogno, benché lucido, e quindi comprese che forse un senso non andava cercato.
Frattanto, Yusei aveva deciso che il metodo di prima gli andava particolarmente a genio, gli permetteva di sbrigare il suo dovere - qualsiasi esso fosse - e di usare pochissima fatica. Lo prese quindi per un braccio nuovamente, e nello sbattere delle sue palpebre Yusaku si ritrovò a dover fare i conti con un nuovo ambiente, completamente diverso e opposto allo scenario precedente.
Era un interno, tanto per iniziare. Illuminato da luci al neon che Yusaku trovava fastidiose, ma che dovevano essere state messe per un risparmio di corrente che massimizzava i profitti con il minimo elargibile. Lo inquietò quel pensiero, così tipico di lui, e che si concretizzava nella figura china su un computer sofisticato, gli occhiali ad aiutare la vista affaticata e le prime rughe della vecchiaia a segnare il volto. Yusaku pensò, guardandolo, che quello appariva proprio come il viso di un qualcuno che aveva dimenticato come si sorride. Il peggio fu capire che era proprio il suo.
"Siamo vent'anni nel futuro" esclamò Yusei, anticipando la sua domanda "Precisamente nella notte del 24 dicembre"
Yusaku rimase stupefatto, ma in se avvertiva anche una stanchezza dovuta alla saturazione delle novità: era stanco, stanco di essere sorpreso e stanco di ritrovarsi in una serie di incognite che lo stavano lentamente minando.
L'aspetto del luogo in cui si trovava era austero, con quelle grandi vetrate che si affacciavano direttamente sulle luci della città, ma era anche tristemente asettico. Se Yusaku non avesse visto se stesso chino su un lavoro che aveva risucchiato tutta la sua attenzione, non avrebbe mai dedotto di ritrovarsi nel suo prossimo e onirico ufficio. Nemmeno una targhetta segnava le sue proprietà, non una foto. C'era solo una scrivania, un computer e tanto, tanto silenzio.
Silenzio che venne interrotto da un piccolo picchiettare alla porta.
"Avanti" disse il futuro lui. Aveva una voce molto più roca della sua versione giovanile, Yusaku nemmeno l'avrebbe riconosciuta se... beh, se non lo avesse visto con i suoi occhi.
Sembrava quasi avesse perso il vezzo di parlare.
Dalla porta di vetro apparve un uomo appena trentenne, robusto di costituzione e leggermente basso. La chioma smeraldina era tanto opaca da apparire scura, e alla luce del neon non aveva nemmeno le forze di brillare. Il viso tondo aveva evidenti segni di stanchezza, e le mani passarono stancamente su un occhio in procinto di chiudersi, prima di parlare.
"Sono venuto a dirle che stiamo per andare via" fece il ragazzo. Yusaku vide sulla giacca nera che aveva indosso una targhetta, dove il nome Shima Naoki capeggiava accanto ad una foto dell'individuo con sul viso un sorriso sghembo.
Yusaku, quello del futuro, non gli rivolse nemmeno una risposta degna di questo nome. Forse annuì, ma nessuno avrebbe potuto giurare sul movimento del suo volto.
"Ehm... la ringrazio" aggiunse l'altro, in evidente imbarazzo "per averci concesso tutto il ponte natalizio. A nome di tutti..."
"Non sono stato io a concedervelo, ma la legge. Ringrazi i ministri, visto che è tanto solerte"
Dimenticando per un momento di essere in un sogno, Yusaku rimase sgomento nel vedersi in uno sfondo così cinico e indifferente. Lui per primo si considerava misantropo, lasciava agli altri il compito di crederlo, ma mai si era permesso di rispondere con tanta villania. Specie se dall'altra parte non vedeva alcun intento ostile.
"Ehm... capisco" fece Naoki, evidentemente turbato da tanta freddezza "Allora... buon natale... da parte di tutti noi..."
Anche quella volta non ottenne risposta.
Yusei non si prese la briga di avvisarlo che stavano per andarsene; il giovane programmatore lo comprese solo quando sentì nuovamente una presa ferrea al suo posto, e avvenne nuovamente il cambio di scenario che denunciava come il signor Fudo fosse tanto zelante quanto spregiudicato nel suo lavoro. Yusaku quasi cadde al suolo, per quell'imprevisto cambiamento, e si ringraziò mentalmente per essere rimasto stabile sulle sue gambe quando vide del lercio asfalto alle sue spalle.
Erano in un parcheggio; sullo sfondo, sempre la stessa azienda vista poco fa.
"Mr. Robot ci dice di ringraziare la legge per averci concesso le dovute vacanze" sentì dire all'improvviso.
Non ci mise molto, lo studente, a capire che si trattava di Shima, e che stava parlando di lui. Avrebbe dovuto provare astio, visto che stava usando un evidente dispregiativo per evidenziare la sua persona, ma in tutta coscienza era lui il primo ad avercela col futuro se stesso. Una maleducazione simile andava al di là di qualunque richiesta di silenzio.
Naoki andò incontro ad una serie di impiegati, tutti tanto diversi che Yusaku rinunciò fin da subito a delinearne i lineamenti. Vide solo l'eleganza dei loro completi che cozzava amaramente con le macchine datate su cui si accingevano a salire.
"Quel maledetto bastardo" esclamò uno "Un modo buono per dirci che, se non avessimo ragione davanti allo stato, manco ci concederebbe di restare a casa!"
"Immagino che dobbiamo ringraziare lo stato pure nell'essere pagati" fece un altro, vicino a Naoki "Se fosse per lui, non ci darebbe un centesimo, quello disgraziato pidocchioso"
Tra risate di scherno e parole infamanti, il nome di Yusaku Fujiki venne vilipeso senza alcuna dimostrazione di grazia da parte dei presenti. Le parole di uno erano il punto di inizio per un altro.
E lui, il vero Yusaku, vittima innocente di quel fuoco incrociato ai suoi danni, non seppe minimamente come reagire. Come prima davanti al nomignolo "Mr Robot", avrebbe dovuto provare qualcosa che parlava di ira, o comunque di ingiustizia nel vedere che tanto coraggio di parole veniva speso solo perché lui non era presente. Ma nel suo cuore, invece, albergava l'inverno della paura: Yusaku era spaventato, e lo atterriva quell'odio che gli altri lanciavano verso di lui senza nemmeno una punta di rimorso. Era terrorizzante sapersi in cima ad una torre di vetro, solo come un cane, mentre chi diceva peste e corna sul suo conto formava un gruppo compatto di uomini che gli augurava tutto il male umanamente possibile.
"Bene, direi che basta così"
E con la solita presa d'acciaio, entrambi tornarono esattamente da dove erano partiti. La rigida morbidezza del suo letto e le coperte ancora pregne del suo calore aggiungevano una patina di irrealtà a quello che si era appena consumato; se il giovane non avesse trovato precedentemente la spiegazione del sogno, si sarebbe scoperto sulla soglia della pazzia.
"Io... cos'era quello?"
"Quello era..."
"Non ti sto chiedendo di rispiegarmi cosa intendi per futuro, ma..."
Non sapeva nemmeno come spiegarselo, non sapeva come formulare in domanda quello che gli attanagliava il cuore. Avrebbe potuto chiedergli 'Perché sono spaventato?' ma di sicuro non sarebbe stato capito.
Quello che invece non sapeva, Yusaku, era che Yusei era capace di comprendere ogni suo sentimento. Era lì proprio per rispondere a tutti i suoi dilemmi.
"Tu sei sempre stato un materialista, ragazzo mio. Non eri ossessionato dal denaro, ma avevi capito fin da subito che chi ha i soldi ha anche il potere. Era una lezione che avevi imparato quando eri ancora un bambino"
Lo studente abbassò gli occhi, nella speranza che l'altro non scorgesse la miriade di emozioni contrastanti che quelle parole avevano risvegliato nel suo animo. Era la crudeltà di chi passava del sale su una ferita ancora aperta.
"Per questo, quando ne hai avuto occasione, hai sfruttato tutte le tue conoscenze per aprire l'azienda informatica che hai visto. Hai incominciato a dedicarti sempre di più al tuo lavoro, hai dimenticato te stesso e le tue emozioni, alla lunga hai perfino dimenticato come si usano. Inoltre hai perso i contatti con gli unici amici che hai mai avuto, e ti sei talmente abituato a stare solo che non hai più voluto nessuno al tuo fianco"
Un viso che aveva dimenticato come si sorride... questo aveva pensato di lui quando Yusaku lo aveva visto chino su un computer. Non immaginava quanto esatte fossero le sue idee.
Tuttavia, non se la sentiva di accettare tutto quello scenario rimanendo impassibile. In sé, avvertì l'inquietudine di una fiamma che, sempre dimentica che i sogni non hanno regole, non riusciva in alcun modo ad accettare un tale imbruttimento della sua anima.
"Io però non sono così... acido! O scortese! Io ho sempre rispettato le persone!"
"Solo perché adesso non hai una posizione di rilievo, e sei invece circondato da persone a cui devi obbedienza e devozione: i tuoi professori di università, i tuoi padroni di casa... non sai cosa sia il potere, non ne hai ancora subito il fascino. Ecco perché parli in questo modo"
Non degnandolo più di uno sguardo, voltò il capo verso la finestra, osservando l'oscurità del cielo con aria meditabonda.
"Adesso devo andare, ho altre persone che mi aspettano" si congedò lo Spirito del Natale Futuro "Tuttavia voglio avvisarti di una cosa: tieniti pronto. Non sono l'unico che vedrai questa notte; lo Spirito del Natale Presente e del Natale Passato verranno da te molto presto" e concluse, con un sorriso sghembo "Sogni d'oro, Yusaku Fujiki"
Riaprì gli occhi e si riscoprì ansante, con la fronte imperlata di sudore e la gola secca.
Ed era nel suo letto, la luce della sua stanza era spenta e, cosa più importante, era solo.
Come doveva essere in quella notte di vigilia.
"Ma cosa mi mangio, la sera, per farmi certi incubi?" fu il suo primo pensiero.
Benché la domanda fosse retorica, si rispose immediatamente: lui non mangiava. E non lo faceva per risparmiare, o per non aprire il frigo e prendere la briga di mettersi ai fornelli. Quella sera, come nelle altre passate davanti al computer, aveva dimenticato che era un essere umano, e tutto quello che il suo stomaco aveva ingerito era una misera tazzina di caffè.
"Forse è questo che mi ha fatto male" si disse tra se e se, mentre si alzava.
Non aveva senso girarsi dall'altra parte e tentare di dormire nuovamente; sentiva che il suo corpo avrebbe protestato vivamente, il giorno successivo, se lo avesse consumato in quel modo sconsiderato. Ricordando di avere da parte un po' di frutta fresca - uno dei regali della loro padrona di casa - andò velocemente nella sua comoda cucina, sbucciò una mela e si mise comodo su una delle sedie intorno al tavolo rotondo.
"Devo stare attento a non esagerare" disse ancora a se stesso, quasi ci fosse alle sue spalle un'agenda pronta a ricordargli i suoi doveri di essere umano.
Di certo con il caffè in corpo era puro miracolo che fosse riuscito ad addormentarsi; una volta un suo amico universitario, iscritto alla facoltà di medicina, gli aveva spiegato che quanto contenuto nel liquido amaro aveva, al suo interno, elementi che dal corpo venivano visti come dei rilassanti: in altre parole, il caffè aiutava a distendere i muscoli. Era il cervello, in quel caso, a percepire la caffeina e ad aumentare l'adrenalina in corrispondenza di quel passaggio; la stanchezza che si provava dopo alcune ore non era quindi dovuta alla mancanza di sonno, ma piuttosto....
Ah, ma chi voleva prendere in giro? Poteva anche mettersi a riflettere sulla composizione chimica del caffè - che comunque non conosceva - e le sue fisime non sarebbero comunque cambiate. Il suo pensiero, al pari di un chiodo fissato ad un muro, sarebbe andato incontro solo e soltanto allo strano sogno che aveva appena finito di vivere.
"Io non sono così... orribile!" si disse con cocciutaggine, per calmarsi.
Ma sapeva che la verità non obbediva alle sue convinzioni . Certo, nel presente era una persona abbastanza civile con cui parlare, ma lo era non solo in ragione di un educazione ricevuta con severità, oltre che per la scoperta amicizia con i suoi coinquilini.
"Io non sono solo, ho Yuma e Yuya" continuò ancora, testardo.
Ma anche questo non era vero. L'unica cosa che aveva permesso a tre persone tanto diverse di stare insieme era quella casa, e Yusaku, prossimo alla laurea, avrebbe ben presto perso il diritto di detenerla; era un alloggio che la padrona concedeva solo agli universitari, e lui per primo non voleva sentirsi di troppo in una situazione che non gli calzava più come un guanto.
Anzi, a pensarci bene lui era sempre stato uno che aveva il terrore di essere di troppo: preferiva prendere le distanze per primo, piuttosto che porsi il dubbio di essere invadente. Con una simile inclinazione, non riusciva difficile credere che avrebbe abbandonato qualunque contatto con Sakaki e Tsukumo, e l'immagine del lui infelice seduto davanti ad un computer, denigrato da lontano, divenne tanto vivida quanto agghiacciante.
"Mi sto facendo troppi problemi per un sogno" ma anche inventandosi altre mille e uno scuse, lui avrebbe sentito qualcosa di pesante gravargli addosso. La trappola che avrebbe rappresentato la sua ambizione.

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Capitolo 3
*** Present - L'uomo che aveva dimenticato la felicità ***


PRESENT - L’UOMO CHE AVEVA DIMENTICATO L’AMICIZIA
 
"Buonanotte, Yusaku Fujiki! Io sono arrivato"
Era andato a dormire con la convinzione che l'ultima minaccia di Yusei non si sarebbe mai concretizzata. Alla fine, i sogni potevano anche avere una trama, ma se interrotti in modo brusco rimanevano senza una fine da ricordare. Quindi non si sarebbe svegliato tutto spaventato per una presenza ignota, aveva pensato, non ci sarebbero state altre interruzioni al suo indispensabile sonno.
"Dai, Fujiki, alzati! Guarda che la notte è giovane, e purtroppo io non ho tutto il tempo del mondo"
Evidentemente si sbagliava.
"Ho capito, mi tocca ricorrere alle maniere forti!"
Quando aveva trovato scortese uno straniero venuto a cercarlo nel suo stesso tetto con pretese incomprensibili, di certo non aveva capito che i suoi colleghi erano di gran lunga peggiori. Se il massimo perpetrato da Yusei era stato un braccio preso con fredda professionalità, questa volta il povero studente si ritrovò privo delle sue amate coperte e ad un passo dal cadere malamente per terra. Strabuzzando gli occhi, si decise a inquadrare chi aveva avuto il coraggio di scoprirlo in una delle notti più gelide dell'inverno.
Rivestito quasi completamente di una mantella rossa, un giovane dall'aria affabile lo fissava divertito con i suoi occhi castani. A dispetto di chi lo aveva preceduto, che aveva in se elementi che lo caratterizzavano come una persona particolare, indimenticabile a suo modo, il nuovo venuto aveva le fattezze di un qualunque passante, e Yusaku stesso si chiese confuso se un giovane diciottenne dai capelli castani era mai apparso nella sua vita.
"Mi presento!" fece lui, sorridendo felice - felice di cosa, poi, non gli era dato saperlo - "Il mio nome è Judai Yuki e sono lo Spirito del Natale Presente"
A quelle parole, suddetto spirito ricevette in cambio uno sguardo leggermente stralunato e molto sorpreso.
"Ehm... Yusei non ti ha avvisato del mio arrivo?" chiese, titubante.
"Certo, ma non pensavo dicesse sul serio!" gli rispose Yusaku, di getto. E non comprese se simile performance veniva dalla rabbia di vedere il suo domicilio violato o dalla tachicardia che minacciava di stroncarlo con un dolorosissimo infarto.
Judai rise di gusto "Si vede che non conosci Yusei! Quello lì non è capace di scherzare purtroppo!" e ponendo la mano "Come te, del resto"
Guardando la mano protesa verso di lui, Yusaku si chiese se le cose sarebbero andate esattamente come nel sogno precedente. Se avrebbe saltato oltre le case e oltre il tempo per giungere dove gli altri avrebbero voluto condurlo.
"Tu sei... lo Spirito del Natale Presente, dunque?" chiese, valutando se davvero i sogni lucidi potevano avere dei sequel. E doveva convincersi che quello era un sogno, perché altrimenti avrebbe annegato il suo progetto di tesi nell'acquario di casa e avrebbe dato inizio ad una spietata caccia agli spiriti fatati.
"Esattamente, sì. E ti mostrerò ciò che accade proprio in questa notte, al di fuori di questa stanza" guardando alla finestra, continuò "Perché il Natale non si può chiamare tale se si è da soli, no?"
"Ma io non voglio festeggiare il Natale" fu la sua risposta.
Ed era una risposta che nasceva dal cuore. Aveva imparato ad odiare quella festa quando era solo un bambino, quando la malvagità del mondo lo aveva investito in pieno e aveva scoperto che non esisteva nessuno, né Babbo Natale né Dio. Esisteva solo l'empirismo, il pragmatismo e tutto ciò a cui era legato il mondo del razionale, del materiale e del concreto. Era proprio per quello che, oltre le dinamiche oniriche, non riusciva ad accettare in nessun modo quello che gli stava succedendo.
Judai distolse lo sguardo dalla finestra, fissandolo nuovamente negli occhi. Nelle iridi color nocciola, vi vide riflesso un sentimento, una strana luce, ma con la sua scarsa conoscenza dell'emozione umana non seppe in nessun modo identificare cosa fosse.
"Non vedere questa notte come una tortura, allora. Il Natale ti avrà senz'altro deluso, ma lui vuole provare a rimediare tramite noi" disse, con tono lieve.
"Se questo non fosse un sogno, direi che il Natale non può avere una volontà"
"E visto che questo è un sogno, posso risponderti che io sono la prova che ti smentisce" replicò l'altro, facendogli l'occhiolino.
La mano dello spirito si rivolse nuovamente a lui "Allora, ti va di provare?"
In quella gentilezza, lontana anni luce dalle maniere spicce dello spilungone che era venuto prima a turbare il suo sonno, Yusaku trovò la ragione per capitolare alla sua reticenza e obbedire a quello che il suo mondo immaginario sembrava chiedergli. Tanto, se stava davvero sognando, cosa sarebbe potuto andare storto? Il peggio, almeno a suo dire, lo aveva appena passato.
Quando Yusaku afferrò la mano di Judai, si ritrovò immediatamente catapultato in una casa che conosceva molto bene. Anche troppo bene.
"Questo è..."
Ma non finì di dirlo che l'altro soffocò la sua voce con un esclamazione entusiasta.
"Via Rue 96, Civico 39. Siamo nell'istituto Saint Luis, ovvero..."
"Il mio orfanotrofio" concluse per lui il ragazzo.
Il luogo in cui era cresciuto, che non vedeva da ben tre lunghi anni. Se quello non fosse stato un sogno, avrebbe notato la grande differenza che intercorreva tra l'edificio insito nei suoi ricordi e quello che aveva dinanzi: l'austerità di un tempo veniva in parte soffocata dal numero esponenziale di piante che, nel corso del tempo, erano state piazzate per riempire desolanti grigi e tristi mortori di terra. Una siepe che, in tempi primaverili, avrebbe conosciuto il profumo gradevole delle gardenie delimitava un ingresso che non aveva nulla della ruggine di un tempo, quella dove Yusaku per poco non ci aveva lasciato la pelle per un violento attacco di tetano. E poi c'era la facciata, quella che doveva incutere timore nei secoli che gravavano su ogni mattone, che parlavano dei tempi passati di cui Yusaku non sapeva o ricordava nulla. Adesso vi erano edera e rampicanti, tutti collocati in modo da alternarsi alle ampie finestre che, oltre al loro leggendario timpano senza fregi, adesso avevano anche gradevoli tende colme di decorazioni floreali.
"Se te lo stai chiedendo" chiosò Judai, intervenendo nelle sue osservazioni "... l'orfanotrofio che tu hai conosciuto ha cambiato gestione l'anno dopo la tua partenza. Il suo nuovo direttore è un uomo di circa venticinque anni, con poca esperienza sulle spalle ma con la ferma convinzione che anche gli orfani hanno il diritto di essere felici"
"Un pensiero encomiabile" gli fece eco Yusaku, e nascose in quel commento ironico il sorriso che si era spontaneamente dipinto sulle sue labbra.
Quanto poteva cambiare, il mondo, in solo un anno. A lui, che non sapeva sorridere e non ricordava come i bambini socializzassero, gli era stato detto fino alla nausea che non sarebbe mai stato adottato, e che senza una famiglia ad accoglierlo non sarebbe mai stato felice.
Uno dei motivi per cui aveva tanto voluto una borsa di studio, oltre al più pragmatico desiderio di formarsi e divenire qualcuno, stava nella necessità di scappare da un simile mostro che distruggeva illusioni fanciullesche.
"Avrei voluto conoscerlo prima, questo grand'uomo" gli scappò, mentre ci rifletteva.
"Ah, non saprei. Penso che tu abbia ragione. Personalmente non so come funzione in un orfanotrofio, questa è la prima volta che ne visito uno"
Il ragazzo lo guardò sorpreso.
"Che c'è? Ti sorprende tanto che lo Spirito del Natale Presente abbia avuto dei genitori?"
"Onestamente sì"
Ma non approfondì oltre, dato che quello era comunque un sogno, e in qualche logica onirica poteva effettivamente essere normale che le creature ectoplasmatiche avessero un parente o due a cui fare riferimento.
"Non sono stati il meglio che si possa augurare un ragazzo" stava intanto dicendo Judai "... ma, a modo loro, mi hanno voluto bene. Certo erano molto severi... anche se li posso capire"
"Sei la prima persona da cui lo sento dire" disse Yusaku - e lo diceva in virtù di quei mille giovani che non arrivavano a comprendere la fortuna di cui disponevano, ed erano bravi solo a lamentarsi delle mille limitazioni imposte dai loro parenti.
"Beh, sarei una bestia se non fosse il contrario" se ne uscì l'altro ridendo "D'altronde, solo dei genitori senza cuore non avrebbero reagito alle mie... marachelle"
Lo sguardo dello studente si fece sospettoso
"Beh, non proprio marachelle... diciamo che una volta ho rischiato di incendiare la scuola; poi c'è stata quella volta in cui sono quasi morto giocando vicino al vulcano dell'isola e anche quella in cui avevo dato retta ad uno sconosciuto e sono stato quasi rapito, e quella in cui ho quasi ammazzato un professore con la mia cartella..."
La bocca di Yusaku si sarebbe spalancata in modo grossolano, se non avesse avuto abbastanza autocontrollo da soffocare il senso di gelo che quelle parole stavano risvegliando.
Altro che severità, per cose simili quel ragazzo avrebbe meritato la galera!
"Ehi, non guardarmi in questo modo!" esclamò quello, ad un certo punto "Sbagliare è umano, e io sbaglio molto spesso"
"Non si era capito, guarda..."
"E secondo te che ci sto a fare qui, alla vigilia di natale, con un musone come te!?"
Se Yusaku fosse stato più incline all'umorismo, avrebbe trovato quella situazione parodica estremamente divertente. Magari avrebbe anche deriso quel povero disgraziato, affermando i pro e i contro di una detenzione che evidentemente gli era stata condonata in servizi per la comunità da sbrigare in giorni scomodi dell'anno. Se quello fosse stato un sogno più illogico, forse lo avrebbe veramente fatto.
Ma se era un sogno, era uno di quelli lucidi, dove al ragazzo rimaneva intatta la facoltà di ragionare con raziocinio e cautela. E dunque, nascondendo tutti i suoi sentimenti, fece cenno alla struttura che ancora sostava innanzi a loro, le luci accese come in un segno di benvenuto.
"Ah, hai ragione!" esclamò quello, battendo le mani "Non ho molto tempo, e lo sto buttando così... ma vieni, entriamo!"
E si era aspettato che, parimenti al collega che lo aveva preceduto, lo avrebbe afferrato malamente per condurlo esattamente dove doveva guardare.
Invece, precedendolo di pochi passi, l'unica cosa per cui usò la sua mano fu per incitarlo a seguirlo, indicando il portone d'ingresso.
Yusaku sapeva che quello era solo un sogno, ma fu felice di vedere tanto riguardo nei suoi confronti. E, soprattutto, tanta delicatezza nel lasciargli la terra sotto i piedi.
Quando Judai Yuki aveva fatto riferimento al cambio di gestione, Yusaku aveva semplicemente deciso che il nuovo direttore, più attento ai bisogni umani di un branco di bambini scartato per varie ragioni dalle loro famiglie, avesse adattato un luogo evidentemente angusto in uno più grazioso in cui condurre una misera infanzia.
E invece, al contrario dell'ottica del precedente proprietario, il mondo che si presentò al ragazzo aveva le tinte dei bambini felici. Al muro erano stati dipinti alberi e foreste incantate, alcune mani inesperte avevano ricoperto le fronde di impronte fosforescenti, e il tutto stava a significare che quelli non erano reietti, tanto meno abbandonati: erano frutti che stavano maturando, e che la gente avrebbe trovato già con un sorriso sulle labbra.
Era un pensiero quello che maturava nella mente del ragazzo.
"Come sarebbe stata la mia vita, se quest’uomo fosse arrivato prima?"
"Ti ringrazio per la stima che hai dei miei poteri, ma purtroppo non posso spingermi così lontano"
Ci rimase di stucco, il ragazzo, quando si rese conto di aver dato voce a ciò che era solo una triste elucubrazione. E per giunta di quelle più imbarazzanti.
"Lo dicevo giusto per dire" tentò di aggiungere, correggendo il tiro. Non sapeva il perché, ma la sola idea di apparire fragile e debole gli faceva scattare interiormente un meccanismo di autodifesa, che imponeva la sua inflessibilità e la sua indifferenza come cardini della sua maschera principale alla visione del popolo.
E comunque Judai non gli credette manco mezzo secondo. Yusaku lo comprese dal sorriso che gli lanciò, un sorriso che non aveva mai visto sul volto di chi gli stava di fronte: comprensione, e simbolica empatia a condivisione di qualcosa che non si voleva offrire, ovvero una spalla su cui piangere.
"In realtà non era nelle ambizioni di quell'uomo diventare quello che è ora" disse, come se fosse qualcosa di irrilevante, un pettegolezzo da confidare quando si è in una sala d'attesa, dal proprio medico "Semplicemente la vita gli ha lanciato un segnale, e lui ha deciso di obbedirvi"
"Quale segnale?" si ritrovò a chiedere Yusaku, quasi contro la sua stessa volontà.
"Vedi... lui aveva - no, ha, perché la ragazza è viva e vegeta, e gode di ottima salute - una sorella più piccola. Dieci anni di differenza se non ricordo male" e si mise l'indice sul mento, a indicare elucubrazioni su cui stava spendendo più tempo del previsto.
"Non sono fratelli di sangue" continuò dopo un po' - il tempo di accedere alle scale dell'atrio e arrivare al primo piano, quella che Yusaku ricordava come la sala delle conferenze (un luogo tristissimo dove il direttore riuniva tutti i bambini per dire cosa era giusto e sbagliato pretendere dalla vita, un buon modo per ricordargli quanto in fondo fossero nella piramide sociale) "Il padre di lui si era infatti risposato con la madre di lei, e loro si erano incontrati ed erano diventati fratelli in questo modo. Ma, sebbene lui si sia subito affezionato alla piccola, e lei abbia visto quel fratellone che desiderava fin da quando era nata, la sorte non è stata dalla loro: i genitori morirono in un naufragio proprio nel loro viaggio di nozze e... la loro vita cambiò drasticamente. Con i parenti avvoltoi che si dilapidarono il patrimonio, al giovane non rimase nulla."
"Quindi finirono entrambi in orfanotrofio?" ormai Yusaku non ci provava nemmeno più ad apparire disinteressato.
"Magari, almeno avrebbe avuto la sorellina al suo fianco" fu la triste risposta "Purtroppo lui era già maggiorenne, quando accadde il fattaccio, e senza un soldo, una casa, un lavoro o un parente a prendersi l'onere di averli a suo carico, la piccola fu presa dai servizi sociali, e solo lei finì in orfanotrofio. Questo, tanto per intenderci"
A quell'accenno, il ragazzo tentò di fare mente locale per ricordarsi di una bambina con un trascorso tanto triste. Uno sforzo che durò meno di due secondi, perché subito lo investì la consapevolezza che, anche ad averla incontrata, il suo terrore passato nei confronti del prossimo, evolutosi poi in misantropia, non gli avrebbe permesso di creare legami abbastanza stabili da concedergli robusti ricordi.
Aveva solo una conclusione da fare "Per lei sarà stato un inferno, allora"
Judai annuì "Questo posto è la vendetta dell'uomo ad un destino che lo ha privato dell'unica persona che gli era rimasta. Visto che non poteva averla in affido, ha fatto di tutto per esserle vicino in ogni altro modo"
Sorrise, lo studente, al pensiero di un amore così fraterno e delle prove che avevano dovuto passare.
Judai, frattanto, aveva fatto cenno al giovane che, in virtù del suo ruolo di fantasma, aveva di conseguenza dato a Yusaku la sua stessa impercettibilità. "Non sai che forza passare attraverso i muri" aveva commentato, quando aveva fatto avanti e indietro tra le ante chiuse della porta, quasi ad evidenziare un senso di onnipotenza che forse altri fantasmi non avrebbero mai espresso. Evitando di pensarci - e di fare domande, perché ormai aveva capito che Judai aveva lo sgradevole vizio di dilungarsi sulle cose disparate che conosceva - seguì il suo esempio e, nell'immediato, si rese conto degli effetti benefici del nuovo direttore.
La sala delle conferenza era ora una grandissima sala da pranzo, colorata nei toni pastello del giallo e dell'arancione. Il grigiore del male era stato sostituito dalla solarità dell'infanzia, sottolineata da chi desiderava seriamente il bene dei suoi protetti.
Ma Yusaku non pose attenzione al mondo che lo circondava, alle vivande invitanti che spargevano per il grande stanzone odori invitanti che cozzavano tra di loro.
No, lui guardava i bambini adoranti che circondavano una figura vestita rozzamente di rosso, che imitava malamente l'andatura claudicante del vecchio Santa Claus.
Lui quel Babbo Natale lo conosceva. Ci aveva passato solo due anni della sua vita, assieme, ma lo conosceva davvero bene.
I maldestri tentativi di invecchiamento sperimentati da Homura Takeru non andavano oltre alla scelta dozzinale di una parrucca candida e di una barba ingiallita per l'uso e l'incuria. Lui stesso la lisciava con la mano libera, in una recita ben consolidata che, mentalmente, accompagnava con piccoli gesti rituali.
Era cambiato enormemente quello che lui ricordava come un bambino triste, incapace di accettare la morte dei propri genitori e spaesato nel mondo degli adulti, dominato da leggi che gli avevano impedito di tornare a casa perché persone autorevoli avevano decretato che solo a seguito di numerosi controlli i suoi nonni sarebbero stati degni di riceverlo nella loro vita.
Controlli che erano andati avanti per ben due anni.
Takeru appariva alto e sottile, nonostante il costume si sforzasse di evocare bel altra tonicità; doveva aver usato un cuscino per far apparire il suo ventre gonfio e sproporzionato, e l'unico risultato che aveva ottenuto era quella di far ridere con quell'elemento stonante su un fisico asciutto e mingherlino.
Homura Takeru, che non faceva altro che piangere.
Homura Takero, che ce l'aveva sempre con i grandi.
Homura Takeru, che stava a poco a poco perdendo la speranza di un futuro migliore.
Quello stesso bambino che gli aveva strappato la loro amicizia di mano, come di un gioco del quale si è stanchi, adesso sostava al centro di un mare di ragazzini, e rideva del ludibrio che sapeva creare su di se e per se.
Lo aveva riconosciuto fin da subito, ma doveva confessare che, al tempo stesso, faticava ad ammettere che fosse proprio lui.
"Andiamo, ora come puoi dirmi che odi il natale, con tutta questa atmosfera?!"
Judai aveva spalancato le braccia perché trovava superfluo indicare solo i bambini, o solo l'albero di natale, o i pacchettini che tutti stringevano tra le mani, o il sacco con cui Takeru li distribuiva con generosità. Era tutto l'insieme delle cose belle a rendere il natale degno di essere vissuto e Yusaku, se quello non fosse stato un sogno, avrebbe detto che l'unica nota stonata di quel quadro era il non essere partecipe dell'ilarità collettiva.
Ma era un sogno, e in quel sogno lui non andava oltre l'inquietante parvenza dei guardoni, di quelli che pretendono la quotidianità altrui senza averne il legittimo permesso.
Fu forse per questo che non degnò lo spirito di una risposta, limitandosi ad avvicinarsi a quel ragazzo tanto simile e tanto distante a ciò che era stato - o a ciò che avrebbe potuto essere - il suo primo e vero amico.
Egli si era allontanato, nel mentre dei stralunati vaneggi di Judai, e mentre quest'ultimo aveva preso ad esaltarsi per ogni segno lasciato dalla natalità, Takeru aveva preso congedo dal suo ruolo di Babbo Natale per avvicinarsi ad un uomo che, fino a quel momento, Yusaku aveva notato come aveva notato i dettagli del convivio. Ovvero senza alcuna attenzione particolare.
"Ti ringrazio per quello che hai fatto, Homura-kun" stava dicendo, e Fujiki li sentì a stento per via del gran chiasso che i bambini producevano "Non eri tenuto a farlo, eppure..."
"Lo sa che per me è un piacere" lo aveva interrotto l'altro "Mi fa stare bene. E far divertire i bambini, penso, è la cosa più bella che gli adulti possono fare"
Hai cambiato vedute rispetto ad una decina di anni fa, avrebbe voluto dirgli Yusaku, che lo ricordava in una filosofia ben diversa. Per ovvie ragioni, fu costretto a tacere.
"Piuttosto" continuò lui, ignorante su chi gli stesse accanto in quel momento "Per caso è riuscito a contattarlo? Ha avuto sue notizie?"
Non aveva fatto nomi, ma sembrò non essere necessario. Almeno, non per il nuovo direttore.
"Mi dispiace, ma ancora non ho avuto nessuna notizia dalle mie fonti. L'unica cosa che so per certo è che ha iniziato a frequentare una delle università di Miami, anche se non so quale"
Non seppe dirlo, Yusaku, cosa provò alla consapevolezza che si stava parlando di lui. E non era vanagloria pensare a se stesso, perché chi altri, da quella struttura, si era spinto tanto in là con le sue ambizioni?
In un piccolo angolo remoto della sua testa, sperò vivamente che le voci dei due uomini si unissero per descrivere la sua mancanza.
"Lo immaginavo" disse Takeru, con un sorriso triste "D'altronde, lui è sempre stato così"
"Mi dispiace" ripeté ancora l'uomo impettito al suo fianco "Tu mi stai aiutando tanto, e per te non sono capace nemmeno di fare una cosa così semplice"
"Se è di Yusaku Fujiki che si sta parlando, allora sono abbastanza sicuro che la cosa non può essere così semplice"
E lì ogni dubbio venne via.
"Devo confessarle, però, che io ho paura" ammise, dopo alcuni secondi di silenzio, intervallato dalle risate dei bambini. "Ho paura di non riuscire a ritrovarlo. Ho paura di lasciar passare troppo tempo... e lui cosa avrà, di me? Quale ricordo serberà di me?"
Quello di un bambino che, per non soffrire, aveva scelto di far soffrire gli altri.
Un pensiero crudele e perfino peggiore, nella prospettiva che, per chissà quale recondita ragione, quel ragazzo che aveva infranto tutte le sue speranze di amicizia, così come la sua fiducia nel costruirsene di nuove, adesso mostrasse pentimento e perfino desiderio di rivederlo.
Non lo avrebbe ammesso, Yusaku, neppure in quel posto che era solo onirico, ma avrebbe voluto conoscerlo il pensiero che aveva scatenato in Takeru un simile cambiamento.
Ma non venne accontentato, ovviamente. Dopo un breve cenno d'intesa, il ragazzo tornò ad essere Santa Klaus e, con un sorriso ai bambini, affermava di dover tornare sulla sua slitta, nel cielo, per consegnare agli altri bambini buoni i doni che aspettavano negli enormi sacchi accanto alle renne.
"Possiamo andare?" era stato Judai a chiederlo, con una strana luce negli occhi.
Non dubitò nemmeno per un secondo, lo studente, che quel ragazzo avesse sentito e visto ogni cosa. Perfino i suoi più reconditi ansimi mentali.
Lui annuì, e lo anticipò porgendogli la mano con cui avrebbe permesso il compiersi della solita magia.
Un lieve strattone e si ritrovò nuovamente nella sua camera, tra le coltri della sua angusta stanzetta.
Judai lo aveva lasciato solo, e doveva confessare che gli dispiaceva. Perfino Yusei si era intrattenuto con lui, aiutandolo a venire a patti con quella pantomima di futuro che lui non considerava degno di vivere.
Avrebbe voluto rassicurazioni.
Avrebbe voluto consolazioni.
Sebbene quello fosse un sogno, Yusaku sentiva la necessità di sentirsi dire che era tutto vero. E che tutto sarebbe andato bene.
Nell'ironia che stava caratterizzando quel natale, vi era dunque anche la necessità di essere un bambino, un pargolo tremante che doveva essere condotto per mano nei meandri in cui rischiava di perdersi. Nel suo caso, erano quelli del pensiero.
Non sapeva, Yusaku Fujiki, come definire quella notte. Non gli mancavano i sinonimi della parola strano, ma in quello strano Yusaku non veniva a patti se trovarci del buono o del maligno.
In particolare per quel particolareggiato presente, non sapeva come prendere l'improvviso ravvedimento di Homura Takeru.
"Come mai avete litigato?"
Sobbalzò nel letto, lo studente, prima di rendersi conto che era soltanto Judai. Si era creduto solo, e invece quel ragazzo stava semplicemente frugando chissà dove nella sua cucina. Alla ricerca di qualcosa da scroccare, probabilmente - lo dedusse dal lento movimento della mascella che ancora assaporava le briciole di ciò che era stato trafugato.
Ignorando il batticuore per quello spavento, -e la rabbia che la sua avidità stava lentamente risvegliando - decise che la cosa migliore fosse rispondere alla domanda - assecondare il sogno.
"Non te lo chiedo nemmeno come tu faccia a saperlo... ma non abbiamo litigato. Non nel senso autentico del termine"
"Esiste un altro modo per intendere un litigio?" chiese il castano, evidentemente dubbioso.
"Come posso dirtelo... Non c'è mai stato quel momento in cui si è scatenata la nostra rabbia. Non ci siamo rinfacciati i nostri errori. Non abbiamo mai urlato l'uno contro l'altro, dicendo cosa stavamo pensando in quel momento"
E forse proprio per questo il loro legame si era così deteriorato col tempo.
Stando con Yuya e Yuma, Yusaku aveva ben presto compreso cosa davvero alimentasse l'amicizia. Per assurdo, quello a cui era meno avvezzo: la parola.
Ovviamente il sentimento aveva prioritaria importanza, e i gesti servivano per esplicarlo in maniera sincera, ma erano le parole a spiegare ogni dettaglio del pensiero, a chiarire un equivoco, ad esternare un disappunto. Tacere significava solo accumulare rancore e, nell'accumulare, tutto ciò che si guadagnava era l'odio.
Diminuiscono i gesti di affetto, la disponibilità dell'amicizia, e in breve anche una grande vicinanza diviene null'altro che cenere.
Era ciò che lui e Takeru avevano vissuto.
"Ci siamo incontrati quando avevo all'incirca sette anni" spiegò "Venivamo entrambi dalla stessa situazione, e la stavamo affrontando senza un adulto che avesse la giusta spiegazione alla nostra tristezza"
Senza genitori, senza casa, senza identità. Per due anni Yusaku Fujiki aveva seriamente creduto di aver trovato l'unica persona che non cercasse in lui qualcosa di guasto, qualcosa di mal funzionante. Che lo vedeva semplicemente come un bambino silenzioso, e non come un malato di mente affetto da mutismo elettivo.
"Quando gli psicologi dell'istituto iniziarono a vedere segni di miglioramento in me, attribuirono subito la causa alla mia vicinanza con Homura. Avevano ragione, credo. Lui era... quello che ha visto il peggio di me, e che nonostante questo è rimasto al mio fianco"
"Capisco, sai?" chiosò Judai, con un sorriso di comprensione sul volto fanciullesco "Anche io ho conosciuto persone così, che mi hanno fatto dimenticare tutti i guai in cui sono capitato"
Nel futuro, quegli stessi psicologi che avevano fatto pronostici tanto favorevoli in merito alla sua guarigione, rimasero delusi nello scoprire che tutto si era annullato nei giorni a seguire l'allontanamento del suo amico.
"Lui aveva ancora una famiglia a cui tornare" continuò il suo racconto Yusaku "I suoi nonni avevano lottato per due anni con gli assistenti sociali, ma alla fine riuscirono a spuntarla, e il tribunale li ritenne idonei a prendersi cura di lui"
Era stata una semplice malattia cardiaca a complicare qualcosa di incredibilmente semplice. Un malanno che aggravava la salute del vecchio Homura, e che avrebbe potuto ucciderlo nel momento meno prevedibile. Qualcosa di tanto vicino ad un trauma da rendere ostico il riavvicinamento al loro unico nipote.
Fu a quel punto che, nel volto del fantasma, di dipinse un espressione di sgomento.
"Tu ce l'hai con lui... perché se ne è andato? Perché ti ha lasciato indietro?"
Vi era delusione nel suo sguardo, quasi il constatare la sua avidità lo svalutasse ai suoi occhi.
"Ti mentirei se dicessi che non ero geloso, o che non lo invidiavo per avere una vera casa, un vero letto, una vera famiglia a cui tornare. Tutti gli orfani lo desiderano, e avrei venduto l'anima per avere il suo posto anche solo per un minuto. Ma odiarlo per questo... per chi mi hai preso?"
L'accusa era tanto grave da meritare il suo sconcerto e la sua rabbia. Significava declassarlo al semplice rango di un inetto che non sa quali cose deve aspettarsi dalla vita.
"Non è questo che ha rovinato il nostro rapporto. Semplicemente abbiamo iniziato a sentirci sempre di meno, fino a smettere del tutto. Se parli dell'essere lasciato indietro... sì, in questo caso è proprio così che mi sono sentito"
Una semplice parentesi di una triste infanzia, un modo banale per ingannare il tempo che trascorreva senza la sua famiglia. Per anni - fino a poco prima di quel sogno - Yusaku aveva sempre ritenuto questo il pensiero di Takeru, perché quando le cose avevano iniziato a peggiorare, quando il mutismo peggiorò all'affiorare dei primi segni di balbuzie, per fortuna scomparsi col tempo, quando i peggiori sintomi della Sindrome da Stress Post Traumatico avevano iniziato a ledergli l'anima... lui semplicemente non c'era stato. E non bastava ripetersi che era normale che avesse una vita a cui pensare, che non poteva dedicargli ogni momento della giornata, che non avevano nulla in comune a parte l'evento scatenante di ogni rovina; lui di quel silenzio aveva sofferto, e aveva continuato a soffrire fino al punto da screditare l'amicizia a mero orpello per persone felici.
Perché non c'erano scuse alle mancate risposte, ai mancati appuntamenti, alle mancate visite che aveva subito per troppi anni. Aveva smesso di cercarlo il giorno in cui, andato a casa sua grazie ad un permesso speciale che aveva sudato ad ottenere, si era sentito dire che non c'era, e invece lo aveva sentito poco dopo ridere di gusto dalla sua camera, situata non abbastanza in alto.
"Sono sicuro che ci sia qualcosa di giusto da dirti, in questo momento... ma purtroppo, per quanto sia bravo a parlare, in situazioni come questa faccio schifo"
E si grattava la nuca, Judai, quasi imbarazzato dal suo decifit. Yusaku lasciò correre un sorriso, che quasi venne scambiato per una smorfia.
"Non sono certo nella posizione di criticarti, Judai-san"
E non vennero altre parole, l'imbarazzo rotto solo dal ticchettio di un orologio disperso nella casa.
"Direi che il mio lavoro qui è finito" disse il fantasma, avviandosi verso la finestra "E anche se non c'è bisogno che io te lo dica... non tirare sospiri di sollievo, perché deve ancora venire il Fantasma del Natale Passato"

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Capitolo 4
*** Past - L'uomo che aveva dimenticato il dolore ***


PAST – L’UOMO CHE AVEVA DIMENTICATO IL DOLORE

 
Spalancò gli occhi, Yusaku, inconsapevole se quello fosse ancora un sogno o il mondo reale.
Ne aveva abbastanza di quei falsi risvegli, vissuti troppo a lungo in quella notte che stava certamente segnando la sua psiche. Se avesse potuto parlare con la dovuta onestà nei confronti di Judai, gli avrebbe fatto presente che sicuramente aveva compreso meglio se stesso da quelle visioni allucinogene, che avrebbe imparato a comportarsi più umanamente e più civilmente e che per il resto poteva anche andare a dormire perché il giorno dopo doveva assolutamente completare il progetto informatico che aveva in corso.
"Hai così tanta paura di me?" disse una voce
Ma ovviamente non poteva essere accontentato. Ed evidentemente si trovava nell'ennesimo sogno, visto che, a poca distanza dal suo letto, un buffo ragazzino dal timido sorriso e dal viso efebico gli faceva un lieve cenno di saluto con la mano.
"Cioè..." aggiunse, con voce leggera "Non dico che tu debba avere paura di me" e indicò se stesso, come a sottolineare che uno come lui, esile come un fuscello e magro da far spavento, non aveva la forza di far del male nemmeno ad un gattino "... ma di quello che rappresento"
Yusaku non rispose, a quella provocazione. Perché altrimenti avrebbe dovuto dire che aveva ragione. Maledettamente ragione.
"Il passato è quello che dice di essere; passato. Non capisco la sua utilità"
Era il suo disperato tentativo per scacciarlo - e se quel fantasma avesse avuto tratti più virili e meno empatici, o se lui fosse stato maggiormente crudele, lo avrebbe scacciato con la minaccia di un esorcismo alla luce di una luna inesistente.
"Il passato ci definisce, è quello che ci rende ciò che siamo. Senza un passato non abbiamo un futuro. Nel tuo caso, senza un passato, avrai un futuro discutibile" poi, come a ripensarci "Cioè, non è che dica che tu sia una cattiva persona, però..."
"Lo diventerò" tagliò corto Yusaku, nel malcelato tentativo di nascondere la sua inquietudine "E visto che sono stato avvertito di questa minaccia, puoi anche andare a tormentare qualcun altro"
Il fantasma non rispose. Tutto quello che fece fu porgere la sua mano destra.
"Io sono Yugi Muto, il Fantasma del Natale Passato. E il mio compito, questa notte, è quello di mostrarti ciò che ha reso questa festa qualcosa di terribile e funesto"
"Un buon modo per rovinarmi la notte? Un buon modo per rovinarmi la vita!?" gridò, spaventato persino se stesso.
Yusaku non urlava; Yusaku era sempre padrone di sé.
Ma non in quel frangente, non davanti a quella minaccia che era diventata esplicita. Non davanti a quella proposta che sembrava non avere il potere di rifiutare.
"Lasciami in pace, ti prego..." un ringhio che era anche una supplica, un concentrato di emozioni che lo stesso cuore dello studente si rifiutò di analizzare.
Ma Yugi non demorse.
"Credimi, è l'ultima cosa che voglio, quella di farti del male. E in circostanze normali cercherei di alleviare il tuo dolore, mostrandoti qualcosa che non possa ferirti. Ma è necessario che tu lo veda"
"Cosa?!" urlò Yusaku.
"Ciò da cui stai scappando. Il tuo incubo perenne"
Ciò che gli aveva dato quel fastidioso mutismo; la claustrofobia; le nottate insonni; il timore del prossimo.
La mano era ancora dinanzi a lui, in attesa di essere afferrata.
"Non sarai da solo, in quella notte. Ci sarò io lì con te"
Non seppe perché, ma quelle parole ebbero il potere di placare la sua furia, di dominare il suo ego ormai uscito da ogni binario. La mano divenne meno minacciosa, Yugi meno molesto.
"Non ho davvero altra scelta?" chiese, in un ultimo tentativo.
"No, se vuoi andare avanti in un modo diverso da quello che hai visto"
E forse fu la figura di un uomo che aveva dimenticato come si sorride, forse fu l'idea che l'ennesima fuga da quelle ombre iniziava a farlo disgustare di se stesso.
"Perché è dal buio che vengo. Ed è al buio che ogni tanto devo tornare"* si disse mentalmente.
Prese la mano del ragazzo, odiandosi per aver fatto tante storie prima di accettarla e detestandosi per non essere riuscito a rifiutarla.
Yusaku Fujiki non entrava in un bosco dall'età di otto anni. Quando ne aveva dieci, i bambini dell'orfanotrofio avevano avuto l'eccezionale opportunità di visitare una pineta, ma lui fu l'unico a non unirsi al loro gaudio. Arrivato lì, fu preso da un attacco di panico tanto violento che i suoi insegnanti furono costretti a mandarlo al pronto soccorso.
La motivazione l'aveva davanti agli occhi.
Lui non aveva paura delle foreste, o dei cespugli radi, o della terra molle. Non aveva paura nemmeno degli alberi secchi e spogli, quelli che alla luce delle stelle sembrano arti decomposti di un essere umano.
No, lui aveva paura dei boschi perché, ogni volta che vi entrava dentro, ci trovava sempre l'ennesima illusione.
"Siamo arrivati"
Ma lui non lasciò la mano di Yugi. E Yugi comprese.
I sei caseggiati che stavano dinanzi a loro non avevano nulla di sospetto; erano innocue costruzioni di acciaio che sorgevano dalla terra, che non avevano finestre ed erano eccessivamente piccole per essere abitate.
Eppure lì dentro si nascondeva l'orrore più profondo, quello che aveva segnato Yusaku per tutta la sua vita.
"Andiamo?" fu la domanda di Yugi "Ricordati che questa volta ci sono io. Non ti lascerò andare"
E, a conferma di quella promessa, la stretta alla mano divenne più forte, più infrangibile.
Avrebbe voluto ringraziarlo, per questo, avrebbe voluto affermare quanto importante fosse la consapevolezza di non essere solo - o forse avrebbe urlato, Yusaku, perché alla fine il suo cuore sanguinava solo per l'ostinazione di quel fantasma.
Ma non fece nulla di tutto questo. Non ne aveva il potere, perché la sua bocca sembrava aver perso ogni singola goccia di saliva. E forse aveva perso anche il sangue, perché l'improvviso freddo che avvertì gli fece credere di avere il gelo nelle vene.
"Coraggio" disse ancora il ragazzo, sospingendolo nel centro nevralgico del suo inferno.
Yusaku si ritrovò dentro prima ancora di comprendere di aver camminato.
Non c'era nulla, in quella stanza. Non c'erano giochi, non c'era la TV, non c'erano poster. Non c'era nemmeno un letto, o un cuscino, o un peluche. C'era una coperta, ma era logora e stinta, tanto che il colore originario era ormai del tutto indefinibile.
Eppure quella era la stanza di un bambino.
Stava al centro della stanza, il volto segnato dalle lacrime. Le mani e i piedi erano scorticati dalle catene, tintinnavano mentre il piccolo iniziava leggermente a muoversi sulla sedia nella quale era costretto a trascorrere ogni singolo minuto della sua giornata. Numerose flebo attaccate al braccio gli impedivano di morire di stenti, ma gli impedivano anche di dormire, di ricordare e di restare lucido. Attaccate alle tempie, numerosi elettrodi carichi di energia statica
Sugli occhi, un velo di tristezza, di solitudine. E la consapevolezza che in quel freddo natale Babbo Natale non sarebbe mai venuto a trovarlo.
Yusaku cadde bocconi al suolo, avvicinandosi a quel bambino. Rivisse il dolore pungente al braccio - vi ritrovò le cicatrici che era sempre costretto a nascondere per evitare sconvenienti equivoci - il dolore alla testa causato dalle scariche elettriche, la fame pungente, il bruciore agli occhi.
E il cuore gli esplose nel petto, perse il suo sangue e smise di battere. Dimenticò persino di respirare.
"Sta tranquillo, Yusaku. Ci sono io accanto a te" disse Yugi. Ma la sua voce era già coperta dalle lacrime, l'empatia a giocargli un triste ruolo di spettatore commosso.
Yusaku spettatore non lo era. Lui guardava, ma in quel guardare lui viveva tutto ciò che aveva vissuto, tutto lo strazio di un bambino che dimenticava la speranza e la felicità. Si perse in quelle verdi iridi che non avevano più nulla, nemmeno la vita, e la vita la perse pure lui, perché non volle andarsene ma non volle nemmeno più subire.
Lui lì ci era rimasto sei mesi, ma non avrebbe mai saputo dirlo con esattezza. Il tempo si era dilatato, senza un astro a definirlo, e per lui quelle interminabili ore erano diventate un'eternità, un supplizio che non doveva avere mai fine.
E nella sua mente si chiedeva perché tutto ciò accadeva proprio a lui, cosa aveva fatto di tanto brutto da meritare una simile punizione. Si chiese se dipendeva dal fatto che, qualche giorno addietro, o chissà quanto tempo fa, aveva rubato una bella penna dallo studio del direttore. Si chiese se Dio lo avesse punito per quel crimine, e se fosse un monito per non barare mai più nella sua vita. O forse lo puniva per quella volta in cui era entrato di nascosto nello studio dove gli insegnanti preparavano le loro lezioni, e si era messo a smanettare col computer fino a quando l'alba lo aveva sorpreso addormentato sulla tastiera.
Il prete glielo diceva ogni domenica, d'altronde, che ogni atto malvagio doveva essere punito, che Dio i bambini cattivi non li voleva con se, che quando si comportavano male li mandava direttamente all'inferno. E diceva anche che i bambini destinati all'orfanotrofio erano sicuramente i più malvagi, perché non avevano una mamma ed un papà a volergli bene, e quindi dovevano essere stati così cattivi che nemmeno loro avevano potuto sopportare la sua esistenza.
Allora forse Dio lo aveva punito perché era cattivo. O forse perché lo sarebbe diventato.
Ma se Dio puniva per qualcosa che non aveva ancora fatto, perché il prete diceva che Dio era buono e misericordioso? Lo aveva forse voluto lui, essere orfano?
Al pensiero di ciò, Yusaku smetteva perfino di pregare. Perché, se quella punizione l'aveva scelta Dio, allora quasi certamente non sarebbe venuto a salvarlo.
"Basta così"
Il bambino divenne nebbia, e infine scomparve.
Yusaku non piangeva da ben quindici anni.
Lo aveva fatto di continuo, durante il periodo della sua reclusione, ma in seguito aveva completamente smesso di far fluire le sue emozioni negative attraverso le sue lacrime. Alcuni medici dicevano che aveva smesso di essere empatico - anche se lui, all'epoca, non sapeva nemmeno cosa significasse - altri che aveva deciso di rinchiudere il suo cuore in un'armatura fatta di neutralità e indifferenza.
Invece lui, semplicemente, aveva solo deciso di cancellare a viva forza quei ricordi dalla sua mente. Avrebbe smesso di provare dolore, tradimento, rabbia e odio, e poco importava se, cancellando quei sentimenti avrebbe cancellato anche tutto il resto.
Ma in quella notte Yusaku era tornato bambino, ed era il bambino che non aveva ancora fatto voto di penitenza verso ogni sua emozione. Era il bambino che ancora si chiedeva cosa avesse fatto di sbagliato, che chiedeva scusa a Dio e gli prometteva di fare il bravo, che desiderava sentire qualcuno, un qualsiasi qualcuno solo per essere cosciente di non essere solo. O peggio, di non essere solo con Dio.
Yusaku quella notte pianse. Per se stesso, per quello che aveva subito, per quello da cui non era mai guarito. Pianse perché nessuno aveva avuto un briciolo di umanità per un ragazzino di sette anni abbandonato a se stesso, tra patimenti che avrebbero ammazzato anche un adulto. Pianse perché il male aveva nuovamente scavato nella sua mente, nel suo cuore, bruciava la logica alla quale si era votato e distruggeva tutto ciò che aveva una parvenza di felicità.
Yusaku pianse tutto quello che aveva serbato per quindici anni, perché la magia di quella notte gli aveva permesso di affrontare quello che, in fondo alla sua mente, aveva sempre cercato di negare: la violenza, il male, l'infelicità. Era stato come ricordarsi di essere umano, di esserlo stato e di essere caduto in malo modo al suolo, senza alcuna mano ad aiutarlo a rialzarsi.
Yusaku, quella notte, riscoprì il dolore. Riscoprì quelle emozioni che aveva dimenticato da tempo.
"Mi dispiace"
Non ebbe bisogno di aprire gli occhi, o di muovere le palme nelle quali nascondeva i suoi gemiti, per comprendere che al suo fianco, seduto sul suo misero letto, c'era lo stesso fantasma che aveva riaperto la più grande ferita celata nel suo cuore.
E non era il solo a piangere quella notte. Gli occhi ametista del fantasma nascondevano, nel rossore, il dolore riflesso che aveva subito da un ricordo tanto inglorioso.
"Lo dici come se fossi stato tu a rinchiudermi lì dentro" la sua voce era un bisbiglio, la gola era diventata roca in seguito al discioglimento della maschera.
"No, ma... è come se lo avessi fatto adesso"
Fu solo in quel frangente che lo studente notò, con viva costernazione, che loro due non erano soli. Il mantello dorato nascondeva l'ennesimo fantasma di quella dannata sera, e sebbene i suoi tratti fossero quasi identici a quelli di colui che aveva a poca distanza, il ragazzo ne individuò anche una tempra più inflessibile, più orgogliosa, più nobile. Le similitudini si fermavano alla mera apparenza.
"Yusaku, tu avevi bisogno di vedere con i tuoi occhi" disse lo sconosciuto.
"Atem!" esclamò Yugi, costernato "Cosa ci fai qui?"
"Ho finito prima" disse lui, con semplicità. Poi, notando lo sguardo sorpreso del giovane "Sì, anche io sono uno Spirito. Uno degli spiriti dei Natali Passati"
"Ne esistono altri?" fu la domanda sciocca di Yusaku.
"Certo, altrimenti moriremmo una seconda volta, visto tutto il lavoro che abbiamo da fare in questo giorno dell'anno"
E si sedette anche lui, a poca distanza da quello che sembrava il suo gemello.
"Dimmi Yusaku" iniziò "Secondo te perché era necessario?"
Dovresti dirmelo tu, sarebbe stata l'istintiva risposta del ragazzo, ma la tenne per se. Una parte di lui, non seppe ben dire quale, aveva visto in quella domanda uno spunto di riflessione che aveva sempre rifiutato di porsi.
Lui non aveva dimenticato. Era da sciocchi affermarlo, ed era stupido non tener conto delle numerose ripercussioni che aveva subito in quella infelice notte di Natale - e nelle seguenti che coprirono l'infausto arco di sei lunghi mesi.
Come Homura, come altri quattro bambini, lui quella notte non era tornato a casa, e aveva sofferto le pene dell'inferno per colpa di un gruppo di ricercatori che, costretti dall'etica medica a non servirsi di cavie umane convenzionali, avevano pensato di ricorrere a mezzi estremi per risultati che si erano infine rivelati ingloriosi.
"Io non sono mai tornato indietro da quel posto" ed era la prima volta che lo ammetteva.
Lui non andava avanti. Semplicemente sopravviveva, nemmeno lui sapeva per quale assurdo motivo.
"Il motivo per cui mi sono dedicato all'informatica era per cercare vendetta. Volevo fargliela pagare, alle persone che mi avevano fatto tutto... tutto quello" perché Yusaku non sapeva quale parola assegnare alla numerosa serie di torture subite "E quando ero ad un passo dall'ottenere il mio scopo... semplicemente non ho potuto fare nulla"
"Come mai?" chiese Yugi.
"Perché il direttore che aveva dato inizio al progetto era morto"
Non ci aveva creduto, all'inizio. Due anni passati a raccogliere informazioni, le sue prime esperienze di hacking devolute al suo unico obiettivo di vita. Tutto solo per leggere un triste certificato di morte.
"Si era suicidato, quel bastardo. Non era riuscito a sopravvivere ai sensi di colpa, e si era sparato un colpo alla testa"
Avrebbe voluto impugnarlo lui il revolver che lo aveva freddato. Avrebbe voluto esserci, dinanzi a lui, nei secondi in cui spirava. Avrebbe voluto vedere il suo volto contorto dalla disperazione, mentre rendeva conto a lui dei suoi peccati.
"Non aveva pagato per i suoi crimini" continuò il ragazzo, le mani strette nella serica stoffa delle lenzuola "I suoi avvocati lo avevano prosciolto da tutte le accuse, e avevano insabbiato tanto bene il caso che nemmeno la stampa ne seppe mai nulla. C'eravamo solo noi, con lo scheletro del nostro passato a infierire sul presente. E quell'uomo si è permesso di suicidarsi, come se la vittima fosse stata lui"
Incapace di star fermo, incapace di sopportare un letto che, lentamente, stava diventando una gabbia, Yusaku si alzò con scatti rabbiosi, i piedi nudi ad affondare nella pietra gelida del pavimento.
"E dopo, Yusaku? Dopo cosa hai fatto?"
Dopo?
Yusaku non aveva fatto nulla. Aveva preso il poco che gli era rimasto della sua vita e aveva iniziato a costruire una pantomima anonima e insipida, qualcosa che non gli concedesse di fermarsi a riflettere sul mostro che aveva alle spalle.
"Cosa avrei dovuto fare? Togliermi la vita pure io, forse?" gridò.
La rabbia esplose di nuovo, con l'urlo di puro odio a perdersi in una notte ormai consumata dai ricordi. Esplose la sveglia che il giorno dopo avrebbe dovuto risvegliarlo, caddero i numerosi libri su cui stava costruendo la sua tesi - il suo futuro.
Cadde anche la sua maschera, e ne vennero fuori i lineamenti di un uomo distrutto, di un uomo che non aveva più nulla e non sapeva nemmeno dove cercare un qualcosa di prezioso, un qualcosa per cui valesse la pena vivere.
"Yusaku, tu stai sbagliando"
A parlare era stato Yugi, alzatosi pure lui.
"Noi... Io ti ho fatto qualcosa di orribile. Ti ho costretto a rivivere qualcosa che ti ha distrutto, che ti ha cambiato... no, che non ti ha dato altra scelta se non cambiare"
"Yugi..." provò a fermarlo Atem, che non riteneva necessarie le scuse nei confronti di un qualcosa che loro non avevano fatto.
Ma il fantasma non lo lasciò continuare.
"Però c'è un motivo per cui lo abbiamo fatto" e, con un sospiro - che sembrava quasi un incoraggiamento nei confronti di se stesso, aggiunse "Sai perché tra vent'anni smetterai di sorridere?"
Yusaku non rispose. Non aveva alcuna idea di cosa dire.
"Perché adesso hai ancora la speranza del successo, a portarti avanti. Quando l'avrai ottenuta, non avrai più obiettivi da conseguire. Sai cosa è successo il giorno di Natale - il giorno dopo, a quell'uomo?"
Lo capì dallo sguardo affranto di Yugi, da quello mesto di Atem.
"Si è sparato con un colpo di revolver in testa"
I due annuirono.
La stessa fine dell'uomo che lo aveva ucciso a sei anni; nel futuro, Yusaku avrebbe conosciuto meglio l'ironia, a quanto sembrava.
"Quell'evento ti ha distrutto, Yusaku" sussurrò il piccolo "Ed è inutile che ti dica 'capisco' o 'posso capire'. Bisogna subirli sulla pelle, certi traumi, per comprendere davvero cosa hai passato"
Lo sguardo esterrefatto che gli rivolse lo studente era in ragione di un evento che, ai suoi occhi, aveva dello straordinario.
Qualcuno che non dava per scontate le sue sofferenze, che non cercava di comprenderle. Qualcuno che semplicemente le accettava.
"Vorrei poterti dire solo 'Va avanti, non ti fermare' o 'Non guardare indietro, ma solo al futuro'. Però sarebbe troppo poco"
"Yusaku, la vita è una sfida" aggiunse Atem, come desideroso di aiutare il suo gemello "E con te è stata maggiormente inclemente, gravandoti di un peso che una normale persona non può sopportare"
"Però sei vivo, amico mio" concluse Yugi. "Sei vivo, sei giovane, e sei anche un genio straordinario del computer"
"E non sei solo"
Una voce alle sue spalle, che Yusaku non mancò di riconoscere nei toni freddi di Yusei Fudo.
Il fantasma del Natale Futuro e del Natale Presente si erano messi alle sue spalle, il primo con la sua solita aria da duro, il secondo con un sorriso gaudente sul viso.
"Hai degli amici che non ti abbandoneranno, se gli permetterai di restare al tuo fianco" disse ancora il moro "Persone che capiranno meglio di noi, meglio di chiunque altro..."
"Meglio degli psicologi, direi" lo aiutò Judai.
"Sì, anche meglio degli psicologi... insomma, ti aiuteranno come nessuno potrà mai fare"
"Due persone le conosci già" aggiunse il castano "E un'altra te l'ho presentata io"
"Fino all'ultimo, Yusaku, ti abbiamo parlato di questa notte come di un sogno" disse Yugi.
"Ma non vederlo solo come una semplice parentesi onirica. Vedila come la giusta occasione per ripartire da zero" fu il commento di Atem.
Fu quest'ultimo ad avvicinarsi a lui, tra le mani un biglietto apparsogli alle mani all'improvviso. Consegnandoglielo senza dire una parola, sparì silenziosamente, seguitò a ruota dal piccolo Yugi.
L'ultima cosa che vide Yusaku fu la sua stanza diventare improvvisamente vuota.
Si risvegliò, e per istinto Yusaku seppe che quella sarebbe stata l'ultima volta.
Con un sorriso, si rese conto che tra le mani stringeva qualcosa. Qualcosa di sottile e fragile.

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Capitolo 5
*** 25 December - L'uomo che ricordò il Natale ***


25 DECEMBER – L’UOMO CHE RICORDO’ IL NATALE

 
Il letto che aveva nella casa dei suoi nonni era di una solidità che era seconda solo ai mattoni, tanto che non aveva mai capito come si potesse chiamare ortopedico un materasso che la schiena te la distruggeva, invece di correggerne la postura. Fu per questo che il primo segnale con cui dedusse di trovarsi altrove, non nella sua casa e non nella sua stanza, fu il sollievo di articolazioni che, almeno per quel giorno, non avevano poggiato rozzamente su una tavolozza che ne incrinava il sollievo del riposo - e a lui il buonumore.
Homura Takeru sorrise con gaudio, in quella sua mattina di Natale. Fu la prima cosa che fece, e quella che gli venne meglio.
Sulla sedia poco distante, il costume di Babbo Natale che aveva noleggiato copriva tutto lo schienale di legno semplice, mal celando le imbottiture che avevano svolto un ben magro lavoro, come lo specchio gli aveva suggerito. Tuttavia non se ne sarebbe lamentato, almeno non quando le risate dei suoi bambini ancora gli risuonavano nelle orecchie.
Takeru smise di sorridere. Perché quei bambini lui li adorava, ma tra di loro non c'era l'unico che avrebbe davvero voluto rendere felice.
Non lo avrebbe confessato a nessuno, tanto meno al diretto interessato, ma c'era stato un tempo in cui era diventato un tenebroso egoista. La presenza del ragazzo dagli occhi di giada era diventata più una denuncia, che un motivo di svago; incrociarlo anche solo per sbaglio significava tornare un po' più indietro, verso quei ricordi che lui si ostinava con tutto se stesso di dimenticare - o quanto meno fingere che non avessero avuto su di lui alcun effetto collaterale.
Non era uno sbaglio solo perché, a conti fatti, lui stava deliberatamente tagliando con una cesoia un legame che non poteva sopravvivere, a seguito di tanti No, ma soprattutto perché quelle forbici che stava maneggiando erano composte da ragazzi pronti a fare qualsiasi cosa per un attimo di autentica felicità. Anche barare col mondo, con se stessi e con le loro famiglie.
Erano stati loro a fargli conoscere l'ebbrezza della droga, i piaceri dell'alcool, la quiete di una sigaretta. Ne divenne ben presto dipendente, in una sfacciataggine che non rendeva conto nemmeno a quei due anziani coniugi che avevano accettato di prendersi cura di lui perché rappresentava tutto ciò che era rimasto del loro amatissimo figlio. Prendeva soldi di nascosto, li rubava quando ne aveva la disponibilità e li chiedeva in prestito quando il necessario bisogno di una nuova dose metteva da parte la sua dignità.
Non ricordava che bambino era stato, ma di sicuro stava diventando un pessimo adulto.
Tutto cambiò il giorno in cui Provvidenza, stanca dei suoi continui sbagli, decise di punirlo togliendoli tutto ciò che era rimasto della sua famiglia - i suoi nonni morirono in una fredda notte d'inizio inverno, uccisi probabilmente da quello che doveva essere un suo amico di vecchia data, incoraggiato dal suo odio a commettere un crimine capitale.
Fu quello l'inizio del cambiamento di Homura Takeru: poteva scivolare ancora più in basso, diventare un essere umano esecrabile e scaricare ogni sua responsabilità sull'incidente perduto, convinto che con tutto quello che aveva sofferto non aveva alcuna possibilità di avere una vita normale.
E invece aveva scelto la via più ardua, la più complessa: combattere contro i suoi demoni, quelli vecchi e quelli nuovi, e tornare ad essere un Takeru di cui i suoi nonni sarebbero stati fieri.
"Takeru, sei pronto?" disse una voce femminile, bussando leggermente.
Aoi Zaizen era fin troppo timida e fin troppo pudica per entrare nella stanza di un ragazzo, anche a condizione di averne ricevuto il permesso o l'invito, ma aveva abbastanza solerzia da incoraggiarlo a venire con lei a colazione. Con suo fratello maggiore, con tutti i bambini dell'istituto, gli insegnanti e i vari inservienti.
"Non ancora" rispose con onestà il ragazzo, che in effetti non si era nemmeno mosso dal suo comodo letto "Dammi cinque minuti e scendo"
 
Akira lo accolse con quei suoi rari sorrisi di gentilezza, quando egli varcò il grande arco che lo introduceva alla Sala Grande, come lui l'aveva rinominata quando aveva intravisto i grandi tavoli ospitanti un gran numero di vivande invitanti. Nel suo completo impeccabile, identico ai precedenti e nemmeno leggermente dissonante nonostante il natale avesse le sue esigenze, gli venne incontro con la mano protesa in segno di saluto.
"Sono riuscito a sfuggire ai bambini che vogliono mettermi una barba finta - la tua barba finta, quella che hai dimenticato sulla sedia ieri sera"
"Aia" ammise l'altro, colpevole "Confesso che non ne potevo più, mi stava prudendo la faccia. In effetti non ricordavo dove l'avevo messa"
"Adesso saprai che è nelle mani sbagliate, allora"
E risero entrambi, contenti di vedere la fantasia dei bambini sbizzarrirsi sugli adulti.
"Buon Natale, Akira" disse il giovane, con un sorriso.
"Buon Natale anche a te" fu la risposta che ne ricevette.
E poi vennero i bambini - e la povera Aoi con il viso barbuto, a invocare lo stesso augurio e a riceverlo in abbracci che comunicavano affetto, amore e vicinanza.
 
Stavano per apprestarsi al tavolo, lo stomaco che esigeva il dovuto compenso a tanta felicità, quando all'improvviso venne ad avvicinarsi un uomo. Takeru lo riconobbe come il portinaio della struttura, un certo Kitamura che, in quanto a bellezza, lasciava decisamente a desiderare.
"Scusi il disturbo, ma... ecco, è arrivato un visitatore" fu il suo messaggio, le mani strette tra di loro, il volto leggermente impensierito. La voce era stata flebile, e per tanto solo Akira, lui e Aoi avevano avuto la fortuna di sentirlo.
"Mandalo via, allora. Oggi è natale, avrò il diritto di godermelo senza lavorare" fu la risposta brusca del direttore - forse temendo che fosse qualche fornitore zelante venuto a riscuotere chissà quale debito.
"Ma non è... insomma, è venuto qui per venire a trovare i bambini" disse allora questi, con voce leggermente preoccupata. Kitamura, ricordava Homura, aveva lo sgradevole vizio di non saper gestire le situazioni, nemmeno quelle semplici. Era bravo solo ad obbedire.
"Ti ha detto almeno chi è, scusa?"
"Ah, si!" esclamò quello, che evidentemente se ne stava dimenticando "Il suo nome è Yusaku Fujiki"
 
Yusaku sentiva la mancanza di un sonno ristoratore - gli mancava il suo letto, le lenzuola che lo tenevano al caldo, il silenzio della sua stanza, la consapevolezza che bastasse aprire una finestra per non essere più totalmente rinchiusi in un angolo di mondo che poteva diventare la sua tomba.
Aveva dovuto fare violenza psicologica su se stesso per trascinarsi su un aereo dall'aria traballante, con piccoli oblò e ancor più piccoli scomparti, piccole sedie e piccoli tavolini, per servire piccoli pranzi che lo stomaco dei dissidenti, dunque il suo, mai avrebbero digerito ad una quota di altezza tanto alta.
Un minuscolo stanzino, dunque, senza via d'uscita, dove la sua claustofobia si era divertito a punzecchiarlo per tutto il tempo, e dove perfino il sonnifero si era dovuto arrendere, divenendo un blando sedativo per placare le sue furenti crisi di panico.
Quando, al suo ultimo risveglio, si era ritrovato tra le mani un biglietto di sola andata per Den City, Yusaku aveva riso - forse la prima risata autentica dallo scadere di quei tristi quindici anni. L'aveva trovato una bizzarria oltremodo strana, o comunque una prova eccessivamente tangibile per dei fantasmi che non avevano alcun volume storico o teorico per testimoniare la loro esistenza.
Forse per la prima volta nella sua vita, però, l'haker non si era fatto domande. Aveva deciso di prendere ciò che la vita gli offriva e di godersene i piaceri positivi. D'altronde, per anni aveva cercato spiegazioni ad ogni millesimo dettaglio della sua vita, e il risultato era stato un'inutile spreco di meningi e il preannunciarsi di sgradite rughe che gli avrebbero, di là con gli anni, rovinato il suo angustiato viso.
Quello che importava, dunque, era avere una destinazione, e per giunta una possibilità di arrivarvi per tempo. Non era ancora Natale, non erano ancora passati quei venti orribili anni.
E lui non aveva ancora perso la speranza.
Ma sarebbe stato un bugiardo se avesse nascosto l'ansia che gli divorava il petto quando era sceso dal trabiccolo volante, i dubbi passati che affioravano nel presente mentre percorreva vie note ma mutate nel tempo, verso quella che un tempo chiamava casa.
Accettare era facile, un po' meno lo era il perdonare. L'istituto che lo aveva fatto sentire in colpa per essere nato, la città che non gli aveva mai restituito i suoi genitori, Takeru che lo aveva abbandonato a se stesso.
Per un attimo, aveva perfino preso in considerazione l'idea di andarsene, o magari quella di farsi un altro biglietto per raggiungere Yuma ad Heartland, o altrimenti Yuya dai suoi genitori. Sarebbe stato comunque un bellissimo natale, e lui si sarebbe divertito - avrebbe accantonato per un attimo la sua misera esistenza.
Ma poi se ne era reso conto.
Stava nuovamente meditando su come scappare.
E lui non voleva farlo, non voleva dar credito a quella voce che lo faceva agire come un vigliacco.
D'altronde, sebbene non fosse atteso, non era stato lo stesso Takeru a chiedere di lui?
Se perdonare non era facile, se accantonare il passato era difficile, allora perché, semplicemente, non limitarsi a costruire dei nuovi ricordi, magari felici, nel futuro?
Perché non ricoprire il futuro di nuove promesse?
 
La risposta positiva lui la pervenne in un abbraccio. Quello in cui Takeru lo accolse, quello in cui vi si perse e quello che sapeva di lacrime ma anche di sorrisi.
"Ti chiedo scusa" stava per dire Takeru, e Yusaku lo intuì.
Ma lo prevenne.
"Buon Natale" disse, e si rese conto che quella era la prima volta, in ben quindici anni, che regalava un simile augurio.
"Bu-Buon Natale" rispose Takeru, singhiozzando "Non... non lo so perché tu sia qui, ma sappi che... che ne sono felice, e che mi dispiace per..."
"Non parliamone adesso" lo interruppe ancora Yusaku, con un sorriso.
Un sorriso che diceva "Sì, io voglio perdonare. Io ti voglio perdonare"
 
Takeru, che aveva smesso di credere in Dio già da molto tempo, si ritrovò a ringraziarlo inconsapevolmente.
"Sappi che sono così felice di averti qui, oggi!" e, tirandoselo dietro, aggiunse "Vieni, voglio presentarti qualcuno"
Dietro di lui, Akira e Aoi in primis, e i bambini dietro di loro, con un sorriso attendevano di accoglierlo nella loro alcova d'amore.

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